I sette sigilli 9788857516431

Testo latino a fronte. Questo libro contiene la prima traduzione italiana del De Septem Sigillis, un opuscolo apocalitti

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Italian, Latin Pages 115 Year 2013

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I sette sigilli
 9788857516431

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BIBLIOTECA DI FILOSOFOFIA DELLA STORIA N.

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Collana diretta da Andrea Tagliapietra e Diego Fusaro COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Bonacina (Università di Urbino) Sebastiano Ghisu (Università di Sassari) Roberto Mordacci (Università di Milano – San Raffaele) Pier Paolo Portinaro (Università di Torino) Frieder Otto Wolf (Freie Universität Berlin) Vesa Oittinen (Università di Helsinki) Luca Pes (Università di Milano – San Raffaele)

GIOACCHINO DA FIORE

I SETTE SIGILLI A cura di Alfredo Gatto Con un saggio di Andrea Tagliapietra

MIMESIS Biblioteca di Filosofia della Storia

© 2013 – MĎĒĊĘĎĘ EĉĎğĎĔēĎ (Milano – Udine) Collana: Biblioteca di filosofia della storia, n. 1 Isbn: 9788857516431 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

GIOACCHINO DA FIORE E I SIGILLI DELL’APOCALISSE 1) L’ordo historiae e l’ordo scientiae: Gioacchino e Tommaso 2) Il De Septem Sigillis nel corpus gioachimita

7 7 24

GIOACCHINO DA FIORE (CELICO 1135 – S. GIOVANNI IN FIORE 1202) Opere e edizioni Principali apocrifi gioachimiti

47 47 49

DE SEPTEM SIGILLIS I SETTE SIGILLI PRIMUM SIGILLUM PRIMO SIGILLO

52 53

APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL PRIMO SIGILLO

54 55

SECUNDUM SIGILLUM SECONDO SIGILLO

56 57

APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL SECONDO SIGILLO

58 59

TERTIUM SIGILLUM TERZO SIGILLO

60 61

APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL TERZO SIGILLO

62 63

QUARTUM SIGILLUM QUARTO SIGILLO

64 65

APERTIO EIUSDEM APERTURA QUARTO SIGILLO

66 67

QUINTUM SIGILLUM QUINTO SIGILLO

68 69

APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL QUINTO SIGILLO

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SIGILLUM SEXTUM SESTO SIGILLO

72 73

APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL SESTO SIGILLO

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SIGILLUM SEPTIMUM SETTIMO SIGILLO

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APERTIO EIUSDEM APERTURA DEL SETTIMO SIGILLO

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NOTE AL TESTO I SETTE SIGILLI

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REVOLVERE AETATES. GIOACCHINO TEOLOGO DELLA RIVOLUZIONE di Andrea Tagliapietra

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GIOACCHINO DA FIORE E I SIGILLI DELL’APOCALISSE

1) L’ordo historiae e l’ordo scientiae: Gioacchino e Tommaso Gioacchino da Fiore è stato uno dei più importanti ed autorevoli pensatori dell’intero panorama medievale. Lo spazio dedicatogli dalla storiografia, tuttavia, è spesso inversamente proporzionale alla vasta influenza della sua posterità spirituale. A questo proposito, basti pensare che Étienne Gilson, nella sua monumentale opera sulla filosofia nel Medioevo1, non dedicò neppure una pagina all’abate di Corazzo. L’idea che Gioacchino fosse soltanto un «curieux personnage, visionnaire ou prophète2», il cui interesse andrebbe al massimo ricondotto ad una particolare ed insolita forma di eterodossia, è una convinzione che ha accompagnato alcuni dei più importanti studiosi della filosofia medievale3. La persistenza di un pregiudizio tanto esiziale per la corretta comprensione della riflessione gioachimita non può essere senz’altro innocente. A nostro parere, una delle ragioni di tale atteggiamento storiografico deriva direttamente dal magistero 1

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Cfr. É. Gilson, La philosophie au Moyen Âge, Payot, Paris 1952 (I ed. 1922); trad. it., La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, a c. di A. M. Del Torre, Sansoni, Firenze 2004. In alcuni lavori successivi lo storico francese si occuperà di sfuggita di Gioacchino da Fiore, ma spesso attribuendogli delle opinioni incompatibili con la lettera del testo gioachimita. Cfr., ad esempio, É. Gilson, L’esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris 1932; trad. it., Lo spirito della filosofia medievale, a c. di P. S. Treves, Morcelliana, Brescia 1983, p. 478; cfr. inoltre Id., Dante et la philosophie, Vrin, Paris (n. ed. 1972); trad. it., Dante e la filosofia, a c. di S. Cristaldi, Jaca Book, Milano 1987, pp. 229, 245 e 239. E. Jeauneau, La philosophie médiévale, Puf, Paris 1963, p. 68. Cfr., ad esempio, É. Bréhier, La philosophie du Moyen Âge, Albin Michel, Paris 1937; trad. it., La filosofia del Medioevo, Einaudi, Torino 1952, in part. pp. 223-224.

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I sette sigilli

tomista. Tommaso d’Aquino accusò infatti l’abate calabrese di essere privo di una solida mentalità “scolastica”, non essendo in grado di comprendere appieno le sottigliezze della ratio teologica4. Il giudizio del magister domenicano, contenuto nei Super Decretales, rispecchia una precisa congiuntura storica. In quel periodo, Gioacchino era noto soprattutto per la condanna inflittagli da Innocenzo III nel corso del IV Concilio Lateranense (1215), dove venne messo all’indice il De unitate seu essentia Trinitatis, un suo libello, ora perduto, scritto contro la teoria trinitaria di Pietro Lombardo. Il responso del Concilio e il duro commento di Tommaso certificarono non soltanto il rifiuto delle personali posizioni difese da Gioacchino, ma l’implicita condanna di un intero orizzonte culturale e di una precisa modalità di rapportarsi ai contenuti della sacra pagina. Innocenzo III e la più alta auctoritas del XIII secolo si rivelano allora i perfetti testimoni del progressivo abbandono di un’impostazione destinata ad essere scalzata dalla prepotenza della ragione scolastica. Accusando Gioacchino di possedere una conoscenza approssimativa dei dogmi di fede, e ritenendo i 4

Thomas de Aquino, Super secundam decretalem, in Id., Contra Errores Graecorum, De Rationibus Fidei, De Forma Absolutionis, De Substantiis Separatis, Super Decretales, Editio Leonina, Tomus XL, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1969, c. 2, ll. 1-53, p. 41: «Damnamus ergo et reprobamus etc. Exposita forma catholicae fidei in praecedentibus, in hac decretali damnatur error Ioachim reprobare circa unitatem divinae essentiae et Trinitatem personarum […] Ioachim autem abbas Florensis monasterii non bene capiens verba magistri praedicti, utpote in subtilibus fidei dogmatibus rudis, praedictam magistri Petri doctrinam haereticam reputavit, imponens ei quod quaternitatem induceret in divinis ponens tres personas et communem essentiam, quam credebat sic poni a magistro Petro quasi aliquid distinctum a tribus personis, ut sic possit dici quasi quartum; credebat enim quod ex hoc ipso quod dicitur essentia divina nec generans nec genita nec procedens, distinguatur a Patre qui generat et a Filio qui generatur et a Spiritu Sancto qui procedit. Et ideo ipse Ioachim protestabatur quod in divinis non est aliqua res una quae sit Pater et Filius et Spiritus Sanctus, sive illa res una dicatur substantia sive essentia, sive natura, his enim tribus nominibus idem intelligimus. Sed ne videretur totaliter a fide Nicaenae synodi recedere, concedebat quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus sunt una essentia, una substantia, una natura, quasi una essentia possit praedicari de tribus personis ut dicamus ‘Tres personae sunt una essentia’, non autem e converso ut dicatur ‘Una essentia est tre personae’» (il corsivo è nostro).

Gioacchino da Fiore e i sigilli dell’Apocalisse

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riferimenti biblici e patristici dell’abate di Corazzo affatto insufficienti per cogliere appieno la materia del contendere5, il Doctor Angelicus operò un vero e proprio gesto di esclusione. Il sistema dell’Aquinate, del resto, rappresenta la perfetta antitesi del pensiero monastico, fondato sulla lettura e sulla meditazione dei testi sacri. Tommaso e Gioacchino sono perciò i testimoni di un crocevia storico decisivo per l’evoluzione della teologia medievale, incarnando due differenti modi di rapportarsi all’intrinseca storicità del dogma e al sistema di ragioni a sostegno della fede. Come ha rilevato opportunamente McGinn, l’abate calabrese «non fu un re o un imperatore, né un papa o un uomo di curia, sebbene negli ultimi venti anni della sua vita il suo destino sia stato strettamente legato a quello di prelati o regnanti. Gioacchino fu prima di tutto, e soprattutto, un monaco6». Il teologo di Corazzo, infatti, non sviluppò la propria teoresi nell’ambiente cittadino delle Università, soppesando la bontà della sua esegesi sulla base delle distinctiones proposte da Lombardo; al contrario, le sue analisi sono il frutto di un confronto serrato con la lettera dei due Testamenti, in una tensione ideologica che finisce per contrapporre alla quaestio universitaria la centralità della lectio divina. Secondo Henry Mottu, il rifiuto del contesto urbano delle nuove scholae universitarie, a cui viene spesso contrapposto il silentium heremi, è 5

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Thomas de Aquino, Contra Errores Graecorum, in Id., Contra Errores Graecorum, De Rationibus Fidei, De Forma Absolutionis, De Substantiis Separatis, Super Decretales, cit., I, c. 4, ll. 36-54, p. 74: «Hic autem modus loquendi calumniosus est, et in sacro Lateranensi concilio reprobatum est dogma Ioachim qui hunc modum loquendi contra magistrum Petrum Lombardum defendere praesumpsit. Ostendit enim praedictus magister in quinta distinctione primi libri Sententiarum quas edidit, quod communis essentia nec generat nec gignitur nec procedit, et hoc ideo quia in divinis invenitur aliquid commune indistinctum et aliquid quod distinguitur et non est commune; illud ergo quod est distinctionis ratio in divinis non potest attribui ei quod est commune et indistinctum, sed solum ei quod distinguitur. Nulla autem alia distinctionis ratio in divinis invenitur nisi ex eo quod unus generat et alius nascitur et alius procedit; non ergo hoc ipsum quod est generare vel nasci vel procedere potest essentia divinae attribui quae est communis est omnino indistinta in tribus personis». B. McGinn, The Calabrian Abbot. Joachim of Flore in the History of Western Thought, Macmillan Publishing Company, New York 1985; trad. it., L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, a c. di P. e E. Di Giulio, Marietti, Genova 1990, p. 30 (il corsivo è nostro).

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ciò che rende l’abate «del tutto estraneo a quella che è stata chiamata “la Rinascita del XII secolo”»; egli appare «in questo secolo come un isolato, un individualista, un autodidatta, un avversario implacabile del grande movimento scolastico che sta nascendo»; forte della sua impostazione, Gioacchino porta «all’esasperazione l’opposizione di origine agostiniana tra la scientia poco sicura dei magistri e la sapientia dei monaci7». Il nostro abate è dunque parte di un vasto gruppo di pensatori che rifiutarono quell’avventura di comprensione e giustificazione razionale della fede che troverà in Tommaso il suo più grande rappresentante. Ad ogni modo, già a partire dall’XI secolo, grazie alle traduzioni latine di Boezio ad una parte dell’Organon aristotelico e ad un’ampia gamma di scritti sul valore e l’importanza delle arti liberali, stava iniziando ad imporsi una rinnovata modalità di indagine, incentrata sugli strumenti formali messi a disposizione dalla logica greca. All’interno delle scuole di Reims, Chartres e Fleury, l’applicazione dell’ars dialectica incominciò ad assumere un ruolo sempre più centrale. Alla luce di questa impostazione, ben esemplificata da Berengario di Tours8 – il “dialettico” per eccellenza dell’XI secolo –, il contenuto della fede non travalica più, sic et simpliciter, l’estensione finita della ratio umana, ma è la sua stessa liceità a dover essere corroborata e confermata dai nuovi mezzi ereditati dalla tradizione. Seguendo l’interpretazione proposta da Josef Anton Endres9, l’XI secolo è quindi il 7

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H. Mottu, La manifestation de l’Esprit selon Joachim de Fiore, Delachaux & Niestlé S. A., Neuchatel-Paris 1977; trad. it., La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, a c. di R. Usseglio, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 17. Su Berengario di Tours e la dialettica nell’XI secolo, cfr. De Montclos, Lanfranc et Bérenger. La controverse eucharistique du XIe siècle, Louvain 1971 e T. J. Holopainen, Dialectic and Theology in the Eleventh Century, Brill, Leiden 1996, in part. pp. 44-118. Cfr. J. A. Endres, Lanfranc Verhältnis zur Dialektik, “Der Katolik”, 25 (1902), pp. 215-231; Id., Othlohs von Sankt Emmeram Verhältnis zu den freien Künsten, insbesondere zur Dialektik, “Philosophisches Jahrbuch”, 17 (1904), pp. 44-52 e 173-184; Id., Die Dialektiker und ihre Gegner im 11. Jahrhundert, “Philosophisches Jahrbuch”, 19 (1906), pp. 20-33; Id., Petrus Damiani und die weltliche Wissenschaft, “Beiträge zur Geschichte der Philosphie des Mittelalters”, Vol. VIII/3, Aschendorff, Münster 1910. Cfr. inoltre J. De Ghellinck, Dialectique et dogme aux Xe-XIIe siècles, “Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters”, Supplementband I, Münster 1913, pp.

Gioacchino da Fiore e i sigilli dell’Apocalisse

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teatro di un conflitto fra i cosiddetti “dialettici”, convinti che la logica fosse uno strumento necessario per indagare e scandagliare i misteri della natura divina, e gli “anti-dialettici”, difensori di un’impostazione tradizionale, incentrata sull’intelligenza spirituale delle Sacre Scritture. Questi dibattiti ci forniscono una preziosa testimonianza per comprendere in modo adeguato il clima culturale che farà da sfondo alla critica gioachimita. L’abate calabrese, infatti, svolgerà un ruolo simile a quello impersonato nel secolo precedente da Pier Damiani, un monaco italiano, eremita e uomo di Chiesa, che cercò di porre un argine all’improprio utilizzo dell’ars dialectica. Gioacchino e Damiani sono accomunati dal generale rifiuto di un’impostazione concettuale destinata ad anteporre all’autorità della fides l’autonomia della ratio. Non facendo parte di quel piano assiale che ha caratterizzato l’orizzonte di comprensione della Scolastica medievale, sono entrambi dei pensatori inscritti all’interno del paradigma monastico, delle figure che si pongono al di fuori del dominio concettuale che si stava ormai imponendo a cavallo tra l’XI e il XII secolo. Gioacchino da Fiore svolgerà allora, da futuro perdente, la stessa battaglia combattuta da Pier Damiani. Ponendo al centro della loro indagine la comprensione spirituale delle Scritture, intesa come fulcro e centro propulsore di una meditatio radicata nei cenobi benedettini e nei monasteri collocati alla periferia dell’impero, il monaco ravennate e l’abate calabrese danno voce e testimonianza ad un pensiero dell’eccedenza, irriducibile alle tensioni intellettuali che stavano travagliando il loro periodo storico: se Pier Damiani insiste sulla sproporzione che sussiste fra la necessità raggiunta dal procedere sillogistico, incapace di interrogare le condizioni della propria stessa legittimità, e le infinite possibilità dischiuse dall’omnipotentia Dei, Gioacchino si sofferma invece, forte di un apparato esegetico incardinato su di un solido impianto figurale, sulla sovrabbondanza del simbolo nei confronti della lettera. 79-99; M. Losacco, Dialettici e antidialettici nei secoli IX, X, XI, “Sophia”, 1 (1933), pp. 425-429; A. Cantin, Foi et dialectique au XIe siècle, Les éditions du Cerf, Paris 1997; trad. it., Fede e dialettica nell’XI secolo, a c. di F. Ferri, Jaca Book, Milano 1996.

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Il pensiero dell’abate di Corazzo, infatti, è essenzialmente figurativo, e molte delle sue più vivide e profonde intuizioni sono state raggiunge attraverso il medium di specifiche figurae simboliche10. A questo proposito, basti pensare alla visione del salterio a dieci corde descritta da Gioacchino in una delle sue opere più importanti11. La mattina di Pentecoste del 1183 o 118412, mentre si trovava nel monastero cistercense di Casamari, ospite dell’abate Geraldo e dei suoi monaci, il teologo, intento a pregare dinanzi all’altare, ebbe «una sorta di esitazione nella fede della Trinità, come se fosse cosa difficile per l’intelletto o per la fede credere in tre persone e un solo Dio e in un solo Dio e tre persone13». Tuttavia, dopo aver evocato lo Spirito Santo, pregandolo di mostrargli il «sacrum misterium Trinitatis», si presentò a Gioacchino «l’immagine del salterio a dieci corde, e racchiuso nella sua forma stessa in modo talmente chiaro e comprensibile il mistero della Trinità14». Laddove la fede ereditata dalla tradizione non sembra più in grado di giustificare se stessa, incapace di tradurre in parole una verità che travalica i limiti dell’intelletto, ecco sopraggiungere un apparato figurale che non si sostituisce alla ratio umana, ma la integra, elevando il piano di indagine. Il simbolo custodisce per10 11

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Cfr. M. Reeves – B. Hirsch-Reich, The Figurae of Joachim of Fiore, Clarendon Press, Oxford 1972. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1965); ed. K.-V. Selge, Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistgeschichte des Mittelalters, Hannover 2009; trad. it., Il salterio a dieci corde, a c. di F. Troncarelli, riv. K.-V. Selge, Viella, Roma 2004. La datazione della visione di Pentecoste e della visione di Pasqua ha dato vita a differenti interpretazioni; cfr., ad esempio, K.-V. Selge, L’origine delle opere di Gioacchino da Fiore, in O. Capitani e J. Miethke (a c. di), L’attesa della fine dei tempi nel Medioevo, Bologna 1990, pp. 87-131, in part. p. 111 (n. 56), e R. E. Lerner, Joachim of Fiore’s Breakthrough to Chiliasm, “Cristianesimo nella storia”, 6 (1985), pp. 489-512; trad. it., La via al chiliasmo di Gioacchino da Fiore, in Id., Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, a c. di S. Galli, Viella, Roma 1995, pp. 97-111, in part. pp. 97-103. Ioachim abbas Florensis, Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 227rb; ed. K.-V. Selge, Praefatio, ll. 12-14, p. 9; trad. it. p. 4. Ivi, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 227va; ed. K.-V. Selge, ll. 3-5, p. 10; trad. it. p. 4.

Gioacchino da Fiore e i sigilli dell’Apocalisse

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ciò una verità che l’argomentazione razionale non può cogliere autonomamente, se non dopo aver assistito alla sua rappresentazione. Le figurae gioachimite, lungi dal sostituirsi all’esposizione ordinata e coerente dell’argomento in esame, non fanno altro che arricchirla e perfezionarla, predisponendo l’intelletto a comprendere in termini discorsivi ciò che può essere colto propriamente soltanto attraverso le immagini. Si tratta dunque di pensare anche per figure, incrinando la solida struttura geometrica delle quaestiones scolastiche. Poiché il sostrato figurale di tutta l’indagine di Gioacchino è incompatibile con la metodologia offerta dal Liber Sententiarum di Lombardo, i suoi giudizi critici sulla mentalità diffusa in quel periodo storico sono il naturale corollario della sua sensibilità culturale. Prima che Tommaso imponesse, di fronte alle quaestiones poste dal sapere profano, l’autorità della propria responsio, l’abate di Corazzo aveva già duramente criticato i presupposti di quel metodo che troverà nel magister domenicano la sua più raffinata e coerente espressione. È quindi alla luce di questa impostazione che vanno compresi i riferimenti critici disseminati nelle opere di Gioacchino alla sapientia mundana15. Nel Tractatus super quatuor Evangelia, ad esempio, illustrando la differenza fra la legge e la grazia, Gioacchino suggerisce di significare in Giovanni ciò che è carnale, e di attribuire invece a Cristo quanto vi è di spirituale. «Coloro che sono formati nella dottrina scolastica» [«qui scolastica instituuntur doctrina»] vengono allora considerati discepoli di Giovanni, mentre viene giudicato discepolo di Cristo soltanto chi è stato educato nel sapere spirituale16. Gli scolastici, del resto, prendono in esame soltanto lo stato della Chiesa temporale, senza occuparsi di quella fede che supera, in dignità e comprensione, tale orizzonte di pensiero. Questa «mul15

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Cfr., fra gli altri, Ioachim abbas Florensis, De articulis fidei ad fratrem Iohannem, ed. E. Buonaiuti, Istituto Storico per il Medio Evo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 1936, pp. 3-80; ed. V. De Fraja, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2012, c. 18, ll. 25-28, p. 59. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Tractatus super quatuor Evangelia, ed. E. Buonaiuti, Tipografia del Senato, Roma 1930; ed. F. Santi, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2002, III, 16, pp. 286-287; trad. it., Trattati sui quattro Vangeli, a c. di L. Pellegrini, pref. C. Leonardi, intr. G. L. Potestà, Viella, Roma 1999, p. 207.

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tiplex scientia» rimane perciò «lontana, con buona pace di coloro i quali se ne preoccupano, da quella che è necessaria certo in ogni tempo, ma soprattutto all’approssimarsi della fine del mondo17». La scienza cui fa riferimento l’abate era esemplificata alla perfezione dalla riflessione di Pietro Lombardo. Purtroppo, non disponendo del trattato gioachimita sull’unità e l’essenza della trinità, non possiamo stabilire con precisione i termini della sua critica; sappiamo però, grazie ad un riferimento diretto al magister parigino presente nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, che il teologo calabrese accusava Lombardo di aver trasformato la Trinità in una quaternità18. Secondo Gioacchino, se nel primo stato fu cancellata l’empietà di Sabellio, che negò l’esistenza delle tre persone, e nel secondo l’eresia ariana, che divise l’unità dell’essentia Dei19, il terzo status è in relazione alla posizione sostenuta da Pietro Lombardo, reo di aver separato l’unità dalla Trinità, dando vita ad una sorta di eretica quaternitas. L’analisi trinitaria di Gioacchino verrà duramente stigmatizzata da Tommaso d’Aquino. In un articolo della sua Summa, il Doctor Angelicus presenta l’opinione del teologo di Corazzo, fornendone un’immediata confutazione: l’abate Gioacchino, «considerando che, a motivo della sua semplicità, Dio non è altro che l’essenza 17 18

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Ivi, III, 16, ll. 9-11, p. 305; trad. it. p. 220. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, III, c. 2, pp. 208-209, ed. A. Patschovsky, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2008: «Deinde inter duo nocturna leguntur in hyeme tres lectiones cum responsoriis suis, in estate una tantum cum responsorio suo, quia, sicut iam sibi alibi scripsisse me recolo, in hoc communi tempore, quod agitur inter duo nocturna, oportet aperiri occulta et archana misteria, ut, qualiter credendus sit Deus omnipotens trinus et unus, per ea, que in tribus statibus scripta sunt et scribi oportet, non iam in enigmate, ut in preteritis seculis, sed veluti facie ad faciem intelligatur, abolita primo impietate Sabelii, qui personas negavit, secundo pravitate Arii, qui unitatem scidit, tertio blashemia Petri, qui unitatem a Trinitate dividens quaternitatem» (il corsivo è nel testo). Sulle critiche di Gioacchino a Sabellio e Ario, cfr., ad esempio, Ioachim abbas Florensis, De Articulis Fidei, ed. V. De Fraja, cap. 2, ll. 6-9, p. 7: «Igitur et Sabellium detestans, qui unam personam asseruit Trinitatis, et Arrium execrans, qui, licet, tres personas confessus est, divisas tamen docuit et ineguale, tu trinum tene set non compositum, unum cogita set non singularem». Cfr. inoltre, fra i moltissimi riferimenti, Ioachim abbas Florensis, Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 229vb; ed. K.-V. Selge, I, dist. I, ll. 16-19 e ll. 4-9, pp. 22-23; trad. it. pp. 10-11.

Gioacchino da Fiore e i sigilli dell’Apocalisse

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divina, sosteneva l’ortodossia di questa espressione, l’essenza genera l’essenza, messa alla pari di quest’altra, Dio genera Dio. Ma in questo egli si ingannava20». Dio e divinità, infatti, precisa il magister domenicano, nonostante indichino la stessa cosa, non la esprimono nello stesso modo: «il termine Dio indica l’essenza divina come esistente in un soggetto, e proprio per questo suo modo di esprimere normalmente può designare la persona; e quindi al termine Dio si può unire come predicato quanto è proprietà delle persone […] Invece la voce essenza per il suo modo di esprimere non può designare la persona; perché serve a indicare la divinità come forma astratta. Perciò quello che è proprio delle persone, e che serve a distinguerle tra di loro, non si può attribuire all’essenza, poiché ricadrebbe sull’essenza la distinzione che c’è tra le persone21». Sebbene la responsio tomista si soffermi soltanto sull’erroneità dei termini utilizzati dall’abate, «in subtilibus fidei dogmatibus rudis», la posta in gioco della critica che Gioacchino rivolgeva a Lombardo era in realtà un’altra. In effetti, il cuore della «blashemia Petri» non può essere ricondotto alle sole dinamiche intratrinitarie, ma coinvolge uno degli aspetti più importanti del pensiero del teologo calabrese, ossia l’intrinseca storicità del suo impianto ermeneutico. Gioacchino, infatti, «riteneva che la teologia del Lombardo minacciasse di cancellare il coinvolgimento dinamico delle tre persone nel processo della storia sacra, imprigionando la Trinità dentro la struttura di una terminologia astratta e di distinzioni pericolose22». Un esempio perfetto per illustrare lo scarto che divide l’approccio esegetico dell’abate dalla scientificità della metodologia lombardiana è rappresentato dalla sesta distinctio del Psalterium decem chordarum. L’intrinseca storicità della Rivelazione appare qui pienamente dispiegata: secondo Gioacchino, «benché Dio uno e 20

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Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I, q. 39, a. 5, in Id., Summa Theologiae, Iª q. 1-49 cum commentariis Caietani, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1888, p. 405; trad. it., La Somma Teologica (Voll. I-II), a c. di P. A. Balducci, intr. di P. M. Daffara, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984-1992, p. 246 (il corsivo è nel testo). Ibid. (il corsivo è nel testo). B. McGinn, L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, cit., pp. 181-182.

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trino sempre sia stato ciò che è, che fosse trino non fu reso noto da principio, se non agli uomini perfetti. Il nome invece di una sola persona, cioè del Dio Padre, è stato annunciato a tutti […], affinché quel popolo ancora rozzo per l’epoca in cui viveva, non riuscendo a comprendere il mistero della Trinità, non convertisse il culto del Dio unico in politeismo23». Sebbene Dio non abbia mai smesso di essere ciò che è, il Figlio e lo Spirito Santo furono annunciati in un preciso momento della storia: il «misterium Trinitatis» è stato perciò rivelato solamente in questa senile pienezza dei tempi [«in hac senili plenitudine temporum»], nell’istante in cui Dio inviò nel mondo il proprio Figlio24. Il metodo gioachimita, lungi dal voler dar vita ad un “sistema” scientifico, legittimato dalla non contraddittorietà dei contenuti posti in relazione, si rivela un costrutto dinamico, fondato sulla corretta comprensione di un ordo temporum che si dispiega storicamente. La teologia è allora, più propriamente, una lectio historiae, in cui l’intelligenza degli eventi è radicata in un processo storico, teatro del progressivo incremento delle tracce divine nel mondo. Ad essere scandaloso, quindi, almeno per i vari doctores delle Università, è proprio il rifiuto di un ordine scientifico e atemporale incardinato nell’eleganza formale del sillogismo. Non è un caso, del resto, che le critiche tomiste si siano rivolte soprattutto a questo particolare aspetto della riflessione gioachimita. In un articolo presente nel quarto libro del suo Commento alle Sentenze, l’Aquinate si domanda se il tempus resurrectionis debba essere differito sino alla fine del mondo, così che tutti possano risorgere insieme. L’obiettivo del testo è di fornire una risposta soddisfacente ad una apocalittica ingenua, convinta di poter stabilire con certezza geometrica il tempo della fine. Nella seconda solutio, Tommaso precisa i termini del problema: l’estensione del tempo futuro può essere conosciuta «per revelationem vel per naturalem rationem». Ora, poiché il momento della resurrezione finale verrà a coincidere con la cessazione del moto dei cieli, la ragione naturale non è in grado di indicare l’arco temporale che separa 23 24

Ioachim abbas Florensis, Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 239va; ed. K.-V. Selge, I, dist. VI, ll. 1-7, p. 88; trad. it. p. 46. Ivi, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 239vb; ed. K.-V. Selge, pp. 88-89; trad. it. p. 47.

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l’uomo dal giudizio finale, non essendo nelle condizioni di prevedere la cessazione del moto dei cieli, vista la circolarità del suo movimento. La centralità assunta dalla cosmologia aristotelica svolge qui un ruolo essenziale25. Poiché le analisi dello Stagirita costituivano il criterio guida e il presupposto ermeneutico indispensabile per fare fronte alle svariate istanze che dominavano i dibattiti del XIII secolo (almeno fino alla condanna comminata nel 1277 dal vescovo parigino Stefano Tempier26), era necessario per ogni magister theologiae disinnescare la potenziale pericolosità delle fascinazioni apocalittiche. L’escatologia è destinata infatti a dischiudere la perfetta circolarità della fisica peripatetica, incrinando il moto circolare ed eterno che informava la descrizione aristotelica del cosmo. Non essendoci nel mondo tratteggiato da Aristotele alcuno spazio per una krisis apocalittica, era quindi obbligatorio risolvere il potenziale conflitto fra la sempiterna stabilità di un mondo identico a se stesso e la necessità della sua futura consunzione. Nel testo in esame, Tommaso d’Aquino ritiene che la conoscenza raggiungibile grazie alla sola rationem naturalem non ci consenta di fare alcuna previsione circa il tempo a venire. La sua opinione non cambia nemmeno analizzando il sapere guadagnato attraverso la rivelazione: se Cristo stesso non rivelò ai suoi apostoli (At. 1, 7) il tempo del giudizio, non lo svelerà certo ad altri. Tutti gli uomini devono rimanere perciò in attesa, pronti ad aspettare il momento della fine: per tale ragione, «tutti coloro che fino ad oggi si sono messi in capo di determinare quel tempo, hanno detto il falso. Alcuni infatti, come dice sempre S. Agostino, stabilirono quattrocento anni dall’ascensione del Signore al suo ritorno, altri cinquecento, altri mille: tutte falsità evidenti; e

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Cfr. T. Gregory, L’escatologia cristiana nell’aristotelismo del XIII secolo, “Ricerche di storia religiosa”, I (1954), pp. 108-119; Id., Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, “Giornale critico della filosofia italiana”, XL (1961), pp. 163-174, ora in Id., Mundana Sapientia, Forma di conoscenza nella cultura medievale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1992, pp. 261-274 A questo proposito, cfr. L. Bianchi, Il Vescovo e i filosofi. La condanna parigina e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990.

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similmente risulteranno falsi i calcoli di coloro che continuano a fare delle predizioni27». Una volta negata la liceità di ogni previsione futura, Tommaso esclude che la concordia fra i due Testamenti possa fornire degli utili indizi per accertare i fatti a venire. L’Aquinate si allontana dunque dall’esegesi biblica in uso nella tradizione monastica: resta così «in secondo piano, fino ad essere abbandonato nella costruzione “sistematica” della teologia, l’aspetto più propriamente storico dell’escatologia, anzi la stessa tensione escatologica che dava senso alla storia, sentita e vissuta come processo irreversibile e finito, legato ad una lettura della Bibbia impegnata a cogliere, nelle concordie delle sue figure, i segni premonitori degli ultimi tempi28». Sebbene lo status del Nuovo Testamento sia prefigurato dall’Antico, per Tommaso non è più possibile indicare alcuna sicura corrispondenza fra i singoli eventi che hanno avuto luogo in quelle sacre pagine, soprattutto considerando che in Cristo hanno già trovato il loro compimento tutte le figure veterotestamentarie. Come Agostino rifiutò nel De Civitate Dei (XVIII, 52) di stabilire una qualche simmetria fra il numero delle piaghe di Egitto e le persecuzioni del popolo cristiano, Tommaso è convinto che si debba dare «lo stesso giudizio degli scritti dell’abate Gioacchino, il quale per mezzo di tali congetture ha predetto delle cose vere, mentre in altre si è ingannato29». Yvon-Dominique Gélinas ha rilevato giustamente come la posizione di Tommaso si basi su un duplice rifiuto dell’impostazione di Gioacchino. Da una parte, il magister domenicano sottolinea la debolezza metodologica dell’esegesi dell’abate, criticandone l’eccessivo letteralismo; dall’altra, Tommaso si sofferma invece sull’insufficienza teologica dei presupposti gioachimiti, visto il te27

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Thomas de Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, IV, dist. 43, q. 1, a. 3, sol. II, Editio parmense 1856-1858; trad. it., Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (Vol. X), a c. di R. Coggi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2002, p. 53. T. Gregory, L’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, “Studi Medievali”, VI, II (1965), pp. 79-94, ora in Id., Mundana Sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, cit., pp. 275-290, cit. p. 284. Thomas de Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, loc. cit., resp. ad tertium; trad. it. p. 55.

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nue riferimento del teologo di Corazzo al ruolo centrale di Cristo nell’economia della salvezza30. Ad essere ripudiata non è quindi soltanto l’ermeneutica fondata sulla concordia duorum Testamentorum, bensì la tensione escatologica che continua a caratterizzare l’esegesi gioachimita. Nel suo Contra impugnantes dei cultum et religionem, ad esempio, l’Aquinate attacca duramente la convinzione, attribuita in questa sede a Gioacchino e, in modo particolare, all’Introductorius ad Evangelium aeternum di Gerardo di Borgo San Donnino, che l’avvento dell’Anticristo fosse ormai vicino31. Assistiamo pertanto ad un confronto fra l’impazienza apocalittica di una figura che consumerà il tempo, accelerandone la fine, e la difesa della stabilità dell’attuale configurazione mondana, custode del messaggio salvifico incarnato da Cristo. L’intima dialettica fra la compiutezza dell’ordine presente e l’attesa del giudizio finale farà nuovamente la sua comparsa nelle Quaestiones disputatae de Potentia. Nel sesto articolo della quaestio V, 30

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Y-D. Gélinas, La critique de Thomas d’Aquin sur l’exégèse de Joachim de Flore, in Tommaso d’Aquino nella storia del pensiero, Vol. I: Le fonti del pensiero di S. Tommaso, Atti del congresso internazionale (Roma-Napoli, 17/24 aprile 1974), Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1975, pp. 368-376, in part. p. 372. Thomas de Aquino, Contra impugnantes Dei cultum et religionem, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1970 (Tomus XLI), c. 28, ll. 98-135, p. 160: «Inducunt etiam octo signa quibus propinquum Antichristi adventum ostendere volunt [...] Unde cum quidam iam Christi Evangelium mutare cinentur in quoddam aliud evangelium quod dicunt aeternum, manifeste dicunt instare tempora Antichristi. Hoc autem evangelium de quo loquuntur, est quoddam introductorium in libros Ioachim compositum, quod est ab Ecclesia reprobatum; vel etiam ipsa doctrina Ioachim, per quam, ut dicunt, Evangelium Christi mutatur […] Secundum signum assumunt ex hoc quod habetur in Psalmo “Constutue Domine legislatorem super eos”, Glosa ‘Antichristum legis pravae latorem’; unde cum doctrina praedicta quam legem Antichristi dicunt sit Parisius exposita, signum est Antichristo adventum instare. Sed doctrinam Ioachim vel illius Introductorii, quamvis aliqua praedicabit Antichristus falsum est: ipse enim praedicabit se esse Deum, ut habetur II Thess. II “Ut in templo Dei sedeat tamquam sit Deus”, et quod “extollitur supra omne quod nominatut Deus aut quod colitur”. Quod si doctrinam Antichristi intelligunt omnem falsam doctrinam sicut et antichristi dicuntur omnes haeretici, tunc istud signum nullum est quia a primitiva Ecclesia nullum tempus fuit in quo doctrinae haereticae non proponerentur; unde dicitur I Ioh. II “Nunc autem antichristi multi factu sunt” Glosa ‘Antichristi sunt omnes haeretici».

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Tommaso si domanda se l’uomo possa conoscere la fine del moto del cielo. Le affinità con la trattazione fornita nello Scriptum super libros Sententiarum sono evidenti. La responsio tomista, infatti, stabilisce immediatamente l’impossibilità umana di determinare il termine ultimo del tempo: «Il tempo preciso della fine del mondo è del tutto sconosciuto se non da Dio e dal Cristo come uomo. E la ragione di ciò è duplice, in quanto è duplice il modo con il quale possiamo prevedere il futuro: per conoscenza naturale o per rivelazione32». Ora, se l’incapacità dell’uomo di stabilire il tempo del giudizio in virtù della sola «cognitionem per revelationem» ripercorre, nella sostanza, l’analisi svolta nel commento al liber lombardiano, per ciò che concerne la conoscenza naturale assistiamo ad una piccola variazione nell’ordine delle ragioni, probabilmente dovuta al contesto in cui si colloca l’articolo in esame. In effetti, mentre nel testo precedente l’impossibilità di conoscere il tempo della finem mundi era ricondotta alla compiuta circolarità del moto dei pianeti, sempre identica a se stessa, in questa sede l’Aquinate si richiama direttamente alla natura insondabile della voluntas Dei: «Non è possibile conoscere in anticipo in modo preciso la fine del mondo, perché la causa del moto del cielo e della sua cessazione non è altro che la volontà divina, come è stato dimostrato sopra, la quale causa è naturalmente inconoscibile»; fra coloro che sostengono il contrario, indicando una possibile datazione per il giorno del giudizio, compie «un errore più pericoloso chi dice che Cristo arriverà prossimamente o che la fine del mondo è imminente, perché questo può dare adito alla disperazione che tale venuta ci sia, una volta che non sia accaduta nel momento previsto33». Tommaso precisa inoltre che i vari passi biblici che fanno cenno alla prossimità della fine non devono essere posti in relazione alla misura del tempo, bensì all’ordine del mondo pensato alla luce della disposizione divina: nessun altro stato infatti «seguirà alla legge evangelica che ha realizzato il compimento, 32

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Thomas de Aquino, Quaestiones disputatae De Potentia, q. 5, a. 6, resp., in Id., Quaestiones disputatae (Vol. II), cura et studio P. M. Pession, Marietti, Torino-Roma 1965; trad. it., Le questioni disputate. La potenza divina (Vol. VIII), a c. di B. Mondin, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2003, p. 721. Ivi, p. 723

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come invece essa è seguita all’antica legge e questa alla legge naturale34». Questa precisazione è fondamentale per cogliere il presupposto che guida l’indagine tomista, intenzionata ad identificare la lex instaurata da Cristo con la legge destinata a durare sino al giudizio finale. La precisazione fornita dall’Aquinate trova la propria intelligibilità in un articolo della Summa Theologiae dedicato al rapporto fra la lex nova e la fine del mondo. Evocando implicitamente un milieu culturale impregnato di suggestioni gioachimite, Tommaso riporta l’opinione di chi crede che «il Vangelo di Cristo non sia il Vangelo del regno, ma debba venire un Vangelo dello Spirito Santo, come una nuova legge35». L’obiettivo dell’articolo è di negare alla radice qualunque legittimità ad una tale assunzione, dimostrando che l’incarnatio Christi ha consegnato agli uomini una legge destinata a durare «usque ad finem mundi». Secondo Tommaso, la connessione fra lo stato del mondo e la nova lex può essere analizzata in due modi differenti: in primo luogo, considerando la possibilità che la legge venga modificata o sostituita; in secondo luogo, prendendo in esame l’eventualità che il comportamento degli uomini nei confronti della stessa legge subisca delle modifiche. A proposito del secondo ramo della questione, l’atteggiamento tomista si rivela oltremodo realistico: come la legge mosaica andò incontro a delle considerevoli mutazioni, giacché «in certi periodi le leggi erano ottimamente osservate, e in altri erano del tutto trascurate», allo stesso modo «può variare lo stato della nuova legge, secondo la diversità di luoghi, di tempi e di persone, in quanto la grazia dello Spirito Santo è posseduta in maniera più o meno perfetta36». Tuttavia, precisa il Doctor Angelicus, ciò non implica che l’uomo sia in attesa di uno stato futuro, in cui la grazia sia effusa in maniera più perfetta di quanto non sia già accaduto. Sarebbe allora profondamente sbagliato [«stultissimum est»] sostenere che il Vangelo di Cristo non 34 35

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Ivi, resp. ad nonum, p. 727. Thomas de Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 106, a. 4, in Id., Summa theologiae, Iª-IIae q. 71-114 cum commentariis Caietani, Editio Leonina, cura et studio fratrum praedicatorum, Roma 1892, p. 276; trad. it., La Somma Teologica (Vol. VII), a c. di P. T. Centi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, p. 32 (la traduzione è leggermente modificata). Ivi, p. 34.

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corrisponda al Vangelo del regno37 [«dicere quod Evangelium Christi non sit Evangelium regni»]. La responsio al secondo quesito consente di comprendere in maniera più adeguata la durezza della posizione di Tommaso circa il primo dei problemi evocati nell’articolo. Il nodo della questione riguarda la possibilità che lo stato attuale del mondo possa mutare con il variare della legge. L’Aquinate si oppone radicalmente ad una simile eventualità, ritenendo che la nova lex inaugurata da Cristo rappresenti il culmine della perfezione raggiungibile: «allo stato presente della nuova legge non seguirà» perciò «nessun altro stato»; d’altro canto, «questo stato seguì a quello dell’antica legge, come ciò che è perfetto segue a un dato imperfetto. Ora, nessuno stato della vita presente può essere più perfetto di quello della nuova legge. Poiché niente può essere più vicino all’ultimo fine, di quanto introduce direttamente a codesto fine. E la nuova legge fa precisamente questo38». Tommaso è convinto che non si debba attendere nella vita presente uno status più perfetto di quello incarnato e rappresentato dalla lex nova. Ciò che preoccupava in modo particolare l’Aquinate era quindi l’implicita e pericolosa svalutazione del ruolo di Cristo nell’economia della salvezza, soprattutto in un contesto storico in cui era ancora viva la radicale traduzione dell’escatologia gioachimita fornita dal Liber di Gerardo di Borgo San Donnino. La radice delle critiche tomista è connessa alla necessità di rivendicare l’esaustività della revelatio: è possibile dunque, come suggerisce McGinn, che «la centralità del Cristo nella concezione tomistica della storia della salvezza sia messa in evidenza con ammirevole chiarezza forse e soprattutto perché il dottore angelico aveva dovuto affrontare la sfida del sistema gioachimita39». L’incarnatio Christi fornisce l’essenziale strumento di mediazione per farsi largo nella storia sacra; non è più necessario infatti ricercare nella storicità degli avvenimenti le tracce di un’apoca37 38 39

Cfr. Ivi, resp. ad quartum, p. 36. Ivi, p. 32 (il corsivo è nostro). B. McGinn, The Abbot and the Doctors: Scholastic Reactions to the Radical Eschatology of Joachim of Fiore, “Church History”, 40 (1971), pp. 30-47; trad. it., L’abate e I dottori: Gioacchino, Tommaso d’Aquino e Bonaventura, in Id., L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, cit., pp. 219-245, cit. p. 224.

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lisse imminente. La Chiesa, quale custode della tradizione, è limitata soltanto da un ἔσχατον che non presuppone né necessita ancora di una tensione profetica, poiché non coinvolge, nella sua assoluta trascendenza, l’attuale corso degli avvenimenti storici. Rivendicando la continua attualità della lex nova, cardine ultimo di ogni possibile perfezione, Tommaso d’Aquino finiva per rifiutare l’inclusione dell’escatologia nell’orizzonte intramondano. Il fondamento epistemico a disposizione del viator era così universalmente garantito, senza che egli dovesse attendere la progressiva immanentizzazione delle cose ultime per vederlo compiutamente dispiegato. I saldi principi della lex nova, del resto, rivelati una volta per sempre nella persona del Figlio, sono gli stessi che consentono ai magister theologiae di dare vita ad una stabile descrizione del mondo. Non è quindi la temporalità del processo storico successivo alla venuta di Cristo ad integrare l’ordine speculativo dei problemi, modificando la stessa risoluzione delle varie quaestiones, ma sono gli stessi avvenimenti della storia ad essere inquadrati all’interno della episteme edificata nelle scholae. La convinzione che solo l’immutabilità e l’eternità dell’ordo scientiae potessero rendere comprensibile il quadro cangiante dell’ordo historiae costituisce la più chiara e radicale presa di distanza dall’ermeneutica gioachimita. La riflessione dell’abate rappresenta la preziosa testimonianza di un metodo destinato ad essere scavalcato dalla ἐνέργεια della ratio scolastica. Mentre l’Aquinate analizzava le tracce divine della creatio mondana nell’alveo di un sistema archetipale universalmente stabile ed assicurato, il teologo di Corazzo interpretava il corso della storia attraverso delle categorie simboliche in continuo divenire. L’intrinseca storicità di ogni evento diviene allora custode di una novitas absoluta, destinata per ciò stesso a perfezionare, e magari a modificare, i modelli eretti dalla tradizione. La trascendenza non costituisce un alter mundus in grado di sostanziare e giustificare i paradigmi della conoscenza umana, ma rappresenta l’alterità radicale di un contro-modello. All’interno del regime apocalittico, «non si fugge in avanti o nel cielo delle purezze astratte; si contraddice ciò che esiste nei termini della realtà esistente»; l’apocalittica esprime perciò «l’alterità di Dio e delle sue promesse nel tessuto della storia, ma in modo tale che il contro-modello giudica ciò che il profeta-apocalittico sta vivendo.

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Contro-storia nella storia, Città di Dio all’interno della città degli uomini, Gerusalemme nuova contro la grande prostituta, questo tipo di trascendenza formula la finalità dell’attesa, più che nei termini di semplice evoluzione, in termini giuridici di contraddizione, di controtestimonianza, di novità40». La riflessione gioachimita trova quindi nella continua tensione fra la stabilità dell’ordo attuale e l’infinita apertura dischiusa dall’attesa il presupposto della sua stessa indagine. Rivendicando l’intrinseca incompiutezza del mondo, Gioacchino fu in grado di dare voce, ancora una volta, ad un pensiero intenzionato a recuperare nuovamente la carica destabilizzante e rivoluzionaria dell’apocalittica primitiva. 2) Il De Septem Sigillis nel corpus gioachimita Il De Septem Sigillis è un’opera essenziale per comprendere adeguatamente l’evoluzione della riflessione di Gioacchino da Fiore. In questo breve opuscolo apocalittico, il teologo calabrese presenta le persecuzioni che hanno avuto luogo nei due Testamenti, scandite dai sette sigilli dell’Apocalisse e dalla loro apertura. Gioacchino ritiene che in ogni sigillo sia contenuta una tribulatio, e che ogni tribolazione patita dalla Chiesa sia connessa ad una persecuzione veterotestamentaria. Grazie alla concordia binaria stabilita fra le rispettive tribulationes, l’apertura di ogni sigillo rivela i legami che uniscono il Nuovo con il Vecchio Testamento, illuminando l’epoca storica che il popolo ebraico e il popolo cristiano stanno attraversando. Come ha messo bene in luce Julia Eva Wannenmacher41, la scelta del teologo di utilizzare lo schema settenario offerto dai sigilli si inscrive all’interno di un contesto storico ben preciso. Già prima di Gioacchino, infatti, due differenti filoni ermeneutici si erano interrogati sul significato da attribuire ai sette sigilli apocalittici. A partire da una tradizione che da Gregorio Magno 40 41

H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., pp. 288-289 (il corsivo è nel testo). Cfr. J. E. Wannenmacher, Hermeneutik der Heilsgeschichte. De septem sigillis und die sieben Siegel im Werk Joachims von Fiore, Brill, Leiden 2005, in part. pp. 37-58; cfr. inoltre Id., De septem sigillis: Exegese zwischen Tradition und Innovation, “Florensia”, 12 (1998), pp. 7-18.

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arrivava a comprendere – per limitarci agli autori più o meno coevi al teologo calabrese – Ruperto di Deutz, Alano di Lilla e Onorio Augustodunense, i sigilli erano connessi agli opera e ai mysteria Christi: ogni signaculum era quindi in relazione ad un evento della vita di Gesù, seguendo una settuplice divisione che dall’incarnatio giungeva fino al suo adventus ad iudicandum42. Accanto a questa opzione interpretativa, vi era inoltre la possibilità di attribuire alla scansione settenaria un’intrinseca storicità, considerando ogni sigillo come un periodo determinato della storia della Chiesa. All’interno di tale contesto, furono in particolare Beda il Venerabile, Anselmo di Havelberg e lo stesso Ruperto di Deutz a fornire a Gioacchino il sostrato esegetico per sviluppare e radicalizzare la sua personale visione profetica43. 42

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A questo proposito, cfr. Rupertus Tuitiensis, Commentaria in Apocalypsim, PL 169, coll. 825 – 1214 C, in part. col. 925 D: «Bene autem dictum est, ‘signatum sigillis septem’, quia videlicet septem sunt Christi mysteria circa quae versatur sancta legalis et prophetica Scriptura, scilicet incarnatio, passio, resurrectio, ascensio, datum Spiritus sancti Paracleti, vocatio gentium, secundus adventus ad iudicandum»; Alanus de Insulis, In Distinctionibus Dictionum Theologicalium, PL 210, coll. 685 – 1011, in part. col. 837 B-C: «Primum fuit Christi incarnatio, secundum baptismus, tertium passio Christi, quartum inferni spoliatio, quintum resurrectio, sextum Spiritus sancti missio, septimum adventus ad iudicium»; Onorius Augustodunensis, Expositio In Cantica Canticorum, PL 172, coll. 347 – 496 C, in part. col. 367 A: «Hic solus potest introducere in Scripturam, qui solus potuit septem signacula libri solvere, quae erant eius incarnatio, nativitas, passio, inferni spoliatio, resurrectio, ascensio, futurum iudicium». Cfr. Beda Venerabilis, Explanatio Apocalypsis, PL 93, coll. 129 – 206 D, in part. c. VI, col. 146 C-D: «In primo igitur sigillo, decus Ecclesiae primitivae; in sequentibus tribus, triforme contra eam bellum; in quinte, gloriam sub hoc bello triumphatorum; in sexto, illa quae ventura sunt tempore Antichristi, et paululum superioribus recapitulatis; in septimo, cernit initium quietis aeterne»; Anselmus Havelbergensis, Dialogi, PL 188, coll. 1139 – 1248 B, in part. c. VII, col. 1149 B: «Nimirum septem sigilla, quae vidit Joannes, sicut ipse in sua narrat Apocalypsi (VI, 2), septem sunt status Ecclesiae sibi succedentes ab adventu Christi usquedum in novissimo omnia consummabuntur, et Deus erit omnia in omnibus»; Rupertus Tuitiensis, De Sancta Trinitate et Operibus eius, PL 167, coll. 199 – 1827, in part. liber IV, c. XI, col. 1682 C-D: «In primo quidem sigillo decus ecclesiae primitivae per equum album, in sequentibus tribus equis, rufo, nigro, et pallido, triforme contra eam bellum paganorum, falsorum fratrum, et haereticorum. In quinto gloriam sub hoc bello coronatorum subtus altare Dei clamantium. In sexto, mala illa quae tempore Antichristi ventura

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«Anche se in apparenza Gioacchino non citò mai per nome Beda o i suoi eredi in tema di esegesi apocalittica, la sua interpretazione evolutiva dei sette sigilli», nota Ernest Lerner, «è palesemente in debito nei confronti del modello bediano44». Ora, sebbene Gioacchino abbia trovato, con ogni probabilità, proprio in questa tradizione le condizioni per ripensare storicamente l’Apocalisse giovannea, non dobbiamo dimenticare che il costrutto ermeneutico proposto dal teologo è irriducibile alle analisi che l’hanno preceduta. La concordia stabilita da Gioacchino tra gli accadimenti storici dei due Testamenti non può essere ricondotta a nessuna considerazione precedente: disegnando una perfetta corrispondenza fra le tribolazioni veterotestamentarie e la loro rispettiva apertura, l’abate introduce nel dibattito del tempo un elemento di assoluta novità. Per comprendere adeguatamente l’importanza che questo breve opuscolo svolge nel corpus gioachimita, è necessario indicare con ragionevole approssimazione la sua data di composizione. A questo proposito, i vari specialisti che si sono occupati della cronologia delle opere dell’abate non hanno fornito delle risposte univoche. Marjorie Reeves, nel saggio introduttivo che precede la prima edizione critica del De Septem Sigillis curata con Beatrice Hirsch-Reich, non fornisce una precisa datazione dell’opera. Secondo la studiosa inglese, questo opuscolo apocalittico costituisce una rappresentazione schematica, e dunque immediatamente accessibile, della periodizzazione sottesa al Liber Figurarum. Reeves sottolinea inoltre che il testo, pur essendo fondato sul solo schema binario, senza alcun accenno ad una divisione triadica presente nelle opere più mature del teologo, propone un’analisi del sesto e del settimo sigillo perfettamente in linea con gli ultimi lavori di Gioacchino. Poiché la semplicità spesso anticipa la complessità e l’elaborazione, è probabile allora che il De Sep-

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sunt. In septimo, et per illud quod factum est, quasi media hora silentium, aeternae quietis intellexerunt initium, quae omnia plenius a doctoribus nostris explanata sunt». R. E. Lerner, La via al chiliasmo di Gioacchino da Fiore, in Id., Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, cit., p. 107.

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tem Sigillis sia un prodotto tardo, composto a ridosso del Liber Figurarum45. La datazione proposta da Marjorie Reeves si colloca a metà strada fra due opzioni in netto contrasto fra loro: da una parte Julia Eva Wannenmacher ritiene che il De Septem Sigillis sia una delle ultimissime opere scritte da Gioacchino da Fiore46; dall’altra, troviamo invece la collocazione temporale avanzata da Bernard McGinn, convinto che l’opuscolo, riferendosi soltanto alla semplice concordia binaria tra il Nuovo e il Vecchio Testamento, debba essere considerato uno dei primi lavori dell’abate47. La concordia cui fa cenno lo storico americano è il cuore dell’ermeneutica del teologo calabrese: è proprio in virtù di tale nozione, del resto, assolutamente fondamentale per la 45

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«Was it one of the Abbot’s first attempts to express himself schematically in order to meet the growing demand for a clear, popular guide to the meaning of history? Is it an embryo figure from which some of the elaborate designs of the Liber Figurarum grew? It is difficult to say with confidence that is the earlier than the Liber Figurarum, unless we argue that simplicity must inevitably precede elaboration. One other consideration might suggest that it should be placed earlier: it is built entirely on the pattern of twos. Thus, it points to the pattern of threes in the 5/7 division of the 12 tribes and churches and the concept of the Sabbath Age is clearly stated, but the threefold division of history is nowhere developed. Thus it covers, in simpler form, only the ground of the historical figures in the Liber Figurarum […] The treatment of the Sixth and Seventh Seals and Openings seems to represent Joachim’s final thought on a subject which he had declared to be most difficult and most crucial. We do not, therefore, judge this to be an early work, but rather a late one, put together, perhaps, in the same period as the Liber Figurarum, in which he sets out to give to a generation standing at the crucial moment of all time the view of history in its sweep towards final climax for which they were so eager and receptive», M. Reeves – B. Hirsch-Reich, The Seven Seals in the Writings of Joachim of Fiore, “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, 21 (1954), pp. 239-247, cit. pp. 230-231. Cfr. J. E. Wannenmacher, Hermeneutik der Heilsgeschichte. De septem sigillis und die sieben Siegel im Werk Joachims von Fiore, cit., pp. 248-251. «Il breve brano conosciuto come De septem Sigillis riassume le duplici persecuzioni dei due Testamenti, rappresentate dai sette sigilli, in maniera così completamente dipendente dallo schema delle due ere, da suggerire di collocarlo fra i suoi primi lavori», B. McGinn, L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, cit., p. 52.

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comprensione del suo pensiero, che il sistema esegetico di Gioacchino prende forma. Ecco allora che la concordia, vale a dire quella prassi che consente di porre eventi diversi in perfetta corrispondenza e relazione, diviene, secondo la felice espressione di Henry Mottu, «un gioco particolare di rapporti concreti», rivelandosi «una gioiosa dimostrazione dell’armonia scoperta nei testi»: grazie a questo metodo esegetico, pertanto, Gioacchino «sarà in grado di far giocare i testi tra loro, di evidenziarne le corrispondenze e di ritrovarne la finalità48». Per ottenere una visione complessiva della novitas gioachimita, non bisogna tuttavia separare il metodo esegetico appena richiamato da altre componenti, ugualmente necessarie per comprendere la riflessione del teologo calabrese. Il pensiero di Gioacchino si sviluppa infatti intorno a tre plessi concettuali che formano l’architrave della sua dottrina. Alla concordia duorum Testamentorum e alla concordia trium statuum49, si affiancano la teologia trinitaria e l’interpretazione della storia in chiave escatologica proprie dell’abate. Questi tre nuclei di pensiero non sono, come giustamente sottolinea Andrea Tagliapietra, «tre autonome ripartizioni del pensiero, dotate di una propria autosufficienza disciplinare, bensì tre prospettive diverse, che inquadrano e sviluppano gli estremi di un’identica intuizione». La concordia gioachimita è perciò «radicata nella teologia trinitaria»; al tempo stesso, l’apparato esegetico e teologico dell’abate richiedono, di necessità, «il quadro generale dell’escatologia, della scansione degli status, dei tempora e delle aetates», dando luogo ad una «una perfetta triangolazione, dove nessuno dei vertici può fare a meno dell’altro50».

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H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., pp. 88-89. Sui quattro insiemi di significati riferibili al termine concordia, cfr. Ivi, pp. 91-100. Sui rapporti che uniscono la concordia dei due Testamenti e la concordia dei tre stati con la prima e la secunda diffinitio introdotte nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, cfr. E. R. Daniel, The Double Procession of the Holy Spirit in Joachim of Flore’s Understanding of History, “Speculum”, 55 (1980), pp. 469-483. A. Tagliapietra, Gioacchino da Fiore e la filosofia, pref. di D. Fusaro, Il Prato, Padova 2013, p. 151.

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Nel De Septem Sigillis non vi è alcun cenno alle posizioni di Gioacchino sulla teologia trinitaria, e non vi è neppure un indizio che possa suggerire la presenza di uno schema triadico sotteso alla rigida concordia binaria stabilita dall’abate. Il breve opuscolo si limita solamente a presentare la corrispondenza fra le tribolazioni del Nuovo e del Vecchio Testamento, quasi non vi fosse l’opportunità di porre a tema quell’intelligentia spiritualis che, sporgendo dalla lettera, è in grado di decostruire l’unità compatta dei due Testamenti. Ad ogni modo, la presenza della sola corrispondenza binaria fra le rispettive persecutiones non è una ragione sufficiente per considerare l’opuscolo, come vorrebbe McGinn, il risultato di uno dei primi lavori di Gioacchino. Non dobbiamo dimenticare, infatti, come ci ricorda opportunamente Kurt-Victor Selge, che «un manoscritto del trattato contiene un’introduzione aggiuntiva con una menzione della vittoria del Saladino»; non è possibile perciò ipotizzare per il De Septem Sigillis «una datazione precedente al 118851». Il modo migliore per collocare storicamente questo opuscolo apocalittico nell’ampio quadro della cronologia delle opere dell’abate è riflettere sulla descrizione fornita da Gioacchino dei singoli sigilli e delle tribolazioni che hanno luogo al loro interno. È possibile così confrontare l’esposizione delle varie persecutiones presentata nel De Septem Sigillis con gli altri lavori dove compare questa stessa ripartizione, mettendo adeguatamente in luce l’evoluzione del pensiero gioachimita. Le prime cinque persecuzioni veterotestamentarie non offrono delle significative differenze. Dalla Genealogia fino all’Expositio in Apocalypsim, Gioacchino presenta un quadro

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K.-V. Selge, L’origine delle opere di Gioacchino da Fiore, cit., p. 112. L’edizione del manoscritto cui stiamo facendo riferimento è contenuta in M. Bloomfield – H. Lee, The Pierpont-Morgan Manuscript of “De Septem Sigillis”, “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, 38 (1971), pp. 137-148. Il riferimento al Saladino è il seguente: «Sub sexto capite bestie quod modo est in quo Saladinus obtinuit triumphabunt Christiani adversus hoc caput bestie, et quasi ad nihilum deducent et post paucos annos contrahetur plaga huius capitis», Ivi, ll. 21-23, p. 143.

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pressoché identico52, con alcune piccole variazioni53. La prima tribolazione patita dal popolo ebraico durante il primo sigillo è attribuita in tutte le opere del teologo calabrese agli Egiziani. La «persecutio Egyptiorum» è seguita usualmente da quella perpetrata dai Cananei; nel terzo e nel quarto sigillo hanno avuto luogo inoltre le persecuzioni dei Siri e degli Assiri; nel quinto sigillo, il popolo ebraico ha dovuto invece affrontare la persecutio dei Caldei. Per quanto concerne le tribolazioni patite dai cristiani, Gioacchino giudica che la prima persecuzione sia stata opera degli Ebrei e la seconda dei pagani; la terza è generalmente attribuita ai Persiani e ai popoli ariani, ossia ai Goti, ai Vandali e ai Longo52

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Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia sanctorum antiquorum patrum, pp. 91-101, in part. ll. 80-82, p. 95, in G. L. Potestà, Die Genealogia. Ein frühes Werk Joachims von Fiore und die Anfänge seines Geschichtsbildes, “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, 56 (2000), pp. 55-101; Id., De prophetia ignota, I, ll. 15-17, p. 184, in M. Kaup, De prophetia ignota – Eine frühe Schrift Joachims von Fiore, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998, pp. 180-224; trad. it., Commento a una profezia ignota, a c. di M. Laffranchi, Viella, Roma 1999, p. 155; Id., Praephatio super Apocalypsim, I, ll. 283-284, p. 113, in K.-V. Selge, Eine Einführung Joachims von Fiore in die Johannesapokalypse, “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, 46 (1990), pp. 102-131; trad. it., Introduzione all’Apocalisse, a c. di G. L. Potestà, intr. di K.-V. Selge, Viella, Roma 1995, pp. 41-43; Id., Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 2, ll. 5-9, p. 205; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, Venetiis 1519 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1964); n. ed. E. R. Daniel (libri I-IV), III, ll. 91-96, p. 212, in “Transactions of the American Philosophical Society” 73/8, Philadelphia 1983; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ll. 808-884, pp. 33-35, ed. E. K. Burger, Pontifical Institute of Medieval studies, Toronto 1986; trad. it., Sull’Apocalisse, a c. di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 20082, pp. 189-195; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1964), fol. 4ra; Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III, VIII e IX, in L. Tondelli, Il libro delle Figure dell’Abate Gioacchino da Fiore, SEI, Torino, 1990³. A questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 16-17, p. 184; trad. it. p. 155, in cui la seconda persecuzione è attribuita ai Madianiti e la terza, in termini più generici, è considerata opera di «aliarum nationum»; nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 2, l. 7, p. 205, Gioacchino attribuisce ai Filistei la seconda tribolazione subita dal popolo ebraico; ad ogni modo, in un passaggio successivo l’abate modifica la prima descrizione, imputando ai Cananei la seconda persecutio. Cfr. Ivi, III, c. 4, l. 2, p. 228.

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bardi, mentre la quarta fu realizzata dai Saraceni; nell’apertura del quinto sigillo, infine, il popolo cristiano dovette affrontare la persecuzione dei Teutonici54. Anche in questo caso, le variazioni sono minime, e non coinvolgono i plessi cardine della descrizione gioachimita55. Lo scenario cambia radicalmente nella descrizione che il teologo fornisce delle persecuzioni accadute nella finestra temporale dischiusa dal sesto e dal settimo sigillo. Nella Genealogia e nel De prophetia ignota, la sesta persecutio veterotestamentaria è attribuita ai Medi56, mentre nel tempo sancito dall’apertura del relativo sigillo il popolo cristiano assisterà, rispettivamente, alla «destructio Babilonis, id est Rome» e all’arrivo di dieci terribili tirannidi [«decem terribiles tyrannides»]57. A proposito del settimo sigillo, i due testi non presentano alcuna differenza: entrambi, infatti, ritengono che l’ultima tribolazione patita dal popolo ebraico sia quella di 54

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Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 87-92, p. 95; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, 4, pp. 186-188, trad. it. pp. 155-157; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 296-313, p. 114; trad. it. p. 43; Id., Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 4, pp. 226-230; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, foll. 39ra – 41va; ed. E. R. Daniel, III, pp. 287-302; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 811-914, pp. 33-36; trad. it. pp 191-197; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 7rbvb; Id., Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, foll. 113vb – 117va; Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV, VIII e X. Le uniche variazioni degne di nota sono riscontrabili nell’apertura del quinto sigillo descritta nell’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, fol. 116rb-vb, dove viene prolungato l’attacco saraceno, questa volta ad opera delle popolazioni provenienti dalla Spagna e dalla Mauritania, e nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 4, ll. 5-10, p. 231. In questa sede, dopo aver descritto le prime cinque persecuzioni neotestamentarie, Gioacchino precisa che la terza tribolazione è in realtà quadripartita: «Verumtamen in hoc misterio non ita accipienda sunt bella sex, sed in tribus bestiis assignanda, quas scribit Daniel, quarum tertia quatuor capita habere describitur, videlicet quod tertia tribulatio quadripartita sit et quatuor persecutiones a quatuor plagis mundi produxit: per Gothos et Guandalos et Longobardos et Persas» (il corsivo è nel testo). Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 82-83, p. 95; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, 4, ll. 17-18, p. 184; trad. it. p. 155. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, l. 92, p. 95; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, 4, ll. 3-7, p. 194; trad. it. p. 161.

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Antioco IV Epifane, e che il tipo neotestamentario del re greco sia l’Anticristo, l’ultimo grande persecutore della Chiesa58. Gioacchino si limita qui a richiamarsi all’esegesi tradizionale59: a partire da Cipriano di Cartagine fino a Ruperto di Deutz, passando per San Girolamo e Adso di Montier-en-Der, il modello dell’Anticristo descritto dall’escatologia cristiana era sempre stato identificato in Antioco60. La linearità dell’esposizione, unita alla fedeltà esegetica testimoniate dall’abate, suggeriscono quindi che in queste due opere Gioacchino non fosse ancora consapevole della necessità di porre a tema un periodo sabbatico che anticipasse il giudizio finale, ripercorrendo il cammino storico e simbolico offertogli dall’Apocalisse giovannea. Una prima traccia di un nuovo approccio gioachimita è fornita dalla Praefatio super Apocalypsim. Questo testo, concepito attorno alla metà degli anni ottanta del XII secolo, recupera, a tratti letteralmente, alcuni passaggi contenuti nella Genealogia61. Se la descrizione dei primi sigilli è identica alle opere precedenti, possiamo individuare alcune differenze di rilievo nella trattazione gioachimita degli ultimi due. Nella prima presentazione delle persecuzioni del Vecchio Testamento, Gioacchino si limita a ripercorrere la scansione settenaria proposta in precedenza: alla persecutio dei Caldei seguono dunque il certamen dei Medi contro

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Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, l. 83 e ll. 94-95, pp. 95-96; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, 4, l. 18 e ll. 9-11, p. 184 e p. 192; trad. it. p. 155 e p. 161. A questo proposito, cfr. J. E. Wannenmacher, Hermeneutik der Heilsgeschichte. De septem sigillis und die sieben Siegel im Werk Joachims von Fiore, cit., pp. 195-197; cfr. inoltre Id., Dragon, Antichrist, Millennium: Joachim of Fiore and the Opening of the Seals, in R. E. Guglielmetti (a c. di), L’apocalisse nel Medioevo, Atti del Convegno internazionale dell’Università degli studi di Milano e della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Sismel – Edizioni del Galluzzo, Firenze 2011, pp. 445-469. Cfr. Cyprianus Carthaginensis, Epistola ad Fortunatum de Exhortatione Martyrii, PL 4, coll. 651 – 676 B, in part. 669 A; Hieronymus, Commentariorum in Danielem Prophetam, PL 25, coll. 491 – 584 A, ad es. col. 491 B; Adso Dervensis, De Ortu et Tempore Antichristi, PL 101, col. 1292 A; Rupertus Tuitiensis, Commentaria in Apocalypsim, cit., col. 1966 C-D. Per un raffronto tra i due testi, cfr. G. L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 287-293, in particolare lo schema presentato a p. 288.

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Babilonia e i figli di Israele, e la tribolazione dei Greci realizzata da Antioco62. In un passaggio immediatamente successivo, assistiamo ad un piccolo slittamento nel piano originario approntato da Gioacchino. L’abate si occupa delle tribolazioni subite dal popolo cristiano, alla ricerca di una precisa corrispondenza nel Vecchio Testamento. Se il sesto sigillo veterotestamentario contiene la persecuzione degli Assiri descritta nel libro di Giuditta, nel tempo della sua rispettiva apertura si realizzeranno degli accadimenti simili; una volta esposta la concordia fra le due tribolazioni, Gioacchino precisa però che, sotto lo stesso sigillo [«sub eodem signaculo»], vale a dire ancora all’interno del sesto tempo, alle gesta di Antioco seguirà nella Chiesa la «tribulatio Antichristi». Collocando anche il settimo certamen all’interno del sesto sigillo, Gioacchino svuota il contenuto dell’ultimo signaculum: non è un caso allora che il settimo sigillo diventi l’intervallo che pone fine alla legge mosaica, così come la settima apertura testimonierà la fine e la consunzione del tempo63. Sebbene non vi sia ancora una chiara esposizione del tempo sabbatico, è già contenuta in nuce l’esigenza di istituire al termine delle sette persecuzioni un breve periodo di pace che preceda quella che di lì a poco l’abate avrebbe considerato l’ultima grande persecuzione subita dalla Chiesa prima del giudizio finale. L’idea che vi fosse un intervallo temporale fra la sconfitta dell’Anticristo e la fine del mondo non è, tuttavia, il risultato di un’intuizione propriamente gioachimita, ma appartiene ad una lunga tradizione. Gli studi di Robert Lerner hanno descritto con particolare efficacia le tappe storiche di questa convinzione64. 62

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«Sextum [certamen] contra Babilonem Medorum et contra filios Israel, residuum quod quarto tempore occubuisse videbatur Assyriorum. Septimum certamen Grecorum fuit, cum videlicet Antiochus rex urbem sanctam contaminavit et templum», Ioachim abbas Florensis, Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 285-288, p. 113; trad. it. p. 43. «Sextum autem signaculum percussionem Babilonis continet et iteratam Assiriorum persecutionem, quam liber continet, qui vocatur Judith, pro quibus sexto ecclesie tempore similia fore complenda sexta pars tempestas; sequetur in ecclesia tribulatio Antichristi, que omnibus preliis dabit finem. Septimum signaculum finem legi imponit, septima apertio cuncta docet esse completa», Ivi, ll. 317-323, p. 115; trad. it. p. 43. Cfr in particolare R. E. Lerner, Refreshment of the Saints, “Traditio”, 32

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Seppur con l’intenzione di sbarrare la strada ad ogni improprio chiliasmo, cercando di stroncare sul nascere quella «mille annorum fabula», fu proprio San Girolamo il primo ad istituire un intervallo (nel suo caso di quarantacinque giorni) tra la distruzione del regno instaurato dall’Anticristo e il giudizio finale65. Dopo l’autore della Vulgata, un’altra importante autorità della Chiesa, Beda il Venerabile, recuperò il lascito di Girolamo, delineando un affresco storico particolarmente vicino a quello sviluppato in seguito dall’abate calabrese. Secondo Beda, infatti, se il tempo dell’Anticristo è contenuto all’interno del sesto sigillo, il settimo signaculum sarà invece contrassegnato dall’«initium quietis aeternae66». La riflessione bediana dischiuse perciò formalmente quell’intervallo temporale che la Glossa Ordinaria definirà come il «refrigerium sanctorum»: «Per ironia della sorte, la teoria di Beda dei sette periodi della storia della Chiesa, con l’ultimo periodo destinato a un riposo in questo mondo, dava potenzialmente maggior forza alle speranze di un’epoca di felicità dei semplici quarantacinque giorni di san Gerolamo, mentre l’implicita affermazione che tale periodo sarebbe durato quanto fosse piaciuto all’Onnipotente permetteva, ovviamente, di immaginarlo assai più lungo di quanto permettesse l’impostazione di san Gerolamo67». Non appena l’introduzione di un tempo sabbatico venne confermata dall’autorità di Beda, la convinzione che si dovesse porre un periodo intermedio fra l’Anticristo e il giudizio finale si trasformò in un leitmotiv che coinvolse le più importanti figure della teologia medievale. La novitas di Gioacchino non risiede quindi nella messa a tema di tale intervallo; piuttosto, l’originalità della sua esegesi va ricercata nella precisione con cui l’abate giunse

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(1976), pp. 97-144; trad. it., Refrigerio dei Santi: il tempo dopo l’Anticristo come tappa del progresso terreno nel pensiero medievale, in Id., Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, cit., pp. 19-66. Cfr. Hieronymus, Commentariorum in Danielem Prophetam, cit., col. 534 A e col. 579 C. Beda Venerabilis, Explanatio Apocalypsis, cit., c. 6, col. 146 D: «In primo igitur sigillo, decus Ecclesiae primitivae, in sequentibus tribus, triforme contra eam bellum; in quinto, gloriam sub hoc bello triumphatorum; in sexto, illa quae ventura sunt tempore Antichristi, et paululum superioribus ricapitulatis; in septimo, cernit initium quietis aeternae». R. E. Lerner, Refrigerio dei Santi: il tempo dopo l’Anticristo come tappa del progresso terreno nel pensiero medievale, cit., p. 25.

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a descriverne l’articolazione. Dopo il breve accenno contenuto nella Praefatio, sarà necessario attendere il Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti e il terzo libro della Concordia Novi ac Veteris Testamenti, due testi coevi collocabili attorno al 1187, per vedere interamente dispiegata la necessità del tempo sabbatico all’interno delle opere gioachimite. Il trattato su San Benedetto si discosta inizialmente dallo schema settenario che aveva fatto da sfondo alle precedenti opere dell’abate. Forte di un riferimento al libro di Giobbe (5, 19), Gioacchino descrive soltanto sei persecuzioni. Modulando la propria esposizione secondo delle ragioni liturgiche interne al testo, il teologo è costretto perciò ad eliminare dal computo totale quella che il De prophetia ignota considerava la sesta persecutio, ossia il certamen dei Medi e dei Persiani e l’imminente persecuzione dei dieci re. La sesta tribolazione del popolo ebraico sarà opera allora dei Macedoni, mentre la Chiesa cristiana è già destinata ad attendere la sua «tribulatio maxima, que erit in tempore Antichristi68». Nel corso del trattato Gioacchino modifica progressivamente questo schema, contraddicendo apertamente le linee guida inizialmente esposte. Assistiamo così, attraverso delle variazioni all’apparenza impercettibili, ad un’evoluzione interna al testo. Nel sesto capitolo, infatti, rivolgendosi questa volta al libro di Daniele e all’Apocalisse, l’abate abbandona lo schema basato sulle sei tribolazioni per introdurre due differenti figure: la prima, identificata con l’undicesimo re e la settima testa della bestia, e riferita, con ogni probabilità, proprio al Saladino, sta per occupare [«pre manibus est»] Gerusalemme e distruggere l’«ecclesiam orientalem»; la seconda, al contrario, in un tempo ancora da definire [«de sequenti certitudinem non habemus»], è pronta, seguendo le orme di Antioco, a scagliarsi «contra l’occidentalem ecclesiam69». Gioacchino aumenta quindi il numero delle tribolazioni neotestamentarie, portando a sette il loro computo totale. In alcuni passaggi successivi, però, il teologo calabrese esamina nuovamente le persecuzioni del Vecchio Testamento, modificando ancora una volta il quadro d’insieme. Al termine del sesto capitolo, Gio68 69

Ioachim abbas Florensis, Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 4, l. 1-3, p. 231. Cfr. Ivi, III, c. 6, pp. 259-262.

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acchino chiama in causa le figure di Aman, primo consigliere macedone del re Assuero, e di Nabucodonosor, re degli Assiri, cercando un loro corrispettivo neotestamentario. Ecco che il tipo di Nabucodonosor si rivelerà l’undicesimo re, mentre in concordia con Aman apparirà uno pseudoprofeta. Alle cinque tribolazioni già descritte, si affiancano pertanto altri due persecutori: da una parte Nabucodonosor e Aman, dall’altra l’undicesimo re e lo pseudoprofeta70. A dispetto degli altri testi, le sette persecutiones non rappresentano la fine della storia: fra la settima tribolazione e il giorno del giudizio, Gioacchino pone un breve periodo di riposo, a cui seguirà l’ultima persecuzione affrontata dalla Chiesa prima della fine del mondo, identificata nella tribulatio incarnata e impersonata da Gog, sostituitosi all’Anticristo nel ruolo di massimo nemico della fede. Considerando Nabucodonosor e Aman come sesto e settimo persecutore del popolo ebraico, anche la tribolazione di Antioco finisce per essere collocata al di fuori del modello settenario, diventando, di fatto, il tipo di Gog. L’abate introduce dunque nello schema iniziale un intervallo sabbatico e un’ultima grande persecuzione. La struttura del Tractatus, tuttavia, non permette di cogliere a pieno la novitas gioachimita: poiché il testo è organizzato, almeno nominalmente, secondo un modello fondato su sei tribolazioni, Gioacchino non si sente in dovere di esplicitare in modo chiaro la collocazione storica delle singole tribolazioni e il tempo della loro futura apertura. Per comprendere appieno la rivoluzione approntata dal teologo è necessario perciò rivolgersi al terzo libro della Concordia Novi ac Veteris Testamenti. In questa sede, Gioacchino descrive le persecuzioni che si sono realizzate al tempo del sesto sigillo. A differenza dei primi testi, l’abate precisa per la prima volta in termini espliciti che il popolo ebraico subì, «sub sexto signaculo», non una, bensì due tribolazioni. La prima tribulatio, descritta nel libro di Giuditta, fu opera di Nabucodonosor, mentre la seconda, raccontata nel libro di Ester, venne compiuta da Aman71. La convinzione che il sesto sigillo 70 71

Cfr. Ivi, III, c. 6, pp. 265-275. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, fol. 41va; ed. E. R. Daniel, III, ll. 4-11, p. 303: «Sub quo videlicet

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ospiti due tribolazioni è confermata anche dall’analisi del rispettivo signaculum neotestamentario: «sub sexta apertione», anche la Chiesa affronterà due persecutori simili agli autori delle tribolazioni narrate nel Vecchio Testamento72. Gioacchino colloca quindi all’interno del sesto sigillo due persecuzioni: così facendo, il teologo esplicita il presupposto ancora latente nella Praefatio super Apocalypsim, ponendo le basi per istituire un intervallo sabbatico nel settimo e ultimo signaculum73. Il settimo sigillo si rivela allora propriamente vuoto, destinato ad ospitare un breve periodo di pace. Dopo aver descritto le sette tribolazioni ed aver definitivamente posto a tema la necessità di istituire un intervallo sabbatico per i due popoli, la Concordia non si occupa degli ultimi due persecutori, non menzionando neppure una volta la figura di Gog. Ad ogni modo, è possibile spiegare l’assenza di tali riferimenti considerando che l’opera non è un testo dedicato ad un’analisi serrata dell’Apocalisse giovannea. Non è forse un caso che la centralità di Gog, in perfetta concordia

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sexto signaculo, preter hoc quod percussa est a Medis Babilon que fuit metropolis Chaldeorum, due quam maxime tribulationes orte sunt contra filios Israel, in quibus et timore insolito concussa sunt corda filiorum Israel et magna post timorem consolatione firmata. Fuit autem harum prima, que legitur in libro Iudita, sub Nabuchodonosor rege Assyriorum; altera, que legitur in Esther, sub Assuero rege magno, qui regnavit super centum et viginti septem provincias». Cfr. Ivi, ll. 12-20, pp. 303-304: «Secundum hoc oportere accidere sub sexta apertione non solum de concordie serenitate manifeste colligimus, verum etiam de sexta parte libri Apocalipsis, in qua percutienda traditur nova Babilon et regnare oportere duos reges impios quorum unus sextus esse dicitur, septimus alius; de quorum videlicet primo dicitur: “Unus est”, de altero “non dum venit, et, cum venerit, oportet illum breve tempus manere”. Et quidem horum primus similis erit Nabuchodonosor, regis Assyriorum; alius similis Aman, qui erat secundus a rege Assuero, sub quo decretum erat periclitari modis omnibus populus Hebreorum, nisi eis divina clementia mirabiliter affuisset». Cfr. Ivi, ll. 2-4 e ll. 12-17, p. 306: «Apertio sigilli septimi erit ex eo tempore quo capietur bestia et pseudo propheta et mittentur in stagnum ignis. Brevissimum autem esse puto tempus septime apertionis […] Ut enim in principio seculi in sex diebus complevit fabricam totius mundi, septimo autem die requievit ab operi bus suis, ita et in operi bus seculorum termini costituti sunt ab ipso secundum perfectionem ipsius numeri, qui preteriri non possunt. Et sicut sexto die passus est Christus, ita sexto tempore preit passio, ut sequatur sabbatum requietionis».

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con Antioco, venga nuovamente recuperata nell’Enchiridion super Apocalypsim. Questo vero e proprio manuale sull’apocalisse, redatto nella prima metà degli anni novanta, certifica un’acquisizione ormai radicata nella riflessione gioachimita. L’Enchiridion conferma infatti sia la presenza di una doppia tribolazione all’interno del sesto sigillo, sia la concordia, appena accennata o soltanto presupposta nelle opere precedenti, fra Antioco e Gog. Nel corso del testo, Gioacchino ritorna più volte sui conflitti che videro protagonista il popolo ebraico durante il sesto sigillo74. L’unica lieve differenza con il Tractatus e la Concordia è che nell’Enchiridion ad essere identificato come il primo dei due persecutori non è più Nabucodonosor, ma il suo generale Oloferne. Per quanto riguarda invece le persecuzioni che avranno luogo nell’apertura del sesto sigillo, Gioacchino si limita a precisare che nell’arco temporale di quel periodo si verificheranno degli avvenimenti analoghi: al posto di Oloferne, ucciso dalla vedova Giuditta, si leverà un re altrettanto superbo, destinato a commettere innumerevoli malvagità contro i cristiani75; parimenti, si realizzeranno in Occidente delle vicende simili a quelle che videro protagonista Aman, primo consigliere del re Assuero76. 74

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Cfr., ad esempio, Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 932-943, p. 37; trad. it. p. 199: «Circa illud quoque tempus, utrum post necem Balthasar et regnum Darii, aut ante illud sicut ex nomine sacerdotis colligitur, qui legitur in libro Jeremiae prophetae, qui intitulatur Baruch, historia Judith completa esse probatur, in qua Nabuchodonosor rex Assyriorum elevatus regni fastigio, dominum se universae terrae praedicari voluisse describitur, cujus tamen superbiam per manum mulieris viduae confutavit Omnipotens, tradito in manus ejus Holofernes principe militiae suae, per quem sibi universam terram subjugari sperabat. Secut est sub eodem signaculo historia Esther reginae, quam quidam matrem Cyri regis fuisse putant, quidam vero post Cyrum editam credunt, in qua traditur Aman secundus a rege adversus Judaeorum populum conspirasse, eumque voluisse delere de terra». Cfr. Ivi, ll. 961-970, p. 38; trad. it. p. 201: «Gesta sunt haec omnia sub tempore signaculo sexti, pro quibus in vicino tempore similia consummanda sunt […] Pro rege illo superbissimo qui sibi nomen divinum arrogare non metuit, cujus princeps militiae Holofernes nomine a Judith honesta vidua turpiter interfectus est, rex quidam superbissimus et ut puto ab orientis partibus consurget, qui multa mala in Christiano populo committet». Cfr. Ivi, ll. 1053-1056, p. 41; trad. it. pp. 207-209: «Interim autem consum-

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Se l’esposizione del sesto signaculum e delle rispettive persecutiones costituisce un punto di arrivo che non verrà più messo in questione, l’analisi del settimo sigillo e dell’ultimo grande persecutore presenta invece dei lievi dislivelli espositivi, a riprova dell’incertezza che caratterizza ancora la riflessione gioachimita. In effetti, utilizzando la sola concordia binari fra i due Testamenti, e ricercando il seme dell’ottavo tempo [«semen octavi temporis»], Gioacchino ritiene che Antioco debba essere interpretato in corrispondenza con Gog: così come il re greco anticipò il primo «adventum Domini», allo stesso modo Gog precederà il giudizio finale77. Dato che i primi sei sigilli contengono già tutte le sette tribolazioni, le persecuzioni di Antioco e Gog andranno quindi collocate al di fuori del modello settenario. In un passaggio successivo, tuttavia, dedicandosi ad una descrizione del settimo sigillo, destinato a diventare il tempo del riposo, Gioacchino sembra in parte contraddire l’esposizione precedente. Una volta presentati i due conflitti accaduti durante il sesto sigillo, l’abate, pur avendo portato a sette il computo totale delle tribolazioni, sostiene che la tribolazione di Antioco, «quae septima est in numero», debba essere pensata in corrispondenza con l’«extrema tribulatione» che verrà compiuta da Gog in prossimità della fine del mondo [«circa mundi finem»]. Antioco e Gog, sebbene siano ancora considerati gli ultimi persecutori dei due popoli, non rappresentano più l’ottava tribolazione, successiva alle prime sette persecutiones e al breve intervallo sabbatico, ma ritornano ad essere inscritti all’interno del paradigma settenario. Gioacchino pone comunque subito rimedio a questa piccola incoerenza, recuperando, oltre alla concordia fra Antioco e Gog, la relazione fra la prima venuta del Signore, anticipata da Giovanni Battista, e la sua seconda venuta, preceduta da Elia, collocandole entrambe in corrispondenza dell’ottavo tempo, cioè in uno spazio successivo all’arco temporale delimitato dalle sette persecuzioni78.

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mari oportet quod in historia continetur Esther, quod quidem ut ego puto a partibus occiduis egressurum est, sicut illud quod pertinent ad Judith a partibus orientis oportere surgere, sub simili opinione relinquitur». Cfr. Ivi, ll. 650-663, p. 29; trad. it. p. 179. Cfr. Ivi, ll. 1069-1077, pp. 41-42; trad. it. p. 209: «Nunc de septimo tempore et septimo signaculo videamus. Secundum illam concordiam quae duobus Testamentis consistit, si a tempore quo templum et civitas sub

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Le incertezze ancora presenti nell’Enchiridion super Apocalypsim verranno risolte, in maniera definitiva, solamente nel De Septem Sigillis. Questo opuscolo apocalittico conferma i guadagni già conseguiti, facendo al tempo stesso chiarezza su alcuni nodi concettuali ancora irrisolti o non ancora debitamente illustrati. Anche il De Septem Sigillis, al pari del Tractatus, della Concordia e dell’Enchiridion, sostiene che il popolo ebraico abbia dovuto affrontare, nel corso del sesto sigillo, due persecuzioni: Oloferne e Aman sono nuovamente considerati gli autori delle due tribolazioni. In corrispondenza con l’apertura del medesimo signaculum, la Chiesa si vedrà costretta a fare fronte a due nuovi persecutori, simili, in tutto e per tutto, alle figure veterotestamentarie descritte nei libri di Giuditta e di Ester. L’idea di collocare due persecuzioni all’interno dello stesso sigillo apre la strada, anche in questo caso, ad un breve periodo sabbatico. Tale intervallo si rivela, in realtà, un semplice intermezzo che precede la tribulatio realizzata da Antioco, il re greco che porterà a termine le vicende narrate nel Vecchio Testamento. L’apertura del settimo sigillo, invece, pur essendo presentata in concordia con gli avvenimenti che videro protagonista il popolo ebraico, non è totalmente riducibile a quel modello. Anche la Chiesa, infatti, subito dopo aver affrontato i due persecutori, vivrà il proprio riposo sabbatico, cui farà seguito l’ultima tribolazione ad opera di Gog. Tuttavia, l’apertura del settimo sigillo, una volta superato e distrutto il regno instaurato da Gog, spezza la concordia fra i due Testamenti. In quel tempo ormai vicino, cesseranno le aperture dei sigilli, e la seconda venuta del Signore, preannunciata da Elia, consumerà la storia, dischiudendo il tempo della resurrezione e della Gerusalemme celeste. Il De Septem Sigillis recupera le descrizioni fornite nelle opere precedenti, ordinando in modo chiaro e facilmente accessibile lo schematismo sotteso agli altri testi. Grazie a questo breve Zorobabel et Nehemia restituta leguntur, usque ad adventum Domini in sabbatum reputandum est, tunc persecutio Antiochi quae septima est in numero, cum extrema tribulatione quam facturus est Gog circa mundi finem concordat, et primus adventus Domini quem praeivit Joannes cum secundo quem praecurret Elias, qui etiam secundum hoc in octavo saeculo accipiendus est, in quo sunt resurrecturi mortui, et sine fine cum Domino regnaturi».

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opuscolo, siamo quindi in possesso del modello gioachimita che farà da sfondo alle ultime opere dell’abate. Ora, per quanto concerne le vicende realizzatesi negli ultimi due sigilli del Vecchio Testamento, sappiamo perciò con precisione che, nel corso del sesto sigillo, il popolo ebraico affrontò due persecutori: Oloferne, generale del re assiro Nabucodonosor, e Aman. Collocando due tribolazioni sotto lo stesso signaculum, Gioacchino dischiude lo spazio per un intervallo sabbatico, cui seguirà la tribulatio di Antioco IV Epifane, l’ultimo nemico del popolo ebraico. In concordia con questi avvenimenti, durante l’apertura del sesto signaculum la Chiesa dovrà passare attraverso due tribolazioni, mentre il settimo sigillo si rivelerà, anche per il popolo cristiano, un periodo sabbatico; dopo questo intervallo, in perfetta corrispondenza con Antioco, apparirà infine Gog, il grande persecutore della Chiesa. Una volta sconfitta la più terribile tribolazione della storia cristiana, verrà di nuovo il Signore per il giudizio finale, permettendo al suo popolo di conquistare un «gaudium sempiternum». È probabile che il De Septem Sigillis rappresentasse, nell’ottica gioachimita, un agile modello per riassume gli sforzi ermeneutici svolti nei decenni precedenti. L’analisi delle tribulationes dei due Testamenti si rivela infatti sia il punto di arrivo delle classificazioni precedenti, sia il paradigma base di ogni futura descrizione. Poiché questo schema binario verrà recuperato anche in un testo come il Liber Introductorius79, redatto nel 1198-1199, e in due tavole del Liber Figurarum80, siamo sicuramente in presenza di un prodotto tardo, che può essere collocato nella seconda metà degli anni novanta del XII secolo. Possiamo ritrovare una conferma della datazione appena proposta gettando un rapido sguardo sul ruolo svolto dall’Anticristo nel corpus gioachimita81. Dalla Genealogia fino alla Praefatio super 79 80 81

Cfr. Ioachim abbas Florensis, Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, foll. 7ra – 11ra. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III e IV. Per un’ampia analisi del problema, cfr. R. E. Lerner, Antichrists and Antichrist in Joachim of Fiore, “Speculum”, 60 (1985), pp. 553-570; trad. it., Anticristi e Anticristo in Gioacchino da Fiore, in Id., Refrigerio dei Santi: il tempo dopo l’Anticristo come tappa del progresso terreno nel pensiero medievale, cit., pp.

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I sette sigilli

Apocalypsim, la figura dell’Anticristo, posta in concordia con Antioco, coincideva con l’ultimo nemico della Chiesa e impersonava il ruolo del settimo persecutore82. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, lo scenario inizia a cambiare: se la prima esposizione delle tribolazioni fornita nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti indica nell’Anticristo il sesto persecutore del popolo cristiano, lo schema successivo, fondato questa volta sul paradigma settenario, espunge dall’analisi il figlio della perdizione, sostituendolo con Gog83. Il terzo libro della Concordia, descrivendo le varie persecuzioni affrontate dai due popoli, non menziona l’Anticristo; la sua figura verrà recuperata solo nel quinto libro, in relazione al re Antioco84. L’Enchiridion non si discosta dal quadro d’insieme: l’Anticristo non svolge qui alcun ruolo, e vi è solamente un rapido cenno ad un monarca destinato ad incarnare «unus de magnis antichristis», senza che questo breve richiamo influenzi l’andamento complessivo dell’esposizione85. Non vi è alcun riferimento all’Anticristo neppure all’interno del De Septem Sigillis; questo opuscolo sembra rivelarsi quindi, ancora una volta, il punto di arrivo e di maturazione di una lunga fase del pensiero gioachimita. Il figlio della perdizione, infatti, farà nuovamente la sua comparsa in alcuni testi successivi dell’abate. A partire dal De Ultimis Tribulationibus, fino al Liber Introductorius e all’Expositio in Apocalypsim, l’Anticristo tornerà ad occupare il centro della scena, pur non incarnando più una figura unitaria, come avveniva nelle pri-

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117-135. A questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 94-95, p. 96: «Sub Anthioco facta tribulatio comparatur illi, que erit sub Antichristo»; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, II, ll. 9-11, p. 192; trad. it. p. 161: «Quia necesse est, ut Antichristus veniat, antequam appareat dies Domini magna, ideo necesse est, ut tyrannides Antichristum precedant»; Id., Praefatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 320321, p. 115; trad. it. p. 43: «Secuta est sub eodem signaculo Antiochi seva tempestas; sequetur in ecclesia tribulatio Antichristi». Cfr. Ioachim abbas Florensis, Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, ll. 1-3, p. 231 e ll. 15-18, p. 274. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, V, foll. 128vb – 129rb. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, l. 1890, p. 67; trad. it. p. 269.

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me opere del teologo, ma assumendo un’identità plurale. Nel De Ultimis Tribulationibus, l’analisi di Gioacchino sembra abbandonare la chiarezza espositiva del trattato sui sigilli apocalittici. L’incertezza dell’esposizione si accompagna ad un dubbio circa la precisa identità di quello che l’abate chiama l’ultimo e «magnus Antichristus». La figura di Gog, inoltre, non sostituisce, come avveniva nel De Septem Sigillis, la funzione assunta dall’Anticristo nelle opere precedenti; in questo opuscolo, del resto, è la stessa identità di Gog – «aut iste Gog erit antichristus aut quasi magnus imperator, seductus a diabolo» – ad essere in questione86. Nel De Ultimis Tribulationibus, il figlio della perdizione non rappresenta allora semplicemente l’ultimo nemico della Chiesa, in corrispondenza con la tribolazione di Antioco, poiché in questa sede la storia, sottolinea Gian Luca Potestà, «non è più vista come culminante nella grande persecuzione del grande Anticristo, immediatamente precedente la grande pace finale. Ognuna delle tre tribolazioni finali è infatti grande; ognuna ha il suo anticristo»; assistiamo perciò «al passaggio da una teologia dell’Anticristo ad una teologia degli anticristi87». Questo slittamento operato da Gioacchino trova conferma nel Liber Introductorius. Anche in questa sede, l’abate è convinto che gli anticristi siano molti [«antichristi multi sunt»], e che Gog rappresenti l’«ultimus tirannus et ultimus antichristus88». Cercando di individuare l’identità dei vari anticristi, l’abate si serve dell’immagine del drago rosso descritta nell’Apocalisse, e ritiene che ognuna delle sette teste del dragone corrisponda a sette re. Di questi, i primi cinque re, identificati in Erode, Nerone, Costanzo ariano, Cosroe e un re di Babilonia, erano già passati, il sesto, riconosciuto nel Saladino, era ancora presente, mentre l’ultimo dei sette re, il figlio della perdizione di paolina memoria, non ancora apparso sul teatro della storia, era considerato un «magnus tyrannus89». 86 87 88 89

Cfr. Ioachim abbas Florensis, De Ultimis Tribulationibus, in part. ll. 352-353, p. 33, in K.-V. Selge, Ein Traktat Joachims von Fiore über die Drangsale der Endzeit: “De ultimis tribulationibus”, “Florensia”, 7 (1993), pp. 7-35. G. L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, cit., pp. 338339. Ioachim abbas Florensis, Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 10ra. Cfr. Ivi, foll. 10ra – 10va.

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I sette sigilli

Una volta passati in rassegna i sette re, Gioacchino si sofferma sulla figura di Gog, simboleggiata dalla coda del dragone. Analizzandone il ruolo e la funzione, l’abate palesa chiaramente la propria incertezza, giungendo fino a contraddirsi: dopo aver sostenuto che Gog fosse l’ultimo tiranno e l’ultimo anticristo, il teologo si domanda se il persecutore finale, invece di essere l’ultimo degli anticristi, non sia per caso il principe dell’esercito di un re inviato direttamente dal diavolo90. Nel De Ultimis Tribulationibus, nel Liber Introductorius e in una tavola dello stesso Liber Figurarum91, in controtendenza rispetto ad un’esposizione che aveva trovato nel De Septem Sigillis un primo punto di approdo, viene dunque recuperata la centralità dell’Anticristo, seppur in controtendenza con il passato: se nei primi lavori dell’abate il filius perditionis veniva indicato come il settimo persecutore del popolo cristiano, nell’ultima parte della sua riflessione Gioacchino sembra invece modificare i presupposti della propria analisi, facendo varie volte riferimento ad una pluralità di anticristi. Il silenzio del De Septem Sigillis sulla figura dell’Anticristo ci consente allora di collocare il testo in una linea direttrice che, partendo dal Tractatus su San Benedetto e giungendo fino all’Enchiridion, anticipa l’ultima svolta del teologo calabrese in materia esegetica.

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Cfr. Ivi, fol. 10vb: «Unde et multorum tenet opinio de ultimo illo tyranno qui vocatur Gog, quod ipse sit Antichristus, nisi forte dicat aliquis non esse Gog ipsum Antichristum, sed quasi principem exercitus illius regis quem induet ipse diabolus». Si noti che l’incertezza circa la precisa identità di Gog [«quasi principem exercitus»] è espressa negli stessi termini anche nel De Ultimis Tribulationibus, dove si parla di Gog come di un «quasi magnus imperator, seductus a diabolo». La convinzione che Gog non fosse l’ultimo Anticristo, ma il suo capo militare, troverà conferma nell’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 213ra: «Quamvis, ut iam diximus in prefazione huius operis, non videatur iste Gog esse ipsum Antichristum, sed princeps exercitus Antichristi, alioquin cum Antichristus sit auctor seductionis propter eum qui corporaliter habitaturus est in eo non oportuerat dici Exibit et seducet gentes que sunt super quatuor angulos terre, Gog et Magog, sed potius: Egredietur Gog et seducet gentes ad faciendum hoc et illud. Unde magis videtur quod non sit Gog ipse Antichristus, sed magis princeps exercitus eius». Cfr. Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. XIV.

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L’analisi gioachimita delle varie persecuzioni e delle loro collocazione nei rispettivi sigilli, unita alle differenti modalità di considerare il ruolo e la funzione del figlio della perdizione, confermano perciò sia la centralità del De Septem Sigillis, avvalorando la sua funzione riepilogativa e didattica, almeno per ciò che riguarda un periodo della riflessione di Gioacchino, sia la plausibilità della sua collocazione storica avanzata in precedenza. Il De Septem Sigillis va pertanto collocato nella seconda metà degli anni novanta, indicativamente fra il 1196 e il 1198, in un periodo compreso fra l’Enchiridion super Apocalypsim e la redazione finale del Liber Introductorius. Il testo rappresenta quindi, con ogni probabilità, un breve prontuario, funzionale a rendere immediatamente accessibile, grazie ad uno schema di agevole consultazione, il punto di arrivo di una particolare fase della speculazione gioachimita. Questo breve opuscolo apocalittico ci consente perciò di indagare con maggiore consapevolezza il pensiero dell’abate, facendo luce su un paradigma esegetico in continua e costante evoluzione.

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GIOACCHINO DA FIORE (CELICO 1135 – S. GIOVANNI IN FIORE 1202)

Opere e edizioni: - Adversus Iudaeos, ed. A. Frugoni, Istituto Storico per il Medio Evo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 1957; trad. it., Agli Ebrei, a c. di M. Iiritano, pref. B. Forte, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1998; con il titolo di Exhortatorium Iudeorum, ed. A. Patschovsky, versio abreviata auctore incerto confecta; ed. B. Hotz, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2006; trad. it., Esortazione agli Ebrei, a c. di R. Rusconi, Viella, Roma 2011. - Apocalypsis Nova, inedita, manoscritti: Roma, Bibl. Vat., Cod. Lat. 4860, (foll. 85-141), sec. XIII; Dresden, Sächs. Landes-Bibl., Cod. A. 121, (foll. 100-131), sec. XIII-XIV. - Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, Venetiis 1519 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1964); ed. E. R. Daniel (libri I-IV), in “Transactions of the American Philosophical Society” 73/8, Philadelphia 1983. - De articulis Fidei, ed. E. Buonaiuti, R. Istituto Storico per il Medio Evo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 1936, pp. 3-80; ed. V. De Fraja, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2012. - De genealogia, ed. G. L. Potestà, Die Genealogia. Ein frühes Werk Joachims von Fiore und die Anfänge seines Geschichtsbildes, “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, 56 (2000), pp. 55-101. - De septem sigillis, ed. M. Reeves – B. Hirsch-Reich, “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, 21 (1954), pp. 239-247; ed. M. Bloomfield – H. Lee, The Pier-pont Morgan Manuscript of “De Septem Sigillis”, “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, 38 (1971), pp. 137-148; ed. J. E. Wannenmacher, in Id., Her-

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I sigilli dell’Apocalisse

meneutik der Heilsgeschichte. De septem sigillis und die sieben Siegel im Werk Joachims von Fiore, Brill, Leiden 2005, pp. 336-355. - De ultimis tribulationibus, ed. E. Randolph Daniel, in A. Williams (ed.), Prophecy and Millenarianism. Essays in honour of Marjorie Reeves, Longman, Burnt Hill (Essex) 1980, pp. 175-189; ed. K.-V. Selge, Ein Traktat Joachims von Fiore über die Drangsale der Endzeit: “De ultimis tribulationibus”, “Florensia”, 7 (1993), pp. 7-35. - De vita sancti Benedicti et de officio divino secundum eius doctrinam, ed. C. Barraut, “Analecta sacra Tarraconensia”, 24 (1951), pp. 1086; con il titolo di Tractatus in expositionem vite et regule beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2008. - Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, ed. G. L. Potestà, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 1995; trad. it., Dialoghi sulla prescienza divina e sulla predestinazione degli eletti, a c. di G. L. Potestà, Viella, Roma 2001. - Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, Pontifical Institute of Medieval studies, Toronto 1986; trad. it., Sull’Apocalisse, trad. e c. di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 20082. - Epistola domino Valdonensi e Epistola universis Christi fidelibus, ed. J. Bignami-Ordier, “Mélanges d’Archéologie et d’Histoire”, 54 (1937), pp. 226-227 e pp. 220-223. - Expositio de prophetia ignota Romae reperta, ed. B. McGinn, “Cîteaux”, 24 (1973), pp. 97-138 (il testo è alle pp. 129-138); ed. M. Kaup, De prophetia ignota – Eine frühe Schrift Joachims von Fiore, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998, pp. 180-224; trad. it., Commento a una profezia ignota, a c. di M. Laffranchi, Viella, Roma 1999. - Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1964). - Intelligentia super calathis, in P. De Leo, Gioacchino da Fiore. Aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1988, pp. 135-148. - Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, in L. Tondelli, Il libro delle Figure dell’Abate Gioacchino da Fiore, SEI, Torino, 1990³. - Poemata. O felix regnum patrie superne; Visionem admirande ordiar historie, in M. Reeves – J. V. Fleming, Two Poems Attributed to Joachim of Fiore, Pilgrim Press, Princeton 1978.

Gioacchino da Fiore (Celico 1135 – S. Giovanni in Fiore 1202)

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- Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, Eine Einführung Joachims von Fiore in die Johannesapokalypse, “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, 46 (1990), pp. 85-131; trad. it., Introduzione all’Apocalisse, a c. di G. L. Potestà, intr. di K.-V. Selge, Viella, Roma 1995. - Professio fidei, in P. De Leo, Gioacchino da Fiore. Aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1988, pp. 173-175. - Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527 (rist. anast. Minerva, Frankfurt a. M. 1965); ed. K.-V. Selge, Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistgeschichte des Mittelalters, Hannover 2009; trad. it., Il salterio a dieci corde, a c. di F. Troncarelli, riv. K.-V. Selge, Viella, Roma 2004. - Quaestio de Maria Magdalena et Maria sorore Lazari, in V. De Fraja, Un’antologia gioachimita: il manoscritto 322 della Biblioteca Antoniana di Padova, “Studi medievali”, 3ª serie, 32 (1991), pp. 251258 (Appendice). - Sermones, in Gioacchino da Fiore, Sermoni, a c. di V. De Fraja, Viella, Roma 2007. - Soliloquium, in P. De Leo, Una preghiera inedita di Gioacchino da Fiore, “Rivista storica calabrese”, 9 (1988), pp. 99-114. - Testamentum, ed. E. R. Daniel, in “Transactions of the American Philosophical Society” 73/8, Philadelphia 1983. - Tractatus super quatuor Evangelia, ed. E. Buonaiuti, Tipografia del Senato, Roma 1930; ed. F. Santi, Edizioni del Galluzzo, Firenze 1996; trad. it., Trattati sui quattro Vangeli, a c. di L. Pellegrini, pref. C. Leonardi, intr. G. L. Potestà, Viella, Roma 1999.

- Principali apocrifi gioachimiti: - Expositio magni prophete Joachim in Librum Beati Cirilli De Magnis Tribulationibus, Ed. L. de’ Soardi, Venetiis 1516. - Liber contra Lombardum, ed. C. Ottaviano, Reale Accademia d’Italia, Roma 1934. - Super Esaiam prophetam, Ed. L. de’ Soardi, Venetiis 1517. - Super Hieremiam prophetam, ed. B. Benalio, Venetiis 1525.

DE SEPTEM SIGILLIS*1

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Il testo latino riprodotto a fronte della traduzione italiana è tratto dall’edizione critica redatta da J. E. Wannenmacher, Hermeneutik der Heilsgeschichte. De septem sigillis und die sieben Siegel im Werk Joachims von Fiore, Brill, Leiden 2005, pp. 336-355.

I SETTE SIGILLI

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De septem sigillis

PRIMUM SIGILLUM

Sub hoc tempore continetur de Abraam, Ysaac et Iacob et filiis et nepotibus eius1, de mora eorundem filiorum Israel in Egipto2, de Moise et Aaron et exitu filiorum Israel de Egipto3, de persecutione Pharaonis et transitu maris rubri4, de donatione legis in monte Syna5, de Moise et Aaron et XII principibus populi6 necnon et LXXII senioribus7 qui egressi fuerunt ex Egipto. Sub hoc quoque tempore acceperunt hereditatem XII tribus, primo quidem V, novissime VII8. Completa sunt autem ista omnia a diebus Abrae patriarche usque ad obitum Iosue.

1 2 3 4 5 6 7 8

Cfr. Gen. 11-50. Cfr. Es. 1. Cfr. Es. 2-12. Cfr. Es. 14,5 – 31. Cfr. Es. 19-31. Cfr. Num. 1,44. Cfr. Num. 11,16. Cfr. Gs. 13-19.

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I sette sigilli

PRIMO SIGILLO

In questo tempo sono contenuti Abramo, Isacco, Giacobbe e i suoi figli e nipoti, e il periodo che gli stessi figli di Israele trascorsero in Egitto; sono contenuti inoltre Mosè, Aronne e l’uscita dei figli di Giacobbe dall’Egitto, la persecuzione del Faraone1 e il passaggio del Mar Rosso, la consegna della legge sul monte Sinai, Mosè e Aronne, e anche i dodici principi del popolo e i settantadue2 uomini più anziani che uscirono dall’Egitto. Durante questo stesso tempo, essi ricevettero l’eredità delle dodici tribù, inizialmente le prime cinque, e in seguito le altre sette. Tutte queste cose accaddero dai giorni del patriarca Abramo fino alla morte di Giosuè.

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De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc tempore continetur specialiter principium evangelii Luce, in quo ordine agitur de Zacharia sacerdote et Iohanne filio eius9, a quo baptizatus est Christus10, de nativitate quoque Christi11 et passione eiusdem12, de XII apostolis primis13 et ceteris discipulis LXXII14; similiter et liber actuum apostolorum editus ab eodem Luca15, in quo et scriptum est de separatione fidelium a sinagoga Iudeorum, de adventu Spiritus sancti super fideles16, de duobus apostolis novissimis Paulo et Barnaba, qui in predicatione gentium facti sunt primi17, usque ad dormitionem sancti Iohannis evangeliste. Continetur quoque specialiter sub ipso prima pars libri Apocalipsis, in qua dicit Iohannes factam sibi revelationem misteriorum in dominica die18, pro eo scilicet quod tempore resurrectionis dominice sacra misteria revelari ceperunt.

9 10 11 12 13 14 15 16 17 18

Cfr. Lc. 1,5-80. Cfr. Lc. 3. Cfr. Lc. 2. Cfr. Lc. 22ss. Cfr. Lc. 9,1ss. Cfr. Lc. 10,1-12. Cfr. At. 1,1-3. Cfr. At. 2,1-3. Cfr. At. 13,1-3. Ap. 1,10.

I sette sigilli

55

APERTURA DEL PRIMO SIGILLO

In questo tempo3 sono contenuti, in modo particolare, l’inizio del Vangelo di Luca, al cui interno ci si occupa del sacerdote Zaccaria e di suo figlio Giovanni, da cui Cristo fu battezzato, la nascita di Cristo e la sua passione, i primi dodici apostoli e tutti gli altri settantadue discepoli. Sono contenuti inoltre gli atti degli apostoli scritti dallo stesso Luca, al cui interno si descrive la separazione dei fedeli dalla Sinagoga dei Giudei, l’avvento dello Spirito Santo sopra i fedeli, e i due ultimi apostoli, Paolo e Bàrnaba, che furono i primi a predicare fra le genti fino alla morte di San Giovanni Evangelista4. Gli avvenimenti appena descritti sono contenuti soprattutto nella prima parte del libro dell’Apocalisse, in cui Giovanni narra di aver avuto la rivelazione dei misteri di domenica, naturalmente perché i sacri misteri gli furono rivelati nel giorno della resurrezione del Signore5.

56

De septem sigillis

SECUNDUM SIGILLUM

Sub hoc secundo tempore continentur pugne filiorum Israel habite cum Chananeis et diversis gentibus, secundum quod scriptum est in gestis Iosue et libro iudicum a diebus scilicet Iosue usque ad David regem.

57

I sette sigilli

SECONDO SIGILLO

In questo secondo tempo sono contenute le battaglie dei figli di Israele con i Cananei6 e con altri popoli, secondo quanto è stato scritto nelle opere di Giosuè e nel libro dei Giudici, e quindi dall’epoca di Giosuè fino al Re Davide.

58

De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc secundo tempore continentur prelia paganorum et sanctorum martirum, secundum quod specialiter continetur in spiritu in secunda parte Apocalipsis19, in qua apertis VII signaculis in specie equitum et equorum et aliarum ymaginum diversa persecutorum genera sunt ostensa.

19

Cfr. Ap. 4,1 – 8,1.

I sette sigilli

59

APERTURA DEL SECONDO SIGILLO

In questo secondo tempo sono contenuti i conflitti fra i pagani7 e i santi martiri, secondo quanto è contenuto soprattutto spiritualmente nella seconda parte dell’Apocalisse, in cui, aperti i sette sigilli, i vari gruppi di persecutori vennero raffigurati sotto forma di cavalieri, cavalli e altri tipi di immagini.

60

De septem sigillis

TERTIUM SIGILLUM

Sub hoc tertio tempore continentur pugne filiorum Israel habite cum Syris, Philisteis et aliis gentibus, sive etiam inter Iudam et Israel propter scisma, quod accidit in diebus Roboam filii Salomonis, quando Ieroboam filius Nabath abstulit sibi X tribus quas et fornicari faciens a Deo suo docuit colere duos vitulos aureos20 et recedere a domo Domini; nequando interfecto eo redirent ad Ierusalem et ad David regem suum. Perseveravit autem concertatio ista inter domum David et domum Ioseph ab exordio regni Roboam usque ad Heliam prophetam, secundum quod scriptum est in libris Samuelis et regum.

20

Cfr. Os. 8,5.

61

I sette sigilli

TERZO SIGILLO

In questo terzo tempo sono contenute le battaglie dei figli di Israele contro i Siri, i Filistei e altri popoli8, e anche tra Giuda e Israele9, a causa dello scisma che avvenne durante il regno di Roboamo, figlio di Salomone, quando Geroboamo, figlio di Nebat, gli sottrasse dieci tribù, alle quali insegnò, facendole allontanare dal loro Dio, come venerare due vitelli d’oro e come allontanarsi dalla casa del Signore, affinché, avvenuta la sua distruzione, non ritornassero mai a Gerusalemme e dal loro re Davide. Questo conflitto tra la casa di Davide e la casa di Giuseppe durò poi dall’inizio del regno di Roboamo fino al profeta Elia, secondo quanto è stato scritto nei libri di Samuele e nei libri dei Re.

62

De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc tempore continentur conflictus catholicorum doctorum habiti cum quibusdam gentibus arriana perfidia maculatis, Gotis scilicet, Wandalis et Longobardis, sive etiam cum gentibus Persarum. Sed et inter ecclesias Latinorum et Grecorum ac si inter Ierusalem et Samariam dissensio facta est, et perseveravit error arrianus et alii multi in ecclesiis Grecorum usque in finem, sicut quondam in Israel usque ad tempora transmigrationis sue, etsi non defuerunt in eis reliquie sicut et in tribubus Israel. Continetur autem conflictus iste, quem habuerunt catholici cum hereticis, in tertia parte Apocalipsis21 in tipo angelorum VII canentium tubis et diversarum rerum ymaginibus, quod per singulos angelos ostensum est.

21

Cfr. Ap. 8,2 – 11,18.

I sette sigilli

63

APERTURA DEL TERZO SIGILLO

In questo tempo sono contenuti i conflitti fra i dottori cattolici e alcuni popoli colpevoli di ariana perfidia – ossia i Goti, i Vandali e i Longobardi – e con i popoli persiani10. Ma anche tra le Chiese dei Latini e dei Greci vi fu un contrasto11, e continuò l’eresia ariana e molti altri errori nelle Chiese dei Greci fino alla fine, come avvenne una volta in Israele fino ai tempi del suo esilio, benché non mancassero in quelle Chiese le reliquie, come nelle stesse tribù d’Israele. Nella terza parte dell’Apocalisse, con l’immagine di angeli che suonano sette trombe e svariate figure che si rivelano attraverso ciascuno di essi, è contenuto anche il conflitto che i Cattolici hanno avuto con gli eretici.

64

De septem sigillis

QUARTUM SIGILLUM

Sub hoc quarto tempore continentur gesta Helie et Helisei ducentium vitam solitariam et filiorum prophetarum ducentium vitam communem, quibus etiam ad tempus prefuit Heliseus; sed et pugne Azaelis et regum Assiriorum prevalentium contra filios Israel22, secundum quod continetur in quarto regum volumine a diebus Helie et Helisei usque ad Ysaiam prophetam et Ezechiam regem Iuda23.

22 23

Cfr. 2 Re 8,28; 10,32; 12,17; 13,3-5; 22-25. Cfr. 2 Re 16,20; 18,1-20; 21.

65

I sette sigilli

QUARTO SIGILLO

In questo quarto tempo sono contenute le imprese di Elia ed Eliseo, che condussero una vita solitaria, e dei figli dei profeti, guidati a quel tempo da Eliseo, che condussero invece una vita comune; è contenuta inoltre la battaglia di Azaele e dei vari re degli Assiri12 che prevalsero contro i figli di Israele, secondo quanto è scritto nel quarto volume dei Re dal tempo di Elia ed Eliseo fino al profeta Isaia ed Ezechia, re di Giuda.

66

De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc quarto tempore claruerunt virgines et heremite, secundum quod designatum est in quarta parte Apocalipsis24 in muliere amicta sole25 fugiente in solitudine sicut fugit Helias manens uterque absconditus in tempus et tempora et dimidium temporis26; sed et bella Saracenorum orta sunt sub hoc tempore quarto, secundum quod in eadem parte quarta ostenditur in specie bestie ascendentis de abisso habentis capita VII et cornua X27.

24 25 26 27

Cfr. Ap. 11,19 – 14,20. Cfr. Ap. 12,1; 6. Cfr. Dan. 7,25; 12,7; Ap. 12,14. Cfr. Ap. 13,1; 22.

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I sette sigilli

APERTURA QUARTO SIGILLO

In questo quarto tempo risplendettero le vergini e gli eremiti, secondo quanto è indicato nella quarta parte dell’Apocalisse attraverso l’immagine di una donna vestita di sole che fugge in solitudine come fuggì Elia13, nascosti entrambi nel tempo e nei tempi e a metà del tempo. Anche le guerre dei Saraceni sorsero in questo quarto tempo14, in base a ciò che si mostra ancora, sotto forma di una bestia che risale dall’abisso con sette teste e dieci corna, nella stessa parte dell’Apocalisse.

68

De septem sigillis

QUINTUM SIGILLUM

Sub hoc quinto tempore cessaverunt prelia Assiriorum datis X tribubus in manibus eorum28, et confirmatum est regnum Iude in manu Ezechie29, qui et fecit mundari domum Domini et restauravit officia levitarum ut quererent Dominum Deum suum30, prophetantibus Ysaia, Osee, Michea, Sophonia et Ieremia et aliis viris sanctis, qui effuderunt phialas iracundie Dei31 sui super immundicias populorum, a diebus Ysaie prophete usque ad transmigrationem Babilonis, annunciantes mala ventura super Iudam et Egiptum et Babilonem et super multos populos qui erant in finitimis regionibus, licet in spiritu non de illis, sed de aliis populis eisdem similibus loqueretur. Fuit autem persecutio quinta contra filios Iuda Nechao regis Egipti32 et Nabuchodonosor regis Babilonis usque ad transmigrationem Babilonis33.

28 29 30 31 32 33

Cfr. 2 Re 17,1-6. Cfr. 2 Re 18,1 – 20,21. Cfr. 2 Cron. 29,1-5. Cfr. Ap. 16,1. Cfr. 2 Cron. 35,20-24. Cfr. 2 Re 24,1 – 25,21; 2 Cron. 36,5-21.

69

I sette sigilli

QUINTO SIGILLO

In questo quinto tempo terminarono le battaglie degli Assiri, nelle cui mani erano finite le dieci tribù, e sul regno di Giuda consolidò il suo dominio Ezechia, il quale purificò la casa del Signore e restaurò i culti dei leviti affinché ritrovassero il loro Signore Dio con l’aiuto dei profeti Isaia, Osea, Michea, Sofonia e Geremia e grazie a molti altri santi uomini che versarono le coppe dell’ira del loro Dio sull’immoralità dei popoli, dai tempi del profeta Isaia fino all’esilio di Babilonia, annunciando terribili avvenimenti su Giuda, l’Egitto, la Babilonia e su molti popoli che si trovavano nelle regioni di confine, sebbene non ci si riferisse spiritualmente ad essi, ma ad altri popoli a loro simili. Ci fu poi una quinta persecuzione15 contro i figli Giuda da parte di Necao, re d’Egitto, e di Nabucodonosor, re di Babilonia, fino all’esilio di Babilonia.

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De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc quinto tempore confirmata est latina ecclesia, que est altera Ierusalem, et egressi sunt ex ea viri spiritales qui zelati sunt zelo Dei ad faciendam vindictam in nationibus et increpationes in populis34, non quidem gladio ferri sed gladio verbi spiritalis35, secundum quod continetur in quinta parte Apocalipsis in tipo templi Domini et angelorum VII egredientium ex eo et effundentium phialas iracundie Dei in terram36 ad excecandas mentes peccatorum qui morantur in ea iuxta illud Ysaie. Exceca cor populi huius, et aures eius aggrava et claude oculos eius, ne forte convertantur et sanem eos37. Et sciendum, quod in omnibus temporibus istis non sunt iidem termini qui videntur notati in hac carta simpliciter attendendi, sed a medietate precedentis temporis initiatio sequentis attendenda est, clarificatio vero in limitibus suis. Porro tribulatio huius temporis contra romanam ecclesiam acsi civilis fuit aliquorum principum mundi et precipue Teothonicorum, qui nimis pro peccatis ipsius ecclesiam afflixerunt.

34 35 36 37

Sl. 149,7. Cfr. Ef. 6,17. Cfr. Ap. 16,1. Is. 6,10.

I sette sigilli

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APERTURA DEL QUINTO SIGILLO

In questo quinto tempo fu consolidata la Chiesa latina, che è un’altra Gerusalemme, e si allontanarono da quella Chiesa gli uomini spirituali che sono stati ricercati dall’amore di Dio per compiere la vendetta fra le nazioni e punire i popoli, non certo con una spada di ferro ma con la spada dello Spirito, secondo quanto è contenuto nella quinta parte dell’Apocalisse attraverso l’immagine del tempio del Signore e di sette angeli che si allontanavano da lui e che versavano le coppe dell’ira di Dio sulla terra per offuscare le menti dei peccatori che hanno indugiato in essa, in base a ciò che è stato detto da Isaia: Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e chiudi i suoi occhi, affinché non ritornino per caso ad essere sani. E bisogna sapere che in tutti questi tempi non si deve semplicemente prestare attenzione agli stessi limiti che paiono indicati in questa carta, ma l’inizio del periodo seguente deve essere considerato a partire dalla metà del tempo precedente, sebbene il compimento vada cercato nei suoi confini. Inoltre, la tribolazione di questo tempo, pur civile, contro la Chiesa romana fu causata da alcuni principi del mondo, e soprattutto dai Teutonici16, che hanno enormemente afflitto la Chiesa di quel tempo a causa dei suoi peccati.

72

De septem sigillis

SIGILLUM SEXTUM

Sub hoc sexto tempore continentur transmigratio Ierusalem38 et percussio Babilonis, necnon et tribulationes due filiorum Israel, quarum una continetur in ystoria Iudith, altera in libro Hester. Verumtamen templum Dei et muri civitatis reedificati sunt39 in angustia temporum40.

38 39 40

Cfr. Esd. 1,1 – 2,67. Esd. 3-5. Dn. 9,25.

73

I sette sigilli

SESTO SIGILLO

In questo sesto tempo sono contenuti la trasmigrazione di Gerusalemme e l’attacco a Babilonia, oltre alle tribolazioni di due dei figli di Israele17, una delle quali è contenuta nel libro di Giuditta18, l’altra nel libro di Ester19. Ciò nonostante, il tempio di Dio e le mura della città furono ricostruiti in tempi particolarmente difficili.

74

De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc tempore sexto cepit transmigrare in spiritu spiritalis Ieuralem quousque percuciatur nova Babilon, sicut scriptum est in sexta parte Apocalipsis41. Revera etenim percucietur Babilon, populus scilicet qui dicitur christianus et non est sed est sinagoga sathane, et qui veri sunt Christiani in duabus tribulationibus liberandi sunt, quarum una similis ei quam fecit Olofernes princeps Nabuchodonosor, regis Assiriorum, altera ei quam fecit Aman. Interea tamen multi fidelium coronabuntur martirio et edificabitur rursum sancta civitas, que est ecclesia electorum, in angustia temporum, sicut factum est in diebus Zorobabel et Iosue et Esdre et Neemie, sub quibus vetus illa Ierusalem consolationem accepit. Sed et diabolus qui facit omnia mala hic incarcerandus est in abisso, ut non seducat amplius gentes42 usque ad statutum terminum solutionis sue.

41 42

Cfr. Ap. 16,18 – 19,21. Ap. 20,3.

75

I sette sigilli

APERTURA DEL SESTO SIGILLO

In questo sesto tempo incominciò la trasmigrazione spirituale della spirituale Gerusalemme finché fu colpita la nuova Babilonia, come è stato scritto nella sesta parte dell’Apocalisse. In realtà, quando viene attaccata Babilonia, il popolo che si dice cristiano, e che non lo è, essendo in verità la sinagoga di Satana , e coloro che sono i veri Cristiani, devono essere liberati dalle due tribolazioni20, delle quali una è simile a quella che causò Oloferne, generale di Nabucodonosor21, re degli Assiri, e l’altra è simile a quella che causò Aman. Nel frattempo, tuttavia, molti dei fedeli saranno premiati dal martirio e sarà costruita nuovamente la santa città, che è la Chiesa degli eletti, in tempi difficili, come è stato fatto nei giorni di Zorobabele, Giosuè, Esdra e Neemia, sotto i quali quella vecchia Gerusalemme ricevette consolazione. Ma anche il diavolo che compie tutti i mali possibili deve essere gettato nell’abisso, affinché non seduca più nessuno, fino al termine fissato per la sua liberazione.

76

De septem sigillis

SIGILLUM SEPTIMUM

Sub hoc septimo tempore cessaverunt ystorie et prophetie, et concessus est sabbatismus populo Dei43, sed et reliquis Iudeorum data est pax usque ad Antiochum regem. Qua persecutione peracta non longe post premisso Iohanne unigenitus Dei Filius venit in mundum44, ita ut in terris videretur et cum hominibus conversaretur45. Consummatis ystoriis veteris testamenti et passo unigenito Dei Filio, qui factus est sub lege, ut eos qui sub lege erant redimeret46, advenit tempus resurrectionis, in quo et multa corpora sanctorum qui dormierant47 suscitata sunt, et collecta in unum turba fidelium, effusa est super illam abundantia pacis48 que et repleta Spiritu sancto agnovit, que sit beatitudo de qua dicit propheta: Oculus non vidit, Deus, absque te que preparasti dilingentibus te49.

43 44 45 46 47 48 49

Eb. 4,9. Gv. 3,19. Bar. 3,38. Gal. 4,4. Mt. 27,52. Cfr. Sl. 71 (72), 7. Is. 64,3.

77

I sette sigilli

SETTIMO SIGILLO

In questo settimo tempo terminarono le storie e le profezie, e fu concesso al popolo di Dio il riposo sabbatico22, ma fu data la pace anche ai restanti Giudei fino al re Antioco23. E questa persecuzione fu compiuta non molto dopo che, ucciso Giovanni, l’unigenito Figlio di Dio venne al mondo, così che fosse visto in terra e vivesse con gli uomini. Esaurite le storie del Vecchio Testamento e avvenuta la passione dell’unigenito Figlio di Dio, che fu fatto sotto la legge affinché riscattasse quelli che erano sotto la legge, venne il tempo della resurrezione, nella quale furono resuscitati anche i molti corpi dei santi che dormivano; inoltre, radunata una folla di fedeli, fu versata su di essa abbondanza di pace e, colmata dello Spirito Santo, riconobbe che cosa fosse la beatitudine di cui parla il profeta: Occhio non vide, Dio, senza di te, che hai fatto tanto per coloro che ti amano.

78

De septem sigillis

APERTIO EIUSDEM

Sub hoc septimo tempore quod futurum est in proximo cessabunt apertiones signaculorum et labor exponendorum librorum testamenti veteris, dabiturque revera sabbatismus populo Dei50, et erit in diebus illius iustitia et abundantia pacis, et dominabitur Dominus a mari usque ad mare51, et sancti eius regnabunt cum eo usque ad occultum finem ipsius temporis, quo solvendus est diabolus de carcere suo et regnaturus homo ille pessimus qui vocatur Gog, de quo tam multa scripta sunt in libro Iezechielis prophete. Relinquitur ergo, ut ait Apostolus, sabbatismus populo Dei52, in cuius fine futura est tribulatio ista, post quam – premisso Helia – venturus est Dominus ad extremum iudicium, secundum quod continetur luce clarius in septima parte Apocalipsis in nullo discordans a veteribus signis. Consummatis operibus testamenti novi et peracta tribulatione illa maxima que erit in diebus Gog, similis quidem illi que facta est sub Antiocho, significata vero in passione Domini, adveniet tempus resurrectionis mortuorum et consolationis superne Ierusalem, quam influet ex eo tempore fluvius aque vive53, secundum quod continetur in octava parte libri Apocalipsis, et erit in ea gaudium sempiternum.

50 51 52 53

Eb. 4,9. Sl. 71 (72),7-8. Eb. 4,9. Zc. 14,8.

I sette sigilli

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APERTURA DEL SETTIMO SIGILLO

In questo settimo tempo che è ormai vicino cesseranno le aperture dei sigilli e la fatica di esporre i libri del Vecchio Testamento, e sarà veramente concesso il riposo sabbatico al popolo di Dio; in quei giorni, inoltre, ci sarà giustizia e abbondanza di pace, e il Signore regnerà da mare a mare, e i suoi Santi regneranno con lui fino alla fine nascosta del suo tempo, nel quale il diavolo deve essere liberato dal suo carcere e regnerà quel terribile uomo che chiamiamo Gog24, a proposito del quale molte cose sono state scritte nel libro del profeta Ezechiele. È concesso dunque, come dice l’Apostolo, un riposo sabbatico al popolo di Dio25, alla fine del quale ci sarà questa tribolazione; in seguito – inviato Elia –, verrà il Signore per l’ultimo giudizio, secondo quanto è contenuto più chiaramente nella settima parte dell’Apocalisse, in nulla differente dai vecchi sigilli. Consumate le opere del Nuovo Testamento e compiuta la più terribile tribolazione che avverrà nei giorni di Gog, simile a quella che avvenne sotto Antioco, in verità già preannunciata nella passione del Signore, verrà il tempo della resurrezione dei morti e della consolazione della Gerusalemme celeste, che in quel tempo sarà inondata da un fiume di acque vive, secondo quanto è contenuto nell’ottava parte del libro dell’Apocalisse. E ci sarà allora una gioia sempiterna.

81

NOTE AL TESTO I SETTE SIGILLI

1

2

3

Gioacchino attribuisce la prima tribolazione veterotestamentaria alla persecuzione degli egiziani. Si tratta di un elemento costante, presente in tutte le altre opere dell’abate calabrese. A questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia sanctorum antiquorum patrum, ed. G. L. Potestà, ll. 76-80, p. 95: «A Moyse ad Iohannem Baptistam septem tribulationes consummate fuerunt […] Primum certamen veteris testamenti fuit Egyptiorum»; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 9-16, p. 184: «Memorandum namque nobis est, quod semptem speciales persecutiones populus pertulit Hebreorum […] Fuit autem contra Israel prima persecutio Egyptiorum»; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 282-283, p. 113: «Septem vero certamina que sint, de serie historiarum colligitur: primum Egiptiorum»; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39ra; ed. E. R. Daniel, ll. 60-61, p. 287: «Signaculum enim Primum conflictum respicit Egyptiorum et filiorum Israel»; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 808-810, p. 33: «In tempore primi sigilli habuit conflictum Israel cum Aegyptiis, qui se multis doloribus afflingentes, servitus quoque vinculo compeditum tenebant, ita ut non liceret ei explere jussa Domini in desertum»; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra: «Horum bellorum primus fuit egyptiorum». Cfr. inoltre Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III, VIII e IX. La struttura del Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti non ci permette di presentare le tribolazioni in relazione agli altri lavori dell’abate. Riferendosi ad un passaggio del libro di Giobbe (5, 19), Gioacchino rinuncia infatti allo schema settenario, riducendo a sei il numero delle persecuzioni. A questo proposito, cfr. Ivi, ed. A. Patschovsky, III, c. 2, ll. 4-10, p. 205 e c. 4, pp. 227-231. La scelta dell’abate calabrese, fondata su delle esigenze di natura liturgica, rappresenta un unicum nel suo modello esplicativo. Nel corso dell’esposizione, tuttavia, Gioacchino finirà per disattendere lo schema iniziale, imprimendo una svolta decisiva alla sua esegesi. Sulle motivazioni che hanno spinto Gioacchino ad utilizzare il numero settantadue, cfr. Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, II, foll. 11vb – 12ra; ed. E. R. Daniel, ll. 1-20, p. 95. L’apertura di ogni sigillo si verifica in relazione alle corrispondenti tribolazioni che hanno avuto o avranno luogo nel Nuovo Testamento. In

82

4

5 6

7

I sette sigilli questo caso, tuttavia, Gioacchino non si riferisce ad alcuna particolare tribolazione patita dalla Chiesa durante l’apertura del primo sigillo. Richiamandoci ai vari passaggi presenti nel vasto corpus gioachimita, possiamo comunque identificare nel popolo ebraico il primo persecutore dei cristiani. A questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 87-88, p. 95: «Hec prelia fuerunt contra filios Israel. Contra ecclesiam similiter fuit prelium Iudeorum, ubi primum sigillum apertum est»; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 21-1, pp. 184-186: «Septem illa discrimina, que filii Israel perpessi sunt, septem sunt ecclesie persecutiones, quas partim exhibitio temporum, partim elucidat oraculo prophetarum. Prior igitur ecclesie persecutio fuit Iudeorum»; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 296-298, p. 114: «Primum itaque ecclesie prelium cum Iudeis est habitum veluti cum novis Egiptiis, in quo scilicet prelio primum sigillum apertum est»; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39ra; ed. E. R. Daniel, ll. 6062, p. 287: «Signaculum enim primum conflictum respicit Egyptiorum et filiorum Israel, quod tunc veraciter completum est quando, contrita perfidia Iudeorum, Christus resurrexit a mortuis»; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 811-814, p. 33: «In tempore quoque aperionis primae sub quo terminatio veteri novum Testamentum in filiis incohatum est, surrexit iterum pro patribus novus et spiritualis Israel, qui adversus novos Aegyptios Judaeos certamen iniit». Sull’apertura del primo sigillo, cfr. inoltre l’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, foll. 113vb – 114rb e il Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV, VIII e X. Sulla dormitio dell’evangelista Giovanni, cfr. Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 785-786, p. 33; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 7rb; Id., Expositio in Apocalypsim, I, fol. 77ra. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, I, fol. 39va. Anche nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 80-81, p. 95, il secondo certamen è quello dei Cananei; nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 16, p. 184, la seconda persecuzione è invece considerata opera dei Madianiti; nel testo della Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 283-284, p. 113, il secondo conflitto avvenuto sub lege ritorna ad essere attribuito ai Cananei, al pari di tutti i testi successivi. Cfr. infatti Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39rb; ed. E. R. Daniel, ll. 11-13, p. 289; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 865-866, p. 35; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra; Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III, VIII e IX. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 88-89, p. 95: «secundum [sigillum apertum est] in persecutione paganorum»; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 1, p. 186: «Secunda [persecutio fuit] paganorum»; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 307-308, p. 114: «Apertum ergo est secundum sigillum paganorum temporibus»; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39va; ed. E.

Note al testo I sette sigilli

8

9

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R. Daniel, ll. 25-30, p. 290: «In omnibus itaque Iudeorum et Chananeorum conflictibus, christianorum et paganorum certamina designata sunt, excepto quod in contrarium sese pugne respiciunt; ita ut ibi Chananeorum casus victoria extiterit Iudeorum, ipsorum vero casus victoria Chananeorum; hic corporalis christianorum casus ruina extiterit paganorum, non posse autem christianos subire mortem pro Christo, paganorum victoria»; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 865-868, p. 35: «In tempore itaque secundi sigilli bella Chananeorum secuta sunt, pro quibus in ecclesia paganorum certamina successerunt, incohata quidem sub apertione prima, sed consumata in diebus apertionis secundae». Cfr. inoltre il Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 7rb, l’Expositio in Apocalypsim, II, fol. 114rb-vb e il Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV, VIII e X. Nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, l. 81, p. 95, Gioacchino si limita ad indicare la battaglia che ha opposto il popolo ebraico ai Siri; nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 16-17, p. 184, l’abate fa invece riferimento ad una più generica persecuzione di «aliarum nationum»; nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, l. 284, p. 113, Gioacchino torna ad attribuire il terzo certamen veterotestamentario ai Siri [«tertium Syrorum»]; lo stesso accade nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39vb; ed. E. R. Daniel, ll. 4-6, p. 292, nell’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra e nel Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III, VIII e IX. Sulle divisioni fra Giuda e Gerusalemme, cfr. la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39vb; ed. E. R. Daniel, ll. 1-9, p. 292 e l’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 869-872, p. 35: «In tempore sigilli tertii, schismata inter Judam et Hierusalem, erroresque in utroque regno, sed magis in Israel orta sunt, pro quibus et inter se pugnaverunt diutius, et aliarum quoque gentium bella gravissima subsecuta sunt». Cfr. inoltre Ioachim abbas Florensis, Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 7rb. Già all’epoca della Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 89-90, p. 95, Gioacchino era convinto che le battaglie dei Siri, avvenute durante il terzo sigillo, dovessero essere comparate a quelle dei «Perse, Goti, Vandali, Longobardi, qui ecclesiam infestaverunt». Nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 1-2, p. 186, sebbene non si faccia cenno alle persecuzioni dei Persiani, rimane comunque ferma la convinzione che la terza persecutio fosse opera dei popoli ariani, «hec est Gothica, Wandalica, Alemannica, Lonbarda»; nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 308-310, p. 114, l’abate calabrese recupera invece la prima descrizione presentata nella Genealogia: «Tertio sigillo prelia continentur Syrorum et aliarum gentium, pro quibus in ecclesia Persarum et Gothorum et Vandalorum et Longobardorum orta sunt»; lo stesso accade nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 40ra; ed. E. R. Daniel, ll. 50-59, pp. 294-295. Nell’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 1189-1200, pp. 45-46, Gioacchino descrive i conflitti che hanno avuto luogo durante l’apertura del terzo sigillo, sottolineando l’intrinseca storicità della sua ermeneutica concordataria: «Nec exigenda est a nobis quia haec dicimus

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I sette sigilli concordia ista, quae, sicut jam diximus, futura est, sicut non erat exigenda in diebus Joannis Baptistae concordia status secundi, cum solus adhuc primus paries constructus esse videretur, et una, ut ita dixerim, telae facies, quae absque parte altera concordare non poterat. Non enim adhuc in apertione primi signaculi, pro Aegyptiis sequentibus Israel Judaei persecutores apparuerant, nec in apertione secundi pro Chananaeis pagani, nec in apertione tertii pro scissione Israelis a domo Juida, scissio Graecorum a Romana ecclesia, aut pro erroribus Israelis quibus etiam Juda foedatus est, errores Arianorum et aliorum multorum ex Graecorum populo pullulantes et Latinos foedantes, aut pro hostibus Judae et Israelis, Gothi, Vandalii, Longobardi et Persae». Cfr. inoltre l’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, foll. 114vb – 115vb e il Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV, VIII e X. A questo proposito, cfr., ad esempio, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 39vb; ed. E. R. Daniel, ll. 10-19, p. 292 e l’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 872-876, p. 35: «In tempore tertio in quo sigillum tertium apertum est, inter populum Graecorum et Latinorum schismata et errores multiplicata sunt, pro quibus inter Graecos et Latinos non modica certamina emerserunt, et nihilominus aliarum gentium bella fortissima subsecuta sunt». Sulle guerre degli Assiri durante il quarto sigillo, cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, l. 81, p. 95; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 16, p. 184; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, l. 284, p. 113; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 40va; ed. E. R. Daniel, ll. 7-10, p. 296; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 876-877, p. 35; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra e fol. 7rb; Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich,Tav. III, VIII e IX. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, II, fol. 12va; ed. E. R. Daniel, ll. 24-32, p. 100; Id., Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, IV, fol. 153ra. La convinzione che i Saraceni fossero i persecutori del popolo cristiano in corrispondenza dell’apertura del quarto sigillo è una persuasione che attraversa l’intero corpus dell’abate calabrese. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 90-91, p. 95: «In quarto sigillo contra ecclesiam insurrexerunt Sarraceni»; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 6-11, p. 186: «Porro quarta persecutio Sarracenorum loco Assiriorum succesit. Ut enim illa decem , ita hec persecutio Grecorum plurimas devastavit ecclesias. Hec igitur persecutio temporibus Gregorii pape natione Siti et Zacharie successoris eius orientalem et meridianam plagam durius, ut legitur, angustabat adeo, ut Constantinipolitanus augustus vix ipsam suam metropolim tueri a Sarracenis valeret»; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 311-313, p. 114: «Quartum vero sigillum continet bella Assiriorum, pro quibus contra ecclesiam Sarraceni, gens pestilens, sunt exorti, qui talia operati sunt in cristiano populo qualia illi in populo Israel»; Id., Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 40va; ed. E. R. Daniel, ll. 10-13, p. 296: «In ecclesia vero post bella Persica secuta sunt prelia Saeeacenorum, occupantibus eisdem

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christianorum fines et duabus quasi alis extensis in orientem et occidentem, secundum quod predixit Isaias propheta in typo regni Assyriorum»; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 876-879, p. 35: «In tempore sigilli quarti praeeuntibus Syrorum proeliis successerunt bella Assyriorum, pro quibus in ecclesia praeeuntibus Persarum proeliis orta sunt bella Agarenorum tempore videlicet apertionis quartae, quorum atrox immanitas usque ad praesens tempus perdurat». Cfr. inoltre il Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 7rb, l’Expositio in Apocalypsim, II, foll. 115vb – 116rb e il Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV, VIII e X. La quinta persecuzione veterotestamentaria è attribuita in tutte le opere di Gioacchino ai Caldei. A questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 81-82, p. 95; Id., De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 17, p. 184; Id., Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, l. 284, p. 113; Id., Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 880-884, p. 35; Id., Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra e fol. 7rb; Id., Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III, VIII e IX. I teutonici sono considerati da Gioacchino i nuovi Caldei. Già nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 91-92, p. 95, l’apertura del quinto sigillo si realizza in concomitanza con le persecuzioni dei «novi Caldei» contro la «spiritualem Ierusalem». Anche nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 6, p. 188, rimane la convinzione che la quinta persecuzione sia opera di una «alterius et deterioris Babilonis». L’abate esprime lo stesso convincimento nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 314-316, pp. 114-115: «Secuti sunt Caldei sub signaculo quinto, pro quibus novi Caldei et Babilon nova spiritualem Ierusalem persequuntur. Signaculum igitur quintum in quinto certamine aperitur». Cfr. inoltre la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 41rb; ed. E. R. Daniel, ll. 5-8, p. 30 e l’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 910-914, p. 36: «Igitur in tempore quinto Chaldaeorum qui regnabant in Babylone acerrima satis proelia subsecuta sunt, pro quibus Teutonicorum militia in nova Babylone regnantium contra novam Hierusalem quae est ecclesia Petri». Una diversa interpretazione è sostenuta invece nell’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, foll. 116rb – 117va: se la quarta persecuzione era sorta in Arabia a causa degli Agareni, la quinta è qui attribuita ai Saraceni provenienti dalla Mauritania e dalla Spagna: «Quinta persecutio in Mauritania et in Hyspaniis orta est». Nel Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV e VIII, al contrario, l’abate ritiene che la «persecutio Alamannorum» rappresenti la quinta tribolazione. Gioacchino fa riferimento a due tribolazioni patite dai figli di Israele, senza fornire alcuna indicazione sulla natura delle persecuzioni e sull’identità dei persecutori. Ad ogni modo, grazie alla corrispondenza stabilita nella descrizione dell’apertura del sesto sigillo, possiamo identificare in Oloferne e Aman gli autori delle due tribolazioni. Come abbiamo mostrato in sede introduttiva, è proprio nella descrizione delle persecutiones avvenute nel sesto sigillo e nella sua rispettiva apertura che possiamo rile-

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I sette sigilli vare la massima differenziazione interna alla riflessione gioachimita. Nei primi testi, infatti, l’esigenza di istituire un periodo sabbatico tanto per il popolo cristiano quanto per quello ebraico, collocando anche la settima tribulatio nel sesto sigillo, così da garantire un breve intervallo di pace prima della venuta di Antioco e di Gog, non era ancora stata debitamente tematizzata e sviluppata. Nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 82-83, p. 95, ad esempio, Gioacchino si limita ad individuare nei Medi il soggetto del sesto certamen, senza fornire ulteriori spiegazioni; lo stesso accadrà nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, ll. 17-18, p. 184, con la sola aggiunta del popolo persiano. Una prima svolta si realizza già nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, l. 285 e ll. 320-321, pp. 113-115: se in una prima presentazione delle persecuzioni veterotestamentarie si fa riferimento soltanto a quelle dei Medi «contra Babilonem et contra filios Israel», in un passaggio subito successivo, incentrato sulla corrispondenza delle tribolazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, l’abate calabrese pone anche la settima persecuzione di Antioco sotto il sesto sigillo; in tal modo, Gioacchino sembra voler collocare, come avverrà puntualmente nelle opere successive, anche nell’ultimo sigillo veterotestamentario un intervallo di pace, corrispondente al periodo sabbatico che precederà il giudizio finale descritto nell’Apocalisse. Tuttavia, sarà solamente nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 41va; ed. E. R. Daniel, ll. 1-11, p. 303 e nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 6, pp. 267-272 che Gioacchino, grazie ai riferimenti ai libri di Giuditta e Ester, porrà le basi per identificare i responsabili della sesta e della settima tribolazione (l’unica differenza rispetto all’Enchiridion e al De septem sigillis è che in questi testi l’abate si riferisce direttamente a Nabucodonosor, e non al suo generale Oloferne). L’identità dei due persecutori e la necessità di collocare entrambe le tribolazioni nel sesto sigillo verrà sottolineata una volta ancora nell’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 337-339, ll. 919-946, ll. 17161720, rispettivamente p. 19, p. 37 e p. 62, per essere poi confermata nel Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 4ra. Per quanto concerne il Liber Figurarum, dobbiamo sottolineare che le sue tavole non restituiscono una descrizione univoca delle persecuzioni del sesto sigillo. Le Tav. VIII e IX, infatti, fanno riferimento alla sola «persecutio medorum»; è soltanto all’interno della terza tavola che Gioacchino sviluppa l’opzione ermeneutica della doppia tribolazione: «Sigillum sextum continet bella Medorum atque Persarum qui miro calamitatis genere Babilonem illam inclitam ut Jeremias predixerat percusserunt. Sub eodem sigillo continetur validissima Macedonum persecutio, omnes aliorum temporum persecutiones excellens», Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III. Nel libro di Giuditta viene narrata la prima delle due persecuzioni subite dal popolo ebraico durante il sesto sigillo ad opera di Oloferne, generale di Nabucodonosor. Nel libro di Ester ritroviamo la seconda persecuzione avvenuta nel corso del sesto sigillo veterotestamentario ad opera di Aman, il primo consigliere del re Assuero.

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Anche per quanto concerne l’apertura del sesto sigillo, nelle prime opere dell’abate non si fa riferimento ad una doppia persecuzione. Nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, l. 92, p. 95, la sesta persecutio è la «destructio Babilonis, id est Rome»; nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, II, ll. 3-4, p. 194, sebbene Gioacchino affermi che le persecuzioni ancora da compiersi sono avvolte da una tenebrosa caligine [«in tenebrarum caligine persecutiones supersunt»], indica in dieci terribili tirannidi il soggetto della sesta tribolazione. Nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 319-322, p. 15, la sua posizione è ancora più sfumata e di ardua decifrazione: secondo l’abate, nell’apertura del sesto sigillo si compiranno degli avvenimenti simili a quelli già accaduti nel sigillo veterotestamentario. Subito dopo, Gioacchino precisa che, «sub eodem signaculo», alla tribolazione di Antioco seguirà nella Chiesa cristiana la «tribulatio Antichristi»; l’affermazione dell’abate calabrese sembra dunque collocare nell’apertura del sesto sigillo due delle persecuzioni patite dal popolo cristiano. Nella seconda parte di questo opuscolo apocalittico, Gioacchino ritorna sulle tribolazioni del Nuovo Testamento, confermando i giudizi precedenti: «Sexta et septima in sexti apertione sigilli perficiende sunt, ubi tamen septime non aperte exprimitur», Ivi, II, ll. 502-503, p. 123. Ad ogni modo, è soltanto all’interno del Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 6, pp. 267-268, che l’abate calabrese, introducendo la figura di Aman e del suo tipo neotestamentario, aumenta il numero dei persecutori del popolo ebraico e cristiano. Questa decisione rappresenta una svolta: pur fra notevoli incertezze e ambiguità, e tradendo lo schema iniziale, Gioacchino non attribuisce più la settima tribolazione ad Antioco, bensì ad Aman. In questo modo, la persecutio del re macedone si realizzerà successivamente al periodo sabbatico che precede la venuta di Cristo. Tale impostazione sarà approfondita sia nella Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 41va; ed. E. R. Daniel, ll. 12-20, pp. 303-304, sia nell’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 961-982 e ll. 1006-1062, pp. 38-39 e pp. 40-41. In corrispondenza degli avvenimenti che si sono svolti al tempo del sesto sigillo, «in vicino tempore similia consummanda sunt»: al posto di Oloferne si leverà quindi un re altrettanto superbo, «qui multa mala in Christiano populo committet»; analogamente, precisa il teologo calabrese, una persecutio simile a quella di Aman, contenuta nel libro di Ester, sta per avere inizio in Occidente. Sull’apertura del sesto sigillo, cfr. anche Ioachim abbas Florensis, Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, foll. 117va – 123ra. Le tavole Liber Figurarum forniscono una descrizione differente: mentre nelle Tav. VIII e X l’abate parla di una generica «persecutio gentium» e di una «persecutio populorum multorum», nella quarta tavola presenta una doppia persecuzione in linea con le opere più mature: «Sigilli sexti apertione continetur iterata persecutio Regni quarti et decem regum suorum insurgentium contra romanum imperium. Sub eiusdem apertione sigilli continetur validissima Antichristi tempestas», Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum,ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV. Abitualmente, era proprio Nabucodonosor – «id est diabolum» –, e non

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I sette sigilli il suo generale Oloferne, ad essere identificato con il principe dei malvagi. Cfr., ad esempio, Rupertus Tuitiensis, De Trinitate et Operibus Eius, PL 167, c. XV, col. 1477 B; Haymo Halberstatensis [in verità, Aimone di Auxerre], Expositionis in Apocalipsin B. Joannis, PL 117, L. IV, c. XIV, col. 1108 C; Paschasius Radbertus, In Lamentationes Jeremiae Prophetae, PL 120, col. 1223 C; Glossa Ordinaria, Liber Judith, PL 113, c. I, col. 731 D. Anche Gioacchino, almeno fino al terzo libro della Concordia, non si distacca dalla tradizione: a questo proposito, cfr. Ioachim abbas Florensis, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, fol. 41va; ed. E. R. Daniel, ll. 8-20, pp. 303-304. L’idea di un periodo di pace precedente alla persecuzione di Antioco appartiene ad una fase matura della riflessione gioachimita. Tale convinzione, infatti, non comparirà nelle opere dell’abate prima della Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, foll. 41vb – 42ra; ed. E. R. Daniel, ll. 1-17, pp. 305-306 e dell’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 241-248 e ll. 1501-1564, p. 16 e pp. 55-57. È proprio a partire dalla riflessione presente in queste opere, infatti, che Gioacchino identifica stabilmente gli autori della sesta e della settima tribolazione, collocandoli all’interno del sesto sigillo. Il tempo del settimo, quindi, diviso fra i ricordi delle persecuzioni precedenti e l’attesa di Antioco, rappresenta un breve periodo di riposo concesso da Dio al popolo ebraico. Nel De septem sigillis, la persecutio di Antioco è successiva al riposo sabbatico che sopraggiunge dopo la sesta e la settima tribolazione, realizzatesi al tempo del sesto sigillo. Questa convinzione, tuttavia, rappresenta il risultato di una lunga elaborazione teorica. Nella Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 83-85, p. 95, la persecuzione di Antico è considerata il settimo certamen affrontato dal popolo ebraico durante il settimo sigillo: «Septimum Grecorum, Anthioco exterminante Ierusalmem. Hec septem tribulationes septem erant signacula, id est signa occulta futurorum». La stessa convinzione verrà confermata anche nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, I, l. 16, p. 184. Come abbiamo sottolineato nella nota 17, la posizione difesa dall’abate nella Praephatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 286-288 e ll. 320-321, pp. 113-115, non è di facile decifrazione: nella prima descrizione delle tribolazioni veterotestamentarie, infatti, Gioacchino precisa che il settimo certamen «Grecorum fuit, cum videlicet Antiochus rex urbem sanctam contaminavit et templum»; analizzando invece la corrispondenza fra queste persecuzioni e quelle che avranno luogo nel Nuovo Testamento, l’abate colloca la figura di Antioco nel sesto sigillo, garantendo così al popolo ebraico un periodo sabbatico. Ancora più complessa risulta l’analisi che Gioacchino compie all’interno del Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti: in un primo tempio, quando il teologo calabrese sembra voler considerare solo sei tribolazioni, la persecuzione di Antioco rappresenta l’ultima della serie, in corrispondenza con quella «tribulatio maxima, que erit in tempore Antichristi», Ivi, ed. A. Patschovsky, III, c. 4, ll. 1-3, p. 231. Nel prosieguo dell’opera, però, dopo aver introdotto la figura di Aman, Gioacchino sembra implicitamente presupporre il suo schema settenario: ecco allora che la sesta tribolazione è considerata opera di Nabucodonosor, mentre la settima è attribuita

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ad Aman. In tal modo, e in piena corrispondenza con quanto preciserà poco oltre, riferendosi ad un’età sabbatica che precede la persecuzione di Gog, Gioacchino colloca la tribolazione di Antioco al di fuori della serie, concedendo anche al popolo ebraico un breve periodo di pace. L’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 650-674, 1069-1084 e ll. 1733-1738, rispettivamente p. 29, pp. 41-42 e p. 62, non modificherà, nella sostanza, il quadro d’insieme. Limitandosi ad utilizzare la sola concordia binaria fra i due Testamenti – la stessa che regge il De septem sigillis –, Gioacchino ritiene, seppur con qualche incertezza e con alcune lievi modifiche interne all’esposizione, che la persecutio di Antioco, essendo in relazione a quella di Gog, sia successiva alle tribolazioni che hanno caratterizzato i singoli sigilli. Antioco rappresenta dunque l’ultimo persecutore del popolo ebraico. Il parallelo fra la figura di Antioco e quella di Gog, entrambe collocate al di là dello schema settenario, troverà un’ulteriore e decisiva conferma nel Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, fol. 9ra: «Ibi post Antiochum regis datus est finis veteri testamento; hic post adventum Gog erit consumatio seculi». Le tavole del Liber Figurarum non restituiscono invece un quadro omogeneo: nelle tavole VIII e IX Gioacchino attribuisce ad Antioco la settima persecuzione; nella terza tavola, diversamente, il settimo sigillo non contiene alcuna tribolazione, essendo propriamente il tempo del riposo sabbatico: «Sigilli septimi apertione continetur sabbatum, idest requies. Finis Veteris Testamenti», Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. III (il corsivo è nel testo). La persecuzione di Gog è successiva alle sette tribolazioni patite dal popolo cristiano. Nei primi testi di Gioacchino, ad ogni modo, la figura di Gog non trova spazio; la sua funzione, infatti, era svolta, in corrispondenza con il re Antioco e all’interno del settimo sigillo, dall’Anticristo. Cfr. Ioachim abbas Florensis, Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 94-95, p. 96: «Sub Anthioco facta tribulatio comparatur illi, que erit sub Antichristo». La stessa convinzione è espressa sia nel De prophetia ignota, ed. M. Kaup, II, ll. 9-11, p. 192: «Quia necesse est, ut Antichristus veniat, antequam appareat dies Domini magna, ideo necesse est, ut tyrannides Antichristum precedant», sia nella Praefatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 320-321, p. 115: «Secuta est sub eodem signaculo Antiochi seva tempestas; sequetur in ecclesia tribulatio Antichristi». Distaccandosi da queste prime testimonianze, nell’Enchiridion la figura dell’Anticristo scompare dalla scena, e la sua funzione è svolta, al pari del De septem sigillis, e in piena corrispondenza con Antioco, proprio da Gog: cfr., ad esempio, Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 1072-1074, p. 42: «Persecutio Antiochi quae septime est in numero, cum extrema tribulatione quam facturus est Gog circa mundi finem concordat». Nel Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, la figura di Gog assume un ruolo centrale, sebbene Gioacchino manifesti all’interno del testo un’incertezza circa la sua precisa collocazione: in un primo tempo, infatti, sembra che Gog incarni la settima tribolazione, mentre in un luogo successivo dell’opera la sua comparsa segue l’età sabbatica. A questo proposito, cfr. Ivi, ed. A. Patschovsky, III, c. 6, pp. 261-262 e

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I sette sigilli p. 274. Nel quinto libro della Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, V, foll. 128vb – 129rb, invece, la tribolazione di Antioco viene posta nuovamente in relazione all’Anticristo [«Antiochus hoc est antichristus»], recuperando un’intuizione giovanile che era stata in seguito abbandonata. È doveroso ricordare, tuttavia, che la Concordia non è dedicata specificatamente ad un’analisi dettagliata dell’Apocalisse: è possibile quindi che la complessità dell’analisi abbia ceduto il passo, almeno in questo specifico contesto, ad uno schematismo facilmente accessibile; non dobbiamo inoltre dimenticare che i libri che compongono l’opera, essendo stati scritti in periodi diversi della riflessione gioachimita, non presentano sempre un quadro teorico unitario. Non è allora un caso che il testo del Liber Introductorius, ed. F. Bindone e M. Pasini, foll. 9vb – 10ra, recuperi la figura di Gog, dimostrandone la centralità anche all’interno dello schema ternario: «Ut autem in fine primi status ultimus rex Antiochus nomine ceteris immanior fuit, ita in fine secundi, qui erit in proximo, septimus rex ille venturus est, de quo dicit Ioannes. Et unus nondum venit, et ipse deterior erit omnium qui fuerunt ante se […] Sane in fine tertii venturus et alius qui cognominatus est Gog. Et ipse erit ultimus tyrannus et ultimus Antichristus». Il Liber Figurarum, al contrario, non presenta una posizione univoca. L’ottava tavola, infatti, sebbene non discuta l’opportunità di un riposo sabbatico, attribuisce la settima persecutio a Gog e Magog, inscrivendo all’interno dello schema settenario quella che le opere mature considereranno l’ultima grande persecuzione. Anche nella decima tavola, il settimo sigillo non sarà il tempo del riposo; in questo caso, però, il soggetto della settima persecuzione non è più Gog, ma torna ad essere l’Anticristo: «Helias cum venerit ipse restituet omnia. Sub eiusdem apertione sigilli persecutio septima, quae gravis futura est Antichristi», Ioachim abbas Florensis, Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. X. L’idea che il popolo cristiano avrebbe vissuto un periodo sabbatico immediatamente precedente alla venuta dell’ultimo grande nemico della fede è una convinzione che, pur non essendo stata espressa con chiarezza prima del Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti e della Concordia, era già presente, seppur in nuce, nelle prime opere di Gioacchino. In effetti, a dispetto delle analisi riservate al periodo di pace veterotestamentario, l’abate sembra voler considerare, a partire da un breve passaggio della Genealogia, ed. G. L. Potestà, ll. 93-94, pp. 95-96, le due ultime tribolazioni del popolo cristiano come una sola persecuzione, dando vita ad un periodo sabbatico anteriore alla comparsa dell’Anticristo: «Septem tribulationes facte sunt, sicut supra dictum est, sed due ultime pro una accipiende sunt». Se nel De prophetia ignota non è presente tale ripartizione, il teologo descrive invece, nella Praefatio super Apocalypsim, ed. K.-V. Selge, I, ll. 322-323, p. 115, il settimo sigillo come il tempo in cui tutto è stato compiuto, liberando quindi il popolo cristiano dalla settima tribolazione, già realizzatasi al tempo del sesto sigillo: «Septimum signaculum finem legi imponit, septima apertio cuncta docet esse completa». Il riposo sabbatico concesso ai fedeli prima della comparsa dell’ultimo avversario della Chiesa si imporrà come una convinzione radicata nel pensiero gio-

Note al testo I sette sigilli

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achimita a partire dal Tractatus in expositionem vite et regule Beati Benedicti, ed. A. Patschovsky, III, c. 6, pp. 274-275, dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti, ed. S. de Luere, III, foll. 41vb – 42ra; ed. E. R. Daniel, ll. 1-18, p. 306 e dall’Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 194-196 e ll. 1501-1564, p. 15 e pp. 55-57. Cfr. inoltre l’analisi svolta dall’abate nell’Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, fol. 123rab, e la descrizione del riposo sabbatico presente nella quarta tavola del Liber Figurarum, ed. L. Tondelli – M. Reeves – B. Hirsch-Reich, Tav. IV: «Sigilli septimi apertione continetur sabbatum, idest requies, cum punito perditionis filio requiescet Dominus ab omnibus operibus suis».

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ANDREA TAGLIAPIETRA

REVOLVERE AETATES. GIOACCHINO TEOLOGO DELLA RIVOLUZIONE

Fig. 1

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I sigilli dell’Apocalisse

Nelle prime pagine, non numerate, dell’edizione cinquecentina veneziana dell’Expositio in Apocalypsim, appare un’incisione a bulino (fig. 1) che riproduce la tavola XIX del Liber Figurarum rappresentante la “spirale”1 del mysterium Ecclesiae, qui trasformata in un drago serpentiforme, le cui spire mostrano il ritmico snodarsi della sequenza delle aetates della storia. Il testo posto a didascalia, forse da un allievo dell’Abate da Fiore fra quelli che lavorarono alla collazione di figurae del Liber da cui, in seguito, gli editori veneziani attinsero, allude al Mysterium Ecclesiae quod annuatim revolvitur, ossia al «mistero della Chiesa in quanto si svolge secondo l’anno liturgico2». Nell’uso del verbo revolvere fa qui la sua comparsa, come si affrettava a notare Henry Mottu nella sua fondamentale monografia su Gioacchino, «la reminiscenza biblica del verbo revolvere3», che si colloca in un punto decisivo dello sviluppo dell’idea di rivoluzione, là dove cioè la revolutio cessa di indicare lo scorrere indifferente del tempo in dipendenza alla metaforica spaziale dello spostamento ciclico degli astri e delle costellazioni sulla volta celeste e mostra la concatenazione proiettiva fra il presente della vita della società umana, la griglia dell’inventario simbolico della Scrittura e l’apertura verso l’imminenza immanente del futuro propria del procedere differenziale delle scansioni significative della storia. È questo essenziale passaggio che fa di Gioacchino un autentico teologo della rivoluzione, ben prima di quel Thomas Müntzer per cui Ernst Bloch coniò questa icastica espressione e che nelle sue fiammeggianti prediche ai contadini tedeschi sulla potenza emancipatoria dello Spirito Santo si ispirò esplicitamente all’opera dell’abate calabrese4. A differenza degli altri due concetti-chiave della teologia medievale della storia che passano al lessico politico della modernità, 1 2 3

4

In proposito si rinvia a L. Tondelli, Il libro delle Figure dell’Abate Gioacchino da Fiore, SEI, Torino 1953, Vol. I, pp. 90-95. Ioachim abbas Florensis, Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527, Vcd [s.n.]. H. Mottu, La manifestation de l’Esprit selon Joachim de Fiore, Delachaux & Niestlé S. A., Neuchatel-Paris 1977; trad. it., La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, a c. di R. Usseglio, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 228. E. Bloch, Thomas Müntzer als Theologe der Revolution (1921), Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962; trad. it., Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, a c. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1981.

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ossia restauratio e reformatio, la dinamica evolutiva del significato del termine revolutio rimane ancora in gran parte da ricostruire5. Tuttavia, in essa possiamo individuare almeno tre “tappe” da cui risulta la centralità del ruolo svolto in questa prospettiva dal pensiero e dall’influenza degli scritti di Gioacchino da Fiore. Nel latino aureo di Ovidio e di Virgilio troviamo le espressioni temporali «revoluta saecula» (Fasti IV,29) e «dies revoluta» (Eneide X,256), tuttavia ciò avviene sempre in riferimento ad uno “svolgersi” del tempo astrale, là dove la metaforica è immediatamente ricondotta alla spazialità del cielo e al riposizionarsi astronomico dei corpi celesti. La storicità, qui come nella teoria ciclica delle “rivoluzioni” esposta nel quinto libro della Politica di Aristotele (Pol. V, 1, 1301a 19 – 12, 1316b 27) da cui trarrà ispirazione anche il Machiavelli (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, 17; II, 30; III, 1 e 31), è assente. In Gioacchino, invece, il significato del tardo latino revolutio, ossia «il ritorno periodico di un astro ad un punto della sua orbita e, per estensione, il cammino, il movimento compiuto da tale astro e, quindi, il tempo impiegato per percorrerlo6», ha già abbandonato il significato astronomico, che, per il resto, conserverà fino a Nicolò Copernico e al suo De revolutionibus orbium caelestium (1543) e oltre, quando costituirà, come scrive Hans Blumenberg, una «nuova formula dell’autointerpretazione dell’uomo nel mondo7», per descrivere lo svolgi5

6 7

A questo proposito, cfr. F. Delekat, Reformation, Revolution und Restauration, drei Grundbegriffe der Geschichte, “Zeitschrift für Theologie und Kirche”, 49 (1952), pp. 85-115; G. Ladner, Die mittelalterliche Reform-Idee und ihr Verhältnis zur Idee der Renaissance, “Mitteilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsschreibung”, 60 (1952), pp. 31-59; per gli aspetti linguistici del termine “rivoluzione”, cfr. F. Brunot, Un mot transfiguré: Révolution, in AA. VV., Histoire de la langue française des origines à 1900, Paris 1937, tomo IX, pp. 617-622; per gli aspetti concettuali del termine “rivoluzione”, cfr. G. Morel, Réflexions sur l’idée de révolution, “Études”, maggio 1968, pp. 681-700; giugno-luglio 1968, pp. 102-120. Su revolutio in Gioacchino, cfr. H. Mottu La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., pp. 226-231. H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 226. H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, “Archiv für Begriffsgeschichte”, 6 (1960), pp. 7-142; trad. it., Paradigmi per una metaforologia, a c. di M. V. Serra Hansberg, intr. di E. Melandri, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 137-138. La “rivoluzione copernicana” diventerà, in questo senso, il

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mento storico delle aetates e dei tempora. Revolvere diviene, allora, un altro nome per il moto, sinuoso e seducente, dell’apocalyptein, ovvero della manifestazione progressiva – re-velatio – del senso della storia. La prima “tappa” della storia del termine revolutio, come abbiamo appena accennato, è quella del significato astronomico, ossia del ritorno di un corpo celeste alla sua posizione di partenza nel firmamento, moto che i greci nominavano, nell’accezione più ampia, con la parola metabolé. In Aristotele, per esempio, metabolé significa il senso più generale del “mutamento”, a cui si sovrappone il complessivo “divenire” del cosmo, e che comprende il mutamento secondo la sostanza (generazione e corruzione), quello secondo la qualità (alterazione), quello secondo la quantità (aumento e diminuzione) e, infine, il movimento secondo il luogo (traslazione) (Phys. V, 224a 18 – 226b 18). Su questo primitivo significato fisico-astronomico della metabolé/revolutio gli autori cristiani ne innestarono un secondo, tratto dal modello metaforico del libro e direttamente collegato alla connessione fra i due testamenti e la storia della salvezza, dando così avvio alla seconda “tappa” della parabola storica del termine “rivoluzione”. Come scrive Gregorio di Nazianzo nella quinta delle sue Orationes theologicae, impiegando, in luogo di metabolé, l’analogo metàthesis, «nella storia dell’universo vi sono state due grandi rivoluzioni (metàthesis) che si chiamano i due Testamenti: l’una ha fatto passare gli uomini dall’idolatria alla fede; l’altra dalla Legge al Vangelo. Ed è predetto un terzo sisma (trìton seismòn): quello che da qui ci trasporterà lassù, nella regione in cui non c’è più movimento né agitazione» (Or. theol. V, 25, coll. 159 D – 162 A). Nel prefisso latino re-, che incontriamo in re-volutio, già si impoverisce il senso del prefisso greco meta-, che troviamo sia in metabolé che in metathésis, il quale contiene più marcatamente le nozioni di “movimento”, “passaggio” e “cambiamento” rispetto al re- latino, in cui, invece, prevale l’idea di un “ritorno a”. All’immagine astronomica, modellata sul moto regolare degli astri, doparadigma metaforico che, a partire dal “concetto” astronomico, posto da Copernico, funzionerà, in seguito, come figura di ogni decentramento dell’uomo. Le imprese intellettuali di Darwin e di Freud vanno inserite in questo contesto.

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veva quindi sovrapporsi una metafora più efficace, in grado di restituire dinamismo a quello che, altrimenti, poteva sembrare un semplice redire ad, ossia “tornare al luogo di partenza”, “tornare all’origine”. Questa metafora si trovò iscritta nella stessa materialità della Scrittura che è costituita, appunto, nei tempi della sua redazione finale, dalla forma di un volumen, ossia di un rotolo che si “avvolge” e si “svolge”, ossia dai due significati che, pure, il verbo revolvere comprende. Tuttavia, all’interno della Scrittura, questa associazione metaforica viene espressa anche in modo diretto, associando esplicitamente all’idea del revolvere l’incremento della tonalità “catastrofica” – la “scossa”, il “sisma” (seismòs) del brano del Nazianzeno –, ossia quella prospettiva ingenuamente apocalittica che Gregorio moltiplicava per le tre metathéseis della “storia della salvezza”: Vecchio Testamento, Nuovo Testamento, Patria Celeste. Si tratta, per inciso, dello schema classico, di ascendenza paolina, della prima teologia cristiana della storia, lex vetus, lex nova, patria, su cui si innesterà la possente sistemazione agostiniana del De civitate Dei. Nel testo di Gregorio i sussulti del triplice “sisma” che trasforma la “storia dell’universo” corrispondono alle scansioni esterne ed interne della fenomenologia del libro, nel sottile procedere che vede la Scrittura apparire al mondo (idolatria senza Scrittura/Vecchio Testamento), dispiegarsi in sé, in un rapporto interiore (Vecchio Testamento/Nuovo Testamento) e, infine, incorporare il mondo stesso (Nuovo Testamento/Patria Celeste). Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che questo movimento che riconfigura la temporalità cosmica in senso storico segue, pur sempre, la forma materiale del libro che, come si è appena detto, ha l’aspetto di un rotolo che, per essere letto, ha bisogno di svolgersi e di riavvolgersi. Di conseguenza, l’architesto di questa sintesi metaforica fra cosmo e Scrittura lo troviamo nel Libro di Isaia, in quella che talvolta è stata chiamata la “piccola apocalisse” di Isaia (Is. 34,1-35,10)8, 8

È detta la “piccola” apocalisse in rapporto all’altro più ampio brano apocalittico del Libro di Isaia, ossia la cosiddetta “Apocalisse di Isaia” (Is. 24, 1-27, 13). Entrambi questi scritti, inseriti nel testo di Isaia, sono riconducibili a quello che i biblisti chiamano Deutero-Isaia e appartengono, quindi, all’ultima tappa di composizione del libro, successiva al V secolo a. C.

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ove si legge che «i cieli si arrotolano come un libro (wenagolû kasepher ha-shamaîm)» (Is. 34,4). Del versetto di Isaia si ricorderà il Veggente di Patmos, che, perfezionando e affinando l’immagine veterotestamentaria, scriverà, nell’Apocalisse, che «il cielo si ritirò (apechorìsthe; recessit) come un libro che viene arrotolato (hos biblìon helissòmenon; sicut liber involutus), e i monti e le isole furono strappati dal loro luogo» (Ap. 6,14). Ciononostante, per chiarire i successivi sviluppi del termine “rivoluzione” e, soprattutto, per poterne rivendicare ancora la valenza inevasa, già presente nei testi gioachimiti, bisogna vincere la tendenza ad interpretare questa immagine sulla falsariga dell’apocalittica volgare, che già si intravvede nei ripetuti “sismi” di Gregorio, ossia privilegiando la linea del disastro. Per essa, infatti, nella scena cosmologica del “ritrarsi” (apochorìzein) del cielo prevale il senso isolante di una “separazione” (chorismòs) catastrofica su cui potrà innestarsi con comodo, in seguito, il cattivo platonismo di ogni metafisica. Certo, i segni della catastrofe sono ben presenti nella scena apocalittica – Isaia parla di astri che «cadono, come cade il pampino della vite, come le foglie avvizzite del fico» (Is. 34,4); Giovanni, appunto, di monti ed isole «strappati al loro luogo» (Ap. 6,14) –, ma questi fanno solo da contorno ad un’immagine che, al contrario, serve a dare il senso, ossia la direzione e il significato, dell’insieme del movimento storico a cui stiamo assistendo. Il nucleo della figura è, allora, il libro e il suo moto di “svolgersi” e di “riavvolgersi”. Questo “riavvolgersi”, tuttavia, non va affatto interpretato come un richiudersi, come un serrare le pagine dei nostri moderni tomi composti di rettangolari fogli di carta, fra loro cuciti ed opposti, la cui chiusura cioè, anche se delicata nel gesto, coincide inesorabilmente con la fine della lettura. La forma del codex, ossia del libro così come noi lo conosciamo, suggeriva infatti a Kant la famosa metafora che sanciva il fallimento della teodicea moderna. Il mondo, scriveva il filosofo tedesco, «in quanto opera di Dio (als ein Werk Gottes)», ossia in quanto natura (Natur), «spesso, da questo punto di vista, è per noi un libro chiuso (ein verschlossenes Buch)», sicché la finalità morale è «l’unica che si possa in certo qual modo sperare di scorgere nel mondo9». 9

I. Kant, Über das Misslingen aller philosophishen Versuche in der Theodicee, “Berlinische Monatsschrift”, (1791), XIII, pp. 194-225, ora in Kant’s Gesammel-

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Il libro (biblìon; librum), ci spiega invece il redattore dell’Apocalisse, a cui il moderno traduttore, per rendere intelligibile il testo, aggiunge “a forma di rotolo”, «è scritto sul lato interno e su quello esterno (ghegramménon ésothen kaì òpisthen; scriptum intus et foris), sigillato (katesphraghisménon; signatum) con sette sigilli» (Ap. 5,1). Si tratta del medesimo libro ingoiato dal profeta Ezechiele, che «era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai» (Ez. 2,9), quel libro, cioè, che anche il Giovanni/ Veggente di Patmos dell’Apocalisse sarà costretto a divorare (Ap. 10,9-11). Questo libro, sempre lo stesso libro emblema del senso, contenuto e riflesso nelle infinite metamorfosi dei libri che nel “Libro dei libri”, la Bibbia, lo rappresentano en abîme, non poteva mancare nei versetti di Isaia, in cui leggiamo l’aspro monito ai torpidi abitanti di Gerusalemme: «per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli: “Leggilo”, ma quegli risponde: “Non posso perché è sigillato”. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: “Leggilo”, ma quegli risponde: “Non so leggere”» (Is. 29,11-12). Il sigillo, termine attorno a cui ruota il breve testo di Gioacchino De septem sigillis, è allora il segno del negativo che l’esegeta della Scrittura deve affrontare per accedere al significato riposto del testo, quello che rivela il senso della storia. Il sigillo è, infatti, ostacolo alla lettura, che rende il lettore innanzi al libro sigillato simile a colui che non sa leggere, ma è anche scansione ritmica del processo stesso della lettura, dal momento che i sigilli, chiudendo i volumina di cui era composta un’opera, ne marcavano le partizioni, le suddivisioni interne. Così l’apertura di un sigillo era l’azione manuale che sintetizzava e insieme predisponeva all’incremento del significato e all’avanzamento nella comprensione della totalità del testo. La lettura moderna, basata sulla forma squadrata, composta da fogli rettangolari, del codice, ci ha offerto la portentosa immagine te Schriften [KGS], edizione dalla Königlich Preussischen [poi Deutschen] Akademie der Wissenschaften, Berlin-Leipzig 1900-ss. (voll. I-IX: Werke; voll. X-XIII: Briefwechsel; voll. XIV-XXIII: Handschriftlicher Nachlass; voll. XXIII-ss. Vorlesungen [a c. della Akademie der Wissenschaften zu Göttingen]), vol. VIII, pp. 253-271, pp. 264 e 260, nota *; trad. it., Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in Id., Scritti sul criticismo, a c. di G. De Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 129-148, pp. 141 e 137, nota *.

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del voltar pagina, impiegata, nella sua proiezione metaforica, per descrivere una netta soluzione di continuità del divenire storico10. Nel voltar pagina applicato all’interpretazione della storia si indica una cesura che interrompe la continuità fra il passato e il presente, di modo che il primo cessi il suo influsso diretto sul secondo, consegnandosi, se non alla dimenticanza e all’oblio, alla pura memoria antiquaria, insomma alla mera custodia museale dell’archivio storico. Voltar pagina diviene così un’espressione emblematica di una certa declinazione ideologica dell’epoca moderna, acuitasi nella cosiddetta fase postmoderna della contemporaneità, che vuole chiudere i conti con il passato, separandosene e isolando il presente. Al contrario, rompere i sigilli, per il procedere stesso della lettura antica significava aprire il presente in direzione del futuro, consentendo il gesto di un rotolo che si dispiega, per leggerne il lato interno, e che poi viene avvolto, non per chiuderlo, ma per leggerne il lato esterno. Disigillare il testo significava affermare la continuità della storia, ripristinare, nel flusso della lettura, la dinamica del tempo che incalza verso il futuro del compimento. Una breve riflessione sull’antica forma del libro restituisce all’immagine apocalittica del cielo riavvolto la reciprocità di un senso, di un revolvere che non è la fine, la cessazione rovinosa di un ordine di significati, né il ritorno al serrato silenzio dell’origine, ma l’avvio di un nuovo progredire, di un ricomprendere che avanza e che, dunque, sa andare oltre l’immane disastro della separazione. Solo a questo punto, allora, la metafora della rivoluzione è matura per spostarsi dalla catastrofe del cosmo alla rivelazione della storia, ossia alla sua autentica interpretazione. Come scrive Gioacchino nel brano dell’Expositio in Apocalypsim che commenta Ap. 5,1, «questo libro, si rileva, è scritto dentro e fuori (intus et foris), dal momento che anche lo stesso profeta [Ezechiele] ce lo mo10

Nella lingua tedesca la metafora del voltar pagina è resa con quella dello Schlußstrich, ovvero il frego posto alla fine del testo scritto che esemplifica il ricorrente desiderio della società tedesca del secondo dopoguerra di lasciarsi definitivamente alle spalle il passato nazionalsocialista. Questo desiderio di voltar pagina di cui già parlavano criticamente Adorno e Jaspers sembra aver subito un’accelerazione decisiva dopo la riunificazione tedesca (1990). Cfr. voce «Voltar pagina» (Schlußstrich), in N. Pethes – J. Ruchatz (a c. di), Gedächtnis und Erinnerung. Ein interdisziplinäres Lexikon, Rowolth, Reinbek 2001; trad. it., Dizionario della memoria e del ricordo, a c. di A. Borsari, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 614.

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stra come “ruota in mezzo ad un altra ruota” (rota in medio rotae) (Ez. 1,16), in quanto [...] dalla ruota esterna viene mostrato storicamente qualcosa agli inesperti, mentre dalla ruota interna ne viene detto il senso ai perfetti11». L’Abate da Fiore congiunge, in questo passo, l’immagine del volumen scritto “dentro e fuori” ad una delle figure che più spesso ricorrono nell’insieme di tutte le sue opere, ovvero alla cosiddetta Visione del Carro del Signore del profeta Ezechiele (Ez. 1, 4-28), la zanei merkavah della tradizione ebraica, che fornisce una delle figureguida della concordia e, in particolare, di quell’accezione della concordia litterae come correlazione dinamica verso un terzo elemento extrascritturistico che Gioacchino chiama concordia trium statuum12.

Fig. 2 11 12

Ioachim abbas Florensis, Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, II, fol. 109vb. Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 657-658, p. 29; trad. it., Sull’Apocalisse, a c. di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 20082, p. 179.

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L’immagine delle ruote del “carro di Ezechiele” è oggetto anche dell’enigmatica tavola XV del Liber Figurarum13, la quale viene riprodotta fedelmente, anche se in bianco e nero, all’inizio della cinquecentina veneziana dello Psalterium decem chordarum14 (fig. 2), recando come didascalia proprio i versetti del Libro di Ezechiele che recitano «le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota (et aspectus earum et opus earum quasi sit rota in medio rotae). Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare per muoversi (per quatuor partes earum euntes stabant et non revertebantur cum ambularent)» (Ez. 1,16-17). Ora, sia dalle didascalie di questa incisione, sia dalle glosse che si ricavano dalla decifrazione dell’originale miniato del Liber Figurarum, emerge chiaramente un’articolazione dinamica della Scrittura con la temporalità, articolazione che viene rappresentata dal vorticoso girare delle due ruote centrali concentriche, la più ampia ed esterna simboleggiante il Vecchio Testamento, la più piccola e interna, il Nuovo. Questo movimento è, proiettato in sezione assiale, il moto di svolgimento e di rivolgimento del volumen scritto “dentro e fuori”, moto che riproduce il procedere della lettura e, quindi, il progresso della comprensione, dal momento che, secondo l’antico precetto esegetico, formulato fra gli altri, nelle Homiliae in Hiezechihelem prophetam di Gregorio Magno, «la Scrittura cresce con chi la legge (divina eloquia cum legente crescunt)» (In Hiez. I, VII, 8-ss.). Ma la figura gioachimita del Liber Figurarum, ripetuta nella praefatio dell’edizione veneziana dello Psalterium, testimonia anche la collocazione e lo sviluppo della Scrittura in un orizzonte 13

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«Il cocchio», scrive Tondelli, «sembra avere quattro ruote (nel disegno di Gioacchino sono ridotte a due concentriche, e sembrano raffigurare, con un concetto non assente dalla visione profetica, un duplice arcobaleno): ma le ruote sono, nella descrizione d’Ezechiele, intersecate da altre ruote, ciò che viene pure riprodotto nella tavola miniata [...] Nelle ruote minori che intersecano le due grandi sono segnati i cinque sensi della Sacra Scrittura: intelligentia historica, intelligentia moralis, intelligentia tipica, intelligentia contemplativa sive anagogica. Essendo quattro le ruote, le due ultime intelligentiae sono abbinate», L. Tondelli, Il libro delle Figure dell’Abate Gioacchino da Fiore, cit., Vol. I, p. 77. Ioachim abbas Florensis, Psalterium decem chordarum, ed. F. Bindone e M. Pasini, Venetiis 1527, fol. 226cd.

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cosmico-universale, dal momento che, nell’immagine delle due ruote concentriche, completata da altre quattro ruote minori disposte ortogonalmente rispetto all’asse del disegno, sono indicati i quattro punti cardinali: meridies (sud) in corrispondenza della ruotina dell’intelligenza allegorica; occidens (ovest) in corrispondenza della ruotina dell’intelligenza storica; aquilo (nord) in corrispondenza della ruotina dell’intelligenza morale; oriens (est) in corrispondenza della ruotina dell’intelligenza tipica. Queste quattro ruote minori tangono le circonferenze delle due centrali, formando una sorta di struttura a quadrifoglio, ma vanno tuttavia immaginate, anch’esse, in movimento, come accade per quei funamboli che tengono in mobile equilibrio, a velocità diverse, numerosi piatti in cima a dei bastoncini. Ecco allora che il risultato finale dell’immagine gioachimita è quello di rappresentare il possente moto di autorivelazione della Scrittura nella sua coincidenza significativa con quel divenire del mondo che, per gli uomini del libro, si chiama storia. In Gioacchino si compie, così, una doppia trasformazione semantica dell’idea di rivoluzione: essa non solo si storicizza, come già avveniva nel testo di Gregorio di Nazianzo, applicandosi esteriormente alla storia della salvezza, ma, mediante il coerente sviluppo del modello del volumen, viene ricondotta nel cuore dell’orizzonte apocalittico, diventando forma figurale del progredire delle aetates. Il cambiamento, come scrive Mottu, «è, dunque, duplice: da un lato si storicizza quello che per i Greci era solo in funzione dell’astronomia o, tutt’al più, del diritto costituzionale; d’altro lato, si riferisce revolvere alle età del mondo, e questo per la prima volta, salvo errore, nella storia della teologia15». Gioacchino, quindi, non si limita a storicizzare, secondo gli schemi comuni della storia della salvezza, l’idea ellenica del ritorno degli astri al punto di partenza, come fecero, per esempio, Gregorio di Nazianzo nella Chiesa Orientale, o Agostino in quella Occidentale. Infatti, questa mera storicizzazione significherebbe incorporare, assieme a quel modello, anche la circolarità del divenire che esso implica. Ciò appare in modo evidente nel pensiero del principe della teologia cattolica, Tommaso d’Aquino, la 15

H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 228.

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cui famosa “formula della storia” è, per Max Seckler, «da Dio attraverso il mondo e, attraverso Cristo, verso Dio16», secondo, cioè, una perfetta applicazione delle categorie neoplatoniche greche dell’exitus e del reditus. In questa prospettiva, allora, la re-volutio andrebbe intesa, né più né meno, appunto, come un re-ditus, in cui il prefisso re- evoca sia il significato ricompositivo del ritorno, sia quello reiterativo della ripetizione. «In questa ontologia del cerchio», scrive ancora Seckler, «“ri-forma” e “ri-voluzione” non sono solo ritorno all’origine autentica, ma ritorno dell’origine nel senso di una presenza perpetua (o periodica) dell’autentico17». Al contrario, per Gioacchino la re-volutio non è riconducibile al cerchio, ma, semmai, come ben illustra la tavola XIX del Liber Figurarum di cui si diceva all’inizio, modificata, nelle incisioni veneziane dell’Expositio, nella forma di un drago-serpente18, alla sinuosa figura della spirale. Per l’Abate da Fiore la temporalità è «un lento svolgimento della storia che giunge, per tappe, all’enigmatico “Giorno della Pentecoste” (dies pentecostes), ultima “rivoluzione” delle età giunte alla loro pienezza. La fine, dunque, non coincide con l’inizio, poiché il serpente si svolge e non si avvolge e poiché il dies pentecostes è tutt’altro che la prima età del principium saeculi19». Di conseguenza, il tempo di Gioacchino non è, propriamente parlando, né ciclico, come quello di Tommaso, che potrebbe essere rappresentato semmai con la figura di un serpente che si mangia la coda – il famoso uroboro degli gnostici –, né lineare. Esso è, come nota Maria de Queiroz a proposito della concezione della temporalità nei movimenti messianici, «un tempo ibrido (temps hybride) tra il tempo ciclico e il tempo lineare20». Questa ibridazione, dal punto di vista sociologico sottolinea la funzione di “ponte” della 16

17 18 19 20

M. Seckler, Das Heil in der Geschichte. Geschichtstheologisches Denken bei Thomas von Aquin, Kösel Verlag, München 1964; trad. fr., Le salut et l’histoire: la pensée de saint Thomas d’Aquin sur la théologie de l’histoire, Cerf, Paris 1976, pp. 22 e ss. Ivi, p. 159. Ioachim abbas Florensis, Expositio in Apocalypsim, ed. F. Bindone e M. Pasini, Vcd [s.n.]. H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 230. M. I. P. de Queiroz, Réforme et révolution dans les sociétés traditionnelles. Histoire et ethnologie des mouvements messianiques, Éditions Anthropos, Paris 1968, p. 388.

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temporalità messianica fra le società che vivono ancora all’interno di una temporalità qualitativa, mitico-sacrale e cosmologica (tempo ciclico), e le società profane della modernità, in cui il tempo è essenzialmente quantità e durata (tempo lineare). Infatti, la temporalizzazione millenarista di Gioacchino “rompe i cerchi” del tempo cosmico, secondo la celebre immagine agostiniana, ma conserva la pretesa qualitativa di “orientare” il senso del tempo – metaforicamente quest’orientamento è rappresentato dalle spire del serpente che simboleggiano le concordiae dei significati –, sicché, nonostante la fuga direzionale in avanti del vettore del tempo, ci è data, parimenti, la possibilità ermeneutica di comprendere la storia e di abbracciarne la sua totalità eveniente. Il senso del tempo, in Gioacchino, non è né schiacciato sulla puntuale reiterazione del passato, come nella ciclicità del tempo cosmico, né abbandonato alla perdita continua dell’imperfetto futuro. È, piuttosto, il senso di un presente prossimo, di un “presente estatico-mistico” o vuoi anche, di un “futuro perfetto” in cui, come osservava Henry Mottu, il tempo viene completamente ricapitolato: «ci sarà un tempo dello Spirito, che annuncerà la ricapitolazione di tutte le cose; ma è nella presenza di questa fine che si immerge il visionario; è oggi che la “fine” è prossima: l’ora è venuta21». Va dunque ascritto a Gioacchino il merito non solo di aver collocato nella storia la nozione cosmica di “rivoluzione”, ma di avergli restituito quella tonalità apocalittica che, come abbiamo visto, era già presente nell’antica tradizione ebraica del cosiddetto Deutero-Isaia22. Questa tonalità apocalittica storicizza ad oltranza il senso della rivoluzione, annunciando strutturalmente l’accezione politica moderna del termine, la terza “tappa” della storia 21 22

H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., pp. 230-231. Si tratta, cioè, del secondo redattore del Libro di Isaia. I biblisti distinguono un “Isaia” (corrispondente ai materiali più antichi contenuti nel libro, risalenti ad epoca preesilica, dal momento che la figura storica di Isaia rinvia al periodo 765-700 a. C.), un “Deutero-Isaia” (che si suppone abbia predicato in Babilonia intorno al 550-538 a. C. e che viene identificato con il “servo di Jahweh” di cui parla il testo) e un “Trito-Isaia” (nettamente postesilico, ovvero la cui opera è databile a dopo la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, verso il 520 a. C. – alcuni interpreti, anzi, la ritengono già prossima all’influenza ellenica).

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del suo significato. Essa si affaccia agli albori della modernità, sul finire del Rinascimento, come idea di un cambiamento, brusco e radicale, dell’ordine sociale, morale, ma soprattutto politico e statuale. In Inghilterra, nel XVII secolo, il termine Revolution viene applicato, indifferentemente, al “colpo di stato” di Oliver Cromwell e della successiva Repubblica (Commonwealth) inglese (1642-1660), alla restaurazione assolutistica di Carlo II e di Giacomo II della dinastia Stuart (1660-1688) e, infine, alla “Gloriosa Rivoluzione” del 1689, che diede il via al parlamentarismo e alla monarchia costituzionale degli Orange. Tuttavia, come è stato giustamente fatto osservare, in tutti questi casi il termine “rivoluzione” conservava il duplice significato di cambiamento istituzionale, ma anche di ritorno ciclico alle antiche libertà inglesi (Magna Charta, etc.). È, quindi, solo con la riflessione politica degli Illuministi e con il solido esempio storico della Rivoluzione Francese che il vocabolo “rivoluzione” acquista il significato specifico che oggi possiede. Valga per tutti il celebre inizio del Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, in cui viene teorizzato il diritto naturale alla rivoluzione: «finché un popolo è costretto ad obbedire ed obbedisce, fa bene; non appena può scuotere il giogo e lo scuote, fa ancor meglio: perché ricuperando la sua libertà con lo stesso diritto con cui gli è stata tolta, o è giusto che egli la riprenda, o non era nemmeno giusto che altri gliela togliesse23» (Le Contrat social, l. I, cap. I). «Voi avete fiducia nell’ordine attuale della società», scriverà sempre Rousseau questa volta invece nell’Emilio, «senza pensare che quest’ordine è soggetto a rivoluzioni inevitabili [...] Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito [...] Ci avviciniamo a una situazione di crisi e al secolo delle rivoluzioni (siècle des révolutions)24» (Émile, l. III). Il tratto che, di conseguenza, sembra connotare funzionalmente il nuovo significato politico del termine “rivoluzione” è il forte moto di autofondazione e di autolegittimazione che ravvisiamo in esso, legittimazione che, quindi, non è più connessa con il ri23 24

J.-J. Rousseau, Le Contrat social (1762); trad. it., Il contratto sociale, a c. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1976, p. 9. J.-J. Rousseau. Emile (1762); trad. it., Emilio o dell’educazione, a. c. di P. Massimi, Mondadori, Milano 1997, p. 252.

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pristino di una “posizione” – il luogo di partenza dell’astro nello spazio cosmico o la condizione divina dell’origine nella storia della salvezza –, ma con l’esercizio stesso del “movimento”. Infatti, la legittimità della “rivoluzione”, nello schema astronomico greco, ma anche nella tipologia storica della teologia cristiana, poggia, in ogni caso, sulla positiva immobilità di una sostanza, sia essa il “luogo naturale” dell’astro o l’origine personale e paterna del Dio Creatore. È questa sostanza che conferisce positività al mutamento della “rivoluzione”, inteso generalmente come un mero “ripristino” e che, dunque, non ha in sé, ossia in quanto processo, alcuna positività, ma la possiede solo per altro, ossia in virtù della sostanza. L’innesto dell’apocalittica nella storia del termine “rivoluzione” conduce, invece, proprio a questa drastica riconfigurazione funzionale: la positività non è più una sostanza esterna, ma risiede nella natura stessa del processo. È il processo che produce positività, che articola i significati e che, quindi, è latore di senso. Applicata all’esempio storico della Rivoluzione Francese questa riconfigurazione funzionale trova corrispondenza nella stessa “meccanica rivoluzionaria”, ovvero nel continuo slittamento e rilancio della rivoluzione oltre se stessa che gli studi di François Furet25 hanno indicato come il dispositivo centrale sia della sua produzione di legittimità (la famosa forces des choses a cui faceva appello Saint-Just26), sia delle successive interpretazioni dell’evento rivoluzionario come fenomeno storico. Si potrebbe dire che 25

26

Cfr., per esempio, F. Furet, Penser la Révolution française, Gallimard, Paris 1978; trad. it., Critica della Rivoluzione francese, a c. S. B. Cattarini, Laterza, Roma-Bari 1980. L’espressione “meccanica rivoluzionaria” fa riferimento all’opera dello storico conservatore francese Augustin Cochin, che ha ispirato molte tesi di Furet e la cui opera fondamentale, La Révolution et la libre pensée, Plon-Nourrit, Paris 1924, è stata tradotta in italiano con il titolo di Meccanica della Rivoluzione, Rusconi, Milano 1971. Cit. in R. Bodei Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 404-405. Cfr. Louis de Saint-Just, Rapport au Comité de salut public et de sûreté générale sur les personnes incarcerées, présenté à la Convention nationale dans la séance du 8 ventose an II (26 febbraio 1794), in Œuvres Complètes, a c. di M. Duval, Paris 1984, p. 705; trad. it., Louis de Saint-Just, Terrore e libertà, a c. di A. Soboul, Roma 1966, p. 149. Va riportato, in proposito, anche quanto dichiarava J.-P. Marat su “L’Ami du Peuple” nel novembre del 1789: «la rivoluzione si realizzerà infallibilmente, senza che alcuna potenza umana possa opporvisi».

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la “rivoluzione”, come la Scrittura – e i “tiepidi” dell’avventura culturale ebraico-cristiana hanno sempre rinnegato gli aspetti autenticamente rivoluzionari della Scrittura –, prosegue in chi la interpreta. Anche la famosa sentenza, tratta dalla Dantons Tod (1835) di Büchner, per cui «la Rivoluzione, come Saturno, divora i suoi figli», quando non la si assuma come la denuncia morale delle crudeltà rivoluzionarie, esprime simbolicamente il radicamento e, quindi, il fondamento di legittimità del fenomeno rivoluzionario nella stessa natura dinamica del tempo storico, misurato nell’urgenza e nell’imminenza dei processi di trasformazione e di emancipazione dei soggetti. Lo sviluppo del concetto moderno di “rivoluzione” è, dunque, strettamente connesso con la visione del mondo dell’apocalittica, che stabilisce nell’immanenza del tempo il criterio-base dell’incremento di significato. Per l’apocalittica la fine non coincide con l’inizio e la pienezza del senso non si dà se non mediante il processo. Così, in Gioacchino il senso della storia non è un ritorno al Padre o a un’edenica “età dell’oro”, ma uno svolgersi del divino nel tempo, attraverso il pieno dispiegarsi delle proprietà delle altre due persone del mysterium Trinitatis, il Figlio e lo Spirito Santo, dispiegarsi che approda alla figura del Millennio, ossia, traducendo il mysterium Trinitatis nei termini del mysterium Ecclesiae, all’éschaton di una Pentecoste generalizzata. Questo dispiegarsi non avviene su un piano diverso dal tempo, ma è il tempo stesso nel suo intimo significato storico. Qui ritroviamo la simmetria significativa, anzi, la connessione necessaria, fra Scrittura e storicità che è ciò che consente di poter parlare di qualcosa come il senso della storia. Esiste, cioè, un problema del “senso” della storia perché la cultura ebraico-cristiana, prima, e l’intera cultura occidentale, poi, hanno pensato alla storia come ad un libro da interpretare e, simmetricamente, hanno inteso il loro “libro” – la Bibbia – come uno specchio testuale che non riproduce iconicamente la sequenza degli accadimenti, secondo il modello dell’archivio, ma che fornisce, piuttosto, l’enciclopedia simbolica da cui attingere i materiali per la decifrazione e per la catalogazione dell’intera trama degli eventi umani. Di conseguenza, esiste un problema del “senso” della storia perché la catena dei fatti e quella delle parole non si esauriscono in un rispecchiamento reciproco, ma abbisognano

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di un “terzo”, ossia della figura della “fine”, in cui, come leggiamo in un brano dell’Enchiridion super Apocalypsim, «le parole e i fatti concordano nello stesso significato (verba et opera in eadem sententia consonaret)27». Questa figura della “fine”, insieme figura della fine del libro e figura della fine della storia, è l’immagine della totalità del senso, il fulcro dell’interpretazione che non costituisce il traguardo di un “rinvio” assente. La “fine”, infatti, avanza con noi, nella presenza: l’asse ermeneutico dell’apocalisse è sempre presso la sua totalità, perché la convergenza della catena dei fatti e di quella delle parole dà, in ogni punto della sua sequenza, l’evento della compiutezza. È per questo che essa, pur “precedendo”, determina il “processo”. Conseguire il punto di vista della fine, ossia porsi nel “luogo” trans-soggettivo dell’ermeneutica apocalittica, non è, allora, proiettare la totalità del senso sullo schermo divino della trascendenza, vale a dire sul “fine” immobile di una verità extratestuale, ma, piuttosto, accettare che le coordinate di questo “luogo” dipendano dalla “triangolazione” fra la nostra posizione nella catena dei fatti e il nostro progresso nella lettura e nella comprensione della Scrittura. Qui è, infatti, il riverbero dello svolgimento della catena delle parole sul rivolgimento della catena dei fatti. Il Vangelo di Luca ce lo presenta in un passo decisivo e giustamente famoso, che non è riportato, se non vagamente, degli altri Sinottici, i quali accentuano quasi esclusivamente lo sdegno dei concittadini di Gesù e il detto, da allora proverbiale, «nessun profeta è ben accetto in patria» (Mt. 13, 57; Mc. 6, 4; cfr. anche Gv. 4, 44 per il quarto Vangelo). Vi si narra che Gesù, all’inizio della sua predicazione «si recò a Nàzaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella Sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo (biblìon; liber) del profeta Isaia; apertolo (anoìxas tò biblìon; ut revolvit librum) trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” 27

Ioachim abbas Florensis, Enchiridion super Apocalypsim, ed. E. K. Burger, ll. 1123-1124, p. 43; trad. it. p. 213.

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(Is. 61,1-2). Poi arrotolò il volume (ptyxas tò biblìon; cum plicuisset librum), lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti, nella Sinagoga, stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura (sémeron peplérotai hè graphè haùte; hodie impleta est haec scriptura) che voi avete udita con i vostri orecchi”. Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”» (Lc. 4, 16-22). Il brano di Luca ci mostra, nella sua semplicità, la perfetta articolazione fra l’apertura e la chiusura del libro (anoìxas tò biblìon/ ptyxas tò biblìon), l’evento del Cristo, e il compimento di un brano della Scrittura (peplérotai hè graphè haùte), ovvero il passo di Isaia (Is. 61,1-2) letto da Gesù. La Scrittura si “compie” – ma sarebbe meglio tradurre “diviene perfetto”, “raggiunge la sua pienezza”, esplicitando quel “pieno”, pléres, che è racchiuso nel verbo greco pleròo – quando l’accadere degli eventi e la successione delle parole che procedono dallo srotolarsi del libro convergono su una medesima figura. Qui, ogni figura dev’essere intesa come “figura della fine”, cioè come “segno apocalittico” che è un segno perfetto, ossia senza rinvio. Secondo la dottrina tipologica ortodossa – quella, per intenderci, di Agostino e di Tommaso d’Aquino –, tutte le figure dell’Antico e del Nuovo Testamento devono trovare la loro realizzazione in Cristo (Agostino, De civ. Dei XVIII,52,1; Tommaso, In IV Sent. d. 43, q. l, a.3, quaestiuncola 4, sol. II, ad 3). Cristo è, quindi, il solo “segno apocalittico” e l’unica “figura della fine”. Egli, nel momento in cui svolge il “rotolo” della Bibbia, esponendo l’intima temporalità del testo all’esteriorità della concordia con gli eventi della storia, fissa l’apertura apocalittica del “senso” sulla precisa focale ermeneutica di un unico significato. Di conseguenza, l’esegesi tipologica ortodossa si trasforma in una teologia della storia chiusa, ripiegata su se stessa – ptyxas è l’aoristo del verbo greco ptyssein, in cui risuona la ptyx, ossia la “piega” del foglio di pergamena o di una tavoletta per scrivere –, così come “ripiegato” e “arrotolato” è il volumen di Isaia dopo che Gesù l’ha letto nella Sinagoga di Nàzaret. Ma la tipologia può avere anche un esito inverso, ossia quello splendidamente testimoniato dall’opera esegetica e dalla

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conseguente teologia della storia di Gioacchino da Fiore. Per Gioacchino ogni figura dev’essere intesa come figura della fine, cioè come “segno apocalittico”, come segno senza rinvio, perché la relazione figurale non riguarda affatto un unico significato, non si riempie e si completa con un solo contenuto, ma questa struttura è la forma stessa dell’evento: la storicità è relazione con quel “tutto” del divenire che nella scrittura teologica dell’abate calabrese – ma Hegel non farà diversamente – prende il nome di Spirito. Ecco allora che commentando, nelle pagine del secondo libro del Tractatus super quattuor Evangelia, il passo del Vangelo di Luca che racconta l’episodio della lettura di Gesù nella Sinagoga di Nàzaret, Gioacchino rimarcherà non la chiusura del libro, come intende l’esegesi ortodossa, per cui la “rivelazione” è sempre un riproporre l’inautentica consistenza del velo, ma il suo svolgersi (ut revolvit librum) apocalittico, strettamente connesso con la metafora librario-cosmologica di Ap. 6,14, ossia inteso come inaugurazione di un tempo nuovo, di un tempo autenticamente messianico, perché posto sotto l’insegna della figura aperta dello Spirito. «Ora Gesù», leggiamo nel Tractatus, «venne a Nàzaret, dov’era stato allevato e svolse il libro (revolvit librum) del profeta Isaia, che gli fu presentato, [e ciò accadde] per significare che gli uomini spirituali (viri spiritales), usciti dalla Chiesa latina, si applicarono nell’investigare i simboli che erano rimasti occulti nei libri profetici (studuerunt investigare misteria quae fuerant occulta in voluminibus prophetarum) per essere in grado di ricavarne la verità (ut possent ex eis exprimere veritatem) e di annunciare quanto il Signore, secondo gli stessi, avrebbe fatto sulla terra (annunciare quae per eos facturus erat Dominus super terram)28». Per Gioacchino qui Gesù non indica sostanzialmente nella sua persona il compimento del libro, ma mostra la forma del compimento, ossia la figura della fine, necessaria al salto qualitativo dell’interpretazione dalle sei aetates della fatica sui simboli che rimangono misteriosi, alla settima, in cui quei simboli manifestano la loro 28

Ioachim abbas Florensis, Tractatus super quatuor Evangelia, ed. E. Buonaiuti, Tipografia del Senato, Roma 1930, II, ll. 7-27, p. 217b; ed. F. Santi, Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Fonti per la storia d’Italia, Roma 2002, II, 10, ll. 12-18, p. 227.

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verità. Il significato del passo di Luca è, quindi, il compimento delle età della fatica e del lavoro: cum iam prope est ut completis sex aetatibus laboriosis29. Gesù chiude il libro e lo consegna all’inserviente (plicatum ilico resignavit ministro)30 significa che le sei età della fatica e del lavoro hanno “fatto il loro tempo”, ovvero si sono compiute (complere31, compleri32) e, dando i loro frutti, hanno germinato il tempo nuovo che Cristo annuncia. Il tempo nuovo che Cristo annuncia è il tempo della quiete, è l’éschaton che riposa in ogni figura della Scrittura e della storia. Qui la semplicità dell’esegesi gioachimita si fissa sul dettaglio, apparentemente insignificante perché affidato alla ritualità dei gesti, delle “stazioni” di Gesù che il testo di Luca racconta. Gesù “si alzò in piedi” (anéste; surrexit) (Lc. 4,16) per leggere il libro, Gesù “sedette” (ekàthisen; sedit) (Lc. 4,20), dopo aver letto, spiegando il compimento della scrittura. «Quindi», scrive Gioacchino, «accade che il Signore soltanto alzandosi ha aperto il libro (nonnisi surgens aperuit librum), mentre sedendosi ha spiegato ciò che aveva letto (sedens autem quae legerat explanavit), poiché coloro che si levano dall’apatia del corpo (exsurgunt a corporis ignavia) e ricercano con sollecitudine la verità (investigant sollicite veritatem), quanto più intensamente faticano per scoprire la verità (quo amplius laborant in adinvenienda veritate), tanto, trovato ciò che cercano (invento quod querunt), si riposano dalla fatica (a labore quiescunt)33». Il gesto di Gesù diviene, dunque, il paradigma della dialettica fatica/riposo che accompagna il gioco di ogni interpretazione, che non si appaga nell’immobilità del mero risultato, conseguito una volta per tutte, ma si estende nell’attività escatologica dei viri spirituales, ossia di coloro che, ripetendo e moltiplicando in se stessi la figura del Cristo, corrispondono alla forma dell’éschaton. Questa è la conseguenza del revolvere del libro, questa è l’au29 30 31 32 33

Ivi, ed. E. Buonaiuti, II, ll. 1-3, p. 208b; ed. F. Santi, II, 10, ll. 12-13, p. 221. Ivi, ed. E. Buonaiuti, II, ll. 28-29, p. 217b; ed. F. Santi, II, 10, ll. 18-19, p. 227. Ivi, ed. E. Buonaiuti, I, l. 15, p. 56; II, ll. 1-2, p. 208b; ed. F. Santi, I, 5, l. 18, p. 62; II, 10, ll. 13, p. 221. Ivi, ed. E. Buonaiuti, III, l. 25, p. 307; ed. F. Santi, III, 17, l. 7, p. 317. Ivi, ed. E. Buonaiuti, II, ll. 17-20, p. 218; ed. F. Santi, II, 11, ll. 1-4, p. 228.

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tentica revolutio. Perciò, in Gioacchino, l’asse della storia non è il passato dell’avvenuta incarnazione, ma il presente in cui inizia il futuro dello Spirito, l’autentica dimensione dell’esser-già del non-ancora propria del più genuino pensiero apocalittico34.

34

Mi permetto di rinviare in proposito a A. Tagliapietra, Tempo ed escatologia. Il simbolo apocalittico, in L. Ruggiu (a c. di), Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini & Associati, Milano 1997, pp. 73-86 e Id., Ritornare a Patmos, “Riga”, 8 (1995), pp. 377-394.