Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società 8896904757, 9788896904756

Se è vero che la grande arte ha sempre in sé qualcosa di anarchico, di critica dell'esistente, di contestazione del

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Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società
 8896904757, 9788896904756

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dello stesso autore nel catalogo elèuthera Da pochi a pochi appunti di sopravvivenza

Goffredo Fofi

Il cinema del no visioni anarchiche della vita e della società

elèuthera

© 2015 Goffredo Fofi ed elèuthera editrice prima ristampa luglio 2016 progetto grafico di Riccardo Falcinelli immagine di copertina: © Sergio Ciprì il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

Indice

prefazione Arte e anarchia 

7

capitolo primo La traversata di un secolo 

17

capitolo secondo Autori e opere 

39

I registi del no – Prima di tutti, Charlot – Jean Vigo, il regista del sì – Robert Bresson, l’estremo no – Buñuel, l’entomologo – I francesi. Henri-Georges Clouzot – La confusa rivolta di Jean-Luc Godard – Sam Peckinpah e Robert Altman, oltre Hollywood – Talvolta, anche a Hollywood – Gli inglesi – In Germania – Rainer Werner Fassbinder ¯ – In America Latina, Glauber Rocha – In Giappone, Nagisa Oshima – In Asia – Torniamo in Europa – In Polonia – Aki Kaurismäki, nell’Europa del Nord – E ancora… – Ma in Italia? – Pasolini, Bene, Maresco – Continua…

Indice dei nomi

101

prefazione

Arte e anarchia

Mai fidarsi troppo dei dizionari e delle loro perentorie definizioni di questo e di quello. Chi li stila, si basa sul lavoro certosino di dozzine di persone che hanno scritto quelli precedenti e sui dizionari stranieri, di dozzine di persone che preparano le voci e scrivono le minori perché gli Autori le cambino o le approvino. E di dizionario in dizionario i lemmi si consolidano, si fissano, le definizioni si fanno luogo comune, opinione corrente, giudizio inappellabile. Gli Autori sanno che il senso comune cambia, e il significato delle parole anche. Devono diffidare delle «idee correnti» e però tenerne conto, e semmai combatterle cum grano salis. Mai troppo, perché, «per definizione», i dizionari definiscono e per un bel lasso di tempo la loro sarà vox populi, veridica spiegazione, sintesi piena, scienza. Prendiamo il caso della parola «anarchia». La definizione da dizionario più ricorrente è questa: «dottrina e movimento che negano la legittimità di ogni istituzione (Stato, Chiesa, famiglia), in quanto esse espropriano l’individuo della libertà personale e impediscono l’uguaglianza economica e la giustizia sociale». Tutto giusto, non fosse che, 7

se gli Stati e le Chiese sono istituzioni diverse, consolidatesi in modi diversi e, nel corso di secoli, rispondenti in modi diversi alle necessità della gran parte degli individui di sicurezze e certezze cui aggrapparsi, le parole «collettività» e «religione» hanno declinazioni diverse, con le quali anche il pensiero anarchico ha dovuto spesso fare i conti, in risposta sia a precise contingenze storiche, per esempio di fronte a nemici di molti e di troppi, non solo degli anarchici (es. il fascismo e il nazismo e altri modelli dittatoriali), che a valori per molti aspetti simili ai propri (es., per Malatesta, la morale cristiana originaria, molti insegnamenti di Gesù e non Dio). E quanto alla famiglia, ho conosciuto e conosco famiglie anarchiche ben più legate e solidali di milioni di famiglie borghesi, o anche proletarie. A rendere ancora più vario e complesso il quadro, sono i tanti modi in cui si è distinto tra Anarchia e Anarchismo, la prima prospettiva politica e progetto sociale, il secondo teoria in sé, oltre ogni indicazione di pratiche. E le varie coniugazioni teoriche e politiche che la parola «anarchia» ha avuto dall’Ottocento in avanti, dal modello pacifista (e nonviolento) tolstojano a quello socialista proudhoniano, anti o a-marxista, da quello insurrezionalista malatestiano a quello comunista kropotkiniano eccetera. Senza dimenticare l’iper-individualismo stirneriano, che ha fatto e continua a fare un mucchio di danni alle parole «anarchia» e «anarchico», con la sua esasperazione che fa somigliare l’anarchico al più sfrontato degli egoisti. Ho conosciuto ragazzi che si definivano anarchici ed erano sgomitanti e feroci, che ritenevano «anarchico» farsi i fatti propri, pensare a sé e solo a sé, a difendere il proprio «spazio» e i propri interessi (anche materiali): quale la differenza tra loro e, mettiamo, Berlusconi e gli uomini e donne del suo clan, e il modello umano che essi hanno trasmesso a buona parte di due generazioni? Ho conosciuto e conosco ragazzi che sfogano la loro aggressività, motivata più da una spinta vitale e animale che da un ideale qualsiasi, ma che essi giustificano chiamandosi anarchici: quale la differenza tra loro 8

e, mettiamo, i giovani fascisti di sempre? Ho conosciuto giovani sbandati, transfughi da famiglie tremende, che vagavano di proposta in proposta alla ricerca di una qualche intima serenità e che si dicevano anarchici: quale la differenza dai tanti psicanalizzati borghesi, bensì integrati e accetti nel loro ambiente nonostante i loro intimi disagi? Grande è la confusione nel campo della ribellione – peraltro così scarsa e così fragile – allo stato delle cose presenti e alle sue evidenti e micidiali ingiustizie, e la parola «anarchia» non basta a fare chiarezza, e a proporre qualcosa che vada oltre alla coscienza e alla dichiarazione che «questo mondo, così com’è, proprio non mi piace», e a proporre un modo di agire, di comportarsi, di rapportarsi al prossimo, e a proporre un sì, non soltanto a gridare un no. È per questo che la definizione di anarchia che mi pare più consona ai nostri tempi è quella che ci dette un pomeriggio di qualche anno fa, in un incontro con pochi giovani che sapevano chi era e ammiravano i suoi scritti, Colin Ward, il mite e saldo Colin autore della più bella sintesi recente su L’anarchia. Un approccio essenziale (l’ultima edizione è ovviamente di elèuthera, 2014). Gli chiedemmo: cos’è in primo luogo e in definitiva, per te e proprio per te, l’anarchia? La sua risposta ci sconcertò e mi entusiasmò, e ancora mi entusiasma: «una forma di disperazione creativa». Fu proprio l’accento sulla disperazione, bensì creativa, a convincerci. Una definizione esperienziale lontana da ogni trionfalismo e da ogni banale ribellismo giovanile (con o senza causa). Anche se non mi pare che egli l’abbia spesso usata, indicava assai bene il suo stato d’animo. Oggi più che mai, di fronte al disastro del mondo, della democrazia e della politica, di fronte alla sottomissione degli uomini al potere di pochissimi e ai nuovi e tremendi modi di manipolare le coscienze e alle nuove barbarie di chi vorrebbe imporre un’altra idea, meno subdola ma non meno tremenda, della società e dell’uomo, è ancora possibile essere ottimisti, credere nella vittoria del bene (del «vero» e del «giusto» e 9

del «bello»), fidare in un mondo migliore, se non per noi almeno per i nostri figli? The horror, gridava Kurtz alla fine del Cuore di tenebra, ma anche questa parola ha perduto la sua forza originaria, ed è diventata un genere cinematografico e letterario di consumo, una provvisoria e stantia eccitazione dei sensi per persone che hanno bisogno di risvegliarli, e non trovano di meglio che il buio la paura la morte. È da decenni che la parola «conflitto» è scomparsa dal vocabolario, demonizzata come male assoluto e come non fosse invece il sale di ogni democrazia e di ogni difesa dei deboli verso i forti. È accaduto dopo la sconfitta secca dei movimenti e delle rivoluzioni, con una nuova economia che, per un trentennio, ha illuso di un benessere crescente per tutti (gli anni, in Italia, di Craxi e di Berlusconi, di cui Renzi è una fiacca parodia fuori tempo), con l’addormentamento progressivo delle coscienze negli anni della maggior pace sociale e del maggior conformismo visti nella nostra storia dall’Unità in avanti, con il suicidio della sinistra (e la constatazione che ne consegue che il pci è stato uno degli inganni maggiori vissuti dal paese), e con l’acquisita e pressoché assoluta complicità degli intellettuali al sistema di potere determinato dai padroni e maestri della finanza e dell’economia. Ma chi sono infine gli intellettuali? Oggi è scomparsa la generazione che attraversò fascismo guerra resistenza e ricostruzione e gli anni della democrazia e dei conflitti sociali che potevano preludere a una società migliore e che hanno fallito in parte per la povertà del nuovo e antagonista e in parte ben maggiore per la forza degli avversari, nel mondo e non solo in Italia e perfino là dove pareva si fosse vinto (il Vietnam, Cuba, l’Algeria e l’Africa post-coloniale). Sono scomparse quelle menti che, oltre a creare opere di grande valore e di piena sostanza, si preoccupavano del bene comune e dello stato del paese e della sua civiltà – e tanti sarebbero i nomi che si potrebbero fare, di una stagione unica nella nostra storia per ricchezza di capolavori e per energia e lucidità critica. Gli intellettuali di oggi figurano essere quasi 10

esclusivamente giornalisti e professori, divi dei media imbonitori di se stessi, membri di un’istituzione come l’università che è certamente più mafiosa della mafia, membri delle corporazioni professionali dominanti, medicina, legge, architettura; sono solleciti passacarte, critici che non criticano, uffici stampa e propaganda, ciarlatani e narcisi immensamente innamorati di sé; sono «denunciatori» e ricattatori professionali – ciascuno per sé e per il proprio clan in un attento gioco di alleanze variabili e opportune. Ci stiamo avvicinando al tema di questo piccolo libro su cinema e anarchia, considerando utile un quadro di fondo al cui interno collocare qualche considerazione che possa acquistare senso dal contesto, perché è di nuovo indispensabile che la critica esprima i suoi giudizi dicendo dove si mette, la sua scelta di campo, o meglio: la sua visione dello stato delle cose, del presente del mondo, e solo a partire da questo il suo giudizio non solo su opere e artisti di oggi (meglio ancora, sui loro dilemmi e sulla loro collocazione) ma anche su opere e artisti di ieri. Come vedremo, un discorso utile su cinema e anarchia non può ignorare un discorso di fondo su arte e anarchia, così come si è posto ieri e così come si pone oggi, come si è posto e si pone sempre. In breve: mi sento di sposare sino in fondo la definizione di anarchia data da Colin Ward, della «disperazione creativa», sento che ci appartiene fino in fondo e che appartiene a qualche artista e regista di oggi, non tanti, ma abbastanza da fare la differenza con la moltitudine degli scriventi filmanti musicanti disegnanti recitanti. E non vi vedo, peraltro, in questo atteggiamento alcunché di diverso da quello di altri pensatori di altri campi della conoscenza e dell’espressione. Colin Ward è stato, a mio modo di vedere, anzitutto un grande urbanista e un grande educatore, ha riflettuto in particolare sulla città e sull’infanzia; e si è già constatato in passato da parte di molti pensatori vicini al pensiero anarchico che i grandi anarchici si sono dedicati con più ostinazione, nella loro ricerca 11

e nella loro pratica quando non hanno privilegiato l’intervento immediatamente politico, all’urbanistica e all’educazione, la città (la convivenza) e i bambini e gli adolescenti (il nuovo e il futuro). L’arte ha avuto e ha a che fare con questi due campi, anche se ne ha escluso una relazione immediata o, per meglio dire, l’utilità diretta. Guardando più avanti e più a fondo, ponendosi dialetticamente in dialogo ma anche in opposizione col «mondo com’è», l’arte – quella non solo consolatoria e non solo strumentale – è stata e non può che essere anarchica. E questo, anche se irriterà molti, vale oggi più di ieri, in un mondo in cui la scienza è ricattata dal denaro e ne è a servizio, la politica è serva e schiava dell’economia, e ancora di più lo sono l’urbanistica e l’educazione. Di arte abbiamo bisogno, più che mai, per contrastare il presente e le sue mistificazioni difendendo il vero e il giusto e il bello in un tempo in cui che cosa siano il vero e il giusto lo hanno ancora chiaro in tanti (non solo i pochi e i migliori, ché qualche dubbio sfiora ancora molti tra coloro che hanno scelto la merce il denaro il potere come loro realizzazione), ma su cosa sia da intendere col bello, la confusione è totale, ed è diffusa «ad arte» dai grandi manipolatori. Due libri mi sono stati molto utili in passato, Che cos’ è l’arte? di Tolstoj, nella vecchia e aurea traduzione di Frassati più volte ristampata, con la sua idea di un’arte che non può e non deve essere che arte popolare, espressa dal basso e con lo sguardo rivolto all’alto, e Arte e anarchia di Edgar Wind, scoperto – il caso è oggettivo, dicevano i surrealisti – nel 1968, con la sua panoramica di posizioni e di definizioni dell’arte che partiva dal «timore» che secondo Platone essa doveva suscitare in quanto perturbativa dell’ordine della società, e che vedeva nel trionfale accoglimento dell’arte nell’ordine delle cose, e cioè del consumo, la sua sconfitta e non la sua vittoria. Ma ancora di più ho imparato da lunghe conversazioni con una geniale scrittrice anarchica, Elsa Morante, di cui ho avuto il privilegio di essere amico per gli intensi anni che vanno, appunto, dal 1968 alla sua morte, nel 1985. È 12

nella sua conversazione-conferenza dei tardi anni Cinquanta, dal titolo provocatorio di Pro o contro la bomba atomica, che ho trovato le definizioni che mi sembrano ancora più attuali dell’arte e delle sue «qualità», che sono anche le più estreme e difficili e sulle quali molto contrastammo, perché sostenevo allora che la vita e il «peso» di un artista non valgono di più della vita e del «peso» di un militante sconosciuto del bene, cioè della rivoluzione. Eppure il punto di arrivo era lo stesso, quello del «tutti» capitiniano, della liberazione di tutti. Per Elsa Morante (e scoprii poco dopo che questo valeva, con altri accenti, anche per un’altra grande maestra e amica, Anna Maria Ortese) l’artista era il San Giorgio che deve liberare la città dal Drago dell’irrealtà: «L’arte è il contrario della disintegrazione (…) perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, il suo solo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà (che è) perennemente viva, accesa, attuale. (…) Logicamente, colui che è arrivato nella città per uccidere il drago, ovvero (tradotto in termini attuali) lo scrittore che si muove nel sistema come avversario irrimediabile, sa che nei punti estremi di crisi lo aspettano dei giorni precari; e che la sua vicenda, comunque, non è mai facile né dolce», anche se «la realtà, e non l’irrealtà, rimane il paradiso naturale di tutte le persone umane, almeno finché non si siano ancora trasformate nella struttura stessa visibile dei loro corpi. Non siano diventate, cioè, dei mutanti, come si dice in gergo atomico». E cos’era l’irrealtà per la Morante se non, sinteticamente e provocatoriamente, la bomba atomica e la televisione? I due massimi strumenti del potere di quegli anni – il secondo sostituito oggi dal digitale. L’atomica: la distruzione della vita attraverso le armi e in particolare l’arma che sembrò assoluta e lo è ancora, la più fredda e micidiale di 13

tutte. (Si legga per allargare o approfondire il discorso il carteggio tra il filosofo Günther Anders, che si occupò forse più accanitamente e lucidamente di tutti di pace e di tecnica, ma, a partire da questo, anche di arte, con «il pilota di Hiroshima» Claude Eatherly). La televisione (oggi il digitale?): la distruzione della mente attraverso la comunicazione di massa usata a fine di dominio e non di emancipazione, non per la conoscenza di sé e del mondo ma per la loro dimenticanza, nell’acquiescenza alla visione che ne dà chi dirige il gioco, chi guida la danza. Non solo, dunque, la tv. La storia delle arti è varia e complessa, ma non è di questo che parliamo qui, anche perché non sono certo io a poterlo fare. C’è un’arte astuta e una ingenua, una «finta» dominata soltanto dall’ambizione dell’artista e dalle febbri del mercato, e una «vera» che si inquieta e si interroga sullo stare nel mondo, sul senso da cercare e da dare al nostro passaggio. La parola «arte» ha subìto nel tempo, fino all’abominio del nostro, significati mutevoli corrispondenti alle forze dominanti di un’epoca. Dire il vero e il più vero, i nodi e le essenze, la debolezza e la forza, il nascosto e l’oltre, l’esprimibile e l’inesprimibile è stato un suo scopo, ma col tempo essa si è piegata a dire l’ovvio e l’egotistico in bella forma, e a decorare non a scavare, a intorpidire menti e coscienze rinunciando a destarle e ad arricchirle. Ha consolato in vari modi, quali accettabili e perfino necessari e quali opportunistici e fin disgustosi. Si è piegata al mercato, dall’Ottocento a oggi, in modi vieppiù spudorati e fin ignobili, assistita e promossa da teorici mistificanti (i critici! i professori!), a servizio di chi li paga e del proprio potere di mediazione tra chi vende e chi promuove, o compra, o consuma (sinonimi: sciupa, distrugge, logora). Oppure, peggio, piegando l’arte ai propri pregiudizi e alle proprie retoriche, e, come tanti artisti, alle proprie smanie di apparire, sapendo di non essere. Turba e disturba troppo raramente, l’arte contemporanea – tanto meno quella che ostinatamente continua a vedersi come 14

l’arte per eccellenza, quella derivata molto alla lontana da pittura scultura architettura. La più schiava di tutte le arti, la più superflua, effettistica, bassa, chiusa, con meno vie di fuga e di riscatto, anche se alcuni animosi refrattari continuano a voler praticare sperando di restituirle onore e dignità. Si può persino sostenere che è altrove che la maestria del visivo si è dislocata, nell’illustrazione non pubblicitaria o nei comics, riscoprendosi artigianale e per tutti (ma, imprevedibilmente, la sua tradizione non ha dato originalità e vitalità al disegno animato). (Sui dilemmi, o sulla deriva, dell’arte contemporanea, rimando volentieri alle riflessioni di Perniola e pochissimi altri, più filosofi che non critici, e invito a un sistematico boicottaggio dei critici-mercanti). Più in generale: arte e comunicazione, perché no? Ma c’è una comunicazione sana (e santa) e una comunicazione criminale (quella che ha dimenticato e tradito le altre parole che a comunicazione somigliano e che derivano da uno stesso ceppo: «comunità», «comune», «comunanza», «comunione», «comunismo», «comunicabilità», «comunella»… quali sacre e quali profane ma originate da una tensione simile, da una simile aspirazione). Il cinema, come la letteratura, come il teatro, è stato uno «strumento di comunicazione di massa» ambiguo ma vitale, anche perché nel corso del Novecento ha saputo parlare agli analfabeti di gran parte del pianeta. Ha fornito conoscenze e pensieri, ha agito sul conscio e sull’inconscio attraverso identificazioni e deviazioni. È riuscito, anche «dall’interno del sistema produttivo» abituale, a far passare messaggi radicali, ancorché minoritari, e perfino oggi che il cinema «ufficiale» è controllato dalle più forti delle censure, quelle del computo del denaro da investire e da ricavare, lascia talvolta passare messaggi e idee non condizionanti e manipolanti, non indirizzati al consenso. Un cinema «anarchico» è sempre stato raro, soprattutto quando i film rispondevano a un unico modello produttivo e distributivo; paradossalmente è meno raro oggi che il dialogo tra cinema e pubblico viene ferocemente controllato da schiere di uffici studi e dalla complicità 15

di un’economia che considera la cultura e lo spettacolo come un punto forte, anzi fortissimo, della sua ricchezza e della pervasività dei modelli sociali veicolati, veicolabili. E questo perché lo sviluppo delle tecniche ha permesso a un numero enorme di aspiranti registi di fare i loro film, relativamente a basso costo, e dunque di controllarne linguaggio e contenuto. Il loro pubblico è scarso e occasionale, ma essi hanno la possibilità – se davvero hanno qualcosa da dire – di dirlo in libertà, e di portare i loro prodotti in giro per il mondo, da piccolo gruppo a piccolo gruppo di spettatori interessati al film e non all’evento. I più non hanno niente da dire di interessante e di necessario, ma alcuni sì, e riescono a dirlo entrando in contatto con i pochi spettatori che possono condividere la loro inquietudine. Sono liberi di dire, se hanno qualcosa da dire; e alcuni tra loro, pochi, hanno da esprimere una visione del mondo e dell’arte originale e nuova, e spesso – quasi per forza di cose – anarchica.

Per imperdonabile dimenticanza, non ho parlato nella prima edizione di questo libro dell’opera di Sergio Citti, forse perché ne sono stato amico e ho seguito da vicino le vicissitudini dei suoi ultimi film, uno dei quali, I magi randagi, degno, per la libertà della sua fantasia e per la sua poesia povera e sui poveri, di una tradizione classica, popolare, fiabesca e definitivamente anarchica. Andando all’ indietro, Mortacci, Il minestrone, Due pezzi di pane, Casotto, Storie scellerate e Ostia sono titoli esemplari di un cinema altro, venuto dal basso, anti-borghese e a-borghese, non reggimentabile, definitivamente povero e libero. Più che di Pasolini, personaggio difficile e contraddittorio e che poteva suscitare sentimenti contraddittori, sono stato molto amico dei suoi due migliori amici, Laura Betti e Sergio Citti, e ho avuto da impararne e da capirne, anche su Pasolini. Dedico alla loro memoria le riflessioni che seguono. 16

capitolo primo

La traversata di un secolo

È esistita un’arte non borghese? O quantomeno una comunicazione culturale, una creatività popolare non controllate dall’alto? Sì, per secoli i popoli hanno prodotto la propria cultura, anche i più analfabeti, diversa da quella dei colti, dei «ceti superiori», del potere. Questa cultura ha ispirato e innervato quell’aspetto particolare dell’arte che chiamiamo comunicazione, «l’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica», diventata via via spettacolo e formazione for the millions). Una ricapitolazione mi sembra utile; vi sarà molto di autobiografico, ma le poche idee che ho, su questo e su altro, vengono dall’esperienza piuttosto che dallo studio. Sono nato prima della guerra, negli «anni del consenso» al regime fascista, in una cittadina umbra rimasta pressoché ferma da secoli, retta ancora da una struttura economico-sociale di tipo medievale nella divisione in classi della popolazione. La cultura era privilegio di pochi, c’erano le medie, l’avviamento (la scuola post-elementare dei poveri), il seminario (la scuola per i figli dei contadini che altrimenti non avrebbero avuto altre possibilità, 17

e che regolarmente abbandonavano dopo i primi anni). Figlio di un artigiano, ho studiato da maestro elementare perché fui bocciato al ginnasio da una classica professoressa «donmilaniana» (in latino e in greco), l’unico figlio di proletari in mezzo ai figli della piccola borghesia o borghesia o nobiltà decaduta del paese, dei professionisti e commercianti locali che erano anche i proprietari della terra. Vigeva la mezzadria, un sistema secolare che nel dopoguerra fu messo in discussione dalle lotte contadine e dalle riforme che ne seguirono. La divisione dei prodotti era da poco del cinquanta-cinquanta, cinquanta al padrone della terra e cinquanta al contadino, ma quando diventò del sessanta al contadino e quaranta al padrone, già era ripreso il grande esodo, le migrazioni verso l’America Latina e l’Australia e verso l’Europa delle miniere e delle fabbriche. Coinvolse di nuovo anche i miei, ma stavolta non mio padre da solo bensì tutta la famiglia, quando io avevo già preso la via del sud. Arrivò infine la seconda delle grandi mutazioni che ho vissuto, quella del miracolo economico. Cos’è stata, per una famiglia di analfabeti o di semi-analfabeti come la mia – i quattro nonni analfabeti, mio padre la seconda elementare e qualche mese della terza, mia madre la seconda, ma questo è bastato perché diventassero dei lettori assidui di giornali e riviste, che mia madre leggeva muovendo le labbra, compitando le parole lentamente, a bassa voce se c’erano altri, ad alta voce quando sola, grande consumatrice di fotoromanzi e di romanzi d’appendice, ma anche di classici come Anna Karenina o I miserabili, in edizioni ridotte, accompagnate a volte da immagini dei film che ne erano stati tratti. Nelle campagne passava un venditore ambulante che vendeva anche fascicoli contenenti le puntate – tantissime – di certi romanzi d’appendice. La mia prima «formazione culturale» è nata così, e con il cinema, e con i fumetti (soprattutto «Il Vittorioso», cui collaborava assiduamente il geniale Jacovitti), e infine con la lettura dell’«Avanti!» che mio padre, militante socialista, portava in casa ogni giorno. L’accesso alla cultura, per la mia generazione e per quelli come 18

me, è avvenuto attraverso le forme della cultura popolare e, insieme, della cultura di massa. Della prima ho avuto modo di godere negli anni dell’infanzia delle sue espressioni più tradizionali (soprattutto i racconti orali nelle lunghe veglie contadine dell’inverno) e più tardi, negli anni Cinquanta, in giro per l’Italia e in particolare nel sud. C’erano i cantastorie e i contastorie (con le storie disegnate su tabelloni) che evocavano i Mille di Garibaldi, i duelli dei paladini di Francia, i grandi fatti di cronaca, c’erano la sceneggiata, il circo povero a cui era spesso abbinato un atto unico drammatico o comico, l’avanspettacolo, i «festini» musicali in occasione di feste religiose, l’artigianato povero dei fischietti pugliesi e siciliani, delle immagini colorate a mano come a Epinal, c’erano i decoratori dei carretti siciliani, le pitture su vetro… Nelle campagne giravano venditori di aghi e filo e altro di leggero che poteva servire in casa, che attiravano il loro pubblico cantando sulle aie o nelle piazzette dei borghi, accompagnandosi con la fisarmonica, canzoni recenti di successo adattandone le parole a fatti clamorosi, di cui vendevano i testi su grandi fogli colorati… Ho sentito bambino da questi cantastorie La vera storia della morte del Duce e della sua amante, ma anche, dopo la guerra, una canzone su musica da osteria, Contrasto tra la moglie comunista e il marito democristiano, il cui ritornello faceva: «Vieni vieni mio tesoro / alla Camera del Lavoro»… Ho visto a Napoli dozzine di sceneggiate, una forma di teatro popolare su cui ho scritto più tardi un intero saggio… ho visto a Palermo le ultime «vastasate»… ho visto il cinema che riproduceva le più famose opere liriche, e nel teatro del paese, orgoglio dei borghesi, la compagnia D’Origlia-Palmi, ultima sopravvivenza dei carri di Tespi ottocenteschi il cui modo di recitare – puro Ottocento – influì in modo determinante sull’ispirazione teatrale di Carmelo Bene, che ne prese più tardi dei membri nella sua compagnia… ho visto tanto avanspettacolo e teatro di rivista povero, e tanto teatro dialettale, a nord e a sud, a est e a ovest della penisola, verificando la ricchezza della tradizione comica italiana e quel che 19

restava della commedia dell’arte… ho visto le piazze dei mercati con i giocolieri e i clown come li si vede in La strada di Fellini, le feste religiose nei santuari più lontani, da Vallepietra al Pollino, dalla Madonna dell’Arco (il pellegrinaggio pasquale a Pomigliano del sottoproletariato napoletano e campano) alla Madonna delle galline di Pagani… ho visto i «battienti» e i flagellanti di Guardia Sanframondi in Campania e di Nocera Terinese in Calabria… ho visto le luminarie e i «giochi di fuoco» e ho ascoltato i concerti (diretti spesso da donne) nelle piazze dei paesi pugliesi nei giorni della festa del santo… ho visto e ascoltato nei festini di piazza napoletani, palermitani, pugliesi i cantanti celebri a sud e ignorati a nord e pian piano ho anche conosciuto qualcuno dei personaggi che questa cultura portava avanti, i grandi marionettisti napoletani, i comici dell’avanspettacolo, i cantanti di piazza e di teatro, tra i quali spesso personaggi di enorme talento e assoluta maestria come Sergio Bruni. Due grandi libri antologici hanno registrato queste esperienze, La piazza di Roberto Leydi e Copioni da quattro soldi di Vito Pandolfi. Esisteva insomma una cultura prodotta dagli strati bassi della popolazione, anche dagli analfabeti perché per cantare e recitare (su canovacci improvvisati o tradizionali, inventati o reinventati) non c’è bisogno di un testo scritto. Penso a Viviani, analfabeta, ai De Filippo, a Totò, che sono stati con Luigi Pirandello e Carmelo Bene i più grandi uomini di teatro italiano dello scorso secolo. La cultura popolare era tale nel senso più autentico della parola, c’erano grandi attori – soprattutto della tradizione dialettale – in ogni regione italiana: a Trieste c’era Cecchelin, che passò i suoi guai con il fascismo, a Milano c’era Ferravilla e solo poco tempo fa è morto Mazzarella, il suo ultimo erede nel ruolo di Tecoppa, a Roma c’erano Petrolini, Fabrizi, Balzani, la Magnani, Sordi, Tognazzi, le sorelle Nava che frequentarono il teatro e la canzone dialettali e l’avanspettacolo e il teatro di rivista prima di passare al cinema, dandogli nervi e sostanza: il cinema italiano 20

non avrebbe mietuto i suoi successi senza questa tradizione alle spalle, e peraltro i grandi registi del cinema italiano venivano da lì, e dalla collaborazione ai settimanali umoristici, dalla scrittura di sketch e riviste: Fellini, Age e Scarpelli, Scola e Maccari, Zavattini e tanti altri sceneggiatori. Forse è stato Fellini ad aver rappresentato meglio di ogni altro, nella storia della cultura italiana del Novecento, il legame tra «alto» e «basso» nella storia della nostra cultura, così come, più che in Italia in altri paesi, fecero gli Stravinskij e i Picasso, i Brecht e i Majakovskij e cento altri. Brecht ha scritto addirittura un testo in cui spiega cosa ha imparato dalla boxe per il suo teatro. Le arti maggiori hanno sempre rubato alle minori, alle più popolari, e d’altronde Dostoevskij, Hugo, Dickens pubblicavano i loro romanzi a puntate in appendice ai giornali più diffusi del loro tempo. Dostoevskij prese le mosse da Eugène Sue, quello dei Misteri di Parigi eccessivamente condannati da Marx. Il passaggio dalla cultura popolare alla cultura di massa è stato lento, e nel corso del Novecento la cultura di massa ha assorbito la cultura popolare imparandone, nutrendosene. Per chi, come me, si è mosso tra l’una e l’altra quando erano entrambe ben vive, mescolarle era obbligato. Il cinema, più ancora della letteratura, ha offerto alla generazione dei miei padri, alla mia e a quella successiva il confronto col mondo, con modi di vita altri, con esperienze altre, con sentimenti altri. Infinitamente di più che dalla letteratura e più tardi dalla scuola era dal cinema che le «classi subalterne» si sono fatte un’idea del mondo, della complessità e delle differenze del pianeta e della complessità dei costumi come dei sentimenti, della complessità dell’animo umano. Il cinema è stato peraltro il principale strumento di congiunzione tra l’«alto» e il «basso». Ford e Kurosawa, Renoir e Lang, Buñuel e Kubrick, ma anche Fellini e Monicelli… Non si può pensare a una storia della cultura, in particolare di quella italiana, senza vederne le basi in una tradizione terragna e bassa. Della cultura «bassa» quella «alta» si è nutrita con rispetto o con l’astuzia dei ladri, e 21

soprattutto lo hanno fatto le forme dominanti della comunicazione. Prima di tutto il cinema. Il dibattito sull’alto e il basso è partito molto presto nella storia culturale del Novecento, pensiamo in Italia a Gramsci. Non ci sono stati solo gli aristocratici iper-selettivi alla Adorno, alleati loro malgrado agli accademici borghesi a caccia di sublime e di raffinato, a cercare un’arte che non avesse a che fare col mercato, e col popolo, ci sono stati anche, nella stessa Germania al tempo della Repubblica di Weimar, i suoi amici Benjamin e Kracauer, che avevano un’idea ben diversa e ben più forte dell’arte e delle sue possibili forme. Kracauer ha scritto un libro fondamentale per la storia della critica cinematografica, che lo ha ovviamente rifiutato a favore degli idealismi hegeliani, dei pedagogismi dei regimi autoritari e delle disquisizioni semiologiche, intitolato Da Caligari a Hitler, una storia del cinema tedesco in cui vede il nascere dell’ideologia nazista dai film del tempo, ma in cui si chiede anche, in alcuni lucidi interventi, perché le sartine piangono al cinema… Il pubblico del cinema poteva identificarsi con degli eroi, con dei personaggi derivati da consolidati modelli letterari e teatrali, poteva rivivere attraverso di loro le proprie storie, esaltate dall’invenzione, e trovarvi in qualche modo una catarsi. C’è un racconto di un poeta americano degli anni Quaranta, Delmore Schwartz, che si chiama Nei sogni cominciano le responsabilità: è un racconto quasi d’avanguardia, molto elaborato, molto delicato, di grandissima sapienza e precisione letteraria, su un bambino che va al cinema e proietta nei personaggi la sua condizione, la sua storia, e capisce meglio sé e chi gli sta intorno, i suoi genitori. Luis Buñuel, che veniva dal surrealismo e dalla scoperta di Freud, scrisse che nel momento in cui in una sala cinematografica si spengono le luci e si accende lo schermo, si penetra in un mondo onirico, irreale, in una dimensione che è quella dell’inconscio. Questo oggi è più difficile da capire con la televisione e con i dvd, ma rivedendo in sala certi film del passato o certi film di oggi, ecco che questa reazione si ripete, e si rinnova. 22

La cultura di massa del Novecento è la cultura popolare che entra nella dimensione di una modernità dominata dalla tecnica, che le ha aperto possibilità enormi, e non a caso sono stati il cinema e la fotografia a essere considerati da subito come «le arti del Novecento». Il cinema rubò anzitutto alla fotografia, ma per veicolare altre influenze, quelle della letteratura e del teatro, perfino dell’opera lirica. Puccini rubò due opere, la Butterfly e La fanciulla del West, al teatrante americano di superspettacoli David Belasco (alla cui scuola si formò il primo solido codificatore del linguaggio cinematografico, Griffith), così come Verdi aveva rubato a Shakespeare o a Hugo e Dumas figlio, come Georges Simenon e Graham Greene ruberanno a Dostoevskij e Conrad, e come cento registi ruberanno a Dickens e Tolstoj, ma anche, ben presto, ai Simenon o ai Greene, e più tardi, senza freno, dovunque potranno, fino al fumetto, alla canzone, alla televisione. Si trattò di un uso spesso strumentale – l’apprendimento delle regole utili alla conquista di un pubblico non sempre pronto a distinguere l’oro dall’alluminio – ma così facendo il cinema ammaestrerà, renderà a portata di visione e di riflessione una conoscenza, per esempio, della geografia, degli usi e costumi e consumi dei popoli, dei sentimenti umani. Darà l’opportunità a più generazioni di illetterati o di scarsamente letterati – insomma di proletari, di poveri, di «subalterni» – di accedere alla conoscenza di mondi e idee altri da quelli del loro ambiente, allargherà le menti, imporrà confronti. È dal cinema americano, anche il più dozzinale, ha scritto Italo Calvino, che in Italia si cominciò a capire, sotto il fascismo, cosa potesse essere una democrazia… Ha detto Mario Monicelli che, nel nostro secondo dopoguerra, gli autori del cinema popolare rubavano al popolo (alla cronaca, alla realtà) e riportavano al popolo, prendevano e poi rendevano, aiutando gli spettatori a raggiungere un livello di coscienza più chiaro di situazioni comuni ed esemplari, delle sue stesse contraddizioni… Uno sforzo che, diceva, non si davano invece la pena di fare gli Autori con la A maiuscola, preoccupati 23

anzitutto della loro libertà di esprimersi, in un dialogo col pubblico molto più selettivo e mediato. L’esempio forse più clamoroso nella storia mondiale di un artista che è riuscito a parlare a ricchi e poveri, bianchi neri gialli rossi, maschi e femmine, vecchi e bambini, analfabeti e professori universitari, è quello di Chaplin. Negli anni del muto – Chaplin odiò il sonoro e per molti anni si rifiutò di fare film sonori – e grazie alla riproduzione tecnica delle sue opere il suo Charlot si fece conoscere e amare in quasi tutto il pianeta, l’unico caso di un artista che sia riuscito, nella storia dell’umanità, a parlare a una così vasta parte dell’umanità. Con il sonoro, e Chaplin lo sapeva e temeva, la torre di Babele del cinema muto sarebbe crollata… Il saggio più illuminante su questi argomenti lo ha scritto Virginia Woolf in forma di lunga lettera di risposta a un tale che l’accusava di aristocraticismo, di distanza dalla cultura del popolo. La Woolf rispose dicendo che tra cultura alta e bassa c’era stato sempre uno scambio, da Shakespeare a Dante, da Rabelais a Boccaccio, da Dickens a Tolstoj, e che il nemico di entrambe era la cultura media, la cultura piccolo borghese che non sa più considerare l’elevatezza straordinaria che può raggiungere l’arte, l’arte come ricerca di verticalità, l’arte come possibilità di cercare o dare un senso alla propria esistenza, né sa tener conto del basso, lontana dal basso per i suoi pregiudizi classisti. Il basso cos’è? È il corpo, la fame, la violenza, la difesa dalla storia, il rapporto con la terra, con la natura, è il comico e il suo modo di criticare e di giudicare, è il melodramma delle esperienze e delle fatiche e sofferenze di tutti, è la fiaba che nobilita e che riscatta… Shakespeare è alto o basso? In ogni dramma di Shakespeare c’è anche la parte di Totò e Peppino, la parte detta volgare… Sempre la cultura alta ha rubato alla cultura bassa, sempre la cultura bassa ha rubato alla cultura alta, c’è stato tra di loro un dialogo che è stato interrotto dal predominio – grazie all’industria, grazie allo sviluppo dei mezzi tecnici eccetera, all’uso che ne hanno fatto, 24

molto abilmente, opportunisti e potenti – della cultura media che il ceto medio intellettuale e professorale ha prodotto per imporsi sulla cultura alta e sulla cultura bassa. Il cinema, come il gioco del calcio, come la fabbrica, è nato con la società industriale e si può dire che queste forme di produzione economica e questi modelli di uso del tempo libero sono andati in crisi, si sono mutati, sono morti nella loro forma «classica» con la crisi e fine della società industriale. L’evoluzione della tecnica influisce sulla società, sulla cultura, e la crisi di un sistema produttivo comporta altre crisi, altri mutamenti. Il capitale, diceva Marx, divora continuamente se stesso; i figli divorano continuamente i loro padri; il capitalismo è il sistema più cannibalico che ci sia. Steve Jobs ammazza Henry Ford, e c’è subito qualcuno che si prepara ad ammazzare Steve Jobs, e via di seguito. L’evoluzione della tecnica vede sempre un esercito di cavallette pronto a profittarne, di capitalisti, banchieri, padroni che si servono di quell’evoluzione non solo per costruire un loro dominio, ma anche per «uccidere» i ricchi che sono venuti prima di loro. È un sistema cannibalico che non ha mai tregua: l’evoluzione della tecnica produce continuamente un’evoluzione dei sistemi produttivi, dei sistemi sociali, dei sistemi politici, dei sistemi polizieschi. Oggi questo discorso è di nuovo attualissimo. E come in passato, per uscire dalle crisi il capitalismo ricorre volentieri alle guerre, che sono già in atto, più o meno palesemente, più o meno sotterraneamente: per l’energia, per il petrolio, per l’acqua, per un’agricoltura che produca energia e non pane per chi non ne ha. Tra parentesi, le poche industrie che non sembrano affatto in crisi sono oggi, anche in Italia, quelle che producono per il mercato dell’infanzia, quelle che producono armi per le guerre presenti e future (l’industria delle armi non è considerata in nessun paese come una forma di economia criminale) e quelle che producono «cultura e spettacolo», soprattutto certe forme di spettacolo. Su questo tornerò più avanti. 25

Si diceva delle mutazioni. Dopo aver assistito a quella portata dalla guerra e a quella portata dalla Resistenza e dalla democrazia, dalla Repubblica e dalla fine della mezzadria, ho vissuto la mutazione economicamente più radicale, quella del miracolo economico, gli anni del boom. Su questo si può rinviare alla lettura del critico più duro di questa mutazione, Pier Paolo Pasolini. Nel bene e nel male, perché Pasolini non ha detto solo cose sensate e intelligenti, ha detto anche cose discutibili. Parlando con lui molti anni fa, quando era stata appena stampata la mia inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino, quando i contadini del sud (ma anche quelli del Veneto, quelli delle zone depresse del nord e del centro) si spostavano nelle zone ricche del nord perché l’industria aveva bisogno di mano d’opera a basso costo, io ebbi a dirgli: «Tutto sacrosantamente vero quello che dici, che muore una cultura, muore il mondo contadino, muore una tradizione, muore una storia, muore un’identità, muore l’Italia… però i bambini che vengono a Torino non muoiono più di fame». Avevo visto con i miei occhi in Sicilia, ancora negli anni 1956-58, dei bambini morire di denutrizione, di fame. Con i miei occhi. E ricorderò sempre una battuta di mia madre, cresciuta in campagna e più tardi costretta all’emigrazione in Francia, quando narrava a una coppia di giovani amici milanesi quanto fosse stato bello il mondo di ieri. La vidi all’improvviso incupirsi, ed esclamare: «Ragazzi, io dirò sempre un’orazione per quello che ha inventato il cesso dentro casa». A Torino i bambini siciliani non morivano più di fame e i contadini immigrati avevano il cesso in casa. Bisognava vedere la nostra storia anche da queste basi concrete: sulla lunga Pasolini aveva ragione, ma lui il cesso in casa lo aveva sempre avuto… L’altra mutazione è stata quella portata dal ‘68, ma credo che, col suo fallimento e col fallimento totale, nel mondo, di ogni modello rivoluzionario, dell’idea che il mondo potesse migliorare e si potesse andare verso una società migliore (un’idea per cui hanno lottato generazioni e generazioni, e migliaia e migliaia di persone hanno dato la vita), sia scomparsa dall’orizzonte pro26

prio l’idea della rivoluzione. L’ultimo tentativo di dare «l’assalto al cielo» è stato appunto, da noi, quello del 1968-69 e degli anni seguenti, fallito anche per la mediocrità interna di questi movimenti ma soprattutto, e ovviamente, per la spietatezza del mondo che si aveva di fronte, dei poteri che si avevano di fronte. Chiamiamolo pure Capitale, anche quando parliamo di Russia o di Cina o di Africa o di America Latina: un potere che ha puntato tutto sullo sviluppo (e sul controllo). L’ossessione dello sviluppo e più tardi del controllo è stata dietro alla politica della sinistra, che è sempre scesa a patti col capitale e che ha finito per esserne parte. Tra le altre cose che ci dicevano i borghesi e la sinistra, c’era che non bisognava aver fretta. Ma io ricordo un bellissimo spettacolo teatrale del Living Theatre di quegli anni, Paradise now, che mi entusiasmò sin dal titolo: socialismo ora, lo si poteva tradurre, o anche, perché no, Regno di Dio su questa Terra. Si ha una vita sola, e si deve goderne, operando nel giusto, e non rinviandone l’onesta possibilità di goderne a bisnipoti e trisnipoti… Il socialismo bisogna tentare di viverlo subito, i rapporti tra le persone devono cambiare da subito. Va benissimo responsabilizzarsi al massimo rispetto alla Storia, ma con la possibilità di sperimentare qui e adesso le cose che pensiamo di dover lasciare in eredità a chi verrà dopo di noi. (Non dimenticando però la domanda di Schopenhauer: «che cosa hanno fatto i posteri per noi?»). La mutazione reale, vera, dopo questo fallimento della Storia e dell’utopia venuto con gli anni Settanta, è stata quella degli anni Ottanta, Novanta e Zero di questo secolo; gli anni che io chiamo «il trentennio». Come quelli della mia generazione, sono abituato a parlare del fascismo dicendo «il ventennio». Ma trent’anni sono più lunghi di venti. In più, nel ventennio, la società italiana proponeva, in sostanza, due tipi di umanità: quella del fascismo e delle sue classi di sostegno e quella degli analfabeti, due realtà che non si sono mai incontrate se non nell’impresa africana, perché lì Mussolini riuscì a ingannare gli analfabeti, i contadini, 27

con la promessa del «posto al sole». Il trentennio è stato molto più lungo. E non si trattava più di due storie parallele ma di una stessa storia, perché negli anni della ricostruzione e del miracolo economico tutti gli italiani erano andati a scuola ed erano stati acculturati dalla tv, sapevano leggere e scrivere, giravano l’Italia e spesso il mondo non più da migranti ma da turisti, e avevano raggiunto col benessere uno standard di vita che comprendeva ampi consumi culturali: una generale alfabetizzazione che ha portato a un’omologazione di tipo piccolo borghese, quella stessa che temeva la Woolf, ovvero un ceto medio che si dilata e appiattisce o divora sia la borghesia che il proletariato. Culturalmente, non economicamente, questo ceto si fa dominante, diventa tutto. Tutti noi oggi siamo dei piccolo borghesi, abbiamo consumi abitudini gusti di piccolo borghesi… L’Italia è questo. Torniamo alla cultura popolare e alla sua trasformazione. In questa Italia, e nel mondo che più ci somiglia, quello privilegiato e più stabile, come si fa politica? come il potere controlla la situazione? La si controlla non più col manganello mussoliniano o con il gulag staliniano, ma con il mercato, con un certo benessere, e sempre di più con i media, con le tv e le radio, con la scuola, con le chiese, e con la cultura. In termini antropologici, sempre di cultura si tratta. Di cultura di massa. Per le masse di analfabeti che negli anni precedenti vedevano l’accesso alla cultura come una forma di riscatto per sé e soprattutto per i figli, come uno strumento di liberazione, di acquisizione di idee e confronto di punti di vista, di scoperta del mondo e di scoperta di sé nel confronto con gli altri, la cultura diventa un oppiaceo. Nel mondo in cui viviamo l’oppio dei popoli non è più la religione, l’oppio dei popoli è la cultura. Pensate a cosa davvero leggono i lettori, vedono gli spettatori, sentono gli ascoltatori. Scorrete l’elenco dei best seller sui quotidiani, considerate i libri più venduti, i film più visti, i programmi tv più seguiti. È questa la «cultura» per la cui conquista hanno lottato i nostri padri? Ho detto spesso con una battuta ahimè attendibile che i prin28

cipali nemici della cultura in Italia sono, nell’ordine, «La Repubblica», «Il Corriere della Sera» e la tv alla Fazio, e a rigor di logica dovrei aggiungerci tanta radio, quasi tutta. Essi impongono alla piccola borghesia di cui noi facciamo parte quello che deve leggere, le persone che devono ammirare, i bonzi che devono venerare, che sono poi quelli che si sono affermati nel trentennio, che hanno prosperato e sono diventati importanti e famosi in quel periodo. Molto spesso si è trattato di persone (metta i nomi il lettore) che si dicevano di sinistra accettando bensì tutte le regole del gioco e i vantaggi del sistema berlusconiano. La cultura del trentennio è stata una cultura massimamente conformista. Morivano i grandi al cui pensiero e alle cui opere ci abbeveravamo – Sciascia il più lucido di tutti, Pasolini, Calvino, Fortini, Morante, Ortese, Carlo Levi, Primo Levi… i grandi poeti come Zanzotto, Giudici, Rosselli… i grandi registi come Fellini, Monicelli… e i grandi uomini di teatro come Carmelo Bene, e da ultimo Luca Ronconi… E ne dimentico. La generazione cresciuta nel trentennio del massimo conformismo, di morte della sinistra, è una generazione di orfani: senza rapporti con il passato, con la parte minoritaria intelligente critica del passato, e invece influenzata e manipolata da un sistema culturale più che da singoli manipolatori (anche se dei nomi possiamo ben farli, tra i più responsabili il presidente della Repubblica venuto dal pci, e giornalisti come Scalfari e Mieli, e tanti altri divi e guru della comunicazione e dell’università, e «grandi medici» e «grandi architetti» complici compiacenti di un sistema di corruzione morale e intellettuale, insieme ai tanti volti nuovi – largo ai giovani – dei nuovi padroni dell’economia e della finanza, e dei maggiordomi e lacchè della cultura al loro servizio). Nel trentennio si è creato soprattutto un sistema di complicità collettiva: i soldi circolavano, l’economia per quanto fasulla tirava, ed eravamo diventati un popolo di forti consumatori. Consumatori di tutto e di più. Il consumo attutisce le ferite, con l’ausilio del Prozac. Disse una volta Oscar Wilde: «Dio, li29

berami dai mali fisici che da quelli psicologici ci penso da me». I mali fisici sono la fame, l’insicurezza, i bisogni fondamentali che nella società della scarsità spingevano alla rivolta, alla presa di coscienza, all’azione. Senza di quelli, senza una tradizione di civismo consolidata, abbiamo dovuto constatare che bastava il consumo a soddisfarci, incuranti del resto. Stavamo cominciando a diventare dei cittadini, e si è stati indirizzati su altre strade, produttive e tranquillizzanti per il potere: da fragili cittadini a frenetici consumatori. Un passo indietro. Simone Weil ha scritto una volta che «il sogno dell’uomo del Novecento è di diventare una macchina». Credo che questo sogno si sia realizzato: ci siamo fatti macchina, rispondiamo a impulsi esterni, ben calcolati da chi li manda… Come i cani di Pavlov. L’uomo si adatta a quasi tutto, se ne viene premiato (o per timore di una punizione). Gli impulsi che ci sono stati trasmessi dal Novecento e quelli che ci vengono trasmessi dal potere odierno portano irrimediabilmente a una forma di robotizzazione, o a una società affine a quella delle formiche, come sostiene per esempio Doctorow nel suo ultimo romanzo. Siamo finiti dentro una mutazione che ci vede probabilmente come gli ultimi umanoidi. Non so quanto ancora ci possiamo definire umani rispetto alle categorie sulle quali i più vecchi di noi si sono formati; siamo umanoidi, sulla strada per diventare dei robot. Probabilmente, non noi ma le generazioni successive alla nostra sono destinate a diventare sempre più perfettamente condizionate, e forse sarà questo l’unico modo possibile di sopravvivere, da macchine con ancora un corpo deperibile, adattandoci a un ambiente radicalmente mutato, nel quale molti di noi, testimoni del passato, farebbero (o già fanno) molta fatica a muoversi. La migliore letteratura di fantascienza, quella detta sociologica, quasi tutta statunitense o inglese, ci ha annunciato tutto questo negli anni Cinquanta-Sessanta, sulla scia di tre geniali romanzi avveniristici, 1984 di Orwell, Noi di Zamjatin e Il mondo nuovo di Huxley. Sì, chi in quegli anni leggeva fantascienza, 30

pur dal fondo della provincia italica, si è trovato più preparato alle mutazioni che ci hanno sopraffatto e a quelle oggi in corso. Variamente coniugata nei romanzi di Vonnegut, Ballard, Dick, Lem, Burgess, Sheckley, Simak, Matheson, Wyndham, Christopher… questa mutazione era già prevista dal laboratorio americano e inglese, già preventivata e analizzata. Tanti i titoli di romanzi, pochi quelli dei film, nonostante Kubrick e la sua Arancia meccanica. La forma peculiare di alienazione e manipolazione che ha finito per dominare, anch’essa prevista, è quella che in gergo si chiama oggi web. La parola «web» ha molti significati, e uno di questi è ragnatela. La ragnatela è bella, vista controluce è una cosa meravigliosa e attraente; il web è una ragnatela in cui noi moscerini veniamo attirati. La rete a cui noi dovremmo pensare e a cui tendere è tutt’altra cosa: una rete di minoranze attive e solidali, di minoranze etiche legate anche affettivamente tra loro, con un’idea comune dell’uomo e della società da realizzare. Il termine «minoranza etica» va rimesso in corso, con il suo corollario del «volontarismo etico». Essere attivi all’interno di questa società e di questa storia; dare fastidio al potere, intralciarne i piani; mettere, non appena questo si renda possibile, dei granelli di sabbia nell’ingranaggio. Rispetto ai piani e alle pratiche del potere, vuol dire reagire con le pratiche di una diversità attiva e responsabile nei confronti di tutti, della natura e degli uomini, e con le pratiche della disobbedienza civile. Ma questo è un altro discorso, anche se può e dovrebbe coinvolgere molto direttamente anche il campo della produzione artistica e del suo consumo. La grande trappola di questo sistema, analizzata genialmente da Christopher Lasch in La cultura del narcisismo, è che ognuno pensa di essere unico e di cavarsela da solo. Non siamo unici, siamo membri di una collettività, e da soli si perde sempre. La cultura che ci viene ammannita mira a consolare e ad addormentare, a farci consumatori dei prodotti che il potere vuole che noi consumiamo, è una cultura del conformismo (e della parodia dell’individualismo: a ognuno il suo tatuaggio, purché 31

tutti siano tatuati); non è una cultura che fa crescere e libera, è una cultura che neutralizza l’invito all’azione collettiva, alla resistenza attiva al male del capitale… Come essere responsabili verso se stessi, verso i propri cari e la propria comunità di riferimento, verso il genere umano, è ancora e sempre il problema centrale. Si tratta dunque, innanzitutto, di ricominciare a liberare il pensiero, ricominciare a pensare. Questo riguarda anche l’arte, il nostro interesse per l’arte. E, nell’arte, per il cinema. L’arte è la forma più vicina alla religione che il genere umano abbia trovato, ma mai come in questa epoca è stata avvilita nel suo uso come diversivo e merce, avvilita dall’economia e dalla pubblicità, asservita all’economia e alla politica, al perpetuamento del dominio. E la comunicazione è diventata una farsa. Poveretti quelli che nel trentennio hanno studiato al dams, molti di loro appaiono irrecuperabili: servi o sbandati, uno dei nostri primi doveri sarebbe di risvegliarli, di aiutarli a ragionare dopo tutte le cose secondarie e le sciocchezze di cui si sono nutriti. Il trentennio non è stato solo il trentennio di Berlusconi, è stato anche il trentennio della finta opposizione e del becero populismo, una nuova forma di conformismo, bensì vociante, e infine del berlusconismo di sinistra, alla Walter Veltroni, per tacer di Renzi. I personaggi che sono serviti da modello ad almeno due generazioni di giovani «colti» – quelli per esempio diffusi dal cinema di Moretti – sono, a rivedere quei film, costernanti. Diciamolo: forse le generazioni più stupide e più ipocrite che questo paese abbia avuto sono quelle formatesi negli anni Ottanta e Novanta del Novecento e nei primi anni del Duemila. Non che le successive siano migliori – e si è sempre trattato di storie diverse, tra maggioranze e minoranze, ma mai ci si è sentiti così minoritari come in quei trent’anni, anche all’interno delle minoranze dei «buoni». I più abili, anche quelli venuti dai movimenti (e dal loro conformismo…), bravissimi a scendere a patti con la propria coscienza, si sono piazzati nella comunicazione, nel giornalismo e nelle arti (pochi, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare e 32

a quanto è successo in periodi storici comparabili, nella politica, il campo più insidioso e dai successi più aleatori, se non si è dei draghi), e sono pronti a nuove imprese nefaste. Per quel che riguarda l’oggi, il quadro generale è d’altronde assai chiaro, anche se ci si riflette poco. Per cominciare, le proposte di occupazioni lavorative possibili vengono a una gran massa di giovani dallo sterminato campo della comunicazione, che è l’arma con cui più assiduamente si governa quantomeno nel mondo detto occidentale e ricco. Il campo della cultura è un mondo vario e impressionantemente vasto, sulla cui ricchezza e funzione non si ragiona per motivi piuttosto chiari. 413 mila persone risultavano occupate ufficialmente, vale a dire assunte, nel 2014 nei campi di editoria e festival, cinema e teatro e musica. Ma questo dato non considera le persone coinvolte come precari e occasionali, e le attività derivate, e i dipendenti degli assessorati alla cultura, e le società e associazioni che non rientrano specificamente nel ramo – per esempio la pubblicità, o anche, come ci appare ovvio, ogni ordine di scuola pubblica e privata. E i funzionari statali regionali provinciali. E non considera i giornalisti! e le radio e televisioni! e le grandi agenzie del digitale, i «motori di ricerca», Internet… Eccetera. A occhio, mi dice un amico statistico, la suddetta cifra va almeno triplicata, anche se non esistono studi attendibili che ci dicano quanti sono di fatto a vivere in Italia di cultura, di produzione e trasmissione di cultura in tutte le sue forme. (Beninteso, c’è chi ne vive benissimo, e non sono tanti, c’è chi ne vive bene o benino, e sono tantissimi, e chi ne vive male o malissimo, tantissimi anche questi). Vale per l’Italia: quale altra industria, anche la più produttiva, riguarda così tanti dipendenti e un giro d’affari paragonabile a questo? E allargando lo sguardo, quanti vivono dei tanti rami della «cultura» in Europa, negli usa, in Giappone, nelle nazioni del pianeta «avanzate» o «arretrate» che siano? Di questo nei festival e sui giornali non si parla mai, per le implicazioni che ne scaturirebbero. La più vistosa è certamente d’or33

dine economico: l’industria della cultura e dello spettacolo, della trasmissione di notizie e conoscenze e fantasie, della pubblicità di merci e di idee per il tramite di parole scritte e dette, di immagini e di suoni, è tutt’altro che in crisi e regge il confronto con i rami più «seri» e solidi dell’economia mondiale, anche se ci si ostina a non considerarla primaria e a non considerarla in blocco, come sarebbe giusto, come un settore molto più unitario di quanto non sembri. L’economia ha bisogno dell’industria della cultura e della comunicazione, e di questo viviamo tutti noi che insegniamo scriviamo filmiamo recitiamo suoniamo redazioniamo stampiamo distribuiamo e via dicendo. Ma ne ha bisogno anche la politica, perché per governare servono sì gli strumenti tradizionali, quelli in uso nelle democrazie e quelli in uso nelle dittature, con le tante varianti intermedie, ma serve anche una cultura che consoli e distragga, che riempia e illuda, oltre a dar da vivere a un’infinità di persone. I libri e i giornali, gli spettacoli e le tv, le scuole e i festival… Perché non si parla mai di queste loro funzioni primarie, quella economica e quella ideologica, ugualmente indispensabili al sistema in cui e di cui viviamo? E che rendono così difficile quella «ribellione degli intellettuali» che in Occidente appartengono, di fatto, alle classi medie, così come rendono difficile la ribellione dei giovani, condizionati non solo e non tanto dal ricatto delle prospettive lavorative quanto dal peso ideologico della cultura e della comunicazione, dalla infinita capacità, sempre rinnovata, che esse hanno di castrarli, nelle idee e nelle pratiche, nell’intelligenza e nell’azione? Nell’economia contemporanea, la cultura ha un peso enorme. I 413 mila di cui si è detto sono le persone regolarmente considerate dalle agenzie della statistica – ma non i precari, i trasversali e occasionali, gli aspiranti, i non registrati. Il contributo al pil di questo settore – ripeto, quello della sua parte «ufficiale» – è stato nel 2014 di oltre 700 milioni di euro, e anche questa è una cifra da raddoppiare o triplicare, se aggiungiamo oltre ai precari e ai dipendenti di settori affini anche quelli della pubblica e della pri34

vata istruzione – perché la scuola incide, vero?, sulla diffusione della cultura – e di certi rami della pubblica amministrazione. Quale altro settore dell’economia nazionale può vantare – esclusi i dipendenti dello Stato, ma solo se considerati in blocco – un tale numero di addetti e un tale giro di denaro? E proviamo ad allargarci all’Europa, all’America, a tutti i popoli del pianeta Terra. La «cultura» è un motore fondamentale dell’economia e, in molti paesi, serve più delle stesse armi, delle stesse polizie e degli stessi eserciti per la conservazione del potere, per l’amministrazione del dominio. Si governa meglio, e noi italiani lo abbiamo imparato perfettamente negli anni di Berlusconi, con la comunicazione che col manganello. La cultura come motore economico fondamentale e strumento centrale del controllo politico: che volete di più? Ci si rende conto di quanti milioni di persone, compreso io che qui scrivo e chi edita questo librino, vivono – chi benissimo (pochi) chi benino (tanti) chi molto male (tantissimi)– di «cultura», e cioè di scuola, comunicazione, spettacolo, pubblicità eccetera eccetera? Milioni, milioni… Questa della cultura è una delle più efferate invenzioni e astuzie del «sistema», del capitale di oggi, dei padroni di oggi, per tenerci buoni, per drogarci, per impedire un cambiamento diverso da quello previsto dai loro interessi. La corporazione o le corporazioni che concorrono alla «produzione di cultura e comunicazione» hanno, come tutte le corporazioni, le loro regole, le loro alleanze e rivalità, e hanno anche i loro luoghi d’incontro pubblici, non solo privati, che sono, per esempio, i festival, con i loro riti spettacolari, le loro passerelle di divi e divetti, i loro oscar e i loro leoni attribuiti da giurati solo corporativi come scambi interni al settore, come premi di comodo. Il cinema è un pezzo importante di questa macchina, dà da mangiare a un sacco di gente, e sempre di più si divide anch’esso in tanti settori maggioritari, paese per paese, e in piccole minoranze tollerate perché coprono spazi minori e possono aprire a interessi maggiori. 35

È molto difficile essere «anarchici» in questo campo, se non nelle idee. Essere anarchici ed essere autarchici. Trovar denaro per fare un piccolo film personale è sicuramente più facile che trovare una distribuzione, ché i meccanismi della distribuzione sono stringenti, obbligati. Un film ha bisogno di spettatori come un libro ha bisogno di lettori, solo che il rapporto tra film e spettatore è molto diverso di quello tra scrittore e lettore, molto più mediato: anzitutto la distribuzione, le sale. Essere autarchici anche in questo è molto difficile, e tuttavia ci si prova: quanti film importanti non hanno oggi che una circolazione semiclandestina? Si deve giocar sempre su due campi, lottare su due fronti, abbiamo appreso da lezioni antiche: in questo sistema, il doppio gioco è per molti obbligato. In difesa dell’arte, di un’idea dell’arte non piegata agli interessi del mercato e all’opportunismo di chi ha talento ma non morale. Sì, l’arte. Bisogna ricominciare a ragionare anche sull’arte. Sono decenni che non ci sono più dei gruppi di artisti che elaborano manifesti. Dall’Ottocento in avanti, ma anche prima, c’erano i manifesti: gruppi di artisti si riunivano e dicevano «noi pensiamo che l’arte debba essere, in questa epoca storica, in questo momento preciso, rispetto alle forze in campo oggi, questa specifica cosa». E su questo si poteva litigare. Oggi l’arte è un pezzo importante del mercato. (Anche l’università lo è, un mondo a parte ancora per molto, finché il capitale potrà sostenerla). È molto difficile, di conseguenza, non cedere alle tentazioni del nichilismo. La nostra fatica di restare in piedi è quella di combattere ogni giorno con la tentazione di cedere a questa sirena. Perché che «niente serve a niente» può essere una constatazione raggelante, che annienta i nostri istinti vitali, che blocca la nostra volontà. Ma i vecchi maestri ci hanno detto che questa non è una cosa nuova, e che se questa realtà non ci piace è nostro dovere non accettarla e fare quello che possiamo per cambiarla. Torniamo ancora una volta, dunque, al discorso sulla disobbedienza civile, si tratta sempre di non accettare il mondo così 36

com’è o come ci viene propagandato, e di fare quello che possiamo per cambiarlo. Ricordandoci che i grandi cambiamenti sono nati dall’incontro, dall’alleanza tra intellettuali e oppressi. E gli oppressi di oggi sono anche gli oppressi intellettuali, con una laurea e anche più, oppressi anche quando si illudono di non esserlo, di avere una loro autonomia di pratiche e di pensiero. Servi inconsci o servi volontari. Servi spontanei, si potrebbe dire. E si tratta di liberare anche loro. Il nostro compito è anche quello di ridare senso e valore alla cultura e all’arte, ed è quello di liberarci noi insieme ai nostri amici e ai nostri simili, e di liberare più gente possibile intorno a noi, ma in alleanza soprattutto con gli ultimi. Considerando però che ultimi sono oggi non solo gli immigrati, non solo i malati, non solo i poveri, non solo i bambini (il «nuovo giorno», il domani) ma anche gli «stupidi», coloro che si fanno quotidianamente ingannare dai portatori di «cultura» per conto delle banche.

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capitolo secondo

Autori e opere

I registi del no Uno studioso serio, Santiago Juan-Navarro, che insegna in Florida e si è occupato di Cortázar, di letteratura dell’utopia e del post-moderno, ha stilato un lunghissimo elenco di film e documentari sul tema Anarchism and Film, recuperabile in rete, ed esiste perfino una rivista californiana, non meno accademica, «Arena», che ha dedicato un numero (e forse più) a Anarchist Film and Video… Nell’elenco di Juan-Navarro sono registrati tutti i documentari e i film «di parte anarchica», e una gran qualità di film che si possono definire anarchici solo genericamente. Un lavoro ottimo, ma, come i testi di «Arena», è così specialistico e minuzioso che finisce per spaventare chi ha voglia di ragionare sulla presenza di un filone di ispirazione latamente anarchica nella storia del cinema, sia in autori più o meno coscienti di questa appartenenza o affinità o simpatia, sia in autori che vengono decisamente da altrove. Troppi titoli, troppa generosità nel far diventare anarchici registi dalle origini e dalle ideologie più di39

sparate. O troppe specifiche precisazioni storiche, catalogazioni che non escludono titoli minori e minimi prodotti in particolari momenti della storia sociale del Novecento, di origine dichiaratamente anarchica ma interessanti solo come documento. Eppure l’elenco di Juan-Navarro è stimolante e curioso anche perché ascrive entusiasticamente all’anarchismo titoli inaspettati, discutibili… L’elenco si ferma ai primi anni Novanta dello scorso secolo; segnalo due aggiunte, che danno un’idea dell’uso che della parola «anarchia» viene fatto dalla feccia dello spettacolo (e del giornalismo), due titoli recenti di filmacci che, come si dice, fanno vomitare, e che si servono ignobilmente della parola «anarchia»: Anarchia. La notte del giudizio di tale James Del Monaco, e Sons of Anarchy. Fine della corsa di tale Karl Sutter, ennesimo derivato televisivo sul tema del Selvaggio con Marlon Brando. Il sistema dello spettacolo fa, come si sa, polpette di tutto. D’altronde la parola «anarchia» è stata usata da due secoli come sinonimo di (seguo lo Zanichelli) mancanza di governo, sovversivismo, nichilismo, confusione, disordine, babilonia, disorganizzazione. Tra i suoi contrari: disciplina, dittatura, conformismo… Ma per fortuna anche armonia, democrazia. Ma davvero il pensiero anarchico esclude l’aspirazione all’armonia o a una democrazia reale? Ed esclude l’idea dell’autodisciplina o di una disciplina di gruppo liberamente definita e accettata dai suoi membri? (Un ricordo personale: quando nel 1956 Danilo Dolci, nel processo che venne intentato a lui e ai suoi sodali per uno «sciopero alla rovescia», si difese dicendo, da ottimo praticante della disobbedienza civile, «io non sono un anarchico», fu redarguito da Armando Borghi per il distorto uso della parola e riconobbe onestamente il suo torto). La necessità di ridefinire i termini basilari delle nostre convinzioni è assoluta, visti gli usi che ne vengono fatti. Non seguirò né la strada della genericità né quella della rigidità nell’individuare le istanze anarchiche nel cinema che ho visto nel corso di una vita, e non sarò fedele al principio secon40

do il quale è anarchico chi dichiara ufficialmente di esserlo (e sì, ci sono registi che lo rivendicano, molto velleitari, ma i cui film valgono poco o niente: di sedicenti anarchici è pieno oggi il pianeta, una moda tra le tante, provvisoria e assolutoria). Nella nostra rapida carrellata si parlerà rapidamente di due tipi di registi nelle cui opere (anche se poche tra le tante che alcuni di loro hanno diretto) ci sembra di cogliere una visione del mondo e delle cose fortemente critica nei confronti del mondo così com’è, un rifiuto o una proposta, un no o un sì. Di fatto, sono queste le due tendenze da esplorare, quella di chi crede nella possibilità di un mondo migliore, liberato, libero, e quella di chi dispera, e ne denuncia tutta l’ingiustizia, tutto il dolore, attribuendone le cause sia alla condizione umana che alla società che l’uomo si è dato offrendo spazio ai più arroganti e determinati e cinici tra i suoi membri.

Prima di tutti, Charlot Ai due estremi di questa biforcazione io vedo due registi francesi, nati a poco tempo di distanza l’uno dall’altro, Jean Vigo (1905) e Robert Bresson (1907), ma morti il primo a 29 anni, nel 1934, e il secondo sul finire del secolo, a 92 anni, nel 1999. Ma prima di loro, antesignano di Vigo con la differenza che non era affatto anarchico nella vita professionale, nonostante il suo coraggio all’epoca della caccia alle streghe, sta Charles Chaplin, o meglio la sua creazione, Charlot. Di recente, un giovane filosofo francese di quelli meno superflui ancorché parigino, Guillaume Le Blanc, ha scritto che «Charlot rimette in questione tutte le condivisioni sociali tra il grande e il piccolo, il centro e la periferia, il dentro e il fuori, il normale e il patologico: bisogna veramente vivere lavorando? cosa significa essere innamorati? ed essere padre? siamo tenuti a essere cittadini patrioti?». Charlot contesta «il mondo comune per renderlo effettivamente più co41

mune, più condivisibile, per reinventare la democrazia. Non è forse la forza ultima di Chaplin e del suo personaggio che ci allontana dal nichilismo che sembra di nuovo incombere sulla nostra epoca?». L’opera di Chaplin è troppo nota perché ci sia bisogno di ricordarla qui, ma quali sono i suoi film che risentono maggiormente di un pensiero anarchico? Direi tutta o quasi l’opera del muto, con le vette del Pellegrino, del Monello, del Circo (e sarebbero da esplorare le tante opere dedicate al mondo del circo come metafora di libertà, le cui regole non sono quelle della società «normale») e, con l’accettazione controvoglia del sonoro, Tempi moderni e Monsieur Verdoux, mentre Un re a New York, pur essendo una dichiarazione di efferata ripulsa dell’american way of life, manca della radicalità ideologica dei due precedenti capolavori, il primo che affronta di petto la società industriale e le sue aberrazioni (la condizione operaia), da cui Charlot e «la monella» fuggono verso un mondo più sano che è però tutto da inventare o da reinventare, e il secondo che dice l’orrore per la carneficina della seconda guerra mondiale, orrida impresa dei potenti di più nazioni, comparandolo alle soluzioni criminali di un individuo costretto dalla necessità. Ripeto: grande cinema anarchico di un regista molto capitalista. Nel muto e nel sonoro, Chaplin ha avuto tuttavia qualche rivale nel campo del comico più attento all’insensatezza della società (e del genere umano), come aggressione all’ordine esistente, ma non proposta di un ordine altro: una critica che dal sociale si spinge fino al metafisico e al paradosso, nei geniali corti di Stan Laurel e Oliver Hardy e nei fratelli Marx distruttori di ogni quiete ma soprattutto della quiete borghese, su fino ai loro ultimi grandi allievi, il regista Frank Tashlin e l’attore-regista Jerry Lewis, al nostro comico più grande, Totò, fino al gruppo inglese dei Monty Python e ai film di Terry Gilliam (Brazil, La leggenda del re pescatore, Paura e delirio a Las Vegas, L’esercito delle 12 scimmie) che dal gruppo nacque, e alle fantasie di Tim Bur42

ton (da Edward mani di forbice a Big Fish) e del più superficiale John Landis (da I Blues Brothers a Una poltrona per due), fino al francese, ben più rigoroso e geniale, Jacques Tati (da Mio zio a Trafic), un osservatore gentilmente spietato delle mutazioni nella società urbana e nella mentalità comune della modernità e dei suoi esiti nell’umano. Eversivi demolitori, i comici, di un ordine che non è solo sociale e storico, ma anche quello che imbriglia le nostre aspirazioni a volare… Naturalmente, non tutti hanno mantenuto le promesse di partenza, rivelando la fragilità delle loro visioni in conseguenza dei ricatti del mercato, e naturalmente non mancano comici di successo che sono filistei, codini, rimasticatori e consolatori del peggio, italiani compresi. E se Nanni Moretti non ha mai affondato il bisturi in niente che non fosse già molle, se Carlo Verdone si ferma sempre troppo presto, Roberto Benigni, che ci sembrava quello più geniale (Berlinguer ti voglio bene è un risultato unico), si è rivelato ben presto come il più conforme di tutti alle logiche scalfariane e veltroniane, ergo, senza troppo scavare, berlusconiane.

Jean Vigo, il regista del sì Ma torniamo ai grandi. Dopo Chaplin, Vigo, che fu anarchico anche nella sua breve esistenza. La vitalità, la carica di simpatia e di entusiasmo di Jean Vigo erano anche un frutto dell’età, di un amore per la vita che gli anni e l’esperienza della storia e del mondo non hanno potuto fiaccare. Anche se Vigo ha visto la prima guerra mondiale, la sua carica vitale non ne ha risentito, ed egli ha preso dal mondo adulto solo la parte più generosa e aperta. A cominciare dal padre, l’anarchico Almereyda, morto misteriosamente in carcere, nel 1917, probabilmente per mano di qualche poliziotto, che nel suo lavoro di fondatore di giornali e giornalista si era concesso, pare, un’eccessiva spregiudicatezza nel muoversi dentro vicende politiche non proprio esemplari, 43

condizionate dalla peggior borghesia del suo tempo. Su di lui le testimonianze divergono, come racconta bene il biografo dello sfortunato regista, Paulo Emílio Sales Gomes, che ha anche scritto una biografia di Almereyda. Quello su Vigo è uno dei più bei libri mai scritti su un regista (1957; l’edizione italiana, che mi vanto di aver fatto tradurre per Feltrinelli nel 1979, è oggi introvabile). Luminosa, splendida figura di giovane davvero giovane, Jean Vigo ha amato la vita anche perché sapeva che la sua sarebbe durata poco, minata dalla tisi. Ha girato avventurosamente due documentari (À propos de Nice è un allegro e feroce ritratto di un mondo adulto, corrotto, borghese) e due film, il primo dei quali un mediometraggio, con molte difficoltà. Zero in condotta (1933) e L’Atalante (1934) subirono molte traversie, e il secondo in particolare venne sconciato al punto che con estrema fatica è stato possibile ricostituirne, negli anni Ottanta, la versione originale. Essi gli hanno dato la fama di autore «maledetto» e l’hanno fatto paragonare vuoi a Rimbaud vuoi al primo Céline. In realtà, in un’opera irripetibile che acquista grazia dalle sue stesse mancanze tecniche, egli ha saputo unire alle suggestioni di un’epoca, le culturali e le politiche in lui difficilmente districabili, una tensione personale ancora nel suo primo e geniale affermarsi. Nel 1929 c’era stata la Grande crisi, e il 1934 è l’anno del tentato colpo di Stato reazionario in Francia e dell’avvio, con la reazione popolare che ne conseguì, del Fronte popolare. L’ultimo atto politico di Vigo sarà proprio la firma, unico uomo di cinema, apposta al manifesto degli intellettuali per la vigilanza antifascista. La prima avanguardia cinematografica francese, quella del formalismo estetizzante dei L’Herbier, Epstein, Delluc come quella dada del primo Clair, è stata messa in crisi dai movimenti nuovi, dalla rivolta post-bellica. Il giovane Vigo fu anche il fondatore di un cine-club in cui ha potuto proiettare e vedere le esperienze sovietiche (Vertov, Ejzenštejn, Kozincev e Trauberg…) e tedesche (il grande cinema dell’espressionismo – Lang e Murnau – 44

e quello del realismo sociale). À propos de Nice, da lui definito «un punto di vista documentato» su una città all’insegna della corruzione, e dunque dell’oro, della carne e della morte, unisce, in modo spesso goffo e forzato, a una ricerca formale che si apparenta all’avanguardia il tentativo di un cinema che vorrebbe anche essere etnologico, di constatazione sociale, ma affrontato con l’accanita violenza del pamphlet. Però è come se il rigore non gli fosse possibile, tanta è la carica di ripulsa che egli prova nei confronti di una società di cui vede bene ciò che le apparenze nascondono ed esorcizzano. Se qui è il mondo degli adulti che egli tenta di illustrare, la società del capitale, in Zéro de conduite a questo mondo viene contrapposto quello dell’infanzia, dal primo oppressa, e in L’Atalante le possibilità concrete dell’utopia, di un «cambiare la vita» che può avvenire solo in ambiente proletario e ai margini del «mondo degli adulti». Si tratta in definitiva di tre sguardi infantili sulla vita, di uno stesso modo di porsi nei suoi confronti. Il rigetto nei confronti di ciò che la società è e di ciò che tende a fare dei bambini, di esseri che hanno la potenzialità e disponibilità e libertà che sono dell’infanzia, passa attraverso la descrizione di una città dalla natura stupenda che vive del vizio e nasconde i suoi malati, i suoi vecchi, i suoi infelici; la descrizione non realistica di una rivolta di bambini in un luogo chiuso (collegio-carcere) contro adulti visti con gli occhi dei bambini, personaggi deformati dalle loro funzioni, anche se uno almeno è rimasto sul fondo bambino e sta dunque dalla loro parte; e la descrizione di uno spazio chiuso da libro d’avventura (la chiatta, sui fiumi e canali, ai margini della città e della società) dove anche la famiglia, non anagrafica, e cioè il gioco delle età, l’eros, l’amore, la solidarietà, possono riconquistare un senso: il vecchio, la coppia, il giovanissimo mozzo. Non si tratta, per Vigo, di quel «realismo poetico» brumoso che lanceranno più tardi Carné e Prévert, i quali pure useranno ambienti e a volte personaggi simili; si tratta di un rapporto 45

tra realtà e surrealtà in cui la deformazione onirica, la dilatazione poetica trovano un loro centro naturale in una visione pura, e anarchica, delle possibilità di una vita altra, quale soltanto la sensibilità dell’infanzia può indicare e preservare (anche nei personaggi di adulti-bambini dell’istitutore Huguet in Zero in condotta e del père Jules in L’Atalante). Si veda l’insistenza sulla corporalità dei personaggi «infantili»; sul loro recupero degli aspetti mistificati del dolore e della disgrazia; sulla festa e sul gioco (quante volte abbiamo rivisto, dopo questo film, copiata e citata la scena del lancio di cuscini nel dormitorio?). La società aliena, mortifica, tradisce. Il mondo, per Vigo, può essere salvato solo dai ragazzini. Insisto: può essere salvato.

Robert Bresson, l’estremo no Robert Bresson ha diretto soltanto film che ha potuto controllare nel loro farsi, dall’inizio alla fine. Come pochissimi altri registi è autore soltanto di quelle opere che non gli hanno chiesto compromessi, esempio pressoché unico nella storia del cinema (un altro è Dreyer) almeno fino agli anni Sessanta e rari anche dopo, quando si è imposta la nozione dell’Autore grazie alla critica francese e alle nouvelles vagues. Si è tenuto vieppiù lontano dall’industria dello spettacolo. Spesso la sua prima ispirazione è nata dalla letteratura (Diderot, due volte Bernanos, due volte Dostoevskij, e infine Tolstoj), ma anche in questo caso leggendo il testo a suo modo, e spingendolo altrove. Non ha usato attori se non nei primi tre film, perché condizionanti per la loro «esteriorità». Il suo cinema distanzia, non distrae, non consola, esige l’attenzione e il rispetto per il contenuto attraverso la massima possibile nudità e precisione della forma. I suoi personaggi sono mossi da un forte anelito volontaristico nonostante tutto, in Un condannato a morte è fuggito e fino al Processo di Giovanna d’Arco, da una ricerca di verità, di libertà e 46

infine di fedeltà alle loro convinzioni, alla loro sfida. Tentano la Grazia ma anche la provocano. Alla fine del Condannato, a evasione riuscita, compare la scritta «Il vento soffia dove vuole»; più tardi, la sfida antisociale del Pickpocket dostoevskiano è premiata dall’amore. Ma più spesso, semplicemente, vivono e soprattutto muoiono (l’asino di Au hasard, Balthazar, estrema trasfigurazione, in un asino!, di un Gesù non «unto», non Cristo, non Dio; Mouchette che sceglie il suicidio di fronte all’orrore del mondo); oppure fuggono la realtà (come il protagonista di Quattro notti di un sognatore); o cercano di capire, a partire da una sconfitta data in partenza (col suicidio della «mite» dostoevskiana di Così bella, così dolce; col fallimento nella conquista del Graal – la ricerca dell’assoluto, della conoscenza, del senso – in Lancillotto e Ginevra per Lancillotto e i suoi amici, nudi infine delle loro armature e incapaci di accettare questa nudità). Con Au hasard, Balthazar, i film più disperati e più significativi dell’ultima fase di Bresson, quella dei film in cui la Grazia tace, non interviene a salvare niente e nessuno, sono Il diavolo, probabilmente (1977) e L’argent (1988), che parlano il primo di giovani che devono confrontarsi con un mondo sempre più terribile – dove più nulla può offrire speranza, in cui non c’è posto per ideali che non sembrino, all’esigenza di verità e giustizia dei migliori, pochi, infami e grotteschi (il denaro, il successo) – e di conseguenza scelgono come Mouchette il suicidio, e il secondo di un giovane operaio che infine accetta il destino di maledizione e abiezione in cui il caso lo ha costretto quando qualcuno gli ha rifilato una banconota falsa. Se nel racconto di Tolstoj era il denaro la causa del Male, ma giunti al fondo dell’abiezione bastava il sacrificio volontario di una vecchia che ha ben inteso il messaggio evangelico a modificare il destino e a riportare nel mondo la speranza e la giustizia, Bresson getta via la seconda parte della storia, quella positiva, e porta la prima – la realtà, dunque, non la proposta, non l’ideale – alle sue estreme conseguenze, secondo un teorema ineluttabile. Il vento poteva, un tempo, soffiare dove 47

voleva, ma nell’ultima parte della sua vita Bresson questo soffio non lo avvertiva più. In un mondo in cui Dio tace, restano la violenza della miseria e della fame, quella fisica e primordiale della guerra, della brutalità fisica, quella morale dell’egoismo e della indisponibilità agli altri, quella sociale delle leggi fondate sul possesso e sul denaro. È possibile considerare anarchico questo regista che è il più pessimista tra i pessimisti, che non vede riscatto né sociale né di gruppo né individuale nel crudele mondo degli uomini, che nel suo ultimo film dichiara che il mondo è dominato dal male, ribadendo quel che nel Diavolo ha detto con estrema chiarezza? Disperazione e negazione assoluta: il percorso di assoluta coerenza di Bresson è in definitiva assai vicino all’assunto wardiano dell’anarchia come «disperazione creativa», ma che del creativo esclude – come invece accadeva nella prima parte della sua opera – la sfida, la non accettazione del mondo così com’è, l’obbligo morale di contribuire a cambiarlo – che è, mi pare, il gesto anarchico per eccellenza. In Bresson la «disperazione creativa» si spinge fino al nichilismo, ma è proprio il suo estremismo a rendercelo caro, e il suo percorso dalla speranza alla disperazione, che appartiene a tanti, oggi, a quelli che non hanno neanche più la forza per dire, con Beckett, «non posso continuare, continuerò».

Buñuel, l’entomologo In mezzo tra l’ottimismo giovanile di Vigo e l’adulta, matura disperazione di Bresson sta l’opera «entomologica» di Luis Buñuel, moralista per eccellenza, nel senso di una grande saggezza filosofica temprata dal confronto con la storia: l’infanzia cattolica, la gioventù da artista ardente e ribelle, l’esperienza della guerra civile e dell’esilio, un’adultità che guarda all’agitarsi dell’uomo mosso dai suoi istinti e a quello delle società mosse dall’uomo con una franchezza e una distanza che non escludono 48

la condivisione, la partecipazione a dilemmi e scelte che riguardano tutti, e una sorta di fredda compassione per gli altri che è coscienza della propria somiglianza, di una non diversità. Gli uomini come insetti, ma, essendo io uomo, anch’io sono insetto… Quando nel 1928 e nel 1930 gira a Parigi i suoi primi film, Un cane andaluso e L’età dell’oro, Buñuel definisce d’impeto la sua poetica, con le sue contraddizioni. Del primo, anche se la regia è di Buñuel, può dirsi coautore Dalí. Del secondo, cui Dalí collabora al soggetto ma di cui rinnega il risultato, possiamo dire autore il solo Buñuel. E tra i due film c’è differenza. Nel primo, che si presenta come un «appassionato invito all’omicidio», la provocazione e la novità sono estreme, ma non senza il sospetto di autosoddisfarsi di se medesime. Nel secondo, a suo modo più lineare e «narrativo», esplode maggiormente la tendenza di Buñuel alla «constatazione» della realtà che a lui più interessa: quella dello scontro tra l’istinto e la realtà sociale con le sue norme e convenzioni. In questo caso è la passione amorosa a confrontarsi con le regole di una società eminentemente borghese, ma stupisce oggi che i surrealisti lo abbiano letto come esaltazione dell’amour fou pronto ad abbattere ogni convenzione e freno, quando esso dice, ai nostri occhi di venuti dopo, anche l’impossibilità di una vera liberazione, i segni di una costante repressione, e finanche la derisione dello stesso «misticismo» bretoniano. Se il surrealismo ha liberato le energie creative di Buñuel, gli ha insegnato come sprigionarle, tuttavia la loro canalizzazione è autonoma e decisamente influenzata dalla sua infanzia cattolica, dalla cultura spagnola di cui è erede. Sade, Freud e Marx – la forza del desiderio contro le convenzioni, i meccanismi provocati dalla frustrazione del desiderio, i meccanismi dell’oppressione sociale borghese – si coniugano in lui in modi del tutto personali, non diventano dogma né nuova convenzione. Ed è in definitiva Freud a contare di più e Sade a contare di meno. Per Buñuel il cinema «è lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto. Il meccanismo 49

creatore delle immagini cinematografiche è, a causa del suo funzionamento, quello che tra tutti i mezzi di espressione umana ricorda meglio il lavoro dello spirito durante il sonno; il film sembra un’imitazione volontaria del sogno, sembra essere stato inventato per esprimere la vita del subcosciente, le cui radici penetrano così profondamente nella poesia…». L’intuizione della specificità del cinema, della sua azione non distanziante ma coinvolgente, scatenante le identificazioni e le associazioni più personali, liberante l’inconscio, che certamente molti altri hanno avuto ma di cui i più si sono serviti per addomesticare lo spettatore dirigendolo dove a loro piaceva, ha consentito a Buñuel un uso non mistificante del mezzo, nella continua e perseverante attenzione alla messa in crisi delle acquisizioni dello spettatore, della facilità delle sue risposte. E ha finito per ciò stesso per essere distanziante, per turbare lo spettatore, per additargli la relatività delle sue convinzioni e la loro non rispondenza alle pulsioni più intime. Tuttavia, prima che Buñuel possa permettersi un libero uso delle sue idee sul cinema, già tutte presenti in L’età dell’oro, passeranno anni. Tra questo film (1930) e Los olvidados (I figli della violenza, 1950) c’è la guerra di Spagna, l’oscuro esilio statunitense e, alla fine della guerra, il passaggio in Messico, dove Buñuel può tornare alla regia sia pure con innocui film di genere. Ma dopo Los olvidados, spietata e terribile descrizione del mondo del sottosviluppo e delle sue leggi interne, dal punto di vista delle vittime essenziali, i bambini, anche l’esercizio nel genere è fruttuoso, perché in esso Buñuel apprende a giocare da maestro nelle e sulle convinzioni narrative più viete, inoculandovi i suoi umori, la sua libertà. Non c’è un suo film in cui non vi siano sequenze decisamente oniriche e che non abbia spunti latamente o centralmente anarchici. È nei film meno realistici, dai soggetti più di favola o allegoria dove il sogno ha la sua parte, che Buñuel esprime la sua visione dell’uomo, e la sua morale anarchica. (Ma va ricordato 50

che le simpatie e pratiche anarchiche Buñuel le rinnegò dopo l’esperienza della guerra civile, o le limitò all’opera, affermando che le azioni che vi mostrava non avevano e non dovevano avere nessun rapporto con la realtà, non dovevano costituire degli esempi: l’artista può esprimere nell’opera tensioni e problemi e soluzioni che non appartengono affatto alla sua morale quotidiana; dunque, nel caso di Buñuel, alla sua accettazione delle regole della società borghese e dell’industria cinematografica…). Subida al cielo, all’apparenza bozzetto da neorealismo rosa, è nella sostanza quête prodigiosa di un giovane che la sorte premia non perché sacrifica cattolicamente il desiderio, ma perché lo afferma ed esaudisce anche a costo della vita di sua madre; El mostra la patologica gelosia in un cattolico possidente; Estasi di un delitto, esamina ironicamente le irrealizzate manie omicide e misogine di un intellettuale borghese. Sono di questi anni le pacate, serene rivendicazioni di una positiva utopia, i suoi film più positivamente anarchici nel racconto di un possibile utopico, bensì fuori dalla storia. Qualcuno troverà da ridire, ma io vedo in questi film l’eco dei film di Vigo, o una fratellanza con la visione di Vigo: in piccole comunità isolate, o addirittura in piccole isole, i contrasti di classe, razza, religione, sesso, generazione scompaiono. Ma riappaiono non appena si ritorna nella «società». Le avventure di Robinson Crusoe, La selva dei dannati e Violenza per una giovane formano in qualche modo una trilogia di salvezza, l’affermazione di un ottimismo del possibile che va contro tutto. Esprimono un’utopia, certo, ma un’utopia realizzabile: anche se per poco, quanto basta a ricordarcene la possibilità. Anche Nazarin, Viridiana e Simone del deserto, tre «vite di santi mancati», formano una trilogia. La sconfitta del modello cristiano, che nel mondo contemporaneo, quando questo modello viene perseguito senza mediazioni, provoca guai e fallimento, è però di preludio per Nazarin a una diversa comprensione della carità, attuata tra umili, per Viridiana all’accettazione di modelli più vili (un rapporto a tre), e in Si51

mone lo stilita, infine, al crollo dell’orgogliosa colonna della sua ascesi nella bolgia terrestre della newyorkese «carne radioattiva». Venature decisamente anarchiche, contro la morale borghese e la società costituita, si riscontrano in quasi tutti i suoi film, dal Diario di una cameriera a Bella di giorno, ma soprattutto nella prima delle sregolate, libere costruzioni di immensa e inventiva vitalità, come il feroce Angelo sterminatore e nel Fascino discreto della borghesia. Sono riflessioni spregiudicate, più ossessiva e claustrofobica la prima, più ironica e disinvolta la seconda, sull’impotenza della classe dominante, al culmine del suo tragitto, in un paese «sottosviluppato» come il Messico o nella squisita Francia. La via lattea è una sorta di «storia della Chiesa» attraverso le sue eresie, e conclude sull’ambiguità del messaggio cristiano e la sua incapacità di parlare in modo chiaro all’uomo di ieri e di oggi. Il fantasma della libertà tratta di un’altra ambiguità, quella della speranza politica della trasformazione del mondo e della relatività del concetto stesso di libertà. Nella perfetta coerenza di questo regista, sembravano scomparsi negli ultimi due decenni di attività (è morto nel 1983) i riferimenti a una possibilità dell’uomo di uscire dai suoi condizionamenti, di «superarsi». Ogni utopia era crollata e al suo posto, di fronte all’orrore della storia, in storie vieppiù prive di tempo storico definito, restava una distaccata, più saggia che sapiente, morale di vecchio. Pochi artisti del nostro secolo hanno, come lui, così mirabilmente e nei modi più classici, più antichi, descritto le passioni umane e le loro miserie, l’impossibilità delle liberazioni individuali (e le mitizzazioni di queste), così come l’impossibilità di soluzione dei conflitti che oppongono la realizzazione individuale alla società, a qualsiasi società organizzata, di per sé costrittiva e oppressiva, così come l’inanità degli slanci migliori dell’individuo alla solidarietà e alla trasformazione. Restava in lui, o ritornava, qualcosa di un pessimismo in definitiva cattolico. L’uomo non ha riscatto, deve affidarsi a un’entità superiore, a un Dio, per accettare e accettarsi, vivere e fare. Gli inu52

tili scontri tra umani nel finale di Il fantasma della libertà sono osservati dal regista che voleva diventare entomologo attraverso lo sguardo distantissimo di uno struzzo che è destinato, forse, a sopravviverci. I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, ha scritto Buñuel nelle sue memorie, sono da tempo in azione per la fine del mondo: la Scienza, la Tecnologia, la Sovrappopolazione e, non il meno temibile, l’Informazione, che oggi avrebbe chiamato sicuramente Comunicazione. Fiducioso nelle possibilità dell’uomo Vigo; disperato sull’uomo e su Dio Bresson; saggio disincantato e distante, forse troppo, Buñuel. Tre modi esemplari di rapportarsi al mondo e di intendere la funzione dell’arte. Di questa distanza e di queste forme di saggezza continuiamo ad avere gran bisogno: anche se non ci danno indicazioni utili ad andare avanti e non ci propongono modelli imitabili, ci mettono di fronte alla possibilità di essere uomini e non schiavi, vivi e non zombie.

I francesi. Henri-Georges Clouzot Altri registi hanno dimostrato nelle loro opere propensioni simili, i migliori, non i faccendieri del mercato, non i «comunicatori» ossequienti alle idee correnti (alle idee diffuse dal potere, che fanno comodo al potere), non i narcisetti delle scuole di cinema, i velleitari privi di talento e quelli privi di idee e quelli privi di morale, non i ribelli da barzelletta (ogni anno, per esempio, salta fuori in Francia o altrove qualche giovane cretino che si finge o si crede erede di Rimbaud) eccetera. Parliamo di Autori Veri, grandi o meno grandi, ma che nel loro percorso hanno espresso visioni e convinzioni che ci appartengono. Cercheremo, per farlo, di segnalare quel che vale e tacere del resto, in un elenco che si spera non troppo arido e ricordando la distinzione operata a proposito di Vigo, Bresson e Buñuel… È ovvio che, 53

nell’arbitrarietà di questa catalogazione, ci sono tanti altri nomi, noti o meno noti, che meritano il nostro rispetto, la nostra ammirazione, o perfino il nostro affetto. Di essi e delle loro opere si è scritto altrove, e si continuerà a scrivere. Hanno lavorato in epoche diverse da questa e, se lavorano in questa, altre sono le loro preoccupazioni che non quelle immediatamente sociali. Ci sono molti modi di raccontare la vita, il presente, l’oppressione e la libertà, la bruttezza e la bellezza del genere umano, alcuni dei quali, grazie a film sinceri e sofferti, profondi, i cui autori non vanno considerati affatto inferiori a quelli ricordati nelle pagine che seguono, non possiamo però ascrivere a una visione anarchica dell’esistenza. È forse utile tentare un elenco dei nomi più notevoli della storia del cinema legati alla nostra idea di anarchia. Ma procediamo per ordine, la cosa più semplice è di esaminare a volo d’uccello le diverse cinematografie, per quello che possiamo ricordare dei loro film dallo sguardo critico vicino al nostro. Vigo e Bresson erano francesi, come Clouzot di cui scriveremo tra poco. Partiamo dunque dalla Francia, in ordine alfabetico, scavando tra i nostri ricordi di spettatori. Dunque: Claude Autant-Lara, partito a sinistra e finito a destra, per disgusto della nouvelle vague e del modo in cui lo trattarono i «Cahiers du cinéma» (Il diavolo in corpo, dal grande romanzo, molto anarchico, di Raymond Radiguet, grido d’amore e di rivolta giovanile contro le convenzioni borghesi e contro la guerra, La traversata di Parigi, Non uccidere, che fu un manifesto dell’obiezione di coscienza al pari della canzone di Boris Vian Il disertore); Jacques Becker (il cui Casco d’oro è uno dei più bei film della storia del cinema e la più bella rievocazione dell’Ottocento parigino negli anni della «banda Bonnot», con un bel personaggio di vecchio anarcoide interpretato da Gaston Modot; ma di Becker va assolutamente visto e considerato anche Il buco, sul carcere); Claude Chabrol (pseudo-anarchico alla Brassens, astuto, borghese antiborghese secondo una forte tradizione del suo paese…); Patrice Chéreau, 54

bravo in cinema come in teatro (Intimacy, Son frère, Persécution, Gabrielle…); Marcel Carné (con Jacques Prévert sceneggiatore: Alba tragica, e basta – ma di Prévert sono molto simpatici i film anarcoidi che scrisse con e per il fratello Pierre); René Clément (Che gioia vivere, film in costume girato a Roma sulle avventure di un giovane anarchico di inizi Novecento – un film superficiale ma non spregevole…); Julien Duvivier (Panico, da Simenon, ferocemente misantropico e misogallico); Georges Franju (La fossa dei disperati, ovvero, nell’originale, La testa contro il muro); Pierre Granier-Defferre (L’evaso, da Simenon, su un bel personaggio di anarchico e della vedova contadina che lo nasconde); Cédric Kahn (Roberto Succo, su un personaggio reale di giovane pazzoide e criminale italiano in Francia su cui ha scritto un bel lavoro teatrale uno scrittore che possiamo a ben diritto definire anarchico, Bernard-Marie Koltès); Chris Marker (fedele al bolscevismo delle origini, ma formidabile «documentarista» della Francia al tempo della guerra d’Algeria in Le joli mai e della storia e sconfitta dei movimenti – di studenti, operai e colonizzati del pianeta – in particolare negli anni Sessanta e Settanta e Ottanta del Novecento in Le fond de l’air est rouge); Max Ophuls (La ronde); Maurice Pialat (Ai nostri amori); Jean Renoir (Il delitto del signor Lange, un gioiello del Fronte popolare che elogia, anzi esalta, l’uccisione di un viscido padrone); lo svizzero Alain Tanner (Jonas che avrà vent’anni nel 2000, ancora sul ’68 e il dopo, scritto da John Berger); André Téchiné (c’è qualcosa in ognuno dei suoi film che ci fa pensare all’anarchia…); il François Truffaut degli inizi e il meno melenso e «tanto umano» (I 400 colpi, Jules e Jim); Agnès Varda (Senza tetto né legge, ritratto di una giovane proletaria naturalmente «anarchica») eccetera. Soffermiamoci su due nomi di punta, uno del «cinema di papà» e uno della nouvelle vague. Tra i «disperati» ha un posto d’onore Henri-Georges Clouzot, con film come Il corvo, Manon, I diabolici, Vite vendute, altrettanti spietati capi d’opera il migliore dei quali è il secondo. Clouzot ha vissuto gli anni dell’occupazio55

ne nazista della Francia e della guerra del dopoguerra, e ha maturato una visione dell’uomo tutt’altro che ottimista. Si è usciti dal massacro accentuando gli elementi di speranza nel futuro, nel ricominciare (vedi il neorealismo italiano, con l’eccezione di Rossellini), e se ne è usciti constatando di cosa l’uomo era stato capace di fare all’uomo. Due modi opposti e ugualmente comprensibili, ma la disperazione ha avuto nel cinema un diritto di cittadinanza molto inferiore a quello concesso alla speranza… Al fondo dell’opera di Clouzot c’è una molla esistenziale che sa farsi, come negli artisti più seri, teorica. È anche per questo che ce ne occupiamo, perché ci aiuta a risalire, a distinguere. Dovessimo dire quali furono i capisaldi della cultura francese anche popolare degli anni tra occupazione, dopoguerra e ricostruzione, non esiteremmo a metter vicini nomi apparentemente disparati per il loro modo di reagire all’ambiente, all’epoca, al suo malessere più profondo. Parliamo di Camus, anzitutto, e del suo Lo straniero, ma anche del suo teatro (Il malinteso, Caligola…) e dei suoi saggi (Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta…), e poi di Simenon, quello di La neve era sporca e del progetto di mostrare «l’uomo nudo» in tanti altri romanzi su quegli anni e di quegli anni. Anche Clouzot intendeva mostrare «l’uomo nudo», ma se Camus si distanziava dai pessimisti alla Clouzot per una sorta di disperazione attiva, per la volontà di reagire al male dell’epoca, un male che aveva espresso in modi nuovi un male di sempre, Simenon se ne distingueva invece per il fondo di religiosa pietà per la debolezza dell’uomo, per la fragilità dell’uomo. Camus e Simenon coglievano il tempo, possiamo dire, in assoluto, mentre Clouzot più che a loro era forse vicino a Céline, la cui vicenda somigliò alla sua, ma con ben altra compromissione e tragicità. Potremmo riassumere rozzamente dicendo che Camus (e anche Sartre, in modo meno libero) era uomo «di sinistra» anche se non amato dalla sinistra ufficiale e dai suoi portavoce intellettuali (e più tardi, per la sua au56

tonomia e radicalità anti-ideologica, dallo stesso Sartre), che Simenon era un uomo di «centro» e che Céline e Clouzot erano uomini «di destra»… Ma che vuol dire, se poi, oggi, e già in ieri lontani, trovavamo in questi autori, in tanti e tantissimi cresciuti nel dopoguerra, un nutrimento non dissimile? Vuol dire semplicemente che questi autori ragionavano sul mondo con la propria testa e rifiutavano – come Céline, pur dentro le sue furie – di ragionarvi con la testa degli ottimisti a oltranza. Coloro che uscirono dalla guerra ancora fiduciosi nelle possibilità dell’uomo di ridestarsi al meglio, dimenticavano o sottovalutavano Auschwitz e Hiroshima, ma si trovavano accanto popoli stanchi di guerra e desiderosi di tempi migliori. Se Il corvo fu il film dell’occupazione, Manon fu un ritratto eccezionale e sintetico di tutto il malsano presente nell’ancora confusa società dell’immediato dopoguerra. Insistiamo su Clouzot perché il discorso si allarghi. Il cinismo così spesso rimproverato a Clouzot ci è sembrato molte volte più una veste che una sostanza, mentre la sostanza era, ancora e sempre, la ferita della conoscenza, la scoperta del male dell’uomo e, per Clouzot e non solo per lui, della sua incurabilità. La realtà gli ha dato col tempo ragione, e gli scrittori e registi dei nostri anni ce lo ricordano perfino con voluttà, con un compiacimento che arriva molto spesso a disgustarci. Alla retorica del bene e dell’ottimismo si è sostituita a volte la retorica della sottovalutazione o della dimenticanza della presenza del male (in nome di un fasullo «eternamente umano») e ancora più spesso una retorica, talmente esplicita da risultare ugualmente falsa e fastidiosa, di un pessimismo che, contrariamente alla retorica degli anni dopo la guerra, è di resa al male (o al labirinto). Il conformismo dei «pessimisti» di oggi è pari o maggiore a quello degli zavattiniani di ieri, che si davano almeno la giustificazione della costruzione, della ricostruzione.

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La confusa rivolta di Jean-Luc Godard Se si è insistito su Clouzot, mai molto amato dalla critica, è perché appartiene anche lui al filone della «disperazione creativa», anche se in modo certamente più spurio che nel purissimo Bresson. E restando in Francia ci viene spontaneo ricordare che la nouvelle vague non lo amò particolarmente, proiettata a sua volta nella tensione verso il futuro o, per esempio con Godard, nell’esplorazione delle aporie del presente. Jean-Luc Godard ha volentieri civettato con la definizione di anarchico, ma è sempre stato troppo onnivoro e narciso per dar coerenza alle sue intuizioni, trincerandosi progressivamente in un atteggiamento di superiore distanza filosofica, volentieri irritante. La sua ostinata riflessione sulle forme, sul linguaggio, gli ha negato sia la limpidezza delle idee che la forza del discorso, ma con alcune mirabili eccezioni là dove più che il suo girovagare citazionistico ci colpivano i volti e i paesaggi della società. L’unità della sua opera sta nell’essere di fatto un diario, che egli stima critico e rappresentativo della sua epoca. L’esplorazione delle forme non esclude mai l’ambizione alla definizione del proprio tempo, delle sue evidenze come delle sue contraddizioni. Seguirlo nel suo percorso, «leggere» questo diario, è estenuante, e si ha di meglio da fare che dedicare il proprio tempo all’opera di un solo autore. Ma ci sono cose di Godard che ci hanno molto convinto. Nel 1962, con Vivre sa vie, mostrava il passaggio alla prostituzione (e alla morte) di una ragazza con grande ricchezza di implicazioni sia narrative che sociologiche. Ci incuriosì Alphaville, che fingeva di parlare di un mondo futuro e descriveva in realtà la logica totalitaria della società industriale. Una donna sposata, Il maschio e la femmina e soprattutto Due o tre cose che so di lei, dove «lei» era anche la regione parigina, ci apparvero anzitutto come la descrizione della lotta dell’autore contro le sue tendenze misogine, dentro un paesaggio sociale molto preciso le cui novità mirano a impedire qualsiasi possibilità di liberazione reale. Il 58

bandito delle 11 fu una dichiarazione di disorientamento, ma La cinese (1967) era un preveggente discorso sulla gioventù, le sue irrequietudini, la sua rivolta e la sua ricerca, con un finale insolitamente aperto a più soluzioni (il suicidio, l’adesione alla sinistra tradizionale, il terrorismo, il «lavoro sociale» semi-istituzionale). Il cinema non serve più a cercare soltanto la verità del cinema, bensì la verità delle cose, dei rapporti, dei conflitti. Week-end diventa allora la più cupa critica del presente che il cinema di quegli anni abbia forse dato, un assurdo viaggio tra massificazione, consumo ed etero-direzione, verso il baratro di una cannibalica autodistruzione di tutto un sistema, sia pur rappresentata da nichilisti guerriglieri-hippies di metaforica ambiguità, partecipi dello sconquasso del futuro prossimo venturo. Il ’68 sospinse Godard verso un cinema «militante» piuttosto arido, a volte astruso, un’astrusità di cui il regista si è compiaciuto e si compiace – ammirevole solo per la volontà di operare fuori o ai margini del sistema ufficiale (e delle idee ufficiali, del cinema ufficiale) – e in cui si può parlare di anarchia, mi pare, solo per il modo di agire, per la sua scelta della marginalità, ma di rado per le analisi e le proposte che i film dichiarano, soffocati da una sperimentazione solitaria. Che non sappiamo dire quanto disperata e quanto invece, nel suo solipsismo, autoconsolatoria. C’è una grande differenza tra individualismo e anarchia anche nel caso di Godard.

Sam Peckinpah e Robert Altman, oltre Hollywood Spostiamoci negli usa, la principale potenza cinematografica ed economica del pianeta, e diamo la precedenza a una figura che ci sembra tra le poche disperatamente anarchiche nella storia di quella cinematografia. Parlo di un altro estremista-non-ottimista, di Sam Peckinpah, che si è spento precocemente ucciso dall’alcool nel 1984, a 58 anni, dopo aver girato un ultimo film, 59

che era allo stesso tempo molto stanco e superficialmente provocatorio e che, contrariamente ai suoi migliori e più noti, non era un western, il genere che era stato per lui il terreno ideale per la rappresentazione della sua filosofia negativa. Nel cinema di Peckinpah, i rapporti tra gli uomini sono comparati, nel preambolo a Il mucchio selvaggio, che è il più possente e controllato dei suoi film, a quelli tra scorpioni stimolati al combattimento e poi uccisi per divertimento da un gruppo di bambini, da un’insensatezza innocente e misteriosa come quella di dèi lontani e nemici. Era stato col terzo dei suoi western, Sierra Charriba, tartassato dalla produzione, che Peckinpah aveva scoperto le sue carte, con una forza tale da dover rinunciare, a causa dell’ostracismo degli studios, a girare altri film per cinque anni. Lo sfondo era storico: un Messico dove si scontrano gli eserciti del Messico, della Francia, della Germania, degli usa, e gli Apache, e i fuorilegge: tutti contro tutti, in un assurdo concerto di orrori. Più lineare e controllato, Il mucchio selvaggio (1969) si apriva e chiudeva con un massacro in un universo crudele dove la necessità provoca la violenza. Inseguiti e inseguitori, militari, banditi, poliziotti, sono tutti mossi da un istinto di morte; a salvarsi sono solo i contadini, eco di una radice naturale, i soli degni di sopravvivere alla grande carneficina, perché più natura che civiltà. (Questi film, il secondo di enorme successo, erano anche la risposta di Peckinpah al western italiano, alla sua retorica cinica; ugualmente violenti e «sporchi», erano però retti da una visione alta e tragica dell’esistenza e della storia, e da essa giustificati). In Pat Garrett e Billy the Kid, c’è una chiara analisi delle origini economiche della violenza: i grandi proprietari monopolisti, le banche, il capitale che invade il West e tutto muove. La violenza è continua, in queste praterie senza contrade, casuale, raramente motivata. Getaway, da Jim Thompson, metteva in scena l’America contemporanea: prigioni, autostrade, banche, poliziotti e grandi organizzazioni politico-mafiose. La coppia protagonista 60

si mette contro tutti ed è inseguita da tutti; la sua logica non è però diversa da quella degli altri, è quella della ricerca di uno spazio economico dentro una giungla. È il caso – nella persona di uno di quei vecchi che Peckinpah ama – a dar successo alla loro impresa criminale dentro un contesto criminale. Peckinpah è tra i pochi registi che hanno premiato gli eversori invece che punirli. In un film crepuscolare ed elegiaco, strana ma significativa parentesi nella serie delle stragi, L’ultimo buscadero, al centro c’è la famiglia, il rapporto padre-figlio. Chiede il padre al figlio tornato all’ovile: «Se questo mondo è tutto per i vincitori, che cosa rimane ai perdenti?», e Junior risponde che «qualcuno deve pur tener fermi i cavalli». Junior accetta le norme della società con lucida amarezza, ma la parte di autonomia e di integrità che si propone di preservare è davvero sufficiente? I film successivi, western o di guerra, ripropongono un’analisi che è se possibile anche più nera, ma compiaciuta: Peckinpah sa di aver perso la sua battaglia d’autore e di uomo, e si consegna alla logica spettacolare della violenza, che avrebbe voluto indirizzare nel mentre che deflagra, e il suo anarchismo si vena di tentazioni destrorse e demagogiche. Non era la prima volta che questo capitava, e non è stata l’ultima. L’altro grande regista americano, trionfatore degli anni Settanta, che furono gli ultimi di una qualche libertà per gli Autori alle prese con Hollywood, è stato Robert Altman. Ha avuto una bella e lunga stagione di opere degne e forti, letture acri del «mondo com’è», che hanno accompagnato e previsto la mutazione di Hollywood e l’avvento di una forma più massiccia e spaventante di «società dello spettacolo», alla quale ha poi finito per arrendersi confusamente, da sopravvissuto, riuscendo solo con America oggi (1993) a dare un’opera degna delle sue migliori, tutte degli anni Settanta, che furono gli ultimi, non solo negli usa, in cui il cinema riuscì ancora a dialogare attivamente con le masse degli spettatori, prima della loro completa sottomissione ai diktat delle grandi banche. America oggi intrecciava più racconti 61

di Raymond Carver facendone un romanzo della nostra epoca e dell’incombente mutazione di un popolo (da uomini a robot, a cavie, a sconclusionati e disorientati morti viventi) per ritratti semplici, evidenti, a volte agghiaccianti, e anche per questo era un bel film, un film in cui Altman ritrovava se stesso grazie a qualcuno che aveva avuto uno sguardo sull’America non diverso dal suo, anche se forse più pietoso. Di Altman ricordiamo con particolare simpatia M.A.S.H., un film di guerra più unico che raro, che ebbe il coraggio di essere una farsa smodata sui disastri della guerra, e Il lungo addio, da Chandler, in cui la rivisitazione di un classico del noir gli permetteva la visitazione di un paese confuso amaro disorientato. E soprattutto Nashville, perfetto e agghiacciante ritratto di un decennio decisivo, il decennio che ha segnato la fine della speranza di poter cambiare qualcosa dello stato del mondo e dei rapporti tra gli umani. Ma anarchico è forse soltanto il percorso professionale di questo regista, non la sua visione, in definitiva interna ai meccanismi dello spettacolo anche se ne è risultata vittima.

Talvolta, anche a Hollywood È però bene fare qualche passo indietro ed elencare, pro memoria, le opere, anche occasionali, di autori che ci hanno consegnato una lettura della società americana che, nella denuncia e molto più raramente nella proposta, hanno affermato o sfiorato una visione di quella società che ha qualcosa a che fare con l’anarchia e con i modi di reagirvi. Prima della Grande Mutazione. Essendo il cinema statunitense il più potente del mondo – anche dal punto di vista della distribuzione e dell’esercizio – e il più efficace e invasivo nella colonizzazione dell’inconscio di milioni di spettatori, vale la pena di elencare sommariamente quei registi e quelle opere che, nella massa delle merci, hanno saputo mostrare 62

e dire cose diverse da quelle del mainstream del modello unico e ossessivo dell’american way of life, anche se alla fine ritornando a fare, dopo un film o due più critici e azzardati, ciò che il sistema accetta e che anzi vuole e impone. Velocemente, dunque, e in ordine alfabetico e non cronologico e mescolando le proposte, le ripulse, le rivolte: Robert Aldrich (L’ultimo apache), Hal Ashby (Oltre il giardino, da Kosinski), László Benedek (Il selvaggio), John Boorman (tra Londra e Hollywood, in una stagione intensa e irripetibile, Leone l’ultimo, Senza un attimo di tregua, Un tranquillo week-end di paura, Duello nel Pacifico), Richard Brooks (I professionisti), Todd Browning (Freaks), Francis Ford Coppola (La conversazione, Rusty il selvaggio, Apocalypse Now), Roger Corman (e le sue dozzine di filmetti, anarchici quantomeno nel sistema di produzione e lavorazione, anzi autarchici), Frank Borzage (Il fiume, Vicino alle stelle), John Ford (Furore, ovvero la ballata di Tom Joad cantata da Steinbeck e al suo seguito da Woody Guthrie, da Bruce Springsteen e inaspettatamente dal grande Ford), Henry Hathaway (che ha diretto, tra tanti film di tutti i tipi, il più bello dei film di corsari e il più chiaro nelle convinzioni anarchiche di quella società marginale e alternativa, Il cigno nero), Monte Hellman (vedi Corman, ma con maggiori ambizioni autoriali), Alfred Hitchcock (Gli uccelli, la visione più misantropica mai azzardata dal cinema americano), John Huston (L’anima e la carne, La Regina d’Africa; ecco un regista che si voleva anarchico ma era, diciamo così, non prendendolo troppo sul serio, anarco-capitalista – una contraddizione in termini), Elia Kazan (solo in due film della maturità: America America e Il compromesso), Stanley Kubrick (Orizzonti di gloria, Spartacus, Il dottor Stranamore, Lolita, Arancia meccanica, Shining, Full Metal Jacket; ma il discorso su Kubrick ci porterebbe troppo lontano, e vale per lui quanto si è scritto di Buñuel, con la constatazione aggiuntiva di un minore calore umano, di un’interna e cerebrale freddezza), Fritz Lang (Furia, Sono innocente, Rancho Notorius, Il grande caldo…, riflessioni sull’assurdo 63

delle costrizioni sociali e sulla rivolta, ma anche messe in guardia dal rischio di diventare, nella rivolta, simili a coloro contro i quali ci si ribella; indirettamente, riflessione sui fini e sui mezzi), Joseph H. Lewis (La sanguinaria), Joseph Losey (di fatto comunista accanito, ma grande regista tentato da spiegazioni ulteriori: Il servo, La grande notte, Per il re e per la patria…), Ernst Lubitsch (Partita a quattro; esiste anche un anarchismo borghese, quantomeno sul piano dei comportamenti sessuali!), Sidney Lumet (Quel pomeriggio di un giorno da cani), Anthony Mann (Lo sperone nudo), Lewis Milestone (All’ovest niente di nuovo), Arthur Penn (Bonnie and Clyde, Il piccolo grande uomo, ma soprattutto la sincera storia di una comune hippie, Alice’s Restaurant), Nicholas Ray (Neve rossa, La vera storia di Jess il bandito, che è uno dei suoi racconti di giovani ribelli che trovano solo nell’amore una ragione per vivere), Martin Ritt (I cospiratori), Robert Rossen (Lo spaccone, Tutti gli uomini del re), Joseph von Sternberg (I dannati dell’oceano, L’ isola della donna contesa), Preston Sturges (Il miracolo del villaggio, Ritrovarsi), Orson Welles (La signora di Shanghai, L’ infernale Quinlan), Billy Wilder (L’appartamento), King Vidor (La fonte meravigliosa), Raoul Walsh (Una pallottola per Roy, storia di gangster, e Gli amanti della città sepolta, che ne è il rifacimento western, più bello dell’originale), Edgar G. Ulmer (Fratelli messicani)… Dopo John Cassavetes – autore di transizione e anarchico nella vita quanto attento nelle opere alla demistificazione delle logiche di potere che pervadono i rapporti tra le persone e quelli tra chi conta e chi conta poco o conta niente, più vicini al nostro tempo – e in pieno dentro la crisi del rapporto registaspettatore provocato dal dominio finanziario e politico sulla produzione, dalle strategie di controllo attuate con assoluta decisione dal nuovo sistema di potere post-democratico, alcuni registi riescono ancora a esprimere con fatica, e facendosi in qualche modo manager o produttori di se stessi, una diversità critica, a mostrarsi «non conciliati» con il modello di vita 64

che dovrebbero propagandare. Ricordiamo almeno David Cronenberg esploratore dell’orrore dei mondi nuovi, Todd Haynes della solitudine dei diversi, Jim Jarmusch delle bizzarrie della sorte e della condizione umana (Stranger than Paradise, Dead Man, Ghost Dog e soprattutto il più recente Solo gli amanti sopravvivono), e ancora David Lynch (le visioni nere fin troppo puritane di Eraserhead, Elephant Man, Velluto blu eccetera, ma anche la visione calorosa e affettuosa del possibile che è Una storia vera), Richard Sarafian (Punto zero), John Sayles (Fratello di un altro pianeta), Ridley Scott (ahimè, ma solo per Thelma e Louise), Gus Van Sant (capace anche di veri abominii come Will Hunting, ma di vere grida di giovanili rivolte come Drugstore Cowboy, Belli e dannati, Elephant, Paranoid Park…), e ovviamente i fratelli Coen, con la loro venatura ebraica (soprattutto Il grande Lebowski, visione dell’uomo al positivo, e A proposito di Davis, visione al metafisico…) e Paul Thomas Anderson (un capolavoro recente, Vizio di forma). Diffidando totalmente dei fasulli alla Oliver Stone e alla Michael Moore, cari per qualche tempo alla superficialità critica internazionale. E soffermandosi con affetto su quei marginali come Robert Kramer (Ice, The Edge, Milestones), che dentro il movement ha dato le sue opere migliori, le più lucide e critiche e coinvolte, e poi è andato in giro da disperato per l’Europa degli ideologismi subendone sin troppo il fascino. Ai margini, e piuttosto a New York che a Los Angeles, vi è stata un’avanguardia cinematografica di irregolari e outsider, il cui rappresentante più prestigioso fu Andy Warhol, spesso recuperata in un altro mercato che non quello del cinema, il mercato non meno rischioso delle arti visive. Più radicali di tutti furono negli anni tra i Cinquanta e i Settanta i poeti e gli scrittori come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, e in modo troppo morboso per offrire un modello di vita anche «politicamente» attivo William Burroughs. Ma è anzitutto per il teatro, per l’esperienza del Living Theatre fondato da Julian Beck e Judith Malina, che si può usare 65

senza timore l’aggettivo «anarchico»: un’esperienza eccezionalmente poetica in cui estetica e vita hanno saputo infine fondersi.

Gli inglesi L’esperienza inglese è fin troppo europea, anche se di un’imperiale autonomia costantemente ricattata, nel cinema e non solo, dal mercato americano. In passato ha visto gli anarchici solo come figure negative di secondo piano, assimilate di fatto ai terroristi di questa o quella matrice (preferibilmente irlandese). Più tardi ha saputo con alcuni registi affiliati alla casa di produzione Ealing – che lavorava per un pubblico proletario ed esprimeva gli ultimi aneliti di una cultura popolare e di classe rivendicante la sua diversità e separatezza da quella borghese – realizzare opere abbastanza autonome e talvolta decisamente critiche, anzi sfottenti. Penso per esempio a Sangue blu di Robert Hamer, capolavoro di irrisione a valori e costumi nobiliari in chiave di commedia nera, o alle commedie di Charles Crichton e alla serpeggiante critica sociale del primo Carol Reed, autore del Fuggiasco e del Terzo uomo, quest’ultimo su testo di Graham Greene. Negli anni delle nouvelles vagues, la Gran Bretagna ha dato una generazione di artisti che si sono definiti angry young men, giovani arrabbiati. In teatro fu piuttosto fiacca, soprattutto se si fa il confronto con l’opera di due grandi come Samuel Beckett, diverso da tutti e più profondo e inaccettante e grande di tutti, e Harold Pinter, via via più presente rispetto ai problemi politici dell’epoca; in letteratura il rappresentante più singolare ne fu Alan Sillitoe, anche per la sua origine proletaria, il più ostinato e coerente di tutti. Gli «arrabbiati» del cinema hanno preferito chiamare il loro piccolo movimento, quando ancora esordivano con documentari, free cinema. Qualcosa di irriverente, di disobbediente, di rivendicativo di un’identità di classe, di sprezzante nei confronti dei valori borghesi e della borghesia stessa (in un 66

paese persino più ferocemente classista dell’Italia, diceva Losey, che vi si era trasferito per sfuggire alla «caccia alle streghe» maccartista, un paese ancora colonialista e per sempre monarchico) che attraversa i film di Lindsay Anderson (Io sono un campione, da Sillitoe, 1962), di Karel Reisz (Sabato sera, domenica mattina, ancora da Sillitoe, protagonista un giovane operaio che non è disposto ad arrendersi al padrone e alla cultura borghese, e Morgan, matto da legare, da una play tv di David Mercer, protagonista un giovane pittore che… idem), di Tony Richardson (di derivazione teatrale Sapore di miele e letteraria Gioventù, amore e rabbia, ancora da Sillitoe, che narra il rifiuto di un giovane proletario in rieducazione di farsi benvolere e fare un salto di status attraverso lo sport, come accadeva in Io sono un campione) e del buon mestiere del quieto John Schlesinger (Una maniera d’amare, Billy il bugiardo, Darling, Domenica, maledetta domenica), che lo rese pronto, come gli altri, per Hollywood. Questa ventata durò poco, e servì solo a far strada alla swinging London dei nuovi consumi e mode giovanili, Beatles e Rolling Stones compresi. Nel ’68 e sul ’68 Anderson osò un Se… che svillaneggiava una famosa poesia di Kipling sul farsi grandi e non era molto di più di una chiassosa imitazione di Zero in condotta ambientata tra adolescenti in rivolta contro l’autorità scolastica. Da quegli anni viene Ken Loach, partito con Cooper e Laing (i Basaglia inglesi) tra Poor Cow e Kes, film coraggiosi, belli, di ambiente e morale proletari, il quale approdò al successo internazionale, da Piovono pietre in avanti, con alcuni corali ritratti di operai di fronte alla crisi, decisamente accattivanti, del tipo commedia all’italiana anche se d’ispirazione trotzkista, che si fecero velocemente deboli e retorici quando non ruffiani (non è migliore quello sulla guerra di Spagna, mentre lo è il film di montaggio che ha dedicato al dopoguerra delle speranze laburiste). Anche su Neil Jordan ci si illuse molto, grazie al suo disturbante La moglie del soldato, e anche su Stephen Frears. Il cinema di sinistra inglese si è infine trincerato sul tema, 67

comprensibilmente ossessivo, dell’ira, ma volando basso, tra la denuncia magari sincera e un’altrettanto sincera attenzione allo spettacolo, e bisognerà aspettare i film di Mike Leigh per ritrovare un Autore con la maiuscola, un grande regista che sa dare un sapore di autentico anche ai suoi film mainstream, e che ha cesellato, con Naked, il film che ce lo rivelò, il ritratto assolutamente convincente di un giovane intellettuale esasperato e disperato ed evidentemente anarchico (che mi ha ricordato l’Hamsun di Fame), in lotta con il mondo e, di conseguenza, dato cos’è il mondo, anche con se stesso e con la propria esigenza morale e perfino biologica di rivolta. Un personaggio di oggi e di sempre, esemplare e complesso come era giusto che fosse, e di derivazione certamente dostoevskiana. Mike Leigh non ha tradito le nostre attese con i film successivi (Segreti e bugie, Tutto o niente, Il segreto di Vera Drake, Another Year eccetera). Una storia a parte è quella di Peter Brook, grande regista teatrale che al cinema ha dato opere diseguali, le meno interessanti proprio quelle pensate per questo mezzo. Il signore delle mosche, da William Golding, un Nobel abusivo, fu il migliore di questi, ma il racconto del gruppo di bambini che, finiti a causa di un incidente aereo durante la guerra su un’isola deserta, soli sopravvissuti, formano una società che risponde alla logica delle primitive, era così pesantemente al negativo da far disperare ma anche da lasciare perplessi: nessuna via d’uscita al destino malefico che il genere umano porta nel suo dna originale, nel suo «peccato originale». Invecchiando, e attraversando gli anni del Vietnam, Brook ha però dato due grandissimi film, e film, non teatro filmato, derivati da due grandi regie teatrali di allora, il Marat-Sade da Peter Weiss (le contraddizioni della Grande Rivoluzione, la necessità ma anche le conseguenze di una rivoluzione) e soprattutto Tell me lies, che reinventava il teatro e che reinventò il cinema mescolandone le forme a partire da uno spettacolo datato 1968, la più coinvolgente e originale delle tante opere ispirate dalla guerra del Vietnam – film romanzi canzoni eccetera. 68

E, possiamo dire, la più «di sinistra», la più cosciente, inoltre, del punto di svolta che la guerra del Vietnam ha rappresentato nella storia del secolo e nell’annuncio del successivo, dei tempi nuovi che sarebbero arrivati. Un caso meno interessante, ma altrettanto eterodosso, è quello di Peter Watkins, che ha ricostruito grandi vicende storiche in chiave rossellinianamente documentaria (il modello insuperato resta infatti quello della Presa di potere di Luigi xiv ). Il suo film più memorabile è La Commune (Paris, 1871), da vedere insieme al capolavoro muto di Kozincev e Trauberg, due grandi dell’avanguardia sovietica dei primi anni dopo la Rivoluzione del 1917, La Nuova Babilonia, musicato da Šostakovic. ˇ Con modalità affini, ma fidando nella grande ricostruzione romanzesca, da film storico, Bill Douglas ha diretto un capolavoro, ignorato ovviamente dalla critica italiana, Comrades (1986), che ricostruisce una delle prime vicende di tentata sindacalizzazione della classe operaia inglese, con la conseguente deportazione di un gruppo di operai ai lavori forzati nella lontana Australia. Da mostrare nelle scuole, se la scuola italiana avesse delle ambizioni educative.

In Germania Il cinema tedesco ha dato con F. W. Murnau un grande regista visionario e nevrotico che ha espresso nei suoi film la sofferenza dell’individuo schiacciato dalla società, da ogni società (L’ultimo uomo, Faust, Tabù…), ma anche la forza dell’amore come unica forma di resistenza ai suoi diktat (Aurora, City Girl, ancora Tabù…), e con Fritz Lang una riflessione sulla fragilità dei comportamenti dell’uomo sociale, sul peso oppressivo della società e sulla violenza del comportamento di massa, sul fascismo che ne può derivare, sul modo in cui può caderci l’individuo umiliato nella sua sete di riscatto e di vendetta (M, in Germania, Furia, Sono innocente, Il grande caldo e altri negli usa, e i tre film 69

sul Dottor Mabuse, rivelatore dei modi in cui il potere può condizionare le persone – il terzo dei quali, meno noto degli altri, Il diabolico dottor Mabuse, che nell’originale si chiama I mille occhi del dottor Mabuse, è preveggente sui modi tecnologici, televisivi e paratelevisivi, del controllo su tutti da parte del potere). C’è stato anche, in Germania, un cinema sociale fino all’avvento di Hitler, al tempo della Repubblica di Weimar, che ha dato forti opere pacifiste e di denuncia di G. W. Pabst, di Piel Jutzi e altri. Ma si può parlare di un cinema coscientemente anarchico o anarcoide solo nel breve periodo (anni Sessanta-Settanta) di un «nuovo cinema» che ha avuto i suoi personaggi di spicco in Rainer W. Fassbinder e in Werner Herzog, nel regista e scrittore Alexander Kluge, «allievo» di Brecht, Adorno, Benjamin, regista di opere solo apparentemente fredde, di radicale indignazione per «lo stato delle cose» (La ragazza senza storia, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, Occupazioni occasionali di una schiava, Ferdinando il duro), e molto meno in Wim Wenders, regista sopravvalutato e alla fine, dopo buoni inizi (Alice nella città), melensamente narciso e poeticistico, sentenziante e finto-profondo. Herzog al contrario (autore in particolare di L’enigma di Kaspar Hauser, La ballata di Stroszek, Woyzeck, Fitzcarraldo) ha forse ecceduto in vitalismo, con un fondo talora perfino un po’ dannunziano, ma ha narrato con molta energia storie di irregolari, di pazzi, di vittime, di ribelli. Ai margini, ostinatamente brechtiano, ha operato, tra Germania e Italia e Francia, tra cinema e teatro, Jean-Marie Straub, insieme alla moglie Danièlle Huillet, precocemente scomparsa, più marxista, adorniano e fortiniano di ogni altro regista della sua generazione, probabilmente, e non sempre comunicativo, certamente più vicino a Godard, nel bene e nel male, di Herzog e Fassbinder (ma nulla a che vedere con il neosentimentalismo wendersiano). Di lui i film che ho più amato sono Non riconciliati, da Heinrich Böll, tra i primi, e Sicilia, da Elio Vittorini, tra i relativamente recenti. Anarchico nelle pratiche (nella vita, 70

condotta sfidando l’isolamento e la povertà), ma marxista nella teoria, un esempio di vita e non solo di arte.

Rainer Werner Fassbinder Il più grande e il più autenticamente anarchico di questa leva insolita e presto isolata e ricondotta a ragione è stato certamente Rainer Werner Fassbinder (1945-1982), dalla vita intensissima e dalla franchezza assoluta. È curioso come il paese che, negli anni del dopoguerra e dell’opaco benessere adenaueriano, aveva visto ancora un Brecht o un Adorno, con la loro analisi del processo economico della storia, o con la loro analisi della frigidità dei rapporti nella società capitalistica (in qualche modo, per entrambi, della riduzione degli uomini a cose), si trovasse ad avere, negli anni Settanta e dopo la loro morte, autori così sfrenatamente passionali come un Fassbinder o un Herzog, o comunque attratti dai sentimenti e narranti sentimenti come il primo Wenders. Scherzo dialettico della storia o giusta rivendicazione della vita di fronte alle astrazioni della «politica» e della filosofia, era comunque una reazione necessaria. Di Brecht e Adorno, maestri della generazione cresciuta all’analisi del sociale e alla politica nel corso degli anni Sessanta, si erano sottovalutati gli aspetti metafisici e fideistici del primo, e la distanza aristocratica del secondo. Così come era stata sopravvalutata la possibilità della liberazione con l’eterno rinvio di quella individuale a quelle collettive, appunto «politiche». In qualche modo, era stata questa anche la formazione di Fassbinder (morto a 37 anni per overdose di droga e alcool), nato brechtiano, ma troppo «diverso» per accettare fino in fondo la politica e la dialettica sulla sua pelle tormentata e dolorante di «diverso». L’incontro con Douglas Sirk, un grande regista della generazione precedente alla sua, un «padre» fuggito negli usa negli anni di Hitler, fu per lui decisivo, con la coscienza che glie71

ne derivò dell’importanza delle passioni e della necessità di parlare per il loro tramite, come il melodramma hollywoodiano era riuscito a fare, al pubblico più vasto. Il melodramma fassbinderiano ha però risentito di Brecht (se non di Adorno), e ha saputo collocare le passioni in contesti definiti socialmente ed economicamente, spostando però l’accento non tanto sui rapporti di classe (e ancora meno sul progetto politico: della politica egli ha analizzato i rapporti tra individui che essa produce nel suo farsi professione e modello, le passioni) quanto sui rapporti di potere giocati a livello di simboli. Ha raccontato il dominio e il potere nel loro incarnarsi in sentimenti: quelli del bianco sul negro, dell’uomo sulla donna, del «regolare» sul «diverso», del dotato di beni sul privo di beni, del bello sul brutto, e quegli stessi che, all’interno di un gioco chiuso di rapporti interpersonali (ma ogni gioco di rapporti interpersonali profondi è un gioco chiuso), dividono, anche tra «diversi» ed emarginati, chi più ha da chi meno ha, chi è più forte da chi è più debole. Forse il più acuto film sui rapporti omosessuali mai girato – e uno dei migliori di Fassbinder – è proprio Il diritto del più forte (1974), poco gradito ai sostenitori dell’utopia omosessuale. Grazie all’incontro con Sirk, egli si è servito di un ordine classico per affermare un discorso molto più moderno. Le convenzioni del melodramma assumono nel suo cinema valenze nuove, non solo tematiche e strutturali. A Fassbinder furono più cari i personaggi femminili che i maschili e le sue donne sono più «diverse» che non i suoi omosessuali, esprimono più compiutamente le contraddizioni della soggezione a un potere e dei pochi possibili modi di reagirvi. Le sue Effi Briest, Petra von Kant, Lola, Nora, Lili Marleen, Veronika Voss eccetera sono vittime anche quando, reagendo, finiscono per essere dominatrici, Maria Braun in particolare nel suo film forse più controllato, Il matrimonio di Maria Braun, che accetta la reificazione pensando di controllare lei la situazione, e scopre che i suoi uomini l’hanno «trattata», fatta oggetto, «spartita» – con preciso corrispettivo 72

monetario. Si ammazza, o è una disgrazia? Il risultato è lo stesso, la rivelazione c’è stata, e la fine ne consegue. Anche l’amore è un valore di scambio. Tanto più in una società – delineata per «interni», perlopiù casalinghi – che passa dalla sconfitta della guerra e dalle urgenze della fame al miracolo economico e al trionfo della compravendita di tutto. La legge borghese dice che l’avere conta più dell’essere, e finisce per coinvolgere tutto, per corrompere tutti. Restano solo, ai suoi margini, spazi-ghetto che essa bensì condiziona, luoghi di diversità tormentate e di utopie di difficilissima realizzazione. Occorrerà fare dei titoli, proporre delle periodizzazioni. La fase dell’Antitheater e del «formalismo informale», di piccoli film di gangster; i melodrammi «freddi» o «raffreddati»: annunciati da Katzelmacher, sul potere del tedesco sull’immigrato, ed evolutisi con Tutti gli altri si chiamano Alì, storia d’amore tra una tedesca d’età e un immigrato solo, un amore scandaloso, o con Il diritto del più forte, storia di omosessualità e di potere sui corpi. Gli adattamenti letterari – Effi Briest da Fontane (1974), modello di come si dovrebbe adattare un classico letterario, l’eccessivo Despair da Nabokov, il mediocre Lola da Heinrich Mann (e da Sternberg, L’angelo azzurro), il provocatorio e sontuoso Querelle da Genet, il dinamico sceneggiato tv da Berlin Alexanderplatz, vita di un uomo comune nella Berlino weimariana raccontata da Alfred Döblin in uno dei più grandi romanzi del secolo scorso, affascinato e affascinante nella ricostruzione di un’epoca, e su questa scia anche Il viaggio in cielo di mamma Küsters, omaggio a un film berlinese di Jutzi sulla miseria proletaria del 1929, e anche un altro film «di donne» come Veronika Voss. Tra gli altri ritratti di donna si deve ricordare Le lacrime amare di Petra von Kant, girato in dieci giorni, molto teatrale, molto acuto, a tratti esplosivo nell’analisi di un confronto tra donne. Ma questo era cinema povero, di «prima del successo», come poveri, frenetici, controllati, freddi, aggressivi, «cattivi» furono altri veloci film degli anni Settanta. Attorno alla politica e alla 73

cronaca ruotavano Un anno con 13 lune o La terza generazione, aggressiva e benvenuta demistificazione delle logiche del terrorismo, come altrettanto inatteso era il suo episodio per il collettivo Germania in autunno, autocoscienza di un gay in mezzo a sollecitazioni, a volte solo retoriche, alle prese di coscienza politiche. Il cinema di Fassbinder è sregolato, viscerale, autobiografico, ma ha vissuto da ultimo il rischio di un rientro nella norma del sistema economico e linguistico dello spettacolo in cui la morte improvvisa gli ha impedito di assestarsi. Il suo cinema migliore – bello o brutto, freddo o caldo – è comunque un cinema di passione e la sua macchina da presa sembra essa stessa appassionata; il suo è un cinema di estrema partecipazione ai sentimenti dei personaggi. Questi personaggi la vincono su tutte le teorie e su tutti i progetti, suscitano il nostro amore o la nostra ripulsa, la nostra tenerezza o la nostra antipatia come quelli del mélo sirkiano, del feuilleton e del romanzo dell’Ottocento. Ma questo perché abbiamo sempre la coscienza che essi sono nostri specchi (e quanti specchi, nei film di Fassbinder!), perché non ci sembrano stereotipi che mimano, ma realtà in azione. Un’azione senza sbocco: di vite perse, private della possibilità di esprimersi e di espandersi, di trovare attorno a sé la possibilità di vivere e non solo di farsi vivere, di essere soggetti e non oggetti di un ordine. Il Male non è in loro, è in un’organizzazione del mondo che li schiaccia e costringe, che tarpa loro le ali. «Si può dire con Rousseau che è la società a renderci malvagi», ha detto una volta Fassbinder. Si può non esserne convinti, ma certamente questa dichiarazione è la dimostrazione di una tensione e di un’aspirazione «politiche» del regista, qualora si intenda per «politica» qualcosa di diverso da una mera logica di potere (e di violenza, menzogna, sopraffazione), insomma la critica attiva (anarchica) della politica in tutti i suoi effetti. Un regista meno viscerale e più classico, che negli anni recenti ha stupito per la sua durezza e ha avuto qualche affannato imitatore, è l’austriaco Michael Haneke (Funny Games, La pianista, 74

Niente da nascondere, Amore), disperatamente lucido e disperatamente laico di fronte al male dell’uomo che pervade la società, ma interessato meno alla società che all’uomo.

In America Latina, Glauber Rocha Ci si è dilungati su Fassbinder perché è uno dei pochi nomi riconducibili all’idea di anarchia che non è solo la nostra. E allo stesso modo ci si dilungherà su due altri nomi ugualmente importanti per la nostra analisi, che ci vengono da parti molto distanti del pianeta, quelli di Glauber Rocha, brasiliano, e di ¯ Nagisa Oshima, giapponese. Glauber Rocha (1938-1981) ebbe breve vita, sotto il segno di un romanticismo che trasferiva nel cinema le esperienze degli artisti brasiliani i più d’avanguardia e i più popolari, macinando influenze internazionali con una selettiva intensità, scoprendo e facendo suoi modelli lontani (Rimbaud, Artaud) e vicini (le nouvelles vagues teatrali, musicali, letterarie, pittoriche sue contemporanee), i filosofi dell’opposizione e della rivolta. Rocha si mosse al limite di un irrazionalismo vitalismo estremismo che possiamo dire epocali, tanto seppe rappresentare in sé acuendola l’ansia di una generazione di giovani cineasti del Terzo mondo di «cambiare il mondo», cominciando con il denunciarne anzitutto l’assurdo sociale, l’ingiustizia. Nato nel Nordeste, la regione dell’arido sertão della siccità e della fame ma anche del mare, del dominio padronale ma anche di un’inedita mescolanza etnica tra Africa, Portogallo e indios della selva, ne derivò – dopo l’esordio in Barravento (1961) sui riti di una piccola comunità di mare, i pescatori neri di Bahia – la coscienza di una «estetica della fame» che teorizzò e difese, come risposta all’estetica borghese europea o statunitense, l’estetica del mondo (minoritario) del consumo e del benessere, del mondo senza fame. Estetica della fame, la sua; ed estetica della violenza. Ne trovò 75

un riscontro nel Fanon dei Dannati della terra, ma seppe mantenerle una connotazione nazionale, e anche se seppe rubare («cannibalicamente») da Brecht e Godard, da Sartre e Visconti, da Pasolini e da Julian Beck, come ovviamente dal Buñuel più d’avanguardia o più messicano, i suoi riferimenti centrali erano brasiliani: Gilberto Freyre, l’Andrade di Macunaíma, Euclides da Cunha, il grande Guimarães Rosa, Villa-Lobos, il samba e la chanchada (sorta di sceneggiata con musica), la pittura naïve e le canzoni dei cantastorie… Rocha privilegiò i momenti della rottura di un ordine, non si fermò a spiegare quelli della normalità e dell’oppressione subita. La sua estetica della violenza (o della crudeltà) seppe mescolare una carica mitologico-popolare con una finalità politica, anzi apocalittica e messianica. Il suo fu un cinema poetico ed esaltato, sintesi di danza e racconto, di musica e grido. Il suo secondo film rimane il più noto e migliore, Il dio nero e il diavolo biondo (1964). Raccontava il sertão delle rivolte religiose dei beatos e di quelle armate dei cangaceiros, narrate in chiave metastorica, di rappresentazione popolare sacra e politica. Gli fece seguito, anche in modo diretto, Antonio das Mortes (1969). Nel finale del Dio nero… il contadino diventato brigante incontrava un cantastorie: il mondo non è né di Dio né del diavolo ma dell’uomo, egli canta, e verrà il giorno in cui il mare diventerà sertão e il sertão diventerà mare. Ma diversa sembrò la morale di Antonio das Mortes, forzosamente «dialettica», secondo una schematicità densa di simboli, molto teatrale, della dimostrazione di una «giustizia storica» immanente al ruolo del giustiziere Antonio, insieme killer mercenario e portatore di un senso della storia che vede come perdenti le rivolte religiose o banditesche prive di piano politico. Prima di questo film c’era stato Terra in trance, che aveva il suo centro nell’ambiguità obbligata della figura dell’intellettuale nel sistema di potere e di classe del Terzo mondo. Qui erano evidenti le influenze sartriane, però il film era visceralmente autobiografico, raccontava i tormenti di un intel76

lettuale marxista nella realtà della politica sudamericana, in un paese bensì immaginario. Se vuole agire e influire, non essendo egli capace di diventare fondatore di movimento o partito, sarà solo al seguito di politici ambigui e divisi all’apparenza, identici nella sostanza – modelli espliciti di modi precisi di fare politica. Per l’intellettuale ci sarà un finale di morte, a causa della sua indecisione e incapacità di buttarsi di qua o di là, di cercare altrove: la figura dell’intellettuale merita il suicidio, se non si mette a servizio della rivoluzione. Ma chi guiderà la rivoluzione, se non altri intellettuali? Quel che può fare è creare disordine per contribuire alla nascita di un nuovo ordine, ma questo politicamente non può che risultare incerto e rischioso. Nei film successivi Rocha affrontò senza la sufficiente chiarezza (e senza la genialità degli altri film) Africa ed Europa, con una sorta di generosa follia, sempre all’inseguimento di una fusione tra poesia e politica. La poesia era respinta dalla rivoluzione, le rivoluzioni prendevano antiche strade poco poetiche. Fallito il suo ideale progetto, mentre fallivano in giro per il mondo e prima di tutto in America Latina tanti progetti rivoluzionari, Rocha si chiuse in un malato silenzio, rotto da alcune provocazioni sul filo del delirio, di cui l’ultima, L’età della terra (1980), è un frammentario ed esploso rifiuto dell’ordine, la visione critico messianica di una rivoluzione totale, religiosa e nazionalista, politica e poetica, economica e sensuale. Amiamo Glauber Rocha, ne abbiamo nostalgia perché, con pochi altri, ha tentato, negli ultimi anni delle speranze di una rivoluzione vera, l’impossibile: una nuova poesia del cinema per la rivoluzione, terzomondiale e povera, che fosse esasperatamente autoctona ed esasperatamente dialettica, un’iper-soggettiva nuova razionalità che da tante altre parti contemporaneamente si ricercava in più paesi e in più arti. La sua sincerità di artista fu assoluta, e gli prese la vita poiché egli pagò di persona il suo titanico, magniloquente, barocco, invasato, impossibile, «anarchico» progetto di rottura e di novità, 77

la sua personale utopia dentro un’utopia che non fu solo sua.

¯ In Giappone, Nagisa Oshima ¯ La rivolta di Nagisa Oshima (1932-2013) si mosse contro il Giappone dei padri, anche contro i padri del cinema giapponese «oggettivo», umanistico, di tentata armonia della forma pur nella frustrazione e nella sconfitta. I grandissimi Ozu, Kurosawa, Mizoguchi, Naruse, Kinugasa, Kinoshita, Shindo¯ ostinatamente umanisti – regista di transizione Imamura, vicino al classici¯ smo degli uni e al ribellismo della generazione di Oshima – costruivano narrazioni «oggettive», mentre i registi delle nouvelles ¯ vagues in giro per il mondo e pochi giapponesi con Oshima al centro rivendicavano la loro soggettività, e un cinema in cui la riflessione critica e la sublimazione artistica divenissero esame della realtà giapponese, della sua storia patriarcale e imperialisti¯ ca (di qui l’attenzione in Oshima per gli oppressi dalla nazione giapponese, in particolare i coreani), bensì confrontate con le soggettive pulsioni del desiderio, con ricorrenti fantasmi di vita, ma più ancora di morte, spesso suicidi, nella convinzione di una consonanza tra queste pulsioni e quelle più profonde della cultu¯ ra giapponese. Oshima ha visto nella sua biografia di artista una rappresentatività che passa dal radicale tentativo di distinguersi, pagando e lottando contro il potere, fino a riconoscersi, sconfitte le speranze di palingenesi politica, nel più profondo di quella cultura e nella sua crisi profonda. Tra il Giappone che ha trovato e quello che ha lasciato, ci sono ancora somiglianze? La presa di posizione iniziale contempla, a ben vedere, il successivo sviluppo. È proprio la soggettività dell’artista a determinare la fragilità della sua visione politica, più conseguenza della collettiva perdita d’identità culturale e affannata ricerca di affermarne una nuova e ribellistica, che non analisi «oggettiva» delle ¯ forze e delle classi. Oshima ha cercato il dialogo con l’esperienza 78

di una generazione segnata dalla rivolta politica e poi dalla sua sconfitta, a cui reagisce con un’adulta scelta di negazione. Il suo cinema è per lungo tempo nuovo nella forma, ma perché ridiscute e rifiuta ogni forma per affermare la prevalenza di nuovi contenuti, fino ad approdare, nell’isolamento degli anni di caduta del movimento rivoluzionario giovanile di cui ha fatto parte e di disimpegno culturale che ne è venuto (tremende, siamo chiari, le generazioni di registi sesso-e-violenza venute dopo la sua!), a una sorta di tormentata interrogazione dove le ragioni della rivolta sono uno degli aspetti di una storia complessa e sfaccettata, e dove eros e thanatos sbilanciano tutto verso thanatos, verso un’ossessiva astrazione di nuovo investita dal predominio della forma. Il rito, la recitazione, la «messa in scena» dei suoi giovanili personaggi, quelli per esempio di Racconto crudele della giovinezza (1960), sono da subito un segno che distingue il cinema di ¯ Oshima, il quale ne dimostra una sorta di obbligata necessità anche nei film più politici (Notte e nebbia del Giappone, che ha per sfondo la lotta contro il trattato di sicurezza nippo-americano). Ma questi riti, queste cerimonie, questo saper di recitare qualcosa che sovrasta o sottintende le azioni della realtà hanno ancora un segno di disperata volontà di liberazione – dai fantasmi propri e di tutti. In L’ impiccagione (1968) l’elaborazione cerimoniale raggiunge la sua prima rigorosa definizione: il potere cerca di spiegarsi le ragioni di un omicidio commesso da un coreano, e le ricostruisce, le mima in un parossismo grottesco di incomprensione che porta però alla riaffermazione della logica del crimine di cui il potere è di per sé artefice e prigioniero. Teatro e realtà si scambiano le parti e il «politico» perde via via la sua connotazione affermativa. La ripetizione, la recitazione sono il frutto di una costrizione maggiore. Con Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokyo, c’è tutta la crudeltà della sconfitta della «guerra di Tokyo» – lo scontro mortale tra un movimento studentesco ormai diviso in sette 79

e il potere (1967-70) – a essere rivissuta nella ripetitività del gesto suicida del protagonista. La cerimonia è l’ambiziosa rivisitazione di venticinque anni di storia del paese, strutturata rigidamente nel suo coro di personaggi tutti rappresentativi, nella vicenda di un clan che si riunisce ogni anno a celebrare se stesso (il Giappone) oltre ogni differenza di colore politico e di sentimenti, in una trama di rapporti fittamente incestuosa e disperata. Il protago¯ nista (Oshima stesso, infine) si interroga e interroga il passato, i morti, i propri fantasmi. ¯ Con Ecco l’ impero dei sensi Oshima concentra su due personaggi l’autodistruttiva voluttà suicida di un’esperienza sessuale condotta all’estremo. Regista ormai del «negativo», abbandonato il programma di una «autonegazione» socializzata di artista poiché il polo della vita, debole da sempre, si è del tutto sfalda¯ to, Oshima ha inseguito un percorso disperatamente lineare: la sconfitta della giovinezza tradita, ma tradita anche da se stessa, non gli dà che una maturità scontenta, l’età non porta serenità né saggezza, non porta che età; e semmai il recupero di un’insoddisfatta, acre conquista formale. Furyo (1983) lascia la cupa e claustrofobica furia autodistruttiva della coppia eterosessuale per narrare una fascinazione omosessuale all’interno di un corale campo di concentramento giapponese, tra un ufficiale giapponese e un ufficiale inglese. La crudele ritualità e il gioco morboso dei doppi caricano e avvelenano questa storia di fascinazione Oriente-Occidente diretta con una partecipazione che non si sa se più lucida o più malata, o di lucida malattia. Il dittico ambiguo Ecco l’ impero dei sensi e Furyo sono il canto estremo del ¯ cigno Oshima, un canto di morte. ¯ Oshima ha detto una volta: «Io non posso fare altro che film, in silenzio, sognando il giorno ancora lontano in cui lo Stato si ¯ estinguerà». Si può parlare di anarchia per Oshima? Sì, assolutamente, anche se il suo cammino è stato ancora una volta verso un’amara sconfitta. Non ha lasciato eredi, anche se per un breve tempo si è creduto che Takeshi Kitano, anche attore, e anche 80

fine umorista, potesse prenderne il posto pur se in un contesto molto diverso.

In Asia Dall’Asia ci sono venuti i film dell’indiano Mrinal Sen e alcuni bellissimi film del filippino Lino Brocka, nel filone di una denuncia sociale accorata, dura e dolente, e di recente del tailandese Weerasethakul Apichatpong, di scavo etnologico e non solo sociale, ma è forse il cinema cinese (e di Hong Kong) ad averci mostrato con più decisione i problemi e le ansie del presente, e solo negli ultimi anni – distanti perfino dalla caduta del mito maoista e a confronto con una modernizzazione peggio che violenta, oscenamente radicale e distruttiva, statalista e capitalista, imperialista. Ricordo pochi nomi in particolare – nella miseria delle mie conoscenze del cinema asiatico di oggi. Più che le opere del cinema cinese e dei suoi autori, che partono bene ed evolvono più o meno faticosamente per oggettive difficoltà (Chen Kaige, Zhang Yimou), più che il cinema di Hong Kong, avamposto del cinema dominante lo spettacolo odierno e la sua perversa capacità di manipolazione spettacolare, è il cinema di Taiwan (Formosa) ad aver dato gli autori più interessanti, in particolare due maestri, Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang. Hou Hsiao-hsien ha affrontato, con grande attenzione al linguaggio, i nodi di una storia politica, sociale, culturale recente della grande isola, grande storia e piccole storie che si incrociano per tocchi leggeri e sapienti, attraverso personaggi di battaglieri e di sopportanti, attraverso la maturazione di una generazione che è la sua, e soprattutto negli anni che vanno dall’adolescenza alla maturità. Il suo film più duro è Millennium Mambo (2000), una sorta di Vivre sa vie orientale e di inizio del nuovo secolo, anzi millennio, al seguito di una ragazza d’oggi nelle sue incertezze e nelle sue difficoltà, e nei modi in cui il mondo la irreti81

sce e manipola, ma senza un esito di tragedia. E senza catarsi. Il più originale e rigoroso, personale e provocatorio dei registi di Taiwan è però Tsai Ming-liang, nella cui opera sono fortissime le influenze del teatro dell’assurdo più estremo e della televisione più dozzinale, per esempio negli inserti d’eco brechtiana, distanzianti e dissacranti, nei numeri musicali che commentano con efficace volgarità l’azione di alcuni dei suoi film, e che in qualche modo ne tolgono o ne accrescono il pathos. La gratuità delle azioni, la loro ripetitività, le situazioni improbabili e ossessive, gli ambienti ristretti e grigi e bui, il minimalismo degli atti e dei gesti, la claustrofobia, la chiusura tra pareti e muri che allontanano dagli altri, una sessualità senza gioia e liberazione, i campi lunghi che distanziano e chiudono, l’implacabilità dei meccanismi messi in moto dal caso hanno sempre uno sfondo sociale definito, riguardano persone comuni dentro contesti comuni, poveri, massificati, e dentro la storia, e conducono inevitabilmente alla constatazione di un’assoluta solitudine degli esseri e dell’assoluta difficoltà della comunicazione tra loro (con qualcosa di antonioniano, ma di un Antonioni con il dono dello humour nero). Titoli: Vive l’amour (1994), Il fiume, Il buco, Goodbye Dragon Inn, Il gusto dell’anguria eccetera: una diffidenza invero estrema per l’uomo e per la società, che sceglie la freddezza piuttosto che il compatimento, la distanza piuttosto che la partecipazione, che opta per la feroce constatazione dell’infinita miseria dell’umano. Un mondo, un’umanità senza sole, miserabili in eterno… Con Tsai, i registi più coraggiosi dell’area cinese sono Wang Bing (La fossa, descrizione di un universo concentrazionario ai confini del mondo, descritto con la stessa lucidità, ma reinventato narrativamente, di quello più volte affrontato dal grande documentarista cambogiano Rithy Pan sugli anni di Pol Pot) e Jia Zhangke, di cui ricordo più di un capolavoro: Shijie, Still Life, Mountains may depart e soprattutto Il tocco del peccato. A cavallo tra documentario e finzione, le sue sono le traversate più impressionanti dell’immensa mutazione in atto nel suo paese, ma 82

anche, a ben vedere, nel mondo, anche se sembra che in Europa e negli usa il senso di questa enormità sfugga ancora agli artisti, trincerati nel loro ristretto terreno di caccia. Jia è senza dubbio uno dei grandi registi del nostro tempo e la complessità della sua opera e del suo stile è ancora tutta da esplorare.

Torniamo in Europa Poco hanno avuto da dirci gli spagnoli, fuori dalla tradizione del documentario anarchico tornata in auge dopo la morte del caudillo. In passato, il simpatico Luis García-Berlanga e il suo amico scrittore Rafael Azcona, sotto Franco, osarono commedie corrosive la cui eco si è vista deformata da una libertà che ha spinto a una sorta di volgarità intima una piccola borghesia che si è sentita finalmente libera di mostrare anche il suo peggio – come è successo pure in Russia dopo la caduta del regime sovietico: il «basso» che esplode, troppo a lungo rimosso… Di questa esplosione il rappresentante più esibito e ammirato è stato Pedro Almodóvar, e ha avuto molti imitatori. È stato il sesso il perno della loro liberazione, importante certo, ma che non è andata né va molto in profondità. Più sinceri e più critici alcuni registi portoghesi, come il grande João César Monteiro con i suoi surreali rifiuti della cultura borghese nazionale (La commedia di Dio, Ricordi della casa gialla…), Pedro Costa con le sue periferie e i suoi capoverdiani (Ossa, Horse Money) e Miguel Gomes (la trilogia sulla crisi portoghese e del mondo: Le mille e una notte). In Russia, dove la censura ha impedito per decenni la libertà di espressione, solo durante il breve periodo krusceviano c’è stata una certa libertà. A parte il periodo post-rivoluzionario (con il capolavoro sulla Comune di Parigi già ricordato e i film di un irregolare simpatico e, finché gli è stato possibile, allegro come Boris Barnet: Sobborghi, Vicino al mare più azzurro), è infatti negli anni di Chrušcëv ˇ che si è affermato un regista e scrittore for83

midabile di spontaneità e di acume, d’origine contadina, stretto nelle maglie di quel che era possibile dire e che pure le ha dilatate per il possibile, Vasilij Shukshin (Strana gente, Vostro figlio e fratello, Viburno rosso). Simile a un cantautore geniale, una sorta di Bruce Springsteen o di un neo-Majakovskij di nome Vladimir Visockij, purtroppo poco ascoltato in Italia, Shukshin ha narrato – interpretandole anche come attore – le insoddisfazioni e i tormenti di un giovane d’origine contadina nell’urss statalista e poco rispettosa delle autonomie individuali, delle aspirazioni individuali. E della libertà di poterle esprimere. Ma anche nel più grande dei registi russi della seconda metà del Novecento, Andrej Tarkovskij, la tensione di rivolte e speranze soffocate dalla Storia, la ricerca di una verità che andasse oltre la miseria e violenza della Storia, ha prodotto capolavori di rara intensità e ha fatto di lui uno dei migliori registi della storia del cinema, da Andrej Rublev a Il sacrificio. Una forma non rara, nonostante quel che possano pensarne gli anarchici titolati, gli anarchici doc, di anarchismo di venatura fortemente religiosa, o quantomeno trascendentale. Della libertà relativa degli anni di Chrušcëv ˇ ha approfittato meglio di tutti, secondo me, un piccolo e geniale film per ragazzi, di Elem Klimov, Vietato l’ ingresso agli estranei, storia di una rivolta infantile in una colonia di vacanza che ricordava molto da vicino la gioiosa anarchia di Zero in condotta… Il film più «anarchico» del dopo Stalin raccontava anch’esso di un ragazzo, nel mondo caotico del gulag: Sta’ fermo, muori, resuscita di Vitalij Kanevskij, ovvero: come sopravvivere a Stalin, ovvero: Huckleberry Finn in urss. Bellissimo, anche se in Occidente sconosciuto. Un filo di un anarchismo neanche troppo generico è sopravvissuto, o è rinato, in quelle che si chiamavano al tempo dell’urss «repubbliche minori», in particolare nell’opera disincantata e ironica del georgiano Otar Iosseliani (C’era una volta un merlo canterino, I favoriti della luna, Caccia alle farfalle…). Più vicini a noi, nella Jugoslavia e poi ex, Dušan Makavejev (Un affare di cuore, Montenegro tango, girato in Svezia…) e subito 84

dopo Emir Kusturica (Il tempo dei gitani, Arizona Dream, Gatto nero, gatto bianco…) hanno guardato con ironia e sarcasmo, con coraggio e ingegno, alle storture di un sistema politico rivendicando una libertà per l’individuo di cui, quando l’hanno avuta, non sempre si sono serviti bene. In Ungheria Miklós Jancsó, con una motivata cupezza e con ambizioni diverse, e István Szabó hanno anche loro criticato il potere e difeso diritti conculcati dai regimi comunisti, ma anche diritti di sempre. Disorientati anche loro dalla caduta dei muri e delle cortine. Più saldo e più lucido di loro, il romeno Lucian Pintilie (da La ricostruzione a Il pomeriggio di un torturatore), che è anche regista teatrale, si è mosso a sua volta tra difficoltà politiche e censorie non indifferenti. In Cecoslovacchia, prima della divisione in due nazioni, e negli anni del disgelo al tempo della «primavera praghese» e dopo, hanno operato registi di valore come Miloš Forman e Ivan Passer, infiacchitisi nello sforzo di adeguarsi a Hollywood, negli anni del ˇ loro esilio. E si dette il caso di una splendida donna regista, Vera Chytilová, con alcuni film davvero primaverili: Perline sul fondo, Il gioco della mela… Ma forse il film che a suo tempo mi colpì di più fu Il coraggio quotidiano di Ewald Schorm, amaro ritratto di vita operaia in regime comunista, grido di insoddisfazione e di rivolta, esistenziale e sociale. Sono film di tanti anni fa, di un breve periodo di speranze non solo individualiste-capitaliste. Molto di recente ci è venuto dalla Slovenia il film di un giovane regista, Rok Bicek, Class enemy, che è invece una fredda analisi dei nostri tempi, proprio di oggi e almeno in Europa, che narra la rivolta di studenti non meno disorientati dei loro professori, ma non così stupidi come i loro genitori. La difficoltà di essere comunità, di tornare a esserlo. Pensando a Chytilová, un capitolo a parte andrebbe certamente dedicato alle donne-registe di una corrente storicamente femminista, ma conosco male, per ovvi motivi «maschili» o maschilisti, questo cinema, e perché perlopiù rivolto allo scavo interno al mondo femminile – una ricerca e una diversità da rispettare 85

assolutamente – piuttosto che al grido e alla rivolta. Ma almeno due nomi sono esemplari: la belga Chantal Akerman ( Jeanne Dielman, Notte e giorno, La prigioniera…) sul versante dello scavo, appartato e rigoroso, e la neozelandese Jane Campion (da Un angelo alla mia tavola a Ritratto di signora passando per Lezioni di piano), portata a una sorta di oggettivazione romanzesca, da inserire all’interno del cinema d’autore più comunicativo.

In Polonia È dalla Polonia, dalla tormentata Polonia stretta tra Germania e Russia, che sono però venuti i registi più interessanti tra quelli tentati dall’anarchismo, i giovani degli anni Sessanta Polanski e Skolimowski. Di Roman Polanski soprattutto i mirabili, perfetti cortometraggi narrativi sul tipo di Mammiferi, dimostrazioni sull’assurdo dell’esistenza, di quella sociale e di quella biologica, e i primi film, come Cul de sac, e qualcuno, raro, di quelli internazionali come Che?, divertente e bizzarro anche se è uno dei suoi meno noti, girato in Italia. Di Jerzy Skolimowski i primi film, sul disincanto di una generazione che mordeva i freni: Segni particolari nessuno, Walkover, in Inghilterra La ragazza del bagno pubblico. Entrambi, Polanski con maggiore astuzia e con maggior talento, si sono fatti occidentali, al gioco e al soldo della cultura dominante, euro-statunitense. Aveva aperto loro la strada il loro «maggiore» Andrzej Wajda, uno dei più grandi artisti del Novecento e il più notevole regista cinematografico del suo paese, abile a districarsi nelle maglie del regime (o dei regimi), ma di una straordinaria coerenza creativa. Grande romantico e grande tragico ma anche grande storico, grande analista e interprete dei dilemmi della società mitteleuropea, di un’Europa davvero centrale. I suoi primi film denunciavano l’orrore della guerra (I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti), poi il disorientamento dei giovani dentro una so86

cietà molto repressiva (Ingenui e perversi, Tutto in vendita), poi la manipolazione degli ideali operai fatta dai comunisti (L’uomo di marmo, L’uomo di ferro), poi la storia della nazione e le sue contraddizioni, i suoi punti di conflitto, una serie culminata con la ricostruzione della strage di Katyn, dove peraltro una delle vittime della fredda ferocia stalinista era stato suo padre, ufficiale dell’esercito polacco. È difficile dichiararsi anarchici in certe circostanze storiche, sotto certi regimi, ma Wajda, nel suo sforzo di mantenere libera la sua ispirazione e la sua coscienza, e nel riuscire a parlarne con il pubblico pur tra le maglie delle censure, è un esempio raro di libertà intellettuale e di critica delle istanze repressive dei regimi assolutisti, di quello nazista come di quello comunista, ma sapendo distinguere, analizzare. Non è difficile, per un critico della mia generazione che si vuole minoritario e «socialista», riconoscere la coerenza e la grandezza di Wajda, e una sorta di debito di riconoscenza che tutti gli dovremmo. Un «figlio» (dei molti) di Wajda che ha saputo eguagliarne la tensione morale ma non la politica è stato Krzysztof Kieslowski ´ (1941-1996), autore di opere inquietanti e, se così si può dire, perplesse sulla condizione umana, in una chiave di riflessione religiosa, di dubbio e di domanda, ma senza dare risposte che non aprano a nuove questioni, in ininterrotta e dolente insoddisfazione, fino a sfiorare talvolta la bestemmia. Il suo capolavoro è il ciclo di film sui dieci comandamenti che ha appunto per titolo Decalogo, film che sono verosimilmente piaciuti a Robert Bresson se, come è probabile, li ha visti.

Aki Kaurismäki, nell’Europa del Nord Poco di ribelle è venuto dal Nord Europa, nonostante opere e autori di serissima profondità, e più che al grande Ingmar Bergman, è ad Alf Sjöberg, suo maestro, che penso, a tre vecchi film segnati dal magistero, questo sì anarchico, di Strindberg: la 87

sua versione cinematografica, che fonde cinema e teatro come forse nessun altro regista è riuscito a fare, di La signorina Giulia (in Italia, La notte del piacere) e due film del tempo di guerra, Spasimo, scritto dal giovane Bergman, sulla rivolta a un sadico professore di liceo da parte di due giovani innamorati che egli perseguita, e Iris fiore del Nord, melodramma contro il classismo e la perfidia borghesi. Tensioni anarcoidi sono certamente presenti nel cinema di Bo Widerberg (Elvira Madigan, Adalen 31, Joe Hill), o di Vilgot Sjöman (490+1, Io sono curiosa), negli anni Sessanta-Settanta. Forse scandalizzando qualcuno, oso dire che la protagonista dell’ultimo grande film di un grande regista di ispirazione tragicamente umanistica e religiosa, Carl Theodor Dreyer, Gertrud, esprime qualcosa di anarchico quando esprime la lezione che ha ricavato dalla sua vita, alla fine del film, in questo modo: «Guardami dunque. Son bella? No. Ma ho amato. Guardami dunque. Son giovane? No. Ma ho amato. Guardami dunque. Son viva? No. Ma ho amato». Del giovane Ingmar Bergman, quando un po’ d’anarchia arrivava anche a lui al tempo di Stig Dagerman e Albert Camus, vanno ricordati con particolare simpatia, su questa linea, due film giovanili, Un’estate d’amore e Monica e il desiderio. È però con Aki Kaurismäki, finlandese, che il cinema nordico ha infine trovato il suo grande regista anarchico, coerente e ostinato narratore delle oppressioni sociali ma soprattutto dei modi di schivarle, di cercare – sconfitti o vincitori – le vie di una solidarietà e di una liberazione da «mutuo soccorso» di una volta… Il suo film più aperto e commosso rimarrà probabilmente L’uomo senza passato, una risposta molto classica e insieme nuova al bisogno che ancora e sempre abbiamo di confrontarci con storie esemplari e «romanzesche» e cioè, in cinema, col melodramma. La vita è stata sempre, ed è oggi più che mai, un romanzo e un melodramma, una storia di passioni cui si contrappongono divieti e tabù, ma che possono anche avere transitoriamente un happy end, o è quantomeno questo che abbiamo bisogno di spe88

rare per tirare avanti, anche quando sembrano dominarvi l’incubo e la morte. Nelle sue laconiche interviste Kaurismäki ha espresso le sue convinzioni e la sua poetica con sincerità, insistendo su un concetto molto semplice: la fierezza della persona, la dignità della persona, ovverosia quel poco che ci resta nel casino e nella deriva del mondo. Un’idea che in modo più mitico abbiamo ereditato da Hemingway (la figura del loser, del perdente che non si arrende e che non rinuncia alla sua dignità, e che preferisce morire in piedi anziché tradirla), ma che, a ben vedere, ha la sua origine in una bene intesa tradizione cristiana. I personaggi che Kaurismäki ama e racconta sono vittime di un mondo dominato dal denaro e dalla sete di potere, o dalla frustrazione di non avere né l’uno né l’altro, un mondo basato sul dominio dei pochi sui molti, sull’emarginazione dei deboli la cui esistenza e la cui miseria continuano a somigliare a quelle dei «miserabili» di un tempo, alla «povera gente» e agli «umiliati e offesi» di Dostoevskij. Si parla poco, nei film di Kaurismäki, un cinema che predilige il muto al sonoro, così come la musica dal vivo a quella «per film», in particolare le vecchie canzoni cantate da vecchi cantanti. Il parlar poco dei suoi personaggi somiglia al parlar poco di certi protagonisti di Fassbinder o meglio di Bresson, e la trama del primo suo film che amammo, Le luci della sera, non è altro che la «sfida» all’esistenza del Pickpocket e il suo finale cedimento all’amore: e per quali strane strade vi si arriva. Ma anche ricorda, questo finale, con un rovesciamento dei sessi, il finale di Rosetta o altri film dei Dardenne, e insomma quell’inesausto filone della sfida e della grazia che continua sotterraneamente ad agire nel cinema del nostro tempo. Il primo film di Kaurismäki fu non a caso un adattamento dal Dostoevskij di Delitto e castigo, e da allora questo regista ha difeso con le unghie e con i denti la sua piena indipendenza, riuscendo a dare quasi da solo alla Finlandia e al suo cinema una visibilità che prima non avevano. Addestrato alla lotta per 89

l’esistenza, ha sempre saputo di dover contare anzitutto sulle proprie forze e sulla solidarietà di cui ha saputo circondarsi. La sua testardaggine è di per sé un valore, e somiglia alla testardaggine di cui danno prova molti suoi personaggi, rubati alla letteratura e al cinema, che hanno saputo sintetizzare problemi in figure forti in cui fosse possibile riconoscersi e con cui dialogare. Dei suoi film ricordiamo con affetto lo strampalato Leningrad Cowboys go to America, Amleto si mette in affari (il più antiborghese), seguiti dalla «trilogia dei perdenti» composta da Ombre nel paradiso (amore tra poveri), Ariel (la fatalità che distrugge i sogni di alcuni reietti) e La fiammiferaia (il calvario senza luce di una comune ragazza povera). E di lì in avanti, le variazioni sono molte ma sottili, gli spunti vari ma convergenti, le «morali» comuni, sono storie di destino e di società avverse a chi non possiede, di solidarietà da accettare o da conquistare, di vie di fuga da costruire pezzo per pezzo, come dentro «zone liberate» all’interno di un sistema fatiscente, freddamente malvagio. Dopo altri bei film, ecco la bella storia di una coppia di proletari che resta disoccupata e decide di aprire un ristorante, con finale ottimista, Nuvole in viaggio, ed ecco infine quello che è sinora il più affascinante e commovente dei film di Kaurismäki, sintesi di uno stile e di una visione del mondo, L’uomo senza passato. L’avvilimento dell’uomo, e però il riscatto dell’uomo: la sua indomabilità, l’impossibilità di piegare del tutto chi non rinuncia alla dignità, anche se ha nemica una società ostile a ogni forma di giustizia e di armonia. L’uomo senza passato è una fiaba metropolitana contemporanea, bensì libera da ogni ricatto retorico. Un uomo scende da un treno con una valigia e si addentra nella periferia di Helsinki; viene aggredito da teppisti e in ospedale i medici decretano la sua morte, ma inspiegabilmente il suo cuore riprende a battere, e l’uomo, bendato, si alza dal letto, abbandona l’ospedale, si ritrova sulla riva del mare o di un canale dove un ubriaco lo raccoglie e lo ospita nella baracca in cui vive con la sua povera famiglia. L’uomo ha perduto la memoria, non sa chi è o chi è stato. Trova 90

qualche solidarietà tra i reietti, viene assistito dall’Esercito della salvezza, vive diverse disavventure finché la polizia, diffondendo la sua immagine, non permette che venga riconosciuto e ritrovi la sua identità. Ma intanto l’uomo è davvero un uomo nuovo: il nuovo ambiente, l’amore per una ragazza dell’Esercito e le esperienze fatte lo hanno portato a una nuova comprensione del mondo. Aveva una moglie da cui aveva appena divorziato, aveva il vizio del gioco, non aveva attenzione per gli altri, era un normalissimo egoista. E per aver dovuto ricominciare da zero, in un ambiente diverso ed essenziale e soprattutto da povero tra poveri, la sorte o la provvidenza lo premia con la scelta e coscienza di una nuova libertà: può tornare al gruppo dei suoi nuovi amici, all’amore della militante dell’Esercito, alla partecipazione a una comunità più vera e solidale di quella da cui proveniva, pur se proletaria. In breve, la sua è la storia di un novello Lazzaro che deve reimparare quasi tutto e ridefinirsi in situazioni nuovissime, e riesce solo così a guardare capire apprezzare lottare condividere amare. Nella parte centrale del film, «l’uomo senza passato» e senza nome è coinvolto innocente nella rapina di una banca, ma il rapinatore è un piccolo imprenditore fallito per la crisi economica del settore (e del paese tutto) e le logiche imposte dai giganti dell’economia (anche e soprattutto stranieri, cioè usa) che ritrova il nostro uomo per affidargli il bottino col compito di dividerlo tra gli ex dipendenti che non ha potuto «liquidare». Importa al regista raccontare una crisi che è del paese e del mondo, e non ci sono prospettive rivoluzionarie a cui credere e agganciarsi, a cui ci si possa affidare, ma solo e semplicemente l’indicazione di una difficoltà del Mondo, di cui continuano pur a esistere dei responsabili maggiori, che ricade anche e soprattutto sui poveri, anche su quelli (in numero crescente) dei paesi ricchi. La semplice utopia del film è allora quella dell’amore: di un uomo e una donna tra loro, dei «volontari» per gli abbandonati, degli abbandonati tra loro. 91

E ancora… Possiamo parlare di film di ispirazione fondamentalmente anarchica, anche quando lo ignorano, in altri paesi: in Turchia di Yilmaz Güney, in Messico di Arturo Ripstein, in Israele di Amos Gitai, di molti giovani registi nordafricani degli ultimissimi anni eccetera. Perfino in Australia, un film-fumetto come il secondo della serie di Mad Max di George Miller, Mad Max: Fury Road. Oltre la sfera del tuono è a parer mio ascrivibile a un’ideologia anarchica, soprattutto nella sua parte finale, quella della «repubblica dei bambini», anche se è piegato alle logiche dello spettacolo. Considero al contrario degli sbruffoni certi registi dell’esibizionismo tape-à-l’oeil, che hanno giustificato le loro astuzie di venditori di se medesimi definendosi anarchici (Tinto Brass, meno il suo primo film Chi lavora è perduto; Fernando Arrabal, più interessante semmai a teatro; il trombone Jodorowsky; l’antipatico e superficiale pseudo-ribelle molto borghese Lars von Trier e la sua scuola eccetera), un modello che si ripresenta puntualmente generazione dopo generazione, in teatro cinema musica fumetto: definirsi anarchici, magari avendo anche un pizzico di talento, aiuta a farsi strada, è un marchio di diversità che piace ai consumatori più giovani e che la pubblicità ha sempre saputo sfruttare adeguatamente.

Ma in Italia? Veniamo, finalmente, al nostro Bel Paese non più tale. Al tempo del muto, sicuramente qualche film avrà, come altrove, ridicolizzato o demonizzato gli anarchici. Col sonoro, c’era il fascismo, e le cose non potevano certo cambiare. E con il dopoguerra, con la fine del fascismo e di una guerra mondiale durata sette anni e di una guerra civile che ne è durata due (ma solo al nord, al centro un anno o più, al sud mesi o giorni)? 92

Considero anarchici alcuni film di Roberto Rossellini, come Germania anno zero, un capolavoro sul disorientamento tedesco dopo la sconfitta, e col dubbio su ogni nuova possibile proposta, La macchina ammazzacattivi e Dov’ è la libertà…?, due film trasandati e superficiali ma, come si dice, bene intenzionati, e soprattutto Europa ’51, ispirato alla figura di Simone Weil, che narrò con esitante sincerità il disorientamento morale di fronte alla ricostruzione: alla signora borghese il cui figlio decenne si è suicidato (il film comincia con questo accadimento, così come Germania anno zero finiva con il suicidio di un altro ragazzino: le prospettive della Ricostruzione non erano per loro molto convincenti…) sia il democristiano che il comunista dicono cose che non la convincono, ed è solo nella solidarietà con baraccati, puttane e operai che sa trovare consolazione, finendo, per tutta conseguenza, per essere considerata pazza e rinchiusa in casa di cura. Rossellini fece film belli e brutti con assoluta tranquillità nonché furbizia, ma fu lui il neorealismo, e non Zavattini il buonista, non Visconti l’alto borghese provvisoriamente gramsciano. Un altro regista borghese, Alberto Lattuada, fu vicino, io credo, alla morale libertaria in film duri e crudeli come Senza pietà, Il cappotto, La spiaggia eccetera, e nella sua attenzione (nel suo rispetto) per le cose del sesso. A due registi della stessa scuola, Renato Castellani e Luigi Comencini, dobbiamo film significativi sia pure in stagioni diverse. Castellani gira, negli anni del neorealismo, Due soldi di speranza, feroce nell’analisi della normale umana cattiveria e convinto dell’ostinata ricerca d’altro di due giovani amanti proletari, in una Campania chiassosa e vitale (in un altro film degli stessi anni, È primavera, Castellani arrivava a comprendere e diciamo pure lodare la figura di un giovane bigamo). Comencini, di formazione socialista, arrivò da ultimo a conclusioni molto radicali, come in Lo scopone scientifico e in Delitto d’amore, due film post-68 e ’69 che giustificavano, anzi esaltavano, l’uccisione di una coppia di vecchi capitalisti yankee da parte di una bambina del sottoproletariato romano delle 93

borgate e di un padrone che, per i veleni della sua fabbrica, era responsabile della morte di una giovane operaia, per mano del suo compagno, operaio nella stessa fabbrica. Nel dopoguerra, un grande scrittore che era stato fascista e osò dirlo e vergognarsene al contrario di tanti altri voltagabbana, Vitaliano Brancati, scrisse per Luigi Zampa tre film esemplari sulla storia civile e politica dell’Italia tra fascismo e democrazia cristiana, con personaggi aperti a un futuro non meno cinico: Anni difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi. E Mario Monicelli, nato socialista e antifascista, evolvé – lo diceva lui stesso – verso convinzioni piuttosto anarchiche nei confronti della storia e della società. Maestro della commedia all’italiana, sono suoi La grande guerra e I compagni (dove il personaggio dell’agitatore, Marcello Mastroianni, ha dell’anarchico e del socialista insieme, e d’altronde non fu facile distinguere in certi periodi della storia del movimento operaio), i Brancaleone (visione della Storia decisamente anarcoide!) e Romanzo popolare (vita operaia milanese), Vogliamo i colonnelli (che osava svillaneggiare l’esercito italiano nelle sue tentazioni golpiste) e Le rose del ventennio (un film più unico che raro nella narrazione delle assurdità della seconda guerra mondiale, della mascalzonaggine di chi era al comando). Negli anni del melenso e ipocrita «buonismo» zavattiniano, padre di quello degli anni Ottanta e seguenti (su su fino a oggi) e della tradizione, diciamo così, «comunista», operò un regista «borghese», Vittorio Cottafavi, che seppe attraverso il melodramma narrare la condizione della donna come pochi altri seppero o osarono fare (Una donna libera, per esempio, del 1953, fu in anticipo di anni e anni sulla felice ondata del femminismo). Dei due grandi registi post-neorealisti (o anti), Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, solo il primo si dimostrò sensibile alle rivolte degli anni Sessanta, con un film tutto sommato simpatico, anche se schematico, girato negli usa, Zabriskie Point. Ma dobbiamo al secondo un’impressionante serie di capolavori che hanno fissato sullo schermo un’immagine dell’Italia (e del «carattere degli 94

italiani») eccezionalmente probante e matura, da I vitelloni a Il bidone, da Otto e mezzo ad Amarcord eccetera. Rendiamogliene merito, riconoscenti. Fu piuttosto un attore, l’immenso Totò, a rassicurarci sulla presenza di un anarchismo di fondo, irriducibile a ogni forma di società, nel cinema popolare italiano, anche se talora colorato di qualunquismo. Negli anni dopo il ’68, registi come Elio Petri, Luigi Magni, i fratelli Taviani e altri ancora, di fronte alla crisi della sinistra recepirono confusamente qualche istanza libertaria, in una chiave ora moralistica e filosofante ora di cauta simpatia per il movimento degli studenti, peraltro assai incerto e dove alla fine Lenin la vinse ancora una volta, sciaguratamente, sia su Kropotkin che su Andrea Costa. Prima del ’68, il giovanissimo Marco Bellocchio ci aveva illusi con I pugni in tasca, di una radicalità che non possedeva, mentre nel cinema successivo ha spiegato tutto e sempre in termini di psicologia del profondo per niente convincenti (e ha spiegato con la psicanalisi e la famiglia anche il fascismo, anche il delitto Moro). Il suo coetaneo Bernardo Bertolucci si è mosso con più libertà, tra un film e l’altro, tra piccoli film italiani (i migliori) e grandi spettacoli internazionali, ma tra suggestioni troppo borghesi per poterci sempre appassionare. Un regista a cui invece ci sentimmo di dare molta fiducia, col tempo ricredendoci, fu Marco Ferreri, partito benissimo (L’ape regina, La donna scimmia, L’udienza, La grande abbuffata, Break-up…), ma il cui gioco fu presto scoperto: un’originalità arruffona e pretestuosa, e più cinica che anarchica nonostante le sue dichiarazioni. Fu molto più coerente con le sue idee Augusto Tretti, un regista che scelse la marginalità inconciliante, che produsse bensì due piccoli gioielli di un cinema poverissimo e pieno di invenzioni, di una comicità insieme poetica e stridente, La legge della tromba e soprattutto Il potere, una storia del potere attraverso i secoli. Prima del ’68, dopo il ’68. Negli anni Novanta, alcuni registi napoletani, in modi molto diversi tra loro, quasi comico e alla Almodóvar in Pappi Corsica95

to, tragico in Antonio Capuano (Vito e gli altri) e da melodramma freddo in Salvatore Piscicelli, suscitarono molte speranze, impallidite non solo per loro colpa. Hanno, in ogni caso, aperto spazi, fatto scuola. Solo invecchiando Ermanno Olmi, uno dei nostri maggiori registi, ha mostrato un’indignazione senza conciliazione nell’evocare il massacro della prima guerra mondiale (Torneranno i prati).

Pasolini, Bene, Maresco Possiamo considerare anarchico il percorso nel cinema di Pier Paolo Pasolini? Io propendo per il sì, anche se, come Rossellini, si è mosso con pericolosa abilità dentro i meccanismi del cinema più borghese, cioè più ufficiale (quando però un altro non esisteva), e nonostante il pensiero di questo regista fosse esasperato da un narcisismo e da un’autostima che gli impedirono di andare oltre la testimonianza. Ma cosa si deve chiedere a un artista, oltre la testimonianza che sanno dare in opere forti e talora fortissime, sofferte ed esigenti di verità e di dolore, di disagio del vivere in una società menzognera e bigotta, le cui bugie servono precisi interessi di classe? Pasolini ha vissuto i suoi anni con un’intensità e una vitalità, con un bisogno di verità di lancinante coerenza esistenziale pur se non sempre «politica». E ha pagato con la morte. Ha anche voluto essere una sorta di educatore degli italiani del suo tempo, scontrandosi ovviamente con la doppiezza di ideologie usate per nascondere interessi, e con le malizie o le violenze del potere. Ha diffidato col tempo anche delle idee di sinistra – talora sbagliando, più spesso indovinando. E noi non potevamo che «accettare le provocazioni» di cui era prodigo, discutendo quel che ci pareva giusto e quel che ci pareva ingiusto, costretti a farci i conti più e più volte, e anche adesso, nel corso degli anni. A film come Accattone, Mamma Roma, Uccellacci e uccellini, La ricotta, Teorema, e i «corti» Che cosa sono le nuvole e La Terra 96

vista dalla Luna, abbiamo reagito con un’intensità che altri film italiani non arrivavano a risvegliare; li abbiamo vissuti, giustamente, come delle provocazioni alle quali bisognava rispondere. Di Pasolini e del suo anarchismo (sì, infine di questo si è trattato) abbiamo avuto bisogno come dell’opera di altri grandi provocatori, sollecitatori, educatori – Morante e Ortese, Sciascia e Calvino e tanti altri e, più indietro, Gobetti, Salvemini, Gramsci, Malatesta… Ma i due registi che io considero i più liberi e i più «anarchici» nella vita come nelle opere, i più chiari e coerenti nella loro arte e nel loro pensiero sono Bene e Maresco. Carmelo Bene (Nostra Signora dei Turchi, Capricci, Don Giovanni, Salomé, Un Amleto di meno) ha fatto film contro il cinema, così come ha fatto teatro contro la rappresentazione. Ha cercato l’oltre e il fondo, la verità delle cose ultime, mostrando il panico di ciascuno di fronte alla vita e la diffidenza che dovrebbe essere di ciascuno di fronte alla società – qualora non ci si trinceri dietro facili e plumbei paraventi ideologici, politici, psicologici, e dietro le consolazioni del consumismo, anche di quello culturale. Franco Maresco, dapprima in associazione con Daniele Ciprì e infine, dopo Come inguaiammo il cinema italiano, da solo, si è tenuto rigorosamente ai margini del cinema ufficiale e romano, canonicamente e banalissimamente narrativo. Con il fenomeno delle televisioni libere, e con la serie di brevi episodi-ritratti che mostravano figure di un’emarginazione estrema e provocatoria, Ciprì e Maresco si fecero notare per «strisce» (come chiamarle altrimenti?) che quotidianamente e nottetempo proponevano a un pubblico sbalordito da tanta audacia e tanta «volgarità». Immagini fisse di uno splendente bianco e nero, immediatamente dotate di uno stile autonomo e inimitabile, mostrarono paesaggi di macerie e di nuvole – la rovina della storia e lo splendore del creato – e di individui subumani, larve o avanzi di un’umanità disfatta, persi nella loro afasia o nei loro borborigmi, di maniacale solitudine e di bisogni peggio che primari. Abitanti di 97

un «dopo la caduta» che poteva anche significare Auschwitz o Hiroshima, esseri di preistoria e di fantascienza, costretti a una biologia essenziale, essi svelavano comicamente, per paradosso e per verità, il «dietro lo specchio» di un’umanità al capolinea, l’avvento del post-umano. Il paese ne rise, e i furbi pensarono a una nuova forma di comicità da ancorare a quelle esistenti, una varietà un po’ disgustosa ma che poteva evolversi in direzioni commercialmente accettabili, manovrabili. E certamente Ciprì e Maresco erano anche figli del trash italiano degli anni Settanta – il cinema più «basso» che ci sia mai stato – ma proprio come ribaltavano ogni criterio di gusto e di narratologia accettabile dal grande pubblico e dai critici cinematografici che delle logiche del mercato erano succubi, così esprimevano una barocca disperazione, seicentesca e grandiosa, erede dei Ribera e dei Caravaggio e della pittura napoletana delle epidemie, delle sommosse, dei terremoti, senza il compiacimento manierista che già poteva trovarsi nelle macabre cere dello Zumbo. Un «sentimento cinico della vita» che guardava senza consolazioni di nessun tipo alla miseria dell’uomo, una volta crollate le sue ambizioni di elevazione, di nascondimento e di superamento dell’organico. Dietro i film di questi due strambi siciliani che rifiutavano Roma (Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte, Il ritorno di Cagliostro e, di Maresco soltanto, Belluscone) si scopre una tensione metafisica alta, una complessità con molte radici isolane (Luigi Pirandello, Angelo Fiore, il teatro di Franco Scaldati), una cultura cinematografica vastissima (da John Ford al noir, da Buñuel a Pasolini) e scelte austere, quasi monacali, d’arte e di vita. E una religiosità senza riti e ipocrisie, che poteva rimandare, consciamente o inconsciamente, alla disperazione teologica della morte di Dio: un’invocazione o una bestemmia, o addirittura la blasfemia come una forma di preghiera. Dalla valle di lacrime, dal fondo delle tenebre. Autore irriducibile, non reggimentabile e malleabile, Maresco continua a vivere l’anarchia nel suo fare, e 98

non solo la rappresenta; non ha bisogno di dirla, allo stesso modo di Bene e in parte di Pasolini.

Continua… È su queste scie, lungo queste strade minoritarie, destinate, nella società dello spettacolo, a esserlo sempre di più, che alcuni nuovi registi hanno trovato il coraggio per opere, minoritarie per scelta, di alto rifiuto e di alta poesia: Pietro Marcello (La bocca del lupo, Bella e perduta), Michelangelo Frammartino (Il dono, Le quattro volte), Alice Rohrwacher (Corpo celeste, Le meraviglie), Roberto Minervini (che lavora negli usa: Stop the pounding heart, Low Tide, Louisiana), Laura Bispuri (Vergine giurata), e con loro Claudio Caligari (L’odore della notte, Non essere cattivo) scomparso di recente (Caligari veniva da un cinema marginale degli anni del movimento, che dette un film significativo come Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli), e ancora Salvatore Mereu, Francesco Munzi, Edoardo Winspeare (Finis Terrae), e altri ancora, per fortuna non pochi. E vicini a loro, ma piazzati «dentro il sistema» e non sempre convinti della «lotta su due fronti», Matteo Garrone, Mario Martone, Saverio Costanzo e pochi altri hanno mostrato nelle loro opere un’indipendenza di scelte e di giudizio che i primi hanno pagato e pagano affrontando difficoltà pesanti ma accettando la marginalità e la minoranza come destino dei coerenti. Marcello, Rohrwacher, Minervini, Frammartino sono i registi anarchici del nostro presente e del nostro futuro. Non si può che concludere questa carrellata veloce (e certamente piena di buchi, piena di dimenticanze) con l’augurio che possano continuare a darci film non recuperabili ai valori di una società distruttiva e autodistruttiva, critici dell’esistente e propositivi di un’alterità forte e felice. In un mondo che produce zombie in numero sempre crescente, in un mondo dove il sistema di potere che si è im99

posto è decisamente e con una violenza estrema nemico dell’uomo e della sua autonomia di pensiero e di comportamenti, non si può che essere, chi ancora crede nella verità e nella giustizia e nella bellezza, diffidenti di ogni maschera del potere, di ogni cultura dell’accettazione, di ogni mercato dell’intelligenza e dei sentimenti e dell’immaginazione. Non si può che essere in qualche modo anarchici o, come voleva uno dei miei maestri, «cristiani senza chiesa, socialisti senza partito». Per me, le due opzioni sono oggi la stessa. Di fronte alla crescente disumanizzazione del mondo, agli orrori che ci circondano e si preparano, anche l’arte ha un ruolo da svolgere. Ma si tratta allora di ridefinire la sua natura e i suoi compiti, come ogni epoca ha fatto e la nostra rifiuta di fare consegnandosi al mercato anche in questo campo. Il cinema non è importante, quel che importa è la vita. Ma anche il cinema ha avuto un ruolo da svolgere non negativo, non manipolatorio e drogato, e può continuare ad averlo se, facendolo, si hanno le idee chiare sul contesto e sulle regole che chi ha soldi e potere cerca di imporgli. Sul mondo che vorremmo, sulle cose per le quali bisogna tornare a lottare, sul nostro bisogno di libertà e di comunità.

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Indice dei nomi

Adorno, Theodor L. W. 22, 70, 71, 72 Age (Agenore Incrocci) 21 Akerman, Chantal 86 Aldrich, Robert 63 Alighieri, Dante 24 Almereyda, Miguel 43, 44 Almodóvar, Pedro 83, 95 Altman, Robert 59, 61, 62 Anders, Günther 14 Anderson, Lindsay 67 Anderson, Paul Thomas 65 Andrade, Mário (de) 76 Antonioni, Michelangelo 82, 94 Apichatpong, Weerasethakul 81 Arrabal, Fernando 92

Artaud, Antonin 75 Ashby, Hal 63 Autant-Lara, Claude 54 Azcona, Rafael 83 Ballard, James Graham 31 Balzani, Romolo 20 Barnet, Boris 83 Basaglia, Franco 67 Beatles (The) 67 Beck, Julian 65, 76 Becker, Jacques 54 Beckett, Samuel 48, 66 Belasco, David 23 Bellocchio, Marco 95 Bene, Carmelo 19, 20, 29, 96, 97, 99 101

Benedek, László 63 Benigni, Roberto 43 Benjamin, Walter 22, 70 Berger, John 55 Bergman, Ingmar 87, 88 Berlusconi, Silvio 8, 10, 32, 35 Bernanos, Georges 46 Bertolucci, Bernardo 95 Bicek, Rok 85 Bing, Wang 82 Bispuri, Laura 99 Boccaccio, Giovanni 24 Böll, Heinrich 70 Bonnot, Jules 54 Boorman, John 63 Borghi, Armando 40 Borzage, Frank 63 Brancati, Vitaliano 94 Brando, Marlon 40 Brass, Tinto 92 Brassens, Georges 54 Brecht, Bertolt 21, 70, 71, 72, 76 Bresson, Robert 41, 46, 47, 48, 53, 54, 58, 87, 89 Brocka, Lino 81 Brook, Peter 68 Brooks, Richard 63 Browning, Todd 63 Bruni, Sergio 20 Buñuel, Luis 21, 22, 48, 49, 50, 51, 53, 63, 76, 98 Burgess, Anthony (John Bur-

gess Wilson) 31 Burroughs, William 65 Burton, Tim 42 Caligari, Claudio 99 Calvino, Italo 23, 29, 97 Campion, Jane 86 Camus, Albert 56, 88 Capuano, Antonio 95 Caravaggio (Michelangelo Merisi) 98 Carné, Marcel 45, 55 Carver, Raymond 62 Cassavetes, John 64 Castellani, Renato 93 Cecchelin, Angelo 20 Céline (Louis-Ferdinand Destouches) 44, 56, 57 Chabrol, Claude 54 Chandler, Raymond 62 Chaplin, Charles 24, 41, 42, 43 Chen, Kaige 81 Chéreau, Patrice 54 Christopher, John 31 Chrušcëv, ˇ Nikita 83, 84 ˇ 85 Chytilová, Vera Ciprì, Daniele 97, 98 Clair, René 44 Clément, René 55 Clouzot, Henri-Georges 53, 54, 55, 56, 57, 58 Coen, Ethan 65 102

Coen, Joel 65 Comencini, Luigi 93 Conrad, Joseph 23 Cooper, David 67 Coppola, Francis Ford 63 Corman, Roger 63 Corsicato, Pappi 95 Cortázar, Julio Florencio 39 Costa, Andrea 95 Costa, Pedro 83 Costanzo, Saverio 99 Cottafavi, Vittorio 94 Craxi, Bettino 10 Crichton, Charles 66 Cronenberg, David 65 Cunha, Euclides (da) 76

46, 89 Douglas, Bill 69 Dreyer, Carl Theodor 46, 88 Dumas, Alexandre 23 Duvivier, Julien 55 Eatherly, Claude 14 Ejzenštejn, Sergej 44 Epstein, Jean 44 Fabrizi, Aldo 20 Fanon, Franz 76 Fassbinder, Rainer Werner 70, 71, 72, 74, 75, 89 Fazio, Fabio 29 Fellini, Federico 20, 21, 29, 94 Ferravilla, Edoardo 20 Ferreri, Marco 95 Fiore, Angelo 98 Fontane, Theodor 73 Ford, Henry 25 Ford, John 21, 63, 98 Forman, Miloš 85 Fortini, Franco 29 Frammartino, Michelangelo 99 Franco, Francisco 83 Franju, Georges 55 Frassati, Filippo 12 Frears, Stephen 67 Freud, Sigmund 22, 49

Dagerman, Stig 88 Dalí, Salvador 49 Dardenne, Jean-Pierre 89 Dardenne, Luc 89 De Filippo, Eduardo 20 De Filippo, Peppino 20 Del Monaco, James 40 Delluc, Louis 44 Dick, Philip K. 31 Dickens, Charles 21, 23, 24 Diderot, Denis 46 Döblin, Alfred 73 Doctorow, E. L. 30 Dolci, Danilo 40 D’Origlia, Bianca 19 Dostoevskij, Fëdor 21, 23, 103

Freyre, Gilberto 76

Herzog, Werner 70, 71 Hitchcock, Alfred 63 Hitler, Adolf 22, 70, 71 Hou, Hsiao-hsien 81 Hugo, Victor 21, 23 Huillet, Danièlle 70 Huston, John 63, 30 Huxley, Aldous Leonard 30

García-Berlanga, Luis 83 Garibaldi, Giuseppe 19 Garrone, Matteo 99 Genet, Jean 73 Gilliam, Terry 42 Ginsberg, Allen 65 Gitai, Amos 92 Giudici, Giovanni 29 Gobetti, Piero 97 Godard, Jean-Luc 58, 59, 70, 76 Golding, William 68 Gomes, Miguel 83 Gramsci, Antonio 22, 97 Granier-Defferre, Pierre 55 Greene, Graham 23, 66 Griffith, David Wark 23 Grifi, Alberto 99 Guimarães Rosa, João 76 Güney, Yilmaz 92 Guthrie, Woody 63

Imamura, Shohei ¯ 78 Iosseliani, Otar 84 Jacovitti, Benito 18 Jancsó, Miklós 85 Jarmusch, Jim 65 Jia, Zhangke 82 Jobs, Steve 25 Jodorowsky, Alejandro 92 Jordan, Neil 67 Juan-Navarro, Santiago 39, 40 Jutzi, Piel (Phil) 70, 73

Hamer, Robert 66 Haneke, Michael 74 Hardy, Oliver 42 Hathaway, Henry 63 Haynes, Todd 65 Hellman, Monte 63 Hemingway, Ernest Miller 89

Kahn, Cédric 55 Kanevskij, Vitalij 84 Kaurismäki, Aki 87, 88, 89, 90 Kazan, Elia 63 Kerouac, Jack 65 Kieslowski, Krzysztof 87 ´ Kinoshita, Keisuke 78 104

Kinugasa, Teinosuke 78 Kipling, Rudyard 67 Kitano, Takeshi 80 Klimov, Elem 84 Kluge, Alexander 70 Koltès, Bernard-Marie 55 Kosinski, Jerzy 63 Kozincev, Grigorij 44, 69 Kracauer, Siegfried 22 Kramer, Robert 65 Kropotkin, Pëtr 95 Kubrick, Stanley 21, 31, 63 Kurosawa, Akira 21, 78 Kusturica, Emir 85

Losey, Joseph 64, 67 Lubitsch, Ernst 64 Lumet, Sidney 64 Lynch, David 65 Maccari, Ruggero 21 Magnani, Anna 20 Magni, Luigi 95 Majakovskij, Vladimir 21, 84 Makavejev, Dušan 84 Malatesta, Errico 8, 97 Malina, Judith 65 Mann, Anthony 64 Mann, Heinrich 73 Marcello, Pietro 99 Maresco, Franco 96, 97, 98 Marker, Chris 55 Martone, Mario 99 Marx, fratelli 42 Marx, Karl 21, 25, 49 Mastroianni, Marcello 94 Matheson, Richard 31 Mazzarella, Piero 20 Mercer, David 67 Mereu, Salvatore 99 Mieli, Paolo 29 Milestone, Lewis 64, 65 Miller, George 92 Minervini, Roberto 99 Mizoguchi, Kenji 78 Modot, Gaston 54 Monicelli, Mario 21, 23,

Laing, Ronald David 67 Landis, John 43 Lang, Fritz 21, 44, 63, 69 Lasch, Christopher 31 Lattuada, Alberto 93 Laurel, Stan 42 Le Blanc, Guillaume 41 Leigh, Mike 68 Lem, Stanisław 31 Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov) 95

Levi, Carlo 29 Levi, Primo 29 Lewis, Jerry 42 Lewis, Joseph H. 64 Leydi, Roberto 20 L’Herbier, Marcel 44 Loach, Ken 67 105

29, 94 Monteiro, João César 83 Monty Python 42 Moore, Michael 65 Morante, Elsa 12, 13, 29, 97 Moretti, Nanni 32, 43 Munzi, Francesco 99 Murnau, F. W. (Plumpe Friedrich Wilhelm) 44, 69

Peckinpah, Sam 59, 60, 61 Penn, Arthur 64 Perniola, Mario 15 Petri, Elio 95 Petrolini, Ettore 20 Pialat, Maurice 55 Picasso, Pablo 21 Pinter, Harold 66 Pintilie, Lucian 85 Pirandello, Luigi 20, 98 Piscicelli, Salvatore 96 Platone 12 Pol Pot (Saloth Sar) 82 Polanski, Roman 86 Prévert, Jacques 55 Prévert, Pierre 45 Puccini, Giacomo 23

Nabokov, Vladimir 73 Naruse, Mikio 78 Nava, sorelle 20 Olmi, Ermanno 96 Ophuls, Max 55 Ortese, Anna Maria 13, 29, 97 Orwell, George 30 ¯ Oshima, Nagisa 75, 78, 79, 80 Ozu, Yasujiro¯ 78

Rabelais, François 24 Radiguet, Raymond 54 Ray, Nicholas 64 Reed, Carol 66 Reisz, Karel 67 Renoir, Jean 21, 55 Renzi, Matteo 10, 32 Ribera, José (de) 98 Richardson, Tony 67 Rimbaud, Arthur 44, 53, 75 Ripstein, Arturo 92 Ritt, Martin 64 Rocha, Glauber 75, 76, 77 Rohrwacher, Alice 99 Rolling Stones (The) 67

Pabst, Georg Wilhelm 70 Palmi, Bruno Emanuel 19 Pan, Rithy 82 Pandolfi, Vito 20 Pasolini, Pier Paolo 26, 29, 76, 96, 97, 98, 99 Passer, Ivan 85 Pavlov, Ivan 30 106

Ronconi, Luca 29 Rosselli, Amelia 29 Rossellini, Roberto 56, 92, 93, 96 Rossen, Robert 64 Rousseau, Jean-Jacques 74

Simenon, Georges 23, 55, 56, 57 Sirk, Douglas 71, 72 Sjöberg, Alf 87 Sjöman, Vilgot 88 Skolimowski, Jerzy 86 Sordi, Alberto 20 Šostakovic, ˇ Dmitrij 69 Springsteen, Bruce 63, 84 Stalin (Iosif Džugašvili) 84 Steinbeck, John 63 Sternberg, Joseph (von) 64, 73 Stone, Oliver 65 Straub, Jean-Marie 70 Stravinskij, Igor’ 21 Strindberg, August 87 Sturges, Preston 64 Sue, Eugène 21 Sutter, Karl 40 Szabó, István 85

Sade, Donatien-AlphonseFrançois (de) 49, 68 Sales Gomes, Paulo Emílio 44 Salvemini, Gaetano 97 Sarafian, Richard 65 Sarchielli, Massimo 99 Sartre, Jean-Paul 56, 57, 76 Sayles, John 65 Scaldati, Franco 98 Scalfari, Eugenio 29 Scarpelli, Furio 21 Schlesinger, John 67 Schopenhauer, Arthur 27 Schorm, Ewald 85 Schwartz, Delmore 22 Sciascia, Leonardo 29, 97 Scola, Ettore 21 Scott, Ridley 65 Sen, Mrinal 81 Shakespeare, William 23, 24 Sheckley, Robert 31 Shindo, ¯ Kaneto 78 Shukshin, Vasilij 84 Sillitoe, Alan 66, 67 Simak, Clifford D. 31

Tanner, Alain 55 Tarkovskij, Andrej 84 Tashlin, Frank 42 Tati, Jacques 43 Taviani, Paolo 95 Taviani, Vittorio 95 Téchiné, André 55 Thompson, Jim 60 Tognazzi, Ugo 20 Tolstoj, Lev 12, 23, 24, 46, 47 107

Totò (Antonio De Curtis) 20, 24, 42, 95, 98 Trauberg, Leonid 44, 69 Tretti, Augusto 95 Trier, Lars (von) 92 Truffaut, François 55 Tsai, Ming-liang, 81, 82

Watkins, Peter 69 Weil, Simone 30, 93 Weiss, Peter 68 Welles, Orson 64 Wenders, Wim 70, 71 Widerberg, Bo (Gunnar) 88 Wilde, Oscar 29 Wilder, Billy 64 Wind, Edgar 12 Winspeare, Edoardo 99 Woolf, Virginia 24, 28 Wyndham, John 31

Ulmer, Edgar G. 64 Van Sant, Gus 65 Varda, Agnès 55 Veltroni, Walter 32 Verdi, Giuseppe 23 Verdone, Carlo 43 Vertov, Dziga 44 Vian, Boris 54 Vidor, King 64 Vigo, Jean 41, 43, 44, 45, 46, 48, 51, 53, 54 Villa-Lobos, Heitor 76 Visconti, Luchino 76, 93 Visockij, Vladimir 84 Vittorini, Elio 70 Viviani, Raffaele 20 Vonnegut, Kurt 31

Zamjatin, Evgenij 30 Zampa, Luigi 94 Zanzotto, Andrea 28 Zavattini, Cesare 21, 93 Zhang, Yimou 81 Zumbo, Gaetano Giulio 98

Wajda, Andrzej 86, 87 Walsh, Raoul 64 Ward, Colin 9, 11 Warhol, Andy 65 108

altri titoli dal catalogo elèuthera Marco Aime Etnografia del quotidiano Marc Augé Che fine ha fatto il futuro? Enrico Baj, Paul Virilio Discorso sull’orrore dell’arte Harold B. Barclay Lo Stato, breve storia del Leviatano Stefano Boni Homo comfort Albert Camus Mi rivolto dunque siamo, scritti politici Guido Candela Economia, Stato, anarchia regole, proprietà e produzione fra dominio e libertà Murray Bookchin Democrazia diretta Manuel Castells, Tomás Ibáñez Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale Cornelius Castoriadis, Christopher Lasch La cultura dell’egoismo

Piero Cipriano La società dei devianti Pierre Clastres L’anarchia selvaggia Jacques Ellul Anarchia e cristianesimo Massimo Filippi, Filippo Trasatti Crimini in tempo di pace la questione animale e l’ ideologia del dominio Vittorio Giacopini Non ho bisogno di stare tranquillo Paul Goodman Individuo e comunità David Graeber Critica della democrazia occidentale Luca Guzzardi (a cura di) Il pensiero acentrico Humberto Maturana Emozioni e linguaggio in educazione e politica James C. Scott Elogio dell’anarchismo Colin Ward Anarchia come organizzazione

Finito di stampare nel mese di luglio 2016 presso Printì, Manocalzati (AV) per conto di elèuthera, via Jean Jaurès 9, Milano