I sette re di Roma 8817399507


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I sette re di Roma
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Pietro Zullino

I

sette re

di Roma

Rizzoli Editore M ILANO 1 986

Proprietà letterariJJ riservata Milano

® 1986 Rizzo/i Editore,

ISBN 88- 17-39950-7

Prima edizione:febbraio

1986

CAPITOLO PRIMO

DAL NILO AL TIRRENO

Roma nacque nell'VIII secolo a.C. sulla sponda sinistra del Tevere. Il fiume, per l'intero suo corso, marcava allora il confi­ ne tra due nazioni profondamente diverse fra loro, l'Etruria e l'Italia. Col tempo le differenze si attenuarono, il confine gra­ dualmente sfumò e l'Etruria vinta si ritrovò incorporata nell'I­ talia vincitrice. Ma, all'inizio, etruschi e italici rappresentavano davvero due mondi alternativi e due culture di segno contrario. In comune avevano una sola cosa, la loro condizione di stranie­ ri, l'essere immigrati di recente in una penisola alquanto fuori mano rispetto ai centri della terra, e che molti chiamavano an­ cora (alla greca) Esperia, il Paese del Tramonto, giacché non possedeva un nome proprio, utile a definirla tutta quanta. Come doveva alla fine chiamarsi lo decise una secolare guerra fra etruschi e italici. Se avessero vinto gli etruschi, Na­ poli o Venezia non sarebbero oggi città « italiane •. Ma vinsero gli italici, dopo aver subito fino in fondo l'influenza civilizzatri­ ce degli antagonisti e preso da loro le istituzioni politiche e il modello di sviluppo. « Etruria,. è oggi solo il nome antico di una delle tante regioni che appartengono all'Italia. Roma venne fondata in un luogo di grande importanza strategica e commerciale, sicché fra etruschi e italici si accese immediatamente una vivace lotta per il controllo della nuova città. Quel che in effetti accadde è nebuloso. Non ci sono docu­ menti scritti dell'epoca, perché quell'epoca non sapeva scrivere. Né gli storici hanno ancora deciso se Roma fu una sentinella italica a guardia del confine etrusoo o una testa di ponte etrusca in territorio italico. Romolo stesso, il mitico fondatore, era itali­ co o etrusco? Nessuno lo saprà più. Di certo v'è solo che nell'a­ rea di Roma due razze originariamente così ostili ebbero scontri fe5

roci. Ma anche rapporti fecondi. Dopo due secoli e mezzo di al­ terne vicende, dalla loro fusione prese corpo un popolo meticcio ma destinato a un grande avvenire: i romani. Siccome nessuno ha mai potuto raccontare Roma arcaica senza prima parlare degli italici e degli etruschi, che sono il sangue dei romani, questo libro non farà eccezione alla regola. Ebbene, entrambe le stirpi vennero proiettate nella storia dalle conseguenze di una grande catastrofe avvenuta almeno cinque­ cento anni prima del loro casuale incontro sulle rive del Tevere. Forse fu l'impatto fra la terra e una cometa a provocare i tre­ mendi cataclismi del XIII secolo a.C. In qualche punto del glo­ bo s'inabissò la mitica Atlantide. Nell'Egeo, un maremoto colpì al cuore Creta e la civiltà minoico-micenea. Ma i guai peggiori vennero da un improvviso mutamento dei climi. Sembra che le regioni subtropicali abbiano dovuto sopportare decenni di sicci­ tà mentre, al contrario, l'Europa settentrionale sarebbe stata flagellata da tempeste disastrose, con aumento di livello di tutte le acque e sommersione dell'Olanda e altre zone costiere. Verso il 1 250 grandi masse umane si misero in movimento per sfuggi­ re alla carestia e al freddo, in genere da nord verso sud e da oriente verso occidente. Il quadro di queste migrazioni è impressionante per la sua vastità, ma poco definito nei dettagli. Tra le poche cose sicure vi è che un gruppo di orde guerriere abbandonò le pianure della Russia meridionale, dove il bestiame moriva, per trasferirsi sul Mediterraneo. Queste genti parlavano lingue cugine e apparte­ nevano a un unico ceppo originario, molto prolifico, che già in passato aveva dovuto sfollare in varie direzioni mandando tribù in sovrannumero fino all'India e all'Europa centrale. È per questo che si guadagnarono poi il nome cumulativo di popoli indoeuropei. La Bibbia assegna questa gente di pelle chiara al seme di Jafet, secondogenito di Noè. Ma essi non ne sapevano nulla e tra di loro si chiamavano ari, che voleva dire, modestia a parte, «i nobili"· La parola, attraverso il greco, si è poi diffusa in tutto il mondo, e noi stessi la usiamo senza saperlo quando parliamo di "aristocrazia"· Battendo piste già note ai loro antenati, le stirpi arie si fece­ ro largo brutalmente, con carri, cavalli e micidiali armi di ferro. Aggredivano un emisfero ad alta civiltà, che però usava ancora 6

armi di bronzo. La bionda stirpe dei dori sommerse la Grecia degli achei, o danai, gettandola in un cupo medioevo da cui sa­ rebbe risorta sohanto cinque secoli più tardi. Una stirpe paral­ lela, forse i moschi, spazzò via con la forza del numero l'impero hittita e s'impadronì dell'Asia Minore (l'odierna Turchia). Turbe senza nome si spinsero più giù e tutto il Medio Oriente, compresa l'Assiria, fu devastato in modo orribile. Solo l'Egitto, per la sua posizione geografica e le sue inesauribili riserve di grano, poté resistere, mentre nell'area semitica crollavano troni e città. Era la fine di un'epoca. In Occidente gli eventi furono meno clamorosi perché gli invasori irrompevano in regioni poco civilizzate e nessuna Mi­ cene fu distrutta. Ma non furono meno decisivi. Gli italici dai capelli rossi cominciarono a impadronirsi dell'Esperia. Si affac­ ciarono ai valichi alpini in successive ondate, perché la loro stir­ pe si componeva di molti popoli. All'avanguardia c'erano gli ausòni, i latini e gli umbri. Innanzi a loro fuggivano i liguri, in­ digeni dalla testa a pera, che in parte trovarono scampo concen­ trandosi nell'odierna Liguria. Nel frattempo le cose nell'Oriente mediterraneo andavano di male in peggio. Molti abitanti dell'Asia Minore si erano dati alla fuga su navi stracariche e allestite a precipizio. Ma, non sapendo dove andare, vagavano tra sponde e isole dell'Egeo cer­ cando un modo qualsiasi di sopravvivere. Gli uomini divennero pirati o si arruolarono come mercenari: dapprima al servizio dell'imperatore hittita (finché non crollò) e poi al servizio del re di Libia. Si moriva di fame, e il sogno ricorrente di tutti questi disgraziati, cui si erano uniti gli achei, era di poter forzare una volta o l'altra i granai d'Egitto. I faraoni impararono a temere l'audacia di queste genti ormai senza patria, che ricevettero il giusto nome di « popoli del mare». Nelle iscrizioni geroglifiche lasciate a Karnak, presso Tebe, il faraone Memeptah traman­ da, a sua eterna gloria, d'aver riportato una grande vittoria nel quinto anno del suo regno (1232) su una coalizione di popoli del mare. Nel novero dei nemici uccisi e catturati mette al pri­ mo posto gli eqwesh (achei) con 2200 vittime. Al secondo mette i teresh (etruschi) con 742. Questo è il più antico documento sull'esistenza di un popolo etrusco vagante per mare dopo essere stato espulso dalla sua probabile sede ori7

ginaria, una regione dell'Asia Minore occidentale chiamata Li­ dia. Documento in verità molto discusso ma soprattutto imba­ razzante, per le ragioni che subito diremo. Dopo molte peripe­ zie gli etruschi andranno a stabilirsi sulle coste occidentali del­ l'Esperia, obbligando gli italici umbri ad arretrare verso l'inter­ no. I teresh erano quasi certamente di ceppo semitico e nelle lo­ ro vene doveva scorrere parecchio sangue ebraico. Un punto a favore di questa ipotesi salta fuori proprio dall'iscrizione di Karnak, che il grande egittologo inglese Robert D. Barnett commentò così: Dai geroglifici apprendiamo con stupore che i prigionieri erano circoncisi . Veniamo a saperlo perché gli egizi, secondo l'uso, li castrarono. Oltre alle mani tagliarono anche gli organi genitali e contarono i pezzi, facendone accurata descrizione. Se le cose stanno così [prosegue Barnett, costernato] , c'è contrasto assoluto tra il fatto che fossero circoncisi e tutto quello che sappiamo su­ gli achei e in genere sui greci dell'età micenea. La questione re­ sta inspiegabile . . .

L'egittologo, si vede, avrebbe una gran voglia di affermare che il faraone Merneptah si è sbagliato. Infatti la cultura euro­ pea ha i suoi dogmi e crede fermamente che nella civiltà greca, fondamento di quella occidentale, le influenze semitiche siano state in ogni fase irrilevanti. Qualche studioso ha osato sostene­ re il contrario, per esempio che la Grecia micenea cadde prati­ camente in mano a una classe dirigente venuta dall'Egitto; ma intorno a lui si è fatto il vuoto, come se avesse la peste. A causa del dogma i cattedratici europei - specie quelli tedeschi continuano a guardare con sospetto la stele di Karnak, e di fatto si comportano come se non esistesse. Il singolare atteggiamento non è senza conseguenze per l'etruscologia. I poveri teresh ( antenati degli etruschi) sono infatti sullo stesso carro degli eq­ wesh. Anche per loro vige un divieto p> che Prisco pronunciò nelle piazze apparve improntato a una sana e gagliarda demagogia. Era proprio il discorso che la maggioranza dei nuovi romani 14 1

voleva ascoltare. Le masse latine (e anche gli etruschi di recente immigrazione) contavano ancora assai meno del dovuto, sicché, da piccolo Kennedy, Prisco disse loro chiaro e tondo che se fosse stato eletto avrebb e aumentato il numero dei senatori da due­ cento a trecento, creando i nuovi " dall'ordine inferiore ,. (m ino­ rum gen tium). E si accaparrò i favori della plebe, che da quel momento in avanti divenne « il partito del re "· Alle elezioni riportò un numero impressionante di voti e schiacciò i concorrenti , tutti ancora legati alla mentalità rigida e misoneista dell'aristocrazia sabina. Creò i cento nuovi senatori e subito andò al sodo, facendo vedere che il trono l'aveva chiesto non per impigrirsi ma per trascinare i romani verso un futuro di emozioni e di ricchezza. La guerra ? Certo, la guerra. Ma non la guerra stolida e autolesionista di Tullo Ostilio e nemme­ no la guerra " male inevitabile " di Anco Marzio. Bensì la guer­ ra come slancio vitale, avventura e soprattutto come mezzo per sfondare sui mercati e combinare ottimi affari : la guerra all'in­ glese, insomma. Tanàquil gli guardava le spalle in modo egregio. Non aven­ do preoccupazioni a Roma, Prisco poté guidare le sue schiere con l'abilità e l'intraprendenza d'un colono bianco andato a scorrere il Far West o la Rhodesia. Non bisogna dimenticare che era mezzo greco; che la sua famiglia aveva navigato per tut­ to il vasto mondo; che Roma, scegliendo lui, si era data un capo pieno d'esperienza e di scaltrezza, un vero genio rispetto ai reucci bifolchi del Lazio e della Sabina. Come primo obb i ettivo scelse Apìoli, un villaggio volsco del basso Lazio, per nessuna altra ragione che gli abitanti tenevano l'oro nei materassi. E ri­ portò un bottino " molto maggiore di quello che ci si poteva at­ tendere dall'importanza di quella piccola guerra ,. (Livio) anche perché « i prigionieri e le donne e i bambini furono venduti co­ me schiavi ,. (Dionigi ). E cco una cosa che i re predecessori non avrebbero nemmeno immaginato si potesse fare: portare i nemi­ ci a Ostia e venderli ai pirati . Questa prassi così poco italica era invece normale nell'intero bacino mediterraneo, e lo scalo ma­ rittimo voluto da Anco alla foce del Tevere comportava che i ro­ mani vi si potessero tranquillamente adeguare. Prisco impiegò parte del ricavato nell'organizzazione di « giochi sontuosi e sfarzosi » quali mai Roma aveva visto sino ad 142

allora. Furono eretti palchi e tribune in legno nella valle Mur­ cia, tra Palatino e Aventino (il teatro della gara d'avvoltoi fra Romolo e Remo e anche del ratto delle sabine); e nacque il Cir­ co M assimo. Vi si svolsero gare di cavalli e pugilatori, fatti ve­ nire espressamente dall'Etruria, e questi ludi si celebrarono dapprima soltanto nelle grandi occasioni, poi divennero an­ nuali. Mentre il nuovo re diventava sempre più popolare tra i ro­ mani , nel Lazio si spargeva la fama dei suoi rivoluzionari meto­ di di guerra e quasi tutte le città della confederazione latina vennero a chiedere spontaneamente pace e pietà. Prisco gradiva l'omaggio, ma soprattutto gradiva le offerte e i contributi. Quando questi mancavano, passava direttamente all'estorsione, e così trattò Collatia, " multata con una forte somma di denaro ,. (Dionigi); regalò poi Collatia a suo nipote Tarquinio Arrunte detto l'Egerio, cioè il Povero, figlio del defunto suo fratello Ar­ runte. Come si vede, era generosissimo, specialmente con la ro­ ba altrui. E la gente lo portava alle stelle. Davanti a Cornìcoli, altra cittadina che non voleva stare al suo gioco, si regolò come ad Apìoli : dopo l'assedio vittorioso la­ sciò alla truppa il bottino spicciolo e deportò « la parte della po­ polazione che si era salvata, soprattutto mogli e figli, per ven­ derla schiava "· Per lo più i latini gli consegnavano le città , perché vedevano che resistere comportava la riduzione in schiavitù e la distruzione, mentre per chi ricono­ sceva il potere di Tarquinia Prisco non v'era che il semplice ob­ bligo di obbe dire al conquistatore.

Tuttavia i rottami della sacra lega di Ferentino - che si era formata ai tempi di Tullo Ostilio - mandarono segreta­ mente ambasciatori in Sabina e in tutta l' Etruria per chiedere che si organizzasse qualcosa contro Roma. I sabini aderirono subito. L'Etruria invece davanti al pro­ blema romano si spaccò in due, come ai tempi di Anco Marzio. Tarquinia e le città a essa collegate consideravano Roma una città amica e quasi consanguinea; non inviarono quindi alcun aiuto ai latini riottosi. Ma le città nemiche di Tarquinia, come Vulci e Veio, si regolarono diversamente. Pensarono che una 743

guerra interetrusca si potesse combattere con meno danni nel Lazio e decisero l 'invio d'un corpo di spedizione che, dopo es­ sersi riunito ai sabini, calasse di conserva sulla città. Oltre a Vulci e Veio, mandarono truppe Chiusi , Arezzo, Volterra, Ro­ selle e Vetulonia. Erano lucumonie dell'Etruria media, molto distanti dal Tevere, e proprio questo dato deve farci compren­ dere quale timore incutesse ormai a tutta l' Italia centrale l'asse Tarquinia-Roma. L'intervento tirrenico nella guerra avrà regalato al quinto re dei quiriti fremiti di piacere. Finalmente il piatto della parti­ ta diventava ricco e finalmente egli avrebbe potuto dimostrare a tutti che cosa fosse la guerra moderna. Dobb i amo immaginarci un Prisco tutto allegro. Dei sabini non temeva, non poteva te­ mere: erano combattenti valorosi ma arcaici; le loro concezioni belliche apparivano irrimediabilmente superate; quella gente perdeva tempo in rituali magici di stampo barbarico, per poi schierarsi in modo legnoso su una sola linea aspettando lo scon­ tro frontale. Più temibili, perché in ogni senso più evoluti , era­ no gli etruschi. Ma Prisco, essendo stato dei loro, ne conosceva a fondo i difetti , che sarebb ero poi stati per millenni i difetti e la maledizione stessa delle città toscane: il campanilismo, l'antipa­ tia e l'astio reciproci , l'incapacità di coordinarsi e di formare un esercito solo. Chi erano, poi ? Una casta dominante, una élite di conquistatori che incontrava sempre molte difficoltà q uando c'era da far combattere fuor di Tirrenia le fanterie fornite dagli indigeni umbri sottomessi. Si trattava pur sempre - sulla carta - d'una coalizione minacciosa; Tullo Ostilio non avrebbe esitato un attimo a muo­ verle contro per andarsi a cacciare con tutta l'armata in uno di quei budelli tragicomici che erano la sua specialità. Ma Prisco non era Tullo Ostilio e si guardò bene dal commettere un simile pietoso errore. Aveva già cominciato a smitizzare la guerra, spiegando ai romani che si doveva badare alla sostanza e non alla forma, all'utile e non alle pagliacciate coreografiche. Ades­ so dimostrò loro che combattere poteva essere uno spasso. Anziché riunire le forze, le divise; e anziché offrire al nemi­ co un esercito e una battaglia campale, creò gruppi di combatti­ mento e nuclei d'incursori altamente specializzati. Aveva u n'in­ telligenza affilata come . una lama di rasoio, Prisco, e la sua 744

mente si tendeva come un elastico per sfruttare tutte le oppor­ tunità. Vide subito che i vari contingenti etruschi non arrivava­ no insieme nel Lazio, ma alla spicciolata, nuovi dell'ambiente e del terreno. Ne approfittò per vincere la prima battaglia in que­ sto modo: mentre una legione di fanti teneva impegnato frontal­ mente un esercito nemico abbastanza raccogliticcio e spaesato, lui stesso guidò dei cavalieri romani travestiti da cavalieri latini all a conquista d'un campo avversario. Superata la debole guar­ dia con la sorpresa del travestimento, Prisco restò coi suoi in ag­ guato dentro le tende; e quando a sera gli etrusco-latini, dopo una giornata di pugna incerta e inutile, fecero ritorno al campo, ler;J.tamente incalzati dalla fanteria romana, una buona parte li lasciò entrare e li massacrò mentre si toglievano le corazze, il resto venne a trovarsi inaspettatamente tra due fuochi e si di­ sperse per le campagne in preda al terrore. Quellì che si rifugiavano nell'accampamento vennero sorpresi e uccisi dai cavalieri che avevano precedentemente occupato il campo latino. E se alcuni tentavano di precipitarsi di nuovo al­ l 'esterno si scontravano con la fanteria romana e venivano an­ nientati. Ma la maggior parte di loro - urtandosi e schiaccian­ dosi a vicenda - morì in modo ignobile e miserabile all'interno dei fossati e delle cinte difensive. Pertanto anche coloro che su­ peravano tale sbandamento finirono coll 'arrendersi . Tarquinio Prisco lasciò ai suoi il saccheggio dell'accampamento e s'appro­ priò dei prigionieri, che vennero poi venduti [ D ionigi ] .

La prima fase della guerra terminò così , con Prisco che ac­ cettava la resa delle città latine purché gli fornissero gente da vendere sul mercato degli schiavi (sempre il business più reddi­ tizio). M a il bello doveva ancora venire. Un anno dopo ci fu il con­ giungimento di un'altra spedizione etrusca coi sabini. Esso però non avvenne come al solito nell'area fidenate. Dai tempi di Ro­ molo tutte le battaglie per il controllo del Lazio si erano com­ battute lì , presso il famoso guado, a nord della confluenza del Tevere con l'Aniene; perché stavolta il nemico aveva cercato un posto più a sud, la zona di Antemnae, a valle della confluenza ? Prisco mandò i suoi esploratori verso Antemnae, che sorge­ va dove oggi c'è Villa Ada, e seppe che c'era anche un'altra no145

vità. Etruschi e sabini avevano come sempre piazzato due cam­ pi distinti : però uno di là e uno di qua dal Tevere. Sulla riva destra, in pianura, il campo etrusco; su quella sinistra e sul col­ le di Antemnae, il campo sabino. In quel punto Tevere e Anie­ ne erano già confluiti e avevano un sol letto largo e profondo che non consentiva il guado; allora, per ottenere una comunica­ zione rapida fra i due campi , gli etruschi , abili ingegneri, ave­ vano gettato fra le due opposte rive un magnifico ponte di barche. Era evidente la loro intenzione di fronteggiare la minaccia romana da qualsiasi parte si profilasse. Roma aveva ormai in­ cluso nel suo territorio cospicui lembi di Etruria e poteva con­ durre operazioni militari anche sulla sponda destra del fiume. Gli etrusco-sabini avevano ragione di sentirsi insicuri sia a drit­ ta che a mancina: quel ponte consentiva appunto di riunire le loro forze con una celerità che il guado di Fidene non avrebbe consentito. E se i romani avessero attaccato sulla sponda destra, allora gli etruschi sarebbero passati sulla sponda sinistra e tagliando il ponte alle loro spalle avrebb ero avuto tutto il tempo di riunirsi ai sabini e investire Roma dalla parte di Campidoglio e Quiri­ nale; e se i romani avessero attaccato sulla sponda sinistra, ci sarebbe stata la manovra inversa e Roma sarebbe stata investita dalla parte del Gianicolo; e se i romani non avessero attaccato affatto, allora si sarebbero condannati da soli a un assedio. Un piano senza dubbio audace e ingegnoso, che mirava a portare la guerra sotto le mura della città e non s'accontentava più del controllo di Fidene. Ma ci voleva altro per mettere in difficoltà Tarquinio Pri­ sco. Il re di Roma finse di voler impegnare il nemico frontal­ mente e manovrando sulla sponda destra portò uno spezzone dell'esercito « presso il fiume, in un punto poco più elevato ri­ spetto al nemico, sopra una collina fortificata ,. (Dionigi ) . Il luogo è riconoscibile; dovrebbe trattarsi del versante settentrio­ nale dei colli della Farnesina, ancor oggi molto boscosi . La ver­ zura non consentiva al nemico di valutare la forza romana lì nascosta. Solo che Prisco stette lì fermo per giorni e giorni senza at­ taccar battaglia: convinse gli etruschi che aveva capito il loro 146

gioco e non era disposto ad abboccare. Allora i sabini passarono il ponte e andarono a schierarsi nella pianura a destra del Te­ vere, accanto agli etruschi, per dimostrare che erano pronti a misurarsi in una battaglia campale. Avranno anche lasciato scolte e presidi sulla sponda sini­ stra, ben conoscendo la furberia di Tarquinia: ma come poteva­ no prevedere che la loro rovina sarebbe arrivata da tutt'altra parte? Non dalla terra, ma dall'acqua. E nemmeno dall'acqua del Tevere, bensl da quella del più piccolo Aniene. Si palesò d'improvviso - alle loro spalle - uno spettacolo mirabile e terrificante. Oggetti vulcanici scendevano svelti lun­ go la corrente del fiume; decine di zattere fumiganti, che non portavano soldati ma bracieri, e che in pochi minuti andarono a sbattere tutte quante contro il ponte fabbricato dagli etruschi, appiccandovi il fuoco. Il prezioso collegamento fra i due campi stava per essere distrutto! I sabini ruppero le file e volarono indietro, al ponte, per im­ provvisarsi pompieri, mentre anche l'esercito etrusco era per­ corso da fremiti di paura. Che cosa poteva essere accaduto? Da dove erano spuntate quelle zattere? Il corso del fiume, sinuoso e cespuglioso, non permetteva di capirlo. Se le zattere venivano da Fidene, voleva dire che i romani avevano preso la città, com­ pletato l'accerchiamento della forza tirrena e assunto il pieno controllo della zona d'operazioni. Il che per gli etruschi era la fine. Quelle zattere in realtà s'erano immesse nel Tevere prove­ niendo dall'Aniene. Prisco aveva mandato i suoi com mandas parecchie miglia a nord della confluenza tra i due fiumi e que­ sti arditi, occupato un punto della sponda aniate, al riparo d'u­ na folta vegetazione, avevano fabbricato le zattere riempiendole di «frasche secche, legna da ardere, zolfo e pece •. L'inestingui­ bile «fuoco greco "• insomma Il figlio di Demarato da Corinto doveva conoscerlo bene! Poi col favore della notte e con tecnica da sommozzatori avevano portato gli ordigni alla confluenza dei fiumi e lì, a un'ora convenuta, li avevano accesi e lanciati contro l'obbiettivo. E adesso s'apprestavano - per pochi che fossero - a inve­ stire da tergo l'accampamento dei sabini, sguarnito e privo d'o­ gni difesa dal momento che tutti erano accorsi al ponte che bru147

ciava. Tarquinio Prisco considerò la distruzione del campo ne­ mico molto più importante che la distruzione dell'esercito. A parte il fatto che il bottino si faceva lì , la scomparsa del campo toglieva ai sabini ogni sicurezza. Gli mandava il morale sotto i calzari . L'incendio non si poté domare e il ponte si sfasciò. Allora il re romano dette ordine alle non molte coorti che aveva sui colli della Farnesina di scendere lentamente verso la fronte etrusca. I sabini scapparono subito: non per vigliaccheria, ma perché, crollato il ponte, a essi , se volevano ripassare il Tevere con ordi­ ne, e salvar il salvabile del loro campo, non restava che riguada­ gnare di corsa il guado di Fidene. Gli etruschi saranno rimasti invece sconcertati dalla scarsa consistenza numerica degli avversari usciti dal bosco. Avranno pensato che l'altra metà dell'esercito romano stesse manovrando per un accerchiamento. Quindi senza aspettare il contatto col nemico ripiegarono su Fidene, abbandonando a Tarquinio il lo­ ro ormai inutile campo avanzato. Fecero benissimo. Ma era un po' tardi. Tarquinio Prisco aveva trasformato l'altra metà del suo esercito in un reggimento di marines. Fanti da sbarco, senza più temer nulla dai sabini, stavano passando il Tevere un po' a valle della confluenza