222 11 17MB
Italian Pages 244 Year 1994
Carlo Vallaur 1
i I PARITTI ITALIANI ne
GASPERI A BERLUSCONI
GANGEMI
EDITORE
a Ricciarda e Camillo
“Tutti sono buoni a capire i fatti dopo che sono accaduti: è uomo di Stato colui che sa antivedere le conseguenze degli atti di governo propri e altrui” Giuseppe Zanardelli
Proprietà letteraria riservata Gangemi Editore Via Cavour 255 Roma Nessuna parte di questa
pubblicazione memorizzata,
può essere fotocopiata lo)
comunque riprodotta, senza le dovute autorizzazioni
ISBN
88-7448-570-0
In copertina: Ambrogio Lorenzetti, ALLEGORIA DEL BUON GOVERNO,
Siena Palazzo Pubblico
CARLO VALLAURI
I PARTITI ITALIANI da De Gasperi 4 Berlusconi
GANGEMI
EDITORE
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Indice
Quadro di riferimento Premessa
II liberali. (BIORSI repubblicani III.
Democrazia cristiana e popolari
IV. I socialisti V. I socialdemocratici VI.
VII.
Icomunisti
. Al di là del guado (PDS) All’estrema sinistra . anarchici FCPSIUP
. extraparlamentari, . democrazia proletaria
VIII. IX.
. PPUP . Rifondazione Comunista Movimento sociale, destra e alleanza nazionale I radicali
X. Movimenti e partiti degli anni ‘40
XI.
. partito d'azione . cristiano sociali . democrazia del lavoro . cattolici comunisti . Uomo qualunque Movimenti autonomisti . P Sardo d’Azione . Union Valdotaîne . Sud Tiroler Volkspartei . Comunità
161 1779 187
159
XII. XIII. XIV. XV.
Le leghe I verdi Movimenti per la pace Movimenti e formazioni degli anni ‘90 . La Rete . Alleanza Democratica . Forza Italia . Comitati e gruppi vari
205
XVI.
Altri movimenti organizzati . movimento federalista europeo . movimento federativo democratico . Comunione e Liberazione - movimento popolare
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PREMESSA
Abbiamo preferito seguire il criterio della presentazione separata di ogni movimento politico allo scopo di meglio seguirne le vicende interne e la successione dei mutamenti in connessione con gli eventi sociali, parlamentari, economici ed internazionali, soffer-
mando l’attenzione sui maggiori problemi politici nazionali in rapporto al ruolo svolto dalle singole formazioni. Abbiamo utilizzato nostre ricerche eseguite negli anni ‘70 ed ‘80 ed abbiamo aggiornato il testo sino all’apertura del nuovo Parlamento nel ‘94. L'intero studio si riconnette alle precedenti opere sull’organizzazione interna dei par-
titi e a quella più recente sulle “cause della svolta”, espressamente richiamate. La bibliografia completa sarà pubblicata a parte. Su temi e momenti delicati, non del tutto chia-
riti attraverso la documentazione sinora disponibile, abbiamo riportato le differenti teSI
Ringraziamo per il contributo di ricerche, specie attorno ai gruppi da poco costituiti, Fiammetta Fanizza nonché Mauro Boschi, Maria Palazzesi, Annalisa Zanuttini. L'autore
QUADRO DI RIFERIMENTO
L’autore del presente libro, dopo aver pubblicato Lineamenti di storia dei partiti italiani, Bulzoni, 1971, dedicato ai movimenti politici italiani dall’età napoleonica a fine Ottocento, ha diretto le ricerche C.N.R. sull’attività e l’organizzazione interna dei partiti dal 1943 agli anni ottanta ed i cui risultati sono stati pubblicati nei tre volumi La ricostituzione dei partiti democratici (1943-1948), Bulzoni, Roma, 1978, nei due volumi L'arcipelago democratico (1949-1958), Bulzoni, Roma, 1981 sulla struttura dei partiti nell’età del centrismo, e nei tre volumi / partiti italiani tra declino e riforma, Bulzoni, Roma, 1986 sull’organizzazione interna, il finanziamento, la base sociale, la natura giuridica ed i movimenti femminili e giovanili dagli anni sessanta agli anni ottanta. Veniva così delineata, attraverso una vasta documentazione, l'evoluzione della democrazia italiana, il suo consolidamento e quindi la sua crisi, a partire dalla fine degli anni sessanta con
la formazione di oligarchie partitiche ed i connessi fenomeni sociali e di costume che sono all’origine delle successive degenerazioni. Nelle dispense Le cause della svolta (Università per Stranieri, Siena, 1994) sono sta-
te raccolte lezione di un corso universitario che costituiscono parte integrante dello studio complessivo su tutta la fenomenologia dei partiti della Repubblica, considerata negli aspetti culturali, politici, organizzativi e di vita sociale.
A parte sarà pubblicata la ricerca conclusiva sulla nascita e lo sviluppo del sistema politico italiano nonché sul consolidamento della democrazia, grazie alla crescita della società e
al contributo dialettico delle forze di governo e di opposizione in 50 anni di lotte sociali e tra i partiti, sino al diffondersi di metodi perversi nella gestione ed amministrazione del potere da cui sono derivati - per effetto congiunto di cause internazionali, azione di gruppi di pressione, confusione tra pubblico e privato nell'economia - la destrutturazione del sistema e profondi mutamenti: ne sono segno rivelatore le indagini giudiziarie note sotto il nome di Tangentopoli. Sono infine previsti aggiornamenti del presente volume
Capitolo I I LIBERALI
Alla ricostituzione dei gruppi politici in Italia procedono, tra l’estate del ‘42 ed i primi mesi del ‘43, numerosi nuclei di diversa ispirazione. I liberali - privi di una tradizione partitica in sehso stretto - durante il regime fascista avevano mantenuto i contatti, tra
pochi esponenti della cultura e delle professioni e su di essi agiva da freno alla formazione di un partito vero e proprio l'opinione del massimo rappresentante della cultura liberale, Benedetto Croce, secondo il quale - e tale sua opinione la espliciterà proprio in
quel periodo - l’idea della libertà è il presupposto e la condizione di ogni partito: pertanto il liberalismo, più che un partito, dovrebbe essere un “prepartito”. Inoltre il carattere strettamente elitario degli ambienti ai quali i fautori della ricostruzione di un movimento liberale si rivolgono rende arduo impegnarsi in fatti organizzativi, tanto più che numerosi giovani di formazione liberale e crociana si sono orientati verso movimenti liberalsocialisti, che porteranno alla nascita del partito d'azione, ritenuto più deciso nella lotta contro il fascismo e nel porre l'esigenza di una profonda revisione ideologica e politica. La gravità delle condizioni del paese induce tuttavia a stendere una prima rete di collegamenti continuativi e sarà infine lo stesso Croce a prendere in considerazione la costituzione di un partito, tanto che - trovati i consensi per l’iniziativa - egli stesso contri-
buirà alla compilazione di un programma. Il documento riafferma l’idea etica della libertà ed indica nell’impresa privata la garanzia di sviluppo per la società. E tuttavia da sottolineare come in tale programma si riconosca che lo Stato ha il compito di promuovere la giustizia sociale, aggiungendo che occorre assicurare una distribuzione del reddi-
to in maniera da soddisfare tutti gli strati e le classi della popolazione, e si richiami la necessità di impegnarsi contro ogni forma di privilegio, di monopolio, di parassitismo economico. Affiora in tale testo la concezione di Croce, secondo il quale il liberalismo non è stret-
tamente collegato con un sistema economico (affermerà espressamente al convegno napoletano del 1944 che “l’idea genuina della libertà serba la sua indipendenza verso qualsiasi forma istituzionale o qualsiasi particolare ordinamento economico”), al contrario di quanto sostiene invece - riprendendo la linea di Cavour - Luigi Einaudi. L'economista infatti collega strettamente libertà politica e libertà economica, afferma la necessità di tornare ad una economia di mercato con una politica finanziaria rigorosa e l'abolizione delle sovrastrutture corporativiste e dirigiste nonché una riforma dello Stato con lo snellimento delle strutture amministrative, sino all’abolizione dell’istituto prefettizio. Un “movimento liberale italiano” pubblica, nel maggio 1943, un opuscolo clande-
stino diffuso nel mondo della cultura e delle professioni, promuove incontri ai quali partecipano tra gli altri A. Casati, M. Solari, G. Arpesani, T. Gallarati Scotti, e farà uscire dopo il 25 luglio - altri opuscoli, frutto della collaborazione di studiosi ed avvocati (L. Einaudi, C. Antoni, N. Carandini, G. Carli, L. Cattani, G. Rizzo, U. Zanotti Bianco), 9
nei quali verrà precisata la posizione dei liberali sui vari punti (sono programmi che non
escludono la nazionalizzazione di settori economici). Intanto i “gruppi di ricostruzione liberale” firmano con gli altri partiti antifascisti i documenti dei partiti democratici nel periodo badogliano, ed il “movimento liberale” chiede l'uscita dalla guerra e lo schiera-
mento dell’Italia a fianco delle nazioni occidentali. I due gruppi assieme ad un “movi-
mento democratico italiano”, danno vita al “partito liberale italiano”, che partecipa all'atto costitutivo del Comitato di Liberazione Nazionale, a Roma, il 9 settembre 1943 (sen. A. Casati, avv. N. Carandini, avv. Leone Cattani) con Democrazia del Lavoro - rappresentata da I. Bonomi e M. Ruini -, Democrazia Cristiana, Partito d’azione, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano.
2. In Italia meridionale si ricostituiscono - dopo il passaggio del fronte e anche a causa della difficoltà di comunicazioni - diversi gruppi liberali, tra i quali uno dei più con-
siderevoli è quello che assume la denominazione di “partito della Democrazia liberale” di cui principale esponente è l'on. Raffaele De Caro. Il “partito liberale italiano” è presente attivamente con gli altri partiti antifascisti al Congresso di Bari (gennaio 1944), nel quale si chiede l’abdicazione del re, la convocazione di una Costituente non appena cessate le ostilità e la formazione di un governo provvisorio con pieni poteri. I suoi dirigenti
concordano nell’aprile sulla partecipazione dei partiti del CNL al governo Badoglio di Salerno (nel quale sarà rappresentato da Croce ed Arangio Ruiz), si adoperano in ordine alla questione monarchica (su cui è internamente diviso) per una soluzione interlo-
cutoria affidando la luogotenenza al principe ereditario e dopo l’arrivo degli alleati a Roma, entrano nel governo Bonomi, il primo di diretta emanazione dei CLN. Nell'agosto 1944 “PL.I.” e “Democrazia liberale” si fondano, e il quotidiano “Risorgimento liberale”, grazie alla collaborazione di eminenti giornalisti, si afferma come uno degli organi della stampa più vivi a Roma sino al ‘48, e consente un confronto di idee e di generazioni. Presente anche nel secondo governo Bonomi, il PLI tende a caratterizzarsi per una linea che tiene ad affermare la continuità dello Stato: in questo senso sviluppa una criti-
ca nei confronti della assunzione di poteri da parte dei CLN in Alta Italia quale governo provvisorio e, in seguito, contro la retroattività delle norme concernenti l’epurazio-
ne. Intanto la presenza, con incarichi di particolare responsabilità nei dicasteri economici (prima Marcello Soleri, poi Federico Ricci) e alla Banca d’Italia (Einaudi governatore) pone i liberali in polemica con i partiti di sinistra nella politica monetaria e tributaria. Dal punto di vista interno il partito che nel giugno ‘44 aveva scelto a Napoli come segretario Giovanni Cassandro, successivamente affida tale incarico a Manlio Brosio; entrato questi nel secondo governo Bonomi, la segretaria passa a Leone Cattani. La conte-
stazione del ruolo del CLN viene svolta dai liberali nel corso della crisi che dopo la liberazione dell’Italia settentrionale porta (giugno 1945) al governo Parri (ministri liberali
Brosio, Soleri, Arangio Ruiz) e poi durante tutta la durata di questo ministero, la cui fine sarà segnata proprio dal ritiro del sostegno del P.L.I., giudicato da De Gasperi - che agisce d’intesa con Cattani - come un elemento che determina la rottura della solidarietà del gabinetto.
Lo stesso De Gasperi farà della partecipazione liberale una condizione fondamentale per la costituzione del suo primo ministero, nel quale infatti entreranno D.C., PC.I., P.S.I., Partito d’azione e P.L.I. con Corbino al Tesoro (protagonista e simbolo di una se10
vera politica economica, oggetto quindi di violenti attacchi dei comunisti che pur facendo parte dello stesso governo aizzano contro l'economista manifestazioni di piazza per la sua opposizione al cambio della moneta), Brosio e Cattani.
Il Comitato nazionale del P.L.I. si riunisce a Roma nel settembre ‘45 e poi nel gennaio ‘46: la questione istituzionale assorbe gran parte della discussione; non ne esce una
piattaforma comune e prevale il criterio di lasciare gli iscritti liberi di scegliere come meglio credono nel referendum istituzionale, sostenuto comunque dal partito come stru-
mento idoneo a risolvere il delicato problema. Questa soluzione prevarrà nel governo malgrado l’avviso contrario di autorevoli esponenti politici propensi a rimettere la decisione alla Costituente. Un gruppo di liberali repubblicani, guidato da Antonio Calvi, esce dal partito e confluisce nella Concentrazione democratica repubblicana promossa da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa dopo la loro uscita dal Partito d’azione.
3. Il primo congresso post-bellico del P.L.I. tiene a ricollegarsi alla numerazione dei congressi del partito prima dell’avvento del regime fascista e si definisce quindi III congresso (Roma, 29 aprile - 3 maggio 1946). I temi principali sono il problema istituzio-
nale e le questioni economiche. Sul primo punto prevale un o.d.g. (E. Sogno) che, pur lasciando piena libertà di propaganda e di voto a tutti gli iscritti si esprime a favore della monarchia, contro la tesi repubblicana portata avanti da Brosio. Sul secondo punto la posizione “classica” dell'economia di mercato sostenuta da Corbino si scontra con una linea di cui si fa portatore Carandini, disposto ad accettare criteri che non escludono la nazionalizzazione delle grandi imprese esercenti servizi pubblici essenziali. Dal canto suo Einaudi si pronuncia contro i monopoli pubblici e privati, indicandoli come responsabili delle più gravi distorsioni nella vita economica e della elevatezza dei prezzi che danneggiano i consumatori. Mentre Croce assume la presidenza del partito, con Carandini e De Caro vice presidenti, il giurista Cassandro ne diviene
di nuovo segretario generale.
Nelle elezioni del 2 giugno il P.L.I. si presenta con la Democrazia del lavoro (Bonomi) e l'Unione per la ricostruzione (Nitti), nell'Unione Democratica Nazionale (tra i
candidati V.E. Orlando) che, con un milione e mezzo di voti, riporta il 6,8% dei suffragi. Nella polemica immediatamente successiva al referendum, gli organi dirigenti del
PL.I. sostengono che il computo della maggioranza dovrebbe farsi sul numero totale dei votanti e non su quello dei voti validi, come ritenuto invece dalla maggioranza delle forze politiche e dalla stessa Corte di Cassazione cui spetta la definitiva pronuncia sull’esito del referendum. L’accoglimento di tali tesi non avrebbe modificato comunque l'esito del voto ma la sua proposizione, ad opera dei monarchici, tende a mettere in dubbio le procedure adottate. Brosio che già aveva criticato l'atteggiamento filo-monarchico della maggioranza del partito, non condividendo quest'ultima presa di posizione, si considera di-
missionario. I liberali non partecipano al primo governo della Repubblica (secondo ministero De
Gasperi), che continua tuttavia ad avvalersi per pochi mesi della presenza - quale tecnico - di Corbino. In questa fase il P.L.I. svolge una vivace azione polemica nei confronti del governo (sostenendo che le libertà non sono sufficientemente tutelate) e della maggioranza (peri contraddittori atteggiamenti di Togliatti e De Gasperi, ma soprattutto del primo, nelle trattative per la pace).
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Nell’autunno 1946 viene decisa la fusione con il Partito Democratico Italiano, l’u-
nico partito dichiaratamente monarchico (v. M.S.I. - Destra nazionale) e che aveva quali principali esponenti Enzo Selvaggi e Roberto Lucifero. Molto controversa invece la pro-
posta di fusione con l'Uomo Qualunque, il movimento improvvisato da Guglielmo Giannini, sulla scia del successo del vivace settimanale che dai primi mesi del ‘45 aveva iniziato una violenta polemica contro i partiti del C.L.N., ponendo sullo stesso piano fa-
scismo e antifascismo e propugnando uno “stato amministrativo”: un largo successo ottiene il nuovo partito che raccoglie nelle elezioni 212.000 voti (5,3%) pur non presentando nomi noti, ma anzi proprio grazie alla sua condanna del “professionismo politico”. Verso di esso confluiscono molti voti di ex fascisti, specie nel Sud, come di cittadini danneggiati dal nuovo ordine di cose. La costituzione nel dicembre 1946 del Movimento Sociale Italiano (v.) farà rifluire su questo più ideologizzato partito, che si presenta come l’erede del fascismo, larghi settori di ex fascisti, determinando così per lU.Q. la per-
dita della base di massa. La indiscriminata critica ai partiti e la polemica contro gli esponenti che avevano combattuto il fascismo costituiscono due elementi che la maggioranza dei liberali non ritiene di condividere: ciò spiega il rifiuto della fusione, caldeggiata invece da Selvaggi che si ritirerà dal partito.
Quando nel maggio 1947 De Gasperi costituisce il suo quarto ministero (il primo senza socialisti e comunisti) i liberali non vi entrano, consentendo però a due tecnici di assumere posizioni di rilievo, con Einaudi, vice presidente e ministro del Bilancio, de-
stinato a svolgere un ruolo fondamentale nel definire ed attuare le linee della politica centrista, attraverso l’assestamento finanziario, e Grassi alla Giustizia in una delicata fase di trapasso istituzionale e legislativo.
4. Ai lavori della Costituente i liberali partecipano con impegno sia sui temi costituzionali, facendosi portatori delle esigenze garantiste, sul piano istituzionale (G. B. Riz-
zo) e finanziario (Einaudi), e laiciste (Croce si pronuncia contro l’art. 7) sia nei dibattiti politici (sulla ratifica del trattato di pace: Croce contrario, Einaudi favorevole). Il IV congresso (Roma, 30 novembre - 3 dicembre 1947) segna il ritiro dalla vita po-
litica attiva di Croce (acclamato presidente onorario a vita mentre la presidenza effettiva è affidata a De Caro). Significativo il riconoscimento della legittimità dell’esito del referendum istituzionale, nell'intervento di Einaudi, che spiega come la procedura adot-
tata con il controllo e la verifica ad opera della magistratura a tutti i livelli, al di là delle comunicazioni del Ministero dell’Interno, abbia garantito la certezza della piena regolarità del responso popolare. Sul piano interno si registra l'affermazione di stretta misura della destra (le posizioni di centro e di sinistra sono sostenute rispettivamente da Cocco Ortu e Carandini): la nuova direzione elegge segretario del partito Lucifero.
Il nuovo indirizzo della maggioranza provoca l’uscita dal partito della sinistra - ricca di personalità e di giovani attivi e promettenti -, mentre la partecipazione dei liberali al governo diviene ufficiale nel quinto ministero De Gasperi, costituito nel dicembre ‘47,
comprendente anche repubblicani e socialdemocratici. Il paese si avvia ad uno scontro frontale. La politica economica di Einaudi - con una scelta antinflazionistica basata sulla restrizione del credito, aspramente criticata dalle sinistre, a causa del peso che fa cadere sui
lavoratori - favorisce la stabilizzazione della lira: il freno, dopo tanti anni, dell’inflazione 12
crea le premesse fondamentali per la vittoria moderata del 18 aprile 1948, nella quale si rispecchia il consenso dei ceti medi, preoccupati di cadere dalla dittatura fascista a quella - considerata ben più pericolosa e spietata - del comunismo. Il PL.I. tuttavia presentandosi con la lista del Blocco Nazionale, insieme all’Unione di Nitti e all'Uomo Qualunque, va incontro ad un grave scacco (complessivamente un milione di voti pari al 3,83% dell’elettorato) quale conseguenza della radicalizzazione del-
la campagna elettorale che ha indotto gran parte dell'elettorato anticomunista a votare per la D.C., il partito più forte. L'esito negativo induce Lucifero ad abbandonare la segretaria, affidata temporaneamente a Leone di Tavagnasco.
Il IV congresso (Roma, 9-11 luglio 1949) chiama alla segreteria Villabruna e indica nella collaborazione condizionante e vigilante con la D.C. la linea del partito. Ben presto sul progetto di riforma agraria, predisposto da Segni, si determinerà però la frattura con la D.C. e il ritiro del governo (gennaio 1950). 5. La sinistra liberale aveva dato vita (1949) al settimanale “Il mondo”, diretto da Mario Pannunzio, caratterizzato da un forte impegno laicista. Palestra di alta cultura storica e economica (oltre a Croce e Salvemini vi scrivono E. Rossi, A. Garosci, N. Chiaro-
monte) la rivista diviene un punto di riferimento duramente polemico contro gli atteggiamenti della D.C. nel campo della cultura, dell'economia, del costume, dello spetta-
colo. Dalla campagna contro la censura nel cinema e nel teatro agli aspetti fondamentali della vita politica e civile (in particolare Francesco Flora critica i modi non “liberali” di difendere le libertà in particolare le misure restrittive adottate in materia di passaporti) alla denuncia del protezionismo interno a favore dei grandi complessi monopolistici
ed oligopolitici portata avanti con documentazione e vigoroso impegno da Ernesto Rossi, la rivista diverrà il maggior punto di riferimento per le critiche alla D.C. ma contemporaneamente tiene a mantenere le distanze nei confronti del comunismo soprattutto sul piano internazionale (con una linea nettamente “atlantica”). La segreteria Villabruna si adopera per ricomporre i dissensi con i secessionisti: un
comitato nazionale promuove (con Arangio Ruiz, Aldo Bozzi proveniente dalla Democrazia del Lavoro, l’ Ammiraglio De Courten) il convegno di unificazione (Torino 7-8 di-
cembre 1951) cui partecipano con il gruppo de “Il Mondo” (Carandini, Cattani, nonché Panfilo Gentile, Mario Poggi ed il giovane Eugenio Scalfari). La piattaforma del partito unificato è sostanzialmente di adesione ad una politica cen-
trista (il partito si astiene dalla fiducia al VII Ministero De Gasperi nell'agosto 1951, ma non rifiuta l’appoggio alla politica estera e al primo avvio dei legami europeistici) nella riconferma del rispetto dell’imprenditoria privata in economia e dell’auspicio di una democrazia economica, del rifiuto di ogni ingerenza confessionale specie nel settore scolastico. E una linea moderata coerente e rigorosa che trova eco nel paese.
Per tutto il 1952 notevole è l’impegno nel settore organizzativo (in aprile si ricostituisce la Gioventù liberale italiana), per dare al partito una struttura più stabile mentre sul piano politico il partito rifiuta di entrare a far parte di una “grande destra” vista con favore da D'Andrea, V. Zincone, Perrone Capano e osteggiata dal centro (Villabruna, Cocco Ortu, Cassandro, Martino, Cortese) e dalla sinistra; infine viene predisposto una
nuova piattaforma programmatica. Il tipo di ricostruzione economica in corso, basata su una espansione produttiva e del mercato e su una graduale progressione dei salari, secondo 115)
i canoni di una metodologia non preoccupata delle conseguenze sociali della lentezza di tale processo, trova convinti sostenitori nei liberali.
6. Il VI Congresso (Firenze, 23-26 gennaio 1953) esamina una relazione economica di Giovanni Malagodi, che si era posto in luce quale esperto economico nella delegazione italiana presso l’OECE, ed al termine del dibattito approva una mozione nella qua-
le si pongono al centro i temi dell'aumento della produzione nei settori industriali e agricolo mediante riduzione dei costi e rottura della maggiori strozzature che frenano l’e-
sportazione, si conferma l’iniziativa privata come punto primario per lo sviluppo economico, si chiedono una legislazione anti trust e un fermo al sistema impositivo nei con-
fronti della produzione e del commercio. La mozione politica riconferma la linea centrista (nel novembre ‘52 i liberali sono rientrati nel governo), nella salvaguardia delle posizioni tradizionali del partito in materia di politica economica e nel rifiuto dell’istitu-
zione delle regioni. Il Consiglio nazionale, nel quale primo tra gli eletti risulta Malagodi, riconferma alla segreteria Villabruna. Già nel corso del congresso era emerso il favore con cui il PL.I. guarda ad una legge per le elezioni della Camera con un “premio” di seggi a favore del gruppo di partiti apparentati che dovessero ottenere la maggioranza; nel corso del vivace dibattito che si ha in Parlamento e nel paese il partito sostiene la nuova legge maggioritaria, osteggiata dai partiti di sinistra e di destra nonché da frange di dissidenti all’interno dei partiti cen-
tristi (tra l’altro E. Corbino dà vita ad una Alleanza Democratica Nazionale per sottrarre ai fautori delle riforme, come in effetti riuscirà a fare, anche pochi voti pur di non far
“scattare” il premio). I risultati elettorali danno al P.L.I., con ottocentomila voti, appena il 3% dei voti, e
complessivamente ai quattro partiti di centro il 48%, quindi senza raggiungere la maggioranza dei voti richiesta dalla nuova legge, ma la maggioranza dei seggi. Nello sbandamento seguito alla sconfitta del 7 giugno, i liberali non ritengono di dare il loro voto all’ottavo (ed ultimo) ministero De Gasperi, che (per la prima volta la decisione è rimessa al parlamento) non ottiene la fiducia.
Consenzienti insieme ad altre forze politiche, all'esperimento monocolore di Pella nell’agosto 1953, i liberali negano la fiducia nel gennaio 1954 al tentativo Fanfani, preparando così, insieme a repubblicani e socialdemocratici, la strada alla riesumazione di
un ministero centrista (D.C. - PL.I. - PS.D.I. con l'appoggio repubblicano), la cui guida viene dalla D.C. affidata a Scelba. 7. La presenza di Martino prima all'Istruzione, e - dopo il ritiro dal governo di Pic-
cioni - agli Esteri caratterizza questo ministero nel riconoscimento di un significativo ruo-
lo dei liberali in settori fondamentali. Così a Messina nel giugno 1955 si svolge la conferenza per il rilancio del progetto diretto a dar vita ad istituzioni che possano legare i paesi democratici dell’Europa occidentale in una comunità economica fondata su principî della libera concorrenza.
Sul piano interno - entrato Villabruna nel governo quale ministro dell'Industria - il Consiglio nazionale nell’aprile ‘54, sceglie quale nuovo segretario (con pochi voti di mag-
gioranza rispetto a Cocco Ortu) Malagodi che riuscirà a dare al partito compattezza di indirizzo, rilancio delle motivazioni dell'economia liberale e consistenza organizzativa. La direzione riconferma la linea di centro del partito opponendosi ad alleanze elet-
torali con la estrema destra monarchica e missina, il cui peso nel paese è andato aumentando. Il richiamo della nuova segreteria alla norma statutaria, che vieta pubbliche ma-
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nifestazioni di corrente, offre alla sinistra l'occasione per iniziare una accesa polemica contro gli orientamenti e la gestione Malagodi, che condurrà nel VII Congresso (Roma, 13 dicembre ‘55) ad una nuova scissione ad opera di Carandini, Cattani, Villabruna, Com-
pagna, Scalfari, i quali daranno vita al partito radicale. Nel PLI si forma una direzione più omogenea (anche se nel Consiglio nazionale notevole è il peso della destra), una volta scomparsi i secessionisti e collocati al governo gli esponenti centristi (Cortese all’Industria).
La collaborazione governativa prosegue dopo il luglio 1955 con il ministero Segni, anch'esso fondata sulla maggioranza centrista, ma sarà messa a dura prova dalla preparazione della nuova disciplina dei patti agrari: la segreteria del P.L.I. resterà isolata su questo tema rispetto agli altri partiti della coalizione, la sua linea intransigente non è condi-
visa neppure dai liberali componenti del governo. Sul piano politico Malagodi respinge nettamente la “grande destra” ma non ritiene neppure utile la formazione di una alternativa democratico-laica alla D.C. 8. Una più adeguata riorganizzazione consente al P.L.I. di ottenere un rafforzamento nelle elezioni amministrative del maggio 1956, politicamente significative per l’insieme di eventi interni ed internazionali che caratterizzano quel periodo. L’affiorare, all’interno del P.S.D.I. e della D.C. - nel cui ambito con la segreteria Fanfani tende a prevalere una visione favorevole a rafforzare l'intervento pubblico in economia - di tendenze che guardano con favore l’evoluzione del P.S.I. verso una linea di rifiuto del patto d’unità d'azione con i comunisti e che ritengono quindi profilarsi la possibilità di un incontro di collaborazione con i socialisti, spinge il P.L.I. a guardare con sospetto ogni atto ed ogni iniziativa che possa avvicinare il tempo della “politica delle cose” patrocinata da Nenni e che possa spostare gli equilibri sociali ed economici. Il dissenso nella maggioranza sui patti agrari provoca la dimissioni del governo Segni, già indebolito dal ritiro del sostegno repubblicano. Nei confronti del monocolore Zoli il P.L.I. assume un atteggiamento di opposizione, non volendo avallare la strategia della D.C. diretta a mantenersi al potere
attraverso l’utilizzazione, di volta in volta, di maggioranze di ricambio. L’appoggio determinante del M.S.I. induce Zoli a dimettersi: i tentativi avviati per ricostituire una coalizione di centro falliscono per il rifiuto del PL.I. di trattare sulla questione agraria e sull'attuazione delle Regioni a statuto ordinario, prevista dalla Costituzione, ma costantemente rinviata. Grazie al riconfermato appoggio del MSI il ministero resta in carica ma più aspre diverranno le polemiche tra D.C. e P.L.I. sino alla successiva campagna per le elezioni politiche, incentrata soprattutto sui temi economici; i liberali accusano la D.C. di abbandonare la difesa dell’iniziativa privata, che diviene - in connessione con lo schieramento delle organizzazioni degli imprenditori industriali, agricoli e commerciali nella Confintesa a fianco del P.L.I. - il punto centrale del dibattito contro l'estensione del settore pubblico dell'economia favorita dal gruppo dirigente d.c. Malagodi ha vivaci polemiche con Fanfani, Moro e Zoli.
Nelle elezioni per la Camera (25 maggio 1958) il P.L.I. ottiene oltre un milione di voti (3.5 del totale, 17 deputati): un successo numerico rispetto al ‘53 ma non sufficiente a prospettare una alternativa valida per la D.C. tanto più che il rafforzamento del PSDI induce Fanfani a puntare ad un bipartito con i soli socialdemocratici, cercando così di
avviare un centro-sinistra “realizzatore” che non debba necessariamente chiedere voti ai socialisti e subirne quindi le condizioni. 15
In un'atmosfera caratterizzata dalla critica di Cocco Ortu e di La Cavera alla segre-
teria Malagodi, accusata di condurre il partito in una strada senza sbocco, si svolge l'VIII
Congresso (Roma, 29 novembre - 1 dicembre 1958), che denuncia l'abbandono della politica di centro. Ma la riconferma della linea e della segreteria Malagodi, consente a questi di operare con sicurezza all’interno del partito e sul piano esterno quando la ribellio-
ne dorotea provoca il ritiro di Fanfani dal governo e dal partito, con la successiva formazione del monocolore Segni: il nuovo presidente considera determinante ai fini della maggioranza l'appoggio del P.L.I. mentre non conteggia in questa i voti che il M.S.I. non lesina. i
Lo sforzo di Malagodi, diretto ad impedire l’apertura a sinistra grazie agli appoggi che trova in settori d.c., incontra nuovi ostacoli nelle iniziative del Presidente della Re-
pubblica Gronchi, in politica estera e interna, mentre la D.C. al congresso di Firenze manifesta la volontà di preparare, a determinate condizioni e con gradualità, la svolta verso i socialisti. Il Consiglio nazionale del P.L.I. (febbraio 1960) decide a larga maggioranza di ritirare l'appoggio al governo, accusato di preparare silenziosamente una apertura verso sinistra, al di là delle intenzioni dello stesso Segni, e tale ritiro (che formerà oggetto, in seguito, di aspre polemiche tra i partiti di destra) vuol rappresentare un invito alle forze centriste della D.C. per riprendere l'iniziativa. Ma, contrariamente alle attese di Malagodi, la crisi susseguente (dopo che Segni ha rinunciato ad un accordo con PRI e PSDI) porta alla formazione di un monocolore Tambroni - fortemente voluto e sostenuto da Gronchi - al quale il PLI rifiuta ogni appoggio, non ritenendolo giustificato da alcun sta-
to di necessità. Di fronte al grave perturbamento dell’ordine pubblico causato prima dalla convocazione del congresso del M.S.I. a Genova e poi dai metodi messi in atto dalla forza pubblica a danno dei cittadini che protestano contro il M.S.I. ed il governo, sono organi di stampa vicini ai settori industriali e al P.L.I. a proporre una soluzione di emergenza che presto trova nella formula delle “convergenze parallele”, escogitata da Moro ed
attuata da Fanfani, la via d'uscita ad una situazione difficilissima. L’appoggio del B.L.I. assieme al P.R.I. e al P.S.D.I. - al monocolore democristiano non impedisce che continui la polemica tra Malagodi ed il gruppo dirigente della D.C. che in numerosi Comuni dà l’avvio alle esperimentazioni di centro-sinistra con il P.S.I.
9. Le decisioni al Congresso d.c. di Napoli (gennaio 1962) aprono la strada al primo centro-sinistra (governo Fanfani con partecipazione di P.R.I. e P.S.D.I. ed appoggio esterno del P.S.I.), verso il quale il PL.I. dichiara subito di opporsi in maniera netta. Inizia così quella lunga battaglia d'opposizione contro la presenza del P.S.I. nella maggioranza e contro la scelta di centro-sinistra della D.C.. Tale linea non è condivisa dal gruppo di “Democrazia liberale” (La Cavera, Orsello, Perrone Capano) che esce dal partito. AI IX congresso (Roma, 5-8 aprile 1962) Malagodi ribadisce le ragioni dell’atteggiamento liberale nettamente contrario ad ogni accordo con partiti fautori del collettivismo; nel contempo rifiuta la prospettiva della “grande destra” patrocinata da un gruppo (V. Zincone e U. D'Andrea) che nelle elezioni per il Consiglio nazionale si rivelerà di scarsa consistenza. In Parlamento i liberali ricorreranno all’ostruzionismo contro la costituzione della Regione Friuli-Venezia e contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Nel maggio ‘62 i liberali votano con la D.C. per la elezione di Segni alla Presidenza della Repubblica. 16
La vivace campagna condotta dai parlamentari liberali consente al partito di cogliere un significativo rafforzamento nelle elezioni del’8 aprile 1963: 2.142.000 voti (7%) e
39 deputati. Il successo elettorale non riapre tutavia la possibilità di un’alternativa comprendente i liberali, essendo risultati in maggioranza i partiti di centro-sinistra, i quali, anche se
subito non possono formare un ministero organico e sono costretti a ricorrere al governo “balneare” dell’on. Leone (i liberali si astengono), in autunno daranno vita al governo Moro (D.C. - P.R.I. - PS.D.I. - P.S.I.), verso il quale il P.L.I. svolge una politica di
opposizione specie sui temi di politica economica. Contro la nuova disciplina dei patti agrari la polemica è ancora una volta particolarmente aspra, a riconferma della collocazione del partito in difesa degli interessi dei proprietari agrari che si ritengono minacciati da variazioni contrattuali a favore dei contadini senza che nel contempo vengano adottate misure di salvaguardia della produzione agricola esposta ad una sempre più agguerrita concorrenza. I liberali continuano a raccogliere larghi consensi tra i ceti medi che vedono con preoccupazione le scelte della D.C., accusata di non resistere alle richieste e pressioni dei
socialisti, e quindi di abbandono delle posizioni tradizionali di equilibrio per favorire una spinta a sinistra che crea un clima di progressiva attenuazione dei valori di libertà economica e politica e di subordinazione agli slogan del collettivismo e delle pratiche dell’assistenzialismo. La linea Malagodi ha larga eco nel paese ed è accolta con favore in settori moderati, anche se per il momento l'opzione della D.C. sembra irreversibile. Nelle elezioni amministrative del novembre ‘64 il PL.I. ottiene, con il 7,9% dei voti, uno dei più cospicui successi. Un'ulteriore offerta del PDIUM per la fusione viene respinta, contribuendo con ciò a conservare al partito una caratteristica di centrodestra.
Nelle elezioni per il Presidente della Repubblica nel dicembre 1964 i parlamentari liberali appoggiano l’on. Martino e osteggiano la candidatura Saragat, in quanto viene portata avanti con l'appoggio del P.C.I. Il progresso elettorale del P.L.I. subirà però una battuta d’arresto nelle elezioni amministrative della primavera 65 mentre prosegue incalzante la critica alla politica economica e alle scelte di centro sinistra, proseguita da Moro anche con il suo terzo governo (febbraio 1966). Il X congresso (Roma, 4-8 febbraio 1966) denuncia la tesi dell’ irreversibilità” del
centro-sinistra sostenuta da Moro, come contraria alla pratica dell’alternativa, fondamento di una corretta democrazia. Acquista intanto spazio una minoranza (‘responsabilità liberale”) facente capo a Biondi e a Salvatore Valitutti, che si è andata delineando negli ul-
timi anni, arricchita anche dall’apporto della sinistra giovanile “Energie nuove”. AI metodo della programmazione fatto proprio del governo, il P.L.I. risponde con un “disegno centrale liberale per lo sviluppo economico e sociale equilibrato”, al progetto di riforma urbanistica, predisposto dal Ministro Sullo (e che il governo disconoscerà) si oppone una proposta liberale. Prevale quindi il criterio di una opposizione da far valere sul piano legislativo (ed è particolarmente accanita contro la legge elettorale regionale) mentre si rifiuta ancora una volta una alternativa di destra con M.S.I e PD.LU.M.. Nel luglio 1967 il Consiglio nazionale approva l’o.d.g. favorevole all'introduzione del divorzio nell’ordinamento italiano. Nel quadro del rinnovamento organizzativo del partito una conferenza nazionale dei quadri dirigenti appronta il programma con il quale il PL.I. si presenta alle elezioni del maggio 1968, che segnano una lieve flessione (1.850.249 voti pari al 5,8%), determinata da una capacità di recupero verso i settori mo17
derati da parte della D.C. per la rinuncia a portare avanti alcuni punti del programma ritenuto da tali settori troppo avanzato. La nuova esperienza “estiva” di Leone non trova questa volta il favore dei liberali, i
quali non intendono avallare ponti per il centro-sinistra, che sarà ricostituito con il primo governo Rumor. L’on. Malagodi redige, per incarico della Internazionale Liberale, la dichiarazione di
Oxford (1967) che nel riconfermare i principi della Carta del 1947 relativi alla difesa della libertà e alla indissolubilità tra libertà economica e libertà politica sottolinea la necessità di salvaguardare i diritti dell'individuo e delle minoranzaeprende posizione contro i monopoli (in Italia verrà presentato dai liberali un progetto sull'argomento) e a favore della tutela della autonomia del settore privato nell'economia. AIPPXI congresso del partito (Roma, 7-9 gennaio 1969) Malagodi e Bozzi (vice segretario generale) denunciano il pericolo di una cosiddetta “repubblica conciliare” - e tale motivo ta su una istituende da Bonea viscerale”.
sarà ripreso su “Il Corriere della sera” dal direttore Giovanni Spadolini - basacollaborazione della D.C. con il P.C.I. da esperimentare eventualmente nelle regioni. Emerge una nuova opposizione interna (“Presenza liberale”) guidata che sollecita l'uscita del P.L.I. dall’isolamento provocato dall’’anticomunismo
L'opposizione liberale viene ribadita nei confronti del secondo ministero Rumor (monocolore), formato in conseguenza della scissione socialista.
10. I liberali votano alla Camera a favore del progetto Fortuna-Baslini per l’introduzione del divorzio, ed in entrambi i rami del Parlamento a favore della legge sullo sta-
tuto dei lavoratori mentre si oppongono alla legge sulla finanza regionale, predisposta sulla base dei lavori di una commissione di esperti presso il Ministero del Bilancio. Nelle prime elezioni regionali (7 giugno ‘70) il PL.I. ottiene il 4,8% dei voti mentre il successo delle sinistre in tre regioni centrali conferma - ad avviso dei liberali - imotivi della loro ostilità ai nuovi enti quali apportatori di nuove spese. Rinnovata l’opposizione al governo Colombo (agosto ‘70) i liberali confermano in Senato il sostegno alla legge sul divorzio e votano invece contro il disegno per la riforma universitaria - frutto di un ennesimo compromesso e attorno al quale si svolge una serie di serrati dibattiti senza pervenire ad alcuna soluzione soddisfacente. Il XII congresso (Roma, gennaio ‘71) dedica attenzione ai problemi organizzativi in-
terni: Malagodi respinge le richieste della minoranza per applicare la proporzionale nell'elezione degli organi direttivi ma accetta di riservare una percentuale alle minoranze, le quali però si ritireranno dalla direzione, accusando la segreteria di essersi ulteriormente
spostata a destra. In Parlamento i liberali si schierano contro la riforma tributaria (che introduce l'imposta unica sul reddito e la anagrafe tributaria) e contro la legge De Marzio-Cipolla sui fondi rustici ritenuta dannosa per la proprietà agricola, contribuiscono alla elezione di Leone a Presidente della Repubblica con una maggioranza di centro destra e guardano con simpatia agli orientamenti emergenti all’interno della DC che porteranno nel febbraio ‘72 alla crisi del centro sinistra e alla formazione del monocolore An-
dreotti privo della fiducia: si giunge così per la prima volta allo scioglimento anticipato di entrambe le camere.
Quale effetto dell’esaurimento degli indirizzi politici prevalenti nell’ultimo decennio si registra nell’elettorato uno spostamento verso destra, ma nelle elezioni del 7 mag18
gio ‘72 il PLI non va oltre il 4,4% dei voti. Lo scenario politico indica tuttavia un orientamento - contrariamente a quanto poteva sembrare, e forse come reazione ad esse, del-
le vistose manifestazioni di piazza - verso il “riflusso” e in parlamento Andreotti trova i consensi (oltre a DC, PLI, PRI e PSDI) per formare un secondo governo nel quale (con l'appoggio esterno del PRI) il ministero del Tesoro viene affidato a Malagodi, la cui pre-
senza è caratterizzata sul piano ricognitivo dalla stesura di un “libro bianco” - documento diretto a sottolineare gli aspetti pericolosi della finanza pubblica - ed al richiamo ad una rigida politica contro l’allargamento della spesa. Al deterioramento della posizione italiana nella CEE si congiunge un aggravamento delle condizioni economiche nazionali
con esodo di capitali e aumento della presione inflazionistica nonché fluttuazione della lira a seguito delle decisioni CEE (marzo ‘73), che copre una svalutazione dalla quale trag-
gono vantaggio le esportazioni. Per favorire il settore delle costruzioni vengono varate norme che rendono più snelli gli appalti, riducendo tuttavia le verifiche dei lavori effettuati
Alla segreteria del partito viene chiamato Bignardi, che al tredicesimo congresso sostiene la politica della centralità mentre le minoranze sembrano percorse da nuovi fermenti. I socialisti spingono alla ricostituzione del centro sinistra: così, a seguito del ritiro della fiducia da parte del PRI e del congresso della DC che segna l’accordo tra Fanfani e Moro, sarà ricomposto un governo quadripartito (DC, PSI, PSDI, PRI) ancora una
volta guidato da Rumor. Al consiglio nazionale del PLI (gennaio ‘74) la linea Bignardi
viene approvata mentre Bozzi prende le distanze dalla segreteria. AI XIV congresso (Roma, aprile ‘74) la maggioranza resta alla segreteria (“libertà nuova”) mentre nelle minoranze si distinguono “Presenza liberale” di Bonea, “rinnovamen-
to” (De Lorenzo) e “Italia liberale - incontro democratico” il cui esponente Sogno pro-
pugna una “alternativa globale al sistema” e la Repubblica presidenziale: quest'ultimo succesivamente verrà sospeso per 6 mesi dal partito a seguito degli atteggiamenti assunti quale responsabile di un discusso “comitato di resistenza democratica” e per addebbiti a suo
carico da parte dell’autorità giudiziaria, che però alla fine del procedimento (1978) lo assolverà dall'accusa di aver promosso una specie di “golpe bianco”. Il PLI è l’unico partito che vota contro la legge sul finanziamento pubblico dei par-
titi, frettolosamente elaborata ed approvata dopo lo scandalo dei petroli, nel quale erano rimasti invischiati i partiti della maggioranza ed importanti esponenti politici. Attiva è la partecipazione dei liberali a favore del divorzio nel referendum del ‘74: Malagodi è presente a Roma ad un grande comizio delle forze democratiche laiche con La Mal-
fa, Saragat e Nenni (unico caso del genere). Mentre si allarga il numero dei fautori di un riesame di tutta la linea politica (a Milano si ha una secessione a sinistra di portata non rilevante), il PLI nelle elezioni amministrative del ‘74 subisce una flessione; decide di aste-
nersi dal voto sul quarto governo Moro (DC e PRI con appoggio esterno di PSI e PSDI), in attesa di valutare l'operato del ministero sui fatti; voterà contro la riforma della RAI, considerata l’anticamera di una rigida lottizzazione come presto si vedrà con effetti devastanti rispetto a quella che dovrebbe essere l’imparzialità del servizio pubblico. Un'ulteriore flessione registrano i liberali nelle elezioni regionali del ‘75, che segna-
no una forte affermazione dei comunisti. Nel PLI si avvia un processo di mutamenti al vertice che porterà all’elezione alla segreteria di Valerio Zanone, espressione della mino-
ranza di sinistra attenta ai valori della tradizione liberale e all'esigenza di evitare l’isolamento; Malagodi viene chiamato alla presidenza onoraria e Bignardi alla presidenza.
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11. Le elezioni del ‘76 hanno per posta l'eventuale “sorpasso” comunista ai danni della DC: si spiega pertanto - malgrado lo sforzo di Zanone di dare un volto riformista al partito (Congresso di Mapoli, aprile del ‘76) - l’arretramento liberale (il punto più bas-
so dei consensi elettorali), giacché la borghesia preferisce concentrare il voto sull’unico partito che - come nel ‘48 - sembra poter tenere testa all'avanzata dei comunisti. Da un
lato la nuova segreteria cerca l'alleanza dei “laici non marxisti” (Consiglio nazionale, in luglio), dall'altro assicura la vita la governo monocolore Andreotti con l'astensione, insieme al PRI, al PSDI, al PSI e - per la prima volta - al PCI. Si è delineata, nel paese, una
risposta al terrorismo, uno schieramento definito impropriamente “arco costituzionale”, che esclude solo M.S.I. ed estrema sinistra, ma quando nel marzo ‘78 Andreotti costituisce il governo di “solidarietà nazionale” con il PC.I. nella maggioranza, il PL.I. riprende
la strada dell’opposizione, denunciando i rischi diuna politica di cedimento alle richieste comuniste in politica economica e sociale.
AI XVI congresso (Roma, gennaio ‘79) Zanone - riconfermato alla guida del partito, con presidente Aldo Bozzi - sottolinea la necessità di “cambiare l’Italia” e di “unire l'Europa”, precisando che il P.L.I. “non si colloca a destra della D.C.”. Alle elezioni nel giugno si registra l'avvio di una ripresa liberale che ottiene 11,9% alle politiche e ben il 3,6%
nelle europee dove presenta candidati di prestigio e vi è per gli elettori minore preoccupazione per l'avanzata comunista. La inattesa costituzione del ministero Cossiga, con una
debole maggioranza, vede la partecipazione dei socialdemocratici e dei liberali (con Valitutti all'Istruzione ed Altissimo alla Sanità), ma quando lo stesso Presidente (aprile ‘80) forma il suo secondo ministero con l’ingresso del P.S.I. (che torna, dopo vari anni di assenza, al governo), questo pretende l’esclusione dei liberali, i quali dal canto loro tengo-
no a rivendicare il ruolo dell'opposizione. La “marcia dei quadri” in ottobre segna una sconfitta del rivendicazionismo basato sull’esclusivismo operaistico e ripropone le garanzie per la libertà sindacale nonché l'autonomia delle organizzazioni contro pratiche monopolistiche tenacemente combattute dai liberali. Esclusi anche dal governo Forlani, i li-
berali saranno invece pronti ad entrare nel ministero Spadolini, costituito dopo le rivelazioni sulla P2: è la prima esperienza governativa dell’Italia repubblicana guidata da un esponente laico e che dà inizio alla nuova formula del pentapartito (D.C. - P.S.I. - PS.D.I. - PRI. - BL.I.) destinato a durare oltre un decennio. In effetti l'evoluzione della situa-
zione economica aveva portato anche i socialisti a modificare le loro posizioni sui temi di maggior peso nelle scelte di politica economica e ciò costituisce il presupposto per il superamento di quella divaricazione profonda determinata dalle scelte della maggioranza di centro-sinistra negli anni ‘60 e ‘70 (salvo per i governi Andreotti). Anche se la pre-
senza liberale è limitata ad Altissimo (Sanità) la fine della preclusione verso il P.L.I. sancisce la formazione di nuovi schieramenti. E così al XVII Congresso (Firenze, 18-22 novembre ‘81) Zanone (la cui corrente si rafforza) può osservare che l’appartenenza dei liberali alla famiglia dei liberaldemocrati-
ci nell’ambito del Parlamento europeo indica un via positiva per lo sviluppo della democrazia, un indirizzo né conservatore né socialista.
Nel quinto governo Fanfani i liberali sono presenti con Biondi alle politiche comunitarie ed ancora con Altissimo alla Sanità. Le elezioni politiche anticipate (giugno ‘83) confermano il rafforzamento del P.L.I. (sfiora il 3% alla Camera), come degli altri partiti laici centristi che sottraggono voti alla D.C., in evidente calo con la segreteria De Mi20
ta, e ciò spiega la partecipazione al governo Craxi in una posizione consolidata (con Altissimo all’Industria e Biondi all’Ecologia).
I liberali tengono a sottolineare come lo schieramento politico fondato sui principî della democrazia occidentale possa dare affidamento sia per una politica interna più attenta alla situazione economica che tende a peggiorare, a causa dell'aumento crescente
della spesa pubblica per effetto dei maggiori oneri assunti dallo Stato con le scelte compiute dai cosiddetti governi di solidarietà nazionale, prodighi di misure assistenziali prive di reale copertura, sia per valorizzare lo sforzo d’integrazione europea. Questi temi saranno al centro del XVIII Congresso (Torino, febbraio-marzo ‘84), nel quale la corren-
te di Zanone (Democrazia liberale) ottiene il 70% dei voti. Sono confermati il presidente onorario (Malagodi), il presidente ed il segretario generale mentre alla vicepresidenza, ac-
canto a Valitutti, viene chiamato Piero Chiara come testimonianza di una rinnovata presenza culturale nella società da parte dei liberali, i quali dalle colonne de “Il Giornale” di Montanelli hanno modo di approfondire e far conoscere le loro opinioni in materia economica e di correttezza nel costume. Il P.L.I. stipula per le elezioni europee (giugno ‘84) un'alleanza con il P.R.I., non coronata da esito favorevole giacché il 6% dei voti è infe-
riore alla somma dei voti riportati dai due partiti nelle legislature nazionali. Così si conferma l’esperienza negativa di cartelli elettorali tra diversi partiti, che segnano puntual-
mente la perdita di una parte dell’elettorato potenziale. La tematica della privatizzazione comincia ad entrare nel dibattito politico in riferimento ad un progetto riguardante Mediobanca e alla scoperta di fondi neri con i quali PIR.I. si assicura prestazioni di favore da parte di giornalisti che si occupano degli enti statali economici. Attorno a due questioni i liberali si trovano al centro delle polemiche: in primo luogo l'iniziativa televisiva di emittenti private (la Fininvest di Berlusconi) che, pur incontrando ostacoli in sede giudiziaria, viene avallata dal governo Craxi e dalla maggioranza parlamentare, in secondo luogo la riforma tributaria che impone più
severi controlli per il lavoro autonomo (cioè soprattutto professionisti e commercianti, due categorie che oltre alla D.C. guardano con favore al P.L.I.).
Sul problema della scala mobile i liberali sono convinti sostenitori della linea governativa che punta prima all’accordo per ridurre l'incidenza dei punti di contingenza e poi al mantenimento delle misure quando i comunisti chiedono l'abrogazione - per referendum - del provvedimento. Nella elezione che porta Cossiga al Quirinale, i liberali non fanno mancare il loro voto al candidato sul quale si realizza una larga convergenza. I risultati nelle elezioni regionali ed amministrative sono insoddisfacenti per i liberali c ciò determina una crisi nella segreteria, alla quale il C.N. chiama Alfredo Biondi, sostituito al governo dal dimissionario Zanone. 12. l’esperienza pentapartitica viene estesa in alcune amministrazioni comunali (a
cominciare da Roma). Intanto la linea Reagan in U.S.A. e la politica della Thatcher in Gran Bretagna hanno ridato forti motivazioni teoriche e pratiche all'economia di mercato, e tale indirizzo trova nuovi convinti sostenitori anche in Italia. Le vicende interne
del partito non rivelano però una particolare capacità di attrazione giacché importanti settori produttivi guardano invece con interesse al partito del Presidente del Consiglio che riesce progressivamente a rafforzarsi, grazie al sostegno che ad essi verranno sia da enti pubblici che da società private. La linea Biondi sembra ad alcuni gruppi interni troppo proiettata all’esterno e ciò induce Altissimo a scendere in campo per ottenere al XIX FA]
Congresso la Segreteria; nel secondo governo Craxi sarà Zanone ad assumere l'Industria mentre De Lorenzo va all’Ecologia.
Grandi manovre finanziarie (Gardini della Ferruzzi si lancia alla conquista della Montedison e la Fiat si appropria dell’Alfa Romeo) dimostrano come stia cambiando l’economia, ma una problematica di tali dimensioni non sembra sfiorare troppo l’attenzione e le scelte del P.L.I., che quindi non riesce a cogliere i frutti di uno spostamento signifi-
cativo del mondo imprenditoriale, più propenso a sostenere i partiti “forti” della maggioranza. In occasione della crisi che porta alle dimissioni di Craxi, e, dopo lungo travaglio, alla formazione di un governo Fanfani e allo scioglimento anticipato delle Camere,
i liberali - che ottengono per breve tempo la Presidenza del Senato con Malagodi , grazie al suo indiscusso prestigio - denunciano un atteggiamento strumentale delle maggiori
forze che ritengono di poter disporre a loro piacimento delle istituzioni. Nelle elezioni mantengono con fatica la loro posizione con il 2,1% (cioè meno dei radicali) ed accet-
teranno poi di entrare nel governo Goria, gratificati dall’affidamento della Difesa a Zanone, unico ministro liberale.
Durante la precedente legislatura i liberali hanno avallato il nuovo Concordato con la Chiesa e ciò ha indotto alcuni intransigenti laici (movimento Salvemini) a protestare. Adesso la loro attenzione è concentrata sui temi economici, come si vede nella decisione, poi rientrata, di uscire dal governo per dissensi sul contenuto delle scelte finanziarie, ritenute troppo accondiscendenti verso il mantenimento di una spesa pubblica gravata da oneri - ritenuti eccessivi - in materia assistenziale. I liberali inoltre - insieme al BR.I. - dissentono dall’atteggiamento della maggioranza d.c. e socialista, favorevole ai referen-
dum per fermare l’attività nucleare e sulla responsabilità civile dei giudici. Sono due punti nodali che coinvolgono le scelte economiche ed il ruolo della magistratura: i risultati
lasciano insoddisfatto il P.L.I.. Nel successivo governo De Mita, Zanone conserva la Difesa, adesso al centro delle polemiche per la costante linea di sostegno della tesi che esclude sia stato un missile la causa dell’eplosione di un aereo nel cielo di Ustica nell’estate "807
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La formazione dell’Enimont, nata dalla confluenza tra pubblico (Eni) e privato (Montedison), non viene accolta con giudizi positivi dagli economisti liberali che mettono in rilievo invece l’esigenza di assicurare maggiore spazio ai privati, mentre contemporaneamente sollecitano un intervento governativo per regolare lo sciopero nei servizi
pubblici. Nelle elezioni europee dell’89 P.L.I., P.R.I. e radicali (federalisti) decidono di presentare lista unica, ma ancora una volta l'esito dell’alleanza è negativo. Lo stesso capoli-
sta mette in dubbio la validità dei motivi “laici”. Con il sesto governo Andreotti (‘89 ‘92), i liberali assumono il dicastero della Sanità (De Lorenzo), al quale da tempo guardavano con particolare interesse per procedere ad una “riforma” della “riforma”. Tutta-
via il progetto elaborato non va avanti sia perché rallentato nell’iter parlamentare sia perché osteggiato dai sindacati.
Quando scoppia la guerra nel Golfo Persico, i liberali si schierano decisamente in favore dell’iniziativa O.N.U. contro l'Iraq e dell’intervento americano. Le proposte di Craxi per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica trova il consenso del segretario del partito Altissimo, il quale sostiene inoltre Cossiga nelle sue “picconate” contro il sistema istituzionale e contro autorevoli esponenti della D.C. e del PD.S., in rapporto a
polemiche insorte su problemi del passato (caso Gladio) e del presente. 22
13. Nelle elezioni del ‘92 il PL.I. ottiene un balzo in avanti, con il 2,8% dei voti sia
alla Camera che al Senato (tra gli altri viene eletto il prof. Scognamiglio, Rettore della LUISS), in seguito vota per Scalfaro alla Presidenza della Repubblica ed entra nel governo Amato assumendo le Politiche comunitarie e regionali con Raffaele Costa, distintosi
con denunce dettagliate (nella rivista “Duemila”) sugli sperperi nella P.A., e mantenendo la Sanità per De Lorenzo aspramente criticato invece per il decreto delegato che modifica il sistema sanitario, provvedimento osteggiato da sindacati e da vasti settori del paese, non solo per l'abolizione dell’assistenza gratuita a milioni di cittadini ma anche per i complicati sistemi adottati. A seguito dell'arresto del padre - coinvolto in un processo per tangenti nella vendita di immobili di enti pubblici - De Lorenzo si dimetterà sostituito da Costa (il cui posto viene affidato all’ex segretario generale della Camera Ciaurro, da
poco impegnatosi per far quadrare il disastroso bilancio del comune di Roma) ed in se-
guito riceverà avvisi di garanzia per gravi irregolarità, specie in materia di prezzi esorbitanti di farmaci da cui trarranno illeciti profitti le ditte favorite. Colpito da avvisi di garanzia per fatti che, se accertati, comporterebbero gravi violazioni di legge, Altissimo si dimette da segretario del partito: in un primo tempo viene invitato a restare al suo posto, poi sarà sostituito da Costa, - confermato nel governo Ciampi -, il quale però - di fronte alla iniziata diaspora dei liberali - lancia la proposta dell’Unione di Centro. Un gruppo liberale entra nell’Alleanza Democratica (v.). Zanone mostra invece attenzione per le iniziative di Segni, mentre l'economista Antonio Martino - che, con analisi approfondite ha denunciato le cause del marasma finanziario ed
ha aderito alla proposta di Pannella per nuovi referendum in materia elettorale ed economica (v. / Radicali) - entra nel movimento “Forza Italia” promosso da Berlusconi.
Nel momento nel quale l'economia di mercato sembra riscoperta da studiosi, politici e partiti che prima l'avevano demonizzata, il gruppo che invece l’aveva costantemente difesa non nutrendo alcuna fiducia nelle virtù traumaturgiche dello statalismo sembra non riuscire a cogliere alcun frutto politico di un ripensamento non solo a livello italiano. È un fenomeno frequente nel rincorrersi delle vicende storiche, al quale si aggiunge nel caso specifico la generale sfiducia che ormai circonda il concetto stesso e l’attività dei partiti. Per quanto riguarda direttamente il PLI, passata la stagione della protesta malagodiana contro il centro sinistra che aveva fatto raccogliere alle liste di partito larghi consensi, il partito ha perso il suo smalto, giacché si è sempre più isolato, preferendo in qualche caso coltivare amicizie con gruppi economici privilegiati da cui ha ottenuto appoggi finanziari e perdendo il suo potenziale di riserva culturale. Dopo il successo nelle elezioni politiche, significativa è la elezione a Sindaco, nel ballottaggio per il comune di Terni, di Ciaurro, il quale non disponeva di un supporto partitico. Alle elezioni politiche del ‘94 i liberali si presentano divisi: il gruppo di Zanone con il “Patto per l’Italia” di Segni, unitamente al socialista Amato e al repubblicano La Malfa, mentre l'Unione di Centro con Biondi e Costa si è collegata, pur mantenendo la sua autonomia, con “Forza Italia” , aggiudicandosi 4 seggi alla Camera.
Un largo successo elettorale arride al neo-nato movimento di Berlusconi che si di-
chiara ispirato a motivi liberaldemocratici (v. Forza Italia): raccoglie oltre 8 milioni di
voti, piazzandosi al primo posto in assoluto nella proporzionale (21%) ed ottiene complessivamente 101 deputati e 41 senatori. Il vecchio tronco derivato dal partito di Croce ed Einaudi è ridotto ad una mera testimonianza mentre gli ampi consensi alla nuova formazione, costituita in poche settiDI
mane, sono il prodotto di spinte che, richiamandosi alle ragioni dello sforzo individuale nella vita economica e sociale, delineano un modo di guardare alla politica in termini completamente nuovi, anche per effetto dell’immagine - potenziata dalla TV - di una possibile guida carismatica al fine di risolvere i gravi problemi dall'aumento della disoccupazione e dello snellimento delle strutture statali. Tra i liberali eletti con “Forza Italia” il prof. Carlo Scognamiglio che verrà eletto Presidente del Senato.
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Capitolo II
I REPUBBLICANI
1. Durante gli anni dell'esilio esponenti repubblicani in Svizzera, nel Belgio e in Francia avevano assunto coraggiose iniziative contro il fascismo: tra essi ricordiamo Fernando Schiavetti. Alcuni partecipano alle iniziative di “Giustizia e liberta”, altri saranno at-
tivi negli Stati Uniti nonché con responsabilità di primo piano (Randolfo Pacciardi) nelle formazioni militari antifranchiste nella guerra civile di Spagna per dimostrare come i democratici italiani sanno lottare contro le dittature.
Dopo il 25 luglio 1943 si ricostituiscono i nuclei repubblicani, i più consistenti dei quali operano a Roma (animatore Giovanni Conti) ed in Italia settentrionale. Il PR.I.
non partecipa ai CLN perché ritiene pregiudiziale ad ogni iniziativa politica l’abbattimento della monarchia, anche se coopera con il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia
sia sul piano politico che con la partecipazione alla lotta partigiana. Rientrato in Italia Pacciardi (che assumerà la segreteria), il partito guida, attraverso
una intensa campagna politica e giornalistica (La Voce Repubblicana), la lotta intransigente contro la monarchia, rifiutando la partecipazione sia ai governi del CNL - accusati di aver accettato la tregua istituzionale - che alla Consulta nazionale.
2. A Roma nel 1946 (8-12 febbraio) si ha l’inizio della nuova serie di congressi del
partito (XVIII dalla fondazione). Ugo Della Seta, Giulio Andrea Belloni e Oliviero Zuccarini si dedicano alla rielaborazione teorica della posizione del partito, che acquisterà sempre più larghi consensi, come sarà dimostrato nelle elezioni del 2 giugno, quando la
linea intransigente sarà premiata dal più alto risultato ottenuto nella sua storia, sino all'83 (oltre il 4% dell'elettorato). I suoi 23 deputati svolgeranno un ruolo importante nei lavori della Costituente (in specie, Perassi e Mazzei). Nel 1946 si ha l’adesione al partito di un gruppo di uomini politici di primo piano provenienti dal partito d'azione che avevano dato luogo alla formazione del Movimento di democrazia repubblicana (La Malfa, Parri, De Ruggiero, Salvatorelli) nonché di li-
berali di sinistra e, dopo la proclamazione della Repubblica, per la prima volta, la partecipazione del P.R.I. al governo (ministri Macrelli e Facchinetti) che sarà tuttavia di breve durata a seguito della decisione del XIX congresso (Bologna, 12-20 gennaio 1947) -
nel quale affiora una divergenza nelle prospettive economiche di fondo - di cessare la collaborazione. A titolo personale Sforza sarà Ministro degli Esteri nel terzo governo De Gasperi.
Il partito prende posizione contro il “trattato di pace” imposto all'Italia dagli Alleati e in particolare in difesa dell’italianità di Trieste e della zona B del territorio libero. Rientrerà nel governo alla fine del 1947 con Pacciardi vice presidente, Sforza agli Esteri e Facchinetti alla Difesa. In questa fase il P.R.I. tenderà a caratterizzarsi per una linea politica centrista con dure critiche ai comunisti per i loro legami con l'Unione Sovietica e nella ricerca di una 759)
propria strada sul piano economico-sociale. Fortemente legato alla visione di una scelta
di politica estera a favore della solidarietà poi dell’alleanza con gli Stati Uniti, il PR.I. ve-
de nella articolazione democratica dello Stato repubblicano, nell'ordinamento regiona-
le, nell'impegno per il Mezzogiorno i cardini della propria azione, come emerge al XX Congresso (Napoli, 17-20 gennaio 1948).
L’accentuazione del bipolarismo D.C.-Fronte democratico popolare nelle elezioni del 1948 indebolisce le posizione del P.R.I., anche perché l'alleanza di governo con un par-
tito espressione del mondo cattolico urta la sensibilità laica di parecchi dei suoi aderenti ed inoltre il carattere “moderato” assunto dalla coalizione ministeriale fa perdere consistenti appoggi elettorali nelle zone tradizionalmente roccaforte della base repubblicana. Si spiega così l’arretramento a 650 mila voti (2,5%), con soli 9 deputati. Al Senato il partito potrà contare su 5 senatori eletti e 5 di diritto (per meriti acquisiti nella lotta al fascismo). La presenza di Pacciardi alla Difesa durante l’intero arco della legislatura contribuisce a consolidare una linea di legami nell’alleanza atlantica e darà luogo ad ampie polemiche con i comunisti anche per licenziamenti effettuati in fabbriche e uffici dipenden-
ti dal Ministero di personale considerato politicamente “non sicuro”. La assunzione alla segreteria di Oronzo Reale conferma la dislocazione del partito su una linea mediana che accetta la collaborazione con la D.C. senza rinunciare a far valere istanze tipiche della tra-
dizione del partito specie in materia di autonomie locali e di patti agrari, anche se la lotta frontale contro i comunisti, l'uscita dei sindacalisti repubblicani dalla CGIL e la partecipazione prima alla Fil e poi alla costituzione della UIL, fanno trovare il partito al centro di vivaci dibattiti in materia di libertà e per la politica estera. Nel 1950 i repubblicani entrano nel Ministero De Gasperi, oltre che con Sforza e Pacciardi, con La Malfa al Commercio Estero: sono anni di impegno nei quali il nuovo ministro repubblicano porta avanti, con l'iniziale opposizione di forti gruppi economici, la politica favorevole alla liberalizzazione degli scambi, rompendo uno dei lacci che più avevano pesato sin dal post-risorgimento sullo sviluppo economico del paese e a dan-
no dei cittadini consumatori. L'azione si inquadra in una concezione aperta della dinamica politico-sociale di cui è significativa manifestazione l'impegno europeistico del par-
tito nella riaffermazione dei principî federalistici, destinati peraltro a scarso successo di fronte alla rigida contrapposizione dell'Europa ai blocchi. Al partito viene rimproverato, da sinistra, un'eccessiva acquiescenza alla linea di politica internazionale degli Stati Uniti, cui corrisponde nell'interno l’accentuazione anticomunista particolarmente acce-
sa in Pacciardi. Sia al XXII (Livorno, 18-21 maggio 1949) che al XXIII Congresso (Bari, 6-9 marzo 1952) il partito tiene a presentarsi come un partito riformatore: inizia in questi anni la campagna diretta ad assicurare alla repubblica una più consistente forza democratica con il consolidamento delle istituzioni e l'eliminazione di baronie monopolistiche in settori fondamentali della vita economica.
3. L'azione giornalistica de “Il Mondo” (atlantico in politica estera e polemico contro la D.C. per la compenetrazione tra interessi privatistici ed interessi pubblici) vede impegnata sin da questo periodo una corrente politica ricca di personalità della cultura al di fuori del partito anche se a questo collegato sul piano politico generale.
Comincia ad emergere nel partito una sinistra (poco meno di un quinto al congresso 26
del 1952) che durante il dibattito sulla legge elettorale maggioritaria esce in gran parte dal partito, insieme a Parri e Zuccarini per dar vita, insieme a nuclei usciti dalla socialdemocrazia e ad alcune personalità indipendenti, al movimento di “Unità popolare”, il
cui peso elettorale sarà scarso ma sufficiente tuttavia, assieme a quelli dei liberali usciti dal P.L.I. (Corbino), a non far scattare il premio di maggioranza. E sarà lo stesso PR.I.
ad avvantaggiarsi dall’applicazione della proporzionale - contro cui ha combattuto - anche se vede ulteriormente restringersi la propria area di influenza (1,62 dell’elettorato) con soli 5 deputati e senatori: e ciò dimostra come la base tradizionale repubblicana non abbia condiviso l’avallo fornito alla politica della D.C. I nuovi dirigenti tuttavia non ritengono ancora venute meno le ragioni della collaborazione centrista, tanto è vero che, contrari all’ultimo ministero De Gasperi, respinto alla Camera, dopo l'appoggio alla soluzione interlocutoria Pella, saranno i soli a votare il
primo ministero Fanfani - subito caduto in Parlamento - e a partecipare poco dopo alla ricostituzione della maggioranza di centro, pur non entrando nel ministero Scelba-Saragat. AI XXIV Congresso (Firenza, 29 aprile-2 maggio 1954) l'opposizione alla collaborazione centrista resterà limitata (Belloni) sempre ad un quinto del partito. Mentre l'impegno europeista trova modo di affermarsi nell’appoggio all'Unione Europea Occidentale e poi al Mercato Comune Europeo, sul piano interno, il PR.I. seconda lo sforzo del governo Segni, anche se al XXV Congresso (Roma, 16-19 marzo 1950) più insistenti (oltre il 30% nella votazione conclusiva) si fanno le voci contrarie alla formu-
la quadripartita. La Malfa la definisce “transitoria” mentre lo stesso segretario Reale considera positiva la prospettiva di una collaborazione con il P.S.I.: il primo auspica la piena autonomia parlamentare del partito in vista di una successiva alleanza con il P.S.I. (e
nei convegni de “Il Mondo” viene precisandosi un programma riformatore soprattutto in materia economica in opposizione al centrismo), il secondo ritiene necessario restare
nella maggioranza con la D.C. avviando intanto un legame con il neonato partito radicale, costituito dagli scissionisti del P.L.I. e da collaboratori de “Il Mondo”, mentre Pac-
ciardi insiste per il ritorno al governo. Le elezioni del 1958 vedono stazionaria la posizione del partito (1,4% dei voti e 6 deputati) che si rende conto della difficoltà di realizzare un qualsiasi programma rifor-
matore senza l'appoggio dei socialisti. Perciò non entra nel governo D.C.-P.S.D.I. pur assicurando il sostegno esterno. Al XXV Congresso (Firenze 20-23 novembre) la maggioranza (55%) afferma l’esigenza della massima autonomia dalla politica d.c. mentre resta in minoranza Pacciardi (43%), duramente polemico contro la prospettiva del centro-sinistra. 4. L’azione in favore di un nuovo schieramento politico viene invece portata avanti da Reale e da La Malfa, sia nella opposizione al governo Segni sostenuto dai liberali, dai monarchici e dai missini, sia durante il XXVII Congresso (Bologna, 3-6 marzo 1960),
nel quale la maggioranza precisa i caratteri programmatici che dovrebbe avere il centrosinistra in materia economico-sociale e di politica interna. Dopo l'esperimento Tambroni, duramente combattuto dal PR.I. (Mammì a Roma
è in prima linea nelle manifestazioni antifasciste contro il congresso del M.S.I. e per i fatti di Genova e Reggio Emilia) il partito sostiene il governo delle “convergenze parallele” (v. D.C.) e dopo il congresso d.c. di Napoli entra nel nuovo governo Fanfani unitamenDV
te al PS.D.I.: La Malfa al Bilancio avvia il discorso sulla programmazione e indica in un documento (la famosa “Nota aggiuntiva” del ‘52) le scelte concrete che il centro-sinistra
dovrà compiere (tra l’altro attuazione delle Regioni, piano economico pluriennale, politica dei redditi, nazionalizzazione dell'industria elettrica, riforma nelle società per azioni).
Non vengono prese in considerazione le proteste di Pacciardi per i metodi messi in
atto dalla maggioranza allo scopo di conseguire il successo nel Congresso che si svolge a Livorno dal 31 maggio al 3 giugno 1962 e che segna la spaccatura del partito per la mancata partecipazione ai suoi lavori della minoranza. Successivamente si accerterà che per danneggiare i sostenitori di Pacciardi non si era esitato ad avvalersi anche di azioni illegittime dei servizi segreti.
Data da questo periodo l'avvio del P.R.I. come punto di riferimento per settori democratici favorevoli ad una estensione alla collaborazione del P.S.I., quale supporto per la realizzazione delle riforme e favorevoli a contenuti modernizzatori che, nella salva-
guardia dell'economia di mercato, possano assicurare una più razionale utilizzazione delle risorse: in questo quadro la gestione economica delle aziende pubbliche, la realizzazione dell'ordinamento regionale e l'applicazione di una politica di programmazione, alla quale corresponsabilizzare le forze sindacali, divengono le linee principali del programma e dell’azione del partito. Le elezioni del 1963 - caratterizzate dalla campagna liberale contro il centro-sinistra - vede il PR.I. mantenere con difficoltà le proprie posizioni (sempre
6 deputati), con un numero pressocché immutato di voti, segno di una fedeltà di minoranze convinte. Pacciardi, eletto ancora nelle liste del P.R.I., si porrà successivamente fuo-
ri del partito, promuovendo il “movimento per la nuova Repubblica”, fautore di una repubblica presidenziale.
La sfavorevole congiuntura dell'inverno ‘63 vede il partito impegnato al ripensamento della politica economica, tanto che esso, anche partecipando ai governi Moro (alla Giustizia Reale, sostituito alla segreteria da un triumvirato provvisorio) mantiene ri-
serve sulle scelte del Ministero, propugnando la “politica dei redditi”, come impegno comune degli imprenditori e dei sindacati. Nei confronti di questi ultimi La Malfa svolge una campagna per richiamarli all'esigenza di subordinare le rivendicazioni salariali alla compatibilità con il sistema, anche per non aggravare il pericolo della disoccupazione. Ed è una linea che i sindacati non ritengono di accettare.
AI XXIX Congresso (Roma, 25-28 marzo 1965) tali posizioni economiche troveranno l'assenso del partito (solo Simoncini della UIL e che poi uscirà dal P.R.I. propone l'adesione al processo di unificazione socialista) e La Malfa, nuovo segretario, pone l’accento, nei dibattiti, nella stampa e in vari interventi, sui temi della occupazione, del costo della pubblica amministrazione a tutti i livelli (a questo riguardo propone un'inchie-
sta parlamentare sui rapporti con i politici) e dell'abolizione delle provincie nonché sui metodi di gestione delle aziende pubbliche o d’interesse pubblico (ENEL, RAI-TV). Le sue dimissioni da presidente della Commissione Bilancio della Camera vogliono sottolineare la degenerazione di leggi e leggine nell’interesse di gruppi ristretti.
I criteri esposti in materia di spesa pubblica, di rapporti degli istituendi organi della programmazione con i sindacati, valgono al partito la simpatia di nuovi, pur ristretti settori che vedono nel P.R.I. un partito che cerca, nel superamento del liberismo storico
e delle esperienze collettivistiche, una impostazione democratica-moderna nell’ambito del 28
sistema, anche se questa in rapporto al mutare della società può rivelarsi come una posizione moderata, di un moderatismo illuminato. 5. Mentre più intensa diventa l’azione del partito per sollecitare l'attuazione dell'ordinamento regionale e la approvazione della legge sulla programmazione, le elezioni
amministrative del 12 giugno 1966 segnano un significativo rafforzamento del partito (in polemica, verso destra, con Malagodi e verso sinistra, con Lombardi ed il PC.I.) che
insisterà anche negli anni successivi sui temi già svolti riuscendo ad allargare la propria area di influenza (tra gli altri aderiscono al P.R.I. Francesco Compagna, l'editore Mon-
dadori e l’ex sindaco socialdemocratico di Milano Bucalossi) anche nel settore giovani-
le, solcato da spinte contestatrici. Il rilancio organizzativo consente nelle elezioni politiche del ‘68 di cogliere un aumento di consensi (2% dell’elettorato con 625 mila voti),
di cui il partito si avvale per sottolineare il dissenso dalla politica economica del governo (La Malfa parla per primo di “fallimento della programmazione” sulla quale proprio egli aveva tanto insistito) e dell’atteggiamento dei sindacati, pronti a sostenere qualsiasi
rivendicazione salariale. Il XXX Congresso (Milano, 7-10 novembre 1968) - svoltosi durante la parentesi del
governo Leone - riconferma l'esigenza di ridar vita al centro-sinistra ma con una più rigida impostazione della politica economica: il PR.I. entra nel primo governo Rumor (con Reale alle Finanze) senza risparmiare critiche alla sinistra d.c. e ai socialisti. Dopo la scis-
sione socialista del ‘69, il PR.I. non partecipa ai successivi governi Rumor, manifestando riserve anche sui modi di attuazione dell'ordinamento regionale, specie per quanto concerne gli aspetti finanziari. Ulteriori consensi il partito ottiene nelle prime elezioni regionali, nelle quali - presentatosi come “coscienza critica del centro-sinistra” - sfiora il
tre per cento. Come condizione per l'appoggio al governo Colombo, La Malfa pone una riduzione del programma di spese mentre sul piano politico il partito prende posizione contro il tentativo - propugnato dalla maggioranza dei socialisti - per l'inserimento del P.C.I. nella maggioranza. Il P.R.I. si presenta in questa fase su una posizione di rigida difesa del bilancio pubblico, nella preoccupazione degli equilibri finanziari ed economici, e di salda tutela dei principî democratici e dello stato di diritto, contro ogni violenza ed
ogni pratica eversiva. L’approvazione parlamentare della legge istitutiva del divorzio (con il governo atte-
stato su posizioni di neutralità) viene considerato come positivo risultato di una battaglia laica alla quale il P.R.I. ha da tempo partecipato in prima linea. Sui temi delle riforme sanitaria, tributaria ed universitaria si hanno dissensi tra repubblicani e socialisti: il “disimpegno” dal governo con il ritiro di Reale indica una posizione di “riserva” nei confronti della maggioranza che troverà conferma nei successivi mesi specie per quanto concerne i discussi temi della spesa pubblica, dei rapporti con i sindacati, verso i quali La Malfa non risparmia critiche per la spinta che, a suo avviso, essi portano alle difficoltà
economiche, e della gestione della RAI-TV (considerata eccessivamente dispendiosa). Sono tutti temi che riemergeranno quando negli anni successivi si dovrà prendere atto delerrore commesso di non tener conto di queste fondate critiche. Già da prima delle elezioni presidenziali del dicembre 1971, il PR.I. preannuncia la richiesta di una revisione della politica del governo e l'eventuale uscita dalla maggioranza nella ipotesi di mancato accoglimento delle proprie istanze. In questo clima si svolge il XXXI Congresso (Firenze, 11-15 novembre), nel quale tra l’altro Bruno Visentini ed o)
Armani rinnovano le critiche alla politica finanziaria ed economica del governo, considerata troppo debole nei confronti dell’opera di difesa della lira e di lotta all’inflazione. Dopo l’elezione di Leone, al quale il PR.I. non fa mancare il proprio appoggio (provocando tra l’altro un messaggio di protesta di 600 esponenti della cultura che gli rimproverano di non aver favorito una soluzione “progressista”), più vivace diviene la polemica
col PS.I., polemica che tende a spostarsi dal piano economico a quello politico generale. Le dimissioni di Colombo aprono la crisi che porta al governo minoritario Andreotti e allo scioglimento anticipato delle Camere. 6. Le elezioni politiche del ‘72 vedono il P.R.I. confermare i dati delle regionali e salire al 2,9% dei voti con 15 seggi alla Camera e 5 al Senato (tra gli altri viene, a Milano,
eletto per la prima volta Giovanni Spadolini con larghi consensi). Al Consiglio nazionale del giugno - contro le posizioni del gruppo di “Riscossa repubblicana” guidato da Mammì - La Malfa spiega le ragioni per le quali propone l'appoggio al governo Andreotti con la partecipazione del P.L.I. (v.) e del P.S.D.I. anche se non mancheranno riserve sul-
la composizione del ministero, su alcune iniziative particolari, come quelle relative all’introduzione della TV a colori, considerata moltiplicatrice di consumi non essenziali per vaste masse popolari, e soprattutto sulla mancata revisione della politica economica, caratterizzata da una crescente espansione della spesa. Dopo il congresso d.c. del ‘73, il PR.I. accetta di rientrare nel governo di centro-sinistra (Rumor) e La Malfa assume l’impegnativo incarico di ministro del Tesoro, ceden-
do la segreteria del partito ad un comitato ristretto. La politica di austerità e di contenimento dei consumi, che egli da tempo aveva indicato, diventa indispensabile dopo la crisi petrolifera in una condizione aggravata dell'economia interna ed internazionale: le misure restrittive, anche nell'uso delle automobili, provocano meno risentimenti di quan-
to si sarebbe potuto attendere giacché per una breve ed irripetuta stagione gli italiani si rendono conto che si potrebbe vivere anche con una minore propensione ai consumi; tuttavia le spinte in senso contrario saranno presto forti. Dissensi con il ministro del Bilancio, il socialista Giolitti, sulle condizioni per l'accettazione di un prestito del Fondo Monetario internazionale indurranno La Malfa a dimettersi e ciò causa di ritiro dell’intero governo; il P.R.I. non entra nella nuova formazione costituita da Rumor e preferisce pro-
seguire la contestazione sulla politica della spesa mentre non respingerà nel novembre ‘74 l’invito della D.C. di partecipare al governo Moro, un bicolore nel quale il partito assume una posizione di particolare rilievo, con La Malfa vice presidente, Visentini alle Finanze, Bucalossi ai lavori pubblici - dove porterà avanti un provvedimento utile per l’edilizia - e Spadolini ai Beni Culturali, dicastero di nuova formazione.
Il P.R.I. non manca di deplorare i metodi di gestione degli enti pubblici (in particolare la “lottizzazione” alla RAI-TV) e a polemizzare con i socialisti per le scelte economiche considerate insufficienti a rimuovere le situazioni più esposte e gravide di pericolose conseguenze per il bilancio e la tenuta finanziaria. In questo periodo promuove un convegno culturale con la presenza di Rosario Romeo e di altre personalità, nel corso del
quale viene contestata la critica nei confronti degli orientamenti politici prevalenti, per la genericità ed inconcludenza delle decisioni che ne derivano. AI XXI Congresso (Genova, febbraio ‘75) il segretario Ugo La Malfa dichiara, nella relazione introduttiva, che
il compromesso storico può avere un suo contenuto concreto solo se si avrà un'evoluzione nei rapporti internazionali. Intanto è esploso il caso di un parlamentare siciliano (Gun30
nella) espulso dai probivri in riferimento alle accuse lanciate contro di lui per corruzione: dopo vivaci discussioni, egli sarà riammesso nel partito, anche se successivamente la questione ripresenterà (sarà, alla fine degli anni ‘80, il segretario Giorgio La Malfa ad
espellere definitivamente il deputato, le cui pratiche clientelistiche avevano suscitato fondati sospetti di sue collusioni con ambienti malavitosi). Nello stesso anno viene chiamato alla segreteria Oddo Biasini, esponente della tradizionale base repubblicana di Romagna, mentre alla Presidenza va La Malfa protagoni-
sta in autunno di una polemica con il Presidente Pertini per gli stipendi eccessivi dei funzionari della Camera. In Parlamento il disegno di legge presentato dal Guardasigilli Reale, aspramente contrastato da settori dell’opposizione in particolare da radicali e PD.U.P.,,
perché - con il fermo giudiziario ed altre norme restrittive - riduce le garanzie personali, è approvato. Nelle elezioni politiche del ‘76 il PR.I. mantiene le sue posizioni di fronte ai due colossi e successivamente partecipa allo schieramento che si riconosce nel monocolore Andreotti; all'indomani del discorso con cui Berlinguer a Mosca afferma che per
il PCI. la “democrazia è un valore universale” e si pronuncia per il pluralismo politico e culturale, La Malfa, prendendo atto della “svolta”, intervenuta nella politica del P.C.I., si dichiara favorevole alla sua partecipazione al governo e ciò crea una premessa per avviare quel governo di “solidarietà nazionale” che sarà varato in Parlamento nel marzo suc-
cessivo, lo stesso giorno del rapimento Moro. Nell’apprendere quest'ultima notizia La Malfa chiede misure straordinarie per la difesa della Repubblica.
Intanto radicali, PDUP, Democrazia proletaria e M.S.I. hanno chiesto l'abolizione della legge Reale: il referendum (giugno ‘78) conferma la legge con oltre il 76% dei voti mentre anche settori socialisti fanno propaganda per l’abolizione. Sul piano economico La Malfa si impegna per l'adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, continua ad opporsi a torbide manovre finanziarie di banchieri appoggiati dal Vaticano, denuncia il malgoverno delle imprese pubbliche e, quando Andreotti si dimette, è incaricato a formare il governo, nel quale egli vorrebbe inserire i segretari dei partiti della maggioranza per un maggiore impegno ed una continuità nell’esecutivo. Il tentativo fallisce perché la D.C. si oppone alla partecipazione al governo di esponenti della sinistra indipendente e quindi sarà ancora Andreotti a formare un nuovo ministero (marzo ‘79), con la parteci-
pazione di P.S.D.I. e P.R.I.: La Malfa assume la vice-presidenza e il ministero del Bilancio - proponendo una severa politica di riduzione delle spese - ma, stressato dal lavoro,
muore improvvisamente dopo pochi giorni e sarà sostituito da Bruno Visentini. Nelle elezioni politiche e per il Parlamento Europeo il P.R.I. mantiene a stento le posizioni, tallonato ai fianchi da liberali e radicali. All’atto della costituzione del governo Cossiga i re-
pubblicani si astengono, non convinti della politica economica mentre si aggrava la situazione dei maggiori enti a partecipazione statale, di cui le complicate vicende dell’ E-
NI offrono un importante squarcio. Entreranno invece nel secondo ministero Cossiga con Giorgio La Malfa al Bilancio (incarico che mantiene nel successivo governo Forla-
ni) e Francesco Compagna, studioso meridionalista, ai Lavori Pubblici. 7.Leo Valiani, nominato senatore a vita, s'iscrive al gruppo del P.R.I.. Nel marzo ‘81 Fanfani, riferendo alla commissione parlamentare incaricata di esaminare il caso Sindona, chiarisce che il Ministro del Tesoro Ugo La Malfa, restò fermo nel negare richieste che avrebbero favorito l’istituto di credito del discusso banchiere siciliano. Al XXXIV Congresso (Roma, maggio ‘81) il partito esamina attentamente le sue condizioni finanDil
ziarie nel quadro della situazione di difficoltà in cui si trovano tutte le formazioni poli-
tiche giacché il contributo pubblico a stento consente di far fronte alle crescenti spese: comunque la decisione di riprendere la pubblicazione della “Voce Repubblicana”, anche
a costo di sacrifici, dimostra la volontà di non far mancare la presenza quotidiana della
voce del PR.I. in un fase caratterizzata dal crescente peso della TV e della stampa a larga diffusione. Questo ed altri riconoscimenti di correttezza valgono ad accrescere la stima per gli esponenti del P.R.I. e ciò spiega anche la decisione di Pertini (giugno ‘81) -
dopo le dimissioni di Forlani a seguito della scoperta delle liste della P2 - di affidare il governo a Spadolini. È la prima volta nella storia della Repubblica, che un esponente di un partito laico ascende alla Presidenza. Ed il primo atto significativo sarà il provvedi-
mento per lo scioglimento della P2, approvato subito dal Parlamento. La liberazione del generale americano Dozier, rapito a Verona dalle Brigate Rosse, suggella un corso positivo dell’azione delle forze di polizia contro i terroristi, anche se ulteriori punti oscuri rimarranno sia per quanto concerne il trattamento nei confronti dei
brigatisti arrestati durante l'operazione, sia in riferimento ad altri fatti, come il sequestro del d.c. Cirillo, - per la cui liberazione a Napoli si registrano singolari contatti tra servizi segreti e camorra -, il sequestro e poi l'uccisione di un criminologo, Aldo Semerari, al quale si attribuiscono legami con l'estrema destra eversiva, e una ripresa di omicidi in Sicilia ad opera della mafia (cade in questo periodo il dirigente comunista Pio La Torre e poi nel settembre ‘81 il generale C. A. Dalla Chiesa). Il governo tende a favorire la pratica della “dissociazione” dei terroristi, una forma
“premiale” di pentimento: ed una legge appositamente varata in questo perido consentirà di ottenere informazioni precise per la lotta contro il fenomeno eversivo mentre l’approvazione del progetto La Torre dà, sia agli incaricati di indagini che alla magistratura, più efficaci metodi di prevenzione e di repressione. Inoltre occorre affrontare i difficili
eventi finanziari, di fronte ai quali il presidente deve anche mediare le contrastanti spinte dei ministri d.c. e socialisti. In tali frangenti irreprensibile risulta l'atteggiamento del
governo, benché affiorino interessi non del tutto chiari in delicati settori produttivi, come la chimica. Piuttosto la misteriosa morte a Londra del banchiere Calvi e l’inizio di un procedi-
mento giudiziario contro mons. Marcinkus, a capo del sistema bancario del Vaticano, connesso ad una truffa riguardante il Banco Ambrosiano, mettono in evidenza una serie
di gravi irregolarità nel campo del settore creditizio che lambiscono (pur senza ancora vere prove certe) ambienti e persone di vertice del mondo politico italiano. Anche in politica internazionale il governo Spadolini ottiene risultati positivi e riconoscimenti come si vede in occasione della partecipazione italiana alla forza multilaterale che interviene nel Libano. Il P.R.I. non partecipa al Ministero Fanfani presto incaricato di predisporre le elezioni anticipate (giugno ‘83), che segnano un rilevante successo del P.R.I. (oltre il 5% a livello nazionale con altissime votazioni in alcuni centri come a Milano), tanto che si
parla di “effetto Spadolini”. Ed è lo stesso statista, divenuto segretario del partito, a sottolineare al C.N. del settembre come ormai il P.R.I. svolga una funzione di “guida politica” e non più solo di “coscienza critica”.
8. Il movimento femminile, la federazione giovanile, ’ENDAS operante nel campo del tempo libero e la tradizionale consociazione delle cooperative dimostrano una rin-
novata vitalità delle forze repubblicane. D'altro canto la ferma denuncia di Spadolini -
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riconfermato segretario con Visentini presidente - contro “l’occupazione indebita della società civile” (Milano, ‘83) costituisce un punto fermo nella denuncia di un fenomeno
preoccupante, assecondato invece dai due più forti partiti della maggioranza che si avvantaggiano sempre più della degenerazione partitocratica, secondo le espressioni usate dall'ex Presidente del Consiglio. Sul piano culturale la partecipazione alle iniziative del P.R.I. di studiosi come Rosario Romeo, Paolo Savona, Luciano Gallino ed Enzo Grilli, dimostra come il partito intenda porsi come anticipatore della necessità di rinnovamento nell'economia e nel costume. Nell'aprile ‘84 il XXXV Congresso approva un nuovo statuto che tiene particolarmente conto di tutte quelle esigenze di trasparenza e di democrazia interna, di controllo del tesseramento, di cui tutti parlano ma che tardano ad essere messe in pratica. La partecipazione al governo Craxi vede i repubblicani fortemente impegnati nella politica tributaria: Visentini alle Finanze riesce faticosamente a portare avanti in Parlamento un decreto legge che mira ad assicurare il pagamento delle imposte alle categorie del lavoro autonomo (professionisti e commercianti) che - protette da ampi settori della D.C. - organizzano una campagna contro il provvedimento, in grado di passare alla Camera solo grazie alla significativa astensione del P.C.I.. Nelle elezioni europee dell’84 P.R.I. e PL.I. si presentano insieme ma non vanno oltre il 6% complessivo, tanto che l’esperienza politica non verrà ripetuta nelle regionali dell’anno successivo. Nell’ottobre ‘85 il caso del sequestro della motonave “Lauro” con il conseguente incidente a Sigonella tra responsabili italiani e militari U.S.A. crea una situazione di difficoltà per Spadolini che è Ministro degli Esteri nel governo Craxi, tanto che questo è costretto a dimettersi. La crisi viene ricomposta mentre proseguono atti ter-
roristici sia ad opera di palestinesi (aeroporto di Fiumicino, dicembre ‘85) che di formazioni italiane. Il lancio di due missili libici contro Lampedusa per ritorsione ad un bombardamento compiuto da aerei statunitensi è un'ulteriore conferma della tensione. nel Mediterraneo, per la cui pace Spadolini si impegna con una serie di iniziative. A se-
guito dei contrasti tra De Mita e Craxi si giunge al governo preelettorale di Fanfani. Al XXXVI Congresso (Firenze, aprile ‘87) Spadolini mantiene una linea che vuol essere di
equidistanza da D.C. e P.S.I. e dopo le elezioni - che segnano un lieve arretramento del PR.I. - il partito entra nel governo Goria, tra l’altro con Battaglia all’Industria, impegnato a sostenere il nucleare. Ma, sotto l’effetto dell’esplosione di Cernobyl, il referendum fer-
ma il programma nucleare. Il PR.I. prende aperta posizione contro la richiesta di un nuovo ordinamento per la responsabilità civile dei giudici, anch'essa approvata dagli elettori. Nel governo De Mita (aprile ‘88) per il PR.I. Antonio Maccanico - già segretario generale della Camera e poi della Presidenza della Repubblica - assume la responsabilità per i problemi istituzionali e le regioni mentre Mammì alle Poste predisporrà (sesto governo Andreotti) il provvedi mento che pone limiti al numero delle televisioni da parte di un'unica proprietà: ne verranno forti contrasti perché le opposizioni - e settori d.c. - ritengono la legge (approvata dal Parlamento nell’estate ‘90) troppo favorevole a Berlusconi. Nelle elezioni europee dell’89 PR.I., PL.I. e radicali federalisti si presentano in un'unica lista, senza però riscuotere consensi soddisfacenti ed il partito sembra indirizzarsi verso nuovi orientamenti.
9. Il nuovo segretario del PR.I. Giorgio La Malfa ha seguito con molta attenzione il processo evolutivo messo in atto da Occhetto nel P.C.I. e che porterà alla nascita del 33
P.D.S., e manifesta inoltre sempre più riserve sulla politica economica caratterizzata tra l’altro dalle complicate e non chiare vicende legate prima alla nascita dell’Enimont, poi alla dissoluzione dell’accordo tra Eni e Montedison, e alla discussa cessione delle quote della proprietà privata all’ente pubblico, tanto che coglie un dissenso nella composizione del ministero Andreotti (luglio ‘89) per ritirarsi, dopo lunghi anni, dalla collaborazione governativa, ed anzi intensificando la sua polemica contro i gruppi dirigenti della Edel P:SAe D'altronde già al XXXVII Congresso (Rimini, maggio ‘89) aveva indicato la neces-
sità di creare uno schieramento unitario dei laici e delle sinistre: pertanto quando si libera da impegni di maggioranza svolge un ruolo di punta nel denunciare gli errori della politica governativa, con particolare riferimento all'occupazione di spazi di potere. Al go-
verno dei “tecnici” a suo tempo proposto da Visentini si aggiunge adesso una ferma polemica contro la “finanza allegra” e quindi il richiamo ad indispensabili misure rigorose. Parlamentare del P.R.I., L. Gualtieri si metterà in luce quale presidente della commissione di inchiesta sulle stragi ed il terrorismo: in particolare la sua relazione sulla tragedia di Ustica (misteriosa caduta di un aereo civile di linea, 1980) accerterà gli ostacoli frappo-
sti alla conoscenza dei fatti accaduti e delle relative responsabilità. Tuttavia le elezioni legislative del ‘92 - in cui il partito si presenta sciolto da vincoli governativi e quindi in grado di raccogliere la protesta che viene da settori sempre più ampi del paese - non registrano una particolare affermazione del P.R.I., nelle cui fila viene eletto a Montecitorio il giudice Ayala - uno dei più fermi accusatori dei delitti della mafia -, che si dichiara pron-
to a sostenere una nuova “alleanza democratica”, composta da forze laiche e di sinistra. Di fronte ai provvedimenti finanziari del governo Amato (verso cui mantiene la linea di opposizione), La Malfa si dichiara tuttavia disposto a sostenere le misure ritenute più adeguate, anche se egli non le giudica ancora sufficienti. Nel XXXXVIII Congresso la posi-
zione di La Malfa si rafforza: dagli organi direttivi vengono esclusi gli oppositori della sua linea, considerata dai pochi dissenzienti, tra i quali il prof. Paolo Ungari, troppo disponibile verso il PD.S. con il quale permangono sostanziali divergenze in politica estera e nella prospettiva di sviluppo della politica interna. 10. Dopo aver partecipato alla campagna di Segni per la riforma elettorale, La Malfa si dimette da segretario allorché riceve una comunicazione giudiziaria in riferimento ad una spesa non registrata pagata da un industriale a favore della sua ultima elezione. Anche altri dirigenti del partito (tra cui un vicesegretario, e il responsabile amministrativo) sono raggiunti da analoghi avvisi per reati più gravi, in ordine ai quali sino ad ora non risultano emanate sentenze, come d'altronde per altri politici nelle stesse condizioni, benché le responsabilità, sulla violazione della legge sul finanziamento dei partiti so-
no state ammesse (forse perché andava avanti, con esito positivo, il “colpo di spugna” da parte del Parlamento). Il partito si rivela compatto nel riconoscere la correttezza di La
Malfa al quale vanno larghi consensi per l'atteggiamento assunto. La segreteria, affidata a Bogi, stenta a riconoscersi in una linea univoca sul piano delle prospettive politiche giacché una parte dei dirigenti e parlamentari ormai guarda fuori del partito e nuove alleanze come Ayala verso Alleanza Democratica mentre altri preferiscono attenersi ad una linea meno esposta. Significative assenze si noteranno nelle assisi di partito ma saranno poi suoi esponenti come Enzo Bianco (a Catania) a cogliere forti successi nelle elezioni comunali gra-
zie ad una larga convergenza di voti di diversa provenienza, tra cui quella del PD.S.. 34
Nel governo Ciampi una posizione di rilievo assume, come Sottosegretario alla Presidenza Antonio Maccanico. Personalità come Spadolini (rieletto nel ‘92 presidente del
Senato) e Visentini, con puntuali critiche alla politica finanziaria, continuano a simboleggiare con la loro presenza un ruolo fondato sullo sforzo di preservazione di valori e di istituzioni, anche se sul P.R.I. si riverberano gli effetti negativi della caduta del sistema politico, contro la quale invano i suoi uomini più rappresentativi avevano cercato di opporre una serie di proposte istituzionali ed economiche qui richiamate. Nel dibattito sulle privatizzazioni La Malfa assumerà una posizione di sostegno alla linea del ministro dell'Industria Savona tendente ad evitare i pericoli di una eccessiva frammentazione dell’azionariato delle nuove società, preferendo la presenza di un nocciolo duro capace di man-
tenere nelle aziende continuità di indirizzo e di azione. Nel gennaio ‘94 La Malfa torna alla segreteria del partito e improvvisamente propone (ottenendo una lievissima maggioranza nel C.N. ai primi di febbraio del ‘94) l'abbandono del polo progressista per il quale gran parte del P.R.I. si era impegnato negli ultimi due anni in AD (v.), ed una ricollocazione a fianco del patto di Segni, provocando la spaccatura del P.R.I., giacché Visentini, Bogi, Giovanni Ferrara ed altri esponenti restano in Alleanza democratica e si
schierano quindi con il polo dei progressisti (v. Alleanza Democratica) nelle elezioni politiche del ‘94 che non vedono più il contrassegno tradizionale (l’edera) del partito più antico d’Italia. Si tratterà ora, per i deputati eletti con A.D. (v.) di scegliere tra l’autono-
mia piena e la permanenza nel fronte sconfitto, per gli altri repubblicani che hanno mantenuto l'indipendenza di ridefinire la loro posizione in un contesto che sembra lasciare poco spazio per le formazioni minori di centro. La figura di Giovanni Spadolini, nominato senatore a vita nel 1992 assume particolare rilievo quando, all’apertura dell'XI Legislatura, viene proposto per l'elezione a Presidente del Senato, dall’intero schieramento dei“progressisti” fed ottiene, grazie anche al voto di popolari, centristi e di parecchi senatori a vita, 161 voti contro i 162 riportati dal
sen. Carlo Scognamiglio, che assumerà quindi la presidenza di Palazzo Madama. Lo storico insigne dichiara che continuerà ad operare come “riservai combattente” per la democrazia repubblicana. -
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Capitolo III
DEMOCRAZIA
CRISTIANA E POPOLARI
1. La nascita della Democrazia Cristiana in Italia durante il periodo conclusivo del secondo conflitto mondiale rappresenta il punto di incontro di esperienze diverse, sia sul piano delle generazioni degli uomini che concorrono a prepararne la costituzione sia per quanto concerne le posizioni politiche, culturali, istituzionali ed economiche che la nuo-
va formazione va ad assumere. I gruppi che danno vita al nuovo partito risalgono fondamentalmente a due estrazioni. Da un lato ex dirigenti, nel primo dopoguerra, del partito popolare italiano, il mo-
vimento che, ispirato ai principî del cristianesimo, aveva raccolto, su basi aconfessionali, icattolici impegnati per un programma fondato sulla libertà (di insegnamento, di coscienza, di organizzazione sindacale, di iniziative assistenziali), la tutela della famiglia, il rinnovamento sociale (legislazione del lavoro, riforma tributaria, incremento della pic-
cola proprietà rurale, colonizzazione interna) e istituzionale (autonomia degli enti loca-
li e creazione delle regioni) e che aveva pagato, con il ritiro di ogni appoggio da parte delle autorità ecclesiastiche, la propria autonomia, e con l’esilio del suo fondatore Luigi Sturzo, di EL. Ferrari, di Giuseppe Donati, l’opposizione al fascismo, dopo l’iniziale colla-
borazione governativa con Mussolini. I suoi esponenti in Italia si erano poi rinchiusi in un dignitoso silenzio. Dall’altro lato, aderivano alla DC giovani cresciuti durante il fascismo e che aveva-
no compiuto le prime esperienze associative nelle file dell'Azione Cattolica, nutriti dai documenti sociali pontifici, dai principî di diritto naturale, primo tra tutti la difesa dei diritti individuali rispetto allo Stato, e negli ultimi anni dalle letture chiarificatrici di J. Maritain, che aveva indicato le ragioni per le quali un cristiano autentico non può identificarsi né nel fascismo né nel comunismo.
A Roma, attorno alla personalità di Alcide De Gasperi - l'ex deputato che già alla dieta di Innsbruck e al Parlamento aveva rappresentato il Trentino quale esponente del locale movimento cattolico e che era stato l’ultimo segretario del PPI prima della sua dissoluzione (1925) - si forma un gruppo composto da ex deputati popolari come Attilio Piccioni e da elementi cresciuti alla scuola di Sturzo, come Mario Scelba e Giuseppe Spa-
taro, o nelle organizzazioni sociali cattoliche come Pietro Campilli. All’attività di questo gruppo partecipano tra l’altro anche due elementi destinati ad avere una notevole influenza nella vita del partito, e cioè Guido Gonella, direttore della “Illustrazione Vaticana” e poi editorialista di politica internazionale sull’ Osservatore Romano” con note critiche nei confronti dell’ideologia e dei metodi di violenza del nazismo, e il giovanissimo Giulio Andreotti, emerso nelle file della gioventù dell'Azione Cattolica. A questo grup-
po sono collegati, in altre città, Umberto Tupini, Paolo Cappa, Adone Zoli, Stefano Iacini.
Nello stesso periodo riprendono contatto gli esponenti del sindacalismo cattolico come Achille Grandi, Giuseppe Rapelli, Giovanni Gronchi, Giulio Pastore, mentre Piero 37
Malvestiti, il quale alla fine degli anni venti aveva organizzato il “movimento guelfo d’azione” (basato sulla condanna del fascismo a cui si contestavano i titoli per presentarsi quale difensore del cattolicesimo e dei principî dell’ordine) dissolto con l'arresto dei suoi dirigenti nel 1933, promuove una serie di incontri a Milano.
Differente l’itinerario che conduce alla Democrazia Cristiana la generazione più giovane (ed in particolare il gruppo che sarà chiamato dei “professorini” per la giovane età dei suoi componenti, prevalentemente docenti universitari): si tratta di uomini che nelle organizzazioni del laicato cattolico o accanto ad essa si sono formati su una linea di autonomia culturale e psicologica che, se per alcuni non ha evitato in una prima fase la adesione al fascismo - visto soprattutto nel suo aspetto corporativista, cioé come com-
posizione programmatica di molteplici e diversificati interessi sociali, come scelta volontarista contro la fatalità delle “legge naturali” dell'economia (e quindi in senso critico nei confronti del liberalismo classico), come contrapposizione al comunismo nella sua duplice veste ideologica (marxismo) ed economica (collettivismo) -, per altri ha signifi-
cato esclusione da qualsiasi compromissione con il regime dominante. Tra questi ultimi assumono particolare rilievo le figure di Giorgio La Pira a Firenze che sulla rivista “Principii” e “San Marco” aveva svolto un lavoro di preparazione eticofilosofica, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati, tutti e tre professori all’Università cattolica di Milano. Elementi quindi di provenienza diversa si trovano accomunati ora nella opposizione alla dittatura declinante: la consapevolezza di un ruolo importante che i cattolici potranno svolgere nel paese si fa sempre più larga e matura man mano che gli eventi militari indicano su quale china pericolosa e senza ritorno è stata avviata la nazione dalla classe dirigente del regime monarchico-fascista. 2. Nell'estate 1942 Malvestiti con Enrico Falck, si reca a Borgo Valsugana da De Gasperi per concretare una azione comune: si decide di stendere un programma per preci-
sare le caratteristiche della nuova formazione politica: la denominazione scelta, “Democrazia Cristiana”, in luogo della riassunzione della sigla PPI, indica - come poi specifica De Gasperi - la volontà di superare tutte le polemiche che il vecchio partito si portava appresso, nella ricerca di un comune punto di convergenza per quanti, nella linea di valori del cristianesimo, intendevano operare per l’affermazione in Italia di un corso de-
mocratico. Nel 1943, all’approssimarsi del crollo militare, De Gasperi stilerà le “idee ricostrut-
tive della Democrazia Cristiana” che contengono i principî programmatici del nuovo partito, esposti in maniera precisa e dettagliata: libertà politica, democrazia rappresentativa, primato politico del Parlamento, corte suprema di garanzia, rappresentanza degli inte-
ressi professionali in un'apposita assemblea nazionale, controllo sulle fonti finanziarie degli organi di stampa, creazione delle regioni, difesa della libertà delle coscienze, integrità della famiglia, efficacia giuridica del matrimonio religioso, libertà della scuola. Nel campo economico, accesso alla proprietà e tutela del risparmio, partecipazione dei lavoratori agli utili, alla gestione e al capitale dell’impresa nella salvaguardia dell'unità direttiva
dell'azienda, sicurezza per gli operai di avere una propria casa e la possibilità di avviare i figli meritevoli agli studi, rafforzamento nella piccola e media industria e nell’artigianato per garantire l’iniziativa privata e il libero mercato, eliminazione delle concentrazioni industriali e finanziarie, demolizione dei monopoli non dipendenti da cause naturali e 38
tecniche e controllo degli altri monopoli anche mediante gestione associata, graduale trasformazione dei braccianti in coloni e proprietari ovvero in associati alla gestione dell'impresa, limitazione della proprietà fondiaria e riscatto della terra ai contadini mediante il diritto di prelazione, facilitazioni fiscali, riforma del sistema tributario su basi progressive e del diritto di successione, incameramento dei sovraprofitti di guerra e del regime, libertà di associazione sindacale, e affidamento della tutela dei contratti e della soluzio-
ne dei conflitti di lavoro mediante arbitrato obbligatorio ad organizzazioni professionali di diritto pubblico comprendenti tutti gli appartenenti alla categoria. Sul piano internazionale vengono richiamati i principî esposti dal Pontefice, e quindi dichiarazione dei diritti e dei doveri della Nazioni, autodecisione dei popoli, limitazioni alla sovranità statale, disarmo progressivo e controllato dei vinti e dei vincitori, graduale eliminazione dei protezionismi, libertà d’emigrazione, equa ripartizione delle materie prime.
Nello stesso periodo viene redatto da un gruppo composto tra l’altro da Giuseppe Brusasca, Enrico Fack, Stefano Iacini, Achille Grandi, Giovanni Gronchi, Piero Malve-
stiti, Luigi Meda il cosiddetto “programma di Milano” nel quale il richiamo alla “ispirazione cristiana nell’attività dello Stato e nella vita nazionale” rivela - rispetto al “lievito cristiano” quale fermento di tutta la vita sociale, indicato nelle “idee ricostruttive”, - una accentuazione della presenza di valori da imprimere direttamente nello Stato, affidando ad esso un ruolo preciso, anche in riferimento agli accenni sulla funzione della scuola in-
tesa come integrazione di quella della famiglia, alla normativa prevista per il mondo del lavoro e per l’organizzazione sindacale (per la quale si prevede un carattere di natura pubblica), mentre più viva appare nel filone degasperiano l'esigenza di una azione da svolgere nella società pluralista e quindi, in senso lato, democratico-liberale. Nel documento romano non si parla del trattato del Laterano - richiamato invece nel programma di Milano, come sostanzialmente intangibile, anche se non si esclude una eventuale modi-
fica concordata tra le parti - ma di piena libertà della missione della Chiesa. Negli articoli su “Il Popolo” diffuso clandestinamente a Roma - a firma Demofilo (cioè De Ga-
speri) - vengono precisate le linee distintive del partito sul piano politico e nei confronti della Chiesa. L’eliminazione delle eccessive concentrazioni di ricchezze, l’irrobustimento
della piccola proprietà mediante riforme nel settore agricolo ed una nuova politica industriale, l’azione di un partito “realizzatore”, al “centro”, “fra l'ideale e il raggiungimento,
fra l'autonomia personale e l’autorità dello Stato, fra i diritti della libertà e le esigenze della gestione sociale”, il partito quale “strumento organizzativo” sono punti salienti dell’orientamento d.c.. Si legge anche: “E come per noi democratici cristiani lo Stato è l’organizzazione politica della società, ma non di tutta la società, così il partito è un organismo limitato che non ha da proporsi di fare o innovare in tutti i campi, perché è consapevole che altri organismi sociali agiscono nello stesso tempo e nello stesso spazio su diversi piani; al di fuori e al di sopra, come la società religiosa, cioè la Chiesa con le sue forze spirituali e organizzative (Azione Cattolica), al di sotto, come le società scientifico-cul-
turali e le società economiche. Ed ecco anche perché pur confessandoci debitori verso i principî di rinnovamento civile, insegnatici dalla scuola cattolico-sociale, noi evitiamo dichiarazioni esibizioniste, che paiono metterci sullo stesso piano di recenti esperienze o proclami, sfruttatori del cattolicesimo come strumento di governo, o possano darci l’a-
ria di vantare o pretendere sul terreno delle attuazioni politiche la rappresentanza, uffi-
cialmente delegata di tutti i cattolici italiani”. Un discorso che, con preveggente visione,
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pone la DC al “centro” dello schieramento politico, un centro non inteso come mera collocazione parlamentare, quanto punto di riferimento tra differenti esigenze. 2. Pochi giorni prima del 25 luglio 1943 si erano dati convegno a Camaldoli, ad iniziativa dell’Istituto Cattolico Attività Sociali (ICAS) e del movimento laureati cattolici
(che nel gennaio dello stesso anno aveva tenuto a Roma un congresso pronto a raccogliere l’eco suscitata dal significativo radiomessaggio pontificio del 24 dicembre 1942), una trentina di studiosi laici ed ecclesiastici per approfondire i temi della questione sociale dal punto di vista dei cattolici. L'incontro servì ad uno scambio di opinioni e a gettare le basi dell’elaborazione che nei mesi successivi porteranno alla definizione di un documento, che sarà pubblicato solo nel 1945 noto, sulla falsariga del Codice di Malines,
come “codice di Camaldoli” e che indica i “principî fondamentali per un ordine sociale cristiano”. Il documento si richiama ai principî di diritto naturale e indica nel giusto salario, nella partecipazione dei lavoratori all’attività organizzativa dell’impresa, nella fun-
zione sociale della proprietà dei beni produttivi, i caratteri di una rinnovata presenza cattolica nella vita sociale nel tentativo di conciliare esigenze economiche e tutela del lavoro: risente di una impronta neo-tomista ed esprime nel campo sociale, la tendenza verso una politica basata sulla collaborazione tra imprenditori, tecnici ed operai, in una vi-
sione che pone l'accento più sugli aspetti produttivi e di gestione della vita economica che non sul contenuto della lotta sociale; la stessa opzione democratica è inquadrata in un allargamento della base della società e nel riconoscimento della esigenza di un moto di evoluzione dei lavoratori; il “codice” può essere considerato più una dichiarazione di intenzioni per l'affermazione di una società “ cristiana” che non la piattaforma programmatica di un partito operante nella composita realtà sociale. Già dalla primavera ‘43 uomini rappresentativi della D.C. partecipano - con esponenti degli altri partiti antifascisti - alle iniziative di gruppi che cercano di individuare e di indicare al paese le prospettive di una azione politica di fronte al tragico succedersi di eventi e non mancano in particolare a Roma di prendere contatti con le forze disposte ad operare per accelerare la caduta del regime (una preclusione nei confronti dei rapporti con i comunisti cade dal momento dello scioglimento del Comintern e quindi della autonomizzazione dei partiti comunisti nelle singole nazioni). La seduta del gran consiglio del fascismo, il colpo di stato della corona ed il conferimento della carica di capo di governo a Badoglio creano una situazione che la D.C. e gli altri partiti democratici di opposizione affrontano con la consapevolezza delle estreme difficoltà determinate dalle sconfitte militari e dalla via prescelta dalla monarchia nel tentativo di uscire dal baratro. 3. Così quando, subito dopo il 26 luglio, si costituiscono i comitati dei partiti di opposizione, la D.C. è presente sia al centro che in periferia ed è pronta a svolgere un’azione politica e di propaganda. Mentre in Italia settentrionale viene diffuso il “programma di Milano”, a Roma il 30 luglio si mettono all'opera un organismo centrale e provvisorio (composto tra l’altro da De Gasperi, Spataro, Gronchi, Pastore) e tre commissioni di studio rispettivamente per i problemi costituzionali, economici ed industriali, con l’incarico di rielaborare e diffondere le “idee ricostruttive” e di indicare soluzioni per le più gravi questioni che si presentano al paese. All'indomani dell’armistizio e della fuga del re e di Badoglio, il 9 settembre la D.C. prende parte a Roma alla costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale (v. / liberal) che lancia un appello al paese per la lotta con40
tro i tedeschi e contro ogni conato di revivescenza fascista: nel Comitato Centrale il partito è rappresentato da De Gasperi, Spataro e Gronchi. È presente quest’ultimo quando il 16 ottobre il Comitato approva un o.d.g. nel quale si chiede la formazione di un governo straordinario - espressione delle forze contrarie al fascismo e alla guerra nazista dotato di tutti i poteri costituzionali ed il rinvio della soluzione della questione istituzionale al termine della guerra condotta a fianco degli Alleati. La D.C. si oppone però nei mesi successivi ad ogni iniziativa diretta a spostare su una linea “rivoluzionaria” l’atteggiamento del C.L.N.; in particolare De Gasperi vuole evitare ogni pronunciamento sulla questione istituzionale. Durante l'occupazione tedesca a Roma la D.C. è presente con una organizzazione capillare guidata da M. Scelba, con “Il Popolo” clandestino di-
retto da G. Gonella e con il giornale giovanile “La Punta” diretto da G. Tupini. In Sicilia intanto il partito si costituisce sin dal settembre 1943 ed il Comitato regionale pubblica un manifesto nel quale si espone un programma fondato sulla libertà economica, sulla collaborazione tra le classi e contrario ad ogni conato rivoluzionario. Inoltre si auspica l’istituzionalizzazione della rappresentanza degli interessi e si prende posizione contro il nascente “separatismo” isolano. Nel resto dell’Italia meridionale la estrema confusione della vita civile nelle gravi condizioni provocate dal passaggio della guerra e degli eserciti Alleati, il riemergere di notabili pre-fascisti, la frammentazione degli stessi gruppi che si richiamano alla D.C., rendono più difficoltosa la crescita del nuovo partito, il quale tuttavia, dopo aver tenuto a
Bari il suo primo congresso del Mezzogiorno (27 gennaio 1944), partecipa dal 28 al 30
dello stesso mese al congresso dei partiti antifascisti nel capoluogo pugliese distinguendosi con posizioni ben definite che permettono ad esso di porsi come elemento mediatore rispetto alle spinte più avanzate espresse dai rappresentanti ndei C.L.N. delle zone ancora occupate dai tedeschi e che tendono a proclamare la decadenza della monarchia e la formazione di un governo provvisorio straordinario: il congresso di Bari accetta la proposta d.c. per il rinvio della soluzione della questione istituzionale, chiede l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e la costituzione di un governo dotato di pieni poteri, com-
posto dai rappresentanti dei partiti antifascisti e si conclude con la formazione di una giunta esecutiva dei partiti del C.L.N. In Sardegna Antonio Segni rappresenta la DC nel Congresso dei partiti antifascisti tenuto ad Oristano nel febbraio ‘44. Il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell'URSS e il rientro in Italia di Togliatti preparano quella svolta di Salerno (v. / comunisti) che rappresenta in sostanza l’accettazione da parte del CLN di una posizione mediana nell’urto tra le divergenti richieste delle sue componenti, con il rinvio della questione istituzionale ad una Costituente da eleggere dopo la fine della guerra e per la concentrazione degli sforzi nella lotta contro tedeschi e fascisti e quindi pieno appoggio alle forze alleate con la presenza attiva di un esercito italiano e delle formazioni partigiane, nonché la formazione di un governo transitorio. E tale linea risponde più delle altre posizioni sostenute nell’alleanza democratica alle necessità proprie della DC intesa quale partito intermedio nell’arco delle forze sociali e politiche del paese. Nel governo (che si forma a fine aprile 1944) risultante dal compromesso tra Badoglio ed i partiti dei CLN - primo ministero nella storia dell’Italia in cui forze liberali, cattoliche e d’ispirazione marxista sono congiuntamente presenti - la DC ha un ministro senza portafoglio (G. Rodinò) e il Ministero dell’interno (S. Aldisio) mentre R.A. Jervolino che, come esponente dell'Azione cattolica si era aper41
tamente opposto dopo il Concordato alla pretesa fascista di monopolizzare l'educazione della gioventù, diviene sottosegretario all'Istruzione. La stipulazione ai primi di giugno 1944 del patto di Roma per l’unità sindacale tra democratici cristiani (per i quali firma A. Grandi), socialisti e comunisti costituisce una affermazione unitaria per la difesa degli interessi dei lavoratori e può essere considerata la conseguenza, da un lato, della comune posizione in cui i lavoratori vengono a trovarsi di fronte ai gravi eventi della disfatta militare, dell'occupazione militare tedesca, della
lotta antifascista, dall’altro della consapevolezza che le differenziazioni dei lavoratori sul piano ideologico e partitico non escludono il riconoscimento degli interessi solidali del mondo del lavoro contro gli interessi del capitale. Con l’arrivo degli Alleati a Roma (4 giugno) si realizza la condizione per il passag-
gio dei poteri regî alla Luogotenenza: i partiti del C.L.N. chiedono ed ottengono di formare il governo - comunque subordinato al beneplacito del governo militare alleato - i cui componenti giurano non più fedeltà al re ma di esercitare le loro funzioni nell’interesse supremo della nazione. I ministri d.c. sono De Gasperi, Tupini e Gronchi. Il nuovo governo, presieduto da Bonomi, conferma che dopo la liberazione del territorio nazionale, il popolo eleggerà un'assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato, anche se i dirigenti della D.C. sostengono l'opportunità di una diretta pro-
nuncia popolare sulla questione istituzionale, precedente o contemporanea alle elezioni per la Costituente. Si può datare da questo momento la riorganizzazione vera e propria della D.C. e l’indicazione di una linea politica - caratterizzata dalla guida di De Gasperi - di prudenza e di moderatismo sui punti più delicati, anche in corrispondenza alle molteplici spinte che si muovono nella D.C., e nel contempo di fermezza quando sono in gioco le posizioni di maggiore importanza per il partito (riguardanti la libertà di coscienza e di manifestazione del pensiero nonché il mantenimento dell’assetto privatistico della società nel riconoscimento di indilazionabili istanze sociali).
La ricongiunzione di Roma con il Sud consente di tenere a Napoli un convegno interregionale (29-30 luglio 1944) nel corso del quale viene eletto il primo Consiglio Nazionale: si afferma una maggioranza di dirigenti ex popolari (con De Gasperi segretario,
Scelba vice segretario, Aldisio, Spataro e Gronchi componenti della segreteria e Gonella direttore de “Il Popolo”) mentre si fa luce una corrente repubblicana (D. Ravaioli, A. Canaletti Gaudenti).
In questa fase il partito riesce a convogliare presso di sé la maggior parte dei cattolici impegnati sul piano politico (rimanendo all’estrema destra - del tutto marginale - il
Centro politico italiano, promosso a Roma dall’avv. Carlo D'Agostino, su posizioni legittimiste - monarchiche), mentre il Partito Cristiano Sociale, si distingue per una intensa attività nel periodo clandestino, dando un notevole contributo alla propaganda e alla resistenza armata specie in Toscana, e per una chiara individuazione dei caratteri autonomi di un partito rivolto all’affermazione di una linea socialista (nel rifiuto dell’interclas-
sismo, capitale e lavoro nelle stesse mani) ma non marxista: non troverà però spazio se non in gruppi ristretti, specie giovanili; il suo leader, Gerardo Bruni, sarà eletto alla Costituente e il partito sopravviverà sino agli anni cinquanta. Sul piano ideologico-politico rilievo ha, malgrado l'esiguità del numero dei suoi componenti, l’esperienza del movimento dei cattolici comunisti che, attraverso Franco Rodano, Felice Balbo, Adriano Ossicini, Mario Motta ed altri studiosi, contribuisce a de-
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finire, prima della caduta di Mussolini, una netta posizione antifascista nell’ambito dei
giovani cattolici (il periodico “Voce operaia” avrà larga eco a Roma), sostenendo la possibilità di distinguere tra marxismo come metodologia della azione politica ispirata al materialismo storico (che viene accettato) dal marxismo come filosofia del materialismo dia-
lettico che viene rifiutato. Nella speranza di pervenire ad una chiarificazione concettuale, il movimento si trasforma in Partito della sinistra cristiana: in seguito molti suoi mi-
litanti entreranno nel PCI quando questo definirà la sua linea di “partito nuovo” nel quale si può entrare sulla base dell’accettazione del programma e non per l'adesione a una
particolare filosofia o cultura politica (com'era in precedenza e come resterà per altri partiti comunisti).
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4. De Gasperi, che già commentando un discorso di Togliatti aveva precisato come la D.C. non pretendesse identificarsi con il movimento di tutti i cattolici italiani ma essere espressione di quanti intendono ispirare la democrazia ai principî dell'etica cristiana, in un discorso al Brancaccio (23 luglio) precisa la posizione del partito, le differenziazioni con le altre forze e la disponibilità a percorrere con queste “un aspro cammino” per il riscatto del popolo italiano. L’accenno contenuto nel discorso al “genio di Stalin” - che sarà a lungo rimproverato a De Gasperi dall'estrema destra - è indice di uno stato d’animo che vede nello sforzo congiunto delle forze antifasciste interne ed internazionali un elemento positivo sulla strada della pace (si guardi al richiamo a “un altro proletario anch'Egli israelita come Marx” che “duemila anni fa fondò l’Internazionale basata sull'eguaglianza, sulla fraternità universale, sulla Paternità di Dio”) e che rispecchia la spe-
ranza - presto delusa - di una collaborazione tra le potenze vincitrici. Nel rispondere ad una lettera di Togliatti in cui si auspica la più stretta collaborazione tra i partiti antifascisti e si assicura il pieno rispetto della libertà religiosa, De Gasperi osserva che il rispetto di tale assicurazione è la condizione per una proficua collaborazione: solo così potrà realizzarsi un'azione politica capace di dissipare ogni timore sui problemi della libertà, specie in riferimento ad episodi di intolleranza verificatisi a danno di democristiani in ambito sindacale.. Il Consiglio Nazionale (settembre 1944) riconferma la linea di difesa della piccola
proprietà contadina e di affermazione delle autonomie regionali e comunali. Nei mesi successivi la coesione tra i partiti governativi viene meno per le spinte divergenti che muo-
vono le diverse forze: la D.C. accusa - e continuerà a farlo fino al 1947 - i partiti di sinistra, compartecipi delle responsabilità ministeriali, di non favorire con le critiche sul-
la stampa e nelle piazze l’azione condotta dal governo. Il suo atteggiamento mira a evitare scelte affrettate in attesa che l’allontanarsi del clima infuocato della guerra possa favorire soluzioni più meditate e meglio rispondenti a quegli interessi moderati e a quelle posizioni politico-sociali connaturati al ruolo e all'anima della DC. Le dimissioni del primo Ministro Bonomi rimettono in discussione le funzioni del C.L.N.; la DC si trova a contrastare le tesi (in particolare del partito d’azione) che tendono a conferire ai comitati il massimo dei poteri. L'adesione del PCI alle posizioni di Bonomi che forma il suo secondo ministero (a cui restano estranei PSIUP e azionisti)
rafforza indirettamente la presenza D.C. al governo, anche per il conferimento a De Gasperi del portafoglio degli Esteri, di particolare rilievo per il peso dei rapporti con gli AIleati quali forze occupanti ed in vista del trattato di pace. E per tutto il 1945 si svolgerà una vivace polemica con i socialisti: Nenni afferma che le esitazioni della DC di fronte 43
ai grandi problemi del paese (a cominciare dalla questione istituzionale) giocano a favo-
re della reazione. Preoccupazione costante di De Gasperi è assicurarsi che la sua linea non crei spaccature nel mondo cattolico e che pertanto possa essere accettata dalla Chiesa. La DC non può collocarsi laddove alcune sue ali ed i partiti di sinistra vorrebbero sospingerla, giacché in tal caso correrebbe il rischio di lasciare uno spazio vuoto a destra, che altri coprirebbe, con danno dell’indirizzo democratico dell’insieme del movimento.
È una prudenza calcolata che mira a legare al nuovo ordine che si va affermando il maggior numero di consensi all’interno del mondo cattolico: lalegittimazione della D.C. come partito unitario dei cattolici dipende dalla sua capacità di legare a sé tutte le forze cattoliche operanti nel paese. Quale polo di attrazione di uno schieramento largamente presente nella società italiana, la D.C. può sperare di convogliare su di sé anche settori ed interessi compositi nella vivacità della dialettica sociale e politica che viene svolgendosi in questi anni. Al fine di conseguire tali risultati vengono messi in pratica moderazione di toni e rispetto per le diverse posizioni in un processo di graduale assorbimento di tutte le energie disponibili. Questo lungo cammino - che dirigenti raccolti intorno a De Gasperi compiono con chiara responsabilità dei termini della contesa sociale (programma di rinnovamento nel quale possono riconoscersi contemporaneamente forze imprenditoriali e del lavoro) e dei limiti obiettivi (internazionali ed economici) e soggettivi (posizione della Chiesa) - trova diffidenza in settori laicisti, democratici e socialisti mentre viene apprezzato dal PCI, che vede con favore un grande partito cattolico di massa
farsi garante della svolta democratica nella vita del popolo italiano. La minore celerità della D.C. rispetto ad altri partiti nel suggerire soluzioni politiche dipende dalla necessità di tener conto di una gamma di posizioni differenziate, dal rifiuto - da parte della sua classe dirigente - di indicazioni non ancorate ad una realistica valutazione delle forze in gioco; appare quindi meno ricca di slanci e di voli utopistici, anche se ad essa affluiscono, in questa fase, giovani sorretti da ideali di rigoroso im-
pegno morale. In varie zone del paese notevoli forze economiche e della borghesia media si orienteranno verso la D.C., soprattutto dal periodo primavera-estate 1945, quan-
do il ricongiungimento tra Nord e Sud rivela in termini concreti sia la consistenza del blocco delle sinistre sia la possibilità che ha la D.C. di raccogliere su una piattaforma democratica energie e forze provenienti dai diversi strati sociali, decisamente ostili a favorire l'avvento di un regime comunista. È oggetto di dibattito storiografico quando e in quale misura la Chiesa abbia “scelto” la D.C.: certamente i risultati organizzativi conseguiti, la capillarità della sua presenza nel paese, il programma moderato e la tattica di De Gasperi offrono all’autorità ecclesiastica una garanzia che si rivelerà sempre più sicura, e pertanto l’adesione del mondo cattolico e l’appoggio della rete parrocchiale e dell'Azione Cattolica sarà crescente. Nello stesso tempo la D.C. si presenta - proprio per le sue caratteristiche - come una garanzia per le forze economiche che vogliono una “ricognizione” del loro ruolo e può così porsi come perno del blocco moderato. La partecipazione d.c. alla resistenza nell’Italia centro-settentrionale si sostanzia sia nelle 181 brigate partigiane (per effettivi numerici da 60 a 80 mila uomini, con circa 2 mila caduti) sia nella presenza del CLN di Milano (prima con A. Marazza e A. De Gasperi, poi con Brusasca) ed in altre regioni (A. Salizzoni a Bologna); sul piano militare E. Mattei sarà vice comandante del CVL e P.E. Taviani avrà un ruolo di primo piano nella 44
liberazione di Genova dai tedeschi due giorni prima dell’arrivo degli alleati (sarà in se-
guito presidente del Corpo Volontari della Libertà).
5. L'ascesa nel dicembre 1945 di De Gasperi alla guida del governo - la sua candidatura presentata nel giugno aveva incontrato l'opposizione dei partiti di sinistra che gli avevano preferito F. Parri quale esponente dei partigiani del Nord - dopo le dimissioni provocate dall’atteggiamento assunto dai liberali diretto al raffreddamento delle spinte rinnovatrici più avanzate emerse nella lotta di liberazione trova l'appoggio del PCI, preoccupato di bloccare uno spostamento dell’equilibrio a destra e teso a mantenere un collegamento stretto con il partito che si presenta - verso il mondo cattolico - garante del nuovo ordine politico. Mentre si scioglie il partito della Sinistra cristiana (alcuni esponenti, come F. Rodano, confluiranno nel PCI altri come F Balbo e A. Ossicini manterranno una linea auto-
noma), l'assunzione per la prima volta delle massime responsabilità politiche conferma il ruolo determinante cui la D.C. è chiamata nel paese nella delicata fase di avvio al referendum istituzionale, che viene fissato per il 2 giugno ‘46 e contemporaneamente alle
elezioni per la Costituente, secondo la proposta del liberale Cattani e condivisa dalla D.C. onde rimettere direttamente al popolo una scelta che minacciava di dividere la nazione. Tale decisione consente al partito di raccogliere i consensi dei ceti conservatori nel Sud favorevole al mantenimento della monarchia senza esporsi con una pronuncia netta, come gli rimprovererà Nenni, anche se la maggioranza degli iscritti al partito (oltre 500 mila su 836 mila) si dichiara per la repubblica nel referendum interno, il cui esito viene annunciato nel I Congresso nazionale. Questa assise (Roma, 24-27 aprile) rappresenta un
momento fondamentale per la vita del partito. La relazione di G. Gonella sui problemi costituzionali indica un modello di valori (la libertà come espressione dei diritti naturali) cui ispirare l’azione politica per l'edificazione del nuovo Stato, visto come garante della persona sul piano civile e sociale. Le elezioni per il consiglio nazionale e all’interno di questo per la segreteria confermano la leadership De Gasperi-Piccioni, e la presenza di esponenti ex popolari e di nuovi elementi filtrati attraverso l’esperienza della resistenza armata (la Sezione stampa e propaganda viene affidata a Dossetti che chiama a collaborare A. Fanfani).
ng
Come già le elezioni amministrative nella primavera avevano indicato, il voto del 2
giugno, mentre consacra la caduta della monarchia, segna l'affermazione della D.C. come partito di maggioranza relativa (35 per cento dei suffragi). De Gasperi nelle arroventate giornate della proclamazione della Repubblica svolge efficacemente funzioni di moderatore e di garante nel delicato trapasso istituzionale, ed assume per pochi giorni le funzioni di capo provvisorio dello stato, carica alla quale viene poi chiamato E. De Nicola, dal quale il segretario della D.C. ha l’incarico e riesce a costituire il nuovo governo
- formato con PCI, PSI e PRI - assumendo anche l’Interno e, sino alla conclusione della conferenza di Parigi, gli Esteri.
AI consiglio nazionale (settembre ‘46) De Gasperi cede la segreteria a Piccioni: si ha però una prima manifestazione di dissenso da parte della sinistra democristiana - raccolta attorno a Dossetti e distinta del gruppo facente capo a Gronchi (“Politica Sociale”) - che
abbandona la direzione e si fa portavoce di una “chiarificazione” nei confronti della collaborazione con i comunisti, criticata anche dai sindacalisti cattolici. In effetti questi gruppi tendono a spostare l’attenzione della D.C. verso i problemi sociali e economici e ri45
tengono che il partito abbia in sé gli elementi per “correggere” la metodologia d’intervento governativo, senza assoluta necessità dell'apporto dei movimenti d'ispirazione marxista. Prende consistenza anche una posizone di destra nel partito (S. Iacini) che trae
motivo dal successo qualunquista alle elezioni amministrative di Roma per sollecitare la rottura della “collaborazione” con i comunisti anche per mantenere i ceti medi nell’ambito della D.C., ed in tal senso presto si indirizzerà lo stesso De Gasperi. La mozione di sfiducia Lazzati al successivo C.N.(9-15 dicembre) invece si colloca
in segno di orientamento diverso ed è considerata l’atto di nascita della corrente della sinistra dossettiana, la quale nel maggio successivo inizierà le pubblicazione di “Cronache sociali”, rivista destinata ad avere un peso considerevole nella formazione dei quadri di-
rigenti del partito. Taviani e Ceschi vengono nominati vice segretari. Al ritorno dagli Stati Uniti di De Gasperi - la cui posizione ed il cui prestigio si va rafforzando sia a livello internazionale che a livello interno - la crisi di governo conseguente alla scissione del PSIUP si conclude per il momento con il mantenimento della collaborazione con PCI e PSI, ritenuta ancora necessaria da De Gasperi sia per una assunzione collegiale di responsabilità in vista del trattato di pace (parigi, 10 febbraio) sia per non rompere la coa-
lizione prima della definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa nella Carta Costituzionale. Ottenuto dalla Costituente l'inserimento dei patti lateranensi stipulati da Mussolini nella nuova carta repubblicana con il voto favorevole dei comunisti (auspice Togliatti che convince anche i suoi compagni riottosi) e il voto contrario degli altri partiti laici
e dei socialisti, la DC prepara la rottura dello schieramento unitario governativo: De Gasperi infatti ritiene di aver trovato sufficienti appoggi internazionali per sfidare i comunisti, ponendo il problema del ruolo che non può non svolgere, nella situazione di un'Italia che deve riprender slancio produttivo e consolidarsi finanziariamente, il “quarto partito”, cioè le forze dell'economia. La D.C. chiede esplicitamente l'allargamento della ba-
se governativa, ma in effetti mira a restringerla escludendo il PCI nonché il PSI che del primo segue fedelmente la politica. Dopo le dimissioni di De Gasperi, il capo dello Stato incarica il vecchio presidente Nitti, al quale però proprio la D.C. rifiuta il sostegno perché in effetti ha compreso che solo essa potrà infine formare il nuovo ministero. E così infatti si svolge l'operazione con il reincarico a De Gasperi, il quale costituisce un governo comprendente oltre alla D.C. solo i liberali, con Einaudi vice presidente e titolare dei due dicasteri finanziari. Potrebbero sussistere incertezze su come riuscire a trovare la maggioranza in Parlamento, ma a questa contribuiscono con il loro numero, ristretto ma determinante, i de-
putati dell'Uomo qualunque - sospinti dall’armatore Lauro contro la volontà di Giannini -, soddisfatti che De Gasperi si sia liberato dei partiti di estrema adottando le loro tesi che trovavano crescenti consensi nell’elettorato medio. È una svolta che non rompe tuttavia la cooperazione in atto per la elaborazione della nuova carta costituzionale, alla quale i deputati cattolici danno un significativo apporto
nel far passare una serie di punti, specie per la parte relativa ai rapporti civili, etico-sociali ed economici, derivati dai diritti naturali di matrice della scuola sociale cristiana, in particolare con gli interventi di Dossetti, La Pira, Fanfani e Moro su una linea su cui pos-
sono convergere sia i comunisti che i sostenitori della scuola democratico-socialista. Si viene configurando così il nuovo assetto istituzionale nel quale prevale, per la parte relativa all’organizzazione dello Stato e all’equilibrio dei poteri, una logica risalente alla tra46
dizione liberal-occidentale con una prevalenza al ruolo del Parlamento, mentre nelle altre parti si dà largo spazio a principî di rinnovamento civile, politico ed economico, “avanzati” rispetto alla situazione reale del paese. La ratifica del trattato di pace (si oppone ad essa, nel governo, il solo Scelba, invita-
to però a ritirare le dimissioni onde evitare complicazioni) e lo sgombero definitivo delle truppe alleate dal territorio nazionale (salvo Trieste), si accompagna con la scelta de-
flazionista in politica finanziaria che sarà proseguita da Einaudi anche nel successivo governo De Gasperi, formato in dicembre con la partecipazione dei leaders del PSI Saragat e del PRI Pacciardi: una linea che - a prezzo di gravi sacrifici, particolarmente one-
rosi per la classe lavoratrice - consente la stabilizzazione della lira. Il governo affronta le conseguenze di una politica selettiva del credito che provoca minore disponibilità per le imprese e quindi licenziamenti: ma ormai la D.C. ha scelto di spostarsi apertamente su un terreno di restaurazione economica, che in breve tempo darà risultati positivi permettendo così ai partiti di governo, in concomitanza anche con la situazone internazio-
nale, di avvantaggiarsene. 6. La prova offerta ai ceti medi di aver saputo frenare l’inflazione contribuisce a diffondere nel paese una sensazione di stabilità che lo schieramento moderato dimostra di poter assicurare. A ciò si aggiunge, in vasti settori, il timore di un’affermazione del co-
munismo, specie dopo la presa del potere dei partiti comunisti nei paesi soggetti all’orbita sovietica, come emerge in particolare nel marzo ‘48 con i fatti di Praga quando il
ministro degli esteri socialista viene “defenestrato”, e il suo partito costretto a fondersi con il locale partito comunista, che assume di fatto tutti i poteri. Ne consegue un impegno eccezionale nella campagna elettorale, messo in atto, oltre che dalla DC, dai Comi-
tati Civici, costituiti ad iniziativa del presidente delgi uomini di Azione cattolica, prof. Luigi Gedda, e dalle organizzazioni parrocchiali che, diffuse capillarmente, sono in grado di influire su vaste masse popolari. I metodi messi in atto durante questa campagna
saranno a lungo oggetto di critica. Interventi di vario genere certamente vi furono, a cominciare dalle pressioni sull’elettorato da parte degli organi degli Stati Uniti attraverso sollecitazioni al voto contro i comunisti e minacce d’interrompere gli aiuti - dei quali il popolo italiano aveva già beneficiato sia in termini di rifornimenti alimentari sia dei primi mezzi finanziari a disposizione dell’economia italiana - oltre alle elargizioni inviate direttamente a forze ed associazioni sicuramente anticomuniste (ed erano state studiate in USA anche eventuali iniziative militari nel caso di vittoria dei comunisti), ma questi fat-
tori non sarebbero stati sufficienti a determinare la grande vittoria della DC e la cocente sconfitta del fronte egemonizzato dal PCI se non si fosse sponteamente rivelata nel paese una larga volontà, ampiamente maggioritaria, di evitare, dopo il fascismo, quella che si presentava come una eventuale, più dura dittatura. Il successo elettorale della D.C. è infatti travolgente: 48% dei voti e maggioranza assoluta dei deputati eletti alla Camera e 54% al Senato, un risultato rilevante a livello europeo e per gli Stati Uniti che tra l’altro pochi giorni prima del voto avevano emesso una dichiarazione comune con Gran Bretagna e Francia nella quale si riconoscevano i diritti italiani sul territorio triestino, occupato ai primi di maggio ‘45 dalle truppe jugoslave di Tito e poi sottoposto all’amministrazione britannica, ma la cui sorte era restata insoluta nel trattato di pace. Si registra così un concorso di cause che porta alla lista dello scudo crociato larghi consensi di elettori - soprattutto donne, sulle quali ha influenza la re47
te capillare stesa da tempo dall’Azione cattolica - anche se tra essi vi sono molti cittadini anche distanti o estranei al programma della DC. Sarà proprio l'ampiezza del successo a generare riserve da parte del gruppo dossettiano di “Cronache Sociali”, che teme eccessive ingerenze di forze che hanno contribuito alla vittoria in proporzioni più ampie del peso effettivo della parte cattolica nel Paese e che potrebbero spingere verso direzioni non rispondenti alle istanze sociali del partito. Ma la preoccupazione principale di De Gasperi è adesso quella di mantenere la collaborazione con i partiti alleati, come si rivela sia nella scelta del presidente della Repubblica (all’iniziale proposta a favore del repubblicano Sforza, osteggiata dai gruppi parlamentari, viene sostituita quella, raccolta dal-
la maggioranza del Parlamento ma non dalle sinistre, del liberale Luigi Einaudi), sia nel-
la conferma della coalizione quadripartita, segno di una volontà disposta a rinunce pur di conservare il sostegno di partiti laicisti e di tradizione risorgimentale. Nel mese di luglio la risposta della base comunista all’attentato a Togliatti (vedi / comunisti) indica un persistente grado di combattività, la presenza di gruppi organizzati del PCI in grado di operare fuori dai limiti della legalità, ma nel contempo mette in evidenza la capacità reattiva dell’apparato statale nel difendere le istituzioni, secondo la rigida linea perseguita tenacemente dal ministro dell’interno Scelba, che non esita a disporre anche l’intervento dell’esercito a fianco della forza pubblica per ripristinare la legge, là dove è stata violata, in particolare sull’Amiata ed a Genova. I responsabili di fatti eversivi saranno arestati o processati. Prima e dopo questi eventi Scelba è oggetto di violenti at-
tacchi da parte delle sinistre (ma anche dell’estrema destra, v. MS) per i metodi impiegati dalle forze di polizia. Ma ormai lo scontro interno è soprattutto il rispecchiamento dello scontro a livello internazionale. Infatti, in corrispondenza con l’accentuarsi della “guerra fredda” e della politica stalinista, il problema dei comunisti viene visto dai dirigenti della D.C. come un pericolo da cui “difendere” l'ordinamento democratico senza tuttavia ricorrere - malgrado sollecitazioni in tal senso - a metodi negatori della libertà. La stessa funzione storica della D.C. ha infatti come presupposto la difesa del metodo democratico pluralista e uno spostamento su posizioni di reazione costituirebbe la negazione del ruolo del partito: il gruppo dirigente “centrista” è ben consapevole di tale fatto. Ciò spiega il suo rifiuto ad accedere all'ipotesi di scioglimento del Partito Comunista (come avviene invece in quegli anni negli Stati Uniti e nella Germania Occidentale) che troverebbe, comunque una forte resistenza nell’ambito operaio ed aggraverebbe i problemi del paese, mentre condivide i rigorosi criteri adottati per la politica dell'ordine pubblico nel corso di manifestazioni e scioperi, da cui derivano grandi incidenti. 7.La spaccatura sindacale, con la formazione prima della “libera C.G.I.L.”, e poi della C.I.S.L., indica come la divaricazione sia avvertita nel mondo del lavoro, anche per i comportamenti dei comunisti che considerano il sindacato una “cinghia di trasmissione” delle istanze del partito. Lo sforzo della A.C.L.I. - che si pongono anche esse come
organizzazioni collaterali alla DC - è quello di dare un effettivo contenuto cristiano e sociale alla presenza dei cattolici nei luoghi di lavoro. La capillare organizzazione dei Coltivatori Diretti, guidata da P. Bonomi, d’altronde ha consentito alla DC di trovare nelle
campagne un valido sostegno alle sue posizioni di conservazione e tutela della proprietà privata. La collaborazione con i partiti della coalizione consente di legare alla politica “centrista” le divergenti spinte affioranti nella DC (dalla destra, contraria alle riforme, alla sinistra che “pungola” per iniziative sociali che verranno realizzate solo in parte e di cui co-
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munque le più rilevanti sono l’attuazione del “Piano Fanfani” per la costruzione di case assolutamente necessarie dopo le distruzioni della guerra) e di mediare anche nei confronti delle sollecitazioni esterne (i liberali si oppongono alle proposte agrarie Segni men-
tre i socialdemocratici chiedono la riforma agraria e promuovono “inchieste sulla miseria e la disoccupazione”). In politica estera, superate le illusioni della “pace”, il clima di guerra fredda e la scelta nettamente “occidentalista” portano De Gasperi a favorire l’adesione dell’Italia al patto atlantico verso cui avanzano invece riserve, per i modi della stipulazione e la manenza di proposte alternative, Gronchi (si asterrà nelle votazioni), Dossetti e Del Bo (voteranno contro).
All’interno del partito la gestione Piccioni cerca di impedire la formazione di correnti cristallizzate (a Pesaro la corrente gronchiana di Politica sociale rilancia un programma riformista e la richiesta di collegare le elezioni interne a mozioni) e soprattutto
di frenare l'espansione dei dossettiani, i quali tuttavia riescono a rafforzarsi presentandosi come portatori di istanze rinnovatrici nel campo sociale, anche se nel breve intermezzo della segreteria Cappi - al Congresso di Venezia (2-6 giugno 1944) - insisteranno più sui
temi della efficienza degli organi costituzionali. una direzione omogenea e chiama alla segreteria gruppo di “Cronache sociali”. Altro motivo di attrito è in questo periodo in alcune zone con l’espropriazione delle terre e dal Ministro Segni. Queste proposte provocano
Il successivo consiglio nazionale forma del partito PE. Taviani, proveniente dal
il progetto di riforma agraria da attuare l'assegnazione ai contadini, predisposto il ritiro del governo del PLI e la costitu-
zione del VI Ministero De Gasperi (con PRI e PSDI). I progetti relativi all'assegnazione
delle terre e alle modifiche dei patti agrari sono osteggiati anche da consistenti settori del partito a destra e al centro e ritenuti invece insufficienti da settori della socialdemocrazia, peraltro in continuo movimento a causa della creazione del PSU (con Romita e Si-
lone) tanto che si perviene alla decisione di mandare avanti - pur con l'ostilità di settori moderati - uno “stralcio” di riforma per zone del paese (Maremma, Fucino, Delta Padano, Puglia, Calabria, Sardegna e - con provvedimento a parte - Sicilia). Dopo gli espro-
pri terre verranno redistribuite, in 10 anni, a oltre 200 mila famiglie. L'affidamento nel marzo ‘50 della segreteria a Gonella - con Dossetti vice segretario - vuol essere un tentativo di ricomporre una linea unitaria, ma nei confronti della politica economica del Ministro del Tesoro Pella vengono avanzate linee alternative sia dalla destra del partito, raccolta attorno al circolo della “vespa”, sia dal Ministro del Lavoro Fanfani, preoccupato di assicurare un impiego alle forze di lavoro disoccupate. Queste critiche esprimono una esigenza “produttivistica” disattesa dal governo e condivise sia da altri settori del mondo imprenditoriale che dai sindacati. Nella discussione in seno al partito - anche per la spinta di G. La Pira che in seguito si dichiara portatore dell’”attesa della povera gente” - viene riconosciuta la validità di un maggior impegno contro la disoccupazione: De Gasperi ritiene tuttavia che non possa essere sacrificato il Ministro del Tesoro Pella e alle dimissioni di questi, in seguito ai rilievi mossi dal gruppo parlamentare d.c., fa seguire le dimissioni dell’intero governo.
Il settimo ministero De Gasperi (DC-PRI) vede la riconferma di Pella al Bilancio con il conferimento al Ministro delle Finanze Vanoni dell’interim del Tesoro. Però l'atteggiamento del leader indiscusso della DC in politica economica induce Dossetti a dimettersi dalla vice segreteria e conferma la convinzione nel maggior esponente del gruppo raccolto attorno alla sinistra sociale della impossibilità di realizzare i postulati principali della corrente. 49
Nei confronti della autorità ecclesiastiche il governo ed il gruppo degasperiano hanno un atteggiamento di autonomia: le loro scelte corrispondono a linee di fondo che la Chiesa non può non apprezzare, ma sono frutto di libere determinazioni. Il partito tie-
ne alla salvaguardia della sua sfera di azione rispetto a quella parte dell’Azione Cattolica,
che sotto la spinta di Gedda tende a interferire negli orientamenti politici in senso conservatore (l'atteggiamento dei giovani al contrario solleciterà ulteriori iniziative nel cam-
po sociale). De Gasperi non manca di rivolgersi direttamente a Pio XII per sottolineare come l’unità politica dei cattolici si possa mantenere meglio con uno “schieramento ampio” (per contrastare il “fortissimo schieramento nemico”) anziché con “una specie di laburismo cristiano” che farebbe correre il rischio di ridurre le forze e di isolare la DC. La scomunica della Chiesa nei confronti dei comunisti - “materialisti ed anticristiani” - e di quanti accettano, sostengono e divulgano le loro idee (luglio ‘49) crea un ulteriore motivo di frattura in Italia con ripercussioni anche nella vita privata, soprattutto nei primi anni, quando la grave misura viene applicata rigorosamente, mentre tenderà suc-
cessivamente a pesare sempre meno. 8. La critica interna alla DC mantiene alta la tensione politica e passerà da una contrapposizione di linee ad un tentativo - di cui saranno espressioni la rivista dei gruppi gio-
vanili “Per l’azione” - di approfondimento di motivi culturali come stimolo per una più coerente operatività. D'altronde il venir meno dell’ipotesi dossettiana creava un vuoto nel
partito che Rumor e Taviani cercheranno di colmare promuovendo un raggruppamento - “Iniziativa democratica” (formato da ex dossettiani come Moro e da parlamentari sino ad allora non qualificati sul piano delle correnti) - che, senza mettere in dubbio la lea-
dership degasperiana, dichiara di proporre un’opera di rafforzamento dell’unità del partito e di un più diretto impegno della “seconda” generazione d.c. per “vivificare la coscienza politica dei cattolici italiani”: in effetti sarà un punto di aggregazione per la nuova “ondata” di personale politico che il partito potrà impiegare all’interno e all’esterno. La politica condotta dal governo - per i limiti della incidenza della riforma agraria rispetto alla vastità delle trasformazioni in corso e il tipo della ricostruzione liberal capitalistica in atto - non riesce a portare vantaggi avvertibili per le grandi masse, per tutti quelli che pagano con salari bassi l'avvio del processo di sviluppo dell'economia italiana
(e ciò contribuirà a rafforzare l'opposizione di sinistra) e darà luogo nel Mezzogiorno ad un'estesa protesta, soprattutto da parte di contadini e del sottoproletariato agricolo per le gravi condizioni di vita in cui versano: questi daranno avvio a quell’imponente fenomeno dell'emigrazione verso l’estero e poi, man mano che l'industria cresce, nei centri del settentrione, destinato a diventare un elemento fondamentale nel processo di mutamento della società italiana. Non manca un'opposizione della borghesia agraria nel timore
di espropri e di quella parte di ceti medi che andranno a rinforzare imovimenti di estrema destra in nome di valore nazionalisti (alimentati dalla mancata soluzione della que-
stione di Trieste) e per l’insoddisfazione dell’opera dei governo nel Mezzogiorno. La polemica contro la DC si alimenta in politica interna anche dal fatto che nel corso di agitazioni causate da controversie contrattuali venga impiegata, in maniera massiccia, ostentata e dura, la forza pubblica. Tali interventi, se trovano legittimazione nell’e-
sigenza di tutelare sia la libertà di lavoro per chi non vuole scioperare sia i diritti della
proprietà che si sente minacciata, danno luogo ad un inasprimento del clima sociale già 50
scosso dalle gravose condizioni di vita e di trattamento economico dei lavoratori, oltre che dalla mancanza di lavoro soprattutto nell'Italia meridionale e nelle isole. Ne conseguono gravi incidenti, con numerose vittime (dall’Emilia al Mezzogiorno)
tra scioperanti e manifestanti ma anche tra la forza pubblica. L'opposizione di sinistra indica in questi interventi repressivi una scelta restauratrice, preoccupata di tutelare gli interessi della proprietà e non i diritti del lavoro. Nell'ambito imprenditoriale si verificano (specie in grandi aziende come la Fiat) discriminazioni nelle assunzioni, assegnazioni a reparti di punizione e restrizioni nelle libertà sindacali, nonché negli stabilimenti mili-
tari il licenziamento di appartenenti a partiti di sinistra, tutti atteggiamenti non democratici, tali da impedire l’avvio di corretti rapporti sociali che il lento ma progressivo miglioramento derivante dall’assorbimento di manodopera industriale e dall’ampliamento del terziario potrebbe gradualmente consentire. All’incremento complessivo della produzione fa riscontro l'aumento di profitti (nell'industria, dal ‘50 al ‘55, dell'’86% degli utili distribuiti) mentre i salari reali sono, tra il ‘48 e il ‘55, aumentati solo del 6%. Giustificata preoccupazione del governo è quella di impedire che, di fronte al con-
trasto di classe, si possa determinare, come nel 1920-22 nella pianura padana, il ricorso a forme dirette di difesa e di azione. Il richiamo alla tutela della legge viene però considerata da parte notevole delle masse contadine ed operaie mistificante rispetto al concreto dislocarsi delle strutture sociali e al conseguente atteggiamento del potere in difesa degli interessi più forti. Nella stessa sinistra d.c. si osserverà che la legittima azione per la difesa dei diritti svolta dalla forza pubblica non risolve i problemi che sono all’origine del-
le agitazioni. Stretti rapporti tra De Gasperi - quale leader del partito di maggioranza . e Costa - quale presidente della Confindustria - caratterizzano significativamente la ripresa dell'economia italiana che, basandosi sugli aiuti americani, sull’espansione di nuovi settori a largo consumo, e sul contenimento dei salari, riesce a conseguire notevoli risulta-
ti produttivi, contribuendo a dare inizio ad un considerevole innalzamento nel livello di
vita medio nella società italiana perché anche se ad avvantaggiarsi dell’evoluzione positiva sono in particolare alcuni settori, comincia a registrarsi una serie di allargamenti delle possibilità di consumo di ceti sinora sacrificati. Oggetto di critica sono i criteri restrittivi seguiti dagli organi governativi in materia di censura sulla stampa, negli spettacoli, nello svolgimento delle libertà culturali, nonché per gli espatri diretti in paesi comunisti. In questa azione di protesta si distinguono, per l’incisività delle loro argomentazioni, organi di stampa laici e liberali, i quali cominciano a sollevare, insieme alle sinistre, denunce circa l’affiorare, nella vita politica ed amministrativa, di pratiche clientelari. Lo scandalo dell’Ingic (l’istituto incaricato della gestione delle imposte di consumo corrisponde denaro agli amministratori locali e a quanti altri aiutano ad ottenere la gestione
stessa), colpisce tutti i partiti, e quindi in misura maggiore i partiti, come la DC, più presenti nelle amministrazioni comunali: la magistratura punisce più severamente coloro che hanno tratto un vantaggio personale degli illeciti rispetto a quanti hanno versato le somme alle casse dei partiti. Una singolare interpretazione delle norme che getterà, assieme
ai finanziamenti dell’Eni, le prime ombre sulla correttezza della giovane democrazia ita-
liana.
9. Nel tentativo di mantenere il legame con gli altri partiti di centro e di confermare la maggioranza, il partito si orienta nelle elezioni amministrative per un sistema elet-
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torale - già esperimentato in Francia - che premia i gruppi “apparentati” di maggioranza. Tale apparentamento, mentre costituisce nel Mezzogiorno un chiaro elemento di dif-
ferenziazione del centro rispetto ai monarchici, induce a considerare per Roma - di fron-
te all’eventuale successo di una lista promossa del PCI e dal PSI, guidata da F.S. Nitti e comprendente anche elementi di provenienza laica moderata - la eventualità di una alleanza a destra. È la cosiddetta “operazione Sturzo”. L'ex segretario del P.P.I. - del cui antifascismo non è lecito dubitare - viene incaricato di proporre una “lista civica” comprendente sia la D.C. che la destra. Ciò - anche se consentisse di raccogliere una maggioranza degli elettori - significherebbe rottura con i partiti laici minori e dall’altro atte-
nuazione dei caratteri propri della D.C.. In questo quadro va visto - in connessione con l'atteggiamento del presidente della Gioventù d'Azione Cattolica Carretto, in opposizione al presidente dell'Azione Cattolica Gedda, fautore dell'operazione - l’intervento di De Gasperi, per mantenere il partito nella linea dell’unità dei cattolici (minacciata dalla politicizzazione autonoma dei “Comitati civici”) e nello schieramento centrista, che nella capitale riuscirà faticosamente a conseguire la maggioranza relativa, mentre nel Sud si registrerà una notevole avanzata dei monarchici e del MSI (v.). La constatazione di un complessivo regresso elettorale nel paese pone la D.C. - in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo - nella condizione di effettuare un ripensamento dei propri comportamenti. Gronchi su “Politica sociale” critica l’’involuzione” del partito, basata sull’accettazione del sistema capitalistico sul piano internazionale ed interno, sulla predominanza delle classi abbienti e sulla tendenza ad interpretare
restrittivamente la carta costituzionale e suggerisce, nell’articolo “Torniamo alle origini”, un'azione realizzatrice conforme ai postulati cristiano-sociali dettata dalla Costituzione, cioè l'attuazione delle Regioni, il riordinamento amministrativo dello Stato e la concre-
tizzazione delle garanzie costituzionali. Una tale linea politica dovrebbe favorire - nel disegno del Presidente della Camera - lo “sganciamento “ del PSI dal PCI, di cui sono già evidenti numerose manifestazioni. Tuttavia la risposta della D.C. ai problemi del paese, sotto la spinta della linea De Gasperi-Gonella-Scelba, darà maggior peso alle esigenze anticomuniste. Così, dopo l'approvazione della legge Scelba in attuazione del dettato costituzionale che vieta la ricostituzione del partito fascista e che contribuirà a bloccare tentativi di azioni paramilitari dell’estrema destra, vengono avanti una serie di progetti legislativi, come la cosiddetta legge “polivalente” che prevede misure contro minacce alla libertà provenienti da ogni direzione, considerate dall’opposizione come dirette prevalentemente ad irretire l’attivismo politico delle sinistre, nonché altre proposte in materia di stampa, di attività sindacale e di “difesa civile” considerate nell'insieme come un
tentativo di comprimere la democrazia con il pretesto di “proteggerla”. In questo clima viene proposta una nuova legge elettorale politica, che concede un “premio” al gruppo di partiti dello schieramento maggioritario: l'applicazione del meccanismo consentirebbe un rafforzamento dei partiti minori di centro, il probabile conseguimento da parte della D.C. di quella maggioranza assoluta che ha visibilmente perso nel paese e la riduzione del peso delle opposizioni parlamentari, di destra e di sinistra. In effetti, condizionato com'è, al raggiungimento da parte dei gruppi apparentati, del 50,01% dei voti complessivi, non altera il rapporto tra maggioranza e minoranza se non nelle dimensioni del peso di ciascuna forza, riconnettendosi in ciò a criteri miranti ad ottenere una maggiore
funzionalità del Parlamento, una più sicura stabilità dell'esecutivo, e discostandosi invece dalla legge Acerbo del 1924 che prevedeva un grosso premio di maggioranza alla lista
DR
che avesse conseguito la semplice maggioranza relativa. Tuttavia il significato politico dell'alterazione del peso che lo “scatto” della legge sugli appartamenti potrebbe avere, con-
sentendo alla DC di recuperare quella maggioranza ormai certamente perduta nel paese e di portare avanti progetti ritenuti restrittivi delle libertà predisposti dal governo De Gasperi e non condivisi dalle altre forze della coalizione, il rifiuto della DC di accedere ad una riduzione del “premio” alla maggioranza, provoca una accesa campagna contro quel-
la che le opposizioni chiamano “legge truffa” e la conseguente secessione nei partiti minori di centro, i cui dirigenti invece sono i più decisi sostenitori del discusso meccanismo per il vantaggio che sperano di poterne trarre. L’animatissimo dibattito parlamentare, al termine del quale il Capo dello Stato ritiene di sciogliere, oltre alla Camera per scadenza ordinaria, anche il Senato, dove più forti sono stati i contrasti con dubbi sulla regolarità del voto finale, ha una larghissima eco nel paese. Perciò si avrà una campagna elettorale di inusitata vivacità, che vede schierati contro l’apparentamento DC - PLI - PRI - PSDI, oltre alle opposizioni di sinistra (PCI e PSI, che si presenta questa volta con liste autonome per la Camera) e di destra (PNM - MSI), una serie di gruppi intermedi, tra i quali Unità popolare - fondata da uomini staccatisi dalla socialdemocrazia, insieme
a personalità della cultura (Calamandrei, Codignola, Piccardi, Noventa) e dal PRI (Parri, Zuccarini) - e l'Alleanza Democratica Nazionale con l'economista Corbino, gruppi che se non riescono a portare in Parlamento alcun rappresentante, contribuiranno in maniera
determinante con i loro voti a non far “scattare” il “congegno”. Infatti la D.C. ottiene il 40,1% dei voti, il PLI il 3% il PRI P1,5%, il PSDI il 4,5%; complessivamente i partiti di centro (compresi Sud Tiroler Volks Partei e P. sardo d'azione) hanno il 49,8% senza conseguire - per soli 50 mila voti - la maggioranza assoluta. Altissimo è il numero delle schede contestate e annullate. Il mancato scatto del “premio” di maggioranza costituisce politicamente una grave sconfitta per il gruppo dirigente d.c. e per la linea centrista, ma la conseguente applicazione, ai risultati elettorali, del sistema proporzionale consente - sul piano numerico - ai partiti di centro di mantenere la maggioranza: la D.C., pur fortemente incrinata, recupera rispetto alle precedenti amministrative e rimane perno della coalizione, mentre i par-
titi minori nell’’abbraccio” con la D.C. e nella loro ostinazione per la legge maggioritaria nella illusione di rafforzarsi, restano indeboliti pur diventando arbitri della composizione della maggioranza. D'altro canto il rafforzamento sia delle destre che delle sinistre conferma l’esito contraddittorio delle elezioni del 7 giugno 1953 e gli effetti saranno subito visibili in Parlamento.
10. De Gasperi cerca di riallacciare un discorso con le opposizioni, ed in particolare, esclusa ogni possibilità di accordo con MSI e PCI, si rivolge, anche per sollecitazio-
ne di Saragat, al PSI (con cui potrebbe tentare di avviare un confronto sulle riforme sociali, ma da cui è separato nettamente in politica estera essendo il leader d.c. convinto sostenitore della costituzione di una Comunità Europea di Difesa, avversata da tutte le sinistre) e al PNM (al cui interno il possibilismo di Lauro è contrastato dalla linea di Covelli). I risentimenti provocati all’interno della maggioranza rendono d'altronde impossibile ricostituire subito la coalizione centrista: De Gasperi presenta alla Camera un monocolore, contando sull’appoggio benevolo dei monarchici. E invece battuto (27 luglio 1953). Dopo un tentativo di Piccioni, il Presidente della Repubblica ritiene di affidare il governo al Ministro del Bilancio Pella, il quale costituisce rapidamente un monocoloDO
re - con Fanfani all’Interno - che passa in Parlamento col voto favorevole del PLI, del PRI,
del PNM e l’astensione del PSDI e del MSI. Varato per dare continuità “amministrativa” all’esecutivo, come governo di “tregua” onde, consentire il placarsi dei risentimenti post-elettorali, il ministero Pella si troverà su-
bito di fronte al grosso nodo triestino. La dichiarata intenzione della Jugoslavia di procedere alla annessione della zona B del “territorio libero” provoca la reazione del governo italiano, che sposta truppe alla frontiera. Nel discorso in Campidoglio (13 settembre) Pella rivendica l’italianità dell’intero territorio di Trieste, per il quale chiede un plebiscito internazionale garantito, e dichiara di considerare l'atteggiamento degli alleati atlan-
tici nella questione come un “banco di prova” concreta circa la validità dell’alleanza medesima. Tale pronunciamento induce Tito a rifiutare il passaggio all’Italia dell'amministrazione della zona A, su cui peraltro il Premier inglese Eden aveva già ottenuto affidamenti dalla Jugoslavia. Incidenti a Trieste rendono più acuto il problema sul piano politico: l’atteggiamento di Pella sembra dare spazio nel paese ad una revivescenza di spirito di nazionalismo e nel Parlamento ad una libertà di manovra per il governo in contrasto con i limiti ad esso posti dalla D.C. e significativamente De Gasperi, tornato alla se-
greteria con l’appoggio di “Iniziativa democratica” e il riserbo dei suoi vecchi sostenitori che temono l’avanzata della nuova generazione, parlerà di “governo amico” mentre Scelba (discorso di Novara) non esiterà a proporre direttamente il ritorno al quadripartito. Il tentativo di “rimpasto” mediante l'assegnazione all'Agricoltura di Aldisio, consi-
derato contrario alle posizioni riformiste del partito in materia agraria, non trova il consenso dei gruppi parlamentari (le cui responsabilità sono state assunte rispettivamente da Moro e Ceschi) e porta alle dimissioni di Pella, malgrado il sostegno del Presidente del-
la Repubblica. In questa occasione Einaudi prende posizione, sul piano procedimentale, contro il ruolo prevalente delle segreterie dei partiti nella crisi di governo rispetto a gruppi parlamentari.
11. La designazione di Fanfani per la costituzione del governo da parte dei gruppi parlamentari d.c. apre la strada al tentativo del deputato aretino di dar vita ad un ministero monocolore, il quale però non trova sufficienti consensi alla Camera (vota a favo-
re, oltre la DC solo il PRI). Sarà invece Scelba a rimuovere l'opposizione del PSDI e quindi a ricostituire una maggioranza di centro, sulla cui base rapidamente forma un governo con i socialdemocratici, che ottengono la vice presidenza (Saragat) e i liberali (Mar-
tino va prima all’Istruzione e poi sostituirà Piccioni agli Esteri), con l'appoggio esterno del PRI. Lo “scandalo Montesi” (cioè l'attribuzione ad un figlio di Piccioni di responsabilità in ordine alla morte di una ragazza romana, responsabilità che - a distanza di anni, do-
po vivaci polemiche sulla stampa ed una serie di procedimenti penali, - saranno del tutto escluse dalla magistratura) provoca turbamento per la rivelazione di discutibili costumi di vita in ambienti vicini al potere politico, ben al di là delle singole vicende personali strumentalizzate a danno di organi statali.
L'atmosfera è resa pesante - in corrispondenza con la politica di “containement” di Foster Dulles - dall’indirizzo marcatamente anticomunista del governo, i cui interventi
(politici, finanziari e di polizia) - diretti tra l’altro a comprimere la sfera di azione (anche con sottrazioni di sedi già appartenenti al PNF) dei sindacalisti della CGIL (che subirà una grave sconfitta alla FIAT, dove dopo il successo della CISL e della UIL si farà strada
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un sindacato “giallo” finanziato per togliere spazio ai sindacati confederali) - saranno duramente criticati dall’opposizione di sinistra. Tuttavia la rinnovata coalizione consente chiarimenti sul piano dei rapporti tra i partiti che rafforzano lo schieramento di centro e indeboliscono la destra; la partecipazione liberale alla maggioranza impedisce che si coaguli un ampio schieramento di destra, malgrado questo sia forte nel paese; i monarchici
si scindono; il tentativo della destra d.c. di spostare l’asse politico con la minaccia di costituire un movimento a destra alternativo al partito rientra, e si ha una ripresa di ini-
ziativa da parte dei socialdemocratici. Sono gli anni in cui si avviano significative modificazioni nelle strutture sociali del paese, che da prevalentemente agricolo andrà trasformandosi in prevalentemente industriale, con notevole sviluppo del settore terziario e imponenti migrazioni interne (cfr. il nostro studio “Consolidamento della democrazia).
La D.C. si dedica ad una fase di raggiustamento prima con la segreteria De Gasperi (vice segretario Spataro) tesa a ristabilire i caratteri del partito anche di fronte alle organizzazioni collaterali, poi - attraverso il congresso di Napoli (26-29 giugno 1954) - con
l'assunzione della segreteria da parte di Fanfani (De Gasperi, acclamato presidente del consiglio nazionale, morirà il 18 agosto dello stesso anno), che cercherà (senza successo)
di imprimere al partito una autonomia finanziaria per sottrarlo al condizionamento di gruppi finanziari ed industriali ed una forte spinta organizzativa con l’impiego in posti di responsabilità delle leve della seconda e della “terza generazione” (quest'ultima anzi,
mediante una rivista dall'omonima testata, travaserà l'originale dossettismo in una diretta
applicazione ai problemi concreti). Al congresso di Napoli, accanto alla corrente di maggioranza (comprendente Iniziativa democratica, i cosiddetti “notabili” e la Base) emergono i gruppi di Forze Sociali (Pastore) e di Primavera (Andreotti) mentre si dissolve la corrente gronchiana, che continua tuttavia ad avere peso al di fuori della D.C. per l’in-
dicazione, da parte del presidente della Camera, della prospettiva di un’apertura verso i socialisti. Sul piano del governo, Vanoni (la cui fattiva opera sarà troncata dalla repentina morte nel febbraio ‘56) individua le linee della crescita economica nazionale per il successivo decennio (lo “schema di sviluppo”, illustrato a Napoli, sarà fatto proprio dal Consiglio dei Ministri) e favorisce l'estensione dell’attività dell’ENI; inoltre viene preparata e portata a compimento la restituzione all’Italia della zona A del territorio di Trieste (4 novembre 1954), con la rinuncia alla zona B (Capodistria).
All’interno del partito i gruppi sindacali sostengono l’azione del ministero Scelba che trova invece ostilità nella destra e nei gronchiani. La rigida contrapposizione al comunismo - su cui è basata la combinazione ministeriale - verrà a perdere la sua ragion d’essere in rapporto all'evoluzione della situazione internazionale e ai conseguenti maggiori margini di manovra in politica interna. D'altronde la leadership fanfaniana tende a sot-
trarre la D.C. alla pressione che viene dai settori imprenditoriali e alla impostazione economica che ha caratterizzato la ripresa post-bellica, per spostare l’attenzione verso i temi sociali: lo svolgimento di tale politica presuppone un personale politico nuovo capace di agire sulla base di una visione che attribuisce alla DC una funzione esaustiva per il rinnovamento del paese secondo criteri fondati sulla “solidarietà”. In questo quadro si spiega la coalizione eterogenea - in senso critico verso la maggioranza - (nell’ambito del partito e, all’esterno, nel Parlamento) che porta all'elezione
di Gronchi alla Presidenza della Repubblica: il messaggio del nuovo capo dello stato indica la volontà di dare attuazione alle norme costituzionali (e il primo atto concreto sarà 55
appunto l'intervento per la nomina di tutti i componenti e per l’entrata in funzione della Corte Costituzionale, che inizierà una significativa opera di “bonifica” di molte norme di legge contrastanti con la costituzione e che la magistratura continuava ad appli-
care) e pone l’inserimento dei lavoratori nello stato democratico come problema fondamentale della vita pubblica italiana.
Ma come può avvenire tale inserimento? Se la posizione dei comunisti (alle prese con le conseguenze della destalinizzazione) esclude l'eventualità di un allargamento della mag-
gioranza verso quel settore del Parlamento, la più duttile posizione del PSI - che lancia le parole d'ordine del dialogo con i cattolici e dell'apertura a sinistra - consentirà di considerare in prospettiva un avvicinamento tra PSI e PSDI (incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat) ed anche tra PSI e D.C. (intervento di Gonella al congresso socialista di Torino). La D.C. non ritiene tuttavia che il rafforzamento del ruolo dei lavoratori nello stato sia condizionato dall'ingresso nella maggioranza dei partiti di sinistra e tende invece a sollecitare maggiore impegno sociale da parte degli organi pubblici.
Si sposta una parte del potere dall'industria privata alle aziende pubbliche e la D.C. si avvia ad utilizzare i nuovi strumenti con spregiudicatezza per rafforzare le sue posizioni anziché nell’interesse generale (il processo di degenerazione era stato avviato da Mattei con l’utilizzo dei fondi ENI per finanziare gruppi e giornali). 12. Le frizioni tra i partiti della coalizione portano alla caduta di Scelba e alla costi-
tuzione del I governo Segni (con la medesima composizione del precedente) con Tambroni all’Interno, che vuol presentarsi come governo della distensione sul piano interno (discorso a Badia Prataglia) e sociale (secondo le linee indicate nel piano Vanoni) in con-
nessione con gli sviluppi della situazione internazionale (conferenza di Ginevra). Il “disgelo” sul piano interno provoca nelle elezioni amministrative del 1956 un miglioramento delle posizioni della D.C. cui si accompagna - anche in relazione alle polemiche suscitate dalla pubblicazione del rapporto Kruschev - il rafforzamento del PSDI e il consolidamento della politica autonomistica del PSI. Al VI congresso della D.C. (Trento, 14-18 ottobre 1956) viene riconfermato l’indirizzo centrista, anche se la segreteria Fanfani tende ad accentuare, rispetto agli altri partiti, la rilevanza autonoma della fisionomia della D.C. nella convinzione che il suo programma abbia la capacità di indicare e realizzare le soluzioni idonee per uno sviluppo democratico. Come rileveranno le riviste delle sinistre d.c. - “la base”, “Politica”, “Stato democratico” - si ha un intenso attivismo ma una caduta di tensione ideologica, una maggiore attenzione per i livelli decisionali in una società caratterizzata dalla integrazione tra
industria pubblica e privata ma una scarsa preoccupazione per dare uno sbocco politico e sociale alle tendenze di trasformazione che emergono a livello di base in questa stessa società. L'espansione economica rende meno evidenti i contrasti perché l'innalzamento dei redditi consente, con la diffusione dei consumi, miglioramento nel tenore di vita per larghe masse ma non per questo si attenuano i dislivelli o viene meno il peso pagato dalla classe lavoratrice per la maggiore produttività. Si pensa tuttavia che la diffusione del
‘“ benessere” possa deideologizzare la vita politica, e si comincia a parlare da parte di esponenti della sinistra democratica e dei socialisti di un incontro sulle “cose da fare”.
L'interesse della D.C. è ora rivolto prevalentemente ai problemi del Mezzogiorno, dei patti agrari, dell'intervento dello Stato in economia. Per il Mezzogiorno la Cassa, ap-
positamente istituita, apre una prospettiva di sviluppo anche se forme e modi di inter56
vento favoriscono un limitato processo di industrializzazione mentre più massiccio diviene il fenomeno delle emigrazioni, delle campagne alle città, dal Sud al Nord, dall’Italia verso altri paesi europei (Svizzera, Germania, Francia, Belgio). Per i patti agrari - tema sul quale non solo le categorie interessate ma anche i parroci richiamano l’attenzio-
ne per il pericolo che la mancanza di adeguata protezione possa accelerare il processo di fuga dalle campagne -, dopo vivaci dispute all’interno del governo e del partito, viene va-
rato un accordo che gli organi di partito trovano non pienamente rispondenti ai postulati programmatici giacché le proposte di riforma risultano bloccate dalle esigenze della composizione del governo, dove la presenza liberale tende a ridurre il miglioramento della condizione contrattuale dei lavoratori della terra. L'intervento nell'economia si ricon-
nette ad una linea di tipo keynesiano che da un lato stabilisce più solidi raccordi tra grande impresa privata ed organi statali, dall’altro rafforza la presenza delle imprese pubbliche che cominciano a darsi una strategia organica senza tuttavia ricondurre la loro attività a benefici effettivamente verificabili da parte dei cittadini. Il rafforzamento delle imprese pubbliche - criticato da Sturzo come fattore dannoso per l’economicità delle aziende e per l'inquinamento che può introdurre nella vita politica - costituisce un elemento fondamentale nella vita economica nazionale e spinge la
DC a far leva su di esse per sollecitare un impulso produttivo in settori ed in aree trascurate dalle imprese private, e nello stesso tempo a dare basi più salde al suo potere politico. Il successivo sganciamento delle aziende IRI dalla Confindustria modificherà an-
che sul piano sindacale, i rapporti tra le forze economiche. In politica estera, dopo la mancata realizzazione - a causa della decisione in senso con-
trario della Francia - della CED (contro cui avevano votato alla Camera i d.c. Melloni il futuro polemista dell’ Unità” Fortebraccio - e Bartesaghi, subendo l'espulsione del partito), gli sforzi per un rilancio europeo (i Trattati di Roma saranno firmati il 25 marzo ‘57) attraverso il MEC e l’Euratom trovano la D.C. attivamente impegnata con gli altri
partiti del centro democratico, contro la netta opposizione del PCI e le riserve del PSI. Dal canto suo il presidente della Repubblica Gronchi non mancherà di sollecitare, an-
che in dissenso con le posizioni ufficiali per il governo e della diplomazia italiana, una interpretazione del patto atlantico tale da rendere effettiva la “comunità” dei paesi allea-
ti in forme di collaborazione politica ed economica che evitino all'Italia la condizione di “satellite” degli Stati Uniti. Per evitare il rischio di cadere nell’orbita sovietica - peraltro
escluso dagli accordi di Yalta - il paese subisce gravi ingerenze ad opera USA, come abbiamo illustrato nel saggio “La sovranità limitata”.
13. Malgrado ulteriori tentativi per accordi sui patti agrari, la coalizione centrista si frantuma e la D.C. ripiega sul monocolore Zoli (maggio 1957) che si presenta con una soluzione “amministrativa”, per cui il voto favorevole del MSI (v.), pur condizionante, è politicamente respinto. Il Consiglio Nazionale di Vallombrosa (13, 14 luglio 1957) vuol rappresentare un
momento di sviluppo della politica della D.C.: sul piano interno perché si costituisce una direzione unitaria (composta dai rappresentanti di tutte le correnti), sul piano esterno perché pone il problema dei rapporti con i socialisti in termini di disponibilità alla collaborazione.
Il riconoscimento della pensione ai coltivatori diretti edell'assistenza malattia agli
artigiani indica la tendenza della DC a favorire il passaggio dal tipo di stato ricostituito
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nell’immediato dopoguerra, ad un tipo di stato assistenziale, lasciando alla logica delle
grandi imprese private, integrate dalla imprese pubbliche, la conduzione effettiva della politica economica.
La preparazione alle elezioni politiche vede un maggiore spazio per le leve che si so-
no formate nell’impegno politico diretto del partito nelle scelte dei candidati.
L’obiettivo incremento nel reddito e nella occupazione favorisce la campagna elettorale della D.C. mentre il PCI (v.) deve cercare di mantenere (e riuscirà a recuperare) consensi che l'esplosione di crisi interne nei paesi dell’Europa danubiana ed orientale mette in dubbio. Le elezioni del 1958 segnano un’affermazione del partito (oltre il 42% dei voti, che resterà la più alta percentuale, con esclusione del ‘48 quando concorsero circostanze eccezionali). Sulla base dei risultati e della indicazione complessiva di uno spostamento verso sinistra, la D.C. promuove la formazione di un governo (secondo ministero Fanfani) basato su una coalizione con il PSDI che vorrebbe avere, nelle intenzioni del suo presidente, una funzione di avvio ad una più efficiente politica sociale. 14. La crisi in Sicilia (dove si costituisce una Giunta regionale presieduta da S. Mi-
lazzo - subito espulso dalla D.C. partito - con l'apporto fra l’altro dei voti del PCI e del MSI) prefigura una situazione di disagio a livello nazionale, in quanto alcuni settori del partito sono favorevoli ad avviare negli enti locali la formazione di giunte con la partecipazione del PSI mentre altri temono un progressivo scivolamento a sinistra sotto la gui-
da di Fanfani, il quale fra l’altro unisce contemporaneamente le cariche di presidente del Consiglio e di segretario del partito.
In connessione con le difficoltà che il governo trova alle Camere, anche per il voto segreto di franchi tiratori, si ha nel gennaio 1959 una difficile crisi che porta alle dimissioni di Fanfani da entrambe le cariche, alla costituzione del raggruppamento dei “dorotei” - così chiamato dal nome della casa generalizia dove si riuniscono gli oppositori interni a Fanfani -, alla nomina di un comitato di reggenza del partito, mentre Segni costituisce un governo monocolore con il voto favorevole del PLI, dei monarchici e del MSI (quest'ultimo non determinante). Il “boom” economico - ottenuto grazie alla produtti-
vità delle imprese che si giovano dei bassi salari - rafforza la posizione della lira e diffonde una sensazione di maggior “benessere”.
Dopo la elezione di Moro a segretario della DC (Consiglio Nazionale, 14-17 marzo 1959), si ha la formazione di nuovi schieramenti all’interno del partito come emergerà al congresso di Firenze (23-28 ottobre 1959) dove il gruppo facente capo a Segni, Rumor e Moro cioè ai “dorotei” - che si presentano come l'incarnazione di un moderatismo frenante nei confronti dell’attivismo riformatore di Fanfani ma che meglio interpreta il fondo delle diverse componenti integrate nella DC -, ottiene una lieve maggioranza sul blocco delle sinistre riunite (comprendente fanfaniani, basisti, sindacalisti e gron-
chiani), ora guidato da Fanfani; tuttavia sul piano programmatico le differenze non appaiono marcate, giacché la relazione del segretario del partito indica la validità della li-
nea tradizionale della DC e la contrapposizione, sul terreno democratico, al comunismo nonché la volontà di operare per una piena attuazione dei principî di libertà e di democrazia, estendendo queste dagli aspetti formali e costituzionali a contenuti effettivi, e in sintonia con esigenze di rinnovamento politico ed economico avanzate dalle sinistre, e in particolare dagli autonomisti del PSI.
I liberali, nel timore che la D.C. possa avviarsi ad una indolore e graduale apertura 58
verso sinistra e nella speranza invece di conseguire un maggior peso nella maggioranza, provocano nel febbraio 1960 la crisi del governo Segni, ma la D.C. poiché teme con una soluzione di centro-destra di compromettere la sua natura di partito popolare, concor-
rendo a spostare all'opposizione anche la sinistra moderata, cerca di formare una maggioranza precostituita con PSDI e PRI, non condizionata da eventuali, futuri voti aggiuntivi del PSI. Per la ritrosia di Segni, falliti questi tentativi, Gronchi conferisce l’incarico - per una soluzione provvisoria ed amministrativa - a Tambroni, il quale legato
com'è al cartello delle sinistre d.c. (ed in tale lista è risultato il secondo eletto al Congresso
di Firenze) ed in particolare agli orientamenti del Presidente della Repubblica - appare indicato per cercare una benevola attesa in Parlamento tanto più che nei suoi confronti, proprio in quanto espressione della linea Gronchi, si erano registrati significativi atti di benevola attesa da parte delle sinistre sia prima come una astensione non esplicita in un voto sul bilancio dell'Interno e poi da parte del PSI in una astensione esplicita sullo stato di previsione del Ministero del Bilancio, retto dallo stesso Tambroni durante il secondo governo Segni. Senonché il carattere “presidenziale” della designazione e il fatto che Tam-
broni sia in sostanza espressione della minoranza rende la maggioranza del partito riservata nei confronti dell’esperimento e questa contrarietà esplode non appena il MSI tenta di inserirsi nella manovra, votando a favore del governo. Poiché tali voti risultano determinanti, i ministri Bo, Pastore e Sullo si dimettono: neppure la nuova crisi consente
di coagulare una maggioranza con socialdemocratici e repubblicani e pertanto Gronchi invita Tambroni a ripresentarsi alle Camere; la DC acconsente a mantenere in vita il governo, “al di fuori di ogni qualificazione o scelta politica, fino alla scadenza del termine di approvazione del bilancio”, in attesa che maturino le condizioni per riprendere la col-
laborazione con altri partiti. 15. Il MSI, rimbaldanzito dal ruolo determinante che di fatto viene ad esercitare, si appresta a svolgere il suo III congresso (v. MSI) a Genova. Una serie di manifestazioni popolari, con larga partecipazione di cittadini, non esclusi elementi d.c. e soprattutto di giovani, induce il governo a vietare all'ultimo momento lo svolgimento del congresso nel
capoluogo ligure e a spostarlo a Nervi, dove però il MSI rifiuta di effettuarlo decidendo
nel contempo di ritirare l'appoggio al governo. I metodi messi in atto in quei giorni per il mantenimento dell’ordine pubblico (con divieto di pacifiche manifestazioni antifasciste, interventi della forza pubblica quando tali manifestazioni si effettuano e conseguenti incidenti a seguito dei quali si lamentano vittime, in particolare a Reggio Emilia), rendono drammatica la situazione tanto che il Presidente del Senato, Merzagora, chiede al
governo di non far uscire più la forza pubblica, responsabile di pesanti azioni tra l’altro a porta S. Paolo a Roma (dove vengono colpiti anche parlamentari) ed in altre città. Il gruppo dirigente d.c. si rende tardivamente conto di aver avallato una politica non in linea con l'evoluzione in corso ed anzi implicante rischi pericolosi, tanto da rimanere isolato in Parlamento e nel paese e pertanto, onde evitare ulteriori inasprimenti della situazione, non si oppone alla sostituzione del governo Tambroni, accusato da una parte della stampa addirittura di preparare un golpe, circostanza mai documentata quando se mai era il presidente del consiglio che voleva dimostrare, con uno spiegamento imponente di forza pubblica, di essere in grado di controllare la situazione. La soluzione monocolore
trova subito sufficiente appoggi alla Camera sulla base della formula escogitata da Moro, delle cosiddette “convergenze parallele”. Il governo è rapidamente costituito da Fan02
fani, al quale danno il sostegno PLI, PRI, PSDI mentre per la prima volta si astiene il PSI. Il grave trauma del luglio 1960 indica il rischio cui aveva condotto la linea personalistica ed oscillante di Gronchi, lucido nel prevedere e prefigurare l'evoluzione della situazione italiana ma non in grado di trovare le soluzioni adeguate sul piano politico e parlamentare e contemporaneamente avvia un nuovo corso della politica italiana, essen-
dosi dimostrato inaccettabile da una larga maggioranza del paese uno spostamento a destra, contro cui si manifesta un ampio arco di forse, arricchito da energie nuove e, in parte, inattese delle stesse sinistre.
16. Dopo le elezioni amministrative dell'autunno 1960 che confermano l’orientamento degli elettori piuttosto a favore di uno spostamento verso sinistra, la DC si pronuncia per la formazione di giunte con il PSI, che cominciano ad essere costituite in molte provincie ed in numerosi comuni, grandi e piccoli, a cominciare da Roma dove si esperimenterà un centrosinistra fiducioso di poter affrontare in termini più moderni delicati problemi amministrativi, urbanistici e del traffico. Nel settembre ‘61 al convegno di San Pellegrino la DC precisa le linee programma-
tiche della sua azione politica mentre si apre alla prospettiva di collaborazione con forze politiche fino ad allora combattute: emerge un lievito culturale niente affatto smarrito dall’occupazione del potere e da pratiche distorsive nella gestione degli enti locali, e ven-
gono avanzate proposte rinnovatrici per rispondere alle esigenze di fondo della società italiana. La segreteria Moro prepara l'VIII congresso, che si svolge a Napoli dal 27 al 31 gennaio 1962: ha luogo un approfondito dibattito dominato dalla relazione del segretario della D.C. “Se non siamo un partito di classe - dichiara Moro -, siamo però un partito di popolo, schierato non con i pochi ma con i molti, e pronto sempre a porre in essere i correttivi, a fissare i limiti, a favorire gli interventi che volgano a vantaggio di tutti la vi-
ta economica e sociale del paese e rendono impossibili le ingiustizie dei detentori del potere economico anche sul terreno sociale e politico”. Indicate le linee di una politica di rinnovamento, ribadita l’’incompatibilità con il comunismo” nonché il carattere antifa-
scista del partito, il segretario della D.C. prende atto della evoluzione del PSI che ha chiarito “ciò che fa diversi i socialisti dai comunisti” e pertanto afferma che la disponibilità del PSI va verificata in esperienze governative che consentano di rafforzare le istituzioni democratiche. Ormai la strada è aperta al centro-sinistra: nel febbraio Fanfani forma il governo con PRI e PSDI e l'appoggio esterno del PSI. Una fase nuova della politica nazionale è avviata ed ora trova consenzienti i settori pubblici dell'economia, alcune grandi imprese private (Fiat), ed ha l'avallo dei gruppi democratici U.S.A. (presidente è Kennedy) come hanno confermato i documenti (v. il recente libro di Peter Scala “Da Nenni a Craxi” che ha dimostrato l'atteggiamento favorevole del Dipartimento di Stato e la persistente contrarietà della stazione Cia di Roma). L'elezione di Segni (6 maggio 1962) a Presidente della Repubblica (con il voto dei
partiti di centro e di destra) rappresenta l’elemento di equilibrio che la parte moderata della DC ritiene indispensabile come contrappeso all’apertura verso i socialisti: per la prima volta il partito, dopo una lunga serie di votazioni infruttuose, riesce a portare al Quirinale il proprio candidato. La scelta sta tuttavia ad indicare i limiti nei quali potrà effettuarsi l’’aperura” per il nuovo corso.
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Il IV governo Fanfani vara - tra contrasti di interessi che si ripercuotono vivacemente
sulla stampa - la nazionalizzazione dell'industria elettrica (ministro dell’Industria, Emilio Colombo) mentre la DC ritarda l’attuazione dell'impegno regionalistico e non ritiene di far proprio - in vista della scadenza elettorale - il progetto del ministro Sullo sulle aree fabbricabili, diretto a rendere meno caro il costo del suolo che grava in maniera esor-
bitante sul prezzo delle abitazioni, un problema sempre più grave per centinaia di migliaia di famiglie in tutta Italia, ma soprattutto al nord e nella grande città dove si addensano masse di immigrati. Il provvedimento, disconosciuto dal partito, non aveva in effetti alcun carattere eversivo ed era stato elaborato sulla base dell’esperienza positiva in
paesi dell'Europa settentrionale ma il suo diniego è il prezzo che la DC deve pagare per non perdere l'appoggio dei ceti medi e anche dei piccoli proprietari che si sentivano - a torto - minacciati. Le elezioni del 1963 determinano, a destra, una perdita di voti da parte della DC (che scende dal 42 al 38%) in favore dei liberali e a sinistra, un rafforzamento del PCI, provocato sia dal voto degli emigranti sia dallo scontento causato in strati tradizionalmente socialisti dall’avvicinamento del PSI alla DC; tuttavia in Parlamento vi è una larga maggioranza di partiti per il centro-sinistra che consentirebbe subito la formazione di un governo organico in tal senso. Senonché ragioni interne di partito (l’opposzione della sinistra al nuovo corso) inducono il PSI a rinviare la decisione sulla partecipazione al governo al successivo congresso: si giunge così alla costituzione di un governo monocolore presieduto dall'onorevole Leone, con l'appoggio esterno del PRI, del PSDI e del PSI,
e che varerà norme creditizie dirette a restringere i consumi. 13. Per una migliore comprensione dei nuovi orientamenti della D.C. va considerata l'influenza delle encicliche di Giovanni XXIII (Mater et Magistra, 1961, e Pacem in terris, 1963), che nella riaffermazione della priorità dei diritti naturali dell’uomo di fronte allo Stato, riconoscono l'insufficienza della autorità pubblica nelle comunità politiche
e quindi impegnano i credenti ad una “ricomposizione unitaria” tra fede religiosa e attività temporale; cioè ad una coerenza diretta ad adeguare la realtà sociale alle esigenze della giustizia, non escludendo un “vasto campo di incontri ed intese” con i non cattolici
(“mai confondere l’errore con l’errante”) attraverso cui si prepara la strada ad avvicinamenti di ordine pratico con movimenti politici o economici-sociali, che, al di là delle dot-
trine filosofiche che li hanno ispirati, operano nelle situazioni storiche quali interpreti di giuste aspirazioni della persona umana. I contenuti dell’’animazione cristiana” che si dipartono dal messaggio giovanneo e che verranno confermati nel Concilio Vaticano II non possono non avere importanti con-
seguenze sia sul comportamento dei singoli cattolici che sull’atteggiamento delle forze politiche e sociali che al cattolicesimo si richiamano. AI III convegno di San Pellegrino (settembre 1963) le relazioni di PE. Taviani e di L. Elia sul ruolo dei partiti prospettano la funzione della D.C. come espressione di forze che hanno compiuto una specifica scelta culturale e politica nel contesto di una società democratica: mentre si appresta a forme di collaborazione con un movimento che ancora si richiama all’ispirazione marxista, la D.C. riconferma la concezione pluralista nel cui ambito dovranno collocarsi i rapporti tra i partiti. Dopo il congresso del PSI - che segna la definitiva vittoria di Nenni sui suoi numerosi ed agguerriti oppositori - Moro dà vita al primo governo organico di centro-sinistra 61
(composto da DC - PRI - PSDI - PSI): la presenza dei socialisti al governo si rivelerà però
meno incisiva rispetto ai loro obiettivi di quanto avevano invece ottenuto con l’appog-
gio esterno. Il consiglio nazionale della D.C. chiama alla segreteria Rumor; il partito a
vari livelli concorre ad indicare le possibili soluzioni dei problemi posti dal centro-sinistra ma si lascia irretire dalla azione ritardatrice dei gruppi contrari dubbiosi sul nuovo corso, tanto che nell’avvio delle iniziative per le riforme si constaterà come ad esse si frappongono ostacoli di ogni genere.
L’imprenditoria risente del maggior peso conquistato nella ripartizione dei redditi
dal fattore lavoro ed esita ad impegnarsi di fronte a prospettive che ritiene incerte su futuri comportamenti del governo in materia economica: si registrano fughe di capitali all’estero e confusione in Borsa anche a causa dell’arrivo dei capitali indennizzati per l’esproprio degli elettrici mentre viene posto un problema di contenimento della domanda. Lo sfavorevole andamento della congiuntura mette in difficoltà maggioranza e governo, nel cui ambito viene messa in dubbio la possibilità di portare avanti riforme (in particolare, lettera del Ministro del Tesoro Colombo al Presidente del Consiglio e sollecitazioni della Comunità europea per una politica finanziaria e creditizia più severa). Posto in minoranza ad opera del PSI sui contributi statali alle scuole private, il pri-
mo ministro Moro si ritira per far posto - dopo settimane di tensione, con manovre interne ed esterne di cui si avrà conoscenza solo anni dopo - al secondo ministero con la medesima composizione, ma senza la componente lombardiana del PSI (v. / socialistà). Le voci di minacce all'ordinamento democratico verificatesi durante la crisi verranno de-
nunciate dall’’Espresso” nel ‘67 e provocheranno un'inchiesta parlamentare sul “piano Solo”, predisposto nel ‘74 dal Gen. De Lorenzo per arrestare e tradurre in Sardegna esponenti comunisti, socialisti e sindacalisti. La relazione di maggioranza sosterrà essersi trattato della mera elaborazione di un eventuale misura precauzionale in caso di disordini,mentre la minoranza sottolineerà il carattere eversivo dell’iniziativa, peraltro non chiarita a fondo a causa degli intralci posti dal governo che ricorrerà al “segreto di Stato”, ri-
fiutando così di poter pervenire alla completa conoscenza dei fatti attraverso i documenti. Nenni dichiarerà che era stato posto di fronte all’eventualità di una oscura alternativa, che neppure i dirigenti d.c. erano in grado di controllare. Sia Eugenio Scalfari che le sinistre chiameranno in causa le responsabilità del presidente della Repubblica Segni, che, a loro avviso, avrebbe allora promosso o avallato la singolare iniziativa. All’interno della DC si prepara il congresso di Roma (12 - 17 settembre ‘74), nel
corso del quale i gruppi facenti capo a Rumor, Moro, Colombo ed Andreotti mantengono la maggioranza relativa, ma non possono contare né sul gruppo scelbiano (che aveva ritirato la propria opposizione frontale al centro-sinistra dopo un esplicito richiamo dell'organo vaticano, ma che mantiene le sue riserve sull’esperimento in corso) né sui fanfaniani (“Nuove cronache”, poco più del 20%), attestati questi ultimi sulla tesi della “reversibilità” del centro-sinistra, mentre “Forze nuove”, La base e Rinnovamento demo-
cratico non fanno mancare il minimo di consenso politico necessario pur distinguendo le proprie posizioni da quelle dorotee. Nelle elezioni amministrative (22 novembre) la D.C. registra una lieve flessione do-
vuta soprattutto all’erosione a destra da parte dei liberali che accentuano la carica polemica contro il governo Moro. A seguito delle dimissioni, per motivi di salute, del presi-
dente Segni, i gruppi parlamentari d.c. designano come candidato al Quirinale G. Leone, al quale però in aula verrà a mancare una parte dei voti d.c.; dopo una lunga serie di 62
votazioni, anche la DC contribuirà invece alle elezioni di Saragat. I dissensi manifestatisi in questa occasione nella scelta del nuovo presidente della repubblica provocano una breve “sospensione” dal partito di Donat Cattin e di De Mita, che si sono opposti all’elezione del leader socialdemocratico. 14. In corrispondenza con il delinearsi dell’azione del governo, all’interno del partito si dibattono i temi che formano oggetto anche per il confronto con le altre forze (in materia di programmazione i fanfaniani si pronunciano per il conferimento di facoltà de-
cisionali al proposto commissariato per il piano ma poi lo stesso ex Presidente definisce “libro dei sogni” il progetto Ruffolo). La graduale ripresa economica consente un margine di operatività ai produttori, ma le riforme indicate nei programmi elettorali di governo non vengono realizzate, restando oggetto di discussione all’interno della eteroge-
nea coalizione sia al governo che in Parlamento. Questi indugi ed ostacoli impediranno alla politica di centro sinistra - iniziata parecchi anni dopo la sua ideazione e inserita in un contesto interno aggravato dall’esplosione di contraddizioni economiche e crisi sociali conseguenti ai mutamenti in atto ed in un contesto internazionale modificato a cau-
sa della scomparsa di Kennedy e di Giovanni XXIII - di produrre effetti concreti, evidenti negli effetti e visibili a tutti, con grave pregiudizio della sua credibilità.
XVI. Il partito, da anni impegnato in compiti primari di responsabilità a tutti i livelli e in tutte le zone del paese, comincia ad avvertire un crescente distacco di fronte a larghi settori dell'opinione pubblica (intervento Forlani all'assemblea nazionale di Sorrento, 30 ottobre 1965, dove Leone, Taviani ed Elia sostengono tra l’altro il finanziamento
pubblico dei partiti al fine di assicurare maggiore trasparenza alla lotta politica) e tiene a distinguere l’azione universalistica della Chiesa (che, sulla scia giovannea, prosegue il di-
scorso di recupero e del dialogo con i non credenti) dalla propria sfera politica. Il voto contrario della Camera sul disegno di legge per la scuola materna di stato provoca le dimissioni del secondo governo Moro, cui fa seguito (marzo 1966) il terzo mi-
nistero Moro, con la stessa maggioranza del precedente, mentre Fanfani riprende gli Esteri, da cui si era dimesso da pochi mesi. L'elezione di Scelba alla presidenza del consiglio
nazionale vuol testimoniare la solidarietà del partito dell’ex presidente verso il quale i socialisti avevano posto una preclusione per l’ingresso al governo. Serpeggia nel partito un
malessere di cui sono espressione da un lato il manifesto dei deputati senza corrente (marzo 1966) che invano deprecano la logica delle correnti come aggravante di un pericolo-
so verticismo, dall’altro la sospensione di Corghi (che successivamente abbandonerà il partito) e in seguito l’atteggiamento del presidente delle ACLI di Milano Albani (che si presenterà nelle elezioni del ‘68 come candidato collegato con il PCI), indici di critica rispettivamente per la politica estera del governo e per la lentezza nel portare avanti i programmi ministeriali. Il logorio della lunga permanenza al governo senza alternativa, un metodo di gestione che trasforma il partito in pura macchina di potere, un progressivo scadimento dei valori culturali nella vita pubblica, sono avvertiti da un gruppo di studiosi che rivolge una lettera “ai cattolici che operano nella “politica e nella cultura”, per sollecitare un ripensamento critico delle esperienze in atto e delle prospettive di azione” nei “tempi nuovi della cristianità”: dall’iniziativa nasce il convegno di Lucca (28 - 30 aprile 1967), dove 63
G. De Rosa e S. Cotta indicano i caratteri dell'impegno temporale dei cattolici dopo il Concilio in una società tecnologica. 15. La D.C., come gli altri partiti, verrà sorpresa dall’esplodere della contestazione
studentesca nel ‘68, ma ne risente in misura maggiore giacché la ininterrotta responsabilità del potere fa sì che ad essa più che ad altri venga addebitata dai giovani la lunga catena degli intrecci di interessi che pesano nel paese e l’immobilismo sul piano sociale: quella che è stata la funzione propria di contrapposizione al comunismo (la famosa “diga’), nella nuova realtà politica interna e internazionale, sembra adesso a molti giovani della nuova generazione un elemento di freno ai fini di una migliore aderenza alle esigenze di trasformazione della società sul piano culturale e civile. La prevalenza degli interessi pri-
vilegiati con accomodamenti a livello parlamentare, governativo e paragovernativo, appare a molti cattolici come distacco dagli autentici valori del messaggio evangelico e dai motivi del rinnovamento sociale ai quali pure il partito costantemente si richiama (Mo-
ro definisce la D.C. come un partito “democratico, popolare, antifascista”) e fa nascere in ambienti giovanili la spinta alla ricerca di esperienze diverse, di impegno diretto di base nei quartieri, dove l’inveramento cristiano si realizza spesso in posizione critica nei con-
fronti di amministrazioni nella quali la D.C. ha un ruolo preminente. Il ritardo nell’avvertire la necessità di rinnovamento nella scuola e nell’università (il progetto Gui appare arretrato rispetto alle spinte esistenti negli atenei e non troverà quindi sufficienti con-
sensi) accentua una situazione di crisi: tuttavia il partito riesce, sia per la complessità delle sue articolazioni e della conseguente capacità di riassorbire i motivi di malcontento, sia per la accorta opera di mediazione di Moro, a mantenere, in condizioni difficili, il passo di fronte alle altre forze. Infatti nelle elezioni del 1968 la D.C. riporta il 39,1% con un lieve incremento rispetto al 1963, mentre i socialisti unificati regrediscono. Nella maggioranza dorotea del partito si ha il distacco prima dei “pontieri” di Taviani, poi dei “morotei” che, con Zaccagnini e Salizzoni, non intendono condividere una linea di attesa e di riflusso mentre sempre più evidente è nel paese la spinta al cambiamento di indirizzo economico e politico e alla ricerca di più vaste convergenze popolari per conseguirlo. Quando considerazioni interne di partito inducono il PSI a recedere dal governo, la maggioranza parlamentare si affida a un nuovo esperimento Leone, che dà inizio - dopo
quasi cinque anni di presidenza Moro - ad una fase travagliata e a successive scomposizioni e ricomposizioni Dopo il congresso tro-sinistra presieduto cui esistenza è minata
della maggioranza di centro-sinistra. socialista dell'ottobre si può costituire un nuovo Governo di cenda Rumor (mentre Piccoli assumerà la segreteria del partito), la e poi definitivamente corrosa dalle dispute interne socialiste, che
provocheranno nel luglio ‘69 una nuova scissione (v. / socialistà). Lo stesso Rumor allora è costretto a ripiegare su un monocolore, in effetti del tutto “incolore”, poi riuscirà faticosamente a dar vita ad un governo a 4 che nella primavera ‘70 sarà finalmente in grado di mettere in esecuzione la parte della Costituzione sull’istituzione delle Regioni a statuto ordinario. È il compimento di una antica aspirazione della tradizione politica cat-
tolica ma, a seguito dell’atteggiamento assunto dal ‘48 in poi dalla DC, sembra rappresentare piuttosto un successo dei partiti di sinistra. Le limitazioni messe in atto nel tra-
sferimento delle attribuzioni dallo Stato alle Regioni porranno subito in gravi difficoltà i nuovi enti, nei quali l'applicazione della proporzionale nella composizione dei Consi-
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gli senza alcuna valutazione dell’esigenza di assicurare, come sostenuto da studiosi e dal PRI, esecutivi più stabili ed efficienti, porterà a riprodurre gli inconvenienti e le lentezze già presenti a livello di governo centrale, riducendo pertanto le Amministrazioni re-
gionali al ruolo di nuovi enti erogatori e non offrendo vantaggi ai cittadini. A livello di partito nel ‘69 un accordo tra esponenti della generazione più giovane dei dirigenti d.c. viene stabilito a S. Ginesio: ne sono protagonisti Arnaldo Forlani e Ciriaco De Mita; il primo dei due nel consiglio nazionale di novembre verrà eletto segretario, mentre si registra la scissione della corrente dorotea, da una parte Rumor e Piccoli (‘Iniziativa popolare”) e dall’altra Andreotti con Colombo (“Impegno democratico”). 16. In questi mesi due fenomeni di natura diversa - anche se con elementi di corre-
lazione - cominciano ad incidere in maniera considerevole sulla vita del paese. Da un lato la crescita del movimento sindacale ed una tendenza unitaria delle relative organizzazioni (in particolare nel settore metalmeccanico, nel quale la CISL con Carniti assume una posizione di punta). Mentre i partiti - tutti i partiti - hanno stentato a recepire gli elementi di novità introdotti dalla spinta del Sessantotto, i sindacati tengono a presentarsi come gli interpreti più validi delle esigenze emerse nel paese e quindi, quali fattori di solidità dell’edificio democratico, tenderanno ad assumere un ruolo ultroneo rispetto
alla loro funzione specifica, non più indirizzata ad obiettivi settoriali di rivendicazioni salariali e normative per la tutela del lavoro quanto temi di portata generale riguardanti interventi nei settori dei trasporti, della casa, della sanità. In questi anni riescono a conseguire notevoli conquiste per diminuire le distanze tra differenti zone territoriali, settori produttivi, categorie, e a raccogliere consensi in settori prima refrattari all'impulso sin-
dacale. | Nella società in trasformazione e di fronte alla carenza delle forze politiche anchilo-
sate le organizzazioni rappresentative del lavoro assumono così un ruolo di interlocutore diretto del governo e del parlamento quale portatore di interessi popolari. Il loro peso crescente trova conferma nelle grandi manifestazioni dei metalmeccanici - la categoria più organizzata e combattiva - per il rinnovo del contratto di categoria, definito - con la mediazione del Ministro del lavoro Donat Cattin - in un accordo che accoglie le prin-
cipali richieste avanzate. Ma è a questo punto che si verificano i primi attentati terroristici (strage di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre ‘69) che non solo minacciano l’or-
dine pubblico ma pongono inquietanti interrogativi sulle matrici internazionali (ne accennerà il nuovo segretario della DC Forlani) e interne (con sospetti di connivenze in
delicati organi statali) dei fatti delittuosi: la lentezza dei procedimenti penali e la molteplicità delle piste seguite non rendono chiare le componenti del fenomeno. L'ipotesi di un legame esistente tra attentatori e gruppi interessati a provocare un rovesciamento del-
le prospettive politiche - che indicano uno spostamento verso sinistra - sino ad un ribaltamento dell’ordine costituzionale, dapprima accolta con scetticismo, si farà strada quanto più negli anni successivi si riprodurranno attentati, specie contro i treni, le cui matrici resteranno anonime (v. Estrema sinistra).
In un quadro politico caratterizzato dalla crescita del movimento sindacale, si han-
no, nell'estate ‘70, le dimissioni di Rumor, di fronte alla proclamazione di uno sciopero
generale, e poi la formazione del governo Colombo che introduce a aggravi fiscali diret-
ti a ridurre la spesa pubblica e cerca di spingere verso una politica produttivistica: il ricorso ad un “decretone” - aspramente avversato dal gruppo del “Manifesto” contro la tat65
tica più prudente del PCI - apre la via a provvedimenti finanziari volta a volta assunti dal governo per far fronte ad emergenze economiche, rinunciando così a qualsiasi disegno programmatorio e ad una politica di più ampie prospettive. Nella DC avanza il timore che possa prevalere la teoria degli “equilibri più avanzati”, sostenuta dal leader socialista De Martino, implicante un graduale allargamento del-
la maggioranza verso i comunisti. L'approvazione da parte del Parlamento, del divorzio costituisce la prima grande decisione politica del paese nel dopoguerra con la DC in minoranza (assieme al MSI), mentre si avvertono i segni di una crescente divaricazione tra guida politica e realtà effettiva del paese. » Come risposta ai movimenti verso sinistra che sembrano assorbire la massima attenzione a causa di manifestazioni rumorose e spesso contraddistinte da atti di violenza, si manifesta una reazione di segno opposto, soprattutto a Milano, dove si registrano due fatti significativi. Il prefetto Libero Mazza denuncia come nella città vi siano gruppi di estrema sinistra organizzati sulla base di un sistematico ricorso a mezzi di violenza. La
notizia del rapporto inviato al governo centrale verrà diffusa da un quotidiano di Roma e a torto il documento viene minimizzato e criticato da una notevole parte della stampa mentre rispondeva ad una precisa valutazione, fotografava una situazione reale. Inoltre comincerà a farsi viva la voce di una “maggioranza silenziosa” che ritiene appunto di parlare a nome di quella notevole parte di cittadini che non condivide le posizioni e gli atteggiamenti di tanti giovani estremisti, “coccolati” da una parte della stampa e della borghesia milanese.
Grave sarà l'agitazione scoppiata a Reggio Calabria contro la scelta di Catanzaro come capoluogo della regione: affiorano, nell’ambito di una protesta popolare sentita, nuclei d’estrema destra che si muovono con atteggiamenti paramilitari e che rivelano evidenti finalità anti istituzionali, ma si tratta di un fenomeno che - come dimostrerà in un accurato studio il sociologo Lombardi Satriani - derivava da una condizione psicologica di avvilimento e per certi versi di arretratezza, non tenuti presenti dal ceto dirigente.
Infine va registrato un misterioso episodio al Viminale (mai chiarito) che sembra pre-
figurare un arrischiato tentativo contro lo Stato, promosso da J. V. Borghese, tutti indici di una situazione esplosiva.
17. Le elezioni presidenziali del dicembre ‘72 mettono in crisi la coalizione: la candidatura Fanfani viene osteggiata non solo dagli altri partiti di centro-sinistra ma dalla stessa sinistra d.c.. Il ripiegamento su Leone, eletto il 24 dicembre con il voto favorevole dei partiti di centro e di destra, mostra una spaccatura della maggioranza parlamentare che durante la successiva crisi ministeriale non si riesce a ricomporre, anche perché la
richiesta di un referendum per l'abrogazione del divorzio - presentata da un comitato guidato da Gabrio Lombardi, estraneo alla DC ma firmata dal segretario del partito e da esso appoggiato - rende più acuta la spaccatura. Nel frattempo sale dal paese una opposi-
zione più profonda: di segni opposti, ma la maggioranza della DC preferisce a questo punto andare incontro più alle preoccupazioni dei ceti conservatori e della cosiddetta “maggioranza silenziosa” - forte specialmente a Milano, dove violenze degli oltranzisti di sinistra hanno causato disordini, inquietudini e panico - che non cercare rimedi per rispon-
dere al malessere della società a causa dei problemi non risolti. Siamo alla crisi del centrosinistra. Leone affida l’incarico di costituire il governo ad Andreotti, che non ottiene la fi-
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ducia (votano a favore solo i liberali) e pertanto il capo dello stato procede allo scioglimento delle Camere, non osteggiato dalle sinistre, i cui dirigenti ritengono opportuno
conseguire in questa maniera il rinvio del referendum. Le elezioni politiche - condotte dalla D.C. all'insegna della lotta agli “opposti estremismi” e della reversibilità delle for-
mule di governo - rappresentano, malgrado un rafforzamento del MSI - Destra nazionale (v.), comunque inferiore ai progressi realizzati da questo partito nelle precedenti am-
ministrative, un successo per partito e governo, avendo dimostrato la D.C. la sua capacità di recupero (infatti ottiene il 38,3% dei voti) malgrado la fine del “collateralismo”
cioè dell'appoggio da parte di organizzazioni d'ispirazione cattolica espressione di varie forze sociali ed il tentativo (non riuscito) di dare vita, con il Movimento Politico dei Lavoratori (guidato da Labor), ad un movimento cattolico collocato a sinistra. Il successo
ottenuto consente ad Andreotti di avere il reincarico ed egli promuove la costituzione di un governo di centro (D.C. - PLI - PRI - PSDI) con Malagodi al Tesoro. Lo stretto mar-
gine di maggioranza e la possibilità di ricondurre, anche se con la rinuncia dell’appoggio dei liberali, ad una comune azione governativa - in una fase di difficile travaglio economico e sindacale - i socialisti, dopo la loro dichiarata “disponibilità” al congresso di Genova, induce la D.C. al XII Congresso (Roma, 6-10 giugno 1973) a riesaminare il pro-
blema del governo. L'accordo di palazzo Giustiniani, che segna l’intesa tra Fanfani e Moro, prepara il ri-
torno di Fanfani alla segreteria del partito. Come Forlani si è dimesso per spianare la strada all'accordo, così Andreotti si dimette per consentire la ricostituzione del centro=sini-
stra, la cui guida viene ripresa da Rumor, esponente della maggioranza dorotea, con alterne vicende, collegate soprattutto alla crisi economica internazionale e intramezzate dal-
la campagna per il referendum. Il 12 maggio 1974 la maggioranza degli italiani si pronuncia per il mantenimento del divorzio (contro cui si erano impegnati DC e MSI); il governo, in due successive edizioni, dura sino all'ottobre ‘74 mentre lo scandalo petrolifero rivela il livello di corruzione dei partiti, a cui si tenterà di porre tardivo rimedio con
un affrettata legge sul finanziamento pubblico che stabilisce flussi finanziari a favore dei partiti senza nulla prevedere né in materia di democrazia interna né dei modi di distri-
buzione ai livelli locali e dei controlli sui bilanci, come era stato prospettato nelle prime iniziative dai fautori dell’intervento pubblico. Con l’adesione di PSDI e PSI ed astensione del PLI nasce il bicolore DC-PRI gui-
dato da Moro (novembre ‘74), con una primaria responsabilità nel settore economico finanziario affidata a La Malfa. La crisi sociale si è aggravata e nel paese si diffonde la sensazione che i comunisti hanno a portata di mano il governo. Vengono varate la legge per l'abbassamento a 18 anni dell’età adulta, e quindi il diritto di voto, la legge Reale (dal nome del Guardasigilli) sull'ordine pubblico, la legge sul-
la droga (con distinzione tra responsabilità degli spacciatori e dei consumatori, ai quali viene consentito di tenere per l’uso una “modica quantità” di stupefacente). Il punto unico di contingenza viene concordato tra Confindustria e sindacati nonché tra questi e il ministro per la riforma amministrativa Cossiga nei riguardi del pubblico impiego. In questa cornice Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi si fanno portatori dell'esigenza di un governo autorevole e vedono la soluzione in una repubblica presidenziale. Sul piano economico emergono in questo periodo eventi altrettanto inquietanti dal caso di Sindona - il banchiere sino allora con alte protezioni politiche ma le cui manovre erano sta67
te contrastate sia da Fanfani che dal Ministro del Tesoro U. La Malfa - e che fugge all’e-
stero non appena raggiunto da un ordine di cattura per irregolarità nella sua banca, irregolarità dalle quali deriveranno ulteriori, misteriosi eventi finanziari e criminali - a situazioni poco chiare nei comportamenti di importanti imprese pubbliche sempre più assoggettate alle pressioni illecite di dirigenti di partito, inseriti nei consigli di amministrazioni o arbitri delle loro nomine.
Perdurano nel ‘74 e nel ‘75 attività eversive ad opera di terroristi d’estrema destra (ad Empoli vengono uccisi due carabinieri in azione per l'arresto del responsabile di gra-
vi fatti, a Milano durante una manifestazione è ucciso un giovane ad opera di appartenenti al gruppo di “avanguardia nazionale” che sarà successivamente disciolto) ed estrema sinistra (il fondatore delle BR Curcio, viene arrestato insieme ad Alberto Franceschini, poi evade dal carcere mentre sua moglie Margherita Cagol muore in un conflitto a fuoco quando i carabinieri vanno a rintracciare l’industriale Vallerino Gancia rapito in Piemonte dai brigatisti). A Reggio Emilia viene ucciso un giovane militante di “Lotta continua” e successivamente emergeranno responsabilità di appartenenti ad “Autonomia operaia”; ancora in provincia di Padova brigatisti uccideranno un agente di polizia. Ma l’elenco di tutti questi tragici episodi potrebbe continuare: segni inquietanti di una violenza esasperata che la stessa forza pubblica non è in grado di controllare (v. All'estrema sinistra).
18. In tutta questa fase la segreteria Fanfani è sorretta da una maggioranza composita dalla quale sono esclusi solo i gruppi di Base e di Forze nuove. Ma vi sono problemi ben più rilevanti di quelli interni di partito. Infatti la posizione della DC va riconsiderata nell’ambito della società italiana, alla luce del Concilio Vaticano Secondo, che ha indicato chiaramente l'autonomia delle scelte dei cattolici sul piano politico. Si pone allora la questione del superamento dell’unità politica dei cattolici italiani - sottolineata non più come elemento di polemica dagli altri partiti bensì come fattore di responsabilità all'interno della stessa DC, come rileva tra l’altro PE. Taviani, in una fase caratterizzata da un nuovo tipo di rapporto che si va stabilendo tra gerarchie ecclesiastiche ed attività dei laici. Già dal ‘70 la Commissione episcopale aveva espresso “preoccupazione e perples-
sità” per la scelta “socialista” delle Acli, dichiarando poi esplicitamente che esse non sono “tra le associazioni per le quali è previsto il consenso della gerarchia”. In risposta le Acli affermeranno di continuare a richiamarsi alla ispirazione cristiana, anche se un nucleo - più legato alla DC - preferirà autonomizzarsi come Movimento Lavoratori Cristiani.
Il venir meno del legame della DC con le organizzasioni collaterali - oltre le ACLI, CISL e successivamente anche Confederazione dei Coltivatori diretti - richiama l’attenzione della dirigenza del partito su temi, oltre che organizzativi (si costituiscono i Gruppi di Impegno Politico nei vari settori di attività), di definizione dei contenuti dell’azione operativa da svolgere, tanto più che una critica interna del mondo cattolico da parte di esponenti della cultura (Brezzi, Scoppola, Prodi) e di gruppi giovanili dissociati dal partito nel referendum sul divorzio viene avanti sempre più. In questo ambito nasce una “Lega democratica” (con il periodico “Appunti di cultura e politica”) che sollecita una rifon-
dazione della DC, indispensabile secondo molti suoi iscritti, specie dopo la duplice sconfitta nel referendum sul divorzio e nelle regionali del ‘75. Nelle elezioni amministrative e regionali del giuno ‘75 si registra una considerevole avanzata delle sinistre, in particolare del PCI, verso cui confluiscono molti voti prove-
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nienti dai gruppi extraparlamentari. Nel Consiglio nazionale del luglio ‘75 si prende atto che il Segretario Fanfani non ha più una maggioranza sicura: divisi internamente i dorotei, Moro propone la candidatura alla segreteria di Zaccagnini, attorno al quale si raccolgono numerosi consensi. Il parlamentare emiliano aveva svolto sin dal periodo della Resistenza un ruolo significativo nella DC ed era stato eletto per acclamazione presidente
del Consiglio Nazionale nel luglio ‘69. Quindi la sua elezione alla segreteria quale esponente del cartello delle sinistre è considerata come l’ascesa dell’uomo “nuovo”, capace per
prestigio e capacità di favorire sia una positiva immagine esterna che un assestamento interno. Ed il nuovo segretario, legato al disegno politico di Moro, si impegna subito a guidare la fase del rinnovamento nell’identità culturale e sociale della DC. L'obiettivo sembra proprio l’approccio alla “terza fase” indicata da tempo da Moro come sviluppo della democrazia in Italia e con il dialogo con i comunisti, anche se presto, sia Zaccagnini che Moro, incontrano su questa strada serie difficoltà all’interno stesso del partito.
A seguito del ritiro del sostegno socialista, il governo Moro nel gennaio ‘76 si dimette. Ma intanto esplode il cosiddetto “scandalo Lochkeed”: fonti americane sostengono che importanti uomini politici italiani hanno favorito, in cambio di tangenti, l’acquisto di aerei così denominati. La questione sembra lambire, oltre che autorevoli ministri del governo, lo stesso Quirinale per via di consulenti ed intimi del Capo dello Stato, che saranno accusati di essere coinvolti nell'affare. Moro nel costituire un nuovo governo monocolore (il suo quinto), dovrà rinunciare alla presenza all’Interno di Gui - perché an-
ch'egli chiamato in causa per lo scandalo -, sostituito da Cossiga. Al XIII Congresso (Roma, marzo ‘76) il Segretario Zaccagnini tiene a richiamarsi
alla proposta di “solidarietà nazionale” di cui aveva parlato a Napoli nel ‘54 De Gasperi e, nell’indicare i temi ai quali darà la priorità per il rinnovamento, sottolinea i problemi
del finanziamento del partito e della moralità della politica, nonché la necessità di provvedere ad un ricambio nei vertici e nei metodi del tesseramento. Nei rapporti con gli al-
tri partiti Zaccagnini propone una linea operativa in grado di avviare un discorso innovativo nelle istituzioni e sui contenuti della politica, per realizzare una solidarietà più vasta, indipendente rispetto alla collocazione delle diverse forze politiche. Aggiunge nella relazione che occorre prendere atto dei mutamenti avvenuti all’interno della società e che la consultazione referendaria sul divorzio ha costituito una frattura nel corpo elettorale tradizionale d.c., ponendo fine all’immagine della DC quale rappresentante dell’intera area cattolica. Nel suo intervento Moro precisa che, sebbene non ancora giunto il momento per un coinvolgimento del PCI in una comune esperienza di governo, va ap-
profondito il confronto con quel partito. Su proposta di Ciccardini viene introdotta una modifica dello Statuto del partito, affidando direttamente al Congresso l'elezione del segretario politico. Così si procede subito alla scelta che premia Zaccagnini, riconfermato con una percentuale del 51,57% contro il 48,43% ottenuto da Forlani.
Intanto aumenta il clima di tensione nel paese e tra le forze politiche. Oltre al terremoto in Friuli, che aveva determinato una situazione di grave emergenza, all’inizio dell’aprile ‘76, durante la discussione a Montecitorio di una norma sull’aborto, la confluenza
dei voti tra DC e MSI, provoca il disimpegno dei partiti laici, e la conseguente apertura della crisi. Non essendo riuscito il tentativo di ricomporre la compagine governativa, si giunge allo scioglimento delle Camere. Esponenti della cultura cattolica, alcuni dei qua-
li avevano fatto parte della DC, decidono di candidarsi nelle liste del PCI (come Raniero La Valle, Mario Gozzini, Piero Pratesi, Paolo Brezzi e Angelo Romani) ed all'opposto
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un altro rappresentante del movimento cattolico romano (Agostino Greggi) si presentano alle elezioni con il MSI, mentre al partito socialista è passato, con Livio Labor, un gruppo proveniente dalle Acli. La DC, dal canto suo, cerca di arginare il pericolo includendo nelle proprie liste esponenti del mondo dell'economia (Grassini ed Andreatta), del-
l’imprenditorialità (Umberto Agnelli) e del mondo sindacale (il Presidente delle Acli, Carboni). Ed è in quest'occasione che, dopo le polemiche seguite allo scandalo Lockheed, Indro Montanelli, nel quotidiano “Il Giornale”, lancia un singolare slogan elettorale, invitando a votare DC “turandosi il naso”. 19. AI di là di ogni previsione, le votazioni del giugno ‘76 costituiscono un indub-
bio successo della DC che recupera, rispetto alle ultime amministrative, conseguendo il 38,7%, riconfermandosi, quindi, come partito di maggioranza relativa, contro il 34,1% del PCI, che, convinto di poter conseguire il “sorpasso”, rimane invece fortemente deluso anche se raggiunge il suo apice elettorale.
Come contraccolpo dell’insuccesso del PSI che resta fermo a meno del 10% di voti, nel luglio il Comitato Centrale sostituisce De Martino con Craxi alla guida del partito, dando inizio ad una nuova fase del PSI, più autonoma rispetto al PCI e più vicina ai modelli della socialdemocrazia occidentale. La DC riesce a varare il governo monocolore Andreotti basato sulle astensioni (la cosiddetta “non sfiducia’) di PSI, PRI, PSDI, PLI nonché di PCI ed indipendenti di sinistra. È un fatto nuovo nello schieramento tra i partiti: si forma quello che impropriamente verrà chiamato “arco costituzionale”, con un ministero di “solidarietà nazionale”, in una sorta di “tregua” che vede una collabora-
zione funzionale per la risoluzione, nell’immediato, sia delle serie questioni di politica interna, sia della grave crisi economica ormai in corso da tempo senza l’adozione di inter-
venti efficaci. Perciò (ai dicasteri finanziari sono Morlino, Stammati e Pandolfi) viene stabilita una serie di iniziative per ridurre il disavanzo: abolizione di 7 festività infrasettimanali, blocco delle tariffe pubbliche, congelamento di una parte dell’indennità di contingenza mediante conferimento di titoli di Stato per i redditi superiori a 10 milioni annui, azione antinflazionistica.
Il Consiglio nazionale elegge Moro alla presidenza del partito (6 ottobre). Nel novembre la commissione inquirente della Camera inizia l'esame della posizione di Rumor e Gui, oltre che di Tanassi (v. PSD)D in relazione all’affare Lockeed. E le Camere riunite rinvieranno a giudizio, di fronte alla Corte Costituzionale, Gui e Tanassi. Intanto continuano a registrarsi sia azioni terroristiche contro esponenti della magistratura, della forza pubblica, dell’imprenditoria e del giornalismo, sia violenze nell’università e fuori e manifestazioni sempre più frequenti dei gruppi extraparlamentari di estrema sinistra (a Roma si hanno incidenti e scontri con interventi massicci della polizia, e poiché viene ucciso un agente di P.S., il clima si riscalda e perciò il Ministro dell’Interno vieta ogni manifestazione). Nell’anniversario del referendum i radicali si riuni-
scono malgrado il divieto; nel corso della manifestazione interviene la polizia e viene uccisa la studentessa Giorgiana Masi. Alla Camera i radicali fanno risalire la responsabilità dell'uccisione al Ministro che ha autorizzato la presenza tra i dimostranti di agenti in borghese. Inoltre atteggiamenti di responsabili di servizi preposti alla tutela dell’ordine pubblico provocano vivaci polemiche ed anche interventi di autorità giudiziarie (come nel
caso del processo di Catanzaro - dove Rumor è incriminato per reticenza sulla strage del dicembre ‘69 a Milano, tanto che il governo decide di procedere alla riforma dei servizi 70
segreti). Mancano invece iniziative di politica sociale ed economica capaci di far fronte alle più impellenti necessità e di porre freno alle spese facili per soddisfare le richieste di chi pretende di più, con l'avallo anche dei comunisti (“consociativismo”) e la conseguenza di incancrenire i mali. La stessa opposizione cerca di darsi obiettivi più mirati e Berlin-
guer dichiara che il PCI intende operare per il pluralismo, ma non è più disposto a sostenere governi ai quali non partecipa (v. / comunisti). Mancando una omogeneità tra i partiti che appoggiano il governo, Andreotti si dimette: si ricostituisce un nuovo governo presieduto da Andreotti, ma questa volta con
l'appoggio diretto di PCI, PSI, PSDI e PRI, una soluzione che Moro riesce faticosamente a far passare nei gruppi parlamentari d.c.. Il giorno in cui il ministero si presenterà alla Camera il presidente del partito viene rapito (16 marzo) mentre esce di casa e la sua scorta viene uccisa: le B.R. iniziano a diffondere comunicati nei quali rivendicano l’azione e annunciano che Moro sarà processato come il principale esponente in Italia dell’’imperialismo delle multinazionali”. La DC fa propria la linea di “fermezza” del governo - condivisa dal PCI - nel respingere ogni proposta di trattare con i terroristi. Benché Fanfani si adoperi per secondare le iniziative di Craxi dirette ad accertare le possibilità di uno scambio almeno con un terrorista malato, le B.R. procedono all’uccisione di Moro, fa-
cendo ritrovare il suo cadavere nei pressi delle sedi dei due partiti più decisi nell’evitare ogni contatto. Dal luogo ove era tenuto prigioniero Moro ha inviato lettere nelle quali
lancia anche accuse nei confronti della dirigenza della DC - che gli interessati respingono, definendole (a torto, considerata la lucidità e l'esattezza dei rilievi fatti) frutto di uno
stato di prostrazione - e pertanto la sua fine determina uno stato di profondo malessere in tutto il partito. Cossiga si dimette da ministro dell’Interno non senza riconoscere l’inadeguatezza della azione da lui svolta al Viminale (in una intervista ammette di aver con-
sentito in qualche raro caso che poliziotti in borghese partecipassero a manifestazioni di giovani, infiltrandosi tra essi) (v. All'estrema sinistra).
20. Negli altri campi, il Parlamento vota la legge sull’aborto (con il voto contrario della DC e del MSI) mentre i referendum registrano il consenso degli italiani per il man-
tenimento sia della legge Reale sull’ordine pubblico sia della legge sul finanziamento pubblico. Su quest'ultimo punto tuttavia si registra un ammonimento per il ceto politico giacché oltre il 43 per cento si pronuncia per la sua abolizione, come sostenuto dal solo partito radicale che sul piano elettorale rappresentava poco più dell’uno per cento (v. / r4dicalò).
Il proseguimento di una campagna di stampa contro il Presidente della Repubblica induce anche il PCI a chiedere le sue dimissioni, che Leone acconsente a presentare, quan-
do si accorge che nessun partito, neppure la DC, è disposto ancora a sostenerlo. L'elezione di Pertini apre un nuovo capitolo per le massime responsabilità istituzionali. Si intensificano azioni di terrorismo in varie parti del paese. Il generale Dalla Chiesa riesce ad individuare a Milano un covo della B.R. e procede all’arresto di alcuni dei suoi capi: lettere scritte da Moro, durante la prigionia, saranno sorprendentemente rinvenute nello stesso appartamento solo dodici anni dopo. Vengono uccisi a Roma il direttore generale degli affari penali, a Frosinone il procuratore capo della repubblica e vari agenti di P.S. in diverse località, nonché a Roma il giudice Alessandrini. Si hanno anche scontri a fuoco con i brigatisti, alcuni dei quali rimangono uccisi durante la sparatoria, nonché scontri tra opposte fazioni di estrema destra e di estrema sinistra con numerose vittime. 7A
Quando il PCI ritira appoggio al governo, Andreotti si dimette: in questo periodo la sua azione governativa è stata diretta ad accogliere richieste per la riforma sanitaria e
la politica industriale che aumentano la spesa statale senza consentire alcun miglioramento
dei servizi o un migliore coordinamento delle iniziative economiche e sociali: entrambe le operazioni saranno all’origine di disfunzioni nell'uso del denaro pubblico con sacrificio dell’interesse collettivo (v. { comunisti).
Dopo un fallito tentativo di La Malfa di formare un governo con l’inclusione sia di segretari dei partiti sia di alcuni indipendenti di sinistra (sarà determinante l’opposizione della DC), Andreotti ottiene il reincarico per costituire un governo con PSDI e PRI, ma non ottiene la fiducia al Senato: pertanto si procede allo scioglimento delle Camere. Nelle elezioni di giugno, DC e PSI riescono a mantenere le loro percentuali mentre il PCI subisce un arretramento del 4% e registrano invece risultati favorevoli i radicali - che
salgono al 3,5% - e piccole liste di estrema sinistra. La perdita di consensi sta ad indicare (come è confermato anche dall'aumento del numero delle astensioni e delle schede bianche) come la politica del compromesso storico non abbia convinto una parte dell’elettorato comunista. 21. L'incarico di Pertini - frutto di una scelta personale - a Cossiga per favorire il nuovo governo sta a dimostrare come al gruppo dirigente d.c. sfugga ormai il controllo della situazione, mentre la composizione del ministero (DC, PSDI, PLI) riflette una inclinazione, dopo il fallimento del compromesso con i comunisti, a tornare verso posizioni moderate: una scelta vera e propria - mentre il terrorismo continua a colpire esponenti della DC (all’inizio dell'’80 cadranno vittime delle BR il Presidente della Regione Sici-
liana P. Mattarella ed il V. Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura V. Bachelet) - viene rinviata al XIV Congresso (Roma, 15-19 febbraio ‘80). In questa assise, dalla relazione problematica di Zaccagnini emerge la necessità di ri-
dare fiducia all'intero sistema democratico e di fare dei partiti uno strumento di confronto politico e non più di mera occupazione del potere. La DC non intende voltare del tutto le spalle ai comunisti quanto piuttosto porre la diversità di impostazione ideologica dei due partiti in una contrapposizione che esclude alleanze dettate dall'emergenza. Nel corso del dibattito e delle votazioni, la posizione di Zaccagnini appare appoggiata da An-
dreotti (ma la loro lista otterrà solo il 42% dei voti), mentre sostenitori di varie posizioni si dichiarano fermamente contrari a proseguire una politica conciliante verso il PCI. In tal senso di pronunciano “Iniziativa Popolare” (Piccoli, Bisaglia, Gava), “Nuove Cronache” (Fanfani e Forlani), “Forze Nuove” (Donat-Cattin e Sandro Fontana) ed altri nuclei minori che confluiscono in un documento politico, il cosiddetto “preambolo” - approvato con il 58% dei voti - che così motiva la chiusura di ogni collaborazione con il PCI. “Il Congresso, pur rilevando l'evoluzione fin qui compiuta dal PCI, constata che le contrastanti posizioni tuttora esistenti (....) non consentono alla DC corresponsabilità di gestione con quello stesso partito; e demanda al Consiglio Nazionale il compito di pro-
muovere un'iniziativa politico-programmatica che, previa aperta verifica tra i partiti co-
stituzionali nelle opportune sedi, tenda a rendere più stabile e sicuro il governo del paese, nello spirito della solidarietà nazionale e nel riconoscimento della pari dignità delle forze politiche che intendono collaborare”. Non è solo la fine della politica cosiddetta di “solidarietà nazionale” ma della via per la collaborazione con i comunisti per rafforzare
Uol
la democrazia italiana, perseguita tenacemente da Moro negli ultimi anni di vita: se ne avvantaggerà il PSI. Sul piano interno, viene riattribuita al C.N. la competenza dell'elezione del segre-
tario politico: il successivo Consiglio del 5 marzo eleggerà a tale incarico Flaminio Piccoli, e Donat Cattin - il promotore del preambolo - diverrà vice segretario. Cossiga intanto effettua un cambio di maggioranza (ma dovrà superare in Parlamento anche l’accusa di aver indirettamente favorito la fuga del figlio di Donat Cattin, legato ai terroristi). Nell'aprile, infatti, vara un ministero con DC, PRI e PSI, avendo ritenuto i sociali sti che la linea Craxi richieda una presenza al governo per portare avanti una politica che
si contrapponga alle posizioni e alle richieste dei comunisti. Questi, nel tentativo di recuperare i consensi perduti (dopo le politiche, scendono di quasi il 2% nella amministrative di giugno), colgono l’occasione sul finire dell’estate, in seguito all’agitazione alla Fiat per il licenziamento di 14 mila dipendenti, di rilanciare parole d’ordine massimaliste di cui si fa portavoce, inusitatamente, Berlinguer ai cancelli degli stabilimenti torinesi con accenno esplicito all'appoggio comunista in caso di occupazione della fabbrica. E non è casuale che la risposta a posizioni così oltranziste venga dai quadri intermedi dell'azienda, che compiranno in 40 mila una marcia per le strade di Torino. La vertenza si conclude a favore della Fiat che riesce a mettere in cassa integrazione 23 mila ope-
rai. Nel frattempo Cossiga è in difficoltà per i provvedimenti nel settore economico. Per un solo voto, il governo è messo in minoranza alla Camera nella stesura di provvedimenti economici varati in luglio (ai ministeri economico-finanziari gli esperti Andreatta, Reviglio e Pandolfi) mentre ha superato i contrasti sull’Eni sostituendo Mazzanti (sostenuto
dal socialista Signorile) - accusato di aver avallato il pagamento di tangenti per mediazioni di dubbia destinazione - con Egidi. Il Parlamento approva l’installazione in Italia dei missili Pershing e vara la legge che offre facilitazioni di pena ai terroristi “pentiti”, mentre ha inizio la gestione del nuovo servizio sanitario nazionale gratuito, effettuato attraverso le unità sanitarie locali, affidate a consigli di estrazione partitica, ed emarginazione dei medici.
A seguito della votazione a Montecitorio, Cossiga si dimette definitivamente. Lo sostituirà Arnaldo Forlani (con un governo che comprende anche i socialdemocratici) a conferma dello spostamento registrato al congresso. Assistiamo ancora a “cambi della guardia” senza che il partito di maggioranza relativa sia in grado di proporre al paese soluzioni valide per porre rimedio a situazioni economiche che si incancreniscono e a uno
sfilacciamento della funzione dei poteri pubblici sempre più manifesto nelle scelte e nei comportamenti
degli organi decisionali, quasi irretiti da un irritante immobilismo.
“Quieta non movere” era un valido criterio, ma la realtà italiana appare tutt'altro che quieta: l’attenzione verso il terrorismo e la necessità di debellarlo, fa trascurare ogni altra ini-
ziativa e prospettiva da parte dei governi e dei partiti di maggioranza (v. il nostro saggio “Ta destrutturazione” in “La crisi italiana: le cause della svolta, Siena, 1994).
22. Il terremoto nell’Irpinia ed in Basilicata crea una tensione tra le forze politiche e mette subito in difficoltà il governo, giacché persino il Presidente della Repubblica denuncia in TV il disordine e l’inefficienza degli interventi pubblici di fronte al disastro. Il PCI in particolare riprende gli attacchi al cosiddetto “sistema di potere democristiano”, proponendosi come unico partito del rinnovamento. Ma sono ancora le B.R. protago-
niste della vita nazionale: con l’assassinio del generale dei Carabinieri Galvaligi ed il ra6)
pimento del giudice D’Urso: quest'ultimo caso crea situazioni imbarazzanti per il governo, giacché le B.R. chiedono, per rilasciare il magistrato, la chiusura del carcere dell’Asinara ed un regime meno duro all’interno delle carceri speciali. Si accende una vivacissima serie di forti polemiche, in particolare di quanti (specie radicali e parte dei socialisti) sollecitano atti capaci di salvare D’Urso, ed in effetti da molti la chiusura dell’ Asinara - dopo il rilascio del magistrato - sarà valutata negativamente quasi come una sorta di trattativa indiretta. Viene inoltre rapito a Milano un dirigente dell'Alfa Romeo, e viene uc-
ciso il fratello di un brigatista che con le sue confessioni ha provocato l'arresto di alcuni terroristi.
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Sempre viva si mantiene anche l’iniziativa armata dell’estrema destra (G. Fioravanti uccide due carabinieri). Intanto vengono alla luce oscure operazioni finanziarie in cui sono implicati esponenti politici. Piccoli ammetterà che la DC ha ricevuto nel ‘74 finanziamenti per la campagna antidivorzista da Sindona, banchiere indagato per gravissimi reati in materia finanziaria. E mentre il Presidente del PRI, Visentini, propone di creare un governo di “tecnici” (argomento che sarà ancora per molti anni al centro del dibattito politico), esplode lo scandalo della P2, con il rinvenimento di documenti, dai quali risulta l'appartenenza alla loggia segreta di importanti esponenti politici della maggioranza, alti magistrati, funzionari ed ufficiali: sono costretti a dimettersi il ministro della giustiza Sarti, il capo di S.M. della Difesa ed i capi dei servizi segreti. Forlani, che da
anni sollecitava la “coesione nazionale”, ottenendo come risposta da Berlinguer che si trattava di “una barzelletta”, si dimette, anche perché vengono avanzati rilievi nei suoi con-
fronti per aver tardato a rendere pubblici gli scottanti documenti. In tali frangenti Pertini riesce, per la prima volta dopo il ‘45, ad affidare il governo a un non democristiano, nella persona di Giovanni Spadolini, con un ministero pentapartitico formato da DC, PSI, PSDI, PRI e PLI - una formula destinata per oltre un decennio a caratterizzare la vita parlamentare - che si pone come obiettivi primari la lotta al terrorismo, il risanamento dell'economia e la “questione morale”, a cominciare dalla “pulizia” che viene effettuata ai massimi vertici nelle forze armate e nei servizi segreti conseguentemente allo scioglimento della P2, di cui viene affermato il carattere di pericolosità per l'ordinamento democratico (v. Giovanni Spadolini in Storia del Parlamento vol ; Nuova Cei, Milano, 1993). Il rapimento nel Napoletano del dirigente locale d.c. Cirillo si conclude con una liberazione, che darà adito a gravi dubbi sia per il riscatto pagato che per le trattative svolte utilizzando esponenti del partito, addetti ai servizi segreti ed esponenti camorristi detenuti in carcere. 23. In un'assemblea nazionale d.c. (nel novembre ‘81) si decide di ritornare all’elezione diretta del Segretario da parte del Congresso, ma si pone soprattutto il problema della ricerca di un rinnovato rapporto sia con il mondo cattolico, sia con la realtà sociale del paese che sembra sfuggire sempre più ad un partito che pure ha un forte radica-
mento confermato periodicamente dai risultati elettorali, frutto però, in modo particolare al Sud, dei sistemi di scambio: prevale l’adesione o il tesseramento allo scopo di ottenere favori e non più, come nell’epoca degasperiana e delle esperienze di Fanfani e Moro, per far avanzare i progetti del partito. Si spiega così come nel maggio ‘82 al XV Con-
gresso (Roma, 2-6 maggio ‘82), Piccoli tracci una linea rivolta ad ottenere una maggiore apertura verso la società; viene sollecitata una trasformazione diretta a raccogliere le diverse esigenze popolari per riassorbirle in una “mediazione”. Un “partito nuovo”, si af-
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ferma, cioò dei cattolici non iscritti ma presenti nelle distinte realtà sociali e culturali. Piccoli rinuncia a ripresentarsi come candidato alla segreteria, alla quale invece concorrono
De Mita e Forlani. Il primo non è sostenuto solo dalla sinistra ma anche da Andreotti, dai fanfaniani (si marca così una separazione tra il leader della corrente e Forlani) e dai dorotei raccolti attorno a Piccoli, e così riuscirà ad ottenere la maggioranza.
Si apre un lungo periodo di guida della DC da parte di De Mita, che colloca nelle posizioni chiavi gli amici più fedeli. Il gruppo proveniente dalla “sinistra” - e che tale con-
tinua a denominarsi pur con modifiche sulle proprie posizioni, tra cui sul terreno economico il richiamo a criteri meno statalisti allo scopo di rilanciare il ruolo delle grandi imprese - assumedi fatto la gestione del partito, ma viene a trovarsi nei comportamenti
in contraddizione con le sue iniziali affermazioni. Inoltre la sua formazione e le sue pro-
pensioni sui temi dell'economia e della politica interna non nascondono la disponibilità alla convergenza verso la posizione del PCI, quale grande forza popolare mentre - persistendo le preclusioni di carattere internazionale a tale prospettiva nonché resistenze da
parte delle stesse correnti che appoggiano il nuovo segretario - la DC non può interrompere la sua collaborazione privilegiata con i socialisti, con i quali continua a costituire l'architrave della maggioranza parlamentare. De Mita troverà il sopstegno del quotidiano “La Repubblica”. AI XVI Congresso (Roma, 24-28 febbraio ‘82) il segretario verrà confermato con il 57% dei voti contro l’altro candidato, Vincenzo Scotti (32%), con 11% di schede bianche. Chiusa l’esperienza Spadolini (dopo il primo, un secondo, breve ministero, impos-
sibilitato a proseguire nel suo lavoro per i laceranti contrasti tra i ministri economici della DC e del PSI) tornerà alla guida del governo Fanfani (dicembre ‘82) con una compagine nella quale vengono a mancare i repubblicani. Il governo consegue un importante
risultato con l'accettazione da parte della Confindustria e delle Confederazioni sindacali del protocollo d’intesa proposto dal Ministro del Lavoro, Scotti, che implica la riduzione (15%) del punto unico di contingenza ed il blocco per 18 mesi della contrattazione sindacale. I socialisti ritengono che la situazione evolva a loro favore sul piano eletto-
rale e propongono perciò l'interruzione della legislatura, facendo balenare anche la possibilità di un loro riavvicinamento al PCI (incontro delle Frattocchie tra Craxi e Berlinguer). La decisione di Craxi di uscire dalla maggioranza costringe Fanfani, dopo un di-
battito al Senato, a dimettersi. La politica - una politica distorta - prevale sull'economia. Non essendo riuscito alcun tentativo di comporre una nuova maggioranza, si va alle elezioni anticipate (giugno ‘82) che segnano un sensibile calo della DC (che scende sotto il 33%), un ulteriore arretramento dei comunisti, ed un sia pur lieve miglioramento
del PSI (sale all’ 11,4%) nonché una cospicua avanzata dei repubblicani (il cosiddetto “effetto Spadolini”) che superano il 5% ed ottengono un risultato altissimo a Milano. In sostanza è una redistribuzione di voti all’interno del “pentapartito”, i cui componenti ri-
tengono opportuno ridare fiato alla formula. La DC, colpita dall’arretramento, causato probabilmente da una guida “a sinistra” in contraddizione con il restante corpo del partito e con la stessa politica di maggioranza governativa, è preoccupata soprattutto per l’e-
mergenza economica. Tale situazione favorisce la disponiblità della DC ad accettare, per la prima volta, un presidente del Consiglio socialista. Il paese reale si distacca sempre più dai “palazzi”.
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La presidenza Craxi non vuol essere per la DC un'abdicazione - spiegherà De Mita - ma una scelta all’interno della logica dell’alternanza nella guida di una coalizione rivolta E)
a realizzare un disegno politico preciso; egli, in merito al rapporto tra cristianesimo e democrazia, sostiene che l’ispirazione cristiana e vera laicità coincidono nel rifiuto di ogni
concezione totalizzante della politica. Tuttavia all’esterno appare singolare che essendo
sia De Mita che Craxi attenti all'esigenza di riforme istituzionali non si sforzino neppure di cercare una piattaforma comune, sicché il governo sembra prevalentemente impegnato in un attivismo diretto a conseguire risultati immediati di successo, né la DC può
defilarsi, giacché agli aspetti positivi ottenuti in quel periodo dal governo in politica economica si aggiungerà il rinnovo del Concordato, che stava naturalmente molto a cuore al Vaticano ed agli ambienti ecclesiastici italiani: si spiega pertanto il consolidamento del ministero a guida socialista, di per sé non gradito da tutto gli ambienti di partito. Sina dai primi mesi di governo, Craxi s impegnerà per ridurre l’indicizzazione della
scala mobile, secondo la linea dell’accordo già stipulato dal precedente ministro del Lavoro Scotti. Così si giunge all’intesa di San Valentino (14 febbraio ‘84) che trova l'assenso della Cisl e delle Uil, ma l'opposizione della maggioranza comunista della Cgil, al cui interno si manifesta invece un atteggiamento dei socialisti favorevole ad accettare la riduzione. La posizione dei comunisti induce il Segretario Cisl, Carniti, ad accennare alla possibilità di creare un sindacato in cui possono confluire tutti i lavoratori, ad eccezione dei comunisti. Come effetto immediato si avrà la rottura definitiva della Federazione Cgil-
Cisl-Uil che in certo senso confermava la linea moderata del “preambolo” d.c.. Intanto Berlinguer richiama all’’austerità”. E nel corso della campagna per le elezioni europee, la sua improvvisa morte provoca profonda emozione e molti osservatori attribuiscono a questa ondata di sentimenti il successo del PCI che per la prima volta, con il 33,3% dei voti sorpassa la DC (30,01) tanto più che poche settimane prima delle elezioni regionali ed amministrative avevano segnato la crescita di DC, PSI e partiti laici cui aveva corrisposto un arretramento del PCI, soprattutto in grandi centri urbani (a Roma la DC recupera in particolare nei quartieri popolari, e potrà riconquistare il Comune con Signorello).
Nell'ottobre una mozione presentata dai radicali e Democrazia proletaria contro il Ministro degli Esteri Andreotti, quale “protettore” del finanziatore Sindona, è respinta solo grazie all’astensione del PCI, non condivisa in tutto il partito. Solo pochi giorni prima Andreotti era intervenuto al festival dell'Unità, dichiarando che riteneva pericolosa una riunificazione delle due Germanie, una tesi condivisa da Urss e PCI. I “politici” sembrano camminare sui trampoli mentre la situazione economica si aggrava (v. La destrutturazione in “Le cause della svolta”).
24. Nel giugno ‘85 viene eletto Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sul cui nome confluiscono sia i voti dei gruppi di governo che quelli del PCI, dopo che la DC ha dovuto rinunciare sia alla soluzione Elia, non accettata dal PSI, sia alla soluzione Forlani, non accettata dai comunisti. Ancora una volta prevalgono i personalismi sugli
interessi del paese. All’inizio dell’86 cominciano a manifestarsi attriti tra la Presidenza del Consiglio e la Segreteria d.c.. Il PSI giudica “ostile” il tipo di collaborazione offerta dalla DC. La conflittualità tra i due partiti è alimentata, da una parte, dall’atteggiamento dei socialisti che
si ritagliano sempre maggiori spazi di potere e di influenza dando l’impressione di voler incidere sulle regole del gioco, al di là degli accordi di governo, e dalla polemica, all’interno della coalizione, attorno ad una presunta “linea conservatrice” alla quale il PSI con-
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trappone spesso una sua pretesa “funzione riformatrice avanzata”, dall’altra da una serie di riserve nei confronti di pretese che ambienti della DC ritengono eccessive, specie per-
ché implicano una rinuncia a dispiegare un più chiaro disegno politico sociale d.c.. Al XVII Congresso (Roma, maggio ‘85) De Mita viene, per la terza volta consecutiva, elet-
to alla segreteria, con una maggioranza rinforzata durante l’assise (raggiungerà il 73,53% dei voti), ben oltre i voti raccolti nei precongressi. Nella relazione, accennando al rap-
porto con le opposizioni, osserva che ormai la DC è divisa dal PCI solo dalla differenza di tradizione storica e di ispirazione ideologica, volendo con ciò significare che sono cadute preclusioni d'altro genere. Inoltre sollecita un rinnovamento organizzativo ed un ricambio della classe dirigente, ma i suoi propositi di “rifondazione” non avranno segui-
to. Lo “Sfilacciamento” dei partiti è ormai evidente. La DC, a vari livelli, cerca di sottolineare la necessità di assicurare sia il corretto funzionamento del sistema democratico, sia un rapporto leale all’interno della coalizione di
governo, mentre il timore dei socialisti è che la DC possa cercare un incontro con il PCI, peraltro visto con favore sia in ambienti industriali che da diffusi organi di stampa. E tutte queste polemiche confermano come i gruppi dirigenti dei due partiti riducano quasi del tutto al puro esercizio del potere, trascurando sempre più i reali problemi del paese, che invece si aggravano (cfr. “I socialisti”). Le critiche dell’opposizione vengono trascurate. Nel luglio ‘86 il goveno Craxi viene messo in minoranza nel corso della votazione su un provvedimento di carattere finanziario: evidentemente hanno agito “franchi tiratori” d.c.. Le dimissioni di Craxi si risolvono però con un reincarico, dopo che è stato concordato di procedere nella primavera successiva ad una “staffetta” alla guida del governo. Senonché, giunto il momento di dare esecuzione all'impegno, Craxi prima nega l’esistenza dell’intesa, poi accetta di dimettersi. Durante le conseguenti, lunghe trattative, la DC si convince che è più opportuno andare ad elezioni anticipate. Così, dopo infruttuosi tentativi, sarà Fanfani incaricato di formare un governo monocolore con nove
tecnici (tra i quali i proff. Guarino e Paladin). In effetti il ministero potrebbe ottenere la maggioranza ma la rifiuta; così, battuto - come voleva - alla Camera, crea le condizioni per lo scioglimento delle assemblee che consente tra l’altro di rinviare referendum delicati sulla responsabilità civile dei magistrati nonché sul nucleare, questione sulla quale le
già esistenti profonde divaricazioni tra e nei partiti verranno superate a causa dei timori suscitati dall'esplosione nella centrale atomica sovietica a Cernobyl. L'indipendente di sinistra Claudio Napoleoni denuncia in Senato il costante rafforzamento degli interessi economici privilegiati.
Durante la campagna elettorale la DC e il PSI polemizzano ben più di quanto non avessero fatto in precedenza. La DC recupera con il 34,2% dei voti ed il PSI sale al 14,3 mentre il PCI subisce un'ulteriore flessione. Essendo sempre più evidente come i problemi finanziari debbano essere affrontati senza indugio, la DC, assicuratasi la Presidenza, preferisce affidarla all’ex ministro del Tesoro Giovanni Goria. Nel governo (pentapartito)
Amato per il PSI assume la vice presidenza ed il Tesoro. L'intricato nodo governo-partito segna la “parabola” demitiana, in quanto il segretario vede ampliarsi lo scarto tra i due livelli della sua politica: se all’esterno è riuscito a far emergere la sua strategia, realizzando un recupero dell’elettorato, nell’ambito delle DC non è riuscito a tradurre i risultati
elettorali in una azione capace di dare un'impronta a nuovi equilibri ed a realizzazioni concrete, e la sua leadership anziché consolidarsi, comincia ad essere incrinata. Critiche
TA
gli erano state mosse anche durante la campagna elettorale con il “documento del ‘39” firmato tra gli altri da Andreotti, Donat Cattin, Piccoli e dallo stesso Presidente della DC,
Forlani. Il documento in sostanza giudicava troppo polemica la posizione assunta dalla segreteria nei confronti del partito socialista.
25. La soluzione Goria avrebbe dovuto introdurre una fase di “decantazione” tra i partiti ed all’interno di essi in vista di soluzioni politicamente più stabili. Gli sviluppi invece frantumeranno questo obiettivo, come si vedrà allorché contro il presidente del Consiglio, attaccato sulla legge finanziaria, avrà luogo una prima, inquietante manifestazio-
ne dell’insofferenza dei deputati d.c. contro l'esecutivo e contro la situazione nel partito. Un secondo segnale verrà dal riaggregarsi dei gruppi interni che promuovono una serie di incontri, convegni, assemblee, in quanto De Mita aveva cercato di guidare il partito saltando la mediazione delle correnti. Adesso la ristrutturazione dei gruppi, entro i quali progressivamente cresce la contestazione, coglie De Mita in contropiede e mette in crisi il suo modello di gestione del partito poiché ne emergono le contraddizioni, le dif-
ficoltà di rinnovamento, evidenziando inoltre l'isolamento. Nell’ottobre ‘87 sarà la sinistra d.c. (riunita a Chianciano) a criticare il governo Go-
ria: benché proprio in quel momento presidenza della Repubblica, presidenza del Consiglio e segreteria della DC appartengano ad uomini provenienti dallo stesso gruppo, si avverte l'assenza di reali ed incisive capacità di azione. Successivamente si riunisce a Padova il “centro” formatosi, dopo la frantumazione dell’arcipelago doroteo, intorno alla figura di Antonio Gava, le cui posizioni verranno a coincidere con quelle di Forlani, il quale oppone al pericolo della trasformazione e del rinnovamento, la “solidità della tradizione”, la sicurezza del partito di una volta di fronte alle incognite di un partito da reinvetare, confermando così un sostanziale immobilismo del partito in Parlamento, al governo, nel paese.Secondo De Mita sono rimasti solo i capicorrente, che trattano in nome non di truppe fedeli ed affiatate, ma di numeri di tessere, molte volte intestate ad iscritti puramente fittizi. Siamo all’esasperazione dei “giochi” di correnti, fini a se stessi, o me-
glio corrispondenti ad interessi personali o parziali di piccoli gruppi, senza nessuna rispondenza ai problemi del paese - che si aggravano nel campo finanziario - e ad even-
tuali prospettive di rinnovamento, spesso invocate ma continuamente rinviate. Mentre si consuma quindi la scarnificazione del partito, nel quale si rivela impossibile formare intorno a De Mita una maggioranza, il governo incontra crescenti difficoltà. Tra l’altro provvedimenti finanziari vengono contestati, oltre che dai sindacati, anche dalla parte della DC tradizionalmente legata alla visione sociale in materia di assistenza. Altri contrasti dipendono dalla questione della centrale energetica di Montalto di Castro
che Goria vorrebbe far funzionare, in dissenso dal PSI. Quando il Presidente si dimette
è già pronta la sostituzione con De Mita che nell’aprile ‘88 costituisce un nuovo governo pentapartito, in un'atmosfera di accresciuta tensione tra DC e PSI perché i socialisti intendono seguire un percorso che mira soprattutto al rafforzamento delle loro posizioni. Il progetto di realizzare un maggiore rigore nella spesa pubblica darà il via a vivaci scon-
tri politici e parlamentari. Oltre al confronto governo-sindacati, sono in gioco in quei mesi complessi problemi di produzione industriale, come quello che porta alla costitu-
zione dell’Enimont, un colossale polo chimico pubblico che presto diventerà fonte di ulteriori sperperi: ben presto sopravverrà la rinuncia alla combinazione tra pubblico e privato dando luogo a singolari vantaggi per la Montedison di Gardini.
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Sul piano parlamentare la DC fa propria la proposta di Craxi per eliminare, salvo
pochi casi, il voto segreto: il provvedimento è approvato sia alla Camera che al Senato. In politica internazionale De Mita recandosi a Mosca con eminenti industriali ed eco-
nomisti - dove la perestrojka si rivela più difficile a realizzarsi di quanto si potesse sperare - si pronuncia a favore di aiuti occidentali all’Urss per rafforzare le posizioni di Gorbaciov.
26. All’approssimarsi del XXVIII Congresso (Roma, 22 febbraio ‘89) De Mita rende nota l’intenzione di non ricandidarsi alla segreteria, anche perché il doppio incarico
- di cui neppure De Gasperi aveva voluto gravarsi - suscitava parecchie critiche all’interno del partito. All’inizio dei lavori vengono presentate diverse mozioni che fanno riferimento ai nuovi raggruppamenti, segno di una scomposizione che non escludeva convergenze. Infatti poche ore prima dell’inizio del Congresso è raggiunta un'intesa per la candidatura unica di Forlani, che così diviene segretario con l'85% dei voti. Assieme ad una mozione politica unitaria sono approvati documenti su mass-media; sul diritto alla vita e sul Mezzogiorno (tre nodi no risolti e sui quali ancora si dibatterà negli anni se-
guenti). In primavera, nelle elezioni europee, la DC subisce un lieve arretramento mentre il
PSI mantiene le posizioni ed il PCI scende al 27%. Le misure economiche predisposte dal governo (il cui programma, predisposto dai consulenti di De Mita, viene pubblica-
to - ancor prima di essere ufficiale - nel quotidiano della Confindustria, quasi a simboleggiarne il sostegno) suscitano aspri risentimenti nelle sedi sindacali: uno sciopero generale dimostra una forte opposizione popolare al provvedimento. Ciò indebolisce la posizione di De Mita che presenterà le dimissioni nei giorni in cui si svolge il Congresso
del PSI dal quale si lanciano forti critiche verso la guida del governo. Ed infatti il PSI si opporrà al reincarico. Sarà invece Andreotti a raccogliere la difficile eredità con una nuova alleanza pentapartitica che vuol portare una tregua all’interno dell’area politica laica.
Il sesto governo Andreotti mira a superare i gravi problemi che lo incalzano adottando una tattica morbida, non opponendosi cioè a lasciare una certa autonomia di posizione ai vari partiti componenti della maggioranza, e senza invece prendere di petto le situazioni più difficili (salvo una serie di misure ed interventi contro la mafia): così fa-
cendo, può sopravvivere - malgrado spinga in senso contrario Craxi - sino alle elezioni del ‘92, profittando anche della crisi del PCI, del suo cambiamento di rotta, del suo scio-
glimento e quindi della nascita del PDS, non interessato ad una immediata verifica elettorale. Ma la conseguenza sarà che tutte le questioni lasciate insolute, con la consueta pra-
tica del rinvio, finiranno per esplodere tutte insieme, provocando così un trauma che colpisce e delegittima tutto il gruppo dirigente dei partiti di governo, a cominciare da DC e PSI. I nodi più complicati che il governo si trova in questo periodo sono: l’immigrazione degli extracomunitari (dall’Africa come dall’Albania), la questione Enimont, il po-
lo chimico nazionale interamente assorbito dall'ente petrolifero con un acquisto della quota Montedison ad un prezzo che viene considerato incongruo dall'ex ministro Visentini (accertamenti successivi confermeranno i dubbi sollevati dalla stampa e riveleranno co-
me la corruzione sia penetrata ai più alti livelli politici ed amministrativi dei partiti di maggioranza), il dilagare della malavita organizzata in tutto il Meridione ed in Sicilia (i responsabili dell'ordine pubblico ammettono che quelle regioni sono “controllate” dalla malavita).
re
In effetti al partito di maggioranza - che nel novembre ‘89 ha perduto, con la scomparsa di Zaccagnini, uno dei suoi uomini più integerrimi - sembra sfuggire il rischio dell’accumularsi di tante nubi minacciose per l'economia, l'ordine pubblico, la correttezza nei rapporti tra singoli ed istituzioni, preoccupato, sia a livello interno (con la segreteria Forlani, più mediatrice che sollecitatrice) e di governo (con il “tirare a campare” di cui
espressamente si vanta il Presidente el Consiglio), più di durare che di operare. L'aggravarsi della situazione non sfugge invece al Capo dello Stato Cossiga e ciò spiega la sua
metamorfosi che lo vede diventare improvvisamente attivo nel dibattito politico, polemico nei confronti delle istituzioni e del sistema politico, anche se proprio in quel periodo viene confermato da nuove rivelazioni come egli abbia assolto, in delicate responsabilità primarie, incarichi (che il presidente tiene a rivendicare) in conformità ad accordi internazionali n0r sottoposti al Parlamento. Suscita inoltre critiche sia la constatazione che egli non esiti ad attaccare magistrati, personaggi poltici, persino ministri in carica da lui nominati, sia l'atteggiamento di sfida con il quale reagisce a rilievi mossi al suo operato, specie per il caso Gladio, e verso il Consiglio della Magistratura. Particolarmente aspro il suo scontro con il Presidente della DC De Mita. Ormai Cossiga si considera estraneo alla DC - non solo dal punto di vista formale - di cui ha avvertito il progressivo distacco dalla sensibilità per i problemi più gravi e dalle sue stesse tradizioni, e suggerisce - ed in ciò coglie lucidamente un'esigenza popolare - decisi cambiamenti a livello istitu-
zionale e di comportamenti politici, che nessuno però riesce ad avviare, accrescendo così il discredito del ceto dirigente di fronte al paese. 27. Una serie di referendum presentati per la riduzione ad uno dei voti di preferenza nelle elezioni per la Camera ed il Senato suscitano vivaci polemiche: la Corte Costituzionale ammette solo il primo. Essendo il d.c. Mario Segni l’animatore del comitato che promuove i referendum (ed ottiene l'appoggio di molti d.c. e del gruppo dirigente del PDS) - contro i quali si scaglia il PSI - emergono contrapposizioni anche all’interno
della DC, che tuttavia non prende ufficialmente posizione per il voto referendario: questo nel giugno ‘91, dà luogo ad una schiacciante vittoria dei fautori della preferenza unica, assunta per la gran parte dei votanti a simbolo di protesta contro la partitocrazia, ed in particolare i suoi massimi esponenti, a cominciare da Craxi e Andreotti. Nel febbraio ‘92 cominciano a venire alla luce gravi fatti che oltre a mettere in crisi singoli amministratori (come a Milano) pongono sotto accusa intere amministrazioni (come nel caso del Consiglio Regionale abruzzese) ma soprattutto squarciano il velo su una infinita serie di corruzioni sino allora coperte. Come dice un'antica fiaba, il “re”, cioè il potere, re-
sta nudo di fronte al popolo italiano, sempre più sbigottito e sorpreso. Così le elezioni del 5 e 6 aprile esprimono vistosamente il rigetto della maggioranza degli italiani verso il livello di grave deterioramento presente nei partiti e nell’intera classe politica. La DC
subisce un calo e tocca il suo minimo storico (31%): una parte notevole dei suoi voti in Italia settentrionale passa alla Lega Nord, che riporterà successi anche nelle successive ele-
zioni comunali a Mantova e Varese, mentre prende sempre più consistenza “Tangentopoli”, scandalo che ad opera della magistratura inquirente da Milano si estende ad altre città del Veneto, della Liguria, del Lazio e della Campania, coinvolgendo uomini politici ed amministratori pubblici appartenenti, anche se con percentuali diverse, a tutte le aree politiche (per la DC, risultano coinvolti i suoi maggiori esponenti, dalla segreteria nazionale al segretario amministrativo ai dirigenti periferici ed ai grandi commis a cui il 80
partito si affidava nel campo pubblico dell'economia), nonché imprenditori privati e pubblici. Tuttavia i partiti del pentapartito riescono ancora a mantenere la maggioranza dei parlamentari.
28. In un clima così aggravato dalla questione morale - a seguito di varie elezioni infruttuose - un ampio schieramento di forze politiche fa convergere i voti sul nome di Oscar Luigi Scalfaro - esponente significativo della DC sin dalla Costituente - per la Presidenza della Repubblica, dopo che già era stato eletto Presidente della Camera. Nell'estate si riesce a formare il nuovo governo e la DC sostiene il nuovo Presidente del Consiglio, il socialista Giuliano Amato. La direzione del partito stabilisce l’incompatibilità tra la carica di ministro e quella di membro del Parlamento. Entrano nel governo tra gli altri Mancino agli Interni, Scotti agli Esteri (poi si dimette sostituito da Colombo), Barucci al Tesoro e Guarino all’Industria. Questi due ultimi avranno posizioni diverse sui modi ed i tempi della privatizzazione, sostenendo il secondo l'esigenza
di impostare una nuova politica industriale come presupposto per procedere alla dismissione degli enti pubblici economici. Nel Consiglio nazionale del 12 ottobre ‘92 - dopo che il segretario Forlani ha da tempo comunicato di dimettersi - viene eletto all’unanimità il nuovo segretario, Mino Martinazzoli. Da mesi ormai, all’interno del partito, era in corso un confronto politico che
investiva l’intera prospettiva della DC e metteva in discussione equilibri e vecchie geografie correntizie. Martinazzoli sceglie i suoi collaboratori fuori dai tradizionali rituali correntizi e delle mediazioni vecchio tipo. Luigi Granelli, Vice presidente del Senato e in un certo senso - assieme a Bodrato - coscienza critica di quel che sopravvive della tradizione della sinistra d.c., osserva che occorre saper cambiare, non solo nella guida, ma nel gruppo dirigente, nel costume, nell'iniziativa politica. Nel successivo Consiglio nazionale (27 ottobre), Rosa Russo Jervolino - che nel go-
verno Amato è ministro della pubblica Istruzione - viene eletta per acclamazione Presidente del C.N. della DC. Vi è così nella doppia scelta (Martinazzoli viene dalla sinistra, il nuovo presidente dal tradizionale gruppo doroteo-forlaniano) la volontà di mantenere unito il partito, presentandolo inoltre ai vertici con “volti nuovi” e puliti. Nello stesso mese di ottobre Mario Segni - la cui iniziativa referendaria, pur non condivisa inzialmente dagli organi dirigenti, era stata poi secondata da parecchi ambienti del partito tiene all'Eur un convegno nel corso del quale, insieme a Romano Prodi ed Ermanno Gorrieri, indica le linee di una nuova impostazione politica ed economica, in contrapposizione al “parassitismo” statalistico e al comportamento dei gruppi che hanno portato il paese in condizioni disastrose, polemizzando inoltre con la Lega di cui denuncia i propositi antiunitari. Raccoglie significativi consensi e dà vita al movimento “Popolari per la riforma” composto più da interni che da esterni della DC. Nella primavera ‘93 registra inoltre un risultato nettamente favorevole dai referendum proposti per la riforma della legge elettorale del Senato. Quando perviene ad Andreotti un avviso di garanzia connesso ad accertamenti sui rapporti con la mafia e poi all’uccisione di un giornalista, Segni rompe gli indugi ed esce dalla DC, aderendo al gruppo di “Alleanza democratica”, sino allora composto da persone provenienti da partiti laici e di sinistra. Non lo seguo-
no in molti nell’abbandono del partito, ma così la componente ex dc assume un ruolo di primo piano nella nuova formazione tanto più che il professor Pietro Scoppola ne diviene una sorta di garante.
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Intanto Martinazzoli ha proposto di dotare la DC di una nuova struttura organizzativa che vuol essere più aperta alle istanze della società: la nuova struttura è articolata in 8 dipartimenti con a fianco gruppi di lavoro, ed il segretario chiama subito quali suoi
collaboratori diretti esponenti della scienza economica come Andreatta e Prodi o della cultura cattolica come Rocco Buttiglione per sottolineare l'intento di cambiare rotta. Rosy Bindi, parlamentare europeo per il nord-est, è divenuta l’espressione più significativa di queste tendenze ad un cambiamento di fondo e dei gruppi di “autoconvocati” (come
in Emilia) che chiedono la trasformazione della DC in “partito popolare” per riprendere il nome storico del movimento di Sturzo. Non si tira indietro Martinazzoli, che affi-
da ad una “costituente” una riforma profonda del partito ed eventualmente il cambio di denominazione. Il presidente Russo Jervolino fa approvare un “codice deontologico” in
base al quale è prevista l’autosospensione dalle attività di partito per gli indagati di peculato, malversazione, concussione, corruzione o altri reati gravi e l'obbligo di lasciare gli incarichi direttivi in caso di rinvio a giudizio. Non si riesce invece a creare una direzio-
ne in grado di esprimere compiutamente le nuove prospettive verso cui si intende indi-
rizzare il partito. L'idea della Bindi raccoglie consensi, tanto che sarà fatta propria nel luglio ‘93 dalla dirigenza della DC, mentre non mancano riserve, nel timore che la nuova
linea sia troppo spostata a sinistra: tali differenziazioni emergono anche nei due convegni di fine estate rispettivamente a Ceppaloni (dove prevale una tendenza di tipo “centrista”), e a Lavarone (dove la sollecitazione per una linea innovatrice appare più evidente).
Sul piano governativo la segreteria Martinazzoli sostiene il governo Ciampi, al quale dà l'apporto dei suoi esponenti (Andreatta agli Esteri, Mancino all’Interno, Barucci al Tesoro, Jervolino all'Istruzione) al fine di portare avanti il programma di riduzione del-
la spesa e del debito pubblico nonché di privatizzazioni, sempre annunciate e sempre rinviate. Sul piano parlamentare il progetto Mattarella per la modifica della legge elettorale alla Camera (dopo che il Senato si è adottato un sistema che aderisce in pieno al risultato referendario) subisce alterazioni: il testo approvato stabilisce infatti l'adozione dell’uninominale per i collegi nei quali dovrà essere eletto il 75% dei deputati, mentre per il 25% (al Senato l'applicazione della proporzionale deriverà automaticamente dalla somma dei voti non utilizzati nei singoli collegi) prevede da parte dei candidati in ogni collegio l'indicazione delle liste di riferimento per “ripescare” in circoscrizioni regionali o su-
bregionali i seggi da assegnare con la proporzionale mediante un complicato sistema di “scorporo” purché sia raggiunto a livello nazionale il 4%, né la DC con l’eterogenea maggioranza favorevole alla legge ha ritenuto di accedere alla proposta del PDS per adottare
il ballottaggio al secondo turno se nel primo nessun candidato raggiunga la maggioranza assoluta.
In seguito Segni decide di abbandonare Alleanza democratica, considerandola troppo spostata verso il PDS che a suo avviso non ha dimostrato di aver superato le vecchie posizioni né di aver reciso i collegamenti con Rifondazione Comunista: prospetta inve-
ce l'opportunità di dar vita ad una formazione di centro di impronta liberal-democratica, capace di raccogliere cattolici e laici, secondo le linee già indicate dai popolari per la
riforma. Pertanto sottopone ai cittadini un “patto per la rinascita nazionale”, proponendosi di raccogliere almeno un milione di firme. Dopo un convegno a Torino (novembre
‘93) con la partecipazione di G. Amato, V. Zanone, S. Vertone, un gruppo di intellettuali cattolici e laici (R. Buttiglione, L. Colletti, I. Montanelli, A. Martino) rivolge un 82
appello a Segni perché si candidi alla Presidenza del Consiglio su un programma antistatalista, che congiunga solidarietà ed efficienza. Segni riconferma le sue posizioni contrarie al MSI, al PDS nonché alla Lega, e inoltre definisce una “follia” l’iniziativa ormai
avviata dal presidente della Fininvest Berlusconi per organizzare una nuova formazione politica.
All’interno della DC un gruppo di centristi (Casini, Fumagalli Carulli, Mastella, D'Onofrio) ritiene invece utile confrontarsi con la Lega, e - non ottenute le garanzie chieste a Martinazzoli - si costituirà in Centro Cristiano Democratico quando si realizza (gen-
naio ‘94) il progetto per costituzione del nuovo “partito popolare”, arrivato in porto, soprattutto dopo che le elezioni amministrative dell'autunno ‘93 hanno segnato una grave sconfitta per la DC, i cui esponenti non sono riusciti ad entrare in ballottaggio nei grandi comuni, anche se il partito in elezioni in comuni minori è tra i pochissimi che ha superato da solo il 10% dell’elettorato.
Martinazzoli e Rosy Bindi hanno spinto al grande passo; si delinea così il nuovo partito, al cui programma autonomistico e per la difesa della famiglia e della solidarietà so-
ciale danno un rilevante contributo Enzo Balboni e Rocco Buttiglione.
È sintomatico come sia in Segni (che pure guarda prevalentemente, dopo le vittoriose battaglie per affermare nuove regole del gioco a cominciare dall’elezione diretta del
Sindaco e dal collegio uninominale per il Senato, a una formazione moderata su posizioni liberal-democratiche) che nella Bindi (impegnata in una azione di rinnovamento e che non esclude, in determinate situazioni come per le ammnistrative a Trieste, di preferire l'alleanza con il PDS a schieramenti vicini a Lega o MSI) sia forte il richiamo a Stur-
zo. La differenza principale consiste nell’esigenza avvertita da Segni di un collegamento tra laici e cattolici per superare una distinzione che tanto ha influito in passato sulla
politica italiana, per raccogliere in nome di un “patto per l’Italia” esponenti ed elettori di varia provenienza (prevalentemente liberali come Zanone e socialisti vicino alle posizioni di Amato) mentre i sotenitori del Partito Popolare (che si costituisce il 18 gennaio ‘94) insistono sulla “identità” cristiana del nuovo soggetto politico. E in vista delle elezioni politiche anticipate di fine marzo ‘94 si concordano candidature comuni tra i due grup-
pi che si presentano sotto la sigla comune di “Patto per l’Italia” nei collegi uninominali della Camera e del Senato e con liste disgiunte (rispettivamente “Patto Segni” e “Partito popolare italiano”) nel voto per la proporzionale alla Camera. I risultati (alla Camera, nella proporzionale 4 milioni e 288 mila voti per il PPI, con 11,1% e 1.795.700 voti per il Patto con il 4,69) sanciscono la fine del ruolo fondamentale dei cattolici organizzari (v. il nostro saggio “Sull’unità politica dei cattolici” nel
citato Le cause delle svolta”) nella vita parlamentare italiana. A Montecitorio entreranno 33 popolari e 13 pattisti, a Palazzo Madama 27 popolari e 4 pattisti. Considerato che le
liste Segni comprendevano anche esponenti laici e socialisti, in effetti gli eletti in quanto “cattolici democratici” (tra essi Elia, Russo Jervolino, R. Bindi e R. Buttiglione) sono in numero inferiore agli appartenenti al Centro Cristiano Democratico eletti con Forza Italia (v.), rispettivamente 46 e 31. Martinazzoli - che non si era presentato - si dimette dalla segreteria, senza lasciare
un gran vuoto, salvo la sua personale dirittura di carattere. Il PPI si avvia al congresso per svolgere, dopo quasi 50 anni di democrazia cristiana al governo, un ruolo di oppo-
sizione. Il CCD confida di poter esercitare nella nuova maggioranza un'efficace funzio-
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ne di difesa dei principî cattolici in materia di insegnamento, famiglia, vita morale e fisica. Non sono tuttavia escluse ulteriori ricollocazioni essendovi, su questi punti, concordanza con gli eletti nei gruppi “centristi” ed essendo se mai le divergenze sul terreno dell’azione sociale.
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Capitolo IV
ESOCIAEISTI
1. In Francia si era avviato un processo di unificazione tra i socialisti italiani in esilio: così si giunge nel 1930 alla Carta dell’Unità socialista e alla ricomposizione del partito (aderente all’Internazionale operaia socialista) con Turati, Modigliani, Buozzi e Tre-
ves nonché i più giovani Nenni e Saragat, nel ‘31 all’alleanza con il movimento di “Giustizia e libertà” costituito da Carlo Rosselli all’insegna del socialismo liberale, superamento del liberalismo tradizionale e del collettivismo classista per un impegno democratico rinnovatore in economia, nelle istituzioni, nel costume, e, dopo una serie di polemiche interne ed esterne, nel 1934 al patto d’unità d’azione tra P.S.I. e PC. d’I., firmato per i so-
cialisti da G. Saragat d'accordo con il segretario del partito P. Nenni. l’azione di un “Centro interno” in Italia (Morandi, Luzzatto, Colorni) consente in
particolare nel 1936-37 di misurare difficoltà e nel contempo prospettive di un rinnovato movimento socialista basato sulla autonomia di classe. L'impegno per la comune lotta in Spagna - dove si battono per la causa antifranchista esuli socialisti, aderenti a G. e
L., repubblicani, comunisti, anarchici -, porta al secondo patto d’unità d’azione (1937). Il patto sovietico-nazista dell'agosto 1939 è criticato dai socialisti italiani e Nenni si dimette dalla segreteria. L'avanzata tedesca in Francia rende più pericolosa, ma non disperde, l’azione degli emigrati politici italiani, i quali nel luglio 1941 danno vita al Pat-
to di Tolosa (PSI, PCI, Giustizia e Libertà) che afferma l’esigenza della unità del popo-
lo italiano per ottenere una pace separata rivolgendo un appello non solo ai liberali e ai cattolici ma anche ai fascisti e ai monarchici disposti a ribellarsi per ottenere la fine della guerra e la caduta del regime. Il corso disastroso della guerra consente in Italia la ripresa dell’attività politica clandestina con diversi gruppi che si richiamano al socialismo. Rappresentanti socialisti partecipano a fine luglio ‘43 al Comitato nazionale delle correnti antifasciste che il 9 settembre si trasforma in Comitato di liberazione nazionale e chiama gli italiani a combattere contro l’esercito tedesco ed il fascismo, dopo l'annuncio dell'armistizio e la fuga del FE. I socialisti si sono organizzati nel PSIUP, che comprende sia il vecchio tronco socialista (Nenni, Pertini, Lizzadri, Saragat, Romita) sia i nuovi gruppi che si sono formati a Milano (Basso) e a Roma (Vassalli e Zagari) su posizioni “rivoluzionarie” e di “unità proletaria”. La confluenza di diversi filoni, pur non accomunati da una identica visione sul futuro del socialismo, dimostra come l’idea socialista fosse ben viva, contrariamente
a quanto molti pensavano negli anni ‘30, ritenendola superata. Rispetto ai comunisti i socialisti non possono contare su una rete capillare clandestina collaudata come i loro alleati ma intenso è l’impegno sia nell'azione politica che militare ed anzi trovano, accanto a vecchi militanti, una larga leva giovanile attiva e fertile per idee ed iniziative. Di fronte alla novità introdotta nel 1944 da Togliatti con la svolta di Salerno, il PSIUP avanza riserve che si ricollegano alla dichiarata volontà dei suoi dirigenti di per85
seguire con il ripristino della libertà obiettivi democratici di trasformazione delle strut-
ture sociali per evitare il ripetersi di situazioni che avevano portato al fascismo (v. / liderali e I comunisti).
D’altronde sin dal momento della partecipazione alla nascita del CLN, il PSIUP rivendica una linea di netta intransigenza repubblicana contro le forze disposte ad avallare il mantenimento dell’ordine istituzionale; l’o.d.g. votata dal C.C. del CLN il 15 febbraio 1944, nel riconfermare il rifiuto di qualsiasi collaborazione con la Corona già con-
tenuto nel documento del 16 ottobre 1943, rappresenta una denuncia della politica del “rinvio” che trova un avallo negli elementi moderati (Bonomi) e nella D.C. Liberata Roma, i socialisti entrano con Nenni nel governo dei C.L.N. guidato da Bonomi, ma in-
tanto l asituazione è cambiata. 2. Non manca di affiorare in questo periodo una differenziazione tra socialisti e co-
munisti: la linea del PCI infatti è più duttile e realistica in quanto parte dalla premessa che l’inserimento dell’Italia nell’area anglo-americana (anche se non vi è stata ancora con L’URSS la spartizione dell'Europa in sfere di influenze che verrà fissata a Yalta) esclude la possibilità di soluzioni socialiste o comunque in contrasto con la volontà delle due potenze occidentali, le cui armate stanno procedendo all'occupazione dell’Italia, e pertanto pone come obiettivo immediato la liberazione dai tedeschi e dal fascismo con il ripristino di un regime di libertà mentre nel PSIUP si vorrebbe puntare a conseguire obiet-
tivi di rinnovamento di segno socialista utilizzando (ed è la stessa posizione del partito d’azione), le potenzialità offerte dalla spinta popolare che consente, man mano che gli alleati avanzano, la creazione di nuovi organi di potere in corso di istituzione a livello lo-
cale (CLN) a fianco delle articolazioni statali decomposte sotto l’urto della duplice occupazione militare straniera. Ma la maggiore capacità organizzativa del PCI, la sua prontezza nell’adeguarsi alle situazioni nuove che si determinano, il mito del comunismo sovietico che si è fatto strada in larghi settori del proletariato, il senso pragmatico del lea-
der comunista rientrato dall’URSS sono tutti fattori che renderanno più efficace la linea realistica rispetto alle speranze nutrite dai “rivoluzionari” del PSIUP. Infatti l’azione del PCI è più aderente alla situazione effettiva così come è controllata dai nuovi vertici politici interni e soprattutto esterni (Alleati): gli elementi più intransigenti del PSIUP avvertono che l'accettazione della logica del compromesso (prima entrando a far parte del governo Badoglio di Salerno, poi seguendo la linea di Bonomi sostenuta da liberali e D.C.) implica l’abbandono di ogni programma di cambiamento in senso socialista. Il rifiuto - comune al partito d'Azione - di entrare nel secondo ministero Bonomi marca una diversità di cui si ritroverà traccia anche negli avvenimenti successivi. La fine delle ostilità in Italia settentrionale sembra dare spazio alle prospettive più “avanzate” proprio perché nel nord i CLN riescono ad esercitare - anche se per breve tempo e in limiti consentiti dalla presenza militare anglo-americana - una serie di attribuzioni che comprende la nomina di prefetti e di sindaci nonché l’elaborazione delle pri-
me linee di intervento nel campo economico e perché la scelta di chiamare al governo il capo del movimento partigiano, Ferruccio Parri (giugno ‘44), dimostra una volontà di procedere a trasformazioni nelle istituzioni, di cui però presto si avvertirà l'impossibilità, tanto che già a fine anno quella esperienza cade ed il governo viene affidato al democristiano De Gasperi. Gli impegni assunti dal CNLAI nei confronti degli Alleati, le pressioni esercitate dal
secondo governo Bonomi, hanno di fatto comportato la rinuncia a mantenere in piedi una organizzazione politico-militare in grado di avviare verso forme di sbocco rivoluzionario, per evitare il rischio di intervento degli Alleati a sostegno delle forze e delle isti-
tuzioni tradizionali dello Stato, come avverrà in Grecia. Il tentativo del Ministero Parri (v. Partito d'azione) di mantenere aperta una pro-
spettiva di governo democratico avanzato cade di fronte al reale gioco delle forze politiche interne, giacché lo stesso partito comunista preferisce consolidarsi al potere assieme alla Democrazia Cristiana, anziché inseguire sogni di trasformazione radicale.
L'aver perseguito obiettivi “rivoluzionari” in mancanza di condizioni oggettive che ne consentissero la realizzazione e senza avere l'appoggio di masse popolari spiega la frantumazione del P.d’A. I socialisti si pongono alla testa del movimento che chiede la sollecita convocazione delle elezioni per la Costituente per giungere alla Repubblica. Ed in questa fase, sotto lo stimolo vigoroso dell’azione politica e giornalistica di Pietro Nenni (che nel governo De Gasperi avrà l’incarico di Ministro per la Costituente), il partito so-
cialista si pone di fronte all'opinione pubblica come il partito più deciso ad operare per la soluzione repubblicana (e ne è testimonianza la presenza di Romita al Ministero dell’Interno) e come garanzia di vigilanza democratica. Riconfermato il patto d’unità d'azione con il PCI nell’agosto 1944, il PSI accentua
il tema della politica unitaria di classe più che quello dell'eventuale fusione con i comunisti.
L'affermazione contenuta nel documento di maggioranza approvato nel consiglio nazionale del luglio ‘45 circa la “realizzazione del partito unico della classe lavoratrice” non avrà in sostanza alcun seguito concreto (al congresso comunista del gennaio 1946 Longo proporrà una Federazione tra i due partiti) anche se attorno al problema continua per circa due anni a dilagare la polemica: il Comitato Centrale dell’ottobre 1945 (che vede
emergere in primo piano la figura di Pertini, firmatario con Morandi e Silone della mozione più votata) è imperniato sui problemi della Costituente, lancia un progetto di riforma agraria e sostiene un fronte popolare per la Repubblica. Comincia ad affiorare con maggiore evidenza il dualismo tra Nenni e Saragat, legato com'è il primo alla politica unitaria con i comunisti e facendosi interprete il secondo delle istanze di una maggiore autonomia. Così i nomi dei due leaders finiscono per identificarsi con due posizioni fondamentali del partito, anche se i gruppi che rispettivamente le sostengono hanno una composizione eterogenea: a sinistra infatti emergono le posizioni di Lizzadri - fautore di una fusione effettiva (e quindi subito favorevole alla proposta di una Federazione), di Basso - che sulla rivista “Quarto stato” si farà portavoce della esigenza di alleanze coerenti con gli obiettivi da perseguire (non vi può essere democrazia senza riforme strutturali di segno socialista) -, di Morandi - che guarda ai problemi della democrazia politica e industriale da realizzare in Italia e che succederà in novembre a Pertini nella segreteria. A Saragat guarderà non solo il gruppo di “Critica sociale” che si organizza attorno allomonima rivista dal settembre ‘45 e si riallaccia alla tradizione riformista di Turati,
ma anche “Iniziativa socialista” che denuncia il pericolo d'un umanismo democratico voluto da PCI e DC - che impedisce di portare avanti una politica di radicali riforme in politica interna ed ha dure punte polemiche nei confronti dell’Unione Sovietica in politica internazionale (sostiene invece la tesi di una Europa socialista, autonoma dalle due
superpotenze) mentre il PCI è accusato di trasformismo. Posizione quest ultima coeren-
te sul piano ideologico e nell’interpetazione degli avvenimenti ma evidentemente irrea-
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listica nel terreno concreto e destinata a perdere terreno nel partito giacché pone in dub-
bio la stessa struttura unitaria, e ciò spiega come al congresso di Roma queste posizioni
saranno meno forti rispetto al congresso di Firenze. La vittoria laburista in Gran Bretagna dimostra comunque che il socialismo è destinato ad avere un ruolo nell'Europa Occidentale. L’accettazione della sostituzione di Parri con De Gasperi giustificata con il maggior peso che i tre partiti di massa vengono ad assumere nel governo rappresenta in effetti uno spostamento a destra che colpisce soprattutto il PSI, che avrebbe voluto portare alla guida del governo Nenni e che si oppone alle scelte che possono favorire soluzioni moderate, mentre consente per la prima volta ad un esponente politico cattolico di assumere la direzione della politica nazionale e conferma il PCI come partito di governo. D'altronde la decisione socialista di presentare nei Comuni in cui si vota con la proporzionale e nelle elezioni politiche una lista autonoma indica la volontà di una differenziazione che, come i risultati dimostrano, trova conforto nell’appoggio dell’elettorato. 4. Il Congresso di Firenze rivela il punto di lacerazione cui è giunto il partito. Mo-
randi insiste sui temi politici concreti come punto di riferimento per una ristrutturazione organizzativa del partito attorno alla quale fondare una reale autonomia dal PCI da cui a suo avviso i socialisti sono divisi per il differente modo di porsi di fronte alla poli-
tica sovietica e quindi per una impostazione di linea derivante da una scelta democraticamente compiuta, Basso invece indica nell’azione all’interno delle fabbriche l'alveo naturale del partito e condanna ogni cedimento verso la destra interna. Nel dibattito Nenni riconferma la necessità di una politica unitaria della classe lavoratrice anche se con due
partiti distinti e respinge la prospettiva di un “socialismo dei ceti medi”, nonché di una nuova internazionale dei partiti socialisti europei, proposta da Zagari a nome di “Iniziativa socialista”. All’esperienza del socialismo democratico europeo si richiama Saragat per sostenere il socialismo di tutte le classi lavoratrici. I risultati congressuali (con il 46% alla linea della segreteria, il 40% alla mozione unificata Pertini-Silone-Iniziativa e 11% a
Critica sociale) rendono difficile la costituzione della nuova segreteria che viene infine affidata - come formula di compromesso - a IM. Lombardo, con la presidenza a Nen-
ni. Si tratta di una soluzione interlocutoria in vista delle impegnative prove elettorali. Malgrado le divisioni interne, le difficoltà riorganizzative, la mancanza di un nucleo compatto di dirigenti come nel PCI, il partito socialista è in grado di raccogliere larghi consensi, sia quale erede della tradizione socialista in Italia sia perché esso si presenta anche se legato al patto d’unità d'azione col PCI e deciso a sostenere le ragioni “storiche” della rivoluzione d’ottobre e dell’Unione Sovietica - su una linea di differenziazione rispetto alla politica sovietica sul piano internazionale (divisione in sfere d’influenze) ed interno (stalinismo). I 4.578.229 voti (20,72%) raccolti nelle lezioni del 2 giugno 1946 contro 4.356.686 (18,16%) al PCI dimostrano che vi è una disponibilità dell'elettorato a favore dei socialisti più forte degli errori e delle insufficienze del suo gruppo dirigente: solo che questo non riuscirà ad utilizzare tali potenzialità. Le sollecitazioni da parte D.C. per avviarsi ad una soluzione imperniata su DC e PSIUP viene fatta cadere dalla direzione del partito che si pronuncia nettamente per mantenere l’unità d'azione con il PCI e si dichiara disponibile solo per la partecipazione ad un governo più largo (dai liberali ai comunisti) ma meno omogeneo: Morandi all’Indu88
stria invano tenterà di difendere i Consigli di gestione mentre Romita ai LL.PP. cercherà
di dare un parziale sbocco alla disoccupazione nelle principali città con i lavori a regia. Il problema della fusione affascina e nel contempo isterelisce le energie del partito. I contrasti interni fanno sì che i gruppi intermedi vengano calamitati verso le posizioni estreme anche se la maggior parte di coloro che finiscono per gravitare verso que-
ste posizioni non le condividano interamente: in effetti manca in molti la fiducia in un partito socialista indipendente, e quindi il reale intendimento di realizzare una prospettiva socialista autonoma, tanto più in quanto si profila una divisione in due blocchi internazionali nettamente contrapposti.
L'approvazione (anche da parte di Saragat) del testo del nuovo patto d’unità d’azione con il PCI nel settembre 1946 dimostra la difficoltà di porre un discorso alternativo
che non venga interpretato in chiave anticomunista, d’altronde l’esaurimento delle energie del partito nella polemica interna conduce all’arretramento nelle elezioni ammini-
strative del 10 novembre, che se per la DC - minacciata a destra dall’Uomo Qualunque - significa rispensamento dei rapporti con le sinistre, per il PSI indica la necessità di un
chiarimento di fondo, a cui si giungerà con il congresso del gennaio 1947 (Roma 1-4 gennaio). Le votazioni preocongressuali dimostrano come l’incidenza dei gruppi di “Critica sociale” e di “Iniziativa socialista” sia sul piano numerico minore della qualità delle lo-
ro proposte politiche: la contestazione da parte di M. Matteotti dei metodi messi in atto dalla maggioranza finisce per confermare come questa sia tale e come essa non voglia lasciare spazio alla opposizione. La rivendicazione di autonomia del partito non ha sufficienti consensi e la minoranza preferisce allora abbandonare il partito, dando vita a palazzo Barberini al P.S.L.I. (v. / Socialdemocratici). Rilevante il contributo dei socialisti ai lavori per redigere la Costituzione, specie con Basso, Targetti, Paolo Rossi. 5. La scissione provoca, con il ritiro di Nenni dal governo, la crisi del ministero non
appena De Gasperi torna dagli Stati Uniti, dove si era recato per saggiare umori e di-
sponibilità negli ambienti politici e diplomatici circa l'evolversi degli eventi in Italia, specie in previsione di un eventuale cambiamento della linea d.c. ormai ritenuto indispen-
sabile sia all’interno del partito che da forze disposte dall’esterno a sostenerlo. Il PSIUP riassume la sua denominazione storica di PSI, e Basso viene eletto segretario del partito.
La D.C. non ritiene tuttavia la situazione ancora matura per l’esclusione delle sinistre dal governo, perché in effetti la scissione indebolisce tra i socialisti rimasti nel partito la po-
sizione dell’ala contraria ai comunisti (e per converso rende più forte e determinante l’ala che non vuole abbandonare la via dell'unità di classe) ma soprattutto, in vista di im-
portanti scelte politiche, come presto si vedrà, per avere l'appoggio delle sinistre al momento della firma del trattato di pace e per non aggravare la tensione in relazione alle attese decisioni della Costituente, sui rapporti tra Stato e Chiesa. Il terzo ministero De Gasperi vede ancora Morandi all’Industria (in aprile presenterà un programma economico e finanziario che va al di là delle sue competenze e che
non viene discusso dal governo anche perché orientato verso scelte antagoniste a quelle su cui le forze moderate intendono procedere alla ricostruzione) e Romita spostato al Lavoro. Ma in maggio l’operazione per l’estromissione delle sinistre sarà condotta in por-
to da De Gasperi d’intesa con i liberali e con altre forze (l'Uomo Qualunque a Montecitorio e significativi gruppi economici, definiti dal leader democristiano come il “quarto partito” nel paese). Inizialmente socialisti e comunisti non sollevano eccessive prote-
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ste sia perché sperano che presto il verdetto popolare sarà loro favorevole sia per non aggravere la polemica nei confronti degli Stati Uniti, i cui ambienti politici sono ritenuti ispiratori della manovra. Proprio in questi mesi l’Istituto di Studi socialisti (Morandi, Panzieri) lancia l’idea
di un piano economico socialista, le cui linee essenziali saranno riprese successivamente dalla CGIL, con il “piano del lavoro”, l’unico abbozzo, negli anni del dopoguerra, di un
documento elaborato per suggerire soluzioni economiche non ancorate alle scelte privatistiche né velleitarie.
Il PSI in questi mesi risente delle perdite subite a livello parlamentare e di organizzazione del partito specie tra i giovani (mentre a livello sindacale mantiene buone posizioni come dimostra il primo congresso della CGIL) e teme la minaccia di un rapido spostamento a destra con interventi nel campo dell'economia e del lavoro contrastanti con le sue posizioni: sono tutti elementi che rendono il partito socialista sempre più legato alla politica unitaria con il PCI. Invece si è registrata una significativa diversificazione sull’art. 7 della Costituzione quando i socialisti dei due tronconi divisi, insieme a repubblicani, azionisti e liberali, restando coerenti nella difesa dei principî dello Stato laico hanno votato contro l'inserimento nella Costituzione delle norme che riconoscono i patti La-
teranensi e vincolano comunque la materia all'accordo con il Vaticano, mentre i comunisti hanno accettato il voltafaccia di Togliatti, votando insieme alla D.C. Ottenuto co-
sì anche questo risultato, De Gasperi non ha avuto più remore nell’escludere dal governo socialisti e comunisti.
Intanto la confluenza nel PSI di una considerevole parte degli aderenti al disciolto partito d'azione (v. PZA) conduce nel movimento socialista uomini destinati ad assumere in esso posizioni di rilievo (da Riccardo Lombardi a Francesco De Martino), ma il problema di fondo del partito rimane quello della sua caratterizzazione. Nenni, fedele allo slogan “meglio perdere con la classe operaia che vincere contro di essa”, preferisce proseguire nella condotta unitaria con i comunisti, di cui di fatto subisce l’egemonia e si il-
lude di portare il PSI alla guida (secondo lo slogan di Basso) dell’appena costituito Fronte democratico popolare egemonizzato dal PCI: a favore dell’alleanza elettorale si esprime a grande maggioranza il XXVI congresso (Roma, gennaio ‘48); in senso contrario Pertini, Romita, I. Lombardo (quest'ultimo esce dal partito per costituire Unione dei so-
cialisti, v. / Socialdemocratici). Sui temi della politica internazionale il PSI - a differenza degli altri partiti socialisti dell’ Europa occidentale - non condanna la presa del potere da parte dei comunisti a Praga che avviene in violazione delle regole democratiche e grazie alla presenza in Cecoslovacchia dell’Armata rossa. In politica interna si assiste ad una vivacissima campagna elettorale caratterizzata dallo scontro frontale tra il blocco di sinistra (che si presenta con l’ef-
fige di Garibaldi) e la D.C., ormai perno e baluardo principale della linea anticomunista. Le ragioni del PSI restano schiacciate tra la piattaforma frontista, subita a costo di perdere seggi elettorali anche laddove forte si era rivelata nell”46 la tradizione socialista, e i metodi propagandistici messi in atto dai Comitati Civici.
La sconfitta del 18 aprile ‘48 è particolarmente cocente per il PSI che viene battuto non solo in quanto protagonista del Fronte ma anche all’interno del Fronte: infatti per effetto dell'uso delle preferenze saranno eletti solo 48 deputati socialisti (erano 115 nel ‘46, 63 dopo la scissione) di fronte ai 132 comunisti. Il XXVII Congresso (Genova, 28 giugno 1948) vede la sinistra in posizione difen90
siva, il centro (R. Lombardi, Jacometti) in maggioranza relativa mentre la destra (Romita) propone l’unificazione con fi PSLI. La nuova direzione (con Jacometti segretario e Lombardi direttore dell’Avanti!) tende a sottrarre il partito all’identificazione con la politica comunista, ma nel contempo il riaccendersi delle lotte politiche connesse a motivi di politica interna (attentato a Togliatti, conseguenti manifestazioni popolari, sciopero
generale ed iniziative barricadiere con conseguenti interventi dell’esercito, della forza pubblica e della magistratura) ed a scelte internazionali (adesione del governo italiano al patto atlantico) implica per il PSI (sostenitore dell’unità dei lavoratori e della neutralità) l’ac-
cettazione di posizioni collimanti ancora con la linea del PCI, anche in riferimento a quanto avviene nel URSS (accentuszione delle repressioni staliniste) e nei paesi dell’Europa orientale. La linea centrista si trova così esposta ad una wvatraddizione (e l’esclusione dal Comisco ne sarà la prova) da cui invano cerca di uscire rilanciando parole d’ordine massimalistiche, assieme alla sinistra, che andrà rafforzandosi in maniera da poter
riuscire vincitrice al XXVII Congresso (Firenze, 11-15 maggio ‘49), dove Nenni riprenderà la segreteria del partito, con un esecutivo omogeneo; Pertini, direttore dell’Avanti,
sostiene l'URSS in politica internazionale (blocco di Berlino) a differenza di quanto era
avvenuto nei mesi precedenti con la rivendicazione d’autonomia da parte di Lombardi. La destra di Romita accentuerà le posizioni critiche sino a porsi fuori dal partito (v. PSDI, contemporaneamente all'uscita dalla CGIL di un gruppo di sindacalisti socialisti (Viglianesi, Dalla Chiesa) che promuoverà PUIL.
6. Il PSI (nel quale confluisce il Partito Sardo d'Azione Socialista costituito da Emilio Lussu dopo lo scioglimento del partito d'azione) si dà una organizzazione accentrata che mira all’efficienza nell’omogeneità dei suoi quadri: il segretario organizzativo (e poi
vicesegretario) Rodolfo Morandi si impegna a colpire duramente ogni atteggiamento di dissidenza o manifestazione di autonomia. Nel paese il partito mantiene la propria credibilità accentuando l’azione in difesa dei diritti dei lavoratori, minacciati dai comportamenti degli organi pubblici e dalla dirigenza di grandi aziende. Nel Mezzogiorno e in Sicilia sindacalisti socialisti pagheranno duramente, ed anche con la vita, la propria azio-
ne contro i soprusi dei ceti della proprietà agraria e contro la mafia. Nella prospettiva di politica internazionale Nenni cerca di soddisfare contemporaneamente gli interessi del paese (per il ritorno di Trieste all'Italia) e della pace (opposizione all’automaticità degli impegni militari della NATO e all'intervento degli Stati Uniti in Corea). La leadership di Nenni (riconfermata al XXIX Congresso di Bologna, 1721 gennaio 1951) mira a dare in questo periodo al partito una caratterizzazione che si
distingue per le affermazioni classiste ed internazionaliste. Isolato rispetto agli altri par-
titi socialisti europei, il PSI vede il suo segretario svolgere una intensa azione quale vice presidente della organizzazione mondiale dei partigiani della pace, che gli varrà nel 1952 l'assegnazione del premio Stalin per la pace (sarà restituito all'indomani della denuncia dei crimini del dittatore del Cremlino). Le elezioni regionali in Sicilia e le amministrative del 1951-52 indicano comunque
una costante ascesa del partito, che mentre mantiene - mediante la politica unitaria - una salda base nella classe operaia estende la propria influenza nei ceti borghesi medi e soprattutto negli ambienti intellettuali, preoccupati per la politica d.c. tendente a porre limitazioni alle libertà di espressione: in questo clima Nenni per la prima volta accenna a prospettive di una inversione di tendenza, proponendo una disponibilità verso la D.C. Di
che non vuol significare rottura con i comunisti ma politica di distensione all’interno per
riprendere il discorso nelle riforme (terzo tempo “sociale” dopo l'abbattimento del fasci-
smo e della monarchia). Accanto alle difficoltà di ordine internazionale (al Dipartimento di Stato USA andrà Foster Dulles fautore della politica del contenimento e di massi-
ma fermezza contro il comunismo) sono soprattutto gli irrigidimenti della maggioranza parlamentare in politica interna (con presentazione di progetti di legge considerati dall'opposizione pericolosi sul piano democratico, culminati nella presentazione della cosiddetta legge truffa v. D.C.) a ritardare quel processo di autonomia del PSI che il suo segretario considera (XXX Congresso, Milano, gennaio 1953) compatibile con il patto d’unità d’azione con i comunisti e capace di rafforzare il partito, come in realtà viene dimostrato dai risultati delle elezioni del 7 giugno 1953, quando, presentantosi con liste
proprie, ottiene il 12,3% dei voti, aumentando di oltre il cinquanta per cento la propria rappresentanza parlamentare. La sconfitta di De Gasperi, per il mancato scatto della legge maggioritaria, ribadita in luglio dalla mancata fiducia del Parlamento a quello che sarà il suo ultimo ministero,
vede il PSI definire - sia nei contatti per uscire dalla crisi sia nei documenti interni - quella già prefigurata disponibilità, subordinata però all'emergere chiaro di una volontà da parte della D.C. di cambiare indirizzo in politica interna ed esterna: Nenni è contrario ad un organismo europeo occidentale di difesa, considerato invece essenziale da De Gasperi, e pertanto cade ogni ipotesi di nuova collocazione. Le esperienze del governo Pel-
la, come del tentativo di Fanfani nel gennaio 1954 e soprattutto del ministero ScelbaSaragat sia per quanto concerne la questione di Trieste (il PSI non accetta la divisione del territorio libero) ed i vincoli europei (opposizione alla CED e all’UEO) sia per quanto riguarda la azione del potere pubblico nei confronti dei sindacati e delle rivendicazioni dei lavoratori, rendono inattuabile qualsiasi avvicinamento a metà strada; tuttavia non
manca da parte di Nenni, specie dopo il congresso d.c. di Napoli, l’attesa di segni di mutamenti .
Sarà il XXX Congresso (Torino, 31 marzo-4 aprile 1955) a segnare l’avvio di un cambio di rotta, con gli interventi del segretario del partito e di Morandi (che mantengono
i loro incarichi) per una concreta prospettiva del “dialogo con i cattolici” al quale Gonella - presente ai lavori dell’assise - mostra di non essere insensibile, mentre Lizzadri non esita a richiamare l’attenzione sugli errori commessi da socialisti e comunisti in campo sindacale, come si era constatato con le sconfitte subite dalla CGIL alla Fiat. L'elezione alla Presidenza della Repubblica di Gronchi, l’unico esponente di rilievo della D.C. che da tempo si era espresso per il superamento del centrismo e la ricerca di
una collaborazione con il PSI, costituisce la presa d’atto di possibilità nuove che si aprono nel Parlamento e nel paese, anche se l’eterogeneità della maggioranza che concorre alla elezione, indica limiti e contraddizioni della situazione, come si rileverà nella riconferma della coalizione centrista con il primo governo Segni. Morandi, al convegno nazionale della gioventù socialista a Perugia, pochi giorni pri-
ma della sua immatura scomparsa (26 luglio 1955), precisa che l’incontro con i cattolici può avere un significato per i socialisti solo in vista della realizzazione delle riforme so-
ciali e della piena attuazione della carta costituzionale. Non senza disagio interno, il gruppo socialista alla Camera ritiene di astenersi in alcune votazioni per impedire la caduta
o lo spostamento a destra di Segni ma il travaglio del partito è ora legato al trauma della destalinizzazione, conseguente alle rivelazioni di Kruscev sui metodi tirannici messi in 92
atto dal defunto capo del comunismo sovietico; in una serie di articoli su “Mondo operaio” Nenni pone in rilievo come le degenerazioni denunciate colpiscano lo stesso siste-
ma, da cui tiene a prendere le distanze nella affermazione di una diversa prospettiva di organizzazione del potere e riproponendo il tema della democrazia socialista. Ed i fatti di Poznan prima e di Budapest poi rendono più evidente una revisione del giudizio della maggioranza dei socialisti italiani nei confronti delle esperienze comuniste: una strada nella quale il segretario del PSI non può non finire per imbattersi con il leader della socialdemocrazia italiana. L'incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat alla fine dell'agosto 1956 - successivo
ad elezioni amministrative con risultati positivi per entrambi i partiti - schiude la possibilità di un avvicinamento (di cui sarà espressione una commissione paritetica) attraverso il quale può intravedersi una riunificazione, decisamente avversata però da quei grup-
pi del PSI che dichiarano di non voler essere riassorbiti dalla logica del sistema capitalistico occidentale.
Il “patto di consultazione” (non più d’unità d'azione) tra PSI e PCI non frena il processo in atto perché in effetti consacra l’attenuazione dei rapporti tra i due partiti: l’intervento delle forze armate sovietiche in Ungheria - decisamente condannato dalla direzione e da una parte notevole dei militanti socialisti - salvo la consistente ala di sinistra
che appunto perciò sarà denominata dagli avversari come “carrista” - rappresenterà un ulteriore elemento di frattura con il PCI, il quale - benché scosso - si schiera a fianco del-
PURSS, salvo gruppi di intellettuali (v. / comunista). 7. All'apertura del XXIII congresso (Venezia, febbraio ‘57) il Patriarca cardinale Ron-
calli - il futuro Giovanni XXIII - in un manifesto richiama l’attenzione dei fedeli su quell'avvenimento indicato come sforzo di “buona volontà sincera per intenzioni rette e generose” di pervenire “ad un sistema di mutua comprensione”, allo scopo di “migliorare le condizioni di vita e di prosperità sociale”: sono affermazioni inedite per un'alta autorità ecclesiastica, a testimonianza di un modo nuovo di guardare al ruolo del PSI nella società italiana. Il successo delle posizioni di Nenni, sulle quali sono confluiti o confluiscono in seguito gruppi provenienti dall’USI di Magnani (v. / Comunisti), da Unità Popolare e da
intellettuali usciti dal PCI dopo i fatti d'Ungheria, non trova però corrispondenza nella composizione della maggioranza del Comitato Centrale, che va infatti ai cosiddetti morandiani, in grado di controllare gran parte dell’apparato del partito a livello centrale e periferico: una segreteria a 5 (Nenni, Basso, De Martino, Mazzali, Vecchietti) segna un
compromesso provvisorio che rappresenta una battuta d'arresto per la linea dell’autonomia. Il partito non riesce a staccarsi, in una notevole aliquota della sua dirigenza, dalla mentalità e dalle posizioni che ne hanno determinato la perdita di quelle potenzialità rinovatrici alle quali guardano invece settori significativi della cultura, i radicali (v.) da po-
co costituitisi in partito ed altri nuclei di centro-sinistra: il peso dell’ala “carrista” impedirà ancora per lungo tratto di dare pieno corso alla svolta indicata chiaramente da Nenni. Ma nelle elezioni politiche del ‘58 il PSI raccoglie finalmente il frutto della seminazione autonomista con il 14,4% mentre il PSDI ottiene il 4,5% dei voti, risultato que-
st'ultimo che apre la strada al breve esperimento bicolore Fanfani-Saragat considerato dai socialisti come un tentativo di “falsa apertura sociale” basata sulla continuità della “politica di regime che considera lo Stato proprietà di partito” con un sostegno parlamenta93
re di tipo aritmetico più che politico, mentre - come osserva Nenni al XXXIII Congresso (Napoli, 15-19 gennaio 1959) il problema - escluso ogni ritorno al frontismo - è quel-
lo di una “alternativa politica”. La linea del segretario del partito trova una maggioranza del 58% mentre la minoranza si divide tra la sinistra (32%) che con Vecchietti si pro-
nuncia contro ogni avvicinamento alla D.C. e “alternativa democratica” (9%) di Basso che propugna un'alleanza con i “lavoratori cattolici” e non con la D.C. Confluiscono nel
PSI quei socialdemocratici di sinistra (M. Matteotti, E. Vigorelli, M. Zagari) che avevano costituito il MUIS (v. / Socia/democratici) e successivamente anche qualche esponen-
te proveniente dal partito radicale. dl La repulsa da parte del PSI di ogni avvicinamento alla D.C. non preceduto da un chiaro accordo politico non consente la formazione di una coalizione di centro-sinistra costituita con l'aggregazione del PSI alla maggioranza DC-PSDI-PRI, ma intanto il discorso sulle “cose” avviato da Nenni sembra trovare conforto nell’evoluzione della gene-
rale situazione politica e sociale del paese, tanto che quando nelle drammatiche giornate del luglio ‘60 il PSI offre la sua benevola attesa al governo delle “convergenze parallele” si ha la conferma del maturare di un evento, espressione di istanze largamente avver-
tite nel paese e condivise anche da ambienti industriali per una più ampia partecipazione dei rappresentanti di ceti popolari alle scelte decisionali. Ed i risultati delle elezioni amministrative dell’autunno ‘60 (con la possibilità di costituire numerose giunte di centro-sinistra) rafforzano anche nella D.C. i fautori del “nuovo corso” contro il quale nell'ambito del movimento socialista vengono mosse due differenti critiche. La sinistra del PSI (Vecchietti e Basso) - consistente nei quadri e nella base - mantiene l'opposizione all’incontro con la D.C. considerato un inutile cedimento; sul piano teorico sarà Raniero
Panzieri, continuando l’approfondimento critico avviato negli anni precedenti su “Mondo operaio”, ad elaborare, su “Quaderni rossi”, un ripensamento sui temi dello sviluppo capitalistico occidentale, sostenendo la necessità di un’organizzazione “autonoma” della classe operaia, al di là degli schemi sui quali i partiti tradizionali di sinistra rischiano - a suo avviso - di perdere la loro potenzialità di lotta. Nella visione di Panzieri la ripresa di combattività di classe verificatasi nella vertenza dei metalmeccanici testimonia la ricerca di nuove forme di iniziativa politica ormai propugnate però al di fuori non solo del PSI ma anche del PCI. AI XXXIV Congresso (Milano, 15-20 marzo 1961) Nenni indica la strategia per favorire una svolta a sinistra: sostenere dall’esterno una coalizione di governo capace di mettere in esecuzione un programma di riforme, mentre R. Lombardi si differenzia, nell'ambito della corrente autonomistica (in lieve maggioranza sulle sinistre unificate), ponendo l’accento sul fatto che le modificazioni intervenute nella struttura statuale rendono possibile la conquista dello stato dall’interno mediante una strategia riformatrice capace di realizzare riforme incisive nel campo economico, finanziario e politico.
8. La vittoria di Moro nella D.C. porta al passaggio dalle “convergenze parallele” alla costituzione, nel febbraio ‘62, di un governo con PRI e PSDI, sempre guidato da Fanfani, sostenuto dall’astensione dei socialisti, e che realizzerà la nazionalizzazione dell’industria elettrica e notevoli miglioramenti ai dipendenti pubblici, come già era avvenuto
per i privati. L'aumento di tali redditi incrementerà i consumi, contribuendo ad innalzare le qualità della vita materiale e ad allargare la produzione. La D.C. cerca di frenare l'emorragia di voti nelle elezioni del ‘63, quando i liberali
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le sottraggono molti voti di destra. Dilaniato dalla crisi interna, il PSI non riesce a raffor-
zarsi (resta fermo al livello del 14% dei voti), tuttavia Nenni è deciso a portare avanti la sua politica. Sembra già definita la partecipazione socialista ad un governo Moro, quan-
do nel luglio il gruppo lombardiano, alleandosi con la sinistra, mette il segretario del partito in difficoltà, costringendo la D.C. a ripiegare sul governo Leone, in attesa che la si-
tuazione si decanti e che il PSI possa pervenire ad un chiarimento interno, come avverrà al XXXV Congresso (Roma, 25-29 ottobre ‘63), dove Nenni afferma che la “via democratica al socialismo” implica l'abbandono della teoria leninista del potere ed impegna il partito ad operare per trasformare lo Stato da strumento di conservazione a strumento di liberazione. Egli vede l’alleanza con la D.C. non come “un'alleanza politica generale,
per la quale non esistono le premesse ideologiche e la concordanza dei fini ultimi” ma come “un accordo limitato nei suoi obiettivi economici, sociali e politici”. Lombardi pre-
cisa che si tratta di portare avanti le riforme delle strutture attraverso una programmazione capace di modificare i rapporti di classe e di incidere sul sistema dell’accumulazione privata e di trasferire ai pubblici poteri le scelte decisionali in materia di investimento e di consumi. È approvata (57% dei voti) una mozione che autorizza la partecipazione al governo a condizione che siano effettivamente realizzate le riforme istituzionali e sociali proposte dal partito. La sinistra (oltre il 39% di voti) prende netta posizione, con-
tro le decisioni del congresso tanto che, all’atto della formazione del governo Moro a partecipazione socialista, Basso esporrà in Parlamento le ragioni del dissenso della corrente,
la quale infrange la disciplina di partito votando contro il primo centro-sinistra organico. Sono poste le premesse per la scissione che porterà nel gennaio 1964 alla costituzione del PSIUP (Vecchietti, Valori, Basso, Foa, Libertini, Luzzatto), che rivelerà di avere
un notevole seguito in campo sindacale e non indifferenti consensi nella base socialista e giovanile (v. All'estrema sinistra). Ben presto l’esperienza governativa (con Nenni vice presidente) porrà i socialisti in
condizioni di disagio in quanto se alla realizzazione delle riforme sociali vengono opposte le difficoltà dell’avversa congiuntura economica, non si va avanti neppure nella strada delle riforme che non costano (codice penale, legge di pubblica sicurezza, diritto di famiglia). Lombardi che, come direttore dell’Avanti, si fa portavoce delle riserve sui comportamenti del governo, viene sostituito e la sua corrente all'atto della formazione del secondo ministero Moro decide di non accettare incarichi (Pieraccini sostituisce Giolitti
al Bilancio). De Martino ha assunto intanto la segreteria del partito e al XXXVI Congresso (Roma, 10-14 novembre ‘65) manifesta una lucida visione circa l'atteggiamento
dei socialisti nella fase storica di transizione: lo Stato non può essere più considerato uno strumento di classe a seguito delle conquiste democratiche conseguite attraverso lo sforzo del movimento operaio. Pertanto si conferma la necessità di assecondare lo sforzo del
governo di centro-sinistra per conseguire le riforme (programmazione, regioni, sistema sanitario e ospedaliero, statuto dei lavoratori, scuola ed università). Lombardi sostiene al
contrario che il centro-sinistra si è arreso al dominio dei gruppi capitalistici che controllano la vita economica italiana e che quindi è necessario tornare all'opposizione; egli esclude l'unificazione con il PSDI, da lui giudicata solo una copertura alla politica di potere della D.C. Sul tema dell’unificazione - divenuto di attualità dopo l'elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica - insiste Nenni: la sua proposta per una Costituente socialista ottiene la maggioranza.
Su questa linea si svolge il XXXVII Congresso (Roma, 27-29 ottobre 1966) che de95
cide all'unanimità, malgrado le riserve di Lombardi, la fusione con il PSDI. La carta ideo-
logica dell’unificazione contiene un esplicito riferimento alla piattaforma democratica del socialismo. Un suo limite è nell’esplicito richiamo alla politica di centro-sinistra in quanto Ancora un partito nuovo - e tale tiene ad essere tanto più che ad esso aderiscono altri gruppi minori socialisti ed uomini di cultura - ad una forma di collaborazione con un partito tradizionalmente moderato come la D.C.: e già le elezioni amministrative del novembre 1966 indicheranno la scarsa incidenza elettorale del PSI e del PSDI unificati che perdono infatti voti a sinistra. Anche le strutture bicefali (con due cosegretari, De Martino e Tanassi mentre Nenni assume la presidenza) a tutti i livelli rendono faticosa la mar-
cia del partito in una fase nella quale avrebbe bisogno di slancio. Il partito incontra difficoltà gravi sul piano interno (per la confusione delle posizioni e l'incertezza della guida) e sul piano governativo, dove riesce a far passare solo la legge di approvazione del programma economico quinquennale, senza però che in conseguenza
del provvedimento alcun concreto risultato si ottenga né sul terreno delle scelte operative né per una più organica impostazione della politica economica, non solo per le resistenze dei gruppi interessati ma anche per il velleitarismo e lo scarso senso delle funzio-
ni proprie di un partito di governo da parte di suoi esponenti chiamati a primarie responsabilità. In qualche caso (Federconsorzi) la sinistra lombardiana non manca di dissociarsi dal voto della maggioranza; in altri (riforma universitaria) si deterioreranno i rapporti con
la D.C. in quanto questa tarda a recepire il carattere esplosivo delle proteste contro l’inadeguatezza delle strutture esistenti, imancati sbocchi professionali, e quindi dei caratteri dell’agitazione studentesca, in altri ancora la divisione passa all’interno dei gruppi parlamentari (Lombardi si dissocia dal “fideismo atlantico” di Cariglia) o provocano dimissioni dal partito (Bucalossi a Milano) per i metodi messi in atto in alcune federazioni.
Anche sul dibattuto tema del Sifar il partito si divide giacché la maggioranza governativa (con l'astensione di De Martino ed il voto contrario della sinistra socialista) si oppone all'inchiesta parlamentare, che accetterà solo nella legislatura successiva. La presenza a responsabilità governative nazionali contagia in parecchi terminali anche il PSI, in senso clientelare, mentre il partito sino allora aveva denunciato tali comportamenti, e pro-
prio per ciò aveva suscitato speranze anche in settori del paese estranei alla pratica ed al linguaggio del socialismo.
10. Nelle elezioni del 19 maggio 1968 il partito unificato registra una grave flessione (dal potenziale 20% al 14%) - più forte nelle zone dell’Italia settentrionale -, con l’u-
nica eccezione della Calabria. I cosegretari si pronunciano per l’uscita dal governo: il comitato centrale decide un periodo di “disimpegno” al quale si oppongono gli autonomisti Mancini e Preti, che sostengono la necessità di portare avanti la politica della coalizione
governativa senza interruzione. D'altro canto l'elezione di Pertini a Presidente della Camera (con il voto dei partiti di centro-sinistra più i liberali mentre nelle successive rielezioni avrà consensi più larghi) dimostra la possibilità di recupero di una maggioranza, anche se sul secondo governo di attesa Leone i socialisti si astengono.
In vista del congresso si definiscono le posizioni delle varie correnti: “rinnovamen-
to socialista” di Tanassi ottiene il 17%, il raggruppamento di “autonomia socialista” che si richiama a Nenni e i cui esponenti sono Mancini, Ferri e Preti il 35%, la consistente
corrente di De Martino (“Riscossa e unità socialista”) il 32%, il nuovo gruppo - espres96
sione di tecnocrati - guidato da Giolitti il 5% e la sinistra di Lombardi con circa il 10%. L'elezione di Ferri alla segreteria del partito con stretta maggioranza rivela le lacerazioni interne, temporaneamente ricomposte con l’entrata nel primo ministero Rumor (De Martino vicepresidente, Preti al Bilancio e Mancini ai Lavori Pubblici), ma che presto di
nuovo divamperanno. L'avvicinamento di Mancini a De Martino crea una nuova fase del partito. In effetti adesso la divisione riguarda il modo di porsi di fronte alla realtà italiana. Da un lato si ritiene che non debba attendersi alcun contributo da parte comunista e della nuova opposizione che sull’ondata della contestazione studentesca ed operaia sale nel paese. Dall'altro si ritiene invece che vanno evolvendo sia le condizioni del paese dal quale sembra salire una maggiore domanda di cambiamenti e di socialismo sia l’atteggiamento del PCI specie dopo il congresso di Bologna (v. / Comunistà). Si comincia a parlare di scissione, che matura in pochi mesi mentre il governo porta avanti in Parlamento il disegno di legge Brodolini (il ministro del Lavoro scomparirà
in luglio) sulla statuto dei lavoratori che stabilisce norme garantiste molto favorevoli per la condizione dei lavoratori rispetto alla precedente legislazione, e che sarà approvato l’an-
no successivo. Al convegno dei segretari provinciali circa GO di essi firmano un documento nel quale si chiede una maggioranza “unitaria” decisa ad impedire ad ogni svolta “moderata”. L'opposizione del segretario del partito Ferri conferma una frattura di fondo tra uno schieramento che vede da un lato il grosso dell’ex PSDI più Ferri (che si di-
mette dalla carica) e con in meno consistenti gruppi della UIL (Viglianesi, Benvenuto, Ravenna) dall’altro il resto del partito. Il comitato centrale ai primi di luglio segna la rottura definitiva, malgrado gli sforzi unitari di Nenni, il quale presenta un documento tendente a conseguire un accordo, documento che viene votato dai gruppi Tanassi, Ferri e Preti senza ottenere la maggioranza, che invece va ad un documento De Martino - Gio-
litti - Mancini - Viglianesi, dopo il ritiro degli avversari. I dissenzienti decidono di uscire dal governo e l'indomani (5 Luglio 1969) danno vita al partito socialista unitario (v. I Socialdemocratici).
Il PSI - Sezione dell’Internazionale Socialista -riprende la propria azione prospettando - senza successo - l'ipotesi di un governo DC-PSI, e non rifiuta l'appoggio ad un monocolore Rumor, in attesa che maturino le condizioni per un nuovo ministero di centrosi-
nistra che si potrà formare nella primavera successiva dopo gli attentati di Milano e Roma rivelatori di pericoli per la democrazia (con De Martino vice presidente e Giolitti di nuovo al Bilancio) non senza resistenza interna (oltre alla sinistra lombardiana, il gruppo Bertoldi), sulla base di un'amnistia per i reati connessi alle agitazioni operaie e stu-
dentesche e ad un impegno per lo svolgimento delle elezioni per la costituzione delle Regioni a statuto ordinario, in attuazione di una norma disattesa per ventidue anni. Le ele-
zioni si tengono il 2 giugno 1970 e segnano una lieve ripresa del partito, alla cui riorganizzazione si dedica il nuovo segretario Mancini. Le improvvise dimissioni in luglio di
Rumor portano alla soluzione Colombo con un nuovo ministero a partecipazione socialista, che non riesce a portare avanti il progetto Mariotti della riforma sanitaria ma che attua, pur con una interpretazione limitativa, il trasferimento dallo Stato alle Regioni delle funzioni di loro competenza. Un decreto legge in materia di interventi economici rivela la difficoltà di operare iniziative organiche nel settore e implicitamente indica come alla programmazione globale si sostituiscano provvedimenti contingenti di emergenza: sono gli stessi socialisti così ad attestare la fine della politica di “piano”. La compagine governativa riesce a superare lo scoglio del divorzio (approvato in Par97
lamento grazie anche alla mediazione Leone per alcuni significativi emendamenti, con
voto dei seguenti partiti: PLI, PSDI, PRI, PSI, PCI e la opposizione della D.C. e del MSI) ma non la più evidente lacerazione per la elezione a Presidente della Repubblica di Giovanni Leone, a favore del quale vota lo schieramento di centro-destra, compreso il MSI.
In effetto nel PSI si ritiene di assecondare un mutamento verso “equilibri più avanzati” (tesi sostenuta al CC dell'ottobre ‘71 da una maggioranza De Martino - Mancini Lombardi), prospettiva contestata dagli altri partiti di governo a cominciare dalla D.C.
i quali anzi ritengono che nel paese salga un'opposizione di destra (la cosiddetta “maggioranza silenziosa”), come sembra confermare nelle elezioni amministrative il considerevole progresso del MSI specie nel centro-sud, con il conseguente timore, particolarmente avvertito dalla D.C., di rimanere scoperta a destra (settore nel quale un provvedimento di legge concordato tra democristiani e comunisti in materia agraria provoca
preoccupazione nei piccoli proprietari). In queste condizioni di “scollamento” della maggioranza la D.C. favorisce il governo minoritario Andreotti e il capo dello Stato scioglie le Camere anticipatamente, determinando così un rinvio del referendum sul divorzio, sen-
za opposizione da parte delle sinistre, anche perché i comunisti in particolare ritengono pericolosa una frattura con i cattolici su un tema così delicato. L'“Avanti” diretto da Gaetano Arfé, sollecità il PCI a scegliere tra pretese egemoniche e pluralismo, mentre “Mondo operaio” compie documentate analisi critiche sul fenomeno della contestazione studentesca e della nascita dei gruppi extraparlamentari. 11. Le elezioni registrano un ridimensionamento della forza del PSI (attorno al 10% dell'elettorato nazionale), e portano al ritorno della formula centrista con il governo Andreotti-Malagodi. Nel PSI confluiscono gruppi provenienti dal PSIUP dopo lo scioglimento di questo a causa del gravissimo scacco elettorale che lo ha privato di qualsiasi rappresentanza parlamentare e l’adesione dei suoi maggiori dirigenti al PCI. Particolarmente attento alle motivazioni delle proteste giovanili ed operaie nonché ai sempre più evidenti sintomi di trame eversive (di cui la stampa socialista indica le matrici antidemocratiche) il partito denuncia l'ormai evidente incapacità del governo di operare per migliorare condizioni e strutture del paese osservando che si è arrivati ad un punto nel quale non effettuare le riforme si dimostra più pericoloso che realizzarle. AI XXXIX Congresso (Genova, 9-13 novembre 1972) il documento De Martino approvato con la maggioranza del 58% grazie alla confluenza degli autonomisti (e che porterà al ritorno del leader di “Riscossa” alla segreteria) dichiara la propria “disponibilità” ad una ripresa della collaborazione di centro-sinistra per svolgere una politica “seriamente riformatrice” che non rinunci ai “contributi proficui” dei comunisti, mentre l’eterogeneo cartello delle sinistre (composto da lombardiani, manciniani e bertoldiani) sollecita una vigorosa opposizione diretta a creare nel paese le condizioni per un diverso, ampio sviluppo democratico. Ancora una volta la nomina dei componenti del Comitato Centrale avviene su una base della ripartizione determinata per correnti a scapito della funzio-
nalità democratica del partito: la stessa composizione degli organi dirigenti - con la partecipazione di rappresentanti di tutte le correnti - più che ad tende a congelare i rapporti di forza tra le diverse componenti, malamente copre una ambivalenza foriera di stasi, equivoci e di fronte all’esterno. La nuova maggioranza (nella quale ben presto rifluiranno
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assicurare unità operativa provocando uno stallo che mancanza di attendibilità
i bertoldiani) tende ad ac-
centuare possibilità di accordo con la D.C. come emerge dall’atteggiamento di De Martino e dal convegno economico (17-19 maggio 1973) in cui Giolitti sollecita, di fronte
ad una ripresa economica “drogata”, una politica economica di investimenti propulsivi. L'esito del congresso d.c. consente la formazione di un nuovo governo organico di centro-sinistra (IV e V Ministero Rumor), in cui la presenza di Giolitti al Bilancio, Bertoldi al Lavoro (e dal marzo ‘74 di Mancini alla Cassa del Mezzogiorno) tende a sottoli-
neare la necessità di interventi selezionati ed efficaci nel campo produttivo, ma dopo i primi “cento giorni” fallisce la stabilizzazione dei prezzi. La spinta inflazionistica non accenna ad attenuarsi neppure nei mesi successivi: anzi l'aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi a seguito del nuovo conflitto arabo-israeliano, e le gravi condizioni dell’agricoltura a lungo trascurata, peggiorano la situazione economica. Una diversità di vedute tra La Malfa e Giolitti porta alle dimissioni del primo ed alla conseguente caduta del Ministero Rumor, che ricostituito senza i repubblicani e con il cambio di alcuni ministri, avrà vita travagliata (v. D.C.) sia per l’aggravarsi - in concomitanza con la politica eco-
nomica e monetaria degli Stati Uniti - delle tensioni inflazionistiche e del disavanzo della bilancia dei pagamenti accompagnati da un inizio di recessione produttiva, sia per l’accentuarsi della divaricazione tra PSI e PSDI, divaricazione che impedisce nel novembre ‘74 di ricostiure un centro-sinistra organico, anche se entrambi i partiti non rifiuteran-
no (pur con motivazioni divergenti) l'appoggio al bicolore Moro. Intanto la posizione assunta sui terreni della difesa dei diritti civili, del divorzio, del-
l'apertura verso le nuove realtà emergenti nel paese e l'impegno a favore della unità e della lotta sindacale, del colloquio (criticato da D.C. e PCI) con gli extra parlamentari, allarga la base politica ed elettorale del partito, come emerge nelle amministrative del no-
vembre ‘74. Una conferenza nazionale di organizzazione (Firenze, febbraio 1975) indica l'esigenza
di ristrutturare il partito onde ovviare alle conseguenze della degenerazione del ruolo delle correnti, dello scarso ricambio interno dei quadri e per dare maggiore incisività all’azione esterna. Nell’ambito di uno generale spostamento a sinistra il PSI si rafforza anche nelle elezioni regionali del giugno ‘75, conseguendo il 12% dei voti. Il partito prende atto della svolta: la maggioranza guidata da De Martino dichiara finita la politica di centro-sinistra, dimostrando così di voler accettare la linea di alternativa sostenuta negli ultimi anni dalla sinistra di Lombardi (in sostanza significa “non più al governo” senza l’accordo con il PCI), anche se il partito non riesce a definire termini e contorni di questa
proposta che sembra rinunciare all’alleanza con la D.C. per rafforzare i comunisti, con l’effetto che, sciolte le Camere a seguito del venir meno della fiducia del PSI al governo, l'elettorato di sinistra preferirà nelle elezioni politiche confluire in gran parte nel PCI (che ottiene il 34% dei voti), senza dare alcun aumento di voti ai socialisti, fermi a poco più
del 9%, testimonianza di compattezza ma anche di incapacità ad aprirsi all’esterno, a differenza dei comunisti, verso i quali si allargano in particolare, oltre i voti giovanili, quelli di settori intellettuali laicisti e cattolici. AI 40° Congresso (Roma 3/7 marzo ‘76), all’ approssimarsi delle elezioni, anche Nenni aveva affermato che il centro-sinistra non era riuscito a superare i “limiti borghesi” della società e Lombardi aveva indicato l'esigenza di un programma per una perequazione dei redditi, una redistribuzione del lavoro e la revisione della politica economica per porre fine agli sperperi. Quindi la responsabilità del mancato miglioramento elettorale al termine di una lunga campagna per ottenere gli “equilibri più avanzati” è di tutto il grup99
po dirigente, ma al C.C. di luglio (al Midas di Roma) si ha una convergenza tra gli autonomisti di Nenni, la sinistra lombardiana, il gruppo di Mancini con un settore degli
stessi demartiniani per mettere fuori gioco il segretario del partito. Così la scelta per la successione premia il giovane Craxi che, all'ombra di Nenni, si era fatto luce nell'ambiente milanese per le sue doti organizzative. Si crea così un gruppo dirigente, in parte nuovo
con elementi anagraficamente più giovani (i cosiddetti “quarantenni”), ma nel quale subito divampa la rivalità. Craxi era stato scelto perché ritenuto dal suo maggiore sponsor
(Mancini, che si era opposto alla candidatura Giolitti) abbastanza debole sì da poterlo condizionare, ma invece dimostrerà una abilità tattica che gli permetterà in poco tempo di impadronirsi di tutte le leve del partito, battendo ed emarginando uno ad uno i rivali o potenziali avversari. Gli studiosi di formazione socialista avevano già rivendicato autonomia culturale nella critica ad ogni concezione “provvidenzialista” nell’interpretazione storiografica.
12. Assicurata, con l’assenso di tutto il partito, la vita al monocolore Andreotti (fine luglio ‘76) che conta sulla sfiducia di tutte le forze del P.L.I. al P.C.I. (la presenza di quest'ultimo è la vera novità), il neo-segretario avvia un processo di cambiamento nei quadri del partito - dove può contare su un rimescolamento di giochi e posizioni, profittando
soprattutto delle ambizioni di chi vuol salire rapidamente - e si allea con il gruppo della sinistra, che, dopo aver dichiarato di sciogliersi - come le altre correnti - si affida a Signorile: a questo asse cercano di contrapporsi, senza successo, i gruppi di Mancini, Manca e De Martino che verranno battuti al congresso di Torino (aprile ‘78), dove le “teste
d’uovo” indicheranno nuove linee programmatiche, ormai sganciate da ogni traccia di marxismo e con innovative proposte istituzionali.
L'assise si svolge durante il rapimento di Moro: su questa delicata e terribile questione
Craxi si dimostra convinto dell’opportunità di trovare strade per salvare la vita al presidente della D.C., anche esperendo trattative con i brigatisti, tenendo presente l’estrema
confusione nella quale gli eventi si susseguono, con il rischio di pericolose manovre da sventare proprio cercando di “scoprire” la reale consistenza e gli eventuali sostegni che
sorreggono i brigatisti. Ma la sua linea non passa (una parte del P.S.I., con Pertini, è schierata d’altronde con la D.C. ed il P.C.I. per la “fermezza”). Intanto si erano verificati fatti significativi. Il primo era stato l'esplosione dell’affa-
re Lockeed (v. Democrazia Cristiana). Quando i deputati socialisti decidono di votare contro l'autorizzazione a procedere per gli autorevoli personaggi della D.C. ai quali si rivol-
ge l'accusa di aver profittato personalmente della vendita all’Italia degli aerei americani, la base del partito esprime la propria indignazione: alcuni gruppi romani occupano gli uffici della sede nazionale in segno di protesta, raccogliendo larghe adesioni di militanti ed intellettuali in tutta Italia; Craxi si presenta agli “occupanti” spiegando le ragioni del comportamento (anche De Martino era d’accordo) e riesce a far rientrare la protesta, la quale però lascia un segno nella base del partito (e di cui si avranno ancora manifestazioni specie per iniziative attorno al gruppo T. Codignola-Luzzatto), una prova di reattività, che verrà poi gradualmente meno, giacché la posizione del Segretario si rafforza,
prima col già citato congresso di Torino, poi con l'appoggio che consente ai socialisti di
portare al Quirinale, dopo le dimissioni di Leone, uno dei suoi uomini più rappresentativi, Pertini, e soprattutto con un'azione politica decisa all’interno del partito, grazie an-
che all'apporto del gruppo De Michelis, staccatosi da Signorile. 100
Nel periodo del governo di “solidarietà nazionale” - formatosi con l’esplicito sostegno sia del P.S.I. che del P.C.I., - Craxi riesce a dare al corpo del partito uno scossone, stimolando la spinta all'autonomia e rivendicando l'appartenenza ad un movimento in grado di scegliere ed operare senza più stare al rimorchio né del PC.I. né della D.C. È sarà un saggio su Proudhon (che riprende l'elaborazione teorica del sociologo Lu-
ciano Pellicani, sempre coerente nelle sue posizioni di sollecitazione al superamento della matrice marxista per rivolgere più attenzione alla moderna evoluzione del pensiero scientifico e filosofico, a cominciare dall’epistemologia di Popper) a segnare una svolta “ideologica” in base alla quale il P.S.I. abbandona i vecchi miti (e si appresta a cambiare il simbolo, sostituendo a libro, falce e martello, il “garofano”, suscitando non poche amarezze tra gli iscritti) e si dà un carattere eminentemente pragmatico, con maggiore at-
tenzione alla capacità di intervenire nei processi decisionali a livello parlamentare, poli-
tico ed amministrativo, facendo valere quella che viene definita “rendita di posizione”. Ma il P.S.I. potrà farla valere solo se e quando verrà meno il compromesso storico: infatti lo schieramento unitario comprendente più partiti si regge sul legame diretto D.C.P.C.I., e di fatto gli altri partiti non hanno un ruolo determinante. Craxi combatte l’u-
manimismo consociativo che favorisce di fatto le posizioni sostenute dal P.C.I., senza il quale la maggioranza non può operare, rivendica una identità autonoma de partito, e trova sulla sua stessa posizione i radicali guidati da Pannella. Quando Berlinguer prenderà atto che la “solidarietà nazionale” non è in grado di risolvere i più acuti problemi sociali del paese e che danneggia elettoralmente il P.C.I. - come si vede già nelle elezioni politiche del ‘79 (nelle quali il P.S.I. rimane sostanzialmente fermo) -, si porranno le premesse per una nuova maggioranza, nella quale appunto il
P.S.I. potrà meglio far valere la sua condizionante rendita di posizione nei confronti della D.C. (e sarà Eugenio Scalfari su “Repubblica” a definire Craxi “Ghino di Tacco”, dal nome del brigante da leggenda che al passo di Radicofani imponeva il suo pedaggio). Un nuovo scandalo, legato alla questione Eni-Petronim, mette in difficoltà il vice se-
gretario Signorile, alla cui componente apparteneva il presidente dell’ente petrolifero, coinvolto nello scandalo e subito sostituito. Rientrati al governo (secondo ministero Cossiga, aprile ‘80),, i socialisti ottengono un risultato positivo alle amministrative dello stes-
so anno: Craxi utilizza il successo per far eleggere dal C.C. una direzione nella quale prevale nettamente il personale di sua fiducia. Insediatosi così, senza più controllo, al comando del partito, Craxi può dare più facilmente corso alla sua linea: continua a partecipare ai governi (prima Forlani, poi Spadolini) ma soprattutto tiene a dare un'immagine “moderna” del partito (e da qui verrà l'esaltazione della “politica-spettacolo”). Il 42° Congresso di Palermo (aprile ‘81) segna la consacrazione di Craxi, liberato ormai da ogni critica, come leader unico ed incontrastato, favorito anche dalle simpatie che raccoglie in settori sino allora allergici al “socialismo”, mentre perde vecchi militanti alieni da ogni cedimento di principio e dalle forme di cortigianeria che serpeggiano tra i giovani “rampanti”. Nei confronti delle campagne referendarie promosse dai radicali, il P.S.I. ha un atteggiamento di distacco rispetto a quelle che potrebbero mettere troppo in urto con il resto della maggioranza (come le leggi speciali sull'ordine pubblico, che pure non sono viste favorevolmente dall’ala “libertaria”, presente nell’area socialista ma sempre meno nel in partito e più vicina invece ai radicali), mentre è in prima linea quando ritiene siano gioco posizioni di fondo (così in favore dell’aborto e per il mantenimento del finanzia101
mento pubblico). Nell'81 Craxi - con procedure rapidissime e senza consentire agli interessati di chiarire le ragioni loro della critica - fa espellere dal partito un gruppo di intellettuali che, con Codignola, G. Luzzatto, Bassanini e Leon, avevano avanzato rilievi e dubbi circa i contatti ambigui - successivamente confermati - con gruppi finanziari discussi: così non avrà più avversari interni, salvo per un breve periodo il gruppo Achilli Tamburrano. Sempre in primo piano, accarezzato da ambienti della borghesia industriale come da “stelle” del firmamento della moda o dello spettacolo, ben visto da una parte dei ceti
medi per il suo distacco dai comunisti ed il suo conclamato decisionismo, ben impian-
tato nelle industrie pubbliche con persone di fiducia, Craxi lancia (‘79) uno slogan che avrebbe potuto essere fortunato (la “grande riforma”) giacché rispondeva ad un malessere profondo delle istituzioni - da rinnovare - ma che egli lascia andare quando si accorge che intanto può governare come meglio gli aggrada nelle condizioni esistenti ed inizia invece una politica rivolta allo smottamento del potere d.c. per sostituirlo in parte con il proprio, in delicati ingranaggi economici ed amministrativi. Preferisce entrare nel gran-
de gioco delle lottizzazioni, rafforzando le sue minori posizioni di potere accanto a quelle dei democristiani anziché sostenere una precisa linea d’azione e di comportamento conforme alla tradizione socialista di operare nella società per contribuire a modificarla. Si ha in questo periodo quella che verrà definita una “mutazione genetica” del PSI con l'emarginazione o l'allontanamento degli elementi che non “portano” vasi ricchi di frutti. Lo stesso Lombardi - chiamato per breve tempo alla presidenza - verrà accantonato,
senza che neppure i suoi vecchi giovani “fans” lo sostengano. Tale pragmatismo si rivelerà tuttavia “pagante” almeno ai fini dei risultati nelle elezioni, tanto che nell’83, il P.S.I. aumenta considerevolmente voti e seggi, mentre arretrano D.C. e P.C.I., con gravi scon-
fitte che pesano a carico di De Mita e Berlinguer. Si sono così determinate le condizioni parlamentari per il conferimento della presidenza a Craxi, che infatti riesce a formare un governo pentapartitico con D.C. - BR.I. - PS.D.I. - BL.I., la formula tenuta già a bat-
tesimo da Spadolini.
13. Mentre tende a placarsi l'ondata del terrorismo, sono esplose nuove gravi manifestazioni nella vita italiana, dalla P2 a misteriosi affari finanziari, che vedono coinvolti i banchieri Sindona e Calvi (poi morto misteriosamente a Londra) - nei cui confronti non era mancato l'appoggio sia di Andreotti che di Craxi -, con ombre anche su personaggi politici importanti, alla sempre più minacciosa attività della mafia. AI governo - dove Craxi può contare oltre che sulla piena fiducia del vice presidente Forlani, sull’operosità del Ministro dell’Interno Scalfaro, voluto da Pertini, e su una équipe ministeriale coordinata efficacemente dal sottosegretario alla Presidenza, il costituzionalista Giuliano Ama-
to, in precedenza legato al “brain-trust” di Giolitti - l’esperienza di 4 anni (con il ministero di più lunga durata nella storia repubblicana) dà molte soddisfazioni a Craxi ed invece acuisce il “duello a sinistra” con il P.C.I. Sul piano finanziario si ha la riduzione dell'inflazione (da due cifre ad una) e l’allargamento della base impositiva (ministro delle Finanze Visentini), nel settore dell'ordine
pubblico il contenimento del terrorismo (probabilmente indebolito dalla evoluzione dei rapporti tra Mosca e Washington), nella politica interna la firma del nuovo Concordato, che, anche se lascia settori laici insoddisfatti per articoli che si prestano a dubbie interpretazioni, definisce le relazioni dello Stato con la Chiesa: ed è significativo che a fir102
mare il trattato per l’Italia sia un esponente laico e non d.c. Inoltre si registra una serie di interventi a favore della condizione femminile (“pari opportunità). Più controverso il cammino in materia economica, dove si registra una ripresa in con-
comitanza con il miglioramento della situazione internazionale. Ma i modi di crescita tendono a rafforzare i gruppi, privati e pubblici, più consistenti, senza eccessiva attenzione né al peso che acquistano le nuove concentrazioni, interne ed estere, né alle conseguen-
ze del perseguimento della politica di indebitamento pubblico. Inoltre l'accordo per limitare gli effetti negativi della scala mobile con una riduzione del punto di contingenza ottiene sì il consenso dei sindacalisti di UIL, CISL, e dei socialisti della CGIL, ma non
della maggioranza comunista di questa confederazione. Senonché avrà il conforto della conferma popolare, quando incautamente il P.C.I. promuove un referendum contro il provvedimento varato dal governo Craxi, valutato in parecchi ambienti come l’avvio di una linea rivolta sostanzialmente a modificare le leggi di riforme approvate nella precedente fase politica. Nel campo della politica internazionale, grazie alla stima acquisita durante la sua lunga attività nell’Internazionale socialista, Craxi si inserisce in quell’indirizzo socialdemo-
cratico prevalente in parecchi paesi europei. E avrà la sua prova del fuoco quando l’incidente della motonave “A. Lauro”, dirottata da terroristi palestinesi, lo metterà di fronte al bivio se subire la richiesta del Presidente U.S.A. di consegnare nella base siciliana di Sigonella, i responsabili del dirottamento e dell’uccisione di un cittadino americano oppure se affermare l'autonomia delle scelte del governo italiano che preferisce consentire l'estradizione per porre termine alla drammatica situazione.
L'atteggiamento di Craxi è per una ferma difesa del principio della piena indipendenza nazionale in decisioni non condivise dal grande alleato statunitense. È questo un raro momento di consenso del P.C.I. che invece martella insistentemente, con e dopo Berlinguer, la politica craxiana definendola pericolosa e contraria all'interesse dei lavoratori, tanto da richiamare come prioritaria l'esigenza dell’’austerità” (v. / comunisti). Agli esi-
ti dell’azione di governo giudicati positivi in settori esterni al PSI non corrisponde l’attuazione di una linea più efficace in grado di favorire il superamento delle condizioni di malessere della società, o “azienda Italia” come si dice nel linguaggio giornalistico, né di
migliorare la situazione del partito tutta tesa a dare di sé una immagine esterna ma senza alcuna capacità di sostanziale rinnovamento al proprio interno e nell’azione svolta nel paese. Craxi ha intuito l’esigenza di svecchiamento ideologico ma l’ha risolto solo con un empirismo nell’uso del potere, nelle istituzioni, ed all’interno di una organizzazione, svi-
lita nelle sue funzioni e ridotta a semplice cassa di risonanza delle decisioni del leader. Un accenno del vicesegretario Martelli per l’’autoriforma” non avrà seguito. Al Congresso di Verona (Verona, maggio ‘84) l'eliminazione del C.C. - luogo “sacro” delle dispute tra socialisti - e la sua sostituzione con un'assemblea nazionale, composta di fedelissimi a somiglianza del Segretario (con spazio inusitato ad “esterni”, estranei alla precedente espe-
rienza ed alla mentalità del “popolo socialista”) rafforza quella tendenza all’unanimismo che già si era rivelato con l'elezione diretta del massimo responsabile, ora “acclamato” nel suo incarico, non senza attirarsi così le critiche del Presidente Pertini e di vecchi militanti,
parecchi dei quali isolatamente si allontanano dal partito o comunque dalle sue organizzazioni.
Il rifiuto del dibattito a tutti i livelli porta infatti alla recisione delle forme di de103
mocrazia interna: il partito si affida da un lato alla “grande politica” del Segretario, dal-
l’altro al “piccolo cabotaggio” di esponenti locali, tutti tesi a stendere una rete di clientelismo, non solo a fini elettorali. E da qui verranno a diffondersi sempre più forma di degenerazione e corruzione, che non investono solo il PS.I. come dimostreranno i suc-
cessivi accertamenti giudiziari nei confronti di esponenti di tutti i partiti con responsabilità di governo centrale o di gestione amministrativa periferica, ma che trovano nei comportamenti e negli “stili” di vita di numerosi suoi dirigenti il rispecchiamento di una mentalità rampante, indifferente al giudizio altrui nella convinzione dell’impunità. È cam-
biato il modo di “far politica”, o meglio si fa sempre meno “politica”. Il contrasto tra la linea propugnata - risanamento e modernizzazione- e quella praticata risulta evidente:i mancati interventi riparatori vengono attribuiti alla crisi generale del sistema partitico che potrebbe essere rigenerato, secondo Craxi, solo dall'attuazione della “repubblica presidenziale”. Si guardi così alle conferenze programmatiche di Rimini (nella prima Martelli lancia la parola d’ordine di impegnarsi per creare una società attenta a “meriti e bisogni”, la seconda vedrà al centro le costruzioni istituzionalistiche di Amato) che parlano un linguaggio, costantemente contraddetto dai comportamenti dei notabili socialisti nelle istituzioni, nel partito, con un quasi completo abbandono di una presenza identificabile po-
liticamente nella società (salvo che sul terreno sindacale, dove le componenti socialiste in C.G.I.L. e U.I.L. sono effettivamente rappresentative di una parte significativa del mondo del lavoro) e la rinuncia a far valere motivi culturali, sacrificati in favore dei posti di potere.
Quando si chiude l’esperienza di governo (Craxi non vuole rispettare l’impegno della “staffetta”, v. D.C.) le elezioni vedono ancora un P.S.I. in lieve crescita: il segretario può
menare vanto di aver ridotto il rapporto con il P.C.I., in suo favore, da più di 3 a 1 qual’era, a meno di 2 a 1. In effetti è in gioco la sua credibilità, perduta nel mondo culturale e
giovanile, e invece acquisita nel mondo dell’industria grazie a “collegamenti” personali, che in seguito daranno luogo ad indagini giudiziarie - non ancora conchiuse nel ‘94-per una serie ininterrotta di pratiche illecite da lui o in suo nome messo in atto: la denuncia di questi fatti e del pagamento di “tangenti” colpirà tra il ‘92 ed il ‘93 gli italiani sopratutto per il carattere sistematico assunto dalle violazioni del codice penale e in materia del finanziamento dei partiti. La partecipazione ai ministeri della legislatura 1987 -°92 vede emergere prima Amato come ministro del Tesoro (ma dovrà rinunciare a portare avanti proposte di snellimento del sistema sanitario e previdenziale a causa del risentimento suscitato nei ceti più colpi ti dai provvedimenti del governo Goria e quindi inaccettabili per i sindacati, compresi esponenti socialisti), poi De Michelis - molto discusso come ministro degli Esteri per
quanto avvenuto nel settore della cooperazione (anche su questo verranno avviate indagini giudiziarie) - e, quali ministri della giustizia, Giuliano Vassalli (che darà nome alla attesa riforma del codice di procedura penale nonché, con Russo Iervolino, alla legge an-
tidroga contestata anche da una parte dei giovani socialisti) e Martelli (che si impegna
nella lotta contro la mafia, con a fianco il giudice Falcone, poi ucciso in un attentato mafioso organizzato dalle cosche di Corleone). Nel ‘91 il PSI commette un irreparabile errore, indice del distacco dei suoi dirigen-
ti dall'opinione di una grande parte degli italiani ormai stanchi di subire prepotenze delle oligarchie di maggioranza, errore che sarà determinante per il successivo svolgersi del104
le vicende politiche. Benché fossero stati proprio deputati socialisti ad avvertire gli effetti negativi provocati dal gioco delle preferenze nel sistema proporzionale tanto da presentare proposte di legge intese a diminuirne le conseguenze, quando un comitato referendario, guidato da Mario Segni e composto da altri studiosi come Lipari, Scoppola e
Galeotti, propone di far votare per la riduzione ad una delle preferenze, Craxi ed Amato - divenuto vice segretario -assumono una posizione fortemente critica contro l’iniziativa del referendum e il segretario incita addirittura i votanti a disertare le urne (a suo avviso, è meglio “andare al mare”). Tale suggerimento risulterà controproducente: il solo fatto che Craxi avesse scelto questo terreno per una prova di forza genererà la convergenza
a favore della richiesta referendaria da parte di un amplissimo arco di forze politiche, sociali e culturali (dalle ACLI al nuovo PDS, a tutte le opposizioni nonché a cospicui grup-
pi democristiani e alcune frange socialiste, come il gruppo “30 Maggio”) sì da provocare, a seguito del larghissimo voto di consenso alla richiesta referendaria la clamorosa sconfitta di Craxi, inducendo quest'ultimo a non avanzare più la richiesta di elezioni antici-
pate per sostituire il governo Andreotti, che gli appariva troppo statico e stretto. I congressi al partito erano ormai ridotti a rituali ripetitivi e si concludevano con il rinnovo della elezione plebiscitaria del segretario anche se prima a Rimini e poi a Bari (luglio ‘92) saranno molto applauditi anche gli interventi critici sulla situazione in tema del partito come quelli di Ruffolo e di Franco Piro, incentrati sulla questione della correttezza di comportamento, mentre Martelli non esita a denunciare i pericoli di espan-
sione del potere della Chiesa in Italia nonché la presenza nel corpo della società di circa un milione di persone che operano in nome e per conto dei partiti nei gangli della vita economica ed amministrativa producendo solo danni. In materia elettorale non mancherà di pronunciarsi per il sistema uninominale, in contrasto quindi con Craxi. All’inizio del ‘92 il partito si accinge a celebrare il suo centenario quando viene colpito dalle prime denuncie per fenomeni di corruzione e concussione nei confronti dei suoi esponenti a Milano, una città che invece i socialisti vantavano per antiche gestioni amministrative esercitate correttamente a vantaggio dei ceti popolari. L'affiorare di seve-
re critiche da parte della stampa e l’azione di protesta della Lega Nord per i modi con i quali i socialisti hanno gestito enti locali ed istituti pubblici spiega l’arretramento, anco-
ra contenuto, nelle elezioni politiche dell’aprile ‘92 con il 13,6%. Ma ormai le iniziative giudiziarie si estendono sempre di più e rivelano una serie di
operazioni affaristiche con tangenti a favore di esponenti socialisti - ma anche degli altri partiti che hanno gestito, a livello nazionale e locale, il potere di decisione politico e am-
ministrativo - che chiamano in causa dapprima il segretario amministrativo del PSI (accanto a quelli della DC e degli altri partiti di governo centrale e periferico), poi direttamente lo stesso Craxi, al quale pervengono numerosi “avvisi di garanzia”. Quanto più egli per difendersi attacca la magistratura (suscitando ulteriore sgomento tra molti militanti, alcuni dei quali escono dal partito), tanto più la Procura della Repubblica di Milano individua nuovi elementi di responsabilità penale, tutti ancora in via di accertamento nel ‘94. Non mancano casi di suicidi tra indagati. Ma la sistematicità delle azioni addebitate e il fatto stesso che Craxi non abbia trovato di meglio che effettuare una sorta di “chia-
mata di correità” nei confronti delle segreterie degli altri partiti, adducendo l’indispensabilità delle operazioni illecite per far sopravvivere finanziarimente i partiti, con il riconoscimento quindi implicito di responsabilità nel metodo adottato, manifesta al di là dei singoli fatti, la gravità di comportamenti che gli italiani, nella loro stragrande maggio-
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ranza, non possono più accettare. L’autorizzazione a procedere contro Craxi verrà con-
cessa per la maggioranza delle richieste della Procura, ma l’inattesa archiviazione per al-
cuni casi suscita larghe proteste, il ritiro del PDS dal governo Ciampi appena costituito nell’aprile ‘93 e darà luogo pure a manifestazioni di strada contro il segretario del PSI, che, se rivelano un comprensibile stato di giustificato e acceso risentimpento, indicano
anche gli effetti pericolosi di campagne esasperate che possono mettere in pericolo incolumità fisica e diritto di difesa degli indagati. Messo subito fuori gioco per concorrere a incarichi istituzionali, Craxi aveva lanciato per il governo la designazione di Amato, prontamente accolta dal nuovo Presidente della Repubblica Scalfaro e dalla DC. Era nato così nell'estate ‘92 un ministero a 4, come nell'ultima esperienza Andreotti, numericamente appena sufficiente ad ottenere la fiducia delle Camere, nelle quali tuttavia il nuovo presidente, grazie al prestigio personale e al severo richiamo all’esigenza di sacrifici per affrontare la grave situazione finanziaria, riu-
sciva a far passare una linea di politica rigorosa con una serie di provvedimenti con inasprimenti fiscali (contestati a sinistra e in sede sindacale), nel settore previdenziale, del pubblico impiego e della sanità, ambito nel quale venivano introdotte misure restrittive tali da provocare esteso malcontento di cui si rendevano portatori - oltre le categorie più colpite - i sindacati, che pure avevano accettato a fine luglio un accordo per sancire la fine della scala mobile. Dopo aver sostenuto per parecchie settimane la lira, seguendo la linea Ciampi, e provocando una forte emorragia delle riserve valutarie, il governo pro-
cedeva alla svalutazione (settembre ‘92) mentre tentava di avviare la privatizzazione delle industrie pubbliche. Su questo punto emergevano dissensi, tra il ministro del Tesoro Barucci - le cui posizioni erano sostenute da una notevole parte della stampa a cominciare da quella industriale - e del ministro dell’Industria Guarino, presentatore di un progetto che inseriva le privatizzazioni in un moderno disegno di riorganizzazione industriale sia per rendere appetibili le aziende da vendere sia per tener conto delle esigenze della occupazione. La questione resterà aperta e trasmessa al successivo governo Ciampi.
Soltanto cambiamento gani abilitati nale cadrà su
dopo lunghi mesi trascorsi nell’illusione di che venivano dall’interno del partito, Craxi a deliberare sulla sostituzione del segretario: Giorgio Benvenuto, già segretario della UIL
poter contenere le richieste di si decideva a convocare gli orla scelta dell’assemblea nazioe passato poi al ministero del-
le Finanze come segretario generale. Gli viene contrapposto Valdo Spini, dopo che Martelli considerato da molti come il più indicato alla successione per aver assunto un atteggiamento di critica nei confronti di Craxi, raggiunto da un avviso di garanzia, si era
dimesso da ministro della giustizia e dal partito. Alla presidenza del PSI verrà chaimato Gino Giugni, il giurista padre dello “statuto dei lavoratori”. La nuova dirigenza si pronuncia per il Si nel referendum per la riforma del Senato (anche se non tutto il partito condivide tale linea).
Il nuovo segretario rifiuta inizialmente la proposta del presidente della fondazione Nenni, Tamburrano, di escludere dalla direzione chiunque avesse ricevuto avvisi di garanzia; nelle settimane successive prende atto dello stato di dissesto del partito, soprattutto dal punto di vista finanziario e quindi - non ravvisando condizioni sufficienti per lavorare con un minimo di tranquillità a causa della mancata collaborazione da parte degli stessi responsabili del degrado del partito - rinuncia all'incarico che si era riproposto
di assolvere con l’ausilio di esponenti sindacalisti provenienti dalla UIL e dalla CGIL. Cominciava così un nuovo girone infernale, con Benvenuto che documenta le ragioni del106
la sua critica sempre più radicale nei confronti dei vecchi dirigenti del partito e procede alla formazione di un gruppo di “rinascita socialista”, aderendo successivamente ad Al-
leanza democratica a cui hanno già aderito Carniti - che nel frattempo ha formato il raggruppamento cristiano sociale - e il Centro di iniziativa del socialismo democratico e liberale con Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo e Valdo Spini (e comprendente anche esponenti del PDS). Alla Segreteria del partito viene chiamato Ottaviano Del Turco, già segretario generale aggiunto della CGIL. Nel governo Ciampi entrano ministri socialisti (tra essi Giugni al Lavoro, Fabbri alla Difesa e Spini all’Ambiente), scelti personalmente dal Presidente e non più designati da partito. Nei dibattiti parlamentari sulla riforma elettorale i socialisti si dividono, cambiano sovente atteggiamento senza indicare alcun progetto preciso e nelle votazioni conclusive la maggioranza di essi vota alla Camera per l’uninominale a
turno unico ed un quarto dei deputati eletti con la proporzionale per riproporre, a leggi approvate, il doppio turno invano richiesto dal PDS. Nelle elezioni amministrative del ‘93 i simboli socialisti sono scomparsi, i quadri del partito sostengono liste differenziate, con il risultato di ottenere pochissimi voti, anche nei comuni dove vi era stata una lunga e valida tradizione di presenza socialista. Solo nel dicembre ‘93 la nuova segreteria - dopo l’ulteriore smacco subito dal partito nelle amministrative dove non riesce a far convergere consensi a liste e candidati socialisti, a cominciare da Roma - si decide a schierarsi apertamente contro Craxi, riuscendo
ad ottenere la maggioranza relativa su un documento che impegna il partito a far parte dello schieramento elettorale con le altre forze progressiste e di sinistra, e procede quindi al cambio del nome (P.S.) e del simbolo (la rosa), seguendo l'esempio francese. La scelta però non è condivisa da parte di numerosi parlamentari che danno vita alla “federazione dei socialisti” con Franco Piro. La diaspora è ormai in tutte le direzioni. Giuliano Amato aderisce al “patto per l’Italia” di Segni, su posizione centriste, ritenute più omo-
genee alla linea seguita negli ultimi anni e più opportune per sottrarre voti alla destra senza cedere alle posizioni dei “progressisti”, mentre altri non esitano a collegarsi con Berlusconi. Ormai il partito è frammentato, con abbandoni (in varie regioni), espulsioni (come in Puglia), non esclusi ritorni di fiamma dei craxiani (che ottengono la maggioranza a Milano).
Del Turco - sostenuto dai sindacalisti - riesce a convogliare, in un sussulto orgoglioso di quel che rimane del vecchio tronco - non più identificabile nel gruppo responsabile
di aver condotto il partito alla rovina, e pronto a partecipare ad iniziative rinnovatrici -, un certo numero di consensi (così Arfè, che era uscito dal partito negli anni ‘80 per protestare contro linea e metodi di Craxi) nell’appoggio al nuovo simbolo schierato con i progressisti: 15 deputati e 12 senatori eletti saranno i testimoni di una esperienza che spin-
ge, come in altre occasioni è accaduto a partiti socialisti europei, al tentativo di ripartire da una severa sconfitta. Degli oltre 4 milione e mezzo di voti del 1992 il partito sociali-
sta ne ottiene nella proporzionale per la Camera solo 842 mila (il 2,2%) segnando il punto più basso della sua parabola. A ciò hanno condotto le sue oscillazioni, l'aver rinunciato a far valere le sue posi-
zioni negli anni ‘70 e ‘80 e preferitola politica-spettacolo, infine le rivelazioni di tani entopoli e la conseguente diaspora. È possibile una ripresa socialista? Il problema ormai travalica una singola formazione per riguardare l’intera sinistra.
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Capitolo V I SOCIALDEMOCRATICI
1. La costituzione, nel gennaio 1947, di un partito che si richiama agli ideali ed ai
motivi della socialdemocrazia europea è il frutto della confluenza di due gruppi diversi già operanti all’interno del PSIUP anche se su posizioni differenziate (v. / socialist). “Critica sociale” (o meglio “concentrazione socialista” come si chiama in quel momento la corrente) si collega all'omonima rivista e vuol proseguire la linea del socialismo riformista nella tradizione di Turati: i suoi maggiori esponenti sono Mondolfo, Faravelli, Si-
monini. Questo gruppo tende a sottolineare soprattutto le differenziazioni tra socialismo
e comunismo, intendendo il primo nel senso di emancipazione graduale della classe lavoratrice attraverso le istituzioni rappresentative all’interno del capitalismo sia pure per pervenire al suo superamento, e con la denuncia più netta dei metodi messi in atto dal bolscevismo, in particolare dall’organizzazione totalitaria con la quale si è caratterizzato
lo stalinismo rinnegando l’esperienza democratica. “Iniziativa socialista” è invece l’espressione di una nuova generazione, cresciuta durante il fascismo, formatasi durante la
guerra e che è andata assumendo una posizione critica nei confronti della direzione del PSIUP I “giovani turchi” (secondo la definizione della stampa) - i cui maggiori esponenti sono Zagari, Vassalli, Bonfantini, Libertini - contestano la politica di “accomodamento”
della dirigenza socialista nenniana nei confronti del PCI e sollecitano una iniziativa autonoma socialista per la politica interna (con punte di intonazione rivoluzionaria) e per la politica estera (neutralismo e critica della politica estera dell'URSS, considerata imperialistica come quella degli Stati Uniti). Non a caso sulla rivista “Iniziativa socialista” e sul periodico dei giovani “Rivoluzione socialista” si notano spunti critici nei confronti
del CNL, valutato come un'alleanza che serve più ai conservatori per mantenere le proprie posizioni nella fase dell'uragano del vento del nord e dell’ondata rivoluzionaria che ai rinnovatori, i quali in effetti rinunciano a portare avanti un programma di radicali trasformazioni. Come mai elementi sostanzialmente divergenti nei fini confluiscono non solo in un
unico atteggiamento, ma addirittura in un unico partito? E soprattutto come mai elementi che si considerano a sinistra contribuiscono a dar vita ad un partito che obiettivamente va a collocarsi a destra del PSIUP con una evidente funzione di rottura del fron-
te socialista e comunista forte, nelle elezioni del ‘46, di quasi il 40% complessivo dei voti? Indubbiamente confluiscono, nel secondo gruppo, componenti emotive, di impul-
so verso rotture e soluzioni nette ma anche la scarsa pratica politica che porta a confondere la coerenza ideologica con la realtà delle forze in campo, per respingere senza atte-
nuanti una guida del partito tesa a compiacere il PCI, mentre più consistenti nel paese e nel partito si fanno le spinte per chiedere una politica di autonomia dal comunismo interno ed internazionale. In effetti sarà invece il gruppo di “Critica sociale” a fondare il partito sulla propria identità ottenendo la copertura di chi certo non poteva essere accu109
sato di moderatismo. Molti giovani di “Iniziativa” ritengono di poter esercitare, in una nuova formazione democraticamente organizzata e senza posizioni precostituite, la fun-
zione sollecitatrice di profondi cambiamenti che la pesante struttura del PSIUP e la politica di subordinazione al PCI non hanno ad essi consentito. Un ruolo determinante esercita la figura di Giuseppe Saragat, senza la cui presenza una scissione in quel momento rappresenterebbe la semplice uscita di un numero più o meno alto di iscritti. Il prestigio di Saragat deriva sia dai compiti direttivi e dagli orientamenti con i quali, ancor giovane, si è distinto nel partito in esilio, sia dalle posizioni sostenute per un socialismo “umanitario” alla Blum. A questi precedenti si aggiunge il
raccordo che egli tende a stabilire, nella nuova situazione interna ed internazionale (di cui ha una conoscenza maggiore di molti suoi compagni per le frequentazioni passate e
recenti), tra socialismo ed istituzioni democratiche, come emerge nell’appello per la formazione della necessaria alleanza tra classe operaia e ceti medi, punto di riferimento reale per una azione politica diretta a sollevare le condizioni sociali dei lavoratori in Italia. Molto si è discusso sul ruolo che in quelle circostanze hanno esercitato interferenze straniere. Certamente gruppi italo-americani, organizzazioni sindacali ed altri circoli statunitensi hanno favorito la scissione in quanto un forte schieramento egemonizzato dal PCI era considerato un pericolo nel quadro delle prospettive internazionali: in tale ottica pertanto ogni operazione destinata ad indebolire quel fronte veniva assecondata. Tuttavia è indubbio che l’iniziativa di Saragat e di “Critica sociale” incontrandosi con quella del “giovani turchi”, rispondeva e esprimeva valutazioni e stati d'animo che accomunavano un notevole numero di socialisti all'insegna dello slogan di Matteotti “i socialisti con i socialisti, icomunisti con i comunisti”, e che facevano propria l’esigenza di rinnovamento presente in quegli strati del paese che nel ‘46 avevano risposto positivamen-
te all'appello elettorale del partito socialista distinto dai comunisti. Il successo sia pure limitato che i socialdemocratici riusciranno poi a conseguire in termini politici ed elettorali dal ‘48 agli anni ‘70, malgrado errori, contorsioni e divisioni, ne dà conferma.
AI XXIV congresso nazionale del PSIUP (Firenze, 11-17 aprile 1946) anche se la maggioranza relativa era andata al gruppo di sinistra che esercitava la leadership nel partito e che ribadiva il patto d’unità d'azione con il PCI come strumento indispensabile per l’unità della classe lavoratrice, le mozioni facenti capo rispettivamente a “Iniziativa”
e “Critica” avevano ottenuto oltre il 50% dei voti su posizioni di “autonomia” e di “democrazia socialista”. Nella seconda metà del ‘46 i due gruppi erano andati perdendo quota accentuandosi le loro posizioni critiche nei confronti della guida del partito sicché quando, durante il XXV congresso del PSIUP (Roma, 9-13 gennaio 1947), a palazzo Bar-
berini, “Critica sociale” e “Iniziativa socialista” si riuniscono per dar vita al Partito socialista dei lavoratori italiani, la consistenza è più ridotta, anche se al nuovo partito aderiscono ben 46 parlamentari socialisti e gran parte dei giovani socialisti.
Il discorso di Saragat a palazzo Barberini fa leva sul sentimento avverso alla fusione con il PCI, sulla mancanza di democrazia all’interno di questo partito (“il dissenso ideologico che ci separa dai comunisti........ investe la natura stessa della democrazia”), sui pericoli di regimi fondati sulla coercizione, sulla posizione acritica verso la quale i comunisti, in nome di miti rivoluzionari, spingono la classe lavoratrice, sulle ipoteche comuniste nella guida del PSIUP in contrapposto alla concezione e alla pratica democratica del socialismo (“quanto più il proletariato sarà democratico, tanto più troverà alleati, tanto più sarà forte”). Sul piano sociale si afferma di voler sostituire al “rozzo operai-
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smo” l’alleanza tra lavoratori del ceto medio, delle officine, piccoli proprietari rurali, in
un programma che risente delle esperienze e dei caratteri propri del socialismo francese. Dimessosi da presidente della costituente, Saragat dedicherà tutte le energie alla organizzazione del nuovo partito che avrà come organo di stampa “L’Umanità” e che in set-
tembre terrà un primo convegno organizzativo (nel quale emergono con più evidenza le differenti posizioni interne). L'ostilità dei comunisti sarà molto dura soprattutto nei luoghi di lavoro sino ad impedire a molti oratori socialdemocratici di parlare in pubblico. Alla fine del ‘47 i socialdemocratici entrano, insieme ai repubblicani, nel ministero De Gasperi-Einaudi, con la vice presidenza a Saragat e due dicasteri assegnati a Tremelloni e D’Aragona. Presidente del partito nella fase iniziale è Giuseppe Modigliani (morirà al-
la fine dell’anno), antico simbolo del neutralismo e del pacifismo socialista, poi promotore e dirigente con Turati e Matteotti nel ‘22 di quel partito socialista riformista che con-
trapponendosi al massimalismo aveva tentato di presentare uno schieramento democratico unitario contro il fascismo avanzante; poi in esilio aveva rappresentato il partito nel-
l'Internazionale socialista. Il primo congresso del PSLI (Napoli, 1-5 febbraio 1948) indica chiaramente, con
l'accettazione definitiva della collaborazione già in atto per una politica di centro mode-
rato e il riconoscimento della necessità di rapporti economici preferenziali con gli Stati Uniti, la collocazione che il partito, pur riconfermando il suo carattere socialista ed i suoi programmi di riforma economica, agraria ed industriale, va ad assumere, e ciò spiega co-
me aderenti alla mozione di sinistra (che riconfermava esplicitamente il classismo marxista nella condanna dello stalinismo) abbandoneranno il partito per riavvicinarsi su linea autonoma, al fronte socialista-comunista (ed alcuni di essi infatti si presenteranno candidati nel blocco del popolo, v. PC) o per confluire, come alcuni giovani (Maitan) su posizioni trozkiste. 2. La leadership di Saragat diviene subito indiscussa grazie al sostegno dei riformi-
sti che organizzano e controllano il partito in molte sedi del nord e alla rapida sostanziale emarginazione dei giovani provenienti da “Iniziativa”. L'ammissione del PSLI nella nuova organizzazione internazionale dei socialisti (Comisco) dimostrerà presto come la posizione di questo partito sia aderente alla linea del movimento socialdemocratico europeo.
Prima delle elezioni del ‘48 escono dal partito socialista altri gruppi (tra cui “Europa socialista” di I.Silone e quello guidato da I.M. Lombardo), che, unitamente agli ex azionisti P Calamandrei e T. Codignola daranno vita all'Unione dei socialisti (patrono a Roma il quotidiano “Italia socialista” diretto da A. Garosci). Così per le elezioni si potrà formare con il PSLI la lista di “Unità socialista” che riesce a raccogliere due milioni di voti
(il 7% dell'elettorato), una cifra più che considerevole se si tiene conto che si tratta di una formazione appena costituita ed aspramente attaccata dal fronte della sinistra, tollerata dal grosso delle forze che fanno perno sulla DC, cioè dai Comitati civici, solo in quan-
to capace di sottrarre voti all'area comunista. Tale positivo risultato dimostra come una linea socialista, autonoma dal PCI, nel periodo che vede sacrificati nei paese dell’Europa orientale, sotto la diretta influenza sovietica, uomini e valori democratici, possa tro-
vare consensi nei lavoratori, specie nei centri urbani dell’Italia settentrionale.
La grave perdita di peso subita dal PSI all’interno della sconfitta dell’alleanza tra socialisti e comunisti ridà fiato alle istanze autonomistiche (v. / socialisti, congresso di GeLI
nova 1948), di cui sarà espressione la nuova linea Jacometti - Lombardi, sia pure per una breve stagione. Intanto un gruppo ancora interno al PSI e facente capo a Romita si fa
promotore di una azione per la riunificazione socialista: sconfessato dalla direzione si presenterà al congresso di Firenze (Giugno ‘49) su posizioni critiche, sino a che, rimasto in
minoranza, prende spunto dalla espulsione del PSI dal Comisco per uscire dal partito onde dar vita ad un partito socialista unitario. Il II congresso del PSLI (Milano, gennaio ‘49) si svolge in un contesto ancora in-
fluenzato dalle conseguenze dell’attentato Togliatti e dal problema dell'adesione o meno dell’Italia al patto atlantico. A favore di questa scelta si schiera la maggioranza del partito, il cui esponente più rappresentativo, Simonini, sarà eletto segretario, mantenendo la carica, sino a quando in direzione non prevarrà una tesi contraria all'adesione, portata
avanti dalla minoranza (Vassalli). Tuttavia in seguito i socialdemocratici - salvo alcuni astenuti - accetteranno l’alleanza atlantica. Intanto Saragat è entrato, con Vigorelli, nel governo; dal quale peraltro, nelle successive contraddittorie fasi di riunificazione i socialdemocratici usciranno. Il III congresso (Roma 16-19 giugno 1949) doveva essere di preparazione alla riunificazione con il gruppo di Romita e l'Unione dei socialisti: ma il successo della linea di destra (che porta alla segreteria D’Aragona in sostituzione del breve esperimento Mondolfo) allontana la prospettiva, mentre la sinistra (Matteotti) parteciperà invece al “congresso di unificazione” (Firenze, 4 dicembre) insieme al partito di Romita e all’U.D.S.: nasce il Partito Socialista Unitario (con posizioni di polemica nei confronti della D.C. e di neutralità in politica estera) che consegue subito un significativo successo di prestigio, ottenendo l'immissione nel Comisco. Ma la frantumazione dei socialisti si è accentuata, con tre partiti collocati su posizioni diverse. Il IV Congresso del PSLI (Napoli 4-8 gennaio 1950) vede riaffermate le posizioni D’Aragona-Simonini, sulla base delle quali Saragat riassume la segreteria politica: il par-
tito rientra nel governo mentre Preti assume la guida della minoranza di sinistra. Intan-
to nel PSU confluiscono altri socialisti usciti rispettivamente dal PSI e dal PSLI: al congresso di Torino (27-29 gennaio 1951) - nella numerazione diviene il V del PSLI - si
rafforzerà la posizione del segretario Romita. Pur permanendo notevoli differenze tra la linea Saragat (fondata sulla collaborazione con la D.C. nell’intento di condizionarla) e la linea Romita (che esprimeva i risentimenti dei “socialisti democratici” nei confronti dell’egemonia politica della D.C.) si potrà giungere alla riunificazione attraverso il congresso di Roma del PSLI (31 marzo - 2 aprile 1951), gli accordi del I maggio 1951 che portano alla formazione del Partito Socialista (Sezione Italiana dell’Internazionale Socialista), e finalmente in congresso unitario di Bologna (3-6 gennaio 1952) che dà vita al Partito Socialista Democratico Italiano
di cui nel febbraio sarà segretario Romita, poi da ottobre (VIII Congresso Genova, 4-5 ottobre 1952) Saragat. Si chiude così una fase travagliata del partito alle prese più con i suoi problemi interni che con i problemi reali della società italiana, anche se proprio in questi anni è un socialdemocratico, Roberto Tremelloni, a portare avanti quell’’inchiesta sulla miseria e
la disoccupazione” che costituisce uno tra i più documentati punti di riferimento per l’analisi reale della situazione sociale italiana. Mentre si rafforzano a sinistra PSI e PCI e, a destra, monarchici e MSI, il PSDI riesce a mantenere posizioni ragguardevoli in qualche grande centro come Milano ma va
indebolendosi altrove perché le divisioni interne e la non chiara differenziazione dalle poti
sizioni moderate della D.C. (nei cui riguardi tuttavia Saragat continua a svolgere una funzione di richiamo ai motivi della riforma agraria e di altri interventi nel campo sociale)
impediscono il proselitismo e l’acquisizione di nuove energie che preferiscono indirizzarsi verso posizioni più nette. Sul piano finalistico il PSDI dà piena adesione alla Carta di Francoforte (dichiara-
zione dell’Internazionale Socialista nel giugno ‘51 sugli scopi ed i compiti del socialismo democratico) che rivendica il superamento del sistema capitalista attraverso “mezzi democratici” ed un ordinamento economico basato sul pieno impiego, l'aumento della produzione, un sistema di sicurezza sociale nonché l’equa ripartizione dei redditi e dei patrimoni; il documento afferma inoltre che il comunismo si è cristallizzato in un dogma-
tismo e mira ad instaurare la dittatura di un solo partito. Sul piano interno, i socialdemocratici sostengono correzioni di natura sociale e politica rispetto alla politica centrista. Le lacerazioni che dividono il partito non consentono ad esso di esercitare una sufficiente pressione nei confronti della DC (tanto è vero che
questa predispone progetti di legge sulla sicurezza pubblica, sulla stampa e sul diritto di sciopero non condivisi dal PSDI) nella cui prospettiva si era data giustificazione alla scis-
sione di palazzo Barberini. Il cennato indebolimento è alla radice della adesione al PSDI ad un progetto di riforma elettorale (elaborato anzi, nei suoi particolari, da un suo espo-
nente, Lami Starnuti) per conferire un ulteriore premio di maggioranza al gruppo di partiti associati che abbia conseguito la maggioranza assoluta. Il congegno, ripreso da un mo-
dello adottato in Francia, è sostenuto da Saragat perché permetterebbe ai socialdemocratici di mantenere una significativa forza parlamentare anche nella prevista eventualità di una diminuzione di voti raccolti, mentre è avversato dalla minoranza di sinistra che,
guidata da Codignola, deciderà di uscire dal partito per dar vita, assieme ad altri gruppi di estrazione democratica di centro e di sinistra (dissidenti dal PRI, personalità della cul-
tura), al movimento di “Unità popolare”. Il fallimento dell'operazione con la sconfitta dei partiti apparentati (giugno ‘53) è tanto più grave per il PSDI (sceso al 4,5% dei voti), che si riprometteva di conseguire una posizione tale da poter condizionare la maggioranza mentre proprio la DC, pur battuta nei suoi propositi di stabilizzare la propria egemonia, resiste meglio degli altri alleati. Tuttavia l'applicazione della proporzionale derivante dal mancato scatto del congegno “maggioritario” consente ai tre partiti minori della coalizione di centro (PSDI - PRI - PLI) di essere supporto indispensabile per la D.C. se questa non vuol aprire nè a destra nè a sinistra.
3. Così, dopo una fase nella quale Saragat in relazione al rafforzamento del PSI ha
cercato di stabilire contatti con questo partito per metterne alla prova gli intendimenti, il PSDI si orienta verso il ritorno ad una collaborazione organica della coalizione di centro che viene realizzata da Scelba nel febbraio ‘54. Nel nuovo governo (DC - PSDI - PLI ed appoggio esterno del PRI) Saragat assume la carica di Vice Presidente, lasciando la segreteria del partito a M. Matteotti. La nuova stagione centrista vede il partito schierato in prima fila sulle posizioni anticomuniste del ministero Scelba e quindi conseguente-
mente di lotta alla CGIL mentre va prendendo quota, tra i sindacati, la UIL (costituita da socialdemocratici, repubblicani e sindacalisti indipendenti): tuttavia la morte di Stalin, l'esperimento di Kruscev, con la denuncia dei metodi di terrore e violenza praticati
dal defunto dittatore, il richiamo quindi all’esigenza di una differente impostazione, e il successivo avvio alla politica distensiva sul piano internazionale e il progressivo distacco 19)
del PSI dal PCI in nome della politica di alternativa socialista, mettono in moto un processo di evoluzione nella società e all’interno dei partiti che dà nuovo slancio alla funzione dei socialdemocratici. Questi, impegnati a secondare orientamenti di stabilizzazione nella vita sociale del
paese (lo sviluppo industriale ed il rafforzamento della posizione contrattuale dei lavoratori della terra e l'avvio del processo di unificazione europea) temono, specie dopo l’elezione di Gronchi a presidente della Repubblica, una loro emarginazione, di fronte al
delinearsi di nuovi rapporti tra le maggiori forze politiche e cercano quindi una ricogni-
zione della loro identità, sulla base di una azione fondata da un lato sull’impegno del governo (dal ‘55 al ‘57 partecipazione al Ministero Segni) dall’altro su di una più adeguata organizzazione. Gli iscritti in pochi anni quasi raddoppiano e nel ‘57 sono oltre 150 mila. Se ancora chiuso appare il partito nel IX Congresso (Roma, 6 - 9 giugno 1954) all’aperutra verso il PSI, nel X Congresso (Milano, 31 gennaio - 8 febbraio 1955) la sinistra (Mondolfo, Zagari, Faravelli), anche se minoritaria, porta avanti il discorso di una rottura con i liberali e di un accordo con il PSI, in costante crescita nel paese, come d’altronde lo stesso PSDI (elezioni amministrative maggio ‘56). Si delinea - in concomitanza con le ripercussioni del XX Congresso del PCUS e poi dei fatti d'Ungheria - un'area socialista: l’incontro di Pralognan (agosto 1956) tra Nenni e Saragt e la denuncia da parte socialista del patto di consultazione con il PCI sembrano preparare il terreno per fa-
vorire il processo unitario, che viene però interrotto dall’irrigidimento delle sinistre socialiste al congresso di Venezia. Perciò, malgrado abbia provocato la caduta del governo Segni per favorire uno spostamento a sinistra, il PSDI deve registrare, all’esterno, la for-
mazione di un governo monocolore poggiante sui voti del MSI e, all’interno, una maggiore cautela della maggioranza nei confronti del PSI, tanto che Matteotti cede la segreteria a Tanassi, prima che questi (XI Congresso, Milano 16-20 settembre 1957) la restituisca a Saragat.
Le elezioni del 1958, anche se fanno registrare la stessa percentuale di voti (circa il 4,5%), rappresentano, per i socialdemocratici un rafforzamento sul piano politico parlamentare giacché rendono posibile la costituzione di un governo a due, guidato da Fanfani, che dovrebbe essere il primo ponte verso il centro-sinistra ma che avrà invece vita breve e stentata, ostacolato com'è da rilevanti settori conservatori della DC. 4. In vista di accelerare il processo di unificazione socialista, la sinistra del PSDI gui-
data da Zagari e Matteotti esce dal partito e dà vita al MUIS, che poi confluirà nel PSI, mentre in occasione del XII congresso (Roma, novembre ‘59), aderisce al partito “Alleanza socialista”, un gruppo di ex comunisti (E. Reale, M. Pellicani, G. Averardi, FS. Roma-
no). I socialdemocratici marcano il loro distacco sia dal primo che dal secondo ministero Segni spostato verso destra e poi si opporranno al tentativo Tambroni; questo atteg-
giamento, oltre a rendere stabile un collegamento con il PRI, rafforza la posizione del partito nel paese al quale si presenta con programmi di rinnovamento che consentono il suc-
cesso nelle elezioni amministrative nel novembre ‘60 dopo la costituzione del governo delle “convergenze parallele” grazie al quale si registra un ulteriore avvicinamento al PSI. Alla costituzione del centro sinistra di Fanfani il PSDI decide di partecipare al governo (‘62), riuscendo ad ottenere tre dicasteri economici (tesoro, commercio estero, lavoro ri-
spettivamente per Tremelloni, Preti e Bertinelli). In queste migliorate condizioni politiche il XIII congresso (Roma, novembre ‘62) può rilanciare il tema dell’unificazione sul114
la base di una posizione in costante ascesa sia per l'incremento nelle iscrizioni sia per i maggiori consensi conseguiti nelle elezioni politiche del ‘63, quando il partito sale ad ol-
tre il 6% dell’elettorato, dimostrandosi più in espansione dello stesso PSI. Con la nascita del centro sinistra organico, guidato da Moro e comprendente il PSI, i socialdemo-
cratici sono in grado di svolgere un'efficace azione con Saragat agli esteri, Tremelloni alle finanze, Preti alla riforma burocratica. Nelle elezioni per il Presidente della Repubblica nel maggio ‘62 sul nome di Saragat confluiscono i voti di socialisti, repubblicani e comunisti, in contrapposizione al fronte di centro destra, comprendente, oltre alla DC, monarchici e parte del MSI, e che rie-
sce a portare al Quirinale il leader dei dorotei Antonio Segni come garanzia di una linea che eviti cambiamenti profondi. Una presidenza quest'ultima che in seguito darà luogo
ad ampie riserve nella valutazione politica del suo avallo (in ordine alla quale però non sono stati acquisiti elementi certi) ad una iniziativa (il piano Solo) predisposta dal gen. De Lorenzo che prevede la possibilità di arresto di comunisti, socialisti e sindacalisti.
L'uomo politico sardo nell'agosto ‘64 sarà colpito da una trombosi che lo costringerà a rinunciare all’esercizio del suo mandato, affidato temporaneamente, in base alle norme costituzionali, al presidente del Senato Merzagora. In dicembre, perdurando l’impedimento, Segni si dimette. Dopo oltre 20 votazioni nulle e la successiva rinucia di Leo-
ne e Fanfani - la cui concorrenza impedisce la scelta di un democristiano - viene eletto alla presidenza Saragat con la confluenza di voti PSDI, PSI, PRI, PCI e DG; il PSIUP si
astiene e si registreranno ben 150 schede bianche (prevalentemente d.c.). Il nuovo capo dello Stato agirà dal Quirinale per il mantenimento delle coalizioni di centro sinistra; sarà criticato dall’estrema destra ed accusato di aver contattato il voto dei comunisti con l’am-
nistià ad un loro esponente condannato per fatti connessi alla lotta partigiana ed espatriato in Cecoslovacchia; in effetti il suo mandato si caratterizzerà per una linea garanti-
sta. A seguito della decisione dei socialisti di avviare un'azione comune con il PSDI (no-
vembre ‘65), la risposta socialdemocratica è positiva (XIV Congresso, Napoli gennaio ‘66). Si giunge così alla Costituente socialista (Roma, 20 ottobre ‘66) che unifica i due
partiti, accogliendo anche altri piccoli gruppi di socialisti e di personalità della cultura scientifica ed artistica, lasciando tuttavia non solo nella denominazione (PSI - PSDI uni-
ficati) ma anche nelle strutture a livello centrale (De Martino e Tanassi segretari) e peri-
ferico una condizione di parallelismo bicefalo che risulterà di grave pregiudizio all’azione concreta e impedirà di definire una chiara piattaforma politica. Inoltre verso la rafforzata formazione vanno, con le simpatie, le confluenze di molti aspiranti ai vantaggi del potere, specie nel mondo dello spettacolo e del parastato.
La congiunzione dei due tronconi del socialismo avviene su una base che dà ampio
spazio ai temi tradizionali della socialdemocrazia, e ciò spiega l'opposizione della sinistra socialista (Lombardi). D'altronde se sul problema del governo (continuazione o meno della partecipazione dopo le elezioni del ‘68) si hanno divisioni che non coincidono con quelle della provenienza dai rispettivi partiti, la situazione determinata dalla crescita sin-
dacale e dal malessere sociale del paese crea una profonda frattura anche dopo il Con-
gresso post-unificazione (Roma, ottobre 1968) che porta alla segreteria di compromesso Ferri, con l'appoggio degli autonomisti nenniani (Mancini) e di Tanassi. Infatti nei
mesi successivi un pronunciamento della maggioranza dei segretari di federazione - attestati sulla linea di De Martino - per uno spostamento degli orientamenti complessivi 115
del partito provoca una lacerazione di fondo sugli obiettivi politici: Ferri, Tanassi e Preti ritengono di non dare spazio alle prospettive di un rilancio del partito verso sinistra e, messi in minoranza, nel Comitato Centrale, si attestano sul documento programmatico di unificazione, in base al quale decidono di “uscire” e di ricostituire il PSDI, che in una prima fase si chiamerà PSU, per sottolineare come il partito non intenda venire meno alle finalità della unità socialista e come esso raccolga anche elementi che provengono dal
PSI (come Ferri, il quale anzi assumerà la segreteria) benché nella scissione notevole è il numero di ex socialdemocratici che rimangono nel PSI (specie aderenti alla UIL come Benvenuto) che si allineano sulle posizioni di Mancini.
5. Il manifesto costitutivo del PSU rivendica la fedeltà ai principi e alla linea politica della carta della unificazione del 1966: il nuovo partito nel ripredere vita (ha come organo “L'Umanità”) tiene a sottolineare l'opposizione a qualsiasi forma di inserimento del PCI nelle maggioranze a livello governativo e di amministrazioni periferiche senza ostacolare invece la ricostruzione di organiche coalizioni di centro-sinistra purché con una maggioranza rigorosamente delimitata. Mentre il PSI contesta il carattere “socialista” del
PSU, questo è ammesso all’Internazionale socialista, dove quindi saranno presenti entrambi i partiti. Nel giugno ‘70 le elezioni per i Consigli regionali collocano il PSU in posizioni con-
solidate rispetto al periodo pre-unificazione da Roma al Nord (in complesso 7% del totale dei voti validi). AI primo congresso del partito rinato (Roma, 6 - 9 febbraio 1971) emerge una diversità di posizioni tra Tanassi (sostenitore della continuità del PSDI, di cui peraltro viene ripresa la denominazione) e Ferri (alla ricerca di una qualificazione del nuovo partito anche sul terreno di revisioni istituzionali), il quale conserva la segreteria
pur con una direzione a maggioranza espressiva del gruppo di Tanassi (questi assumerà la presidenza). Sui problemi della scuola e dell'università si registra una convergenza tra PSDI (il
settore affidato a G. Orsello) e PSI di fronte alle remore frapposte nelle commissioni parlamentari sul progetto di riforma. Il rafforzamento del MSI nelle elezioni amministrative viene interpretato dalla segreteria del partito come la risposta dei settori moderati del paese al “massimalismo punitivo” contenuto nelle enunciazioni del PSI, la cui prospet-
tiva degli equilibri più avanzati viene aspramente contestata dai socialdemocratici. L’appoggio dato alla elezione al Quirinale di Leone, concluso il mandato di Saragat, marca ancora di più la frattura con il PSI. L'ex capo dello Stato, nel riprendere il proprio posto nel PSDI, sollecita un'azione per allargare l’area del socialismo democratico quale forza
equilibratrice di sinistra laica. Ferri viene sostituito alla segreteria da Tanassi (e Orlandi sostituisce Garosci alla direzione dell’ Umanità”). Le elezioni anticipate del ‘72 segnano (con poco più del 5% dei voti) un lieve arretramento rispetto alle ultime elezioni (1963), in cui il partito si era presentato da solo. Il
PSDI entra nel governo quadripartito di Andreotti con i liberali: Tanassi sarà vice presidente e ministro della Difesa e Orlandi assume la segreteria del partito.
Saragat, manifestando preoccupazione sia per i pericoli di una polarizzazione della lotta politica sia per l'eventuale avvio ad una tacita convergenza tra DC e PCI prende posizione a favore del ritorno al centro sinistra, contro cui si schiera invece la maggioranza del partito, sino a che però questa di fronte all’aggravarsi della situazione economica e ai rischi di una maggiore lacerazione nel paese, accetterà l’altra tesi. 116
Nel luglio ‘73 dopo la decisione del PSI per il ritorno al centrosinistra, si forma il quarto governo Rumor (DC, PSI, PSDI, PRI) - con Tanassi alla Difesa, Preti ai Trasporti e Matteotti al Commercio estero -, che avrà vita breve anche per i contrasti tra La Malfa e Giolitti in politica economica in una fase caratterizzata dall’aggravarsi della situazione internazionale e la crisi petrolifera. Nel marzo ‘74 il partito entra anche nel quinto mi-
nistero Rumor: la presenza di Tanassi alla Difesa (in un periodo contrassegnato da non chiariti comportamento dei servizi segreti) e il ritorno di Preti alle Finanze (dove porterà avanti positivamente la riforma tributaria) caratterizzano la partecipazione del partito al governo. Si avvia intanto una nuova dislocazione interna (a Genova nell’aprile ‘74 si svolge il congresso nazionale che, riprendendo la numerazione delle assise del PSDI, è il XIV) che vedrà da un lato la maggioranza di Tanassi e Orlandi - affiancati da Preti -, dall’altro
i gruppi di Romita e Ferri, più vicini alle posizioni di Saragat. Sono ristrette contese di vertici, senza rispondenza ai gravi problemi del paese e agli schieramenti che si fronteggiano.
Il contrasto di vedute sulle prospettive della situazione politica italiana emergerà con maggiore evidenza durante la lunga crisi nell'autunno ‘74 quando l'ex Presidente della
Repubblica prenderà precisa posizione contro Tanassi; il partito deciderà di appoggiare dall'esterno il bicolore Moro tenendo conto delle difficoltà economiche da superare. Emerge sempre più che il PSDI ha perso quella aliquota di base operaia e sociale che precedentemente aveva dato un significato riformatore, sia pure moderato, alla sua azione;
inoltre la perdita di quadri dell’UIL passati al PSI indebolisce la sua presenza nel sindacato. Mentre la situazione interna si aggrava a causa delle condizioni finanziarie e del terrorismo, i socialdemocratici restano invischiati da beghe interne, con differenziazioni le-
gate - più che in qualsiasi periodo precedente - a situazioni personali e contingenti, tanto che esse riescono a “reggersi” e a mantenere un minimo di elettorato quasi esclusiva-
mente grazie alle posizioni che continuano ad occupare a livello di governo centrale e periferico, dando così luogo a consensi di prevalente tipo clientelare, secondo una prassi tut-
tavia già invalsa anche in altri partiti della maggioranza. 6. AI XVII Congresso (Firenza, marzo ‘76) Saragat riconquista la maggioranza. Le
successive elezioni confermano il trend discendente dei socialdemocratici (dal 5,5 al 3%).
In una situazione caratterizzata sul piano politico dal forte bipolarismo DC - PCI e dalla crisi provocata dall’esplosione del caso Lockeed (che chiama in causa esponenti d.c. e socialdemocratici) non resta al PSDI che adeguarsi a seguire passivamente il corso degli eventi (non sfiducia e poi “solidarietà nazionale” con Andreotti) per non essere comple-
tamente travolte sull’onda dello scandalo che porta all’imputazione e poi alla condanna di Tanassi a 2 anni da parte della Corte Costituzionale. Tuttavia il partito - che nel ‘76 ha eletto Segretario P.L. Romita - riesce nel ‘79 a migliorare le posizioni, sia per uno sfor-
zo organizzativo di cui si vedono in particolare i segni positivi in alcune regioni (in Pu-
glia con Di Gissi, ed in Sicilia) sia per l'impegno a favore dei pensionati (un “cavallo di battaglia” cavalcato da Longo). I socialdemocratici si reinseriscono nella compagine governativa, pur nel variare delle sue formule, dall’estate ‘79 in poi, salvo naturalmente i ministeri monocolore d.c. La segreteria Longo cerca invano di trovare un più vasto radicamento sociale mentre una po-
sizione critica assumono la “sinistra socialdemocratica”, guidata da P. Luigi Romita che
denuncia il depauperamento della macchina organizzativa, e la “sinistra riformatrice” bL7
con Di Giesi ed il segretario della U.I.L., Ravecca - che non esita ad affrontare in cam-
po aperto il confronto a sinistra come si vede nella collaborazione al quindicinale degli indipendenti di sinistra “L’astrolabio”. Intanto il movimento giovanile cerca di rivitaliz-
zarsi, ma il suo spirito filoamericano lo spinge a non entrare nell’Internazionale giovanile socialista (I.U.S. Y.), ove prevalgono posizioni di tipo neutralista. Nel costante ondeggiare dei risultati elettorali il P.S.D.I. si assesta nell’83 attorno al 4%. Longo, mantenendo la segreteria, entra nel governo Craxi come ministro del Bilancio, incarico che dovrà lasciare a seguito della rivelazione della presenza del suo nome
tra gli affiliati della P.2. AI XX Congresso (maggio ‘84) Ruggero Puletti richiama l’esigenza di porre i problemi di costume, di conferimento di incarichi secondo specifiche
competenze professionali, e della organizzazione interna, quali punti primari per la costruzione di un nuovo gruppo dirigente, mentre Giuseppe Averardi, direttore della rivi-
sta “Ragionamenti” - che insieme a “Tempo Presente” diretto da Angelo G. Sabatini, esprime le linee culturali dei socialdemocratici - sostiene la necessità di discutere per “tesi”, in base cioè a ragionate argomentazioni sui singoli argomenti e non più su “mozioni” di carattere personalistico. Ed un fermo richiamo alle responsabilità individuali per i comportamenti in una fase di crisi di credibilità per tutti i partiti verrà da Mauro Ferri (il quale, dopo un'esperienza positiva al Consiglio Superiore della Magistratura, verrà chiamato alla Corte Costituzionale). Luigi Preti e Pietro Longo saranno confermati rispettivamente alla presidenza del C.C. e alla Segreteria del partito. Il quotidiano “L'umanità” attraversa fasi alterne ma con una diffusione costantemente in perdita; successivamente, - anche se con Puletti prima e con Antonio Casano-
va migliora il suo contenuto - resta al di fuori del grande dibattito politico nazionale. Nel novembre ‘84 la Camera non accoglierà la richiesta della messa in stato d’accusa per Andreotti e Tanassi in riferimento alla nomina - avvenuta nel ‘72 - del comandante della
Guardia di Finanza, implicato nello scandalo dei petroli. 7. L'anno successivo il partito sostiene l’U.I.L. nella campagna referendaria sulla sca-
la mobile. A livello locale il PS.D.I. partecipa a numerose giunte comunali e provinciali, nelle quali peraltro il suo peso, pur ridotto, è utile per la formazione delle maggioranze: l’effetto della proporzionale continua a favorire non solo il P.S.I. con la sua consistente “rendita di posizione” bensì anche i più piccoli P.R.I. e P.S.D.I., sostituendo quindi alla possibile composizione di stabili e chiare maggioranze programmatiche la dipendenza dai
variabili umori di gruppi ristretti, legati spesso a clan locali di tipo clientelare. A seguito delle dimissioni di Longo, coinvolto in un processo da cui sarà condannato ad alcuni anni di reclusione per aver intascato illegittimamente notevoli somme di denaro, viene nominato segretario Franco Nicolazzi, deputato di Novara, il quale però
qualche anno dopo sarà anch'egli costretto a ritirarsi a seguito dell'avvio di un procedimento penale a suo carico conclusosi nel ‘93 con la condanna a 5 anni di reclusione. Questi gravi fatti tuttavia influiscono in maniera meno forte di quanto si possa pensare sui destini elettorali del partito, che va sotto il 3% nelle elezioni dell’87 per la Camera mentre si presenta al Senato in alcune regioni con radicali e socialisti e che continuerà a partecipare ai governi di pentapartito con i ministri La Pergola alle Politiche comunitarie, Enrico Ferri (magistrato, ai Lavori Pubblici, dove acquista notorietà fissando rigorosi li-
miti di velocità nelle strade ed autostrade per ridurre il numero delle vittime e degli in118
cidenti), Vizzini - in costante ascesa grazie alla larga messe di voti che raccoglie nel suo collegio in Sicilia - ed altri in vari dicasteri, tra cui Beni culturali.
Tuttavia, quando nell’89 sembra che il P.S.I. sotto l’impulso di Craxi possa procedere all’unificazione socialista anche in rapporto all'evoluzione positiva dei rapporti tra i partiti di sinistra nella Comunità economica europea, un rilevante numero di esponenti e di quadri socialdemocratici (comprendente tra gli altri Romita, Orlandi, Orsello, Averardi) passa nel P.S.I., ove però la loro presenza qualificata non viene valorizzata, essendo ormai il P.S.I. chiuso in una logica interna di potere.
8. Intanto Cariglia, che aveva avuto in passato un ruolo importante nella socialdemocrazia italiana anche per l’attività svolta in seno all’Internazionale, ha assunto la gui-
da del partito e cerca di rivitalizzarlo, malgrado il peso qualitativo della scissione. Alla sua segreteria farà seguito dal ‘92 la segreteria Vizzini, dopo che il deputato socialista avrà avu-
to un ruolo al governo come ministro delle Poste e quindi responsabile del delicato settore televisivo; nelle elezioni del ‘92 il PS.D.I. ottiene il 2,7% dei voti. I socialdemocra-
tici nei governi Amato e Ciampi conservano il ministero delle Poste, con Maurizio Pagani.
Coinvolti nelle inchieste per “tangentopoli” gli ultimi due segretari, il partito si af-
fida ad Enrico Ferri, restando sempre Preti alla presidenza. Nell’estate ‘93 “L'Umanità” apre le sue pagine ad un dibattito sulla sorte del socialismo italiano dal quale emerge come ormai le linee divisorie non siano più quelle che avevano caratterizzato in passato le
scissioni socialiste, in quanto si pone piuttosto l’esigenza di nuovi schieramenti politici. Sia indagini giudiziarie che contrasti locali falcidiano la dirigenza del partito in vari cen-
tri; non mancano socialdemocratici che aderiscono ad Alleanza democratica e si presentano in liste da essa patrocinate nelle elezioni amministrative del ‘93 ottenendo buoni risultati, come Flamment, a Roma. Nelle elezioni del ‘94 vi sono candidati socialdemo-
cratici nello schieramento centrista di Segni; per la proporzionale la lista “I socialisti” (socialdemocrazia per la libertà) ottiene solo 179 mila voti (0,5%) e non riesce quindi ad. avere deputati mentr un socialdemocratico è eletto tra i progressisti.
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Capitolo VI
I COMUNISTI
1. Il Partito Comunista Italiano, che esce dalla clandestinità nei 45 giorni del governo Badoglio e che dopo l’8 settembre, unitamente al partito liberale, alla democrazia del lavoro, alla democrazia cristiana, al partito d’azione e al partito socialista di unità proletaria, dà vita al Comitato di Liberazione Nazionale, si ripresenta nella vita politica italiana dopo un lungo travaglio nel corso del quale ha superato le posizioni che contribuirono al suo isolamento subito dopo la fondazione, nel primo dopoguerra. Per una lunga fase si è caratterizzato con un impegno durissimo nell’esilio, nell’attività antifascista, in Italia, e contrassegnata dal rilevante numero di condanne da parte del tribunale speciale e di confinati (oltre due terzi del totale), con una ristretta ma crescente infiltrazione nei sindacati, nelle fabbriche, tra i giovani, nelle difficilissime condizioni create dal re-
gime e culminato, nella fase finale della guerra, con una diffusione capillare, la sua capacità di tenuta e la sua identificazione con una tendenza fondamentale nella evoluzio-
ne politica del paese. Gli avvenimenti militari del 1942 - con l’arresto dell’avanzata italo-tedesca in Egitto e poi la ritirata, la difesa di Stalingrado e la successiva controffensiva sovietica, lo sbarco angloamericano nell'Africa settentrionale francese - avevano creato le condizioni per
una ripresa di tutti i gruppi antifascisti in Italia, ed il partito comunista - che a differenza di altre formazioni non aveva interrotto la propria azione clandestina - è subito in grado di offrire, attraverso una articolata intelaiatura organizzativa, le basi per un rilancio della lotta politica fondata sui valori della democrazia e degli interessi popolari, e non più sulla dittatura degli operai e dei contadini, come nel primo dopoguerra il partito comunista d’Italia - sezione della Terza Internazionale, legato al modello leninista.
La preparazione e l’effettuazione degli scioperi del marzo ‘43 a Torino, ed in altri centri industriali dell’Italia settentrionale vedono in prima fila alcuni organizzatori comunisti: è una indicazione limitata ma precisa, per le classi dirigenti italiane, che, alla caduta del fascismo, il movimento operaio ed i comunisti in particolare saranno destinati ad avere un ruolo di primo piano. Gli stessi contatti che ambienti della Corte cercano di
avviare con esponenti comunisti (il prof. C. Marchesi dell’università di Padova) rivelano il peso che, anche attorno alla Corona, si attribuisce ai comunisti italiani. E dopo lo scio-
glimento dell’Internazionale comunista (maggio ‘43) il partito cambia la denominazione in PCI, facilitando così negli altri gruppi - specie tra i cattolici - chi vuol prendere contatto con esso.
2. Il 25 luglio ‘43 i modi di svolgimento della caduta di Mussolini e della successione stabilita dalla Corona sorprendono i comunisti (come gli altri gruppi antifascisti),
i quali non potranno subito beneficiare della liberazione decisa dal governo Badoglio per detenuti o confinati di altra parte politica. Roveda, chiamato dal Ministro Piccardi, insieme al socialista Buozzi e al cattolico Grandi, a reggere le confederazioni dei lavorato121
ri, pone come condizione per l’accettazione dell'incarico, la piena applicazione delle misure di libertà per tutti i comunisti: tale liberazione si avrà nei giorni immediatamente precedenti l'annuncio dell'armistizio quandoi dirigenti comunisti già si preparano a combattere contro tedeschi e l'eventuale ritorno del fascismo. Si spiega così come essi siano tra i più pronti ad attrezzarsi alla nuova fase di lotta subito dopo 1°8 settembre. Amendola e Scoccimarro partecipano a Roma alla costituzione del C.C. di L.N., e
nelle settimane successive nell'Italia centro-settentrionale si dispiegano le iniziative politiche e militari nelle quali il PCI è presente. Rispetto agli altri partiti, esso si trova avvantaggiato dal fatto d’aver già a lungo sperimentato un'attività di tipo militare e di po-
ter contare su organizzatori maturati nella esperienza della guerra di Spagna. Si spiega così come nelle prime formazioni partigiane che si vanno formando nelle zone di montagna e di campagna e nei comitati politici nelle città l’azione dei comunisti risulti particolarmente rigorosa. Non mancano nei due anni di lotta clandestina e partigiana contrasti all’interno della militanza comunista e contrasti tra PCI ed altri partiti. I primi sono da collegare con le condizioni di isolamento in cui vari gruppi di antica e recente formazione si trovano e quindi con situazioni di diffidenza, con spinte estremistiche, con diversità di strategia e di tattica; i secondi si riconnettono da un lato con le pregiudiziali anticomuniste presenti in rilevanti settori dell’antifascismo sia con atteggiamenti assunti
dai comunisti anche in riferimento alla condotta delle operazioni militari e che fanno ritenere ad altre formazioni combattenti (vuoi di origine direttamente militare, e quindi d'ispirazione monarchica, vuoi di intonazione democratica cristiana o liberale) non accettabile l'impostazione del PCI che tende ad accentuare i propri motivi di lotta ed imporre la presenza di commissari politici nei gruppi armati. Tuttavia l'esito dello sciopero generale operaio nel marzo ‘44 nelle fabbriche dell’Italia occupata dall’esercito germanico, la successiva definizione dei rapporti tra corpi militari e CLNAI con l’assunzione di Longo al comando del Corpo volontari della libertà e la partecipazione dei suoi dirigenti alla direzione politica del movimento, contribuiscono ad assicurare al PCI una posizione di primo piano in tutta la fase della lotta antinazista che si concluderà a fine apri-
le ‘45. 3. Mentre l'URSS riconosce il governo Badoglio, contribuendo con un atto di politica internazionale, a dare risalto alla presenza sovietica nel governo militare alleato con l’Italia nel quale le posizioni inglesi ed americane erano obiettivamente più influenti per le presenze rispettivamente della V armata degli Stati Uniti e della VIII armata britan-
nica, sbarca a Napoli il leader comunista Togliatti. Questi - superando remore di gruppi comunisti già operanti nel Meridione - propone l'accantonamento della questione istituzionale per concentrare tutte le energie nella guerra contro i tedeschi attraverso la formazione di un governo unitario largamente rappresentativo. È la famosa “svolta di Sa-
lerno” accettata non senza riserve da socialisti, partito d'azione e anche da settori riottosi della base comunista, e che darà luogo a polemiche ancor vive nella storiografia. In effetti nei partiti democratici operanti nel “Regno del Sud” era prevalente, in una posizione di netta ostilità verso Badoglio, la tesi non dell’accantonamento della questione isti-
tuzionale bensì del sovrano . Al contrario il governo militare alleato considerava proprio il re ed il vecchio maresciallo garanti dell’osservanza dell'armistizio e pertanto non intendeva favorire lo svuotamento di un potere che simboleggiava la continuità dello Sta-
to. Il segretario del PCI si fa portatore d’una linea che, fondata sulla valutazione realisti122
ca della condizione del paese e della impossibilità per l’Italia di scegliere una strada diversa da quella corrispondente alle decisioni delle due potenze prevalenti nella penisola per ragioni militari, spinge al massimo impegno nella guerra, ponendo in secondo pia-
no gli obiettivi di classe del movimento operaio. La resistenza al “compromesso” vengono non solo dal PSI (Pertini, Nenni) o dagli
azionisti (Lussu) di Roma e del Sud ma anche da esponenti comunisti nella capitale e al Nord. Questi in particolare ritengono (Longo e Secchia), sulla base dell’esperienza della azione portata avanti in Italia settentrionale, che la classe operaia possa esercitare nella fase della lotta armata una funzione determinante da far pesare nelle scelte postbelliche. Tra i dirigenti comunisti romani Amendola non si nasconde il disorientamento della base per un mutamento politico che può sottendere una svolta ideologica. La linea Togliatti viene comunque accettata e fatta propria del partito che, unitamente agli altri rappresentanti dei partiti del C.L.N., entra in quello che sarà l’ultimo ministero Badoglio, men-
tre il problema istituzionale è provvisoriamente superato con la formula della Luogotenenza, escogitata da De Nicola e che diverrà esecutiva all'arrivo degli Alleati a Roma. Certamente la scelta di Salerno riguardo alle condizioni di fatto esistenti mette in moto un processo di impegno unitario delle varie forze politiche e sociali e implica per il momento la rinuncia a portare avanti motivi rivoluzionari o di classe, ma così, mentre viene sbloccato l’impasse dei rapporti tra partiti, Corona ed Alleati, icomunisti hanno modo di uscire dall’isolamento e riescono ad ottenere una collocazione a livello politico e costituzionale di indubbio rilievo. Tuttavia l'affermazione della continuità dello Stato e l’unità an-
tifascista di tutte le componenti sociali (anche di quelle corresponsabili dell’insediamento del fascismo) danno un respiro alle forze moderate e conservatrici che si potranno poi avvalere di questa pausa per riorganizzarsi.
La presenza di Togliatti, Scoccimarro e Gullo (autore di una legge sui patti agrari favorevole ai contadini) nei governi Bonomi, Parri e nel primo governo De Gasperi dà a questi Ministeri quel carattere unitario che rispondeva ai fini della svolta di Salerno; le
preoccupazioni, prima di secondare lo sforzo bellico e poi di salvaguardare le posizioni acquisite ai fini di dare una larga base politica al nuovo potere democratico, fanno rinunciare sia ad ogni proposito di rinnovamento profondo delle strutture sia a riforme parziali in settori specifici a cominciare dalla giustizia e dalla pubblica amministrazione,
come si vede nello stesso operato di Togliatti Guardasigilli e nell’utilizzazione delle leggi penali e di polizia emanate in periodo fascista.
La dirigenza comunista rivolge principalmente l’attenzione alla formazione del partito “nuovo”, così come l’ha concepito e cerca di realizzarlo Togliatti (discorsi di Napoli 11 aprile 1944 e di Firenze, 3 ottobre 1944), un partito di massa che si rivolga a tutti gli strati sociali - operai, contadini, professionisti, impiegati, intellettuali - e che faccia opera di promozione dell’interesse nazionale generale senza perseguire risultati per una classe soltanto. Lo stesso art. 2 dello statuto che consente l’iscrizione indipendentemente dalle convinzioni filosofiche e religiose apre al partito una piattaforma larga di adesioni ed indica il terreno su cui esso intende orientarsi anche nei confronti del mondo cattolico. Il ruolo importante svolto dalle formazioni partigiane e dai dirigenti politici comunisti nel Nord rende questi nel contempo corresponsabili delle conclusioni dello sforzo militare, con la consegna delle armi agli Alleati e la rinuncia a portare avanti rivendicazioni di natura rivoluzionaria, come avrebbero voluto non pochi gruppi comunisti. E non mancano, a Milano come in Emilia, episodi di violenze protratte ben oltre la fine delle osti123
lità, che contribuiscono a diffondere una atmosfera di paura e che fanno riemergere in
diversi settori del paese atteggiamenti di condanna nei confronti dei comunisti, accusati da questo momento di una politica del “doppio binario”. 4. Togliatti, valutando realisticamente le condizioni in cui il paese si trova rispetto alle due potenze straniere presenti in Italia con i loro eserciti, mira soprattutto ad evitare quella che poi sarà la prospettiva “greca”, il pericolo cioè che si possa avere una guerra civile con intervento militare angloamericano: eventi questi che avrebbero ricacciato
indietro PCI e classe operaia dalle posizioni conquistate attraverso la partecipazione alla lotta antifascista. Il partito si organizza allora per svolgere una sua funzione nel paese che tenga conto della realtà internazionale e dall’inserimento dell’Italia nell’area di influenza anglo-americana, anche se alla base persisteranno, sino al 1948 ed oltre, fermenti estremisti. D’altronde la convinzione che il partito possa conquistare il potere unitamente ad
altre forze di sinistra è alimentata da una dirigenza che non vuole disperdere energie uscite vigorosamente dalla resistenza militare, anche se i massimi leaders ben avvertano la difficoltà di conseguire risultati maggiori di quelli che poi si otterranno nella realtà, e cioè il mantenimento di un regime democratico garantista. Il primo congresso nel dopoguerra (il V nella storia del partito) si svolge a Roma (29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946)- nell’aula magna della Città Universitaria, non senza contrasti per l’utilizzazione di una sede pubblica per una assise di partito, indice dell’avvio di una tendenza - destinata ad espandersi - a non distinguere tra ruolo dei partiti e ruolo delle istituzioni -, e segna una ricognizione della consistenza organizzativa del partito, che costituito nel ‘43 da non più di 5-6 mila militanti, può ora contare su oltre
1.770.000 iscritti. Quali obiettivi da conseguire Togliatti indica la liquidazione completa del fascismo, la limitazione dei privilegi dei gruppi più ricchi e la lotta alla speculazione. Viene affrontato anche il tema della formazione di un partito unico della classe operaia italiana.
Nel documento finale si propone la nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici, delle grandi banche e delle compagnie di assicurazioni, con l'estensione dei consigli di gestione e l’avvio di un controllo nazionale della produzione. Nei mesi successi-
vi l'impegno dei militanti sarà rivolto all’azione per la tutela dei lavoratori dai pericoli della fame e della disoccupazione, alle battaglie per la repubblica, alle lotte bracciantili. I successi nelle elezioni amministrative della primavera ‘46 e poi il conseguimento
del 19% dei voti (oltre 4.300.000 con 104 deputati) nelle elezioni politiche del 2 giugno costituiscono un sicuro punto di consolidamento per il partito. Il disimpegno di Togliatti dal governo dopo l'avvento della repubblica sarà sintomo del maggior peso che nel-
la nuova fase politica si vuol assegnare, rispetto alle istituzioni ufficiali, al partito, alla cui riorganizzazione il segretario dedica tutte le sue energie (conferenza di organizzazione a Firenze nel gennaio 1947 ed attivazione degli organi dirigenti ai vari livelli). Sarà in se-
guito oggetto di discussione l'atteggiamento tenuto dai comunisti in questa fase e in particolare la votazione dell’art. 7 della Costituzione che regola i rapporti tra Stato e Chie-
sa, votazione alla quale si oppongono le altre forze laiche (liberali, socialisti, socialdemocratici e repubblicani) e che viene da queste forze considerata una inutile concessione dei comunisti alla DC nella speranza di poter mantenere l'alleanza con questo partito, il quale invece - ottenuto l’atteso risultato - procederà all’allontanamento delle sini124
stre dal governo, sulla base degli affidamenti ricevuti sia a livello istituzionale (USA) che interno (forze imprenditoriali).
5. Dopo la scissione socialista e la forte ripresa moderata nel paese, il PC.I. concentra il suo sforzo nell’appoggio ai movimenti rivendicativi dei lavoratori della terra (specie nel Mezzogiorno) e degli operai, e riesce a mantenere l’iniziativa sul terreno sindacale men-
tre s'impegna anche sul fronte culturale, raccogliendo larghi consensi. Il VI congresso (Milano, 4-10 gennaio 1948) registra un rafforzamento organizzativo (oltre 2 milioni e 250 mila iscritti, diecimila sezioni, oltre 50 mila cellule) e l’atte-
stazione su una linea politica in cui sono prevalenti le preoccupazioni per “la difesa della democrazia, della pace, dell’indipendenza”. Nella accuse alla politica imperialistica negli Stati Uniti, vengono adesso coinvolte anche le alte gerarchie della Chiesa. Gli appel-
li alla “democrazia nuova” e alla “alleanza per l'edificazione di una società socialista” non dissimulano la sostanziale strategia difensiva sulla quale il partito si colloca e che risponde alla linea di più rigida chiusura in politica interna e internazionale. È tuttavia significativo che in questa occasione Togliatti parli di una “via italiana al socialismo” proprio perché avverte come, oggettivamente rispetto ai fenomeni in corso nell'Europa orientale e soggettivamente per il PCI, i legami esterni costituiscano un elemento di debolezza ancor prima che il segno di una mancata autonomia politica. In queste condizioni il partito partecipa insieme ad altre componenti politico-sociali
di sinistra, a quel “Fronte Democratico Popolare per la pace, la libertà ed il lavoro” che - costituito ad iniziativa del PSI con il fine di favorire nel paese una politica di riforme delle strutture, secondo le linee emerse nel congresso per i consigli di gestione, nel congresso per il Mezzogiorno, nella Costituente della terra, nella Lega dei Comuni demo-
cratici - si trasformerà in un cartello elettorale. In esso la forza predominante del PCI, con la sua capacità di proselitismo verso strati diversi (anche se operai e braccianti rappresentano insieme oltre il 62% degli iscritti) se costituisce un elemento trainante sul pia-
no dell'efficienza organizzativa e propagandistica determina in senso contrario un’ampia convergenza d’interessi e di stati d'animo sia in riferimento ai rapporti PCI-URSS e che rendono perciò precaria e scarsamente credibile in quella fase l’asserita “via italiana” sia in riferimento agli avvenimenti nei paesi europei di recente acquisizione all’egemonia comunista (fatti di Praga nel marzo). La propaganda del Fronte, insiste sull’esigenza di salvaguardare la democrazia dal fa-
scismo e dalla guerra: trova ostacoli nella convinzione di vasti settori del paese che la scelta è tra democrazia moderata (come si presenta la D.C. alleata con i liberali alla Einaudi) e vittoria di un Fronte a prevalente guida di un partito che non separa le proprie po-
sizioni da ciò che accade nell’Est europeo. In questa situazione si spiega come l’intensa mobilitazione contro il Fronte (in cui parte notevole ha, oltre alle influenze americane e all’intervento delle autorità ecclesiastiche e dei comitati civici, il profondo radicamento delle autonome organizzazioni cattoliche, specie femminili) consenta alla D.C. di conseguire alla Camera la maggioranza assoluta. Rispetto alle elezioni per la Costituente, PCI e PSI hanno perso circa un milione di voti, malgrado l'aumento di quasi 2 milioni di elettori: tuttavia è da segnalare che in regresso nel centro-nord (dove invece ottiene significativi consensi la lista socialista democratica) il Fronte avanza nel Sud (i deputati passano da 24 a 36); all’interno del Fronte il PCI ottiene 132 seggi contro 48 del PSI, che de-
ciderà presto di avviarsi ad un primo “sganciamento” dai comunisti. Mentre il partito si appresta, con la prima legislatura a marcata impronta d.c., alla 25
preparazione per i nuovi compiti che l’attendono quale principale forza di opposizione (se sul piano politico viene contestata la sua reale natura “democratica”, sul piano sociale esso diviene punto di riferimento nel mondo del lavoro specie nel Mezzogiorno in con-
seguenza delle posizioni sacrificate dal tipo di ricostruzione capital-moderata dello Stato), l'attentato a Togliatti (14 luglio) dimostra il punto di tensione esistente nel paese. La pronta e combattiva reazione di base del partito rivela il grado di organizzazione e la
capacità di operare in tutta Italia: oltre allo sciopero generale si registrano occupazioni dei luoghi pubblici e interruzione di comunicazioni. L'intervento dei dirigenti del partito, primo tra tutti lo stesso segretario del partito e il segretario generale della CGIL Di
Vittorio, vale a frenare il movimento spontaneo di massa da chine pericolose sulle quali a Genova e sull’Amiata sembrava avviato, tanto più che la risposta del potere pubblico
(prima con l'intervento della forza pubblica, poi con i processi e le condanne da parte della magistratura) indica come l’alveo istituzionale non possa essere superato se non a prezzo di un'azione rivoluzionaria, che la stessa dirigenza comunista (salvo casi isolati)
non intende perseguire. La conseguente rottura dell'unità sindacale ad opera dei sindacalisti democristiani che non ritengono garantita, nella loro condizione di minoranza, l'a-
partiticità della confederazione, rappresenta un ulteriore elemento di disaggregazione del movimento unitario che si era costituito durante il periodo della resistenza armata e che i comunisti, con i loro atteggiamenti, hanno contribuito ad indebolire per perseguire obiettivi unilaterali, non condivisibili dalle altre forze democratiche. 7.Il ritorno diretto di Togliatti alla guida del partito nel settembre ‘48 apre una lun-
ga stagione di opposizione impegnata a ritessere la fila di una lotta sociale e politica che parte dai dati reali delle condizioni di lavoro, di inoccupazione, di miseria di tanti strati del paese per cercare il consenso popolare nella solidarietà dell’azione svolta nelle fabbriche
e nelle campagne. Contemporaneamente vengono avviate nuove iniziative nel settore della cultura, nel cui ambito si era già registrato un significativo contrasto tra la direzione politica del partito e quegli intellettuali, come Vittorini, che volevano svolgere un’azione a fianco o all’interno del partito stesso ma fuori da ogni condizionamento: non intendevano essere semplicemente “pifferi della rivoluzione”. L'esperienza della rivista “Il politecnico”, aperta ai fermenti nuovi della cultura internazionale nei campi dell’arte e della scienza, viene fatta cessare giacché Togliatti non intendeva consentire l’esistenza di
linee che potessero contraddire le sue scelte politiche. È un contrasto che riemergerà negli anni ‘50 con lo zdanovismo imperante in URSS, al quale non tutti gli artisti sono disposti a piegarsi. In politica estera l'opposizione al Patto Atlantico, che si manifesta nell’ostruzionismo parlamentare, in dimostrazioni di massa, in singolari convergenze in qualche caso tra giovani comunisti e giovani provenienti dall'esperienza della R.$.I. accomunati dall’antiamericanismo, nella denuncia di tutte le iniziative che si connettono all’organizza-
zione militare dell’alleanza, trova eco in altre forze politiche e popolari sia di tradizione cattolica che di formazione laica mentre l’accettazione passiva della condanna del Cominform (costituito nel 1947 tra i vari partiti comunisti europei), contro la Jugoslavia titoista conferma le conseguenze negative di un allineamento acritico. In politica interna - dopo la “scomunica” di Pio XII contro comunisti e marxisti e l’accentuazione della polemica anticomunista in connessione con l’ulteriore inasprimento
dei rapporti tra USA e URSS - il PCI si impegna nella contestazione delle scelte econo126
miche dei governi centristi e delle ripercussioni di queste scelte sui livelli di occupazione, nelle condizioni di lavoro e nella situazione del Mezzogiorno, facendo proprie le proposte alternative della CGIL (“piano di lavoro”) e criticando i mezzi di utilizzazione dei
fondi degli aiuti economici americani. Inoltre dà un rilevante contributo alla lunga serie di agitazioni contadine, agitazioni attraverso le quali viene riproposta l’urgenza di interventi legislativi ed economici, che il governo cerca di realizzare con le leggi stralcio per la riforma agraria e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Il VII Congresso (Roma, 4-9 aprile 1951) è ancora dominato - in connessione con la guerra di Corea - dai te-
mi internazionali e Togliatti dichiara “siamo disposti a ritirare la nostra opposizione, tanto parlamentare quanto nel paese, ad un governo il quale modificando radicalmente la politica estera dell’Italia, cioè sottraendo l’Italia a quegli impegni che la portano in modo inevitabile verso la guerra, impedisca alla nostra patria di essere trascinata nel vertice
di un nuovo conflitto”. Il dibattito rivela da un lato l’esistenza all’interno del partito di un certo “settarismo”, di cui gli stessi organi interni chiedono la liquidazione, dall’altro
la difficoltà per un partito di massa di essere nel contempo partito di militanti: Secchia afferma che metà degli operai iscritti non lavora nelle cellule di partito. I problemi organizzativi cozzano d’altronde con un sistema centralistico caratterizzato da formule schematiche di cui il simbolo più evidente è la sempre rinnovata fiducia incrollabile nellUnione Sovietica e nel suo grande Capo, il compagno Stalin. La ricostituzione della EG.C.I.
si va rivelando tuttavia un efficace strumento di propaganda e di proselitismo. Il PCI si trova in questa fase ad affrontare una duplice difficoltà. Da un lato la collocazione internazionale non consente alcuna autonomia di manovra: l'impegno a favore del “movimento dei partigiani della pace” e per la raccolta di firme contro l’uso delle armi atomiche costituiscono tuttavia un allargamento della sua azione. Dall’altro il pe-
riodo più teso della guerra fredda coincide con un inasprimento dei rapporti politici all'interno dove la maggioranza parlamentare cerca di dare una copertura ideologica, in nome della “difesa della democrazia”, al tentativo di isolamento del PCI, mentre governo
ed aziende non esitano a licenziare militanti comunisti (e socialisti). Iniziative quale il pro-
getto di legge cosiddetto “polivalente” - cioè per la estensione delle norme della legge Scelba contro il fascismo ad altri settori politici, nonché in materia di stampa e di difesa civile - nonché gli incidenti che si registrano in occasione di scioperi e manifestazioni quando si hanno duri interventi repressivi da parte della forza pubblica (v. Democrazia cristiana) indicano la tendenza del governo a dare una interpretazione restrittiva alle libertà in nome di una “cittadella democratica” che si considera minacciata e che quindi si ritiene di dover proteggere. In siffatte condizioni anche militanti che avvertono l’insofferenza verso le prevalenti linee politiche e metodologiche interne ritengono di non sottrarsi all’azione di difesa del partito, il quale peraltro, facendosi interprete delle proteste di vari settori del paese, riesce non solo a consolidare le proprie posizioni nel movimento sindacale per la spinta da esso impresso nelle rivendicazioni sociali, ma a migliorare le
proprie posizioni nelle elezioni amministrative del 1951-52 e ad allargare i propri consensi nei settori dei ceti medi (cui la manifestazione più evidente è la lista popolare a Roma guidata da ES. Nitti) e degli intellettuali (che avvertono il peso della censura € della prevenzione nei settori della cultura e in specie dello spettacolo). Il tentativo della maggioranza di aumentare il numero dei propri deputati attraverso quella che sarà dalle opposizioni chiamata “legge truffa” apre al PCI insperate possibilità di convergenza con settori che pure verso di esso non nascondono le proprie riserve in materia di libertà e di dz
autonomia internazionale: pertanto la sconfitta del centrismo nelle elezioni del 7 giugno 1953, pur essendo il frutto di una eterogenea e contingente convergenza di forze diversificate di destra e di sinistra, segna per i comunisti non solo un rafforzamento delle proprie posizioni sul piano elettorale (22,7% dei votanti) ma anche un indubbio successo
strategico per il ruolo svolto, accanto al PSI, nella lotta contro la linea degasperiana. La morte di Stalin ha nel frattempo creato una condizione di disagio nell’ambito del movimento comunista internazionale che non rende facile neppure per il PCI la scelta di una precisa linea politica: in questo quadro il sopravvenire, nel 1954, del governo Scelba-Saragat che adotta una serie di misure apertamente dirette contro i comunisti, pone il partito nella necessità di difendersi. Pertanto i temi di una eventuale conversione di rot-
ta passano in secondo piano, anche se più evidenti traspaiono i segni della presenza nel partito, di un “organizzativismo” centralistico che preclude l’affiorare di espressioni e posizioni critiche. E questa “chiusura” si rivela ben presto come un forte limite, un grave ritardo per la stessa comprensione dei fenomeni in corso nella società italiana, di cui sarà sintomo eloquente la sconfitta elettorale della CGIL alla Fiat nel 1955, segno di un ar-
retramento generale del movimento operaio che non è solo frutto di pressioni esterne, ma anche di mutamento dei caratteri dello sviluppo economico non avvertiti dal PCI. D'altro canto la chiusura - già rivelata nell'immediato dopoguerra - nei confronti di libertà artistica (come la pittura informale) e di dissenso, e l'adesione alla rigida linea culturale espressa in URSS da Zdanov denotano la mancanza di una autonomia che investe non solo il piano ideologico ma la capacità di scelte critiche.
8. Nel maggio del 1955 l'elezione di Gronchi alla Presidenza della Repubblica - con il voto favorevole anche dei comunisti - segna l’inizio di una inversione delle tendenze prevalenti in parlamento anche se nel nuovo alveo sono destinate a essere marcate mag-
giormente le distinzioni tra PCI e PSI. Proprio in questi mesi il movimento comunista internazionale risente gli effetti di una crisi interna che prende storicamente il nome di “destalinizzazione” accettata da quasi tutti icomunisti con la stessa passività con cui ave-
vano subito la “stalinizzazione”; il momento culminante sarà il rapporto di Kruscev al XX Congresso del PCUS (febbraio 1956) con la denuncia dei metodi terroristici e tirannici messi in atto da Stalin, definito dal nuovo Capo dell’URSS come “il più bieco tiranno della storia”, riconoscendo così la validità di tante critiche e riserve avanzate negli anni ‘30 e ‘40 da militanti dei movimenti di sinistra. Il 1956 è certamente l’anno di crisi del PCI con lo sbandamento della base e perciò merita un particolare approfondimento: ma in effetti si tratterà in quell’occasione, così come per il comunismo internazionale, di una crisi di crescenza. Senza entrare qui nel merito delle motivazioni addotte da Kruscev in ordine alla svolta che egli imprime al PCUS è certo che l'indicazione fornita per la trasformazione, nei paesi capitalistici, de-
gli organi della democrazia borghese in strumenti di reale democrazia per i lavoratori trova nel contesto italiano un ambito possibile di realizzazione, giacché la scelta della “via parlamentare” per la migliore difesa della classe lavoratrice era già una acquisizione del PCI. Togliatti rilancia nelle riunioni del Comitato Centrale in marzo e in giugno all'VIII Congresso in dicembre e in una intervista a “Nuovi argomenti” la tesi della “via italiana al socialismo” nel quadro di un comunismo multipopolare (nell’aprile 1956 è stato sciol-
to il “Cominform”, l'ufficio di informazione tra i partiti comunisti ed operai); si tratta 128
di una elaborazione che era andata maturando nel partito, ma un eccesso di subordinazione alla politica sovietica in tutti i campi e il timore di divenire eterodossi in una fase
di lotta difensiva avevano relegato nel foro interno delle coscienze dando luogo a quella “doppiezza” di cui da più parti sono accusati i dirigenti comunisti, e non solo Togliatti.
E mentre il partito procede ancora incerto a ricucire le sue ferite, la esperienza ungherese dell’ottobre 1956 crea una lacerazione di cui i segni più manifesti saranno la lettera di dissenso dei 101 uomini di cultura romani e le successive dimissioni dal partito di intellettuali di rilievo tra i quali A. Giolitti, C. Muscetta, A. Caracciolo. Il PCI accet-
ta sostanzialmente la versione moscovita e kadariana dei fatti di Budapest e del conseguente intervento militare sovietico, definito dagli organi del partito “una dura necessità”
mentre viene condannato da Di Vittorio in una dichiarazione della C.G.I.L. proposta da sindacalisti socialisti (solo alla fine degli anni ‘80 i dirigenti comunisti avranno un tardivo pentimento e si ricrederanno in ordine a questi eventi).
La “diversità” delle singole esperienze e la reciproca autonomia dei partiti non contraddicono - afferma Togliatti all’VII Congresso - l’unità di forido del movimento comunista internazionale. Il PCI dichiara invece di respingere la tesi dello “Stato guida” e del “partito guida”. Le modifiche introdotte nello statuto, su proposta di Longo, tendo-
no ad eliminare “deformazioni” e “deficienze” soprattutto in tema di iniziative e responsabilità delle organizzazioni di base, di sovranità delle assemblee deliberanti, di circolazione delle idee. È una “autocritica” giudicata all’esterno insufficiente e ipocrita, per i dub-
bi sulla sincerità della “conversione” al “metodo democratico” nella accezione tradizio-
nale. La “dichiarazione programmatica” approvata ribadisce che “nella lotta per il socialismo la questione decisiva è la questione del potere politico, perché non è possibile la
costruzione di una società socialista se il potere politico non viene tolto ai gruppi dirigenti del capitalismo monopolistico e non passa alla classe operaia”. Sulla base dell’impostazione gramsciana dell’alleanza delle forze sociali si sostiene, nella concreta realtà ita-
liana, che la piattaforma della Costituzione repubblicana può essere la base per la trasformazione profonda dell'ordinamento economico e sociale, senza necessità di rinviare
“all'era della conquista del potere” le trasformazioni stesse, da perseguire quindi “come obiettivi concreti e realizzabili” nell’ambito dell'ordinamento costituzionale. L'appoggio
del movimento di massa viene ritenuto essenziale per l’attuazione del metodo “pacifico”. La scelta dell'VIII Congresso verrà considerata “riformista” dai gruppi comunisti operanti fuori del partito (specie dai trotzkisti) e da formazioni successivamente apparse sull’orizzonte politico italiano (gruppi extra-parlamentari). In effetti il PCI riesce a superare la crisi, mantiene la sua influenza sulla società italiana, soprattutto con iniziative nel campo della cultura (editoria, scuola, spettacolo), e reti capillari di organizzazione e di divulgazione mediante associazioni collaterali nelle quali ha una posizione preminente, dai sindacati alle cooperative, agli organismi del tem-
po libero. La capacità, in questo periodo, dei comunisti di sollevare l'interesse di vaste masse verso problematiche di più ampio respiro supplisce alle carenze in tali settori degli apparati pubblici, cerca di contrastare la presenza cattolica - contrassegnata da vena-
ture integraliste se non clericali, come rilevano molti laici - e pur diffondendo sul piano ideologico e culturale versioni unilaterali fornisce tuttavia una possibilità di apertura e di ascesa a un grande numero di persone appartenenti a ceti e famiglie sino a quel momento esclusi dalla partecipazione attiva alla vita culturale e civile. In quel periodo si registra la prevalenza delle correnti fanfaniane e dorotee nella DC, mentre si dibatte la te29)
matica del dialogo delle sinistre con i cattolici e si delinea una politica d’alternativa, pro-
posta da Nenni, con nuovi rapporti tra DC e PSI per aprire la strada che porterà al centro-sinistra. Il PCI, se subisce una emorragia (calcolata in un calo di circa 300 mila iscritti dal ‘55 al ‘58) e perde dirigenti politici di rilievo (oltre a quelli già citati, E Onofri ed
E. Reale) riesce a contenere la propria caduta sul terreno elettorale (nel 1958 mantiene il 22,72% dei voti). Di fronte al processo di trasformazione della società italiana, con lo
sviluppo economico e le migrazioni interne, le condizioni delle classi alle quali i comunisti - malgrado le loro crisi interne e la mancanza di una definita qualificazione politica che valga a superare la contraddizione tra il legame con L’URSS e la ricerca di una via democratica - direttamente si rivolgono registrano miglioramenti nei redditi e nei consumi pur nel persistere di diseguaglianze sempre meno accettabili a causa della più avvertita sensibilità. In effetti non vi è in Italia un allargamento della democrazia intesa co-
me partecipazione al potere quanto piuttosto un allargamento dei ceti in grado di giovarsi della diffusione di un relativo “benessere” insieme alla crescita della consapevolezza nella società dei vantaggi, oltre che dei valori, del pluralismo politico ed economico. In seguito il messaggio giovanneo favorirà contatti tra esponenti cattolici e comunisti,
aprendo un dialogo che porterà tra l’altro al sostanziale venir meno della “scomunica”. Il PCI tallona dall’opposizione i tentativi di formazione di nuove maggioranze parlamentari e nel IX Congresso (Roma, 30 gennaio - 4 febbraio 1960) riconferma la linea generale emersa nel precedente congresso e indica l'esigenza di una svolta politica nazionale per l’attuazione di una serie di riforme istituzionali e sociali e di un riavvicinamento tra movimento comunista internazionale e movimento democratico e socialista dell'Europa Occidentale. | I fatti di Genova del luglio ‘60 (v. Democrazia cristiana) e le ripercussioni in tutta Italia rivelano l’esistenza di un potenziale di lotta antifascista che va al di là dell’azione svolta in questi anni dal PCI e ben oltre le stesse speranze dei suoi dirigenti, tanto che le successive scelte della DC risulteranno fortemente influenzate dalla combattività dimo-
strata dal mondo operaio. Di fronte al profilarsi del centro-sinistra - anche se rifiutano di riconoscersi nel nuovo schieramento che in concreto mira al loro isolamento - i comunisti hanno un atteggiamento non pregiudizialmente ostile, anche in vista di eventuali riforme: il partito non esclude di poter condividere alcuni aspetti del programma che si va delinenado (e in concreto non mancherà in alcune sclete decisive in Parlamento il suo voto) ma esso rifuta di accettare le preclusioni che vengono nei suoi confronti come conseguenza dei rapporti internazionali di alleanza - da parte delle maggioranze “delimitate”, chiuse cioè al PCI. Tale diffidenza fa sì che il partito veda nell’azione della dirigenza socialista guidata da Nenni più un pericolo da sventare che una occasione da utilizzare, trovandosi così a convergere con quei settori della destra economica e politica che utilizzano tutti i mezzi per bloccare la spinta riformatrice che il centro sinistra cerca di avviare.
9. Le lotte operaie del 1961-62 confermano un processo di crescita del movimento
sindacale e sociale e in questo quadro se il centro-sinistra sembra rispondere alla necessità di dare uno sbocco politico alle tendenze in atto nel paese, l’acuirsi delle tensioni so-
ciali consente al PCI con un intensificato impegno ed un approfondimento teorico (nel X Congresso Roma, dicembre 1962, viene precisato come i comunisti vedano in forme nuove ed articolate i rapporti tra democrazia e socialismo e tra riforme e rivoluzione) di 130
conseguire una significativa ripresa, di cui sono testimonianze la II conferenza dei comunisti nelle fabbriche (Milano, maggio 1961), i convegni delle donne (Roma, marzo 1962) e della emigrazione (Milano, giugno 1962). La grande attenzione del PCI verso i fenomeni di trasferimento dal Sud al Nord e nelle città è in parte all'origine del succes-
so che il partito registra nelle elezioni del 1963 (25,31%). Nel dissidio insorto tra PC dell'Unione Sovietica e PC della Cina popolare, il PCI assume una posizione originale basata sul rifiuto della critica maoista alla politica sovietica ma nel contempo evita un pronunciamento che possa condurre ad una frattura più grave del movimento internazionale.
Il “promemoria” stilato a Yalta da Togliatti nell’estate del 1964 pochi giorni prima della morte (il leader comunista già nel marzo aveva chiesto di essere esonerato dalle fun-
zioni di segretario del partito ma la direzione aveva respinto le dimissioni) contiene le linee essenziali del ripensamento del PCI sulla politica comunista mondiale. Il superamento dell’’acriticismo” nei confronti delle esperienze dei “paesi socialisti”, l'esigenza di un pluralismo culturale e scientifico per avvalersi di ogni apporto positivo per lo sviluppo creativo del marxismo, il problema di un incontro con i cattolici per ottenere la collaborazione di questi all’instaurazione di un ordine più giusto nei rapporti tra gli uomini, l’at-
teggiamento dei comunisti di fronte alla democrazia ed alla libertà di espressione e di dibattito sono i contenuti del documento, destinato a rimanere riservato all’interno del partito ma subito fatto proprio dalla nuova leadership comunista e in particolare da Luigi
Longo che sarà il nuovo segretario. La presa di posizione della direzione del PCI dopo la sostituzione di Kruscev dimostra, nella perplessità manifestata dalla delegazione presieduta da Enrico Berlinguer circa i modi attraverso cui erano avvenuti i mutamenti al vertice, l'avvio negli organi dirigenti del partito di una tendenza a giudicare i fatti autono-
mamente. Nello stesso periodo anche sul piano culturale si registra una maggiore disponibilità al confronto rispetto alle fasi precedenti caratterizzate da un unilateralismo che negava nella sostanza i valori dell'approccio e della pratica democratico-pluralista. L'emergere di difficoltà per l'attuazione della politica delle riforme posta a base del
centro-sinistra aprirà nel PCI nuove possibilità di azione ed esso infatti fa leva sulle contraddizioni interne della nuova maggioranza, sulla resistenza di settori del PSI all’unificazione con i socialdemocratici. In questo quadro Giorgio Amendola lancia su “Rinascita” la tesi di creare un partito unico della classe operaia che superi da un lato le esperienze
negative della socialdemocrazia dall'altro le insufficienze delle posizioni comuniste, tesi peraltro respinte nella riunione del comitato centrale del dicembre 1965. Pause, ritardi ed incertezze nel lavoro organizzativo del PCI si registrano attorno al 1964, come emerge dal diminuito numero dei tesserati (segnalato nel C.C. del febbraio
1965) e negli anni successivi soprattutto nei settori operai (relazione Barca alla III Conferenza dei comunisti nelle fabbriche Genova, maggio 1965), dall’esiguità delle cellule nei settori industriali e giovanili con un forte calo negli iscritti alla FGC.
Nell’ambito internazionale il PCI sviluppa i temi della coesistenza (confermata nella conferenza dei partiti comunisti europei e a Karlovy Vary nel 1965), valuta positivamente l’appello di Paolo VI all’Assemblea dell'ONU (5 ottobre 1965) per la piena universalità della organizzazione ed i richiami alla fame e alle diseguaglianze, prende posi-
zione contro il rinnovo del patto atlantico, di cui propugna la fine insieme a quella del patto di Varsavia per addivenire ad un patto di sicurezza europea. Di fronte all’accentuarsi di fenomeni di distorsione delle risorse economiche negli 131
impieghi della mano pubblica e di eccessivi consumi negli impieghi ad uso privato, e al
contemporaneo processo di riorganizzazione e concentrazione monopolistica (di cui manifestazione più evidente sarà la fusione tra Montecatini ed Edison) la critica dei comunisti verso il centro-sinistra si farà più serrata anhe in concomitanza con i caratteri assunti dall’unificazione tra PSDI e PSI (v. I socialistà). Tuttavia non mancano di manifestarsi dissensi all’interno dello stesso C.C. (sessioni di giugno ottobre 1965) sia da parte di Natoli, Rossanda e Pintor, secondo i quali il partito dovrebbe accentuare l’impegno di lotta nelle fabbriche, sia da parte di Ingrao che sollecita la definizione di uno schieramnto e di contenuti alternativi al centro-sinistra. Il progetto di tesi per il partito afferma che il centro-sinistra ha abbandonato gli iniziali propositi riformistici e che il disegno di razionalizzazione neo-capitalista è degenerato sino ad assumere il ruolo di copertura del potere nell’interesse del grande capitale. Così all'XI Congresso (Roma, 25-31 gennaio 1966)
Longo sollecita una nuova politica estera del governo e lamenta il venir meno del centro-sinistra ai suoi stessi impegni iniziali. Nel dibattito Amendola, pur rettificando le sue posizioni, precisa in quale senso occorre promuovere la formazione di un partito unico
di lotta per il socialismo, Ingrao invece sostiene la necessità di elaborare un programma alternativo ed avanza riserve sulla conduzione interna del partito. Contro l’affiorare di tendenze critiche in organi di partito e nel timore della nascita di gruppi organizzati, il vice segretario Berlinguer tiene a riconfermare le ragioni del
“centralismo democratico” nella organizzazione del partito ed il rifiuto perciò di pole-
miche ed agitazioni di correnti e di gruppo. Il PCI, di fronte all'ormai definito progetto di unificazione socialista, tiene a richiamare il PSI all’esigenza di pervenire piuttosto ad un partito unico della classe lavoratrice e al pericolo che invece si approfondiscano le divisioni tra i lavoratori. Mentre prosegue la campagna di denuncia dell'intervento dell’imperialismo statunitense in Vietnam, l’aggravato dissidio tra comunisti sovietici e cinesi vede il PCI schierato contro le “aberrazioni antisovietiche dei dirigenti cinesi”. Sul piano interno la critica ai criteri prevalsi per la programmazione non esclude che i deputati comunisti della CGIL - unitamente a quelli socialisti della CGIL - si astengano nella votazione in Parlamento sul piano Pieraccini, che dovrebe segnare l’avvio della programmazione economica. Difficoltà organizzative interne non intralciano il rafforzamento elettorale: rispetto ai grandi problemi nazionali il PCI resta il più saldo ed omogeneo partito d’opposizione; così, malgrado la diminuzione del numero degli iscritti, crescerà il peso elettorale, come dimostrano i risultati delle elezioni politiche del 1968 (dal 25,3% al 26,9% del to-
tale dei voti). Durante la campagna elettorale vengono denunciate in particolare le degenerazioni dell’attività del Sifar e le riduzioni dei trattamenti pensionistici. 10 - Nei confronti della contestazione studentesca il PCI - sorpreso come gli altri partiti (v. Democrazia cristiana) dai contenuti e dalle forme dell’agitazione - inizialmente ha una interpretazione limitativa, riducendo l’agitazione al problema della riforma delle strutture universitarie, ed in tal senso cerca - attraverso una serie di emendamenti al progetto governativo presentato dal Ministro Gui - di raccogliere alcune tra le istanze più pressanti provenienti dagli atenei mentre condanna ogni forma di estremismo portata avanti “al di fuori e contro i partiti rivoluzionari della classe operaia” (1967). In vista delle elezioni politiche del ‘68 il segretario del partito non esita a riconoscere nel movimento 132
studentesco “una particolare componente del movimento più generale di rinnovamento e di progresso della società italiana”. Dal canto suo R. Rossanda - ancora non uscita dal partito - in un libro ammetteva che per la prima volta è nata “una formazione politica di massa fuori e senza il controllo dei partiti” e sollecitava il partito a riconsiderare in termini nuovi “la strategia del movimento rivoluzionario in Occidente”. Al contrario Amendola, nel giugno ‘68, attaccherà duramente le posizioni “settarie” dei giovani extraparlamentari, affermando la necessità per il partito di combattere la “lotta su due fron-
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COP
Nei mesi successivi lo sforzo del partito sarà rivolto a ricondurre nell’ambito della strategia generale del movimento di classe le rivendicazioni studentesche contro ogni velleitarismo giudicato “pseudo-rivoluzionario”, ridando vita alle cellule universitarie, e fino a recuperare nell’ambito della sua “linea generale” e delle sue impostazioni teoriche,
le motivazioni protestatarie alle origini delle agitazioni studentesche. Attorno a questi problemi si alternano fasi diverse, con vivaci dibattiti interni ed esterni, con la perdita dell’iniziativa culturale ed organizzativa tra i giovani, le cui “fughe
in avanti” in seguito verranno riassorbite, valorizzando da un lato il significato del più ampio movimento di protesta operaia e denunciando dall’altro il carattere piccolo borghese dell’estremismo di sinistra. In questa cornice riuscirà successivamente a recuperare studiosi come Mario Tronti, teorizzatore, della tesi dell’’autonomia operaia”, in contrapposto ai partiti tradizionali di classe, e poi anche esponenti politici sindacali e culturali (come Alberto Asor Rosa) quando si chiuderà l’esperienza del PSIUP, Il PCI, che avea espresso solidarietà verso il processo di rinnovamento democratico
messo in atto da Dubcek in Cecoslovacchia, valuta positivamente gli sforzi per la ricerca in quel paese di una via autonoma al socialismo, anche se si preoccupa che questa non metta in pericolo le conquiste istituzionali ed economiche del socialismo. Il successivo intervento sovietico provoca grave turbamento tra tutti icomunisti. La direzione del par-
tito non esita a definirlo “ingiustificato” giacché spetta al governo ed al partito comunista cecoslovacco difendere il sistema socialista: se l'esplosione della primavera di Praga era stata una esplosione spontanea contro sistemi di disciplina centralizzata, la repressione militare - si osserva - impedisce ai dirigenti comunisti di svolgere liberamente la propria opera. Il C.C. dell’agosto ‘68 riconferma la fedeltà del PCI ai principî dell’eguaglianza dei popoli e dell’indipendenza di ogni Stato e di ogni partito comunista. Una posizione nettamente diversa quindi da quella che Togliatti aveva imposto al partito nel ‘56 quando si era verificata la repressione delle armate sovietiche in Ungheria. 11 - Anche il XII Congresso (Bologna, 8-15 febbraio 1969) riconferma il dissenso da ogni teoria e da ogni pratica di Stato e di partito guida. Autonomia - afferma Longo - da ogni ipoteca straniera (Donini invece esprimerà riserve sulla condanna per l’intervento delle forze del patto di Varsavia): i comunisti si battono per una società socialista fondata sul consenso popolare (dall'esterno invece si contesta ai comunisti il diritto di ergersi a difensori di valori negati in URSS).
Pintor porta avanti la sua critica alla linea del partito in politica interna sostenendo che non si tratta di creare una nuova maggioranza ma di dar luogo ad uno schieramento alternativo, per costituire l’unità dal basso anche sulla base delle nuove forze di lotta operaia, al di fuori delle formazioni tradizionali; dal canto suo Ingrao ritiene che occor-
ra rafforzare le rappresentanze popolari con il consolidamento dell’azione organizzata del185
la classe operaia. Alla strategia delle alleanze e delle riforme è dedicato il documento conclusivo, votato con 14 astensioni e 2 voti contrari, sintomo della fine dell’unanimità. L'opposizione si concreterà nella pubblicazine della rivista “Il Manifesto” da parte di R. Rossandra, G. Natoli, L. Pintor, L. Magri, M. Caprara, i quali malgrado gli ammonimenti degli organi dirigenti del partito continueranno a svolgere un'azione di critica fondata sull’esigenza di confronto ideologico sulla base dell’accentuazione della lotta operaia e del rifiuto di forme di partecipazione al governo, come quelle ipotizzate da Amendola. Tale posizione, nei Comitati centrali di ottobre e novembre, sarà definita “frazionistica” e contraria all’unità del partito e respinta nelle discussioni nelle sezioni. Pertanto i promotori della rivista verranno radiati. Anche in riferimento a successivi fenomeni di dissidenza - maturati con l’affiorare di tendenze non escludenti l'inserimento nell’area di governo - gli organi dirigenti tengono a precisare che l'opposizione svolta dal partito non può concretizzarsi in forme di massimalismo “pseudo rivoluzionario”. La pole-
mica contro i gruppi extraparlamentari, che raccolgono all’inizio degli anni ‘70 consensi giovanili sottratti al PCI, diverrà sempre più dura nella persuasione che i fenomeni di estremismo favoriscono l’azione delle forze reazionarie. Nei confronti del governo Colombo l’opposizione del PCI, accusato dal gruppo del “Manifesto” di essere tiepida (in specie, a proposito della conversione in legge del decreto sugli interventi economici), non esclude forme di astensione (come alla Camera per la legge sulla casa); la svalutazione del dollaro nell’agosto 1971 viene indicata dal PCI come segno del pericolo per l’Italia di una politica ancorata all'economia statunitense. In previsione di un referendum contro l'istituzione del divorzio, il PCI manifesta la propensione per una innovazione della legge diretta a meglio difendere la posizione del coniuge economicamente più debole e dei figli in tenera età (mentre si dichiara contrario al sistema del “doppio regime”), e soprattutto si dichiara favorevole alla proposta della senatrice Carrettoni (della sinistra indipendente) la cui approvazione potrebbe evitare il referendum e quindi quella che si teme possa essere una grave spaccatura nel paese. Tale preoccupazione diviene uno degli elementi di orientamento nel partito in tutta la fase politica di fine ‘71 ed inizio ‘72, e spiega (anche se ufficialmente non esiste abbinamento tra le due questioni) il ritardo nel pronunciamento contro la progettata elezione di Fanfani (duramente attaccato invece dal “Manifesto”) nonché la mancata presa di po-
sizione contro lo scioglimento anticipato delle Camere (anzi le elezioni anticipate vengono considerate l’unica via di uscita).
12 - IT XIII Congresso (Milano, 13-18 marzo 1972) segna l’ascesa alla segreteria di Berlinguer (Longo verrà eletto presidente): la sua relazione pone l’accento sul riconosci-
mento, da parte del PCI, del pluralismo, politico e culturale e religioso, sul rifiuto di modelli preesistenti, sulla denuncia del “qualunquismo di sinistra” e soprattutto delle pro-
vocazioni da parte dei “gruppuscoli” estremisti, il cui oltranzismo può indurre alla giustificazione di misure repressive. Proprio negli stessi giorni la misteriosa morte dell’editore Feltrinelli e la successiva polemica sull’episodio durante la campagna elettorale daranno la validità alle tesi del PCI. Ingrao mette in rilievo la necessità di lavorare per la costruzione di un blocco di forze sociali omogenee.
Le elezioni del ‘72 segnano un ulteriore rafforzamento del partito (27,2% dell’elettorato, e 2 deputati in più), che proseguirà sia nelle aperture verso il mondo cattolico sia
nella opposizione al referendum per il divorzio (nel timore di una grave spaccatura con 134
i cattolici) e nella richiesta di una nuova maggioranza di fronte al profilarsi del ritorno al
centro-sinistra. Dopo l’esperienza centrista di Andreotti, i comunisti lanciano la formula di una “opposizione diversa” con una ancora più decisa presa di distanze dagli “ultrà” di estrema sinistra, sottolineando che “gesti di minoranze” possano recare grave danno alle lotte operaie e alla democrazia, come presto si potrà verificare. In politica estera l’accettazione della realtà del processo di integrazione europea - pur nella richiesta della revisione dei trattati di Roma -, ed il riconoscimento della colloca-
zione dell’Italia nel patto atlantico come dato da considerare complessivamente nel quadro dei rapporti ovest-est da non pregiudicare con uscite unilaterali ma da superare in
nuove forme di cooperazione continentale, rappresentano - unitamente al ruolo svolto per favorire la pace nel Vietnam e l’ostpolitik del governo di Brandt - un contributo del PC.I. alla politica di distensione tra i due blocchi. Nel quadro dei rapporti internazionali il PCI intensifica i contatti con i partiti comunisti europei, mantenendo una posizione autonoma nei confronti del PCUS, senza condividere le posizioni del Partito comunista cinese.
13. Una immediata riflessione sugli avvenimenti del Cile (settembre 1973) induce
Berlinguer, con una serie di articoli (“Rinascita” ottobre 1973) a prospettare l'esigenza di accelerare una politica del “compromesso storico”, da intendersi come alleanza delle tre grandi forze popolari, comunista, socialista e cattolica, onde pervenire a progressive trasformazioni sociali, valorizzando l'eventuale apporto della DC ad uno schieramento unitario in grado di evitare uno scontro frontale nel paese. Durante l’inverno e nei primi mesi del ‘74 le polemiche e la campagna per il referendum sul divorzio mostrano la elasticità dei comunisti nell’inserirsi nella battaglia con tutta l'efficienza della loro organizzazione, pur avendo tentato sino all'ultimo di evitare una contrapposizione troppo netta. D'altronde più volte nei rapporti che chiamano in causa la Chiesa, il PCI ha mostrato di saper adattare le proprie posizioni, per liberarsi del peso che storicamente si porta appresso, al fine di facilitare l'avvicinamento al mondo cattolico, che ha costituito uno dei motivi di fondo della sua strategia. Pertanto si spiega la sua cautela sull’argomento,
salvo poi far valere la propria forza. E l’attenzione del partito - nel quale confluisce parte considerevole dei dirigenti del disciolto PSIUP - viene rivolta, a seguito dell’inasprirsi della crisi economica, ai settori della piccola e media imprenditoria, indice di un’altra direttrice di fondo, l'avvicinamento ai ceti medi produttori. La relazione Berlinguer nel XIV Congresso, ribadisce -anche dopo il rifiuto da parte della D.C. - la proposta del “compromesso storico”, indicata come una alleanza necessaria per far uscire il paese dalla crisi: il segretario del PCI la definisce una “strategia di transizione” per affrontare, con riforme strutturali, la grave situazione interna, ripro-
ponendo quell’accordo con la D.C. che era stato una delle linee perseguite da Togliatti nell’immediato dopoguerra. Berlinguer ritiene che solo così si potrà evitare in Italia una rottura del tipo di quella che ha provocato in Cile il colpo di stato di Pinochet. L'intesa delle forze popolari è vista come espressione dell'esigenza di evitare una spaccatura verticale del paese in due fronti nettamente contrapposti. La sconfitta dell’imperialismo statunitense in Vietnam, le conseguenze sull'economia internazionale del rincaro delle materie prime energetiche e della politica monetaria USA rivelano - afferma il segretario - il deterioramento del sistema capitalistico mondiale. Aggiunge che sul piano interno la degradazione a vari livelli della vita pubblica, conla manifesta corresponsabi195
lità ed omertà dei gruppi che hanno diretto negli ultimi trenta anni il paese, la crescita e la maturità del movimento sindacale ed operaio, l'elevazione delle classi subalterne alla quale hanno concorso sia lo sviluppo del regime democratico sia l’impegno attraverso la lotta all’opposizione, l'intenso sviluppo culturale con il diffondersi di forme nuove di organizzazione e partecipazione democratica, hanno provocato un mutamento nelle aspi-
razioni e negli orientamenti di vasti strati della pubblica opinione. Il PCI unisce ad un imponente sforzo organizzativo l'esempio positivo dei risultati conseguiti dalle amministrazioni regionali e locali da esso gestite o guidate. Nelle elezioni regionali del giugno ‘75 le liste comuniste conseguono il 33% dei voti, il PSI il 12% e circa il 2% la lista di Democrazia proletaria (PDIUP per il comunismo, collegato in alcune regioni ad Avanguardia operaia); i grandi successi nelle amministrative consentiranno al PCI di guidare giunte comunali di sinistra in alcune delle maggiori città come Roma (sindaco lo storico dell’arte Argan, con uno slancio innovatore di cui diviene simbolo - vivacemente contrastato dalle opposizioni - l'immagine dell’estate romana, organizzata dall'assessore alla cultura Nicolini). In questa fase un ruolo importante svolge la rivista degli indipendenti di sinistra “L'Astrolabio”, diretta da F. Parri, con analisi critiche in materia politica, economica e culturale, sollecitando l’unità delle sinistre. 14. Alle politiche del 20 giugno ‘76 il PCI - pur non riuscendo ad effettuare il “sor-
passo” a danno della DC - consegue il 34,4% di voti, il risultato più alto nella sua storia, e ben 228 seggi. Al suo successo contribuiscono i voti “giovani” (l'elettorato attivo è
stato concesso ai 18 anni), compresi quelli di molti extraparlamentari che sperano così di battere la DC, il sostegno dei nuovi movimenti femminili e femministi, e numerosi intellettuali consenzienti sulle proposte fatte dal partito ma, in numerosi casi, per quel vezzo “italiota” di appoggiare i probabili nuovi vincitori (e questi stessi nomi ritroveremo in seguito su posizioni completamente diverse). Secondo Berlinguer anche se avessero il 51% dei voti, alle sinistre unite non converrebbe governare per non provocare una
spaccatura irreparabile con la D.C. Pietro Ingrao viene eletto Presidente della Camera dei deputati: inoltre al PCI vengono assegnate presidenze di commissioni alla Camera e al Senato, sino ad allora riser-
vate ai gruppi di maggioranza. La Direzione dei partito afferma che l’avanzata del PCI esige un radicale cambiamento nella vita politica e chiede espressamente l’abbandono di ogni preclusione anticomunista. Al C.C. (3 Luglio) Gerardo Chiaromonte chiede la formazione di “un governo che, per la sua composizione per gli uomini che ne fanno parte, per il programma, possa riscuotere il massimo dei consensi”. Impossibile ormai un governo centrista e preso atto dell'opposizione socialista alla continuazione del centro-sinistra, il PCI propone un governo di unità delle forze democratiche, per affrontare la crisi e assicurare l’ordinato e normale funzionamento delle istituzioni repubblicane, spronando i pubblici poteri a lottare contro la criminalità ed il terrorismo. Come primo avvicinamento alla formula vaticinata, grazie all’astensione di PCI, PSI, PSDI e PRI, Giu-
lio Andreotti riesce a varare un governo monocolore denominato della “non sfiducia” (con
De Mita e Forlani in posizioni chiave a rappresentare le due “anime” della D.C.); negli interventi in aula i comunisti esplicitano le ragioni e gli obiettivi della politica di “soli-
darietà nazionale” vertenti essenzialmente su un programma di riconversione produttiva e di austerità. E sarà al C.C. del 3 settembre Giorgio Napolitano a spiegare che l’obiettivo di fondo del P.C.I. è l'avvio di una politica di risanamento e di sviluppo in gra136
do di ristrutturare l'economia, elevare la quota degli investimenti, ridurre il deficit pubblico, promuovere e difendere gli interessi della popolazione lavorativa, specialmente nel Mezzogiorno. E quando in ottobre il Consiglio dei Ministri approva una serie di misure economiche anticongiunturali, Berlinguer afferma che i programmi d’austerità devono comportare, per essere credibili, una riqualificazione produttiva e dare inizio ad una politica economica e sociale di “rigore”: quindi le scelte non devono assumere un carat-
tere congiunturale, ma al contrario tendere al superamento del modello di sviluppo italiano, i cui caratteri distintivi sono stati lo sperpero, l’esaltazione dell’individualismo e
del particolarismo, il consumismo più dissennato. Notevoli contributi all’approfondimento ideologico e storiografico offrono le riviste “Critica marxista” e “Studi storici”. L'assenso del P.C.I. alla formazione di un governo di soli democristiani, accende for-
ti polemiche tra gli stessi comunisti e nelle frange di estrema sinistra. Il disagio prima e l’avversione vera e propria poi, cominciano a manifestarsi tra l'autunno del ‘76 e la primavera del ‘77, quando divampa, nelle sedi universitarie e fuori di esse, un nuovo viva-
ce movimento di contestazione, più duro e più politicizzato di quello del ‘68, anche se meno esteso. Ed è in questo clima, acceso anche da vampate terroristiche, che il 17 feb-
braio 1977, durante una manifestazione organizzata dai sindacati confederali all’Università di Roma, esponenti dell’ultrasinistra contestano il segretario della Cgil, Luciano Lama, che è costretto a lasciare l’ateneo, protetto dal servizio d’ordine sindacale. Alla grave situazione economica e finanziaria che il governo stenta ad affrontare con misure nette, fa sempre più riscontro l'emergenza terroristica (v. Democrazia cristiana).
Polemico l’atteggiamento dei sindacati verso il governo, con agitazioni e scioperi in varie parti d’Italia, conclusi a Roma con una imponente manifestazione di metalmeccani-
ci (2 dicembre 1977) per chiedere la riconversione e il rilancio dell'industria. Il segretario generale della CGIL Lama dichiara in un'intervista che è necessario, anche per i la-
voratori affrontare una politica di “sacrifici”: una linea non del tutto condivisa né dal segretario aggiunto, il socialista Marianetti, né da dirigenti degli altri sindacati ma che poi passa alla riunione congiunta dei consigli generali di CGIL, UIL, CISL. Il PC.I. formula la richiesta di un diretto coinvolgimento nel governo. Preso atto delle divergenze nella maggioranza, il governo si dimette (14 gennaio 1978).
Tuttavia la situazione politico-parlamentare non consente soluzioni diverse da quelle propsettate dopo le elezioni nel ‘76 e così - al termine di lunghissime trattative - 111 marzo, sarà lo stesso Andreotti, grrazie all’intervento decisivo di Moro ai gruppi parlamentari del suo partito, a risolvere la crisi di governo con un nuovo governo monocolo-
re che si fonda su una nuova, piena (e non più astensionista) maggioranza di unità democratica, formata da D.C., P.C.I., P.S.I., PS.D.I. e PR.L.: per la prima volta i comunisti entrano così nella “sfera” governativa. E proprio la mattina del giorno in cui il governo di “solidarietà nazionale” si prepara a presentarsi alle Camere, il Presidente della D.C. viene rapito, dopo lo sterminio della scorta: nelle ore successive le “Brigate rosse” rivendicheranno l’azione. Nell’incertezza assoluta dei moventi del gravissimo fatto, saranno gli
stessi esponenti del PCI a sollecitare la rapida entrata in funzione del governo - mediante un immediato voto favorevole -, governo al quale il partito fornisce il massimo appoggio durante i 55 giorni sino all’uccisione del leader D.C., facendo della “fermezza”, cioè di nessun contatto con le B.R. e di nessuna concessione, il fondamento della nuova linea politica. Secondo i comunisti, si trattava di una manovra dalle finalità eversive per ab-
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battere la democrazia e quindi andava in ogni caso respinta qualsiasi ipotesi di cedimento (posizione diversa da quella assunta dal segretario del PSI e dai gruppi di estrema sinistra): tale linea conforterà le scelte del Ministro dell’Interno (con cui i collegamenti sono tenuti in particolare da Pecchioli, responsabile del settore nel PCI) e della stessa DC nel cui ambito non mancavano intenzioni di trovare qualche via di mediazione. Il PCI tiene a qualificarsi come forza che sostiene le istituzioni, e trova in tale comportamento l’appoggio dei sindacati; in precedenza la linea della fermezza contro i terroristi era stata criticata da Eugenio Montale e da Leonardo Sciascia, con i quali aveva polemizzato Amendola. in Il maggiore impegno nella partecipazione alla maggioranza e quindi, indirettamen-
te, del PCI al governo del paese non trova invece conforto tra i suoi elettori; come si vede già alle elezioni amministrative del maggio ‘78, quando il partito subisce un arretramento. Nella riunione dei segretari regionali e provinciali, Berlinguer invita allora a non sottovalutare tali risultati perché rivelatori di un “scollamento” tra base sociale e vertici del partito, e fa intendere l'ipotesi di una uscita dalla maggioranza. A pochi mesi dall'inserimento in essa, incalzato dal sindacato, in luglio il PCI denuncia lentezze e incertezze nella politica economica governativa e chiede interventi legislativi per la ristrutturazione finanziaria delle imprese, il risanamento del sistema previdenziale, la riforma dell’azienda ferroviaria e lo sviluppo di un piano agricolo-alimentare. I provvedimenti emanati dalla maggioranza di “solidarietà nazionale” risentono delle contraddizioni della maggioranza stessa, come nella ricerca, per ogni problema affrontato, di un accomodamento che non scontenti troppo nessuno. Si guardi all’introduzione del sistema sanitario nazionale pubblico, con l'istituzione delle unità sanitarie locali (diverranno un ulteriore canale di dissipazione e di lottizzazione senza alcun van-
taggio per i pazienti e favoriranno la crescita di potere e introiti per le ditte farmaceutiche) e il mantenimento di una dicotomia tra ospedali e cliniche private, a tutto profitto
di queste ultime perché dotate di attrezzature adeguate e di personale qualificato (mentre in molti presidi regionalizzati mancheranno strumenti indispensabili per diagnosi e
terapie) oppure alle misure di sostegno per l’industria. Per contro una maggioranza di sinistra più i liberali riesce a far passare la legge sull’aborto, segno di una disponibilità par-
lamentare, troncata nelle sue potenzialità dal “compromesso”. Ma l’attenzione del governo, del parlamento, delle forze di polizia è ora concentrata sulle varie forme delittuose del terrorismo sia anonimo che targato (rosso e nero). (V. “cap. VII) Nell’estate ‘78 i comunisti sostengono la candidatura Pertini, che viene eletto Presidente della Repubblica, in sostituzione di Leone, costretto alle dimissioni a seguito di una campagna di stampa, iniziata da Camilla Cederna in relazione al comportamento di
familiari ed amici del Capo dello Stato, e conclusa con la decisione di Berlinguer di sostenere le necessità di un cambiamento al Quirinale per dare al Paese la sensazione che, dopo la tragedia Moro, il ceto dirigente intende assumere un contegno più severo. In dicembre votano contro l’adesione al Sistema monetario europeo mentre proseguono le azioni terroristiche: dopo l'uccisione a Torino del giornalista Casalegno, viene ucciso a Genova l’operaio comunista Guido Rossa, che aveva preso aperta posizione contro i bri-
gatisti, denunciando la diffusione dei loro volantini. Ma è ormai chiaro, sul piano parlamentare, che è sfaldata la maggioranza, ed infatti il PCI decide (gennaio ‘79) di uscirne accusando tra l’altro il PSI di non aver eserciat138
to alcuna pressione per rimuovere il rifiuto d.c. verso un governo comprendente anche i comunisti. Andreotti costituirà invece un ministero con PSDI e PRI.
15. A fine marzo inizia a Roma il 15° Congresso. La politica di “solidarietà democratica” viene ancora difesa, anche se vengono chiarite le ragioni dell’indisponibilità dei comunisti ad accettare la loro esclusione da formazioni di governo che essi appoggiano. Il Congresso, oltre a rieleggere Berlinguer e Longo rispettivamente segretario e presidente del partito, approva un nuovo statuto, oggetto di una vivace discussione, vertente soprattutto, come già nei dibattiti della stampa di sinistra, sulle problematiche connesse al “centralismo democratico”. Nel nuovo statuto, volendo rafforzare, dopo le vittorie elettorali degli anni ‘70, l’immagine di partito “moderno”, aperto alle istanze di una maggiore democraticità interna, vengono inclusi elementi di novità di natura più politica che
organizzativa. Questo vale soprattutto per quanto di nuovo è contenuto nel preambolo che, non più ritoccato dal 1956, è stato completamente riscritto. Lo sganciamento da formulazioni di tradizione terzinternazionalista (“Classe operaia”, “lotta di classe”), un nuovo e più autonomo concetto di internazionalismo, la trasformazione del centralismo de-
mocratico da “principio” a “metodo”, una nuova definizione dei quadri di partito da “rivoluzionari professionali” a “compagni funzionari” sono alcuni dei maggiori elementi di novità. Numerose elaborazioni metteranno in luce, oltre alle evidenti novità, anche ele-
menti di continuità e di ambiguità - in taluni casi anche gli arretramenti - in esso presenti, tali da consentire talvolta più di una interpretazione. Le istanze di razionalizzazione da un lato e di democratizzazione e ampliamento della partecipazione dall'altro contenute nel nuovo statuto verranno integralmente inglobate nello statuto approvato nel congresso successivo (1983). Nelle elezioni politiche del giugno ‘79 si registra una cospicua perdita di voti: il PCI scende dal 33,8 al 31,5: è il primo arretramento della marcia ascendente dagli anni ‘50 agli anni ‘70, quindi un segnale che fa riflettere molti ambienti del partito nei quali si fa strada una posizione di rifiuto della politica intesa come paziente ricerca di punti d’incontro e di intesa con altre forze politiche. Tra i militanti prevale un risentimento nei con-
fronti della DC e del PSI che avevano agito in tutte le maniere per logorare il rapporto del PCI con le masse; da questo momento pertanto la maggiore preoccupazione sarà di dimostrare che la tendenza emersa nel triennio ‘76-°79 è superata ed anzi va invertita. Prende così corpo la volontà di affermare una propria distinta identità, operazione che, d’altro canto, contribuisce ad accentuare una posizione di isolamento e di chiusura del
partito che aumenta in molti militanti la sfiducia rispetto alla possibilità di contribuire ad una trasformazione in senso democratico della società. Scriverà uno dei fautori della
“solidarietà democratica” G. Chiaromonte: “il periocolo che veramente ci sembrò di intravedere nel ‘79, era che l’Italia potesse perdere o attenuare quella sua anomalia democratica che l’aveva distinta dagli altri paesi capitalistici, industrialmente avanzati. Si trattava dell’anomalia dovuta a quella convenctio ad excludendum del PCI che, storicamente
legata alla cultura del nostro paese, oltre che all'impostazione politica seguita, aveva bloccato ogni possibilità di sostanziale ricambio”. Ma l’obiettivo di un governo con la parte-
cipazione diretta dei comunisti sarà ribadito nel C.C. del giugno ‘80, quando Berlinguer affermerà che, pur tenendo conto della nuova situazione, occorre sviluppare una linea
d’incontro e di intesa con le forze lavoratrici di ispirazione cattolica. In effetti egli non 189
ha più alcuna fiducia nei socialisti, dopo che Craxi ha palesato come scopo della sua li-
nea la ripresa di una politica indirizzata contro i comunisti. A fine settembre, ai cancelli della FIAT di Torino, Berlinguer dichiara agli operai che
in caso di occupazione della fabbrica, il PCI è disposto a sostenerla. L'affermazione suscita non poco sbigottimento in diversi ambienti, tanto più che si tratta di una proposta non avanzata neppure dagli stessi operai mentre i tecnici tendevano a rivendicare una lo-
ro autonomia, come si vedrà pochi giorni dopo quando gli stessi “quadri” Fiat saranno protagonisti di una “marcia” detta “dei 40mila”, con la quale in effetti inizia, non solo a Torino, un corso della vita sindacale non più incentrato sulla esclusività e la primazia delle maggiori confederazioni e in genere della classe operaia, percentualmente destinata al-
la riduzione nella nuova realtà della società post-industriale, come avevano indicato P. Sylos Labini in precise analisi socio economiche e R. Lombardi in attente valutazioni delle conseguenze politiche di tale fenomeno. La Direzione del PCI (27 nov. ‘80) lancerà la proposta di “alternativa democratica”,
con la quale si chiede un radicale cambiamento nella guida politica del paese, attraverso la costruzione dal basso di nuovi raggruppamenti fondati su movimenti, culture e bisogni nuovi, come si afferma.
16. Nello stesso mese - dopo il terremoto in Irpinia ed in Basilicata, che ha messo in luce, secondo l'esplicita denuncia del Presidente Pertini, le carenze e le incapacità de-
gli organi governativi ad intervenire con prontezza ed efficacia - Berlinguer a Salerno indica l’alternativa democratica come la strada per affrontare non solo i problemi politici ed economici ma anche la “questione morale”, definita “la più importante” per risolle-
vare l’Italia. L'abbandono definitivo del “compromesso storico” farà parlare di “seconda” svolta di Salerno (in senso opposto a quella di Togliatti nel ‘44). In dicembre quando in Polonia assume il potere il gen. Jaruzelski con un colpo di
stato diretto ad impedire il prevalere delle nuove forze democratiche di “Solidarnosc” Berlinguer dichiara che quegli eventi mettono in luce come sia venuto meno nei paesi comunisti lo “spirito propulsivo” nato con la rivoluzione dell’ottobre 1917. E la direzione del partito riconosce, per la prima volta, che nel sistema politico comunista della Polonia vi era “mancanza di vita democratica”. Così il comunismo italiano prende le distanze non solo dalla politica di Mosca ma dalle stesse potenzialità che sino ad allora attribuiva all'esperienza sovietica. Il PCI si dif-
ferenzia sempre più dal PCUS e dai partiti comunisti ad esso fedeli come il PCF: lo si constata anche all’atto dell’invasione sovietica dell’Afganistan e nel rifiuto di partecipare ad importanti assise del comunismo internazionale. Il processo di distacco sembra compiuto. Non a caso da successivi accertamenti risulterà che, almeno dal ‘79, il PCI non avrebbe ricevuto sussidi finanziari diretti da parte del PCUS, preferendo semmai quest'apparato sostenere singoli gruppi comunisti ad esso più legati. La caduta del raccordo
modifica la funzione del PCI nella politica italiana. Nell'81 Berlinguer propone una “terza via” tra “socialismo reale” e socialdemocrazia. Alla Conferenza Operaia del PCI a Torino (luglio 1982), il segretario del partito precisa che l'alternativa democratica non vuole essere “alternativa di sinistra” ma un'iniziativa diretta ricondurre i partiti alle loro funzioni costituzionali. In questa fase Berlinguer è molto netto nella denuncia della corruzione diffusa e sollecita con fermezza una politica d’austerità per fare uscire l’Italia dalla crisi. 140
Mentre il paese è retto prima dal ministero Forlani, poi dal governo Spadolini, che
realizza una maggioranza a 5 (dai liberali ai socialisti), il PCI accentua la sua critica ai
comportamenti dei dirigenti del PSI ancor più che alla DC: quest'ultima, infatti, con l’avvento della segretria De Mita, cercherà una linea di reciproca comprensione nell’ambito di un nuovo tipo di rapporto tra maggioranza ed opposizione. Ma questa visione, al 16° Congresso Nazionale del PCI (Milano, 2/6 marzo ‘83), viene respinta da Berlinguer, il
quale dichiara “non siamo per il bipolarismo (...). Noi non chiederemo di meglio che misurarci su un serio e coerente riformismo socialista di stampo europeo. Ma di fatto non si vede quale riformismo, moderno o meno moderno, sia risultato o possa risultare, dal-
la collaborazione governativa in atto tra PSI e DC”. Il disegno di Berlinguer non trova
pari sostegno nel suo stesso elettorato: infatti nelle elezioni anticipate dell’83 il PCI scende al di sotto del 30%. La sconfitta colpisce anche la DC mentre avanzano PRI e PSI: questi risultati favoriscono la nascita del governo pentapartito Craxi. I comunisti che in un primo momento non avevano escluso la possibilità di valutare la nuova presidenza sui fatti, in seguito assumeranno un atteggiamento fortemente cri-
tico, ricorrendo a tutti gli strumenti parlamentari - caratterizzati dalle regole consociative varate all’inizio degli anni ‘70 - per ostacolare il lavoro delle Camere e bloccare i prov-
vedimenti messi a punto dal governo, soprattutto quelli connessi alle questioni economiche e sindacali, tanto da promuovere la richiesta diun referendum sulla questione della scala mobile, contro cioè l'accordo per la sua riduzione. Così il contrasto tra PCI e PSI
arriverà al punto più alto nelle relazioni tra i due partiti dalla rinascita democratica. Il PCI aveva assunto inizialmente netta posizione contro la nascita del mercato comune ripetendo gli argomenti che già aveva usato contro la comunità europea del car-
bone e dell’acciaio, progenitore della Comunità Economica Europea. Man mano però che i comunisti italiani si sono staccati dai legami ideologici, politici e finanziari con il PCUS si è fatta strada una visione più disponibile ad operare all’interno degli organismi comunitari. Questo passaggio dall’opposizione alla partecipazione si può misurare con la presenza svolta nel Parlamento europeo sin dalle prime elezioni dirette del ‘79 con i propri esponentidi maggior rilievo: anzi si può affermare che attraverso questi nuovi contatti icomunisti italiani hanno gradualmente modificato le proprie posizioni, estenden-
do la collaborazione con i vari partiti socialisti europei, in particolare con i socialdemo-
cratici tedeschi, anche quando molto accesa era la polemica con i socialisti italiani. Basti pensare alle candidature nelle liste presentate dal PCI per le elezioni europee di Al-
tiero Spinelli e di Alberto Moravia, certamente alieni da ogni inquadramento di tipo centralistico, nonché in seguito di Maurice Duverger.
17. Durante la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo, nell'84 Enrico Berlinguer, mentre parla ad un comizio a Padova, viene colto da improvviso malore e muore suscitando una profonda commozione in tutto il paese, di cui si farà particolare interprete il Presidente Pertini. Nelle elezioni europee del mese successivo il PCI registrerà un grosso successo, risalendo ad oltre il 33% dei voti. Con il conferimento della carica di segretario ad Alessandro Natta non si sana la situazione di disagio del partito che prosegue in un lento declino, avvertito sia in termini di isolamento sia in termini di capacità propositiva e di forza elettorale.
18. Al malessere del partito si aggiunge il problema della crisi dell’unità sindacale 141
avvertita a livello confederale soprattutto nel rapporto tra la componente comunista e le altre correnti. Si arriva allo scontro sulla scala mobile, con l'esito negativo del referendum
precedentemente indetto dai comunisti per respingere l'accordo tra governo e sindacati non comunisti (il 55% degli elettori avalla la scelta del governo Craxi). Si avverte nel PCI un malessere diffuso, che dà luogo a divergenze di posizioni come mai negli anni precedenti e che rimettono in causa natura e obiettivi stessi del partito. Le elezioni regionali ed amministrative nel maggio ‘85 confermano la “caduta” del PCI, specialmente nei gros-
si centri urbani. Intanto l'ascesa di Gorbaciov in URSS e l'avvento della perestrojka cominciano a togliere le ultime illusioni dei comunisti sulla prospettiva socialista e la sua validità. Nella irreversibile e generale crisi del comunismo il PCI, che in effetti già dai
primi anni ‘80 aveva avviato un processo di allontanamento dall’URSS, perderà progressivamente i propri principali punti di riferimento, lasciando quindi molti militanti ed elettori disorientati.
Nel corso del 17° Congresso (Firenze, 9-13 aprile ‘86) Natta rilancia, ancora una volta, la proposta dell’alternativa democratica, precisando che tale proposta costituisce una sfida: “essa non è un’operazione finalizzata a cacciare pregiudizialmente la DC all’oppo-
sizione ... tuttavia (noi) partiamo dall'idea che nessuna formazione politica può essere concepita come un'entità metafisica storicamente immodificabile”. Le elezioni politiche dell’87 confermano la crisi politica, ideologica ed organizzativa del PCI che scende al 26,6% ed è ormai consapevole dell’assolutà necessità di rinno-
varsi. La nuova sconfitta elettorale mette in discussione regole e meccanismi consolidati: l’insoddisfazione per il risultato conseguito crea un diffuso senso di incertezza sul fu-
turo del partito. Per i militanti ed i dirigenti diviene per la prima volta tangibile il rischio di non riuscire, attraverso l’organizzazione di partito e le formule usate, a fronteggiare sia la crisi interna che quella del paese. Comincia a farsi strada il progetto di trasformazio-
ne del PCI, muovendo da una riflessione su alcune precondizioni da tempo latenti: calo della forza organizzativa e dei consensi, crisi dell'ideologia con conseguente perdita d’identità, mancato ricambio della classe dirigente nazionale e locale. Nel giugno 1987 Natta nomina Occhetto vicesegretario del PCI e dopo un anno, il 21 giugno, Occhetto succederà a Natta.
Si avverte uno sbandamento nel partito che tra l’altro ha cambiato posizione dopo il disastro di Cernobyl sulla questione nucleare appoggiando, dopo averlo criticato, il referendum - proposto da radicali e sostenuto da gran parte dei socialisti con Martelli in testa - che prendendo come spunto un aspetto minore del problema era diretto ad interrompere la costruzione delle centrali. I problemi della presenza nella società danno luogo a discussioni che rivelano sem-
pre più divergenze di fondo ed incertezze di prospettiva come emerge anche da quel che avviene nelle riviste comuniste in materia economica (dove ormai è caduta la linea d’intonazione marxista, dominante per lunghi anni secondo un’ortodossia teorica smentita
costantemente dai fatti, mentre si guarda con interesse alle esperienze della sinistra socialdemocratica europea) e culturale, dove il cambiamento era gradualmente avvenuto senza che lo si dichiarasse esplicitamente in quanto la fedeltà all'unità interna, ritenuta valida sul piano politico, era già stata superata nelle discussioni ideologiche ormai sempre più vicine alle posizioni critiche all’interno del sistema occidentale come nel caso di Darhendorf e di Duverger. Un programma “migliorista” di riforme economiche e proposto dal sen. Napoleone Colajanni (1988) ma la dirigenza del partito è ancora troppo 142
incerta sul da farsi con il risultato di rimanere ancora senza prospettive sino a quando la caduta del muro di Berlino non l’indurrà a compiere un mutamento che era già maturo
da tempo. 18. La nuova segreteria cerca di favorire la ripresa di iniziative che, a partire dall’ 89, cercheranno di dare una nuova immagine al PCI. Sin dall’inizio, uno dei problemi più
difficili con cui Occhetto deve confrontarsi è rappresentato dal patrimonio teorico, storico e culturale che, come il nuovo segretario afferma, proprio perché legato intrinseca-
mente al “socialismo reale”, ha ormai esaurito la sua funzione. Nella relazione al 18° Con-
gresso (marzo 1989) egli parla della necessità di un nuovo corso politico e del superamento degli equilibri fondati sulla centralità democristiana, riproponendo l'alternativa che
“non insegue e non prefigura un cambiamento di regime, ma pone fine all’idea di regime”. Nel giugno 1989, in concomitanza con l’insedimento di un nuovo governo An-
dreotti dopo la caduta di De Mita, allontanato prima dalla segreteria d.c. sostituito da Forlani e quindi dal governo, viene annunciata la nascita di un “governo ombra” costi-
tuito dal PCI sul modello dell'esperienza britannica, di cui però mancano i presupposti e ciò spiega come l'iniziativa si dimostrerà sterile rispetto al paese reale, dove l’opposizione si manifesta in molti diversificati segni e tende a convergere in Italia settentriona-
le verso la Lega, che propone soluzioni antitetiche a quelle sostenute dai comunisti. Alla tensione della situazione politica interna, nell'autunno dell’89, si aggiungono
le novità internazionali detrminate dalla caduta dei regimi comunisti nei paesi dell'Est e dal crollo del muro di Berlino. L'impatto emotivo provocato da questi episodi è l'elemento
acceleratore del processo di trasformazione del partito. Preannunciato inattesamente in un discorso a Bologna, e subito dopo, nella relazione al C.C. (20/24 novembre ‘89), Oc-
chetto espone i termini di un progetto innovativo incentrato essenzialmente sull’idea di “discontinuità”: “se oggi di fronte alle grandi sfide mondiali, al fallimento dei modelli del socialismo, alla nuova fase storica che si apre, (noi) vogliamo riaffermare credibilmente e con forza che il bisogno del socialismo è innegabile, che la prospettiva del socialismo è la prospettiva del futuro, non possiamo non liberarci fino in fondo da un vecchio invo-
lucro ideologico, che da tempo con la nostra politica abbiamo superato, ma che pure sulla nostra politica ha pesato (...). Noi siamo certi che il fallimento del socialismo reale non
sia la fine degli ideali socialisti, perché anzi la caduta di quei regimi può liberare nuove autentiche potenzialità socialiste (...). Ecco perché parliamo di un nuovo inizio, che si fondi sulle nostre idealità e rechi con sé il meglio che c'è nella nostra tradizione”. In realtà
la svolta era già da tempo nella mente del segretario così come nella coscienza di molti militanti, ma attendeva le condizioni politiche interne ed internazionali per diventare accettabile al resto del partito. Viene convocato un Congresso straordinario per sancire la nascita di una nuova forza politica. Il XIX Congresso (Bologna, 9 marzo 1990), forma-
lizza la svolta e decide, con l’assenso del 65,8% dei delegati la trasformazione del PCI in “partito democratico della sinistra (PD.S.)”. Votano a favore sia il gruppo Occhetto-D'’Alema che i cosiddetti “miglioristi” con Napolitano, Macaluso e Chiaramonte.
Alle elezioni regionali del maggio 1990 - quando per l’ultima volta il partito si presenta con il vecchio nome ed il vecchio simbolo - il partito perde ancora posizioni, assestandosi al 24%. molto approfondita è l’analisi del passaggio dal PCI al PDS in uno studio di Piero Ignazi. 143
AL DI LA’ DEL GUADO (PDS)
19 - Nella Dichiarazione d’intenti presentata alla Direzione del partito il 10 ottobre ‘90 Occhetto espone le ragioni fondamentali e le motivazioni ideali e politiche che giu-
stificano la nascita di un nuovo partito della sinistra: “la proposta di dar vita ad un nuovo partito della sinistra in Italia nasce dalla consapevolezza che il paese si trova di fronte ad una stretta drammatica da cui, comunque, uscirà mutato nel profondo. La crisi ita-
liana è morale, sociale ed istituzionale. Essa può divenire rapidamente crisi della stessa unità nazionale, collasso di tutti i sistemi di regolazione sociale, anche in rapporto ai processi di internazionalizzazione dell'economia (...). È in gioco la stessa coesione nazionale (...). Il problema è quello del rinnovamento delle classi dirigenti e della rifondazione del sistema democratico dello Stato (...). Una crisi che ha bisogno di una grande forza di sinistra, di un partito riformatore capace di prospettare una credibile alternativa di governo”. Richiamato il patrimonio teorico e politico ereditato da Gramsci (l’unico nome espressamente citato, e quindi abbandonando sia Marx ed Engels che Antonio Labriola,
Lenin e Togliatti) “il nuovo partito di sinistra vuol porsi concretamente e politicamente il problema dell’alternativa... e mobilitare tutte le forze in campo in funzione di questo obiettivo”. Si giunge così al passaggio al nuovo partito che assume come simbolo una grossa e rigogliosa “quercia” (in sede elettorale manterrà in piccolo anche il vecchio logo, per non lasciare ad altri l'eredità del PCI, ed infatti nascerà una vertenza giuridica con la formazione politica che un gruppo cospicuo di dissidenti dalle scelte di Occhetto). La scelta del “nuovo” era già stata preannunciata nel corso della lunga elaborazione durata circa un anno e mezzo, durante la quale i comunisti mettevano l’accento più sugli aggettivi “forte” e “nuovo”, aggiunti a molti sostantivi già in uso nell’esperienza democratica italiana che non nell’indicazione di concreti atteggiamenti da assumere nelle
prospettive future sui maggiori problemi: tuttavia sarà la crisi dei due maggiori partiti di governo a creare le condizioni perché il PDS possa mantenere posizioni abbastanza salde, specie grazie alla presenza giovanile nell’elettorato. Al XX Congresso (Rimini, genn./feb. 1991), che si trasforma in I Congresso del PDS, con l'assenso di oltre il 64% dei delegati è approvata la trasformazione del PCI in “partito democratico della sinistra (PDS)”: votano a favore sia il gruppo di Occhetto-D'Alema che i cosiddetti “miglioristi” con Napolitano e Macaluso mentre la mozione di Ingrao e Tortorella (che rivendica una linea di maggiore continuità con il passato) ottiene circa il 31% e la mozione Cossuta (nettamente contraria alla svolta) solo il 3%.
Queste difficoltà si riprodurranno con maggiore effetto nelle votazioni per la segreteria generale -che, in base al nuovo Statuto (il cui testo definitivo ritarderà), deve esse-
re eletto dalla maggioranza assoluta dei membri del consiglio nazionale (sostitutivo del comitato centrale) - quando risulta che Occhetto ha ottenuto sì la maggioranza relativa con 376 voti, (dieci in meno della maggioranza assoluta), ma oltre 100 voti contrari ed una cinquantina tra astenuti, schede annullate e bianche. La stampa parla a questo proposito di operazione condizionatrice all’interno della stessa maggioranza in quanto dal conteggio dei presenti emerge che non hanno votato per lui tutti i delegati appartenenti allo scheramento su cui si fonda la maggioranza del nuovo partito (centro + riformisti). Nella successiva riunione il nuovo segretario ottiene la maggioranza richiesta, ma intanto si verifica la scissione.
144
Cossutta, considerato sin dai tempi di Berlinguer il rappresentante dell’area rimasta più legata a Mosca ed alle posizioni intransigenti, esce dal partito, dando vita a Rifondazione comunista insieme all’ala che si è dichiarata contraria alla trasformazione del PCI in PDS, comprendente personaggi significativi del mondo sindacale (come Garavini, che sarà il primo segretario della nuova formazione), politico (come Lucio Libertini, Ersilia Salvato, Lucio Magri) e culturale (aderiranno tra gli altri Ludovico Geymonet e in occasione delle elezioni politiche lo scrittore Paolo Volponi); inoltre “Democrazia Proletaria” - il residuo del vecchio PDUP - confluirà in Rifondazione (v. All’estrema sinistra). Viceversa restano nel partito sia il gruppo di Bassolino sia la sinistra di Ingrao e Tortorella,
che successivamente esprimerà le sue posizioni sulla trasformata rivista “Critica marxistai Nel referendum per la riduzione ad una delle preferenze nelle liste elettorali il PDS appoggia la proposta Segni, confortata nel giugno ‘91 da un ampissimo consenso nei cittadini: è la prima sconfitta di Craxi divenuto l'avversario simbolo del nuovo partito come lo era stato nell'ultimo periodo del PCI. Intanto si erano definiti gli atteggiamenti individuali di numerosi studiosi. Va registrata la cessazione definitiva delle pubblicazioni del settimanale “Rinascita” (un tempo luogo eccellente dei dibattiti ideologici e su tutti i temi dell'economia, della cultura, della scienza e dell’arte), ultimo direttore Alberto Asor Rosa, che aveva tentato più di una virata ideologica.
20 - La crisi definitiva dell'URSS nell’agosto del ‘91 ha posto in difficoltà più Rifondazione che il nuovo PDS, i cui dirigenti potranno vantarsi di aver già rotto con il PCUS in dissoluzione. All’interno del partito si sono delineate posizioni differenziate: un gruppo che si de-
nomina “riformista” ma che da parte della stampa è chiamato “migliorista” perché tende a far prevalere l’esigenza di assicurare miglioramenti all’interno della situazione esistente (con Chiaromonte, Napolitano, Macaluso), la tendenza di Occhetto, rivolta a trasformare il partito portandosi appresso quanto più è possibile quadri e base elettorale (con
Petruccioli, Veltroni e Mussi), che negli organi di partito si presenta assieme a Massimo D'Alema, considerato meno disponibile ad atteggiamenti transigenti, e a sinistra una cor-
rente (Ingrao, Tortorella, Chiarante) che tiene a riaffermare la propria identità “comunista” aggiungendo l’aggettivo “democratico”. La prima posizione si fa valere in particolare sul piano parlamentare e ritiene essenziale la collaborazione con i socialisti (Napoli-
tano diverrà presidente della Camera nel ‘92) ma perde di mordente quando sopravviene la lacerante crisi del PSI che non colpisce solo Craxi ma anche Martelli che sembrava idoneo a guidare la fase di trapasso, mentre Occhetto e D'Alema (quest’ultimo divenuto presidente del gruppo parlamentare) guidano i movimenti del partito, molto attento ai problemi di schieramento cruciali nella nuova fase politica, tanto più quando presto
si andrà ad elezioni con nuovi sistemi. Acquisterà però presto nuova linfa: già le rivelazioni sulle gravi forme di corruzione dei massimi dirigenti dei partiti di governo determinano - per contro - maggiore credibilità ai partiti che appaiono coinvolti in misura marginale in finanziamenti irregolari. Nelle prime elezioni in cui si presenta con il nuovo nome ed il nuovo simbolo (la quercia), il PDS riesce ad ottenere il 17,20% dei voti - men-
tre Rifondazione consegue il 6% -: di fronte all’oltre 26% dell’87, in effetti gli eredi del PCI hanno perso complessivamente solo il 3-4%, poco, considerata la drammaticità de145
gli eventi in cui sono stati travolti, segno d’una tenuta che infatti sarà confermata nelle amministrative dell'autunno dello stesso anno. Attiva è l’organizzazione autonoma della “Sinistra giovanile” mentre nel partito si
avverte una diminuita tensione rispetto al PCI anche se può giovarsi dell’apporto di studiosi già indipendenti di sinistra che assumono posizioni di rilievo: Stefano Rodotà presidente del partito (incarico da cui poi si dimetterà), Franco Bassanini, agli enti locali nella fase cruciale delle riforme elettorali e delle elezioni amministrative, e Paola Gaiotti de Biase, che da tempo aveva abbandonato la DC ed era pervenuta - attraverso l’esperien-
za della Lega Democratica, con Scoppola - allo schieramento di sinistra. La richiesta di adesione all’Internazionale socialista viene finalmente accolta (con il consenso di Craxi, ormai in piena crisi, per l’intensificarsi di avvisi giudiziari nei suoi confronti) ed anzi nei mesi successivi (scomparso dalla scena politica Craxi) Occhetto assume nell’organismo una posizione di rilievo accanto ai nuovi segretari del PSI e del PSDI,
ricollegandosi il suo inserimento all’azione di contatto precedentemente svolta nei confronti dei partiti socialdemocratici tedesco e francese (il cui segretario Rocard parteciperà al festival dell’Unità a Bologna nel settembre ‘93).
Nell’aprile ‘93 il PDS conferma la posizione in favore dei referendum proposti da Segni, dai radicali e dai consigli regionali per la modifica della legge elettorale del Sena-
to, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, l'abolizione di due ministeri e l’attenuazione della legge contro la droga.
Gli avvisi di garanzia pervengono anche ad esponenti comunisti, passati poi al DPS, che hanno avuto incarichi di responsabili in amministrazioni regionali e locali o in organi intermedi del partito; la questione diviene più delicata quando le stesse comunicazioni arrivano a funzionari o collaboratori di partito nel settore amministrativo. Occhetto non esita inizialmente a “chiedere scusa” ai cittadini per i comunisti implicati nelle vi-
cende giudiziarie ma afferma che sussiste sempre una “diversità” rispetto ad esponenti di altri partiti giacché nel caso dei comunisti non si è trattato di sistematici prelievi nel cor-
so di operazioni finanziarie o di appalti. In tale tesi è confortato da quella parte della stampa che, pur criticando i fatti emersi nei confronti dei comunisti, sottolinea la sobrietà di
vita della grandissima maggioranza dei dirigenti e dei quadri comunisti. D'Alema mette in rilievo prima che comunque lo stesso PCI cessò di ricevere mezzi finanziari dall'URSS almeno dal ‘79 e che inoltre il problema delle cooperative collegate con il parti-
to si poneva certamente ma come legittimo sostegno ad imprese gestite senza ricorso a forme subdole. Nell'estate ‘93 il PDS assume una posizione benevola con l’astensione sul governo Ciampi, a cui anzi inizialmente offre tre suoi esponenti in importanti dicasteri (dimessisi non appena la Camera non concede tutte le autorizzazioni a procedere contro
Craxi). Pietro Ingrao non condivide però un accostamento che sembra preludere a rinunce e posizioni tradizionali per i comunisti e preferisce abbandonare il partito, mentre in esso rimane una frazione della sinistra benché si dissoci dalla linea Occhetto votando contro il governo (e sarà Chiara Ingrao, attiva nel movimento della pace, ad esprimere il dissenso alla Camera). Sono infine le elezioni amministrative del ‘93 a segnare un forte successo del nuo-
vo partito, già in primavera partecipando alle alleanze che consentono l’elezione dei sindaci Castellani a Torino e Bianco a Catania, vittoriosi alla guida di ampie coalizioni (in
contrapposto nei ballottaggi a candidati più a sinistra). Grazie alla intatta capacità pro146
pulsiva dei suoi quadri messi a servizio della nuova linea strategica e soprattutto alla possibilità che ha di porsi come nucleo principale di nuovi schieramenti democratici progressisti dopo che i partiti di centro hanno perduto credibilità e consensi, il PDS con-
tribuisce a far eleggere a sindaco il suo candidato Bassolino a Napoli e gli altri candidati che sostiene nei grandi centri in cui si vota nell’autunno (dal verde Rutelli a Roma, al filosofo Massimo Cacciari a Venezia, al magistrato Sansa a Genova).
È adesso il PDS ad avvalersi di una rendita di posizione fruttuosa sul piano degli schieramenti: grazie al mantenimento di una capacità organizzativa riesce ad esercitare
con abilità un potere di coalizione di cui non dispongono invece gli altri partiti e così può presentarsi come perno principale dello schieramento “progressista” nelle elezioni ‘94, schieramento al quale partecipano, oltre a Rifondazione comunista, la Rete, Verdi e Alleanza Democratica, cristiano sociali e socialisti. Nel vivace dibattito preelettorale il PDS, oltre ad esporre un suo programma per la
“ricostruzione nazionale” sul piano politico, economico e civile che si distingue dal programma comune dei “progressisti”, si trova al centro delle polemiche che vedono schierati da un lato Rifondazione comunista - che con il nuovo segretario Bertinotti insiste sull'opportunità di tassare i Bot e rimette in discussione la questione della Nato - dall’altro Alleanza democratica, che sostiene la riconferma di Ciampi ed una politica atten-
ta alle posizioni della Confindustria in nome della liberaldemocrazia. Occhetto diviene il protagonista principale dello scontro con Berlusconi, alla cui elezione a Roma i progressisti contrappongono senza successo il ministro Spaventa. La sconfitta dello schieramento progressista, contenuta sul piano della percentuale
dei votanti (34%), grazie all’aumento dei consensi riportati dal PDS, si rivela netta per effetto della nuova legge elettorale (Togliatti aveva sempre raccomandato la difesa della proporzionale): il PDS alla Camera con 7 milioni 855 mila voti, e il 20,4% nella proporzionale ha 115 deputati, al Senato 66 seggi (lo schieramento di sinistra complessivamente 110).
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Capitolo VII ALL’ESTREMA SINISTRA
AI composito schieramento dell’estrema sinistra negli anni ‘60 e ‘70 abbiamo dedicato un apposito studio / gruppi extraparlamentari di sinistra - Genesi e organizzazione (Bulzoni Roma, 1976), che qui richiamiamo unitamente alla raccolta di documenti ef-
fettuata sull’organizzazione degli anarchici italiani a cura di Lamberto Mercuri, e pubblicata nella opera da noi diretta La ricostituzione dei partiti democratici (vol. II).
La diversità delle posizioni dei vari gruppi, la loro scomposizione e ricomposizione non può essere qui trattata esaurientemente. Riteniamo però opportuno, oltre a citare il
recente volume di Franco Ottaviano La rivoluzione del labirinto, Sinistra e sinistrismo dal 1976 agli anni ottanta (ed. Rubbattino, 1993), riannodare alcuni fili di esperienze si-
gnificative attraverso le quali si possono ricostruire le linee principali di svolgimento di movimenti che, al di là della loro consistenza numerica, hanno lasciato una forte traccia
nel panorama politico e sociale italiano. L'attività degli anarchici era proseguita clandestinamente nel periodo fascista tanto che tra gli arrestati nel periodo della dittatura, gli esiliati (a Parigi vi è un'ampia documentazione negli “Archives Nationales”) e i condannati dal Tribunale speciale (Schirru
è condannato a morte ed ucciso solo per aver “pensato” di “uccidere il duce”), si trova un numero rilevante di anarchici, come è stato dimostrato in varie opere. Di grande rilievo
fu inoltre il contributo degli anarchici alla lotta antifranchista in Spagna ed è noto come uno dei più significativi esponenti dell’anarchismo italiano, Camillo Berneri, sia stato uc-
ciso in Catalogna ad opera di estremisti. Una pagina dolorosa ed agghiacciante. Tra il maggio e il settembre 1943 tra la Toscana, la Liguria, la Romagna e Roma, si dispiegò la ripresa del movimento anarchico, presente nel movimento di liberazione. Al
termine della guerra si tenne a Milano un convegno interregionale della Federazione comunista libertaria Alta Italia, a cui farà seguito il congresso di Carrara del settembre ‘45 quando si ricostituisce la Federazione Anarchica Italiana (FAI) che si richiamava al programma anarchico di Errico Malatesta risalente al 1920, sulla scia delle tradizioni dell’anarchismo libertario di Bakounin.
Le carte di Ugo Fedeli - da noi consultate presso l’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam - forniscono un materiale prezioso per la conoscenza della storia degli anarchici.
Va anche ricordata la ripresa delle pubblicazioni a Roma del periodico “L'Internazionale” che cercò, senza successo, di rilanciare l'iniziativa sindacale libertaria nel ‘44 ‘45, sulla linea di quella che era stata la storica componente sindacale anarchica, tanto importante nella storia del sindacalismo italiano tra fine ottocento e primo novecento.
La FAI ha continuato a svolgere un'attività intensa per tutti i cinquanta anni di democrazia repubblicana, con il suo epicentro a Carrara e la pubblicazione del giornale “Umanità nova”. Altre riviste di tendenza anarchica “Volontà” e “Prometeo”.
Nella fase successiva al ‘68 si costituirono nuovi gruppi anarchici che tendevano a 149
seguire linee autonome rispetto alla FAI, non senza atteggiamenti nei quali n07 si riconosceva la tradizione anarchica. La Federazione Anarchica Italiana ha mantenuto il suo astensionismo elettorale e
continua a connotarsi invece con una sua presenza nel campo della diffusione delle idee e di iniziative che tendono a far valere principî e coerenza. Nell'ambito della sinistra di classe uno dei momenti significativi dell'estrema sinistra è da ravvisare nel documento di Lucio Libertini e Renato Panzieri (allora entrambi inseriti nel Partito Socialista Italiano) pubblicato nel 1958 (“Mondo operaio”, n. 2) sette tesi sulla questione del controllo operaio, che proponevano una linea di autonomia al mo-
vimento operaio, in contrapposto a “qualsiasi direzione esterna, burocratica e paternalistica”. Era un rilancio dell'ideologia e della pratica rivoluzionaria, che troverà poi esplicitazione nelle riviste “Quaderni rossi” e “Classe” e un punto di riferimento sul piano culturale ed economico negli scritti di Mario Tronti a cominciare da Operai e capitale (1966). Tali tesi, respinte dal PSI, trovarono udienza nel PCI solo nei limiti di una dialetti-
ca culturale, senza essere mai assunti a criterio guida nell'azione politica da nessun gruppo interno, costituendo di fatto una linea del tutto ereticale, chiaramente opposta rispetto all’atteggiamento ufficiale del partito. Furono invece singoli nuclei o circoli a carattere “operaistico” a fare proprie le istanze che venivano dalla riscoperta dell’idea di una iniziativa “autonoma” del movimento.
Il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), costituito nel 1964 dai dissidenti di sinistra del PSI che non accettavano il centro-sinistra (v. / soczalistà), assume nella sinistra italiana un ruolo di critica molto accentuata nei confronti dei metodi tradizionali di impegno politico. La presenza - accanto a Valori, Vecchietti e Libertini - di Lelio Basso (e della sua rivista “Problemi del socialismo”) introdusse una serie di ripensamenti che andavano nella direzione di una messa in discussione sia della socialdemo-
crazia sia della prassi della Terzinternazionale e delle sue ripercussioni mentre il settimanale “Mondo nuovo” manteneva viva la polemica politica, economica e culturale. In ef-
fetti il PSIUP con il ‘68 venne a trovarsi nella condizione privilegiata di aver anticipato temi che costituirono poi le punte di diamante dei movimenti di contestazione nei primi anni ‘70. Accadde invece che la nuova leva estremista emersa in quegli anni - frutto non di scelte meditate ma in base alle condizioni reali di svolgimento della lotta politica - preferì nuove forme aggregative che si espressero nei gruppi extraparlamentari (v. il succitato studio), Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, che seguirono una
traiettoria breve ma intensa. Nel frattempo il PSIUP che pure aveva ottenuto un notevole successo nelle elezioni del ‘68 (un milione e 400 mila voti, corrispondente al 4,5 dei votanti e 23 deputati), finì per estinguersi nel ‘72 dopo che non era riuscito ad ottenere alcun seggio nelle elezioni per aver mancato il quorum nelle circoscrizioni pur avendo riportato complessivamente 650 mila voti (11,9%). Si assistè allora ad un'ulteriore diaspora: la maggior parte dei dirigenti e dei quadri entrò nel PCI (con Dario Valori e Tullio Vecchietti) mentre altri rifluirono nel PSI (tra cui Giuseppe Avolio). Altri invece vollero mantenere la loro autonomia (così Vittorio Foa e Silvano Miniati) e preferirono confluire con quella parte del Movimento politico dei lavoratori (MPL) che non aveva accettato di entrare nel PSI (Domenico Jervolino, Russo Spena,
Migone). Nacque così il Partito di unità proletaria per il comunismo (PDUP), nel quale
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successivamente (74) confluirà anche il gruppo de “Il Manifesto” (v. Icomunisti), espulso dal PCI nel ‘69, ed i cui dirigenti, critici nei confronti del revisionismo post-togliat-
tiano e dell'URSS (sia per il regime oppressivo all’interno che per la politica internazionale imperialista), avevano acquisito (specialmente Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Luciana Castellina e Valentino Parlato) largo credito tra i giovani, anche grazie al vivace quotidiano di cui disponeva, nonché successivamente l’ala del Movimento studentesco di Ma-
rio Capanna, separatosi dal raggruppamento originario. Nelle elezioni regionali e amministrative del ‘75 il PDUP si presenta da solo in 4 regioni ed in altre 6, con la denominazione di “democrazia proletaria”, in liste unificate con
Avanguardia operaia. Questo movimento aveva specifico radicamento a Milano ed anche un quotidiano dallo stesso titolo; nelle fabbriche si ricollegava ai CUB (comitati uni-
tari di base), in grado di svolgere una attività intensa nella critica alla “delega” sindacale attraverso le tre confederazioni e nel richiamo invece ad una democrazia diretta da rea-
lizzare nei luoghi di lavoro attraverso nuovi organismi. Tra l’altro A.O. aveva polemizzato con L.C. accusata di indulgere a compiacenze pro-terroristiche, anche in riferimento all'uccisione del commissario Calabresi, giacché il giorno successivo all’omicidio il quotidiano diretto da Adriano Sofri aveva parlato di “giustizia”. Il risultato dell’alleanza elettorale sarà positivo: le liste ottengono parecchi consiglieri in Lombardia, nel Lazio ed in Campania. Al termine di lunghe discussioni, a fine gennaio ‘76 si avrà a Bologna il congresso fondativo del PDUP per il comunismo, ma verranno in luce le notevoli divergenze tra il gruppo de “Il manifesto” - lievemente maggioritario - e i nuclei di altra prove-
nienza: entrano nella segreteria Magri, Milani, Serafini, Miniati, Russo Spena e Pintor.
Nelle elezioni politiche del ‘76 (quando si attendeva il “sorpasso” della DC ad opera del PCI) il PDUP preferisce appoggiare il PCI e dichiara di non riconoscersi nelle liste di “democrazia proletaria” in quanto ritiene che quest'ultima formazione non abbia sufficientemente isolato i gruppi propensi a velleità di tipo insurrezionalista, liste comprendenti anche l’ala del Movimento studentesco trasformatasi in Movimento lavoratori per
il socialismo (che terrà viva la polemica politica e culturale nella prospettiva di un rinnovamento di tutta la sinistra ne “Il Quotidiano dei Lavoratori”), e quel che resta di Lotta Continua, in piena disgregazione, oltre alla Lega dei comunisti dalla breve ma intesa vita
dalla Toscana a Roma - di matrice marx-leninista e dotato di un periodico ideologica-
mente arricchito dalla partecipazione di Romano Luperini - e alla Lega comunista rivoluzionaria. La lista comunque riesce ad ottenere oltre 500 mila voti e sei deputati, il più alto risultato “elettorale” conseguito in Italia da un raggruppamento che si definisce “rivoluzionario”. Entrano a Montecitorio Magri, Castellina e Milani del PDUP, Corvisieri e Gorla di A.O. e Pinto (organizzatore dei disoccupati di Napoli) di L.C. Nel febbraio ‘77 assisteremo ad una ulteriore divaricazione tra PDUP - Il manifesto da un lato e Democrazia proletaria dall’altro. Nel PDUP p.i.c., al di là del dibattito ideologico, si sono manifestate rivalità inter-
ne - espressione di un eccesso di individualismo nel quale sembra spesso sfociare la teorizzazione politica di una pretesa rappresentanza esclusiva di classe - e si giunge, dopo continui rivolgimenti, alla elezione di Lucio Magri (a suo tempo passato dalla sinistra DC al versante comunista) alla segreteria, nel tentativo di dare al partito una consistenza più
precisa e differenziarlo dalle frange provenienti dall’oltranzismo extra-parlamentare. Si registrerà tuttavia un ulteriore dispersione di energie proprio mentre si vorrebbe ricercare una nuova composizione unitaria con altri gruppi onde porre rimedio a quell’estrema lai
frammentazione derivata anche dalla presunzione di non pochi appartenenti a questi gruppi di ripetere storiche diatribe dei gruppi rivoluzionari d’inizio secolo, con la con-
seguente separazione tra compagni per il solo fatto di avere un'opinione difforme su un problema specifico. A tale situazione, nel fluire di diverse ed bamento provocato nell’estrema sinistra - che politica - dall’emergere dei nuclei che stavano tito armato” nonché di motivi e nuovi elementi
accese pulsioni, contribuiva anche il turintendeva operare sul terreno dell’azione dando vita alla pratica brigatista del “Paragitatori introdotti dal movimento del ‘77.
Non si tratta in quest'ultimo caso di un gruppo univoco bensì dalla presenza di nuclei sparpagliati, soprattutto nei centri universitari, che prima ancora di trovare una consistenza programmatica e organizzativa operavano con metodi decisi, riallacciandosi ai mo-
vimenti studenteschi del ‘68, ma distinguendosene per due ragioni sostanziali: in primo luogo perché era cambiata la situazione economica che dieci anni prima era caratterizzata da una economia in espansione e che adesso vedeva invece non solo l’Italia in con-
dizioni di gravi difficoltà, in secondo luogo per la composizione non strettamente “borghese” come l’esplosione del ‘68, egemonizzata nelle principali sedi unversitarie dai più dotati enfants gatés delle famiglie benestanti e ben impiantate nell’establishment. Infatti, per effetto dei mutamenti del corpo studentesco, negli atenei è ora presente un nu-
mero crescente di studenti appartenenti a famiglie che per la prima volta accedono agli studi superiori e moltissimi di essi “fuori sede”: quindi all’inevitabile malessere dipendente dagli ostacoli logistici e psicologici, si aggiunge una tensione che tende a riproporre in termini di rottura il rapporto con le istituzioni, mentre sembrano venir meno le istanze e le iniziative dei gruppi emersi tra il ‘68 e il ‘72. Manconi, Lerner e Sinibaldi hanno parlato in proposito di “uno strano movimento di strani studenti” (come reca il titolo di un libro edito da Feltrinelli); altri richiameranno i connotati dei “non garantiti”. Dal canto suo L.C., che era la punta di diamante degli extra, tenderà a trasformarsi in una sorta di area all'americana, come rileverà l’analisi sottile della rivista “Praxis” (dove scrivono tra gli altri i Mineo). Si diffonde così un movimento informale nel quale confluiscono ed operano componenti diverse, tra le quali un ruolo più definito assumono sia i fautori di nuove forme
culturali (o di “contro cultura”, come amano definirsi, senza considerare che /a cultura 0 è o non è) richiamanti motivi di esperienze americane e sostanzialmente metapolitici, sia il cosiddetto “proletariato giovanile”. Rispetto al ‘68, inoltre, il movimento del ‘77 appare più attento a “bisogni” privati. Sul piano fattuale il movimento si fa notare per l’oc-
cupazione di sedi universitarie da Roma a Napoli, da Salerno a Palermo. Questa maggiore presenza nel centro sud conferma il carattere di maggior radicamento sociale rispetto alle esperienze precedenti nonché una serie di obiettivi mirati, diretti a colpire i simboli del potere politico considerato “repressivo”, dalla legge Reale - che aveva inasprito le misure per l'ordine pubblico - al ministro dell'Interno Cossiga che, chiamato da Moro a sostituire Gui, aveva poi mantenuto il Viminale. Nelle sedi universitarie settentrionali la mobilitazione nel ‘77 vede alla guida esponenti dei gruppi extra già consolidati e si avvale anche di piccole emittenti (come “Radio Alice” a Bologna, come d’altronde a Roma “Città futura” e “Onda rossa”), essendo nel frattempo intervenuta la novità della rottura del monopolio esclusivo della Rai. In questa contingenza si manifesta così l’esistenza di un movimento di massa, indefinito nei suoi obiettivi, frammentato nella sua composizione, ma capace di prospettare 152
un ripensamento dell'attivazione variegata del movimento. Tutte queste sollecitazioni si giovano di una emotività diffusa e contribuiscono anche alla definizione di proposte riguardanti l’organizzazione delle università (il Parlamento proseguiva le estenuanti di-
scussioni sulla riforma, approdando in quel momento all’approvazione del progetto Malfatti) nonché il nodo - che rimarrà irrisolto nei decenni successivi - dei rapporti tra studio e lavoro: la mancanza di sbocchi professionali portava infatti all’evidente minaccia di una disoccupazione giovanile di massa, come poi avverrà. E quindi in nome del “movimento autonomo” di studenti, disoccupati, giovani e proletari verranno indette numerose manifestazioni, di cui le più vistose si svolgeranno a Roma e a Bologna, mentre già l'ombra di interventi degli organi di polizia e della magistratura grava sull’intero movimento non tanto per quello che esso in quanto tale faceva, quanto in riferimento al con-
temporaneo proliferare di una pratica di violenza organizzata ad opera di singoli nuclei non riconducibile a quella teorizzata violenza di massa indicata come pratica antistituzionale di cui assumere le responsabilità in contrapposizione appunto alle operazioni “ar-
mate” di gruppi occulti nell’organizzazione e per le finalità. Autonomia operaia risale ad iniziative avviate sin dagli anni ‘60 e poi, in maniera organica, negli anni ‘70. Il fenomeno degli “autonomi” si collega sia con ristretti ma compatti gruppi locali (come il collettivo del Policlinico di Roma) sia con ramificazioni basse di raggruppamenti extra-parlamentari man mano che questi tendono a disfarsi, caratterizzati gli uni e gli altri da una spinta combattiva, fuori dagli schemi culturali e politici che avevano sino allora caratterizzato la dialettica dell’Estrema. Si trattava, secondo i protagonisti di tali operazioni, di “agire” portando avanti rivendicazioni concrete in singoli settori o aziende (come l'Enel). A Roma il collettivo di via dei Volsci sarà fucina
di un “rivoluzionarismo” spicciolo, non privo di un suo mordente ma che nel suo confusionismo si prestava ad ogni tipo di provocazione ed infiltrazione, sino a diventare qual-
che volta “mimesi” di tutto ciò che i benpensanti attribuivano all’estremismo: una carica interna del tipo di quel vitalismo soggettivo che si era rivelato per taluni aspetti all’inizio del secolo, e proprio a Roma, nello stesso quartiere di San Lorenzo, nel primo do-
poguerra. L'attività di questi gruppi era tutt'altro che parolaia in quanto spesso tendeva ad affrontare problemi seri, trascurati dalle altre formazioni: così i lavoratori del maggior
ospedale della capitale potevano farsi interpreti della insostenibilità delle condizioni in cui molti di essi erano costretti a lavorare e soprattutto i malati erano costretti a vivere (e talvolta a morire) nei rispettivi posti di ricovero.
Dai primi convegni (tra Napoli e Bologna), con presenza di operai di Milano, Torino, Venezia Mestre e contadini calabresi, l’area di “autonomia” acquistava un ruolo, un assetto, una prospettiva: in che cosa si differenziava all’inizio dalle costituende o appena costituite BR?
Immessi nel “movimento”, gli autonomi intendevano la preparazione e/o la pratica della violenza come fatto “spontaneistico” mentre i brigatisti avevano già compiuto una scelta “militarista” che di fatto li isolava. Tra i gruppi autonomi il più consistente, dal pun-
to di vista ideologico e organizzativo a livello nazionale, apparve dalla metà degli anni ‘70 “Pot. op.”, una sigla che si ricollegava a “potere operaio” e all'omonima rivista ma che andava assumendo una posizione a sé in quel magma incandescente del movimentismo. Si può guardare in proposito a riviste come “Rosso”, alle esperienze del gruppo Gramsci e ad altri nuclei, spesso dotati di personale politico giovanile alle prime armi ma agguerrito (anche se con punte di presunzione circa le proprie potenzialità). Con “autood
nomia” che teneva a qualificarsi con l'aggettivo “operaia” (anche se tale termine poteva essere proprio solo in riferimento a nuclei nati nelle fabbriche del Nord) si intendeva un'area vasta e frastagliata, nella quale si trovava di tutto e nella quale poteva essere facile penetrare, operare - in assenza di visibili forme organizzative - ed anche compiere violenze e quindi uscire.
Nel volume “I gruppi extra parlamentari di sinistra” già citato - che riprendeva anche un testo già pubblicato in “Mondo operaio” del ‘72 - abbiamo indicato l’incidenza su questi gruppi di motivi culturali non marxisti (come ad es. il “situazionismo”): il richiamo vuole qui sottolineare come fosse diffuso nelle frange giovanili un modo inedito di porsi di fronte alle realtà sociali ed individuali sì da travalicare i correnti filoni po-
litico-culturali dell’estrema sinistra. Le radio “libere” ne saranno espressione collegando, ora per ora, tra loro migliaia di giovani. A metà anni ‘70 l'accento principale degli autonomi venivaposto su rivendicazioni concrete (auto riduzione delle bollette per il paga-
mento di tariffe per servizi pubblici, sostegno delle lotte per il lavoro e per la casa), specie nell’hinterland di Roma e Napoli. Se non si tenesse conto di queste specificità non riconducibili a canoni prestabiliti non si comprenderebbe il perdurare del fenomeno, l’estensione del “movimento”, il quale non riuscì a trovare però né una identificazione politica precisa per il succedersi di eventi e misure repressive né leaders benché la sua presenza fosse rimarchevole in momenti e luoghi importanti della protesta popolare, in forme e iniziative più significative rispetto a gruppi fortemente ideologizzati, senza escludere non chiarite influenze esterne.
Le misure prese per l'ordine pubblico (legge Reale) costituiscono una risposta rivolta a rafforzare il sistema di prevenzione e di controllo che se verrà criticata dagli estremisti
e dai radicali verrà considerata invece insufficiente dalla parte opposta. La presenza di Cossiga al Viminale è caratterizzata da una serie di situazioni nelle quali il compito delle autorità preposte alla pubblica sicurezza appare oltremodo arduo per l’accavallarsi di ondate contestative dalle radici e dalle caratteristiche non facilmente individuabili. Le stesse modificazioni degli apparati dei “servizi” non si riveleranno positive dal punto di vista dei risultati operativi (e clamorosa sarà la constatazione che i servizi segreti interni erano smantellati al momento del rapimento Moro mentre i nuovi ancora stentavano a muoversi). Per il ‘77 poco chiari ad es. saranno gli incidenti di Piazza Indipendenza a Roma: da più parti si afferma che fossero presenti tra i manifestanti agenti in borghese. Che ruolo hanno esercitato in tale occasione? Il fenomeno si ripeterà altrove: è lecito domandarsi se ciò sia avvenuto tra l’altro a Ponte Garibaldi a Roma quando il divieto di manifestazioni disposto dal ministro dell'Interno onde evitare il ripetersi di situazioni incontrollabili viene infranto dai partecipanti alla manifestazione indetta dai radicali il 12 mag-
gio per celebrare l'anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. Quel che accadde in quella drammatica giornata nella capitale non è mai stato approfondito: ma chi era presente nel cuore della capitale ad una manifestazione spontanea di giovani si ritrovò con davanti ai propri occhi, sul selciato, il corpo di una ragazza, Giorgiana Masi, mentre altri giovani venivano colpiti dalle forze dell’ordine e qualcuno persino avviato in cliniche psichiatriche. Se si distende un velo su quei tragici eventi, non può mancare la condanna severa
nei confronti dei responsabili della tenuta dei reparti armati preposti a garantire l’ordine pubblico nonché una vivace polemica mai assopita: e sarà Rossana Rossanda sul “Ma-
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nifesto” a mettere in rilievo, con ragionevoli argomentazioni, il danno provocato da un
estremismo violento, di cui si avvertivano sempre più le conseguenze delittuose, e la stes-
sa, esponente di una opposizione decisa, non esiterà, a proposito delle origini del partito della violenza, a richiamare in causa l’album di famiglia”. A quanti (specie intellettuali) rendevano a collocarsi né con le BR né con lo Stato, i dirigenti del PCI risponde-
ranno molto duramente, da Amendola e Terracini che ricorderanno come precedenti esperienze del genere avessero favorito la vittoria del fascismo (il cui regime l’ex presidente della Costituente terrà a distinguere sempre nettamente dal governo, pur criticabile, della: DE). Nel settembre un convegno a Bologna dovrebbe presentare la “summa” del movimentismo: in effetti emergerà la lacerazione tra i vari gruppi, i cui dirigenti continuano a perdersi o tra le nebbie dell’ideologismo o nell'adattamento passivo a pratiche diffuse
di protestatarie agitazioni che diffondono la sensazione in vasti strati del paese di un pericolo ben maggiore di quello che i gruppi rappresentassero effettivamente, anche perché essi operavano spesso senza una preparazione adeguata mentre al livello delle istituzioni erano presenti nuclei più ristretti, capaci di indirizzare determinate operazioni ed
in grado eventualmente di raccordare iniziative e raccoglierne gli utili. Un accumulo di esperienze non meditate favorisce nel movimento le prevalenze dei più esagitati mentre ai margini di esso si registra l’avvio verso la convinzione che soluzioni di tipo armato si presentino quasi come l’unica via di uscita. In effetti la strada militarista sanziona la rinuncia alla battaglia politica democratica, e rappresenta quindi la sconfitta della dialet-
tica politica, difesa invece dal gruppo del Manifesto, dai Magri, Pintor, Parlato e Rossanda che cercavano invece di impostare la critica alla società, l'esigenza di cambiamen-
ti radicali e la necessità di una adeguata organizzazione su ragionate basi politico-economiche pur da una visuale fortemente minoritaria. Ed è stata proprio la concentrazione delle fondate preoccupazioni delle autorità legittime nei confronti dei ripetuti episodi di violenza terroristica (avvenuta o minacciata) a colpire l’intero movimento del ‘77, defraudato - anche attraverso le manipolazioni gior-
nalistiche - dei suoi caratteri specifici e presentato come corresponsabile di fatti delittuosi ai quali il movimento in sé era estraneo. Quando infatti i competenti organi giudiziari interverranno, per il ripetersi di fatti delittuosi, contro promotori e attori delle violenze,
come nel caso più grave di Padova, non solo vengono predisposte le misure dirette alla salvaguardia dell’ordine pubblico ma - talvolta anche in mancanza di prove - si colpevolizzano singoli e gruppi ottenendo l’effetto (voluto o meno) di additare alla responsabilità un'intera area di giovani, nella quale, con elementi confusi e velleitari, avventurosi e
pericolosi, vi erano studenti e disoccupati interessati realmente alla risoluzione dei loro problemi. In tutta questa operazione un ruolo importante ebbe la dirigenza del PCI, che,
al contrario degli anni precedenti, aveva ormai preso netta posizione contro la manifestazione di questi fenomeni che avevano assunto ormai carattere endemico. Compariva-
no inoltre sigle variopinte ad es. gli “indiani metropolitani” che riprendevano atteggiamenti come quelli che avevano dato luogo, ad es. alla facoltà di Architettura a Roma, agli episodi con protagonisti i cosiddetti “uccelli” distintisi con atti riprovevoli sotto ogni punto di vista (da “Arancia meccanica”). Gli “indiani” intendono essere testimonianza di un
modo più vivace e fantasioso di unire impegno personale e iniziativa politica proprio mentre cominciano a sovrapporsi al dibattito nel paese i motivi ambientalisti, nelle prime battaglie antinucleari, da Latina a Montalto di Castro (v. / Verdi).
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Quanto alla pratica terroristica ci limitiamo qui a riportare quanto abbiamo scritto da tempo, sulla base di analisi naturalmente incomplete per deficienza di documentazione, mancante malgrado le numerose indagini giudiziarie compiute al riguardo. Va distinto innanzitutto il terrorismo anonimo dal terrorismo militante. Con la prima definizione s'intende l’insieme dei fenomeni di attentati a carattere stragista (piazza Fontana a Milano nel ‘69, esplosione a Brescia nel ‘74, attentati ai treni sin alla fine degli anni ‘80), attentati che non venivano rivendicati e di cui la magistratura non è riuscita a venire a capo, malgrado, di tanto in tanto, sentenze che sembrava avessero chiarito responsabilità, cancellate da successive pronuncie dei gradi ulteriori di (de-
negata) giustizia (solo in tempi recenti qualche acquisizione è emersa, per attentati sui treni per i quali vi sarebbe stato un coivolgimento di elementi mafiosi) oltre all’accertamento di depistaggi ad opera di appartenenti a quei servizi segreti che avrebbero dovuto, per compiti istituzionali, vigilare a scopo di prevenzione e per individuare perversi intrecci. Rivendicate sono state invece le azioni compiute da BR, NAP, Comunisti Combattenti, NAR: quindi iniziative terroristiche - per usare termini convenzionali - che si ri-
chiamavano esplicitamente a motivi “rossi” o “neri”. Sino a che punto tali attività rispondevano ad un intento di giovani e meno giovani che ritenevano così operando di giovare alla causa dichiarata? Vi sono state infiltrazioni, e se la risposta è affermativa, di che genere? Va chiarito che la collocazione dell'argomento nel presente capitolo non vuole stabilire un rapporto organico tra Estrema Sinistra e partito armato: dipende piuttosto dal
legame problematico tra i due fenomeni, con la precisazione che il partito armato ha di fatto nuociuto alla diffusione e al successo delle idee e delle posizioni di estrema sinistra,
e che se casi di contiguità (o identificazione) vi sono stati, essi rigurdano singoli indivi-
dui. Quanto poi alla “continuità” tra Sessantotto e terrorismo richiamiamo in primo luogo le due differenti interpretazioni di A. Ventura e di Giorgio Galli: il primo sostiene l’esistenza di uno stretto nesso tra i due fenomeni, desumendolo dalle affermazioni di giornali, organi ed esponenti dei movimenti extra-parlamentari mentre il secondo sottolinea - con la documentazione riportata nella “Storia del partito armato” - la maggiore com-
plessità ed articolazione dell’esperienza “combattente”, riallacciandosi in ciò a quanto scritto da Giorgio Bocca. Quale ipotesi interpretativa delle organizzazioni e dell'insieme di episodi di terrori-
smo (rosso e nero) noi possiamo provare a segnare sulla parte bassa di un foglio alcuni quadratini, ciascuno dei quali rappresenta uno dei gruppi armati, separando “neri” e “rossi” ma ponendoli sulla stessa linea. Nella parte superiore possiamo indicare i servizi se-
greti delle massime e medie potenze euroamericane e mediorientali. Ebbene: fili possono essere esistiti tra tali servizi (e altri organismi interni o esterni all’Italia) e i gruppi armati, non solo fili diretti ai fini di armamento e iniziativa operativa, ma soprattutto a fini conoscitivi e di informazione circa quel che avveniva in detti gruppi, onde poterli eventualmente condizionare, utilizzare o indirizzare, raccogliendo comunque da essi notizie
di rilevante interesse. Ciascuno può tentare di collegare i trattini indicanti iservizi segreti con i quadratini delle formazioni terroristiche. La magistratura, per quanto impegnata, è riuscita solo in qualche caso a individuare interessi reciproci a scopi informativi oppure contatti per l’approvvigionamento o il trasporto di armi.
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Tali nostre affermazioni vengono avanzate sulla base di quanto emerso nei processi e nelle commissioni di inchiesta che hanno rilevato taluni intrecci, non del tutto chiariti. Vi è poi il precedente dell’attività spionistica e/o di provocazione nell'Italia liberale e fascista come delle potenze europee dall’Ottocento in poi e degli Stati Uniti a partire dalla seconda guerra mondiale, lasciando da parte - anche se da non trascurare - considera-
zioni sul “cui prodest”. Quanto agli organismi “interni od esterni” collusioni sono emerse, nelle indagini giudiziarie, in riferimento a gruppi mafiosi o di malaffare, oltre che di
trame con gruppi finanziari e di contatti con nuclei organizzati non chiaramente individuati nelle loro finalità. Rinviamo al riguardo alle nostre osservazioni contenute in “Le cause della svolta”.
Il rapimento e l'uccisione di Moro ripropongono drammaticamente la questione del terrorismo (ne abbiamo scritto altrove), esperienza alla quale imovimenti organizzati dell'estrema sinistra sono contrari proprio perché essi intendono aggregare forze popolari attorno ad una prospettiva politica e non al mero uso delle armi che si prestava ad un pericoloso avventurismo: tuttavia nell’area i brigatisti non mancano di trovare simpatizzanti se non diretti favoreggiatori. Contemporaneamente acquista rilievo la presenza dell’estrema sinistra nel mondo
sindacale (in contrapposto alla linea “possibilista” dell'Eur) mentre proseguono le battaglie antinucleari che si svolgono sia per far chiudere alcune centrali operanti sia per impedire la costruzione di nuove. Con la massima nettezza continua a caratterizzarsi nell'estrema l'opposizione ad ogni forma di lotta armata, che - come dimostrano i fatti di
quegli anni - contribuisce a rafforzare le spinte autoritarie sempre più attive nel paese, come si vede anche nella legislazione eccezionale varata dal Parlamento e contro la quale invano i radicali ricorrono al referendum abrogativo. La prosecuzione delle offensive armate dei gruppuscoli, raccolti in nuclei, colonne brigate, con uccisione di alti magistrati (tra i quali Vittorio Bachelet), componenti delle forze dell'ordine, docenti (Tarantelli e Ruffilli all’inizio degli anni ‘80), giornalisti (Casalegno, Walter Tobagi) si innesta con le prime rivelazioni in sede di inchieste parla-
mentari e giudiziarie e poi con gli episodi clamorosi che vedono scoperchiati alcuni misteri di gruppi influenti all’interno di delicati organi statali mentre nebbie pesanti si addensano attorno ai santuari delle banche: sintomatici delle incertezze delle autorità preposte alla sicurezza e di singolari atteggiamenti anche di forze politiche e di una parte del-
la stampa i casi del sequestro del giudice D’Urso, salvato all’ultimo minuto per effetto di trattative indirette come con trattative dirette che chiamano in causa servizi segreti ed
esponenti di primo piano della DC quando verrà salvato nel napoletano un dirigente locale, Cirillo.
Ne riferiamo qui perché sono tutti eventi inquietanti che mostrano da un lato le ultime fiammate della pratica militarista (che sembra concludersi con il rapimento e poi la
liberazione del generale americano Dozier per riprendere con singole operazioni come quelle che porteranno alla morte dei due professori indicati) e quindi il sostanziale affievolirsi del partito armato, sconfitto sia per la minore capacità d'iniziativa sia per il mag-
gior e deciso impegno dei Carabinieri e degli altri corpi, dall'altro come all’interno delle varie formazioni brigatiste vi fossero posizioni diversificate. La “costruzione” del partito comunista combattente - che era la prospettiva dei grup-
pi più integrati nella lotta armata per sollecitare il passaggio ad una sorta di guerra o guer157
riglia “popolare” contro le istituzioni - si rivela ormai fallimentare mentre i brigatisti neri rivendicano le loro azioni sul piano “ideologico” (casi Fioravanti e Mambro).
Ma nel corso di questo estenuante stillicidio di azioni disperate hanno gioco per inserirsi le forze interessate a chiudere la lunga fase degli anni di piombo con soluzioni le-
gislative in grado di restringere gli spazi, ritenuti soverchi, di libertà (perquisizioni senza autorizzazione della magistratura) e tendenti attraverso provvedimenti di “premio” per i pentiti a ottenere il ritiro o la “dissociazione” tardiva dalla pratica terrorista: sono interventi diretti a estinguere le potenzialità di lotta antisistema mediante soluzioni politiche che - chiusa la fase emergenziale della solidarietà tra tutti i partiti del cd. arco costituzionale - potessero aprire la via ad una ripresa economica e sociale, necessaria ed utile per il paese, ma all’insegna di una restaurazione stabilizzatrice. Così la lotta armata ha contribuito - possiamo dire per il fenomeno delle eterogenesi dei fini senza escludere altre tesi - a dissipare tutte quelle energie che una parte della giovane generazione aveva cre-
duto di mobilitare allo scopo di conseguire cambiamenti radicali. Al termine di questo doloroso processo rimangono in piedi poche strutture che si richiamano all’estrema sinistra, e sono quelle che più hanno sostenuto l’esigenza di una linea politica nettamente disancorata dalle insidie delle scelte militariste. Così riacquista credito sul piano delle prospettive, anche tra coloro che dal ‘68 in poi lo avevano combattuto o criticato, il PCI - anche se elettoralmente in calo - verso il quale confluiranno direttamente o indirettamente molti giovani (e parecchi intellettuali meno giovani) che si erano attestati su posizioni oltranziste. La stessa presenza di Pertini alla Presidenza della Repubblica è segno di garanzia democratica per tutte le parti politiche. Se ci siamo soffermati a lungo sulle traversie e le diverse posizioni dei gruppi d’estrema sinistra negli anni ‘70 è perché allora il dibattito è vivacissimo, coinvolge valori, atti, scelte individuali e collettive, mentre negli anni ‘80, dispersa l’area movimentista, sconfitti i nuclei armati, rimangono in piedi solo le formazioni più consistenti sul piano
politico e che si erano opposte alle esperienze fallite. Arriviamo così alle elezioni dell’83 quando il PDUP - che ha proseguito sia la dialettica al suo interno e con le formazioni vicinorie sia un tentativo dichiarificazione - si presenta con il PCI (che regredisce di circa il 2%) mentre Democrazia Proletaria (su posizioni nette di alternativa) riesce a far eleggere 7 deputati. Tra i radicali viene eletto Toni Negri, il maggior teorico della violenza anti statale e incriminato per gravi fatti avve-
nuti nel padovano: quale deputato, il professore sarà scarcerato ma poi approfitterà della libertà per fuggire all’estero; riconosciuto colpevole, latitante sarà condannato a 30 anni di reclusione per associazione sovversiva e organizzazione di banda armata.
Nel novembre ‘84 il PDUP, con Magri e altri esponenti storici del’E.S., decide di confluire nel PCI mentre “democrazia proletaria” si distingue dal PCI presentando alla Camera una richiesta di dimissioni di Andreotti dal governo per avere “protetto” il banchiere Sindona (il PCI si asterrà, salvando ancora una volta l'esponente dc), mantiene la sua autonomia, si presenta alle elezioni amministrative dell’85 ed otterrà un miglioramento nelle politiche dell’ 87.
Ormai è cominciato il processo di dissoluzione del comunismo sul piano internazionale mentre il PCI si avvia alla sua trasformazione che maturerà dopo la caduta del muro di Berlino. E quando alla nascita del PDS un'ala consistente del PCI dà vita a Rifon-
dazione comunista, il gruppo di Democrazia proletaria decide di confluire nel partito gui156
dato da Garavini e Cossutta (v. / comunistà). I successi conseguiti dal nuovo partito - che mantiene i simboli tradizionali del co-
munismo - dimostrano che una aliquota considerevole del movimento operaio nei grandi centri industriali come dell’area di estrema (compresi numerosi intellettuali) preferisce riconoscersi in una linea di opposizione intransigente nei confronti del sistema di po-
tere economico politico, senza nessuna concessione ai miti del mercato, della liberal democrazia, delle privatizzazioni. Per comprendere tuttavia la partecipazione di R.C. (pur
divisa al suo interno) allo schieramento progressista nelle elezioni politiche del ‘94 occorre rifarsi sia ai meccanismi della legge elettorale che implicano la necessità di vaste al-
leanze sia alla convinzione di poter svolgere un ruolo attivo, proprio evitando l’isolamento, ed in ciò la relazione di Lucio Magri al II congresso nazionale del partito (Roma, 20-23
gennaio ‘94) suggella questo percorso. Di fronte al pericolo che in luogo di una “rivoluzione democratica” il paese possa avviarsi verso soluzioni autoritarie e regressive, il più intransigente sostenitore di una linea d'opposizione al regime politico economico dominante afferma la necessità di impedire la prevalenza di “una destra reazionaria di massa e oggettivamente eversiva”; “è totalemente illusorio per la sinistra pensare di governa-
re senza un conflitto sociale e culturale che riaggreghi soggetti di massa, ridia unità e fierezza alle classi subalterne, modifichi i rapporti di forze e le idee correnti nella società”. E contro le tesi (attribuite al PDS) di accompagnare e governare le tendenze di fondo del moderno capitalismo, liberarandone e stimolandone l’intrinseca spinta modernizzatrice, correggendo le peggiori distrosioni e distribuendo meglio le risorse, Magri sostiene in-
vece l’esigenza di prospettare e portare avanti una linea alternativa che prenda atto della
crescita di diseguaglianza nel reddito e nelle condizioni di vita e di lavoro per ricercare insieme la strada per modifiche profonde dell’attuale assetto puntando sulla redistribuzione del reddito, il rovescimaneto della politica di un debito pubblico fuori controllo
riportando la rendita finanziaria nei confini dello sviluppo economico reale, e rifutando la logica della priorità temporale rispetto alla ripresa e all'allargamento della produzione. In tale cornice viene sottolineata l'esigenza dell’unificazione dei soggetti politici sociali per la ricostruzione (e non lo smantellamento) dei partiti, del sindacalismo di classe, dei movimenti sociali organizzati: donne, ambientalisti, studenti. Ed i temi della scuola, della lotta alla disoccupazione, della riduzione dell’orario di lavoro vengono assunti a
elementi centrali di una linea che contrasta aspramente la privatizzazione nei settori dell'economia, della sanità, della previdenza, della scuola.
La linea prevalsa nel congresso non appare condivisa da un gruppo interno prevalentemente di provenienza da D.P. e da un altro gruppo collegato al “socialismo rivoluzionario” sostenuto dalla Lega internazionale dei lavoratori (Quarta Internazionale).
Colpito nella sua dirigenza dalla scomparsa di Lucio Libertini, R.C. (che mantiene una posizione notevole nella CGIL e si avvale dele settimanale “Liberazione”) chiama al-
la segreteria il sindacalista Fausto Bertinotti, il quale durante la campagna elettorale non esita ad affermare la necessità della tassazione dei Bot (e questo argomento è preso in considerazione, anche senza pervenire alle stesse conclusioni, nell’analisi rigorosa di Mario
Monti, rettore dell'università Bocconi) e di porre il problema dell'uscita dell’Italia dalla Nato (mentre altri preferisce parlare di trasformazione dell'alleanza altlantica). Nelle elezioni Rifondazione comunista riesce ad ottenere, nell’ambito dello schieramento progressista, 40 deputati con il 6% dei voti nella proporzionale (2 milioni 3 334
mila) e 19 senatori.
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Un movimento per l'alternativa assume varie iniziative nel ‘93-°94. e dopo la sconfitta dello schieramento progressista sollecita un ripensamento culturale ed organizzativo anche nel corso di riunioni al Centro per la riforma dello Stato, fondato da Ingrao, ed alle quali partecipano economisti (come Augusto Graziani) e giuristi (come Barcellona, Rescigno e Rodotà). Una Costituente della strada, espressione di gruppi spontaneisti, vede però nelle sue
riunioni un numero soverchiante di esponenti dei partiti ufficiali. Sono infine da segnalare i centri sociali che, sorti sull'onda dei movimenti rivendi-
cativi a carattere territoriale negli anni ‘70, hanno dato luogoa occupazioni di sedi nelle quali sono state realizzate esperienze di “comuni” a carattere popolare: alle iniziali ag-
gregazioni non prive di caratteri fantasiosi, si sono spesso sovrapposte altre attività che hanno provocato proteste dei vicini o richieste dei proprietari di riacquisire i locali. Quali punti di riferimento d’estrema sinistra hanno continuato a svolgere attività culturale. Tra essi ricordiamo il “Leoncavallo” a Milano, e il “Forte Prenestino” a Roma.
Abbiamo iniziato questo capitolo ricordando la tradizione anarchica: ebbene la FA./ nel suo 31° congrsso tenuto a Milano a fine aprile ‘94 riconferma la critica alla “sinistra istituzionale”, riafferma la linea di “disfattismo antipatriottico” ed indica nell’’impegno sul territorio” e negli “interventi sui luoghi di lavoro” la sfera della sua azione futura. Il dibattito politico all’estrema sinistra viene mantenuto vivo da una serie di riviste, tra le quali Marx-centouno, a carattere internazionale, Questioni del socialismo (segnalia-
mo in particolare il fascicolo gennaio ‘94 su “La linea politica e il lavoro ideologico”), Marxismo oggi (al quale collaborano Luciano Canfora ed Enzo Santarelli), Socialismo 0 barbarie e la già citata nuova serie di Critica marxista. (con le analisi di Aldo Tortorella e Pietro Ingrao).
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Capitolo VIII
MOVIMENTO SOCIALE, DESTRA E ALLEANZA NAZIONALE
1 - Il Movimento Sociale Italiano si costituisce nel dicembre 1946 come punto d’incontro di vari gruppi, più o meno organizzati, e di giornali che sin dall'inverno precedente avevano iniziato, in diverse parti d’Italia, a svolgere un'attività che, senza rivendicare espressamente la continuità con il fascismo “storico”, ad esso si riaccostavano evidentemente per motivazioni politiche e stato d’animo.
Se il 25 luglio 1943 aveva determinato una frattura all’interno delle gerarchie fasciste tra fedeli a Mussolini e fautori di una manovra di “sganciamento” con la chiamata in causa della Corona, i fatti conseguenti alla proclamazione dell’armistizio (8 settembre)
provocano una definitiva rottura tra tutti i settori dell'opinione pubblica (ex fascisti, afascisti ed antifascisti) che confidano nelle scelte della Monarchia, malgrado le responsabilità di questa nello sfaldamento delle forze armate e delle strutture statali in connes-
sione con l'abbandono della capitale, e la minoranza di fascisti che danno vita, nelle nuove condizioni create dall'occupazione militare tedesca, ad una ricostruzione di organismi
di “partito” e poi anche di “governo”. La condanna a morte da parte di un apposito tribunale speciale dei membri del gran consiglio che avevano votato contro Mussolini nella notte tra il 24 ed il 25 luglio e l'esecuzione dei condannati (Ciano, De Bono e altri tre che era stato possibile arrestare) ed il nuovo programma del “partito fascista repubblica-
no” sanciranno una rottura tra il fascismo ante-25 luglio ed il fascismo di Salò (come si chiamerà dal nome della sede del governo che accetta di operare all'ombra dei comandi
germanici). Questa differenziazione sarà tanto più avvertita dalle giovani leve che, senza responsabilità per il fascismo ante 25 luglio, accettano di militare, volontari o sotto minaccia, nella R.S.I. e che ne subiranno le conseguenze. È l’altra faccia del dramma di una generazione tradita, che sta cercando il riscatto nella partecipazione alla lotta partigiana,
nella “scoperta” del valore della libertà. All’indomani della liberazione dell’Italia settentrionale, il generale sbandamento dei
giovani della RSI segna la fine di una esperienza tragica di guerra civile, alla quale hanno partecipato con una scelta che se in molti casi li ha condotti a compiere atti crudeli, per altri significava restare fedeli a malintesi ideali patriottici. Ed è proprio da questi ultimi che dalla fine del ‘45 cominciano a prender vita alcune iniziative di gruppi ristretti per riflettere sui propri comportamenti. Mentre da un lato si cercheranno contatti con
il PCI e con uomini e partiti di sinistra (la cronaca di questi contatti si può ricavare dai primi numeri della rivista “Il pensiero nazionale” che uscirà successivamente e dal con-
tenuto del settimanale “Rosso e nero” diretto da A. Giovannini, già fascista e U. Zatterin, che sarà per questa iniziativa allontanato dal partito socialista), gli “intransigenti” respingeranno l’allineamento sotto le insegne dell’’Uomo qualunque” di G. Giannini (v. u.q.) giacché se una gran massa di ex fascisti, specie nell'Italia centro-meridionale, vota nel giugno 1946 per questo raggruppamento, i più intransingenti non riterranno di po161
ter avallare una formazione che pone sullo stesso piano fascisti ed antifascisti e che in sostanza, in nome dello “stato amministrativo”, respinge la concezione dello “stato etico”
caratterizzante l’ideologia fascista. Di fronte alla questione istituzionale gli ex fascisti sono divisi. Una parte cospicua, specie da Roma alla Sicilia, appoggia la Monarchia, come punto di riferimento contro socialisti e comunisti, mentre altri o non votano o votano per la Repubblica.
A Roma il settimanale “La Rivolta Ideale” diretto da G. Tonelli, si appella ai valori
“nazionali” e, in pochi mesi, diviene il punto di coagulo di quanti intendono “superare” le precedenti esperienze. A Milano si formano gruppi che più direttamente si richiamano, sia in piccole organizzazioni clandestine sia nel “Meridiano d’Italia” diretto da E.De Agazio, ai motivi mussoliniani.
Nel dicembre 1946 la decisione di unire le sparse forze viene presa ad iniziativa di Arturo Michelini - che aveva avuto incarichi amministrativi nella federazione fascista delUrbe prima del 25 luglio -, Giorgio Almirante - già capo Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare Mezzasoma nella R.S.I. -, Pino Romualdi - già vice segretario del PER. -, il principe Pignatelli - che aveva tentato nel Sud di costituire “bande” fasciste -, Pelle-
grini Giampietro - Ministro delle Finanze nella R.S.I.. Danno vita al “movimento sociale italiano” precedenti piccoli gruppi, tra i quali il “movimento italiano di unità sociale” (M. Cassiano, G. Bacchi, C. G. Baghino), il “Fronte dell’italiano”, promosso dal settimanale “Rivolta ideale”. Nel manifesto costitutivo non vi è alcun esplicito riferimento al fa-
scismo; si chiede tuttavia l'abrogazione di tutta la legislazione eccezionale antifascista ed un documento di giuristi, per lo più cattolici, aveva già denunciato l’illegittimità delle norme “retroattive” -; si rivendicano “unità, integrità ed indipendenza della Patria”, con
chiara opposizione alle trattative di pace che preparavano la sottrazione all’Italia di territori acquisiti prima del fascismo, si richiede il referendum per l'approvazione della Co-
stituzione e del “diktat” (come viene chiamato il trattato di pace imposto dagli Alleati). Se sul piano sociale, nel riconoscimento della proprietà privata, si auspica la partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili dell’azienda, i richiami alla “autorità dello Stato” ed alla riaffermazione della religione cattolica quale “religione dello Stato” indi-
cano una scelta che qualcuno degli aderenti al nuovo partito sintetizzerà nell’espressione “destra politica, sinistra sociale”. Il fallimento, nel gennaio 1947, di un tentativo di “pacificazione” tra ex combattenti delle due parti della guerra civile, promosso da Tito Zaniboni, il rifiuto da parte del PCI
di prendere contatto con gli ex “repubblichini” in quanto gruppo (mentre isolatamente parecchi di essi vi possono entrare come d’altronde in altri partiti), contribuiscono a da-
re al M.S.I. in questi primi mesi di vita l'apporto di un considerevole gruppo di giovani. 2 - La presentazione di una lista alle elezioni amministrative di Roma dell’autunno 1947 offre l'occasione al partito per una prima uscita “clamorosa” (con una manifestazione guidata da G. Almirante a P.zza Colonna) e per un primo, sia pure limitato, successo. I quasi 25 mila voti raccolti nella Capitale - in una situazione caratterizzata dallo scontro frontale tra D.C. e blocco delle sinistre - indicano una significativa disponibilità
dell’elettorato nostalgico. Tuttavia proprio questo primo successo mette in luce come l’eterogeneità delle spinte che agiscono all’interno del M.S.I. si riconducano in definitiva
ad una scelta “moderata” come possibile riserva alla D.C. nei confronti del comunismo. 162
Se sul piano nazionale, sono stati i qualunquisti (v. D.C.) ed i primi deputati monarchici (dei quali tra poco parleremo) a consentire la formazione di un governo d.c. senza socialisti e comunisti, a Roma i tre consiglieri del MSI in Comune non esitano ad appoggiare la nomina di un sindaco d.c., contro le richieste delle sinistre di avere la guida del-
l’Amministrazione quale gruppo numericamente più consistente. Proprio da questo atteggiamento, discenderà la decisione di un gruppo di giovani militanti di abbandonare il M.S.I. per essersi questo attestato sul blocco conservatoremoderato, e di cercare vie nuove verso la sinistra (e ciò avverrà attraverso l’esperienza contraddittoria del MOSI - movimento sindacalista -, una cui componente contribuirà suc-
cessivamente alla nascita della U.I.L.). I connotati del M.S.I. si vanno ormai definendo come quello di un partito che tende a raccogliere i consensi degli ex-fascisti, i quali non vogliono “rinnegare” la loro precedente esperienza né dare un sostegno a quanti vorrebbero utilizzarli in funzione anticomunista. Sul piano organizzativo il partito si avvale dell’azione di molti giovani, accomunati da ostilità contro tutti i “partiti democratici”, accusati di essere stati alleati del “nemico” durante la guerra: ai pregiudizi anti-comunisti della media e piccola borghesia, si unisce
il senso di unapossibile “revanche” contro quelli che vengono considerati i responsabili della “disfatta”; questo è il tono della stampa e delle manifestazioni del M.S.I., nel cui
ambito non pochi si illudono di ripetere più l’esperienza del primo dopoguerra in Germania che quella italiana. Sul piano politico le denunce molto nette, specie da parte delle sinistre, di ricosti-
tuzione del fascismo trovano un limite sia perché in effetti il M.S.I. usa molta cautela per evitare di essere identificato, giuridicamente, come il neo-partito fascista (vietato dalle nor-
me transitorie della Costituzione) sia perché difronte alla constatazione dell’esistenza del nuovo raggruppamento ciascuna delle due maggiori forze democratiche operanti nel Paese spera di trarne un vantaggio contro l’altra, la D.C. nella persuasione che l’anticomunismo del M.S.I. potrà essere utilizzato sul piano delle assemblee elettive e nel Paese, in caso di necessità - come avverrà -, le sinistre, ed in particolare il PCI, nella considerazio-
ne che i voti del MSI in caso di scioglimento di questo partito andrebbero a rafforzare i partiti moderati (e presto l’esperienza della legge maggioritaria e del milazzismo dimostreranno come tali calcoli non fossero sbagliati, almeno sul piano numerico), anche se
vi è un muro invalicabile sul piano politico. Nelle elezioni del 18 aprile 1948 - mentre crolla definitivamente il qualunquismo - il M.S.I. raccoglie il 2% dell'elettorato e porta 6 deputati alla Camera (viene eletto un solo senatore).
3 - II Congresso Nazionale si svolge (Napoli, 27-29 giugno 1948) dopo la svolta moderata impressa al Paese dalla vittoria d.c. del 18 aprile: dai lavori emerge un'ambiguità di atteggiamenti nei confronti del passato e del programma; viene rivendicata l’idea corporativista” da attuare nella “socializzazione dell'impresa”, formula che mal nasconde
la presenza delle due componenti del fascismo. L'elezione di Almirante consolida la leadership emersa spontaneamete mentre ai margini del partito resteranno gruppi e riviste più marcatamente critici nei confronti della democrazia (sul piano ideologico, il filosofo
J. Evola, sul piano della stampa i giovani E. Erra e P. Rauti). Viene portata avanti l’organizzazione “Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori” diretto da Roberto Mieville che riapre gli atenei e le scuole dell’Italia centro-meridionale ad una propaganda fortemente critica nei confronti dei partiti democratici e che sino al 1953 farà leva soprat163
tutto sul motivo di Trieste, non ancora restituita all'’amministrazione italiana. Pur riven-
dicando le ragioni della “civiltà occidentale” contro il “comunismo”, il M.S.I. prende posizione contro il patto atlantico, sostenendo che in esso l’Italia non vi è ammessa in con-
dizione di parità: in effetti mirerà presto a qualificarsi - non solo di fronte all'opinione
pubblica di destra ma anche di fronte agli Stati Uniti - come “baluardo anticomunista” più sicuro di quello rappresentato dalla D.C.. Le diversità di valutazioni sociali e sull’atteggiamento nei confronti del fascismo ante 25 luglio affiorano in occasione del Il Congresso (Roma, 29 giugno-3 luglio 1949) e si acuiranno nei mesi successivi: dopo un convegno straordinario a Lucca (3-5 dicembre 1949), dal Comitato centrale emergerà una direzione, che elegge a segretario Augusto De
Marsanich - già sottosegreteraio negli anni trenta -: viene scelta una linea che possa maggiormente avvicinare al partito gli ex fascisti ed elementi non legati (anche per ragioni anagrafiche e geografiche) all'esperienza della R.S.I.. Viene intanto portata avanti l’organizzazione della Confederazione italiana sindacati nazionali (CISNAL), presieduta da Roberto Roberti, e del Fronte Universitario di Azione Nazionale (FUAN) che con le liste di “Caravella” ottiene notevoli successi nelle università del centro-sud.
4 - Alle elezioni del 2 giugno 1946 si era presentata, su scala nazionale, una sola lista dichiaratamente monarchica, il Blocco nazionale della Libertà (BNL), costituito prevalentemente dalle forze del partito democratico italiano, costituito a Roma l'indomani
dell’arrivo degli alleati (4 giugno 1944) da Enzo Selvaggi e Roberto Lucifero, raccogliendo gruppi monarchici che avevano preso parte all’azione clandestina antitedesca. Il partito, specie attraverso un vivace quotidiano “Italia Nuova”, si era posto come punto di riferimento dei militanti monarchici, collocati su posizioni antifasciste, anche se non mancherà una forte accentuazione della polemica contro partiti e governi del CLN. È un partito conservatore di destra, che non rifiuta la responsabilità di tale collocazione, e che fonda la propria azione sulla difesa di una linea monarchica liberale, del cattolicesimo tradi-
zionale e delle posizioni proprietarie in politica economico-sociale. La dichiarazione con la quale la Corte di Cassazione il 18 giugno 1946 dà atto che la maggioranza dei voti validi espressi si è pronunciata per la Repubblica chiude una contestazione giuridica che aveva visto in prima fila E. Selvaggi. Il successo elettorale del-
l'Uomo Qualunque e l'attestazione del PLI su posizioni di destra apre la crisi del PDI, i cui aderenti finiranno per confluire parte dapprima nel Fronte qualunquista e parte direttamente nel PLI: l’elezione di Lucifero a segretario di questo partito sancisce una nuova dislocazione di forze. Il rilevante numero di voti conseguiti dalla Monarchia, specie nel Sud, rende le forze monarchiche consapevoli del ruolo che possono ancora esercitare nel Paese, e se l'Unione Monarchica Italiana (UMI) si caratterizza come associazione che raggruppa tutti i fautori della monarchia indipendentemente dai partiti di appartenenza (in essa sono presenti molti d.c. e parecchi liberali) il Partito nazionale monarchico (PNM)) - costituito proprio nel luglio 1946 - vuol essere non “il partito del re” ma il partito che fa della “restaurazione monarchica” il presupposto dell’azione politica, a prescindere dall’art. 139 della Costituzione che sancirà l’irrevisionabilità della forma istituzionale. Alla rivendicazione della “tradizione monarchica nazionale” si accompagna la contestazione dei risultati del referendum del 2 giugno, accettati sul piano politico di fatto ma non sul piano giuridico dalla Corona. Il primo successo elettorale conseguito nelle elezioni amministrative di Napoli nel-
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l'autunno ‘46 che consentiva di dare alla città partenopea un sindaco monarchico,
rafforzava la capacità organizzativa e propagandistica del partito guidato da Alfredo Covelli, proveniente dalla concentrazione democratico-liberale di Bergamini (v. / liberal).
Nelle elezioni politiche il 18 aprile 1948 il partito si presentava con il simbolo “Stella e Corona” e conseguiva 800 mila voti (2,8%). Sin dal I Congresso nazionale (Roma, 18-
20 dicembre ‘49) il partito afferma l’esigenza di una “pacificazione totale” e chiede l’abrogazione di tutte le leggi eccezionali, aprendo con ciò le sue porte a tutti coloro che nel passato hanno operato pro o contro il fascismo, prima o dopo il 25 luglio. Tuttavia il PNM
rivendica gli interventi del re nelle scelte del 25 luglio e dell’8 settembre; chie-
de inoltre il referendum sulla Costituzione e la revisione del trattato di pace.
5 - In questi anni il partito monarchico diviene nel Sud il principale punto di riferimento della destra, avendo perso prestigio i vecchi notabili liberali, ed avendo compiuto
la D.C. una scelta centrista, che in particolare significa separazione dagli interessi dei gran-
di proprietari agrari. Ma adesso il PNM può dare vita anche grazie ai mezzi messi a disposizione da A. Lauro, ad una sua organizzazione capillare - particolarmente forte nel Mezzogiorno - con quotidiani, sedi, altri mezzi di pressione e di influenza. Al partito affluiscono, nelle città meridionali, larghe aliquote della borghesia e del sottoproletariato.
Le condizioni miserevoli del Sud diventano la base per una propaganda che non esita a far ricorso a motivi ora demagogici ora paternalistici ora di spicciola, ma estesa, corruzione elettorale, facendo propri un costume di antica origine, ora divenuto - con il suffragio universale maschile e femminile - fenomeno allargato. AI PNM guardano con favore non solo gli interessi agrari lesi dalla legge stralcio di riforma agraria ma anche i piccoli interessi proprietari della terra e della casa che temono di essere sacrificati. Si determina così in tutta l’Italia Meridionale una ampia area di forza elettorale che - come riveleranno i risultati delle amministrative tra il 1949 ed il 1952 - ha la roccaforte in Napoli con Lauro ed in alcune zone delle Puglie; il PNM si avvale
inoltre del contributo di personalità largamente stimate come R. Paolucci, noto chirur-
go e medaglia d’oro, l'ambasciatore Cantalupo. Intanto la propaganda del MSI rivendica più apertamente i motivi di continuità con il fascismo e con l'adesione del Comandante J. V. Borghese e dell’ambasciatore Anfuso tenterà di dare ai comportamenti passati una giustificazione storica, addossando tra l’altro ai “partiti democratici” la responsabilità per la non risolta questione triestina. Il governo avverte la pericolosità del diffondersi di considerazioni che contestano i valori storici che sono alla base del nuovo Stato democratico, ed interviene con iniziative del Ministro dell'Interno Scelba che dopo la sospensione di ogni manifestazione pubblica del M.S.I. e la denuncia all’A.G. per ricostituzione del partito fascista non consente - per ragioni di ordine pubblico - l'effettuazione del III Congresso del M.S.I. (nei cui confronti vengono avanzate da varie parti richieste di scioglimento) e propone un'apposita legge che, in applicazione della norma XII finale della Costituzione, vieta la ricostituzione
del partito fascista sotto qualsiasi forma e denominazione e colpisce anche l'esaltazione di principî e metodi fascisti. Dopo l’approvazione parlamentare della legge, viene consentito - assente dall'Italia per motivi di salute il Ministro Scelba - l'effettuazione del Congresso (L'Aquila, 26-28
luglio 1952) che riconferma le posizioni “corporative” del partito, “l’antitesi ideale e storica al comunismo”, elegge Borghese presidente e registra dissensi sulla questione delle 165
alleanze elettorali con il PNM che si erano realizzate in Campania ed in Puglia nelle elezioni amministrative. Sia il M.S.I. che il PNM si oppongono alla legge elettorale maggioritaria (v. D.C.) e danno un rilevante contributo al mancato scatto del “premio” conseguendo rispettivamente alla Camera il 5,9% dei voti (29 deputati) ed il 6,9 per cento (40 seggi). Per il PNM è il momento della più alta fortuna elettorale. De Gasperi, posto in difficoltà dai risultati elettorali, momentaneamente abbandonato dal PSDI, vede con favore un accostamento parlamentare tra D.C. e monarchici, come risulta dalle dichiarazioni che fa nella presentazione del suo ultimo Ministero, ma il PNM - convinto di po-
ter condizionare in maniera più decisa la D.C. -rifiuta l'approccio e vota contro il governo, perdendo l’occasione di inserirsi nella maggioranza. Si vanno intanto sviluppando dissensi all’interno del PNM come si rivelerà - dopo l’esperienza Pella vista con favore dal partito - in occasione del voto nel I Ministero Fanfani, nei cui confronti Covelli non avrebbe rifiutato il consenso, non concesso invece dagli organi direttivi del partito. La ricostituzione della coalizione centrista nel febbraio rappresenta la conclusione di un ciclo interlocutorio: la pressione da destra è stata usata nei confronti della dirigenza d.c. per indurla a non andare oltre certi limiti. E se il partito torna all'opposizione; al suo interno si acuiranno i contrasti che sfoceranno nel 1954 nella scissione tra PNM (sempre guidato da Covelli) e Partito Monarchico Popolare, promosso da Achille Lauro. La nuo-
va formazione in effetti mira a non chiudersi in un'opposizione pregiudiziale, anche in relazione ai rapporti che il comandante Lauro deve necessariamente avere, per lo sviluppo della sua attività di armatore, col governo. Ma proprio a Napoli, dove il partito di Lau-
ro ha un largo seguito popolare, l'’amministrazione comunale monarchica sarà soggetta ad un attento controllo da parte del governo, che poi procederà al suo scioglimento.
6 - Nel M.S.I. il IV Congresso (Viareggio, 9-11 gennaio 1954) rivela, oltre alla corrente di maggioranza (De Marsanich, Almirante, Michelini) una corrente di destra (Romualdi) ed una sinistra che si richiama espressamente alla Repubblica Sociale (Massi, Spampanato, Valenzise). La rinuncia di Borghese alla presidenza porta alla elezione di De Marsanich mentre la segreteria viene assunta da Michelini, considerato più “possibilista”
di Almirante. Contrari ai governi Scelba e Segni, PNM e M.S.I. concordano nel 1955 un patto di “opposizione nazionale” che non trova però il consenso di Almirante il qua-
le nel quotidiano “Il Secolo d’Italia” chiede il ritorno ai 18 punti della Carta del PFR e che nel V Congresso (Milano, 24-26 novembre 1955) si pone a capo di una forte corrente di sinistra, che ottiene nel C.C. 311 voti contro i 320 della maggioranza di Michelini, appoggiato da Romualdi. Viene approvata una mozione che, contro lo Stato “sor-
to dalla sconfitta”, auspica uno “Stato nazionale del Lavoro” nel “solco del filone mussoliniano”.
7 - L'appoggio dei monarchici e del M.S.I. al governo Zoli contribuisce a rendere più influente la posizione di questi partiti: anche se il presidente del Consiglio respinge i voti del M.S.I., questi in effetti risultano determinanti per il governo. Il M.S.I. applica
una politica di “inserimento” anche se sgradito. La restituzione della salma di Mussolini, tenuta da lungo tempo nascosta, rappresenta per il M.S.I. motivo di soddisfazione, ed indica la volontà della D.C. di captare benevolenza da quei settori. L'opposizione di Almirante impedisce a Michelini di portare avanti un progetto di “grande destra” - a cui comunque il PLI è nettamente contrario - e l'alleanza con il PNM. 166
Nelle elezioni del 25 maggio 1958 si ha un arretramento dei partiti di destra e di estrema destra (PMP 2,6% 24 seggi, PNM 2,2% 11 seggi, M.S.I. 4,8% 24 seggi). Contrari all'esperimento DC-PSDI (II governo Fanfani), i tre partiti voteranno invece a favore (gennaio 1959) del monocolore Segni: il presidente del Consiglio dichiara di accettare essendo sufficiente la maggioranza DC-PLI - monarchici, ed infatti l’anno successivo si dimetterà quando, perduta la fiducia dei liberali, risulterebbero invece de-
terminanti i voti del M.S.I.. È tuttavia significativa l’emanazione nell’aprile 1959 da parte della maggioranza parlamentare di un'amnistia di cui usufruiscono gli ex-combattenti della R.S.I.. Tuttavia sia M.S.I. che monarchici conducono in porto con successo un abile inserimento: nel governo regionale siciliano, dove non solo appoggiano - insieme ai comunisti - la prima Giunta Milazzo, ma vi entrano direttamente; successivamente sarà
il M.S.I. a confluire in una alleanza con D.C. e P.L.I. contro Milazzo, qualificatosi dopo il rinnovo delle elezioni regionali in senso favorevole ad un accordo con le sinistre. Complicati giochi locali, contrasti interni, cambiamenti improvvisi di atteggiamento da parte di deputati regionali monarchici e missini, si concludono infine con la costituzione di
un governo di centro-destra (DC-PLI-MSI-monarchici).
Sul piano nazionale invece i rapporti DC-MSI diventano più tesi con la segreteria Moro che tiene a rivendicare il carattere “antifascista” della D.C.. La formazione del ministero Tambroni spinge tuttavia il M.S.I. a tentare di nuovo la manovra dell’inserimento questa volta senza il parallelo appoggio dei monarchici; le complesse vicende parlamentari (v. D.C.) che portano alla conferma di Tambroni rafforzano il M.S.I. nella convinzione di poter giocare un ruolo determinante. Si spiega così come il suo VI Congresso, preannunciato a Genova per il 2 luglio 1960, si presenti come una dimostrazione di forza. Michelini vorrebbe approfittarne per sottolineare il contributo del M.S.I. alla vita politica del Paese, ma proprio la consapevolezza del significato che assumerebbe un congresso “trionfalistico” di un movimento che si richiama al fascismo spinge le masse popolari genovesi ad iniziative spontanee di opposizione, con una carica di impegno che va ben al di là di quello che gli stessi comunisti potevano supporre. I gravi incidenti tra forza pub-
blica e dimostranti inducono il governo a chiedere al M.S.I. di spostare la manifestazione a Nervi, ma ormai è troppo tardi. Il M.S.I. rifiuta mentre le proteste contro il comportamento del governo si estendono a tutto il Paese. Le proteste di Roma e di Reggio Emilia, con la partecipazione non solo di esponenti dei partiti di sinistra, ma anche di centro e della stessa D.C. creano una situazione di estrema difficoltà al governo malgrado il ritiro dell'appoggio - positivamente valutato dal ministro dell'Interno Spataro, di
sicura fede antifascista - del M.S.I.. Rinverdiscono tensioni e contrapposizioni mai sopite. La soluzione delle “convergenze parallele”, escogitata da Moro ed attuata da Fanfani, segna una netta cesura tra il periodo - iniziato nel 1958 - in cui la D.C. non ha esclu-
so l’appoggiodel M.S.I. e l’epoca successiva, caratterizzata da un'impronta “antifascista” del partito di maggioranza relativa. Il successo del M.S.I. nelle amministrative del 1960 induce Michelini a proseguire nella politica di netta ostilità alla D.C. ed alla politica di centro-sinistra verso la quale Moro sta conducendo il suo partito. 8 - Nel frattempo PNM e PMP avevano deciso di ricostituirsi ad unità sotto la de-
nominazione di Partito democratico italiano, che, dopo un lungo periodo di rodaggio,
si riunirà a Congresso (Roma, 4-7 marzo 1961). Emerge una linea Covelli (segretario del
167
partito) - Lauro (presidente del consiglio nazionale) che cerca di offrire alla D.C. la ba-
se parlamentare per una maggioranza di centro-destra con il PLI e senza il M.S.I.. Non mancano gruppi favorevoli al centro-sinistra (Foschini, il quale successivamente si dimetterà dal partito). In previsione della definitiva svolta della D.C. a favore del centrosinistra che infatti avverrà nel congresso di Napoli del gennaio 1962 (v. D.C.) MSI e PDIUM (è la nuova denominazione del partito monarchico) cercano di accordarsi per
la costituzione di una “grande destra” e polemizzano duramente con il PLI che rifiuta la proposta e che, a loro avviso, favorisce con tale atteggiamento il disegno della D.C. di aprire a sinistra. Intanto il governo ha nuovamente proceduto allo scioglimento dell’Amministrazione Comunale di Napoli, sindaco Lauro. Dopo la formazione nel ‘62 del
governo Fanfani di centro-sinistra l'opposizione dei due partiti diverrà più dura e si esplicherà in particolare nell’ostruzionismo parlamentare alle leggi per la nazionalizzazione del-
l'industria elettrica per l'istituzione della Regione speciale Friuli Venezia-Giulia. Risultate vane nuove profferte di coalizione verso il PLI i due partiti - i cui voti sono stati determinanti per la elezione di Segni a Presidente della Repubblica - si avviano alle elezioni del 1963, che se segnano un'affermazione del M.S.I. (5,1% dei voti e 8 seggi) registrano un declino monarchico (1,7% e 8 seggi). Il M.S.I. nel VII Congresso (Roma, 2-4 agosto 1963) vedeva affiorare una vivace critica alla politica di “inserimento” tentata da Michelini ed Almirante riprendeva la guida
di una forte opposizione. I contrasti verranno appianati nell’aprile 1964, quando ormai tutto il partito è impegnato contro il centro-sinistra, ed in particolare contro i provvedimenti per l'attuazione delle Regioni a statuto ordinario. L'VIII Congresso (Pescara, 12-
14 giugno 1965) vede le confluenze tra i gruppi Michelini (riconfermato nella segreteria, dopo le dimissioni) ed Almirante. I parlamentari del M.S.I. e del PDIUM non man-
cano - durante le elezioni del presidente della Repubblica nel dicembre 1964 - di far convergere i propri suffragi in alcune votazioni sul candidato ufficiale della D.C. (Leone),
quando questo si presenta come antagonista dei candidati di sinistra.
9 - Il PDIUM (la cui presidenza viene assunta dal prof. Condorelli) propone di confluire nel PLI, ma anche la nuova profferta viene respinta, così come successivamente decade il progetto di un “fronte nazionale” patrocinato dal quotidiano “Roma”, malgrado
gli sforzi di Michelini e di Covelli (se ne parlerà in particolare nel Congresso romano del PDIUM nel febbraio 1967). Entrambi i partiti sono alle prese con dissidenze interne ed
esterne. Alla segreteria Michelini si rimprovera di non pronunciarsi esplicitamente per la continuità con la RSI (dimissioni dell’ex Ministro A° Tarchi). AI PDIUM si contrappo-
ne un Partito Monarchico Nazionale, guidato da Benedettini, che afferma - specie di fronte ad alcuni atteggiamenti dei figli di Umberto di Savoia - di essere per l’Istituto Monarchico e non per la dinastia Savoia. Nelle elezioni del 1968 il PDIUM (nelle cui liste si presenta anche il gen. De Lo-
renzo al quale verranno attribuite - e se ne occuperà una inchiesta parlamentare - discutibili interpretazioni di compiti istituzionali, anzi deviazioni secondo la minoranza della commissione) registra un'ulteriore flessione (1,4% dei voti). Anche il M.S.I. registra
un arretramento ma conserva posizioni parlamentari consistenti (ottiene il 4, 5% dei vo-
ti). Di fronte alla contestazione studentesca i gruppi giovanili del M.S.I. cercano di riacquistare spazio, presentandosi come decisi oppositori dell’estremismo di sinistra. Non mancano però episodi singolari. In questo periodo si registrano confuse infiltrazioni di 168
elementi, più o meno provocatori, in gruppuscoli delle opposte estreme, protagonisti di gravi episodi di violenza. A parecchi di essi non sono estranei elementi del M.S.I. mentre d'altronde la violenza è usata contro giovani del M.S.I. e di altre formazioni. Si susseguono infatti scontri - anche sanguinosi - tra giovani di estrema destra e di estrema sinistra. Il M.S.I. comunque respinge la responsabilità dei comportamenti e delle iniziative dei gruppi estremisti, come Ordine Nuovo: il suo leader P. Rauti - incriminato e poi assolto per attentati terroristici - si presenterà tuttavia nelle liste del M.S.I. nel 1972. A
proposito di episodi di confusione e provocazione si può citare il caso emblematico di Valle Giulia a Roma nel ‘69 quando al lancio di oggetti e di armi improprie contro la
forza pubblica partecipa il gruppo “Lotta di popolo”, contraddistinto da un linguaggio apparentemente “rivoluzionario”, insieme ad ascendenze e finalità di estrema destra, e che
si vanterà anzi di aver trascinato all’assalto (dichiarazione che va confrontata con l’intuizione critica di Pasolini a favore dei poliziotti). Mentre i deputati monarchici avevano preso alla Camera nel ‘68 posizione in favore del divorzio, il M.S.I. (malgrado alcuni contrasti interni) tende ad ergersi come deci-
so oppositore dell’istituto, nella speranza di fare così leva a proprio favore sul sentimento cattolico della larga maggioranza degli italiani. Durante la discussione parlamentare sul progetto Baslini-Fortuna anche il PDIUM assumerà un atteggiamento di opposizione. 10 - Alla morte di Michelini, viene eletto segretario del partito Almirante mentre
Tripodi assume la direzione de “Il Secolo d’Italia”. Le elezioni regionali del 7 giugno ‘70 segnano un rafforzamento del M.S.I. che ottiene il 5,2% dei voti validi, con un incremento rispetto al ‘68 non solo nel centro-sud ma anche in alcuni centri dell’Italia set-
tentrionale. Il PDIUM segna invece un'ulteriore flessione. La politica di centro-sinistra viene criticata dal M.S.I. e PDIUM per le sue implicazioni politiche ed economiche e indicata all'elettorato di destra come “porta aperta ver-
so il comunismo”. In particolare i due partiti svolgono nelle campagne un'azione propagandistica contro la legge sui fitti rustici, che suscita preoccupazioni nei piccoli proprietari. I due partiti - e specie il più solido - tendono a presentarsi come “garanti” contro ulteriori aperture verso sinistra. Si spiega pertanto come, facendo leva sulle mutazioni sociali in corso e sui non chiari atteggiamenti dei partiti della maggioranza parlamentare, il M.S.I. riesca a far breccia in settori politici di destra non collegati all'esperienza fascista. Anche le preoccupazioni per l’affiorare di pericoli per l'ordine pubblico e l'aumento della criminalità vengono utilizzate dal M.S.I., il quale tuttavia non esita, come nel caso di Reggio Calabria, di porsi alla guida di azioni violente di eversione contro l'ordine costituito, sfruttando un malcontento reale. L’aver indirizzato sia polizia che magistratura
le ricerche per gli attentati terroristici verso piste dell’estremismo di sinistra sembrano dare argomenti al M.S.I. ma successive rivelazioni - sulle quali allo stato attuale non anco-
ra si è giunti a definitive pronunce dell’autorità giudiziaria - faranno ribaltare tali posizioni, e nel 1974 il Ministro dell'Interno Taviani affermerà - con un giudizio che gli sarà contestato da destra ed anche da settori del centro - che in effetti non vi sono “opposti estremismi” ma vi è solo il pericolo della violenza nera” (come provano le stragi di Bre-
scia e del treno “Italicus”). Il M.S.I. dissocierà la propria responsabilità da quella del “Fronte nazionale” di V. Borghese, accusato di aver promosso un colpo di forza, rientra-
to precipitosamente nel dicembre 1970. Nel frattempo il M.S.I. al suo IX Congresso (Ro169
ma, 20-23 novembre 1970) propone un'alleanza di destra: accoglie nelle sue file il gen. De Lorenzo ed ottiene un notevole successo nelle elezioni amministrative del 1971.
Nelle elezioni per il Presidente della Repubblica, sia M.S.I. che PDIUM votano per Leone, risultando determinanti. Lo scioglimento anticipato delle Camere viene visto con favore dai due partiti che decidono di presentare una lista comune “MSI-Destra Nazionale”, nella quale confluiscono anche l'ammiraglio Birindelli ed il prof. Plebe sino allora noto come intellettuale marxista. All’ultimo Congresso del PDIUM che si tiene a Ro-
ma nel febbraio 1972 viene approvato il patto d’unità d’azione, mentre un gruppo prende psizione contro la confluenza nel M.S.I.. Le elezioni del ‘72 vedono la lista conseguire alla Camera l’8,7% e al Senato il 9,2% con un incremento complessivo rispetto ai due
partiti separati nel 1968, di circa il tre per cento. I deputati sono 56 (26 in più) ed i senatori 26 (13 in più). Nel luglio 1972 il Consiglio nazionale del PDIUM decide l'unificazione con il M.S.I., ratificato dal Comitato centrale di questo Partito; nasce così il “MSI-Destra nazionale” con Almirante segretario e Covelli co-segretario. La richiesta di autorizzazione a procedere contro Almirante per “ricostituzione del partito fascista” in base alla legge Scel-
ba, predisposta dal procuratore della repubblica Bianchi d’Espinosa, viene accolta con soddisfazione da vasti settori. I gruppi extraparlamentari rimproverano ai partiti di maggioranza o allo stesso PCI di non portare avanti il procedimento (l’autorizzazione a procedere viene comunque concessa nel 1973) e chiedono lo scioglimento del M.S.I., il quale attraverso il “Fronte della gioventù” cerca di riprendere l’iniziativa nel settore giovanile.
11 - In questa fase avvengono una serie di fatti che non chiamano in causa direttamente il MSI ma che coinvolgono l’area politica di estrema destra e settori in parte contigui, e per questo motivo ne riferiamo nel presente capitolo, anche se va precisato che
proprio in relazione a tali eventi il MSI terrà a distinguersi nettamente dalle responsabi-
lità proprie di persone o gruppi che scelgono una linea politica diversa. Nei primi mesi del ‘68 J.V. Borghese (che si era distinto nella guerra 1940-43 com-
battuta dall'Italia contro anglo-americani e sovietici quale comandante di sommergibili per audaci azioni belliche, ammirate anche da quanti ne furono vittime, e che dopo l°8
settembre aveva guidato formazioni della RSI impiegate sia contro gli americani al fron-
te di Anzio sia contro reparti partigiani italiani) già uscito dalla MSI aveva costituito il Fronte Nazionale, finanziato da alcuni costruttori (come risulterà da inchieste giudizia-
rie, e ad esse ci richiamiamo per quanto contenuto in queste pagine, in particolare alle sentenze passate in giudicato ed agli interventi dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato nei procedimenti penali relativi a fatti eversivi o terroristici dal ‘69 all’82), e presto attivo in varie sedi, specie in Italia settentrionale. Sarà questa organizzazione ad avere un
ruolo nel tentativo di occupare, il 7 dicembre ‘70, la sede del ministero dell'Interno, un’o-
perazione mai del tutto chiarita né nelle finalità né nei modi di svolgimento ma che comunque vide reparti armati “irregolari” penetrare nel palazzo del Viminale, impossessarsi di armi lì depositate, mentre altri reparti (guardie forestali) erano in locali non lontani per entrare in azione (i protagonisti della singolare vicenda dichiareranno che si trattava di una “esercitazione”). È risultato successivamente che l’azione non ha avuto seguito per
un “contrordine” pervenuto ad esponenti politici che “attendevano” in altro luogo. In ta170
le iniziativa appunto erano coinvolti Borghese ed il suo fronte: alcuni individui attivi in tale circostanza si ritroveranno in varie vicende legate ad attentati. In quello stesso periodo il gruppo d’estrema destra Avanguardia Nazionale aveva fatto proseliti ed aveva avuto contatti con organi di polizia. Non si dimentichi che già dal ‘66, in un convegno al “Parco dei Principi” a Roma finanziato da un reparto del Servizio Informazioni Difesa (il cui responsabile, colonnello Rocca, sarà negli anni successivi
trovato morto nel suo ufficio con molte incertezze sulla causa del decesso), era stata teo-
rizzata la contro-guerriglia per impedire che il “comunismo” andasse al potere, ed “impedirlo” anche con “violenza” e con l’uso di mezzi “spregiudicati”: alcuni degli oratori già strettamente-legati a gruppuscoli d’estrema destra - entreranno a far parte di organismi dei servizi segreti. In AN (che sarà sciolta nel 1975 dal ministro dell’interno Taviani) si troveranno, anche in seguito, ambigui personaggi presenti al convegno e con un ruolo nelle iniziative
che ne deriveranno. A Padova inoltre nei primi mesi del ‘69 avranno luogo una serie di attentati a sedi giudiziarie ed universitarie: per 17 su 21 di essi emergerà, con sentenze passate in giudi-
cato, la responsabilità di elementi appartenenti a gruppetti di estrema destra. Ed è singolare che sin d'allora abbiano un ruolo in questa attività eversiva personaggi successivamente inquisiti (anche se non colpiti da sentenze definitive) per i fatti di Piazza Fontana a Milano nel ‘69 e persino per il devastante attentato alla stazione di Bologna dell’80 (in questo caso con riconoscimento di responsabilità personali). L'obiettivo di queste manovre era la preparazione di attentati (non necessariamente con esiti sanguinosi, essendo risultati in più casi che dovevano avere un carattere preva-
lentemente dimostrativo con esplosioni in ore nelle quali non era prevista la presenza di persone nei luoghi oggetto di attentato) rivolte a creare un clima di tensione, diffondendo
paura e terrore, e cercando di attribuire le responsabilità a gruppi d’estrema sinistra onde suscitare una reazione di larghi settori del paese e soprattutto un'iniziativa dei corpi militari contro l'ordinamento democratico. Proprio nel citato convegno si fece notare appunto che le “vie democratiche” erano pericolose perché attraverso di esse i comunisti avrebbero potuto conquistare il potere. Infine non si può trascurare che altri gruppi si daranno prospettive analoghe, anche qualche volta con tentativi di impostazione culturale (es. come Terza posizione). Inoltre è risultato come in riferimento alle operazioni indicate siano comparsi per la prima volta in note informative dei servizi segreti - non sempre prodotti agli organi inquirenti - in seguito al centro di delicate questioni giudiziarie e di dibattito politico, il nome di Gelli e di altri appartenenti alla P2 (la Loggia sarà definita contraria alle istituzioni dello Stato da una commissione parlamentare di inchiesta, presieduta dalla Senatrice Tina Anselmi mentre i suoi esponenti, compreso Gelli, saranno assolti, nell’aprile ‘94 dalla Corte d’As-
siste di Roma, dall’imputazione di “cospirazione politica” non essendosi riscontrata nella loro attività di raccolta di informazioni - per le quali vengono tuttavia condannati - gli estremi previsti nella fattispecie legale per configurare detto reato).
L’attentato di Peteano del ‘74 nel quale persero la vita tre carabinieri costituirà la prova-simbolo (accertata con tutti i crismi dell’ufficialità) di un'azione eversiva ideata ed ese-
guita da componenti di corpi dello Stato mentre le operazioni di depistaggio per alcune tra le “prove” terroristiche più devastanti confermano la presenza negli apparati chiamati a prevenire e reprimere azioni contro la Repubblica di persone che hanno operato coIA!
scientemente contro le istituzioni. Sono pagine sanguinose non sufficientemente conosciute (anche perché in molti casi il governo ha frapposto il “segreto di Stato”) e che chiamano in causa i responsabili dei servizi di sicurezza. Non è un caso che il ministro più attivo per la difesa dell'ordinamento democratico, Taviani, - il quale tra l’altro ha disposto i decreti di scioglimento di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo - sia stato spostato dal suo incarico e sia stato anche oggetto di attacchi per aver richiamato, in ogni sede i pericoli rappresentati dall’estremismo di destra, accanto a quello costituito dalle forme illegali ascritte all’estremismo di sinistra, sul quale tuttavia rinviamo alle nostre os-
servazioni sull’ambivalenza di talune di queste formazioni (v. Al//'estrema sinistra).
12- Il X Congresso (Roma, 18-21 gennaio 1973) vede la sanzione statutaria del nuo-
vo assetto del partito “MSI-Destra nazionale” che propone la realizzazione dello “Stato nazionale del lavoro” mediante “l’alternativa corporativa”. Il partito prende le distanze anche dal gruppo extraparlamentare di ultra-destra “Avanguardia nazionale” e dichiara
di non essere contrario al suo scioglimento, ma chiede che analoga misura sia presa nei confronti degli extra-parlamentari di sinistra. La responsabilità di esponenti del M.S.I. nelle manifestazioni che provocano a Milano nell’aprile 1973 la morte di un appuntato di P.S. suscita vivaci polemiche; la Camera concederà l'autorizzazione a procedere, anche in riferimento ai fatti di Reggio, nei confronti di due deputati del M.S.I.. Come già negli anni precedenti militanti di estrema destra faranno ricorso in più occasioni alla violenza nelle scuole, ed in altri ambienti giovanili, in altri casi saranno invece oggetto di aggressioni. La stampa di sinistra sostiene che talvolta essi trovano compiacenza negli stessi apparati dello Stato per quel concetto di “ordine” inculcato negli ap-
partenenti ai corpi preposti alla sicurezza - e non solo tra essi -, secondo cui appunto l’ordine dovrebbe basarsi più sull’uso della forza - anche contro coloro che legittimamente sollevano proteste e rivendicazioni - che sul consenso dei cittadini. In questa cornice si spiegano da un lato i casi di dirottamento di indagini giudiziarie per gravi reati verso piste di sinistra mentre le matrici sono di segno opposto (con collegamenti internazionali sempre più evidenti - v. D.C.) e come risulterà anche da successivi accertamenti, dall’altro lo stato di tensione esistente nelle scuole, tensione peraltro alla quale contribuiscono, assieme a provocatori, gruppi di estrema sinistra che fanno uso sistematico della violenza, benché gruppi democratici non manchino di effettuare opera di chiarificazione. Si assiste ad una “ghettizzazione” dei giovani del M.S.I., ai quali non si possono far risalire quelle violenze, spesso ad essi addebitate, mentre ne erano le vittime (come si è con-
statato in episodi tragici, in particolare a Primavalle a Roma). Questi fatti determinano anzi la persuasione in molti ragazzi e genitori che la difesa delle libertà e dell’ordine nelle scuole e fuori vada compiuta nei confronti dell’estremismo di sinistra (e di tutto ciò si avvantaggiano le forze interessate a non modificare nulla in una epoca pure caratterizzata da forti spinte al rinnovamento sociale, politico e di costume).
Gli anni ‘70 consentono, malgrado lo spostamento verso sinistra dello schieramento politico o meglio proprio per reazione a tale tendenza, al M.S.I. di superare una fase negativa assicurandosi un assestamento stabile. Giocando con destrezza le sue carte, da
quella del vittimismo politico al rilancio di una Destra non più “fascista”, ma foriera di ritorno a valori tradizionali, cerca di conquistare sostenitori in più vasti ambienti conservatori. Così con la Costituente di Destra, “libera assemblea”, “coagulo dell’opposizione
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al comunismo”, fondata nel ‘75 ma iniziata già dal ‘71 come programma d’incontro con gli elettori, si guadagna simpatie in strati sociali diversi, dall’alta borghesia delle professioni ai militari e a molti dipendenti statali, nonché a sacerdoti, ceti di cui incanala lo scontento ed il desiderio di attività, in una polemica fondamentalmente anti-comunista, che non manca di occhieggiare a situazioni analoghe riferite agli Stati Uniti. Il maggior
rischio di intaccare la propria solidità corso dal MSI-DN proviene dalle sue stesse file, ad opera della corrente “Democrazia Nazionale” negli anni ‘76-77, che punta a liberarsi da una impostazione troppo rigida, sino a proporre l’autoscioglimento del MSI-DN e
la confluenza nella Costituente di Destra. L’Esecutivo del partito non accetta e i dissidenti, espressione di una parte del vertice del partito, decidono di formare un gruppo autonomo, con segretario Ernesto De Marzio. Applicando lo Statuto, il MSI-DN dichia-
ra la decadenza dei secessionisti, si considera “liberato dalla zavorra”, e dichiara di proseguire la battaglia per il “rinnovamento istituzionale e sociale del Paese”, guardando al traguardo delle elezioni europee del ‘79, nel quadro dell’Eurodestra. Nel ‘77 XI Congresso sancisce la fine delle correnti e decide di eleggere direttamente il segretario nazionale ed il presidente. Vengono confermati segretario, a larghissima maggioranza, Almi-
rante, e presidente Romualdi. Il partito dovrà ricorrere all’autofinanziamento, a seguito della riduzione dei fondi statali, trasferiti in parte ai secessionisti. Il MSI-DN, dai dati dell’83, risulta godere di un finanziamento pubblico di 4 miliardi; gli eletti del partito,
dai circoscrizionali ai parlamentari, versano il 10% del loro stipendio. Ha, in linea di massima 350 mila iscritti con punti di 420 mila, negli anni congressuali, tutti paganti. Le sezioni funzionanti in tutta Italia sono 3 mila e 600. A metà degli anni ‘80 avrà 29 consiglieri regionali, 158 provinciali e 1481 comunali con 26 sindaci. Alle elezioni del 79, Democrazia Nazionale - che nel marzo ‘78 aveva dato il voto al governo Andreotti - subisce una cocente sconfitta non riuscendo a far eleggere neppure un deputato; ha però determinato un arretramento del MSI che scende al 5,3% dei voti per risalire, nelle elezioni dell’83 al 6,8% quando la D.C., con la segreteria De Mita, dà a certe categorie, co-
me imprenditori nonché piccoli e medi proprietari, l'impressione di spostarsi a sinistra e quindi il MSI può recuperare parecchi voti. 13 - Per assicurare la massima trasparenza viene approvata l'istituzione di un’anagrafe politica e patrimoniale dei membri del partito con incarichi pubblici. Frattanto procede la ricerca dell’obiettivo internazionale dell’Eurodestra “politica dell’aggregazione di tutte le forze anticomuniste europee che operano nella libertà”: è l'unione ufficiale del MSI-
DN con la destra europea; in un primo tempo aderiscono il francese Parti des Forces Nouvelles - e in Spagna - Fuerza Nueva -, nel ‘79 aderirà un gruppo inglese. Il MSI-DN si è assicurato una posizione di rilievo in quella Destra internazionale che le elezioni europee indicano quali forze da non sottovalutare. Il successo estero offre una base di maggior accreditamento in Italia, soprattutto nei confronti di Almirante, rieletto a maggio-
ranza segretario; viene lanciato a Napoli nel ‘79 un nuovo programma, imperniato sulla repubblica presidenziale da opporre al “sistema della repubblica dei partiti”, “il flagello che distrugge ogni cosa”.
Si può osservare negli statuti del partito una rigida regolamentazione per lo svolgimento di ogni manifestazione e per ogni settore di attività. I quadri dirigenti del movimento sono persone che hanno vissuto e vivono in una condizione particolare di pulsioni ideologiche dalle quali non vogliono staccarsi. Che il MSI-DN non abbia rinno-
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vato le sue passate radici è palese dai discorsi e dagli atteggiamenti che rivendicano tra l’altro la celebrazione del centenario mussoliniano, tuttavia con una propensione a guar-
dare senza paraocchi alle tematiche dibattute contemporaneamente dalle altre forze politiche, dai problemi della donna alla ritornanti polemiche sulla revisione costituzionale e sulle riforme economico sociali, come ha osservato Lia Scarpa in uno dei più documentati e acuti saggi sull'argomento.
14 -Nella storia del MSI, non si può trascurare “Ordine Nuovo”, un movimento
postosi alla destra estrema del partito. È un gruppo a tratti interno, a tratti esterno: il MSI a volte lo tollera, in altri momenti lo espunge dal suo seno. Il suoi promotori dichiarano di essere araldi di una “rivoluzione”, con i connotati ideologici e verbali di estrema
destra, senza escludere un'attenzione culturale ai temi propri delle tradizioni popolari e di sinistra in Italia. Nasce sotto l'insegna della rivista omonima, organo intermittente di una frazione estremista del partito, sotto la guida di un esponente dal linguaggio acceso, Pino Rauti, con trascorsi giovanili nei movimenti clandestini neo-fascisti. O.N. entra in
scena nel ‘56 come Centro studi ed esce dal partito per contestare la battaglia elettorale del MSI “inutili ludi cartacei” - secondo l’espressione mussoliniana - “lontano - affermano i suoi aderenti - dalla nostra mentalità, dai nostri interessi ideali”, interessi che il Centro
pone invece non nella battaglia parlamentare bensì nel selezionare “una minoranza propensa ad un intervento radicale rinnovatore della società, per quanto drammatico possa essere”.
Di impostazione filosofica evoliana - suo profeta è Julius Evola assieme a Réné Guenon - O.N. fa sue ideologie nebulose, esoteriche. Si autodefinisce “collocato in una destra non storica, né economica”, una destra legata a tradizioni induiste e ad una concezione volontaristica della storia. A seguito della morte di Michelini, il nuovo segretario Almirante favorisce nel ‘69 il rientro nel partito del gruppo, non condiviso tuttavia da un suo nucleo che si definisce come movimento politico a sé, di netta impronta fascista, tanto da essere successiva-
mente denunciato, condannato dall’A.G. e sciolto. Altro gruppo di estrema destra è “Avanguardia nazionale”, che, dopo una presenza tra il ‘60 ed il ‘65, quando i suoi adepti si fanno notare per una serie di azioni violente a Roma ed una condanna per “apologia di fascismo”, riapparirà nel periodo della contestazione (v. par. 11) con iniziative fosche, contatti con delicati organismi statali, secondo tecniche d’infiltrazione, cospirazio-
ne e violenza che il segretario del MSI e vari organi di stampa denunciano come provocatorie. Il gruppo di Rauti ottiene nel ‘70 una decina di posti nel C.C. del MSI ed una presenza di 4 suoi esponenti nella direzione nazionale. Pino Rauti affronta una revisione dei propri orientamenti, dichiarando di rinunciare ai postulati della violenza e dell’arroccamento solitario, condivisi ormai da pochi estremisti, e pertanto afferma di aver modificato metodologia: lo ritroveremo alla guida di una corrente (rappresenta il 25% del MSI), disponibile, contrariamente all’ atteggiamento intransingente di Almirante, ad
un “confronto” con le forze dei partiti della sinistra. È un orientamento che emerge al-
l’inizio degli anni ottanta in quella “cultura di Destra” che ripudiai valori liberali mentre non esclude contatti con gli esponenti della cultura di tradizione comunista e socialista. Negli anni ‘80 viene pubblicato il quindicinale “Linea” diretto da Pino Rauti che accusa il MSI di pressapochismo ideologico, di mancanza di “volontà rivoluzionaria”. 174
La situazione complessiva del paese, la scoperta di “trame nere” che vedono coinvolti elementi di provenienza di estrema destra, inducono il MSI a distinguere le proprie po-
sizioni da atteggiamenti ed uomini che potrebbero essere accusati di “eversione”. Solo pochi elementi - sui muri dei quartieri della media e piccola borghesia a Roma ed in fogli semiclandestini - continuano a sognare una “alternativa rivoluzionaria” al sistema, dall'estrema destra. Se il “partito” rimane chiuso nelle sue ritualità, sicuro della fedeltà di quella porzione di elettorato che lo vota fideisticamente, novità significative si registrano invece nell'ambito culturale della destra e della rivendicazione ereditaria fondante del MSI e di elaborazioni concettuali risalenti comunque al fascismo storico: verrà avanti una serie di elementi nuovi che dissertano sui temi di cultura politica e filosofica. Si tenga presente che questa nuova potenzialità espressiva ha una radice nella cultura politica dell’estrema destra francese (in particolare Guenon), ma in Italia si alimenta in contrapposto a quel che
avviene nelle strade, nelle scuole ed ai margini delle fabbriche ad opera dei gruppi oltranzisti di estrema sinistra, i quali fanno dei giovani missini i loro bersagli preferiti, mentre dal canto loro gli intellettuali di estrema destra rovesciano le argomentazioni della cultura democratica partendo proprio dalla polemica sull’uso della violenza “rossa”. Il primo sintomo di questo rovesciamento si ha nell’inattesa adesione alle posizioni del MSI di un filosofo come Armando Plebe che in precedenza, con i suoi saggi, aveva attratto molti giovani. Si avranno in seguito ulteriori sviluppo di questo nuovo terreno su cui cammina la cultura di estrema destra. D'altronde già negli anni sessenta, il MSI aveva organizzato convegni culturali con la partecipazione di Gabriel Marcel, Vitilia Horia, John
Dos Passos; successivamente si registrerà la presenza di Eugene Ionesco e Giuseppe Ber-
to. Anche se non si è mai identificato con il MSI, uno studioso insigne come Enzo Giudici lascia una traccia considerevole nei suoi saggi sul tema “cultura e fascismo”, nonché nella critica radicale ai fenomeni innescati dal ‘68. Sul piano di partito - oltre alle prese di posizione già indicate - non risultano negli anni ‘70 attività particolari: in sede parlamentare continua l’opposizione netta contro tutti i governi che tra l’altro escludono il MSI dall’”arco costituzionale”. Sarà l’unico gruppo a votare contro il nuovo diritto di famiglia come contro la ratifica del trattato di Osimo, in base al quale l’Italia rinuncia definitivamente alle terre passate alla Yugoslavia dopo la guerra. I risultati elettorali registrano esiti alternanti tra diminuzione e riprese con quella sostanziale continuità, di cui abbiamo parlato, e in cui si inseriscono anche i successi nelle amministrative con un numero di voti rilevanti come ad es. nelle periferie romane nell’85. Nelle elezioni politiche dell’87 il MSI si attesta sul 5,9% dell'elettorato, posizione che raggiungerà anche nelle elezioni dell’89. Nascono nuove organizzazioni giovanili vicine ma estranee al MSI come “fare fronte” che cerca di presentarsi quale fautore di aperture sociali e convergenze con altri gruppi sui problemi che attengono direttamente la vita quotidiana, a cominciare dalla campagna contro l’uso della droga. Ma il suo tentativo di inserimento viene aspramente contestato dalle sinistre. 15 - Almirante (che verrà a mancare nell’88) ha scelto come suo successore alla segreteria il giovane emiliano Gianfranco FINI, al quale - per l'età - non si possono rivolgere le accuse generalmente rivolte contro i dirigenti del MSI: il nuovo segretario dimo-
l7ò
stra subito una sua posizione tendente a mettere in evidenza come la violenza addebita-
ta al suo filone storico in effetti è continuamente praticata dai suoi avversari e pertanto cerca di raccogliere consensi al di là dell’area tradizionale del partito. Tuttavia nei quadri
trova consensi Pino Rauti, rientrato da tempo nel partito dopo l’esperienza di “Ordine Nuovo”, che vuol portare il MSI da posizioni moderate a posizioni che si aprono verso temi e prospettive di sinistra: con un'alleanza interna riesce ad ottenere la segreteria al XVI congresso (Rimini, gennaio ‘90). Benché attiva nella ricerca di una linea di rinnovamento,
l’esperienza non si dimostrerà positiva giacché la base del partito - come dell'elettorato preferisce la linea tradizionale tanto che Fini riconquisterà la segreteria e, cogliendo tutte le opportunità derivanti dalla rivelazione di sempre nuovi casi di corruzione del “regi
me” impersonato principalmente da D.C. e PSI, riesce a raccogliere simpatie in settori che, sempre avversi al comunismo come ai suoi derivati, ritengono utile il rafforzamento di una “destra nazionale”. Merita attenzione il contenuto del dibattito ideologico proposto dagli assertori della “nuova destra” che tendono a richiamarsi a elaborazioni collegate con tematiche già frequentate dagli intellettuali vicino al fascismo e che per certi versi hanno resistito al rem-
po e sono rivelatori di ripensamenti filosofici e sociologici. Quindi vi è il richiamo da un lato ad esponenti del pensiero europeo che hanno suggerito sia prima che dopo la seconda guerra mondiale argomenti di dibattito (in particolare Spengler, Schmitt, Eliade) sia scrittori che hanno elaborato ulteriori concettualizzazioni, come De Benoist. Si sono distinti in quest'opera di ricognizione di tematiche già svolte, di riflessione e di puntualizzazione critica autori come Alfredo Cattabiani, Marco Turchi, Aldo Romuladi, che hanno
espresso un pensiero politico che può essere definito di destra radicale o di estrema, per distinguerla dalla destra liberale, e che gli interessati preferiscono appunto denominare “nuova destra”, dotata di un notevole livello qualitativo tanto che con esso si sono confrontati dialetticamente filosofi e scrittori, come Massimo Cacciari ed altri notoriamente vicini alla cultura espressa in Italia da comunisti e post-comunisti. A proposito di tutte queste elaborazioni va subito chiarito che si tratta di posizioni che si distinguono dal fascismo storico sia dal punto divista ideologico che da quello connesso con l’esperienza pratica, autoritaria e fideistica, del regime che governò per venti anni l’Italia. Piuttosto questa corrente si caratterizza per una critica all'esperienza della civiltà liberal-democratica: un “rifiuto” del mondo moderno, a causa degli elementi po-
litico-economici che lo hanno contraddistinto e proposta invece di cercare “al di là della destra e della sinistra” (come si intitola un volume che raccoglie vari contributi al riguardo) nuovi referenti culturali. Attraverso la rilettura di Nietzsche e di Heidegger si perviene a scomporre gli schemi convenzionali, allo scopo di individuare un “obiettivo comune” in grado di soddisfare i “nuovi bisogni” della società post-industriale, sollecitando di operare nel pluralismo per conseguire una “razionalizzazione” dell’organizzazione sociale, recuperando un “senso di appartenenza” ai valori della comunità nazionale. In questa cornice vanno considerati i “campi Hobbit” organizzati tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90, nei quali si esprimono forme di “cultura alternativa” che presenta non poche analogie esterne con tematiche dell'estrema sinistra per condurre a proposte di dibattito (e non a soluzioni politiche) attorno ai riti, ai miti in una sorta di contraddittoria combinazione tra sacralità e dissacrazione, e al “rifiuto” delle strutture e delle convenzioni della società contemporanea. Infine vanno ricordati studiosi invece inseriti nel
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filone storico cui si rifà il MSI, come Giano Accame, già direttore del “Secolo d’Italia” e rigoroso saggista, e Marcello Veneziani, direttore del settimanale “L'Italia”.
Le elezioni politiche del ‘92 vedono il MSI segnare il passo (ha il 5 ed il 6 per cento dell'elettorato): lontano dai risultati dei primi anni ‘70 - come ha annotato Luca Ten-
toni nel più organico studio su quella tornata elettorale -, ha mantenuto il suo carattere prevalentemente urbano, si è dimostrato più forte al Senato che alla Camera (indice di un suo elettorato meno giovane rispetto alla media), con una percentuale nettamente maggiore nel Centro-Sud, dando l’impressione di un elettorato in parte cambiato, con progressi in Friuli-Venezia Giulia, nelle Marche (qui ha ottenuto il più alto suffragio dal
‘48, segno di una.inclinazione dei ceti piccoli proprietari), ed infine con uno scarso uso dei voti di preferenza, sintomatica espressione di un voto di simpatia, al di là delle singole candidature. Ma ben più presto di quanto si potesse prevedere, questi aspetti avranno vistosa conferma. Nelle successive amministrative, e soprattutto in quelle del ‘93, il voto al MSI diventerà sempre più consistente, sino a conseguire le più grandi affermazioni della sua sto-
ria, quando a Roma ed a Napoli entra in ballottaggio rispettivamente con Fini ed Alessandra Mussolini: pur battuto nello scrutinio definitivo, ottiene oltre il 47 per cento nella capitale e poco meno nella città partenopea. Inoltre consegue complessivamente in tutta Italia 44 sindaci.
Quindi si può osservare come il secondo turno favorisca il MSI, ma l’evento più rilevante è, oltre all’aumentato afflusso di voti sin dal primo turno, l'evidente fatto che, posti di fronte alla scelta, tra un candidato di sinistra ed un candidato contrapposto, anche con l’inconfondibile simbolo della fiamma, una parte cospicua dell'elettorato (sin quasi alle soglie della metà) preferisce comunque il candidato missino. Dopo questo successo
Fini mette in atto la proposta di costituire l’ Alleanza Nazionale” che superi l’esperienza del MSI. La tenace battaglia condotta per assicurare il voto dei 3 milioni di italiani all’estero è sommersa dalla convergenza dei voti del PDS e della Lega. La nuova formazione registra l'adesione di intellettuali (come il prof. Fisichella), di
quadri politici provenienti da settori cattolici (come il deputato d.c. Publio Fiori, molto attivo nelle sue iniziative parlamentari) e si presenta alle elezioni politiche del ‘94 senza le ipoteche che gravavano in precedenza sulla fiamma. Nel centro-meridione concorda
le candidature con il gruppo “Forza Italia”, appena costituito da Berlusconi mentre nel Nord non rinuncia a mantenere una propria linea senza confondersi con la Lega, che si è alleata all’ex presidente della Fininvest. La linea “nazionalista” riemerge tuttavia nella
rivendicazione dei “diritti storici” degli italiani d'Istria e Dalmazia. Le posizioni di A.N. trovano nuovi consensi ben oltre quella che in passato era considerata l’ala “nostalgica” ma soprattutto in settori attivi della vita economica e del mondo giovanile. Così si spiegano i risultati ottenuti il 27 e 28 marzo: il simbolo della Fiamma, per 48 anni strettamente minoritario, combattuto ed emarginato all'opposizione, riesce, sot-
to la nuova formula e per effetto delle nuove opinioni emerse nel paese, ad ottenere alla Camera 5 milioni e 200 mila voti, il 13,5% e 105 seggi alla Camera nonché 43 seggi al Senato, contribuendo in maniera rilevante al successo del “Polo della libertà” presenta-
tosi nel Mezzogiorno prevalentemente come “Polo del buon governo” (AN + Forza Italia). Si apre una nuova fase nella vita del movimento nei cui confronti continuano ad es-
sere sollevate le obiezioni derivanti dalla eredità politica mai sconfessata, anche se il segretario Fini ha affermato che il fascismo è rimesso ormai al giudizio storico ed ha inolD77
tre reso omaggio ai martiri delle Fosse Ardeatine. Malgrado i precedenti il leader del MSI ed adesso di AN ha avuto riconoscimenti di stima da parte dei suoi avversari. Nelle elezioni degli anni ‘80 e ‘90 il Movimento Monarchico Italiano ha invitato a votare candidati di diverse liste: nel ‘94 sia di Forza Italia che di Alleanza nazionale; in Ca-
labria anche di “Rinnovamento Socialista” nella liste dei progressisti. Nel frattempo sono aumentate le richieste per consentire l’accesso in Italia degli eredi maschi dell’ex casa regnante, una decisione che avrebbe potuto assumere il Parlamento all’atto di nascita dell'Unione europea, quale prova di solidità della democrazia repubblicana.
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Capitolo IX I RADICALI
1 - Nel dicembre ‘55 apparve all’orizzonte politico italiano un partito che nella denominazione si richiamava ad una tradizione molto viva nell’Italia post-risorgimentale e che subito si sarebbe dimostrato quanto mai originale nell’impostazione e nei metodi di azione rispetto ai canoni tradizionali sino allora caratterizzanti la vita democratica della Repubblica. Si trattava del partito radicale, ma per comprenderne le origini e le motivazioni occorre risalire all'esperienza della sinistra liberale dal ‘46 in poi. Abbiamo esposto nel capitolo dedicato al PLI le alterne vicende che portarono gli esponenti della sinistra (Nicolò Carandini, Leone Cattani, Mario Pannunzio) su posizioni
sempre più critiche rispetto agli atteggiamenti assunti dal partito considerati remissivi verso la DC, tanto da pervenire ad una vera e propria svolta conservatrice. Se sino allora le
divergenze erano state riassorbite e composte, nel ‘54, con l’elezione a segretario di Malagodi, le contrapposizioni esplodevano in maniera netta e irrimediabile. Così tra il luglio ‘54 e il dicembre ‘55 si consumava il lungo e tormentato travaglio di una sinistra liberale che aveva rappresentato nel partito un anima rinnovatrice e moderna sul piano del costume come delle scelte economiche. Al VII congresso nazionale avveniva la scissione e il 10 dicembre ‘55 nasceva il Partito radicale dei democratici e liberali italiani: il convegno costitutivo
a Roma nominava un comitato esecutivo provvisorio formato da Ca-
randini, Pannunzio e Villabruna, integrato poi da Leopoldo Piccardi e Leo Valiani. Il gruppo si collegava alle battaglie condotte dal settimanale “Il Mondo”, favorevoli alla li-
nea atlantica in politica estera e critica invece nei confronti della politica interna e finanziaria della DC, soprattutto per i favori accordati a consorzi e gruppi monopolistici che continuavano nelle pratiche dell’epoca fascista a danno dei consumatori, senza con-
tare le spinte clericaleggianti della parte più intransigente dell’area cattolica che - secondo una visione laicista - provocava irreparabili guasti nella formazione della coscienza e nella mentalità delle giovani generazioni. Nel definire le linee programmatiche, i radicali partivano da una analisi impietosa della vita politica italiana: a 10 anni dalla liberazione, la democrazia si rivelava debole,
incapace non solo di difendersi da sollecitazioni autoritarie e clericali ma anche di attuare spirito e norme della Costituzione. Pertanto il nuovo partito dichiarava urgente battersi per l'attuazione della Carta repubblicana, per uno Stato laico e di diritto, in grado di garantire l'uguaglianza tra tutti i cittadini e di eliminare i monopoli nonché i forti dislivelli sociali, promuovendo l’ingresso nella vita politica dei ceti popolari. Su tutta la stampa laica e di sinistra, e specialmente nella pagine de “Il Mondo” e del nuovo settimanale “L'Espresso” diretto da Arrigo Benedetti - e sul quale scrivevano personalità della cultura come Moravia nonché giovani studiosi e giornalisti, a cominciare da Eugenio Scalfari - si aprì un vasto dibattito sul ruolo e la collocazione della nuova forza politica. Nello scenario italiano di quegli anni mancava - malgrado insistenti dibattiti ed iniziative per realizzare una “terza forza” che riuscisse a dare consistenza ed una valida po79
sizione alle energie democratiche che esistevano tra DC da una lato e PCI dall'altro - un gruppo di sinistra democratica e progressista in grado di costituire un punto di incontro
per tutte quelle forze laiche che al di fuori dei partiti tradizionali, in polemica con la gestione di potere della DC, volevano incontrarsi su progetti comuni. In campo economico, i radicali sostenevano che era compito dello Stato democratico sottoporre con più rigore al Parlamento le spese pubbliche, riformare l’ordinamento tributario, accentuando il carattere progressivo delle imposte, alleviando il peso dei ceti meno agiati e aumentando le imposte indirette; inoltre proponevano una riforma radicale della scuola, potenziando l’insegnamento tecnico e scientifico e liberandola dalle ingerenze clericali. Leopoldo Piccardi - il giurista che era stato ministro del governo Badoglio e che ave-
va predisposto il passaggio dall'ordinamento corporativo alla nuova realtà sindacale democratica chiamando a collaborare Buozzi, Roveda e Grandi mediante i quali si riuscì a raggiungere un accordo con gli industriali per istituire le commissioni interne - mise in
rilievo come il partito doveva avere un ruolo del tutto autonomo rispetto alle due maggiori forze politiche ponendosi quale punto di riferimento per tutta la sinistra laica nell’incontro tra cattolici e comunisti, fuori da quella logica della spartizione del potere che andava affermandosi nella politica italiana (preveggente avvertimento). AI I consiglio nazionale (Roma, febbraio ‘56) fu approvato uno statuto provvisorio che esprimeva chiaramente la concezione che i radicali avevano per l’organizzazione del
partito: una struttura agile, non burocratica, con strutture collaterali, come circoli culturali e iniziative dedicate allo studio approfondito di specifici problemi. Risalgono a quegli anni i celebri convegni degli “Amici del Mondo” che divennero la sede più idonea per analizzare i temi della vita nazionale e trovare le soluzioni adatte a trasformarsi in strumenti legislativi: vi partecipavano liberali, radicali, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, indipendenti di sinistra. Lo statuto regolava organi del partito, sezioni comunali e federazioni provinciali, organi centrali ma la mancanza nell'ordinamento di un paragrafo relativo ai “doveri” degli
iscritti come di sanzioni disciplinari, generalmente presenti negli statuti degli altri partiti, confermava la volontà di dare vita ad una formazione libera da qualsiasi ingerenza sulla coscienza individuale, ritenuta capace di autogovernarsi.
Le elezioni amministrative del ‘56 segnarono un occasione per il PR di uscire allo scoperto e qualificarsi, misurandosi con gli altri partiti (apparivano nelle sue liste nomi significativi della cultura come di giovani destinati in futuro ad avere ruoli importanti nella società). Nel II consiglio nazionale (Roma, 23-24 giugno ‘56) che valutò positivamente i risultati elettorali per un partito alla sua prima apparizione, privo di organizzazione e di solidi mezzi finanziari, sarà Valiani a richiamare l’attenzione sui pericoli di “involuzione democratica” dello Stato moderno.
2 - Nelle elezioni politiche del ‘58 i radicali presentarono lista unica col PRI ma l’esito non fu positivo. Al I Congresso radicale (febbraio ‘59) emersero le posizioni dei giovani sensibili ai fermenti antimilitaristi e favorevoli al disarmo. Dopo le dimissioni del
governo Fanfani, i radicali si pronunciarono per una alternativa di tutte le forze di democrazia laica.
L'atipicità del partito radicale traeva origine dalle sue componenti interne: in esso 180
convivevano infatti persone provenienti da diverse esperienze. Accanto agli esponenti della sinistra liberale erano confluiti intellettuali del gruppo de “Il Mondo”, tra i quali Ernesto Rossi, implacabile nel denunciare le malefatte economiche del nuovo regime che
- scriveva - continua a praticare una politica protezionista e di asservimento agli interessi finanziari e dei grandi imprenditori, come il fascismo -, esponenti di “Unità popolare” non entrati nel PSI. Vi era poi - e ne costituiva una caratteristica specifica, come rilevò su “Il veltro” Giovanni Ferrara - un'alta percentuale di giovani molti dei quali provenienti dall'Unione goliardica italiana, come Franco Roccella e Marco Pannella, che por-
tava nel PR il gusto di un modo di fare politica non legato alla milizia ubbidiente, basato invece sulla responsabilità personale e sull’amore per la libertà, come amava dire. An-
zi la prima espressione esterna di una Sinistra radicale si può far risalire a un articolo di Marco Pannella ne “Il Paese” (Marzo ‘59) in cui si sosteneva la necessità di unire tutta la sinistra, compreso il PCI, secondo una esperienza che lo stesso Pannella aveva sostenuto
negli organismi universitari. La proposta - accolta sfavorevolmente dal resto del partito - si inseriva nel dibattito sull’apertura a sinistra, che si sarebbe concretizzata con l’inserimento del PSI nella compagine governativa. Intanto venivano sollevate questioni trascurate dagli altri partiti, come tribunali militari, enti superflui e gravosità delle tariffe elettriche imposte dall’oligopolio dominan-
te. E sin d'allora venivano presentate proposte per la riforma delle società per azioni, le intese consortili e la critica all’utilizzazione di combustibili nucleari. Al secondo congresso radicale (Roma, 26-28 maggio 1960) la relazione politica della segreteria si pronunciò a
favore della formula di centro sinistra, in quel momento osteggiata aspramente nella DC dalla corrente dorotea facente capo a Segni. Si andavano intanto acuendo all’interno del PR i forti contrasti tra l'ala fautrice di una intesa della sinistra democratica (Cattani) e quella che guardava con favore ai socia-
listi, mentre i giovani radicali preferivano tenersi fuori dalla vertenza. L'impossibilirà di trovare una mediazione fra le correnti emerse chiaramente al Consiglio Nazionale del marzo ‘62 quando il segretario Cattani diede le dimissioni con tutto il gruppo de “Il Mondo”; nell’ottobre dello stesso anno anche l’ala di Rossi, Villabruna e Piccardi (quest’ulti-
mo fatto oggetto di una campagna denigratoria per aver partecipato come studioso, nel periodo fascista, ad un incontro con giuristi tedeschi) usciva dal partito, lasciando così sola la sinistra radicale decisa a continuare il difficile cammino.
Questo gruppo, forte specialmente a Roma, guidato da Pannella, si trovò subito ad affrontare problemi di sopravvivenza politica e organizzativa al fine di definire una formula originaria e autonoma. Cominciarono a emergere le caratteristiche principali del
“nuovo” partito: laicismo e anticlericalismo, impegno militante per i diritti civili, pacifismo, antimilitarismo e internazionalismo, campagne di denuncia contro i finanziamenti dell’ENI a stampa e partiti, come della gestione democristiana di numerosi enti pubblici tra i quali INPS e OMNI, nonché sui metodi di organizzazione interna dei partiti
di sinistra. Si aggiungerà l’opposizione al centro-sinistra che, si sosteneva, rafforzava al DC e gli interessi dei gruppi finanziari, e a cui pertanto occorreva contrapporre l’unità laica e democratica di tutte le sinistre.
3 - Accanto alle sempre più vivaci iniziative politiche, a partire dall'autunno ‘66 il PR fu impegnato nella preparazione al congresso di rifondazione promuovendo una campagna per l’auto-finanziamento e prefigurando un modello di partito, immune dalle de-
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generazioni burocratiche e verticistiche e aperto invece alle esigenze di partecipazione attiva espresse dalla società civile. Il congresso di rifondazione fu subito indicato come III, per sottolineare, ripren-
dendo la numerazione della precedente esperienza, la continuità del partito radicale: si svolse a Bologna nel marzo ‘67 introducendo un’altra innovazione, la possibilità per i militanti di sinistra di essere iscritti al PR pur continuando a restare in altri partiti. Fu re-
datto un nuovo statuto che disegnava la realtà di una federazione di autonomi partiti regionali con l’adozione dei criteri dell’autofinanziamento, della pubblicità dei bilanci e delle cariche non retribuite. Da questo momento si può dire che l’attenzione radicale si sia rivolta in misura massima al tema dei diritti civili: già nel ‘65 era stata avviata la campagna per il divorzio e nell’aprile ‘66 era stata costituita (su proposta di Mauro Mellini e di Pannella) la Lega italiana per il divorzio con la partecipazione anche del socialista Loris Fortuna e di esponenti liberali. E così mentre i socialisti si riunificavano per poi dividersi nuovamente, e il PSI contendeva al PCI la guida della sinistra, esplodeva la contestazione studentesca, nella quale motivi propri del radicalismo venivano in vario modo
ripresi per innestarli tuttavia in diverse prospettive. Il PR proseguiva la sua denuncia con-
tro le pratiche spartitorie della maggioranza di centro-sinistra nonché contro quello che sempre più appariva un “consociativismo” cui partecipavano anche i comunisti, attraverso
provvedimenti legislativi ed interventi operativi criticati perché - si affermava - sacrificavano diritti fondamentali di libertà. Pressocché isolati nell’ambito della vita politica na-
zionale i radicali non demordono e sollevano una serie di problemi che cominciano a far presa su settori sempre più vasti dell'opinione pubblica come presto si vedrà. Avendo la sua linea parecchi punti in comune con gli scissionisti socialisti che avevano formato il PSIUP (lotta al “regime” d.c. ed opposizione al centro-sinistra) nelle elezioni amministrative del ‘64 e in altre il PR presentò lista comune con il PSTUP. Malgrado le numerose iniziative in politica interna ed internazionale, non aumentava però il numero degli iscritti i quali tuttavia erano tutti molti impegnati nella attività (e questa rimarrà una sua caratteristica distintiva). Sin da allora, tra i più attivi, oltre a Pannella, troviamo Bandinelli, Stanzani, Spadaccia, Strike Livers. Approvata dopo anni di discussioni nel dicembre ‘70 la legge istitutiva del divorzio
divampò poi la polemica innescata dalla richiesta di un gruppo di cattolici di abrogare questa legge mediante il referendum, l'istituto costituzionale che sino allora la DC aveva boicottato. Finalmente nel maggio ‘74, dopo una campagna nella quale Pannella tirò la volata a favore della conferma della legge, essendosi manifestata una riluttanza dei comunisti ad impegnarsi in pieno onde non urtare troppo la suscettibilità del mondo cattolico, si tenne il referendum: in un grande manifestazione a Piazza del Popolo a Roma parlarono insieme - evento eccezionale - i leaders di tutti i partiti laici. L’esito fu oltremodo favorevole al divorzio. In quel momento il prestigio di Pannella arrivò al suo apice, in quanto fu considerato come il maggior artefice della vittoria, che sembrò quasi prefigurare una svolta decisiva nella politica italiana, non destinata invece a verificarsi anche perché nel frattempo si svolgevano i primi atti terroristici, condannati dai radicali non
solo per i loro contenuti di violenza ma anche perché offrivano argomenti per cercare di contenere le spinte al cambiamento nella società.
Andava avanti anche l'impegno per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza (tra i più attivi in questa campagna, pagando duramente con il carcere, fu Roberto Ciccio-
messere) e per la legalizzazione dell’aborto, concretizzate in leggi dello Stato, malgrado 182
forti ed organizzate opposizioni. Alla presidenza del “nuovo partito radicale” troviamo personalità della cultura, inizialmente lo scrittore Elio Vittorini, dagli anni ‘80 il prof. Bruno Zevi, maestro nel campo dell’architettura e combattente antifascista, esule e atti-
vo negli Stati Uniti durante la guerra. 4 - Nel ‘76 sopravviene la scelta “parlamentare” del PR che infatti si presentò per la prima volta con proprie liste alle elezioni politiche, ottenendo 11,1% dei voti e 4 deputati. Nella legislatura della cosiddetta “solidarietà nazionale” Pannella e gli altri esponenti radicali si battevano contro la politica messa in atto dalla maggioranza comprendente DC e PCI denunciando come pericolosa una serie di provvedimenti adottati. Nell’aprile del ‘77 il PR apriva la campagna per la raccolta delle firme dirette a richiedere 8 referendum, tra cui quelli per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e della legge Reale sull’ordine pubblico. L'esito non fu positivo, anche se la richiesta di abolizione del finanziamento ottenne il 43% dei voti, malgrado nessun altro partito si fosse dichiarato favorevole: un partito con poco più dell’uno per cento aveva fatto breccia su un'altissima percentuale di elettori. La scelta referendaria era ormai divenuta la “via nuova” per combattere i partiti della maggioranza e soprattuto la DC che - secondo i radicali - aveva trasformato la propria egemonia in una sorta di vero e proprio “regime”. Nelle elezioni del ‘79, anche per effetto di consensi venuti meno al PSI da parte dei suoi tradizionali elettori che non si riconoscevano nella politica di Craxi, il PR raggiunse il 3,4% dei voti, con 17 deputati e 2 senatori, mentre nell’83 si registrerà una diminuzione con il 2%, 11 deputati ed un senatore.
In questo periodo oltre agli elementi più attivi da tempo (per i radicali non esiste né il concetto né la pratica del cosiddetto “dirigente”) emergevano Adele Faccio, Adelaide Aglietta (la cui presenza in una giuria popolare a Torino consente l'effettuazione di un processo alle Brigate rosse dopo che molti altri si erano rifiutati), Emma Bonino e suc-
cessivamente il giovane Rutelli, obiettore di coscienza, in prima linea per far chiudere la centrale nucleare in provincia di Latina e nell”81 eletto segretario del partito. Negli anni’ 80 l’interesse del PR s’intensificò attorno a temi della non violenza e della disobbedienza civile e si allargò oltre i confini italiani, specie contro lo sterminio per fame delle popolazioni del terzo mondo con richieste tendenti ad assicurare una iniziativa in proposito del Parlamento italiano. Nell”87 i radicali non partecipano alle elezioni, invitando i cittadini allo sciopero contro la “partitocrazia”. In effetti dopo il successo del ‘79, i radicali avevano preferito astenersi come “movimento” sciolto da ogni impaccio burocratico, escludendo di organizzarsi e di agire alla stessa stregua di tutti gli altri partiti: pagò questa scelta con un minor numero di adesioni che lo preservarono però dal contaminarsi. Implacabile la denuncia contro la corruzione, la lottizzazione e le oligarchie partitiche definite da Pannella “associazioni a delinquere”.
5 - Nel XXXIV congresso (Bologna, gennaio ‘88) i radicali decisero di non presentarsi più, come tali, alle elezioni politiche italiane: nasceva così una nuova formazione “transnazionale e transpartitica”, priva di strutture territoriali e pronta invece a proseguire
le iniziative che superassero la logica dei confini nazionali, in particolare sui problemi della lotta all’inquinamento: per primi essi avevano sollevato i temi della difesa dell'ambiente e della lotta contro le centrali nucleari, del ripensamento di tutta la questione della difesa militare, mentre venivano ripresi temi federalisti ai fini della costituzione degli Stati
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uniti d'Europa. La proposta pannelliana di un partito sovranazionale suscitò non poche
perplessità nella stessa compagine radicale anche perché serpeggiavano malumori nei confronti di una leadership carismatica che appariva contraddittoria per un partito libertario; altri hanno visto l’esile struttura organizzativa come una spiegazione della tendenza di inventare sempre nuovi obiettivi nei quali comunque tutti i radicali si prodigavano con estremo impegno. Alle elezioni europee dell’89 viene presentata una lista della Lega antiproibizionista sulla droga, e viene eletto Marco Taradash. Nel corso del XXXV congresso (Budapest, aprile ‘89), il segretario Sergio Stanzani rivendicava la lungimiranza della scelta che aveva trasformato un partito di italiani in un
partito composto da persone di oltre 50 etnie europee, africane, asiatiche. In quegli anni d’altronde i radicali italiani si erano segnalati in tutta l'Europa centrale ed orientale
soggetta al comunismo con una serie di iniziative clamorose in varie città per rivendicare il diritto alla libertà delle varie nazioni. I problemi organizzativi posti dal carattere transnazionale (tra cui un nuovo statuto e un gruppo dirigente multietnico e multilingue) sono stati alla base del XXXVI congresso (Roma, maggio ‘92), la cui conclusione venne aggiornata a una nuova sessione da tenersi nel ‘93. Le commissioni del lavoro avevano individuato i nuovi temi delle battaglie radicali: oltre alla lotta contro ogni forma di proi-
bizionismo in materia di stupefacenti l'impegno contro la pena di morte, da abolire in tutti i paesi. Nell’aprile ‘92 i radicali non partecipano in proprio alle elezioni politiche e vedono invece in varie circoscrizioni la lista Pannella presentata per sottolineare il valore della per-
sona da eleggere mediante il sistema uninominale, proposto per tutte le elezioni. Pannella viene eletto con larghi consensi dopo che nella precedente legislatura si era dimesso (in attuazione del criterio della “staffetta” cioè di sostituire gli eletti a metà legislatura). Dopo aver sostenuto per primo Scalfaro come Presidente della Camera, Pannella indica il parlamentare novarese come l’unica personalità idonea a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica nella difficile fase di transizione (come sarà confermato dall’esito delle votazioni ai primi di maggio del ‘92) e poi diviene sostenitore del governo Amato, definito il “migliore” degli ultimi decenni. I radicali per primi hanno lanciato la campagna per l'adozione dell’uninominale, e hanno presentato per primi un numero rilevante di firme per la richiesta dei referendum
sul mutamento del sistema per le elezioni al Senato, l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la depenalizzazione delle norme più rigide della legge sulla droga, integrate poi dalle firme raccolte dal movimento referendario di Segni con l'appoggio di Ochetto per raggiungere e superare largamente il numero di presentatori previsto dalla legge. Dopo l’esito positivo dei referendum - ai quali va un larghissimo consenso popolare -, si registra però un distacco tra i cosiddetti referendari da un lato e i radicali dall’altro. Il partito si impegna (nuova segretaria è Emma Bonino) e riesce ad ottenere l’a-
desione di oltre 25 mila iscritti: si aggiungono questa volta parecchi comunisti (in precedenza vi era solo il triestino Bordon), socialisti e anche d.c. (Pannella tiene ad inserire nella sua matrice di cultura politica Romolo Murri).
Contrastanti le valutazioni sulla posizione assunta dal leader radicale per sostenere la fattività del nuovo Parlamento, posizione alla quale naturalmente giunge il sostegno di molti parlamentari indagati. Anche se con minore convinzione rispetto all'appoggio dato al governo Amato, gli eletti nella lista Pannella danno voto favorevole al governo
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Ciampi. Quindi Pannella propone un'iniziativa per avviare “verso un partito democratico” (danno la loro adesione tra gli altri Antonio Martino, Marcello Pera e Angelo Panebianco) e contemporaneamente lancia una nuova campagna referendaria per consegui-
re una riforma in senso strettamente uninominalistico e a un solo turno per le elezioni alla Camera, al Senato e in tutti icomuni nonché una serie di innovazioni nel campo fiscale (con l’abolizione delle trattenute IRPEF su salari e stipendi dei lavoratori dipendenti da rinviare alla dichiarazione dei redditi come per tutti i cittadini, e l'abolizione del canone RAI) e sindacale (v. Le leghe). L'appoggio alla elezione a Sindaco di Roma di Ru-
telli è naturale, trattandosi di un radicale doc, anche se passato alle liste verdi: va precisato anzi che ormai le liste Pannella sono una delle liste nelle quali si presentano i radicali, disseminati infatti in numerosi raggruppamenti ed appunto per questo “partito tran-
snazionale” in quanto tale non concorre alle competizioni elettorali. Nelle elezioni del ‘94 Pannella preferisce mantenere la sua indipendenza rispetto ai tre grandi schieramenti che si presentano (anche se nel Veneto candidati radicali sotto
l'insegna “riformatori” trovano il sostegno di “Forza Italia”) ed è l’unico “antagonista storico” che sfida Fini nel collegio elettorale di Roma dove il Segretario del MSI si presenta sicuro di conseguire la maggioranza avendola già ottenuta nelle elezioni comunali di 4 mesi prima. Un gruppo tra i più significativi del mondo della cultura e dello spettacolo lo sostiene (V. Gassman, M. Costanzo, Milva e P. Villaggio). Se egli non viene eletto non può fare a meno di osservare di aver proposto - senza ottenere risposta - a Roma ed
altrove di contrapporre in tutti i collegi una candidatura contro i candidati di destra, dando così un senso preciso alla riforma uninominale da lui auspicata da tempo. I voti ri-
portati alla Camera con la proporzionale sono 1 milione 355 mila (il 3,5%), i deputati eletti 6, i senatori 2. E Pannella si presenta come fautore di una “sinistra liberale e liber-
taria” all’interno dello schieramento vincente. Non pochi criticheranno i suoi improvvisi cambiamenti di fronte e metteranno in rilievo la contraddittorietà delle posizioni assunte.
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CapitoloX
MOVIMENTI E PARTITI DEGLI ANNI ‘40
PARTITO D'AZIONE 1 - Riallacciandosi al socialismo liberale di Carlo Rosselli, e quindi a “Giustizia e Li-
bertà” nonché alle linee prospettate da gruppi democratici milanesi e dalle correnti liberalsocialiste attive a Pisa, a Firenze, a Roma (con Guido Calogero), il Pd’A. nasce a Milano sul finire del ‘42 raccogliendo istanze di varia provenienza. I “sette punti” del programma sono divulgati dal giornale clandestino “l’Italia libera” diffuso a Milano nel gennaio ‘43, con la richiesta della instaurazione della repubblica come esigenza dettata dalla necessità di uno Stato in grado di assicurare continuità,
efficacia e speditezza di azione mediante il controllo democratico per comuni e provincie e l'eventuale raggruppamento regionale per attuare il decentramento e lo sviluppo delle forze autonome nella vita locale. All’iniziale documento faranno seguito “precisazioni” stese da personalità che avran-
no un ruolo rilevante: Ugo La Malfa - allora esperto nella Banca Commerciale e con idee molto chiare sul programma economico, tanto da indurlo a escludere ogni consonanza con il “socialismo” -, Guido Calogero - lo studioso di filosofia che aveva già elaborato le
basi di quel “liberalsocialismo” piattaforma ideologica attorno alla quale si uniranno esponenti politici di primo piano dei movimenti democratici decisi a sottolineare il caratte-
re di rinnovamento teorico e pratico -, Carlo A. Ragghianti - studioso di storia dell’arte, esponente fiorentino del P.d’A. e in seguito storico della liberazione - nonché Oronzo Reale, che apportò elementi in materia giuridica e la cui presenza significava anche l’adesio-
ne di un importante ceppo della tradizione repubblicana. In quei mesi parecchi liberal-socialisti come Enzo Enriquez Agnoletti e Tristano Codignola erano ancora al confino in Abruzzo; dopo il 25 luglio ‘53 a Milano (con Riccardo Bauer), a Roma (con Stefano Siglienti) si svolgono numerosi incontri, dai quali nasce l’or-
ganizzazione del congresso nazionale che si svolgerà a Firenze il 5 e 6 settembre, con la presidenza di Riccardo Bauer mentre Adolfo Tino svolgerà funzione di segretario, ma poiché i partiti erano ancora extra legem, non furono redatti verbali né documenti ufficiali.
Erano presenti anche “rappresentanti” di gruppi sorti in altre regioni, e tra essi Emilio Lussu per il partito sardo d’azione; preminenti furono nella discussione i problemi dell'atteggiamento critico verso il governo Badoglio e intransigente nei confronti della monarchia. Affioravano anche i problemi dei rapporti con gli altri partiti e soprattutto con comunisti e socialisti (dispute sull’uso della parola “socialismo” si ebbero dentro e fuori la riunione). Furono chiamati a far parte dall’esecutivo centrale Fancello, Rossi Doria,
Reale, Bauer, La Malfa, oltre a Lussu. Ferruccio Parri prospettò la necessità di organizzare subito la “resistenza attiva” sul piano militare tanto che gli fu affidato il compito di occuparsi di questi aspetti. Gli eventi immediatamente successivi (l'annuncio dell'armistizio, occupazione te-
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desca, l’inizio di un'attività armata) troveranno gli “azionisti” in primo piano impegnati a Milano, in Piemonte, a Firenze, Roma e Napoli, dove è in primo piano Pasquale Schiano, organizzatore prima di giovani antifascisti poi delle operazioni belliche contro i te-
deschi nel Napoletano (le “quattro giornate”) e nel Casertano nonché fautore di una ripresa dell’azione militare dell’esercito italiano. Il partito contribuisce direttamente alla formazione, a livello centrale nella capitale
e periferico, dei comitati di liberazione nazionale. La partecipazione al movimento partigiano sarà testimoniata dai raggruppamenti che numerosi, col nome di “Giustizia e Libertà” o altri legati a quella tradizione, saranno all'avanguardia nella lotta di resistenza,
particolarmente in Toscana. 2- Quando a fine ‘43 i “comitati provinciali” dell’Italia liberata si incontrano a Napoli, si potrà constatare come il P.d’A. sia una realtà politica concreta nel Meridione, con una presenza significativa in particolare in Campania e Puglia (con Guido Dorso e Tomaso Fiore) oltre alla Sardegna, con la specifica formazione autonomista. Ciò spiega come possa svolgere un ruolo primario nella organizzazione a Bari, nel gennaio ‘44, dal congresso nazionale dei CLN, vera e propria prima assise dei partiti antifascisti, manifesta-
zione alla quale il Pd’A. offre la sua proposta per una “rivoluzione democratica”, la rottura con lo Stato accentratore e il rifiuto di collaborare con il governo di Brindisi. Uno scossone alla politica italiana viene dal capo dei comunisti in esilio Togliatti (fine marzo ‘44). Giù si stava studiando nel Sud una soluzione che consentisse di superare
lo yatus tra rappresentanza ufficiale dello Stato, imperniato ancora nella sua continuità dal re, e rappresentanti dei partiti democratici: e si era progettata l'eventualità di una reggenza che escludesse sia il re che il principe ereditario e di un “governo di uomini liberi” che potesse cooperare con gli Alleati per partecipare alla guerra di liberazione contro i tedeschi, rimettendo ad una Costituente da convocare al termine delle ostilità la decisione circa l'assetto costituzionale del paese. La prospettiva indicata da Togliatti di formare un governo, sempre presieduto da Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN, non trovò consenziente il P.d’A. In effetti si trattava di una scelta che se aveva l'avallo dell’URSS, ben consapevole della im-
possibilità di “ottenere” di più in Italia, permetteva di uscire dall’impasse tanto più che un giurista come Enrico De Nicola nella ricerca di una soluzione temporanea ed accettabile anche per la Corona, aveva trovato nella formula della “Luogotenenza” da assegnare al principe ereditario un “compromesso” soddisfacente per le diverse parti in contesa: a livello politico nazionale resteranno le riserve oltre che del P.d’A. anche del Partito socialista, ed in particolare di Sandro Pertini che instancabilmente si adoperava nell’organizzazione della resistenza nel Nord. Tuttavia i rappresentanti dei due partiti di sinistra entreranno nel nuovo governo Badoglio, detto di “Salerno” perché nella città campana
si era trasferita la sede ministeriale: per il P.d’A. entrano lo storico Adolfo Omodeo (all'Istruzione) e Alberto Tarchiani, eminente giornalista di fede democratica ed attivo nel movimento degli esiliati negli Stati Uniti (ai Lavori Pubblici). All'indomani dell’arrivo
delle truppe alleate a Roma (4 giugno ‘44) - come precisato nell’accordo - entrò in funzione la Luogotenenza: i partiti del CNL vollero e riuscirono ad ottenere che Badoglio
fosse sostituito da Bonomi, presidente del CLN. Avuto l'assenso degli “Alleati”, il governo dei sei partiti - l’’esarchia” - entrerà in funzione: gli azionisti avranno un ruolo di primo piano con Siglienti alle Finanze e l’eminente filosofo Guido de Ruggiero alla Pubblica 188
istruzione. Particolarmente attivo il partito in Toscana a Firenze - dove si era formato il Comitato di liberazione della Toscana -: i militanti del Pd’A. danno un apporto determinante alla lotta antifascista e contro i tedeschi, prima nella preparazione dei gruppi ar-
mati e nella propaganda, poi nella resistenza partigiana e durante i combattimenti per debellare tedeschi e fascisti prima dell’arrivo degli alleati, basti pensare alle personalità della cultura operanti nella città, da Piero Calamandrei ai già nominati Enriquez Agnoletti e Codignola, a Giorgio Spini.
Nell'estate ‘44 gli esponenti del partito, dall'Italia centrale (a Roma esce “Italia Libera” - con Carlo Levi, Aldo Garosci, Carlo Muscetta - che prosegue la serie clandestina
ricca di fermenti politici e culturali) al Mezzogiorno, decidono di darsi un programma definitivo che risente fortemente dell’influenza della componente di matrice socialista nonché delle idee di Emilio Lussu: si parla di “uguaglianza politica e sociale dei cittadi-
ni” e di “fine di ogni oppressione dell’uomo sull'uomo”, si congiungono, secondo l’insegnamento di Rosselli, libertà politica e “giustizia sociale”, si deplora quel solco tra pro-
letariato e piccola-media borghesia che aveva permesso al fascismo di sconfiggere la democrazia e si indicano una serie di obiettivi socialisti, da realizzare nella “democrazia” con due settori dell'economia, “immediate misure di espropriazione senza indennizzo” necessarie nei confronti della “plutocrazia reazionaria complice del fascismo”, riconoscimento della libertà per la Chiesa Cattolica e altri culti nei limiti della legge comune. Ai primi di agosto si tiene il congresso a Cosenza dove viene approvato lo Statuto con un’ampia articolazione decentrata attraverso le “sezioni” definite come “elemento fondamentale del partito base di ogni altra attività”. Nel documento conclusivo il P.d’A. si autodefinisce un “movimento socialista antitotalitario, autonomista e liberale, che intende realizzare il socialismo nella società e nello stato in funzione permanente di libertà”.
Ma in tutto questo periodo l’apporto più significativo del P.dA. risulta dalla sua partecipazione attiva al movimento di resistenza armata dopo il Lazio e la Toscana, in alta Italia (dove si dà una precisa organizzazione con un proprio statuto provvisorio) con brigate partigiane combattenti. Alla sua guida sono uomini come Ferruccio Parri, che di-
viene presidente del CLNAI, Leo Valiani, responsabile sul piano militare al massimo livello con gli esponenti del PSI, del PCI e della DC, come Riccardo Lombardi che verrà
nominato alla liberazione prefetto di Milano (e sostituito in seguito da Ettore Troilo, comandante della “Brigata Maiella”, l’unica formazione ininterrottamente sulla linea del
fronte dal dicembre ‘43 quando si era costituita tra il Sangro e la montagna abruzzese sino alla fine della guerra dopo aver partecipato alle operazioni sul fronte adriatico-appenninico e alla liberazione di importanti centri come Pesaro e Bologna), ed Altiero $pinelli, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene, che nel pieno della guerra aveva lanciato un messaggio di fede nel federalismo europeo. 3 - Ecco perché, all’indomani della cessazione delle ostilità, la proposta di affidare
proprio a Parri - come maggiore esponente dei partiti democratici dell’Italia settentrionale ma anche esponente della “sinistra temperata” come egli stesso si definirà - la guida del nuovo governo troverà tra gli altri partiti consensi sufficienti anche per le garanzie che egli dava come persona di intransigente fede liberal-democratica coerentemente vissuta. Un'esperienza breve ma di alto significato ideale: il governo Parri avvia con rigore l’opera di ricostruzione nazionale sia dal punto di vista materiale (nel settore dei trasporti con ministro Ugo La Malfa, alle Poste con il d.c. Scelba e ai Lavori pubblici con il so189
cialista Romita, e delle infrastrutture essenziali, come dei rifornimenti alimentari) e mo-
rale, con un impegno particolare per il ripristino dell’ordine pubblico (ministro dell’Interno lo stesso Parri con il d.c. Spataro sottosegretario) insidiato in Emilia, a Milano ed in altri ambienti, dai postumi della guerra civile (con aggressioni, violenze, vendette non
solo contro fascisti responsabili di atrocità ma anche persone alle quali nulla si poteva rimproverare), in Sicilia dal separatismo (alimentato dall’esterno e forte di un vero e proprio esercito, l’EVIS, composto tra l’altro da banditi come Giuliano e da sbandati). In tutte
le regioni si ripetono episodi di banditismo, innescati dalle conseguenze della guerra, miseria e fame. Intanto gradualmente gli Alleati restituivano l’amministrazione di tutti i ter-
ritori italiani salvo Trieste, prima occupata - con il resto della Venezia Giulia - dalle truppe di Tito e sottoposta con il suo hinterland alle terribili prove dell’assassinio di italiani gettati, spesso ancor vivi, nelle foibe, poi affidata alla amministrazione militare britanni-
ca. L'inflazione galoppava (per la politica monetaria, v. / liberal) senza che la borsa nera cessasse mentre si estendevano le agitazioni sociali: e questo insieme di elementi negativi non poteva trovare un argine in interventi da parte di un governo privo di mezzi, al
punto che i maggiori industriali non esiteranno a chiedere agli Alleati di restare in Italia con le loro forze militari e l'assunzione del controllo dell’ordine nelle fabbriche. La “normalizzazione” della vita italiana risultava precaria: gli Alleati accolsero le richieste urgenti di rifornimenti essenziali mentre ritardarono il trasferimento all’amministrazione italiana delle province settentrionali, e confusione mista ad incertezza si registravano a li-
vello di rapporti economici e finanziari giacché, malgrado l’opera svolta dalla commissione economica del CLNAI presieduta da Merzagora per predisporre il passaggio alla fase postbellica, parecchie grandi industrie risentivano della mancanza di una guida pre-
cisa nella fase in cui occorreva ristabilire i contatti per gli approvvigionamenti ed il credito, tanto più che alcuni managers avevano dovuto lasciate la guida delle imprese.
Sul piano istituzionale si riuniva la Consulta, un organo provvisorio predisposto dal governo Bonomi, ma presto esautorato dal ruolo determinante che svolgono i partiti presenti nel governo Parri: sono i loro dirigenti infatti a concordare le soluzioni idonee ad incanalare il grande moto popolare prodotto dalla Resistenza nella Costituente (la cui convocazione verrà rimessa alle elezioni della primavera ‘46). La funzione dei CLN - ai qua-
li inizialmente P.d’A. e PCI vorrebbero affidare compiti di propulsione democratica nell’intero paese viene - messa in discussione, come una indebita sovrapposizione agli or-
gani statali soprattutto da parte dei liberali. Saranno essi infatti a mettere in crisi la compagine governativa ritirandosi a seguito
di divergenze che mettevano in causa, con i metodi seguiti per l’epurazione del personale ex fascista, la continuità dello Stato: la D.C. con De Gasperi (ministro degli Esteri) ne
trae la conseguenza che il ritiro di uno dei componenti dell’esarchia implica la caduta dell’intero ministero, tesi non condivisa dal presidente del consiglio, il quale anzi in una vi-
vace conferenza stampa (descritta mirabilmente da Carlo Levi nel libro “L’orologio”) par-
lerà di “colpo di stato” compiuto da chi lo fa cadere, come ritorsione all’analoga accusa lanciata contro di lui.
La lacerazione è consumata: ciascuna delle altri parti riteneva di poterne trarre vantaggio, in particolare la D.C. attraverso l’indebolimento della spinta provocata dal “vento del nord” e l'assunzione della massima responsabilità governativa con De Gasperi (per
la prima volta un politico “cattolico” salirà alla guida dell’Italia unita), ma anche il PCI che preferiva appoggiare per la successione il leader d.c. per sancire così il peso determi190
nante dei partiti di massa e soprattutto il ruolo della D.C. quale interlocutore principale delle masse comuniste.
La conclusione dell'esperienza Parri alla fine del ‘45 è il primo segnale del riemergere di un più vasto schieramento interessato a chiudere le fiammate rivoluzionarie e a ricondurre l’Italia verso quel tipo di “ordine” politico ed economico che - secondo le te-
si di Salvemini, di G.L. e del partito d’azione - avevano generato il fascismo.
Nel febbraio ‘46 si tiene il congresso del partito nel quale il contrasto fra le due “ani-
me?” - quella più decisa a far propria la causa comune con gli altri due partiti di sinistra su posizioni socialiste e quella invece più attenta ai motivi di una moderna democrazia liberale - viene fuori in termini tali da non poter essere più composto, perché emerge come la virata in senso socialista, che ottiene la maggioranza, abbia messo in dubbio le ragioni dell'unità, non più ritenuta accettabile dal filone legato alla tradizione liberale e democratica ed impersonato da Parri e La Malfa che decidono di uscire dal partito per dar
vita al “movimento democratico repubblicano” su posizioni terzaforziste (tra conservatori e socialisti) e un programma ripreso in parte da quello azionista rivolto a creare uno schieramento di democrazia laica. Nel manifesto si parlerà in particolare di rinnovamento delle istituzioni e del costume (un argomento che tornerà spesso nelle battaglie politiche anche successive, dei due leaders), di conferimento alle “classi lavoratrici” di parità nelle
responsabilità, nelle funzioni e nelle dignità materiali. Il documento otterrà l’adesione di nomi Luigi berto Gino nello
significativi del PdA, Mario Vinciguerra, Filippo Caracciolo, Raimondo Craveri, Salvatorelli, Altiero Spinelli, Adolfo Tino come della cultura, Eugenio Garin, AlCarocci, Guido De Ruggiero, Francesco Flora, Francesco Gabrieli, Libero Lenti, Luzzatto, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Adolfo Omodeo, Luigi Russo, LioVenturi, Giorgio Candeloro.
4 - Si è così consumata una scissione che vedrà frazionarsi uno dei gruppi più importanti e più impegnati nella lotta antifascista. Il suo peso, basato sul valore dei filoni ideali cui si ispirava, sulla qualità dei suoi uomini e sulla loro estrema dedizione, trova-
va invece difficoltà a radicarsi a livello popolare benché avesse dato vita a gruppi femminili e giovanili, e pertanto la sua presenza non appariva numericamente rilevante rispetto ai partiti di massa, che si andavano consolidando. I suoi programmi sembravano più una combinazione felice di punti di vista di democratici pensosi delle sorti del paese che non una piattaforma operativa attorno alla quale raccogliere larghi consensi; a ciò contribuiva anche il carattere intransigente di parecchi suoi esponenti; si dirà con facilità che si trattava di un esercito composto da generali e privo di soldati, in concreto il punto di debolezza intrinseco era la pretesa di governare illuministicamente gli eventi. Proprio da tutti questi elementi - destinati sotto altri aspetti a riprodursi nella vita nazionale in altre occasioni - la breve ed intensa stagione del PdA formerà oggetto di numerose controversie ideologiche e storiografiche (Gaetano Salvemini aveva individuato le cause di
debolezza del PdA già da quando nel dicembre ‘44 scriveva a Piero Calamandrei che il partito era formato da elementi eterogenei tenuti insieme dalla necessità della lotta comune contro un nemico comune). Con il PdA finisce per certi versi anche lo slancio della Resistenza, ed è finito certamente il CNL: si chiude il periodo storico delle speranze e delle illusioni di tutta un'epoca. C'è da chiedersi se l’esito così traumatico dell'esperienza non sia dipesa principalmente da due altri fattori: la condizione di minorità dell’Italia con l'impossibilità di comLISI
piere scelte pienamente libere - quindi in una posizione completamente diversa da quella prospettata dall’azionismo -, nonché la difficoltà di trovare, uscendo dalla tragedia della guerra, l’equilibrio che permettesse di compiere scelte razionali di fronte all’impellenza di dare risposte concrete alle grandi masse - tramortite dalle prove sopportate e suggestionate dal mito del comunismo da un lato e dal richiamo della madre Chiesa dall’altro - e di delineare quindi soluzioni riformiste in grado di inverarsi attraverso le grandi forze politiche. E sarà contraddittoriamente, rispetto ai propositi azionisti, la D.C. a farsi
portatrice delle posizioni e degli interessi dei ceti medi comedi soluzioni “mediane” sul terreno economico e istituzionale, rinunciando però a riforme strutturali. In previsione delle battaglie per le prime elezioni libere, quel che resta del PdA lan-
cia un manifesto che riprende i motivi di un socialismo autonomista; nelle votazioni per la Costituente otterrà solo 1 1,41% dei voti con sette seggi (Cianca, Foa, Riccardo Lombardi, Schiavetti, Valiani, Calamandrei, Codignola che andranno a costituire il “gruppo autonomista” con Lussu e Mastino eletti nel partito sardo d’azione e Bordon nella Valle d'Aosta), mentre il movimento democratico repubblicano riuscirà a stento a conseguire due seggi, rispettivamente per Parri e La Malfa (per i successivi sviluppi v. / repubblicani). Ai lavori della Costituente entrambi i gruppi daranno un apporto molto significativo sui problemi economici (Foa e La Malfa), istituzionali (Calamandrei su molti pun-
ti, a cominciare dall’indipendenza della magistratura, riuscendo a far passare sue tesi mentre non ebbe consensi la proposta, sostenuta con Valiani, di dare alla “repubblica democratica dei lavoratori” una guida presidenzialista in polemica con il parlamentarismo e la rappresentanza proporzionale) e per il nuovo assetto del paese in vari settori (autonomismo con Lussu, scuola con Codignola e libertà d'informazione con Schiavetti). Nell’aprile ‘47 si svolge a Roma il secondo - ed ultimo - congresso, che polemizza contro il gruppo uscito dal partito l’anno prima, denuncia l’involuzione in corso nel paese e chiama alla segreteria Riccardo Lombardi. Benché possa contare ancora su alcune del-
le personalità tra le più significative della democrazia italiana il partito avverte la sua fragilità. Nell'ottobre, dopo infruttuosi tentativi di dar vita ad un movimento di “democrazia politica ed economica” (la ricercatissima “terza via” di fatto inintracciabile perché non capace di inverarsi nella “terza forza”), il PdA deciderà a maggioranza (su proposta di Cianca, Lussu e Schiavetti, accettata da Lombardi e Foa) di confluire nel PSI, scelta non condivisa da altri gruppi ed esponenti, tra i quali Piero Calamandrei, il quale successivamente formerà con Ivan Matteo Lombardo, uscito dal PSI, l'Unione dei socialisti, che, nelle ele-
zioni politiche del ‘48 si presenterà insieme al PSLI di Saragat con la lista denominata “Unità socialista”. Prima dello scioglimento, Lombardi aveva inviato una lettera alla CGIL, invitando i sindacati a farsi carico delle responsabilità della ricostruzione ed anche di un disegno
economico coerente con le condizioni e le necessità del paese per un impulso capace di procedere alle indispensabili trasformazioni della struttura finanziaria e sociale. Avvenendo l'inserimento nel PSI quando questo partito ha perso l’ala socialdemocratica di Saragat, il gruppo proveniente dal P.d’A. non riesce subito ad amalgamarsi con le rigide posizio-
ni e la mentalità di una dirigenza in maggioranza succube dei comunisti. I motivi specifici dell’azionismo rivivranno in altre formazioni come “sale della democrazia”, ed in par-
ticolare nel ‘53 in “Unità Popolare” che si oppone alle pretese egemoniche della D.C. su una linea di democrazia autonoma e di cultura libera da ipoteche totalitarie.
In effetti solo nel P. d’A. si sono prospettate soluzioni istituzionali ed economiche 192
in grado di contrapporsi al “realismo spicciolo” della D.C. e alla “fuga verso Est” dei comunisti.
PARTITO DEMOCRATICO
DEL LAVORO
La formazione - costituita nel 1943 ad iniziativa di Ivanoe Bonomi, antico animatore del socialismo gradualista e Presidente del Consiglio nel primo dopoguerra, da Meuc-
cio Ruini e da altri esponenti che provenivano dal riformismo e dalla democrazia sociale - avrà un ruolo significativo nel Comitato di liberazione nazionale (di cui Bonomi di-
verrà presidente, tanto da essere designato per la guida del governo, che eserciterà dal giugno ‘44 al maggio ‘45) e nell'Assemblea Costituente: sarà infatti Ruini a presiedere, con competenza ed equilibrio, la Commissione dei 75 per l’elaborazione della nuova Carta costituzionale. Presente quasi esclusivamente nel Centro-Sud, si avvarrà anche di giova-
ni attivi specialmente nella campagna per la repubblica. Nelle elezioni del ‘46 partecipa alla lista dell’Unione democratica nazionale con i liberali (v.), successivamente si scioglierà, alcuni suoi aderenti aderiranno al fronte demo-
cratico popolare (con i comunisti), altri si mantengono indipendenti, Ruini sarà per breve tempo presidente del Senato (1953, nella discussa fase della approvazione della legge elettorale maggioritaria (v. D.C.).
AI P.D.L. ha dedicato una pregevole monografia Lucio D'Angelo.
MOVIMENTO CRISTIANO-SOCIALE Il movimento cristiano-sociale si forma nel ‘41 per iniziativa di Gerardo Bruni, antico militante del partito popolare, dal quale si era staccato allorché questo aveva inizia-
to la collaborazione con Mussolini partecipando al suo primo governo, e successivamente ritiratosi a lavorare presso la biblioteca vaticana. Il gruppo può contare sin dal primo anno di attività su un seguito che riesce a trovare a Roma e in gruppi cattolici nell'Italia centrale e nel Veneto. Il suo primo congresso si tiene clandestinamente nella capitale a fine marzo ‘43: precisa le sue posizioni ispirate alla libertà, al senso di giustizia ed al progresso sociale. Nel frattempo è nata la Democrazia cristiana, ed i cristiano-sociali non ritengono di confluire nella nuova formazione in quanto non considerano sufficientemente chiari i suoi propositi. Piuttosto, dopo gli eventi dell'estate ‘43, cercheranno di avvicinarsi al partito d’a-
zione (con cui in Toscana stabilisce un accordo) ed al partito socialista, e con essi nell'ottobre ‘43 firmano un vero e proprio patto d’unità d’azione che ha come punti principali in comune la repubblica, la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e il mantenimento della piccola proprietà. Inoltre a Roma i cristiano-sociali danno vita, con il movimento comunista d’Italia (un piccolo gruppo attivo nella resistenza) ed il partito repubblicano del lavoro (composto da giovani, tra i quali Claudio Pavone), ad una Federazione repubblicana socialista che tiene a caratterizzarsi su una posizione autonoma rispetto al CLN, attirandosi quindi la contrarietà non solo della D.C. - nei cui confronti
i cristiano-sociali sono evidentemente in aperta rotta di collisione tanto più il governo di De Gasperi acquista in credibilità ed appoggi esterni - ma anche del PCI, di cui non con199
divide la politica spregiudicata in materia di alleanze e convergenze. Pertanto, pur partecipando nel Lazio ed in Toscana alla lotta partigiana (durante la quale perderà una delle fondatrici, Maria Enriquez Agnoletti), il MCS verrà escluso anche dai CNL locali e troverà ostacoli nell’ottenere, dopo l’arrivo degli alleati, la carta per far uscire liberamente
il suo organo “L’Azione” che pure era riuscito a pubblicare in clandestinità. Nell'ottobre ‘44, contro la volontà di Bruni, la maggioranza della direzione vota per la fusione con il partito della Sinistra cristiana (v. Democrazia Cristiana), ma in seguito il Bruni riuscirà a ridare autonomia ai cristiano-sociali. Il congresso nazionale del maggio ‘46 a Firenze riafferma l'esigenza del superamento del capitalismo sulla piattaforma di un socialismo moderno che realizzi le trasformazioni nell'economia mediante l’intervento dello Stato e l’azione di organismi cooperativi di gestione sociale e che assicuri piena libertà di coscienza. Il movimento partecipa at-
tivamente alla campagna in favore della repubblica, e nelle elezioni ottiene un seggio per Bruni, il quale interverrà in dibattiti su temi delicati tra cui l'articolo 7 della nuova Carta, opponendosi all'inserimento dei patti lateranensi, quindi in contrasto con D.C. e PCI. I cristiano-sociali si presenteranno nelle elezioni del ‘48 senza riuscire ad-avere nessun eletto. L’idea cristiano-sociale, presente in componenti della sinistra della D.C. nei decenni
successivi, rivivrà in autonoma formazione negli anni ‘90 (v. Comitati e gruppi vari),
dopo aver permeato dei suoi contenuti il movimento dei “cristiani per il socialismo”, attivo negli anni ‘70 e ‘80.
MOVIMENTO
CATTOLICO-COMUNISTA
Si tratta di un gruppo presente a Roma sin dagli ultimi anni del fascismo, costituito prevalentemente da giovani intellettuali decisi ad impegnarsi contro la dittatura e la guerra. La sua posizione politica si riconnette ad una impostazione filosofica che accetta il
materialismo storico in una intepretazione quindi classista mentre rifiuta il materialismo dialettico, tanto che i suoi aderenti tengono a riaffermare la loro fede religiosa. Ha subito varie fasi organizzative, durante l'occupazione nazista il suo giornale clan-
destino “Voce operaia” è stato molto diffuso sulla capitale. Osteggiato dalla D.C. (v.), ha
trovato appoggi nel PCI, tanto che prima si è trasformato in “partito della sinistra cristiana”, poi gran parte dei suoi iscritti ha aderito al PCI (v.) - avendo questo eliminato
nello statuto la stretta pregiudiziale ideologica - tanto da dare al partito un contributo notevole di idee e di energie. Numerosi gli esponenti di spicco da Franco Rodano ad Adriano Ossicini che avranno una posizione di primo piano, il primo specialmente come consigliere di Berlinguer, il secondo tra i parlamentari della Sinistra indipendente. Interessanti al riguardo anche le esperienze di Augusto Del Noce (che ai cattolici comuni-
sti ha dedicato acuti saggi), Felice Balbo e Claudio Napoleoni.
PARTITO DEI CONTADINI
Nato nel primo dopoguerra è diffuso soprattutto in Piemonte, il partito riprese la 194
sua attività nel ‘45 dopo che il suo attivo organizzatore, Alessandro Scotti, aveva parte-
cipato con squadre rurali al movimento di resistenza.
Eletto deputato alla Costituente e nelle prime due legislature, Scotti continuò ad ave-
re un seguito nell’Astigiano ma gradatamente i contadini che l’appoggiavano confluirono in altre formazioni. L’UOMO QUALUNQUE
Nel dicembre ‘44 in una Roma ancora disorientata dopo l’arrivo degli Alleati, l’avvio dei primi tentativi di ricostruzione dei servizi essenziali, in gravi condizioni per l’alimentazione, i trasporti ed il lavoro, con una burocrazia non ancora riassestata, il commediografo napoletano Guglielmo Giannini, fa uscire un settimanale intitolato “L’Uo-
mo qualunque” nel quale appare come sigla del giornale un poveretto che geme sotto il peso di un torchio che lo stritola (simbolo del potere che stritola la gente comune). Con
un linguaggio vivace e popolaresco, non alieno da parole che allora non si usavano nel linguaggio scritto, Giannini denuncia la condizione di quella grande moltitudine di persone semplici sottoposte alle conseguenze del malgoverno, del fanatismo e dei “politici professionisti”: è la “folla”, “l'enorme maggioranza della popolazione” che desidera “essere libera, pacifica, amante del proprio lavoro e del proprio benessere”, infastidita da chi
pretende di imporre la propria volontà senza saperne curare gli interessi. È un messaggio che interpreta uno stato d’animo largamente diffuso e che lo scrittore provvede subito a riempire di precisi contenuti politici quando paragona la dittatura crollata all’antifascismo e ai CLN. In poche settimane il giornale ha un enorme successo, specie nel Mezzogiorno ed in Sicilia, tutte regioni che non avendo conosciuto l’ultimo fascismo,
succube dell’occupazione tedesca, vede notevoli strati della popolazione non condividere le accuse rivolte dal nuovo ceto politico al fascismo e guardare anzi con preoccupazione le misure legislative per l’epurazione, che fondata sul principio di punire chi aveva profittato del potere durante il fascismo, finisce per punire piccoli impiegati e salvare invece non solo alti burocratici ma anche profittatori esterni all’amministrazione, specie industriali e costruttori, che avevano lucrato vantaggiosi appalti e commesse. Il consenso passerà dal piano giornalistico (il settimanale giungerà in pochi mesi ad oltre 800 mila copie) a quello politico. Sin dall’agosto ‘45 (con l’articolo “grido di dolore”) Giannini propone di dar vita ad un movimento organizzato (“Fronte dell’uomo qualunque”) già pronto nel gennaio ‘46 a tenere il primo congresso nazionale, con delegati
provenienti non solo dal Meridione ma anche da città del nord, in particolare dalla Venezia Giulia, dove la contiguità con Tito ha creato un fondato clima di timore. In tali
condizioni l’avversario esplicito da colpire è, per l'Uomo qualunque, il CLN visto come «strumento attraverso il quale il comunismo penetra nelle istituzioni e spadroneggia usan-
do intimidazione e violenza: di conseguenza viene avversata assieme ai partiti di sinistra anche la D.C. che - secondo Giannini — è venuta meno al suo dovere di difendere, con
l’Italia, la proprietà, la libertà ed i diritti dei cittadini. “Non ci rompete più i corbelli” dichiara espressamente il focoso polemista, in nome dello “Stato amministrativo” da costituire in antitesi con lo Stato politico dei fascisti e degli antifascisti. Arricchitasi di un quotidiano che già nel titolo (“Il buonsenso”) indica il tipo di ragionamento con cui cerca di insinuarsi tra i semplici “benpensanti” di ogni grado sociale, la nuova formazione 195
affronta il cimento elettorale e, tra la sorpresa quasi generale, ottiene il 2 giugno ‘46 un milione e 200 mila voti (oltre il 5%) e 30 seggi, di cui uno solo al nord. Naturalmente il maggior numero di voti proviene da ex fascisti o simpatizzanti, che sono naturalmente numerosissimi: persone che, per ragioni diverse, stentano a ritrovarsi nella democrazia con i suoi nuovi riti e le nuove gerarchie di valori e di uomini, ed in particolare epurati o epurandi passati al vaglio di un setaccio che per molti ha significato perdita del lavoro e sacrifici per i familiari. Nelle amministrative del ‘46 PU.Q. ottiene straordinari successi, riportando a ROma, Napoli, Catania e numerosi centri della Puglia più voti della D.C.. È un segnale di allarme che non sfugge né a De Gasperi, presidente di un governo con PCI e PSI, né al
suo più stretto collaboratore, il giovane Andreotti molto attento agli umori dei ceti impiegatizi romani. È proprio dal diario dell’allora sottosegretario alla presidenza risulta come quel segnale sia stato subito raccolto. Così nei primi mesi del ‘47, appena può, in rapporto alla condizione internazionale dell’Italia (il cui governo firma in febbraio il tratta-
to di pace) e alla situazione politica interna, De Gasperi effettua il rovesciamento di fronte, eliminando dal governo i comunisti ed i loro alleati, realizzando con la D.C. quello che era il vero obiettivo di tutta l'ampia fronda qualunquista contro il potere politico nato dalla conclusione della guerra.
Si spiega così come deputati dell’U.Q. non manchino di dare sostegno parlamentare all’operazione. In effetti De Gasperi, con la sua nuova scelta, che qualificherà storicamente la sua azione politica, ha sottratto a Giannini il massimo dei suoi argomenti, pro-
vocando il rapido dissolvimento del movimento, con l’effetto così di rafforzare la D.C., ben più radicata nella società italiana ed in grado di battersi contro i comunisti con più frecce nel proprio arco. Inoltre nel dicembre ‘46 una frangia di reduci di Salò ha dato vita al MSI, verso il quale affluiranno molti giovani che nel nuovo raggruppamento troveranno atmosfere più consone ad una mentalità in linea con la tradizione fascista mentre la linea di Giannini si riconnette a principî che fanno perno sulla libertà “dal” potere e quindi sulla libertà economica e politica come riferimento principale, posizione ri-
tenuta troppo “temperata” da un'ala oltranzista di cui si fa interprete Emilio Patrissi, che darà vita ad una scissione, formando il Movimento nazionalista di democrazia sociale (era
stato ricostituito anche un “partito nazionalista”). La D.C. dal canto suo, dopo aver accettato i voti di Giannini per formare il gover-
no monocolore (con Einaudi) nel maggio ‘47, non ha alcuna intenzione di dare ricono-
scimenti all’U.Q., giacché al contrario punta ad uno schieramento con gli altri partiti democratici di centro, come presto infatti riuscirà a comporre. È proprio su questo punto
emergerà un ulteriore scollamento all’interno del Fronte: quando Giannini ha deciso di ritirare l'appoggio al governo votando contro De Gasperi, più della metà dei suoi deputati non esita invece a confermare l'appoggio in una delicata votazione a seguito di un'iniziativa concordata tra il presidente della Confindustria Costa e l’armatore Lauro (già inviato in campo di concentramento alleato come ex fascista ed ora esponente monar-
chico a Napoli), il quale garantisce ai dissidenti dell’U.Q. la rielezione nelle liste monarchiche. Ma Giannini, nella sua ruvida polemica con i dirigenti d.c. che non perdono occasione per screditarlo dopo essersene serviti, quando si rende conto che sta per “essere buttato a mare” da coloro che egli aveva difeso, inizia una polemica nei confronti di quegli “interessi economici” che lo vogliono “strangolare” ed in effetti già vi sono riusciti. Ciò spiega anche l'avvio di un “dialogo” con Togliatti, il quale ad un certo momento
196
ritiene di non considerare aprioristicamente negativa la rottura del “muro di ghiaccio” che sussiste tra comunisti e qualunquisti, in vista di diminuire la forza d’attrazione della D.C. verso i ceti medi. L'indurimento delle posizioni comuniste proprio nell’inverno ‘47-48 fa cadere manovre del genere, e Giannini ora combatte la sua estrema battaglia contro i suoi ex so-
stenitori e preferisce, per le elezioni dell’aprile ‘48, che l'Uomo qualunque non si presenti da solo ma faccia blocco con i liberali in una lista nella quale verranno eletti 5 deputati, tra i quali faticosamente si inserirà Giannini.
Oramai lo scopo per cui l’uomo, pressato dal torchietto si era ribellato è raggiunto, sarà la D.C. grande vincitrice delle elezioni a gestire il corso “moderato” su cui - con sod-
disfazione di molti che avevano votato l'U.Q. - si avvierà la politica italiana. Il termine “qualunquista” resterà nel lessico politico ad indicare un atteggiamento a-ideologico, che si era espresso nel ‘46 come forma di rifiuto dei fideismi imperanti: ma l’omologazione tra fascismo ed antifascismo dei C.L.N. sarà a lungo rimproverato all'inventore della formula, al termine della sua fortunata stagione.
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Capitolo XI
MOVIMENTI AUTONOMISTI
Movimenti autonomisti sono sorti in varie zone d’Italia sin dal periodo finale della
guerra e subito dopo ed hanno mantenuto la loro presenza, anzi rafforzandosi dagli anni Ottanta in poi. Essi si sono impegnati nella rivendicazione di statuti di autonomia, non senza - in qualche caso- spinte indipendentiste. Il più antico è il il Partito Sardo d’Azione (v.). Dal ‘45 in poi si sono costituiti l’Union Valdotaîne, il Movimento Autonomista Occitano (in Piemonte), nonché l'Unione del Popolo Veneto, altri gruppi che spesso si presentano alle elezioni con liste civiche, e l'Unione Slovena in Venezia Giulia; vi è
inoltre un partito popolare trentino tirolese. Ne esaminiamo separatamente i principali Di particolare rilievo, volutamente ancorata ai propri limiti territoriali, è la Sud Tiroler Volfspartei (S.V.P.), movimento della popolazione di lingua tedesca nell’Alto Adige, dove ottiene in ogni elezione una percentuale almeno del 60% dei voti, grazia ai quali è presente sulla scena politica ed istituzionale del paese ai vari livelli in cui essa è articolata. L'Union for Sud Tirol, di più recente costituzione (guidata da Eva Klotz), è apertamente per la secessione dall'Italia e l'annessione della zona all'Austria. Indipendenti ma meno forti elettoralmente, e meno legati ad un gruppo etnico preciso di riferimento, sono gli autonomisti della Lista per Trieste, il “Melone”, nata negli anni Settanta ed attestatasi sul 15% delle preferenze elettorali espresse in quel territorio. Tale simbolo si è in varie elezioni collegato con altre formazioni in varie circoscrizioni, sia con gruppi nuovi e di corta vita (non escluse liste di pensionati tra cui quella roma-
na facente capo a Luigi D'Amato, direttore del “Giornale d’Italia” e parlamentare prima d.c. poi eletto con i radicali). Si tenga infine presente che federalista si è denominato alla Camera un gruppo, costituito prevalentemente da radicali.
PARTITO SARDO D'AZIONE
Fondato nel primo dopoguerra da Emilio LUSSU, reduce dal fronte ove si era coraggiosamente comportato, il Partito Sardo d'Azione - storicamente il primo e più importante movimento autonomista - nacque con una precisa connotazione di rivendicazione dell'autonomia rispetto allo Stato italiano per realizzare un chiaro patto federale. Oltre agli ex combattenti della “Brigata Sassari”, ai contadini ed ai minatori, al movimento aderirono molti settori dei ceti medi. Ricostituito nell'immediato secondo dopoguerra,
legato inizialmente al P. D’Azione a livello nazionale, è stato presente alla Costituente ed anche in seguito in Parlamento, riportando anche nelle elezioni reginali consensi considerevoli. Precursore dell'idea dell'Europa dei popoli e delle etnie rispetto all'Europa degli Stati, contrario alle Regioni viste esclusivamente come strutture burocratiche e non rappre-
sentative delle tradizioni e delle caratteristiche tanto storiche che etiche dei suoi abitan199
ti, il Partito Sardo d'Azione afferma la tesi di un federalismo regionalista, riferito ai con-
fini etnografici dell’isola, e propone anche l’ufficializzazione, sebbene non in maniera esclusiva, della lingua sarda. Costanti nella politica sardista restano l'affermazione dell’autogoverno insieme alle problematiche legate alla specialità del territorio, variabili gli
esiti elettorali. Il Partito sardo d'azione manterrà una posizione di primo piano nel Consiglio regionale dell’isola mentre scenderà nelle elezioni politiche (alla Costituente aveva ottenuto quasi 80 mila voti, successivamente si attesterà sui 25-30 mila, per risalire nell'83
con 92 mila); avrà una movimentata vita interna anche in rapporto alle nuove dislocazioni delle forze economiche locali e nazionali, che cercheranno di portare avanti un processo di industrializzazione e contemporaneamente di lanciare il settore del turismo. L'in-
tero paronama politico e sociale della Sardegna presenta un’evoluzione sotto molteplici aspetti che andrebbero separatamente analizzati, soprattutto dal punto di vista dei cam-
biamenti di costume. L'esempio dei sardisti rappresenterà un importante punto di riferimento per gli altri movimenti autonomisti che si diffonderanno in Italia dalla fine degli anni Ottanta. In particolare il P.S.d’A. ha sostenuto la proposta di istituire una zona franca come regime integrale per tutta l'isola: la questione coinvolge ed ingloba la maggior parte dei temi portati avanti dal partito, quali una politica del credito differenziata, capace, attra-
verso agevolazioni alle imprese, di favorire lo sviluppo economico. Il partito dichiara di rifiutare gli strumenti assistenziale promossi dal governo centrale, mentre ha favorito, in risposta all'operazione portata avanti dei grandi colossi bancari, lo sviluppo e la nascita di numerose Casse Rurali ed Artigiane che raccolgono il credito per ridistribuirlo unicamente nell’ambito locale. Il partito conta nel ‘93 circa 10 mila tesserati, ed è territorialmente organizzato attraverso le federazioni, i distretti e le sezioni. Con dieci rappresentanti al Consiglio re-
gionale (tra cui il segretario Italo ORTU), all'opposizione, ha attraversato all’inizio degli anni ‘90 una crisi strutturale. Infatti dopo il boom elettorale del ‘79 (quando salì dal 3 al 16%) non riuscì a tradurre il risultato positivo in una precisa azione politica. Il suo peso elettorale ha subito fasi alterne collocandosi al terzo posto nella regione dopo D.C. e PCI, con oltre il 13% nell’84. Spesso il suo calo elettorale è da riconnettere, non ad
una mancanza di identità politica, quanto, piuttosto, a lacune di natura organizzativa. A tal scopo è stato avviato un processo di rinnovamento, attraverso il ricambio del gruppo dirigente.
Come gli altri movimenti autonomisti, è stato danneggiato dalla legge elettorale del ‘93 ed infatti non ottiene deputati nelle elezioni del ‘94.
UNION VALDOTAINE L’'Union Valdotaîne nacque sulla scia dell’insegnamento di un esponente antifascista valdostano ucciso nel 1944, Emile Chanoux. Il movimento definito genericamente
‘separatista”, era in effetti composto da indipendentisti, autonomisti, regionalisti nonché da fautori dell'annessione alla Francia. Il principale punto di riferimento è la Dichiarazione di Chivasso redatta da Cha-
noux del 1943, che denunciava i soprusi commessi nell'epoca fascista e le sopraffazioni del centralismo mentre venivano richiamati i forti legami linguistici con l’area francofona. 200
Il movimento fu fondato nel settembre 1945, dopo che già era stato sollevata l’esigenza
di una “garanzia” internazionale, oltre da una proposta di stampo federalista per la Val D'Aosta ed ebbe Bruno Salvadori come animatore dell'ideale autonomista (tanto da in-
fluenzare in seguito anche Bossi). L’autonomia valdostana fu sostenuta alla Costituente
dal leader del Partito Sardo d'Azione, Emilio Lussu, ma l’uomo guida dell’Unione fu in quegli anni Severino Caveri, presidente del Consiglio Regionale, che contribuì notevolmente all’opera di ricostruzione della Valle d'Aosta, in pochi anni divenuta, per molti
versanti, una zona modello. Non mancavano convergenze con la locale D.C., meno decisa per alcuni aspetti nella spinta autonomista, ma tuttavia consapevole dell’importan-
za delle esigenze’fatte valere dall'Unione. Ciò spiega l’alleanza dei due partiti nell’ambito del Consiglio. Tuttavia nel ‘54 la Democrazia Cristiana tentò di sostituire alla presidenza Severino Caveri: la risposta della Unione Valdotaîne fu l'abbandono dell’antico alleato con la scelta di un apertura e collaborazione con i partiti della sinistra, che provocò però il blocco della legge sulla realizzazione della zona franca, prevista dallo Statu-
to delle autonomie da parte del Consiglio dei Ministri. Tale situazione si protrasse sino al 1958. Il periodo 1959-65 venne definito della “Giunta del Leone”, caratterizzato dal-
l'alleanza con i partiti della sinistra, per l'attuazione di un programma sociale diretto a
frenare l'abbandono della montagna e ad assicurare l’aiuto per l’istruzione degli strati sociali più poveri nonché la valorizzazione della tipicità della cultura valdostana. Tra il ‘70 e il ‘73 si ebbe l'uscita di un gruppo di persone della tradizionale sinistra della D.C.; nacque così il gruppo dei Democratici Popolari, che governarono insieme all’Union Valdotaîne. Dal 1974 il partito dei valdostani riacquistò la guida diretta del Consiglio Regionale con Mario Andrione, ottenendo così un lungo periodo di stabilità e sicurezza eco-
nomica. A livello di percentuali l’Union Valdotaîne è arrivata sino al 27,3% dei voti, mentre
ininterrotta è stata l’azione per realizzare il progetto di uno Stato di tipo federale, per l'Europa dei popoli. Il primo test elettorale delle elezioni europee consentì l'elezione di un parlamentare nella lista proposta insieme al Partito Sardo d'Azione, con oltre 200 mila voti. Successivamente si è registrato un ricambio generazionale dei vertici con l'elezione a segretario di Augusto Rollandin, lo slogan del partito divenne “l'impegno per la riconquista del nostro Paese”, con la spinta trainante dell'impegno internazionalista ed europista che portò l'Unione Valdotaîne a partecipare alla “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli” (Barcellona, ‘90).
A livello di risultati elettorali, nel 1987, alle elezioni politiche, Luciano Caveri è stato eletto alla Camera dei Deputati con il 55% dei voti mentre alle elezioni regionali del 1988 il partito valdostano ha superato il 34% dei consensi elettorali. Nel 1989, come risoluzione finale del terzo congresso del partito, è stato eletto alla segreteria Guy Grimod mentre nel 1990, per la prima volta, l'Unione Valdotaîne è diventata la forza di maggioranza costituita da D.C., P.S.I., PRI. ed un gruppo locale. Caveri ha presentato in Parlamento una proposta di legge costituzionale “norme per la costituzione dello Stato Federale”, che si richiama alla “Carta per l'Europa dei popoli”, sottoposta precedentemente al Parlamento Europeo ed al documento sull’autodeterminazione dei popoli, il “Document Emile Chanoux”, consegnato a suo tempo all’O.N.U.. Nelle elezioni del ‘94 vengono eletti un deputato (Caveri) ed un senatore (Dujany,
molto attivo nelle precendenti legislature). 201
SUDTIROLER VOLKSPARTEI Promotore della S.V.P. fu Erich AMMON,
che, contrario alle posizioni assunte dai
paesi dell'Asse, aveva raccolto attorno a sé un gruppo di avversari al regime nazista. Con essi nel maggio 1945 fondò a Bolzano-Gries un partito per sostenere presso i comandi militari Alleati l'esercizio del diritto di autodecisione per i sudtirolesi. I partecipanti erano per lo più “Dableiber”, cioè cittadini che avevano rifiutato la cittadinanza germanica e la conseguente emigrazione nel Terzo Reich. Ammon assunse la carica di Obman (Pre-
sidente) mentre l’Avv. Joseph Raffeneir venne nominato segretario generale ed il capo dei contadini Joseph Menz-Popp vicepresidente. Pochi giorni dopo la S.V.P. ottenne dal locale comando alleato l'autorizzazione e venne riconosciuto come partito politico legale scaturito dal movimento di resistenza antinazista. La nuova formazione (i testi dei primi documenti della S.V.P. in “La ricostituzione dei partiti democratici”, Vol. I, con una nota introduttiva di Lamberto Mercuri), che presto potè contare 50 mila iscritti, si trovò subito a misurarsi con il problema della provvisoria regolamentazione scolastica e con il ritorno dei prigionieri di guerra e con il grosso problema degli “‘optanti”, di coloro cioè che, in base agli accordi tra Mussolini ed Hitler, avevano optato in favore della cittadi-
nanza germanica, anche se non tutti gli optanti l'avevano poi effettivamente ottenuta. La S.V.P. cercò un dialogo con il governo italiano e i suoi rappresentanti si incon-
trarono con il Presidente De Gasperi, il quale successivamente stipulò con Gruber il noto accordo italo-austriaco (Parigi, 5 settembre 1946), secondo il quale i cittadini di lin-
gua tedesca della provincia di Bolzano già optanti per la Germania avevano diritto di rioptare a favore dell’Italia mediante una procedura amministrativa presso Ministero dell’Interno e Consiglio di Stato. Da parte sua il governo italiano si era impegnato a rico-
noscere un'ampia autonomia amministrativa e culturale. Nel febbraio ‘47 si tenne il primo congresso provinciale del partito che approvò lo
statuto ed un suo programma. L'Assemblea Costituente, nella quale erano presenti i rappresentanti della S.V.P., il 31 luglio ‘47 ratificò l'accordo di Parigi e, conferendogli valo-
re di legge, prese atto dell’accettazione da parte della popolazione sudtirolese di operare nello Stato Italiano. Pertanto venne ufficialmente istituita la Regione Trentino-Alto Adi-
ge, secondo un progetto precedentemente elaborato. Nel gennaio ‘48 rappresentanti della S.V.P. furono invitati presso la Commissione parlamentare per le autonomie speciali che riconobbe la validità di alcune richieste: nell’ambito della nuova Regione a statuto speciale fu riconosciuta l'autonomia delle due province di Bolzano e di Trento.
In sede politica nazionale la S.V.P. assunse un atteggiamento di sostegno della politica della D.C. e quindi del centrismo, con una rigida attenzione alla salvaguardia dei principî di autonomia, sollecitandone la piena applicazione. Vi furono varie fasi nei rapporti tra potere centrale e rappresentanza sudtirolese. Roma però tenne sempre a sostenere
che si trattava comunque di questione interna dello Stato italiano, mentre il governo di Vienna rivendicava il suo diritto di intervenire, come fece nel settembre ‘59, quando il Ministro degli Esteri Kreisky portò la questione in sede di Assemblea Generale delPO.N.U.; e l'Assemblea ratificò i contenuti di alcune norme che avevano introdotto modifiche rispetto alle decisioni del ‘46.
Già dal febbraio ‘58 tre deputati della S.V.P., Karl Tinz, Otto Von Guggenberg e Toni Ebner presentarono in Parlamento un progetto per un nuovo statuto di autonomia limitato all'Alto Adige. Successivamente, dopo un incontro (maggio ‘64, Ginevra) tra imi-
202
nistri degli esteri italiano ed austriaco, il governo italiano presentò un “pacchetto” di 18
proposte contenenti 137 msure per una migliore tutela dei gruppi linguistici tedesco e
ladino. Infine tra il ‘69 ed il ‘72, anno in cui venne approvato il nuovo Statuto, il Parla-
mento approvò una serie di misure concordate le più importanti delle quali riguardavano l'applicazione del sistema proporzionale nelle elezioni e l'obbligo della conoscenza della lingua italiana e tedesca per l’accesso al pubblico impiego. A livello locale così come in sede parlamentare, la S.V.P. ha sempre difeso i diritti
delle autonomie e delle minoranze linguistiche (oltre alla tedesca, la ladina). Sul piano politico generale la S.V.P., concorde con le posizioni e le proposte politiche avanzate dalle maggioranze imperniate sulla Democrazia Cristiana, si è spesso scontrata con il governo
di Roma (tra l’altro scottanti i problemi dell’ediliza agevolata, dell’uso delle rispettive lingue nelle scuole, negli uffici, nei tribunali). Ne sono scaturiti fraintendimenti che hanno successivamente determinato situazioni di svantaggio specialmente pr icittadini di lingua italiana, di fatto minoranza nella provincia. Delle accese controversie si è spesso giovata, in sede elettorale, l'estrema destra missina. La S.V.P., che dall’inizio degli anni ‘90 conta 76 mila iscritti, ha promosso un movimento femminile e un’organizzazione giovanile (“funge Generation in der S.V.D.”).
Nelle elezioni del ‘94 ottiene 3 senatori e 3 deputati eletti nei collegi uninominali ma giustamente protesta perché la nuova legge non consente il recupero a formazioni che, presentandosi solo in un ambito territoriale delimitato, non sono in grado di conseguire la percentuale del 4% a livello nazionale, posta come minimo per partecipare alla ri-
partizione proporzionale dei seggi. MOVIMENTO
COMUNITA’
Il movimento più originale sorto in Italia nella esperienza repubblicana è stato Comunità, l’organizzazione nata a Torino nel ‘48 ad iniziativa di Adriano Olivetti, industriale
e studioso che nell’acuto saggio “L'ordine politico delle Comunità” aveva indicato la base per un rinnovamento sociale nella creazione di nuove unità istituzionali costituite su cellule territoriali raccolte in uno Stato federale nel quale l'aggregazione delle forze produttive - lavoro, capitale, operatori culturali - consentisse la socializzazione del potere economico, superando le conflittualità ed assicurando sviluppo industriale e sociale. Il passaggio dall'economia di mercato fondata sul profitto all'economia basata sull’idea sociale di servizio veniva visto come ricomposizione del rapporto produttore - cittadino consumatore. Dopo una iniziale attività nel Canavese, Olivetti riesce a promuovere la formazione di “centri” che nel ‘49 danno luogo ad un Consiglio generale delle Comunità, cui si aggiungerà una direzione politica esecutiva. A Roma Umberto Serafini mette in azione una esemplare iniziativa culturale, mentre la Dichiarazione politica del 1953 sviluppa l’idea
di un moderno Stato di diritto, prospettando una “terza via” del socialismo vista come potere diffuso, economia autogestita, con un richiamo all'esperienza della Fabian Society. L'impegno politico del creatore del Movimento, organizzatore a Ivrea di una industria tecnologicamente avanzata nella quale si esperimentano nuove forme di collaborazione del lavoro alla conduzione dell’impresa, si esplicita in tentativi di partecipazione elettorale (nel ‘53 in Piemonte con Unità popolare - v. PRI e PSDI), che registrano suc203
cessi nel Canavese e alleanze con il partito dei Contadini e il partito sardo d’azione. Nel ‘58 a Ivrea viene eletto senatore Olivetti, sostituito poi dal sociologo Franco Ferrarotti.
La “comunità di fabbrica” è diretta a consentire una moderna impostazione dei rapporti industriali e sollecita la corresponsabilizzazione dei lavoratori nella gestione dell’azienda. Sono iniziative non guardate inizialmente con favore dalla CGIL e seguite invece con attuazione dagli intellettuali nonché dai quadri tecnici che cercavano di sottrarsi alla logica del binomio contrapposizione DC - PCI rispecchiante ildualismo capitalismo - pianificazione statalista. Dopo la morte dell'ing. Olivetti (1960), la situazione politico-economica tende a mutare per effetto della nuova dislocazione delle forze politiche (centro-sinistra, illusione programmatorie, evoluzione dei comunisti) e quindi si punta a soluzioni fondate sul-
l'intervento dello Stato più che sulla responsabilizzazione dei gruppi sociali, come nel programma di Comunità. Al movimento ha dedicato accurati studi Donatella Ronci.
204
Capitolo XII LE LEGHE
1 - Un raggruppamento vivace ed agguerrito è apparso nella politica italiana negli anni ‘80, affermandosi poi con forza nelle regioni settentrionali all’inizio degli anni ‘90, muovendo dall’agitazione di una serie di problemi riguardanti - soprattutto dal punto di vista economico - gli interessi degli abitanti di quelle regioni, per giungere alla proposta di trasformare l’Italia in una repubblica federale. Si tratta del gruppo sorto attorno alla Lega Nord (LN), comprendente Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemont Autonomista, Union Ligure, Lega Emiliano-Romagnola ed Alleanza Toscana e che ha varato, inoltre,
la costituzione di una Lega Centro (LC) e di una Lega Sud (LS). La Liga Veneta è stata la prima ad essere costituita. Nasce come movimento politico nel ‘79, quando, dopo l’incontro del suo fondatore Franco Rocchetta con Bruno Sal-
vadori di Union Valdotaîne (v.), viene siglato un accordo tra i due movimenti in virtù del quale la Liga si presenta alle elezioni europee, raggiungendo un limitato successo lo-
cale, consolidato alla regionali del 1980 e soprattutto alle politiche del 1983. In quest ultima occasione riesce infatti ad eleggere un deputato ed un senatore. Subito dopo, però la Liga si spacca per questioni di leadership. Inizia così un tormentato periodo che
vede due Lighe contrapporsi, fintanto che, nel 1985 - passando anche attraverso le aule dei tribunali - non si arriverà alla decisione definitiva che sancisce Liga Veneta rimanere denominazione del movimento capeggiato da Rocchetta, mentre Tramarin, il parla-
mentare secessionista, dovrà piegarsi e indicare in Serenissima Liga Veneta la formazione da lui guidata. A metà degli anni ottanta una nuova formazione, l'Unione del Popo-
lo Veneto, tenterà di ledere il primato della Liga, senza tuttavia ottenere risultati significativi. Per comprendere le vicende di Piemont Autonomista bisogna risalire all’80 quan-
do Roberto Gremmo dà vita al movimento autonomista piemontese, l’Arnassita Piemonteisa, che nel 1986 verrà fondato ufficialmente come Unione Piemonteisa. A causa
di una gestione accentratrice, si verifica una spaccatura, guidata tra gli altri da Gipo Farassino, che diverrà il leader del nuovo movimento Piemont Autonomista. La presenza di due formazioni distinte alle elezioni del 1987 non consentì la raccolta di voti sufficienti ad eleggere rappresentanti federalisti in Parlamento. Veniamo adesso alla Lega Nord,
al cui interno la forza politicamente più significativa e determinata è la Lega Lombarda. La Lega Autonomista Lombarda (LAL) - poi Lega Lombarda (LL) - nasce dall’incontro di Umberto Bossi con la cultura e l'elaborazione della Unione Valdotaîne di Bruno Salvadori e che si richiamava all’insegnamento di Chanoux: i suoi tentativi di inserimento nel panorama politico - concentrati nell’area del Varesotto - avverranno in seno alle for-
mazioni regionaliste settentrionali ad essa preesistenti. La prima uscita pubblica della LAL risale al marzo 1982, quando “Rinascita Piemontese” ospita come proprio inserto “Lombardia Autonomista”, foglio firmato dal neonato “Comitato Promotore della Lega Autonomista Lombarda””, presentato come numero unico ma destinato a divenire organo
205
politico della nuova formazione. I principî ispiratori della LAL sono indicati nel trinomio: libertà, autonomia, federalismo. La base propagandistica è il federalismo integrale, dottrina sulla quale vengono fondati e sviluppati negli anni successivi, con il fondamentale contributo del prof. Gianfranco Miglio - insigne studioso e già promotore di una radicale riforma delle istituzioni -, i pre-
supposti di una nuova organizzazione politico-amministrativa dello Stato. Al governo centrale si imputa la responsabilità di una gestione fallimentare, causata in particolare da un prelievo fiscale discriminatorio e da una politica della spesa pubblica clientelare, che determinano, tra l’altro, un trasferimento di risorse finanziarie dal Nord, definito “opero-
so” ed europeo in contrapposto al Sud, considerato “improduttivo”, con il risultato - si afferma - di impoverire il primo, paralizzandolo e sfruttandolo. E sebbene la Lega si ri-
chiami a Cattaneo - la cui visione peraltro aveva sia un chiaro impianto filosofico e sociale sia una impronta rivolta ad unire un'Italia ancora divisa - , all'obiettivo federalista
sembra sovrapporsi prima una polemica antimeridionalista, poi contro gli immigrati extracomunitari; infine, superata una fase principalmente contestatrice, riemerge quella che è l'esigenza principale da cui muovono i leghisti, e che spiega i suoi successi, la protesta fiscale con la richiesta di una separazione tra introiti fiscali percepiti nelle regioni settentrionali e quelli di altre regioni per devolvere i primi solo a favore delle stesse regioni del nord, salvo un richiamo a motivi di solidarietà per le zone meno sviluppate. Sin dai primi anni di attività la Lega oltre che al federalismo rivolge la sua attenzione alla rivendi-
cazione dell’autonomia della “nazione” e del “popolo” lombardi, una entità della quale osservano i critici - non si rintraccia invero una precisa identificazione storico culturale. Mentre si teorizza la trasformazione dello Stato Italiano in una “Confederazione che rispetti l'identità delle diverse etnie”, si richiede l'immediata proclamazione di regione a
statuto speciale della Lombardia, argomento che fa facilmente presa su larghi strati di popolazione. Ma ormai la sua azione ha un rilievo nazionale con la critica ai metodi messi in atto dalla partitocrazia. In questo contesto, il concetto di libertà elaborato dalla Lega sembra dare per acquisite le libertà democratiche, concentrandosi invece sulla libertà da: soprattutto dal governo di Roma per rivendicare quell’autonomia politico-economico-istituzionale che dovrebbe consentire un positivo sviluppo del popolo lombardo, affrancato dai legami imposti dallo stato centrale, riprendendo la polemica contro “Roma ladrona” che aveva caratterizzato a fine ottocento un movimento d’opinione tanto forte da far parlare di uno “Stato di Milano” (ne ha scritto F. Fonzi). Soprattutto all’inizio della propria attività, quando la logica del populismo locali-
stico è preminente nella sua impostazione, la Lega insiste sui sentimenti di appartenenza territoriale, accentuando i motivi di conflittualità: nella “lingua lombarda” Bossi ed i suoi individuano inizialmente un elemento portante della propria intelaiatura, ma quan-
do tale punto si rivelerà di per sé un'operazione improponibile e scomoda, come base dell’azione nel paese, preferiranno piuttosto adottare un linguaggio popolaresco, che faccia
presa su uno stato d'animo semplice ed elementare. Nel 1983, la LAL si presenta per la prima volta alle elezioni amministrative sotto il
simbolo della Lista di Trieste nei collegi di Como-Sondrio-Varese e Mantova-Cremona: come slogan adotta la formula “vota autonomista, per affermare che i tuoi figli devono vivere in Lombardia dove devono poter trovare lavoro, giustizia sociale e libertà”. Nel 1984 sotto il segno dell’Unione per l’Europa Federalista - che mantiene il simbolo della 206
Liga Veneta - la Lega Lombarda, la Liga Veneta, il Movimento Autonomista di Rinascita Piemontese, il Partito Popolare Trentino-Tirolese e il Partito Federalista Europeo, si presentano senza ottenere grande successo alle elezioni per il Parlamento Europeo (1,8% dei voti e due eletti). L'anno seguente, nel maggio 1985, la Lega Lombarda (non più Autonomista) si candida per la prima volta con il suo simbolo, accompagnato da quello della Liga Veneta,
ad un appuntamento elettorale; nelle elezioni amministrative parziali svoltesi in alcuni comuni del Varesotto e per la Provincia di Varese, raccoglie in queste ultime il 2,5% dei consensi, con significativo risultato anche nei comuni di Varese e Gallarate. Le elezioni
politiche dell’87 vedono la presenza di liste della LL su tutto il territorio regionale lombardo, salvo le province di Cremona e di Mantova. La Lega ottiene il 3,0% dei suffragi alla Camera dei Deputati ed il 2,5% al Senato, eleggendo quindi un deputato sulla cir-
coscrizione di Varese. Sempre nell”87, la LL si presenta in diversi comuni per le elezioni parziali amministrative della Lombardia. Ottiene in media il 6,1% dei suffragi arri-
vando ad eleggere 44 consiglieri comunali ed un consigliere provinciale (Pavia). In quell’anno, dopo le elezioni, viene siglato a Brescia un accordo tra Lega Lombarda, Union Piemonteisa e Liga Veneta, in virtù del quale le tre formazioni sanciscono formalmente
un'alleanza “reciproca e paritaria” sulla base “dei principî comuni ai nostri tre Popoli, dell’Autonomia, del Federalismo e della Solidarietà”.
Nell’89 per le elezioni per il Parlamento Europeo lo stesso raggruppamento raggiunge il 5% dei suffragi, grazie ai quali la forza autonomista può inviare a Strasburgo due rappresentanti.
3 - Spesso accusata di centralismo e di rigidità piramidale nella struttura organizzativa, la Lega di Bossi risponde dichiarando di avere in questo il proprio punto di forza,
teorizzandolo come necessario per un movimento giovane, onde non soccombere nella frantumazione o all’altrui strumentalizzazione. Non sono perciò ammessi voti o mozioni contrari a quanto già stabilito. La gerarchia della Lega è molto rigida; essa è infatti sancita da una serie di norme statutarie che, sebbene rivisitate negli anni, non ne cancellano la natura. La ferrea disciplina adottata, ha consentito alla Lega - oggetto di tentativi esterni di divisione e depotenziamento - di espellere una decina di membri, accusati di “indegnità”.
Nell'89 la Lega è una forza politica maturata, ben determinata e concentrata in alcune aree della Lombardia, dove è presente nell’ambito istituzionale con 2 consiglieri pro-
vinciali e 46 consigliere comunali. I consensi raccolti in quest'area le hanno inoltre permesso di eleggere un deputato ed un senatore in ambito nazionale e di portare 2 rap-
presentanti anche in quello europeo. È al I Congresso ordinario (8-10 dicembre 1989) che si sancisce il passaggio definitivo dal modello del “populismo localistico” a quello del “populismo regionalista”; si ridefinisce, smorzandone i toni ed i contenuti, la polemica
antimeridionalista e nei confronti degli extra-comunitari; si allarga il concetto di “popolo” alle regioni padano-alpine, “comunità multiregionali della stessa cultura”. L'idea di
una Repubblica del Nord e di un'Italia divisa in tre repubbliche o macro-regioni sta prendendo consistenza. Essa porterà entro breve alla costituzione della Lega Nord avvenuta ufficialmente nel novembre dell”89 e finalizzata ad una integrazione-assimilazione delle
diverse Leghe regionali sul modello della Lega Lombarda. Inoltre si formano una Lega Centro e una Lega Sud, destinate queste però a non trovare consensi. 207
Il tema di una riforma istituzionale che sancisca l'autonomia di territori tra loro accomunati da omogeneità di interessi e cultura diviene obiettivo centrale della nuova forza. Superata la logica dei localismi, il movimento lombardo, specie grazie alla elabora-
zione del suo teorico Miglio, indica nell’aggregazione di più regioni - “troppo piccole per esercitare una funzione di governo, troppo grandi per essere organi amministrativi” - i soggetti politici iin grado di dare vita ad una struttura che si sostanzi nella creazione di tre macroregioni autonome tra loro ma federate in una “Unione” con compiti di coor-
dinamento e propositivi, alla quale spetti di intervenire solo in alcuni settori del governo pubblico sovranazionale (politica estera, giustizia, difesa) e pur sempre in termini generali. Il Presidente di tale Unione dovrà anch'egli essere eletto direttamente dal popolo. All’interno della Lega si formerà una Consulta cattolica, nella quale si mette in luce la giovane Irene Pivetti per posizioni molto nette e chiare in materia religiosa, che hanno aspetti pre-conciliari non consonanti con l'Arcivescovo di Milano cardinale Martini,
non senza riserve nei confronti dell’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nel maggio ‘90 la nuova formazione autonomista si misura con le elezioni amministrative. Il terremoto politico, che investirà tutto il Nord e con esso l’intera penisola due anni dopo, è solo annunciato. Ma lo scossone è violento: 19% dei voti in Lombardia, 5% in Piemonte, 3% in Emilia Romagna. Il successo appare impetuoso ed i partiti tradizionali non nascondono sorpresa e timore.
4-LaL.N. terrà il suo primo Congresso a Pieve Emanuele dall’8 al 10 febbraio ‘91. In questa occasione, Bossi affermerà tra l’altro che “è solo nel federalismo che la legge morale potrà adeguarsi al diritto positivo”. Qualche mese più tardi, il 16 giugno ‘91, a Pontida viene annunciata la proclamazione della “Repubblica del Nord”, suscitando vasta eco in tutta Italia, con proteste, ma anche una maggiore attenzione, specie da parte
delle sinistre, alle problematiche di un regionalismo spinto ai limiti del federalismo. Le elezioni politiche del ‘92 rappresentano il grande appuntamento della LN “Lombardia Autonomista”, che presenta nel programma al primo punto il proprio impegno per “la trasformazione dell’attuale Stato centralista in un moderno Stato federale articolato in tre Macroregioni (Nord, Centro, Sud) che sappia riaffermare oltre alla storia, ai valori morali e sociali e culturali delle nostre regioni anche le capacità imprenditoriali dei popoli del Nord e le potenzialità di sviluppo economico dei popoli del Centro e del Sud”. I risultati ottenuti dalla L.N. sul territorio nazionale sono pari all'’8,2% al Senato (2.720138 voti) e all'8,7% alla Camera dei Deputati (3.394.917 voti). In tutto elegge 25 senatori e 55 deputati. Diviene il primo partito a Milano, a Varese, a Como, a Mantova ed a Pavia. Il secondo in Lombardia, in Veneto ed in Piemonte. Il terzo in Liguria, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Risulta il quarto partito a livello nazionale, dopo D.C., PDS e PSI. Non solo, Umberto Bossi (candidato anche in Sicilia per sottolineare il carattere non esclusivamente “nordista” del movimento) consegue un risultato personale di tipo plebiscitario (votano infatti per lui 240 mila italiani dei quali oltre 78 mila milanesi). E sebbene nel Centro e nel Sud la Lega non riesca a sfondare e deluda, rimanendo una forza solo nel Nord, la sua affermazione rompe antichi equilibri ed alleanze, anche a livello nazionale, in quanto il peso della nuova forza, il cui rilievo si era cercato di smi208
nuire, costringe gli altri partiti alla ricerca di nuove tattiche e strategie. Ciò diverrà più evidente quando il dibattito parlamentare affronterà le riforme istituzionali, ed i leghisti mostreranno di avere programmi precisi su vari punti, essendo ormai divenuti una for-
za nazionale, in progressiva crescita, come si vedrà nelle amministrative dell’autunno ‘92.
Miglio non esita a riprendere motivi dottrinali della “disobbedienza civile”. Nelle elezioni amministrative dell’autunno ‘92, a Varese la L.N. ottiene il 37,3% dei suffragi, a Monza il 32,1% è divenuto il primo partito e sarà impossibile non tenerne conto. Invece nel Mezzogiorno si conferma la tendenza di incanalare voti verso un partito di destra come il MSI, mentre la Lega Sud, presentatasi per la prima volta, raccoglie solo lo 0,2% di consensi.
Ormai la principale motivazione che spinge a votare per la Lega e ne spiega il successo è la protesta fiscale di massa, con la denuncia di tutti gli errori e le iniquità del sistema tributario italiano. Non a caso la Lega raggiungerà i maggiori successi dopo le rivelazioni di Tangentopoli (alla cui “scoperta” ha contribuito, più che qualsiasi altro gruppo politico con i suoi insistenti ed incessanti richiami che hanno creato in Lombardia un atmosfera di insopportabilità nei confronti delle malefatte del “regime”) e gli ulteriori gravami imposti dal Governo Amato nel tentativo di risanare il bilancio statale: la Lega invita i cittadini a pagare solo la quota minima prevista per l’imposta straordinaria immobiliare, indipendentemente dall'importo dovuto per legge e a non sottoscrivere più i buoni ordinari del tesoro al fine di non far affluire risparmio privato ad uno Stato, conside-
rato inefficiente e dissipatore e che non riesce a controllare la spesa pubblica, assorbendo una grande parte della ricchezza nazionale, destinata ad essere mal utilizzata. Poiché questi argomenti rispondono ad una realtà innegabile il movimento, al di là delle discutibili soluzioni proposte, si rafforza. Ne è consapevole lo stesso leader, il quale anzi, con indubbio tatticismo, modera la sua campagna anti-meridionale, nega e sconfessa quella
sorta di “razzismo” volgare delle sue frange estreme e tende a presentarsi come partito che aspira a conquistare una maggioranza a livello nazionale, e quindi il potere a livello centrale, non escludendo la partecipazione a governi con altre forze politiche. Oggetto di forte polemiche, la Lega se ne gioverà tanto che nelle elezioni ammini-
strative della primavera ‘93 ottiene un grande successo dimostrando anzi - a seguito delle sconfitte e della diaspora dei socialisti - di porsi, assieme a PDS e D.C. come una delle grandi forze del paese. La clamorosa vittoria al Comune di Milano (sindaco sarà Formentini, già funzionario della Cee) indica la forza trascinante del movimento che con-
quista gran parte dei comuni della Lombardia ed ottiene anche significativi risultati nel Veneto - non più “bianco” -, in Piemonte (a Torino non riesce ad entrare nel ballottag-
gio finale, ma il suo ricorso è accolto e la magistratura dispone una ricognizione dei voti effettivamente assegnati ai vari candidati) ed in Liguria.
Nelle comunali dell’autunno, pur rientrando nel ballottaggio a Genova e Venezia non va oltre il 42-43% dei voti, conquista però numerose amministrazioni in Lombardia, in Liguria (Sanremo) ed in Veneto (Chioggia), confermandosi come il partito più forte in Italia settentrionale. Di fronte al governo Ciampi la Lega ha assunto un atteggiamento di attesa, preferendo astenersi allo scopo di meglio condizionarlo (come fa pure il PDS): non manca di esprimere forti critiche al presidente del consiglio (come anche al capo dello Stato) accompagnate dalla sollecitazione per lo scioglimento delle Camere, inasprendo contemporaneamente le battute contro “Roma ladrona”. In effetti la maggioranza fa-
vorevole (il vecchio quadripartito) appare presa in considerazione dal primo ministro me209
no di quanto non accada ai partiti astensionisti. Se ne avrà conferma in varie occasioni,
e ciò rafforza - agli occhi dei suoi simpatizzanti - il prestigio della Lega la quale anzi si sente abbastanza forte da lanciare un ultimatum: se il Governo non si ritira - come ha dichiarato di voler fare - dopo il voto sulla finanziaria, i leghisti si ritireranno dal Parlamento e daranno vita ad un assemblea del Nord promuovendo un plebiscito per affermare il diritto delle regioni settentrionali a “staccarsi” dal resto del Paese. E nel dicem-
bre ‘93 mettono in atto il loro proposito. Ma dopo poche settimane il governo scioglie anticipatamente la Camera senza neppure attendere di perfezionare gli atti amministrativi indispensabili per l'applicazione della nuova legge elettorale.
Il movimento appare consolidato sul piano territoriale, ha inoltre imposto il tema del federalismo all’attenzione ditutti i partiti (tanto che PDS, socialisti e democristiani si fanno portatori di progetti per un regionalismo sempre più accentuato ed anzi molto vicino al federalismo sino ai limiti del federalismo e che saranno approvati dalla Com-
missione bicamerale delle riforme costituzionali), si fa portavoce della richiesta di garantire la realizzazione del massimo liberismo economico e di una riforma fiscale che salvaguardi la produzione e gli interessi dell’Italia del Nord (anche se viene ad essa contestata che il Nord non subisce il “peso” finanziario delle regioni meridionali perché anzi le imprese del Nord si avvalgono abbondantemente di finanziamenti e manodopera provenienti dal Centro-Sud. Il seguito popolare continua ad essere caloroso come dimostrano accurate analisi statistiche). Dopo le elezioni amministrative dell'autunno ‘93 e l'arresto dell’amministratore della Lega per violazione alle leggi sul finanziamento dei partiti, al congresso della Lega lombarda e pre-congresso della Lega nord, viene presentato un progetto di federazione delle tre repubbliche dell’Unione italiana”, elaborato dal prof. Miglio, oggetto di tante critiche che lo stesso Bossi dichiarerà essersi trattato solo di una “ipotesi” provocatoria, interessando alla Lega soprattutto la ristrutturazione federalistica: da varie parti si accenna allora ad altre ipotesi, più percorribili consistenti nella creazione di macro-regioni dota-
te di ampi poteri (come nel progetto della Fondazione Agnelli). Si tratterà di vedere se tale progetto sia accordabile con quello predisposto dalla commissione bicamerale ed ac-
cettato dai maggiori partiti che affida alle nuove Regioni tutte le attribuzioni legislative, salvo le poche fondamentali (difesa, esteri, giustizia, legislazione in materia tributaria e
di trasporti) da riservare ai poteri federali. Ma i leghisti tendono soprattutto ad una ripartizione fiscale che riservi alle singole zone l’uso degli introiti, salvo un minimo a fini perequativi. In vista delle elezioni del ‘94, dopo un accordo stipulato da Maroni con Segni e subito naufragato, Bossi concorda con Berlusconi la presentazione di candidature comuni ed un reciproco sostegno in tutto il Nord: la linea liberista tiene unito un ampio elettorato che si riconosce sia nella Lega che in “Forza Italia” (v. “Formazioni degli anni ‘90”),
soprattutto nella speranza di “liberarsi” di tutto ciò che ha rappresentato in Italia per più decenni la cultura e la pratica di uno statalismo centralizzatore in economia ed in politica. La Lega ottiene 3 milioni e 237 mila voti (1'8,4% a livello nazionale) alla Camera, conquistando il maggior numero di seggi tra tutte le forze politiche: 118 deputati, non-
ché 58 senatori, e ciò grazie alla concentrazione della propria presenza in zone geografi camente delimitate.
Bossi ripropone subito il suo progetto federalista ed afferma che, dopo la “rivoluzione”, è tempo di andare al governo (e non manca di polemizzare con gli alleati Berlu210
sconi - per la posizione di monopolio nella TV - e Fini - per il legame, non negato, con il fascismo). L'elezione di Irene Pivetti alla guida della Camera (aprile ‘94), con il voto delle tre forze riuscite vittoriose nelle elezioni, consacra l'ascesa del movimento che aveva svolto
negli ultimi anni la più ferrea opposizione al “regime” guidato dalla D.C. e dal PSI spesso con il concorso dei comunisti, secondo le asserzioni della Lega, ormai impegnata per la trasformazione “federalista” della Repubblica, alla cui Costituzione comunque il nuo-
vo presidente di Montecitorio dichiara di inchinarsi. La Lega Alpina Lumbard, attiva da tempo, ottiene un deputato.
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Capitolo XIII IVERDI
La presenza, nei primi anni ‘80, del movimento dei verdi nello scenario politico-istituzionale italiano, può essere ricondotta, a parte le precedenti iniziative ambientali, alla crescita di una sensibilità e di una cultura ecologista, sviluppata, soprattutto dopo le ini-
ziative antinucleari nel ‘77 contro la centrale di Montalto di Castro (il Comune più a nord
del Lazio mentre, nello stesso periodo, si progettava un’altra centrale, poco distante, a Capalbio, il Comune più meridionale della Toscana: una vivace campagna e la dimostra-
zione dei pericoli potenziali insiti nel progetto nonché della manchevolezza degli studi preparatori fece cadere il previsto accoppiamento) o ancor prima, con la catastrofe di Seveso, segno della preminenza degli interessi di una industria sul bene della salvaguardia della sicurezza collettiva. Imovimenti ambientalisti ed ecologisti (e le relative associazioni, Wwf Lega per l'Ambiente) sono nettamente distinti dal movimento politico dei verdi, pur
avendo questi sempre mantenuto con i primi stretti rapporti, essendo aderenti e dirigenti
spesso intercambiabili. Nati sull'onda del successo riportato dai “grungen” in Germania, senza pretendere di esaurire il dibattito ambientalista o di avere il monopolio del variegato universo dell’impegno ecologista, nel 1978 le liste Verdi, la cui intelaiatura organizzativa è composta soprattutto da militanti provenienti da vari partiti e gruppi di sinistra e centro-sinistra, esordiscono nelle elezioni regionali in Trentino Alto-Adige (Lista “Nuova Sinistra-Neue Linke”) ottenendo esito positivi (divenendo la quarta forza nella provincia di Bolzano e la quinta nel Trentino), confermati anche dalle amministrative dell’80 in alcuni comuni dell’Italia Centro-Nord (Mantova, Venezia, Lugo di Romagna).
Ancora dubbiosi circa la possibilità di una presenza organizzata nelle istituzioni politiche, nell’84 i rappresentanti delle Liste Verdi si ritrovano a Trento per discutere il problema dell’atteggiamento da tenere nelle elezioni. A Firenze durante la prima assemblea nazionale del movimento, Alex Langer, dopo aver precisato che le liste non diventeranno la “rappresentanza istituzionale” del movimento né la sua principale forma di espressione politica, propone, dopo aver scartato la possibilità di arrivare alla costituzione di un partito, la creazione di un coordinamento nazionale per agire come punto di riferimento per tutti i comitati promotori di Liste Verdi. Alle elezioni regionali e amministrative del maggio 1985 le liste verdi, eterogenee per composizione (aree radicali e di sinistra, Amici della Terra, Lega per l'Ambiente) scesero in campo con il Fai - Fondo ambientale italiano -, i gruppi di ricerca ecologica e un ampio retroterra culturale (troviamo così radicali, antichi esponenti di Lotta Continua, ecologisti, comunisti, zoofili e antinuclearisti) concordando un programma fondato sui seguenti punti: - protezione dei beni culturali e dell’urbanistica (nella linea dell’associazione Italia Nostra); - lotta ecologista-ambientale, legata al movimento antinucleare, attento al-
le iniziative di costante mobilitazione per vigilare ed intervenire (Lega Ambiente). I risultati, malgrado una presenza limitata, sono stati largamente positivi (1,7% con 213
9 consiglieri regionali, 22 provinciali e 202 comunali), confermando la capacità di rac-
cogliere consensi soprattutto nel mondo giovanile. I Verdi, più che un tradizionale programma politico (ed è questo l'argomento sul quale spesso vengono criticati), propongono una diversa lettura della realtà esistente e si schierano contro la crescita illimitata della produzione industriale e lo sfruttamento indiscri-
minato delle risorse, quindi hanno ben chiara una linea di sviluppo economico contrastante con quella prevalente in Italia e in gran parte dei paesi industrializzati. Nel novembre ‘86 è stata fondata la Federazione Nazionale delle Liste Verdi allo scopo di organizzare le 70 liste (aumenteranno a 219 nel 1988 sino a superare nel ‘93 le 400)
in vista di una partecipazione e consultazioni nazionali ed internazionali. La Federazione ha assunto il simbolo del “Sole che ride”, impegnandosi ad attivare una “Convenzione Verde” con la partecipazione di gruppi di impegno ecologista, pacifista, animalista, non violento, per i diritti civili, per la liberazione sessuale, per la difesa dei consumatoHi, In questa fase gli organi della Federazione sono: l'Assemblea federale, organo deliberativo con compiti di indirizzo e di orientamento politico; il gruppo di coordinamento, formato da 11 coordinatori eletti dall’Assemblea e i Forum tematici, aperti a collaborazioni esterne, con lo scopo di sviluppare il dibattito all’esterno, e svolgere funzione consultiva e di iniziativa politica. A norma dello statuto federativo, le Liste Verdi, territorialmente autonome e sovrane, dotate a loro volta di un proprio statuto, si configurano come strutture di servizio al fine di facilitare, attraverso incontri ed assemblee, la partecipazione dei cittadini alla vita politica nell’affermazione delle scelte di difesa organica e continuativa dell'ambiente. Nel marzo dell’87 i Verdi decidono di presentare candidature alle elezioni politiche di giugno, cosicché durante la Convenzione Programmatica di Mantova (30 aprile - 3 maggio 1987) si costituisce un “comitato di garanti” con il compito di vagliare le candidature nelle varie circoscrizioni; la campagna elettorale viene incentrata sull'emergenza
ambientale (inquinamento atmosferico, emergenza idrica, controllo dei prodotti usati per l'agricoltura, formazione e smaltimento dei rifiuti), sulla necessità di assicurare il massimo risparmio energetico mediante lo studio delle fonti alternative e la modifica della legislazione sulla caccia, rilanciando inoltre il trasporto ferroviario contro le comunicazioni auto-stradali preferite dai governi italiani sin dagli anni ‘60 con l'appoggio delle industrie automobilistiche. Il largo credito popolare acquisito dalle tematiche svolte trova conferma: i Verdi con-
quistano, soprattutto nei centri urbani delle regioni centro-settentrionali, 13 seggi alla Camera e 2 seggi al Senato pari a circa il 2,6% dei voti. Tra gli altri viene eletto il fisico Gianni Mattioli, molto impegnato nelle “battaglie” ecologiche in Maremma e protagonista di un famoso duello televisivo con uno dei luminari della fisica italiana, prof. Edoardo Amaldi, che esponeva osservazioni critiche nei confronti delle tesi sostenute, a suo avviso superficialmente, dagli ambientalisti sui pericoli del “nucleare”. La questione dell’uso del nucleare - anche a fini pacifici - risaliva, nella politica e nell'economia italiana, agli
anni ‘60 quando il prof. Ippolito subì un procedimento penale per irregolarità emerse sulla gestione di un ente preposto al settore: la conseguenza fu un ritardato impegno dell’industria italiana nel settore.
Torniamo agli anni Ottanta. Rispetto alla proposta, avanzata subito dopo le elezioni da Alex Langer, di sciogliere la Federazione, da un sondaggio lanciato dalla rivista 214
“Nuova Ecologia” emerge la volontà e la disponibilità della base verso la costituzione di un partito: un'ipotesi che si rafforza maggiormente dopo la vittoria - favorita dalle notizie sugli effetti devastanti dell'esplosione di Cernobyl - nei referendum dell’8 novembre 1987 sull’abrogazione sia delle norme che delegavano al Cipe la localizzazione delle cen-
trali nucleari, di quelle che stabilivano contributi finanziari per gli enti locali disposti ad accettare nel loro territorio centrali nucleari e autorizzavano l’ENEL a partecipare a progetti nucleari all’estero. Pur non implicando tali referendum in senso stretto un completo abbandono di qualsivoglia iniziativa nucleare, in tal senso verrà interpretato dalla maggioranza del paese e dallo stesso governo. Stabiliti rapporti con Democrazia Proletaria e con i radicali, viene annunciata dai Verdi la possibilità di una candidatura unitaria alle successive elezioni europee. Nella settima assemblea nazionale (Maiori, 16-18 dicembre ‘88), vengono raccolte le firme per la presentazione di un referendum contro la caccia, l’uso di pesticidi e per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. La possibilità di candidatura unitaria viene scartata da
elementi di DP (v. L'estrema sinistra). Viene intanto organizzato il gruppo di “Verdi Arcobaleno” (portavoce Francesco Ru-
telli, di provenienza radicale, futuro Sindaco di Roma) conla partecipazione di esponenti della Lega Ambiente, naturisti e radicali. Alle elezioni europee del 18 giugno 1989 le due liste ottengono complessivamente il 6,2% così ripartito: la Lista Verde Europa con il 3,8% ottiene tre seggi (uno dei quali per Gianfranco Amendola, messosi in luce quale Pretore di Roma, nell’assicurare - con-
tro la prassi sino allora prevalente - il rispetto delle leggi in materia di ambiente a difesa della natura) mentre la Lista Verdi Arcobaleno, con il 2,4% elegge due eurodeputati. Questi, insieme ad Eugenio Melandri, eletto come indipendente nelle liste di DP, e a Marco Taradash, della lista Anti-Proibizionista, entrano nel gruppo Verde al Parlamento Euro-
peo. Sull'onda del successo elettorale, prende corpo, a partire dall'estate 1989, l’ipotesi
di una riunificazione delle forze Verdi. Tuttavia, nell'ottobre ‘89, in seguito alle polemiche sorte in seno al movimento per la designazione delle candidature al Consiglio comunale di Roma, forti critiche vengono rivolte dalle associazioni ambientaliste che, ri-
vendicando la paternità della politica ecologista e pacifista, reputano il dibattito tra Verdi Arcobaleno e Liste Verdi uno scontro di vecchio tipo tra gruppi politici. Alle elezioni amministrative di quell’anno i Verdi ottengono 28 consiglieri regionali, 115 provinciali ed oltre 700 consiglieri comunali.
Dopo il fallimento del referendum sui temi della caccia e dei pesticidi (giugno ‘90) - indice di una diminuita sensibilizzazione del paese sugli argomenti sostenuti dagli ambientalisti - si riunisce un Assemblea Nazionale a Trani dove viene approvato un progetto di riunificazione, formalizzato nel dicembre successivo nel corso dell'Assemblea di Castrocaro. Il nuovo movimento (la cosiddetta “cosa verde”), così come è definito in una
nuova “Dichiarazione d’Intenti”, dopo aver denunciato la drammaticità della situazione ambientale italiana ed internazionale, dichiara di voler puntare ad un'alternativa di governo quale strumento per la conversione ecologica, sociale e democratica della politica nazionale. La Federazione dei Verdi affida a Rutelli le mansioni di coordinatore nazionale (dopo le elezioni diverrà presidente del gruppo alla Camera). In seguito, con una modifica dell’organigramma, s'istituisce il Consiglio Federale,
composto da 80 membri, e il Gruppo di Coordinamento formato da 11 Consiglieri (detZI
ti anche Segretari). Nelle elezioni politiche del 1992 la Federazione delle liste Verdi ha ottenuto il 2,8 dei voti, raccogliendo complessivamente oltre un milione di voti, con 16 seggi alla Camera e 4 seggi al Senato.
Impegnati nella campagna “terre promesse” (missione ecologista per l'istituzione di nuovi parchi), i Verdi, nel corso dell'Assemblea tenuta il 24 e 25 aprile ‘93, approvano una modifica statutaria che abolisce il Gruppo di Coordinamento ed istituisce un Por-
tavoce Nazionale, eletto dal Consiglio Federale, con compiti di indirizzo politico: viene chiamato a ricoprire la carica Carlo Ripa di Meana (già commissario CEE, incaricato per i problemi dell'ambiente, poi, per breve tempo, ministro dell'ambiente nel governo Amato, designato in entrambi gli incarichi quale socialista) mentre Gianni Mattioli diverrà
nell'autunno 93 presidente del gruppo alla Camera. All’area verde appartiene, in piena autonomia, Greenpeace. Nelle elezioni del ‘94 iVerdi si presenteranno nei collegi uninominali con i “progressisti” e contribuiranno in maniera rilevante alla stesura del programma dello schieramento unitario: subordinando comunque il loro atteggiamento post-elettorale all’ac-
cettazione di alcune loro posizioni, quali la rinuncia all’alta velocità e alla centrale di Montalto (oltre ai pericoli di inquinamento e per le falde sismiche emerge che sono state corrisposte decine di miliardi a politici per facilitare l'avvio dei lavori, fermati poi dalla magistratura). Tendenzialmente “trasversale” in quanto non legato a posizioni tradizionali di destra o di sinistra, il movimento si giova di un notevole seguito giovanile, di un impegno rigoroso sulle proprie tematiche specifiche e di una chiarezza d'impostazione che lo distingue da ogni altro raggruppamento nella convinzione che l’ambientalismo non è un “di più” da aggiungere ad altri programmi quanto piuttosto la premessa indispensabile
per una linea di politica economica, di sviluppo e di costume contrapposta ai facili miti dell’industrialesimo e della cementificazione. I risultati del ‘94 sono insoddisfacenti: alla Camera poco più di 1 milione di voti (il 2,7%), solo 11 eletti; i senatori sono 7. Una ipotesi avanzata è che il largo consenso giovanile a favore dei verdi si sia fermato, ed anzi si sia spostato verso la destra.
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Capitolo XIV
MOVIMENTI
PER LA PACE
Movimenti pacifisti sono sorti inItalia dall’indomani della seconda guerra mondiale, con due caratteristiche diverse. Da un lato î movimenti per la non violenza, in conti-
nuità della tradizione di Capitini - che si era impegnato nel periodo fascista e durante la guerra per diffondere il suo messaggio - e che si riallacciavano ai gruppi che avevano partecipato “non armati” alla resistenza contro i nazisti. Dall'altro, iniziative per la pace che si sviluppano prevalentemente in aperta polemica con la supremazia politico-militare USA e quindi affiancando il partito comunista: la cattolica Ada Alessandrini, in nome di un “movimento cristiani per la pace”, si schiera nel ‘48 con il fronte democratico popolare e prosegue la sua azione nello stesso senso. In quegli anni il movimento internazionale partigiani per la pace era strettamente legato con l'Unione Sovietica, cioè con uno dei due fronti contendenti nel conflitto internazionale non sfociato nella guerra per la pericolosità di un tale esito: l'equilibrio del terrore agì infatti come fattore frenante, il deterrente del rischio supremo costrinse a far ripiegare propositi bellicosi. I socialisti (da Nenni presidente a Giorgio Fenoaltea nel comitato di Praga) avevano un ruolo in primo piano tanto che il leader socialista ebbe qua-
le riconoscimento il “premio Stali per la pace”, peraltro restituito dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin, definito dal suo successore “il più bieco tiranno della storia”. L'idea che la pace non è solo assenza di guerra ma assenza di cause che possono provocare la guerra e soprattutto presenza di un ordine di giustizia internazionale fondato nella garanzia dei diritti umani e civili ha fermentato in quegli anni una nuova ristretta, ma significativa generazione di pacifisti, che traevano impulso in Italia dall'azione di La Pira, come si vide durante la guerra in Vietnam. Contro la strumentalizzazione in senso
unico di motivi tanto profondi, permarrà quindi il senso di una pace in ditesa della quale impegnarsi, una pace che esclude violenza e violazione dei diritti anche 4/l'înterno dei singoli paesi, mettendo quindi in rilievo la limitazione di tali diritti nei paesi comunisti.
Era d’altronde chiaro in questi anni come l'imperialismo sovietico fosse pericoloso quanto quello americano benché diversi fossero i modi di comportarsi come verrà confermato dagli interventi da un lato nei paesi dell'Europa centro-orientale e dalle iniziative sovietiche in Africa e in Afganistan, e dall’altro in America Latina. La propaganda “per la pace” quindi poteva tramutarsi nel suo opposto, in una “mascheratura” di tutela degli interessi di una delle parti in causa. Ma nei movimenti autenticamente pacifisti italiani si mantenne viva un'istanza di preservazione dei motivi ispiratori autentici e quindi di assoluta indipendenza dalle due superpotenze. Quindi ci limitiamo a riferire sui movimenti degli anni ‘80, quando ormai equivoci ed ambiguità erano caduti e la strumentalizzazione non pagava più anche se l’azione condotta contro l'installazione in Italia di determinate basi munite di aggiornati mezzi bellici giovava evidentemente più ad una parte (Urss) che all’altra (Usa). Alla conclusione 217
del ciclo apparve che proprio l’enorme potenziale dispiegato in Europa dagli USA aveva contribuito ad indebolire la macchina militare-propagandistica sovietica e quindi a favorire la liberazione dal comunismo dei paesi orientali, al di là di riserve verso la cosid-
detta “pax americana” non solo per l’affermata superiorità di una unica potenza ma anche per le eventuali implicazioni interne, economiche, culturali e di costume. Non c'è pace senza rispetto dei diritti umani. Gli eventi del Medioriente hanno risollevato nel ‘91 drammaticamente tutta la pro-
blematica della pace e da ultimo anche lo smembramento della Jugoslavia, con conseguente presa d’atto dell’imperizia sia dell'ONU che degli organismi europei ad intervenire per difendere la sopravvivenza, più che di apparati statuali, di esseri umani, esposti alle offese più tragiche e ripugnanti. Negli ultimi anni un'azione positiva al riguardo su un piano di analisi scientifica, ha svolto la rivista “Giano - ricerche per la pace”, diretta dallo storico Luigi Cortesi ed edita a Napoli.
ASSOCIAZIONE PERLA PACE Il Movimento per la Pace, nato agli inizi degli anni ‘80, in piena era nucleare, è un movimento indipendente dai blocchi nei confronti dei quali ha assunto posizioni critiche. Tra il 1980 ed il 1981, il governo italiano (presidente del consiglio Cossiga), aveva stipulato con la N.A.T.O. un accordo per trasferire in Italia, nella base dell'aeroporto Magliocco di Comiso in provincia di Ragusa, vettori nucleari al fine di controbilanciare i missili sovietici $$S20. Contro questa decisione si avrà il 22 ottobre 1981 a Roma una manifestazione organizzata dal Movimento per la Pace, un cartello “trasversale” cui prendono parte esponenti di associazioni cattoliche quali Acli, Pax Christi, Mani Tese, con la par-
tecipazione in prima fila di comunisti, ai quali il movimento inizialmente appare molto legato, nonché di appartenenti al PDUP, al partito radicale (di tradizione gandhiana e non violenta, ma che in seguito assumerà posizioni filoNato e criticherà le iniziative pacifiste da esso non guidate) all’Arci, a numerosi Comitati per la Pace che composti da esponenti di forze di sinistra, si erano spontaneamente formati in varie città. Il movimento, dopo la marcia Perugia - Assisi del 1982, nell”83, considerato che erano iniziati i lavori alla base di Magliocco, con i proventi di una sottoscrizione, acquistò terreni, costituendo vicino alla base, l'/MAC ovvero un campo internazionale per la pace che nell'estate raccoglierà 3-4 mila persone. Sempre tra 1°82 e 1”83 vengono prese varie iniziative e poi viene indetto un referendum contro il dispiegamento dei missili a Co-
miso. In questa fase, le figure più significative che si raccolgono attorno al tema della pace e alla rivista “Testimonianza” sono padre Ernesto Balducci, padre Davide Turoldo, Pietro Ingrao e lo scrittore Carlo Cassola che già nel 1978 aveva fondato la “Lega per il Disarmo Unilaterale”, dedicando le sue qualità letterarie a far conoscere le motivazioni a favore del disarmo ed al rifiuto di armi e di metodi di sterminio di massa, includendo tra
questi anche la concezione industrialistica e politica sull'uso dell'energia nucleare. Inoltre nell’estate ‘83, sull'onda di pacifisti tedeschi, olandesi ed inglesi, vengono promossi blocchi non violenti in varie località dove si dispiegavano le basi Nato. Nell'ottobre ‘83, 218
a Roma, si ebbe, ad iniziativa di un Coordinamento nazionale dei Comitati per la Pace, una seconda grande manifestazione (cui però non partecipano né i radicali, né i partiti di sinistra, né i sindacati) per bloccare la decisione del governo, favorevole all’installazione dei missili.
Assunta ormai una configurazione interpartitica (grazie a contatti con i pacifisti delPEST vi era stata anche l’adesione all’E.N.D. - European Nuclear Disarmament - un'organizzazione interblocchi che aveva tenuto la sua seconda assemblea a Perugia nell’84), durante l’Assemblea nazionale di Ariccia del 1984, il Coordinamento lanciò una raccol-
ta di firme per una legge di iniziativa popolare contro i missili a Comiso. Conclusasi negativamente l’azione a Comiso, il movimento cominciò a lavorare per la diffusione della cultura della pace (insegnamento nelle scuole), in favore dell’obiezione di coscienza e,
insieme a D.P. ed ai gruppi non violenti, per il contenimento delle spese militari. L’apporto maggiore al Coordinamento continua a venire dalle forze di sinistra, in particolare dal PDUP e da DP, nonché da gruppi cattolici, e il pacifismo sembra assumere un ruolo preminente ai fini della “rifondazione” della sinistra.
Successivamente l’attenzione viene rivolta alle problematiche del Sud del mondo. Con l'appoggio delle riviste “Nigrizia”, dei Padri Comboniani, diretta da padre Alessandro Zanotelli, e “Missione Oggi”, diretta da padre Eugenio Melandri, viene lanciata una durissima campagna contro il commercio delle armi (mancanza di una legislazione nazionale ed eccessivo protezionismo dell’industria bellica italiana). Cosicché, esauritasi l’e-
sperienza dei Comitati per la Pace, i cattolici, attraverso i cosiddetti “Comitati contro i mercanti di morte”, prendono la leadership di questi movimenti pacifisti. In fabbriche e porti italiani si lavora per la costruzione e il trasporto di armi micidiali. Alle campagne pacifiste va inoltre l'appoggio dei Verdi, insieme ai quali, nell’86, è promossa una manifestazione eco-pacifista: una catena umana lunga 25 chilometri per protestare contro i cacciabombardieri atomici tornado in una base aerea italiana. Nella fase più cruenta della lunga guerra tra Iran e Irak, nell’ottobre dell’87 viene indetta a Roma una manifestazione contro la decisione del governo italiano di inviare navi nel golfo Persico in quanto, si afferma, l'iniziativa è diretta solo a favorire una parte, l’Irak, verso la quale allora in Italia si era prodighi di aiuti militari e finanziari (come emergerà dal caso della filiale BNL di Atlanta). Nell”88 Luciana Castellina, nell’intento di conferire una consistenza organizzativa al pacifismo di sinistra, interviene a Bari al Congresso Costitutivo dell’ Associazione per la
Pace. Accolta con una certa diffidenza, soprattuto da D.P. che la considera un'operazione di stampo politico, quasi una sorta di lobby di parlamentari pacifisti, l'Associazione, che risponde ad un'esigenza aggregativa avvertita dagli ambienti pacifisti, oltre alla battaglia per impedire l'installazione degli F16 a Crotone e le lotte contro le spese militari
previste nella legge finanziaria, nel ‘91 guiderà la protesta contro l'intervento italiano nel Golfo, trovando consensi sia nell'ambiente comunista che cattolico, in relazione anche all’atteggiamento super partes del Pontefice.
Organi dell’Associazione sono il Consiglio Nazionale e i due portavoci (nel ‘93 Giulio Marcon e Luisa Morgantini che hanno preso il posto di Chiara Ingrao e Flavio Lotti).
Gli iscritti non superano le 3 mila unità, cifra che sostanzialmente rispetta il trend storico dell’Associazione, il cui ruolo però dipende dal compito umanitario che si è assegnato, distinguendosi da tutte le altre formazioni politiche, tanto più che dopo l'iniZIO
ziale tentativo di elementi comunisti di strumentalizzarla a fini di politica interna ed internazionale, ha dimostrato di avere una sua specificità ed una linea che l’inseriscono in
una traiettoria di obiettivi d'interesse generale e non di utilità per una parte sola. PAX CHRISTI Il movimento - che non ha carattere strettamente politico ma svolge un'azione rivolta a conseguire risultati prepolitici - è nato in Francia, subito dopo la seconda guerra mondiale, in seguito alla constatazione della mancata incisività nell'azione della Chiesa Cattolica nei confronti dei governi per prevenire il conflitto (malgrado le encicliche ed altri documenti pontefici) e per la riconciliazione nella pace. Fondato da Mons. Théas, futuro vescovo di Lourdes, senza escludere una possibile incidenza nella società civile e sui governi, intendeva sensibilizzare e tenere viva l’idea e l’azione per la pace all’interno della Chiesa Cattolica. Nel 1952 Papa Pio XII diede al Movimento il riconoscimento di Movimento Cattolico Internazionale per la Pace e il Cardinale Feltin, primo presidente internazionale, dichiarò che il lavoro di Pax Christi doveva basarsi su tre dimensioni: preghiera, studio ed azione. Tale movimento ha operato su un terreno metapolitico e
quindi ben diverso dai cosiddetti movimenti pacifisti correnti ed ispirati a precise scelte a carattere politico contingente. Dai Paesi Bassi, Inghilterra, Austria e Svizzera, Pax Christi si estese in tutt Europa.
Nel 1954 Mons. Montini allora alla Segreteria di Stato vaticana, ne era segretario nazionale; in Italia il movimento si sviluppò, definendo la propria identità all’inizio degli anni ‘60. Grande impulso alla sua diffusione venne in seguito alla pubblicazione dell’ Enciclica Pontificia Pacem in Terris (1963), documento “esplosivo” di Giovanni XXIII che sganciava il concetto della pace da situazioni contingenti per farne un concetto fondamentale e derivato dal Vangelo come linea etica e di comportamenti per la Chiesa. Con
quel documento l’azione dei cattolici per la pace riceve piena legittimità e Pax Christi si configura come movimento per /a formazione delle coscienze. personaggi di diversa estrazione politica si avvicineranno al movimento per sviluppare il discorso sull’argomento nell'ambito politico (come Igino Giordani, promotore della legge sull’obiezione di coscienza, Giancarla Cotrignani, consigliere nazionale di Pax Christi, e Paolo Bertezzolo, anch'egli
già consigliere nazionale, e poi deputato della “Rete”). I cinque temi centrali sui quali è improntata l’azione del Movimento sono: sicurezza e disarmo; diritti umani e diritti dei popoli; relazioni Est-Ovest, divisione Nord-Sud; promozione della non violenza. Il concetto di pace non è inteso nei termini di assenza di conflitto o di equilibrio del terrore. Pax Christi pensa alla pace come opera di giustizia: pertanto i suoi aderenti si attivano ogni volta che viene coinvolto il problema della
giustizia (in Italia - afferma l’associazione - fin quando esisteranno sacche di emarginazione o leggi, come la finanziaria di fine anni ‘80 e inizio anni ‘90 che non assicurano la giustizia per tutti non potrà esservi pace, e pertanto l’azione di Pax Christi sarà necessaria e legittima). Tuttavia, essendo un movimento ecclesiale, rivolge maggiore attenzione
alla teologia e alla spiritualità della pace proponendosi come forza di interposizione non violenta.
Composta da circa 600-700 membri, in gran parte laici, distribuiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, l'associazione si autofinanzia e opera attraverso una 220
metodologia di gruppo: tuttavia prima di essere riconosciuto come gruppo o, per i sin-
goli, di essere inseriti in un gruppo occorre lavorare per due anni, al termine dei quali presentare una relazione al Consiglio Nazionale che approverà o meno l’accettazione come mebro del movimento. Organi sono il Congresso Nazionale, un'assemblea che si riunisce ogni 4 anni e che
elegge i 15 membri che compongono il Consiglio Nazionale, il quale a sua volta può cooptare un massimo di 5 persone, scelte tra esperti nei vari ambiti e settori della pace (politico, scientifico, ecclesiale, teologico, ecc.). Tra i Consiglieri vengono poi eletti il Vicepresidente, il Segretario (nel ‘93 è don Tonino Dell'Olio) ed il Tesoriere che assieme al Presidente, nominato dalla Conferenza Episcopale Italiana in base ad una terna di nomi proposti dal Consiglio, costituiscono l’Esecutivo (nel ‘93, in seguito alla scomparsa di Mons. Tonino Bello, Vescovo di Molfetta, e Presidente dal 1985, succeduto a Mons. Luigi Bettazzi, Vescovo di Ivrea, e Presidente dal 1968 al 1985 il posto è vacante). Pax Christi, impegnato al fianco dei movimenti pacifisti italiani, anche di sinistra, non è un gruppo di
volontariato né può essere classificato come organizzazione “non governativa”. Quest'a-
tipicità conferisce a Pax Christi grande libertà ed autonomia rispetto ai partiti politici e rispetto alla Chiesa, di cui 7207 è un’emanazione, anzi tende sempre più a distinguersi. Attraverso la piena adozione dei metodi di lotta non violenta, quali il digiuno, il sit in, lo sciopero, il boicottaggio, si è impegnato in iniziative contro l'intervento nel Golfo e successive per la pace in Jugoslavia, in favore dell’attuazione dell'art. 11 della Costitu-
zione e per la legge sull’obiezione di coscienza nei termini approvati del Parlamento e ad esso rinviato dal Presidente Cossiga; nel ‘93 una legge, abbastanza simile, anche se con correzioni, è nuovamente approvata dal Parlamento (vota contro il MSI), suscitando le
proteste di ambienti militari. Nel 1990, insieme ad altre associazioni, Pax Christi ha sostenuto l’approvazione di
una legge (n. 185) per regolare in maniera più rigida il commercio delle armi in Italia. Impegnata con altri movimenti (MIR, “Beati Costruttori di Pace”, che ha perduto in Bosnia uno dei suoi più attivi operatori) prima per prevenire poi per attutire le conseguen-
ze del conflitto nelle regioni jugoslave, è promotrice altresì di un progetto di legge che tende ad ottenere il “riconoscimento” per una cosiddetta “diplomazia popolare” che dovrebbe operare per la “prevenzione dei conflitti”. Insieme alle Acli ed all'Associazione per
la Pace, ha lanciato una campagna denominata Democrazia e partecipazione (il Movimento promuove una rivista mensile “Mosaico di Pace”).
ALTRI GRUPPI
Azione non violenta si chiama un movimento (con omonima testata giornalistica) ispirata al campione dell’indipendenza indiana, Gandhi, la cui effige, in vari periodi, è
stata anche il simbolo del partito radicale (v.).
Vi è poi un Centro interconfessionale per la pace(CIPAX), che raggruppa fedeli di diverse confessioni impegnati sul piano dell’azione politica e degli studi per diffondere le ragioni di una pacifica convivenza fra tutti i popoli. A seguito degli eventi del Golfo Persico si è costituito un comitato Golfo, che ha stabilito contatti anche a livello internazionale, critico circa l'intervento USA.
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Notevole anche l’attività del Centro Internazionale per la riconciliazione, che si prefigge scopi di educazione e promozione di pacifici rapporti tra i popoli. Riprendendo l’idea che portò negli anni ‘50 alla costituzione del Tribunale Russel, allo scopo di reagire ai crimini commessi nei territori dell'ex Yugoslavia è stata sollecitata la formazione di un Tribunale internazionale per i crimini di guerra e contro l'umanità compiuti in quei territori. La proposta è stata avanzata in Italia da Emma Bonino e dal partito radicale ed ha avuto l'adesione tra l’altro di Alfredo Biondi, Renzo Foa ed Antonino Zichichi: l'appello è stato raccolto dalle Nazioni Unite che ha proceduto alla composizione del Tribunale nell’autunno ‘93, chiamando a farne parte, tra gli altri, il prof. Antonio Cassese, docente di diritto internazionale all Università di Firenze.
Continua la sua azione il gruppo raccolto attorno alla casa editrice Cultura della pace (Fiesole) che si ispira a padre Ernesto Balducci e che pubblica testi importanti e rari per la diffusione di una coscienza pacifista. L'idea che presupposto per la pace sia la tutela dei diritti umani nei singoli paesi si fa strada. In Italia operano su questo terreno varie organizzazioni: a livello governativo, la commissione per i diritti dell’uomo presso la Presidenza del Consiglio, a livello non governativo la Sezione di Amnesty International. Una “marcia per la pace” nel giorno di Pasqua 1994 a Roma, dal Campidoglio a San Pietro, con la presenza dei sindaci di Sarajevo, Osiek, Coventry, Guernica, Budapest, Roma e tante altre città colpite dalla violenza e la partecipazione di esponenti di “Caritas”, dei radicali, dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” e di altri movimenti a livello in-
ternazionale, sollecita - all'insegna del principio “non c'è pace senza giustizia” - iniziative concrete nei territori della ex Jugoslavia, l’entrata in funzione del tribunale per i crimini contro l'umanità ivi commessi, l’istituzionalizzazione permanente di un simile or-
gano di giustizia e l’impegno per l'abolizione della pena di morte in tutto il mondo entro il 2000 con l'immediata sospensione delle esecuzioni capitali. Una distinzione tra movimenti “pacifisti” tradizionali e nuovi movimenti per la pace si può individuare nella constatazione che i primi tendevano a difendere lo “status quo” internazionale prescindendo dalla situazione interna dei singoli paesi mentre negli ulti-
mi decenni tra i secondi è prevalsa l’identificazione con la causa della democrazia e del rispetto dei diritti umani all’interno dei diversi paesi come fattore indispensabile, congiuntamente alla giustizia nei rapporti tra i popoli.
Tuttavia la realtà degli ultimi anni ha confermato come agli ideali dei movimenti attivi per la difesa dei diritti si contrappone il comportamento degli Stati e, aspetto anche
più grave, l'impotenza delle Nazioni Unite: basta guardare ai complessi e contraddittori interventi in paesi africani, le tardive insufficienti iniziative in Bosnia, dove si è toccato il colmo dell’imprevidenza e dell’assuefazione alla violenza del più forte, complici gli or-
ganismi europei e i paesi che vi partecipano. Una prova agghiacciante d’atonia morale che colpisce alla radice le conclamate affermazioni democratiche: sono stati, anche sot-
to l'impulso delle sollecitazioni del Pontefice romano, i tanti volontari accorsi in quella terra - alcuni pagando con la vita - a testimoniare la coerenza tra parole e fatti.
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Capitolo XV
MOVIMENTI
E FORMAZIONI
DEGLI ANNI ‘90
FARETE
Il “movimento per la democrazia” denominato “La Rete” trae origine dall’esperienza a Palermo di Leoluca Orlando, che dopo le dimissioni dalla carica di sindaco e dopo l'uscita dalla D.C. (ottobre ‘90), aveva stabilito rapporti con personalità che, seguivano con attenzione le vicende legate alla malavita siciliana, primo tra tutti padre Pintacuda,
un gesuita, il quale sin dal ‘68 aveva avviato nel capoluogo dell’isola iniziative di impegno civile (come il centro studi sul decentramento organizzativo e il movimento “Città per l'Uomo”). Orlando, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, era poi entrato in contatto con Nando Dalla Chiesa (figlio del generale dei carabinieri e Prefetto di Palermo, ucciso nel settembre ‘82), che a Milano, attraverso il circolo e la rivista da lui fon-
data e diretta, “Società Civile”, percorreva un cammino di denuncia della crisi politica ed istituzionale italiana. Contatti inoltre vi erano con Alfredo Galasso, deputato del P.C.I. all’assemblea Regionale Siciliana, Diego Novelli, ex sindaco di Torino e già membro del Comitato Centrale del P.C.I., nonché con magistrati operanti nell’isola (come Antonio Caponnetto, per molti anni Capo Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo, e Carmine Mancuso) in prima linea nel perseguire i crimini mafiosi, e successivamente con
Laura Giuntella, già esponente a Roma del gruppo di Lega Democratica (promossa dal prof. Pietro Scoppola e da altri intellettuali cattolici critici nei confronti della D.C.), Pao-
lo Bertezzolo, appartenente al movimento Pax Christi del Veneto ed altri esponenti sia laici che cattolici. “La Rete” viene formalmente costituita nel gennaio 1991: un movimento finalizzato al rinnovamento della politica e delle città ed incentrato sul concetto che la partecipazione deve essere necessariamente accompagnata da una programmazione e da una for-
te azione di denuncia: un suo slogan sarà “per rinnovare la politica bisogna passare dalla delega alla partecipazione”. La confluenza di esperienze diverse e quindi di persone provenienti da posizioni ideologiche differenti attribuiscono subito al movimento quel carattere di “trasversalità” di cui proprio in quel periodo si parla per definire le conseguenze politiche che si determinano al di là e spesso contro gli schieramenti tradizionali. Nella “Rete” convivono elementi di sinistra, cattolici ed anche esponenti moderati impegnati ad affrontare le questioni sociali del paese, i problemi legati particolarmente alla crisi della democrazia, e ad allontanare la presenza di mafia nei diversi settori della vita naziona-
le. In quanto movimento, La Rete si differenzia dall'impianto organizzativo dei partiti tradizionali dichiarando, inoltre, di essere “a termine”, in quanto nasce per combattere il clima di corruzione politica e morale, ma che non avrà più ragione di esistere quando il “regime” - intendendo con ciò i partiti collusi con la mafia - verrà abbattuto. Il modello organizzativo della Rete, elaborato dal Comitato promotore e poi redatto, come lo Statuto, in gran parte da Nando Dalla Chiesa, è imperniato su criteri di “fuidità organizzativa”: in una prospettiva di autonomia e di sperimentazione, che rifiuta le 223
logiche cristallizzate di “proselitismo” politico. I principi ai quali afferma di ispirarsi so-
no: centralità della persona umana, solidarietà, partecipazione e responsabilità. L'organizzazione è basata sulle “unità di lavoro”, strutture politiche attraverso cui si realizza il
cosiddetto “primato della città”, costituite in ogni comune da almeno tre aderenti, in piena autonomia di iniziativa e di organizzazione. La realtà cittadina è quindi intesa come l'aggregazione di persone che non necessariamente aderiscono alla Rete ma che tuttavia
si impegnano “a tempo” attorno a realtà locali. Ogni unità di lavoro ha un “responsabile” nominato dal coordinamento cittadino, eletto dall’ Assemblea cittadina, che si forma quando vi sono almeno trenta aderenti o almeno due unità di lavoro. L'Assemblea inoltre elegge anche il coordinatore (in carica sei mesi). Un “coordinatore regionale” viene eletto ogni due anni dall’Assemblea locale. Infine il “garante regionale” controlla la conformità dell’attività regionale allo Statuto del movimento. A livello nazionale gli organi sono: l’Assemblea generale (costituita dai delegati eletti dalle assemblee locali in numero non superiore a 500, delibera su tutte le materie inerenti le finalità del movimento); il Comztato Nazionale, che assume le iniziative inerenti la realizzazione degli obiettivi del movi-
mento e composto, oltre che dal Coordinatore nazionale, da trenta membri nominati dall'assemblea nazionale, e può costituire un ufficio esecutivo, composto nel 1993 da Leo-
luca Orlando (Coordinatore nazionale), Diego Novelli, Nando Dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Claudio Fava, Gaspare Nuccio, Angelo Tartaglia, Alessio Colomeiciuc. Il garante nazionale viene eletto ogni due anni dall'Assemblea Generale. L'art. 21 dello Statuto sancisce il principio della rotazione delle cariche e degli incarichi direttivi, di coordinamento e di garanzia: nessuno infatti può essere eletto per più di due volte consecutive. Presentatasi nel giugno del 1991 alle elezioni regionali in Sicilia, La Rete ha conquistato il 7% dei voti, con una percentuale di oltre il 20% ottenuta nella sola Palermo. Nelle elezioni politiche nazionali del ‘92 ha presentato candidature soltanto nelle circoscrizioni in cui già svolgeva attività, cioè in 22 collegi per la Camera e solo in Sicilia per
le elezioni al Senato. Malgrado ciò ha raccolto oltre 700 mila voti, conseguendo l 1,9% e 12 seggi alla Camera e tre seggi al Senato, risultato considerevole trattandosi di un movimento nuovo, alle sue prime esperienze organizzative. Si presume che il maggior ap-
porto di voti sia venuto da elettori giovani e, per lo più - ma non esclusivamente - di formazione cattolica. Analogo successo nel maggio ‘92 ha ottenuto a Napoli e nelle amministrative del dicembre ‘92 a Monza e Varese con il 5% dei voti, pur trattandosi di zona
a forte presenza leghista. Nella convulsa fase politica dell'inverno ‘92 - primavera ‘93 ha sostenuto lo scioglimento immediato del Parlamento, la riduzione del numero dei parlamentari e la riduzione a due del numero dei mandati politici. Dichiaratasi in un primo tempo favorevole al sistema maggioritario uninominale per il Senato e quindi al “ST” nel referendum, ha poi improvvisamente cambiato posizione, schierandosi per il “NO” suscitando quindi vivaci polemiche. Non è escluso che tale voltafaccia abbia per un momento creato incertezza tra i simpatizzanti, contribuendo a influire sull'esito negativo del-
le elezioni amministrative nella primavera ‘93 quando vengono battuti i candidati della Rete, a Milano Nando Dalla Chiesa, pur sostenuto da un ampio schieramento, a Torino Diego Novelli, sostenuto da Rifondazione Comunista e a Catania Claudio Fava, figlio del compianto commediografo e giornalista ucciso dalla mafia per averne denunciato
pubblicamente le malefatte. Una bella rivincita si prenderà invece Leoluca Orlando, il quale sarà eletto sindaco di Palermo nel novembre ‘93, con una amplissima maggioranza che gli consentirà di vin224
cere sin dal primo turno; anche in altri comuni siciliani rilevante è l'affermazione dei candidati sostenuti dalla Rete. Nelle elezioni del ‘94 i candidati della Rete si presentano nel fronte dei “progressisti”, pretendendo di avere una sorta di esclusiva nell’isola, ma i risultati non sono positivi: a livello nazionale ottiene 718 mila voti, 1 1,9% dei voti alla pro-
porzionale per la Camera, e 9 deputati al Senato eletti. Il risultato insoddisfacente induce Nando Della Chiesa a lasciare la “Rete”.
ALLEANZA DEMOCRATICA Alleanza Democratica è un raggruppamento nato sull’onda di una serie di sollecita-
zioni (a cominciare da quella del direttore del quotidiano “La Repubblica”, Scalfari) dirette alla formazione di una vasta alleanza nazionale per contrapporsi, dopo le elezioni del ‘92, ai partiti della vecchia maggioranza e soprattutto ai gruppi dirigenti del PSI e della DC. Dopo una serie di manifestazioni a Roma, Firenze ed altre città si è definita la formazione di un comitato nazionale. La sua struttura non risulta però dall’adesione diretta di singoli cittadini ad un nuovo movimento politico bensì dall'incontro tra un pic-
colo gruppo di nuova costituzione, l'unione dei progressisti - composto a sua volta da rappresentanze di circoli - e forze politiche già esistenti. Inizialmente i promotori, Willer Bordon, il costituzionalista Barbera, l’ambientalista Giovanna Melandri, il giornalista Adornato e i reponsabili siciliani Bianco e D’Ayala, pensano anche ad una eventuale adesione del PDS in AD ma poi Occhetto chiarisce che non si potrà avere un inserimento diretto del suo partito quanto piuttosto una convergenza programmatica ed elettorale. Ade-
riscono a AD esponenti politici interni a partiti oppure usciti dai partiti (come Segni dalla DC e Ruffolo dal PSI, successivamente anche Benvenuto, Manca e Carniti) e partecipano alle sue riunioni e iniziative, esponenti significativi di altri gruppi, come Mattioli per i verdi. In effetti AD non intende essere secondo i suoi promotori un nuovo partito (l’eventuale “quarto polo”).
Per un momento sembra che la figura più popolare di AD possa essere Mario Segni. Senonché questi, nell’estate ‘93, dichiara che non è stato sufficientemente chiarito un con-
fine a sinistra e abbandona la nuova formazione per lanciare su una piattaforma liberaldemocratica il “patto di rinascita nazionale”. AD ridefinisce allora il suo vertice e sostiene liste unitarie nelle grandi città dove si svolgono le elezioni comunali: i candidati da essa appoggiati riescono eletti (da Roma a Genova, a Venezia), anche se l'apporto di voti propri di AD appare piuttosto scarso, salvo che a Roma, dove tuttavia la lista “Allean-
za per Roma” porta in Comune, tra i cinque eletti, quattro del gruppo di Segni, rimasto
in AD. AI di là dei documenti programmatici, la formula ha mostrato di avere una sua validità sul piano dell'immagine ma appare più diretta a favorire la costituzione di un cartello elettorale tra forze di sinistra e gruppi di centro, come accadeva nella terza e quarta repubblica francese, che non a dar vita ad una autonoma e specifica forza politica, quale punto di riferimento a livello nazionale per quella parte della borghesia disposta ad aggregarsi al PDS, con esclusione dell’estrema sinistra: tale il senso dell'adesione di nume| rosi imprenditori.
Dopo le elezioni comunali di Roma, nell’ambito dell'unione dei progressisti sono sollevati problemi di organizzazione interna e rappresentatività del movimento e viene sollecitata l’adozione delle primarie per la selezione dei candidati da presentare alle ele225
zioni del ‘94, alle quali ii candidati di AD partecipano come una delle otto componenti dello schieramento‘‘progressista’. È adottato come simbolo un quadrifoglio che richiama le quattro matrici del gruppo (liberaldemocratica, cattolica, verde, laico-socialista).
A.D. riesce ad ottenere, nelle trattative per le candidature comuni con gli altri gruppi, numerosi collegi considerati “sicuri” e così ne conquista 17 alla Camera e 7 al Senato, malgrado la ristrettissima percentuale alla proporzionale (solo 457 mila voti con 1,2%). Sono eletti tra gli altri Ayala, Bogi, Bordon, Miriam Di
G. Melandri, Vi-
sentini.
FORZA ITALIA Le elezioni amministrative del 93 mettono in rilievo il crescente abbandono, da parte dell’elettorato, delle due principali forze che dagli ultimi trenta anni avevano costituito
la base delle maggioranze parlamentari e dei governi (DC e PSI), mentre si rafforzano in Italia Settentrionale la Lega Nord e nel Centro-sud il MSI, con l’effetto di avvantaggiare gli schieramenti di sinistra verso i quali confluiscono - anche grazie alla qualità delle persone indicate in molte città per la carica di sindaco - settori consistenti di ceti medi
nonché gruppi democratici precedentemente collocati su posizioni centriste, gli uni e gli altri stanchi di subire il lungo dominio di una partitocrazia affaristica e lottizzatrice. Sono queste le premesse che spiegano la nascita e poi la rapida affermazione di un movimento nuovo per impostazione e moduli organizzativi. Forza Italia è il nome che il presidente della Fininvest, Silvio Berlusconi, dà al mo-
vimento creato nel gennaio ‘94, assumendo posizioni fortemente critiche nei confronti degli indirizzi di politica economica e fiscale tenuti da governi negli ultimi anni e rivendicando la difesa dell'attività individuale, dell'impresa e della famiglia. L'iniziativa, an-
nunciata con un intenso battage pubblicitario, poggia principalmente sull’accusa contro le sinistre di non aver abbandonato i metodi dei comunisti e di costituire quindi un pericolo per le libertà nonché su richieste di cambiamenti in materia tributaria (specie per porre limiti rigidi alla pressione fiscale e avviare la detassazione degli utili reinvestiti dalle aziende), e nella netta condanna dello “statalismo assistenzialista”. Critici ed avversari obiettano che proprio l’esperienza della Fininvest è un esempio di attività produttiva che
ha cercato ed ottenuto la protezione delle forze di governo. Il movimento - organizzato sulla base di club locali che, sorti in gran parte sponta-
neamente ma con l'appoggio delle strutture che l'apparato del suo presidente è stato in grado di fornire, presto superano le tredicimila unità - opera con una tecnica propagan-
distica “all'americana”: si avvale del contributo di studiosi come il sociologo Giuliano Urbani, l'economista Antonio Martino, il generale Luigi Caligaris, i quali hanno elaborato un programma di timbro liberaldemocratico, per certi versi post-ideologico e post-in-
dustriale e quindi con caratteri di “modernità”. È accolto rapidamente da un notevole favore, testimoniato dalla presenza attiva di persone provenienti dal lavoro nella imprenditoria, nelle professioni e da appartenenti a ceti medi, sostenitori della “meritocrazia” così come si afferma nella vita civile. La decisione di “scendere in campo”, una volta constatata la divisione del campo liberaldemocratico e quella che viene considerata l’’insufficienza” del nuovo Centro,e
quindi di presentarsi alle elezioni èoggetto di vivaci polemiche che Berlusconi cerca di 226
superare lasciando ad altri la guida delle sue aziende anche se continuerà ad essere martellato con l’accusa di utilizzare la forza di pressione di strumenti televisivi, discutibile ma
di per se legittima sino a quando non risulterà contraria alle leggi e alle regole antitrust. La nascita e l'avvio dell’azione politica di EI. crea problemi di collocazione nei confronti della Lega (v.) e dell'Alleanza Nazionale (v.) con cui il nuovo raggruppamento rag-
giunge accordi per la presentazione delle candidature rispettivamente in Italia del nord e del sud. Si delinea così uno schieramento variamente articolato (specie per la netta con-
trapposizione programmatica tra Lega e A.N.), unificato tuttavia dal richiamo ai motivi dell’anticomunismo (riproposto pur nella situazione post ‘91) ma rappresentato da componenti eterogenee, l’una sul versante federalista, l’altra incardinata nelle tradizioni proprie della destra “nazionale”. EI. punta ad essere il blocco di aggregazione di tutto lo schieramento di destra, non esitando a porsi come possibile prospettiva di governo, considerati i larghi consensi che si manifestano a suo favore, nell’ambito dei “moderati”. In poche settimane Berlusconi dimostra - al di là dell’impegno di tanti collaboratori alle sue attività economiche - di saper raccogliere uno stato d’animo largamente diffuso sia di stanchezza e sempre più spesso di ostilità nei confronti di una cultura politica ed economica a lungo dominante; in particolare sono i titolari di piccole aziende - stressati dal fisco e critici nei confronti di quella che essi considerano una eccessiva protezione a favore del lavoro dipendente, in base a norme emanate quando al contrario tale protezione era molto scarsa o insusistente - a sostenerlo. Ed in effetti ottiene 8 milioni e 120 mila voti alla Camera (la lista con i più ampi
consensi) e 101 deputati e al Senato 41 eletti, apparendo subito come il fattore determinante della vittoria riportata dal “polo della libertà”. Una campagna di accese intimidazioni - mediante il concorso di responsabili di delicati apparati istituzionali - condotta al di là delle consuete diatribe politiche, finisce per giovare al cavaliere del lavoro Berlusconi, che diviene per molti il simbolo della contrapposizione allo statalismo e della possibilità di creare nuovi posti di lavoro mediante il rilancio di produzione e consumo, anche se evidentemente il problema della disoccupazione ha cause strutturali e non soltanto italiane, collegato com'è alle trasformazioni tecnologiche, al ruolo sempre più invadente delle grandi concetrazioni finanziarie internazionali nella cornice degli accordi GATT e delle nuove dimensioni dell’Unione Europea, oltre che naturalmente alle conseguenze degli errori del ceto politico ed economico che ha a lungo guidato l’Italia. Come mai una formazione politica appena nata è riuscita a conseguire un successo
così clamoroso battendo partiti consolidati e dotati di organizzazioni e quadri temprati da decine di anni di attività? Una prima valutazione, immediatamente successiva al verificarsi dell’evento, può ricondurre a tre tipi di fattori: il primo relativo alle tendenze in corso nella società italiana, il secondo agli errori compiuti dagli avversari, il terzo alla capacità di interpretare spinte concrete e di raccogliere consensi.
Quanto al primo fattore la società italiana appare sempre più caratterizzata da spinte a carattere individuale. Una rilevante percentuale di cittadini si trova costretta a risolvere in proprio in problemi che lo assillano nella vita quotidiana: dalla casa (ottenibile a caro prezzo, tanto che chi non l’aveva ha fatto ricorso all’abusivismo, con il silenzio prima e l’avallo poi delle autorità, mentre i proprietari sono stati sottoposti ad uno stillici-
dio di imposte) al lavoro quanto meno funzionano gli strumenti deputati a curare l’in-
teresse collettivo (in luogo del concorso e dell'ufficio di collocamento, la raccomandazione, la lottizzazione, il lavoro nero, se non addirittura l’ereditarietà), dal risparmio D27
(quando c'è) all’uso indispensabile di servizi vitali (a una notevole parte dell’attività sanitaria supplisce il volontariato). È venuta meno la fiducia negli istituti che dovrebbero garantire l’imparzialità (pubblica amministrazione, magistratura, intervento statale nel-
la produzione e nella cultura). Possiamo aggiungere, la diffusa etica del consumo quale soddisfazione materiale contro le incertezze e le precarietà del tanto decantato benessere. E chi è inserito in tale logica tende a preferire chi ha dimostrato o è in grado di soddisfare le aspettative, moltiplicate proprio dal mezzo televisivo che la Fininvest control-
la per circa il 40% (anche se non tutti i suoi servizi informativi e giornalistici hanno tifato per Forza Italia). Inoltre è larga la convinzione che tutto ciò che è pubblico, è dan-
noso sia dal punto di vista finanziario, per l’aggravio dei costi, che dal punto di vista delle prestazioni, insufficienti.
L’individualismo sollecita allora la ricerca di ciò che ciascuno può ottenere per sé. E Berlusconi ha saputo interpretare ed impersonare tale tendenza. In secondo luogo, la demonizzazione del leader di EI. ha diffuso la sensazione che la vittoria dello schieramento opposto avrebbe determinato un rischio per chi non si schie-
rava con il fronte progressista: a ciò hanno contribuito campagne di stampa e della TV di Stato che, in più casi, è andata oltre toni e metodi consueti del confronto elettorale con accuse non dimostrate insinuazioni ed intimidazioni. Piuttosto non è da escludere che la rapidità di formazione dei club abbia consentito che in essi si introducessero anche elementi non verificati nei precedenti, ma subito allontanati. Veniamo infine alla capacità che il nuovo movimento ha dimostrato nel raccogliere tanti umori critici, soprattutto uno stato d’animo largamente diffuso, non maggioritario nel paese - come hanno indicato i numeri - ma molto sentito: coloro che si sono spo-
stati a destra (oltre 9 milioni di persone) volevano indicare una scelta anti partito (contro i partiti che avevano comunque gestito la politica, dal governo o dall’opposizione), di tipo liberistico ed anticollettivista. Quindi la nascita dei “club” sorti in pochi giorni
capillarmente in tutte le parti d’Italia e con iniziative non solo indotte dal gruppo Fininvest ma spontaneamente manifestatesi nei centri maggiori e minori, veniva incontro ad una esigenza reale contro la quale si sono opposti metodi ed argomentazioni non rispondenti al modo di pensare e comportarsi di una consistente aliquota di cittadini, i qua-
li hanno visto il “nuovo” in uomini e formule diversi rispetto al precedente modo di fare politica. E che Berlusconi - assunto a simbolo dello sforzo individuale - fosse un espo-
nente dell’establishment - dal punto di vista delle potenzialità economiche - contava poco perché altri esponenti, ben più forti e radicati del cavaliere del lavoro stavano dalla parte opposta ed anzi si presentavano come continuatori del “vecchio”, respinto proprio per le prove negative fornite in decenni di gestione pubblica. Infine non va trascurata la constatazione che il governo Ciampi, pur con i suoi lati positivi come il precedente governo Amato, ha, di fatto, con i suoi provvedimenti, scontentato larghe fasce sociali (dai pensionati, ai disoccupati, ai malati, specie anziani o cronici), dando così luogo ad una miscela esplosiva che sinora ha provocato uno spostamento a destra. La legge elettorale incestuosa, la videocrazia, la dislocazione delle forze in campo, il modo verticistico in cui si è pervenuti alla indicazione dei candidati - nelle formazioni nuove ancor più che nelle vecchie - le condizioni di svolgimento nella campagna elettorale sono stati i “canali”
attraverso i quali si è manifestato un fenomeno, improvviso per le forme con cui si è espresso e per i gruppi politici che ne hanno beneficiato ma da tempo in corso nella società italiana, come abbiamo cercato di indicare in “Le cause della svolta” scritto nei me228
si precedenti alle elezioni. La situazione comunque è tutt'altro che definita nei suoi termini essenziali, in quanto le destre maggioritarie sono tra loro profondamente divise, le sinistre sono forti (in particolare PDS e RC si sono consolidati), la crisi sociale ha nodi
tutti irrisolti e la variabilità degli umori è avvertibile, con crescenti divaricazioni e spinte pericolose. Dal punto di vista dell’osservazione sociologica l’esperienza fondativa di Forza Italia rivela una inusitata prontezza di riflessi nel cogliere le opportunità e nel tradurle in risultati concreti. Ancora una volta la formazione del consenso conferma le tesi di Simmel e quelle di Perticone sul “regime di massa” e la sua articolazione, le sollecitazioni da cui è mossa: entrano in circuito identificazioni collettive trascurate da osservatori legati a modelli convenzionali. Rimane adesso il problema del rapporto tra il movimento dei club e le responsabilità di Berlusconi per la fiducia che ha saputo raccogliere al di là dell’organizzazione. All'apertura del Parlamento nell’aprile ‘94 il prof. Carlo Scognamiglio (v. I liberali) eletto nelle liste di FI. viene eletto Presidente del Senato.
COMITATI E GRUPPI VARI
Nelle elezioni del ‘92 l'” Altra sinistra” - come l’ha chiamata Luca Tentoni nello studio sui confronti elettorali, unendo i voti di Verdi, Pannella, Rete e Lista Referendaria di Giannini - ha conquistato in totale 2 milioni e 600 mila voti. Riferiamo su alcune iniziative. ARCODè stato un gruppo di ispirazione radicale, che ha promosso sin dal ‘90 le tematiche di riforma delle istituzioni, della legge elettorale (in senso uninominale) e della politica. Tra i promotori, oltre Pannella, M. Teodori, Strike Livers, G.Quagliariello an-
che esponenti socialisti. CORID si è chiamato il Comitato Giannini, che è nato dalle richieste referendarie elaborate dal giurista per l'abolizione del ministero Partecipazioni statali, dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e del potere discrezionale del ministro del Tesoro per la designazione dei vertici delle banche. Da esso è nata la lista referendaria presentata nelle elezioni politiche del ‘92 in varie circoscrizioni, con candidati scelti tra note persona-
lità nei campi della scienza, delle arti, delle professioni. Non ha ottenuto alcun seggio. COREL era invece il Comitato Segni che ha promosso ed organizzato prima la campagna per il referendum sulla riduzione ad una delle preferenze sulle elezioni per la Camera (‘91), poi quella per la modifica della legge elettorale per il Senato in senso strettamente uninominalistico (‘93), ed incontrando in entrambi i casi, ma soprattutto nel primo, una aspra opposizione. Accanto a Mario Segni infatti inizialmente si erano schiera-
ti solo alcuni esponenti cattolici come Pietro Scoppola ed esponenti di altri organismi: malgrado ciò le tesi sostenute si sono diffuse nel paese, superando incomprensioni, falsificazioni, timori. Tra i più attivi nel comitato il costituzionalista Augusto Barbera del PDS. Pieno successo ha arriso ad entrambe le iniziative (v. D.C.). Numerosi esponenti del COREL hanno contribuito a dar vita, nell'ottobre ‘92, a “Verso l'alleanza democratica” (v. A.D.).
Numerose sollecitazioni per creare un “partito democratico” si sono registrate tra il ‘92 ed il ‘93: proseguono varie iniziative alle quali partecipano Massimo Teodori, Mar209
cello Perna, Marco Taradash, Peppino Calderisi, Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco. Il progetto sarà ripreso da Pannella, per essere rinviato a dopo le elezioni mentre lo stesso Pannella promuove altri numerosi referendum (v. / radicali). Nelle elezioni del ‘92 liste minori (verdi federalisti, cacciatori, pensionati, casalinghe,
automobilisti e - dulcis in fundo - il partito dell'amore) hanno ottenuto scarsi suffragi, alcune anche minori che in precedenti esibizioni.
Va segnalata inoltre l'iniziativa per costituire una Alleanza Nazionale. I promotori (tra gli altri Domenico Fisichella, Giuseppe Tatarella, Domenico De Napoli e Francesco
Grisi) hanno affermato che “la prima Repubblica è finita” e che “i partiti sono in liquidazione”: pertanto hanno sollecitato un impegno per rinnovare le istituzioni e costruire un alternativa al fronte delle sinistre. L'idea viene ripresa e prontamente realizzata d’intesa con Gianfranco Fini (v. Movimento sociale e Destra nazionale), che la porterà all’immediato, larghissimo successo nelle elezioni del ‘94.
Infine per il Centro Cristiano Democratico, promosso da d.c. che non hanno accettato di confluire nel nuovo partito popolare rinviamo alle ultime pagine de La democrazia cristiana.
Intanto si è ricostituito il movimento cristiano sociale sotto froma di federazione. Infatti a fine giugno ‘93 si è svolto a Roma una riunione alla quale hanno partecipato sindacalisti delle ACLI, operatori della cooperazione e del volontariato, i quali hanno deciso di dar vita ad un movimento dell’area cristiano-sociale che propone di costituirsi come componente dello schieramento progressista. Per promuovere le iniziative politiche ed organizzative necessarie, è stato nominato un comitato di coordinamento provvisorio composto tra l’altro da Ermanno Gorrieri, Giovanni Bianchi, Pierre Carniti, Mario Colombo, Luciano Guerzoni, Franco Monaco, Bruno Manghi.
I promotori della Federazione affermano inoltre “Non va trascurata la considerazione che la legge elettorale approvata dalla Camera appare farraginosa e di improbabile esito maggioritario. Essa non consente assolutamente quel ricambio di persone, programmi e coalizioni che i promotori della riforma elettorale pensavano di poter affidare, appunto, alla nuova legge”. L'attenzione maggiore - precisano ancora - va concentrata sui temi sociali. “Dobbiamo pensare ad una trasformazione dello Stato Sociale attraverso il ricorso alla società civile, alle cooperative di solidarietà sociale, all'insieme di associazioni, gruppi ed organismi, che possono essere inseriti nello Stato Sociale per “socializzarlo” attraverso il decentramento e coinvolgendo i cittadini nel suo funzionamento in modo che esso diventi anche una struttura in cui si organizza l’aiuto reciproco”. Il gruppo è presente con propri candidati alle elezioni politiche del ‘94 nello schieramento progressista, ottenendo 6 deputati e 5 senatori; non si è presentato con proprie liste per le proporzionali.
230
Capitolo XVI
ALTRI MOVIMENTI
MOVIMENTO FEDERALISTA
ORGANIZZATI
EUROPEO
Il movimento federalista europeo fu fondato a fine agosto 1943 a Milano in una riu-
nione in cui erano presenti con Mario Alberto Rollier che aveva offerto la sua casa, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Leone GInzburg, Ursul Hirschmann, Vittorio Foa, Franco Venturi, Guglielmo Jervis, Enrico Giussani, Arialdo Banfi, Ada Rossi, Dino Roberto, Manlio Rossi Doria, Guglielmo Usellini, Gigliola Spinelli, Vindice Cavallera, Giorgio Braccialarghe.
Questa iniziativa si ricollegava sia agli scritti in esilio di Silvio Trentin e di quanti altri in quegli anni prospettarono l’europeismo come soluzione necessaria per superare i nazionalismi - e tra i partecipanti a questo indirizzo vi erano oltre a “Giustizia e Libertà”, esponenti repubblicani e socialisti, (come, a Nizza, Sandro Pertini) - sia al Manifesto di Ventotene, redatto nel ‘41 da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi, con la collaborazione di Eugenio Colorni. Nel documento approvato a Milano e che sarà pubblicato ai primi
di settembre in un foglio intitolato “l’unità europea” prima di essere ripreso a Parigi nel primo numero dei “Cahier de la Fédération Européenne”, si legge tra l’altro: “Mentre patrioti, democratici, socialisti pensano di solito che occorre anzitutto provvedere in ogni singolo paese alla realizzazione di quei fini, e che solo come conseguenza ultima sorgerebbe, quasi spontaneamente, una situazione internazionale in cui i popoli si affratellerebbero, il M.EE. mette in guardia contro questa illusione. L'ordine di importanza de-
gli obiettivi è precisamente l'opposto. Se ci si occuperà solo dei problemi interni - nazionali, politici, sociali - dei singoli paesi, resteranno in piedi le cause di rivalità, di conflitti, di imperialismi, di militarismi, di dispotismi, di guerre. L'instaurazione della Fe-
derazione Europea è perciò il compito assoluto preliminare verso cui debbono far convergere tute le loro energie le correnti progressiste europee”. I federalisti parteciparono attivamente al movimento di resistenza, offrendo un significativo contributo di sangue attraverso il sacrificio di Leone Ginsburg, Eugenio Colorni e tanti altri. La maggior parte dei federalisti italiani si impegnarono negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra all’interno delle varie forze politiche, pre-
valentemente nel partito d’azione ma anche tra repubblicani e socialisti. In favore di un movimento democratico europeo si pronunciarono tra gli altri Piero Calamandrei, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini, con i quali collaborò in pubblicazioni ed in iniziative anche Luigi Einaudi (che tenne a spiegare quelle che, a suo avviso, erano le ragioni del “fallimento” dell’internazionalismo socialista). Gli ulteriori sviluppi dell’azione federalista sono rintracciabili in Italia attraverso le manifestazioni ed i congressi del “mo-
vimento” che ha mantenuto una sua presenza ed organizzazione. Un cammino lungo e travagliato che ha visto l'impegno incessante di Altiero Spinelli e che si scontrava con ostacoli di ogni tipo, anche perché inizialmente la costruzione del “mercato comune” fu vi-
sta con diffidenza in quanto espressione di interessi economici e di posizioni stataliste del251
le singole nazioni e non attuazione di un corso politico imperniato sul “popolo europeo”, al di là degli schemi prefissati dagli organismi di Bruxelles.
In seguito invece il Movimento federalista ha guardato con attenzione all’esperienza che si andava realizzando, pur con una netta rivendicazione di un proprio ruolo autonomo rispetto alle nuove strutture comunitarie, nelle quali peraltro gli stessi esponenti federalisti ritennero di potersi inserire, specie dal momento delle elezioni dirette a suf-
fragio universale dei delegati al Parlamento europeo (1979), anche se -va rilevato - questo organismo non è stato sinora (1993) dotato di attribuzioni politiche né di un controllo diretto degli organismi economici comunitari. Sin da allora la personalità di Altiero Spinelli emerse, oltre che come promotore e organizzatore del movimento, anche come valido responsabile al massimo livello degli organismi comunitari, nominato nel
governo italiano su designazione del PSI. Il M.FE. è tuttora operante, ed è riuscito a riunificare le sue energie, dopo una se-
parazione legata proprio al differente modo di vedere gli organismi comunitari, e fa parte dell'Union Furopéenne des fédéralites.
Un ruolo importante per la diffusione degli ideali europeisti è stato svolto sin dagli
anni ‘50 dal gruppo raccolto attorno ad Umberto Serafini, sia con Comunità sia con la Lega dei comuni europei, che pubblica un apposito bollettino. All’interno dei singoli partiti vanno ricordate le iniziative nella DC, nel PSI (Sinistra europea, guidato da Mario Za-
gari), nel PRI e nel PLI, a cui va aggiunto l’impegno particolarmente intenso di Pannella e dei radicali, ai quali si devono le più significative azioni sia all’interno del Parlamento europeo sia in Italia, con la richiesta tra l’altro di un referendum, poi concordato con
la gran parte delle altre forze politiche, per sollecitare il trasferimento di poteri politici al Parlamento di Strasburgo, referendum votato dalla grande maggioranza degli elettori. E
“federalista” si denominerà infatti alla Camera il gruppo parlamentare radicale, con evidente riferimento al federalismo europeo, e non a quello propugnato dalle leghe. Movimento europeo si denomina
un altro gruppo interpartitico che si avvale della
partecipazione di esponenti politici di vari partiti nei rispettivi paesi (in Italia G. P. Orsello).
MOVIMENTO FEDERATIVO DEMOCRATICO Il Movimento federativo democratico ha raccolto giovani, inizialmente di matrice cattolica, i quali hanno cercato dalla fine degli anni settanta - prima con il movimento “Sei Febbraio” poi appunto con il M.E.D. - di svolgere una serie di attività, che si carat-
terizzano sul piano di esperienze concrete nel campo sociale. In particolare sono state avviate iniziative nel settore della casa (ad es. con censimenti nelle grandi città degli ap-
partamenti non dati in locazione nel timore dell’applicazione dell’’equo canone” o addirittura di espropri) e della salute in difesa dei diritti del cittadino.
Questo movimento - come già altri sorti negli anni settanta - preferisce affrontare problemi pratici, con iniziative separate per settore, anziché cercare adesioni sul piano culturale e ideologico. Non si tratta soltanto di una maggiore possibilità di “aggancio” con
gruppi e interessi sociali svariati bensì delle remore che un numero sempre crescente di 292
cittadini trova a collegarsi su basi aprioristiche, dopo il grande disincanto provocato dal
crollo delle ideologie. Riportiamo il testo delle dichiarazioni enunciate in occasione della prima sezione
pubblica del “tribunale per i diritti del malato”, tenuta a Roma, in piazza del Campido-
glio il 29 Giugno 1980, quale esempio delle nuove forme di volontariato, di cui il mo-
vimento vuol essere espressione politica di coordinamento, al di fuori delle politiche tra-
dizionali. “Il Tribunale per i diritti del malato nato nell’autunno del 1979: dopo aver raccolto circa 2000 denunce il 29 giugno 1980 ha tenuta la prima sessione pubblica che ha promulgato la carta dei 33 diritti del cittadino. Da allora in poi si sono susseguite numerosissime iniziative promozionali e battaglie popolari tese ad applicare i diritti sanciti: l'apertura dei centri per i diritti del mala-
to dentro gli ospedali; il miglioramento dell’igiene nelle corsie; l'allungamento degli orari di visita per i parenti; la realizzazione di servizi di socializzazione per i degenti; l’ap-
plicazione dei cartellini di riconoscimento per il personale medico e infermieristico. Ciò è stato possibile grazie alla vasta mobilitazione popolare che si è creata attorno al Tribunale per i diritti del malato: malati, operai, giovani di diversa estrazione politica ma uniti da una unica matrice democratica hanno collaborato e continuano a collaborare alla vita del Tribunale. Oltre ad essi, è stato significativo l'apporto che hanno dato gli operatori sanitari, medici e paramedici, teso anche ad una ricerca di professionalizzazione”. In un documento dell’associazione si legge: “Attraverso tale iniziative è stato possibile incanalare la protesta popolare verso obiettivi democratici di controllo sul funzionamento degli ospedali e far emergere la volontà della maggioranza dei cittadini di cambiare la situazione sanitaria del Paese, per contribuire a renderla più moderna ed efficiente”. Per oltre un decennio il MFD ha svolto un'intensa attività concentrata attorno ad alcuni obiettivi specifici (dal controllo dei servizi sanitari al controllo dal basso degli apparati amministrativi), estendendosi da Roma in altri centri. Intende realizzare una nuo-
va tecnica d’intervento nella società che prescinde dai canali tradizionali. Gli aderenti al movimento non agiscono per conquistare posizioni negli organi pubblici bensì per controlla re dal basso l'operato di chi gestisce i servizi pubblici. Tra gli iniziatori di questa nuova forma di azione sociale democratica è Giovanni Moro, segretario politico del MFD. Presidente è stato eletto Giuseppe Cotturri, che ha esercitato per vari anni un compito di primo piano nel centro per la riforma dello Stato, costituito negli anni ‘80 da Pietro Ingrao. C.L. -
MOVIMENTO POPOLARE
Comunione e liberazione deriva da Gioventù studentesca che dalla metà degli anni ‘50
al ‘68 esperimeva a Milano posizioni degli studenti aderenti all’Azione Cattolica nel cui ambito operava ma con una propria organizzazione gerarchica guidata dal fondatore, il sacerdote Luigi Giussani, che, oltre ad una vita liturgica molto intensa, ha svolto un lavoro di revisione didattica nelle materie scolastiche, ed un'attività caritativa, e culturale
con “incontri” nel corso dei quali i giovani si scambiavano esperienze ed opinioni sui vari problemi della vita spirituale e pratica. Quando iniziarono i movimenti di contestazione i giovani di questo gruppo in parte si disperdono, in parte invece affrontano con 295
fervore la nuova fase politica e culturale, elaborando il concetto che poi sarà espresso con la formula “Comunione e liberazione”.
Va subito precisato che ron è un movimento politico, e pertanto qui ce ne occupiamo solo per i riflessi che ha avuto però nella vita politica e culturale. E troviamo la più esatta definizione delle finalità e dei caratteri di CL nei documenti con i quali nell’82 la Chiesa l’ha riconosciuto come “Fraternità” che può portare appunto alla Chiesa un contributo per cooperare alla crescita della sensibilità e della esperienza cristiana, in ambienti
- spesso secolarizzati e “lontani” - nei quali “una presenza missionaria si rivela più che mai necessaria per dare testimonianza di Cristo, come Chiesa, essendo in gioco principî fondamentali della convivenza sociale” Mentre infatti divampava nella società italiana, nel
‘68 e negli anni successivi, una tendenza a spostare tutto sul terreno politico ed economico, CL ha richiamato l’attenzione sui problemi della spiritualità e della fraternità in una situazione nella quale si riteneva necessario assicurare alla fede tutta la sua forza di
irradiazione nella vita. Quindi è la scelta di una via completamente diversa da quella dei movimenti giovanili che nascono dalla contestazione, in quanto è ispirata invece al richiamo a valori spirituali da inverare nei comportamenti pratici. Gradualmente CL si inserisce nella vita universitaria con iniziative non solo di edificazione religiosa ma anche di “opere” (che anzi in qualche sede danno luogo ad episodi non del tutto chiari) dirette a rafforzare la presenza cattolica nella società civile. L'organizzazione di CL non ha una struttura democratica ma prevede un costante
“interscambio” tra livelli superiori ed inferiori: vi sono consigli, diaconie e comunità di ambiente. La denominazione si collega alla “comunione” come esigenza fondamentale della vita tendente ad esprimere in una partecipazione comunitaria per la più intensa formazione spirituale degli associati nell’approfondimento della fede, nell’impegno missionario e nel servizio per la comunità. Fondatore, organizzatore di CL è il sacerdote Giussani. CL tiene ogni anno a fine estate un Convegno a Rimini per trattare i maggiori te-
mi di carattere etico e culturale. Il Movimento popolare nasce invece nel ‘75 anch'esso non come movimento politico, in collegamento con CL, nell'intento di trarre dall'esperienza cristiana il lievito per un'azione a livello sociale e politico, non per fare politica in senso stretto quanto per partecipare attivamente con l’azione alla vita dell’Italia: suo principale esponente sarà Roberto Formigoni, eletto nelle liste della D.C. al Parlamento europeo ed italiano, riportando larga messe di voti a Milano, come d'altronde a Roma Alberto Michelini. Il Movimento sarà sciolto ai primi di dicembre ‘93. Per quanto riguarda altre forme associative, di cui molto si parla in Italia per ilpeso che riescono ad esercitare (dall'associazionismo cattolico alle massonerie), non ne abbiamo qui trattato perché hanno fisionomia e caratteri ben diversi dall'aggregazione politica: possiamo comunque rinviare in proposito alle nostre osservazioni contenute nel capitolo ‘I gruppi di pres-
stone” nel volume Le cause della svolta”.
Infine precisiamo che non ci siamo occupati, in maniera specifica, in questa sede dei movimenti femministi (analizzati invece in altri studi), giacché essi richiedono una serie di trattazioni non strettamente politiche, ma essenzialmente di costume e di vita quotidiana, che non possiamo esaurire nel presente volume.
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ANNOTAZIONI
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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI MAGGIO 1994 - STEG STABILIMENTO DI TARQUINIA FOTOCOMPOSIZIONE: GANGEMI EDITORE
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I PARTITI ITALIANI Carlo Vallauri
Questo volume è aggiornato sino alle ultime elezioni politiche e alla chiusura di un ciclo della storia repubblicana nel ‘94: contiene una completa ricognizione sull’attività di tutti i gruppi e movimenti politici italiani dal 1943 con analisi su origini, vicende interne,atteggiamenti nei maggiori problemi sociali economici, istituzionali, culturali, nonché comportamenti in Parlamento e nei confronti dei governi, formazione e scomposizione di quadri e nuclei dirigenti di; liberali, repubblicani, partito d’azione, democrazia cristiana e popolari, socialisti e socialdemocratici, comunisti, PDS e Rifondazione, anarchici, PSIUP, extraparlamentari, democrazia proletaria, PDUP, monarchici, movimento sociale e alleanza nazionale, radicali, cristiano sociali, cattolici comunisti, democrazia del lavoro, uomo qualunque, movimenti autonomisti (p.sardo d'azione, UV, SVP, Comunità), leghe, verdi, movimenti per la pace, federalisti europei, MFD, rete, AD, patto per l’Italia, forza Italia, CCD, unione di centro, comitati e gruppi vari.
CARLO VALLAURI, professore di storia moderna e contemporanea all’Università per stranieri di Siena, ha insegnato per molti anni Storia dei partiti e Sociologia politica all'Università di Roma - La Sapienza - e Storia dei movimenti sindacali alla LUISS. Ha pubblicato studi su Zanardelli, Giolitti e l'occupazione delle fabbriche, il corporativismo, |‘organizzazione interna dei partiti, il PSI e l'Internazionale socialista, la cooperazione agricola, il movimento sindacale, la guerra in Abruzzo e nel Lazio, Roma contemporanea, la formazione delle oligarchie e le cause della svolta tra il ‘90 e il ‘94, i diritti umani e la pace nei manuali scolastici (UNESCO), le disparità tra uomini e donne nei mass media (Consiglio d'Europa), la cultura politica europea negli anni 30, il teatro italiano contemporaneo (World Encyclopedia of Contemporary Theatre)
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| | Il 9" 887 & Ill