Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata 8857529568, 9788857529561

Il cinema politico ha segnato una stagione fondamentale della nostra cinematografia. Elio Petri si differenzia da tutti

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Italian Pages 228 [212] Year 2015

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Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata
 8857529568, 9788857529561

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Cl IE M/

ALFREDO ROSS ELIO PETRI E IL CINEMA POLITICO ITALIANO

LA PIAZZA CARNEVALIZZATA

CONTIENE LETTERE E SCRITTI DI ELIO PETRI INTERVENTI DI GOFFREDO FOFI, FRANCO FERRINI E ORESTE DE FORNARI

IMESIS/CINEMA

L’Editore ha cercato di reperire tutte le fonti delle illustrazioni ed è comunque a disposizione di eventuali aventi diritto nell’ambito delle leggi intemazionali.

MIMESIS EDIZIONI (Milano - Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Cinema n. 31 Isbn: 9788857529561

© 2015 - MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: -1-39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

INDICE

Ringraziamenti

7

Il tempo

9

di un ritorno, situazione 2015

ELIO PETRI E IL CINEMA POLITICO ITALIANO

Petri,

situazione 1979

31

Scene del politico Settore privato La piazza carnevalizzata

37

Le apocalissi laiche Del soggetto infine

119

61

99

in questione,

IL PRIVATO COME POLITICO

141

Chi illumina la grande notte

161

Prima di morire Conclusione

173

175

LETTERE E SCRITTI Lettere Ex di Elio Petri

179 199

RICORDI E TESTIMONIANZE

Su Elio Petri, di Goffredo Fofi

un ricordo

Sul mio lavoro di Franco Ferrini

con

Elio

205

209

Genova 1981 di Oreste De Fomari

213

Filmografia

215

Bibliografia

221

RINGRAZIAMENTI

Si ringrazia Paola Pegoraro Petri per l’amicizia di sempre, la di­ sponibilità e l’aiuto offertomi in occasione del presente volume. Si ringraziano altresì Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste De Fornari per aver aderito alla mia richiesta di ricordare Elio Petri. Infine Clau­ dio Bisoni cui devo la conoscenza della frase di Lacan che pongo in esergo al libro.

IL TEMPO DI UN RITORNO, SITUAZIONE 2015

Una visione tardiva di un film, straniante rispetto ai miei sche­ mi critici, portatrice di coinvolgimenti non razionali, imprevedibili, seguita dalla successiva scommessa di uno sciocco. Ecco l’origine di tutto. Non ricordo più se fossi stato io a proporre a Fernaldo Di Giammatteo, ideatore e curatore della collana Castoro Cinema della Nuo­ va Italia, un “Petri”o il nome del regista facesse parte delle liste dei soggetti ancora non assegnati della collana. 11 fatto era che dopo aver visto La proprietà non è più un furto, almeno un anno dopo la sua uscita, mi ritrovavo in una situazione critica inattesa nei confronti di un autore serenamente espulso dal cerchio magico della mia idea di cinema. Quel film, invece, mi aveva intrigato: si era nel 1976 o ‘77. Di Petri, uomo di cinema, sceneggiatore, critico, polemista, negli anni 1956-1958, su Città Aperta, rivista culturale vicina al PCI, sapevo, in realtà, molto poco. Avevo addirittura visto pochi suoi film. Elio, contattato da Di Giammatteo, molto cortesemente mi invitò nel suo appartamento per un colloquio. L’attico del palazzo umberti­ no vedeva tutta Roma e quasi toccava il Tevere e Castel S. Angelo. Era arredato con fascino, con presenza di grandi tele di autori contempo­ ranei, di cui era ammiratore e collezionista, di gadget e sculture pop. C’era, poi, il piccolo studio con la scrivania ostruita da pile di carte e pubblicazioni e le pareti interamente rifasciate di libri. L’ambiente, tuttavia, era reso irrituale e un po' beffardo dalla presenza di una in­ dimenticabile sedia semovente da sceriffo di fronte allo scrittoio. Mi trovavo, evidentemente, nella casa di un uomo assolutamente non comune, dal gusto sicuro, raffinato e colto e con una certa incli­ nazione, così coglievo, all’esibizione di natura chiaramente dandy. Da dandy era la sua sedia da sceriffo, da dandy erano i morbidi ca­ chemire della sua giacca blu e della sciarpa rossa, la sua camicia bleu parigino, il suo borsalino grigio chiaro, americano, le stravaganti

IO

Elio Petri e il cinema politico italiano

sigarettine,o sigarini, molto corte e affusolate di foglia chiara, tipo indiano, che si faceva mandare dalla Francia (non i papier faune nouvelle vague). Da dandy era la carta gialla su cui scriveva testi e lettere. Ancora e soprattutto, da dandy era il suo modo fìsico di porsi, il suo atteggiarsi fermo e sfidante, il suo scrutarti negli occhi, il suo pe­ sarti, il suo contrapporsi diretto, il suo esser dedito, forse per natura, forse per lezione di vita, alla temerarietà degli atti e delle idee. Un at­ teggiamento che aveva, in qualche modo, un suo versante guascone, contrassegnato dall’onestà degli intenti e dallo sprezzo del pericolo. Di un dandy erano, infine, i gusti artistici e letterari. In definitiva, lo capii e lo apprezzai nel procedere del nostro rap­ porto, Elio aveva, o nel tempo si era costruito e fortificato, il gusto della pratica radicale, superba, di un dandismo in senso intellettua­ le, ovvero vissuto come solitudine orgogliosa nella vita, nel cinema e nella politica. Una solitudine che portava anche in sé, fortissimi, i segni di una moralità laica, in una prospettiva alta delle idee e dei comportamenti, questa stessa acuita, forse, negli ultimi anni da una effettiva solitudine interpersonale determinata da un clima pesan­ te di vuoto attorno, di incomprensione del suo lavoro da parte dei “compagni di strada”, degli “amici”. Scrive nel 1982, anno della morte, a Mino Aigentieri che, equivo­ cando, volutamente o meno, quanto da lui affermato in un’intervi­ sta, lo accusa di lamentarsi, di risentirsi, per valutazioni non lauda­ tive di amici e critici sulle sue ultime opere:

...vedi io non escludo affatto che alcune brucianti frustate o altre som­ marie punizioni, anche qualche azzoppatura, impartitemi ora con sorri­ dente frivolità, ora con saccente accademismo, ora con l’irresponsabilità tipica del terrorismo critico, possano, in me, aver lasciato il segno. Ma ti domando perché non avrebbero dovuto farlo... Il mio risentimento, se proprio cosi lo vuoi chiamare, non riguarda qualche infruttuosa spigo­ latura di lodi. Potrei dire che è fondamentalmente rivolto a me stesso... Non posso però fare a meno di rivolgerlo anche verso quelle persone, e quelle forze politiche che, in passato, avevano dimostrato profondo interesse per il cinema. Alla luce dei fatti di adesso l’interesse e la soli­ darietà d'allora mi appaiono strumentali e propagandistici...1

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E. Petri, Scritti di cinema e di vita, Bulzoni Editore, Roma 2007, pp. 112-113.

Il tempo di un ritorno, situazione 2015

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Siamo agli inizi degli anni ‘80, i più contrastati di Elio. Viveva al­ lora un momento sentimentalmente e professionalmente difficile. Si era ritirato a vivere solo, tra la sua casa di Fregene e quella del­ la madre. Aveva appena finito di dirigere, a Genova, il dramma di Arthur Miller l’Orologio americano e stava lavorando, con Franco Ferrini, alla sceneggiatura, mai ultimata, del film Chi illumina la grande notte. Il suo ultimo Buone Notizie non è apprezzato e pur essendo specchio dell’Elio di allora, pieno di un’amarezza cupa e sar­ donica, risente della presenza di Giancarlo Giannini, coproduttore, che, a mio avviso, pesantemente lo condiziona con la sua recitazione schematica e dura. La sceneggiatura era bellissima. Gianni Amelio che nel ‘78 incontra Elio a casa della madre, accompagnato da Paolo Valmarana, dirigente Rai che gli commissionò Mani Sporche così lo ricorda, in modo scioccante:

Notai che Valmarana ce la metteva tutta per sollevare l’umore plum­ beo che regnava in quel piccolo soggiorno, dove Petri sembrava una spe­ cie di recluso. Mi ricordo che la parola cinema non fu pronunciata nem­ meno una volta e la cosa francamente mi stupì. Quando ce ne andammo ero deluso ed incredulo: Elio Petri non me lo ero immaginato così. Ma da quella prima volta l’immagine di Petri fu per parecchio tempo quel­ la di un intellettuale che portava su di sé, come una croce obbligata, tutti i mali del mondo: un uomo che rifiutava la serenità come se fosse una colpa, inquieto e amaro. Questa immagine non si è cancellata negli anni, neanche negli incontri sempre più frequenti e inaspettatamente affettuosi che seguirono.1 Non sono anni felici dunque. Ne sono testimonianza i due raccontini notturni, quasi di saluto, che scrive nei primi mesi del 1982, quando già la malattia, immediatamente invasiva e rapida, stava per chiudere il conto, argomentando con ironia attorno al suo sé d’allora, Breve incontro ed Ex, pubblicati su «Nuovi Argomenti». E dal letto della clinica, in cui morirà pochi mesi dopo, registra, su un por­ tatile Grundig, cassette da inviarsi, quali “lettere orali” al caro amico di sempre, il regista Peppe de Sanctis, in cui confessa: io mi trovo, io mi sono ficcato, come si può dire, in una specie di vicolaccio scuro, forse cieco. Vivo un periodacelo di vita slabbrata, sento2

2

L’ultima Trovata, Pendragon, Bologna 2012, p. 177.

u

Elio Petri e il cinema politico italiano

pesare su di me il negativo della mia vita, me ne sono andato di casa, ho proprio lasciato, ho cercato di lasciare tutto dietro di me e tra l’altro sento che non ci riesco... questo strano periodo, oscuro periodo in cui non sento più l'amore per il cinema, non mi trovo più in nulla di tutto quello che mi circonda...3 Questo era l’Elio che ho conosciuto in quegli ultimi anni, che ho compreso con lentezza ma poi fortemente amato: un intellettuale solitario e incupito per l'involuzione della vicenda politico sociale italiana (oltreché del cinema e dei suoi vari giullari, critici compre­ si), sempre più propenso al pensare ed al rappresentarsi un reale grottesco e apocalittico, specchio di un visione “infernale" della sce­ na del politico e del sociale. In quel periodo già aveva raggiunto il più alto livello artistico di rappresentazione del reale: due film in assoluto sopra tutti, Todo modo (1976) e La proprietà non è più un furto (1973), due viaggi celiniani nel bateau ivre della follia del poli­ tico e del sociale. Avrei dovuto, dunque, sapere tante più cose di Elio quando sedetti per la prima volta davanti a lui, ma allora ero solo un giovane pro­ vinciale incauto e ignorante che gli si avvicinava con la presunzione dello sciocco e vedremo perché. Il primo incontro fu segnato dalla sua giusta diffidenza: cercava di capire come mai proprio ad un giovanotto sens gène, goffo e con­ trassegnato, per di più, da connivenze con «Cinema&Film», rivista nemica, che, senza infingimenti, lo aveva abolito dal suo scenario critico (forse il “terrorismo critico” di cui parla nella lettera ad Ar­ gentieri?), potesse essere venuta l’idea inusitata di scrivere su di lui. Io non gli facilitavo il compito di fidarsi di me. Mi sottopose ad un piccolo esame: si assentò una mezz’ora e mi lascio in mano un suo scritto in cui si elaborava La colonia penale di Kafka, con la richiesta di appuntare quel che ne pensavo. Non riuscii a scrivere nulla ovvia­ mente ma soprattutto inanellavo banalità imbarazzanti in risposta alla sua fondamentale richiesta: quale mai ragione c’era, e avevo io, per dire del suo cinema, un cinema in quella fine di anni settanta respinto da tutti? Non sapevo rispondere, né sapevo come rassicu­ rarlo sulla mia persona e le mie prospettive critiche, sulla mia onestà (il che fu basilare per il nostro rapporto). Il fatto era che non avevo,

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“Ultimi messaggi”, Scritti di cinema e di vita, op. cit., p. 213.

Il tempo di un ritorno, situazione 2015

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allora, un’idea chiara comunicabile, un progetto di percorso che ga­ rantisse ai suoi occhi una simile scelta, di cui mi chiedeva in qualche modo ragione (anche nella sua prima lettera, del Luglio 1977). Mi muoveva solo un vago innamoramento per un film visto senza inten­ zionalità. Allora, non conoscevo neppure Todo modo. Ero all’inizio dell’avventura, appunto, mosso, e me ne vergognai prestissimo, dal desiderio infantile di gestire una scommessa con me stesso, forse con gli amici, dalla tentazione di aprire un caso-Petri, annettere Elio nel reseau della nouvelle critique cinematografica, magari con effetti di prestidigitazione. Rivoltare le carte sul tavo­ lo, strabiliare. La scommessa di un giovane provinciale. Si svolge­ va allora uno scontro ideologico duro tra una supposta avanguardia intellettuale e politica, di cui mi figuravo di essere parte, e i suppo­ sti rappresentanti di un cinema (e non solo) del Sistema. Di questo conflitto, per l’ambito critico, si parla diffusamente nel mio saggio introduttivo al volume Barricate di carta4, cui rinvio. Lo scontro è stato tale da aver precluso un rapporto fecondo sotto tutti gli aspetti con il miglior cinema italiano d’allora. Sono certo che Elio, che mai ha avuto paura di situarsi e scontrarsi, non si sarebbe ritratto dal confrontarsi. Goffredo Fofi ricorda, nel presente volume, la lettera in cui Elio riconosce nel conflitto delle idee il ruolo di una critica “pura e dura”, di cui, come altri, ma lui sopra tutti, fu vittima da sinistra. Sono certo che Elio, che mi ha trattato con amicizia, facendomi anche partecipe di taluni suoi pensieri, aveva ben compreso la mia vaghezza, le mie debolezze, soprattutto culturali (vedi, a seguire, le sue idee sulla critica) e perdonasse paternamente la mia presunzio­ ne nel voler irrompere e gestire il suo universo fantasmatico. Proprio lui che ne aveva l’assoluta padronanza. La domanda “perché scrivere un libro su di lui” forse sottintendeva che questo era stato scritto, in testi ed interviste, già da lui stesso. E meglio. Ma perché questo ripercorrere oggi un mio tragitto personale e riproporre all’attenzione, pur aggiornato, un lavoro di molti anni fa? Certamente perché lo ritengo ancora assolutamente valido in termini critici e non saprei riscriverlo oggi con la stessa passione, la stessa forza e starei per dire, la stessa follia. Era effetto, prodot­ to, di una stagione critica che ha coinvolto molti, in tante parti

4

“Per un’etica della critica", in Barricate di carta, Mimesis, MilanoUdine 2013.

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del mondo e che considero insuperata sotto tutti i punti di vista ma soprattutto perduta, ed è quella che nella prefazione al libro antologico sulle riviste «Cinema&Film» e «Ombre Rosse», Barri­ cate di Carta, ho cercato di raccontare definendola come “etica” Come dall'altro versante erano etiche alcune rarissime pratiche cinematografiche, tra cui quella di Petri, al di là delle reciproche incomprensioni. Certamente perché la linea editoriale della collana, con numero di pagine ristretto e schema prefissato, non prevedeva che si per­ sonalizzasse troppo il testo (lo stesso fu, da Di Giammatteo, uomo peraltro generosissimo con me e con una generazione di ragazzi che si affacciavano alla critica, senza avvertirmi, tagliato in bozze, con mio furore, delle prime ventiquattro righe iniziali che funzionavano quale esergo al volume e che qui ripropongo) e mi sento, quindi, in debito con le tante cose che avrei voluto e non ho potuto scrivere e che condenso in questa breve introduzione. Certamente perché c'è da rendere conto del lavoro di Elio negli ultimi tre anni di vita, dal ‘79 all’82, e soprattutto della sceneggiatura di un film mancato Chi illumina la grande notte, nonché dei suoi ul­ timi pensieri e scritti. In questo senso il libro conterrà, oltre alle let­ tere inedite a me indirizzate, con critiche, suggerimenti e riflessioni sul testo, il cinema, la politica e la vita, l’illuminante breve racconto Ex. Conterrà inoltre il ricordo di Fofi, quello di Ferrini, sceneggiatore dell'ultimo trattamento, e di Oreste De Fornati, che per Rai 3 realiz­ zò con lui una intervista dedicata alla sua regia teatrale, relativo alla notte della prima. Certamente perché la morte di Elio, due anni dopo l’uscita del libro, mi scosse talmente che la sua perdita, che introiettai, mi creò un così forte disagio intellettuale da allontanarmi di colpo, per molti anni, da una possibile gestione, da replicante, della mia funzione di “critico”. Petri, l’amico, l’intellettuale, con il suo pessimismo e la sua rettitudine artistica, era penetrato in me in modo molto più forte di quanto potessi valutare e mi figurai di scoprire nella sua opera tali consonanze od idiosincrasie sull’ordine della vita che il mio libro su di lui diventò, sotto mentite spoglie, un’autoanalisi delle mie con­ vinzioni sul mondo (il che è, a mio avviso, un bene in quanto questo transfert deve sempre accadere affinché la scrittura non banalizzata liberi qualcosa che abbia a che fare con la verità). La sua passione per il lavoro faceva si che ogni sua opera si configurasse come “dono”, ov-

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viamente in senso batailliano e anch’io mi rappresentai che un libro non potesse trovare senso se non quale fatto amoroso, alla Barthes, mosso da un forte movente di etica di ruolo. Ed ecco che di questo sento di dover darne atto oggi a liberazione da me stesso del mio libro o di me stesso da quest’ultimo. Certamente, infine, perché credo che la Petri-renaissance, cui oggi con gioia assistiamo, eluda o sottostimi quel lavoro sulla scrit­ tura cinematografica che considero, oggi come ieri, il segno della sua genialità. Il libro non era tarato a significare quanto Elio fosse un bravo o grande regista, cosa banale, come oggi si riconosce. Era in­ vece tendenziosamente e settariamente mirato a far emergere quan­ to la scrittura dell’ultimo Petri fosse ambiziosamente e genialmente eccentrica rispetto al cinema politico italiano, nonché al suo cinema stesso, destinato com’era all’esplorazione di ogni cinema possibile e quanto questa pratica costituisse, di fatto, una scommessa ideo­ logica ed estetica. L’ultima fase di Elio non ha pari, in Italia, se non nell’ultimissimo Pasolini, in qualche film di Ferreri, e su tutt’altro piano, in Carmelo Bene: è un cinema di concezione stilisticamente differente nell’elaborazione del pensiero e nella scrittura. E quest’i­ dea non passa ancora totalmente, nonostante tutto, o diventa una clausola di stile (chapeau al regista impegnato di Todo modo e anti­ cipatore di un discorso critico sul ruolo dei media in Buone notizie), piena di sottintesi distinguo, perché il suo cinema politico era anda­ to troppo avanti nel concepire cinema. La sua solitudine d’allora non fu perciò casuale, come non casuali sono gli equivoci riconoscimenti di oggi tendenti a assumerlo come regista di “culto”, ovvero annul­ larlo nel feticismo cinematografico oggi dominante in cui tutte le vacche sono luminescenti. L’uno e gli altri approcci sono consequen­ ziali alla sua pratica di scrittura, al suo cinema “impossibile”, non civile o politico ma “del Politico”, intendendosi con Politico il luogo immaginario della relazione che il soggetto instaura con la realtà po­ litica, quel luogo della vicinanza e della distanza psicotica che chia­ mo scena carnevalesca. Abbiamo parlato di riconoscimento oggi diffuso della qualità del cinema di Elio. Se oggi le cose sono cambiate profondamente questo lo si deve soprattutto alla volontà tenace, appassionata ed instan­ cabile di Paola Pegoraro, sua moglie, nel tentare di riportare il suo lavoro sul proscenio critico, sia in Italia che in Europa e negli Stati Uniti, curando libri, film e riedizioni in dvd.

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Elio Petri e il cinema politico italiano

Tra il 1976 ed il 1979 Jean Gili, grande amico di Elio, che tanti scrit­ ti ha dedicato al cinema italiano, ed io, in Francia ed in Italia, fummo gli unici che lavorarono in modo ampio, seppur assai diverso, sul cinema di Petri. Gili nel 1974 curò l’imprescindibile volume di saggi Elio Petri. In quegli anni, come vedremo, pesavano le dure posizioni critico ideologiche delle avanguardie politiche e estetico politiche: da una parte Goffredo Fofi, con «Quaderni Piacentini», «Ombre Rosse», lo splendido pamphlet, di terribilità biblica, Il cinema italia­ no, servi e padroni e Capire il Cinema (Feltrinelli 1971 e 1977), dall’al­ tra i «Cahiers du Cinéma» e l’appena nata «Cinema&Film», di cui si ricorda la durissima stroncatura di A ciascuno il suo. Nel 1981 e ‘84 Goffedo Fofi e Franca Faldini pubblicano L'avven­ turosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 2960-1969 (Feltrinelli Editore) e Cinema italiano d’oggi raccontato dai suoi protagonisti 1970-1984 (Mondadori Editore) con pagine de­ dicate a Petri. Nel 1983, la Mostra di Venezia gli dedica una retrospettiva e pub­ blica un volume molto bello, curato da Ugo Pirro, che contiene an­ che l’ultima stesura della sceneggiatura di Chi illumina la grande notte, di cui ci occuperemo lungamente. Jean Gili, nel 1996, cura il volume collettivo Elio Petri & le cinema italien, per i Rencontre du cinema italien d’Annecy. Nel 2001 Ugo Pirro pubblica II cinema della nostra vita, Lindau Editore, miniera di riflessioni e aneddoti sul lavoro con Elio. Paola, quale produttrice, con grande sforzo finanziario, permet­ te la realizzazione del film-documento di 84’, Elio Petri, appunti su un autore, di tre giovani cineasti, Federico Sacci, Nicola Guarneri, Stefano Leone. Il dvd distribuito nel 2006 dalla Rea! Film-Feltrinelli contiene in allegato un volumetto dedicato ai trattamenti mai rea­ lizzate di Ninni, Autobus e Andamento stagionale, scritto quest’ulti­ mo un mese prima di morire. Il film non solo è accuratissimo sul piano storico e critico, grazie ad inserti di documentari relativi alle vicende politico sindacali de­ gli anni settanta, a brani di interviste di Elio, importanti interventi di amici registi, Bertolucci, Montaldo, Pontecorvo, Maselli, Altman, attori, sceneggiatori, scenografi, musicisti e produttori (tutti i pochi sopravvissuti, purtroppo) ma, cosa ancor più notevole, è umanamen­ te accorato. Paola ha infatti concesso, forzando Io scrigno dei ricordi, che nel film comparissero “8mm” privati, girati in casa, con lei stessa,

Il tempo di un ritorno, situazione 2015

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i genitori di Elio, con Snoopy, il cocker amatissimo e con gli amici. Sono pellicole amatoriali ma toccanti per chi ha conosciuto Elio. Questo film mi ha fatto, peraltro, capire quanto più potenti di uno scritto siano per la diffusione della conoscenza di un autore le im­ magini di un “critofìlm”, purché sostenuto dalla stessa passione che muoveva me che agivo esclusivamente sul piano catacombale della scrittura. Mi spiego. Elio, in una lettera, mi rivolge l’invito (o piutto­ sto la critica), a situare meglio il suo cinema, riferendolo più espli­ citamente alla dialettica realtà-politica in cui nasce e vuole situarsi, rivendicando così nei miei confronti, una sua pratica di cineasta ten­ denzialmente rivolta ad un’azione di risposta e reazione diretta in ordine a fatti e conflitti del sociale. Ebbene, dove io non sono riusci­ to ad arrivare, o me ne sono ritratto, il film vi arriva con le immagini di repertorio che riportano con forza i volti, le voci della politica e i conflitti di quegli anni e rendono così un miglior servizio a quell’i­ stanza primaria nel cinema di Petri di essere sul reale. Un legame questo che ho inteso gestire più dal punto di vista dell’emergenza sintomatica nell’enunciato del testo che quale progetto del voler dire d’autore. In questo senso non so quanto Elio condividesse davvero la mia lettura del suo lavoro. Ancor prima, nel 2004, Paola ripubblica, con Sellerio, Roma ore 11 il libro inchiesta del ’56 di Elio sul crollo di una scala di una palaz­ zina romana che travolse, ferendo e uccidendo, ottanta ragazze che vi si stipavano per un colloquio di lavoro come segretarie. Il testo fu messo in scena, nel 2007, con successo dalla Compagnia Mitipretese, formata da quattro bravissime attrici-registe. Si è poi aggiunto il volume prezioso, per testi e fotografìe, curato dal Museo del Cinema di Torino in occasione della nuova, grande retrospettiva dei film e della mostra di foto, per lo più di scena, che si è tenuta nel mese di settembre del 2007, a venticinque anni dalla morte. Ma direi che è fondamentale l’uscita, nello stesso periodo, grazie sempre a Paola, nella collana diretta da Orio Caldiron, per Bulzoni, del volume Scritti di cinema di vita, curato da Jean Gili, che raccoglie gran parte dei testi di Elio e delle sue interviste. Non tutti, per la veri­ tà, sono presenti, mancano soprattutto i due racconti Breve incontro e Ex, nonché una lunga intervista contenuta nel volume secondo di Parla il cinema italiano, ed. Il Formichiere, 1980, curato da Aldo Tas­ sane. È comunque una formidabile, feconda e fondamentale raccol­

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ta di testi, articoli, interviste, scritti diversi, che vanno dalla seconda metà degli anni cinquanta fino alle ultime commoventi ed illumi­ nanti “lettere orali” indirizzate all'amico della vita Peppe De Santis, così dette perché registrate al magnetofono, data l’impossibilità fì­ sica di scrivere, dal letto di ospedale pochi giorni prima della morte. Uno scenario che ci rinvia alla “passione” finale del regista Nicholas Ray, in preda al cancro, che, in Nick's Movie di Wim Wenders, negli ultimi metri di pellicola e di vita, si fa filmare sotto la tenda ad os­ sigeno. Chissà se Elio ha avuto per la testa la stessa frase terminale pronunciata da Nick per chiudere la propria rappresentazione: Cut!. La natura ironicamente felice di Elio si rivela invece in scritti minori come le spiritose ma acute recensioni di film (Apocalipse New, Ogro, La terrazza, La città delle donne, Kramer contro Kramer, Don Gio­ vanni di Losey,), a partire (o finire) da riflessioni in chiave culinaria, apparsi, nel 1980, sulla rivista Nuova Cucina diretta da Ugo Tognazzi. La rubrica si chiamava Cinefagia e poi Cinema nel piatto. E, ancora, gli interventi di critica d’arte, del '79 su Picasso e dell’82 su Bonichi. Quindi il lungo saggio su Mani sporche e Sartre contenuto nel quader­ no Rai di presentazione del film. Un grande libro, insomma, edito, nel 2013, anche in un’edizione in lingua inglese, elegantissima dal punto di vista grafico, presso la Contra Mundum Press, New York. Infine i recentissimi contributi italiani. Nel 2011 il libro molto acuto di Claudio Bisoni (cui devo la citazione da Lacan in esergo), Lindau Editore, Elio Petti. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, dedicato ad una attenta analisi del film. Nel 2012, per Pendragon, a cura di Diego Mondella esce un altro libro importan­ te, L’ultima trovata. Trentanni di cinema senza Elio Petri, che racco­ glie nuovi testi di critici e scrittori, oltreché interviste a registi ita­ liani nonché la toccante intervista sull’infanzia e giovinezza di Elio E tu chi eri? resa a Dacia Marami (già edita da Bompiani Editore, nel 1973). In fine va citato il libro La dirompente illusione. Il Cinema italiano e il sessantotto, 1965-1980, di Alberto Tovaglieri, Rubettino Editore, uscito nell’ottobre del 2014) che contiene lunghi saggi su Indagine e La classe operaia, molto attenti sul piano critico e docu­ mentati su quello storico e sociologico. In tutto questo scenario non può essere dimenticato il lavoro en­ comiabile di restauro che la Cineteca di Bologna sta operando sui film di Petri. Ultimo tra questi, Todo modo, è stato presentato alla Mostra di Venezia nel 2014.

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Tutto ciò per dire quanto materiale importante e in parte nuovo è oggi disponibile per situare il cinema di Elio e lui stesso. Dunque finalmente si rimuovono, in qualche modo, parzialmente e con le riserve e le incomprensioni che pur rimangono sugli ultimi film, gli accecamenti con cui i critici guardano all’opera di uno fra i pochis­ simi registi innovatori della nostra cinematografia. Ma aggiungerei della nostra storia culturale. Il mio libro usci nel 1979. Petri, in quel periodo, almeno in Italia, non era sostenuto da nessuno, non, a sinistra, dall’avanguardia cul­ turale, di cui abbiamo detto, e non dalla critica vicina al PCI. Il film Todo modo costituì un serio problema politico già alla sua uscita, nel 1976, in quanto andava contro la politica di avvicinamento tra PC e DC e diventò un caso deflagrante, un oggetto davvero intollerabile politicamente, dopo l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Dobbiamo ricordare che, nel film, Gian Maria Volonté, mi­ mando in modo inequivocabile le fattezze e la voce di Moro, incarna un alto notabile dicci, “un cavallo di razza”, che gestisce un complot­ to (della CIA?) con strage finale di democristiani - alcuni dei quali fisicamente riconoscibili - di cui lui stesso sarà, o si farà, vittima sa­ crificale finale di una auto epurazione volta a garantire la continuità del Potere. Todo modo sta alla politica come Ultimo tango a Parigi sta alla ses­ sualità. Elio diventa un regista scomodo, che crea imbarazzo negli ex amici di partito. Per il PC i film successivi a A ciascuno il suo ed a Indagine non po­ tevano più fare gioco, non portavano più acqua al cinema civilmente impegnato, costituivano invece un problema di gestione del messag­ gio (ma soprattutto del linguaggio, anche se quest’aspetto lo si sotto­ valutava come a-ideologico) e, come succedeva in Unione Sovietica, si fecero passare come confusi o esteticamente velleitari. L’accusa contenuta nella lettera, citata, ad Argentieri è dura e precisa in que­ sto senso. Petri fu lasciato ai folli. Sintomo, pur del tutto minore, di questo allontanamento può essere considerato il fatto che quando, a metà degli anni novanta, IVnità ristampò ed allegò al giornale mol­ tissimi volumi della collana «Il Castoro» tra questi non fu inserito il Petri, che, a buon diritto, tenuto conto della storia di militanza del regista, del suo essere comunque storico compagno di strada della sinistra, avrebbe legittimamente potuto, in una prospettiva storico­ culturale, trovare posto.

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Oggi dunque, ci si può avvicinare ad Elio in modo più diretto, completo e coinvolgente, tornando a rivedere i suoi film al cine­ matografo, grazie alla Cineteca di Bologna, ma soprattutto rivol­ gendo l’attenzione allo scrittore e polemista. Solo infatti attraverso la lettura dei suoi scritti, raccolti nel volume citato, si può seria­ mente capire la spessore di quest’autore in tutto il corso della sua vita lavorativa, la sua volontà ostinata ed inesausta di analizzare i fenomeni del reale, nonché la profondità del suo porsi il problema di che cosa significhi essere un intellettuale e ancora fare cinema e soprattutto un cinema-politico. Nei suoi scritti Elio pretende di impostare sempre le analisi in ter­ mini complessi e articolati, marxisti, aborrisce la vaghezza del pen­ siero (e dei suoi critici), puntualizza, precisa, sfida, insomma, con la dialettica ogni luogo comune del dire e del pensare. Elabora razio­ nalmente ogni passaggio concettuale, raddoppia ogni voluta ambi­ guità, storicizza ed analizza il proprio assunto adottando pervicace­ mente procedimenti logici ogni volta sempre più capziosi rispetto all’enunciato che precede, praticando, con andatura sofìstica, anali­ si sempre più serrate. Usa la retorica alta nel gioco della scrittura e della parola, nelle interviste, come grimaldello per il disvelamento di verità sempre ulteriori ai dati primari. Mancano, naturalmente, nel volume le copie di lavoro, autografe, delle sue sceneggiature che sono piene di annotazioni, operate con la sua scrittura precisa ai margini dell’usato foglio giallo. Queste stesse sono di una tale pre­ gnanza ed insistenza nella logica del testo da formalizzare un iper­ testo critico che, di per sé, ha una sua autonomia concettuale che si situa in una dimensione di supplementarietà. I continui appunti creano effetti speculari ampliando e deviando dal testo primitivo al fine di creare supplementi di significato allo stesso, stratificazioni in sequenza che lo eccepiscono e dilatano. Succede che le sceneggiatu­ re così chiosate appaiono sul piano letterario aperture al fuori-testo, tanto da avvicinarsi alla pratica della scrittura teorizzata da Tel Quel e da Jacques Derrida. Del resto Petri è assolutamente prossimo, se non totalmente impregnato di cultura francese, da Sartre a Bataille. a Barthes. Todo modo è fortissimamente influenzato dalle ambiva­ lenze della duplicità vizio-virtù, spirito-carne (le figure ambigue del doppio: il prete inquisitore ed M) del romanzo L’Abbé C di Bataille nonché da saggio di Barthes sul significato degli esercizi spirituali in Loyola. Tutto questo lavoro di scavo, affascinante, è appunto appale­

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sato negli appunti alle sceneggiature originali. Queste stesse sono lo specchio attestante il gioco metamorfico dell'elaborazione dialettica del suo pensare più che una semplice correttiva di lavoro. Trascurando, seppur indebitamente, i testi degli anni ‘50 e ‘6o, ap­ parsi sulla rivista Città Aperta, ci si deve maggiormente soffermare, nel senso sopra precisato, a quelli degli anni settanta, cruciali sia per l’evoluzione stilistica del suo cinema e per il paese Italia, fino a quelli degli anni ottanta, con le ultime polemiche sul cinema italiano, le ultime arringhe, gli ultimi guanti battuti sul viso più dei supposti amici e compagni di strada che dei "nemici”. Perché l’"amicizia” degli amici, che avevano concesso il supporto, non problematico politi­ camente ed esteticamente, al "primo” Petri, non poteva reggere al mutamento genetico profondo del suo fare cinema negli ultimi anni. La rottura con schemi legati a stili, idee e temi politico-esistenziali (pur con ogni distinzione possibile) non poteva che trascinarlo in una zona non protetta: gli uni erano impossibilitati “per natura” a capire una nuova pratica della scrittura e della politica che troverà il momento più alto in Todo modo; gli altri, i rappresentanti del "ter­ rorismo critico”, dell’avanguardia critica, «Cinema&Film» e «Ombre Rosse», non erano in grado di superare gli effetti di una supposta distanza politica, vittime loro malgrado delle proprie petizioni di principio e di lotta ideologica. Va ricordato che nel 1971, durante il festival di Porretta Terme, la presentazione del film La classe operaia va in paradiso fu conte­ stata da una parte da rappresentanze sindacali estremiste e dall’al­ tra dall’avanguardia del cinema militante, con il regista Jean Ma­ rie Straub che, nel dibattito successivo alla proiezione, impugnò il microfono per urlare, con il suo accento tedesco, che il film andava bruciato perché reazionario. Preciso che io, che ero presente, stavo istericamente dalla sua parte, quella del fuoco. In quell’occasione nessuno dei critici e cineasti amici prese la parola per difendere Elio da accuse settarie. Nell’intervista, lunghissima, totale, tutta da rileggersi!, concessa ad Aldo Tassone, in Parla il cinema italiano, a proposito del travaglio politico e ideologico dei cineasti italiani (ma soprattutto del suo) di quegli anni, Petri dichiara: Nel tentativo di socializzare al massimo il nostro travaglio alcuni di noi s’erano trasformati, un po’ comicamente, in piccoli tribuni, in ga­

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loppini politici, forse per sfuggire a quella fatica ben più grande e intima di fare un film. Ma nella questione c’era anche un lato furiosamente masochista. Decine di volte, nel corso dei dibattiti pubblici sui nostri film, siamo stati insultati, sbeffeggiati, messi al centro di processini alla cinese, qualcuno quasi lapidato. Ebbene noi andavamo a questi incontri senza mai tirarci indietro, pur sapendo cosa ci attendesse, con una co­ mica disposizione al martirio... Si peccavamo di infantilismo; ma è sicu­ ro che la maggior parte di noi viveva queste esperienze soffrendole più di quanto non si immagini. Alcuni di noi erano, infetti, coscienti, del massimalismo cui ci trascinavano le cose, e le forze politiche, e anche della inanità delle nostre scelte. Questa parte di autori, piccola, devo dire, sentiva crescere il proprio disagio davanti alla povertà intellettuale del dibattito di sinistra e al conformismo di quasi tutti, ed anche davan­ ti all’atteggiamento dei giovani, offuscato da un’invidia generazionale piuttosto esplicita ed imbarazzante. Chi aveva un po’ di senso di humor, o anche soltanto del ridicolo, restava senza parole davanti ai luoghi co­ muni che stentoriamente venivano strombazzati nelle riunioni del no­ stro soviet-corporativo...Bene, in mezzo a tutto questo gran casino, gli unici che se ne restavano immobili come busti del Pincio e senza nem­ meno, poi, avere le carte in regola per meritarsi questi omaggi calcarei, erano i critici cinematografici.’ Petri si riferisce ai critici militanti dell’unità o di Rinascita, gli amici compagni di strada, o dei grandi quotidiani, ma a seguire, nell’intervista, ce ne è anche per i cinephiles militanti di sinistra d’allora, additando gli stessi come "improvvisati formalisti, semiologi, strutturalisti, lacaniani, o un po’ dell’uno un po’ dell’altro”. Tra questi ultimi ci sarò stato anch’io? Probabilmente.

I marxisti dopo la scomparsa di Barbaro e Della Volpe, si sono an­ siosamente ancorati ad un loro storicismo buono per tutte le occasioni. Marxisti, cattolici e idealisti si sono tutti trovati d’accordo in ciò, che la lettura di un testo è essenzialmente contenutistica. In questa mésalliance i marxisti hanno, senza dubbio, svolto un ruolo fortemente ege­ monico e hanno sovente agito con una certa propensione al terrorismo ideologico. Dal sessanta in poi vi sono state, inoltre, molte frettolose traduzioni dal francese di idee spesso tradotte dal tedesco e dal russo. Battaglioni di avventizi si sono gettati su queste idee, sbranandole, di5

Parla il cinema italiano voi. 2, Il Formichiere Editore, Milano 1979, p. 260.

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votandole, in una gran confusione di fini. Moki si sono improvvisati for­ malisti, stilisti, semiologi, strutturalisti, lacaniani, o un po’ dell’uno un po’ dell’altro... Se con grande sforzo si cerca di riannodare nel discorso di tutti quanti questi ricercatori, anche dei più intelligenti, un qualunque filo che porti in un luogo estetico si finirà per arrivare ineluttabilmente a cospetto di una conclusione contenutistica, sia pure travestita da sfre­ nato formalismo. Come se all’attuale modo di vita, privato di valori,sia precluso il godimento di una vera e propria estetica alla quale corrispon­ da una compiuta concezione del mondo.6

La mancanza di una compiuta concezione del mondo non è un’accusa da poco alle avanguardie intellettuali d’allora. Perché «Cinema&Film» e «Ombre Rosse», le riviste allora dell’avanguardia, che avevano occhi per vedere, non rettificarono, seppure in modo selettivo, il loro moralistico atteggiamento di chiusura nei suoi ri­ guardi in quella fase di passaggio radicale, gli anni settanta, vera sua fase di mutazione ideologica e stilistica da un cinema di narrazione, esistenzialista, ad un cinema volto al simbolico (non al "grottesco”, anche se spesso anche Elio usa dire che il suo cinema tende al grot­ tesco, come componente di una messa in scena brechtiana)? Perché, a Porretta, questi stessi, ed io con loro, si scagliarono, in modo inu­ sitatamente violento ed acrimonioso, con tanta pigrizia percettiva, contro di lui quando già prepotentemente ne La classe operaia era palese il mutamento di prassi scritturale in Petri? Chi si difendeva, con l’atteggiamento di non voler accreditare al regista il fatto che la sua rappresentazione si muoveva oramai in termini ben più com­ plessi ed enigmatici rispetto al passato, se non il gioco dell’estremi­ smo politico? Ritengo che l’acredine, il disamore, l’incomprensione colpevole, delle avanguardie critiche per Elio abbia portato un impoverimento nel dibattito sul cinema e cosa ben più significativa sulla politica cul­ turale degli anni settanta ed ottanta. Ma probabilmente tutto era nelle cose e non si poteva fare altri­ menti, anzi addirittura allora era una corretta interpretazione dei ruoli. La domanda contenuta nell’esergo, poi scomparso, al volume originario perché si fa dire oggi il cinema di Petri piuttosto che ieri? non era retorica ma era all’origine di una riflessione sugli strumen­

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Ibidem, pp. 256-257.

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ti della critica e significava che la critica non padroneggiava allora quegli strumenti analitici che avrebbero permesso, anni dopo, la decodificazione di una pratica diversa di scrittura cinematografica e quindi ideologica. Poiché il suo cinema civile o cinema politico si situava sul piano dell’analisi ben diversamente da qualunque film italiano od europeo del periodo. Salvo Godard. Non a caso nell’inter­ vista con Tassone, alla domanda su chi fa del cinema autenticamen­ te politico nelle altre cinematografìe, così risponde: «Naturalmente Godard. Trasformare il linguaggio del film come ha fatto Godard è un atto politicamente rivoluzionario».7 È quindi fondamentale, a mio parere, distinguere oggi tra il mo­ vimento ideologico del cinema civile o politico, votato al voler dire comiziale, zona protetta, acqua morta della sinistra, in cui Elio è sta­ to p(i)etrificato, e “cinema del Politico”, quale messa in scena delle maschere del soggetto nel reale, spazio delle domande del disagio, gioco della metonimia del desiderio del soggetto anziché della sua fissazione metaforica (il cinema politico dei Rosi, Maselli, Costa Gavras etc) e quindi discorso in continua perdita di senso. Petri appar­ tiene a questo spazio concettuale. Riflettiamo sui suoi testi, le sue interviste, sulla lucidità della sua visione politica sugli anni settanta, gli anni della Democrazia Cri­ stiana, delle lotte studentesche, del terrorismo e de) compromes­ so storico, sulla figura ambigua ed ambivalente di "M”, Moro (Todo modo a buon diritto potrebbe intitolarsi come il film di Fritz Lang M). Sono saggi sulla politica e sulla morale, virati da una violenza sorprendente nel nostro paese votato alla mollezza quale categoria morale (molli sono il volto e la postura di M, molli i ventri dei corpi della nomenclatura democristiana, accatastati nudi, uno sull’altro, nella scena finale di Todo modo). Rileggiamo il lungo illuminante scritto su Yengagement sartriano (e petriano), edito dalla RAI a pre­ fazione della registrazione (da intendersi come film in tutta autono­ mia) per la TV del dramma Mani sporche di J.P. Sartre. Il saggio rac­ coglie i temi politico esistenziali, angosciosi come sogni disturbanti, dell’ultimo periodo della sua vita. Da una parte il lavoro quotidiano della morte nel nostro vivere in termini di annichilimento e disper­ sione del Soggetto (da Indagine in avanti) nei diversi mascheramen­ ti dell’universo psicotico, dall’altra il tema della morte nella scena 7

Ibidem, p. 276.

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immaginaria del politico, come conflitto tra la pratica estrema e definitiva, anarco-individualista, schizofrenica, senza progetto, del killer proto-brigatista, Hugo, inviato ad uccidere il capo carismatico, e quella della tattica, del progetto dell’Uomo del politico, Hoederer, destinato ad essere soppresso. Questa è la messa in scena diretta del conflitto, o meglio delle contraddizioni tra perdita dell’identità della sinistra storica e un'incrudelita mutazione dei soggetti politici: dia­ lettica delle contraddizioni fra isteria e cognizione del dolore, male e bene, morte e vita, odio e amore, animalità e umanità e via dicendo secondo i luoghi delle differenze. Una radiografìa della malattia del­ la politica della sinistra in Italia ma soprattutto dello scenario psico­ tico del politico. Sono riflessioni di moralità corsara che non trovano riscontro in nessun maitre a penser italiano d’allora se non in Pasolini. È sor­ prendente la vicinanza spirituale fra il regista di Todo modo e quello di Salò, le 120 Giornate di Sodoma. L’accostamento tra i due film, se­ gnati dall’ossessione dell’universo concentrazionario e penitenzia­ le (che poi troverà ulteriore spazio in Chi illumina la grande notte) mi appare avvalorato in modo lampante dal fatto, come racconta­ to, che alla fine degli anni settanta Elio stesse elucubrando attorno all’ipotesi di un trattamento del racconto Colonia Penale di Kafka, che probabilmente ha trovato una prima stesura in Giacobbe di cui tratteremo. E non solo. Nell’intervista con Tassone, Elio difende Salò sentendolo vicino al suo universo e accomunando, senza dirlo, il co­ mune destino alla incomprensione quando il gioco del cinema si fa davvero duro: Tra gli ultimi film italiani mi è piaciuto il Salò di Pasolini, massacrato dalla critica che ha confuso il film con la vita di Pasolini, la cronaca e Von Krafft-Ebing, un fatto proprio da psicoanalisi. Il Salò secondo me è un film puro, in cui sono contenute le confessioni strazianti sui rapporti corruttori del vecchio con il giovane innocente, cioè tra il potere e le sue vittime. Torcere il naso, come molti hanno fatto, davanti alla merda di cioccolata di Pasolini senza pensare a quanta merda-merda s’è mangia­ ta nella propria vita, facendo i film, i giornali, eccetera, mi sembra da schizofrenici.8

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Ibidem, p. 278.

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È un peccato che Petri non abbia voluto o avuto modo di inter­ venire in modo continuativo, come Pasolini, su riviste o quotidia­ ni con un suo diario altrettanto maledetto. Avrebbe avuto la stessa forza mediatica. Petri è un marxista e un materialista, lo psicolo­ gismo individualistico gli è estraneo o, nel tempo lo ha totalmente capovolto e ciò risulta chiarissimo nelle esperienze evolutive degli ultimi anni. È l’analisi della struttura capitalistica e psicotica che muove la sua riflessione sui fatti: gli attanti dei suoi film ultimi sono soggetti giocati dal reale e non individui - esistenze. L’oggetto del suo cinema sono soggetti equivocanti sul proprio supposto sé ra­ zionale, sociale e politico, sono maschere di una rappresentazio­ ne carnascialesca dominata dalla pulsione di morte. Elio legge con lenti marxiste e freudiane il mondo. Elabora all'interno della rap­ presentazione il gioco della pulsione di morte nelle dinamiche del reale della politica: è questa la genialità della sua scrittura. Dove si potevano trovare, in quegli anni, delle analisi così acute, drammati­ che, dolorose, dette e pensate con pena per lo stato delle cose, senza l’euforia isterica della parola rivoluzionaria, se non in questi due scrittori-autori? Il concetto di morte al lavoro è il rovello continuo della loro elaborazione: morte come processo di degrado del costu­ me civile, decadimento dell’essere come insensatezza di soggetto lavorato dalla perdita identitaria. Pasolini parlava di corruttibilità della specie, delle facies, Elio la rappresentava, con genio registico a mio avviso assai superiore, radicalizzando la sua messa in scena grazie al gioco di maschere carnascialesche del potere, in una sfera di teatralità vicina al kabuki. È Elio il vero autore d’avanguardia del cinema italiano degli anni settanta, (assieme, come già detto al diversissimo Carmelo Bene e a qualche film di Ferreri, regista che amava) il vero padroneggiatore di un discorso sovversivo sul soggetto nel politico. Da questa conside­ razione non può che ripartire il dire critico su Elio ed in generale sul cinema italiano Una nuova prefazione al mio libro non può, dunque, che ribadire, a più di quarant’anni di distanza, il lavoro critico operato a partire dalla domanda sostanziale da cui il testo traeva le mosse, “perché scrivere oggi un libro su Elio Petri”, e dalla risposta che se ne dava. Domanda e risposta erano sinteticamente contenute in quelle righe allora soppresse.

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Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? La risposta alla domanda costituirà la posta in gioco del saggio; risposta che non si soddisferà nel­ la convocazione sulla scena dei fantasmi del critico, nelle loro movenze verso un determinato oggetto (il cinema di Petri, nel nostro caso). Sep­ pure essi naturalmente costituiscano per il critico il modo privilegiato di affrontare l’ingombro di materiali sedimentato nel suo immaginario. Allo stesso modo non si soddisferà del piacere di assecondare amicalmente una consonanza e quello che ne consegue nel servire.un uomo di cui molto si stima il lavoro e la persona. Sono queste infatti le esche contingenti del libro, poiché esso nasce da qualcos’altro che soverchia il critico, ovvero l’aprirsi di spazi e stru­ menti di analisi che lo coinvolgono in modo necessitato. In ragione di tali considerazioni nel saggio non si tratterà di opporre, con maggiore fondatezza e forza, un gusto ad altri precedenti; non si sconfesserà una letteratura pesantemente, a volte, ostile per forzare e chiudere un’azione risarcitoria nei riguardi di Petri. Nessuno dei sog­ getti coinvolti in questo libro ne sente il bisogno. O, perlomeno, tali preoccupazioni non annoderanno, pur restandovi forse impigliate, il discorso. Lo investirà invece il rispondere alla domanda: perché il cinema di Petri “si fa dire oggi” dal critico piuttosto che ieri? Una risposta naturalmente noi l’abbiamo formulata e tenteremo di esibirla: in breve, il cinema di Petri concerne oggi la scena critica per il suo lavorare in modo diretto sul problema del Potere e deH’Amore del Potere. Mai, infatti, come negli ultimi anni sono questi i nodi su cui si misura, in tutti gli ambiti del discorso, la cultura militante che non guardi in modo meccanicistico al tema del politico. Ecco perché il cine­ ma di Elio Petri si fa dire oggi: perché lavora, nella sua major phase, in modo analitico attorno alla impossibile rappresentazione del Soggetto nel Politico se non in termini psicotici.

ELIO PETRI E IL CINEMA POLITICO ITALIANO

PETRI, SITUAZIONE 1979

Sei un intellettuale? Io sarei un “intellettuale” Temo proprio di no, anche se da ragazzo avrei amato fosse stato così. L’intellettuale è uno studioso, qualcu­ no dressé per esserlo, qualcuno che paradossalmente è stato tarato proprio nell’intelletto, per esserlo, e che opera essenzialmente con la ragione, che è poi una ragione iper-dressé, iper-alimentata e, in definitiva, iper-amata. 11 mio dressing, nella adolescenza, non riuscì bene. Mi cacciarono due volte dalla scuola e, infine, fui io a rifiu­ tarmi di prendere il titolo di studio. Tutto pareva, anche allora, più necessario dell’andare a scuola. Dunque. Non dimentichiamo che erano anni di guerra e di dopo­ guerra. Le strade puzzavano ancora di morte e di fascismo. Sotto le macerie c’erano cadaveri e le istituzioni esalavano fascismo. C erano le scoperte dell’adolescenza, che per noi erano doppie, poiché alla scoperta di tutto quanto quello che ci aveva preceduto, si univa la scoperta delle cose che il fascismo aveva proibito e nascosto. Se feci, quindi, una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comuni­ sta, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblio­ teche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, amando politecnico, facendo scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza, anche a Regina Coeli, negli scontri con la po­ lizia, nelle sparatorie, nei linciaggi, nei postriboli, negli studi dei pittori della mia età, in tipografìa, da Rosati a Piazza del Popolo, nei cineclub, nei comizi, tra coloro che quel tempo venivano anco­ ra chiamati rivoluzionari di professione. I miei testi li trovavo nelle sezioni del partito comunista e sui carrettini dei libri usati. I miei eroi: Totò, Bogart e Julien Sorel. Confusione e disordine, nei quali la mia ragione lavorava soprattutto su due versanti: a tener duro sull’i­ dea che il problema di fondo della società umana fosse quello dell’u­

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guaglianza fra tutti i viventi ed a studiare e combattere le tracce che erano in me dell’educazione cattolica e fascista. In un certo senso le cose non sono cambiate, come se io fossi morto in quegli anni. E, siccome, in quegli anni, la mia identità era in divenire, anche oggi lo è. Un intellettuale è qualcuno che si fa in serra, le cose gliele raccon­ tano, la sua soggettività non è mai in gioco, e sarà sempre se stesso, senza dubbi, anche ove ponesse in dubbio tutto intero il suo stare in serra, vive per la sua funzione e la tiene bene al riparo dalla vita. In quel tempo, a pensarci bene, forse il mio modello furono gli artisti, per la loro natura, che è schiettamente criminosa, per la loro visceralità, per la loro puerilità, che è come dire la stessa cosa, ed anche per il loro doversi inventare il mestiere da sé, come artigiani, ogni mattina davanti a qualcosa di bianco da trasformare in qual­ cosa che prima non c’era, sedia, tavolino o quadro, segni della loro presenza. Anche il rapporto degli artisti con il denaro è diverso da quello istituzionale: essi non producono per guadagnare, ma guada­ gnano perché producono e questo si può dire anche di artisti corrotti o ricchissimi. L’arte è superflua. 1 guadagni degli artisti confrontati a quelli scaturiti dalla produzione istituzionalizzata, sono simili alle rapine, bottino di azioni corsare. Il loro tempo non è monetizzabile. Essi dilatano ogni istante della loro esistenza, come i sognatori. Con ciò non voglio dire di essere un artista. Io direi che sono un adole­ scente, ancora senz'arte, né parte.'

Sei comunista?

Posso io dire di essere comunista? Sinceramente, ed a questo pun­ to non vedo come cavarmela altrimenti, io non posso dirlo, e non soltanto perché nessuna delle chapelles comuniste mi ritiene comu­ nista, né le vecchie, né le nuove, ma perché, secondo la mia vecchia esperienza di militante, essere comunista vuol dire accettare una di­ sciplina di partito, sacrificare in qualche modo la propria soggettivi­ tà alla ragione di partito e vivere minuto per minuto per il partito, ed io non lo accetto. Aggiungo: io vivo, ora, più o meno, come un medio borghese, la mia giornata è completamente distaccata dalla socia­ lità, il tumulto, se c’è, è solo interiore, un po’ di mugugno di qual1

Da lettera datata fine Ottobre 1978.

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cimo a cui non va bene niente, la mia “roba” me la tengo pensando alla vecchiaia che si approssima, insomma, la mia vita cosa c entra col comuniSmo? La mia vita è quella di un borghese più o meno in­ quieto, più o meno scisso, che da giovane ha militato in un partito rivoluzionario, che ha vissuto la caduta delle speranze rivoluziona­ rie, che ha visto degradare, con quella caduta, l’intera società in cui viveva, e che non riesce più ad identificarsi con nessuna di quelle forze che si richiamano al comuniSmo, che sono tante, che sono di indole fratricida e che continuano ad azzuffarsi tra loro su vecchi problemi teorici come se volessero chiudere gli occhi sui nuovi, in­ capaci, comunque, di generare nuove teorie e perfino di riconoscere la parte morta delle vecchie. Se rifiuto di sacrificare o mortificare la mia soggettività, se rifiuto una qualunque disciplina, se vivo come un borghese che comunista sono? Mi si dirà che molti comunisti vivono come me, se non peggio, e che non li sfiora il dubbio che un comunista debba vivere diversamente. Ma che ci posso fare io se la gente non vuole guardarsi in faccia e vedere esattamente com’è? Io credo che un marxista, o semplicemente un progressista, che viva in un paese capitalista, o anche in un paese socialista, sia destinato a vivere in pezzi che difficilmente si "tengono” fra loro. Sono integri i conservatori, perché nella ferrea determinazione di conservare tutto intero il mondo com’è non hanno contraddizioni, non soffrono di scissioni, non temono incoerenze, che, oltre tutto, sono giustificate dalla doppia, tripla morale, o quadrupla, che è proprio tra le cose che vogliono conservare. In un conservatore non troverai mai nemmeno il barlume più fievole di un’istanza progressiva. Mentre, va detto, in un progressista vi sono pezzi rissosi e ingombranti di ideologie rea­ zionarie, non sempre chiaramente individuabili in quanto tali, che rendono il suo foro interiore simile ad una miserabile aula di pretura o ad una includente e verbosa assemblea che raggruppi dalle Brigate Rosse fino ai saragattiani, ed oltre, fino ai cattolici, ed oltre, occorre dirlo, qualche volta fino ai fascisti. Non dico che questo stato di schi­ zofrenia non sia da preferirsi, per chi vuole stare nel proprio tempo e viverlo e soffrirlo, a quello integro, monoculturale e monospiritua­ le del conservatore. Tuttavia bisogna incominciare a riconoscerlo, a studiare ed ammettere le contraddizioni, ed anche a denunciarle, iniziando dalle proprie. Essere progressisti e non far nulla vuol dire, forse, covare il desiderio inconscio che non cambi nulla. Vivere da borghesi e dichiararsi rivoluzionari vuol dire esprimere coi propri

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comportamenti non tanto uno stato di semplice malafede, ma qual­ cosa di più, l’adesione ai valori della società borghese e il desiderio latente di rendere vana ogni ricerca di nuovi comportamenti. L’elen­ co delle contraddizioni e dei “pezzi” potrebbe continuare all’infìnito. Mi premeva soltanto dire che io non posso essere definito comuni­ sta. Né intellettuale, né comunista. Sono due cose che avrei voluto e potuto essere, questo sì, anche se ritengo che le due parole stridano fra loro, che un intellettuale non possa essere altro che un fiancheg­ giatore degli operai. D’altronde, e questo lo dico non soltanto a mia discolpa, non appartengo nemmeno a quel vastissimo gruppo di in­ tellettuali e piccolo-borghesi che dal ’44, in Italia, per non dire in Europa, si sono arrogati il diritto di rappresentare gli interessi della classe operaia, non sapendo nulla della realtà popolare e operaia, invadendo tutti i partiti della sinistra ed anche i gruppi extraparla­ mentari, rinnovando ancora una volta il fenomeno del mimetismo piccolo-borghese. Ma cosa sono, allora? Vengo da una famiglia di lavoratori, povera, se non poverissima. Ho scelto istintivamente di parteggiare per i lavoratori. Le circostanze mi hanno portato a fare il cinema. Quali circostanze? Le centinaia e migliaia di film che ho visti e amati. Il fatto che i poveri fanno la boxe, o la musica leggera, o il cinema. Il fatto che per fare il cinema non ci voleva un titolo di studio. Il fatto che il cinema fosse, a quei tempi, arte popolare. Mi sono fatto una certa strada, aiutato da una certa fortuna. Ho cercato sempre di non rinnegare me stesso, ma non so se ci sono riuscito. Anzi, credo di no. Ora vivo in uno stato sociale più alto di quello da cui provengo. Forse il mio scopo era semplicemente questo. In que­ sto caso lo avrei raggiunto. Tutto qui? Forse sì. Forse c’era poco altro da fore. Ma forse no?

Perché un libro su Elio Petri, oggi?

Vedi, io non sento nessuno necessità di fare un libro su di me e lo dico sinceramente. Tutti i motivi che mi spingerebbero a invitarti a proseguire nella tua insana idea sarebbero di ordine strumentale, pro domo mea, corrotti, viziati da narcisismo alimentati da piccole e grandi frustrazioni. Confesso che quando parlano di qualche mio 2

Da lettera datata fine Ottobre 1978.

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film mi viene voglia di difenderlo, ma solo per istinto di conservazio­ ne (odi conversazione?). Essendo i miei film arte della mia memoria li ho dimenticati, volendo dimenticarli. Mi balza ogni tanto allo spi­ rito qualche sensazione piacevole provata girando una scena, qua e là per l’Italia, un’atmosfera che mi era piaciuta, un pomeriggio in Si­ cilia, il viso di un attore che amavo. Ogni tanto mi attraversa il gusto di aver provocato qualche discussione. Ma i film mi sembrano di un altro. La questione da te posta è molto angosciosa anche perché mi rimanda a domande, tanto stringenti quanto inutili, sempre presen­ ti in me. Perché fare le cose? Perché faccio un film? Perché faccio il cinema? Una volta fare il cinema mi piaceva e tutte queste domande c’erano, ma latenti, preconscie. Un ragazzo, in Occidente, fa le cose perché le trova le davanti a lui, da farsi, e farle è un poco fare se stessi. Il divertimento, in quell’età, consiste proprio nell’andare a caccia di se stessi, facendo una cosa o l’altra. Ma quando si scopre che la cac­ cia a, o di se stessi è inane, cessa di divertimento. Quando si scopre che le cose sono lì per obbligarti ad essere qualcuno di preciso - e di fittizio - è finito il gioco. Ho cercato di ovviare a quest’inconvenien­ te tornando a zero alla fine di ogni film, come certe macchine cal­ colatrici che cancellano alla fine di ogni calcolo tutte le operazioni, ricominciando ogni volta daccapo, ripuntando sempre tutto quello che avevo accumulato. Mi sono reso conto però che si trattava di un espediente privo di efficacia, una specie di roulette un po’ sciocca. Ora mi pare di fare un film spinto dal mio ruolo, per necessità di denaro, per pagare le tasse, dunque per riflesso condizionato. Sono come mi hanno fatto le cose? Apparentemente sì. Se ci penso bene, ogni cosa si fa per sfuggire all’idea della morte, per passare il tempo, perché la mente sia occupata da altro che non dall’idea, o voglia o paura, di morire. Quindi anche i film, i libri, i miei e i tuoi. Ma que­ sto non risponde alla domanda: perché un libro proprio su di me?5

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Da lettera datata 2 Luglio 1977.

SCENE DEL POLITICO

Né il sole né la morte si possono guardare fissamente. E de La Rochefoucauld, Massime A questo punto ognuno si fa un dovere di portare in mano un moccolo acceso e da tutte le parti echeggia l’interiezione favori­ ta dai romani: «Sia ammazzato chi non porta il moccolo!» grida l'uno all'altro cercando ognuno di spegnere con un soffio il lume avversario... Tutte le classi, tutte le età sono in armi luna contro l’altra; il bimbo spegne il moccolo a suo padre e non cessa di gridare: «sia ammazzato il signor padre».

J.W. Goethe, Il Carnevale di Roma (Viaggio in Italia)

Il sublime in generale è il tentativo di esprimere l’infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresentazione.

G.W.E Hegel, Estetica L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l'espe­ rienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.

J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi

i. Perché scrivere un libro oggi su Elio Petri Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? La risposta alla do­ manda costituirà la posta in gioco del saggio; risposta che non si soddisferà nella convocazione sulla scena dei fantasmi del critico, nelle loro movenze verso un determinato oggetto (il cinema di Pe­ tri, nel nostro caso). Seppure essi naturalmente costituiscano per

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il critico il modo privilegiato di affrontare l’ingombro di materiali sedimentato nel suo immaginario. Allo stesso modo non si soddisferà del piacere di assecondare amicalmente una consonanza e di quello che ne consegue nel servire un uomo di cui molto si stima il lavoro e la persona. Sono queste infatti le esche contingenti del libro, poiché esso na­ sce da qualcos’altro che soverchia il critico, ovvero l’aprirsi di spazi e strumenti di analisi che lo coinvolgono in modo necessitato. In ragione di tali considerazione nel saggio non si tratterà di op­ porre, con maggiore fondatezza e forza, un gusto ad altri precedenti; non si sconfesserà una letteratura pesantemente, a volte, ostile per concludere un’azione risarcitoria nei riguardi di Petri. Nessuno dei soggetti coinvolti in questo libro ne sente il bisogno; o perlomeno tali preoccupazioni non annoderanno, pur restandovi forse impi­ gliate, il discorso. Lo investirà invece il rispondere alla domanda: «perché il cinema di Petri "si fa dire” dal critico oggi piuttosto che ieri?» Una risposta naturalmente noi l’abbiamo formulata e tenteremo di esibirla: il cinema di Petri concerne oggi più di ieri la scena critica per il suo lavorare in modo diretto sul problema del Potere e dell’Amore del Potere. Mai, infatti, come negli ultimi anni sono questi i nodi su cui si misura, in tutti gli ambiti del discorso, la cultura mi­ litante che non guardi in modo meccanicistico al tema del politico. Ecco perché il cinema di Elio Petri “si fa dire oggi”: perché lavora, nella sua major phase (così si definisce l’ultima grande stagione, sti­ listicamente estrema, di Harry James) attorno alla impossibile rap­ presentazione del Soggetto nel Politico se non in termini psicotici. Affermando ciò si può temere di perseguitare Petri e rilanciargli an­ cora una volta quel copyright che è poi la maledizione che ogni autore sopporta: Petri come regista del cinema-politico, ancora! Eppure la strada scelta è di porci in quel luogo in cui Petri ha giocato di situar­ si come autore: parliamo appunto della politica reale, in tutta la sua complessità, di impegno civile e visione del mondo. Poiché è impor­ tante dire che se ci si vuole intrattenere in modo non scorretto (e sen­ za facilitazioni) sul cinema del regista si deve partire dal dato di fatto che egli è l’autore più compromesso con quel “qualcosa” che per co­ modità, da molto tempo, si suole chiamare il cinema politico italiano. A prima vista pare di trovarsi su di un terreno saldo per l’ascol­ to critico, in una regione conosciuta, esplorata, di cui si possiedono

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mappe dettagliate. È questo che provoca l’effetto di saturazione al sentire collegare il nome di Petri nel cinema politico italiano. Ma chi viene colto dal fastidio del déjà vu sarebbe in grado di dire che cos’è il cinema politico italiano? Saprebbe analizzare che cosa rap­ presenti in termini di politica della rappresentazione? E di rappre­ sentazione del politico? È sconcertante se pensiamo quanti nostri autori e film siano sussumibili sotto tale bandiera. II silenzio che la critica militante ancora oggi stende su questo cinema, nonostante siano sopite per defatigazione le virulente polemiche nei confron­ ti di registi quali Petri, Rosi, Pontecorvo, Damiani, Montaldo, di­ vampanti nell’incendio ideologico sessantottesco, è l’effetto di un disagio, reale a misurarsi sul piano critico su un terreno sfuggente. Il cinema politico è l’impensato della critica militante, intendendo come tale l’insieme di voci assolutamente marginali e disseminate di elaborazione teorica, di “pratica teorica” dell’analisi, come si direb­ be. Tra il ‘67 ed il ‘70 la fantasmatica politica e la cinéphilie italiana si condensavano differentemente in riviste ideologicamente turbolen­ te quali «Cinema&Film», «Ombre Rosse», senza dubbio marcando un preciso periodo critico-ideologico-politico in sintonia con le tesi del Movimento e la nascita della “nuova sinistra” in Italia. L’estremi­ smo politico e/o stilcritico che le designava ha prodotto una ferita non ancora compostasi: la frattura fra gli autori del cinema italiano “impegnati”, coinvolti professionalmente nelle strutture produttive dell’industria cinematografica e una generazione di critici che si rap­ presentava in termini di bisogni deliranti. Le ipotesi di lavoro pra­ ticate ruotavano vorticosamente attorno al problema dell’enunciato politico o ad esso quale radicalizzazione del linguaggio poetico. Ne conseguiva che il cinema politico italiano, impegnato “a sini­ stra”, era in forte odore di reazionarismo, socialdemocraticismo, per la sua fondamentale adesione a tecniche di rappresentazione che la­ sciavano da parte o ignoravano, ogni elaborazione metalinguistica del discorso poetico agli effetti di quello politico: era il cinema del “compromesso linguistico". La critica di opinione e di tendenza, dei quotidiani più o meno schierati, non fece che da spettatrice pigra a questo conflitto, inter­ venendo solo sul piano dell’attribuzione di valore e della difesa-con­ danna ideologica d’ufficio. Oggi, dieci anni dopo, le sparse membra di quella militanza sem­ brano ripiegarsi sul cinema italiano con cura archeologica, come

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a ripristinare l’oggetto perduto. Ciò nonostante, nell’ansioso ripe­ scaggio del nostro cinema (reperti paleoindustriali, fascisti, melo­ drammatici, comico-satirici) e nell’ugualmente ansioso discorso che tende a asseverarlo non appena un reperto viene messo alla luce, permane un vistoso buco. L’operazione d’imbellettamento, di co­ pertura, di valorizzazione (anche ai fìni del riciclaggio all’intemo delle catene di distribuzione dei circuiti alternativi), tende a non assumere l’onere di rendere conto di film che hanno contrassegnato vistosamente almeno dieci anni della nostra vita culturale. Erano al­ lora l’oggetto da sprezzare e nella situazione politica e ideologica di quegli anni era giusto che così fosse. Oggi tutto fa pensare che siano l’oggetto perturbante anche secondo i modesti criteri della comune pratica critica odierna che sono quelli della valorizzazione del ci­ nema in quanto tale, come cosa cinematografica e prescindono da approcci analitici complessi. Oggi il massimo che ci si può attendere è l’assunzione impensata dei registi del cinema politico nell’empireo già affollatissimo del cinema italiano, quali esperti in un generane, come l’horror, il comico, la commedia, il peplum, il dramma popola­ re. E via così nella stupidità. Ma questo perché, data l’importanza e la diffusione nel socia­ le che questi film hanno oggettivamente avuto negli anni tra la fine del decennio ‘60 e l’inizio del successivo? Che importa dire se e quanto i registi e gli sceneggiatori fossero bravi: quello che importa è dire “di che parla” il cinema politico, “chi parla” nel cinema politico. Solo dopo aver posto queste domande si potrà avanzare delle differenze di pratica cinematografica tra autori e rispondere quindi alla domanda prima: perché scrivere oggi un libro su Elio Petri. A tutt’oggi il cinema politico italiano impone dunque a chi vi si accosti la sfida di “mestare nel torbido del discorso politico” e situarsi al suo centro: sfida alla teoria, certamente. Altrove, su altri terreni dove essa gioca, lo spostamento si è prodotto ed ha conse­ guito un preciso risultato che la critica italiana non pare propensa ad accogliere: oltrepassare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione per puntare all’analisi della rappresentazione del politico. Ciò pare tanto più importante se si ritorna con la memoria a una data: 1° maggio 1978, sul numero 239 della rivista francese «Le Point», il critico Pierre Billard lanciava il suo j’accuse contro il cine-

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ma politico italiano. Così facendo, nella concitazione della requi­ sitoria, suo malgrado, veniva a enunciare alcune verità sul nostro oggetto. Scriveva infatti:

Che cosa denunciano i cineasti italiani nei loro him? Gli eccessi di polizia, le insufficienze dei giudici, gli abusi dei possidenti, la concus­ sione dei notabili, le mangerie dei partiti, gli intrighi dei politici, l’i­ pocrisia morale e religiosa, l’ineguaglianza sociale, la tacita intesa dei potenti di ogni ordine per far durare il loro potere. Ed è vero che poco o tanto queste tare hanno indebolito la credibilità dello stato italiano ed il consenso nazionale di cui dovrebbe essere oggetto. Ma da qualche anno e soprattutto oggi l’Italia affronta un male specifico: la sfida dei gruppi terroristici che, attraverso i sequestri di persona, l’omicidio politico, il ricatto, mettono in pericolo le istituzioni e l’esistenza stessa della nazio­ ne. Questi gruppuscoli terroristici, quando i cineasti italiani li hanno messi sotto accusa? Mai. Quali film hanno dedicato al reclutamento, alla preparazione, all’organizzazione di questi fanatici criminali? Nes­ suno. Chi ha realizzato un “In nome del popolo italiano" che esprimesse il grido di angoscia e di riprovazione che sale da ogni parte d’Italia, in mezzo alla grande confusione di opinioni? Nessuno. Singolare mancan­ za, straordinario silenzio da parte di artisti così lucidi, così realistici, così coraggiosi! Dopo aver commentato alcuni film cruciali quali Cadaveri eccel­ lenti di Rosi, Io non ho paura di Damiani e Todo modo («evoca un complotto mentre nell’aria aleggia il colpo di stato: ma appunto i complottatari sono dei ministri, degli industriali, degli ufficiali, dei cardinali»), così conclude:

Se domani, dal crollo della democrazia italiana dovesse nascere un nuovo fascismo, bianco o rosso, quale sarebbe la responsabilità dei ci­ neasti italiani?

«L’Espresso» del 14 maggio 78, numero dedicato alla morte di Moro, riprende la polemica, traduce il testo di Billard, accosta nella pagina alla foto di Moro scattata dalle BR con la Polaroid una foto di scena di Todo modo in cui appare la maschera mime­ tica di Moro-Volonté e, a cura di Valerio Riva, organizza una tavo­ la rotonda sull’argomento. Intervengono Billard, Rosi, Damiani, Pirro (scrittore e co-sceneggiatore di Petri in alcuni film) ed Elio Petri.

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Il fatto interessante non è l’artificioso sviluppo della polemica e i diversi interventi dei coinvolti. Ciò che importa è invece ana­ lizzare il perché il testo di Billard sia sintomatico, pur innestato nella stretta contingenza della cronaca nera, di ciò che fa nodo in ogni enunciato attorno al cinema politico e, quindi, di quanto fa problema nel cinema politico italiano stesso. Partendo da questa “invocazione” si può arrivare a chiarire la “vocazione” del discorso politico drammatizzato in questo cinema e a percepire le modalità strutturali attorno a cui muove, difformemente dal resto dei cinea­ sti citati, il cinema di Petri.

2. // cinema politico italiano: l’enunciato allegorico Chi amasse pensare al cinema politico italiano come ad un genere della nostra produzione (secondo un’ottica critica spiacevolmente oggi molto comune) ben poche integrazioni dovrebbe apportare al preciso e conciso catalogo di situazioni stilato da Billard. Le sceneg­ giature ruotano sempre infatti attorno a temi civili, variando esclu­ sivamente l'economia della loro distribuzione. La polizia... italiana, la giustizia... italiana, la gestione... italiana del potere pubblico: si potrebbe dire che quel che è in questione è sempre l’apparato del Potere in Italia, distorto, malioso, intrigato ed intrigante. Gli ulti­ mi due aggettivi non sono usati per caso, poiché la politicità di tali film consiste nel contestare una realtà di potere, oggi, nel nostro Paese, inscenandola come “intrigo di potere” e, sottolinierei, intri­ go “italiano”. È una specificazione assai importante che risulterà, come vedremo, produttiva, in quanto riconduce a modalità del dire, deH’immaginare, del rappresentare il Potere radicatesi nella notte della teatralità italiana. È dunque attraverso la griglia della doppia connotazione di “intri­ go” ed “italianità” che il cinema italiano trova, a livello extracritico soprattutto, una sua riconoscibilità di massima che fa distinguere i film di registi quali Rosi, Montaldo, Pontecorvo, Petri da un altro cinema che pur esso si appella alle categorie del politico, quello dei Taviani, Bertolucci, Pasolini. Ciò sebbene alcuni film si presentino sotto mentite spoglie, “in costume”: Queimada di Gillo Pontecorvo, Uomini contro di Rosi, Bronte di Vancini, qualche western terzo­ mondista, non sono che camuffamenti sul tema.

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Distinguiamo i due elementi fondanti e analizziamoli separatamente al fine di far emergere la cifra linguistica di questo cinema. “Intrigo". Il termine evoca a un primo livello problemi di natura pro­ duttiva, che non sono certamente trascurabili. La base di sceneggia­ tura è saldamente ancorata a tecniche sicure di tenuta drammatica, di spettacolarità; si pensi ad esempi di eccellenza quali Mani sulla città, e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il che spiega, sebbene su un piano molto meccanicistico, la risposta com­ merciale che i migliori prodotti, i più professionali, hanno ottenuto (Indagine, per esempio, nell’anno di uscita sul mercato raggiunse l’ottavo posto nella classifica degli incassi con circa due miliardi). E, ulteriormente, chiarisce il perché un certo capitale, quello "illu­ minato”, sia in qualche modo affluito, pur nelle evidenti difficoltà del reperimento, su tali produzioni. Certamente la gravissima fase di recessione che l’economia nazionale sta sopportando e l’alto costo del denaro sono uno dei tanti perché della tendenziale caduta del “saggio di politicità” del nostro cinema. Ma “intrigo” riporta anche ad una problematica del tutto differen­ te riverberantesi direttamente sulle fonti ideologiche di un modo di intendere la funzione civile del cinema. L’“intrigo” dice che vi è qualcosa che va svelato, da parte di qualcuno di una certa “scena”: il che significa struttura a chiave dell’enigma, edipica. Nel mito di Edipo, nel suo specifico meccanismo, ciò che è davvero in gioco è un “sapere” attorno ad un qualcosa: deus ex machina di questa produ­ zione di sapere è colui che, nell’ambito della finzione è attraversato dal sapere, dalla verità della scena. Ma è in gioco anche un secondo fattore strettamente connesso al precedente: la credenza che vi sia una soluzione dell’enigma, ovvero che la Scena ricopra, celi, una Verità svelabile, dicibile. E che sussi­ sta la funzione catartica di strappare il velo della scena del “reale” in modo che esso possa dirsi nella sua verità. In questa logica il cinema politico italiano tenta, desidera dire la verità del sociale nazionale, poiché una verità è creduta, è pensata esistente e “di classe”. Per ot­ tenere tale risultato politico, propagandistico - nel senso di "pro­ pagare”, attraverso un mezzo di massa, un “messaggio” - mette in scena l’enigma del sociale capitalista in termini di intrigo politico per denunciarne la natura di classe. La scommessa ideologica segna tuttavia lo scacco dell’impresa, la sua tendenziale fuga di realtà, se infatti si analizza tale enunciato

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dal punto di vista delle retoriche del discorso lo si può situare sul versante dell’“allegoria”. Il pendolo discorsivo muove cioè dalla fi­ gura retorica dell’enigma a quella dell’allegoria. Ed essa si distingue per l'assoluta pretesa di dominanza del significato sul significante, suo supporto materiale, e quindi per la tendenziale derealizzazione, distacco di realtà, che l’enunciato politico subisce, spinto com’è sul piano dell’astrazione comunicativa. Scrive Hegel :

Si può dire perciò che l’allegoria è gelida e fredda e che, essendo il si­ gnificato un’astrazione intellettuale, anche nei confronti dell’invenzio­ ne essa riguarda più l’intelletto che l’intuizione concreta e la profondità d’animo della fantasia.1 Ma l’allegoria non riguarda soltanto il fattore delfintrigo”. Se si esamina infatti la seconda connotazione di questo universo di­ scorsivo, quella di “italianità”, vedremo ricomparire e riconfermarsi doppiamente il sintomo allegorico. Partiamo ancora, a proposito di “italianità”, da un dato di natura economico-produttiva. Il cinema politico italiano ha strette relazioni su questo piano con la cosiddet­ ta “commedia all’italiana”. Che vi sia un principio di vasi comunican­ ti è fuori di dubbio, sia per quel che riguarda i canali di finanziamen­ to, che, soprattutto, per attori, sceneggiatori, tecnici della fotografìa, del montaggio, del suono e... registi. I cervelli del cinema italiano non sono poi moltissimi. Lo stesso Petri è stato “toccato” dalla com­ media in più di una occasione, come vedremo ha anche girato un film con Alberto Sordi. Questa transitività stilistica comporta delle riverberazioni importanti nei confronti della parola politica che il cinema politico italiano detiene e nella codificazione simbolica che lo percorre. La commedia all’italiana, la commedia dell’arte, delle maschere borghesi è anzi profondamente penetrata dell'immagina­ rio politico di cui il cinema politico pare l’esclusivo gestore. Il cammino per comprendere e acciarare i nessi intercorrenti fra queste differenti modalità rappresentative del reale sociale è un po’ tortuoso e passa, appunto, da considerazioni apparentemente mar­ ginali, come per esempio quella di “maschera”. La maggior scoper­ ta linguistica del cinema politico italiano la si deve, infatti, a Petri

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G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. Di Nicolao Merker e Nicola Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 450.

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per l’invenzione della necessità scritturale di attribuire all’ordine del politico la maschera di Gian Maria Volonté. Il che vuol dire strappare all’ordine simbolico della commedia all’italiana, tipica­ mente borghese, la pregnanza immaginaria della maschera spo­ standola sulla scena dell’agone del desiderio politico e restituen­ do alla maschera asservita e mercantile tutta la sua significanza.

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Per far questo Petri si è servito di un attore particolarissimo nel panorama degli attori italiani, che si è rifiutato di diventare una del­ le stelle del grottesco del cinema all’italiana, a fianco di attori come Sordi, Manfredi, Gassman. (pensiamo al successo ne L’armata Bran­ caleone) Questa denegazione di Volonté è la chiave per compiere il passo avanti nell’analisi tra i due gruppi di film. 11 nodo riguarda la distanza che separa la sua mascheratura dalle altre, lo scarto tra queste e la rilevanza della sua agli effetti della rappresentazione del politico. È proprio in questa prospettiva che si misura l’importanza del cinema di Petri, la sua esemplare radicalità nell’ambito del cine­ ma italiano e, ancora, la sua capacità di continuo approfondimento teorico del proprio lavoro, la riflessione sugli strumenti di esso in rapporto alle loro signifìcanze ideologiche e culturali.

3. La festa del potere: Re Carnevale, il sublime-comico Ciò che separa Volonté dalle altre figurazioni grottesche o cari­ caturali degli attori della commedia è proprio il suo raggiungere la perfezione della maschera, la totalità della mimèsi e, di conseguen­ za, l’assoluta indifferenza rispetto al modello. Sordi, Manfredi, Gas­ sman funzionano nella tipologia di genere come supporti di italia­ nità: sono i mascheroni (usiamo questa differenziazione lessicale maschera/mascherone), grotteschi, dell’italiano connotato dal suo essere di classe. Questo è il segreto della commedia all’italiana: riorganizzare al livello del simbolico un ordito di classe attraverso una fisiognomica di classe. I rapporti con la commedia dell’arte sono evidenti. In essa calcavano il palcoscenico i mascheroni dei mercanti e borghesi in ascesa: Balanzone, Gianduia, Pantalone, Brighella, Meneghino altro non sono, lo si sa, se non le proiezioni sulla cartapesta dei vizi della nuova classe di potere. Il che significa l’assurgere dei vizi a valori, attraverso il loro accedere all’ordine simbolico proprio della scena. Ma la funzione di maschera riporta ad una teatralità ben più an­ tica di quelle della commedia dell’arte, con radici nelle rappresen­ tazioni latine ed italiche delle “atellane” e degli antichi mimi. La loro connotazione sociale avverrà in tempo assai tardo, col nascere appunto della commedia dell’arte, attraverso la redistribuzione del­ le parti in commedia: Pulcinella e Arlecchino, «larve», «anime di

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morto» - come nota Paolo Toschi in Le origini del teatro italiano - vengono disinnescati nella loro violenza immaginaria per fungere da spalla alla nascente costellazione di padroni (servo vostro/padron mio!). Del resto per lo stesso Croce Pulcinella era il sottoproletario napoletano. Per capire, dunque, la signifìcanza più antica della maschera di Pulcinella occorre risalire a manifestazioni ritualistichedel fatto tea­ trale e quindi alle originarie potenzialità della funzione di maschera, nel suo spostamento dal rito religioso a quello teatrale. In questo senso una massima di La Rochefoucauld può condurci per mano nell'universo enigmatico del mascheramento: «Ni le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement». Se si pone mente alla struttura metaforica della frase, in cui «sole» sta per «Re Sole», la si può così risolvere: né il Potere né la Morte si possono guardare fissamente. Per accedervi, cioè, occorre scher­ marsi: la maschera nel rito non designa nulla all’infuori del gioco del desiderio stesso di sussumerla per accedere a ciò che essa sta a rappresentare. Il vero effetto di maschera, e quindi la vera essenza della funzio­ ne di Pulcinella, non è perciò di “contraffare”, “caratterizzare”, ma piuttosto di inscenare una disdicenza della soggettività. Grazie ad una maschera, morti, larve, fantasmi di sé, impersonano (persona in latino vuol dire maschera) l’oggetto del desiderio: con ciò si intra­ prende il gioco della assoluta mimèsi. Che è, nel medesimo tempo, la tragedia della mimèsi. Ritorniamo un momento sui nostri passi. Quest’ultima relazio­ ne è cruciale per comprendere l’intrigo dell’enunciato politico così come è venuto a radicarsi nella scena teatrale italiana. E lungo tale asse analitico che si possono tendenzialmente discernere le tracce fantasmatiche che permeano gli universi della commedia all’italiana e del cinema politico italiano. Essenziale diviene riflettere sulla “ma­ schera” di Volonté e sul suo effetto di scrittura all’interno della rap­ presentazione del politico. Quando in Todo modo Volonté assume la maschera di Aldo Moro non comporta per nulla l’inscenamento in modo grottesco di un uomo del potere democristiano: VolontéMoro altri non è, invece, se non Re Carnevale. Re Carnevale, l’antesignano di Pulcinella, il suo proto, introduce a parlare del rito festivo. L’uomo che si camuffa derisoriamente, si paluda da Re, catalizza nella sua persona i desideri della comunità

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in ordine al potere. La festa è il germe propulsore del rito della mascheratura, nella fase della sua teatralizzazione pubblica, e la fonda come esperienza totale. Essa è, in termini di antropologia culturale, l’agone che il collettivo si ritaglia al fine di mettersi in scena come potere: al fine di rappresentare, ovvero essere e dire l’oggetto d’amo­ re. Il transfert avviene per il tramite del pupazzo, del Re Carnevale, di chi ne fa le parti in commedia: homo che sefa rege. Attraverso uno schermo, un travestimento, una disdicenza del sé, si può guardare fissamente, si può dire, il potere. La festa è perciò l’avventura imma­ ginaria del suddito ma anche la sua tragedia, il suo scacco radicale, la sua mancanza ad essere che si inscena nello stesso recinto spazio­ temporale. Per capire il tragico che sottende tale esperienza dei limiti dell’i­ dentità del collettivo occorre accantonare una lettura sociologica del rito festivo e valutarlo sulla base di altre suggestioni. Quelle offerte dalla psicoanalisi e in particolare da uno dei gangli della teoria anali­ tica: la festa è la scommessa in perdita del soggetto di rappresentarsi come funzione totalizzante, come Padre, come Io Ideale, come de­ tentore del Fallo (da notare che Pulcinella indossa una mascherina dal naso prepotentemente esposto). Esiste dunque una relazione tra Festa/Camevale/struttura dell’Edipo, ma è importante dire che la posta in gioco della rappresentazione non è la figura del Padre-reale (risvolto sociologistico). Scrive infatti Fontana: Il rancore del Servo si consuma neH’identificazione fugace con Ie ima­ gines del Padrone; uno stesso spazio li accomuna nella scena dell’immaginario.1 Si «consuma». E ciò comporta che la festa non riguarda il rappor­ to servo/padrone dal punto di vista della presa del potere-reale, poi­ ché il politico-reale è proprio quello che la scena immaginaria tende ad escludere dal proscenio, a mettere fuori-quadro. Re Carnevale non è la messa (in scena) alla berlina del Re-reale/Padre-reale ma il tentativo sul registro dell’immaginario - e dunque dell’impossibile isterico - di padroneggiare il Re comefantasma di Re. Già Goethe, in un brano dei suoi diari italiani, aveva operato il collegamento tra di­ scorso festivo e discorso del desiderio, proprio muovendo da osser-*

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A. Fontana, Storia d'Italia, 1, Einaudi, Torino 1972, p. 805.

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vazioni sulle feste romane in occasione del Carnevale. Era usanza, nella Roma papalina, celebrare la fine del Carnevale e il passaggio alla Quaresima con una fiaccolata, aH’imbrunire, detta «la festa dei moccoli». Scrive Goethe:

A questo punto ognuno si fa un dovere di portare in mano un moccolo acceso e da tutte le parte echeggia l'interiezione favorita dai romani:Sia ammazzato chi non porta il moccolo!" grida l'uno all’altro cercando ognuno di spegnere con un soffio il lume avversario...tutte le classi, tutte le età sono in armi l’una contro l'altra; il bimbo spegne il moccolo a suo padre e non cessa di gridare: “Sia ammazzato il signor padre!”?

Quale miglior descrizione della fantasmatica dell’Edipo? Uccide­ re per subentrare nel Tutto paterno. E, ancora, Jacques Lacan così affrontava i suoi allievi sessantottini:

L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.34

Questo nodo pulsionale conduce il nostro esame al punto nel qua­ le ci eravamo dati appuntamento: anche il problema della maschera concerne il sintomo discorsivo dell’allegoria. Re Carnevale ne è la cifra, doppiamente, in quanto rappresenta il tentativo di incarnarsi nel tutto del desiderio facente capo al soggetto in ordine al Politico. E questo nella prefigurazione di natura isterica che quella totalità, quella assolutizzata verità sia inscenabile. Qui, precisamente, si situa il paradosso dell'allegoria: per dire il tutto, la verità del Potere, non si dice nulla del potere-reale. La scena festiva, quindi, dal punto di vista della politica-reale non è un fatto trasgressivo, o, peggio, rivoluzionario. Ché, anzi, è il gesto conferma­ tivo di una dipendenza fantasmatica. Il ragazzo romano di cui parla Goethe consuma il suo parricidio nella invocazione. Così i giovani sessantottini. La dinamica pulsionale del soggetto e del collettivo disdicono il reale-politico rappresentandone il simulacro. Come tale l’allegoria 3 4

J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Sansoni, Firenze 1969, p. 1000. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino, p 259.

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festiva, dell’enunciato politico, ha per effetto di introdurre, nella scena, il Politico come fantasma del politico-reale. Ma quest’ultimo ricompare come effetto di ritorno nella rappresentazione. E il suo “effetto di ritorno”, o après coup, consiste precisamente nell’impra­ ticabilità dell’allegoria, ovvero nell’impossibilità per Re Carnevale di trattenere le fattezze di maschera. Ci si accosta così all’altro risvolto, il rovescio del Carnevale: la Quaresima come gioco del lutto, mor­ tificazione, effetto di morte nella rappresentazione. Poiché lo scol­ lamento tra mascheratura e rappresentazione ideale designa l’espe­ rienza della festa come derisoria per il soggetto. A Carnevale succede Quaresima, il tempo della contrizione conseguente alla bestemmia. Al tutto del desiderio subentra la sua radicale negazione. Se la festa è il tentativo di accedere a una dimensione che si può chiamare del sublime, perché è un’esperienza che fa a meno del prin­ cipio di realtà, lo esclude, il suo contraccolpo si spalanca al comico nell’enunciato. Nell’intervallo, nella fessura che si apre nella funzio­ ne sublime dell’allegoria, si introduce il tarlo derisorio del reale, il quale “risputa” nella scena da cui era stato tenuto lontano e ne mina le basi. La maschera di Re Carnevale si squaglia per un processo de­ generativo del trucco; Veffetto di cerone interrompe la drammatiz­ zazione sublime e tende a trasferirla sul versante dell’escrementizio, del basso. Qui s’annida il comico, rivincita del reale cacciato dalla porta. È il resto che si voleva abolire, censurare, da cui ci si voleva preservare. Questa ambiguità del sublime/comico è curiosamente evidente se pensiamo che l’etimo della parola “lazzi” deriva, per To­ schi, da lacci, legami: del/al desiderio, si direbbe. Re Carnevale na­ sce bifronte, è “tagliato”.

4. L’ascolto politico del cinema politico: criminalizzazione/santificazione. La scrittura di Elio Petri

Le considerazioni sulla festa sono indispensabili preliminari ad ogni trattazione sul cinema politico italiano. Esso rappresenta l’a­ gone del collettivo, attuato, per il tramite dello spettacolo cinema­ tografico, al fine di specchiarsi (“specchio” e "spettacolo” hanno lo stesso etimo) come Potere, di raffigurarsi tale al centro di un palco­ scenico immaginario che ha per quinte le nostre città, i nostri palaz­ zi del potere.

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Ma come abbiamo visto la scena festiva è anfibologica, sublime e comica, vive di altalenanze e sovrapposizioni, si regge su un effetto ipnotico di credenza. E dunque tutto ciò che conseguenze comporta sull’enunciato ideologico del cinema politico? Solo battendo que­ sto sentiero misureremo quanto la pratica di scrittura di Petri si al­ lontani da altri testi, apparentemente consonanti, e quanto essa sia avanzata per il dibattito teorico. Ossia, parlando di questi film non ci si può ormai limitarea intervenire criticamente sul testo-film, sul­ la sua correttezza di analisi politica, sulla sua poeticità. Far questo vorrebbe dire non prendere in nessuna considerazione il fatto che a fronte di un testo politico sta una domanda politica (non soltanto, attenzione, un “consumo ideologico”). Alla parola politica risponde uno spazio di rifrazione (ed anch’essa è testo da “leggere”) coinvol­ gente lo spettatore e il suo desiderio in ordine al Politico. È questo il nodo dell’ascoso politico. Ne consegue che tali film non attengono soltanto alla politica come mobilitazione ideologica di massa, nel­ la contingenza tattica o nella strategia della lotta democratica, ma sono un rilevante fenomeno riguardante le categorie di pensabilità del Potere che lega il soggetto al sociale, il cittadino ai suoi fantasmi amorosi, poiché ogni “laccio” è d’amore, necessariamente. La traccia coinvolge le categorie della psicoanalisi, essa solo potendo sciogliere la complessa relazione di desiderio/godimento/potere. La cifra, lo specifico indice retorico dei film, riporta, abbiano vi­ sto, a un ordine di discorso allegorico-isterico in quanto si situa nei confronti del reale-politico nel luogo di una risposta impossibile e il disagio che si vorrebbe padroneggiare (storico, ideologico, politico) non circola che come sintomo inassumibile. Il voler dire, le mozioni d’affetto, che li traversano, sono il tentativo di accordare la materia eccentrica della cronaca italiana, disporla euritmicamente sulla sce­ na, fame oggetto di rappresentazione e di discorso “organico”. Altri­ menti detto, architettare una scena in grado di storicizzare i sintomi del reale, evocando su di esso un presunto Sapere, un “ordine del discorso politico". Sono evidenti i rapporti con la dinamica dell'isteria quale Freud la descrive nel caso Dora. L’isterica è dominata dall’istanza di pa­ droneggiare i sintomi del disagio sessuale all’interno di un apparato discorsivo che coniughi i sintomi stessi con la cronaca, il “vissuto” proprio: nel caso, con le esperienze traumatiche dell’infanzia. La preoccupazione (e la conseguente occupazione aftabulatoria) di

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Dora è di costruire un quadro fantasmatico che possa dirsi fondan­ te rispetto all’evolversi della sintomatologia che l’affligge. Si tratta di fantasmatizzare, appunto, l’esistenza di una “scena primaria” che funga da origine nosologica (secondo uno strettissimo rapporto causa-effetto) del suo disagio. Tale è la scena del coito con il padre. Dora esibisce al suo uditorio (lo psicanalista) un sapere, “supposto” sapere, fantasma di Sapere, Sull’Origine che dia conto del movimen­ to impadroneggiabile della sua angoscia. Tenta così di instaurare un rapporto che “tenga” tra cronaca e mitologia della cronaca, ovvero storia. L’analisi di Dora è il grande insuccesso di Freud. Lui stesso, in seguito scoprirà che il suo scacco derivò dall’aver dato credito alle narrazioni della paziente: dall’essere stato giocato, lui, l’analista, dalla propria credenza nei confronti del discorso isterico. Di aver “creduto” insomma alla scena primaria, ad una verità storica in rap­ porto causa-effetto con la sintomatologia. Infatti che cercava, ansio­ samente, Dora dal suo uditore? Non la risposta bensì la domanda di risposta esibita in funzione di un ascolto, di cui Freud era il depo­ sitario privilegiato. Egli sbaglia l’analisi - come osserverà - perché confonderà l’urgenza di una domanda sull’angoscia, rivolta all’ana­ lista, con una risposta-trabocchetto. Ossia, cade nell’equivoco del “testo” (nel caso, la parola di Dora), lo interpreta, lo “avvalora”, san­ cisce il suo presunto sapere e, in questo modo, lui stesso precipita nel meccanismo del discorso isterico. Per cui: l'enunciato isterico è il fantasma dell’enunciato isterico dell’Altro. Ne segue che: il cinema politico è ilfantasma del desiderio politico del Cittadino. Esso è per l’uditorio, gli spettatori, i soggetti del collet­ tivo, un testo bianco su cui scrivere il proprio gioco pulsionale. È l’e­ sca, il transfert perché l’amore del potere del cittadino possa trovare uno spazio privilegiato. Da una parte sta, dunque, il voler dire del testo, dell’autore, il proprio engagement civile, il proprio disagio da suturare "storicamente”, interrogando la cronaca nera della nostra vita democratica, cercando una risposta da offrire all’ascolto. Dall’al­ tra sta il disagio dell’Altro, disposto, desideroso di cadere in un ulte­ riore effetto di credenza che lo garantisca dalla “sua” angoscia. Sono queste le riverberazioni del testo-film (testo anch’esse), nel misconoscimento nel quale cade la critica che tenta di dire qualcosa circa una “bontà” o “cattiveria” in rapporto alla strategia, alla tattica della lotta politica, ideologica, democratica. L’effetto di credenza,

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da cui il critico - come l’analista, come il cittadino - non è immune, porta alla criminalizzazione o alla santificazione (secondo le chapelles d’appartenenza). L’esempio di questo è l’intervento citato di Billard, il quale incolpa i registi italiani di aver posto sotto accusa le istituzioni indebolendo, così, il senso dello stato al punto da poter essere additati come complici, fiancheggiatori (quante volte abbia­ mo sentito questa parola, dappertutto!). Billard - la sua isteria - as­ sume come “risposta” la “domanda” e, di contro, rilancia una "rispo­ sta” che altro non è se non una “domanda” ancora....Ma ecco, nel punto l’affiorare del sintomo isterico dello scritto: Chi ha realizzato un In nome del popolo italiano che esprimesse il gri­ do di angoscia e di riprovazione che sale da ogni parte d’Italia, in mezzo alla grande confusione di opinioni?

Ma Billard stesso! Colui che prende la parola e dice la scena del politico nel nome del Nome: il Popolo, il Collettivo di cui assume sul versante della mozione isterica il desiderio. Billard-Re Carnevale.

Ma rieccoci alla domanda prima, perché scrivere oggi su Petri. Perché è l’unico regista che abbia la statura intellettuale per abitare il vortice motoso del discorso politico senza esser vittima del gio­ co isterico. È l’unico regista in grado di padroneggiare la messa in scena del delirio attorno al Politico cavalcandone la “disseminanza”. È l’unico regista che sfida la scena carnevalesca, gestendone l’anfi­ bologia. Se il cinema politico italiano si caratterizza infatti, come abbiamo visto, nel conflitto che si instaura nella rappresentazione tra mozione del sublime e suo contraccolpo quaresimalista e quindi luttuosamente comico, la logica del sublime, che più paga e appaga, nella maggior parte di questi film tende a condensarsi istericamen­ te. Ne consegue il prevalere dell'ideologia, come falsa coscienza, e dell’appello. Il gioco di maschera che esso propone è sempre desti­ nato alla tragedia, alla Quaresima, alla conferma fantasmatica del “sistema” contro cui si rivolta. L’enigma della società politica italiana si riconferma come tale, in quanto l’assunto di credenza non vie­ ne messo in questione. Questa dialettica non risolvibile è invece il centro stesso del meccanismo scenico dei film di Petri. Laddove, in tutta la produzione che esaminiamo, permane come sintomo, come discorso in perdita. E di perdita.

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Prendiamo come esempio l’importantissimo Mani sulla città di Francesco Rosi. Il problema della “maschera” vi si presenta suo mal­ grado. Il personaggio principale è un imprenditore edile napoletano, privo di scrupoli, che si muove, con boria capitalistica, negli intrighi del sottogoverno laurino-democristiano degli anni sessanta. L’attore che lo impersona è Rod Steiger: la recitazione e la gestione del corpo tendono, secondo quanto detto, ad una sorta di realismo totalizzante, con l’imago dell’uomo di potere. La tensione della maschera produce, di contro, un surplus di signifìcanza che incrina l’“idealità” della rap­ presentazione e la fa spostare su un versante non gestito del comico. Il cinema di Petri è, al contrario, registrato sul padroneggiameto di un’oscillazione permanente, si muove incessantemente sull’alter­ nanza di effetti di sublime/comico. Strumento principe di questa poetica che si fa scrittura è la facies di Volonté marcata dall’altalenanza pulsionale che lo traversa. La maschera sublime (il funziona­ rio della Politica in Indagine, l’operaio Massa in La classe operaia va in paradiso, Aldo Moro in Todo modo) è lavorata dalla perdita, dalla degradazione dell’ideale nella materia. Ricordiamo qualche sequenza esemplare per ciò che andiamo di­ cendo: in Indagine l’arrivo dell’ispettore alla Questura ed i festeggia­ menti dei colleghi per la sua promozione a dirigente della sezione politica; ne La classe operaia l’intervento di Lulù Massa al consiglio di fabbrica (un gioiello: l’incrinatura del tono di voce, da sostenuto allorché domanda di parlare a naturalisticamente velato e impac­ ciato appena prende in mano il microfono); in Todo modo, infine, la strabiliante sequenza in cui Moro-Volonté decifra al commissario inquirente l’enigma della iniziale del nome dei cadaveri. Ma non è solo Volonté che regge l’intero peso della scena petriana: Salvo Ron­ done e Mario Scaccia sono maschere classico-sublimi poste in un agone prossimo al “fescennino”. Gigi Proietti è, infine, la moderna propaggine di quella teatralità. Ma la scelta di Petri di praticare la scena carnevalesca ha un’ulte­ riore valenza. De) Carnevale scorge un momento fondamentale: esso dice il suo delirio sempre al presente. Ovverosia l’immaginario si fon­ da sull’attualità della politica-reale; Re Carnevale è il travestimento del Re attuale. La scena carnevalesca si dice nella contemporaneità della scena reale. Ne consegue che Petri è l’unico regista che coniu­ ga il suo cinema con gli avvenimenti attuali della vita del paese: gli scontri tra polizia e movimento studentesco (Indagine), la lotta per

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il contratto (La classe operaia), la crisi di regime (Todo modo), e a seguire la lotta ideologica terribile tra gestori di compromessi storici (Hoederer, il politico mediatore dalle mani sporche, come Togliatti e poi Berlinguer) e le frange estremiste del movimento (Hugo, proto brigatista) in Le mani sporche di Sartre. E questa una riflessione importante per situare il cinema del re­ gista. La messa in scena dell’impossibilità del desiderio, di dire il Politico-reale, il Potere-reale, fa si che Petri, in questa prospettiva, analizzi una fenomenologia del bisogno-politico quale si è prefigu­ rata a partire dalla "festa sessantottesca”. Il ’68 come spazio festivo: le piazze le strade d’Italia battute da un’onda delirante, conclamatesi Potere. E torniamo così alle parole definitive di Lacan. Come non scorgere in questo fremito isterico che scuote, per certi versi tutt’oggi, il Collettivo, il popolo italiano - direbbe Billard - la cifra mortuaria che lo marca rispetto al Potere-reale che fa capolino, di ritorno, con la maschera derisoria della razza padrona? Come non scorgere, a proposito di Todo modo, la contrizione quaresimalistica, il gioco del lutto inscenato dal Collettivo per la perdita del Re-Reale Aldo Moro? 11 corpo sociale “amoroso” acefalo: dopo la grande be­ stemmia, l’uccisione del facente funzione del Re Carnevale, appunto la Quaresima. I registi italiani del cinema-politico hanno letto l’invocazione ri­ bellistica in termini di risposta, Petri l’ha letta in termini di doman­ da, quale disagio e pulsione di morte, di cui è intessuta. Proverebbe quest’assunto uno dei suoi film più lividi, La proprietà non è più un furto. Film fondamentale, assieme a Todo modo, per comprendere la fantasmatica attorno al politico e al privato come politico degli ultimi dieci anni della nostra vita democratica. La mia visione del cinema di Petti è quella di un cineasta, di un in­ tellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza.

5. L’oggi di Petri. Margini

Il rumore della piazza, il film politico, non precludono a Petri un ascolto differente. Esistono corde private, non iscritte brutalmente

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sul proscenio della vita pubblica nazionale, che pur supportando il tessuto poetico del suo cinema politico trovano tempi, storici e psicologici, in cui diventano dominanti. L'oggi di Petri è uno di questi momenti. Non è un processo recente. £ la riapertura di una ferita solo in ap­ parenza richiusa; è il ritorno a riflessioni risalenti ad una giovinezza segnata dal persistente pensiero sull'esistere. Petri apre il fascicolo concernente se stesso, offre l’altra guancia al narcisismo senza remo­ re. Si parla spesso da parte di nuovi analisti di movimenti di ritorno al privato, riflusso dal politico, disinganno, stanchezza, ripresa di cinismo...5 È il caso di Elio Petri? Direi assolutamente di no. Il ritorno ad un discorso sul Soggetto, chiamiamolo per comodità “privato”, che segna oggi la pratica intellettuale del regista consegue ad una lunga paideia in rapporto al proprio lavoro. Il segno di questa maturità interiore è data dalla complessa fatica, dal lavoro che pre­ cede la fase finale della sceneggiatura definitiva dei suoi ultimi film. Esistono nella biblioteca del suo studio, quaderni preziosi per dire Petri: sono note, appunti, rilievi, ipotesi, soluzioni, risoluzio­ ni riguardanti i soggetti in fieri; ma questi sono ugualmente diari, pensieri, confessioni che registrano momenti di eccitazione e delu­ sione, biliosità, acrimonia, angoscia, disgusto (la sofferta gestazione di Todo modo) e contentezza per intrighi che paiono dipanarsi. Sono insomma un testo, una pratica di scrittura. Ovverosia un lavoro con­ tinuo di autoanalisi.6 In questi quaderni sta il secretimi del Petri autore oggi, la sua di­ sposizione, sempre più accentuata, ad affidarsi al testo scritto. Da La proprietà in poi, per la testimonianza che le sue scritture offrono, ogni film nasce preceduto da un lungo iter contorto e contraddit­ torio che da una parte origina una sceneggiatura, un film, dall’altra designa una regione autonoma in cui giochi lo stile. È da ricordare che de La proprietà è stato pubblicato il “romanzo”. Esistono, a mio parere, delle riverberazioni di questa disposizio­ ne, siano esse più o meno dirette. Sembra anzitutto che, oggi più che mai, Petri voglia mettersi in gioco, in prima persona, totalmente.

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Era uscito, in quel periodo il il volume di autori vari II trionfo del Privato, Laterza, Bari. Oggi moltissimi di questi testi sono raccolti nei fondamentale volume Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, op. cit.

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Con La proprietà cessa la collaborazione straordinariamente vitale con Ugo Pirro (importantissima per il cinema italiano): La proprietà è una co-sceneggiatura ma proprio in quella lavorazione si incrina, se non un’amicizia, un fecondo rapporto di lavoro, che si interrom­ perà. definitivamente. Scrive Pirro:

Pochi indizi ha lasciato delle ragioni che lo indussero a troncare la nostra collaborazione, ma non la nostra amicizia e la reciproca stima che ci aveva uniti. Forse si scontrarono due ostinazioni, oppure, nel frat­ tempo ognuno di noi era tanto cambiato che nessun progetto di film poteva essere condiviso. Un giorno da Napoli mi mandò a dire, serven­ dosi di un comune amico, che mai avrei trovato un regista come lui, così come lui non avrebbe avuto più uno sceneggiatore come me. Ed io pubblicamente più volte dissi che la mia esperienza di lavoro con Elio restava unica ed indimenticabile.7

Forse già La proprietà è film troppo delirante, lividamente deli­ rante, per sopportare un’equa distribuzione delle parti. Anche Todo modo nasce come spettro individuale, incubo che ri­ guarda la visceralità più esclusiva. Scrive Petri, aprendone il giornale di bordo:

Roma, il 18 Febbraio 1975. il blocco, signori, è quasi totale. E per sva­ riate ragioni. Psichiche, forse, in primis... 11 rapporto con un tema da svolgere, da analizzare, con i materiali da formare, è un rapporto ses­ suale, ossia, è un rapporto di desiderio che mena fino all’eccitazione, un legame carnale, spesso orrendo, solipsistico, l’appuntamento con fanta­ smi. Ora va detto che sono piombato in una grave forma di frigidità, tut­ to mi piace, e mi sembra narrabile e cinematografabile, ma senza pre­ ferenze reali, debolezze, rossori, senza i sensi, senza la “mia” sessualità. L’espressione «la "mia” sessualità» ci invita ad interpretare la fine del rapporto con Pirro (e la collaborazione di Berto Pelosso) qua­ si come esigenza di gelosa riappropriazione e gestione esclusiva dei propri fantasmi. All’inizio del ’79, terminate le riprese di Mani spor­

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Brano tratto dal bel volume dedicato a Petri pubblicato, nel 1983, dalla Biennale Cinema, curato dallo stesso Pirro, in occasione della retrospettiva dedicata al regista nell’ambito della XL Mostra Intemazionale del Cinema di Venezia.

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che, Petri era stato interpellato per girare La vita interiore, dal ro­ manzo di Moravia uscito Fanno precedente. Nonostante l'amicizia con lo scrittore, il fascino e la fortuna del romanzo, aveva declinato l’offerta. È questa, forse, una conseguenza del rinnovato patto con se stesso di portare alla luce, a tutti i costi (rinunciando, per esempio, ad occasioni come La vita interiore), con tutti i rischi, il sé marginale e segreto, i propri fantasmi appunto,ovvero i soggetti amati, coltivati e mai ancora nati perché “coperti” da rumori più forti (quelli della piazza) oppure da mancate convergenze di fattori. Sono i soggetti più ossessionali: legati a doppio filo alle allucinazioni de La proprie­ tà. Pirro, a proposito di questo apparente ripiegamento, di questa che chiama «chiusura in sé stesso, laddove nessuno poteva raggiun­ gerlo» scrive che:

l'evolversi della sua crisi esistenziale, che aveva motivazioni moltepli­ ci e di difficile decifrazione, anche per le persone che più erano legate a lui, proprio perché egli lasciò sempre pochi indizi dei suoi avvenimenti dell’anima.8 Prima di firmare il contratto con la Rai per Le mani sporche di Sar­ tre, aveva a lungo tentato di mettere in piedi Zoo, la storia di una uomo che si fa rinchiudere in una gabbia per le scimmie e là vive. In questo movimento, dunque, la spinta a girare Le buone notizie. Un film su desolazioni privatissime e privatissime sublimazioni di un intellettuale nella maturità. Una riflessione sull’uomo in senectute (senectus romana, cinquantanni) che doveva avere per protagonista un antico compagno e grande amico (Marcello era stato tra l’altro il testimone delle sue nozze con Paola Pegoraro) Marcello Mastroianni. I legami affettivi fra i due sono importantissimi per i destini dell’i­ mago di Mastroianni nei film di Petri. L’attore è, come vedremo, l’altra fàccia di Volonté: se quest’ultimo è la maschera del politico, Mastroianni lo è del privato. Ma un privato legato a doppio filo con il politico: un privato appartenente al dominio del conflitto attorno ad un’idea di morale possibile nel reale e di chiusura del Soggetto nel reale. Dunque nulla a che fare con modelli di introversione piccolo borghese, ma un privato giocato dalle contraddizioni tra il principio di realtà e le istanze anarchiche, violente e luttuose, di cui Elio è 8

Volume della Biennale Cinema, op. cit.

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attraversato. Rappresenta sulla scena la nota di violoncello, la cor­ da grave, del troppo umano, niccianamente inteso. Matroianni con Petri già da Todo modo, si libera del suo versante oblomovista, in parte presente anche ne L’assassino. 11 prete spietato di Todo modo, che persegue, tortura e colpevolizza i politici riuniti per gli esercizi spirituali, è terribile e spiazzante e analogamente violento per for­ za e sarcasmo è l’Hoederer di Mani Sporche. Marcello rinasce come attore forte, violento, luciferino. Proprio questo film è la chiave per capire come l’ascolto del privato in Petri non sia un fenomeno di “riflusso”, di introversione, bensì di speculazione su due universi fantasmatici che si sovrappongono e configgono, la soggettività e il politico. Il melodramma politico di Sartre si interseca, è traversato dal kammerspiel: continua coniugazione delle istanze de) privato e del pubblico-politico, scene complementari, poli pulsionali, del conflitto tra desiderio in capo al soggetto, nel e del collettivo. Buone notizie era pensato per Marcello ed aveva una sceneggiatura straor­ dinaria assai vicina all’ultimo Bunuel, liberato nella forma del dire e totalmente anarchico nel pensiero. Ancora per Marcello era pen­ sata l’ultima sceneggiatura compiuta: Chi illumina la grande notte, viaggio allucinato e criptico nella notte della cecità dei protagonisti, vera e metaforica, in una Roma dei cunicoli e delle bruttezze, nella violenza efferata ma al fondo derisoria del mondo vissuto e pensato come buco ontologico.

SETTORE PRIVATO

i. Il riconoscimento. Ifatti d'Ungheria. La rivista «Città aperta»

Prefando il libro di Elio Petri Roma ore undici uscito nel 1956 per le Edizioni Avanti’, nella collana «Il Gallo», scriveva Giuseppe De Santis: Nessun riconoscimento è mai toccato all’inchiesta di Elio Petri, tran­ ne il nostro. Fino a ieri si intende, poiché uno davvero sostanziale gliene viene dalla pubblicazione. Io mi auguro che la sua lettura farà valutare a tutti concretamente quanto il film e i suoi autori debbano ad essa e quanto il lavoro dell’inchiesta possa esser utile alla tendenza realistica.

Un riconoscimento, una pubblicazione; l’adesione ad una corren­ te o forse ad uno stile di lavoro. 111956, anno dell’uscita del libro, è dunque per Petri una data importante che lo designa e come autore e come uomo di cinema. Ma il film di cui parla De Santis, Roma ore Undici, è del 1952, l’inchiesta di Petri e la sua conseguente collaborazione alla sceneggiatura, ancora di poco, precedenti. Prima che il nome di Petri fosse riconosciuto del lavoro era stato già prodotto. Nel 1952 Petri ha ventitré anni (è nato a Roma il 29 gennaio 1929), proviene da esperienze di militanza nel PCI e, più privatamente, di militanza di cinefilia. A diciassette anni partecipa attivamente al referendum, monarchia-repubblica; con altrettanta partecipazione segue nel 1945, al cinema romano «Quirino», un festival in cui sono presentati i grandi film del momento, da Les enfants du Paradis a Roma città aperta: «Sono andato a vedere tutti i film di quel festival e quello che mi marcò fu Roma città aperta»'.

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Dal volume Elio Petri, testo collettivo diretto da Jean Gili, Nizza 1974. Le dichiarazioni prive di citazione si intendono tratte dalla fondamentale intervista di Gili in questo libro.

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L’interesse per il cinema e la spinta ideologica gli fanno tentare il lavoro giornalistico ed abbandonare definitivamente gli studi (Istitu­ to Tecnico superiore); riesce a diventare vice di Chiaretti a «l’Unità» e dirigente della federazione dei cineclub. In quegli anni gestisce poi la distribuzione dei film sovietici in Italia, per conto della Libertas Film, che ne aveva l’esclusiva nazionale. Chi lo introduce nel mondo del cinema è l’amico Gianni Puccini, già direttore della rivista «Ci­ nema» e sceneggiatore, con Visconti, Alicata, Pietrangeli e Giusepe De Santis, di Ossessione. Puccini lo presenta anche a De Santis. È un incontro importante; l’inizio di un rapporto che nel tempo diventa assai più di un legame di lavoro, «per me - dice Petri - fu più che un fratello», e che si conclude nel ’60 un anno prima del L’assassino, ov­ vero de) momento in cui Petri si espone in prima persona. De Santis gli affida l’incarico di condurre una inchiesta su un fatto che aveva fatto scalpore. Su un quotidiano romano era comparsa un’inserzione per un posto di dattilografa; si presentarono al villino indicato più di duecento candidate che affollandosi sulle scale, forse pericolanti, ne provocarono il crollo. Le conseguenze furono settantasette feriti e un decesso. Petri si dà il compito di indagare le motivazioni sociali, psicologi­ che ed economiche che avevano condotto, di fatto, al disastro. L’in­ chiesta la si potè leggere, dunque, solo quattro anni dopo l’uscita del film, che peraltro riscosse successo. Oggi il libro suscita strani effetti "d’ascolto” che contraddicono la petizione realista della prefazione. De Santis, se realista era, lo era ad un livello altissimo di sofistica­ zione, inclinando a mitologizzare, a far emergere il livello simboli­ co degli intrighi (basti pensare a Riso amaro, più simile ad un film giapponese che ad uno di scuola italiana), e il film si compiaceva di provocare incrinature sul narrato attraverso le investigazioni della macchina da presa sugli effetti “clinici” del crollo, sui corpi martoria­ ti, sulle ferite delle vittime... Altrettanto il testo di Petri, che ha un’economia interna di dis­ seminazione rispetto all’inchiesta stessa. Il perché dell’accaduto, le responsabilità, si perdono nella serie di colloqui che Petri intrattie­ ne con alcune delle protagoniste e le loro famiglie: l’interesse per l’avvenimento è in tutti lontano, logorato, persino nel ricordo, dal reale incombente. La dominante di queste narrazioni è il bisogno del denaro, tanto che, in più casi, la sola possibilità di ritornare con la memoria a quel giorno è legata all’ansia del conto dell’ospedale da

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pagare. La realtà sociale determinante la tragedia, viene così ritro­ vata, attraverso la sua perdita, nella condensazione di un significan­ te: il denaro. Dunque, il libro desta tutt’oggi interesse e curiosità di lettura per la sua capacità di non servire un progetto di inchiesta, di non cercare risposte predeterminate, ma di lasciarsi lavorare da essa: l’oggetto del libro non è il fatto accaduto a Roma, circa alle ore 11 di un determinato giorno, ma l’elaborazione fantasmatica dei protago­ nisti intorno al fatto stesso e alle sue conseguenze. Dopo il film, De Santis e Petri collaborano ancora a Un marito per Anna Zaccheo, 1953, Giorni d’amore, 1954, Uomini e lupi, 1956. e ancora: La strada lunga un anno, 1958, La garsonnière, i960. In questi anni d’apprendistato Petri gira due cortometraggi: Nasce un campione, 1954, / sette contadini, 1957. Il primo fu prodotto dallo stesso Petri, Zavattini e De Santis e racconta come nasce un ciclista professionista: vent’anni fa il cinema era ancora un mestiere da apprendere, una tec­ nica da sperimentare. A quell’epoca girare cortometraggi era una tappa obbligatoria sulla strada dell’apprendistato tecnico-professionale.

Il secondo riguarda i sette fratelli Cervi e fu prodotto dalla Asso­ ciazione Nazionale dei Partigiani d’Italia: realizzai questo film in un momento politico molto oscuro, imme­ diatamente dopo gli avvenimenti d’Ungheria, come per dimostrare che la mia dissidenza nei confronti del PCI non aveva attenuato il mio im­ pegno politico. 1 fatti d’Ungheria: un nodo del rapporto fra intellettuali e PCI. Ed Elio Petri vive in prima persona il conflitto ideologico che viene a crearsi fra la posizione ufficiale e la militanza dissidente. I) libro Intellettuali e PCI 1944/1958 di Nello Ajello è prezioso per sbrogliare tale intrico cruciale. Il 23 ottobre 1956, con una dimostrazione di intellettuali e operai in appoggio al ritorno al potere in Polonia di Gomulka, vittima dello stalinismo, ha inizio la rivolta d’Ungheria. I quadri del PCI, Togliatti in prima persona, con l’eccezione del sindacalista Di Vittorio e la perplessità di Davide Lajolo, allora direttore de «l”Unità» milane­ se, assumono la tesi sovietica della «controrivoluzione» in atto per mano di gruppi armati formati da «elementi ostili alla democrazia

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popolare»? Tra il 28 e il 29 d’ottobre i quadri intellettuali del PCI romano tentano di differenziarsi dalla linea togliattiana. La fronda si aggrega attorno a un testo stilato da Carlo Muscetta, Lucio Collet­ ti, Luciano Cafagna ed altri. Centouno intellettuali lo firmano, sarà il cosiddetto manifesto dei 101: tra essi Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa, Alberto Caracciolo, Renzo De Felice, Renzo Vespignani ed Elio Petri. Il documento per una fuga di notizie, viene diramato dall’agenzia Ansa. Ciò provoca una dura reazione da parte della dire­ zione del partito e crea "un caso di coscienza” in alcuni firmatari che intendevano dare al documento una funzione di dibattito interno all’organizzazione del partito. Il 29 ottobre Elio Petri, Paolo Spriano, Mario Socrate, Renzo Vespignani ed altri fanno pervenire a «l’Unità» una lettera in cui si parla di buona fede carpita. Questa presa di posizione non è limitata al PCI. In Francia per il ritiro delle truppe sovietiche si schierano Jean-Paul Sartre, Margue­ rite Duras, Edgar Morin, Albert Camus, Sartre dichiara che, qualora siano prevalse - come la versione ufficiale tende ad avallare - nei moti di Budapest posizioni conservatrici, è colpa degli errori dello stalinismo che «non si correggono a colpi di cannone». I fatti d’Ungheria aprono dunque tra i quadri intellettuali del PCI e la dirigenza una falla sempre più evidente. C’è chi si allontana (Italo Calvino), c’è chi resta ma senza rinunciare al libero dibatti­ to delle idee. Nasce la rivista «Città aperta»: in redazione i pittori Ugo Attardi, Renzo Vespignani, Marcello Muccini, i letterati Dario Puccini e Mario Socrate, il filosofo Luca Canali, l’architetto Piero Moroni ed Elio Petri. Gian Fabrizio Sacripante, industriale, ne è il finanziatore. La direzione è affidata a Tommaso Chiaretti. Il primo numero data 25 agosto ’57. Dapprima la periodicità fu quindicina­ le e il formato "mezzo quotidiano”. Quindi, dopo un intervallo di otto mesi, uscirono gli ultimi tre numeri, mensili e "formato rivista”. Ultimo fu il numero 7/8. oltre ai redattori intervennero sulle sue pagine Italo Calvino, Callisto Cosulich, Paolino, Ugo Pirro, Della Corte, Campos Venuti ed altri. «Noi abbiamo creduto - si scriveva - che non vi fosse vergogna a parlare degli errori del passato, né che questa fosse una forma di masochismo» («Città aperta», n.6). Nello Ajello individua le linee tendenziali della rivista nell’antifascismo, nel socialismo, nella polemica contro il conformismo borghese, il 2

Da «l’Unità», 24 ottobre 1956.

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clericalismo, il conciliazionismo socialdemocratico, e soprattutto nel desiderio di «discutere tutto senza reticenze», tra comunisti. La linea è sgradita ai vertici: i redattori sono deferiti alla commissione provinciale di controllo della federazione romana. La frattura con la dirigenza si fa insostenibile: Petri, Canali Socrate, Attardi, Vespignani, Puccini omettono di rinnovare le tessere per il ’58. Chiaretti viene radiato dal partito: «Città aperta» chiude anche per difficoltà finanziarie. Petri ricorda con intensità l’anno di collaborazione alla rivista: un’esperienza decisiva per il suo destino di intellettuale critico eppur “compagno di strada”. Vi pubblica, oltre a un saggio, lungo e serio su Elia Kazan, cineasta travolto nelle spire del maccartismo, un testo, sotto forma di soggetto, Morte di uno scrittore, appunti per un film in economia, in cui ironizza sulle celebrazioni calorosissime riser­ vate dal PCI alla morte di Curzio Malaparte, “scrittore dalla mille bandiere”. Vi si immagina un capezzale concordemente frequentato da comunisti e prelati autorevoli. Nel 1959, realizzata con Gianni Puccini la sceneggiatura del L'im­ piegato. Il produttore Franco Cristaldi gli approva uno script: nasce L’assassino.

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. L’assassino. Petri e Mastroianni

Rivedendoli in ordine non cronologico ci si può accorgere quanto poco sia “opera prima” L'assassino rispetto al successivo / giorni con­ tati. Non credo che la sensazione dipenda dalla struttura narrativa; penso piuttosto ad un maggior controllo passionale sui materiali. L’istanza del “dire”, la suggestione affabulatoria, dominante le “opere prime”, a discapito dell’equilibrio del tutto, è padroneggiata grazie al continuo contraltare deH’umorismo, del gioco, spesso della “trovata” di sceneggiatura, come nel finale. Questo fa sì che il film goda di una distanza che lo salvaguarda dagli eccessi, le sbavature, gli squilibri di cui patiscono - nel vero senso di pathos - i film a lungo desiderati. L'assassino denota dunque in Petri la capacità di affrontare da subi­ to un mestiere arduo, ed è soprattutto un film che apre la strada ad un secondo (il che non va sempre da sé nel cinema). È un lavoro già maturo di un cineasta che ha evidentemente dietro di sé un tirocinio serio. Stupisce la capacità, per esempio, di dirigere gli attori, ma direi

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ancor più quella di concertare l’assieme, per cui nessuna scena soffre di cadute di tono o di rilassamento. Se questi sono dati che attengono più al mestiere che alla poetica, ammesso sia possibile questa differenziazione, importante è rileva­ re come già con YAssassino il petit théàtre di Elio Petri si animi di due delle tre marionette che giocano da assi portanti dei repertorio, le cui funzioni sceniche insisteranno, seppur con variazioni di peso e di tono, nell’intera opera successiva del regista: Salvo Randone e Marcello Mastroianni. Cerchiamo di addentrarci in un territorio ri­ masto in ombra: il lavoro di Petri su Mastroianni. Da una parte sta la maschera politica (al tempo de L’Assassino ancora di là da venire), ovvero Gian Maria Volonté, dall’altra quella “privata”, che organizza il suo ludo scenico attorno alle ossessioni del privato. Ne L’Assassino questo avviene ancora con tratti schematici, con interessi più socio­ logici, più esistenziali: Ho sempre tentato di far vivere, secondo un metodo esistenzialista, la situazione di un personaggio nella quale si riflettano le sue con­ traddizioni interiori, la sua coscienza di essere un oggetto di fonte ai soggetti deH’autorità. Mi sono a poco a poco reso conto che a partire da una nevrosi rappresentata in termini esistenzialisti sono arrivato a descrivere puramente e semplicemente dei casi di schizofrenia... Nei mie primi film era la nevrosi il contenuto della normalità, poi fu la schizofrenia.

Il passaggio dall’analisi della nevrosi a quella della schizofrenia e ai problemi della messa in scena di quest’ultima saranno evidenti quando esamineremo il mutamento della maschera Volonté da A ciascuno il suo ad Indagine. Lo spostamento di prospettiva ha come conseguenza la non utilizzazione per film cruciali, quali Indagine e La classe operaia, della maschera di Mastroianni. Essa ricomparirà in Todo modo ma come significante differente rispetto al primo film. Non è un caso che Petri scelga questo attore per interpretare Hoederer in Le mani sporche e che soprattutto nella fase ultima del suo fare cinema lo evochi continuamente per rappresentare istanze di verità morale e conflitti tra privato e pubblico. Il corpo, il viso di Mastroi­ anni sono ormai, in questo particolare momento di Petri, i segni per rintracciare percorsi interiori, per inscenare le verità ultime; laddove in L’assassino rappresentavano tensioni di coscienza ancora di deri­ vazione letteraria.

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De senectute, dunque: come diario segreto, colore livido, nota scura di violoncello, discorso ossessionale sul privato. La sceneggia­ tura dell’ultimo film di Petri, Le buone notizie, ha tratti di journal, fogli sparsi in cui, tra le pieghe del tragicomico, si mette in scena la massima malafede: il tentativo di dire la verità interiore. Si trattava originariamente di sketch-lampo aventi per protagonista un uomo di cinquant’anni che si confronta con l’amore, il sesso, la solitudine ed altri universi oscuri. Queste idee avevano trovato nella maschera di Mastroianni un effetto di condensazione. Al proposito Petri di­ chiara che un attore più giovane avrebbe allontanato questa vicinan­ za tra lui ed il personaggio. Una scelta brechtiana, così come la du­ rezza marionettistica del protagonista stesso. Credo che il lavoro con Giannini, che ha avuto il grande merito di trovare i finanziamenti, non abbia dato i risultati dovuti e che la staticità della sua maschera, con le incrostazioni ed i tic della commedia all’italiana, pur come ab­ biamo vista ricercata, sia una delle rigidità del film che pur aveva una sceneggiatura affascinante e per nulla schematica nel suo insieme. Dunque il lavoro di Petri su Mastroianni attore, seppur meno ap­ pariscente di quello con Volontà, che, come già detto, caratterizza Petri come cineasta pubblico, non è meno eccellente né importante sul piano civile, attenendo sempre all’universo della soggettività in questione. Come Volontà, Marcello diventa uno Stradivari se impu­ gnato da Petri, riesce ad essere grande attore, e non solo affascinante presenza. E questo già ai tempi de L'assassino, ossia negli anni in cui Mastroianni era chiamato ad interpretare, quale attor giovane, il ruolo di piccolo borghese ambizioso, piuttosto meschino al fondo, eppure molle, passivo, privo di tensioni in amore come nella politi­ ca o nella cultura (i “suoi” intellettuali narcisi e stanchi), fanciullo per vocazione, ozioso senza tragicità; un indifferente. Ebbene con Petri l’attore non à mai monocorde, oscilla fra il tono drammatico e certi guizzi beffardi, come nella “trovata”del finale: è più sanguigno e più guitto (nel senso d’attore). Mastroianni è straordinario poi ne La decima vittima: film delizioso perché risolto grazie ad un attore che già si compiace di scherzarsi addosso, di prendere le distanze dal proprio "birignao”, recitare en philosophe. È forse il senno di poi ma la maturità artistica, la consonanza, quasi fìsica, tra Petri e Mastroianni ha data più vicina: Todo modo è il film cruciale dove si rompe un equilibrio e se ne crea un altro. Laddove la maschera di Volontà raggiunge la massima tensione

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mimetica riguardo alla scena del Politico, cresce accanto una nuo­ va funzione recitante, di basse continuo, quella di Mastroianni, ormai marcato nei tratti del volto, lievemente enfio nelle guance e nella gola, che mostra, sfrontatamente, la fatica fìsica della re­ citazione dell’alterazione del colore del viso, nel gonfiarsi delle vene del collo, capace di ira (le apocalittiche prediche dal pulpito al necrofìlo consesso di politici democristiani), finalmente. De senectute: ovvero il gioco del troppo umano. Poiché si tratta sempre di giochi di “teatralità”, di ludi scenici, di effetti del dire ci­ nematografico. Suonare sulla corda del troppo umano, dire tutta la verità, finalmente. È il paradosso della malafede: ed ecco Mani spor­ che di Sartre in cui Mastroianni è chiamato alla parte paterna, ad essere oggetto d’amore: l’Edipo del/nel Politico. Con Petri, dunque, Mastroianni recita, fatica, raggiunge il “naturale” istrionico. Mentre Volonté pare ripercorrere i grandi canoni della commedia dell’arte, Mastroianni serve un altro padrone, il Kammerspiel, il dramma da camera. Esprime - soprattutto in Le mani sporche - il lavoro del lut­ to che ha per economia di percorso quella del luogo chiuso, il labi­ rinto delle pareti della coscienza. Lo spazio di Volonté è invece quel­ lo dell’agorà, della festa, del suo rumore di fondo. Ne L'assassino c’è quindi una scelta che non sarà nel tempo contraddetta, ma confer­ mata e approfondita. Una piazzetta della Roma settecentesca all’alba: Alfredo Martelli, an­ tiquario di dubbia moralità, ricettatore, (M.M), parcheggia la sua veloce spider e sale nel suo appartamento; si sveste, si distende nella vasca per rilassarsi dalla stanchezza accumulata nella nottata. Qui Io raggiunge la telefonata di Nicoletta, sua fidanzata (Cristina Gaioni). Alfredo impo­ sta rapidamente una voce di sonno profondo, come se fosse stato allora svegliato. Alfredo, lo si vede subito, è un arrivista (Nicoletta è ricca), ma “italiano”, o meglio cattolico, in cui cinismo e spregiudicatezza sono me­ scolati e convivono nella cattiva coscienza. Come non amare Alfredo? 'Ritti amano Alfredo: la giovanissima fidanzata che per sposarlo sfida il padre; la antica amante che lo manteneva e, pur legata a un altro, ha ancora desiderio di lui ; il poliziotto che cerca di scoprire se è il colpevole di un delitto. E ciò che si tollera in lui è ciò che affascina: la sua perver­ sione ammantata di infantilismo, il suo “spirito di fascismo”, come lo definisce Petri. Come mai Alfredo si trova coinvolto in un assassinio, quello della ex-amante? Per il troppo amore che tutti gli portano; e poi lui è debole, vuole bene (come dice il commissario - Salvo Randone - è

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un «bravo ragazzo»). Così, dopo aver vissuto per anni con Adalgisa (Mi­ cheline Preste), Alfredo, che si è fatto stampare dei bigliettini da visita con il titolo di studio di ragioniere per far contenta la madre, l’abban­ dona per una ragazza giovane. Proprio la notte in cui è stato con lei (il film inizia all’alba del giorno dopo) Adalgisa viene uccisa nell’albergo in cui si sono visti. Tutto il passato viene rivisitato da Alfredo, attraverso flash lancinan­ ti, nel corso dell’indagine del commissario Palumbo che lo sospetta. Ne esce il puzzle di un uomo che ha sempre vissuto di piccole meschinità, egoismi quotidiani, rapporti involgariti (diventando amante della donna tradisce l’amico che ne era il marito). Adalgisa, donna sensibile e gene­ rosa è una vittima cosciente e masochista. Lo ha sempre aiutato finan­ ziariamente. L’ultima sera, neH’ultimo incontro, ancora una volta, nono­ stante abbia un nuovo amante, lo agevola strappandogli delle cambiali. Il commissario lo scruta da uno specchio doppio mentre lo fa atten­ dere prima dell’interrogatorio: gioca con lui come il gatto con il topo. Alfredo, per sua parte, si sente guardato, due occhi sono puntati su ogni avvenimento della sua vita per soppesarlo e giudicarlo. Due occhi se­ veri ma amorosi, dunque “paterni”. Perché anche il commissario ama Alfredo, come figlio: (’Autorità ama il suo suddito, ama di essere riama­ ta. Quando alla fine dell’inchiesta, dopo aver scoperto che il colpevole è il padrone dell’albergo, per motivi di denaro, Palumbo, lasciandolo libero, recita il suo atto d’amore: «è un bravo ragazzo». Alfredo uscito dalla questura, ora che i frammenti della sua vita gli si rivoltano contro, piange. Conosce il dolore ma conosce il perdono.

Lo stesso pianto nel grembo paterno ritroveremo al termine di Indagine allorché Volonté - l’ispettore di polizia colpevole - sarà ac­ colto e perdonato nel grembo del Commissario di Polizia. In questo senso L’assassino tratta il tema, risolto tuttavia con stile differentis­ simo, del rapporto suddito-autorità che è un rapporto d’amore. Il Dio, l’Autorità, il Padre giudica e ama: ama perché giudica, giudica perché ama. Randone è un padre giusto ed amante e Alfredo non vuole cattolicamente che essere giudicato ed amato. In questo senso il pianto di Alfredo giustamente prelude a nuovi “peccati", perché è il “peccato" che chiama il fantasma paterno. La sequenza finale altro non è che la riproposizione del peccato in funzione di un nuovo ri­ trovamento d’amore. Alfredo un anno dopo, è in albergo con Nicoletta. Confessa che da “quella sera” non è più lo stesso. Si rammarica che non lo abbia più spo­

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sato, è stanco di vederla in albergo, le vorrebbe dare “cose belle”, farla vivere meglio. Seccamente lei, rivestendosi, risponde di aver detto tutto a suo marito. Lui replica allora che ha fatto male, hanno già tanti pro­ blemi, tante incertezze. Come la donna esce Alfredo alza la cornetta del telefono e chiama l’autosalone Bordiccchia per acquistare un’auto nuo­ va. E, trattando sul prezzo, ridendo esclama: «Ma tu lo sai con chi stai parlando? Con (’Assassino!». Alfredo è cialtrone, ma è cialtrone “cattolico”. Le vicissitudini di Alfredo, inoltre, richiamano sommessamente intrighi kafkiani: una bella mattina, appena sveglio, si trova Palumbo alla porta che, sen­ za nessuna spiegazione, lo trasferisce alla centrale. L’interrogatorio è anch’esso condotto senza rispetto della persona: il commissario, per lungo tempo, si guarda bene dal contestargli un fatto preciso: è questo che fa scattare in Alfredo meccanismi di colpevolizzazione. Nei flash sulla sua vita Alfredo ricerca la traccia della colpevolezza. Per il suo mostrare la polizia italiana operare con metodi al limi­ te della legalità L’assassino fu oggetto di attenzione da parte della Commissione di censura. In un passaggio del film, infatti, Palumbo rinchiude in cella, per una notte, Alfredo in compagnia di due falsi detenuti, delatori incaricati di carpirgli una dichiarazione compro­ mettente. Nella versione originaria la loro funzione era inequivoca­ bile, nel film non è più comprensibile e quello che è un sistema per ottenere una confessione dal sospettato sembra un incubo casuale, da prigione. Si pretesero comunque modifiche più stupide come il divieto di far parlare i poliziotti con un forte accento siciliano, con rifacimento del doppiaggio, o eliminare la scena un cui un anziano piantone si soffia il naso. Il produttore Goffredo Lombardo ricorda che si voleva impedire l’uscita del film per la scena in cui un poliziot­ to con le scarpe sporche di fango imbrattava le scale del palazzo dove abita Alfredo.5 Ero più giovane - dice Petri - feci delle lettere sui giornali, ma... Il produttore mi aveva obbligato a fare questi cambiamenti e non avevo trovato la forza di ribellarmi, di dire “no, non Io faccio; andiamo a vedere cosa c’è al fondo; quali sono i loro obbiettivi”. 1 rapporti con la censu­ ra erano simili a quelli tra Mastroianni e il poliziotto; perché loro non3 3

Da intervista contenuta nel docufilm Elio Petri, Appunti su un autore, op. cit.

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davano nessuna dichiarazione ufficiale, mandavano un intermediario che diceva “qui... qui... qui". La censura non adoperava la maniera forte, ma c’era sempre la minaccia di non far uscire il film. In totale ci furono novanta modificazioni.

3.1 giorni contati. Petri e Rondone I giorni contati è a mio giudizio la vera “opera prima” di Petri. Ne assume perlomeno tutti i rischi più tipici: l’assenza di una solida struttura di pieni ma, anzi, la costruzione del film sui vuoti, di tempo cinematografico e di senso, la estremizzazione dell’assunto ideologi­

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co - «è un film politico - dice Petti - poiché è contro il lavoro» -, la motivazione interiore, personale, che carica e permea il personaggio del protagonista («Il mio film è mio padre, mio padre ha rifiutato di lavorare a cinquantanni, non ne poteva più»). Partiamo da quest’ultimo dato e serviamocene per mettere a fuoco la funzione scenica che nel cinema di Petri ricopre la terza importante maschera che calca quello che, con certo divertimen­ to, abbiamo chiamato il petit théàtre del regista: Salvo Randone. Anch’egli svolge un ruolo ricorrente seppur differentemente elabo­ rato: nel ventaglio delle sue possibili apparizione è il sembiante pa­ terno. Non pensiamo immediatamente a noiose strutture edipiche, bensì a fantasiose elaborazioni vicine a una certa imagerie popolare per cui la funzione paterna è si, in prima istanza, autoritativa (il commissario Palumbo) ma può avere delle migrazioni sul terreno della follia, ed anzi si muove proprio nell’altalenanza del tragico­ comico. È, a mio avviso, lungo quest’asse che va interpretata l’uti­ lizzazione da parte di Petri di un attore alto-accademico, nel senso migliore della parola, padrone delle tecniche interpretative, in gra­ do di controllare l’emissione vocale in tutte le gamme di tono e di padroneggiare la muscolatura facciale. Un attore che anche nelle inflessioni (in cui rifulge) di recitazione bassa, nel senso di Bachtin, mantiene il tono straniato che la recitazione accademica, che è antinaturalistica, prevede. Mantiene, insomma, alto il tono di ma­ schera sia sublime che comico. Randone, dunque, contribuisce, per la sua parte (soprattutto in La classe operaia e La proprietà), ad asseverare quella scena carneva­ lesca che abbiamo visto essere lo spazio privilegiato dell’agone della maschera-Volontè. Ma la marginalità di Randone alla scena stessa gli permette di trascorrere in modo ancora più libero nell’arco del sublime/grottesco dell’immaginario petriano. Non è solo l’imago in­ vestita della funzione dell’ideale dell’io (il commissario Palumbo), è anche il padre anale, ovvero il versante basso, lubrico (il padre del protagonista de La proprietà; il padre Roscio, oculista cieco di A cia­ scuno il suo) o deturpato (ne La decima vittima ha una piccolissima parte di un istruttore di arti marziali ed ha il viso parzialmente co­ perto da una maschera di cuoio ed i denti d’argento). È soprattutto, e sono le imagerie più affascinanti, il Folle, colui che la tradizione medievalistica considerava il patteggiatore della Verità divina: Mi­ lkina, insomma, il vecchio anarchico alienato de La classe operaia,

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colui che è più vicino al Paradiso, il visionario. In questa prospettiva Randone è, all’interno della drammatizzazione, l’elemento più stre­ mante, che più sconvolge le carte, è la carta del Bagatto nel gioco dei tarocchi. Non dimentichiamo la funzione capitale che nella scena carnevalesca storica riveste il Maestro dei Pazzi, ovvero colui che de­ teneva la suprema gestione della follia festiva. Piace rilevare questo: che esista ancora, a tratti, la possibilità della pensabilità, fra tanti Padri-Ideali o anali di un Padre-folle, che percorra il tempo della nostra vita facendo sempre lo stesso mestiere di stagnare e faccia da tramite alla Verità, se non del Paradiso, della Morte, almeno. E si sa del rapporto di stima e tenerezza estrema che legava Petri al padre, che come il personaggio di Randone nel film era appunto artigiano (fabbricava pentole e oggetti di rame).4 Ne I giorni contati, film segnato dalla morte, la funzione-Randone, imponderabilmente e gaiamente pazza, che compare a trat­ ti furbescamente nel grigiore del tempo, rende singolare il tragitto ideologico del film che trascorre lungo i sentieri dell’isteria picaresca coniugando così, o almeno innescando, il discorso dell’utopia come discorso della Follia. È in questo senso che / giorni contati precorre il più complesso (per gestione di temi) La classe operaia: L’uno e l’al­ tro sono infatti due film che agiscono nel territorio contradditorio dell’utopia, quali film politici sulla classe operaia e sulla possibilità o pensabilità di conquistare il potere, ovvero il Paradiso. Sia Lulù Massa che Cesare Conversi (Salvo Randone in Giorni Contati), il pri­ mo per effetto della lotta di classe in Italia nel ’68-’7o, il secondo, più letterariamente, per “scelta”, per gesto “sublime”, si trovano a dover pensarsi di nuovo nel Tempo, ad imparare a ricontare il loro tempo: il licenziamento di Lulù e il «non voglio più lavorare» di Cesare, pur filosoficamente distanti, si incontrano nel punto del viaggio che de­ vono fare per reinventare il loro tempo già alienato, per ripensarlo in termini differenti dalla sua gestione rivolta alla capitalizzazione come monetizzazione. Per Cesare il punto di coniugazione con l’Utopia è la stessa morte, per Lulù, metalmeccanico, è l’abbattimento delirante del muro che preclude l’accesso al Paradiso. Cesare è tuttavia più vicino a Militina che immagina di abbatte­ re i muri del manicomio, che a Lulù. Le due figure hanno origini 4

Da vedere nel docufilm Elio Petri, Appunti su un autore i brevissimi 8mm di Elio dedicati al padre e alla madre.

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nell’iperbolico discorso anarchico-popolare, il substrato folle del ra­ zionalismo comunista. Nel grande solitario che è la lotta di classe nei paesi capitalistici rappresentano l’uscita della carta pazza. Tali considerazioni ci conducono nel tempo cinematografico de I giorni contati che è appunto un film sui vuoti del tempo stesso, un tempo che vacilla, si fa baratro in quanto cessa la sua gestione nei termini della sua monetizzazione: Cesare non vuole più lavorare perché ha paura di morire e, volendo affrontare la vita per mettersi nuovamen­ te in gioco, finisce con l’entrare in assonanza con la morte. Il film inizia con un lungo incubo (è la parte più bella del film), quasi il rapido trascorrere di ombre di morte sulla città, e si conclude con la cessazione della vita di Cesare. Un cerchio che si apre su di un tram e si chiude sullo stesso scenario. Cesare (Salvo Randone), idraulico, sta viaggiando attraverso Roma su un tram: riverso sul sedile si scopre un uomo morto; gli si nasconde la faccia con un giornale per celarla ai curiosi. Un inserto di pellicola nera e il suono di una sveglia. Cesare si tira su nel letto sudato e tos­ se schifosamente tirando fuori la lingua. Esce all’alba; nel buio, pas­ sa vicino al Colosseo e vede sagome bianche di lavoranti che stanno pitturando strisce pedonali. Un operaio suo amico gli domanda come mai indossi il vestito elegante, della festa.«!eri ho visto morire uno in tram. Non lavoro più». Nel mentre passa velocemente un’auto a tutto clacson, da cui sporge una mano che tiene un fazzoletto bianco: qual­ cuno che sta male. Cesare va al cimitero e si ferma di fronte alla tomba di un uomo nato il suo stesso giorno, n aprile 1908: «Vuol dire che ho i giorni contati». In una zona della città, dove accorrono i pompieri, si bruciano mo­ bili sulla strada perché le zecche hanno invaso interi quartieri popola­ ri; c’è fermento per una manifestazione violenta. Riconosce per la via, in una donna che sta prendendo il tram, un suo vecchio amore, Giulia; la chiama inutilmente. Continua a vagare per Roma; vede cavalli por­ tati al mattatoio (nei titoli di testa del film si riprendono queste visioni apocalittiche con incisioni di Vespignani). Salito su un tram scorge vicino a sé un uomo abbandonato sul sedile: lo scuote per vedere se è morto. È questa la parte più bella del film, la più serrata ed onirica, e ne è quasi il preambolo, ciò che marca il tempo della vita che Cesare si trova a dover affrontare.

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Cesare non ha più nulla da fare: legge i Miserabili, gioca a carte con la figlia della sua pensionante; va in giro, visita i musei. Fa un incontro con un mercante d’arte (Vittorio Caprioli) che lo catechizza e, saputo il suo mestiere, lo invita a casa di un pittore, non per amici­ zia ma per sistemare il water. Va dal medico: si sente il cardiopalma, vuol sapere quanti giorni ha ancora da vivere. Godere unilateralmen­ te, rispetto agli altri, di un tempo in perdita è anche un situarsi in un punto impossibile da sostenere a lungo: i rapporti si fanno o pesanti o amari. Aver troppo tempo è anche vedere troppo: il fatto che la figlia della affittacamere si prostituisce; che il figlio non ti vuol più prestare denaro per tirare avanti; che gli amici sono stanchi della «parte» che stai giocando - il parlare sempre della morte, il troppo filosofeggiare che Giulia (Regina Bianchi), l’ex amante ora sposata,non ha tempo da perder con i vecchi cui viene voglia di stare con una donna; che il suo paese, in campagna, in cui torna per una lunga giornata, è rima­ sto nella desolazione e nella miseria e gli amici di un tempo vivono tristemente la loro vecchiaia lavorando duramente la terra (come lui quando lavorava alle tubazioni). Eppoi urge il denaro per vivere: Cesare non ne ha più poiché non capitalizza più il suo tempo. Si fa irretire da un gruppo di imbroglioni che tentano di frodare le assicurazioni: dovrebbe gettarsi sotto un tram. Ancora una volta il tram si associa al viaggio povero verso la mor­ te. Petri ha nel cassetto un progetto di film “catastrofico all’italiana” Autobus su un conducente di tram. Tutto è organizzato per la truffa: Cesare dovrà farsi spaccare il braccio con un colpo di mazza di ferro. Lo portano di notte in un luogo solitario; mentre tutti lo attorniano e lo pressano gli viene fasciato l’avambraccio con del cotone. Si avanza il “mazzolatore” che indossa una maglia nera, le bretelle bianche, e ride. Cesare, che per giorni aveva tentato, per finta, di abituarsi a vivere con un solo braccio, si spaventa, non ne vuole asso­ lutamente sapere più. Viene picchiato a sangue e abbandonato. Torna a casa e dichiara al suo amico, «Da domani ricomincio a lavorare». Tra ru­ binetterie e chiacchiere dice ad una cliente, tirando la catena de) water «tra poco le ferie ce le pigliamo sulla luna e questa è la mia astronave». Sul tram, ancora, la notte in cui l’astronauta Titov torna sulla terra: si viaggia attraverso il traffico notturno, le prostitute, la gente, il paros­ sismo delle luci. Il tranviere si avvicina a Cesare che è riverso sul sedile «Signore, signore...siamo arrivati». Il tram si allontana nella notte fino a sparire nel buio.

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«Morte e tempo - dice Petri - continuano ad essere insensati. Il tempo lo facciamo passare noi, lo “contiamo” come condannati a morte, come ciò che realmente siamo. Muoio dunque vivo. Vivo finché muoio. Eccetera. Tutto quello che succede tra la mia nascita (inafferrabile, insensata e inutile ecc.) e la mia morte (idem) pren­ de valore all’idea che per me il tempo, ad un certo punto, smetterà di scorrere. L’attribuire valori, scopi, fini, significati, è uno strata­ gemma per dimenticare ciò che abbiamo chiamato morte e tempo, è un trucco escogitato in perfetta malafede. La prima divisione che si opera dentro di noi verte proprio nel ricordare o dimenticare la mor­ te e il tempo. Vorremmo tenerci inestricabilmente attaccati ad ogni istante che passa, ma questo ci ricorda che il tempo scorre e che la nostra condanna a morte attende di essere eseguita. Allora facciamo più o meno ordinatamente alcune cose che spingano nel profondo, fino ad una rimozione quasi completa, l’idea di morte e di tempo. E cosi facendo dimentichiamo di tenerci aggrappati all’istante. Insomma c’è un tempo produttivo, economico, il tempo che dà valore alla nostra esistenza, inventato per cancellare il tempo senza valore, senza senso, il vero “tempo”, per annullare il susseguirsi degli istanti e che, in definitiva, è noi che cancella, è noi che annulla»? L’utopia del folle e del santo è quella di riconquistare il godimento dell’istante, dell’intervallo. Ne / giorni contati la morte fìsica gioca come punto di fuga simbolico dal tempo capitalizzato, sogno anar­ chico di fine della schiavitù del sociale, passaggio al tempo impos­ sibile.

4.11 maestro di Vigevano

«Dopo / giorni contati - dice Petri - mi trovavo senza lavoro, in quanto il film aveva incassato assai poco: la produzione non aveva molto interesse a fare film con me. Durante l’estate del ’62, ovverosia dopo l’uscita de I giorni contati, scrissi Un tranquillo posto di campa­ gna per un produttore che voleva metter su un film con Mastroianni; poi costui si tirò indietro ed io non feci il film che nel ’68. restai tutto Tinverno senza lavoro; mi era diffìcile anche materialmente andare avanti così. Dino De Laurentis imprevedibilmente mi offrì di fare un

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Da lettera datata fine Ottobre 1978.

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film con Alberto Sordi. Ho sempre amato Sordi come comico, credo sia davvero una “maschera” italiana straordinaria. Volli dunque mi­ surarmi con Sordi. Con Age e Scarpelli ci mettemmo a pensare ad una idea di film per lui». Ma la sceneggiatura che nasce da questa collaborazione non è quella de II Maestro di Vigevano ma quella del famoso / mostri. Che cos’era in origine l’idea del film? «Era un film comprendente dai quindici ai sedici episodi tutti im­ prontati alla mostruosità ed al cinismo dei personaggi della piccola e media borghesia. Era un film politico molto forte. I personaggi era­ no in un certo senso storditi ma non alienati. Raccogliemmo sedici storie e Sordi doveva interpretare sedici mostri: è del resto portato alla caricatura espressionista del piccolo-borghese. Ma il film era po­ litico, c’era dentro l’uomo politico, c’era Agnelli, c’era il chirurgo».

E Sordi e De Laurentiis ne hanno paura: al tavolo cambiano i gio­ catori; il film viene affidato a Dino Risi e De Laurentiis lascia a Petri il Maestro che in un primo tempo aveva offerto a Risi. Petri rimane come co-sceneggiatore del film, che, tuttavia, viene molto rimaneg­ giato: «il film è efficace ma leggero, mentre per me era davvero un film politico». Ma l’idea di usare una maschera per creare un mostro è solo un’i­ dea rimandata di qualche anno. Con il lavoro sul romanzo di Lucio Mastronardi, Petri non va molto ad di là di una utilizzazione della maschera-Sordi in senso narrativo, realista: esiste una Cifra-Sordi nel cinema comico che è già nata, è già ripetitiva, Age e Scarpelli, col­ laboratori alla sceneggiatura, non fanno altro che predisporre una partitura pre-detta, pre-vista. Ci sono anticipazioni del Sordi torvo piccolo-borghese, l’odierna fase della sua carriera, ma l’attore svolge la sua parte dipanandola come solo lui sa fare, assicurandole tutto lo straordinario repertorio della sua mimica. Nasce così un personag­ gio di Sordi piuttosto che un’opera di Petri. Su questo piano il film è un esempio assai corretto di commedia all’italiana, amara, grottesca: vi sono scene da antologia del genere (l’entrata nella classe del Direttore che impone al maestro di mimare Cristoforo Colombo avvistante la costa del Nuovo Mondo, mentre lui fa da voce recitante). Sordi è bravissimo e Petri lo è altrettanto in veste di regista di mestiere. Rimane l’occasione perduta di fare un

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film sui fallimenti della virtù e del magistero di un piccolo-borghe­ se che non ha nulla da insegnare; un visionario mediocre che lotta contro i mulini del boom della piccola impresa artigiana, dei nuovi modelli di comportamento, dell’accesso al credito, sul fondale falso umbertino dell’aula in cui, sotto il Cristo d’ordinanza, c’è la foto, de­ corativa, del Mazzini. L’errore, secondo Petri, è stato non ricorrere ad un attore di lingua lombarda come Dario Fo, lavorando così sulla materialità del dialetto, il “lombardo”, inventando una koinè spuria, seppur largamente naif. È tutt’altro che un caso, infatti, che il problema della lingua si rappor­ ti a quello di una scuola grottescamente deamicisiana, paleofascista. Questo contrasto politico va completamente perso non essendo più sulla scena il protagonista che lo avrebbe reso credibile. La ricom­ posizione della lingua unitaria è un fatto che attiene all’isteria del soggetto [tarlante italiano e del soggetto politico italiano. Ma ritor­ neremo sul problema della scissione linguistico-politica a proposito di film più elaborati e complessi, quali Indagine e La classe operaia. Mombelli (Alberto Sordi) è un maestro di scuola elementare pieno di pregiudizi piccolo borghesi sull’onore e la dignità. In una piccola capita­ le del miracolo economico, in contatto col cinismo dell’accumulazione capitalistica, quest’uomo si trova completamente spaesato. Si carica sul­ la spalle il peso di valori ormai inesistenti ed è assolutamente incapace di condurre la sua vita e quella della famiglia. Guadagna molto poco e vive in ristrettezze, eppure la dignità della sua “funzione sociale” gli im­ pedisce di permettere alla moglie di trovare un impiego nelle fabbriche di scarpe della città, e tanto meno di far lavorare il figlio, che non ha in­ teresse per lo studio. Vive di fumo e di belle frasi: «i nostri sacrifici sono come mattoni, e se noi li cementiamo con la calce dell’affetto e della stima...» (i lettori devono sforzarsi di immaginare la battuta in bocca al Sordi più guitto). La moglie non ascolta più.

La vita a scuola non è migliore; imperversa il Direttore con la sua ottusa prosopopea di statale un po’ mafioso, di piccolo Cesare; imper­ versano i colleghi che si strappano l’uno con l’altro i figli dei ricchi per trarre qualche beneficio di piccola corruttela. In questo mondo soprav­ vivono il maestro Mombelli ed il suo unico amico Nannini, che anco­ ra non è passato di ruolo nonostante l’età avanzata. Nei loro colloqui c’è tutta l’amarezza dell’incapacità di reagire alla vita: «È sempre così, un’ora di dolcezza, due ore di amarezza». Commentano vedendo in un boschetto una coppia che fa l’amore.

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Ada Mombelli (Claire Bloom) decide di andare, contro il volere del marito, in fabbrica. Anche il figlio lavora e non va più a scuoia. Mombel­ li si sente tradito; a scuola lo prendono in giro: la moglie che lavora come operaia è una macchia nella dignità di un maestro. Ada, messo da parte il denaro, impianta nella stessa casa, con il fratello, una fabbrichetta clandestina di scarpe. Il suicidio dell’amico Nannini, preso in giro da colleghi e allievi, fa decidere il maestro a dare le dimissioni, forte del fatto che l’impresa rende molto. Mombelli pregusta la sua rivincita. Il suo ambiente cambia. L’industrialotto del paese, che prima lo disprez­ zava, ora siede con lui al bar della piazza. Non capisce il poveretto che l’interesse è tutto per la moglie. Lui è un peso morto sopportato a fatica, non sa fare nulla di buono ed anzi un giorno, per farsi bello con gli excolleghi al bar, rivela “tutto”, costi e guadagni del lavoro nero. Tra quel­ li c’è infatti un funzionario della tributaria che registra il discorso. La multa distrugge le risorse della società. Tutti danno la colpa all’avverso destino finché non esce fuori la storia della “confessione”. Ada lo lascia definitivamente. Lui rimane completamente solo, senza lavoro, senza dignità. Di notte ha gli incubi, sogna della scuola, di Nannini, di Ada di cui è innamorato. Vuole ritornare al suo posto di insegnante e si prepara per dare nuo­ vamente gli esami per rientrare in ruolo. Ci riesce: toma in classe ma nei gabinetti ha la sorpresa di vedere la scritta «Mombelli è cornuto»: Ada è infatti diventata l’amante dell’industriale. Una notte, mentre sta con una prostituta, li vede entrare in un motel; li insegue armato di un martello ma i due riescono a fuggire. Accade però un incidente stradale in cui Ada trova la morte. Mombelli toma a scuola. Deve però essere rie­ ducato: il preside lo manda, per suo conto, a comprare un francobollo da lire trenta per il peccato di lussuria che ha commesso accompagnandosi ad una passeggiatrice. Mombelli, piuttosto che avere una brutta nota nelle qualifiche, china la testa.

5. L’intervallo: Peccato nel pomeriggio Nel 1964 Petri ha ancora l’occasione di collaborare con Age e Scar­ pelli per Alta infedeltà. Il produttore è Gianni Hecht-Lucari e gli altri registi Franco Rossi, Luciano Salce, Mario Monicelli. Sono gli anni in cui il cinema italiano vive di film “a episodi”, sfruttando piccole idee di sceneggiatura, lampi comici dilatati per venticinque minuti, ed affollando i cast del maggior numero possibile di attori di cassetta. Anche Peccato nel pomeriggio non è diverso da un coniglio estrat­

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to dal cilindro di un prestigiatore: è uno short che si regge su di un equivoco buffo svelato solo all’ultima battuta di sceneggiatura. C’è tuttavia un’attenzione in più che merita di essere indicata: il gusto da parte del regista di giocare à la manière de... Antonioni. Ho tentato di fare una piccola satira affettuosa dell’antonionismo; vo­ levo del resto girare con la stessa Monica Vitti perché la referenza fosse più puntuale. Invece la Vitti non accettò perché capì subito le mie inten­ zioni; ma anche con la Vitti si sarebbe trattato di una satira affettuosa, leggera, non "qualunquista”.

È, chissà, per Petri un modo di distanziarsi da atmosfere, inflessio­ ni, coloriture, qua e là trapelanti soprattutto ne L’assassino, che po­ trebbero ascriversi all’antonionismo - come Petri chiama certi vezzi di stile le quali tuttavia, a mio parere, fanno parte imprescindibile di un modo di fare cinema d’autore in Italia in quegli anni e dell’ide­ ologia dell’autore, che allora percorreva il cinema italiano e lo carat­ terizzava. Non dimentichiamo che il co-scenggiatore de L’assassino e I giorni contati è Tonino Guerra, collaboratore de L’avventura, La notte, L’eclisse di Antonioni. Petri stesso dice de L’assassino che è un film segnato dal periodo antonioniano o post-antonioniano in quan­ to film su un personaggio "alienato”, sull’incomunicabilità. Sia come sia. questi pochi metri di pellicola indicano l’abbandono di uno stile e, più ancora, della posta in gioco più "esistenzialista” del cinema di Petri. Con La decima vittima muterà fortemente la scrittura del regi­ sta. Il miglior modo quindi di esorcizzare uno stile è giocare la carta deH’umorismo: Peccato nel pomeriggio altro non è che questo. Giulio, industriale (Charles Aznavour), «fisicamente mi divertiva molto - dice Petri -, è un po’ la caricatura dell’amatore, del borghese italiano»), incontra davanti alla vetrina di un gioielliere (come nel­ le "commedie sofisticate” americane) Laura (Claire Bloom). Tenta un approccio, poi un secondo più fortunato. Pare che la donna ci stia. È sposata, ha dei problemi coniugali, ha voglia di parlare di sé. Giulio non riuscendo a "stringere”, comincia a innervosirsi, lui stesso ha altro da fare: guai con la tributaria. Segue la faccenda senza più un grande inte­ resse e avrebbe voglia di lasciar perdere. Quando ha perso ogni speranza di avere l’avventura, Laura dichiara di voler tradire il marito. La porta allora nella sua villa al mare, bianca, con interni pieni di tende bianche sollevate dal vento. Sembra che tutto si compia, ma Laura ha un’ultima

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esitazione, si ritrae. Se ne vanno con la macchina. Laura ha però un ri­ pensamento: vuole di nuovo arrivare in fondo. Si fermano ad un motel. In una stanza, prima di fare l’amore, Laura si fa insultare e lo picchia. Finalmente tutto si compie. È sera, Giulio torna a casa; la moglie non sta bene, è seduta stan­ camente sui bordi della piscina: si sente male, si colpevolizza proprio perché è lei la donna che nella giornata ha tradito il marito... con suo marito. «Cara, andiamo dal dottore. Non possiamo continuare così». Una volta per ottenere lo stesso effetto eccitante lo ha fatto vestire da pompiere! «Se non guarisci, cara, ti dovrai mettere a lavorare come tutte le altre».

6. La decima vittima

Talvolta un film nato in modo sconcertante e travagliato, emerge dalle sue vicissitudini stranamente affascinante. È il caso de La de­ cima vittima che conserva, nel tempo, un glamour particolarissimo: e questo, direi, è dato da una certa filosofia notturna che percorre il film e che fa curioso contrasto coloristico con il chiarissimo ca­

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chet dei capelli futuribili di Mastroianni. Poiché è proprio sul capo di Marcello che si addensano i piccoli pensieri negativi di cui il film è pieno. Sarebbe stato certo per Petri un film totalmente diverso se tutto fosse andato per il suo verso, un film meno “romano” e quindi meno forzosamente d'eco flaianiana. II regista ha l’idea di adattare il racconto omonimo di Sheckley e trova in Mastroianni l’attore dispo­ stissimo ad esserne il protagonista. Ponti, produttore intemaziona­ le, ha nei suoi progetti di scritturare Mastroianni. Fra Ponti e Petri si firma quindi un contratto per un film di fantascienza. Si mettono al lavoro Petri, Tonino Guerra ed Ennio Flaiano per dilatare l’idea dello scrittore americano. La lettura non avventurosa che essi praticano allontana l’origina­ le: nasce una sceneggiatura pop-collage sull’americanismo, ovvero - precisa Petri - non sull’America (la quale presta semplicemente la sua facciata) ma sulla crudeltà dei rapporti interpersonali in un grande paese dalla tecnologia sofisticata e dal capitalismo avanzato. Si prevedevano alti costi ed “esterni” negli Stati Uniti. Ponti non è tuttavia soddisfatto della sceneggiatura, né ancora della stesura suc­ cessiva e, all’insaputa di tutti - da grande produttore “americano” che non guarda in feccia a nessuno -, ne fe predisporre una concor­ rente da altri: «fu una tortura». Finalmente si riesce a trovare denaro americano per mettere in cantiere il progetto. Ma questo viene ri­ dotto di proporzioni e d’ambizione. Si gira tutto a Roma, niente più avveniristiche quinte. Alla fase finale non partecipa Flaiano. «Quanto a me - dice Petri - non mi restava che far muovere dei personaggi schematici e introdurre una satira della scenografia, de­ gli oggetti allora in voga, o che lo sarebbero stati di li a poco in tutta Europa». Le ambizioni del regista erano invece di inventare la scena possibile della borghesia nel millennio 2000; di “girare” la forma fu­ turibile di vita borghese. Nello stesso senso ha lavorato Stanley Ku­ brick in 2001. Del progetto che si trasforma e che decade, che sempre più si allontana dalle attese, rimangono, a mio parere, le tracce più legate ad un gusto raffinato di sceneggiatura. Nel film è comunque presente un tratto ironicamente negativo, talvolta misantropo, os­ sessivamente cupo, in contrasto con la bonomia di superfìcie, che in qualche modo riecheggia la migliore diaristica di Flaiano. Tale è l’ef­ fetto di ascolto del film, la sua assonanza con Un marziano a Roma. Ma questi segni sono accentuati dal processo di esautorazione del “voler dire” del regista che si trova a girare un film in cui prevalgono

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temi, situazioni, atmosfere che non lo investono in modo primario. L’unica angoscia è quella di sbagliare, di fare fantascienza credibile senza soldi, di rischiare in proprio. Malgrado tutto è un film al quale sono attaccato, che rappresenta una esperienza nel mio mestiere. Si diventa registi a questo modo, facendo degli errori, imparando a fronteggiare personalità così potenti come De Laurentiis e Ponti. C’è un momento in cui non si può fuggire di fronte ai produttori, anche questo fa parte del mestiere. Nel film prevale di conseguenza un mélange di stilemi di generi cinematografici che lo realizzano rispetto a qualunque ipotesi di col­ locazione futuribile. È un continuo trascorrere da un universo cine­ matografico a un altro: la commedia si mescola agli echi del western, al fascino della spy-story, a visitazione del film d’ambiente “romano”, e persino ad atmosfere mistico-turistiche del genere Mondo cane. Un’ipotesi di futuro: perché la violenza interpersonale abbia un de­ terrente controllabile si è costituito a livello mondiale un club privato i cui iscritti, accoppiati da un cervello elettronico, si provocano ad una caccia mortale, alternativamente come “cacciatori” o “vittime”. 1 caccia­ tori stanano le vittime che debbono uccidere; nessuna vittima conosce l’identità del suo cacciatore. I grandi campioni della caccia, date le spese enormi da sostenere, sono sponsorizzati dalla pubblicità. 1 più abili tra loro uccidono sulla base di copioni predisposti da esperti del marketing del prodotto abbinato. Caroline Meredith (Ursula Andress), nata in un centro di feconda­ zione artificiale, sta per toccare l’assoluto traguardo della decima caccia vincente. Ha appena fatto fuori il suo cacciatore attirandolo in un locale di strip-tease e sparandogli con piccole armi contenute nel reggiseno di paillettes, nell’ansa dei capezzoli. La sua prossima vittima è Marcello Poletti, romano, alla settima caccia. Da esperta professionista Caroline scende a Roma con un’intera troupe di tecnici pubblicitari e televisivi. Si studia a tavolino dove e come uccidere: al Tempio di Venere, attirando l’uomo di cui si conosce la debolezza per le donne. Caroline non “teme” invece il fascino maschile. Ma spesso i piani saltano perché il nemico sconcerta: Marcello è uno strano antagonista, non prende nessuna ap­ parente precauzione di difesa, sembra indifferente alla minaccia che sa di avere sul capo. È romano, un po’ stanco; è italiano, un maschio italia­ no, con moglie, amante a carico e i vecchi genitori che si nascondono in casa sua per evitare di essere presi dal Centro Raccolta Vecchi. Non sa

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badare al suo denaro, non ha soldi, né per mantenere tutte le famiglie, né per difendersi adeguatamente. Insomma è pieno di noie, ma è furbo. Contattato da Caroline, per una trasmissione-inchiesta sul compor­ tamento sessuale del maschio italiano, intuisce il pericolo e si mette in tensione. Muove le sue pedine stracittadine: un paparazzo, che lo infor­ ma dei movimenti della donna, e “il Professore” (Salvo Randone), istrut­ tore di arti marziali, la mandibola fasciata di cuoio, i denti d’argento, che lo tiene in esercizio. Cerca poi uno sponsor per guadagnare soldi da questo momento in poi Marcello e Caroline si cercano sempre più, fìngendo un reciproco interesse sessuale, per darsi il colpo mortale. Una notte, sulla riva de) mare, i due fanno l’amore e Caroline confessa che per la prima volta si è sentita normale con un uomo. Al risveglio Marcello si scopre all’interno di una sfera di plexiglas trainato da un autocarro-gru, con destinazione Tempio di Venere. Caroline lo ha disarmato; lui gioca allora il tutto per tutto e le dice che ha sempre saputo della sua identità ma peramore non l’avrebbe uccisa. Lei, la pistola puntata, mentre si gira lo show offerto dal Thè Ming, esita un attimo, poi spara. Ma il revolver preventivamente sottrattole era caricato a salve. Questa volta è lei che viene colpita a morte da una seconda pistola in possesso di Marcello. I pubblicitari americani che assistono con le telecamere alla scena sono entusiasti dello stile di Marcello e coniano il nuovo slogan «Ha sbagliato perché non ha preso una doppia dose di Thè Ming». Ma Caroline ha un corpetto protettivo; si rialza e gli spara col winchester, come in un duello western (Duello al sole), inseguendolo tra le rovine del tempio. Nel mezzo della lotta all’ultimo sangue spuntano tra le rocce le donne abbandonate, moglie e amante, di Marcello, furiose e gelose. Ai due non resta che fuggire il vero pericolo partendosene da Roma in aereo dove.... si sposeranno. «Caroline, ma perché hai voluto rovinare questa meravi­ gliosa storia d’amore?».

«Se dovessi - dice Petri - rifare il film finirei, probabilmente, come nel racconto di Robert Sheckley, con l’uccisione dell’uomo da parte della cacciatrice. Dico “probabilmente” perché, all’epoca dell’impari lotta con Ponti, avevamo altri finali piuttosto efficaci, tra cui uno che lasciava sopravvivere, nella Grande Caccia, entrambi i protagonisti i quali, riunitisi in regolare matrimonio religioso, continuavano a cacciarsi spietatamente, ma nella routine della vita familiare picco­ lo-borghese, in una lenta e reciproca uccisione, giorno per giorno, disarmati, ma sempre più disumani».6 6

Da risposte ad un questionario sulla fantascienza stilato da Jean Gili.

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7. A ciascuno il suo. Elio Petri e Ugo Pirro Con questo film nasce una delle collaborazioni più interessanti del cinema italiano, un sodalizio fecondo fra due intellettuali ideo­ logicamente e operativamente (per un certo periodo di anni alme­ no) consonanti: per la prima volta Elio Petri e Ugo Pirro lavorano insieme. Con l’eccezione del successivo film Un tranquillo posto di campagna, i due sceneggeranno insieme tre film fondamentali. In­ dagine, La classe operaia, La proprietà. Sarà durante la lavorazione di quest’ultimo che il rapporto si incrinerà sino a finire. «Petri ed io - dice Ugo Pirro - ci conoscevamo da molti anni, prima ancora di lavorare assieme. Abbiamo collaborato a qualche film di De Santis. Ognuno di noi ha seguito una strada differente nel cinema pur conservando sempre rapporti amichevoli. Poi ci sia­ mo riavvicinati con l’idea di fare dei film più apertamente politici, d’intervento sulla realtà italiana. Pur battendo strade diverse perse­ guivamo lo stesso tipo di discorso, facevamo lo stesso “lavoro". Così cominciammo con A ciascuno il suo». «Nel mondo del cinema - dichiara Petri - è importante trovare qualcuno che abbia le stesse vostre idee, che reagisca come voi alle cose... Bisogna pensare che un’équipe che realizza un film assomiglia molto ad un gruppo di sociologi. Non credo più nell’artista isolato». «Delle differenze esistono tra noi dal punto di vista politico - Pir­ ro precisa - ma è la matrice che è comune. Petri è più portato ad una forma di pessimismo globale; io ho un’attitudine più critica, più portata all’intervento diretto, alla volontà di far politica a tutti i costi. Petri ha dei periodi di intervento politico diretto e altri di distacco, di riflessione; ma questo fa parte della personalità e del comporta­ mento di ciascuno: ed è giusto che sia così altrimenti la collabora­ zione sarebbe senza dialettica, troppo liscia. Noi ci sentiamo un po' complementari».

Dire quanto e cosa apporti Pirro al cinema di Petri è per me im­ possibile; occorrerebbe aver vissuto in loro compagnia le lunghe ore di elaborazione dei temi, di selezione delle idee, di scelta di linea politico-culturale. Del tutto azzardando avanzo l’ipotesi che Pirro, giornalista, militante, abbia costituito per Petri la pezza d’appoggio per allestire il suo cinema su un proscenio più ambizioso e assai più

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rischioso: l'agorà, la piazza, la scena politica italiana. La “vis politica” di Pirro potrebbe aver costituito la copertura per riuscire a far salta­ re in un uomo intellettualmente intrigato - non politicamente, sia chiaro - le difese, le resistenze a mettere in gioco il nodo narcisistico situandolo in un altrove rispetto al "teatro” del privato, in una scena più complessa e contraddittoria, quella del Politico. L’accantonamento da parte della DC della vecchia alleanza di cen­ tro, il tentativo di isolare il PCI grazie a quello di centro-sinistra, con il partito socialista, la crisi economica sempre più pesante, la pervi­ cace continuazione di una politica clientelare, la prospettazione di una crisi di regime, le lotte studentesche aH’interno degli atenei, la formazione della “nuova sinistra” e la militanza di lotta, il sessantanove e le lotte operaie per i grandi contratti, il terrorismo, Piazza Fontana, Valpreda, Pinelli, le piste nere, l’ingovernabilità del paese fìno alla prospettiva realistica di un governo della sinistra: come ri­ ferire su questi anni se non impostando un impossibile catalogo? E come essere testimoni di questa realtà? Forse si può rispondere alla domanda che concerne Petri indicando il sintomo che può legare questi fatti: la stretta relazione che si stabilisce tra l’istanza del Po­ litico (che il collettivo esibisce come in nessun altro periodo della nostra vita democratica) e la sua drammatizzazione. Le piazze e le strade diventano infatti il palcoscenico privilegia­ to della “dicibilità” del politico da parte del collettivo, e ciò avviene grazie a processi di ritualizzazione involontaria. È attraverso il rito, la teatralità, in senso totalizzante, che l’istanza esibita dal collettivo si afferma come scena di sé medesima: la scena del politico diviene così, per effetto di intersecazione e sovrapposizione, la doppia scena - in senso psicoanalitico - del desiderio in ordine al politico. È il pro­ blema, che abbiamo tentato di affrontare, della camevalizzazione della scena del politico. Tale particolarissimo versante, tale lettura trasversale del dato, dell’essere nel presente, pone il cinema di Petri di fronte al proble­ ma della militanza registica, del cinema politico. Il solo Godard nel cinema europeo si muove su questo “doppio piano”, di lavoro sul ci­ nema e sulla politica. Sulla base di questa comune sensibilità con il regista francese si possono valutare gli elementi più “personali” che investono anche il rapporto di Petri con il proprio lavoro: per en­ trambi dispendio di idee, ossessioni, sperimentazione di tecniche, accettazione dei rischi, sono il mezzo, l’unico, per mettere in scacco

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ogni possibilità di duplicare passivamente il reale, di riflettere, inve­ ce, sulle sue contraddizioni, di pretendere di farsi memoria critica di esso. Il cinema di Petri, come quello di Godard, è il tentativo di col­ locare la macchina da presa nel luogo dissonante del reale; un luo­ go pur sempre cinematografico, ovvero fittizio, scenico, ricostruito (Elio Petri non ha mai fatto del cinema militante, neppure nel breve short Ipotesi in Documenti su Giuseppe Pinelli, ma rigorosamente, come Godard, del cinema di finzione): lo spazio, insomma, del car­ nevalesco, del festivo. A ciascuno il suo rappresenta una fase ancora tradizionale di ela­ borazione dei dati sociologici e politici della realtà italiana. Fase cui, peraltro, altri registi italiani sono pervenuti e da cui purtroppo non si sono mai distaccati. Il film, quindi, è un importante film politico, come si diceva allora, film civile, film d’autore, ovvero film in cui il tema è la politica stessa e non piuttosto il Politico inteso come complesso nodo enigmatico, non metafìsico, che lega il Cittadino (per parafrasare il titolo di Petri) al gioco del desiderio del Politico. È anche un film profondamente “letterario”, non per la sua osservanza, tanta o poca che sia, al romanzo omonimo di Sciascia ma per il suo muoversi nell’ambito delle mitologie che da lungo tempo attraversa­ no il nostro discorso culturale. Il protagonista è un intellettuale im­ potente sessualmente e politicamente, che trova un’esca al deside­ rio sessuale e politico solo per l’esclusivo tramite della cultura, della Scrittura (come vedremo meglio nella trama) e non nell’azione. Una figura “mitologica”, quindi, proprio in quanto fondata nella storia della nostra cultura: l’intellettuale il cui «autismo culturale - dice Petri - gli fa credere di essere completamente indipendente, autono­ mo dalla realtà». Tutti sanno, nel film chi siano i responsabili diretti e indiretti dei fatti, tranne lui, il professor Laurana, che si troverà coinvolto nella vicenda, fino ad esserne vittima, non in virtù del suo impegno di comunista che analizza i dati del reale in termini di clas­ se, ma per la sua schizofrenia di glossatore posto di fronte all’enigma di una Scrittura, una lettera anonima di morte. Laurana ha dunque i tratti di una figura sintomatica nella patologia dell’intellettuale di estrazione borghese, di sinistra, che regola del tutto astrattamente il proprio rapporto con la materialità del sociale. La cultura italiana, idealistica e umanista, pone infatti il proble­ ma dell’esistenza di un’affinità elettiva tra l’intellettuale e l’uomo del potere: inesorabilmente attratto come egli è dalla gestione cat-

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tolica e, di qui, democristiana, maliosa, oppure... stalinista (l’Hugo de Le mani sporche) della cosa pubblica (Laurana, una volta accer­ tati i suoi sospetti, si guarda bene dal rivolgersi alla polizia; prefe­ risce avere rapporti “intimi” con Rosello e trattare con lui piuttosto che con un organo dello stato democratico). Meglio sarebbe parla­ re però di gestione del desiderio collettivo. Ed è di questo ganglio che tratterranno infatti i successivi film di Petri, prescindendo to­ talmente da connotazioni sociologistiche. 11 tema ha dunque nel film una valenza anticipatrice, favorita dalla peculiarità stessa, su questo versante, degli intrighi di Sciascia. I rapporti tra potere sta­ tuale e potere cattolico, e le reciproche gestioni dell’affidamento del collettivo, saranno alla base di Todo modo. Peraltro, in A ciascu­ no il suo gli universi considerati trovano una curiosa e suggestiva proiezione geografica: la vicenda si svolge in modo altalenante tra Palermo, sede del potere temporale della Mafia, e Cefalù, cittadina dominata dalla cattedrale che è sede del potere spirituale. Laurana si dibatte tra i due poli con in mano il viatico del catastrofismo lai­ co: Moby Dick di Hermann Melville. Il farmacista di Cefalù, Arturo Manno, è bersagliato da lettere ano­ nime che lo minacciano di morte. Ricevuta l’ultima, spaventato, ne fa parte all’amico avvocato Rosello (Gabriele Terzetti) e a Paolo Laurana (Gian Maria Volonté). Manno ha fama in paese di grande donnaiolo. È per questo che tra gli intimi si tende a non dare soverchia importanza al fatto. Sarà senz’altro un marito geloso: «Sei lettere in un mese, che grafomane!» commenta scherzosamente Rosello. Laurana è invece più curioso. Si trova ad avere in mano la lettera anonima e osservandola attentamente scopre che le lettere MORIR sono un frammento di pagina di quotidiano; sul retro infatti a carattere di stampa compare la frase «cuique suum». Manno viene ucciso (poco tempo dopo) mentre, con un amico (il dottor Roscio, un’intellettuale), va a caccia. L’avvocato Rosello porta la moglie di Roscio, Luisa (Irene Papas), che è sua cugina (in compagnia di un alto prelato, lo zio), sul luogo del delitto per rico­ noscere il cadavere del marito. Il funerale è seguito con una cinepresa dalla polizia, che cerca di sele­ zionare i sospetti. L’attenzione del commissario cade anche su Laurana: la “politica” sa che è un intellettuale con simpatie di sinistra, «un tipo che non si capisce, un antisociale». Non omosessuale ma probabilmente impotente; tuttavia non sospettabile, innocuo. I commenti tra la gente durante il funerale sono per un delitto mafioso: Manno era un uomo che

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non rischiava, «non toccava le donne dei potenti ma contadine, vedove, donne ammalate». L’inchiesta sembra assai spedita, la polizia arresta dei contadini del luogo, familiari della servetta dei Manno. Questo ar­ resto sbrigativo è inaccettabile per Laurana che si sente investito di una funzione giustizialista e populista. Inizia così una indagine per sapere quale quotidiano è stato usato per comporre la lettera. Scopre che si tratta dell’«Osservatore Romano». «Quale contadino - si chiede - legge il giornale dei preti?». Due sole persone lo ricevono in abbonamento, il parroco dei Sant’Anna e il prelato, lo zio dell’avvocato e di Luisa. Il parroco gli mostra la sua copia integra. A Palermo Laurana incontra un amico, deputato comunista, il qua­ le gli racconta di essere stato interpellato mesi prima da Roscio, a Roma, per sondare la sua disponibilità a denunziare alla Camera, su giornali e nei comizi, un notabile di Cefaiù prove alla mano. Rifiu­ tò nel sospetto di piccoli ricatti borghesi. Laurana lo invita ad anda­ re "oggi’’ alla polizia: «Così pensano ad una speculazione politica» risponde il deputato. Laurana parla dell’incontro a Rosello che, nel frattempo, ha assunto ‘‘generosamente’’ la difesa degli imputati. È at­ tirato dalla personalità dell’avvocato e del resto questi lo spinge a pro­ seguire nella sua ricerca della verità. Lo porta persino in casa Roscio per cercare con l’aiuto di Luisa dove mai il dottore possa aver nascosto le documentazioni di colpevolezza. 11 corpo di Luisa, le sue gambe calzate di nero, gli si fa vicino mentre assieme cercano e frugano tra le carte del marito; il solipsismo sessuale di Laurana ne è sconvolto. Ora per lui l’indagine avrà una ulteriore motivazione: stare sempre di più “a contatto” con la donna. Insieme vanno dal padre di Roscio che vive a Palermo in una sontuosa casa-mausoleo. Il vecchio oculista Roscio (Salvo Randone), ora cieco un oculista cieco: Sciascia via Borges -, consegna loro un plico, un diario con pagine mancanti. Nel diario ci sono anche notazioni “intime”, “ver­ gogne” - «Oh Dio che scriveva!» - riguardanti i rapporti sessuali con Luisa. I due si baciano. Ecco il Leitmotiv dell’intrigo: la scrittura - nel caso il diario - ricopre una funzione erotica (apparentemente come ne La chiave di Tanizaki). Per l’intellettuale Laurana tutto è più complesso: questa è l’unica esca possibile al desiderio sia esso sessuale che politico: ciò che infatti aveva adescato il suo amore del politico era proprio una lettera (anonima). Laurana riceve un messaggio con l’invito a trovarsi a Palermo, al Pa­ lazzo di Giustizia. Qui incontra l’avvocato in compagnia di un notabile democristiano al quale lo presenta. Un terzo uomo è con loro. Ha modo di scoprire che costui è un noto mafioso. Di ritorno a Cefaiù è il prete che gli svela la storia di Rosello “notabile” mafioso. Laurana capisce di

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essere in una morsa. Vuole i diari: si incontra con Luisa sul treno per Pa­ lermo. In città non si accorgono di essere seguiti; quando lui sta per in­ sinuare una mano nella veste di Luisa e impossessarsi del plico - ancora una volta il rapporto tra scrittura ed erotismo - scorge Rosello. Questi si avvicina minacciosamente e gli dà un appuntamento notturno. Laurana mette allora il fascicolo in una cassetta di sicurezza. Lui e Luisa ricevono nel frattempo una lettera di minaccia di morte. All’appuntamento nei dintorni di Cefalù, Laurana si salva dall’agguato già predisposto col dire che il plico è al sicuro. Infuriato Rosello lo lascia andare ma gli intima di lasciare in pace Luisa. Laurana decide di giocare il tutto per tutto: di nascosto va a Palermo, in albergo. Dopo una nottata insonne, spesa sulle pagine di Moby Dick, la matti­ na presto telefona alla Questura per la denuncia; ma il commissario non potrà riceverlo che sul mezzogiorno. Telefona allora a Luisa, che è nella casa palermitana del suocero, per convincerla a testimoniare. Si incon­ trano in un luogo solitario. Luisa gli racconta di essere stata l’amante di Rosello prima del matrimonio: si volevano sposare ma, per la parentela, non avevano avuto la dispensa. Parla del rapporto che la legava a Roscio: la considerava «solo un corpo». Cade in una specie di deliquio e Laurana le va addosso, la tocca, cerca di possederla. Ma lei si riprende e fogge in macchina. Dentro l’auto c’è la borsa di Laurana con le chiavi della cassetta di sicurezza; getta la borsa in un luogo prestabilito. La ritirano gli uomini di Rosello. Laurana è in trappola: i killer lo raggiungono, lo trasportano in una cava solitaria. Lo rinchiudono in una baracca che fanno saltare con le mine. Di Laurana non resta che uno sbuffo di fumo ripreso in un campo lungo. La teoria di auto di rappresentanza degli invitati al matrimonio dell’avvocato con Luisa stessa incrocia il carro fu­ nebre di Laurana che va per un’altra strada. L’arciprete ha fatto ottenere la dispensa.

Un’ultima notazione: con questo film non si cementa solo la colla­ borazione di sceneggiatura tra Petri e Pirro, si forma uriintera équipe di lavoro. 11 regista affida infatti la fotografìa all’operatore Kuveiller che costituirà un perno per tutti i film successivi, splendidi fotogra­ ficamente. Ma soprattutto nasce il rapporto tra Petri e Gian Maria Volonté.

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8. Un tranquillo posto di campagna. La pittura, Renzo Vespignani Il film segna un apparente riflusso rispetto al progetto di cinema­ politico, civile, che sembrerebbe accomunare e saldare A ciascuno il suo con Indagine. Ma proprio la distanza che separa i due film deve meglio far riflettere su quest’opera che pare extravagante nella filmo­ grafia di Petri. Certamente il tema, che altro non è se non un’allego­ ria della condizione dell’artista contemporaneo di fronte al proble­ ma della creatività, non è rintracciabile in altri film a meno di non risalire ad un breve sketch de / giorni contati: l’incontro tra Cesare e il “professore”, critico-mercante di quadri, e la loro visita al pittore “moderno” che dipinge una tela a strisce bianche e nere, tanto simili alle zebre pedonali che l’amico di Cesare, imbianchino comunale, sta tratteggiando nei pressi del Colosseo. Ma la pittura, l’universo pittorico, se non trova altrove spazio te­ matico, è sempre un referente in molte opere di Petri. La lunga e affettuosa amicizia che lo lega, fino ai suoi ultimi giorni di vita, a Vespignani ne è prova. 11 pittore è infatti un collaboratore di pri­ maria importanza, da / giorni contati a Le mani sporche (di cui è consulente artistico) a Chi illumina la grande notte. Purtroppo nelle

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monografìe su autori si tende a condensare il discorso critico attor­ no alla figura del regista o degli sceneggiatori. Ecco perché grandi professionisti quali il direttore della fotografìa Luigi Kuveiller, il montatore Ruggero Mastroianni, fratello di Marcello, altro intimo amico di Petri, da sempre suo collaboratore, il geniale musicista En­ nio Morricone, compositore di tutte le colonne sonore a partire da Un tranquillo posto di campagna, l’eccellente scenografo di La classe operaia e Todo Modo Dante Ferretti, Mario Bramonti, tecnico del suono, e chissà chi altro indispensabile sul set di Petri, sono nomi che i critici evocano a tratti ma che, invece, fanno parte della quoti­ dianità del lavoro attorno al film che troppo spesso sfugge ai libri di cinema (questo compreso) e ne sono a fondamento. Sono pensabili Indagine senza la colonna sonora di Morricone e Todo Modo senza le invenzioni scenografiche di Ferretti? Per capire l’importanza di Vespignani nei film di Petri sui quali è intervenuto si può dare i due esempi più vistosi: sui titoli di testa di I giorni contati e La proprietà non è più un furto compaiono opere del pittore. Sono proprio queste che danno la tonalità, sono la domi­ nante del film, ovvero designano l’apparato “finzionale” dell’opera, ne costituiscono il significante per condensazione a al tempo stesso la cifra oscura. La morte, la decomposizione della maschera, la con­ sumazione dei tratti, lo slabbrarsi dell’effetto coloristico in un mag­ ma “sporco” rappresentano l’anima nera di un film apocalittico come La proprietà; allo stesso modo le gravures che precedono / giorni contati, dal segno più realistico, doppiano l’incubo del vissuto del protagonista. Elio, negli ultimi mesi di vita aveva poi inviato a Renzo la sceneggiatura di Chi illumina la grande notte perché lavorasse l’a­ spetto visivo dei protagonisti. Gli schizzi sono pubblicati nel citato Quaderno della Biennale Cinema, 1983. I due sono amici da lunga data, dagli anni di Città aperta. Vespi­ gnani è uno dei firmatari del manifesto dei 101, già citato. Pirro ricor­ da che nella Roma degli anni cinquanta, Petri frequentava il gruppo dei figurativi, Attardi, Urbinati, Checci, Muccini e annota che:

certamente questo sodalizio contribuì a formare il gusto del futuro regista, a dare alle sue immagini plasticità e vigore, al fotogramma ele­ ganza compositiva e modernità di segno.7 7

Volume della Biennale Cinema, op. cit.

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Petri ama dunque fortemente la pittura, la sua tecnica che ancora presuppone il lavoro artigianale (dalla preparazione delle tele cui molti pittori attendono personalmente, alle mescolanze dei colori, alle differenti tecniche contemporanee), le sue modalità creative:

penso che la pittura sia un vero e proprio contrappunto dialettico e visibile tra un essere sociale che vuole esprimersi in maniera esplicita e pubblica e la dinamica dell’inconscio. Nella sua casa romana, poi, il regista possiede una piccola ma bel­ la collezione di quadri, la maggior parte dei quali, in un certo senso, riverbera per tecnica rappresentativa lo stile di Petri: un figurativi­ smo distorto e grottesco, escrementizio come le grandi tele visiona­ rie di Vespignani, appunto. Il desiderio, dunque, di girare un film sul mondo della pittura è antico. Il primo progetto andato a vuoto è del 1962. Sei anni trascorrono prima che Petri riesca nel suo intento. Nel tempo, la sceneggiatura, rivista con Tonino Guerra, subisce muta­ menti. L’idea era quella di tracciare il ritratto di un artista “romanti­ co”. Così designando il personaggio, Petri intendeva connotare cri­ ticamente la scommessa suicida che l’arte moderna lancia all’ordine del linguaggio nell’età della riproducibilità tecnica. La sceneggiatura del ’62 riguardava un pittore informale, poiché allora era quella la corrente più seguita (Fautrier, Wols: «il pensiero rifiuta di organiz­ zarsi: era il lato estremo del romanticismo»). «Nel ’68 - dice Petri - si registrava un gesto ancora più disperato da parte dell’artista ro­ mantico: si trattava di recuperare l’obiettività, arrivando ad impiega­ re davvero l’oggetto stesso... fosse pure un corpo umano (Duchamp, Schwitteres). É la pop art». Come lavoro preparatorio in America aveva girato, a 16 mm, del materiale - mai montato - sui metodi di lavoro, sulle tecniche del gesto di Jim Dine, un caposcuola con Johns, Oldenburg, Rauschenberg: «c’era molta schizofrenia in questo rap­ porto con gli oggetti che voleva incorporare nella sua opera.... c’è una disperazione terribile in questo piccolo film». Nel cortometraggio si vede Dine dipingere dodici quadri e in Un tranquillo posto di cam­ pagna ci sono questi dodici quadri rifatti da Franco Nero; la tecnica usata nella finzione è esattamente quella di Jim Dine (Nero fu scelto anche perché aveva circa la stessa età). Il film tratta dunque di una schizofrenia, di un mancato rappor­ to d’oggetto e dell’ansioso e folle tentativo di ricongiungimento con

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l’oggetto perduto; il pittore ricerca nella solitudine di una villa vene­ ta, neir'assenza” una “presenza”: quella di un fantasma, in quanto la ricerca disperata è quella della bellezza perduta del Rinascimento, pur nella convinzione che essa sia ormai fuori da ogni portata. «E’ veramente la morte dell’arte; il fantasma è l’arte, nella casa l’arte era morta. Nella solitudine, di fronte alla natura dolce ma indifferente, ormai la possibilità per l’uomo moderno di possedere questo tipo di bellezza, di avere questo tipo di rapporto erotico, era scomparsa». Leonardo (Franco Nero), pittore quotatissimo "in borsa", attraversa un periodo di violenta crisi creativa, non dipinge più. 1 rapporti con la sua donna, Flavia, sono improntati al sado-masochismo più delirante. L’uomo trascorre da una allucinazione ad un’altra e il suo demone pu­ nitore è Flavia (Vanessa Redgrave) cui fa colpa di essere la sua padrona poiché è lei che lo amministra artisticamente, ne tiene i rapporti con i mercanti, fa da tramite al flusso di denaro delle vendite e lo obbliga a lavorare sulla base delle ordinazioni e delle richieste del mercato. È la sua ferrea manager, infermiera e madre: la sua castratrice in arte ed in amore insomma. Leonardo si "vede” ucciso nella vasca da bagno, come Marat. Cerca di sfuggire ai continui deliri di sangue e di morte fuggendo ogni rapporto; acquista una villa nel Veneto, settecentesca, splendida e abbandonata. Si ritira, nella casa, in assoluta solitudine e in attesa di "non so che”. In un incubo si era visto al di là del cancello della villa, allora del tutto a lui sconosciuta, fare segno a se stesso di entrare all’in­ terno. Fu poi viaggiando in Veneto per una mostra che scoperse che la sua visione aveva una corrispondenza nel reale. Leonardo quindi decide di mettersi di fronte allo “specchio” per vedere in se stesso e sfidare in questo modo la sua nevrosi. L’unica persona che abita la casa assieme a lui è una giovane conta­ dina che gli fa da domestica. Certi segni di reale, il sudore della donna, le sue vesti povere, il cibo antico, nella loro materialità perduta lo col­ piscono. Riprende furiosamente il lavoro. Nella notte ha degli incubi; nella sua stanza di lavoro tutto vola vorticosamente, dalle suppellettili alle tele, ai colori, fino a schiantarsi in terra. Ha paura e si rifùgia nella camera della cameriera ma la trova in compagnia di un uomo; racconta tutto e decide di dormire nella loro stanza. Parlando di questi fatti viene a sapere che il paese crede nell’esistenza di un fantasma, una contessina bellissima morta nella villa durante la guerra, che aveva fama di nin­ fomane ed era l’amante di alcuni paesani, ora vecchi. L’arrivo di Flavia pare scatenare le ire di una forza misteriosa. La donna è fatta segno di atti ostili. Una notte Wanda, la contessina, pare materializzarglisi da­

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vanti. Saputo dell’esistenza in paese di un medium, organizza una se­ duta. Ricerca intanto la verità sulla morte di Wanda; va a visitare sua madre, in Venezia, una donna decrepita che lo accoglie distesa come Paolina Borghese su un divano impero: la “vede” come Magritte aveva “rivisto” la statua di Canova, ovvero un catafalco sdraiato sul canapè. In paese conosce finalmente l’uomo che era stato il suo amante. È lui che gli mostra lo strano stanzino segreto dove facevano l’amore: una parete della stanza è uno specchio doppio, da cui probabilmente la madre se­ guiva l’incontro. Un giorno, nello stesso modo, l’uomo la sorprese con un soldato tedesco e per la gelosia lo uccise a colpi di zappa. Lei lo aiutò a seppellirlo ma improvvisamente vi fu un attacco aereo e la mitraglia­ trice la falciò. Giunge la notte della seduta; Leonardo sente ormai una complicità con Wanda contro Flavia, l’intrusa. Stabilito il contatto con lo spirito, nel buio della sale, Flavia sente due mani che le stringono il collo, si difende con le unghie; si riaccendono le luci e la seduta si scioglie. Più tardi Flavia riconosce sulle mani di Leonardo i segni dei graffi: è lui che vuole la sua morte. Fugge disperata per la casa ma lui la raggiunge e la uccide con la zappa: la tagli a pezzi. Poi uccide la domestica e il suo amante. Dipinge tutti i cadaveri di rosso vivo (dello stesso colore aveva fatto giorni prima dipingere gli alberi del giardino). Intanto l’ammini­ stratore confessa di aver lui stesso ucciso la contessina. Finalmente solo, Leonardo cerca di catturare l’oggetto amato: si chiude nella stanzetta “dell’amore” e riunisce tutti gli specchi della casa per catturarvi l’imma­ gine della donna. Nel delirio talvolta si vede possedere la donna talaltra stringere fra le braccia il cuscino. La mattina i carabinieri entrano nella casa, fanno una perquisizione, non scoprono cadaveri, da nessuna parte: Leonardo viene fermato su richiesta di una donna di cui non si vede il volto. Ha un’ultima visione, un’ultima imagerie libidinale: vede il prato antistante pieno di persone che dipingono quadri rossi sotto la sorveglianza dei carabinieri. Viene rinchiuso in un manicomio: al guardiano-infermiere cede i quadri che dipinge in cambio di riviste pornografiche. L’infermiere porta ogni pez­ zo all’esterno, a Flavia che si preoccupa di venderli. «Il film fu per me un vero giro di boa - dice l’autore dovevo affrontare i problemi di un artista che aveva perso l’ispirazione, nel senso romantico del termine, e che cercava di ritrovare i suoi rap­ porti con la realtà, ma ingannandosi: credeva che la realtà fosse un fantasma e di conseguenza dava nuovamente alla realtà una signi­ ficazione romantica. È stato a quel momento che ho deciso di non

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girare più che film-politici; ho capito che l’artista aveva ragione ma che occorreva far attenzione a non ricadere in un fantasma. Il per­ sonaggio del film aveva ragione di sentirsi inutile, di sentire che la pittura era una istituzione e una conoscenza ormai inutile, a-sociale, senza fondamento nella vita se non come referenza metafisica». Il film è dunque una svolta ideologica contro la parola d’ordine, chiave, del sessantotto, ‘Timmaginazione al potere”: i quadri rossi infatti si fanno, ma sotto gli occhi patemi della Benemerita; con­ tro un cinema d’artista, un cinema “in soggettiva”. Ma Un tranquillo posto di campagna è prima di ogni altra cosa un giro di boa tecnico; di tecnica narrativa, di montaggio, di ritmo, di effetti speciali, di fo­ tografìa. Senza l’esperienza maturata sarebbero forse impensabili i successivi film, tanto essi si reggono sulla assoluta padronanza dei risultati acquisita dal regista, sul dominio dell’effetto di spettacolo che fonderà la sua major phase registica.

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i. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Petri e Volonté.

Come dire il crocicchio della vita politica italiana nel ’68? Come rappresentare il deflagrare delle contraddizioni della nostra socie­ tà con la macchina da presa? È in quegli anni che si fa incessante l’ansia dei cineasti di rispecchiare la lotta ideologica, culturale, fì­ sica, divampante nelle università, nelle strade, nelle piazze d’Italia, di riferire il “tutto" del politico. Pare avvenga, in quegli anni, uno spostamento nella gestione della parola politica, dai luoghi deputati (il Parlamento, le sedi dei partiti, le piazze dei comizi domenicali) ad altri imprevedibili, estemporanei, non riconosciuti dalle Que­ sture. La lotta in Italia assume un altro volto, che la macchina da presa “deve” (un “dovere” d’ordine ideologico) riflettere. Nascono i cinegiornali militanti, il cinema militante. Nascono, sotto lo stesso impulso, molti film sulla politica e, infine, Indagine. Quale discrimi­ nante separa il film dalle altre pratiche di cinema politico? Questa è la domanda cui cercheremo di rispondere. Sul n. 40 di «Quaderni Piacentini» il critico Goffredo Fofi scrive­ va: 11 valore del film consiste nei suo rapporto con un contesto reale odierno. Senza certi fatti recenti, senza la tensione quotidiana di una lotta di classe in progresso e le sue contraddizioni [...] il film avrebbe meno rilevanza, meno peso. Lo sforzo è infatti come sottolinea Fofi, di situarsi in medias res, di girare “al presente”; eppure Petri non sceglie nella sua scommessa la strada percorsa dai cineasti militanti: non respinge la griglia del film di finzione, gira un “film" tradizionale, in tutti i sensi, con un pro-

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duttore (Marina Cicogna e Daniele Senatore), attori e sceneggiatori. L’abbandono delle lusinghe del cinema-giornale, del cinema di mi­ litanza, volutamente diretto, se non naif, e il percorrere una traccia che non rigetti la retorica dell’universo discorsivo fìnzionale - dalla quale il cinema di lotta vuole, idealisticamente, discostarsi - porta alla fabbricazione di questo film assolutamente eccentrico, a più di un titolo nel cinema politico italiano. Anche la successiva ed unica esperienza di film militante del regista, ovvero Ipotesi, episodio di Documenti su Giuseppe Pinelli, è la ricostruzione teatrale, brechtia­ na, dei fatti. Ma l’essere sulla scena del presente politico, in modo spregiudica­ to, come mai altro regista all’infuori di Rossellini, non è a mio parere la sola ragione dell’enorme ascolto ottenuto. Sostengo insomma che Indagine non sia stato un film eccellente perché incardinato nel sessantotto, ma perché è un film che inscena il sessantotto. La sua peculiarità è di mettere appunto in scena Ine­ sca” fantasmatica che muove e sommuove l’onda sessantottesca. Di qui il suo effetto d’ascolto perché risponde non a domande su ma a bisogni, fantasmi di Sessantotto. La scommessa che lo muove è di inserire la rappresentazione del­ la politica italiana all’interno di canoni discorsivi segnati da quella traccia che ho definito come carnevalesca. L’avventura del Carneva­ le, nelle implicazioni che abbiamo descritto nel capitolo d’apertura, si spegne come rito sociale alle soglie del diciannovesimo secolo. Il problema è considerare se e come trovino ancora agone le virulenze immaginarie legate a quel rito. 11 critico letterario sovietico Bachtin vede l’ultimo innesco della scintilla carnascialesca nello spazio letterario, ossia nell’universo della rappresentazione. Abbiamo visto quanto tale posizione tenga conto della scoperta freudiana e la suc­ cessiva elaborazione lacaniana dell’inconscio come linguaggio. Lungo quest’asse va la scrittura di Petri in Indagine per la messa in scena del sintomo carnevalesco del e nel discorso politico. Il primo strumento a quest’effetto è l’invenzione della maschera del potere per il tramite del corpo di Gian Maria Volonté. 11 regista e l’attore si erano già incontrati in A ciascuno il suo, ma in quel film il lavoro sull’attore non si allontanava di molto da quello che altri registi del “cinema civile” avevano già codificato. Il primo lungometraggio di Volonté, come protagonista, fu Un uomo da bruciare di Valentino Orsini e Paolo e Vittorio Taviani. In un certo senso, d’allora in poi,

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Fattore, proveniente dal teatro impegnato (ricordiamo la messa in scena de II Vicario di Rolf Hochhuth), perseguendo una seria gestio­ ne del proprio mestiere (e respingendo il facile perseguimento del successo nel cinema commerciale, dopo Per un pugno di dollari, e Fermata Brancaleone) si pone al servizio di quello che lui ama chia­ mare il cinema civile italiano. Quest’ultimo lo accoglie riservando alle sue qualità non comuni, oltre che al suo professionismo, una nicchia privilegiata: gli assegna il ruolo dell’intellettuale di sinistra, nell’ampia sfaccettatura socio­ logica della “figura”: talvolta eroe positivo, talaltra contraddittorio o ambiguo (come in A ciascuno il suo). Ruolo tutto sommato im­ prontato, nei suoi esiti positivi, al naturalismo oppure ad un rea­ lismo gramsciano. Ricordiamo, a questo proposito, che in Sotto il segno dello Scorpione, dei Taviani, Volonté interpreta ironicamente un meta-ruolo: un capo popolo che, nella struttura simbolica del film, è l’uomo dell'ordine, l’uomo del PCI, contrapposto alle forze del Movimento, della “nuova sinistra”. Tutt’oggi nel cinema italiano l’immagine di Volonté resta fortemente univoca: ne è un esempio il ruolo di Carlo Levi nel film Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi e quello di un terrorista basco in Ogro di Pontecorvo. Il Volonté di Petri - dall’ispettore d’indagine al “Moro” di Todo modo - sconvolge ogni modello assunto fino ad allora e in assolu­ to, dall’attore. Petri esalta le qualità mimetico giocose della sua re­ citazione ma a differenza della gran parte dei cineasti italiani non le volge in mascherone (di passaggi da attore drammatico ad attore comico, della commedia, è piena la nostra storia cinematografica del dopoguerra). Volonté assume i tratti ma soprattutto la funzione sulla scena di maschera comico-sublime: Re Carnevale - come ab­ biamo detto, homo che se fa rege, pupazzo animato, scosso dai deliri autoritativi ed autorizzativi del Collettivo. Negli stilemi della com­ media all’italiana l’ispettore di Indagine altro non funzionerebbe che come perversa caricatura, mascherone appunto, del meridionalismo dell’amministrazione dello Stato, in particolare della Polizia, e come derisione e scherno di una struttura centralistica e gerarchica fonda­ ta in termini mafioso-patriarcali (legata, di fatto, ad una più vasta organizzazione di Potere democristiano). Indagine persegue invece un altro effetto: il lazzo, il comico, il grottesco che alimentano la sua finzione hanno una significanza dif­ ferente nel testo, avente a che vedere con il desiderio del Cittadino

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piuttosto che deH’“ispettore”. Al di là della precisione della trama “poliziesca’’1, dei suoi risvolti politici, va interrogata la predominan­ te figura del protagonista. L’ispettore-Volontè risucchia la scena, la dissangua, la riduce ad ossessivo rumore di fondo per lanciare alta la sua invocazione isterica d’amore del Potere. Oggi, sulle ceneri del sessantotto una ricerca sociologica farebbe scoprire che la più parte dei quegli studenti sono ormai i funzionari dello Stato assistenzia­ le, che con gesto amoroso li ha raccolti dalle piazze d’Italia e li ha "incardinati” neH’Amministrazione. Oggi essi fanno cardine: un po’ dovunque desidereranno esser ricevuti e amati dai capuffici, dai capi sezione, dai direttori generali, oppure sono già loro il Potere. Ricor­ diamo ancora una volta la frase luciferina di Lacan, citata:

L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Gò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete. E questa conclusione quaresimalistica inesorabilmente fa "rispu­ tare” la “verità” analitica di Indagine (in favore di uno dei tanti “per­ ché” il cinema di Petri si faccia dire oggi, piuttosto che ieri), quale film sul sessantotto come desideranza del potere. Per l’ispettore compiere l’assassinio dell’amante significa portare una sfida al centro del meccanismo fideistico che fonda l’Autorità, e al suo effetto di credenza. Non è un caso che nel corso del film, parlando dell’"interrogatorio” e della sua metodologia così lui lo de­ finisca:

È una messa in scena per toccare corde profonde, sentimenti segre­ ti. Di fronte a me che rappresento il Potere l’indiziato diventa un po’ bambino ed io divento il Padre, il modello inattaccabile; la mia faccia diventa quella di Dio, della Coscienza. Ecco Re Carnevale: homo che se fa rege. Ma il dirsi Dio è anche una bestemmia: è nel contempo la incoronazione e la scoronizza-

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Petri vinse con il film l’Oscar per il miglior film straniero, che non andò a ritirare per presa di posizione politica. Fu poi molto felice per l’attribuzione da parte dei Mistery Writers ofAmerica dello Special Award Edgar Allan Poe.

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zione del Potere e del suo effetto di credenza nell ambito del Collet­ tivo. Di fatto il poliziotto soffre questa dimensione divisa: sublime e basso comica al tempo stesso La sua amante a più riprese non lo accusa forse di infantilismo sessuale? Ovvero di essere la prima vittima del meccanismo che vorrebbe dominare? Lanciando, con l’omicidio, la sua sfida, commettendo la sua radicale trasgressione, nella disseminazione degli indizi a suo danno, da una parte egli cer­ ca la conferma del buon fine della azione: «Ho lasciato indizi non per fuorviare le indagini, ma per provare, per provare la mia inso­ spettabilità, tuttavia quando hai fatto condannare un innocente al tuo posto la tua insospettabilità non è provata», «Un delitto lo hai da firmare nome e cognome». Solo “provando", nel gioco della “no­ minazione”, ci si incorona. L’“al di sopra” di ogni sospetto diventa Pai di là” del potere reale. Al contempo tuttavia il disagio di nominazione si offre al gioco del lutto, si apre al tempo quaresimale. Proprio (’imputarsi, il far­ si vittima sacrificale è il movimento stesso della colpevolizzazione per la pronunzia della bestemmia. È qui che s’annida il tarlo comico che mina la sublimità, l’eroicità dell’agire. Questa altalenanza è pro­ pria di ogni enunciato attorno al Politico, traversato come esso è dal sintomo isterico, in questo senso l’ispettore è anzitutto Cittadino, membro del Collettivo desiderante attorno al Potere. Di questa desideranza sessantottesca, nella sua continua pronunzia della bestem­ mia, nel godimento precluso, il Cittadino è il fantoccio, la maschera sublime e comica. Sulla scena di “Indagine “ predomina infatti un soma, acceso nei suoi terminali (corpo, tratto, lingua) dalla grande arte di Volonté, che si fa trapassare da questa corrente squassante. Così il gesto, la maschera “dice” il sublime e nel guizzo subitaneo accede all'escrementizio. Valga la sequenza in cui l’ispettore fa la sua entrata negli Uffici della sezione omicidi dopo aver commesso l’assassinio e viene fe­ steggiato in quanto “promosso” alla "politica”. Attorniato dai colla­ boratori, bicchieri di carta e spumante, si muove nei corridoi come un padrone burbero, chiamando con sufficienza, ad uno ad uno, i suoi sottoposti, ammiccando platealmente sul nome del servo più sciocco, l’appuntato Panunzio, «Panunzió, Panunzioò!». Il suo suc­ cessore, dall’aria untuosa, vuole improvvisare un discorso di ringra­ ziamento e d’addio. Lui interrompe con fastidio, «E finiamola con queste leccate! Il carnevale è finito». L’unica cosa da dire a commen­

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to è invitare il lettore, se possibile, a rivedere il film e questa scena per rendersi conto appieno dell’ininterrotto trascorrere della ma­ schera detrattore dal sublime al comico, dalla maschera autoritaria al suo ghigno. Fondamentale in questo difficilissimo procedimento recitativo è la funzione della lingua. Petri ha grande attenzione per il problema dei dialetti in rapporto alla koinè rappresentata dalla lingua italia­ na, impostasi nel tempo come fittizio spazio di comunicazione ten­ dente in realtà a marginalizzare e a suturare gli scarti linguistici. La commedia all’italiana ha recuperato e dato ampia risonanza (si pensi alla televisione) all’inflessione dialettale vanificando nella edulcora­ zione della fonia e del gergo la frattura che il dialetto apre nel corpo ideologico della lingua. Il dialetto nella commedia all’italiana viene appaesato, al contrario, nel grembo della madre lingua. In Indagine l’italiano impossibile del Cittadino mette in scena il tentativo di occultamento delle disfonie degli idiomi; la caden­ za forzata siculo-meridionale non caratterizza più socialmente, od economicamente, il personaggio; ambisce invece a denotare come all’intemo dell’articolazione del discorso si instauri il sintomo isteri­ co: l’italiano è infatti per l’ispettore/Cittadino lo spazio “totale” del­ la comunicazione, la lingua del Potere, dell’Amministrazione come Chiesa (quello storicamente imposto in Italia dell’Unità, che è sta­ ta anche unità linguistica). All’interno di questa finzione, falsa co­ scienza di una totalità linguistica, trovano articolazione i disagi che producono cacofonie, fratture, smagliature, in un tessuto linguistico che è poi assolutamente ideologico. Volonté è maestro nell’inces­ sante alterazione della tessitura “sublime” del Discorso del Potere (nella lingua), crea effetti spettacolari difficilmente dimenticabili. Considerazioni di analoga natura condurranno alla gamma delle di­ sfonie lombarde di Lulù Massa ne La classe operaia e alle inflessioni basso-mimetiche da stanze del potere del “Moro”di Todo modo. Una strada del quartiere ebraico di Roma. Un uomo guarda, ben at­ tento a non essere visto, una finestra di una palazzina liberty; sale una scala in “stile” ed entra in un appartamento. Lo attende una donna: «Come mi ammazzerai stavolta?». «Ti taglierò la gola». Si spoglia di fronte all’amante, Augusta (Fiorinda Bolkan), piega con cura i pantalo­ ni color kaki, si toglie le mutandine blu. Entra nel letto dalle lenzuola nere. Lei gli sta sopra, poi le esce un grido strozzato, non da godimento:

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le ha reciso la carotide con una lametta. Si rialza, lava, riordina e ruba dei gioielli per depistare le indagini ma non si cura di lasciare impronte. Scendendo le scale del palazzo, in Via del Tempio, incontra un giovane ‘‘capellone”. 1 due si guardano fissamente. L'ispettore capo della Sezione Omicidi (Gian Maria Volonté) ha as­ sassinato la sua amante. Fra i due vi era un rapporto sadomasochistico. Nel loro gioco coinvolgevano talvolta quale vittima anche il marito omo­ sessuale, da cui si era separata. Mimavano insieme le situazioni erotiche incontrate nella sua professione: i ritrovamenti dei cadaveri delle donne uccise e violentate, il godimento dell’inquisitore negli interrogatori. Lei, per contro, quando cessava di giocare alla vittima, ne faceva il suo zim­ bello: gli gettava in faccia con sarcasmo il suo infantilismo sessuale, il suo essere un eroe grottesco e comico, per il suo modo di gestire, vestire, impomatarsi i capelli. Essere poliziotto e vittima al tempo stesso. Uscito dall’appartamento giunge alla Omicidi, dove viene festeggiato per la sua promozione a ispettore capo della sezione politica dal succes­ sore Mangano. Lui interrompe la “cerimonia” dimostrandogli tutto il suo disprezzo (come già descritto più sopra). Come ultima operazione alla Omicidi va a fare il sopralluogo in casa Terzi, infatti, proprio lui con voce camuffata, ha avvertito la polizia del delitto: «Ma che fa, dorme? - urla all’agente di guardia - Via del Tempio, non via del Tempo. Creti­ no!»... Sul luogo del delitto lascia ovunque impronte di sé e definisce l’assassino «libertino, dannunziano...» (ovvero: del sublime). Scopro­ no le foto polaroid che le scattava in posa da morta. Il sostituto Biglia (Orazio Orlando) commenta: «Per me é un cretino, un gagà, un presun­ tuoso» (ovvero: del comico). Sulle scale, tra la folla di curiosi assiepati, rivede il ragazzo che abita nello stesso palazzo. All’uscita si apparta con un reporter e lo prega di insistere sui sospetti nei confronti del marito della vittima. Arriva alla Sezione Politica e pronunzia il discorso dell’investitura con tono di efficientismo, all’americana: «Sotto ogni criminale può na­ scondersi un sovversivo... il popolo è minorenne... la repressione è il nostro vaccino, repressione è civiltà!». Nella sala, tra gli astanti, si rico­ nosce Petri. Va quindi al centro schedature e per gioco («immaginiamo che il delitto Terzi abbia sfondo politico») si fa tirare fuori la scheda dello studente che lo ha visto. L’idea è di far passare il delitto per omici­ dio politico. Si reca poi dal suo superiore (un grande Gianni Santuccio), nella cui stanza fa bella mostra un ritratto di D’Annunzio, l’orbo veg­ gente, e gli rivela di aver avuto rapporti intimi con l’uccisa. L’altro con fare ammiccante, maschilista, sapiente e complice, chiede: «Com’era?». Vengono intanto raccolti gli indizi. Emergono sue impronte nella stanza e un filo di una cravatta azzurra nell’unghia dell’uccisa: «Ma l’as­

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sassino ha operato da nudo? Nudo con la cravatta? Panunzio!», sfotte l'ispettore. È proprio lui invece che a bella posta ha messo nell’unghia della donna un filo della cravatta che lei gli aveva regalato. Viene arre­ stato il marito omosessuale. Ma, interrogatolo personalmente, l’ispet­ tore mimando i suoi modi femminei, lo fa scagionare. Fa quindi una telefonata con voce contraffatta, ma individuabile, all’amico giornalista Patanè - che ovviamente lo riconosce - dicendo che alla polizia è ar­ rivato un pacco con la cravatta dell’assassino. La centrale intercetta la telefonata e Biglia stesso riconosce la voce del suo ex capo. Il poliziotto vuole lanciare la sua sfida radicale: affermare la sua inattaccabilità, il suo Potere, ‘‘firmando'’ il reato. Ma, al contempo, è preda del delirio autopunitivo, quaresimale. Biglia lo sospetta per la cravatta e le impronte. Lui risponde con lo scherno. Per la strada, occhiali neri, ferma un passante (Salvo Rondone) e racconta di aver bisogno di cinquanta cra­ vatte azzurra per una rivista d’avanspettacolo: «Cinquanta cravatte azzur­ re per cinquanta bambolone». Gliele fa acquistare con uno stratagemma; poi, sollevando gli occhiali, gli intima di guardarlo bene in faccia e andare a denunciarlo perché è un assassino: «Mi guardi bene. Faccia il cittadino! Vada in Questura!». Naturalmente una volta in questura il poveraccio, posto di fronte all’ispettore, ritratterà spaventato il riconoscimento e lui lo farà passare per matto. Ma i sospetti cominciano a infittirsi. Nel frattempo scoppia una bomba al commissariato. Si effettuano immediate retate fra gli studenti del Movimento. Il ragazzo di via del Tempio, di nome Pace, è fra i molti che vengono portati in camera di sicurezza: «Hanno gli stessi nomi di trentanni fa - commenta un po­ liziotto - la rivoluzione è come la sifilide». 11 Commissario interroga personalmente un ragazzo, l’amico di Pace, per fargli confessare che è stato l’altro a mettere la bomba. Lo costringe a stare in ginocchio e gli fa bere acqua salata: «Un po’ di dignità - lo sbeffeggia quando si accascia stremato - sei un cittadino, non sei un cavallo! La democrazia - sen­ tenzia - è l’anticamera del socialismo. Io, per esempio, voto socialista». Ottenuto ciò che voleva, fa introdurre Pace che crede di avere ormai in pugno. Costui invece io affronta, non ne ha paura anzi lo deride plate­ almente, lo stringe alle corde accusandolo di assassinio. L’ispettore ha una crisi di nervi e Pace addirittura si fa aprire la porta della cella dai poliziotti sbalorditi, «Non è niente... rilasciatelo». Il delirio alternante l’euforia alla melanconia, l’effetto carnevale­ sco a quello quaresimale, occupa ormai la totalità della scena.

L’ispettore, perduto il suo potere nei confronti di Pace, degli studenti sovversivi e dinamitardi, ovvero nei confronti del suo ordine ideologico,

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decide di accusarsi: si reca alla Squadra Omicidi e lancia a Mangano, che disprezza, il suo ultimo proclama sublime-comico: «Piccolo fun­ zionario tu non potrai mai comprendere fino in fondo il significato del mio gesto, con il quale intendo riaffermare, in tutto e per tutto, nella sua purezza, il concetto di Autorità. L’assassino di Augusta Terzi ve lo consegno io!». E lascia loro una lettera di confessione.

Quale miglior scena di incoronazione e scoronizzazione di questa? Si rinchiude quindi nella sua abitazione, in camera da letto. Biglia entra e lo avverte che tutti i pezzi grossi stanno nel salotto in sua attesa. L’ispettore, corpo sacrificale, è la mimesi della prosternazione e dell’u­ miltà (vedi certi atteggiamenti “chini” e "rassegnati" del Moro-Volontè di Todo modo). Il Commissario, congiunte le mani a preghiera, lo guar­ da da Padre/Prete con severità amorosa: gli tira le orecchie e, per puni­ zione, gli fa ingoiare una manciata di sale. Gli dimostra che, nonostante la confessione, contro di lui non vi sono prove concrete. Lui, per contro, fa notare il filo della cravatta azzurra. «Una dissociazione, una nevro­ si - commenta con gli astanti il Commissario - è un immaturo» (nel montaggio c’è uno stacco con il primo piano della nuca del Commissario che si tocca con la punta delle dita i capelli tinti con un cachet azzurro). «Confesso la mia innocenza», dichiara infine l’ispettore. «Non dimen­ tichiamoci - conclude il commissario - che c’è un nemico che conosce i fatti». E allude ai sovversivi a piede libero. Ma tutta la sequenza altro non è che una réverie punitiva dell’ispetto­ re: egli è ancora sul letto. Ora “realmente” stanno arrivando le auto degli alti funzionari. Li fa entrare nel salone. Le serrande alle finestre vengo­ no abbassate. Nulla si sa di quel che avviene. Il film si chiude con una ci­ tazione di Kafka: «Qualunque imposizione faccia su di noi /egli è servo della legge, quindi appartiene / alla legge e sfugge al giudizio umano».

2.

Ipotesi, in Documenti su Giuseppe Pinelli

Il film è un lungometraggio composto di due parti, l’una di Nelo Risi, la seconda, “Ipotesi”, di Elio Petri, con la collaborazione di Luigi Kuveiller, operatore, e degli attori Gian Maria Volonté, Luigi Diberti, Renzo Montagnani. Si tratta di un film militante, distribuito attra­ verso canali politici, quelli del PCI e del Movimento studentesco. In Francia circolò stranamente e piratescamente assemblato, per la sola parte di Petri, con Angela Davis di Yolande de Luart.

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«1112 dicembre - dichiara Petri a Gili - vi furono gli attentati di Milano e Roma: questi avvenimenti sono una grande chiave per comprendere tutto ciò che è accaduto in Italia dopo questa data. All’indomani del 12 molti fra noi si erano resi conto che ci si trova­ va in un momento cruciale della storia del Paese. Con questo tipo di provocazione, questa strategia della tensione, si era creata la possibilità di un ritorno della destra italiana. Secondo me la stra­ tegia della tensione è manovrata e provocata dalla dc. In effetti il centralismo non ha ragione d’essere che in quanto equilibratore, censore e repressore degli estremismi, stimolando e organizzando l’estremismo di destra, mettendo sullo stesso piano quello di sini­ stra, il centralismo giustifica la sua ragione d’essere. Nel quadro di un duro e libero affrontarsi fra estremismi, nell’affrontarsi reale della classe operaia e della borghesia, il centralismo non si giu­ stifica più... Naturalmente il giorno successivo ai fatti la tendenza repressiva dello stato italiano si manifestò immediatamente: le inchieste seguirono solamente le piste in direzione dell’estrema sinistra. Per reagire avevamo fondato un comitato di cineasti contro la re­ pressione, che raggruppava sia quelli dell’ANC che quelli dell’AACI.

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Questo costituì il primo gesto unitario dopo due anni di scissione: sotto lo stesso organismo si riunirono di nuovo molti cineasti ita­ liani, da Visconti a Bellocchio, ovvero tutte le generazioni presenti e attive in quel momento. Il comitato produsse immediatamente “Documenti su Giuseppe Pinelli “e, benché noi volessimo girare altri film, questa fu l’unica realizzazione fatta in queste condizio­ ni. Il fìlm fu terminato qualche mese dopo, credo nella estate del ’70. ci dividemmo in cinque gruppi di lavoro. I soli che riuscirono a portare a termine il progetto furono quello di Nelo Risi e il mio. Gli altri tre raccolsero molto materiale ma non hanno mai raggiun­ to lo stadio della sintesi (avevamo una quantità di materiale sulla repressione contro i gruppi di sinistra, i marxisti-lininisti, Pote­ re Operaio, Lotta Continua: tutta questa pellicola non è mai stata montata). La parte girata da Nelo Risi concerne esclusivamente Pi­ nelli. È un’inchiesta autentica sulla sua figura, condotta con l’aiuto di chi lo ha conosciuto, di chi era presente in commissariato duran­ te la sua detenzione. Ala contrario, ciò che ho girato io illustra le spiegazioni date dal­ la polizia per giustificare la sua morte, il “suicidio”. Parto da scoper­ te molto semplici: tentiamo di ricostruire le versioni fornite dalla polizia. Essa ha dato nel medesimo tempo quattro o cinque, o an­ che sei o sette, versioni della morte. Per il fìlm ne abbiamo preso in considerazione solamente tre, perché le altre erano più infantili, e abbiamo tentato di vedere se, materialmente, queste ipotesi della polizia potevano essersi verificate. Per questa ricerca della verità abbiamo preso una piccola stanza come quella del commissario Calabresi, vi abbiamo messo i quattro poliziotti che, secondo le indicazione della polizia, si trovavano lì al momento in cui Pinelli si è gettato dalla finestra; abbiamo scoperto che era materialmente impossibile che un uomo potesse gettarsi dalla finestra in presenza di quattro poliziotti. Non abbiamo però detto che Pinelli era stato gettato giù... Il film era partito da un’idea che sicuramente utilizze­ rò per altre cose». Una scelta stilistica, pur in un fìlm destinato al circuito marginale della militanza, di “ricostruzione” nella “finzione”: un gruppo di at­ tori e cineasti brechtianamente si presenta sul set e inizia a lavorare sulle diverse ipotesi di ricostruzione dei fatti. È un’idea che è stata dichiaratemente ripresa, quasi come omaggio, da Sabina Guzzanti nel suo fìlm La trattativa, 2014.

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3.

La classe operaia va in paradiso. Lulù o dell^omo selvatico”

Aldo Rescio in un suo saggio sulla Lulu di Wedekind, apparso sul numero 1, 1975, della rivista «Vel», diretta da Armando Verdiglione, aveva analizzato la complessa signifìcanza del nome “lulù”, di­ stinguendo fra l’altro, almeno due nuclei che possono interessare il nostro discorso. Anzitutto “lulù” è una parola che vive scandendosi ripetitivamente, lu - lu. Ulteriormente vi si rileva l'incidenza dell’as­ sonanza u - ur, ovvero origine (mito). La classe operaia, e il suo portaparola finzionale Lulù Massa, operaio alla catena di montaggio, riguarda direttamente il pro­ blema della rappresentazione sulla scena della “classe operaia”, e dello spessore mitologico di cui “soffre” una tale rappresentazio­ ne. Riguarda anche una posizione di scacco della classe operaia aH’intemo del sistema capitalistico: scacco della e nella ripetizione rappresentata dalla catena di montaggio, l’inferno - come dice Pe­ tri - della fabbrica, lu - lu -lu.. E scacco isterico. Freud, infatti, nel saggio “Al di la del principio di piacere”, 1927, analizzando il com­ portamento del bambino che lancia volutamente il giocattolo fuo­ ri della culla in attesa di farselo rendere per poi ancora rigettarlo fuori di sé, il processo del Fort-da, dimostra che il godimento passa attraverso la ripetizione dell’attesa. È dunque il film sull’operaio come soggetto diviso, psicotico. Non ha caso il film è incentrato sulla impotenza sessuale. È dunque il film di Petri più radicalmente esposto politicamente, assieme a Todo modo - che ricordiamo sarà anch’esso film di lotta ideologica. Fu, conseguentemente, quello che più contrappose lad­ dove, in certo modo, Indagine univa, però nell’equivoco della lotta civile. Citiamo un episodio non secondario. Al festival del cinema politi­ co di Porretta Terme, nel ’71, erano invitate le riviste francesi schie­ rate su posizioni di militanza, mal disposte, assieme alle loro conso­ relle italiane, nei confronti del cinema politico all’italiana (grande assente sullo schermo e grande imputato in sala). Con una di quelle apoteosi vagamente apocalittiche che solo i dirigenti di festival rie­ scono ad inscenare, la serata finale fu dedicata alla prima assoluta del film La classe operaia. Oltre alla presenza di Petri stesso, fu perfi­ no organizzato l’arrivo in sala di rappresentanti operai di una vicina fabbrica. Per la critica militante italiana e francese («Ombre Rosse»,

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«Cinema&Film», «Cahiers du Cinema»)2 Petri (come Rosi, Montaldo, Lizzani, Pontecorvo, etc) rappresentava allora il coté impuro del cinema politico, né politicamente né linguisticamente militante. Vi fu dunque alla fine della proiezione un contrasto violento acceso dal­ le avanguardie operaie e dai critici presenti. A detta frattura insana­ bile tra gli schieramenti dette voce addirittura il regista Jean-Marie Straub, l’autore di Non riconciliati e Cronaca di Anna Maddalena Bach. A metà del dibattito successivo al film, in piedi in un angolo della sala gremita, preso il microfono, affermò, in italo-tedesco, il che faceva più paura, che tutte le copie del film avrebbero dovuto essere bruciate. Ed io ero d’accordo con lui. Fu per Elio, uomo cui piaceva abitare la battaglia, una serata molto dura, nessuno,critico o cineasta amico, lo difese apertamente contrastando la ferocia dissa­ crante della platea. La verità è che il film era assolutamente insussumibile da ogni ideologia operaista, massimalista o riformista: l’immagine schermica dell’operaio Lulù Massa era allora insopportabile alla vista, era l’in-desiderabile che faceva da contrasto ad ogni visione “de­ siderabile” dell’immaginario della sinistra e dell’estrema sinistra. Ma che accadeva in Italia nel yo-’yi perché Petri sentisse l’urgenza politica di girare un fìlm sulla classe operaia, sul discorso mitolo­ gico che s’annoda attorno a questo nodo del desiderio politico? Dice Petri:

Al cinema neorealista, naif dal punto di vista ideologico, ma dove si ritrovava, grosso modo, un filone naturalista ed uno socialcristiano, si è sostituito un cinema che era il riflesso della restaurazione e della burocrazia imposta agli italiani... I personaggi popolari erano dispersi, salvo che nei film destinati alla consumazione delle classi popolari. Nel 1970 era indispensabile, dopo le grandi lotte sindacali, fare un tentativo anche disperato, per prendere un personaggio del popolo come eroe del film, è così che è nato La classe operaia va in paradiso. La situazione italiana registrava uno spostamento cruciale: la lotta politica passava dalle aule magne all’interno delle fabbriche, e tendenzialmente i protagonisti del ’68 parevano essere sostituiti

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Vedi la lettera di Elio del 21 Marzo 1978 e l’intervista contenuta ne Parla il cinema italiano, Voi 2, di A. Tassone, p. 275.

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dalle avanguardie della classe operaia. Il sessantanove era l’anno del rinnovo del contratto dei metalmeccanici andato in porto con un altissimo costo in termini di tensione sociale ed economica: dall’inizio dei conflitti la piccola borghesia, dal presidente Saragat al più piccolo venditore di cravatte, considerava gli operai responsabili della minima scossa, del minimo male sociale. Era dunque importante - conclude Petri - fare un film che mostrasse come un operaio giunga allo sciopero.

Così come la scena politica italiana era occupata dalle lotte opera­ ie nelle fabbriche, il discorso attorno al politico tendeva a doppiare la scena del reale investendola del desiderio, ammantandola del velo mitologico. Di qui l’insorgenza dell’affabulazione “operaistica” ulte­ riore, o finale, sbocco isterico del vogliamo tutto della “desideranza” sessantottina. Le contraddizioni reali della situazione operaia nell’I­ talia 1969-70, la sua condizione umana e culturale, il senso della lot­ ta per il contratto, venivano assunte fittiziamente attraverso slogan e parole d’ordine impossibili. Si delineava, nemmeno troppo lenta­ mente, la frattura politica tra le avanguardie del movimento operaio e studentesco e la massa operaia stessa (Lulù Massa). Si intravedeva, nello stato di febbre, il germe della nascita della disperazione in seno alla sinistra, secondo la definizione di Petri, e questa sarà poi l’argo­ mento de La proprietà. Lulù Massa è la rappresentazione informe, ovvero “al di qua della Forma", della Forma-sublime dell’operaio, della Classe operaia; rap­ presentazione la più scoperta al contraccolpo del ritorno del reale. In questo senso Petri distrugge linguisticamente il neorealismo ed ogni realismo socialista nella rappresentazione. Perché in queste re­ toriche linguistiche, da qualche parte, l’immagine del Proletario deve esistere, si direbbe “in purezza”. Lulù è una delle varianze, invece, di Re Carnevale, "chiamato” all’impresa impossibile di essere l’Operaio, nella sua forma sublime, ma gestito dal reale in modo derisorio: 1’ omo selvatico, appunto, riduzione primaria, animalesco-istintuale, della forma sublimata. Lulù Massa mette in scena il décalage della rappresentazione del dire mitologico-politico: «gli operai - dice Petri - sono degli schiavi; si potrebbe dire delle scimmie che ripetono lo stesso gesto in maniera ossessionale». Lù-Lù Massa. E, oltre a Lulù, la piazza carnevalizzata si ripropone e ridispone nei suoi schemi de­

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tiranti; i sindacalisti sinceri, gli studenti, i colletti bianchi... Istanze fantasmatiche, maschere in lizza. Ma, al contempo, le maschere sono lo spiraglio possibile al ritorno del reale sulla scena; attraverso le fen­ diture, le scissure della maschera il discorso del sublime s’incrina, si apre al comico, che è la sua deflagrazione. 11 film segna la fine di ogni neorealismo ideologico linguistico. Molti accusarono allora Volonté di gigioneria ma a mio avviso in­ vece andava evidenziato il padroneggiamento estremo della masche­ ra, nella sua valenza anfibologica. L’attore è alla sua seconda eccezio­ nale impresa - la terza sarà Todo modo - di mimetismo selvaggio: piega le fattezze del volto e la “carne” della lingua in un’avventura re­ citativa entusiasmante, seconda solo al gioco di mimetismo assoluto dell’incarnazione, dell’incorporazione, di Aldo Moro. Lulù trascorre dall’abbrutimento (il risveglio, il discorso sul corpo-fabbrica di mer­ da), alla paranoia (il ritmo del cottimo), al ridicolo (la sua esasperata cadenza settentrionale “bianca”, fònicamente castrata), alla commo­ zione (i rapporti con il figlio), alla disperazione (il licenziamento), alla solitudine (l’abbandono da parte della donna con cui vive, dei compagni), alla follia infine (il racconto del sogno dell’abbattimento del "muro” agli altri compagni). Follia visionaria, esposizione, forse, primaria di un’ossessione che circolerà nei successivi film: il discorso apocalittico. Qui, più che altrove, è un discorso accorato, partecipe: di parte, di classe; non “laico”, ma comunista. Lulù, dunque, ovvero la bestia umana: sua situazione 1970. È questa, dunque, l’immagine im­ possibile a sostenersi: quella di una contraddizione operaia reale che vede la “classe”, oggetto dell’effetto del consumo, non rispondente al Modello: vede il suo essere classe operaia reale e non sublime. Una precisazione sulle giornate di lavorazione che ha la sua im­ portanza a questo proposito. Il film fu girato in una fabbrica vuo­ ta, in attesa di essere messa a disposizione dell’autorità giudiziaria per fallimento (l’unica fabbrica che potrà essere reperita in quanto i permesso di girare fii negato a Petri ovunque altrove), con gli stessi operai come comparse. Il rapporto tra i cineasti e i lavoratori, pure in quei momenti caldi e politicamente drammatici, non ebbe toni “epici” di discussione di “linea”; si limitò ad un rapporto di lavoro: «Non pensavano che a fare le comparse per guadagnare un po’ di sol­ di, ma il film non aveva alcuna importanza per loro. Avevano ragione perché la fabbrica stava per chiudere e sarebbero stati gettati su una strada: il problema andava ben al di là del film».

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Il risveglio. La soneria, gli sbadigli, i visi disfatti di un uomo e una donna. Lulù (Gian Maria Volonté), operaio metalmeccanico vive con Lidia (Mariangela Melato), pettinatrice e il figlio di lei. La casa è in di­ sordine, piena oggetti inutili e di giocattoli spaziali dal sibilo assillante. Lulù, al risveglio, quasi parlando da solo, dice di sentirsi come un corpofabbrica, che produce merda anziché automobili. In fabbrica. Lulù è un cottimista scatenato, sui suoi ritmi ossessivo compulsivi, quasi da coito selvaggio, si tara il lavoro del reparto alla catena di montaggio. «Lulù, te non muori mica nel tuo letto» lo investe un compagno che non tiene i ritmi. «Indifferente». Non ha amici, lo considerano dalla parte del pa­ drone. L’alienazione sessuale: «In fabbrica mi annoio e allora penso al culo dell’Adalgisa... un pezzo... un culo, un pezzo... un culo!» Adalgisa è una giovane operaia del reparto. In casa alla compagna : «Ti sembro un leccaculo io?», «Con me no! Non ne hai mai voglia», «A me la voglia mi viene solo al mattino quando sono in fabbrica». Ai cancelli della fabbrica. C’è una vertenza per l’aumento del cottimo. Da un lato sono schierati i sindacalisti («più cottimo, più soldi»), dall’al­ tra i "contestatori” («abolire il cottimo, più soldi meno lavoro»). Lulù è individualista, lavora al pezzo con accanimento, il suo tempo-lavoro, il ritmo, è paranoico: «dovrete spezzarvi la spina dorsale per tenermi dietro», grida ai compagni che vogliono scioperare. È come in preda a un raptus. Improvvisamente per un movimento sbagliato si amputa un dito. Lo portano via imbambolato, «È un graffietto...». Gli operai deci­ dono subitamente per l’assemblea e la lotta contro i tempi imposti alla catena. Lulù ha ora la mano guantata di cuoio. Si sente frastornato e perso (o piuttosto ” perduto”), cerca consolazione dalla moglie, da cui ora vive separato, e da suo figlio che sta con la madre. Si sente dire che «per farsi chiamare papà bisogna pagare». Neppure suo figlio gli dà ascolto. «Il dito del padre - protesta Lulù - per un figlio è sempre il dito del padre!». Cerca allora la compagnia dell’amico Militina (Salvo Rondone), un vec­ chio comunista rivoluzionario, epurato dal partito, che vive in mani­ comio. Vive la sua pazzia visionaria, è il filosofo folle della condizione umana; legge Spartacus e si fa portare da Lulù il libretto di Mao. Lulù gli domanda come si è accorto che stava diventando matto, perché an­ che lui fa delle stranezze da un po’ di tempo: «Il cervello se ne scappa». «Parlano sempre di me i compagni?» domanda Militina. «Eh, sei anco­ ra un simbolo!». Lulù guarda in un giornale la foto di uno scimpanzé: «Crede di essere un uomo». «Lulù - dice Militina salutandolo - quando ti ricoverano porta le armi». Ritorna in fabbrica. Lavora ormai senza interesse, come inebetito, «i tempi che fai sono da bambini!», lo rimprovera il sorvegliante. «Perché

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- risponde - qui non siamo trattati da bambini?». Lo mandano dallo psicologo della fabbrica, il quale mette continuamente in ordine della matite (così come Lulù in casa mette in bell’ordine le posate sulla tavo­ la). «Dopo l’infortunio - sentenzia - Lei dimostra qualche disturbo sul problema dell’amore e del denaro». All’uscita, nel buio e nel freddo del­ la notte, i contestatori che picchettano sempre la fabbrica lo inseguono con i microfoni: «Lulù, ma è vita questa?». Si rivolta e li picchia. Ma ripensa alla sua miseria. All’assemblea di fabbrica, per la votazione pro o contro il cottimo, si schiera contro i sindacati, con pochi altri. Parla al microfono in assemblea (della maestria d’attore di Volonté in questa sequenza abbiamo già detto). Escono dalla fabbrica va con l’Adalgisa in un’altra fabbrica abbandonata. Lei è ancora vergine; fanno l’amore in macchina, rapidamente, contorti nella “850”: «Ecco, finito», «lo non ho mica sentito niente. - dice Adalgisa - Ma è amore questo?», «L’amore si fa e quando è fatto è fatto, e uno ritorna in sé... come le bestie. La realtà è la realtà, non c’è mica altro». La situazione in fabbrica si fa “calda”. Si decide uno sciopero e si fa picchettaggio. Impiegati e funzionari tentano di entrare con un pulmi­ no. Vengono fermati. Anche l’ingegnere in macchina viene bloccato e la sua automobile distrutta. Interviene la Celere... Lulù è tra i picchiati e scappa assieme ai contestatori che hanno partecipato al picchetto. Li porta alla casa di Lidia; la “occupano”, portando materassi per la notte. Entra Lidia ed è sconvolta: ha paura, si irrita, si scaglia contro Lulù che parla di quella gente come di amici. Lidia è una positiva: col lavoro man­ tiene sé e il figlio, riempie la casa di suppellettili di cattivo gusto, in un ordine artificioso (il salotto fasciato ancora nel cellophane). Non capisce più il comportamento di Lulù e nel litigio prende la decisione di andare via di casa. I contestatori temendo una denuncia della donna lasciano anch’essi l’appartamento: «Sono proprio - commentano andandosenele contraddizioni che esplodono in questo tipo di famiglie». Lulù è la­ sciato completamente solo. All’entrata della fabbrica gli consegnano una lettera di licenziamen­ to. Gli ultimi amici e il sindacalista lo cercano e gii promettono aiuto: faranno un’assemblea e chiederanno la sua reintegrazione. Va a cercare i “compagni” della sera prima; ne trova il capo. È uno studente fuori corso da anni, con il barbone e per questo lo chiamano Marx (Donato Castellaneta). È rinserrato in un Liceo occupato, infiacchito, la faccia piena di sonno e stanchezza. Li invita a lottare per lui alla fabbrica, a mobili­ tarsi. «11 tuo è un caso personale, noi facciamo un discorso di classe. E poi siamo in pochi e il lavoro è tanto...». Lulù viene ricacciato nel suo isolamento: «Arrivederci, tante belle cose - dice a Marx e ad Adalgisa, che lavora con lui - Nuovamente... L’operaio deve star da sé... Svizzera,

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andarsene via... Buon studio». Va all’uscita della scuola a prendere suo figlio; lo accompagna per un tratto, è impacciato. Salutandolo gli dice con commozione: «Mi sembrate tanti operai piccoli». Torna da Militina, «Se vuoi diventare matto, credi a me, devi torna­ re in fabbrica». Le facce dei matti, sorridenti, lo circondano. Improvvi­ samente Militina prede a dare colpi contro il muro del cortile: «Giù il muro....giù il muro!». Toma a casa. Cammina solo per le stanze, guarda gli oggetti inutili e costosi che ha comperato, una paccottiglia insensata. Ne fa un inventario, pupazzi, statuine, oggettini: di ogni cosa converte il prezzo in ore-lavoro. Nel ripostiglio, dove ammuffisce un ritratto di Stalin, trova un pupazzo gigante di Paperone e lo fa scoppiare a calci. Poi si addormenta sui divani rifasciati di cellophane. Verso sera ritorna Lidia col bambino: lo copre, ne è intenerita. In nottata arriva il sinda­ calista (Gino Pernice) con una delegazione operaia (uno di essi, Bassi, il compagno della moglie, è Luigi Diberti). Gli annunciano la sua rias­ sunzione. È stata una grande vittoria del sindacato. «Abbiamo ottenuto tutto sul cottimo... è la prima volta che riassumono un operaio mandato via per motivi politici. Facciamo paura.», «Son contento». Alla catena di montaggio, con un rumore assordante. Sono in cinque intorno ad un enorme tubo fallico da assemblare. Gridano per sentirsi l’uno con l’altro, pur essendo fianco a fianco. Lulù racconta un sogno: «Ero morto e sepolto e vedo un muro, con Militina», cercano di buttarlo già e il muro viene proprio giù. Tutti gli gridano: «Che cosa c’era dietro ‘sto muro?», «La nebbia», «E dentro la nebbia?», «Ceravamo noialtri nella nebbia». I rumori coprono le parole, nessuno riesce a sentire il sogno di Lulù «Come non detto», conclude tra sé Lulù.

Così Petri: Nel chiasso Lulù racconta un sogno ma nessuno lo sente: si deve abbattere un muro che separa gli operai da ciò che nel sogno appare come il Paradiso, dove non si vogliono lasciare entrare gli operai; questi si mettono d’accordo per abbattere il muro, 1’abbattono e trovano una nebbia spessa da cui emergono...essi stessi. Il problema del socialismo è interno a noi, il problema obiettivo non è forse quello di abbattere i muro? Ecco il film.

LE APOCALISSI LAICHE

“Apocalisse”, “apocalittico”, nell’attuale accezione e corren­ te fruizione del termine, nel quale i significati originari sono sensibilmente modificati, evocano subito una situazione esi­ stenziale collettiva di fine o di prossimità alla fine. Imminenza di eventi catastrofici che ricondurrebbero l’uomo alla barbarie preculturale, o consumazione finale del tempo umano...» Alfonso M. di Nola

i. «La proprietà non è più un furto». La nascita della disperazione in seno alla sinistra

«9 agosto ’72. insisto nel dire - scrive Petri nel suo quaderno di lavoro - che il film è troppo “cupo”. Dipende, forse, anzi certamente, tutto dalla presentazione di Total, che non prova mai la gioia della trasgressione...». In fase di sceneggiatura Petri si impone di costruire per Total una gioia della trasgressione, di innescare, cioè per il personaggio e lo spettatore un effetto liberatorio del sintomo del disagio psicotico condensato nel protagonista. Total, totale, totalizzazione: il nome, come sempre nei film del regista, si impone come marchio di un nodo conflittuale, ovvero esprime la funzione sublime-comica del Nome (Lulù Massa, Militina, il fuoricorso Marx in La classe operaia, lo studente Pace, l’ispettore Biglia, il capo della divisione criminale Mangano in Indagine, per non dire della pirotecnica di nominazione su cui poggia Todo modo). Total è la funzione “totalizzante”, isterica, che un effetto gioioso, diciamo umoristico, potrebbe interrompere. Non mi pare che questo sforzo possa dirsi, nel film, andato a buon fine. C’è da chiedersi il perché, dal momento che non si può addebi­ tare tale insuccesso a un difetto di sceneggiatura, per il regista la più complessa e faticosa.

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Una risposta la troveremo forse in quanto disse Petri alla tavola rotonda sul “cinema politico italiano” - di cui abbiamo parlato - or­ ganizzata dall’« Espresso» con la partecipazione del critico francese Billard: «Billard dice: non vi occupate mai della sinistra. Ma io ho fatto La proprietà: era un fìlm su un marxista-mandrakista (come lo chiamavo io), cioè sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra». Prendendo alla lettera lo sforzo, probabilmente solo di un mo­ mento, di escogitare un marchingegno di disinnesco funzionale del disagio, non si può non notare il prevalere nel fìlm del sintomo di­ scorsivo apocalittico. Sintomo assorbente, si starebbe per dire tota­ lizzante, che segna non solo La proprietà ma anche Todo modo: un momento, dunque, del pensare il sociale, da parte di Petri, in sen­ so catastrofico, luttuoso, quaresimale. Apocalisse, quindi, ma laica, fatta solo di lividi bagliori, di dannazione, dominata incontrastata­ mente dall’Anticristo (sia esso il Macellaio de La proprietà, lo scannatore, sia esso l’Aldo Moro e la lugubre “corte” di Todo modo), senza palingenesi alcuna (ovvero “fughe” utopiche del desiderio come in La classe operaia, film-comunista) se non di tipo “illuminista”. La classe operaia e Todo modo sono in fondo il tragitto ultimo del dire, da parte del cinema politico italiano, il desiderio politico del Cittadino. La fantasmagoria della piazza camevalizzata si spegne in un bagno di colore viola: subentra la disperazione della colpa im­ maginaria. E chi ne subisce più violentemente e in modo lacerante il contraccolpo se non i Total della “desideranza” sessantottesca, i “cani sciolti” che la Quaresima coglie ancora “in maschera”? La ma­ schera e il costume di Mandrake, non sono abbastanza magici per “giocare” Total nel senso della ironia, per de-Totalizzarlo. Gli pos­ sono al massimo procrastinare, di trasgressione in trasgressore, la morte-sublime, ucciso come è dal macellaio - “ecce agnus”, o, meglio "ecce abbacchio” (per evidenziare, ancora una volta, il cascame co­ mico del segno totalizzante). Ma perché il soggetto politico desiderante, oltre che dal Potere (la “mimèsi assoluta” di Todo modo), è giocato dalla proprietà? Il fan­ tasma di proprietà è il fantasma dell’avere e si coniuga strettamente con il fantasma dell’essere, che è il fantasma del Potere. Il padre di Total, bancario in pensione («portatore funereo - secondo Petri alienato, sclerotizzato, dell’ideologia avversaria») recita al figlio il monologo sulla proprietà:

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Verbo essere, ausiliario: io sono, tu sei, egli è... ecco io ero, no, no, ecco ebbi, abbimo, ebbimo, aveste, avessero, avettero, essendo, voce del verbo avendo». «Avere, voce del verbo avere», interrompe Total. «Oh, si, si... e questo denota un possedimento di cose. Ecco, si, avere... avere può essere anche semplice e coniugato... lo abbo, io aggio, lui have, egli have, egli have, noi aggiamo. noi avemo...», «Eh no! Per la madonna... noi avemo una cippa!

I sintomi deliranti del disagio dell’essere/avere. Per superare l’im­ passe Total si getta nel gorgo nero del nodo pulsionale: il tragitto in perdita di identità-proprietà-violazione-spogliazione-assunzio­ ne di identità. Un tragitto anch’esso di appropriazione feticistica, di imposizione di maschera, e come tale assumibile sotto il segno carnevalesco, fatto di incoronazione e scoronizzazione. Ancora un intrico, un labirinto, del desiderio che concerne la detenzione del Fallo, la proprietà come assunzione di identità: «Sia ammazzato il signor padre!». Questo fallo "immaginario”, mancante, è la malattia, il morbo di cui il film tratta: il gioco della pulsione di morte ovvero lo scacco del non poter né Essere né Avere, se non nella prigionia del discorso isterico Totalizzante. «Questo - appuntava Petri - è un film sulla inutilità del possesso e, quindi, sulla inutilità del furto». Dunque Total non può non “perdersi”, non essere “disperato”: il suo marxismo-mandrakismo è solo un effetto di maschera. È il senso del fallimento che permea “La proprietà” e la sospinge sul versante di una escatologia laica, senza resurrezione della car­ ne, carne che è protagonista: il macellaio, la moglie di lui che vie­ ne sessualmente macellata, i pezzi sanguinolenti di bestia tagliata. Momento fondamentale in questo senso è l’emergenza dell’effetto di maschera. Petri, sul problema del trucco, dell’immagine escremen­ tizia, appunta: Le facce - tutte - devono essere livide di invidia / tumefatte dalla rassegnazione / gonfie di rabbia inesplosa / oblique per meschinità e furberia / ispessite dalla eccessiva frequentazione dei programmi televi­ sivi / vuote per il deserto fatto nei loro occhi dal sentimento della paura. / Esse, le facce, devono trasudare l’orrore, l’irrazionalità, la cupidigia, il povero deserto della loro grande orrenda città. Al lavoro sull’immagine si accompagna quello sul colore, con dominanti cupe, blu: toni illividiti. La proprietà rappresenta il mo­

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mento più felicemente creativo del rapporto con Luigi Kuveiller, il più “lirico”, almeno. I volti degli attori paiono schiacciarsi contro l’obiettivo della macchina da presa e deformarsi sotto il fuoco della lente di ingrandimento. Ancora una volta è necessario, a questo pro­ posito, rilevare l’eccezionaiità della recitazione di Tognazzi, feticcio della volgarità, della sopraffazione e della furbizia, e, soprattutto, dei due quasi esordienti Flavio Bucci (che aveva recitato la parte di un operaio in La classe operaia) e Daria Nicolodi. Una partitura dode­ cafonica che si avvale di tre strumentisti di talento. Ma il film non si risolve totalmente i questo rapporto a tre: ha una struttura assai elaborata e ricca. I “personaggi” minori dialoga­ no continuamente con i tre solisti; hanno anzi la funzione di inter­ vallare il dialogo sui massimi sistemi (la proprietà, la trasgressione, la sessualità) intessuto dai tre strumenti “alti”. Il padre-anale, Salvo Randone, che regola il rapporto del figlio col denaro, il poliziotto guardiano del livore umano, Albertone, artista, esteta della ladrone­ ria, ucciso dalla bassezza e dalla doppiezza umana, animano le quin­ te del dramma che scorre sul palcoscenico con “siparietti” giocati sulla risonanza "bassa” del tono sublime delle loro "funzioni” nella finzione (il Padre educatore, il Poliziotto-tutore, il Ladro d’onore). Al di là della espertissima concertazione degli attori, il ritmo del­ le entrate e uscite, il film si posa assai saldamente su un testo. Ab­ biamo detto del tragitto di Petri tendente sempre più a un lavoro di scrittura: La proprietà (come il successivo Todo modo, largamen­ te diverso dal romanzo di Sciascia) è la prova di questa autonomia dello scritto, fondante la struttura delle immagini. È di questi anni l’esperienza privata di Petri - ne riparleremo a proposito di Todo modo - di scrivere un testo teatrale; ne rimane un abbozzo. Ritengo che la ragione sia lo spostamento di questo sforzo stilistico in un altrove: il lavoro di sceneggiatura, non è dunque un caso che La proprietà sia stata pubblicata, firmata Petri e Pirro, sotto la “specie” del romanzo. Nel riportare la trama cercheremo di dar conto, attra­ verso i monologhi dei personaggi, di questa violenza testuale che del resto, più di molta aftabulazione critica, evidenzia l’“idea del mondo” contenuta nel film.

I titoli di testa scorrono su disegni di Vespignani, volti corrotti e "divi­ si” nelle passioni, con un sonoro di ansimi, rantoli, d’amore e di morte. Monologo di Total (Flavio Bucci) in primo piano su fondo blu cupo: «io

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ragionier Total non sono diverso da voi... né voi siete diversi da me... Siamo eguali nei bisogni, disegnali nel loro soddisfacimento... Io so che non potrò avere nulla di più di quanto oggi ho, fino alla morte...ma nes­ suno di voi potrà avere più di quanto ha. Certamente molti di voi avran­ no più di me, come tanti hanno meno... Nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo, molti si ammalano di mali vergognosi, si riempiono di piaghe dentro e fuori, altri cadono, muoiono, vengo­ no esclusi, distrutti, trasformati, diventano bestie, pietre, alberi, morti, vermi... Così nasce l’invidia... e in questa invidia si nasconde l'odio di classe, decomposto in egoismo, e quindi reso innocuo... l’egoismo è il sentimento fondante della religione della proprietà... io sento che que­ sta contraddizione mi sta diventando insopportabile... così come lo sta diventando per molti di voi». Total è impiegato di banca, con sede nel centro storico, una specie di cappella sconsacrata. Non può toccare il denaro se non con i guanti, si gratta in continuazione. Entra il macellaio (Ugo Tognazzi), sfronta­ tamente volgare porta “tagli’’ scelti agli impiegati. Va dal direttore per ottenere un prestito di quattrocento milioni. Il direttore, untuoso, l’ac­ corda. In quel mentre, avviene una rapina. Vengono sciolti i cani contro i ladri. Il macellaio imbestialito comincia a dar calci contro uno di essi in terra. Monologo del macellaio: «Ma che ci farò io con tutto quei denaro che accumulo dal momento che sono ormai in grado, da molto tempo, di provvedere a tutti i biso­ gni della mia vita?... il mio bisogno fondamentale è quello di arricchire (ride). Io vedo soltanto i soldi. Se il capitale non lievita nelle mie mani per il mio incontrollabile bisogno di accumulare (ride) io mi sento im­ putridì, come *na carogna. Il capitale mi fa vivere (ride). Quando penso ai cassieri di banca che rischiano di morire per difendere il capitale al­ trui, oppure al fattorino del tram che ogni sera immancabilmente con­ segna l’incasso della giornata... o a quei morti de fame che accettano passivamente la loro disgrazia (ride) nel rispetto della legge in difesa della proprietà... Beh, allora... ciò proprio il sospetto che in questi nul­ latenenti, eh beh, avanzi la pazzia, aleggi la stronzaggme. Ciò mi tran­ quillizza perché è su di loro che io arricchisco... Malgrado tutto... lo nun so’ felice... Eh, no, perché anch’io come il denaro vorrei essere eterno...» Total decide di rovesciare la sua esistenza, pensando alla miseria della vita sua e di suo padre. Chiede un prestito ma viene cacciato dal direttore. Si licenzia. Mette in atto il suo progetto di rivolta prendendo di mira, come vittima privilegiata, il macellaio in quanto gli è più caro: la proprietà. Concepisce contro di lui una guerriglia senza quartiere in cui il furto, furto d’uso, sarà la sua arma “povera” e “disperata”. Va nella sua macelleria: gli ruba il coltellaccio con cui taglia i pezzi. Il macellaio

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si infuria, abbassa la serranda, esce con la sua commessa-amante Anita (Daria Nicolodi). Lui lo segue al cinema; i due vedono un film pomogra­ fico e per scaricarsi la rabbia il macellaio costringe Anita al sesso orale. Nel mentre, Total gli ruba il cappello. Penetra poi nell’appartamento del macellaio, in sua assenza; la donna è spogliata, ruba i gioielli e frig­ ge all’arrivo del proprietario. Il macellaio sfrutta l’occasione: chiama la polizia e denuncia al brigadiere (Orazio Orlando) anche il furto di altri oggetti per prendere i soldi dell’assicurazione. «Senza la paura - dice il brigadiere - del furto, uno la ricchezza non se la gode. Queste sono cose che si comprano o si rubano». Eccitato dall’accaduto, il macellaio porta a letto Anita, la fa cavalcare su di lui, con una calza nera sul viso, e urlare a squarciagola «al ladro, al ladro!». Monologo di Anita: «Io mi sento ‘na cosa...io so’ ’ na cosa, anzi tante cose...tette, cosce, pancia, bocca, io so’ tanti pezzi... tanti pezzi de 'na cosa... e vivo come se fossi *n vaso pieno de buchi... M’hanno portata via da casa come se porta via ‘na scatola de pelati (ride) e mo’ sto qui...ma se non fòssi qui sarei da n’artra parte... in un altro negozio, in un’altra casa, in un altro quar­ tiere... oppure (ride) seduta al cinema, come voialtri... ma sempre mi aprirebbero come un barattolo de pelati, con l’apriscatole, col cazzo... oppure anche senza, co’ le dita... e io rido (ride). Perché rido? Rido, per­ ché siete come me ma fate finta di niente... Eppure come me siete chiuse in un frigorifero insieme con l’acqua minerale... gasata». Il macellaio per sventare i furti va, con Anita, in un negozio specia­ lizzato in difesa personale. Al suo interno viene seguito da Total. È li che Total vede, per la prima volta, all’opera, ad irrisione agli apparati più sofisticati di serrature, il ladro Al bertone (Mario Scaccia). All’uscita ruba al macellaio l’auto. La volta successiva osa ancora di più. Entra nel negozio, chiude l’uomo nella cella frigorifera, trafuga Anita; la conduce in casa e, tra lo stupore paterno, si rinserra nella stanza da letto. La fa spogliare e stendere sul letto: «Zitta, ferma. Non devi fìngere con me, ferma... come na’ bistecca!», «Ne ho viste tante, ma manco lui m’aveva mai trattato così. - dice Anita. - Tu me vuoi come ‘na morta, me nibbi la volontà, lo spirito... Ma è giusto?». Total la schiaffeggia, pesta con i piedi le perle che indossa e la manda a casa, «Furto d’uso... dì al tuo padrone che con lui non ho finito». A casa, è costretta a far l’amore col “padrone" e a rispondere, mentre lo cavalca, alle sue richieste: «Chi è il meglio cazzo?... Chi è il re di Roma....», «Tu... Tu», «chi è il più disgra­ ziato?...», «Io, so’ io» dice Anita piangendo. Total, travestito da prete, si presenta al brigadiere e, dicendo di aver subito un furto, visiona l’intero schedario. Mentre il poliziotto è distrat­ to, ruba la scheda segnaletica di Albertone. Dimentica però la borsa contenente il coltellaccio rubato. Monologo del brigadiere:

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«Io monto la guardia / al livore umano. Da vent’anni lavoro per rag­ giungere l’ordine, ma ho paura che quest’ordine, questa armonia in una vita basata sull'ineguaglianza siano naturalmente irraggiungibili...In compenso vengo premiato da inaudite soddisfazioni. Indago, arresto, interrogo, simulo, plagio, affermo, nego, infierisco, acquisisco, faccio, disfo... e mi approprio di parti più o meno importanti dell’esistenza al­ trui...così mi consumo nel pessimismo e mi consolo nell’egoismo dei miei privilegi... primo fra tutti la libertà di arrestare chi voglio. Arrestare è bellissimo...» Albertone, il ladro, di mestiere fa l’attore. Monologo (non presente nel film) di Albertone: «io sono un attore, dunque sono un ladro. L’at­ tore ruba l’identità degli altri nel sogno pazzesco di scoprire chi è ....il ladro non fa che recitare alla meglio il personaggio dell’onesto; come tutti....e nella notte si confonde addirittura col mondo animate...è topo... è gatto....è scimmia....è talpa è iena è camaleonte». Lo vediamo danzare con se stesso sul palcoscenico, vestito e truccato per metà del corpo e del viso da uomo e per l’altra metà da donna, recita­ re una poesia del Belli «Er cazzo se po’ di’...». Nei camerino lo raggiungo­ no i suoi ragazzini e insieme partono per una rapina ad una pellicceria. Total li segue e, in piena rapina, fa scappare i complici per rimanere solo con Albertone. Lo costringe a tentare un furto in grande stile dal macel­ laio. I due entrano nella casa buia, mentre l’uomo è a una riunione di condominio, e vanno alla cassaforte. Si sveglia Anita, le si avvicinano e la violentano. Entra il macellaio e, mentre friggono, cerca aiuto tra i con­ domini ma viene respinto. I due riescono così a dileguarsi. Albertone ha però una crisi di cuore. Vanno subito dalla ricettatrice Mafalda, per rivendere le pellicce. La donna offre loro pochissimo: Albertone accetta, in ossequio alla costumanza ladresca di riconoscere i guadagni del ri­ cettatore sulla pelle della “manovalanza”. Total invece si oppone: rivede nell’universo della ladroneria la stessa legge dell’accumulazione e dello sfruttamento che vige al di fuori. Strappa quindi la borsa del denaro dal seno della donna e frigge via. Porta il denaro in casa. Il padre che gode dei vantaggi dei furti “d’uso” del figlio (scatolette di caviale e altre cose prelibate) non vuole tuttavia ammettere (con perseverante denegazio­ ne) che possa essere ladro. Lui stesso, però, ruba al figlio: gli porta via i soldi. Per svergognare la sua doppiezza Total strappa le banconote e le butta nel cesso, con grande riprovazione patema. Il brigadiere intanto, dopo l’episodio del coltello e del travestimento, stringe al laccio Total. Lo controlla, lo fa rapire, chiudere in un sacco e pic­ chiare con i manganelli gommati in una stanza della Questura. Chiama poi il macellaio per il riconoscimento. Ma l’uomo, ormai compromesso, nega sia lui il suo persecutore. 11 brigadiere non ci capisce più nulla: fri

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Elio Petri e il cinema politico italiano allora entrare Albertone e sottopone lui all’esame. Il macellaio lo indica senza esitazione. Albertone ha un improvviso collasso e, con una smor­ fia teatrale, esclama: «Che stronzi!», «Chi?» chiede il brigadiere, «Come chi?». E saccascia al suolo morto. 11 collega Paco lArgentino (Gigi Pro­ ietti) tesse un commosso elogio funebre (il sublime-comico) sul tumulo del compianto. Total, rilasciato, riceve in casa la visita del macellaio che vuole “trattare”: porta carne fresca, che il padre ritira subito in fretta, offre denaro, somme sempre più ingenti, che Total sistematicamente rifiuta. Intanto il ragazzo lo continua a perseguitare, mentre parlano, con dei furti che mandano in bestia, fa la sua ultima offerta, nominarlo suo socio. Al suo rifiuto “totale" l’uomo lancia il suo grido “sublime”: «lavoro e svolgo la mia funzione sociale che è quella d’ammazzà gli animali commestibili perché gli altri se li mangino, si nutrino... Senza di me voialtri sareste costretti a andà ne le foreste in cerca de preda da mangiare. Io me sporco le mani perché l’artri se scordino quello che sono...assassini!... E nun me volete pagà per questa essenziale, grande, fondamentale funzione... che è quella d’uccidere per voi». Esce infuriato dalla casa. Il padre guarda Total con scherno e vergogna insieme: «Non sei onesto, non sei ladro...ma chi sei?», «Io vorrei essere e avere, ma so che è impossibile, è questa la malattia» dice Total. Il ma­ cellaio lo aspetta sulle scale. Lo blocca dentro l’ascensore e lo strangola. Nell’ultima sequenza il lamento del padre attonito, seduto su di una al­ talena, contro un fondale buio: «Mio figlio era come un padre per me...».

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2.

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Accostamento a Todo modo

«Giobbe» e il progetto con Enzo Siciliano La pubblicazione per di Einaudi, nel 1974, dell’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, gioca in Petri come condensazione, coagulo di una serie di esche, di fantasmi che attendevano, diversamente, di “precipitare”, di formalizzarsi, nella scrittura. L’intrigo di Todo modo è dunque il geniale calco, l’involucro che trattiene una materia in­ candescente e ribollente, con effetti deflagratori assai lontani, nella loro insistenza pulsionale, dalla idea di mondo di Sciascia. Immergersi nel cratere di Todo modo vuol dunque dire, prima di tutto, esplorarne le caverne alla ricerca delle tracce, dei percorsi ctonii del magma di lava. Abbiamo detto che Petri è, a nostro pa­ rere, l’unico regista italiano che sappia mescolarsi nel torbido del­ la desideranza politica; diremmo ora meglio che sappia toccare la materia calda di questa desideranza, che, come tale, ha a che fare con la sessualità. Il Politico è traversato dalla sessualità come oscuro legame amoroso che si dice solo nell’urlo della disdicenza carnevale­ sca, attraverso l’assunzione delle vestigia “sublimi” della maschera e l’incarnazione “orrenda” nel corpo del corruttibile. La scena di Todo modo è, in questo senso, la scena infernale, quaresimale, della tortu­ ra dei corpi squassati dal delirio narcisistico, corpi mostruosi, enfi, torti, flaccidi, marcescenti, escrementizi. Corpi senza resurrezione della carne, senza salvezza. Dunque la scena di un’apocalisse laica che si apre e si chiude nella notte, mai squarciata, nel suo cielo scu­ ro, dalla spada di luce della rivelazione. «Il blocco, signori, è quasi totale», scriveva Petri nei suoi quaderni di lavoro. E Todo modo è il film su una chiusura totale, e sul versante del sessuale e su quello del politico. Completamente. Della chiusura al godimento trattava La proprietà. Ma il lavoro, complesso, oppres­ sivo sul tema produce ulteriori fantasmi che si condensano in alme­ no due idee portanti. La prima, ne abbiamo fatto già cenno, è la gestazione di un te­ sto teatrale, Giacobbe o elaborazione di una ossessione. Si tratta di una cupa imagerie sadica: un correzionale, in cui si fabbricano, at­ traverso esercitazioni masochistiche, i servi-padroni dell’ideologia dominante. Il corpo del protagonista, Giacobbe (e quelli dei suoi confratelli), viene piegato in senso ortopedico, ovvero viene gram­ maticalizzato come valore di scambio: la lingua serve a leccare chi

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detiene le vestigia del Potere, il buco dell’ano ad accogliere... Ogni insensatezza corporea viene soppressa grazie ad esercizi “ideologi­ ci”, più che spirituali; ogni vacuum abolito affinché il Discorso del corpo sia suturato. Mentre Le 120 giornate di Sodoma, di Sade, è il testo dell’esercizio dei “corpi buchi” ove si infrangono le suture del godimento, Giacobbe è l’elaborazione del regime luttuoso dei corpi­ ideologici. Nella fissazione "genitale” del godimento, che è poi fissa­ zione del Discorso del corpo, si iscrive il rigetto, isterico, della pul­ sione di morte, della insituabilità del desiderio e la proclamazione conseguente della scena carnevalesca come scena primaria. In tal senso regime sessuale e regime del Potere si sovrappongono. Giacobbe, tuttavia, rimane allo stadio di abbozzo per la ragione evi­ dente, credo, dell’essere assorbito in un disegno più complesso. Rima­ ne infatti a fondamento di Todo modo l’insistenza della funzione del rituale, delT'esercitazione”, che trova del resto assonanza nell’idea di Sciascia di riferirsi a quella grande prassi dell’ortopedia mistica dell’io che sono gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Ne) film, ben lon­ tano da una prospettiva mistica, gli esercizi cui sarà chiamata la classe di potere democristiana, saranno traguardati a un disegno di ortope­ dia politica: una redistribuzione del potere interno al partito, per ge­ stire il paese attraverso una nuova alchimia di “equilibri più avanzati”. La seconda riguarda il progetto, coltivato e accarezzato con Enzo Si­ ciliano, durante tutto il 1974, di un film sul rapporto di affascinamento e ripulsa tra un prete, un prete “vero” in crisi vocazionale, vagheggiarne una nuova funzione di militanza religiosa, e un qualcuno che è prete sotto mentite spoglie, un “falso” prete, che s’insinua, quale doppio per­ turbante, nella scena dell’altro e lo soppianta nel cuore dei fedeli, sot­ traendogli il carisma. 1 suoi scopi sono di lucro e malversazione (pro­ fittare delle anziane parrocchiane e delle elargizioni dei fedeli), ma il suo fine è che si produca nella comunità uno spostamento dell’effetto di credenza: sarà il prete “falso”, colui che si paluda, quello creduto “vero”, il rappresentante atemporale della Chiesa trionfante. Di questo disegno batailliano (Petri invita, in una lettera del 2 Settembre 1974, Siciliano alla lettura del romanzo LAbbé C), per ora abortito, passano in Todo modo molte suggestioni: a cominciare dal personaggio di Don Gaetano. Da notare che ne L’Abbe C esiste un personaggio violento e negativo che di mestiere è macellaio come il protagonista de La proprietà. In Don Gaetano confluiscono i tratti del conflitto verità/fàlsità: è la terribilità della Chiesa spirituale, che lancia l’anatema sulla temporalità

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corrotta, è la Chiesa temporale, che gestisce il proprio potere attraverso le trame politiche e il gioco delle alleanze, è la Chiesa trionfante per il suo essere padrona assoluta del gioco del camuffamento, del travesti­ mento secolare. E Don Gaetano è soprattutto infatti un soggetto diviso, mistico e mistificatore, moralista e imbroglione pronto a darsi alla fuga con il maltolto prima del disastro, incombente sugli esercitanti. Lui tra­ versa le scene dei misteri degli esercizi: è il lampo dal pulpito, la tenebra nei sotterranei vaticani, è la doppiezza del travestimento. È sdoppiato come fosse un protagonista dell’Aòòe C. Ma nulla si capirebbe di tale effetto di credenza di cui è gestore carismatico e cannibalico, se non si vedesse come ogni rapporto che si annoda alla sua figura di prete/antiprete sia traversato dal legame d'amore, dalla sessualità: l’immissione del corpo mistico della Chiesa la si fantasmatizza nel rapporto di con­ fessione, che appare così simile al legame tra paziente e analista. È con quest’atto che viene regolato il godimento dell’altro, è con quest’atto oscuramente carnale (la carnalità della "lingua”) che si gioca il soggetto amoroso nel transfert. E Don Gaetano, ovvero la Chiesa trionfante, è il Maestro di cerimonia che regola, accoglie, respinge, nel rito formalizzato, il flusso del desiderio. Todo modo è dunque un film che inda­ ga le complesse relazioni di godimento e di preclusione al godimento, nonché di imbroglio metafìsico e storico, che legano Don Gaetano, la Chiesa trionfante, nera, mimetica, fondinerista, doppia a M., il braccio secolare, il chiamato all’esecuzione del disegno divino soprastorico del­ la gestione politica del reale. M è Moro, il potere "cattolico” in Italia: è la Democrazia Cristiana. L’uno è l’altro preti eantipretri, soggetti colo­ nizzati e al contempo scoronizzati nello scenario del politico.

3.

Todo modo. DeU’assoluta mimesi

Nell’agosto del ’76, rispondendo a un questionario, inedito, pro­ postogli da Jean Gili, Petri scriveva:

Si può dire che un democristiano è un prete refoulé, ed un prete è un deputato democristiano refoulé. Essi vivono in un abbraccio che asso­ miglia sempre di più a un rictus, a una imperfezione psicomotoria, a una sorta di siamismo, e sono legati al medesimo destino....La tipolo­ gia trentennale del gruppo dirigente democristiano - ch’è ormai quella della commedia dell’arte - rimanda a personaggi tartufeschi, striscianti,

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topi di sagrestia, untuosi, dall’incedere femmineo, dall’eloquio faticoso e incomprensibile. Sono clercs manqués, come i nazisti erano artistes manqués... Moro è mellifluo, è follemente ambizioso, ma si costringe a un abito di esacerbata modestia. Usa un linguaggio da uomo “colto” dietro cui nasconde la povertà del pensiero, che cerca di gabellare per “progressista”, poiché in questo consiste la funzione che s’è data. Ma da un’analisi della sua azione si deduce un pensiero politico che risponde pienamente alla regola paolina: “ciascuno rimanga nella condizione in cui si trovava quando fu chiamato". Egli, infatti, opera perché nulla muti, ma volendo dare a tutti l’idea di un continuo mutamento. Ed è in questo tirare e mollare, negare e affermare ogni possibilità di mutamento, in pratica impedendola, che il tessuto sociale del paese infiacchisce, in­ vecchia, si strappa, muore. Il suo volere costringere la stasi a sembrare movimento agisce certamente sul suo soma. Egli appare perfino sessual­ mente indeciso. È esangue, rarefatto, aereo, assente, immerso in sublimi conflitti... Moro è un uomo ch’è a destra e a sinistra contemporaneamen­ te; ciò lo pone in una specie di vuoto, posizione assolutamente emble­ matica per un dirigente democristiano. Vuoto che corrisponde, anche, a quella “indifferenza” che Ignazio richiede all’uomo di fede... 11 film resta la storia di un dualismo mortifero, dell’impossibile ritorno alla fede di un gruppo di potere che dei segni della fede fa addirittura il suo vessil­ lo elettorale: la storia di un corso di esercizi spirituali ch’è destinato a tramutarsi in ecatombe, poiché le forze negative, i fantasmi oscuri che esalano dai suoi partecipanti non possono abbattersi che contro di essi.

Un film dunque sulla Chiesa trionfante come mistificazione di ruolo, sulla DC al potere; un film contro la Chiesa contro la DC al potere: e contro il sua capacità di trasformazione e mimetismo. M, prima di rimanere anche lui vittima, forse consenziente, è il regista della strage del gruppo dirigente DC riunito in conclave, al fine di una ulteriore metamorfosi palingenetica della gestione politica. È dunque un film al servizio della lotta politica in Italia, ci piace dire citando il famoso film di Jean Lue Godard Lotte in Italia. La gesta­ zione di Todo modo va dal 1974 al ’76. sono anni che paiono decisivi per il destino politico del paese. Scrive Giorgio Galli:

Effettivamente il biennio intercorso fra l’estate del ’74 e l’estate del ’76 è potuto apparire come il tramonto dell’egemonia democristiana. ’

3

Storia della DC, Laterza, Bari 1977, p. 428.

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Fallita l’esperienza di centro-destra, il governo DC-PL1 di Andre­ otti, la DC prepara la strada, con l’avvento alla segreteria di Fanfani e col richiamo sulla scena di Moro, ad un ennesimo gioco di camuffa­ mento politico. Nel 1973 Moro dichiara a proposito del bipartitismo imperfetto italiano: «La peculiarità della situazione italiana impone alla DC di essere alternativa di sé stessa»4. Tocca dunque a Moro (e il film doppia questo crocicchio politico) tracciare la nuova filosofìa del mimetismo, o dell’assoluto narcisi­ smo, del partito. A Fanfani tocca, invece, di scatenare l’attacco fron­ tale. Questo, tuttavia, fallisce con clamorose ripercussioni: sconfìtta nel referendum, sul divorzio, 1974, tracollo nelle elezioni regionali del 1975, 35% dei voti alla dc e 33% al PCI in tutto 46% alle sinistre e loro possibilità di “scavalcamento” del 50% alle politiche del ’76. La linea Moro, invece, attraverso la segreteria Zaccagnini, è di tale flessibilità da non essere spezzata dai colpi dell’urna, e riemerge vin­ cente, nel tempo, sulle ceneri del partito. Petri annota nei suoi diari di lavoro attorno a Todo modo. 25 sett. ’75. A tre lunghi mesi di distanza dalle elezioni che hanno se­ gnato l’inizio della fine del regime democristiano si può dire che nulla di decisivo sia mutato nei rapporti di classe che regolano la società italiana e nemmeno negli equilibri interni sui quali il partito democristiano ha basato il suo potere, clientelare e interclassista... Se dunque poco è cam­ biato nel partito cattolico e poco fra i suoi sedicenti oppositori è dub­ bio che si possa parlare a buon diritto di “fine regime”... Noi dobbiamo

operare su Todo modo una revisione che tenga conto dei risultati del 15 giugno, ma partendo da) presupposto che sarà una data storica, si, ma solo nel lungo periodo.

In tal senso Todo modo è sia un film di lotta politica (l’accusa, lo scherno, la beffa) sia, e forse soprattutto, da un punto di vista stra­ tegico, di lotta ideologica. Petri non cade nell’effetto di credenza della “fine del regime”, parola magica con cui si vorrebbe dissolvere il sintomo del disagio politico italiano. Ché, anzi, è proprio tale sintomo al centro del discorso sul Politico che il film intrattiene. Todo modo risulta così l’elaborazione ultima, e forse definitoria, nel senso di essere la più radicale ed eccessiva, la più buia e la più 4

A. Moro,

1973-

Per un'iniziativa politica della DC,

Agenzia Progetto Ed.,

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chiusa, della scena del Politico, come scena dell’impossibilità e impadroneggiabilità della maschera carnevalesca. In qualche modo si può dire che lo scacco della sinistra italiana, il suo riflusso nelle elezioni politiche del giungo 76, e la sua incapacità di “gestire" la vittoria elettorale dell’anno precedente, vengono cupamente pre­ sagite in Todo modo (e questo nonostante il film, uscito nell’aprile, voglia arrecare il maggior danno possibile alla DC nel periodo pre­ elettorale). Nella struttura narrativa infatti la scena politica altro non è se non Io spazio proliferante democristiano, mentre il resto politico è il fuori-scena. Quel che designa, dunque, Todo modo è una chiusura interna all’immaginario politico italiano sul versante deH’efFetto di creden­ za: la DC rappresenta (la storia di un trentennio lo attesta) l’assolu­ tezza della dicibilità del Potere. Non si spiegherebbe altrimenti la sua sopravvivenza, nel mimetismo, nel camuffamento, nella litur­ gia. Non lo spiegano certo, a mio avviso, meccanicistici schemi “di classe". È l’universo teologico, immobile, inattaccabile, indifferente, immutabile, l’universo isterico della credenza, dell’assoluto narcisi­ stico, dell’amore del Potere, che garantisce nell’oggetto d’amore. E la DC è permeata di questo carisma millenaristico. Basterebbe forse a dimostrarlo la sconvolgente elaborazione del sintomo luttuoso che ha giocato il paese il giorno del rapimento di Aldo Moro: la piazza camevalizzata squassata dalla passione quaresimale, acefala, muove dietro a un feretro vuoto (lo smarrimento che si produsse allora fu ben più violento di quello che subentrò allorché fu scoperto il cada­ vere dell’uomo politico). Il doppio movimento di Carnevale/Quaresima trova in Todo modo il punto di più radicale esposizione: dell’assoluta mimèsi, ov­ vero della più “disperata" (e “spericolata”, dal punto di vista dello spettacolo) assunzione della maschera. II trittico Moro-M-Vblonté è, nella dinamica della finzione, l’esperienza limite dell’analisi del nodo pulsionale attorno al Potere: la sovrapposizione tra masche­ ra e modello tenta la sutura di ogni scarto e, di conseguenza, tanto maggiore e violenta è la spaccatura nel gioco della altalenanza subli­ me/comico. Non è dunque un’ipotesi lontana dalla realtà che Todo modo, del resto accolto con freddezza fin dalla sua uscita, possa co­ stituire, per quel che gli concerne, dopo la morte di Moro, il per­ turbante nella scena politica italiana ed essere quindi colpito dalla censura del collettivo.

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Un’auto blu ministeriale corre veloce lungo strade deserte. La radio trasmette, di continuo, notizie sulla situazione dell’epidemia che ha colpito il paese. Ai Iati del percorso si incontrano tende della Croce Rossa per la vaccinazione obbligatoria a difesa da un morbo misterio­ so, una forma di peste (la scena riporta ad un altro inizio “catastrofico": I Giorni contati). A bordo dell’autovettura c’è M (Gian Maria Vo­ lonté), trasportato dal suo autista (Franco Citti) al punto di riunione: L’eremo di Zafér. È una grande costruzione avveniristica nel mezzo di una pineta, cemento armato all’esterno e all’interno, tutto spoglio, monacale, efficiente, con stanze, sale di riunione e preghiera ornate di incombenti statue bianche rappresentanti i personaggi della Passione (il soldato, l’Addolorata, il Cristo crocefisso....). La costruzione si erge su un’antica cripta abitata dal monaco Zafér: una speculazione edili­ zia dovuta all’influenza di un prete temuto dalla Curia e dai politici, Don Gaetano (da notare che l’intero scenario è costruito in studio, la costruzione incredibilmente non esiste). Lui ed M si incontrano nell’atrio: «Siamo a un doloroso bivio - dice M - ma inevitabile». M rivela l’esistenza di lettere anonime contro Don Gaetano e gli confida che gente importante lo vedrebbe volentieri “dentro”. Il prete è però già al corrente di tutto. Gli esercizi spirituali che riuniranno fra bre­ ve molti plenipotenziari del partito al potere e importanti esponenti dell’economia, legati alla DC, saranno dunque improntati alla durezza dei rapporti. L’occasione deve creare le condizioni per un incontro se­ greto fra alcuni "esercitanti" per il formarsi di nuovi equilibri interni al partito in vista di una svolta politica a lungo termine. Don Gaetano ne sarebbe l’eminenza grigia, M il mediatore. La guardia del corpo di M cerca nella sua stanza addirittura dei microfoni. Alla spicciolata giungono a Zafér le auto degli esercitanti. Giunge an­ che il Cardinale officiante. Don Gaetano sussurra a M: «Secondo te, che prete sono io? Buono o cattivo?». «Come gli altri» risponde M. «Io sono un prete cattivo, molto cattivo; la malvagità dei preti cattivi serve a con­ fermare ed esaltare la santità»

È quanto elaborava Elio nella lettera a Siciliano. M, nella sua stanza, incontra la donna che, di nascosto, lo attende, sua moglie Giacinta (Mariangela Melato). Nonostante i molti figli, i loro rapporti sono improntati alla assoluta castità genitale. Il godimento, la sessualità passano tra loro attraverso vie tortuose e sublimate: la pre­ ghiera "ignaziana”, con il crescente ritmo del profondo respiro diafram­ matico, li eccita al contatto fìsico. La donna, la Madre, scopre il seno e lo offre alla bocca dell’uomo che, rosso in viso, succhia intensamente

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Elio Petri e il cinema politico italiano nella sua sessualità regressiva. Vengono interrotti dal bussare alla porta di Vbltrano (Ciccio Ingrassia), uomo di secondo piano, fedelissimo della causa, omosessuale e penitente fino alla autoflagellazione e al cilicio: «Solo tu puoi salvare il partito. Dobbiamo spazzare l’immondizia che vi si annida. Attenzione, io sono un supermarket con le prove di tutto!» e mette nelle mani di M, assai imbarazzato, pezzi di pellicola compro­ mettente, «É un mio cadeau1 .».

La pellicola compromettente sarà alla base della sceneggiatura ul­ tima, Chi Illumina la grande notte. Quando i partecipanti sono al completo si iniziano gli esercizi spirituali con la predica, durante la messa, di Don Gaetano. È un discorso violento, minaccioso: «Occorre creare un linguaggio che vi riavvicini a Dio. Voglio che questi esercizi spirituali siano per voi memorabili!».

È l’ortoprassi di cui tratta il testo Giacobbe. Tra gli astanti si diffonde un clima di tensione e il disagio culmina nel momento dell’eucarestia: il Cardinale apre la coppa delle ostie consacra­ te e la trova vuota. «É un segno!» si dice. Al momento della refezione,

nella sala, i partecipanti si dividono i tavoli “per correnti”. Voltrano si alza e propone un digiuno collettivo. Nascono vivaci contrasti, «Tu allu­ di ad altri modi di mangiare!». Si alza infine M e fa un discorso conci­ liatorio, di “mediazione”, proponendo un rinnovato comportamento nel partito e tra il partito e il Paese: «La prima riconciliazione deve avvenire tra noi, vero, per poter essere creduti...... Il capo del gruppo “napoleta­ no” (Gava) non intende cedere al digiuno: apre il tovagliolo ma da quello cadono in terra le ostie consacrate. Il Cardinale decide di abbandonare immediatamente Zafér. Subito dopo Don Gaetano comanda di prepa­ rarsi alla prima meditazione: sul peccato. Tutti si ritirano nelle stanze prima della riunione in cappella. M, con Giacinta, riflette come la parola peccato derivi da pecus, zoppicare, una devianza dalla strada maestra della paideia fisico-morale.

Ancora l’ortopedia! (M è sempre leggermente col capo reclino e si dispone di fronte alla macchina da presa sempre di tre-quarti, come sottraendosi alla sua ottica): «lo sono una piaga che butta, un ascesso che butta... butta tutti i miei peccati».

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Don Gaetano parla con accenti intensi, ispirati e violenti del «peccato personale, il peccato di un uomo del Potere». In quel mentre giunge tra i brusii l'uomo a lungo atteso, il Presidente (Michel Piccoli nelle sem­ bianze di Andreotti). «Non c’è salvezza - continua Don Gaetano - senza la restituzione del maltolto: il Potere stesso». La corrente dei Gava esce dalla cappella «Vanno via i napoletani - si commenta - hanno la coda di paglia». Si diffonde in alcuni gruppi il timore di un "complotto” per sovvertire l’equilibrio del potere in seno al partito. Si riuniscono nelle varie stanze le correnti diverse: «Io mi chiedo se dietro il prete - com­ menta taluno - non ci stia qualcuno più in alto», «La Chiesa gioca sem­ pre d’anticipo», «Lui, il Presidente, significa Lei, l’America», «E se tutti si fossero messi d’accordo per liquidarci?». Intanto nella stanza di M segretamente si tiene, sotto l’egida di Don Gaetano, una riunione riservatissima tra lo stesso Meil Presidente. Ir­ rompe Voltrano che chiede di partecipare, fa vedere la schiena piagata del penitente, si denuda e mostra il pene e il sedere fasciati nel cilicio: «La mia vita è stata un inferno!». Viene allontanato da M che cerca di cal­ marlo. Tra il Presidente e Don Gaetano si è comunque stretto un accordo politico mediato da M. In un colloquio privato fra i due il Presidente pone al prete degli "enigmi” sulla gestione del potere: «Cosa conviene di più alla fede, lo sviluppo o la stasi? La rendita parassitarla è un peccato mortale o veniale? La caduta del saggio di profitto equivale alla caduta delle vocazioni: né preti né imprenditori». Quindi riparte da Zafér. M nella sua stanza, immerso nella vasca da bagno, mentre Giacinta lo lava, traccia le linee del suo futuro ricalco della scena politica per gestire un ritorno ad un rapporto con le sinistre: «Dovrò portare ancora una volta la croce della mediazione». E, di fronte allo specchio, l’asciugama­ no avvolto come un tribuno romano, soliloquia narcisisticamente sugli equilibri paralleli: «Parallele che corrono, corrono verso l’infinito, in un disegno immobile, immutabile...». Don Gaetano richiama tutti nuo­ vamente e li riunisce in un vasto salone per recitare le giaculatorie. Si prega a voce alta e si cammina in formazione, avanti e indietro, sempre più velocemente con il prete ferocemente alla testa. I più, dopo poco, in­ cespicano (peccato da pecus) e perdono l’allineamento. M si massaggia i piedi dolenti. Improvvisamente qualcuno cade, morto. Ucciso però con un colpo di arma da fuoco. Tutto si ferma. Arriva per le rilevazioni un giovane procuratore, il dottor Scalambri (Renato Salvatori). Don Gaetano, inesorabile, nonostante l’accaduto, propone la meditazione: sull’inferno: «Corpi ammucchiati, l’uno sopra l’altro senza un filo d’aria...Il fuoco dell’inferno non dà luce....il peccato degli uomini del Potere è degno dell’inferno più di ogni altro....»

Elio Petri e il cinema politico italiano Scalambri, al termine, fa disporre tutti nella sala, al posto in cui si trovavano, a destra e sinistra, avanti e dietro l'ucciso. Nessuno ricorda più nulla. «Ho sempre confuso la destra con la sinistra - dice M - è stata fatta anche della facile ironia...». È una girandola di posizioni e indica­ zioni che non porta a niente. M. torna nella stanza e la trova a soqqua­ dro, vi sono ovunque mucchi di nastri incisi, aggrovigliati; la moglie ha il vestito strappato: Voltrano è entrato e l'ha violentata; ha poi lasciato una lettera per lui. M legge e corre da Don Gaetano, che riposa nel letto; gli mostra la lettera ‘‘gravissima". Don Gaetano la sottrae e dice che la conserverà personalmente. «Tu - lo irride - avresti dovuto prendere i voti, stai male in borghese: vestirsi da prete è un po’ come sentirsi donna, la brezza penetra nei genitali, e puoi andare senza mutande. Mezzi uomini e mezze donne». M chiede di confessarsi e parla dei suoi desideri di stupro passivo. «Atti?», chiede Don Gaetano, «Nessuno, come in politica», risponde M. Viene trovato Voltrano ucciso, dentro un sacco nero da spazzatura, ricoperto di mutande femminili. «Voltrano - chiarisce M a Scalambri - era un culetto allegro!». E, nel discorso, tenta di minacciarlo larva­ tamene nella sua azione investigativa, «Chi sbaglia qui, caro dottore, sbaglia per tutta la vita». Essendo poi venuto a sapere che non è battez­ zato, gli si offre come padrino. Ritornato nella stanza, M è attorniato da ignoti, travestiti da suore, che parlano inglese e gli fanno indossare una veste da prete. Si diffonde frattanto il panico. 1 membri di corrente si mettono in contatto con Roma, con il Segretario, per farsi rimandare a casa. Al telefono risponde una voce dall’accento aretino (Fanfani) che ordina di rimanere. Si rinviene, all’improvviso, anche il corpo del Presidente, che si rite­ neva ripartito, con i pantaloni abbassati, senza mutande, con vicino una dentiera e il volto pieno di sangue. Giacinta si fa confessare da Don Gaetano e parla dei rapporti inti­ mi con M: «Io non ho altri peccati da raccontare che del desiderio'. Io desidero....per lui. Io sono come l’Italia, lui per me è Garibaldi, Cavour ed io non posso fare l’amore con Garibaldi e Cavour. Lui è... Cristo, una madre non può fare l’amore col proprio figliolo. Godo quando mi recita i discorsi, ma tutto finisce lì, nonostante i sei figli. Desidero...che muoia, che diventi un monumento... Ed io una donna !”Scalambri chiede la collaborazione del prete alle indagini. Ottiene però un rifiuto: «Spero che non mi darà il dolore di dirmi che esiste ancora uno Stato!... Tutto non è che una lunga caduta, come nei sogni». Stato e Chiesa sono due istituzioni che si intersecano e si sovrappongo­ no nel punto storico, nella divergenza radicale del progetto millenaristico ed escatologico dell’istituzione divina.

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L’ispettore viene, quindi, sequestrato e portato nei sotterranei, nelle catacombe di Zafér, dov’era l’antica cripta de) santo. Lo accoglie M, vesti­ to da prete, che gli comunica le conclusioni di “esperti” (evidentemen­ te tecnici dei servizi segreti) sulla meccanica dei delitti. La soluzione dell’enigma è compiacentemente assonante, ricorda Petri, a quella del racconto di Poe “Lo Scarabeo d’oro” (peraltro nel romanzo di Sciascia ci si riferiva esplicitamente a “La lettera rubata”). Con le lettere contenute nelle sigle delle società presiedute, amministrate, compartecipate dagli uccisi, si compone, come in un anagramma, la frase T-O-D-O M-O-DO, ovvero l’inizio di un lunghissimo testo di Ignazio: «Todo modo para buscar la voluntad divina...». E il colpevole? «Todo modo - dice M - è un credo integralista. Ma potrebbe essere il contrario: estremisti travestiti da nazionalisti...». Ovvero il colpevole è un principe del camuffamento, dell’ambiguità. I sospetti cadono su Don Gaetano. M riemerge dalla par­ te catacombale di Zafér: cerca Don Gaetano per il loro ultimo colloquio. M vuole la conferma dei suoi sospetti, Don Gaetano lo attacca: «Ami il potere?», incalza il prete; «Magmaticamente»; «Hai le stigmate?», «A volte mi pare di vederle»; «Sei come i tuoi elettori, cinico e feroce»; «Non mi ami più» conclude Moro, «No sei tu che non mi ami più. I preti sono ingombranti». M chiede di essere confessato un’ultima volta, ma Don Gaetano si nega al rapporto sessuale. Nel refettorio sono convocati da M tutti gli esercitanti per ascoltare le conclusioni dell’indagine. Ognuno dice nome e sigla di società in cui è in qualche modo coinvolto. Ci si accorge con sgomento che tutte le sigle sono intercomunicanti in quanto ogni politico è cointeressato in più di una socie­ tà: dunque tutti sono in pericolo di vita. M, l’enigmista, nella sequenza più “comica” del film, stende l’atto notarile della apocalissi della classe di pote­ re: «Eh, cari pasqualini, siamo tutti in pericolo. Il mio animo è edulcorato... sono desolato... sono veramente desolato...». 'Ritti gli si rivoltano addosso, buttandogli finalmente in faccia le sue responsabilità in malversazioni, tra­ cotanza di potere e scandali, quand’ecco sui teleschermi, nelle pareti della sala, compare il cadavere di Don Gaetano. È stato eliminato anche lui.

L’esame della stanza del prete rivela però delle sorprese: alle pareti quadri di contemporanei, molto quotati; si scopre poi, grazie ad M, una porta segreta: all’intemo c’è una stanzetta piena di Rimetti, vini pregiati e un archivio contenente i dossier, con fotografie e documenti compromet­ tenti di tutti gli esercitanti. Inoltre in un armadio a muro ci sono vestiti borghesi e un pacchetto di dollari. Don Gaetano era pronto per l’espatrio. M consegna a tutti i sopravvissuti il proprio dossier particolare. Terza e ultima giornata. Nell’atrio vuoto sono disposte tutte le valigie dei partecipanti. M si fa strada tra le valigie dell’atrio e guadagna l’uscita di Zafér. Cerca di entrare nell’auto ma ne viene impedito dalla stessa sua

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Elio Petri e il cinema politico italiano guardia del corpo che lo sospinge invece verso la pineta che circonda la costruzione. Nel terreno sono sparse, in una specie di via crucis, foto e incartamenti dei notabili: sotto ogni fotografìa, il volto coperto di do­ cumenti, giace un corpo lordato di sangue. I cadaveri si susseguono. M aggira ogni cadavere, con atteggiamento dispiaciuto, intimorito ma fatalista, seguendo la traccia di carte che si snoda tra i pini. Dietro gli alberi si aggirano killers armati. L’autista lo spinge sempre avanti fìno ad un mucchio di cadaveri ammassati, le carni flaccide e orrende, bianche nel contrasto col sangue. Più avanti ancora... ecco comparire la fotogra­ fìa di M e il suo dossier. M si inginocchia, volge il viso dolente al suo car­ nefice che gli pone, a carezza, la mano sul capo. Mentre è in preghiera, o nel suo comune atteggiamento mollemente chino, il killer gli punta la pistola dietro la schiena e lo giustizia.

«Sia ammazzato il signor padre!» è l’invocazione appartenente alla scena immaginaria. Cos’è la fine del film per me? - scrive Petri a Gili, nel questionario inedito - Prima di tutto la conclusione logica degli esercizi spirituali, cioè di un happening ascetico in cui il soggetto è ricacciato metodicamente verso l’inferno del sé cattolico, d’uno psicodramma particolaris­ simo in cui il paziente ha il ruolo fìsso del peccatore, predestinato dal­ lo spirito perverso di Santìgnazio a rimanere schiacciato sotto il suo complesso di colpa... Ora si può dire che la verifica che l’attuale gruppo democristiano sta conducendo da qualche anno, sembra proprio come un esercizio spirituale, predeterminato per la sua condanna, ossia per la estinzione... Sia che i protagonisti si eliminino a vicenda, sia che M ordini la loro e la propria esecuzione, sia che altri del suo partito, da Roma, decidano di distruggerli per un suo piano inesplicabile, co­ munque teso verso altri eccidi, sia che la CIA abbia deciso di eliminarli tutti a causa della loro comprovata incompetenza, sia che il massacro sia frutto di una sommossa sociale, sia che il padreterno (ormai alle­ ato del PCI) abbia deciso di sbarazzarsi dei suoi corrotti figli, in tutti questi casi (ed anche nella loro fusione) il massacro assume il valore oggettivo di un redde rationem. Se si preferisce - conclude Petri - il finale di “Todo modo” rappresen­ ta - metaforicamente - l’incubo di un democristiano, cioè il sogno di uno di noi. Sarà puerile, ma lasciatemi almeno sognare.

DEL SOGGETTO INFINE IN QUESTIONE, IL PRIVATO COME POLITICO

i. Le mani sporche. Del progetto e della malafede «Addio polpop, addio poppo!». Scrive Petri nei quaderni su Todo modo: 26 agosto ’75. il fatto è che non si può ancora dire che il film non si faccia. Ma se si farà, come arriverò al lavoro, in quali condizioni?, scrivo l'elenco delle noleggiatoci che hanno finora rifiutato il lavoro: United Artists, Twentieth Century Fox, Wamer Bros, Titanus, Gaumont, Cineriz... Errore mio: voler fare questo genere di cinema con la grande pro­ duzione, con l’impiego di capitali che aumentano vertiginosamente le difficoltà oggettive di fare questo cinema e che diventano subito censura commerciale, apparentemente, politica nella sostanza. Il capitale è cen­ sura... È lui il padrone. Impossibile invertire i ruoli... È la sconfìtta di un

certo tipo di cinema, che chiamerò politico o politicopopolare. Polpop, Poppol... Ahi ahi ahi. Addio polpop, addio poppo!.

Il sintomo masochistico, aggravato dalla calura, dalla solitudine estiva di Roma e da un «tentativo di dieta» è, cosi lo interpreto, l’as­ sunzione di un finale di partita. Con Todo modo il cinema politico italiano percorre il suo tragitto estremo nell’esperienza limite del mimetismo, del gioco carnevalesco e quaresimalista, del sublime/ comico. La rappresentazione della scena del Politico, della scena po­ litica italiana, si gioca sull’estremo versante della radicalità, quello dell’impossibile batailliano. In tale prospettiva si innerva la differente dimensione analitica del lavoro di Elio Petri da Todo modo in poi: individuare nel sé del Soggetto borghese, l'altalenanza del sublime e del comico. È un pro­ cesso di spostamento dello sguardo: dal Cittadino a quella del sog­ getto, assumendo quanto questo comporti in termini di dimensione

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dell’autoanalisi. Ma il discorso analisi/autoanalisi ci parla ancora di procedimenti di coronizzazione e scoronizzazione, ma in termini di desiderio connesso alla parola quale luogo di totale mistificazione, ovvero di malafede. La trama del discorso analitico non può che cogliersi e accogliesi come gioco della mascheratura: non più riguardante la maschera desiderante della piazza carnevalesca, ma quella che si inscena nella soggettività e ha a che fare col gioco della censura e della rimozione del desiderio stesso. Il che significa opporre ugualmente l'analisi/ autoanalisi all’effetto di credenza, ovvero al discorso ideologico dell' ideale dell'io, respingendo ogni tentazione di assumere il "detto” come “verità”, ma caricarsi dell'equivoco connesso alla parola. La scena della parola è quella assoluta della malafede, che vede fittiziamente intersecarsi, sovrapporsi, inseguirsi differenti istanze di verità, in catena, l'una supporto alla verità presunta dell’altra. Anali­ si/autoanalisi è il non precipitare nel vortice della credenza: situarsi sul crinale della rappresentazione. Perché il crinale del sublime/comico appartiene alla catena dei significanti in rapporto ai significa­ ti. La piazza carnevalizzata è uno dei dispiegamenti del discorso in malafede della lingua e dunque del soggetto Questa “altra scena”, quella della soggettività in questione, ap­ partiene dunque al politico quanto la scena carnevalizzata. L'una e l’altra sono luoghi di sintomi di pulsioni, diversamente indirizzati. L'una e l'altra appartengono alla rappresentazione di un “io” quale soggetto pieno e sono diversamente innervati nel desiderio dello stesso. Le mani sporche tende appunto a innestare il discorso politico al tema della malafede nel gioco della politica e della sessualità. Buone notizie tenderà a farlo per quanto attiene alla cattedrale borghese dei rapporti interpersonali e sessuali. Ma per cogliere appieno questo spostamento nel lavoro di Petri dobbiamo dar conto del dopo quell'addio al «polpop», al «poppol»... Occorre cioè occuparsi del non-detto di Petri, del lavoro che non ha trovato sfogo, pressato da nuove istanze di parola. Terminato Todo modo Petri ha un progetto preciso, girare Zoo. Il tema è l’evoluzione, anzi la mutazione della specie. Il protagonista decide di sostituirsi a uno scimpanzé e di abitarne la gabbia, fame la propria casa definitiva (un’anticipazione del tema era contenuta in La classe operaia, nell’incontro fra Lulù e Militina al manicomio).

Del soggetto infine in questione, il privato come politico

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Il film non si fece per difficoltà di produzione e per l’indisponibilità dell’attore prescelto, Jack Nicholson. Come spesso accade, nella pro­ fessione, Petri deve sopportare lunghe e snervanti attese, viaggi di lavoro negli Stati Uniti, molti mesi improduttivi, logoranti. L’allesti­ mento di Zoo blocca altre possibili iniziative. Tra i soggetti destinati a giacere ve ne sono due molto belli. Autobus è il primo di essi. Si tratta di un racconto breve: lo spazio claustrofobico di un autobus, rigurgitante il troppo umano e la morte (viene alla mente l’autobusferetro di Giorni contati), disperso come la zattera di Delacroix, più "romana” naturalmente, nel delirante traffico della capitale. 11 se­ condo, affascinante, è Quartetto, storia dell’intrecciarsi complesso dei rapporti amorosi fra i componenti di un quartetto d’archi, sot­ teso dalla trama musicale del primo quartetto per archi (1923) di Janàèeck, ispirato alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj. «È un dedalo in cui ogni strada - scrive Petri sull’opera - riconduce irreparabilmente allo stesso tema, ch’è un tema d’amore inesausto». C’è, infine, un progetto a lungo coltivato e, ahimè, disperso: trarre un film da quella parte dei diari di Paul Léautaud raccolti sotto il titolo Settore privato. L’idea era di coprodurlo assieme a Michel Pic­ coli, che doveva esserne il protagonista. L’interesse per questo splen­ dido quanto contorto quaderno di annotazioni della relazione tra lo scrittore e la sua amante, testimonia di una traccia rinvenibile sia in Autobus che in Quartetto. Percorso che riconduce a La proprietà, ov­ vero all’universo pulsionale del soggetto, ai nodi della fantasmatica sessuale, nodi primari, si direbbe, biologici. In questo senso si può parlare di mutamento di prospettiva in Petri rispetto al «poppol», «polpop»: nel prevalere dell’istanza di analisi delle pulsioni e dei loro destini, nella loro incardinatura all’interno dell’universo simbo­ lico borghese. In questo scenario la scelta di Le mani sporche non è casuale, né dipende dal solo interesse di misurarsi con un dramma illustre e dif­ ficile che aveva destato ovunque polemiche politiche ma che soprat­ tutto era attualissimo nella politica italiana e che portava sulla scena televisiva il fantasma di Stalin, il compromesso storico e il terrori­ smo. Il film dunque pensato “al presente”. Tre volte teatrale. Petri decide, assumendosene il rischio “cultura­ le”, di proporre in televisione un testo arduo, disamato dalla sinistra, eppure profondamente radicato nella storia del marxismo europeo e nel dibattito dell’idea comunista nei paesi occidentali; troppo spesso

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Elio Petri e il cinema politico italiano

messo da parte sul piano politico e censurato anche nella relazione che vi serpeggia tra politica e sessualità. In questo senso è certo che il regista ha vinto la sua scommessa con il testo: la fredda retorica (in­ tendendo con retorica una tecnica tra le più serie in letteratura), del­ la questione etico-politica è resa incandescente dall’evidenziazione della questione sessuale che lavora nei rapporti tra i personaggi. Le mani sporche è una partitura, connotata da fardelli ideologici, che richiede applicazione e fantasia d’interprete. E, soprattutto, richie­ de la evidenziazione di una lettura non di superfìcie. Petri la legge nella doppia chiave della politica e della sessualità, con l’esposizione nell’intrigo del non detto, del rimosso nella malafede (sessuale e po­ litica) dei protagonisti, ovvero nel gioco censorio. In fondo il dram­ ma riporta a Quartetto: quattro soggetti desideranti diversamente in termini di politica e di sesso. Sul testo di Sartre, e sulle ragioni di una sua riproposta, Petri scri­ verà un lungo e bellissimo saggio, edito nel «Quaderno di presenta­ zione» curato daH'Uffìcio Stampa della Rai.1 Il fascino, la cattura spettacolare de Le mani sporche di Elio Petri, nonostante Io smembramento in tre puntate, è precisamente frutto di questo impegnativo studio del testo. La specificità della lettura di Petri consiste nell’accentuare il gioco teatrale circolante nel dram­ ma, troppo spesso trascurato in funzione del dibattito ideologico. Petri esalta, invece, il rapporto tra ideologia e maschera, tra il “pro­ getto” e la “malafede” e come questi rapporti siano intrecciati e gio­ cati dalla sessualità diversamente rappresentata da Jessica e Olga:

Sartre ha scritto questa commedia sul filone della drammaturgia francese dell’ottocento, senza pudore, o, se egli preferisce, nella più completa malafede. I coups de théàtre abbondano, le situazioni sono portate al confine del più schietto artifizio, i conflitti personali sono costruiti su apparenze di quel “reale-reale” che tutti “fìngiamo” di co­ noscere. Queste apparenze del "reale-reale” non interessano Sartre: sono puro pretesto per l’edificazione dei suoi miti. A Sartre premeva di rappresentare la sua scissione in Hugo- Hoederer, in puro-impuro, soggettivo-oggettivo, in metafisico-realista, in vero-falso, gioco-serietà e l’ha fatto con estrema lucidità “ teatrale” servendosi del teatro proprio

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Oggi si può fortunatamente leggere questo testo in Scritti di cinema e di Vita, op. cit.

Del soggetto infine in questione, il privato come politico

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come de) mezzo più peculiare per rappresentare la falsità del suo, e del nostro stato di scissione?

Il nodo di Le mani sporche non viene dunque ridotto all’affresco drammatico che vede Hugo, il rivoluzionario nichilista, febbrilmen­ te dostoevskiano, contrapposto a Hoederer, l’uomo del progetto so­ cialista, il realista politico, che distingue tra etica e politica in vista del fine specifico, che medita il compromesso con il nemico di clas­ se. Ciò vorrebbe dire cadere nella credenza che non vi siano parti in commedia, che non vi sia fantasmatizzazione del politico. Che non vi sia della malafede. Ma che cos’è la malafede? Scrive Sartre: Nella malafede non c’è cinica menzogna né sapiente preparazione di concetti ingannatori. Ma il primo atto di malafede è compiuto per fuggire ciò che non si può fuggire, fuggire ciò che si è... Se la malafede è possibile è perché essa è la minaccia immediata, e permanente ad ogni progetto dell’essere umano, è perché la coscienza nasconde nel suo es­ sere un rischio permanente di malafede.

La malafede è dunque il tarlo di ogni “dover essere”, di ogni "proget­ to”, di ogni architettura dell’ideologia, che è appunto falsa coscienza. 11 porsi dei personaggi - nota Petri - in una prospettiva infinita di atti di malafede rende la teatralità de Le mani sporche ineffabile, poiché nulla in essa è sincero, a partire dal testo di Sartre, ognuno recita qual­ cuno che non è, anche lo stesso Sartre, nel suo volersi togliere l’abito del filosofo per quello del politico...

Di qui la felice definizione di “tre volte teatrale” che Petri dà del dramma: agone delle maschere del soggetto politico nello spazio falso e daustrofobico di un scena dominata dall’appello alla cattiva infinità della Storia, che è invece il fuori campo del dramma. In questo luogo teatrale chiuso, artificioso si scontrano le funzioni limite della fantasmatica socialista occidentale: da una parte quelle della purezza rivoluzionaria, della non compromissione col nemi­ co di classe, dell’astrattezza dell’azione, del disumano nei compor­ tamenti; dall’altra, quelle delle mani sporche, del compromesso, dell’umano, dell’azione nel reale, del progetto comunista come in­ 2

«Quaderno di presentazione», a cura di Ufficio Stampa Rai, op. cit.

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Elio Petri e il cinema politico italiano

sieme di tattica e strategica. Due ordini di problematiche che da sempre pesano nel dibattito politico italiano. Da una parte sta dunque Hugo, o del delirio puritano, il borghese che respinge le sue radici e si censura, che rigetta il progetto di Hoederer come impuro: La purezza di Hugo - scrive Petri - ha l'opacità, la rigidità dei ma­ teriali grezzi e inerti, perde tutta la trasparenza della purezza, dal mo­ mento che nasconde dietro di sé una soggettività indecisa, incapace di scelte, la tensione verso l’annullamento e la morte, il senso di vanità di tutto, e, dunque, il desiderio inconscio che non vi sia progetto, che non vi sia socialismo, non vi sia futuro, che tutto muoia con lui. “Una bomba e il mondo salta ed io con lui”. È questo il suo non - progetto preferito,

questa la sua purezza. Una purezza che ha l’impurezza della non co­ scienza e conoscenza, e del rifiuto della realtà.

Dall’altra parte sta Hoederer, il politico, di estrazione operaia, il rivoluzionario che vuole cambiare il mondo, sopprimere le classi, creare una società socialista attraverso un’azione che ponga la poli­ tica al posto di comando: Hoederer ha il suo progetto - analizza Petri - Tutti i mezzi sono buo­ ni, anche l’assassinio politico. Ma l’idea di morte compresa nella nozio­ ne di assassinio politico non è il fine del suo progetto, ciò che lo ren­ derebbe assurdo, ne è soltanto un mezzo. La morte non fa parte della realtà del mondo. La sporcizia di Hoederer è trasparente, fino al punto da diventare purezza, e non nasconde nulla, e nel farsi tutt’uno con il progetto, e con la “purezza” del progetto, diventa essa stessa progetto. È un’impurezza che, scrollandosi di dosso l’idea di morte e di decomposi­ zione, è diventata purezza.

Ma le relazioni tra i due sono mosse da conflitti sotterranei e con­ traddittori. Hugo vede in Hoederer il modello, il Padre, che si con­ trappone alla verità del suo non-essere; Hoederer, logorato intima­ mente dai contraccolpi morali della sua linea strategica, dalle loro conseguenze nel partito, tra i compagni, in qualche modo “desidera” raffrettarsi della morte, che, del resto, entra nella sua esistenza tra­ vestita da Hugo, il puro. Hoederer e Hugo - sono dunque speculari: l’uno è il nefasto presagio dell’altro, sono entrambi giocati dallo “spi­ rito di gravità” dalla sublimità delle loro funzioni. -

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Petri sceglie, appunto, di connotare Hoederer come funzione pa­ terna, virile, calda, verosimile, sessuata, e Hugo come funzione ado­ lescenziale, falsa, astratta, fredda, asessuata (la sua recitazione è im­ postata su canoni espressionistici: fa riferimento, anche nel trucco, ai film tedeschi degli anni venti, Caligari, Lo studente di Praga, Raskolnikoff). E in qualche modo si mette dalla parte di Hoederer e da a Mastroianni l’incarico si farsi portatore del fallo: è soprattutto sul suo volto segnato dal tempo, sul suo sguardo forte, sul suo corpo maturo, sulle sue mani che si muovono sicure, toccano, stringono, che grava l’effetto di verosimiglianza della tesi Hoederer. Visentin è l’isterico, la marionetta, quello che vivrà solo nel passaggio sublime alla morte finale. È in fondo colui che vuole farsi re e scoronizzare Hoederer. Ma Petri fa si che le cose si complichino ancor più e il dramma, grazie alla messa in scena e alla scelta degli attori, diventa anche un kammerspiele dove l’elemento del desiderio che striscia fra i prota­ gonisti si interseca con il politico e soprattutto lo determina. Mani sporche è anche Quartetto. La sessualità è il perturbante freudiano della scena del politico. Le due donne, Jessica e Olga sono diversamente portatrici di un sesso esposto e istintuale (Jessica) o rimosso e denegato (Olga), ca­ pace di disequilibrare le diverse postulazioni dell’ideale dell’io ma­ schile. Ma anche la sessualità di Hoederer fa breccia su Hugo. Hugo uccide per gelosia, ma di chi? Petri usa questa formalizzazione discorsiva dello scarto anche per organizzare l’esposizione del sintomo umoristico nel gioco sublime. Dove va a finire l’ideale dell’io quando si scontra con la sessualità? Nel comico, come ogni camevalizzazione. Di qui la teatralità dì Le mani sporche anche come “scherzo” filosofico (ma anche come “scherzo” musicale, magari dal quartetto di Janacek), esaltato dalla perfetta sintonia della recitazione e dalla straordinaria rispondenza di Mastroianni ai cedimenti del tono sublime, in politica ed in amo­ re. Marcello del resto recita con consumato accademismo, con lampi di “malafede attoriale” nello sguardo. Recita en philosophe, insom­ ma, partecipando così alla creazione di quell’effetto umoristico, di sipari e siparietti, su cui è costruito il film, fin dall’inizio. In un piccolo teatro, a sipario ancora chiuso, s’avanza nella platea un giovane, la barba non fatta, gli occhi febbricitanti, un sorriso sardoni­ co; la traversa trascorrendo tra gli spettatori della sua età, abbigliati da

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Elio Petri e il cinema politico italiano militanti di sinistra, per salire sul palcoscenico. La m.d.p. si sposta e va ad inquadrare un palco, quello reale, in cui si intravede, seduto, un vecchio, con un grande paio di baffi, in divisa bianca da parata, medaglia e spalline dorate: è Giuseppe Stalin che assiste con un cenno di sorriso all’entrata di Hugo Barine sulla scena (un fondale, ingrandimento di un quadro di Magritte, rappresentante una casa di periferia, con la finestra

aperta e un lampione acceso). Le mani sporche ha uno Stalin in scena. La casa solitaria è quella abitata da Olga (Anna Maria Gherardi) diri­ gente del partito proletario clandestino. Perchè questa visita notturna? Quali sono i rapporti fra i due? Per capirio bisogna tornare indietro nel tempo di due anni. Siamo alla fine della seconda guerra mondiale in Illiria, Europa Centrale, nazione in guerra contro l’Urss ed alleata allaGermania. La radio sovietica invita i cittadini a deporre le armi. Il par­ tito proletario (Partito Comunista Illirico - PCI!) ha la prospettiva, nel futuro immediato, di favorire l’invasione sovietica e assumere il potere grazie alla forza bellica sovietica; oppure giungere a un compromesso con le forze borghesi e insediarsi, come minoranza, in un governo di unione nazionale, chiamato a cogestire la difficile ripresa economica. Olga, assieme a Louis, altro dirigente del partito, è per la prima solu­ zione: prendere subito il potere con la forza. Hoederer (Marcello Ma­ stroianni) lavora invece, seguito dalla maggioranza dei dirigenti, a un compromesso con le forze politiche della reazione, concependo il dise­ gno di far pagare ad esse, che continueranno ad avere la maggioranza, il contraccolpo economico, il dramma del dopoguerra, la crisi insomma. Solo in un secondo momento il partito assumerà il potere. Ma Olga, Louis e la loro corrente tentano disperatamente di impedire che il delicato progetto vada in porto. Concepiscono l’assassinio di Hoe­ derer per mano di un sicario: quel sicario sarà Hugo Barine. Hugo (Giovanni Visentin) è il giovane che avanza nella scena. Ritor­ na, una notte, dopo aver trascorso due anni in prigione per aver com­ piuto l’omicidio, per motivi “passionali”, di Hoederer. Toma da Olga, che era stata la sua amante e istigatrice, nella casa teatro di riunioni e cospirazione. Anni prima egli era solo un giovane militante, giornalista del foglio del partito, escluso da ogni azione dinamitarda e di guerriglia, angosciato dall’inattività e desideroso di agire per il bene della causa. Si era dato nome Raskolnikoff (che in russo vuol dire diviso). È Olga che impone a Louis, che non lo stima, quel giovane borghese, isterico, sem­ pre sopra le righe; ama Hugo e gli concede fiducia: egli avrà la missione di fare da segretario a Hoederer ed assassinarlo per impedirgli un suo incontro, e un avvicinamento ai rappresenanti del governo dell’Illiria. Flasch back: Hugo giunge alla villa, solitaria e segreta, di Hoederer in compagnia di Jessica, la sua giovane moglie. Jessica (Giuliana De Sio) è il

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terzo personaggio fondamentale del dramma, il "perturbante” nel rap­ porto di fascinazione reciproca che si instaurerà tra Hoederer e Hugo. I due giovani vivono un rapporto adolescenziale immaturo, che si riflette in uno scacco sul piano sessuale. «Con lui facciamo dei giochi - dirà Jessica ad Hoederer - con te ci voglio fare l’amore. Tu, come un padre, mi devi insegnare tutto, anche il mio corpo, anche il mio sesso ». Il loro è un ininterrotto trascorrere da una finzione ad un’altra: il gioco di amo­ re e disamore, stima e disistima, altro non è che dissimulazione di una disperazione senza sbocco. Jessica, che pure vuol bene a Hugo, si sente attratta sessualmente da Hoederer, anche prima di conoscerlo, e “parteggia” istintivamente per lui, lo sente nel giusto. Ma anche per Hugo portare a compimento il suo dovere diviene difficile. Il contatto con Hoederer lo fa vacillare; la sicurezza, la solidità di lui, del suo modello paterno, cosi diversa dall’i­ steria che lo pervade, lo sospingono suo malgrado dalla sua parte. Ho­ ederer prova un affetto sincero per Hugo: è la sua giovinezza, o quella che avrebbe voluto essere la sua giovinezza. Finalmente arriva il giorno dell’incontro con Karsky, capo del Pentagono, e Paul, figlio del reggente. C’è molta tensione ma Hoederer, sicuro della sua forza, costringe i due a patteggiare sul suo terreno. Hugo, vedendo l’approssimarsi dell’accordo, estrae il revolver e sta per far fuoco ma all’esterno scoppia una bomba. La notte, Olga, autrice dell'attentato, va a trovare, nascostamente, Hugo che giace ubriaco sul letto. Il fallimento del suo gesto ha provocato in lui una reazione emotiva e si è messo a bere. Gli è accanto Jessica. Le due donne, che amano lo stesso uomo, si parlano (è una delle più belle scene del fìlm, sorretta da un’altissima recitazione) con tenerezza e com­ prensione. Hugo si sveglia e Olga gli ricorda il suo dovere. Ucciderà, forse, il giorno dopo. Nella stanza, partita Olga, giunge, stanco ma soddisfatto, Hoederer. Jessica provoca un chiarimento fra i due. Hoederer spiega al ragazzo il suo piano, ma Hugo non gli cede e si riconferma nel suo propo­ sito: «Lei vorrebbe servirsi del partito per fare una politica di collabora­ zione di classe nel quadro di un’economia capitalista. Per anni vivrete di menzogne - Hugo accusa - di stratagemmi, di rinvìi e scivolerete di com­ promesso in compromesso... Nessuno ci capirà più niente... Noi saremo inquinati, rammolliti, disorientati... ». Dopo un duro colloquio Hoederer dà appuntamento ad Hugo l’indomani per il lavoro di segreteria. Hugo si presenta nello studio armato e deciso ad uccidere, ma Hoe­ derer, abile, lo sfida a far fuoco mettendoglisi di spalle (o forse lo invita a far fuoco). Hugo depone la pistola ed esce, consegnandosi psicologi­ camente alla figura paterna di cui riconosce la superiorità. Nello studio entra anche Jessica: timorosa per entrambi. Si confida con Hoederer. Si fa stringere da lui come una bambina che vuole essere donna. Hoederer

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Elio Petri e il cinema politico italiano commette l’errore di cedere ad un momento di rilassatezza e vanità: en­ tra Hugo e li vede mentre si baciano, estrae la pistola e spara. Uccide per gelosia di Jessica, omosessualità o politica? Torniamo alla notte del rientro alla casa di Olga, dopo l’assassinio ed il carcere. È cercato dagli stessi compagni. Crede che vogliano eliminar­ lo come testimone (c’è stato anche il tentativo di ucciderlo in carcere). Olga lo informa che, nonostante l’eliminazione dell’uomo, la linea di Hoederer è stata successivamente imposta da Mosca stessa. Ha ucciso per niente, anzi ha ucciso un “eroe nazionale”. Olga vorrebbe recuperar­ lo al partito, e a se stessa, facendogli confermare di avere agito per moti­ vi sentimentali e non politici. Ma Hugo non ne vuole più sapere: dichia­ ra che compirebbe oggi lo stesso atto, per le stesse ragioni. Si distacca brutalmente da Olga e affronta i sicari che lo attendono per eliminarlo. Di contro a un sipario scuro, illuminato teatralmente da un riflettore, pronunzia, gridando, la sua testimonianza: “Non recuperabile!” e si ac­

cascia colpito a morte. Hugo, a terra, si alza per rispondere agli applausi del pubblico in te­ atro. Si leva il sipario ed i personaggi si dispongono in passerella. In platea, tra i militanti e gli “ altri”, c’è uno scambio di accuse, fischi, un accenno di rissa: “Provocatori”, “La verità è rivoluzionaria”, “No al com­ promesso con la borghesia", “Viva l’unità nazionale”... In alto, mentre le luci del teatro si vanno spegnendo, sul palco, il simulacro di Stalin. L’ultimo a lasciarci.

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2. La personalità della vittima ovvero Le buone notizie. Di bambi­ ni sperduti

Le mani sporche significa per Petri procedere ad un accurato lavo­ ro di rilettura, dell’opera, di sollecitazione del testo, attraverso, per­ fino, una traduzione ex novo, curata dal regista stesso. Tale elabora­ zione la si può riconoscere come bisogno di reinvestire il dramma politico di esche differenti, urgenti, del presente. Ciò che fa questio­ ne è l’impasse dell’individuo di fronte al pensarsi soggetto autonomo d’azione nella propria storia e nella Storia. Ideologia che si ripropo­ ne in modo inesausto come revenant dell’immaginario collettivo, in qualche modo riconducibile all’universo della pensabilità borghese. Giochi di progetto e di malafede, appunto. In questo senso il nucleo di Le buone notizie nasce nella città di Milano, nei ritorni all’albergo e nelle ore di riposo dal lavoro negli studi televisivi, per il dovere di porsi di fronte a Sartre nel modo più onesto. Petri rilegge L’essere e il nulla, e sfoglia dell’altro, per esem­ pio Wittgenstein, e fa qualche riflessione notturna sui due filosofi, ideologicamente lontani, eppure attinenti ambedue, con molta ra­ dicalità, al privato. Nasce, come sempre, un cahier di note, chiose, appunti, tracce e l’idea di trasfondere in un soggetto il senso penoso del nulla piccolo-borghese, della ideologia piccolo-borghese, la do­ minante nella società occidentale: Sartre e Wittgenstein - dice Petri - sono due filosofi dell’universo piccolo-borghese e, infatti, sul versante logico e fenomenologico ti dan­ no l'assoluta inadeguatezza del loro pensiero. L’ideologia piccolo-bor­ ghese ha vinto nella civiltà occidentale. Essa si connota per il minimo di esposizione individuale, il massimo di assistenzialismo, una grande carica cerebrale tutta dedita alla gratificazione di frustrazioni che, più spesso, sono di natura puramente biologica, un rapporto servile col Po­ tere, un’assoluta scorporazione del pubblico dal privato, e questo anche fra i “militanti”, un contenuto sessuale latente ed ossessivo. Il piccolo­ borghese ha vinto sul terreno delle cose ottenute, ma la sua piuttosto che una vittoria è una regressione, una regressione infantile. Tanto che un’idea provvisoria era di intitolare il film con un verso di Eliot che par­ lava di “bambini che giocano fra i rami del melo”. La testa di un pic­ colo-borghese è un pieno che è un vuoto: è la cassa di risonanza di un nulla echeggiante di interrogativi che accompagnano, fino dall’infanzia, l’accertamento del reale, del sociale, la ricerca dell’identità. Molle che

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Elio Petri e il cinema politico italiano ti seguono fino alla tomba, e che in sé e per sé sono puramente gioco, perché che cosa è la vita non lo sapremo mai, in quanto ci rifiutiamo di misurarci sul ritmo suo, che è biologico. Gli interrogativi diventano così insensati e assoluti, prenatali o preagonici1.

Una prima stesura del soggetto, dal titolo Prima di morire, trat­ tava, in flash o sketch, dei rapporti umani sfilacciati di un picco­ lo borghese, un intellettuale di professione, con la moglie, con le donne, ovvero l’alterità radicale, e con se stesso. Ancora una volta veniva prefigurata la struttura altalenante comico/sublime, laddove la funzione sublime era affidata al “dover essere" del ruolo, di marito, maschio, intellettuale, da far quadrare, e quella comica a ciò che di questo “dover essere" restava nel pugno. Un resto appunto. Il teno­ re del discorso, pur nel risvolto “comico” della frattura del sublime, era accentuatamente cupo, vicino al livore de La proprietà. Il portaparola privilegiato di questa narcisistica istanza di riflessione senile, di bilancio preagonico, avrebbe dovuto essere Marcello Mastroian­ ni. 11 ruolo avrebbe probabilmente coronato quel rapporto affettivoproiettivo che lega Petri all'attore, fin dalla giovinezza, e che negli ultimi anni, si è intensificato e reso più profondo e complesso, da Todo Modo, fino al culmine erotico di Marcello-Hoederer. Una para­ bola che porterà ad immaginare per Marcello Chi illumina la grande notte. La solidarietà fra i due amici doveva estendersi anche alla coproduzione di Prima di morire. Ma Petri diffida e teme la facilità del discorso analogico e cerca di sventarne un possibile pericolo intervenendo su Prima di morire. Ap­ pronta una nuova sceneggiatura in cui, largamente, viene trasfusa la materia della precedente, ma che ricerca un effetto di distanza dalla materia stessa. Nasce cosi La personalità della vittima, con Giancarlo Giannini come protagonista. È una scelta che a mio avviso risulta molto discutibile. Il soggetto originario era bellissimo e soprattutto era l’anticipazione sorprendente delle ossessioni sadomasochiste e di impotenza che si riveleranno appieno nella sceneggiatura di Chi illumina la grande notte, di cui parleremo. Vi sono tra i due film sorprendenti analogie: l’incontro tra il protagonista e l’amico sui Lungotevere, l’ossessione dell’amico di venire ucciso, la sua effettiva morte in un misterioso complotto, la mediocrità morale e i fantasmi 3

Dichiarazioni raccolte al magnetofono, aprile ‘79.

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di impotenza del protagonista. E come se Petri avesse allontanato o sterilizzato la gestione di proprie ossessioni che gli si riproporranno di li a poco, come succede ai sogni ricorrenti. La scelta di Giannini come protagonista non è poi, a mio parere, felice in quanto l’attore ha una facies ed una recitazione troppo coinvolte in diverso cinema e di questo il film ne risente. Tuttavia Petri così sostiene le scelte: Ero molto in forse sull’impostazione del film come storia di un cin­ quantenne. Mastroianni avrebbe potuto sembrare un uomo alle soglie della vecchiaia e impaurito dalla morte. Un uomo sui quaranta è più chiaramente vittima e malato.

Vittima è, per Petri, colui che è scritto dall’ideologia dominante, colui che è traversato dall’inanità e dall’insensatezza del questiona­ re, sul proprio sé, colui che altro non è se non cassa di risonanza di una ragnatela discorsiva che lo avviluppa, colui che è detto incessan­ temente. La televisione riveste, nella finzione, un ruolo dominante: l’uomo (poiché il personaggio non ha nome, identità, riconoscibili­ tà, per cui non può dirsi in assoluto) è a cultura chiusa, funzionario RAI e teleutente, il suo fuori è costituito dalla serie di immaginiverità che lo esimono, lo sollevano dal peso del vivere. Dice Petri: La televisione fornisce estratti di vita che vengono inoculati non più pervia endovena, ma per via anale, per supposte.

È la televisione che oggi funziona come tabula su cui inscrivere la legge del godimento precluso, o forse spostato, anale. Ancora una volta si apre lo spazio della drammatizzazione del corpo, della cen­ sura deH’/iorror vacui. Il corpo dell’uomo è dunque un buco trapas­ sato dagli spettri domestici del tutto-della-vita che, immagine dopo immagine, impongono il ruolo di dipendenza, il nodo sadico. E la catena sadica di Giacobbe che ricompare. La televisione prefigura perciò il massimo dell’assistenzialismo, di portata teologica: è culla, tomba e istitutrice dell’immaginario piccolo-borghese (come Petri dice,«interrogativi prenatali o preagonici»). E la mozione isterica, la possibilità di accedere al tutto, la possibilità del piccolo borghese di dirsi, al riparo dall’effetto di ritorno del comico. Storie, dunque, di bambini, in-fanti, soggetti tagliati nella lin­ gua del sociale, divisi, che si fanno amare solo nel loro bambo­

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leggiate estremo, nella loro precipitazione nella meraviglia, nella stupefazione di fronte all’impossibilità della totalizzazione. Che cosa sono, quindi Le buone notizie? In senso ironico, sono quelle che la televisione, continuamente, veicola? Direi di no: si sbaglia a pensare che il fìlm sia un fìlm sui media, alla Me Luhan. Sono in­ vece i dati inattesi del reale che interrompono il flusso del discorso dell’ideologia, e fanno corto circuito nel pensiero: producono cioè un effetto di comico. Di qui la struttura a sketch, rafforzata dall’annodarsi dell’intrigo facente capo a Gualtiero, l’amico di gioventù, che altri non è se non la paranoia del protagonista. Ogni sequenza, è impostata su di un impasse in cui incorre l’uomo, e termina con un black out del senso, che rimette in questione la catena chiusa del discorso della credenza dell’io. Gli interrogativi sull’identità, sulla sessualità (la funzione e la funzionalità del lui moraviano, il pene), sulla morte, sul corpo come deperimento, giocano l’uomo facendolo cadere nel nero del senso. È questa la stupefazione che scatta come un diable en botte. La funzione di stremante nella scena è ricoperta, come in Mani sporche, dall’universo femminile. La donna rappresenta il versante “vero” in contrapposizione a quello fittizio dell’uomo ma in quanto femminile è anche il perturbante dell’immaginario maschile, ciò che fa da esca al sintomo dell’impotenza. Il sottrarsi della donna (nel caso la moglie e l’amante) e il proliferare impadroneggiabile delle donne fa saltare l’effetto di credenza del dispositivo sessuale e di identificazione. L’uomo è assediato da donne sapienti e castratrici. La recitazione di Giancarlo Giannini, «il miglior attore della sua generazione» secondo Petri, è funzionale a quanto osservato, e ri­ corda in qualche modo il modello keatoniano. Buster Keaton è in­ fatti il borghese che trascorre impassibile da un universo fìnzionale all’altro. Ma Keaton non è un soggetto malato e diviso, è anzi profon­ damente conformato nell’azione, è una marionetta vincente. Gian­ nini - uomo è invece qui la marionetta perdente nell’ancoraggio al proprio ideale dell’io, abitando una scena asettica, fredda, poco denotata, “osservata” dalla m.d.p. in distanza, è marcato nei tratti del viso, nello sguardo da una impassibilità che è data dalla sorpresa stessa dell’inesistenza della propria soggettività. Il nostro uomo è legnoso, burattinesco - dice Petri - come se egli portasse una corazza (Reich?): la corazza è rappresentata, nel fìlm,

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dall’eterno vestito grigio del piccolo-borghese del Novecento, come certi personaggi di Magritte.

Il contraltare fìsico di Giannini è Paolo Bonacelli (Gualtiero), il viso infantile e spaventato, la corpulenza impacciata, il testone cion­ dolante di una maschera triste che percepisce la propria tragicità di esistere. Lo sdoppiamento uomo/Gualtiero è in questo senso l’altalenanza del sublime/comico. La fisicità sgradevole di Gualtiero lo porterebbe al comico se poi non scoprissimo che sarà lui il vero pa­ dre del figlio dell’uomo. E tutto si rimescola. Come sempre, dunque, in Petri, è l’attore il significante centrale della rappresentazione. 11 rapporto di stima e amicizia tra l’attore e il regista è confermato dall’impegno di Giannini, che fa onore a un divo del cinema italiano, di co-produrre il film con Petri, di mettersi in gioco per una storia che non pare, sulla carta, commerciale. Per Petri, invece, l’assunzione di quest’onere imprenditoriale («una cosa forse un po’ da idioti», commenta) comporta il dominio dell’intero ciclo produttivo, dall’ideazione, alla gestione del credito e del lavoro, al rischio, infine, del “salario”. Non è un tentativo, precisa il regista, di cercare nuove strade per il cinema italiano, ma di autorizzarsi e assumere tutto il peso di scelte private, radicalmente rispondenti a decisioni sostenute da domande interiori. Prima di morire. L’uomo (Giancarlo Giannini) è nel suo ufficio, alla RAI. È funzionario. Ha una stanza piena di monitor in funzione. Chiama

la collega Tignetti (Ombretta Colli) e intavola un tema che lo opprime: «Perché non piaccio alle donne? Prima di morire lo voglio sapere». Di fronte alla Tignetti, che guarda ironica e beffarda, si tira giù i pantaloni e mostra il sesso. La donna lo rassicura. «Allora vieni - dice l’uomo - che facciamo l’amore, almeno una volta... prima di morire ». «Vaffanculo, stronzo, tanto non cedo nemmeno se muori! ». L’amico del cuore. Sul Lungotevere lo avvicina un tale che dice di es­ sere stato il suo migliore amico nella giovinezza. Sono passati quindici anni, l’uomo non ricorda nulla, né lo vuole; è infastidito. Gualtiero Mi­ lano (Paolo Bonacelli), professore,ebreo, dice che qualcuno da tempo lo vuole ammazzare; ha paura. Gli affida la sua pistola perché teme di suicidarsi. L’uomo non riesce a liberarsi dall’intruso e deve prendere il revolver.

L’incontro ricorderà l'inizio di Chi illumina la grande notte.

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Elio Petri e il cinema politico italiano La casa. Un arredo moderno, un divano letto, la TV incombente. Molta parte della vita sua e di Fedora (Angela Molina), la moglie, tra­ scorre nel bagno, nei sanitari: a defecare, pisciare, lavarsi, sbarbarsi, de­ pilarsi, scrutarsi allo specchio, truccarsi, rendersi asettici. Turba questa asetticità la sessualità orale, la trivialità, dell'uomo: «Ho bisogno della trivialità per difendermi dalla spiritualità.. A tredici, quindici, vent’anni mandavo avanti tutte queste parole grosse, vere, forti, che richiamano cose reali, fetenti, odori forti di merda e di piscio, perché la gente non vedesse come ero fatto. Infatti il mio cuore era molle e gentile e avevo paura che lo schiacciassero». Benedetta. Con Fedora e Benedetta (Ritze Brown) sulla spiaggia. L’uomo vuole farsela. Giocano a nascondino, si rimpiattano assiemema lei, per amicizia di Fedora, non ci vuole stare. La ricerca, all’uscita dalla scuola del figlio, ma lei lo fredda: «È vero che scorreggi a letto? ».

Il “valzer”. Gualtiero si è intrufolato nella sua esistenza. Ha una bel­ la moglie, Ada, ninfomane, e vorrebbe che l’uomo stesse con lei. Lui si masturba. L’uomo va a casa di Gualtiero anche per convincerlo, su pressione di Ada, a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica. Lo trova in casa, solo, che balla il valzer (ha una collezione preziosa di dischi di questo ballo). Gualtiero lo cinge e lo costringe a danzare: «li Valzer, vuoi dire “colui che balla strisciando”... crediamo di ballare e invece striscia­ mo come vermi». L’amore coniugale. Difficoltà di sostenere i ruoli, guerra dei sessi. L'uomo e Fedora si scambiano le “posizioni" nel letto: Fedora assume il ruolo maschile, l’uomo si fa montare sopra, si fa possedere. «Non lo fai il maschio? - la deride - È diffìcile, eh?», «Cosa vuoi dimostrare, imbe­

cille? Che tu ce l’hai ed io no?! ». Ancora. L’uomo chiede a Fedora di masturbarlo, di farlo godere. Lei si rifiuta di obbedire. Lui s’infuria, lei esegue... con freddezza, sino alla fine: «Qui non c’ero io ma un’estranea», «È vero, io sono in malafede, ma pure tu che non vuoi mai darmela vinta». L’anzianità, il sindacato. Rappresentanti sindacali vanno a parlargli; vogliono sapere cosa pensa, visto che si estrania alle riunioni sulla equi­ parazione, per operai e funzionari, degli scatti di anzianità. «Il proble­ ma dell’anzianità - risponde - è tristissimo. Meglio non pensarci all’an­ zianità». Colluttazione, gli danno del fascista. Lo sciopero. L’uomo riflette con la Tignetti: «lo voglio l’indennitàmorte, anzi l’indennità-nascita. Poi l’indennità-stronzo. E l’indennitàsesso? È compresa nell’indennità-morte»

Lo specchio del bagno. Tutti gli danno del fascista. Specchiandosi in atteggiamento mussoliniano: «E se fòssi veramente fascista? Se lo sono

Del soggetto infine in questione, il privato come politico

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come fai a vivere con me?», «Faccio la Resistenza, - risponde Fedora non lo hai ancora capito?». Ada, la castratrice. L’uomo va a salutare Gualtiero, che si è ricovera­ to in clinica. Ha subito tre elettroshock. Teme sempre di essere ucci­ so. Gli lascia in eredità la collezione dei valzer. C’è anche Ada (Aurore Clément). 1 due si rinchiudono in una stanza vuota della clinica. Ada assume freneticamente l’iniziativa sessuale: lo bacia, lo spoglia, lo fa re­ stare in mutandine e canottiera. L’uomo si sente ridicolizzato; ha anche paura, non sa che fare. Lei lo tocca, lo lecca, gli fa fare la donna. 1 capelli sciolti sulle spalle, bellissima e accecante, rivolge la bocca spalancata contro il sesso di lui, ma improvvisamente: «1X1 controlli! - lo accusa - mica te lo mangio! Hai lo sguardo di uno che pensa: adesso cosa farà questa troia? Qui non siamo in due, siamo in tre, io tu e un moralista che giudica... Quando io faccio l’amore ho il dono di non pensare... ho il dono di amare! ». Tignetti. L’uomo vuole sapere se le donne hanno la sensazione della presenza materiale del sesso: «Lo sentiamo, come un peso - dice lui una sporgenza... ci pesa minuto per minuto, anche quando dormiamo». «Un tumore...», risponde la Tignetti. La morte. «Tossisco - dice l’uomo scrutandosi nello specchio del bagno -, ho le palpitazioni, la pisciarella, sto incominciando a perdere la vista e la memoria... Fedora, io ho una paura di morire che mi caco sotto», «Te la tieni... La morte per te è un’immaginazione. Quello che deve morire non sei tu, qui, adesso... è un altro... Le donne se ne fottono di morire, non hanno la vostra immaginazione». Dal di fuori si odono colpi e detonazioni: l’uomo è come stretto in una morsa di morte, s’ac­ cascia, rantola. La luce va via improvvisamente, l’uomo spaventato cerca l’amore di Fedora. Il marito impaurito la intenerisce, la scioglie. La nascita. «Sono incinta», gli comunica Fedora. L’uomo non ci cre­ de: «Chi vivrà vedrà», «Chi vivrà nascerà», «Chi vivrà morirà». La televisione. È sempre accesa nella sua casa. Dal telegiornale ap­

prende l’uccisione violenta di un malato mentale; appare la foto di Gual­ tiero. «Aveva la sua età». Si vede Ada in lacrime. Corre alla clinica... prima però getta la pistola di Gualtiero nel Tevere. Per il commissario è una questione di froci... ma potrebbe essere un er­ rore dal momento che al piano superiore era ricoverato un pezzo grosso della politica. I funerali. Tutti sono contenuti nel dolore, solo una donna piange senza pudore: è Fedora. In auto, al ritorno, confessa all’uomo che a met­ terla incinta è stato Gualtiero. «Ma è civile - dice lui stupefatto - andare a letto con il migliore amico del marito?», «Ma se non lo vedevi da quin­

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Elio Petri e il cinema politico italiano dici anni!... era come stare con un altro te... era un transfert... anche lui, in me, vedeva te...». «Lo chiameremo Gualtiero». La busta. In ufficio trova una busta da parte di Gualtiero. Sopra c’è scritto “da non aprire”. Una bomba, presunta, alla RAI, costringe il per­ sonale ad evacuare il palazzo. Nei giardini, l’uomo apre la busta... essa contiene tante etichette con su scritto “da non aprire”.

«Io - dice Petri - più avanti vado nel mio lavoro, ossia più invec­ chio, e più mi sorprendo di guardare ai personaggi che chiamo in vita come a dei “pazienti”. Anche il personaggio di Buone Notizie è un paziente (...) il nostro uomo è tanatofobico. E non perchè ami la vita. Ossia: alle sue intermittenti crisi di tanatofobia non corrispon­ de alcun accesso, se così si può dire, di biofìlia. Egli non ama la vita, anche se teme la morte. Quest’uomo non ha una filosofìa. Nessuna merce ha, in sé, alcuna filosofìa é quest’uomo vive alla stregua di una merce. Per conseguenza come tutte le merci ha paura dell’avaria, del deperimento della dissoluzione». Forse quelle etichette “da non aprire” sono papiers effaceurs, ovve­ ro i preziosi fogliettini su cui, in presenza di un errore dattilografico, si può ribattere ed espellerlo dal foglio cancellandolo. Se, tuttavia, si guarda il foglio in controluce si noterà il permanere di un’indelebile traccia. È il principio del notes magico ovvero quella tavoletta cerata con sopra una pellicola di plastica che permette di scrivere e cancel­ lare meccanicamente lo scritto stesso. Freud lo prenderà ad esempio ne Note sul notes magico (1924) come meccanismo stesso della rimo­ zione, in quanto la cancellatura non distrugge le tracce mnestiche. Censura, rimozione e ritorno del rimosso.

CHI ILLUMINA LA GRANDE NOTTE

Con l’analisi di Buone Notizie si chiudeva il libro del 1979. Ma Petri ha in mente una idea che sta per assumere forma in una straordina­ ria sceneggiatura che gli occuperà la mente fino alla sua morte. Vi si ritroveranno tutti i temi ossessionali che hanno segnato il regista da La proprietà in poi, chè anzi questo lavoro così radicale, per quanto non del tutto concluso e padroneggiato, li illuminerà di nuova luce. Chi illumina la grande notte è dunque come una vasta tela informale non finita ma impressionante. Così l’amico Ugo Pirro, nel bel volume antologico, da lui curato, nel 1983, per la Biennale Cinema di Venezia, commenta il lavoro: Chi illumina la grande notte è il film che avrebbe dovuto girare nell’e­ state dell’82, se non fosse intervenuto un male incurabile. Questa sce­ neggiatura, dunque, è l'ultima sua opera (...) Si tratta di un testo di una lucidità inquietante in cui il “male di vivere” del regista sembra coinci­ dere con le sofferenze fisiche che proprio durante 1’ elaborazione del­ le varie versioni della sceneggiatura cominciarono a distruggerlo. Non crediamo di far torto ai valenti sceneggiatori che collaborarono con lui se diciamo che la “filosofia” che attraversa il copione appartiene a Petri. In questo film “da leggere” la visione catastrofica, la cecità emblematica dei personaggi sembrano fare da schermo al suo indomito attaccamento alla vita, al suo disperato amore per il cinema. Vero e proprio testamento spirituale di un cineasta impareggiabile, di un uomo virtuoso ed irri­ ducibile, di un intellettuale dei nostri tempi difficili (...) La prima ste­ sura della sceneggiatura fu scritta in collaborazione con Franco Ferrini e terminata alia fine del 1980. Nel gennaio dell’81 Petri fu impegnato al Teatro Stabile di Genova per la regia teatrale de L’orologio americano di Arthur Miller. Successivamente con Ferrini scrisse una seconda sceneg­ giatura. L’interprete doveva essere Marcello Mastroianni. Difficoltà pro­ duttive imposero un rinvio delle riprese. Alla fine dell’81 Sergio Donati partecipò alla revisione definitiva della sceneggiatura, anche in vista,

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Elio Petri e il cinema politico italiano per la sopravvenuta indisponibilità di Mastroianni, della partecipazio­ ne al film di Ugo Tognazzi. Interprete femminile avrebbe dovuto essere Marie Christine Barrault. L’aggravarsi della malattia che ormai cancella ogni speranza di guarigione interrompe la preparazione delle riprese previste per il settembre.

Il protagonista della storia è un bel uomo di mezza età che veste elegantemente, all’inglese, usa un profumo desueto e non aggressi­ vo, Lanvin, la cui esistenza ha a che fare col cinema, "odora di cine­ ma” - si dice di lui in sceneggiatura -. È forse un attore e comunque è proprietario di una sala romana dove, con poco successo, si pro­ iettano vecchi classici americani come Casablanca, Il sergente York e Intrigo Internazionale. Nella sala di fronte impazzano invece i B movies italiani. Ha una esistenza apparentemente quieta, contenta di sé, ed il giorno ama passeggiare sui Lungotevere. Così faceva Elio Petri, sul Lungotevere Mellini, con il suo cocker bianco e nero Sno­ opy, prima che gli morisse, mentre lui era a New York, indossando la sua giacca di cachemire blu ed il Borsalino grigio chiaro. Un Elio apparentemente quieto ed invece invischiato, in quegli anni, in un confuso e solitario periodo della sua vita professionale, sentimentale e purtroppo fìsico, che perdurerà fino agli ultimi giorni di malattia. Un periodo oscuro che gli farà dire, poche settimane prima di mori­ re, in ospedale, in una delle stupende lettere a Giuseppe De Santis, dettate al magnetofono: Non mi trovo più in nulla di tutto quello che mi circonda, io mi sono ficcato in una specie di vicolacccio scuro, forse cieco. Vivo un periodac­ elo di vita slabbrata, sento pesare su di me il negativo della mia vita, me ne sono andato di casa, ho proprio lasciato, ho cercato di lasciare tutto

dietro di me...1

La storia si svolge interamente tra i Lungoteveri, con il loro as­ sillante traffico insensato, i diversi ponti che uniscono i due lati della città, l’isola Tiberina e i camminamenti sul fiume, nel lasso di tempo che va da una soleggiata mattina al tramonto del giorno successivo. M, il protagonista, Marcello (la parte a Mastroianni era la prima ipotesi), alter ego di E.P., è improvvisamente coinvolto suo malgrado in una storia di spionaggio intemazionale in cui gruppi

i

Scritti di cinema e di vita, op. cit.,

p. 213.

Chi illumina la grande notte

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contrapposti e feroci di spie (arabi, israeliani, russi, americani e te­ deschi - in sceneggiatura si dice che Roma pullula di spie -) ricer­ cano del denaro trafugato da un agente cieco, Ferlinghetti, sosia di M (così lo si descrive nella prima scena, ma la suggestione sembra poi abbandonata), che ha tradito e truffato tutti. Il plot è assai com­ plicato, talvolta contorto e non padroneggiato, pieno di notazioni diffìcilmente riassumibili, in più punti viene esplicitamente citato il film di Hitchcock Intrigo Internazionale. Il personaggio di Cary Grant nel film è quello di un professionista ricco, simpatico, ele­ gante, bello e totalmente vago, in una parola senza qualità, che, per una serie di equivoci, viene identificato dal servizio segreto avverso come spia. Ma il problema è che la spia ricercata non esiste né è mai esistita ed è solo l’effetto di un complesso di segni opportu­ namente predisposti dalla CIA allo scopo di depistaggio. Grant è quindi un signor Nessuno cui si attribuisce il sembiante di un altro Nessuno. M, anch’egli uomo senza qualità, come successivamente sotto droga confesserà ai suoi aguzzini, è un vedente che per salvar­ si la vita perde la sua identità per assumere quella di un altro, un cieco, fino ad abbandonarla volontariamente del tutto, lasciando che un cadavere si appropri del suo sé pubblico. Inoltre in Intrigo Internazionale si tratta di far uscire dagli Stati Uniti dei microfilm contenenti informazioni segrete e quindi, in certo modo, è un film che "odora di cinema”, secondo l’espressione che per definire M si usa in sceneggiatura. Ma, tranne che nel finale ironico (che sia poi davvero ironico o piuttosto sarcastico dipende dal lettore) il soggetto è ben diverso dal fìlm di Hitchcock tutto giocato sul piano della commedia sofisticata, è violento, cupo, se non disperato, buio come il mondo dei ciechi e sordido come il mondo che circonda costoro. I passanti che incro­ ciano M sono infastiditi e disturbati dalla diversità della menoma­ zione. Quello che colpisce nella lettura è la brutalità reiterata delle aggressioni e delle torture cui sono sottoposti M e la coprotagonista cieca Esther (che chiameremo E), la Ève Marie Saint del nostro sog­ getto. In nessun fìlm di Elio è così presente la gratuità quasi mania­ cale della violenza e nel leggere tracce di dialogo sparse viene quasi il sospetto che queste pieghe del soggetto possano anche esser lette come un ironico riferimento alla violenza volgare e cialtrona del ci­ nema italiano commerciale di quegli anni. La sala cinematografica di M è destinata alla chiusura per debiti anche per colpa di questa

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Elio Petri e il cinema politico italiano

produzione infima che attira spettatori (evidentemente Tarantino - dico io - era allora, grazie al cielo, in fasce e non oracolava stupidi­ tà). Sembra, insomma, che la sceneggiatura a volte si rivolga anche al gioco di riproduzione di film di spy stories, un po’ come La deci­ ma vittima si rivolgeva al mondo della fantascienza e dei fumetti. In questo senso solo il film realizzato avrebbe potuto rispondere al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma nel testo, in via primaria, si percepi­ sce tuttavia con estrema chiarezza, come evidenzia Pirro, la pulsione di un pensiero sofferente, quasi masochistico e si capisce l’interesse di Elio, in quel periodo, per l'idea di un soggetto tratto dal racconto di Kafka La colonia penale: il percorso sui Lungotevere è un inces­ sante incubo di auto impazzite e di gente cinica e crudele, il greto del fiume è il regno deH’immondizia, delle discariche abusive, dei topi e dei cadaveri galleggianti, infine, tra la strada ed il fiume, c’è una Roma sotterranea, attraversata da cunicoli segreti e perigliosi, colle­ ganti i due universi della luce e del buio, come nel Lang di M e della Tigre di Eschnapur-Sepolcro indiano. Ma qui i cunicoli sono ingressi e uscite di bunker perfettamente efficienti e operativi sedi di servizi segreti. M è la vittima disperata di questo mondo ctonio, come l’altro M (Moro), di Todo Modo, che nelle catacombe-uffici dell’eremo di Zafer, ordiva con i “servizi” trame stragiste di cui poi sarà anch’egli vittima. In Todo Modo il catastrofismo è ancora politico, è una specie di voluttà distruttiva liberatoria, se si vuole felice. Nell’ultimo Petri le fantasie sono invece masochistiche ed autodistruttive, se si vuole infelici. Ruotano attorno all’idea di Soggetto e alla sua rappresenta­ zione identitaria nel reale, attorno alla disperazione o al piacere di perdersi, annullarsi, obliterarsi come un biglietto di autobus. Secon­ do Pirro questa fase creativa del regista è legata a contrasti interiori che lo portano ad ad elaborare pensieri luttuosi. A mio parere occor­ re sempre respingere l’idea, per Petri come per ogni artista, che le situazioni personali, che pur condizionano, influenzino il pensiero creativo in modo così diretto. Nel caso poi di Petri il suo finale arti­ stico è totalmente conseguente alla idea di mondo che prende corpo a partire da La Proprietà. Dunque da molto lontano. L’elaborazio­ ne luttuosa non deriva dal vissuto ultimo ma dallo scacco della sua scommessa sul reale. Elio scrive e pensa cinema alto e non è succube indulgente di negatività soggettive. Tornando a Chi illumina Borges diceva che ogni autore crea i pro­ pri precursori. Ugualmente ogni opera illumina le precedenti e que­

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sto testo fa luce su molte imageries petriane, in particolare sul finale di Buone notizie. In quel film si disperdevano foglietti bianchi, “da non aprire”, lungo i viali di un giardino pubblico, qui si strapperan­ no certificati con il proprio nome e si getteranno a mare i propri documenti. Le foto e i dossier sparsi sul terreno (come i sassolini di Pollicino per ritrovare il percorso virtuoso) e quindi accatastati sui cadaveri dei democristiani giustiziati nella pineta attorno a Zafer erano un fatto politico, qui il livello del segno bianco è psichiatrico e depressivo, volutamente definitorio. Il racconto EX, del 1982, è illu­ minante in questo senso. Allo stesso modo lo è il racconto, sempre pubblicato in «Nuovi Argomenti», n. 1-1982, Breve incontro, qui non presente, in cui il Nome del personaggio (Elio stesso) è identificabile addirittura come sigla burocratica, numeri e lettere, ovvero come codice fiscale, segno di uno spossessamento identitario radicale, nientifìcante. Dunque in Chi illumina si muovono fantasmatiche luttuose di­ verse, pur venate da un umorismo difensivo, talvolta di natura sar­ castica, che appartengono a quella che abbiamo chiamato la major phase del regista. Ma soprattutto confermano la struttura volutamente sfrangiata delle idee e degli scritti, volta ad una logica diversa del concetto di Soggetto. Il trattamento è dunque caotico, oscuro, frutto e luogo di ossessioni e come tale è bellissimo e angosciante in queste continue devianze e sedimentazioni successive di idee e suggestioni. Non a caso la notazione di chiusura alla sceneggiatura, di pugno di Elio, è dolorosa o quasi impotente, non credo retorica o momentanea: Anche il finale mi sembra oramai scaduto e non saprei dire perché. Forse sono proprio stanco del film. Non ne posso più. Due anni su questa roba è

veramente troppo.

Chi illumina parte come giallo, come racconta Franco Ferrini, ge­ nere amato da Elio, e finisce come monstrum logico. La ragione di questo è a mio parere quel bisogno di concedere spazio alla devianza del pensiero ed a quella poi della scrittura cinematografica. È questa la grandezza di Petri come regista ed intellettuale, pensare il cinema come prassi dei limiti. Chi illumina sarebbe stato un’ennesima scom­ messa sperimentale, oltranzista, votata probabilmente allo scacco nell’universo italiano delle regole, allo stesso modo di Todo Modo, La

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proprietà, Buone notizie. Tutto l’ultimo Petri è segnato dall’angoscia di sperimentare se stesso e la propria scrittura. Prima di procedere ad una sommaria ricostruzione della sceneggia­ tura occorre, tuttavia fare una ulteriore e necessaria premessa. Ferrini ha chiarito un nodo fondamentale del plot che non si rileva nella ste­ sura finale della sceneggiatura. I vuoti logici che si riscontrano riguar­ dano i personaggi di Ferlinghetti, il vero cieco, e di Rufus. Perché un cieco come Ferlinghetti è coinvolto in un intrigo spionistico interna­ zionale e soprattutto che c’entra in questo il cinema? Qual’è il ruolo di Rufus, il persecutore e carnefice? La risposta è che Rufus è il capo di un settore della Cia con sede segreta a Roma, all’interno del Circolo Omero, che come vedremo è un centro di ritrovo per ciechi, all’inter­ no del quale proietta in sicurezza filmati top secret utilizzando pro­ iezionisti ciechi. Uno di costoro è appunto Ferlinghetti che, nella sua funzione, trafuga una pellicola per venderla a servizi stranieri, appro­ priandosi del denaro senza consegnare la merce. Si può anche pensare che Ferlinghetti, operando nel settore, sappia che M è un gestore di cinematografo e che per questo dirà di lui che “sa di pellicola”. FIUME TEVERE, ESTERNO GIORNO. M passeggia elegantemente sul lungotevere con un paio di occhiali molto scuri, da cieco. Estrae dalle tasche alcuni oggetti, foglietti, biglietti di cinema e una contrav­ venzione su cui è scritto il suo nome, strappa quest’ultima e getta i pezzetti nel fiume. Questi pezzi di carta, che testimoniano la sua iden­ tità (vedi il finale di Buone Notizie e i fogli dei dossier di Todo Modo) fluttuano nell’acqua finché la m.p.d. incrocia un cieco che cammina verso M. È identico a lui, stesso volto, vestito, occhiali, e profumo. Il cieco lo tasta, quasi lo annusa «Ecco cos’hai - dice ridendo incompren­ sibilmente - sai di pellicola». Poi si gira e percependo l’arresto di un’au­ to chiede se ne è uscito un tale con una coperta addosso. Rapidamente scambia gli occhiali neri con M, gli da il bastone e gli dice di cammina­ re avanti. Uomini usciti dall’auto afferrano il cieco vero e lo trascinano in un camper. M è atterrito dalla scena, percepisce il pericolo e pensa di poter salvarsi solo facendo il cieco ma viene sorvegliato perché l’incon­ tro tra i due è apparso sospetto ai rapitori. Si accorge di avere oggetti non da cieco, patente, orologio etc. e li getta nel fiume. Uno dei rapito­ ri gli si avvicina, ha un accento slavo, lo perquisisce «perché non hai documenti e soldi?» e lo pesta con durezza professionale, conficcando­ gli due dita negli occhi. M cade a terra dolorante e non vede più nulla. Ora è davvero cieco. Un arabo con delle coperte sulle spalle gli si avvi­

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cina «Sei Ferlinghetti? Ti ha mandato lui? A noi non piace lo scherzo di scappare con i soldi. Se lui non restituire denaro noi uccidere sua don­ na, uccidere tutti voi ciechi». E così dicendo gli storce il naso fino a farlo piangere dal dolore. Rattrappito a terra gli pare di udire una voce angelica «Caro, caro, come vorrei essere tra le tue braccia, sono qui che ti aspetto, ho tanta paura». Pensa che la cecità gli abbia sviluppato la telepatia. Ma la voce si fa subito realistica, «Vieni caro...»: è quella di una prostituta in carne ed ossa. La donna, conosciuta come la prostitu­ ta dei ciechi, lo conduce dentro un altro camper. Mentre guida la sua mano sulle cosce osserva le sue scarpe consunte nel tacco e capisce che l’uomo guida lauto ed è quindi un falso cieco. Nascosti da una tenda interna al camper escono ciechi veri che vogliono sapere come mai ab­ bia il bastone di Ferlinghetti (F da ora in poi) e dove tenga il suo denaro. Ma il camper della prostituta è sorvegliato e lei mette in moto per scap­ pare nel traffico. Il passaggio di un’auto del 113 crea scompiglio ed M riesce ad aprirsi la portiera e fuggire. In mezzo al caos delle macchine uno dei rapitori gli si fa contro ma lo ignora per andare verso il primo camper, quello in cui è stato rinchiuso F, che sta bruciando in fiamme in mezzo alla strada. M gira “alla cieca”, scopre che nelle tasche ha una serie di fotogrammi ripiegati a fisarmonica. Glieli ha infilati F mentre lo tastava. Questi sono oscuri e come perforati in sequenza. Ma riecco la voce lontana «il mio amore ti darà la forza di arrivare fino qui... quest’acqua che mi scorre intorno mi da un senso di pace». M ha l’intu­ izione che la voce provenga da un punto dell’isola Tiberina, attorniata appunto dall’acqua. Ne) mentre si dirige laggiù uno sconosciuto lo scontra, si scusa ma lo trattiene e lo vuole accompagnare in un bar. Gli offre un caffè ma ostentatamente gli versa un liquido nella tazzina. M vede e non può bere: deve confessare di essere un falso cieco. Lo scono­ sciuto gli mostra una pistola sotto alla giacca, «Tu chi sei, dov’è il film, dove sono i soldi?» Intanto i) barista sorbe il caffè destinato a M e con­ tinua a lavorare serenamente. M per salvarsi si attacca ad un flipper e si mette a giocare. Gli avventori gli si fanno attorno incuriositi, un cieco che riesce a vincere al flipper! L’uomo estrae la pistola ma una corda, uscita non si sa da dove, lo stringe al collo e lo strangola. M esce dal bar e, per raggiungere l’isola, sale su un autobus. Li, in una panchina, siede Esther, con un libro in mano, è giovane e molto bella, è cieca. L’arrivo di M la spaventa pensa che anche lui cerchi il denaro, fìnge di appoggiarsi alla sua spalla ma dalla borsetta estrae un coltello e tenta di colpirlo. M la disarma e la rassicura. E vuole capire come l’abbia scoperta: il miste­ ro sta nella stanghetta degli occhiali di F che contengono un apparato ricevente mentre quello trasmittente è inserito nel libro che lei tiene in mano. Si levano voci sul lungofiume: è stato trovato un cadavere di un

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Elio Petri e il cinema politico italiano arabo, anche lui strozzato, nelle sue tasche si trovano i pezzi delia con­ travvenzione che M ha buttato nel fiume con la targa della sua auto. In quel mentre un gigantesco lupo da ciechi gli si pone davanti, lo annusa, e lo trascina per il polso. M capisce che è il cane di F e può liberarsene solo ubbidendo al suo istinto di fargli da guida. Impugna l’apposita ma­ niglia ed il cane lo allontana dall’isola riportandolo sul greto del Tevere, poi in un antico condotto fognario, verso il sottosuolo di Roma. I cuni­ coli traboccano di vestigia romane e fasciste come reperti di “una storia mal digerita”. Alla fine arrivano ad una specie di bunker, vi penetrano e si trovano in una stanza dove siede un cieco, ma è morto. Proseguono in una specie di base militare segreta attrezzata, con sala cucina, refet­ torio, laboratorio: è piena di ciechi uccisi, colpiti da morte improvvisa, senza apparente violenza, come a Pompei o Hiroshima. M vede una botola d’uscita nel soffitto, la solleva per tirarsi fuori di li ma una muta di cani per ciechi, chiusi al di sopra, tenta di azzannarlo. Intanto nel bunker si odono voci: si parla di complotti internazionali, neppure i nuovi arrivati sanno chi ha fatto la strage. Il capo, chiamato Rufiis, con un occhio bendato come il regista Raul Walsh, ordina di inondare le sale con acqua e acido per distruggere i corpi. M non può che tentare disperatamente la fuga e apre la botola: i cani ringhiarti saltano di sot­ to attaccando gli invasori. M riemerge in una buia galleria della metro, e di li guadagna il lungotevere. È notte, si avvia verso il suo cinemato­

grafo, il Cinema Reale dove si proietta Intrigo Internazionale. La cassie­ ra è una bellona platinata, come le classiche cassiere della fantasia, «à Marcò, non c’è nessuno dentro, ma perché non lo chiudi stò cinema e ci fai un supermarket o un locale alternativo?» «Non sono capace di esse­ re alternativo». Poi sale in camera di proiezione, interrompe il film, prende i fotogrammi e li inserisce nella coda de) rullo terminale. Il film così modificato passa in proiezione ma la pellicola irregolare inserita fa si che i fotogrammi finali si deteriorino. Nella sala c’è una sola spetta­ trice Esther che lo chiama a sé e si fa baciare come Ève Marie Saint nella sequenza finale, «Una volta il cinema era pieno di innamorati». Ma irrompono improvvisamente degli sconosciuti che li afferrano e procedono ad interrogarli. M viene picchiato e torturato poi sadica­ mente la sua faccia, con gli occhi spalancati, viene applicata alla fessura da cui fuoriescono i fasci luminosi verso lo schermo. M perde progres­ sivamente la sensibilità visiva «Non vedo più un cazzo, lo sapevo che finiva così». Ma di nuovo la sala si riempie di grida e spari e delle ombre misteriose trascinano i due fuori. Dopo un viaggio in un camper, ritro­ viamo M dentro una sala vuota di una villa liberty. Al centro c’è una sedia con un uomo, è F. Con l’olfatto di un cieco M lo riconosce dal profumo di Lanvin notato nel primo contatto, gli si scaglia contro e lo

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afferra alla gola. 1 due lottano, alla cieca, sotto lo sguardo di Rufus die­ tro un falso specchio. «Maledetto ma perché hai scelto proprio me?» «Perché puzzi di pellicola» poi gli sussurra all’orecchio «Per me è finita ma tu puoi avere i soldi ed E... sono nel film» F viene portato via e M drogato per fargli confessare il suo ruolo nel furto del denaro. Sotto droga comincia a straparlare ma confessa solo i suoi guai e le sue debo­ lezze di uomo, «Ma non avete capito chi sono? Sono un poveraccio, pieno di debiti, evado l’iva, ho Vejaculatio precox, sono malato... Sono diventato cieco due volte, la prima perché i miei occhi erano il cinema ed ora il cinema lo fate voi, un cinemaccio di serie B, intrighi, sangue, massacri. Al cinema tutto prima era sogno, anche i cattivi erano bellis­ simi». Per il tecnico che gli somministra la droga è sincero: non sa nul­ la. Si ritrova così abbandonato nella platea tornata vuota: la vista è ri­ presa e si accorge di avere una corda stretta alla vita il cui capo stringe la gola del cadavere di F seduto davanti. Tagliato il cordone ombelicale con F, va a riprendere i fotogrammi schiariti dal passaggio prolungato nel proiettore. Bussa intanto alle porte del cinema un gran numero di poliziotti, M apre e il loro portavoce, Maresciallo Panunzio (quello di

Indagine) gli ricorda che hanno affittato la sala per una riunione sinda­ cale. Loro entrano e lui esce e mentre scappa sente dietro di sé le urla concitate per il ritrovamento di un cadavere. Ora è sul lungotevere e riprende a sentire la voce di E, «Ti so smarrito nella grande notte ma ora tutto sta per cambiare, una luce illumina la grande notte». Questa volta la voce arriva da una radio privata, Radio Omero. M trova il Centro Omero, sede dell’emittente omonima destinata al pubblico dei ciechi. Entra in un palazzo immerso nella penombra con scritte in Braille alle porte. In una saletta trova il disk-jockey che gestisce il programma fatto di canzoni di musicisti ciechi, Ray Charles, José Feliciano, Stevie Won­ der, di telefonate con non vedenti e di annunci di prodotti utili, come la bamboletta "Mace” contenente spray paralizzante da usarsi contro i malintenzionati. Chiede di E e prosegue nei corridoi bui. In uno di questi incrocia un uomo di Rufus che sta uscendo da una stanza da cui escono lamenti. Si nasconde nella penombra e poi vi entra scoprendo il corpo seminudo di E a terra. Tutto è stato messo a soqquadro. «Portami via, ha detto che tornerà, ho paura» E rivela che F, amante di sua ma­ dre, era come un padre per lei e aveva trafugato il denaro solo per poter­ la sottoporre, a Ginevra, al trapianto di un meraviglioso, raro e costosis­ simo occhio azzurro, «Non voglio morire cieca, odio i ciechi, sono invidiosi e cattivi». M ricorda le parole di F e tira fuori i fotogrammi e intuisce che non sono le immagini che contano ma i segni sulla super­ fìcie. Li consegna ad E, «lo non vedo...sei tu che puoi vedere». Difatti è Braille e lo scritto è «dentro il busto di Omero». Nella biblioteca inter-

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Elio Petri e il cinema politico italiano na al Centro Omero c’è appunto un busto del poeta cieco. Si precipita­ no a verificare il nascondiglio e lo smuovono tra le proteste dei ciechi assorti nella lettura. Improvvisamente la sala è invasa da gruppi armati contrapposti, arabi, israeliani, americani, sovietici. M ed E riescono ad sfuggire. 1 numerosi ciechi del Centro si riuniscono e si coalizzano, circondano gli invasori e li picchiano con i bastoni senza pietà. I due, attraverso un cunicolo, sbucano sul greto del fiume ma sono inseguiti da un killer che proprio mentre sta per raggiungerli viene afferrato al collo da una corda e strangolato. Sul Tevere sta per partire una specie di bateaux ivre per un gita sul fiume riservata esclusivamente ai ciechi. Si mettono in fila con gli altri. 11 cane lupo di F arriva di corsa inseguen­ doli sul greto e balza sul battello accucciandosi ai piedi di E, «Omero, caro, bello», «Come si chiama?» «Omero». Il denaro è nel busto di Omero, ma non nella statua bensì nell’imbragatura attorno al torace del cane, ecco svelato il nascondiglio. Il denaro è ritrovato. Ma c’è un gitante che ascolta e vede tutto: è Rufus,«Bravo M, sapevo che seguen­ dola alla fine avrei trovato il denaro. Per questo tante volte vi ho salvato la vita. I principianti sono sempre fortunati» R. è un professionista che è stato al servizio di tutti, è un killer senza fede e scrupoli. È lui che ha

ucciso, strangolandoli, quelli che tentavano di far fuori M e questo per arrivare a tenersi il denaro per sé. Ora per i due è la fine, «Lei M è già morto, si è suicidato qui nel fiume e questa è la sua lettera, con la sua calligrafìa imitata scientificamente». Estrae la corda e li fa avvicinare per strangolarli assieme ma Esther gli spruzza in faccia lo spray “Mace" paralizzante. Rufiis barcollante, paralizzato e reso cieco del suo unico occhio viene gettato dentro il Tevere melmoso ed inquinato. 11 battello naviga verso Ponte Marconi tra immondizie, discariche abusive e topi in libertà, ma lo speaker racconta ai non vedenti la bellezza del paesag­ gio e la limpidezza delle acque, racconta, si direbbe oggi, “La grande Bellezza”. Esther lo guarda teneramente, «Marcello...». «E no..Marcello non c’è più, è appena anngato. Se i topi, i pesci, il fango mi danno una mano l’unica cosa riconoscibile sarà la lettera...E poi la penna, l’orolo­ gio, le chiavi, i documenti...Sta tutto dentro al fiume Marcello!». LAGO DI GINEVRA. ESTERNO TRAMONTO. M ed E, guancia a guancia, sono seduti su un battello che naviga sul lago, lungo acque cri­ stalline, tra anatroccoli e cigni. Esther ha fatto il trapianto ed ora ha un occhio marrone donatogli da M, per risparmiare sui costi e godersi il resto del denaro. M, da tipico italiano, ha risolto i problemi dei debiti,

quelli fiscali, forse anche, in qualche clinica svizzera, Vejaculatio precox e adesso porta una bella benda nera, alla Raul Walsh, o piuttosto alla Rufiis! Il che fa tornare al finale ambiguo e irridente di Intrigo interna­

Chi illumina la grande notte

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zionale: nell’ultima sequenza il treno, su cui Cary e Ève Marie viaggiano

abbracciati nel vagon Ut, entra in una galleria buia, con tutto quello che ne può seguire sul futuro degli amanti. Ma l’ultima sequenza è quasi chapliniana: improvvisamente, di fron­ te ai due innamorati, si accendono, tutte assieme, nel tramonto, le luci della città. «Meraviglioso, no?» «Non mi stancherei mai di guardare caro!» Chaplin però, si sa, non era certo un buono.

PRIMA DI MORIRE

Prima di morire era il titolo della prima stesura di Buone notìzie. La malattia, quella non esistenziale, si è mostrata in tutta la sua se­ rietà, credo, a fine ‘81. Per un anno e mezzo Elio aveva vissuto ap­ partato a casa della madre o a Torvajanica, sul mare, logorandosi su Chi illumina.... Elaborava anche l’idea di un soggetto curioso per un film ad episodi: una ragazza ancora vergine si alza una mattina con l’idea di trovare l’uomo con cui perdere la verginità, ma dopo un’intera giornata di incontri insoddisfacenti decide di rientrare a casa illibata. Si era dedicato, anche, alla messa in scena de L’orologio americano di Arthur Miller per lo stabile di Genova, e a scrivere i deliziosi raccontini per «Nuovi Argomenti» e la rivista di cucina di Tognazzi. Poi la malattia aveva preso il sopravvento. Era tornato a casa, ma non si era acquietato come risulta dalle sue confessioni a De Santis, continuava ad essere doppiamente malato. In questo periodo lavora all’ultimo soggetto. Così Pirro: Negli ultimi mesi della malattia egli scrive un “codicillo’’ al suo testa­ mento, oppure un compendio conclusivo della sua vita. Immobilizzato a letto o in poltrona nella casa materna, Petri, insieme a Paola Pascolini, scrive il soggetto “Andamento stagionale”, una malinconica storia d’a­ more di due coniugi anziani, ancora una volta fortemente autobiografi­ ca. Una lettera d’amore, oserei dire, consegnata a mano. Un marito, per un futile litigio, abbandona la moglie e va a vivere nel­ la sua casa al mare che l’inverno rende triste e desolata. Presto deluso da quella libertà sempre agognata e improvvisamente scelta, si impegna in attività superflue, si affeziona ad una giovane domestica incinta, mentre scopre di amare la moglie come non aveva mai sospettato.'

i

Volume della Biennale Cinema, op. cit.

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Peppe de Santis così risponde alle lettere orali di Elio e questo te­ sto nobile e commovente, di cui riportiamo un piccolo brano, sarà letto durante il funerale da Franco Giraldi: (...) Disperazione e speranza: ecco il tema che ti ha tenuto inchiodato dinanzi ad un registratore per alcuni giorni, nel desiderio (un bisogno bio­ logico, lo hai chiamato) di annotare spunti da svolgere e sentimenti da ap­ profondire nelle lettere che dovevamo scambiarci giorno dopo giorno, nel corso di un anno, sino al punto di comporre una sorta di romanzo popo­ lare sulla vita parallela, tra disperazione e speranza, di due intellettuali del cinema italiano, entrambi comunisti sia pure di specie diversa, da affidare poi alla pubblicazione (...) Abbiamo scelto il mestiere che ci ha tormentato, ma anche resi felici tutta la vita, sapevamo di compiere un atto pubblico, sapevamo di scegliere qualcosa che ci impegnava ad assolvere doveri civili e compiti morali di grande responsabilità (...) Sono stato un cittadino come tanti altri che si è sentito rappresentato dal vigore della tua denuncia, e sono stato anche un autore che di fronte ai tuoi film ha sopportato con minore amarezza la condanna al silenzio cinematografico a cui sembra io sia desti­ nato. L’animo mi si riempie di oigoglio di fronte ai tuoi film (tu sai, caro Elio, di quali film io parlo), un orgoglio che dura ancora oggi e durerà per sempre, come credo durerà nell’animo di chiunque nel cinema italiano e non solo italiano ha amato e continua ad amare il coraggio della verità. Caro Elio, hai trascorso una vita (e io con te per quanto mi è stato possibile) intento a se­ minare passione e onesta civili, perché questo nostro amato paese crescesse più in fretta, sempre più in fretta, nella vera democrazia, e potesse contare su un futuro più felice per tutti i suoi cittadini. Mi auguro dinanzi a questa tua bara che non sia mai dimenticato, e che chiunque voglia accostarsi a questo nostro mestiere sappia intenderne tutta la portata e raccoglierne l’eredità. Addio, caro Elio, credo di potermi permettere, se non altro per diritto di anzianità, di dirti addio anche a nome di tutto il cinema italiano?

Io l’avevo incontrato a Genova e ancora a La Spezia, per L’orolo­ gio americano. Mi parlava di malesseri che curava con massaggi. Poi lo rividi casualmente in televisione, in una trasmissione dedicata al tema della cura e prevenzione dei tumori. Non collegai le cose che più tardi. Non lo rividi più se non al funerale. La conclusione, per nulla retorica, che avevo apposta al termine del libro mi piace con­ fermarla qui a distanza di quarant’anni. È una delle ragioni per cui ritorno con ostinazione su questo lavoro. 2

Scritti di cinema e di vita,

op. cit., pp. 235-236.

CONCLUSIONE

Il destino di un saggio critico è la senescenza, più o meno precoce, per più cause. Mi piace, quindi, aggiungere un’ultima notazione, di natura extra critica e meno deperibile: dire della stima e del rispetto che nutro per la persona di Elio Petti, convincimento maturato nel pur saltua­ rio rapporto intrattenuto con lui negli ultimi tre anni e che è sempre stato di correttezza estrema. Il lettore farà di questa postilla l’uso che vorrà, lo, tuttavia, ritengo che Petri meriti che di lui sia conosciuto anche questo.

Roma, 22 Novembre 1982

Caro Rossi, grazie per il suo biglietto. La scomparsa di Elio è stata dolorosissi­ ma per tutti noi ed è quasi assurdo pensare che non ci sia più. Pen­ so che lei scriverà ancora su di lui, fra l’altro ci sono degli inediti che qualcuno dovrebbe riordinare e presentare (ha visto l'articolo di Pirro sul “Corriere” degli spettacoli?) e poi c’è tutto un discorso ancora da fare sulla crisi di Petri negli ultimi dieci anni, che è molto emblematica di un gruppo generazionale. Ovviamente quello che manca di più è l’amico e nessuno ce lo restituirà. Mi dia notizie del suo lavoro. Un caro saluto. Tullio Kezich

Elio Petri LETTERE E SCRITTI

Roma» 2 Luglio 1977

Caro Alfredo, tutto il mese di Giugno sono rimasto a Roma, ma il 4, cioè dopodomani, parto. Avrò un‘estate piuttosto travagliata, come le disei. Passerò tutto il mese di Luglio in California a lavorare con uno scrittore americano. Sulla strada del ritorno sarò costret to a fermarmi in Inghilterra sempre per motivi di lavoro. A quel­ l'epoca ci avrà investiti il mezzagoeto. Spero di /«irmene restare qualche giorno in Sardegna, tornerò a Roma verso la fine d'Agosto. B' quello un periodo dell'anno molto bello e molto calmo qui a Ro­ ma e lei oi dovrebbe star bene. Io le darò tutta l'assistenza pos­ sibile, per le sue ricerche, ma la chiave di volta è sempre nella autorità che Pemaldo esercita sul CSC. Naturalmente tutti i miei appunti, o aborti di film, so no a sua disposizione. Non ho un archivio vero e proprio, ma spar­ se un poco dappertutto in giro per casa ci sono tracce anche scrit te della mia "storia*. Cercarle e riunirle sarà un'incombenza gra­ vosa e spiacevole, ohe mi rimetterà davanti a schegge di specchi nebbiosi, nelle cuali si rifletto vagamente l’immagine frammenta­ ta di un "me* che non c'è più e forse non c'è mai stato, impreeei2 ni, quasi sempre false, di momenti obliterati, anche quelli spesso fittizi» C'è da scuotere, insonnia, tanta di quella polvere da rima nere soffocati in un gran polverone. Como ogni alienato io non ho memoria, perché non voglio averne. L'ultima questione da lei posta è anche più angosciosa. Perché fare un libro su di me? Ma, vede, caro Alfredo, io non ?SssSs nessun» meoessità di fare un libre su di me, e gitelo dico sincere mente. Tutti i motivi che mi spingerebbero ad invitarla a prosegui re nella sua insana idea, sarebbero di ordine strumentale, pro do­ mo mea, corrotti, viziati da narcisismo, alimentati da piccole e grandi frustrazioni. Le confesso che quando parlano di qualche mio film mi vien voglia di difenderlo, ma solo per istinto di conserva ziono (o di conversazione?). Basendo i film parte della mia memo­ ria, li ho dimenticati, volendo dimenticarli. Mi balza ogni tanto allo spirito qualche sensazione piacevole provata girando una sce­ na, qua e là per l'Italia, un'atmosfera che m'ere piaciute»un po­ meriggio in Sicilia, il viso d'un attore ohe amavo. Ogni tanto mi attraversa il gusto d'aver provocato qualche discussione. Ma i fiLm sembrano d'un altro.

La questione da lei posta è molto angosciosa anche ^perché mi rimanda domande tanto stringente, quanto inutile, «Mi jsenrpre presenta in me» Perché fare le cose? Perché faccio un fil~m? Perché faccio il cinema? Una volta fare il cinema mi piaceva e tutte queste domande c'erano, ma latenti, preconscie. Un ragazzo, in occidente, fa le cose perché le trova 11 davanti a lui da farsi, e farle è un poco fare se stessi» Il divertimento, in quell'età, consiste proprio nell'andare a caccia di se stessi, facendo una cosa o l'altra» Ma quando si scopre che la caccia a o di se stessi è inane, cèssa il divoriImonto. "Q’ubndo si • 6SFY«*còae sono li per obbligarti ad essere qualcuno di preciso -e di fattizio- è finito il gioco» Ho cercato di ovviare a quest'inconveniente tornando a ze­ ro alla fine d'ogni film, come certe macchine calcolatrici che scancellano alla fine d'ogni calcolo tutte le operazioni, rioomin dando ogni volta daccapo, ripuntando sempre tutto quello che ave vo accumulato» Mi son reso conto, però, che si trattava d'un esp£, diente privo d'efficacia, una specie di roulette un po' sciocca» Ora si pare di fare un film spinto dal mio ruolo, per necessità di danaro, per pagare le tasse, dunque per riflesso condizionato. So­ no come mi hanno fatto le cose? Apparentemente, si. Se ci penso bene, ogni cosa si fa per sfuggire l'idea del­ la morte, per passare il tempo, perché la mente sia occupata da altro che non dall'idea, o voglia, o paura, di morire. Quindi an­ che i film e i libri, i miei e i suoi» Ma questo non risponde alle domanda: perché un libro proprio eu di me» La salòto con affetto» La prego di salutarmi anche Gabriel­ la» Prima di partire per Los Angeles le telefonerò» Mia moglie avrà-l’indirizzo mio in AmeMom» Suo, Blio Petrt.

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Elio Petri e il cinema politico italiano

Roma, 2 Luglio 1977

Caro Alfredo, tutto il mese di Giugno sono rimasto a Roma, ma il 4, cioè do­ podomani, parto. Avrò un'estate piuttosto travagliata, come le dissi. Passerò tutto il mese di Luglio in California a lavorare con uno scrit­ tore americano. Sulla strada del ritorno sarò costretto a fermarmi in Inghilterra sempre per motivi di lavoro. A quell'epoca ci avrà investi­ ti il mezz’agosto. Spero di potermene restare qualche giorno in Sar­ degna. Tornerò a Roma verso la fine d'Agosto. E’ quello un periodo dell'anno molto bello e molto calmo qui a Roma e lei ci dovrebbe star bene. Io le darò tutta l’assistenza possibile, per le sue ricerche, ma la chiave di volta è sempre nella autorità che Fernaldo esercita sul CSC. Naturalmente tutti i miei appunti, o aborti di film, sono a sua di­ sposizione. Non ho un archivio vero e proprio, ma sparse un poco dappertutto in giro per casa ci sono tracce anche scritte della mia “sto­ ria”. Cercarle e riunirle sarà un’incombenza gravosa e spiacevole, che mi rimetterà davanti a schegge di specchi nebbiosi, nelle quali si ri­ flette vagamente l’immagine frammentata di un “me” che non c’è più e forse non c’è mai stato, impressioni, quasi sempre false, di momenti obliterati, anche quelli spesso fittizi. C’è da scuotere, insomma, tanta di quella polvere da rimanere soffocati in un gran polverone. Come ogni alienato io non ho memoria, perché non voglio averne. L’ultima questione da lei posta è anche più angosciosa. Perché fare un libro su di me? Ma, vede, caro Alfredo, io non sento nes­ suna necessità di fare un libro su di me, e glielo dico sinceramente. Tìitti i motivi che mi spingerebbero ad invitarla a proseguire nella sua insana idea, sarebbero di ordine strumentale, pro domo mea, corrotti, viziati da narcisismo, alimentati da piccole e grandi frustra­ zioni. Le confesso che quando parlano di qualche mio film mi vien voglia di difenderlo, ma solo per istinto di conservazione (o di con­ versazione?) essendo i film parte della mia memoria, li ho dimenti­ cati, volendo dimenticarli. Mi balza ogni tanto allo spirito qualche sensazione piacevole provata girando una scena, qua e là per l’Italia, un’atmosfera che m’era piaciuta, un pomeriggio in Sicilia, il visod’un attore che amavo. Ogni tanto mi attraversa il gusto d’aver provocato qualche discussione. Ma i film mi sembrano d’un altro. La questione da lei posta è molto angosciosa anche perché mi ri­ manda a domande tanto stringenti, quanto inutili, ma sempre pre-

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senti in me. Perché fare le cose? Perché faccio un film? Perché faccio il cinema? Una volta fare il cinema mi piaceva e tutte queste domande c’era­ no, ma latenti, preconscie. Un ragazzo, in occidente, fa le cose per­ ché le trova 11 davanti a lui da farsi, e farle è un poco fare se stessi. Il divertimento, in quell età, consiste proprio nell’andare a caccia di sé stessi, facendo una cosa o l’altra. Ma quando si scopre che la caccia a o di sé stessi è inane, cessa il divertimento. Quando si scopre che le cose sono lì per obbligarti ad essere qualcuno di preciso - e di fittizio - è finito il gioco. Ho cercato di ovviare a quest’inconveniente tornando a zero alla fine d’ogni film, come certe macchine calcolatrici che scancellano alla fine d’ogni calcolo tutte le operazioni, ricominciando ogni vol­ ta daccapo, ripuntando sempre tutto quello che avevo accumulato. Mi son reso conto, però, che si trattava d’un espediente privo d’ef­ ficacia, una specie di roulette un po’ sciocca. Ora mi pare di fare un film spinto dal mio ruolo, per necessità di danaro, per pagare le tasse, dunque per riflesso condizionato. Sono come mi hanno fatto le cose? Apparentemente, sì. Se ci penso bene, ogni cosa si fa per sfuggire l’idea della morte, per passare il tempo, perché la mente sia occupata da altro che non dall’idea, o voglia, o paura, di morire. Quindi anche i film e i libri, i miei e i suoi. Ma questo non risponde alla domanda: perché un libro proprio su di me. La saluto con affetto. La prego di salutarmi anche Gabriella. Prima di partire per Los Angeles le telefonerò. Mia moglie avrà l’indirizzo mio in America. Suo, Elio Petri.

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Milano, 21 Marzo 1978 Caro Alfredo, devi sapere che io sono via da Roma dal 27 Febbraio. Sto a Mila­ no, dopo una breve puntata a Londra, sempre compiuta per ragioni di lavoro. (Sto qui, come ricorderai, per mettere in scena "Le mani sporche”). Ho ricevuto, quindi, la tua lettera, con molto ritardo, appena qual­ che giorno fa. Adesso, a rileggerla, provo una specie di conforto. Le notizie che mi dai di te infatti, soprattutto attraverso il "tono” della lettera, ch’è sereno, per non dire gaio, sono rassicuranti, in giorni come questi, di pura e generale follia. C’è da chiedersi cosa avresti scritto dopo gli ultimi e grotteschi av­ venimenti. Ma amo pensare che avresti scritto esattamente le stesse cose, con la stessa imperturbabilità. Insomma, mi piace leggere la tua lettera come fosse datata oggi, per quel tanto di ottimismo sulla tua vita familiare, sul tuo lavoro “retribuito” e su quello non retribui­ to, e ci ho trovato dentro un ottimismo di cui tu stesso, forse, non eri completamente conscio. L’attaccamento a certe semplici cose deve servire, soprattutto a giovani come te e Gabriella, per restare nel cuore della vita, al riparo da queste ondate malefiche che ci fanno rischiare il naufragio anche individuale. Di fronte a quello che sta succedendo io mi trovo continuamente risucchiato da due impulsi: quello di immergermi completamen­ te, fino alla "feccia”, in questi fatti assurdi, e di sperdermi con tutto quanto quello che vedo sperdersi, e l’altra, invece, di ritrovare e gu­ stare quelle poche cose che contano, l’amore per la tua donna, gli affetti, l'amicizia, una certa purezza negli intenti. In momenti come questi, saper riscoprire il sapore delle cose può salvare dalla para­ noia: il sapore delle cose vere. Ma è possibile distinguere il “vero”? e come astrarsi dal resto? Ed è giusto? E’ possibile proclamare uno sciopero dei lettori di giornale e degli “utenti” radiotelevisivi, e ripri­ stinare, tutt’al più, l’antico uso delle notizie recate da animosi viag­ giatori? Come fare per stare dentro i fatti senza perdere il contatto con se stessi e con gli altri? Adesso devo andare a lavorare e rispondo brevemente ai tuoi que­ siti, che sono tre, e non due, come annunci: a) la proiezione di Porretta credo fosse la prima assoluta in Italia; b) non so chi fossero

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gli operai intervenuti; suppongo fossero membri delle commissioni interne delle fabbriche intorno Porretta a parte qualche gruppo di sindacalisti venuto da Bologna; per maggiori chiarimenti dovresti rivolgerti direttamente agli organizzatori degli incontri di Porretta; sai, gli operai, nel mondo della sinistra italiana, sono un po’ come lo spirito santo: il partito è il padre, il figlio è il gruppuscolo, l'operaio è lo spirito santo, una figura tutta da spiegare, che c'è, ma dove sia, nessuno lo sa; anche in quel caso gli operai “discesero” da qualche posto: si sa che c erano, basta; c) è stato sicuramente Straub a dire che film come quello andavano bruciati; lo ricordo come fosse ades­ so, poiché le parole di Straub furono per me assai dolorose: esse mi fecero sorgere il dubbio che dal suo punto di vista un artista come Straub potesse avere ragione e che effettivamente si potesse trovare quel modo di fare il cinema assolutamente detestabile; ma il fana­ tismo che trasudava dalle parole e dal pensiero di Straub, ed anche dall’espressione torva e stravolta del viso, dal suo colorito livido forse per semplice timidezza - e la stupida intolleranza contenuta nel suo desiderio di roghi - peraltro di pellicole ininfiammabili - cu­ rarono presto i miei dubbi. Pensai che se il film aveva in sé qualcosa che poteva offendere un fanatico di quella fatta, quel calvinista da baita svizzera, certamente era qualcosa di anti-fanatico, di anti-intollerante: brutto, il film, se vuoi, ma positivo. La morte di Snoopy: ci penso spesso. Vedi, Alfredo, anche l’enig­ ma che porta in sé un piccolo ed inconsapevole animale come lui, non viene sciolto dalla morte, che lascia tutto in sospeso e tutto rende, anche retrospettivamente, aleatorio, inconchiuso, per tutti, animali muti, animali parlanti. D’altra parte, il linguaggio umano, la nostra possibilità di comunicare, non scioglie enigmi, semmai li complica. In questo senso il mutismo di un animale è un simbolo perfetto. Un abbraccio a te ed a tua moglie dal tuo Elio. L'idea che tu stia lavorando intorno a Todo modo in questo clima todomodesco mi pare altamente ironica. In fondo giusta. Farò Le mani sporche, in certi limiti, come fosse un Todo modo dello stalinismo. È diffìcilissimo adattarsi ai sistemi della RAI-TV. Mi sento come potrebbe sentirsi un artigiano, poniamo mio padre, un calderaio, messo di forza ad una catena di montaggio della FIAT. Ogni momento mi vien voglia di andarmene. Ma ormai ci sono.

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Milano, 9 Luglio 1978 Caro Alfredo, è destino che io stia per scriverti, sempre con la valigia in mano e che le mie lettere debbano incominciare sempre con il mio punto geografico, perché tu sappia dove e quando trovarmi. Ecco qua: sono ancora a Milano, ma ne parto domani per Roma. Lì, per tutta la set­ timana, seguirò la registrazione delle musiche delle Mani Sporche. Verso martedì prossimo - cioè il 18 - sarò di nuovo a Milano, ma soltanto per due o tre giorni. Dopo di allora rientrerò definitivamen­ te a Roma. Per quanto, non ti so dire. La mia permanenza a Milano è durata quattro mesi. Sono stato a Roma soltanto una volta, alla fine di giugno, ed è stato quando ho trovato il tuo messaggio. Vorrei parlare della parte finale della tua lettera, ma come, non conoscendo i latti? Forse ero stato ingenuo, in marzo, a scriverti di attaccamento alle “cose semplici”? E di ripari privati? Certo, i nostri destini sono così intrecciati alle vicende collettive che una separazio­ ne è impossibile farla. Insisto, tuttavia, nel pensare che ci sono cose semplici che vanno messe al riparo, per la nostra salvezza individua­ le, daH’imbecillità generale, e che tra esse sono in prima fila quelle cose semplicissime e quotidiane che sono i sentimenti. Ma tu sai che semplice non vuol dire, in questo caso, semplice, ma essenziale, ossia una cosa tutta da ricercare, da definire. Ora, è sicuro che tra le cose es­ senziali c’è l’amore, anche nella sua forma più praticata, e vituperata, ch’è quella dell'amore coniugale. Questo genere d’amore conduce ine­ vitabilmente a una società a due, fissa e non occasionale, come a dire a qualcosa che, come tutte le società, sarà perennemente in crisi. C’è chi definisce questa società a due, fotte à deux, che poi è una scheggia incandescente di quella fotte à millions ch’è la crisi della società. (...) Veniamo a Moro. Nelle sue lettere, la nota che risaltava maggior­ mente era quel suo credersi indispensabile alla sua famiglia, al suo par­ tito, allo stato. Moro credeva di avere una missione da compiere, come molti di noi, del resto. Ho pensato, tuttavia, che nel lungo periodo del­ la detenzione, egli avrebbe dovuto capire che se una missione aveva, da compiere, era, forse, quella di farsi uccidere dalle BR. Ma l’uomo era privo di ironia e del senso della vita. Basta pensare al suo rifiuto della morte, alla sua meraviglia che un tale evento potesse compiersi anche per lui, sia pure per motivi non direttamente clinici, per capire

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quanto poco avesse vissuto “semplicemente”, che in questo caso vuol dire anche tragicamente. Anche il credere nella superiorità del proprio individuale destino - il senso, cioè, della sua impaurita meraviglia che quella cosa dovesse capitare “proprio” a lui, che era “destinato" ad al­ tro - rivela rifiuto della tragedia. In questi giorni, le ha pensate tutte, ma non alla vita ed alla morte. La sua abilità politica doveva essere diabolica, se si riflette al come ha giocato le BR, coinvolgendole nella sua pènia parlamentare, al come ha ridicolizzato la loro idea del pro­ cesso, discutibile quanto vuoi, ma elementare, radicale, al come le ha usate - forse convincendole dei vantaggi che venivano anche per loro dalle “sua” idea di trattativa - per dividere i partiti e indebolire lo stato, il “suo” stato. Un’abilità diabolica, senza dubbio, la sua, anche se non gliel’ha fatta a vincere. Un’abilità come quella del suo “doppio” Volonté. L’idea di scrivere un libro su di lui (Volonté) può essere un’eccellen­ te occasione per parlare di tante cose, ma soprattutto della sua abilità, che io chiamerei proprio “arte”. Ed è giusta, e tempestiva, anche l’idea di scrivere il libro sul cinema politico, tutto quello cui tu accenni mi pare molto interessante e devi andare a fondo. Anzi, ti “prego” di arri­ vare fino in fondo. Saranno due cose utili, poiché il tuo non è mai un punto di vista conformista, nemmeno rispetto alle mode fbrmaliste. Le tue idee meritano di circolare. La differenza che fai tra “subli­ me” e “comico - basso” è interessante. Gramsci, anche nell’ironia, era sublime. Moro è comico - basso. Gli Italiani non hanno il senso tra­ gico della vita: bisognerebbe discutere il perché. Un certo cinema è stato il tentativo di darselo. Vai fino in fondo. Le tue idee meritano di circolare - se si può dire così, e se posso dirlo io -, ma dipende solo date. Per questi due libri ti darò l’aiuto che posso. È estate, Roma sarà deserta, Gian Maria è ancora fermo a Eboli, con Rosi. Ti cercherò gli indirizzi, insomma dimmi quel che devo fare e lo farò Ciao. Tuo Elio Saluti a Gabriella.

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Milano, 17 Settembre Caro Alfredo, “ero” in Sardegna ed è vero, come avevi supposto, che ho com­ messo l”'imprudenza” di passare da Roma, prima di venire al "mixa­ ge” delle Mani sporche. Eccomi, quindi, con le tue nuove, ed anche “nuove”, novissime, pagine tra le mani, a cercare di capire in che modo io possa esserti utile. A conti fatti mi pare il problema non si ponga. Ossia la strada che hai imboccata è interessante e certamente ti porterà ad una sistema­ zione abbastanza conclusiva dell’argomento cinema politico, ed io, in questo, non ti posso servire a nulla. Ma fìngiamo, nello spazio di poche righe, che io, invece, in qual­ che modo ti possa servire. In questo caso ti direi subito, prima di tut­ to, che le nove pagine contengono una tale quantità - e qualità - di ragionamenti da risultare il sunto di trentasei o settantadue pagine, che meriterebbero, quindi, di essere scritte. La seconda cosa che ti direi riguarda la forte assenza dai tuoi ragio­ namenti, del quadro storico-politico del loro oggetto, che, essendo il cinema politico, richiede una descrizione delle condizioni oggettive in cui è venuto a trovarsi. A meno che tu non voglia sospendere tutti i tuoi ragionamenti a quel “delirio” finale, nel quale ti chiedi se il vero cinema politico non sia, come io propendo a credere, e tu lo sai, il "resto lacaniano ovvero la commedia all'italiana”. Ma che anche in questo caso perché non dare al lettore il quadro storico-politico della cosa? Intendo il quadro oggettivo, ossia il tuo specifico punto di vista sull’intreccio di cronaca-storia-film, che è l’unico modo per essere “oggettivi”. Mi dirai che tutto è implicito, nel tuo saggio, ed è vero. Ma vi sono cose che troppo implicite diventano mute. Se, per esempio, non si parla del fascismo e della censura dello stato fascista, che fu “politico” sia quando fu di propaganda, sia quando fu telefoni bianchi - anche allora il “resto” in qualche modo -, se tu non “racconti” che vi fu una continuità tra lo stato-censura fascista e lo stato-censura democristiano, difficilmente si potrà intendere il rapporto desiderio-godimento-Potere che proponi come basilare per la comprensione del problema. Naturalmente, tu darai la “tua” versione dei fatti, della nozione di Stato, di Potere, di “C”ensura. Benissimo. Ma un esercizio sia pure breve, del tuo talento critico, della tua intelligenza intorno a “quei” fatti mi interesserebbe venisse

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fatto: come lettore, dico, naturalmente, non come parte in causa. Il discorso sulla "Censura, caro Alfredo, è prima di tutto un discorso linguistico (1) che non ti deve sfuggire. Nel farlo tu esalterai il valore del tuo interessante e giusto discorso deU’"isterica” ed anche quello della “festa”, completandoli. Come “parte in causa” posso assicurarti che l’essere nato sotto il fascismo ed aver vissuto e “visto” la continuità dello stato demo­ cristiano con quello fascista, ha avuto la sua importanza nella sto­ ria della mia personale “isteria”, a parte l’esperienza di classe e più propriamente politica. Todo modo e gli altri sono proprio domina­ ti “dall’istanza di produrre i (miei) sintomi di disagio” ecc.., come tu dici con grande intelligenza del cinema politico in generale. Ma qualche rigo, un rigo appena sulle cause di quell’isteria non ti sem­ brano necessarie? Continuando nella finzioni di poterti essere utile, io ti direi, in terzo luogo, di tracciare una breve sintomatologia di quello che tu chiami “impensato della critica cinematografica militante italiana. “Non può farsi, per questo impensato, un discorso rovesciato dell’i­ sterica? È la cecità un sintomo di isteria? E qual è, allora, il suo di­ sagio? Quali sono, allora, le cause del suo disagio? Perché ne parli? Non ti sembra questo impensato l’altro lato politico, in senso lingui­ stico, della produzione politica vera e propria? E poi? Cos’altro ti direi? Ben poco d’altro, poiché il tuo scritto mi ha realmente impressionato e mi trova d’accordo. Preso dallo zelo forse ti suggerirei una rilettura: in Nascita della tragedia ti possono interessa­ re, probabilmente, i discorsi sull’autore come medium e sulla nascita e funzione loro, ricollegabili, se non erro, alle tue scoperte del discorso isterico, della festa e della fantasmaticità del cinema politico. A questo punto, sia nella finzione, sia nella realtà, smetterei, per non tediarti oltre. Ho parlato con Volonté, che è a tua disposizione. Il fatto è che sarà molto difficile trovarlo. È sempre in mare, nella sua ultima interpre­ tazione, Capitani coraggiosi. Sulle questioni del mio rapporto con De Santis e di Città aperta, dovrei aprire un discorso lunghissimo, che sarebbe una confessione sulla mia giovinezza. Lo farei volentieri, ma non per lettera e non stavolta. Sarebbe forse venuto il momento di renderla, per me, questa con­ fessione, lo ammetto. Ma come? Non dico “perché”, ma come e a chi.

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Va bene, a te. Ma allora sarebbe meglio scegliere un metodo. Fammi delle domande, proprio come un investigatore, ed io ti risponderò, con tutta la "malafede” possibile. Anzi, impegnati a farmele presto, a stretto giro di posta, prima che qualche lavoro mi risucchi. Mani sporche. Domani finisco il mixage. La copia a colori sarà pronta entro una quindicina di giorni. La potrai vedere a Roma o a Milano verso la metà di Ottobre. Spero di vederti presto. In settimana sarò di ritorno a Roma. Di lì ti chiamerò per telefono. Buon lavoro. Un abbraccio a te ed a Gabriella Ciao, tuo Elio. L’altra sera sono stato a cena con Maurizio Ponzi, ch’è qui a Milano per una serie televisiva.

(i) È lontano da me l’intento di spingerti su una strada storicisti­ ca. Cosa c’è, infatti di meno "storico” pur nella sua apparenza, della censura di stato? Qual è il suo rapporto con la nostra censura di di­ scorso, e con tutta l’intera struttura del nostro inconscio? Perché la censura fascista era anche cattolica; perchè la censura cattolica era anche fascista (è, adesso, anche fascista)? E perché, proprio all’indo­ mani della liberazione, dopo Roma città aperta, tutto tacque? Cosa fu il neorealismo, in questa prospettiva? Fu castrato del suo coglione politico? O no? Fu castrato anche nel senso della sessualità e dell’e­ rotismo? O no?

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Fine Ottobre 1978 Caro Alfredo, sono appunti, come ti ho detto. Non li ho nemmeno corretti. C’è una apparente contraddizione in qualche parte, e cose che potrei dire meglio, avendo "tempo” di riflettere. Ma devi dirmi, prima, se è il caso di continuare. Ciao. Saluti a Gabriella. Mi sembra tutto frettoloso e ridicolo. Decidi tu. Ci sono da mettere diversi puntini sulle “i” soprattutto sulla “i” che riguarda la definizione che dai di me. Io sarei un “intellettuale” Temo proprio di no, anche se da ragazzo avrei amato fosse stato così. L’in­ tellettuale è uno studioso, qualcuno dressé per esserlo, qualcuno che paradossalmente è stato tarato proprio neH’“intelletto”, per esserlo, e che opera essenzialmente con la ragione, ch’è poi una ragione iperdressée, iper-alimentata e, in definitiva, iper-amata. 11 mio dressing, nella adolescenza, non riuscì bene. Mi cacciarono due volte dalla scuola e, infine, fui io a rifiutarmi di prendere un titolo di studio. Tutto pareva, anche allora, più necessario dell’andare a scuola. Dunque: non dimentichiamo che erano anni di guerra e di dopo­ guerra. Le strade puzzavano ancora di morte e di fascismo. Sotto le macerie c’erano cadaveri e le istituzioni esalavano fascismo. Cera­ no le scoperte dell’adolescenza, che per noi furono doppie, poiché alla scoperta di tutto quanto quello che ci aveva preceduto, s’univa la scoperta delle cose che il fascismo aveva proibite e nascoste. Se feci, quindi, una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comuni­ sta, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblio­ teche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, amando Politecnico, facendo scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza anche a Regina Coeli, negli scontri con la po­ lizia, nelle sparatorie, nei linciaggi, nei postriboli, negli studi dei pittori della mia età, in tipografia, da Rosati a piazza del Popolo, nei cineclub, nei comizi, tra coloro che a quel tempo venivano ancora chiamati rivoluzionari di professione. 1 miei testi li trovavo nelle se­ zioni del partito comunista e sui carrettini di libri usati. Confusione e disordine, nei quali la mia ragione lavorava soprattutto su due ver­ santi. A tener duro sull’idea che il problema di fondo della società umana fosse quello dell’uguaglianza tra tutti i viventi, ed a studiare e combattere le tracce che erano in me dell’educazione cattolica e

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fascista. In un certo senso le cose non sono cambiate, come se io fossi morto in quegli anni. E siccome, in quegli anni, la mia identità era in divenire, anche oggi lo è. Un intellettuale è qualcuno che si fa in serra, le cose gliele raccontano, la sua soggettività non è mai in gioco, e sarà sempre lui, senza dubbi, anche ove ponesse in dubbio tutto intiero il suo stare in serra, vive per la sua finzione e la tiene ben al riparo dalla vita. In quel tempo, a pensarci bene, forse il mio modello furono gli artisti, per la loro natura, ch’è schiettamente criminosa, per la loro visceralità, per la loro puerilità, che è come dire la stessa cosa, ed anche per il loro doversi inventare il mestiere da sé, come artigiani, ogni mattina, davanti a qualcosa di bianco da trasformare in qual­ cosa che prima non c’era, sedia, tavolino o quadro, segni della loro presenza. Anche il rapporto degli artisti con il danaro è diverso da quello istituzionale: essi non producono per guadagnare, ma guada­ gnano perché producono e questo si può dire anche di artisti corrotti o ricchissimi. L’arte è superflua. I guadagni degli artisti, confrontati, come metodo, a quelli scaturiti dalla produzione istituzionalizzata, sono simile alle rapine, bottino di azioni corsare. Il loro tempo non è monetizzabile. Essi dilatano ogni istante della loro esistenza, come i sognatori. Con ciò non voglio dire d’essere un artista. Io direi: sono un adole­ scente, ancora senza né arte, né parte. Un altro puntino su un’altra “i”. Tu dici “comunista”. Ma posso io dire d’essere comunista? Sinceramente, ed a questo punto non vedo come cavarmela altrimenti, io non posso dirlo, e non soltanto per­ ché nessuna delle chapelles comuniste mi ritiene comunista, né le vecchie, né le nuove, ma perché, secondo la mia vecchia esperienza di militante essere comunisti vuol dire accettare una disciplina di partito, sacrificare in qualche modo la propria soggettività alla ragio­ ne di partito e vivere minuto per minuto per il partito, ed io non lo accetto. Aggiungo: io vivo, più o meno, come un medio borghese, la mia giornata è completamente distaccata dalla socialità, il tumulto, se c’è, è solo interiore, un po’ il mugugno di qualcuno a cui non va bene niente, i miei soldi me li tengo stretti pensando alla vecchia­ ia che s’approssima, insomma, la mia vita, cosa c’entra col comuni­ Smo? La mia vita è quella d’un borghese più o meno inquieto, più o meno scisso che da giovane ha militato in un partito rivoluzionario, che ha vissuto la caduta delle speranze rivoluzionarie, che ha visto

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degradare, con quella caduta, l’intiera società in cui viveva, e che non riesce più ad identificarsi con nessuna delle forze che si richia­ mano al comuniSmo, che sono tante, che sono d’indole fratricida e che continuano ad azzuffarsi tra di loro su vecchi problemi teorici come se volessero chiudere gli occhi sulle nuove, incapaci, comun­ que, di generare nuove teorie e perfino di riconoscere la parte morta delle vecchie. Se rifiuto di sacrificare la mia soggettività, se rifiuto una qualunque disciplina, se vivo come un borghese, che comunista sono? Mi si dirà che molti comunisti vivono esattamente come me, se non peggio, e che non li sfiora il dubbio che un comunista debba vivere diversamente. Ma io che ci posso fare, se la gente non vuole guardarsi in faccia e vedere esattamente com’è? Io credo che un mar­ xista, od anche semplicemente un progressista, che viva in un paese capitalista, o anche in un paese socialista, sia destinato a vivere in pezzi che diffìcilmente “tengono” tra loro. Sono integri i conservatori, poiché nella ferrea determinazione di conservare tutto intero il mondo com’è non hanno contraddizioni, non soffrono di scissioni, non temono incoerenze, che, oltre tutto, sono giustificate dalla dop­ pia morale, o tripla morale, o quadrupla, che è proprio tra le cose che vogliono conservare. In un conservatore non troverai mai nemmeno il barlume più fievole d’una istanza progressista. Mentre, va detto, in un progressista vi sono pezzi rissosi ed ingombranti di ideologie reazionarie, non sempre chiaramente individuabili in quanto tali, che rendono il suo foro interiore simile ad una miserabile aula di pretura o ad una inconcludente e verbosa assemblea che raggruppi dalle brigate rosse fino ai saragattiani, ed oltre, fino ai cattolici, ed oltre occorre dirlo, qualche volta fino ai fascisti. Non dico che questo stato di schizofrenia non sia da preferirsi, per chi vuole stare nel proprio tempo, e viverlo e soffrirlo, a quello integro e monoculturale e monospirituale del conservatore. Tut­ tavia, bisogna incominciare a riconoscerlo, a studiare ed ammet­ tere le contraddizioni, ed anche a denunciarle, incominciando dalle proprie. Esser progressisti e non far nulla vuol dire, forse, covare il deside­ rio inconscio che non cambi nulla. Vivere da borghesi e dichiarar­ si rivoluzionari vuol dire esprimere coi propri comportamenti non tanto uno stato di semplice malafede, ma qualcosa di più, l’adesione ai valori della società borghese ed il desiderio latente di rendere vana ogni ricerca di nuovi comportamenti.

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L’elenco delle contraddizioni e dei “pezzi” potrebbe continuare all’infinito. Mi premeva soltanto dirti che io non posso essere definito comu­ nista. Né intellettuale, né comunista. Sono due cose che avrei voluto e potuto essere, questo sì, anche se ritengo che le due parole stridano tra loro, che un intellettuale non possa essere altro che un fiancheg­ giatore dei comunisti. Ma cosa sono, allora? Vengo da una famiglia di lavoratori, povera, se non poverissima. Ho scelto istintivamente di parteggiare per i la­ voratori. Le circostanze mi hanno portato a fare il cinema. Quali cir­ costanze? Le centinaia e migliaia di film che visti e amati. Il fatto che i poveri fanno o la boxe, o la musica leggera, o il cinema. Il fatto che per fare il cinema non ci voleva un titolo di studio. Mi sono fatto una certa strada, aiutato da una certa fortuna. Ho cercato sempre di non rinnegare me stesso, ma non so se ci sono riuscito. Anzi, credo di no. Ora vivo in uno stato sociale più alto di quello da cui provengo. Forse il mio scopo era semplicemente questo. In questo caso lo avrei rag­ giunto. Tutto qui? Forse sì. Forse c’era poco altro da fare. Ma forse no. Ma parliamo del tempo: del tempo storico, come tu dici, e non del tempo meteorologico. Io credo che le cose non abbiano senso. Glielo abbiano dato noi, alla ricerca di senso, di valori che rendessero senso e valore all’esi­ stenza. Incominciammo a dare un nome alle cose. Riconoscemmo la morte e il tempo, li chiamammo così. Ma morte e tempo conti­ nuano ad essere insensati. Il tempo non comincia e non finisce. Non si può fermare perché non passa. E’ completamente, assurdamen­ te ed ineffabilmente insignificante. Noi abbiano voluto dividerlo in istanti, in secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, secoli, millenni. Non abbiamo fatto che renderlo ancora più assurdo, nel tentativo di afferrarlo, fissarlo, fermarlo per dare a tutto il pericolato delle divisioni un colore, un valore, ed anche per fermare la morte. Il tempo lo facciamo passare noi, lo “contiamo” come condannati a morte, come ciò che realmente siamo. Muoio dunque vivo. Vivo finché muoio. Eccetera. Tutto quello che succede tra la mia nascita (ineffabile, insensata, inutile ecc.) e la mia morte (id.) prende valore dall’idea che per me il tempo, ad un certo punto, smetterà di scorre­ re. L’attribuire valori, scopi, fini, significati è uno stratagemma per

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dimenticare ciò che abbiamo chiamato morte e tempo, è un truc­ co, escogitato in perfetta malafede. La prima divisione che si opera dentro di noi verte proprio sul ricordare o dimenticare la morte e il tempo. Vorremmo tenerci inestricabilmente aggrappati ad ogni istante che passa, ma questo ci ricorda che il tempo scorre e che la nostra condanna a morte attende d'essere eseguita. Allora facciamo più o meno ordinatamente alcune cose che spingano nel profondo, fino ad una rimozione quasi completa, l’idea di morte e di tempo. E così facendo dimentichiamo di tenerci aggrappati all’istante. Insomma, c’è un tempo produttivo, economico, il tempo che dà “va­ lore” alla nostra esistenza, inventato per scancellare il tempo senza valore, senza senso, il vero “tempo”, per annullare il susseguirsi degli istanti e che, in definitiva, è noi che scancella, è noi che annulla. E’ questa la ragione per la quale io faccio soltanto film sul “presente” nel tentativo di annullare almeno questa divisione, per cercare di fis­ sare proprio l’istante. 11 raccordo tra passato e futuro non può essere, per me, che finirò altro che nel presente, in questo attimo durante il quale, per quanto cupamente compromesso dall’idea di morte, an­ cora morto non sono. Non c’è altro che il presente? Per me sì, in ogni senso. Per questo non ho memoria. Per questo non ho memo­ ria di classe. Per questo sento quasi sfuggire da me ogni possibilità di fornire le mie generalità. Ad ogni momento la questione si deve riaprire. Va bene: la classe esiste. È un’altra divisione storica. C’è un calendario per ricchi ed un calendario per sfruttati. La memoria sto­ rica non dico sia inutile, ma è uno stratagemma in più: l’importante è sapere oggi chi, come e perché gli sfruttati. La memoria storica, appunto, devono averla gli intellettuali. Tra l’altro loro non odiano, ma giudicano, valutano. Il film è un tipico simulacro “della merce che noi rappresentiamo”. Nel film c’è l’accumulazione simbolica più “ricca” di “valori” tempo­ rali che si sia inventato, tra i tanti stratagemmi, nella nostra epoca. Ed è forse questa la ragione della sua modernità. 11 film dura un numero esatto di minuti, è il più commensurabile dei fatti d’arte e di spettacolo. La musica può essere variata senza limite dall’esecuzione: l’alea è uno dei suoi fascini. Il film no. Il film è un oggetto solido, ma trasparente, che la proiezione rende imma­ ginario: eppure è fissato per sempre. La proiezione dura quel tanto e non più. La lavorazione è durata quel tanto e non più. E la lavo­ razione è stata una corsa contro (o pro?) il tempo-danaro, il tempo

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produttivo. Ogni scena dura quel che dura, né più, né meno. Nel film è imprigionato il tempo reale della durata di quella scena. Che poi tutte queste durate temporali possano dilatarsi, accorciarsi, allun­ garsi, questo dipenderà dal tempo esistenziale di chi verrà a vederlo. Una musica esiste anche senza esecuzione. Esiste nella sola fantasia del musicista. Un film o è o non è film, cioè pellicola, oggetto solido. E non esiste per la sola mente dell’autore, poiché già per essere fatto si serve del tempo di varie esistenze: attori, tecnici, comparse, mon­ tatori. Il film è già il prodotto, come un’automobile, di una somma di esistenze. Ma è un prototipo e resterà quello per sempre. Ma è lo spettatore che nel venire a vederlo gli presterà un tempo aggiuntivo, il suo. Lo spettatore paga una somma di danaro accumulata col suo tempo produttivo, per spendere una parte del suo tempo esisten­ ziale, in cerca di uno scambio di “valori”, nella contemplazione d’un oggetto immaginoso, creato da una somma d’investimenti temporali prestati da persone pagate all’uopo eccetera. Un labirinto. Non so. Ciao.

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(Tre mesi fa, s’era ancora all’inizio della primavera, erano accaduti molti fatti che avevano risvegliato nel mio amico ex la sua natura di ex. Come dire? A imitazione di don Rodrigo - «La mattina seguente ex si destò ex». Ma cos’era successo il giorno precedente? A tanta di­ stanza di tempo è difficile dirlo, bisognerebbe consultare i quotidia­ ni dell’epoca, o sprimacciarsi ben bene questa testa così imbottita di notizie vere e false, e del ricordo di fatti che, sì, certamente sono accaduti, ma non si sa in che forma, perché, per chi, e, con certezza, nemmeno dove. Ad essere esatti non era, diciamo, l’inizio della pri­ mavera. Stavano trascorrendo gli ultimi giorni dell’inverno. Ci trova­ vamo in un periodo che si potrebbe definire: ex inverno.) (Sì, ora so cos’era accaduto. La comunità politica di questa peniso­ la aveva scoperto con orrore, con delizia, con perverso piacere, o per­ verso dispiacere, con tremore, con rabbia, con gusto, con disgusto, con noia, con divertimento, che l’organo del partito comunista aveva fabbricato un falso contro non so chi, mi pare due ministri socialisti in carica, no, forse cattolici, circa fatti di mafia, no, di droga, no, di massoneria, no, di camorra, no, d’un riscatto, d’una certa trattativa negoziata personalmente dal presidente della repubblica, no, da un segretario comunale, per la liberazione d’un brigatista rosso rapito dai carabinieri, no, dal RGB. Insomma un affaire così. - Come, - s’era detto ex, - l’organo dei comunisti, del mio ex partito? Falsario il gior­ nale di Gramsci e di Togliatti? - Così ex si destò ex.) (Ed ex, nel destarsi ex, sentì tutto il peso di questa parolina. Non era la prima volta che questo accadeva, posso assicurarlo, poiché co­ nosco bene ex, e siamo amici, non ancora ex amici, nonostante la sua irresistibile tendenza alla scissione. In altre occasioni ex aveva sentito aleggiare in sé la particella, vagante nella sua coscienza come una foglia morta; ma era sempre riuscito, smanacciando, a farla vo­

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lare via da sé. In quei pochi giorni di ex inverno, invece contro ogni consuetudine, la particella era diventata, d’un tratto, pesante, im­ ponente, insopportabile come un grosso sostantivo. Perché? Il mio amico ex dovè ragionare un poco sulla sua natura di ex.) (Innanzitutto: perché proprio lui, che, bene o male, era sempre un ex, doveva dolersi, indignarsi delle disavventure che i suoi ex com­ pagni andavano cercandosi, si può dire, con il lanternino? «Beh,» si rispose, «io guardo al mio ex partito come al partito della mia ado­ lescenza, della mia giovinezza, come al partito della purezza.» Così si rispose, ma, ex abrupto, ex si sentì molto sciocco. «Ma come,» incalzò se stesso, «ma se dal tuo ex partito te ne sei andato, ti sei fatto cacciare, proprio perché non approvavi più né la sua politica, né la sua ideologia?» Il punto era questo: ex non aveva mai smesso di guardare al suo ex partito come a qualcosa che andava al di là della politica e dell’ideologia. Credeva fermamente che intorno al suo ex partito, dietro di lui, ed avanti, vi fossero milioni di persone tra le migliori, ed era a loro che guardava, e per loro s’indignava. In tutti quegli anni aveva continuato a votare per il suo ex partito; ma, in un certo senso, questo avveniva perché voleva che il suo voto si riunisse ai voti della gente che lavora e che, in buona parte, vota per il suo ex partito. Insomma, ex, più che votare per il suo ex partito, votava per i suoi elettori. Era il suo modo di combattere la solitudine, non solo politica, dell’ex.) (Ex voto?) (Secondo: perché, ex tempore, nel suo intimo, ex aveva incomincia­ to a dire «il mio ex partito» invece di «il partito comunista» tout court? Per la prima volta, e di botto, gli era venuto spontaneo di affibbiare al partito comunista la terribile particella: come a significare che non soltanto lui era ex, che anche un intiero partito poteva diventarlo.) («Ma certo, ma certo,» si disse, «tutto è ex qualche cosa. Tu, nel momento in cui ti misero fuori, diventasti un ex. Sono passati ven­ ticinque anni e cosa credi, d’essere restato lo stesso ex comunista di allora? No. Per il fatto stesso d’essere invecchiato tu sei diverso dal giovanotto che buttarono fuori.») (Oggi tu sei un ex ex comunista. Anzi un ex ex ex comunista.) (“Uscendo” dal partito, venticinque anni prima, lo avevano imme­ diatamente fatto diventare ex. Non volle subito ammetterlo. Infetti continuava a definirsi comunista. Ma quelli “rimasti" nel partito in­ sistevano a considerarlo ex. Dunque, obtorto collo, dovè rassegnarsi a diventare un ex.)

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(Molti di quelli “rimasti” erano, a suo avviso, molto più ex comu­ nisti di lui. Si può rimanere nel partito comunista ed essere ex comu­ nisti, nel senso che non si è più comunisti?) (R.Z., un comunista ex fascista aveva fatto i conti col suo essere stato fascista, scrivendoci un libro. Poi si uccise.) (Per esempio: ex era stato cacciato dal partito comunista perché aveva pubblicato su un giornale fatto insieme con un gruppo di com­ pagni, anzi di amici, alcune critiche all’Urss. Bene. Ebbero ragione di cacciare via lui e tutti gli altri. Allora, la discriminante era l’Urss. Ma oggi, dopo venticinque anni, {'intiero partito s’era distaccato dall’Urss. Ora, perché non ammettere, senza infingimenti, che que­ sto partito è formato intieramente da ex comunisti?) (In un certo senso, accade ad un intiero partito quel che accadde a lui venticinque anni fa, che non voleva riconoscere d’essere, ormai, un ex.) (Ex, durante il periodo dello “strappo” dalJ’URSS, non sapendo che altro fare, telefonò a uno di quelli che era “rimasto”, un deputato. Disse: «Vorrei essere riabilitato». L’altro gli rispose: «E perché? Tu non sei mica stato ammazzato».) (Ex non aveva replicato, anche perché le parole del suo ex compa­ gno gli avevano affollato la mente delle migliaia di comunisti che ad est di Trieste e di Vienna, erano diventati, più che ex, direttamente quondam.) (Ecco, cos’altro gli venne in mente: «Gli ex, almeno un certo tipo fresco ed ingenuo, forse fesso, di ex, erano ancora capaci di indigna­ zione. Quelli che stanno “dentro” un partito non s’indignano mai sinceramente. La loro indignazione è retorica, suona falsa, strumen­ tale, ha un fine, è un’indignazione che pensa ad altro: alle elezioni».) (Se tutti gli ex facessero un partito sentirebbero smorire in loro il genio - fesso? - di indignarsi davanti a tante indegnità.) (Si disse: «Già accaduto. Quelli del ‘Manifestò, tutti ex, ormai iro­ nizzano e basta.» E si sovvenne di Blok: «Quale vita, quale attività creativa, quale operosità può mai sorgere fra uomini malati di “iro­ nia”, antico male, sempre più contagioso?».) (Si chiese: «nella mia vita, almeno negli ultimi venticinque anni, ha contato di più la particella "ex” o il sostantivo “comunista”?» Senz’al­ tro, si rispose, era il sostantivo che aveva pesato e continuava a pesare di più sulla sua coscienza. In fondo, si sarebbe dovuto dire di lui non: “ex comunista”, ma: "comunista ex”. 1 più non avrebbero capito.)

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(Tutto, ma proprio tutto può diventare ex? Doveva pensarci bene, ex, prima di dire sì o no. La terra, come può diventare ex pianeta? Un fiume, o il mare non possono diventare ex fiume, ex mare. E un uomo? Beh, un uomo sì, può diventare un ex uomo: se lo decide, se riconosce di esserlo.) (Un padre, una madre, i figli non potranno mai diventare altro, tra loro, da quello che carnalmente sono, madre, padre, figli. Tuttavia, una famiglia può diventare un'ex famiglia.) («Pensa bene,» si disse: «non è vero, sciaguratamente, che un fiume, e un mare non possano diventare ex fiume, ex mare. Già molti fiumi non sono più fiumi e molti mari non sono più mari, ma solo masse enormi di liquame infetto.») (E la terra? Si disse: «La terra può diventare da un momento all’al­ tro un ex pianeta, basta che lo decida un pugno di ex uomini. La guerra nucleare può trasformare il mondo in un ex mondo». Un bri­ vido percorse la schiena di ex, a quel pensiero. Già gli pesava essere ex comunista, ma ex abitante d’un ex pianeta, no, non voleva diven­ tarlo. A chi rivolgersi? All’ex partito? All’ex chiesa? All’ex stato?) Ho fatto del mio meglio per riportare rettamente le confuse cose che passavano per la mente del mio amico ex, in quei giorni, ormai lontani, di ex inverno. Solo ora m’accorgo d’aver scritto di ex sempre tra parentesi. Mi si chiederà perché. Dovevo forse premettere che io non sono un ex. lo sono uno di quelli “rimasti”. E quelli che “riman­ gono” gli ex li mettono sempre tra parentesi. È questa la nostra for­ za. Noi possiamo mettere tra parentesi tutto quel che vogliamo, e lasciarcelo per sempre.

RICORDI E TESTIMONIANZE

SU ELIO PETRI, UN RICORDO di Goffredo Fofi

1965? Abitavo a Parigi, e un giorno mi chiamò Elio Petri. Era venu­ to a presentare La decima vittima ai critici, insieme a Ennio Flaiano, che aveva scritto con e per lui la versione di un famoso racconto di fantascienza di Robert Sheckley adattandolo a un’Italia, anzi a una Roma, del futuro. Scrivevo su «Positif» e Elio aveva avuto il mio nu­ mero tramite qualche comune amico. Accompagnai lui e Flaiano da un bistrò all’altro, nel quartiere latino, girellando per un intero po­ meriggio senza obiettivi, chiacchierando del più e del meno, d’Italia e di Francia, di intellettuali e registi italiani e di intellettuali e registi francesi, ed era con noi Daniel Anseime, grasso ed estroverso, che tempo prima aveva scritto un romanzo-verità che fece molto parlare, sulla licenza di tre giorni a Parigi di alcuni giovani soldati che faceva­ no la guerra in Algeria. Seguii a cena i due italiani con una coppia di comuni amici, lei, Pierrette, che gestiva una grande libreria di fronte ai giardini del Luxembourg, lui, il mite e svagato Enrico Panunzio, uno scrittore pugliese arenato a Parigi. Tanto Pierrette era autorita­ ria quanto lui era remissivo, una coppia da film che Flaiano scrutava con affettuosa ironia. Altri amici comuni di Elio e miei erano Lidia Campolonghi, cugina di Cassola, che conobbi in casa sua. La figlia di Lidia, Francesca Sonneville, era allora una nota cantate intellettuale, brava e simpatica. (Lidia era figlia di antifascisti esuli a Parigi negli anni trenta, ed è stata un importante punto d’appoggio per i giovani italiani di sinistra che venivano a studiare in quella capitale, in anni vivacissimi, pieni di movimento in tutti i campi.) Elio aveva cono­ sciuto Francesca sul set di un curioso film mangereccio della serie sui luoghi di divertimento notturni in giro per il mondo che allora andava di moda in Italia, girato a sei mani con Montaldo e Questi e firmato Elio Montesti, Nudi per vivere. Di quella lavorazione avevo seguito le vicissitudini tramite Lidia. Dopo cena lasciai Elio e Ennio

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con 1’impegno di rivederli il giorno dopo a pranzo (a loro spese!) in qualche bistrò, dopo la conferenza stampa a cui io non sarei potuto andare. Lì mi raccontarono di essersi incontrati, la sera prima, loro due ed Enrico, con Zavattini, che era anche lui a Parigi e che li aveva trascinati in un riservatissimo locale di lesbiche, molto a luci rosse... Non amavo già allora Zavattini e il ruolo che svolgeva nel cinema ita­ liano di quegli anni, e mi parve che Flaiano ascoltasse le mie reazioni scandalizzate con sorniona simpatia... Vidi di nuovo Elio a Roma, in piazzetta Mattei, nel palazzo dove anni dopo, o forse anche in quelli, sarei andato più volte a trovare, scendendo da Milano, un regista che amavo, almeno allora, più di Petri, Marco Ferreri. Intervistai Elio per «Positif» su Indagine, che mi era piaciuto moltissimo, mentre non mi piacquero affatto certi film successivi, in particolare La classe operaia va in paradiso. La stroncatura “da sinistra" che ne scrissi sui "Piacentini” mi valse un feroce rimbrotto della Rossanda sul «Manifesto» seguito da feroci attacchi di più lettori di quel giornale ossequienti al suo pensiero, e l’inimicizia di Ugo Pirro, che il film aveva scritto. (Molti anni dopo, con Pirro ci si ritrovò e si simpatizzò - dicendoci chiaramente che questa tardiva simpatia nasceva dalla constatazione di una sconfitta comune, quella di una sinistra che era stata esigente e rigorosa, una sconfìtta che riguardava sia la vecchia sinistra che quella che si pre­ sumeva nuova.) Petri, contrariamente a Pirro, non scrisse per attaccarmi anche lui sul «Manifesto», ma non ci sentimmo più fino a quando, alla fine del 1980, all’uscita da una riunione con un “circolo giovanile" a Verona, come si chiamavano allora i “centri sociali”, non finii sul lungadige, nottetempo, sotto una macchina avendone le gambe rovinate, e fili costretto in ospedale per molte settimane. Ricevetti allora molti ina­ spettati segni di simpatia, uno dei quali mi fu particolarmente gradi­ to: una lunga, affettuosa lettera di Elio, in cui mi diceva in sostanza che, anche se non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda nei nostri giudizi sul cinema italiano, e ovviamente sul suo stesso cinema, con­ siderava necessario il lavoro di un critico come me. Gli risposi, di­ cendogli il mio stupore e la mia riconoscenza. Qualche tempo dopo, guarito e zoppicante, ero a Roma per una trasmissione di Radio 3 (la radio, non la tv) e attraversando piazza Mazzini - si era in piena estate - una bella macchina da ricchi mi si fermò bruscamente ac­ canto e mi sentii chiamare, «Fofi! Fofi!», da Petri, che mi caricò su e

Su Elio Petri, un ricordo di Goffredo Fofi

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mi propose senza troppo pensarci di seguirlo a Fiano Romano, dove Peppe De Santis si era da tempo ritirato e viveva occupandosi di an­ tiquariato in un vecchio palazzotto al centro del paese. C'era, con Peppe, un'antica simpatia, che era stata rafforzata dalla mia amicizia con Luisa, cantante, che era allora la compagna di Ser­ gio Tramonti, attore e scenografo del ristretto "giro” della Morante di cui facevo anch’io parte, e che Elio aveva chiamato a fare la parte del­ lo studente in Indagine. (Peppe mi rimproverava aspramente di fre­ quentare Freda, di cui curai le memorie, così come Freda mi rimpro­ verava di frequentare Peppe... In realtà, nessuno dei due era il mio ideale di regista, ma apprezzavo entrambi per le emozioni che i loro film mi avevano dato quand’ero adolescente - un cinema "popolare” sul quale mi ero formato.) Dopo un veloce pranzo in una trattoria del posto, ci ritrovammo nella penombra di un “salotto” che somi­ gliava a un magazzino tanto era pieno di mobili, in mostra e in ven­ dita. Peppe e Elio erano seduti fianco a fianco su un rosso divano, io su una poltrona di fronte a loro, e sorseggiavamo bibite rinfrescanti quando la disinvoltura di Petri si inceppo’ e - senza tener conto della mia presenza - egli confessò a Peppe di star male anzi malissimo, perché, dopo aver rotto con la moglie, si era innamorato di un’attrice molto più giovane di lui, con la quale il rapporto era nevroticamente difficile, e aveva cercato, senza soluzioni, consiglio e consolazione presso la moglie. Peppe aveva sposato in seconde nozze Gòrdana, molto più giovane di lui, che aveva conosciuto sul set jugoslavo di Una strada lunga un anno, ed Elio gli chiese consiglio. La risposta di Peppe fu di tradizionale saggezza: «a Gordana ho detto: io sto invecchiando, non puoi aspettarti da me chissà quali prestazioni, se ti accontenti bene e se no è meglio non farne niente». Ma questa risposta non sembrò consolare Elio che - lo ripeto, come se io non ci fossi, o considerando anche me “di casa” - scoppiò improvvisamente in lacrime. Ho negli occhi, come fosse ieri, l’immagine di Peppe che circonda con un braccio la testa di Elio e se l’appoggia addosso mormorando parole di conforto. Non so se faccio bene a raccontare questo piccolo episodio molto privato della vita di Elio, ma il mio ricordo di lui è particolarmente affettuoso proprio per episodi come questo, e per la fiducia che mi dimostrò in questa precisa occasione. Non troppi anni dopo Elio si ammalò gravemente e si rifugiò in casa della madre, lungo la Gregorio VII. Fu Lietta Tornabuoni (un’al­

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tra amicizia bizzarra, nata da quella con Oreste Del Buono) a tener­ mi informato e a far da tramite per saluti e auguri, così come, più tardi, tanti anni dopo, seguii attraverso di lei la lunga malattia di Oreste, il grande amore della sua vita. Credo, in definitiva, che la simpatia che ho provato per Elio e la simpatia che egli mi dimostrò oltre ogni differenza di idee e oltre ogni mio giudizio critico sulla sua opera, derivasse da due constata­ zioni: l’origine proletaria di entrambi, di cui sapevamo ma di cui mai parlammo, e il sentimento di appartenere, con inquieta esigenza, alla storia di una sinistra di cui avvertivamo entrambi, sia pure su fronti diversi, quanto fosse prossima a morire. A questa morte cerca­ vamo, in modi altrettanto diversi, di reagire, e il cinema, in questo, c’entrava solo in parte e non nella parte fondamentale.

SUL MIO LAVORO CON ELIO di Franco Ferrini

Nel 1979 ero amico di Umberto Angelucci, che era stato aiuto di Elio in Buone Notìzie, e avevo un soggetto giallo- thriller che mi sem­ brava interessante. Allora non avevo fatto ancora nulla di importan­ te ma Lattuada stava per cominciare La cicala, cui avevo collaborato per la sceneggiatura, ed ero quindi un esordiente di cui si incomin­ ciava a parlare. Tramite Umberto feci pervenire il trattamento ad Elio. Lui mi rispose che «era scritto bene»: il che “in gergo” significa che non c’è vero interesse; aggiunse tuttavia che se ne poteva ripar­ lare. Di conseguenza ci incontrammo e iniziammo a frequentarci. Si passeggiava per Roma parlando di cinema: ad entrambi piaceva un film uscito in quel periodo, Fuga da Alcatraz di Don Siegei. Nacque dunque qualcosa tra noi. Avevo appena letto un giallo Mondadori che aveva un inizio stre­ pitoso, che colpiva, Cacciatore nel buio di Estelle Thompson. Un cie­ co fermo alla stazione dell’autobus parla con una bambina che gli sta vicino. Improvvisamente, di fronte a loro si ferma un’auto da cui escono sconosciuti che la rapiscono. Il cieco si sente oltraggiato più che dal rapimento in sé dal fatto che nessuno si sia occupato di lui, come se non esistesse. Si mette perciò, per ripicca, ad indagare. Di qui in poi il romanzo diventa banale. Anche Elio trovava interessante questo spunto e ci si provava a lavorare attorno. Abitava allora a Torvajanica, al Villaggio Tognazzi, dove viveva da solo. Io andavo lì, con bus e treno fino ad Ostia e, alla stazione, mi veniva a prelevare. Si parlava molto di tutto, divagando, e poi anche di un possibile trattamento. Durante il viaggio, lungo e noioso, mi portavo sempre da leggere qualcosa. Allora stavo leggen­ do la sceneggiatura in inglese di Nord by nordxvest (Intrigo interna­ zionale) di Hichtcock. Si mise a leggerla anche lui e venne fuori un abbozzo di idea che vedeva un cieco, un uomo comune, coinvolto come Cary Grant in un intrigo spionistico più grande di lui.

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La storia sarebbe iniziata negli Stati Uniti con protagonista un proiezionista cieco della CIA. Una volta nei film di spionaggio c’era­ no i microfilm. Il punto è che questi dovevano pur essere proiettati ai capi da qualcuno. Chi poteva farlo senza pericolo di segretezza se non un cieco? Dunque il nostro cieco, per una qualche sua ragione, denaro o altro, rubava le pellicole e scappava a Roma per rivenderle a servizi di tutte le nazionalità. Qui si accorge di essere seguito. A questo punto si incontra sui Lungotevere con un Uomo, Man, e cosi comincia la storia (che in questo libro è dettagliata) che doveva svol­ gersi nell’arco di tempo di un giorno e nello stesso luogo, Lungoteve­ re e dintorni. Questo uomo sarà poi chiamato M, come Mastroianni, che sarebbe stato il protagonista prescelto. M è chiaramente l’alter ego di Elio: abita sul Lungotevere, è un cinquantenne elegante ma soprattutto, come M, attraversa una fase critica della vita, una crisi identitaria. Tant’è che M, in una scena, strappa la sua carta di iden­ tità e la getta nel fiume. 11 vero cieco, che si chiamerà Ferlinghetti, verrà sequestrato da un camioncino di fronte a M, come la bambina del romanzo. Il lavoro è stato problematico per più ragioni. Innanzitutto la du­ rata abnorme: circa un anno e mezzo, a spizzichi e bocconi per i problemi personali di Elio. Poi ci furono problemi logistici: io mi muovevo da Roma, mangiavamo assieme, spesso i cibi cucinati dalla madre. Qualche volta dormivo da lui e, alla mattina, mi faceva tro­ vare «La Gazzetta dello Sport». Ma era tutto complicato. Elio ave­ va uno strano rapporto con il partner di sceneggiatura. Diceva di non poter più lavorare con Ugo Pirro perchè era ormai diventato un bookmaker, sempre al telefono per contatti o richieste di collabora­ zione. Probabilmente aveva preso me per dispetto. Ma poi aveva un atteggiamento verso il cinema che non potevo né capire né condivi­ dere. Ricordo due frasi: «Il cinema è morto», e lo diceva con convin­ zione, ci credeva. E soprattutto, «La scaletta - di sceneggiatura - è la morte del cinema». In realtà si sentiva più scrittore, procedeva alla sceneggiatura come ad un romanzo. Io penso che un film si costruisca dalla fine; quando poi si lavora ad un giallo occorre che tutti i tasselli vadano al loro posto, che si chiudano tutti gli ombrelli che hai aperto. Elio non aveva questo atteggiamento pur essendo un lettore accanito di giallistica. L'asserzione poi sulla scaletta come «morte del cinema» comportava difficoltà a livello di lavoro. Diceva anche che nei gialli

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sono più belli i punti interrogativi che le risposte che ne conseguono Il che significa dire allo sceneggiatore: arrenditi, non servi. Comunque, una volta minimamente strutturata, la sceneggiatu­ ra aveva interessato ben tre produttori che ci hanno anche pagato: Mauro Berardi, Gianfranco Piccioli e infine Giovanni Bertolucci. Era venuto Mastroianni a Torvajanica a leggere lo scritto. Insomma tutto si muoveva. C’erano però dei problemi di collaborazione da parte mia. Io face­ vo lavori al di fuori, dovevo pensare a me. Con Enrico Oldoini ave­ vamo scritto Nessuno è perfetto. Elio considerava questo un tradi­ mento, sia dal punto di vista personale che da quello professionale visto che si trattava di una commedia. Ma la sceneggiatura andava troppo alle lunghe. Per correttezza nei suoi riguardi ho persino ri­ fiutato un contratto triennale, molto ricco, che un produttore offriva a me ed Enrico, che prevedeva però l’esclusiva. Poi si cominciò il lavoro con Leone per C’era una volta in America. Ad Elio non dissi la verità. Raccontai che non potevo più venire a Torvajanica per ragioni personali, dovendo anche fare la dichiarazione dei redditi. Il lunedi appena successivo Elio incontra, per strada, Enrico Medioli che gli dice che avevo iniziato a lavorare con loro. Nell’ambiente non biso­ gna mai raccontare storie perché c’è Radio Cinema e le bugie saltano subito fuori. Questo gettò un solco fra noi. Prima di assentarmi gli promisi un finale. Questo: M, dopo tut­ te le sue vicissitudini, si trova coinvolto in una manifestazione di ciechi. La polizia interviene con le cariche. Arrivano le ambulanze, i ciechi rantolano per terra. M riesce a sottrarsi, si avvicina al cane del cieco e si accorge che nella imbracatura del cane sono nascosti i microfilm. Elio mi rispose, in maniera in po’ sprezzante, che era un finale che andava bene per un Segretissimo, che era una collana di spionaggio della Mondadori, parallela al Giallo. Si è andati dunque verso la rot­ tura ed io mi sono definitivamente occupato di altre cose. Non era ancora ben delineato quale sarebbe stato lo stile finale del lavoro. Solo il film stesso e gli attori prescelti lo avrebbero chia­ rito. Probabilmente sarebbe andato verso il “grottesco”, secondo il modello di Indagine. Ma Elio era un intellettuale, aveva letto “tut­ ti i libri” ed era quindi in grado di padroneggiare e trascorrere tra i diversi registri della narrazione, dal comico al drammatico fino a quello che prediligeva e che appunto chiamava il “grottesco". In ogni

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caso sarebbe stato un film sulle modalità del vedere: tutto girava at­ torno al tema della cecità, veri e finti ciechi coinvolti in una dimen­ sione catastrofica. Gli avevo ricordato il precedente di Arabesque, di Stanley Donen, in cui l’occhio viene sottoposto a torture, come in Chi illumina. Ma i due film sarebbero stati comunque distantissimi perché Donen, anche novantenne, era un uomo sereno, mentre Elio, almeno in quella fase di vita, non lo era affatto. Viveva il suo trauma affettivo in modo molto contrastato. Il film di Donen era ironico, quello di Elio sarebbe stato probabilmente catastrofìstico. Del resto Elio era “romano” e i romani sono attratti dai disastri, vivono del resto tra le “rovine”. Comunque il soggetto era bello e forte. Tanto è vero che anche dopo la morte di Elio c’era interesse a produrlo. Era interessato an­ che Massimo Troisi, poi non se ne fece nulla. Andando al di là della sceneggiatura e parlando in generale del cinema di Elio va ricordato che i grandi rappresentanti del cinema politico o civile in Italia sono stati proprio Petri e Rosi. Ma tra di loro ci sono profonde differenze. Isaiah Berlin divide gli autori nelle due categorie del riccio e della volpe. Il riccio sa una cosa sola, propagan­ da una verità e solo quella: l’ultimo Tolstoi, per esempio, è riccio. La volpe di verità ne sa molteplici: Dostoevskij, di cui non a caso si è parlato di polifonicità, è volpe. Elio era volpe, era molto complesso e del resto amava molto Dostoevskij. E forse questa è stata la sua disgrazia. Ma le cose cambiano. Uno dei maggiori nostri registi, Sor­ rentino, dice che il Divo deve molto a Todo Modo in termini di messa in scena.

GENOVA 1981 di Oreste De Fornari

Forse non è un caso se l’itinerario artistico di quel tessitore di in­ cubi a sfondo sociale che era Elio Petri è racchiuso tra due emblema­ tiche catastrofi: il crollo della scala di via Savoia a Roma,gremita di aspiranti a un posto di dattilografa, nel gennaio 1951.su cui il futuro regista condusse un’inchiesta per la preparazione di Roma ore 11 di De Santis, e il crollo della borsa di Wall Street del 1929,che fa da cor­ nice all’Oro/0910 americano di Arthur Miller, che Petri portò sul pal­ coscenico del teatro di Genova (il Duse per l’esattezza) nel gennaio 1981, un anno prima della morte. Si trattava di un ampio affresco che coinvolgeva diverse classi sociali, dai capitalisti fino a un lustrascarpe che aveva investito in borsa i suoi risparmi. Per l’occasione venne mo­ bilitato un cast all stars che comprendeva Eros Pagni, Claudio Gora, Capolicchio, De Ceresa e anche una giovanissima Carla Signoris. È allora che ho conosciuto Petri, per una lunga intervista televisiva du­ rante le prove dello spettacolo. Ricordo che il maestro si mostrò gen­ tile e disponibile, che era divertito dall’idea di lavorare per il teatro, considerato l’ultimo rifugio del lavoro artigianale (la tv per lui era solo industria, il cinema una specie di ibrido), anche se non nutri­ va una speciale venerazione per Arthur Miller, pur conoscendone le opere principali, come risulta bene da quella intervista. La sera della prima ci fu un guasto all’impianto elettrico,perciò il fondamentale messaggio radiofonico di Roosevelt, che era stato registrato preventi­ vamente con la voce di non ricordo più quale attore, non potè essere trasmesso. Per leggerlo fìi convocato d'urgenza Giorgio Albertazzi, che in quei giorni stava facendo I giganti della montagna al teatro Ge­ novese, adiacente al Duse. Questa lettura dal vivo e in abiti contem­ poranei ha interrotto per qualche minuto la finzione scenica aggiun­ gendo un tocco di improvvisazione, in tono col clima di precarietà del dramma di Miller. Era un po’ come recitare durante il coprifuoco, uno di quegli effetti speciali che solo il teatro può regalare.

“Ogni cosa si fa per sfuggire all'idea della morte, per passare il tempo, perché la mente sia occupata da altro che non dall'idea, o voglia o paura, di morire. Quindi anche i film, i libri, i miei e i tuoi. Ma questo non risponde alla domanda: perché un libro proprio su di me?"

Elio Retri

“L'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare sempre al discorso del padrone. È ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.” Jacques Lacan