I mondi dell'Oltremondo. Dante e la Commedia dal fantasy alla fan fiction 9788846765697

Cosa succederebbe se i versi della Commedia funzionassero come le formule di un incantesimo? E se Dante dovesse combatte

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Italian Pages 143 [145] Year 2023

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I mondi dell'Oltremondo. Dante e la Commedia dal fantasy alla fan fiction
 9788846765697

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Diffrazioni Letterature comparate, teorie e forme dell’immaginario 1

I volumi pubblicati sono sottoposti alla valutazione anonima di almeno due persone esperte in materia individuate dalla direzione (peer-review). Collana diretta da Carmen Dell’Aversano – Università di Pisa Stefano Ercolino – Università Ca’ Foscari Venezia Massimo Fusillo – Università degli Studi dell’Aquila Alessandro Grilli – Università di Pisa Matthew Reynolds – St Anne’s College, Oxford

I mondi dell’oltremondo. Dante e la Commedia dal fantasy alla fan fiction Mattia Petricola

www.edizioniets.com

Volume pubblicato con il contributo dell’Università di Pisa © Copyright 2023 Edizioni ETS Palazzo Roncioni – Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 – 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL

via Zago 2/2 – 40128 Bologna ISBN 978-884676569-7 Progetto grafico e impaginazione: Giovanni Campolo

Sommario

Avvertenza

7

Ringraziamenti

8

Introduzione Nella risacca del settecentenario: iconizzazione, divulgazione, proliferazione Adattamenti, appropriazioni, trasformazioni, trasposizioni

9 13 16

1. Salvare Beatrice, uccidere Lucifero: Dante’s Inferno tra videogioco e cinema d’animazione 1.1 Teorizzare il fantasy o abbracciare l’evaporazione? 1.1.1 Tolkien e la fairy-story 1.1.2 John Clute e la definizione di fantastika 1.2 Avantesti e paratesti 1.3 Dante da poeta a crociato

25 26 27 31 33 36

2. I maghi dello stil novo: appunti su Eternal War di Livio Gambarini 2.1 Un oltremondo senza aldilà 2.2 Storia, finzione, fantasy 2.3 Il fantasy dello stil novo

51 53 61 63

3. Dante tra gli zombie: su Valley of the Dead di Kim Paffenroth 3.1 Il lupo e lo zombie 3.2 Origini di una contaminazione 3.3 Splatter o non splatter?

73 73 75 82

4. «Do you mind if I call you Dan?»: percorsi nel fantext dantesco 4.1 Premesse: la fan fiction come lavoro trasformativo 4.1.1 Definizioni 4.1.2 Fan fiction e adattamento 4.1.3 Codici e generi della fan fiction 4.1.4 La fan fiction e il mondo pre-contemporaneo 4.2 Harry Potter nel nono cerchio: il crossover come critica letteraria 4.3 Dalla metariflessività al porno

109 115

Conclusioni: perché trasformare Dante e la Commedia?

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Bibliografia

133

97 98 98 102 104 107

Avvertenza

Illustro qui alcune scelte linguistiche, tipografiche e bibliografiche che hanno influenzato la forma generale di questo libro. Mi scuso prima di tutto per non aver usato un linguaggio inclusivo. I termini di genere doppio o misto sono stati sistematicamente volti al femminile. Citerò sia da volumi in edizione cartacea che da volumi in edizione digitale per Kindle. I secondi sono identificabili dalla presenza della particella “loc.” (abbreviazione di location) prima del numero di pagina. Tutti i link sono stati consultati per l’ultima volta nel gennaio 2023. Non metterò in corsivo i termini inglesi che sono entrati stabilmente nell’uso italiano, come ad esempio “fandom”, “fan fiction”, “splatter” e “fantasy”. Il testo della Commedia è citato dall’edizione Petrocchi e tratto dal portale digitaldante.columbia.edu. La traduzione inglese della Commedia di Longfellow è presa dallo stesso portale. I termini “Inferno”, “Purgatorio” e “Paradiso”, in corsivo e con iniziale maiuscola, si riferiscono alle Cantiche dantesche. I termini “inferno”, “purgatorio” e “paradiso” indicano invece, in maniera più generale, i regni dell’aldilà cristiano. I commenti alla Commedia di Inglese e Chiavacci Leonardi, cui ricorrerò di frequente, esistono in diverse edizioni. Per facilitare il reperimento dei passi non farò riferimento nelle citazioni a un’edizione specifica, ma alla Cantica, al Canto e al verso commentati, nella forma seguente: Commento Inglese, Inf. 5, v. 4; oppure: Commento Leonardi, Purg. 7, v. 12. Un discorso analogo vale per la Vita Nova, che citerò dall’edizione Gorni facendo riferimento solo al numero del capitolo.

Ringraziamenti

Ringrazio di cuore Massimo Fusillo, che da anni segue e incoraggia le mie ricerche; Alessandro Grilli e Carmen Dell’Aversano, che hanno reso possibile la pubblicazione di questo libro; Gloria Borghini e lo staff di ETS, che hanno permesso a questo libro di trovare una casa; Giovanni Campolo, per il suo lavoro di editing, per la sua gentilezza e la sua disponibilità; Donata Meneghelli, i cui studi sul fandom hanno ispirato l’ultimo capitolo di questo libro; e Stefano Lazzarin, per avermi introdotto alla dantistica pop. Un ringraziamento particolare va infine a Rita Anceschi e Marco Casarotti, per il loro imprescindibile aiuto nell’ideazione e nella stesura di questo libro.

Introduzione

Questa ricerca esplora la ricezione della Commedia e della figura di Dante in due macro-generi o modalità narrative: il fantasy e la fan fiction. Più precisamente, il percorso dal fantasy alla fan fiction che il sottotitolo di questo libro implica non mira a ricostruire da un punto di vista generale e totalizzante la presenza di Dante e della Commedia in queste due aree della fiction, né tantomeno a storicizzarla. Si tratterà piuttosto di procedere in senso opposto, osservando da vicino le modalità attraverso cui alcuni testi interagiscono con la Commedia, appropriandosene e usandola come testo di partenza per la creazione di narrazioni fantasy e di fan fiction. Sul fronte del fantasy, analizzerò tre testi: Dante’s Inferno, un film d’animazione collettivo del 2010, relativamente poco noto ma basato su un videogioco di grande successo prodotto, con lo stesso titolo, da Visceral Games; la quadrilogia Eternal War di Livio Gambarini, pubblicata tra il 2015 e il 2020, che re-immagina le vicende di Dante e Guido Cavalcanti in un contesto fantasy; e Valley of the Dead di Kim Paffenroth (2009), un romanzo poco noto che ibrida l’universo della Commedia con l’immaginario dell’apocalisse zombie. Nel concentrare l’attenzione su questi testi spero di poter contribuire a gettare le basi per lo studio di quell’area della ricezione dantesca che, per analogia col concetto di Dante pop proposto da Stefano Lazzarin e Jérôme Dutel (2018), si potrebbe definire Dante fantasy – area che si sta progressivamente espandendo, con un picco di testi usciti all’altezza del settecentenario dantesco del 2021. Penso in particolare a opere come la trilogia L’ora dei dannati di Luca Tarenzi, il librogame Inferno di Alberto Orsini, l’antologia di racconti Circles of Hell curata da Dean M. Drinkel, l’Inferno illustrato da Paolo Barbieri per Bonelli, i giochi di

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ruolo Inferno – Dante’s Guide to Hell e Inferno – Virgilio’s Untold Story, editi da Acheron insieme alla raccolta di illustrazioni Inferno – Divina Commedia, e il fumetto La Divina Congrega, creato da Marco Nucci e Giulio Antonio Gualtieri per Bonelli. L’analisi della Commedia in relazione all’apocalisse zombie permetterà anche di stabilire una sorta di tappa intermedia nel percorso di questo libro dal fantasy alla fan fiction, tappa che chiama in causa un genere strettamente imparentato con il fantasy, ossia l’horror sovrannaturale. Sul fronte della fan fiction, ho scelto invece di analizzare un piccolo corpus di testi prodotti tra il 2013 e il 2022, adottando come criterio di selezione il successo che hanno ottenuto sulla piattaforma online attraverso cui sono stati diffusi. L’esplorazione di questo corpus mira a portare all’attenzione delle studiose della ricezione dantesca – e in particolare delle studiose del Dante pop – le fan fiction dantesche, ossia quei testi narrativi, prodotti e messi in circolazione al di fuori dei canali dell’editoria tradizionale, che hanno sia come autrici che come pubblico una comunità di persone che si riconoscono, in diversi modi, come fan (abbreviazione dell’inglese fanatic) della Commedia. Tra le prime domande che sorgono nell’esplorare questi due campi di ricerca vi è senz’altro la seguente: come si è arrivati a trasporre la Commedia nei mondi, rispettivamente, del fantasy (o, meglio, del fanta-horror) e della fan fiction? Si tratta, in entrambi i casi, di questioni complesse per le quali abbozzerò solo dei brevi tentativi di risposta. Dei tre regni oltremondani del cristianesimo medievale, ad essere “migrato” nell’immaginario fantasy è soprattutto l’inferno. La spiegazione più semplice di questa migrazione consiste nel considerarla uno dei risultati del processo di secolarizzazione che ha coinvolto (e tuttora coinvolge) la cosiddetta civiltà occidentale. In una cultura in cui la concezione dell’inferno come luogo di eterni tormenti fisici tra i diavoli e le fiamme ha cessato di essere un oggetto di fede – e in cui la domanda stessa “che cos’è l’inferno?” è diventata spinosa, se non imbarazzante, anche per la teologia cristiana ufficiale1 – l’immaginario infernale medievale è andato ad occupare un’altra posizione nella mappa semiotica di questa stessa cultura, trasformandosi in oggetto di

Tra i molti studi ad aver osservato questo fenomeno si vedano Bremmer 2003 e Ehrman 2021. 1

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fruizione estetica. In altre parole, la pragmatica culturale dell’inferno, e più specificamente dell’inferno medievale, è profondamente mutata, e tale mutazione ha causato la migrazione dell’immaginario infernale dalla teologia alla fiction. Se, da un lato, la letteratura novecentesca ha ampiamente investigato l’idea secondo cui l’inferno non sarebbe un oltremondo, bensì il mondo «che formiamo stando insieme», per citare la conclusione delle Città invisibili,2 dall’altro il fantasy è oggi sicuramente il ramo della fiction che può sfruttare al massimo le possibilità narrative offerte dall’inferno medievale. Acclimatatosi in questo nuovo ambiente, l’inferno dantesco può così trasformarsi in deposito postmoderno di scenari da incubo e mostri spaventosi. La stessa trasformazione pare non essere avvenuta (perlomeno non in maniera così chiara) per gli altri due regni ultraterreni del cristianesimo medievale, nonostante la mise en fiction dantesca del paradiso possa presentare dei punti in comune con le operazioni cognitivo-immaginative che oggi associamo alla cosiddetta speculative fiction. Secondo Casadei (2020), infatti, l’ultimo cielo descritto nel Paradiso «è quasi una “realtà virtuale” basata sulla teologia del XIV secolo» (16): rappresentando un “mondo” che, prima della Commedia, non possedeva alcuna consistenza visivo-immaginativa,3 Dante mette in atto strategie narrative non troppo dissimili da quelle che oggi ritroviamo, con i dovuti aggiustamenti storici, nella letteratura speculativa. Per quanto riguarda la relazione tra la Commedia e la fan fiction, al momento non saprei come delinearne l’origine. Posso solo limitarmi ad osservare che l’esistenza stessa della fan fiction dantesca testimonia la presenza in rete di un fandom (ossia di una comunità di fan) dedicato a Dante, fenomeno piuttosto raro nel caso di autori pre-ottocenteschi – il fandom più vasto, in questa prospettiva, è con buona probabilità quello shakespeariano. La presenza di un fandom dantesco online, a sua volta, rappresenta un oggetto di studio estremamente affascinante per quel campo di ricerca che potrebbe ricadere sotto l’etichetta di “Dante e le culture di internet”. Non mi «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme» (Calvino [1972] 2016, 160) 3 Inglese ricorda nel suo commento all’Inferno che l’Empireo è «una ‘dimensione’ non spaziale, ma può essere immaginato in poesia come una sfera che circonda il cosmo» (commento Inglese Inf. 2, vv. 82-84). 2

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riferisco con questa espressione all’esplorazione dei numerosissimi database e piattaforme online dedicati allo studio di Dante e della sua opera, cioè di quei prodotti che vengono oggi comunemente associati all’espressione “Dante online”, come recita il nome di una piattaforma dedicata alla dantistica (https://www.danteonline.it/) e il titolo di un saggio di Florinda Nardi (2004). Nel parlare di “Dante e le culture di internet” faccio piuttosto riferimento a quel complesso di fenomeni che testimoniano la circolazione in rete di Dante e delle sue opere al di fuori dei circuiti accademici e scolastici. Si tratta di un campo potenzialmente vastissimo di cui, nell’ultimo decennio,4 le studiose hanno appena iniziato a sfiorare la superficie: Gargano (2013) ha analizzato, ad esempio, la circolazione della Commedia su Facebook, mentre Lazzarin (2018; 2021a) ha esplorato le presenze dantesche prima nella cosiddetta “twitteratura”, ossia nei testi messi in circolazione attraverso Twitter, poi in piattaforme come nonciclopedia.org. Ad ogni modo, ciò che più mi preme sottolineare qui, a partire dalle riflessioni sul fandom dantesco, è una premessa di metodo: nelle analisi che seguono, considererò sia la comunità di utenti che compone il fandom dantesco, sia la comunità di autrici e lettrici di fiction di genere fantasy e horror, come delle comunità argomentative, nel senso che Stanley Fish ([1976] 1980) attribuisce a questa espressione: Why should two or more readers ever agree, and why should regular, that is, habitual, differences in the career of a single reader ever occur? What is the explanation on the one hand of the stability of interpretation (at least among certain groups at certain times) and on the other of the orderly variety of interpretation if it is not the stability and variety of texts? The answer to all of these questions is to be found in a notion that has been implicit in my argument, the notion of interpretive communities. Interpretive communities are made up of those who share interpretive strategies not for reading (in the conventional sense) but for writing texts, for constituting their properties and assigning their intentions. In other words, these

Il saggio di Jeffrey Fisher Postmodern Paradiso: Dante, Cyberpunk, and the Technosophy of Cyberspace, incluso nel volume Internet Culture (1997), si potrebbe forse considerare il precursore dello studio di Dante nelle culture di internet. 4

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strategies exist prior to the act of reading and therefore determine the shape of what is read rather than, as is usually assumed, the other way around. (171)

Dedicherò il resto di questa introduzione a discutere altre definizioni e premesse metodologiche che possano fare da sfondo alle analisi che verranno sviluppate nei capitoli successivi. Offrirò dapprima un semplice modello per mappare la ricezione di Dante e della Commedia all’indomani del settecentenario del 2021. Mi occuperò poi di esporre gli elementi di teoria dell’adattamento sulla base dei quali concettualizzerò i testi del corpus.

Nella risacca del settecentenario: iconizzazione, divulgazione, proliferazione Il settecentenario dantesco del 2021 ha travolto il mercato editoriale e, più in generale, il mondo italiano della cultura, come un’onda. La sua risacca ha lasciato decine e decine di testi che hanno dato nuovo impulso alla ricezione di Dante e della Commedia e che stiamo appena iniziando ad esplorare. Nuova linfa vitale è circolata anche nell’ambito dello studio della ricezione di Dante e della Commedia, cementando fronti di ricerca classici e inaugurandone di nuovi. Ricordo qui, tra moltissime altre, le ricerche su Dante e la Commedia nella cultura popolare e materiale,5 nelle arti visive,6 nel fumetto,7 nella fantascienza8 e in contesti culturali non solo occidentali.9 Passando invece alla circolazione di Dante e della Commedia al di fuori dell’ambiente accademico, credo sia possibile descriverla, a un primo sguardo, come un processo che si è dipanato (e continua a dipanarsi) attraverso almeno tre modalità. La prima, che chiamerei “iconizzazione”, consiste nel celebrare Dante e la sua opera, appunto, iconizzandoli, ossia trasformandoli in un repertorio di testi e immagini ben riconoscibili dal

Si vedano ad esempio Lazzarin 2021b, Antonelli, Milone e Salerno 2021, Antonelli 2022 e Coggeshall 2020 e 2022. 6 Si vedano ad esempio Pasquini 2020 e il monumentale Brunelli et al. 2021. 7 Si vedano ad esempio Lazzarin 2020, Canova, Lombardo e Rigo 2021 e Tirino e Di Paola 2021. 8 Si veda Saiber 2022. 9 Si veda Sangirardi 2020. 5

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maggior numero di persone e rendendo tale repertorio, a sua volta, l’oggetto di un culto laico. Non è ovviamente la prima volta che questi fenomeni si producono intorno a Dante e alla sua opera,10 ma il settecentenario ha offerto la possibilità di osservare (o osservare di nuovo) tali fenomeni, per così dire, dal vivo. Un buon esempio di circolazione iconizzata della figura di Dante è rappresentato dall’onnipresenza del ritratto del poeta negli spazi pubblici durante tutto il 2021, preferibilmente nella versione botticelliana di profilo. Ai ritratti di Dante è anche dedicata la mostra Dante Plus – Uno, nessuno e centomila volti, che si tiene annualmente a Bologna dal 2017 e che ha registrato la sua edizione più grande e di maggiore successo proprio nel 2021. Nell’edizione del settecentenario, Dante Plus ha esposto le opere di 150 artisti ai quali era stato chiesto di re-inventare, per l’appunto, il ritratto di Dante. Pur nell’incredibile varietà di stili, tecniche e colori messa in mostra dalle singole opere, molte delle quali eccellenti, Dante Plus incarna forse il concetto di iconizzazione nel suo senso deteriore. Come la figura sacra da cui prende il nome, dal Cristo Pantocrator bizantino alla Marilyn Monroe di Andy Warhol, un’icona è per definizione semioticamente statica, ferma, immutabile, pensata per veicolare un insieme di costrutti invariati e invariabili. L’iconizzazione di Dante, in altre parole, in quanto strategia mirata a costruire un’immagine perfettamente riconoscibile dal maggior numero di persone, non permette un’interazione vivificante con Dante e/o con la sua opera che si faccia portatrice di significati autenticamente nuovi. Al contrario, l’iconizzazione di Dante, nel separare l’autore dalla sua opera, rischia di trasformarlo in poco più di un profilo da cui sporge un naso adunco o di un uomo dal lucco rosso con una corona d’alloro in testa. Da questo punto di vista, i ritratti messi in mostra da Dante Plus, per quanto interessanti, costituiscono variazioni su un’icona, e in quanto tali non possono agire in maniera davvero innovativa nel campo della ricezione di Dante. Il nome stesso della mostra suggerisce la presenza di un “qualcosa di più” (Plus) la cui natura rimane però vaga e indefinita; pare suggerire un Dante “aumentato”, ma forse aumentato solo in termini quantitativi (più ritratti, più presenza nello spazio pubblico) piuttosto che qualitativi.

Si veda ad esempio, a questo proposito, l’analisi della “mitologizzazione” di Dante dal Settecento ad oggi condotta in Conti 2021. 10

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Analizzata in questi termini, l’iconizzazione si pone così all’estremo opposto rispetto ai fenomeni trasformativi che intendo esplorare nei capitoli che seguono. Un altro interessante esempio di iconizzazione, stavolta nel mondo anglofono, è stato recentemente analizzato da Elizabeth Coggeshall (2022). Si tratta di un caso esemplare di diffusione memetica – nel senso che questa parola ha in Dawkins ([1976] 2016) – del testo dantesco nella cultura popolare: An important phenomenon among memetic attention to Dante’s verses is the misquotation-turned-maxim. “The hottest places in Hell are reserved for those who in time of moral crisis preserve their neutrality,” “Remember tonight … for it is the beginning of always.” Misquotations like this one are, to my mind, some of the best testaments to the massification of Dante and his poem, and of the poem’s memetic presence in American culture. The authorless misquotation, attributed to Dante so as to capitalize on his canonical authority, easily spreads through our networked Internet culture to become a new artifact of our contemporary understanding of the poet and his poem. (Coggeshall 2022, 209-210)

Perché Dante e la Commedia continuino a produrre significati che siano il risultato di un qualche sforzo ermeneutico e critico occorrono dunque strategie di circolazione diverse dall’iconizzazione. Una strategia può consistere nel favorire la circolazione della Commedia tra pubblici nuovi, ossia al di fuori del mondo scolastico e accademico, attraverso la divulgazione. Anche questa è una pratica tutt’altro che nuova,11 ma col settecentenario ha incontrato un nuovo, enorme successo, soprattutto per quanto riguarda la letteratura per l’infanzia, ambito in cui spicca ad esempio La Divina Commedia. Il primo passo nella selva oscura, scritto da Daniele Aristarco e illustrato da Marco Somà. Anche in questo caso, il rischio di divulgare una versione “iconizzata” di Dante e della Commedia è sicuramente presente, ma può venire tamponato dalla grande varietà di strategie attraverso cui la divulgazione può essere messa in atto: si pensi alla complessa rete

Per una breve storia della divulgazione della Commedia si veda il ricco volumetto di Antonelli (2022). 11

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di trasformazioni intermediali alla base di un volume come Dante a tempo di rap, che adatta l’album rap Infernum di Murubutu e Claver Gold. La terza strategia di circolazione, che potremmo chiamare “proliferazione”, consiste infine nell’adattare, trasporre e trasformare la figura di Dante e/o la Commedia in modo da catalizzare la produzione di nuovi significati. Ma cosa significano esattamente i verbi “adattare”, “trasporre” e “trasformare”?

Adattamenti, appropriazioni, trasformazioni, trasposizioni Un’altra domanda che si pone necessariamente all’inizio di una ricerca come quella che si intende sviluppare in questo libro è: in che modo si possono descrivere i rapporti che intercorrono tra i testi del corpus e i testi danteschi?12 Ci addentriamo così in un terreno scivoloso a cavallo tra diverse discipline, dagli studi sull’adattamento agli studi intermediali, dalla teoria della fiction agli studi sulla ricezione. Partiamo da alcune definizioni di base. Il corpus è formato da prodotti afferenti ad almeno tre media: letteratura, cinema d’animazione e videogioco. Per economia, facilità di lettura e coerenza con tassonomie formulate da altre studiose, indicherò tutti i prodotti mediali che compongono il corpus con la parola “testo”, pur sapendo che si tratta di un termine in ultima analisi scorretto, in quanto rischia di tematizzare solo le componenti linguistico-letterarie di questi prodotti a scapito di quelle visive e performative. Il termine più esatto da utilizzare sarebbe appunto quello di “prodotto mediale”, che proviene dalla terminologia formulata da Lars Elleström (2021). Secondo il mediologo svedese, «media products are the entities through which cognitive import is transferred among minds in communication» (38). Più precisamente, [f]or something to acquire the function of a media product, it must be material in some way, understood as a physical matter or phenomenon. Such a physical existence must be present in space and/ or time for it to exist; it needs to have some sort of spatiotemporal extension. It must also be perceptible to at least one of our senses,

Sugli adattamenti della Commedia rimangono indispensabili i classici Braida e Calé 2007 e Gragnolati, Camilletti e Rampart 2011. 12

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which is to say that a media product has to be sensorial. Finally, it must create meaning through signs; it must be semiotic. (46)

In questo senso massimamente generale, il concetto di “prodotto mediale” abbraccia qualsiasi dispositivo per la trasmissione di informazione, da un segnale di stop lungo una strada a una sinfonia. Parlare di “testi” anziché di “prodotti mediali” ha il vantaggio non trascurabile di permettere di adottare senza modifiche la terminologia classica di Hutcheon (2013 [2006]), in cui il testo di arrivo viene definito “adattamento” e il testo di partenza “testo adattato” («adapted text», xv) – espressione che Hutcheon preferisce sia a “testo-sorgente” («source», xv) sia soprattutto a “testo originale” («original», xv). Nelle analisi che seguono impiegherò la nozione di testo-sorgente, ma eviterò sistematicamente di riferirmi alle opere dantesche come testi “originali”, coerentemente con la teoria risolutamente antigerarchica sviluppata da Hutcheon, su cui tornerò tra un istante. Impiegherò inoltre le nozioni di “testo di partenza” e “testo di arrivo”, che suggeriscono l’idea di un viaggio che, portando da un prodotto mediale a un altro, implica un necessario e consapevole processo di allontanamento dal testo-sorgente. Adotterò come sinonimo di testo-sorgente/testo di partenza anche la definizione classica di Genette di “ipotesto”, inteso come testo di base a partire dal quale viene creato un testo “di secondo grado”: «[c]’est donc lui que je rebaptise désormais hypertextualité. J’entends par là toute relation unissant un texte B (que j’appellerai hypertexte) à un texte antérieur A (que j’appellerai, bien sûr, hypotexte) sur lequel il se greffe d’une manière qui n’est pas celle du commentaire» (Genette [1982] 2014, loc. 245 sgg.). Non userò invece la nozione genettiana di “ipertesto”, con cui in Palimpsestes viene indicato quello che Hutcheon chiama “adattamento”, per non creare confusione col significato che la parola ha oggi nella letteratura digitale. Date queste nozioni di base, torniamo alla domanda di partenza: come definire la relazione (o, meglio, le relazioni) tra testo adattato e adattamento? Le analisi condotte in questo libro muovono tutte dalla fondamentale premessa, posta da Linda Hutcheon nelle primissime pagine del suo A Theory of Adaptation (2013 [2006]) secondo cui diverse versioni di un testo «exist laterally, not vertically» (15). Questa presa di posizione definisce i rapporti tra il testo cosiddetto “originale” e i suoi adattamenti in termini rigorosamente antigerar-

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chici, favorendo così l’esplorazione di reti di significato orientate in senso unicamente orizzontale. Ciò detto, ci addentriamo in un groviglio terminologico piuttosto fitto: «Adaptation studies throws up a rich lexicon of terms: version, variation, interpretation, continuation, transformation, imitation, pastiche, parody, forgery, travesty, transposition, revaluation, revision, rewriting, echo» (Sanders [2006] 2016, 22). Sulla scorta di Sanders, prendo atto del fatto che la pluralità di definizioni disponibili rappresenta un prodotto della storia variegata e conflittuale degli studi sull’adattamento: «I make no apologies for this proliferation, for the profusion rather than fixity of terms offered: the idiom in which adaptation and appropriation theory functions is rich and various and any study of the same should surely reflect this fact» (5). La definizione di adattamento fornita da Hutcheon (2013) rimane, in ogni caso, un eccellente punto di partenza: First, seen as a formal entity or product, an adaptation is an announced and extensive transposition of a particular work or works. This “transcoding” can involve a shift of medium (a poem to a film) or genre (an epic to a novel), or a change of frame and therefore context: telling the same story from a different point of view, for instance, can create a manifestly different interpretation. Transposition can also mean a shift in ontology from the real to the fictional, from a historical account or biography to a fictionalized narrative or drama. (7-8)

«Therefore», conclude Hutcheon, «an adaptation is a derivation that is not derivative – a work that is second without being secondary. It is its own palimpsestic thing» (9). Gli adattamenti sono dunque, per dirla con Genette ([1982] 2014), testi “innestati” su altri testi, testi «au second degré» (loc. 249) la cui fruizione dipende da una “lettura relazionale”: L’hypertexte nous invite à une lecture relationnelle dont la saveur, perverse autant qu’on voudra, se condense assez bien dans cet adjectif inédit qu’inventa naguère Philippe Lejeune : lecture palimpsestueuse. Ou, pour glisser d’une perversité à une autre : si l’on aime vraiment les textes, on doit bien souhaiter, de temps en temps, en aimer (au moins) deux à la fois. (loc. 9429 sgg.)

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Al di là delle specificità terminologiche, il punto chiave delle teorie di Genette, Hutcheon e Sanders è che l’esperienza estetica del testo adattato o trasposto o ricodificato si basa sulla relazione dichiarata ed esplicita con un altro testo (l’ipotesto o testo di partenza): «If we know the adapted work, there will be a constant oscillation between it and the new adaptation we are experiencing; if we do not, we will not experience the work as an adaptation» (Hutcheon 2013, 17); «[i] n all these examples it can be argued that the full impact of the film adaptation depends upon an audience’s awareness of an explicit relationship to a source text» (Sanders [2006] 2016, 27). Tornando per un istante alla definizione di “adattamento” formulata da Hutcheon, occorre notare in essa la presenza di un termine che avrà grande rilevanza per le analisi che seguono, quello di “transcodificazione” (transcoding). Per Hutcheon, il termine “adattamento” non indica dunque solo un passaggio tra media, ma anche, più in generale, un passaggio tra codici. Donata Meneghelli (2012) ha ribadito il senso ampio della nozione di “adattamento” definendola come una trasformazione testuale che si gioca tra codici, regimi discorsivi, sistemi di convenzioni o sistemi semiotici diversi (dal narrativo al drammatico o viceversa, dal verbale al visivo o viceversa, dal teatro al cinema o viceversa, dal romanzo al cinema o viceversa, dal videogioco al cinema o viceversa…) (3)

Alla base di questa definizione rimane comunque un nodo problematico, ossia l’inerente vaghezza del concetto di codice: in che senso esattamente, si chiede Meneghelli (3-4), un’opera come Vendredi ou les Limbes du Pacifique può essere considerata un adattamento-transcodificazione del Robinson Crusoe? Potrebbe essere d’aiuto, a questo punto, tirare in ballo un’altra nozione, quella di “appropriazione”, nella definizione formulata da Julie Sanders ([2006] 2016): «appropriation frequently effects a more decisive journey away from the informing text into a wholly new cultural product and domain, often through the actions of interpolation and critique as much as through the movement from one genre to others» (35). In altre parole, appropriations tend to have a more complicated, intricate and sometimes embedded relationship to their intertexts than a straightforward film version of a canonical or well-known text would suggest.

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The relationship can therefore seem more sideways or deflected, further along the spectrum of distance than a straightforward generic transposition. (36)

Secondo Sanders, un testo al limite tra adattamento e appropriazione è West Side Story: una riscrittura contemporanea del Romeo and Juliet priva di riferimenti espliciti al dramma shakespeariano. Da un lato, West Side Story può quindi essere fruito in perfetta autonomia da una persona che non sa assolutamente nulla di Shakespeare; dall’altro l’esperienza estetica di West Side Story è decisamente arricchita se si possiede un’«intertextual awareness» (36) dell’ipotesto shakespeariano. La nozione di appropriazione, così formulata, descrive un fenomeno non dissimile da quello che Genette ([1982] 2014) chiama transformation, che peut être d’un autre ordre, tel que B ne parle nullement de A, mais ne pourrait cependant exister tel quel sans A, dont il résulte au terme d’une opération que je qualifierai, provisoirement encore, de transformation, et qu’en conséquence il évoque plus ou moins manifestement, sans nécessairement parler de lui et le citer. (loc. 252 sgg.)

Mi interessa chiamare in causa la nozione genettiana di trasformazione in quanto i testi che compongono il corpus di questa ricerca ricadono con buona accuratezza tanto sotto la categoria di “appropriazione” appena analizzata quanto sotto quella di “trasposizione”, con cui Genette indica la trasformazione “seria”, ossia priva di intenti parodistici o satirici (loc. 795). Genette prosegue individuando innumerevoli strategie di trasposizione su cui non è il caso di soffermarsi qui, con un’unica eccezione che riguarda la strategia di “transdiegetizzazione”: C’est, entre autres, ce cadre historico-géographique que j’appelle la diégèse, et il va de soi, j’espère, qu’une action peut être transposée d’une diégèse dans une autre, par exemple d’une époque à une autre, ou d’un lieu à un autre, ou les deux à la fois. Une telle transposition diégétique, ou, pour faire plus bref (sinon plus joli), transdiégétisation, ne peut évidemment aller sans, pour le moins, quelques modifications de l’action elle-même. (loc. 7173 sgg.)

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Sulla base di questa definizione, come si vedrà, diversi testi del corpus possono essere classificati proprio come transdiegetizzazioni della Commedia o di singoli episodi del poema. Tra le forme di funzionamento più comuni della transdiegetizzazione vi è infatti quella che implica «un mouvement de translation (temporelle, géographique, sociale) proximisante» (loc. 7361). Un esempio classico di transdiégétisation proximisante è il film Romeo + Juliet di Baz Luhrmann (1996), che adatta la tragedia shakespeariana ambientandola nel contesto di una guerra tra gang newyorkesi. Analizzando i testi del corpus ci si accorgerà tuttavia che il movimento di approssimazione descritto da Genette può essere fatto non solo in termini strettamente cronologici, come appunto nel caso di Romeo + Juliet, ma anche in termini di immaginario. In questo tipo di transdiégétisation proximisante, i dannati che abitano l’Inferno dantesco possono essere reinterpretati come zombie, in quanto figure più vicine all’immaginario contemporaneo attraverso cui concettualizzare schiere di corpi che continuano ad agitarsi e soffrire dopo la morte. Attraverso lo stesso procedimento, i guardiani dell’Inferno si trasformano facilmente in mostri fantasy, in quanto è questo il genere cui afferiscono creature di questo tipo nella cultura contemporanea. È possibile a questo punto iniziare a rispondere alla domanda che apre questa sezione: i testi analizzati nei capitoli che seguono instaurano con la Commedia rapporti di diverso tipo, collocabili lungo uno spettro che va dall’adattamento in senso “classico” a trasformazioni testuali più complesse definibili in termini di appropriazione e trasposizione. Anche termini presi in prestito dal mondo della musica come remix e mash-up si prestano assai bene alla descrizione di fenomeni più “distanti” dall’adattamento classico. Valley of the Dead di Kim Paffenroth può infatti essere definito proprio come un mash-up, in quanto ibrida l’immaginario della Commedia con quello dell’apocalisse zombie.13 Secondo Sanders ([2006] 2016) le metafore musicali, insieme alla metafora genettiana dell’innesto, risultano particolarmente utili nella teoria dell’adattamento in quanto contribuiscono a rafforzare l’approccio antigerarchico promosso da Hutcheon: «[b]y eschewing a linear epistemology altogether, however, phrases such as

Sul rapporto tra adattamento, appropriazione e mash-up si veda Mulvey-Roberts 2014, che indaga anche le origini gotiche di quest’ultima pratica.

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‘grafting’ or models derived from musicology which allow for greater dynamic impetus in the new composition serve us well» (15). Guardare all’adattamento in senso antigerarchico e antilineare permette, ad esempio, di osservare come il testo-sorgente di un adattamento non corrisponda necessariamente al testo cosiddetto “originale”: nella storia della ricezione della Commedia, le illustrazioni di Doré sono spesso state usate come testi-sorgente a partire dai quali creare nuovi adattamenti, come nel caso emblematico della Divine Comedy di Sandow Birk e Marcus Sanders (2004). Più in generale, le teorizzazioni di Hutcheon e Sanders permettono di pensare i rapporti intertestuali e intermediali che animano i processi trasformativi non solo e non tanto in termini di filiazioni, quanto piuttosto in termini di reti: Adaptation and appropriation now provide their own intertexts such that they often perform in cultural dialogue with one another, so perhaps it will increasingly serve us better to think in terms of complex filtration, and in terms of networks, webs and signifying fields, rather than simplistic one-way lines of movement from source to adaptation. (Sanders [2006] 2016, 33)

Una delle tesi più importanti che mi pare emerga dall’analisi di queste definizioni è che nessuna di esse riesce da sola, ossia presa singolarmente, a rendere conto della complessità delle trasformazioni da cui dipende la creazione di un adattamento a partire da un ipotesto. Per tornare a Genette, non esiste solo letteratura al secondo grado, ma anche al terzo, al quarto e così via. Di volta in volta, descriverò dunque ciascun testo del corpus ibridando e combinando le definizioni che ho cercato sinteticamente di mappare in queste pagine. Concludo passando dal regno delle definizioni a quello dell’estetica per ricordare, di nuovo, che una parte fondamentale del piacere che deriva dall’esperienza dei testi del corpus è un piacere quintessenzialmente relazionale: Part of this pleasure, I want to argue, comes simply from repetition with variation, from the comfort of ritual combined with the piquancy of surprise. Recognition and remembrance are part of the pleasure (and risk) of experiencing an adaptation; so too is change. (Hutcheon 2013, 4)

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[T]his inherent sense of mutually informing play, produced in part by the activation of our informed sense of similarity and difference between the texts being invoked, and the connected interplay of expectation and surprise, that for me lies at the heart of the experience of adaptation and appropriation. (Sanders [2006] 2016, 34)

Le analisi che seguono mireranno appunto a comprendere come funzioni, di volta in volta, questo «connected interplay», e quali effetti produca sul piano semiotico ed estetico.

1. Salvare Beatrice, uccidere Lucifero: Dante’s Inferno tra videogioco e cinema d’animazione

Tra il 4 il 9 febbraio del 2010 esce per le console PlayStation 3 e Xbox 360 Dante’s Inferno, videogioco creato dalla casa californiana Visceral Games, a sua volta proprietà dell’azienda Electronic Arts (EA). Si tratta di un’avventura hack-and-slash – sottogenere dei videogiochi di azione molto incentrato, come suggerisce il nome, sul combattimento ravvicinato con armi da taglio – con forti elementi splatter, ossia con frequente e insistita messa in scena di sangue e viscere. Dante’s Inferno propone alle giocatrici «a no-stakes sensational dopamine thrill-ride through Hell» (Powlesland 2022, 156) che ha apparentemente molto poco a che fare con l’Inferno dantesco. Dante viene trasformato da poeta-pellegrino in guerriero di ritorno dalla terza crociata (1189-1192) che viaggia attraverso i nove cerchi dell’inferno, uccidendo qualsiasi mostro gli si pari davanti – tra cui i guardiani dell’inferno dantesco, trasformati per l’occasione in boss di fine livello –, per salvare Beatrice, morta e fatta prigioniera da Lucifero durante l’assenza di Dante. Il videogioco ricevette (e riceve tutt’ora) una più che discreta attenzione, tanto nelle comunità di videogiocatrici quanto in quelle accademiche. Queste ultime hanno in particolare analizzato Dante’s Inferno dalle prospettive più diverse, dai video game studies agli studi religiosi, passando ovviamente per gli studi sulla ricezione della Commedia. Decisamente minore attenzione ha invece ricevuto Dante’s Inferno: An Animated Epic (d’ora in avanti abbreviato in Dante Animated), adattamento del videogioco in forma di film d’animazione uscito nello stesso febbraio 2010,1 risultato di una peculiare collaborazione pro-

Si sono finora interessati a Dante’s Inferno: An Animated Epic Portelli (2020), che propone un’analisi incrociata videogame e film, e Belperio (2020), che ha analizzato la ricezione del film su Youtube.

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duttiva tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud che coinvolse diverse personalità di rilievo – tra i produttori figura ad esempio Mitsuhisa Ishikawa, presidente dell’importante studio d’animazione giapponese Production I.G – nonché un notevole cast di doppiatrici e doppiatori. Tra le caratteristiche più significative del film vi è senz’altro il fatto di essere composto da sette episodi, ciascuno diretto da un regista diverso e dotato di un proprio stile visivo. Le peculiarità artistiche del videogioco vengono così rifratte attraverso sette lenti estetiche, a loro volta legate a tre diverse tradizioni culturali – americana, giapponese e sudcoreana. In questo capitolo, dopo aver descritto la costellazione transmediale di cui videogioco e film fanno parte, analizzerò Dante’s Inferno e Dante Animated con l’aiuto degli studi che sono stati dedicati finora al videogioco, dimostrando come alcune interpretazioni presenti nella letteratura critica possano essere integrate – e talvolta rettificate – attraverso l’analisi dell’Inferno dantesco. Si presterà particolare attenzione alle conseguenze semiotiche ed estetiche della trasformazione di Dante da poeta a crociato. Prima di iniziare però, occorrerà fare un passo indietro per esplorare la nozione di fantasy in quanto genere principale da cui dipendono, in modi diversi, tanto l’estetica di Dante’s Inferno quanto quella di Dante Animated.

1.1 Teorizzare il fantasy o abbracciare l’evaporazione? In un importante volume del 2011, Gary K. Wolfe elabora la nozione di “post-genre fantastic” per descrivere lo stato attuale della fantastic fiction – termine usato per fare riferimento, in maniera inclusiva, ai generi della fantascienza, del fantasy e dell’horror, e dunque profondamente diverso dall’espressione italiana “letteratura fantastica”. Secondo Wolfe (2011), a partire dagli anni sessanta del Novecento, i tre generi della fantastic fiction si sono ibridati sempre più tra loro al punto da diventare indistinguibili, creando un panorama letterario che l’autore descrive, in un passo che vale la pena citare per esteso, in termini esplicitamente danteschi: Genre writers still complain of the “ghetto” in which they see themselves forced to toil, but an only slightly more overbaked metaphor might be hell itself, and even a particular region of hell. In Dante’s Inferno, it’s curious to note how many of the sinners gathered to-

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gether in the eighth circle, the Malebolge or ditches of evil, seem to be guilty of crimes of genre: the fortune-tellers and diviners, who pretend to see the future; the alchemists, who claimed their art could transform base materials into something wonderful; the sowers of discord; the evil counselors who sinned by glibness of tongue; the panderers and seducers; and, in the central pit, the giant Nimrod, the builder of the Tower of Babel. For the myriad of distinctive voices that make up the post-genre fantastic, the voices heard after the explosion, the risk yet arises of that baleful gaze from the moral poet, still suspecting the crime of fantasy for its own sake no matter how elegant the tale. Dante may never have read a word of Tolkien or Lovecraft or Heinlein, but he was pretty certain he knew a shell game when he saw one, and the imagination has never entirely escaped the shadow of his suspicions. (16-17)

L’approccio alle nozioni di fantasy e horror che adotterò nelle analisi che seguono si basa sulla definizione aperta e inclusiva di fantastic fiction promossa da Wolfe, poiché tanto il videogioco Dante’s Inferno e la sua trasposizione cinematografica, quanto il romanzo Valley of the Dead di Paffenroth rientrano perfettamente nella categoria del post-genre fantastic. In questa sezione non passerò dunque in rassegna le definizioni e teorizzazioni del fantasy elaborate a partire dagli anni ’70 da Irwin (1976), Brooke-Rose (1981), Jackson (1981), Hume (1984), Attebery (1992) e molte altre, fino ad arrivare alle formulazioni più recenti di Mendlesohn (2008) e Armitt (2020). Mi limiterò piuttosto ad esplorare due approcci “ad ampio raggio” alle letterature dell’immaginario – altro termine inclusivo, derivato dal francese littératures de l’imaginaire, sotto molti aspetti analogo all’inglese fantastic fiction – molto diversi tra loro, che ritengo possano aiutare a descrivere meglio l’esperienza estetica dei testi del corpus. Nello specifico, partirò da un’analisi della teoria di John R.R. Tolkien per poi passare a quella, molto più recente, di John Clute. 1.1.1 Tolkien e la fairy-story La riflessione di Tolkien intorno alle letterature dell’immaginario inizia prima ancora che termini come “fantasy” o “horror” acquisiscano i significati che possiedono oggi. Per la precisione, questa riflessione inizia nel 1939, quando Tolkien viene invitato a tenere la Andrew Lang Lecture all’Università di St. Andrews, e troverà una forma compiuta,

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poco meno di un decennio dopo, in un saggio intitolato On Fairy-stories (Tolkien [1947] 2008). “Fairy-Story” significa letteralmente “racconto di fate”, ma Tolkien dà a questo termine un significato molto più vasto. La sua teoria della fairy-story è infatti una riflessione più generale sulla teoria e sull’estetica delle letterature dell’immaginario, nonché una delle primissime riflessioni su come il concetto di mondo possa contribuire alla teoria della letteratura. On Fairy-stories è noto soprattutto alle specialiste di Tolkien, che lo hanno spesso utilizzato come chiave per interpretare la transizione da Lo Hobbit alla trilogia del Signore degli Anelli, opere sotto molti aspetti diversissime tra loro. Ma il saggio è noto anche alle studiose della nozione di mondo finzionale, perché in esso viene coniato il concetto di secondary world, che indica un mondo di finzione distinto dal mondo primario – il cosiddetto mondo reale. Insieme al concetto di mondo secondario, Tolkien conia inoltre il concetto di sub-creation per definire l’atto di creazione di un mondo secondario. Dal momento che Tolkien è cristiano, ritiene che la creazione con la “C” maiuscola sia prerogativa soltanto della divinità; l’essere umano, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, è tuttavia in grado di riprodurre, anche se su scala ridotta, l’atto divino della creazione. E proprio sub-creation è diventata negli ultimi anni una parola chiave di grande importanza nella ricerca sul worldbuilding e sulla teoria dei mondi finzionali, in particolar modo negli studi promossi da Mark J. Wolf (2012; 2016; 2018). Per di più, in On Fairy-stories Tolkien affronta e liquida, già negli anni quaranta del Novecento, una serie di costrutti culturali atti a screditare i mondi creati dalle fiction dell’immaginario – primo fra tutti, quello secondo cui le letterature dell’immaginario sarebbero prodotti “per bambini” –, adottando una postura critica che in qualche modo anticipa sia il reader-response criticism, sia, in modo ancora più marcato, il decostruzionismo. Di nuovo, per molti versi quella di Tolkien è una teoria ante litteram, in cui la parola “fantasy” descrive unicamente una facoltà dell’immaginazione umana: But how powerful, how stimulating to the very faculty that produced it, was the invention of the adjective: no spell or incantation in Faerie is more potent. And that is not surprising: such incantations might indeed be said to be only another view of adjectives, a part of speech in a mythical grammar. The mind that thought of light, heavy, grey, yellow, still, swift, also conceived of magic that

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would make heavy things light and able to fly, turn grey lead into yellow gold, and the still rock into a swift water. […] We may put a deadly green upon a man’s face and produce a horror; we may make the rare and terrible blue moon to shine; or we may cause woods to spring with silver leaves and rams to wear fleeces of gold, and put hot fire into the belly of the cold worm. But in such “fantasy,” as it is called, new form is made; Faerie begins; Man becomes a sub-creator. (Tolkien [1947] 2008, par. 50, corsivo mio)

Alla luce di queste osservazioni, colpisce ancora di più lo spirito autenticamente pionieristico che anima la sua definizione di secondary world: Children are capable, of course, of literary belief, when the story-maker’s art is good enough to produce it. That state of mind has been called “willing suspension of disbelief.” But this does not seem to me a good description of what happens. What really happens is that the story-maker proves a successful “sub-creator.” He makes a Secondary World which your mind can enter. Inside it, what he relates is “true”: it accords with the laws of that world. You therefore believe it, while you are, as it were, inside. The moment disbelief arises, the spell is broken; the magic, or rather art, has failed. (par. 50)

Ci troviamo davanti a una formulazione a cui la logica modale e la teoria dei mondi possibili giungeranno solo nei tardi anni settanta, ossia trent’anni dopo la Andrew Lang Lecture di Tolkien. Ciò che viene predicato di un mondo finzionale, secondo Tolkien, è vero rispetto a quel mondo, senza che si stabilisca una relazione col nostro. Ciononostante, fino ai tardi anni ’70, l’interpretazione prevalente del problema della verità in un mondo possibile sarà quella portata avanti dalla logica di Russell e di Frege, secondo i quali ciò che si afferma di un mondo immaginario è per definizione falso o indefinito. È inoltre assai significativo che la discussione del concetto di mondo secondario si collochi nel contesto di una critica radicale del concetto di sospensione dell’incredulità. Secondo Tolkien, la sospensione dell’incredulità presuppone l’esistenza di una sola e unica realtà e di un solo e unico criterio di verità: se vogliamo credere ad un’altra realtà, secondo questo modello, dobbiamo sospendere i nostri criteri di verità. Al contrario, Tolkien adotta un approccio risolutamente pluralistico

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ai paradigmi di realtà: non si tratta di sospendere l’incredulità, bensì di attivare un altro modo del credere. Si tratta, anche in questo caso, di una conclusione a cui la logica modale e la teoria dei mondi possibili arriveranno solamente molti anni dopo. Come si diceva in precedenza, in On Fairy-stories Tolkien muove anche una critica radicale ai costrutti che screditano l’esperienza dei mondi secondari come un’attività “per bambini”. Lo fa colpendo questi costrutti al cuore, ossia invalidando l’associazione tra mondi fantastici e mondo dell’infanzia: [T]he association of children and fairy-stories is an accident of our domestic history. Fairy-stories have in the modern lettered world been relegated to the “nursery,” as shabby or old-fashioned furniture is relegated to the play-room, primarily because the adults do not want it, and do not mind if it is misused. It is not the choice of the children which decides this […]. Children as a class – except in a common lack of experience they are not one – neither like fairy-stories more, nor understand them better than adults do; and no more than they like many other things. (par. 44)

Qui Tolkien propone una manovra argomentativa perfettamente decostruzionista: il rapporto tra infanzia e fairy-stories viene storicizzato al fine di de-essenzializzarlo. L’autore del Signore degli Anelli scrive dunque qui un capitolo fondamentale della storia della teoria della letteratura per l’infanzia – cioè della letteratura in generale – e lo fa de-essenzializzando la differenza tra adulti e bambini per quanto riguarda la loro ricezione di un’intera classe di testi finzionali. È fondamentale che in questo contesto Tolkien non esalti la capacità del bambino di credere nei racconti o di meravigliarsi di fronte al mondo, come farebbe ad esempio il fanciullino pascoliano. Al contrario, Tolkien coglie qui le implicazioni insite nell’infantilizzazione di una certa letteratura con un acume che assoceremmo piuttosto ai pensatori del tardo ventesimo secolo. Tra gli obiettivi che egli si pone in On Fairy-stories ve ne è infatti uno che risulta tutt’oggi estremamente rilevante per la teoria della fiction: proporre una visione coerentemente anti-etaista dell’esperienza estetica. Esattamente su quest’ultima visione si fondano le analisi che seguono.

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1.1.2 John Clute e la definizione di fantastika Il secondo approccio inclusivo alle letterature dell’immaginario che può fornire una cornice teorica entro cui inquadrare i testi del corpus si fonda sulla nozione di fantastika, termine preso in prestito dalle lingue slave da John Clute (2017) per fare riferimento a tutte le forme di fiction che possono essere concettualizzate come «expressive of a larger enterprise than realism» (15): The word fantastika as I began to use it then came from Continental criticism and general usage, and had been applied there very variously indeed to describe the literatures of the fantastic in the Western World. I took the term initially to allow, at the least hortatory level possible, its use as a generalised non-imperialist polythetic umbrella designation for those literatures. Over and above that initial broad usage, I proposed to use the term primarily to describe works written (very roughly) from the last decades of the eighteenth century onward: works that might be deemed therefore to have been written in a consciousness of their generic nature. I now use the term fantastika, in these two primary senses (plus a few others), in everything I write. (16)

Clute articola la propria definizione di fantastika in otto punti, di cui riporto qui alcuni tra i più importanti: 1) Fantastika consists of that wide range of fictional works whose contents are understood to be fantastic. (16) 2) Fantastika is a child of Romanticism in Europe. It soon monstrously outgrew these swaddling clothes. (16) 5) […] the default understanding of a tale of fantastika is literal, not metaphorical; for metaphors in fantastika can mean what they say. Fantastika is a grammar of the literal; it is not a lesson imparted to the world from without. A story told literally is a story which believes what it sees, no matter how “marvelous” the vision may seem. (18) 7) […] the world is the fourth wall of fantastika. […] Any reading

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of any text of fantastika that dissevers text from its worldly context throws out the bathwater and the baby. (18)

A partire dalla sua definizione di fantastika, Clute passa quindi a formulare a grandi linee un programma di ricerca che investighi questo complesso insieme di codici narrativi: If fantastika can be seen as encompassing sacred games of insight and analysis within an eruv, a shift of emphasis is likely to occur, with less attention paid to taxonomic descriptions of particular genres, and more paid to the multiple interactions of text with text, a dance of synchrony and diachrony within the permission of the eruv that makes something of a mock of definitions of particular texts that privilege the Apollonian purity of the done thing. The inherent grammar – the engendering fire – of fantastika is not to be found in the thing done, or in strategic groupings of texts under various partial rubrics, but in the grammars of connection between texts; it lies in the beat that marks a tensing of the limbs of story, in the gap between the repose of the already told and the alarums of something new. (19)

L’idea, proposta da Clute, di indagare la «grammar of interconnections between texts» ci riporta, in un percorso circolare, a Gary Wolfe (2011) e al suo approccio post-genere alla fantastic fiction. Secondo Wolfe, un approccio di questo tipo è l’unico che possa rendere conto della tendenza di quest’area della fiction a trasformarsi incessantemente: the fantastic genres […] seem evolutionary by their very nature: science fiction must accommodate the shifting and often counterintuitive visions of base reality that science itself reflects; horror must accommodate the constantly transforming sources of the anxiety that it seeks to exploit; fantasy must accommodate the shifting dreams of a world no longer governed by the conventionalized desires of pastoral idealism. In the end, science fiction, fantasy, and horror are the genres that at their best, and by the very terms of the imaginative processes involved, transcend or supersede the old notions of genre. They are narrative modes that already have leaked into the atmosphere, that have escaped their own worst debilitations, and that have therefore survived. (53)

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Because of the uncertainty of these genre markers, the fantastic genres contain within themselves the seeds of their own dissolution, a nascent set of postmodern rhetorical modes that, over a period of several decades, would begin to supplant not only the notion of genre itself, but the very foundations of the modernist barricades that had long been thought to insulate literary culture from the vernacular fiction of the pulps and other forms of noncanonical expression. (23)

Concludo questa breve panoramica proponendo di ibridare la nozione di fantastika e l’approccio post-genere di Wolfe con una teoria formulata da Brian Attebery più di due decenni dopo la pubblicazione del suo classico Strategies of Fantasy (1992). Basandosi su un approccio reader-oriented alle letterature dell’immaginario, la proposta di Attebery (2014) offre una soluzione originale al problema di come “collocare” testi ibridi all’interno di rigide categorie di genere: The interesting question about any given story is not whether or not it is fantasy or science fiction or realistic novel, but rather what happens when we read it as one of those things. What happens when we read Frankenstein as an instance of the philosophical Gothic? How does that reading differ from one that looks for the markers of science fiction, or horror? Depending on the generic perspective one favors, certain details of plot and motivation will stand out, while others will recede into the background. The central questions will shift. Different reading contexts will suggest themselves, including groupings of related works. Like individual performers within the same storytelling tradition, individual readers will perform the same texts with very dissimilar results: sometimes more effectively, sometimes less. (32)

Ora che l’inquadramento teorico è completato, è possibile tornare all’analisi di Dante’s Inferno.

1.2 Avantesti e paratesti Si potrebbe iniziare a studiare le relazioni che legano la Commedia dantesca a Dante’s Inferno e Dante Animated a partire dai testi e dai prodotti che hanno preceduto, e poi affiancato, l’uscita del videogioco

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e del film animato. Il videogioco viene pubblicizzato per la prima volta il 7 febbraio 2010 con un trailer trasmesso durante la pubblicità del Super Bowl in cui compare la tagline «Go to Hell» (Servitje 2014, 369). Segue poi un «onslaught of marketing stunts» che include clever press packets that posed a moral quandary to recipients in the form of a $200 check, a humorous trailer for a motion-controlled sacrament simulator, a mischievous Facebook application that let users place their friends in the Nine Circles, and a controversial staged religious protest conducted by paid actors. (Welsh e Sebastian 2014, 171)

Al Comic-Con di San Diego del luglio 2009, circa sei mesi prima dell’uscita del videogioco, l’EA promuove inoltre Dante’s Inferno organizzando una competizione intitolata Sin to Win, aspramente criticata per il suo implicito incoraggiamento alla molestia sessuale.2 I partecipanti alla convention vengono infatti invitati a «[c]ommit acts of lust: take photos with us or any booth babe» («EA Booth Babe Bounty» s.d.), dove con «booth babe» ci si riferisce alle modelle che lavorano per gli espositori della fiera. Il vincitore riceve in regalo «Dinner and a SINful night with TWO hot girls, a limo service, paparazzi and a chest full of booty» («EA Booth Babe Bounty» s.d.). Nonostante il titolo del videogioco proponga esplicitamente un’avventura nell’inferno di Dante, queste performance promozionali si basano su una concezione generica dell’inferno come residenza eterna dei peccatori che poco o nulla ha di specificamente dantesco. Le cose cambiano tuttavia nel sito internet dedicato al videogioco (www. dantesinferno.com), oggi non più attivo, nel quale si cerca invece di costruire, nella maniera più esplicita possibile, un legame “forte” tra Dante’s Inferno e il poema dantesco: the game’s website features a tab entitled “The Poem”, which displays sub-tabs that give a brief timeline of Dante Alighieri’s life, as well as a detailed discussion of Inferno and an overview of the other two books of the Divine Comedy […]. The page also offers commentary, written by Guy P. Raffa, a Dante scholar at the University of

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Cf. Cecente 2009 e le analisi raccolte in «EA Booth Babe Bounty» s.d..

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Texas at Austin, and a selection of Gustave Doré’s pictorial adaptations of the Divine Comedy. (Ayo 2013, 104)

Una strategia analoga guiderà la costruzione di un sito successivo, creato dopo la fase di promozione del videogioco e quindi molto più snello3 – poco più di una “scheda” dedicata a Dante’s Inferno all’interno del macro-sito di EA –, che pur eliminando le sezioni dedicate alla Commedia si apre con la frase “An Epic Adaptation of a Classic” («Dante’s Inferno» s.d.). Welsh e Sebastian (2014) hanno definito il primo sito dedicato al videogioco come «belong[ing] to a misguided effort to borrow on the poem’s cultural cachet to cross-promote it as educational» (171). Se questa affermazione è sicuramente esatta, conta qui rilevare soprattutto la volontà, da parte di chi ha creato e prodotto Dante’s Inferno, di proporre una nuova immagine del videogioco in quanto vero e proprio adattamento della cantica dantesca – un’immagine dunque radicalmente diversa rispetto a quella costruita nella prima fase di promozione del videogioco. Questa nuova prospettiva su Dante’s Inferno trova il suo massimo compimento nel gennaio 2010 (ossia pochi giorni prima dell’uscita del videogioco) con la pubblicazione, da parte dell’editore Del Rey, di un volume intitolato appunto Dante’s Inferno. Il libro ha in copertina il Dante protagonista del videogioco (che, come si vedrà tra poco, è assai diverso dal protagonista della Commedia) e ripubblica la traduzione inglese dell’Inferno dantesco nella classica versione di Longfellow preceduta da un’introduzione di Jonathan Knight, produttore esecutivo del videogioco (Knight 2010). Si tratta di un caso che dimostra come non siano solo gli adattamenti cinematografici a possedere il potere di influenzare la forma materiale dei loro testi di partenza (si pensi ai numerosissimi libri ristampati, in occasione dell’uscita di un adattamento cinematografico, con una nuova copertina che rimanda esplicitamente al film). In casi più rari, anche un videogioco, culturalmente considerato un adattamento meno “nobile” rispetto a quello cinematografico, può esercitare questo tipo di potere su un libro – inteso come il supporto materiale che rende fruibile un testo letterario. A completare questa costellazione di prodotti gravitanti intorno al videogioco vale la pena citare, per la quantità di informazioni che

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https://www.ea.com/en-au/games/dantes-inferno.

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ha reso disponibili ad appassionate e studiose, il Dante’s Inferno Developer Diary, una raccolta di video – originariamente disponibili sul sito di EA e successivamente caricati su Youtube e altre piattaforme da utenti non legati all’azienda – in cui diverse figure legate alla produzione del videogioco spiegano i processi creativi e decisionali che stanno dietro la realizzazione di Dante’s Inferno, dalle scelte estetiche alla creazione di specifiche dinamiche di gioco.

1.3 Dante da poeta a crociato Circa due settimane dopo l’uscita di Dante’s Inferno, il numero del 26 febbraio 2010 della rivista americana Entertainment Weekly presenta una sezione dedicata al videogioco. Di questa sezione fa parte un articolo intitolato An Ivy League Professor Weighs In, che riporta il giudizio indignato di Teodolinda Barolini (2010), autrice del Commento Baroliniano alla Commedia, circa il modo in cui l’Inferno dantesco è stato adattato nel videogioco: Of all the things that are troubling, the sexualization and infantilization of Beatrice are the worst. Beatrice is a human girl who is dead and is now an agent of the divine. She is not to be saved by him, she is saving him. That’s the whole point! Here, she has become the prototypical damsel in distress. She’s this kind of bizarrely corrupted Barbie doll. Also, Dante has nothing to do with the Crusades. They completely invented this setting. It’s just totally bogus. (79)

Si tratta probabilmente della reazione a Dante’s Inferno più nota e più citata dalla critica. Se Barolini ha senz’altro ragione nel criticare la sessualizzazione di Beatrice,4 le sue affermazioni sono anche un perfetto esempio di quel filone della ricezione del videogioco incentrato sulla denuncia, più o meno veemente, delle numerose e gravi “infe-

Si vedano, per contrasto, le osservazioni di Welsh e Sebastian (2014), che colgono perfettamente le motivazioni che hanno condotto le creatrici del videogioco/film a trasformare la figura di Beatrice ma sorvolano sulla questione della sua prepotente sessualizzazione: «although Beatrice’s depiction feels gratuitous, Visceral’s recasting merely reinscribes her within the conventions of mainstream adventure games as the princess who is always in another castle, conventions that derive ultimately from medieval romances» (163). 4

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deltà” commesse dalle creatrici di Dante’s Inferno nei confronti della Cantica dantesca.5 Facendo proprie quelle stesse premesse metodologiche che sono state esplicitate nell’introduzione, altre studiose hanno invece investigato il potenziale produttivo e generativo di queste dissonanze tra “l’originale” e “l’adattamento”, piuttosto che denunciarle nel nome della “fedeltà”. Ogni dissonanza ha infatti il potenziale di attivare una più o meno fitta rete intertestuale e intermediale fatta di rimandi, echi e citazioni, magari creati inconsciamente – la questione dell’intenzione autoriale è del resto irrilevante dal punto di vista di questo studio – ma non per questo meno importanti. Tale rete di rimandi contribuisce infatti a creare una tensione tra un certo personaggio o una certa storia per come già li conosciamo e gli stessi personaggi e storie per come vengono costruiti da un adattamento o da una riscrittura. In questa tensione straniante, in questa dissonanza immaginativa risiede dunque un nucleo fondamentale dell’esperienza estetica di un prodotto mediale. È per di più assolutamente possibile che un adattamento non “fedele” produca sorprendenti e paradossali effetti di “allineamento” tra il prodotto mediale di partenza e quello di arrivo. Si prenda per esempio l’arrivo di Dante all’inferno per come è rappresentato in Dante Animated. Dopo aver aperto e superato la porta dell’inferno con l’aiuto di Virgilio, Dante si tuffa in caduta libera nella voragine che ospita i nove cerchi. Lo vediamo precipitare nel vuoto in un campo

Per altri articoli, pubblicati all’indomani dell’uscita del videogioco, che riportano le opinioni di accademici – anche molto diverse da quelle di Barolini – si vedano Itzkoff 2010, Popper 2010 e Snider 2010. Un altro importante filone, portato avanti soprattutto dalle comunità di videogiocatrici, è invece incentrato sul criticare il videogioco, in maniera più o meno aspra, giudicandolo una banale imitazione dei videogiochi hack-and-slash della serie God of War, prodotta con enorme successo dalla Sony ed ambientata in un universo che adatta e rielabora le mitologie greca e norrena. Si vedano, tra molti altri, Schiesel 2010 e Metzger 2010. Il dibattito circa il maggiore o minore merito di Dante’s Inferno rispetto ai giochi della serie God of War ha appassionato le videogiocatrici per molti anni. Si vedano ad esempio, a questo proposito, le due discussioni lanciate a otto anni di distanza dall’uscita di Dante’s Inferno su reddit dall’utente ZachMurph (2018b; 2018a). Per esplorare ulteriormente il dibattito creato attorno al rapporto tra Dante’s Inferno e i videogiochi hack-and-slash è sufficiente immettere l’espressione “Dante’s Inferno vs. God of War” in un qualsiasi motore di ricerca e analizzare le decine e decine di risultati prodotti. 5

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medio-lungo, la “macchina da presa”6 perpendicolare alla direzione della caduta, sullo sfondo di una parete di roccia rosso scuro e tra cupe esalazioni di fumo. Insieme a lui precipitano molti altri corpi, avvolti in un fuoco rosso vivo, che lasciano al loro passaggio una scia infuocata, come fossero comete (o forse, più precisamente, meteoriti): sono le anime dei dannati che “piovono” nell’inferno. La scena si chiude con l’immagine di Dante che precipita verso un pozzo di assoluta oscurità, stavolta disegnato in diagonale, ad accentuare il senso di profondità della voragine infernale. Inizia qui il secondo dei sette episodi che compongono il film, intitolato The Arrival. Vediamo Dante, svenuto per la caduta, che rapidamente riacquista i sensi, si solleva da terra e si guarda attorno, mentre, su uno sfondo azzurro scuro, anime dannate continuano a “piovere” verso le profondità dell’inferno emettendo strida acute e disperate. Le scene che ho appena descritto sono tutt’altro che “fedeli” alla lettera dantesca. Nell’Inferno dantesco, ad esempio, le anime non raggiungono l’inferno precipitando dall’alto. Tuttavia, in almeno due casi un dannato descrive il proprio arrivo all’inferno usando, in senso metaforico, il verbo “piovere”. Nel Canto 24, Vanni Fucci afferma «io piovvi di Toscana / poco tempo è, in questa gola fiera» (v. 122) e nel Canto 30, il falsario Maestro Adamo dice «quando piovvi in questo greppo» (v. 95).7 La risposta estetica prodotta dalle scene di Dante Animated in cui i dannati “piovono” nell’inferno può allora modellarsi, per alcune lettrici, intorno al sorprendente “allineamento” tra la metafora del piovere usata nel testo dantesco e la sua efficace letteralizzazione in forma animata. Più in generale, la prima scena del segmento The Arrival anima (letteralmente) con sorprendente efficacia – specialmente per quanto riguarda i «sospiri, pianti e alti guai» – l’atmosfera descritta dal Dante-personaggio della Commedia subito dopo aver varcato la porta dell’inferno, nonostante le numerose “infedeltà”:

Uso l’espressione tra virgolette in quanto nel cinema d’animazione il punto di vista e i movimenti di macchina non dipendono ovviamente da un dispositivo materiale che riprende una scena, bensì esclusivamente dalle scelte di visuale di disegnatori e animatori. 7 Si noti che il verbo “piovere” viene mantenuto, in entrambe le occorrenze, nella traduzione inglese di Longfellow: «I rained from Tuscany / A short time since into this cruel gorge»; «when I rained / Into this chasm». 6

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Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle, per ch’io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s’aggira sempre in quell’aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. (Inf. 3, vv. 22-30)

È dunque in queste linee di ricerca che le pagine che seguono intendono inserirsi,8 a partire dalla domanda: quali effetti produce la trasformazione dell’identità di Dante da poeta-pellegrino a crociato? In un articolo intitolato When Did Dante Become a Scythe-Wielding Badass? Denise Ayo (2013) ha giustamente affermato, in riferimento a Dante’s Inferno, che, «hyper-masculine and bent on avenging what he

Le analisi condotte in questo capitolo cercano di stabilire un fitto dialogo con gli studi di Servitje (2014) e Lewis (2021) e poggiano, in maniera più localizzata, sulle riflessioni di Ayo (2013), Welsh e Sebastian (2014) e McNeely (2020). Propongo di seguito una rapida ricognizione della restante letteratura critica su Dante’s Inferno. Secondo Lessard (2014), «the pathbreaking nature of Dante’s Inferno would lie in allowing the notion of figura to survive in the world of digital gaming via its unvoiced demand to answer the Deleuzian question par excellence: What can a video game body do?» (134). Il recente Powlesland 2022 propone una suggestiva convergenza tra lo studio delle strategie testuali della Commedia, la teoria dei videogiochi e le scienze cognitive a partire da un’analisi dei testi appartenenti al «widespread medieval genre of affective devotion» (149), ossia di «textual artefact[s] inviting cognitive participation through visual and visceral imaginative elaboration» (151). Secondo Powlesland, «in the Commedia such invitations to receiver participation are extended further still, via mechanisms of embodied simulation that the fast-growing field of video game criticism can help us newly identify, understand, and potentially theorise afresh for textual literary theory» (151). Anthony (2014) discute Dante’s Inferno nel contesto di una tassonomia dei videogiochi con temi religiosi. Ringot (2020) adotta un approccio intermediale di matrice genettiana. Il videogioco viene analizzato, nel contesto di un corpus più vasto, anche in Rossi 2016, Bombara 2019 e Canova 2019. Sull’uso del testo dantesco negli adattamenti videoludici della Commedia si veda Rossignoli 2020. Per una mappa dei videogiochi a tema dantesco si veda Toniolo 2020. Per le prospettive pedagogiche che un gioco come Dante’s Inferno può aprire si vedano Weisl e Stevens 2014, Essary 2019 e Belperio 2020.

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decides are others’ wrongs, the game’s Dante is consistent with the figure typically at the center of conventional hero narratives» (107). Welsh e Sebastian (2014) hanno definito il protagonista del videogioco «a hypermasculinized crusader with anger management issues and a really big scythe» (162). Nelle illustrazioni di copertina per il videogioco e per il film animato, il Dante protagonista di Dante’s Inferno e di Dante Animated si presenta infatti a petto nudo, con muscoli scolpiti e ben in vista, la croce rossa che identifica i crociati cucita direttamente sul petto e l’addome, una cotta di maglia a coprire la testa cinta da un elmo la cui forma richiama quella della corona d’alloro che compare in molti ritratti di Dante,9 tre pezzi di armatura a coprire la spalla sinistra e le mani, una cintura da cui pende un crocifisso degno di un cacciatore di vampiri (le videogiocatrici scopriranno che può anche essere usato come arma), due strisce di tessuto rosso avvolte attorno agli avambracci (a richiamare il lucco rosso tradizionalmente indossato da Dante nei ritratti e nelle illustrazioni della Commedia) e una gigantesca falce, assolutamente sproporzionata rispetto alle dimensioni del corpo, la cui impugnatura è fatta di ossa – per la precisione, di vertebre.10 In queste stesse illustrazioni, entrambe raffiguranti Dante che brandisce la falce con un paesaggio infernale sullo sfondo, l’impugnatura di questa occupa quasi per intero un terzo dell’illustrazione in senso verticale, mentre la lama, che sovrasta la testa di Dante, si estende per quasi un terzo dell’illustrazione in senso orizzontale. Una tale enfasi visiva si traduce in una chiara costruzione dell’identità di Dante in termini simbolici: il protagonista del videogioco e del film animato esiste per uccidere. Questa costruzione è ulteriormente rafforzata dal fatto che

«In the video game, the laurel wreath has been forged to form a partial helmet that protects little but bears razorsharp laurel leaves. The mutation has significant connotations with respect to character strength, poetic techne, and game mechanics. Again, as in the case of the body armor, the lack signifies strength, insofar as it implies that Dante’s martial prowess makes normal defensive precautions unnecessary» (Servitje 2014, 374). 10 Just as the game transforms Dante’s quill into Death’s scythe […] Dante’s once poetic laurel crown becomes a weapon. An instrument of artistic creation becomes a tool of destruction. […] On a more figurative level, however, the game’s convergence of poetry and weaponization produces a violent transduction among gaming, war, and literature (Servitje 2014, 375). 9

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la falce è tradizionalmente associata alle personificazioni della morte. Dante è insomma, prima di ogni altra cosa, un agente di morte. Il protagonista di Dante’s Inferno (così come di Dante Animated) aderisce dunque a quei canoni di ipermaschilità aggressiva, violenta, militare e conquistatrice che proliferano con particolare successo nel mondo dei videogiochi e che gli studi di genere da decenni denunciano e decostruiscono.11 Nel caso specifico di Dante’s Inferno, questa adesione è talmente enfatizzata da condurre Ayo all’apparentemente paradossale (e tutt’altro che aproblematica) ipotesi per cui «we can understand Dante’s Inferno almost-comical adherence to its medium’s gender stereotypes as an attempt to critique them – not reinforce them» (109). Come si vedrà più avanti, la maschilità di cui si fa portatore questo Dante è tuttavia meno stereotipica e più complessa di quanto appaia dai suoi tratti esteriori. Come si è accennato, le vicende del videogioco e del film vedono Dante di ritorno dalla terza crociata – la “crociata dei re”, che vide le truppe dei regni di Inghilterra e Francia e del Sacro Romano Impero, guidate rispettivamente da Riccardo I, Filippo II e Federico I combattere contro le truppe del Saladino per la conquista della Terra Santa  –, evento che precedette di quasi otto decenni la nascita del Dante storico. L’interpretazione più originale della “maschilità crociata” di questo Dante proviene probabilmente da Oliver Chadwick (2014), il quale lo definisce «a scythe-sporting courtly knight» (150, corsivo mio) e afferma che «[b]y re-imagining Dante as a crusader-knight, and framing his digital performance within the courtly love paradigm, Inferno also becomes an adaptation of the courtly knight-lovers of Arthurian Romance» (148). È tuttavia assai difficile identificare la presenza di una dimensione “cortigiana”, per quanto rarefatta o riadattata, tanto in Dante’s Inferno quanto in Dante Animated, le cui trame paiono svilupparsi lungo coordinate culturali lontane dal modello del romanzo arturiano. Sembrano invece molto adatte ad inquadrare la maschilità dantesca nel videogioco e nel film le riflessioni proposte da Katherine J. Lewis (2021) in uno degli studi più acuti finora pubblicati su Dante’s Inferno. Secondo Lewis, «[g]iven perceptions of crusading as

Sulle rappresentazioni della maschilità nei videogiochi si vedano in particolare Burrill 2008 e Kirkland 2009. 11

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the ultimate expression of medieval martial manliness, turning Dante into a crusader is […] an excellent fit for the stereotypical video game hero-protagonist» (34). La scelta delle crociate come sfondo storico per l’inizio dell’azione rappresenta anche un’ottima strategia per rendere l’ambientazione più familiare al pubblico di giocatori (35). Lewis ricorda infatti che The Third Crusade’s familiarity derives much from its status as a standard element of modern retellings of Robin Hood. In Robin and Marian (1976), Robin Hood: Prince of Thieves (1991), Robin Hood (BBC TV 2006-2009), Robin Hood (2010), and Robin Hood (2018), Robin’s experiences on the Third Crusade form the precursor to the main narrative. (37)

La terza crociata fa inoltre da sfondo storico al primo videogioco della serie di Assassin’s Creed (2007), che riscosse e continua a riscuotere un successo immenso. In un’intervista rilasciata all’indomani dell’uscita di Dante’s Inferno, il già citato Jonathan Knight, produttore esecutivo del videogioco, afferma che l’idea di ambientare l’azione sullo sfondo storico della prima crociata è stata ispirata da Bram Stoker’s Dracula, il film del 1992 diretto da Francis Ford Coppola: [I] felt compelled to introduce this crusade narrative, where Dracula had this medieval past, where he’s fighting in the Crusades. […] And that was not part of Bram Stoker’s novel, and, you know, that’s one example that brings to mind how the Crusades have permeated culture […]. [I]t’s a modern idea that people continue to be interested in. (Nutt 2010 citato in Lewis 2021, 35)

Mentre Knight chiama in causa il Dracula di Coppola e Lewis evoca i film di Robin Hood, troviamo un altro riferimento intertestuale proposto da Lorenzo Servitje in un ottimo articolo del 2014 che si è già avuto occasione di citare: Another potentially interesting knight to connect to Crusader Dante would be Edmund Spenser’s Redcrosse Knight from Book I of the Faerie Queene, who is identified as a crusader (The First Crusade). On one level of the allegory, Redcrosse, much like Crusader Dante,

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goes through trials in an effort to purge himself of his sins. (Servitje 2014, 386)

Ecco dunque dipanarsi la rete intertestuale che è stata descritta sopra, una rete non certo priva di fascino – ci si potrebbe a questo punto domandare, ad esempio, se la grossa croce che Dante porta legata alla cintura non sia stata anch’essa ispirata dalle storie di Dracula, dove la croce serve spesso appunto a uccidere i vampiri. Cercherò tra un istante di arricchire questa trama intertestuale dimostrando come almeno due ulteriori nodi di essa possano provenire proprio dalla Commedia. Prima però è necessario approfondire alcuni aspetti dell’identità di Dante e del suo passato da crociato. Il protagonista di Dante’s Inferno e Dante Animated differisce dal Dante-personaggio della Commedia non solo per gli aspetti che sono stati analizzati fin qui. Un’altra differenza cruciale, che orienta in maniera molto precisa la vicenda materiale e umana del Dante del videogioco/film, risiede nel fatto che questi ha perso la memoria tornando dalle crociate.12 Progredendo attraverso i diversi gironi dell’inferno a suon di colpi di falce, Dante riacquista progressivamente la memoria, un episodio dopo l’altro. Il videogiocatore – e, con dinamiche leggermente diverse, lo spettatore del film animato – scopre così che Dante ha ricevuto un’indulgenza plenaria subito prima di partire per la crociata e, ritenendo l’indulgenza valida, nel corso della sua permanenza in Terra Santa si è macchiato di tutti i peccati che vengono puniti nei gironi infernali che sta attraversando. Tre peccati, in particolare, determinano gli eventi che hanno luogo al suo ritorno dalla crociata. Pur avendo giurato fedeltà a Beatrice prima della partenza, ad Acri Dante riceve favori sessuali da una donna in cambio della libertà del marito di lei, il quale seguirà Dante nel viaggio di ritorno verso casa, precedendolo e uccidendo Beatrice per vendetta. Dante fa inoltre strage di prigionieri musulmani in un eccesso di furore religioso, lasciando poi che la colpa della strage ricada su Francesco, fratello di Beatrice, che aveva giurato di proteggere. In un dialogo con Lucifero

Lewis (2021, 37) nota a questo proposito che Dante manifesta comportamenti che potrebbero essere legati a un Disordine da Stress Post-Traumatico (PTSD), come accade anche in alcune recenti versioni cinematografiche della storia di Robin Hood. 12

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a vicenda ormai inoltrata, Dante apprende infine che l’indulgenza plenaria che ha ricevuto non ha il potere di cancellare i peccati che ha commesso e che, una volta morto, finirà all’inferno. Il viaggio per salvare Beatrice diventa allora anche un viaggio di purificazione durante il quale Dante, tappa dopo tappa, affronta i suoi peccati e li espia. Che questo processo di espiazione prenda concretamente la forma di combattimenti (letteralmente) all’ultimo sangue contro i vari boss infernali – tra cui vi è lo stesso Francesco – ha qualcosa di grottescamente ironico (nonché, soprattutto, di eticamente problematico), come Servitje (2014) non ha mancato di notare: «The narrative condemns war, while the mechanics require and celebrate it. This is an infernal paradox in that it is an endless recursive cycle – a truly ironic, Dantean contrapasso» (383). Torniamo ora alla trama intertestuale che avevo iniziato a descrivere poco sopra. Alla luce di queste ultime osservazioni, sorprende notare come nella letteratura critica su Dante’s Inferno e Dante Animated non si menzioni il fatto che una vicenda legata a un’indulgenza plenaria “inefficace” sullo sfondo di una crociata si trovi proprio nel Canto 27 dell’Inferno dantesco. La vicenda è quella, ben nota alle dantiste, di Guido da Montefeltro (ca. 1220-1298), il quale acconsente ad aiutare Bonifacio VIII – definito con sarcasmo «il gran prete» (Inf. 27, v. 70), che Dante nel Canto 19 aveva già destinato a venire punito tra i simoniaci – nella sua crociata contro i cardinali ribelli Giacomo e Pietro Colonna, che avevano la loro roccaforte a Palestrina. Come per ogni crociata – che si combatta in Terra Santa o altrove13 – Bonifacio offre l’indulgenza plenaria ai “suoi” soldati con una bolla datata 14 settembre 1297.14 Analogamente a quanto accade nel videogioco/film, Guido acconsente ad aiutare il papa con la frode perché “protetto”

Si noti, di passaggio, che lo stesso Canto 27 dell’Inferno contiene un riferimento esplicito alla terza crociata nel contesto di un’aspra critica a Bonifacio VIII, la cui guerra contro i cardinali Colonna, perseguita per scopi politici personali e non per scopi religiosi, non merita secondo Guido da Montefeltro (ossia secondo il Dante-poeta) il nome di “crociata”: «Lo principe d’i novi Farisei [ossia Bonifacio], / avendo guerra presso a Laterano, / e non con Saracin né con Giudei, / ché ciascun suo nimico era cristiano, / e nessun era stato a vincer Acri / né mercatante in terra di Soldano, / né sommo officio né ordini sacri / guardò in sé, né in me quel capestro/ che solea fare i suoi cinti più macri» (Inf. 27, vv. 85-93, corsivo mio). 14 Si veda Nardi [1960] 1992, 32, citato nel commento Inglese a Inf. 27, v. 67. 13

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dall’indulgenza, che rappresenta un elemento fondamentale della costruzione teologica della crociata come guerra condotta nel nome del divino:15 [papa Bonifacio VIII] domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss’ io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care”. Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”. (Inf. 27, vv. 98-111, corsivi miei)

L’anima di Guido, alla morte del corpo, si aspetta di venire condotta in paradiso. Il racconto della vicenda assume invece un «andamento popolaresco, da sacra rappresentazione» (Commento Inglese, Inf. 27, vv. 112-113): sopraggiunge un diavolo, che con logica implacabile e crudele sarcasmo spiega a Guido come l’indulgenza senza pentimento non sia valida. Egli merita dunque l’inferno: [San] Francesco venne poi com’ io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini; ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”. (Inf. 27, vv. 112-120, corsivo mio)

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Si veda Bysted 2014.

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Integrare la vicenda di Guido da Montefeltro all’interno della rete intertestuale e transmediale che si sta cercando di descrivere mostra non solo come la Commedia stessa possa fungere da cassa di risonanza a partire dalla quale cogliere echi e richiami preziosi anche per lo studio di adattamenti o riscritture apparentemente lontane dal testo dantesco, ma anche come l’aggiunta di ulteriori nodi alla rete possa farsi portatrice di nuove prospettive ermeneutiche per l’analisi di questi adattamenti. Si prenda, ad esempio, l’analisi dell’indulgenza “inefficace” in Dante’s Inferno condotta da Andrew McNeely (2020) in un articolo che indaga il videogioco dal punto di vista degli studi religiosi.16 Secondo McNeely, la rappresentazione di un’indulgenza inefficace è il riflesso di uno dei costrutti fondamentali del protestantesimo americano identificati da Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: il rifiuto dell’autorità religiosa a favore di una fortissima individualizzazione dell’esperienza religiosa.17 Nel quadro teorico adottato da McNeely, «Dante’s journey [nel videogioco] repeatedly shows the player the flaw of relying on the Bishop and by extension the Church for absolution of his sins» (92). Dante’s Inferno e altri videogiochi, dunque, «give dramatized and sensationalized accounts of the fundamental precept in Protestant theology that the church, as an institution, cannot be relied upon to “save” humanity, and that this task falls primarily on the individual» (92). L’interpretazione di McNeely è certamente affascinante e, in una prospettiva neo-weberiana, assolutamente convincente. Tuttavia, se si analizza il tema dell’indulgenza inefficace in Dante’s Inferno alla luce delle parole che il diavolo rivolge a Guido da Montefeltro nella Commedia ci si accorge che il problema della relazione tra autorità religiosa della Chiesa e redenzione dell’individuo era già ben presente nel cristianesimo medievale di cui Dante si fa espressione. Nel caso di Guido da Montefeltro, paradossalmente, i termini della relazione appaiono in qualche modo ribaltati: per parafrasare McNeely, la redenzione di

Per un’analisi della componente religiosa in Dante’s Inferno si veda anche Ayo 2013, 112. 17 Weber pone infatti l’accento «on the systematic ethic of Protestantism repudiating the church’s ability to impart salvation or mediate grace at all. Because the church was removed from significance as a source of spiritual authority, the onus fell on the individual to maintain awareness of the expression of faith in his or her everyday life» (McNeely 2020, 92). 16

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Guido è in mano a lui stesso non a causa del fatto che la Chiesa non può mediare la grazia, ma nonostante essa sia perfettamente in grado di farlo, giacché la mediazione della Chiesa non può nulla senza il pentimento dell’individuo. Rimane ora da esplorare l’ultimo nodo della rete intertestuale/intermediale che emerge analizzando Dante’s Inferno e Dante Animated attraverso il filtro della Commedia dantesca, il nodo che sembra essere dotato di maggiore risonanza e rilevanza negli Stati Uniti del 2010 e in generale nell’occidente contemporaneo. Come si è detto, il Dante del videogioco/film compie una strage di prigionieri, sia uomini che donne, accomunati unicamente dalla loro fede musulmana. Il fatto che Dante sia tormentato dallo spettro di questa carneficina compiuta nel nome di una crociata fa entrare il videogioco/film in risonanza con l’Inferno dantesco, da un lato, e con certe retoriche e pratiche razziste attive soprattutto nel contesto degli Stati Uniti degli ultimi vent’anni dall’altro lato. Se si guarda all’Inferno dantesco, il riferimento al mondo musulmano non può non evocare le due figure del mondo islamico presenti in questa Cantica: il Saladino e Maometto. Se Saladino è rappresentato solo e in disparte («e solo in parte vidi il Saladino» Inf. 4, v. 129), nel giro di un unico verso, come l’unico musulmano accolto nel «nobile castello» (Inf. 4, v. 106) del Limbo, dove risiedono i giusti che non credettero nel dio cristiano, Maometto è invece il protagonista, nel Canto 28, di una delle scene più dure e truculente dell’intera Cantica – che sarebbe assolutamente possibile descrivere, in termini contemporanei, come imperniata sulle estetiche del gore e dello splatter 18 – nonché come la scena più “scomoda” della Commedia in termini di memoria culturale. Bandito dalla maggior parte dei manuali scolastici, l’episodio di Maometto non si può non leggere oggi con ribrezzo e, soprattutto, con colpevole disagio:

Si noti, a questo proposito, che l’estetica splatter di Dante’s Inferno trova un perfetto rispettivo letterario proprio nella rappresentazione dei peccatori nel Canto 28. Si veda ad esempio la descrizione di Pier da Medicina: «Un altro, che forata avea la gola / e tronco ’l naso infin sotto le ciglia, / e non avea mai ch’una orecchia sola, / ristato a riguardar per maraviglia/ con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, / ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia» (Inf. 28, vv. 64-69); oppure, poco più avanti, la descrizione del Mosca: «E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, / levando i moncherin per l’aura fosca, / sì che ’l sangue facea la faccia sozza» (Inf. 28, vv. 103-105). 18

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Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: «Or vedi com’ io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto! […]» (Inf. 28, vv. 22-31)

Il fatto che il videogioco metta in scena la morte di Beatrice per mano di un uomo musulmano come atto di vendetta nei confronti del Dante crociato potrebbe dunque venire interpretato come una sorta di contrappasso culturale nei confronti del Dante-poeta che non solo non ha concesso a Maometto quella “grandezza” che ha reso giustamente celebri tanti personaggi dell’Inferno, ma lo ha addirittura rappresentato come uno dei peccatori dell’Inferno maggiormente degni di infamia, e dunque meritevoli di una delle pene più cruente e raccontata con raggelante dettaglio. Se invece si guarda alla strage di musulmani compiuta da Dante da un punto di vista più strettamente “contemporaneo”, si può iniziare col seguire Lorenzo Servitje (2014), il quale ci ricorda, tramite lo studio di Adam Knobler sugli usi e riusi moderni delle crociate (2006, 323) che nel 2001 George W. Bush definì la “War on terror” come, appunto, una crociata. Questa constatazione può essere messa in collegamento con altre riflessioni condotte, rispettivamente, da Lewis e dallo stesso Servitje. La prima afferma che «the crusades are commonly regarded as a metonym for everything that was worst about the Middle Ages, perceived as brutal, backward, and bigoted» (Lewis 2021, 35). Se questa percezione è vera, è dunque vera anche la tesi di Servitje (2014), secondo cui [t]he story [di Dante’s Inferno], its visual rhetoric, and the game mechanics suggest that religious idealism, when directing warfare, is either misguided or just plain false. […] Moreover, the game’s narrative suggests that the crusading mentality will engender further terroristic attacks, thereby producing a viscous, infernal cycle of violence. This is precisely what happens to Dante […]. Reading this

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within a modern context, the implication is that the modern military action in Iraq and Afghanistan is a kind of contemporary crusade that will continue to breed more terrorism. (382)

D’altro canto, ritornando alla questione dei modelli di maschilità incarnati dal Dante guerriero che è stata discussa sopra, non si può non tenere conto di un’altra affermazione di Lewis, che non contraddice quella che si è appena citata, ma piuttosto guarda al medesimo problema da una diversa angolazione, più precisamente attraverso le riflessioni di Andrew B.R. Elliott (2017) sulle appropriazioni del Medioevo nel XXI secolo. Se è vero che le crociate incarnano, per parafrasare Lewis (2021), un’idea di guerra retrograda e fanatica, è però altrettanto vero che Dante [nel videogioco] remains an avatar of unabashedly violent medieval manhood. This is all the more problematic because of the frequency with which the medieval knight, especially the medieval crusader knight, is currently brought into the service of reactionary and extremist ideologies, in particular of white supremacy. (45)

Trasformare Dante in un crociato sarà dunque anche «totally bogus», come affermava Barolini in Entertainment Weekly, ma non è certo un’operazione priva di conseguenze.

2. I maghi dello stil novo: appunti su Eternal War di Livio Gambarini

Probabilmente nessun testo ad oggi ha messo in atto una trasformazione più ricca e complessa della storia di Dante e della Commedia in senso fantasy di quella di cui si può fare esperienza leggendo Eternal War di Livio Gambarini, una quadrilogia di romanzi composta da Gli eserciti dei santi (2015a), Vita Nova (2018), Il sangue sul giglio (2019) e Inferno (2020). Pur allontanandosi, per alcuni aspetti, dal fantasy prototipico à la Tolkien, Eternal War rappresenta uno dei pochi tentativi di creare, a partire dalla Commedia, un vero e proprio mondo secondario1 nel senso più radicalmente tolkeniano del termine, ossia un mondo non solo dotato di una propria coerenza interna forte, ma anche popolato da un ampio insieme di personaggi, luoghi e situazioni narrative connessi tra loro in maniera significativa – come è appunto il mondo di The Lord of the Rings. Nel caso di Eternal War, si può dire che il mondo secondario “abbracci” la Commedia, rielaborando radicalmente la discesa di Dante all’inferno e allo stesso tempo inserendola in un quadro narrativo più vasto e complesso – la discesa nell’oltremondo occupa infatti solo l’ultimo libro della quadrilogia. Trattandosi di un lavoro molto ampio sul quale, se si escludono le recensioni online,2 non esiste bibliografia critica pregressa, mi limiterò in questo capitolo a descrivere le coordinate generali del mondo secondario creato da Gambarini, in una forma più simile a quella di appunti e note sparse che non a quella di un’argomentazione coeren-

Sulla nozione di “mondo secondario”, si veda il capitolo precedente. Si veda, su tutte, quella di Chiara Crosignani per fantasy magazine (2019), dedicata a Vita Nova, il secondo libro della serie. 1 2

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te. Cercherò, in particolare, di mostrare come alcuni aspetti cruciali del mondo poetico dantesco e, più in generale, stilnovistico, vengono trasformati in Eternal War in modo da assumere un carattere squisitamente fantasy. Sul fronte dei generi letterari, è interessante notare come Gambarini, specialista soprattutto di narrativa storica, si riferisca a Eternal War non solo utilizzando la nozione di fantasy, ma anche ascrivendo questa opera al dominio della speculative fiction. Si legge infatti nella postfazione a Vita Nova (il secondo libro della serie): «Eternal War non è un romanzo storico […] e non finge di esserlo: è la rielaborazione di quell’epoca leggendaria che la letteratura fiorentina duecentesca chiama “presente”. È un gioco letterario che fa coincidere la poesia con la cronaca e l’allegoria con la verità, grazie agli strumenti della speculative fiction» (Gambarini 2018, loc. 5582). Se, come si vedrà, il reame concettuale del fantasy alimenta Eternal War in maniera forse non esclusiva, ma sicuramente predominante rispetto a tutti gli altri generi dell’immaginario, la nozione di speculative fiction è piuttosto imparentata ai generi della fantascienza e, più in generale, alle narrazioni che si sviluppano a partire da un esperimento mentale basato su una domanda di tipo what if…? (ossia: cosa succederebbe se…?). Come per tutti i termini che tentano di descrivere porzioni più o meno vaste di quel variegatissimo campo che ricade sotto l’ombrello delle letterature dell’immaginario, anche il dibattito intorno alla definizione di speculative fiction è aperto e acceso.3 Ad ogni modo, ciò che conta notare qui è che la nozione di speculative fiction connota Eternal War, dalla prospettiva dello stesso Gambarini, come un lavoro, appunto, speculativo, ossia fondato su una sorta di esperimento immaginativo, a partire dal quale prende forma un intero mondo narrato. Come lasciano già intendere le affermazioni di Gambarini citate sopra, tale esperimento immaginativo di tipo what if…? potrebbe essere sintetizzato in questo modo: cosa succederebbe se il mondo allegorico-spirituale che alimentava l’immaginario delle donne e degli uomini del Duecento venisse letteralizzato? Cosa succederebbe se,

Si vedano, a questo proposito, le osservazioni che Simona Micali (2019) dedica alla questione nelle primissime pagine del suo lavoro sull’immaginario postumano e la prospettiva storica proposta, qualche anno prima, da Sherryl Vint (2014, 73-90).

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con un rovesciamento di prospettiva, osservassimo le vicende che i poeti dello stil novo narrano nei loro componimenti dal punto di vista delle intelligenze angeliche e delle entità spirituali da cui essi si sentono dominati? Cosa succederebbe se intorno a queste entità si sviluppasse un intero mondo di spiriti che regge i destini degli umani all’insaputa di questi? E cosa succederebbe, infine, se traducessimo questo repertorio culturale medievale nei termini del fantasy contemporaneo? E forse è proprio a causa (o in virtù) della vasta portata di questa operazione speculativa intorno alla Commedia e alle vicende della Firenze del Duecento che Gambarini, a partire da Vita Nova, interviene sistematicamente nei volumi della serie con delle postfazioni piuttosto articolate, in cui spiega e commenta le proprie scelte narrative e stilistiche, risponde alle domande delle lettrici (tra cui la domanda su cui tornerò alla fine di questo capitolo: perché scrivere un fantasy ambientato nella Firenze medievale?) e, più in generale, offre la propria prospettiva sull’opera. Ma in cosa consiste, concretamente, questo esperimento narrativo?

2.1 Un oltremondo senza aldilà Si potrebbe iniziare a rispondere affermando che il mondo secondario di Eternal War si sviluppa lungo tre dimensioni o, più precisamente, che esso si innesta – per usare una metafora genettiana – su tre orizzonti narrativi e immaginativi. Il primo orizzonte è determinato dagli eventi storici che hanno scandito la vita di Firenze e delle figure storiche di Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, dalla battaglia di Montaperti alla condanna di Dante all’esilio. Il secondo è costituito dal mondo poetico stilnovista per come espresso da Cavalcanti e Dante: come si vedrà, il mondo di Eternal War si fonda, in buona parte, sulla letteralizzazione e personificazione di metafore poetiche stilnovistiche. Il terzo orizzonte è, prevedibilmente, quello dell’Inferno dantesco, riadattato qui in una quête eroica contro le forze del male – il procedimento di trasformazione è dunque strutturalmente analogo a quello messo in atto nel videogioco Dante’s Inferno e nel relativo film d’animazione, ma il livello di complessità e ricchezza semiotica è nettamente superiore. A sottolineare il radicamento della vicenda in questi orizzonti, e particolarmente nel secondo di essi, i capitoli dei quattro romanzi presentano spesso in esergo passi da componimenti di Cavalcanti, Dante o altri poeti toscani del Duecento. Questi passi

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hanno spesso la funzione di permettere alla lettrice di identificare il preciso “punto di innesto” a partire dal quale si sviluppa una nozione che sta per essere presentata o un evento che sta per essere raccontato. L’elemento più importante che anima l’esperimento immaginativo da cui scaturisce Eternal War, tuttavia, non è tanto il fare uso di precisi “punti di innesto” che legano il mondo secondario a specifiche coordinate di uno dei tre orizzonti descritti sopra, quanto piuttosto il fatto che questi tre orizzonti vengano sussunti sotto un unico orizzonte più esteso, che li fonde e amalgama trasformandoli nelle coordinate generali di un mondo secondario fantasy. È dunque arrivato il momento di iniziare a indagare con maggior dettaglio la struttura e il funzionamento di queste coordinate, a partire dall’identificazione di uno dei fattori che contribuisce in maniera determinante alla coesione del mondo finzionale. Significativamente, si tratta di un fattore di provenienza non letteraria: l’universo di Eternal War funziona infatti, sotto numerosi aspetti, secondo la logica dei giochi di ruolo strategici (sia in forma di videogioco che di gioco da tavolo) o di giochi di ruolo fantasy come Dungeons and Dragons, fondata sulla quantificazione di proprietà astratte come la forza o il carisma in termini di punti. Spiegherò tra poco in che senso questo principio si applica al mondo di Eternal War. Prima però è necessario fornire alcune informazioni di massima sui personaggi e la trama, due elementi che, come in ogni saga fantasy che si rispetti, tendono ad assumere un non trascurabile grado di complessità.4 L’universo narrativo in cui hanno luogo le vicende di Eternal War è diviso in due mondi, o meglio, in due dimensioni o piani di esistenza: il mondo della materia e il mondo dello spirito, detto anche “le Lande”. I due mondi co-esistono nello stesso piano di realtà, sono intimamente legati ma gerarchicamente ordinati in modo che gli abitanti della materia non siano a conoscenza dell’esistenza del mondo dello spirito. Riducendo la questione ai suoi minimi termini, si può affermare che il mondo della materia è l’espressione concreta, sul piano materiale, di ciò che accade e viene deciso nel mondo dello spirito. Il protagonista delle vicende della quadrilogia è appunto un abitante del mondo dello spirito di nome Kabal, abbreviazione di Kaballicante. Kabal è un ancestrarca, figura che Gambarini

Un riassunto dettagliato delle vicende dei primi tre libri si può leggere nella prefazione a Inferno, l’ultimo libro della serie.

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(2015b) descrisse così nel suo blog alla vigilia della pubblicazione di Gli eserciti dei santi: Un Ancestrarca è un essere nascosto. Un plurisecolare burattinaio di anime, legato a una specifica famiglia umana. Dalle Lande dello Spirito questo “custode” manovra per i propri scopi gli uomini e le donne della sua stirpe, che non si rendono conto né della sua esistenza né tantomeno di esserne manipolati. Gli Ancestrarchi discendono dai Penati della mitologia romana e sono i responsabili degli schemi di comportamento ereditari, dei vizi e delle virtù famigliari, di tutti quei traumi che superano il confine di una generazione e obbligano i figli a ripetere le stesse azioni e gli stessi errori dei genitori.

Più precisamente, Kabal è lo spirito che guida le vicende della famiglia Cavalcanti. Gli eventi della quadrilogia iniziano – con una serie di manipolazioni della cronologia storica su cui mi soffermerò tra un istante – con la battaglia di Montaperti. Nella battaglia Kabal perde diversi membri della sua famiglia (qui il possessivo “sua” indica qualcosa di molto più vicino alla proprietà che all’appartenenza) e, in quanto ancestrarca, ha il ruolo di accompagnarli nella transizione dal mondo terreno all’aldilà – altrimenti le loro anime rimarrebbero intrappolate nel mondo dei vivi. Tra i morti vi è Schiatta, padre di Cavalcante dei Cavalcanti e nonno di Guido Cavalcanti: Kabal lo ha spinto a dare la vita per proteggere il figlio durante la battaglia. È nel dialogo in cui Kabal prepara l’anima di Schiatta alla transizione verso l’aldilà che iniziamo ad apprendere come funziona il rapporto tra l’ancestrarca e i membri della sua famiglia: Kabal rise. “Mica è colpa tua”. Si spazzò la polvere dai drappi e soffocò un conato “Ti ho spinto io a sacrificarti per salvare Cavalcante”. Un lampo di sorpresa passò sul volto di Schiatta. “Davvero? Mi hai spinto tu?” “Già. Sei deluso?” “Deh, abbastanza. […] Ma allora io cosa ho deciso nella mia vita?” “In gioventù sceglievi quasi tutto da solo. Poi, dal momento in cui hai preso il posto di tuo padre, io ti ho guidato nella direzione giusta”, Kabal si sedette su una panca, “lo faccio da quasi duecento anni”. (Gambarini 2015a, loc. 433 sgg.)

Gli ancestrarchi possono dunque influenzare la disposizione e le scelte dei loro umani, di cui possono vedere l’anima, che assume colo-

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ri diversi a seconda dell’umore e delle emozioni che la persona prova – un’idea analoga, fondata sull’associazione tra determinati colori e determinati sentimenti, si trova nel film Inside Out della Pixar, uscito nello stesso anno di Gli eserciti dei santi. Tornando alle coordinate generali della trama, le vicende principali della quadrilogia iniziano a dipanarsi nel momento in cui, dopo la morte di Cavalcante dei Cavalcanti, suo figlio Guido diventa il capofamiglia dei Cavalcanti, ossia la persona più importante sotto il controllo di Kabal. Eternal War diventa così il racconto delle vicende intrecciate di Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, suo amico e protetto, i quali, tramite l’azione di Kabal, scoprono l’esistenza del mondo dello spirito e imparano progressivamente ad agire in questa dimensione tramite la magia (che scaturisce, come si vedrà, dalle loro composizioni poetiche), fino a viaggiare al fondo dell’inferno per sconfiggere le forze del male, incarnate dagli dèi dell’antica Roma che hanno creato l’inferno per accumulare potere spirituale. In questo percorso, Kabal si trasformerà, tanto per Guido che per Dante, da “burattinaio di anime” (per citare la definizione di Gambarini) in alleato e amico. L’idea secondo cui, nel mondo di Eternal War, gli dèi dell’antica Roma hanno creato l’inferno per accumulare potere spirituale ha ovviamente bisogno di spiegazioni, che fornirò mano a mano nel corso di queste pagine. Vorrei però, prima di continuare, riprendere e concludere la discussione relativa alla “collocazione” di Eternal War tra i generi delle letterature dell’immaginario osservando come il mondo messo in scena nella quadrilogia si riveli piuttosto peculiare quando messo in rapporto con la tassonomia delle forme del fantasy elaborata da Farah Mendlesohn (2008). Eternal War è infatti classificabile come appartenente alla categoria doppia e ibrida di Portal-Quest fantasy,5

Le quattro categorie formulate da Mendlesohn (2008) sono: Portal-Quest fantasy, Immersive Fantasy, Intrusion Fantasy e Liminal Fantasy. Nel Portal-Quest fantasy vengono solitamente messi in scena due mondi, uno realistico, l’altro fantastico, separati da una soglia fisica: «[a] portal fantasy is simply a fantastic world entered through a portal. The classic portal fantasy is of course The Lion, the Witch and the Wardrobe (1950)» (17). L’Immersive Fantasy trasporta la lettrice direttamente in un mondo fantastico. Questa modalità del fantasy «presents the fantastic without comment as the norm both for the protagonist and for the reader: we sit on the protagonist’s shoulder and while we have access to his eyes and ears, 5

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ma questa appartenenza è solo parziale. Da un lato, la quadrilogia di Gambarini aderisce perfettamente alle due caratteristiche fondamentali del quest fantasy: Characteristically in quest fantasy the protagonist goes from a mundane life—in which the fantastic, if she is aware of it, is very distant and unknown (or at least unavailable to the protagonist)—into direct contact with the fantastic, through which she transitions, to the point of negotiation with the world via the personal manipulation of the fantastic realm. (18) Where the  stock  technique of intrusion is to keep surprising the reader, portal fantasies lead us gradually to the point where the protagonist knows his or her world enough to change it and to enter into that world’s destiny. (18)

Dall’altro lato, però, l’opera non può essere classificata come un portal fantasy, poiché secondo Mendlesohn uno dei tratti cruciali di questa modalità del fantasy risiede nel fatto che «the fantastic is  on  the  other side  and does not “leak.” Although individuals may cross both ways,  the  magic does not» (18). In Eternal War non c’è un other side perché entrambe le dimensioni, quella della materia e quella dello spirito, coesistono nello stesso piano di realtà e sono indissolubilmente legate pur ubbidendo a regimi ontologici differenti. Osservata da questa prospettiva, la quadrilogia di Gambarini si presenta come un’opera fantasy quintessenzialmente postmoderna, in

we are not provided with an explanatory narrative» (19). L’Intrusion Fantasy mette in scena, come il nome lascia intendere, l’invasione di un mondo realistico da parte di entità non realistiche: «[i]n intrusion fantasy the fantastic is the bringer of chaos. […] The intrusion fantasy is not necessarily unpleasant, but it has as its base the assumption that normality is organized, and that when the fantastic retreats the world, while not necessarily unchanged, returns to predictability—at least until the next element of the fantastic intrudes» (20). Il Liminal Fantasy, infine, è il genere che Mendlesohn considera più raro, in cui l’elemento impossibile o non realistico esiste solo come tentazione o presenza periferica che non si manifesta mai univocamente, come accade nel racconto The Door in the Wall di H.G. Wells (1906): «[t]he anxiety and the continued maintenance and irresolution of the fantastic becomes the locus of the “fantasy”» (21).

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cui il mondo “fantastico” del portal fantasy classico non è un altrove indipendente dal mondo realistico, bensì l’altra faccia di quest’ultimo. Per di più, pur essendo basato sugli oltremondi cristiani, il mondo dello spirito messo in scena in Eternal War non coincide con l’aldilà, o almeno non esattamente: l’empireo, abitato da santi e intelligenze angeliche, è parte del mondo dello spirito, ma nessuno sa se in cima alla gerarchia dell’empireo vi sia effettivamente Dio, la cui presenza è costantemente messa in dubbio nel corso dei quattro romanzi; le anime dei morti, tra cui quella di Schiatta descritta sopra, stazionano solo temporaneamente nel mondo dello spirito, per poi venire transitate dagli ancestrarchi verso un aldilà di cui nessuno sa niente; e l’unico aldilà noto in cui confluiscono i morti (o meglio: i peccatori morti, ossia i dannati) è stato creato di sana pianta da una banda di divinità appartenenti a un paradigma culturale pre-cristiano e verrà smantellato nella battaglia finale tra forze del bene e del male che chiude la quadrilogia. Eternal War è dunque un quest fantasy inserito in un portal fantasy volutamente imperfetto, sghembo e incompleto, che mette in scena un oltremondo senza aldilà e un mondo sovrannaturale solo parzialmente ultraterreno, un mondo in cui i “veri” oltremondi, quelli abitati da Dio e dalla morte, rimangono irriducibilmente inconoscibili. Il mondo dello spirito si presenta dunque non come un oltremondo vero e proprio, ma piuttosto come una dimensione magica abitata dalle entità più diverse, dalle estremamente infime alle infinitamente potenti, in un panorama che ricorda a volte certi film dello Studio Ghibli, e in particolare La città incantata (2001), nel quale la dimensione degli spiriti trabocca di innumerevoli creature bizzarre di ogni forma e colore. Si veda, ad esempio, questa descrizione degli spiriti che affollano un angolo di Roma: Lì attorno, la penombra eterna di Roma era rischiarata da una luce violetta. Coppie di chiavi incrociate svolazzavano come farfalle tra palazzi, cappelle e fortificazioni apostoliche. Lungo la strada era schierato un piccolo reggimento di armature animate, con aspersori chiodati e larghi scudi affrescati d’immagini sacre. Kabal rallentò l’andatura, lasciando passare. (Gambarini 2018, loc. 1036 sgg.)

O questo passo in cui Guido Cavalcanti inizia a comprendere cos’è che vede quando trasporta la propria anima nelle Lande dello spirito: «Guido si accorse di trattenere il respiro. “Ora comprendo. Ecco cosa

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sono quelle fiere e quegli spiriti che accompagnano le anime nelle Lande… abitudini, peccati, appartenenze» (loc. 1600 sgg.). Nel mondo dello spirito le allegorie medievali si trovano così rifunzionalizzate e transcodificate sotto forma di entità sovrannaturali alla maniera del fantasy contemporaneo. Si veda, a questo proposito, la scena riportata di seguito, in cui Cavalcanti corrompe un cardinale con dell’oro in cambio di favori politici: Il cardinale rimase lì affacciato, in silenzio, la mano stretta sul legno scolpito dell’anta. Guido scrutò nelle Lande [ossia nel mondo dello spirito]. Le lonze non erano mai troppo lontane dai lussuriosi… e infatti, eccone due, anzi tre: se ne stavano stravaccate sul letto, a leccarsi a vicenda la corta pelliccia e le zampe. Ai piedi della scrivania sonnecchiava un gran leone, mentre un porco tormentava col grugno lo spiritello del tappeto persiano sotto i suoi piedi, che strideva di fastidio agitando le nappe. (loc. 3421 sgg.)

La lonza e il leone che bloccano il cammino di Dante verso la salvezza all’inizio della Commedia cessano così di essere entità uniche immobilizzate nella loro spaventosa fissità allegorica: nel mondo dello spirito messo in scena da Eternal War, vi sono infinite lupe, infiniti leoni e infinite altre fiere. Nonostante questa incredibile moltiplicazione delle entità che popolano il mondo spirituale, la narrazione manterrà comunque un legame piuttosto forte con l’episodio dantesco delle tre fiere, raccontato alla fine di Il sangue sul giglio, il terzo romanzo della serie, in forma opportunamente transcodificata. Dante si è smarrito in una foresta alle porte di Roma e Kabal ha deciso di donargli, con un enorme dispendio di energia spirituale, la capacità – che già aveva donato a Guido – di vedere il mondo dello spirito e di agire su di esso. Le prime entità che Dante vede appena ricevuta questa facoltà, stordito e confuso, sono proprio due delle tre fiere: Alzò piano il capo verso il sentiero in salita. Sobbalzò: due passi davanti a lui, una lonza sottile e maculata lo fissava col muso felino. Da dove era sbucata una belva simile? Da quanto era lì? Non sembrava aggressiva, ma gli sbarrava la strada. Dante arretrò piano, con le braccia protese nel caso che gli saltasse addosso. Alzò gli occhi al colmo dell’erta e impietrì: un leone dalla bionda criniera e una lupa smagrita lo fissavano leccandosi i baffi. (Gambarini 2019, 303)

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Nel mondo di Eternal War, non sono solo le allegorie cristiane a venire riconfigurate in prospettiva fantasy. Anche i poteri miracolosi dei santi vengono reinterpretati, in pieno stile fantasy, come poteri magici. Si veda questo dialogo tra Kabal e l’ancestrarca di un’altra famiglia: “Pietro mi ha raccontato che dopo la resurrezione, Cristo donò la magia ai suoi Apostoli affinché diffondessero la Sua parola nel mondo”. “In effetti, gli Atti degli Apostoli sono pieni di miracoli inspiegabili…” “Bravo, hai già capito. Per farla breve, dopo la Resurrezione di Cristo l’Apostolo Pietro è diventato un praticante d’arcano potentissimo, quello che alla sua epoca chiamavano un “Re Magio”. E bada bene, non parliamo di scagliare il malocchio o stipulare patti con qualche demone cencioso, come fanno gli stregoni di oggi. Qui si parla di magia vera, quella sacra, che spalancava i mari e resuscitava i morti dalle tombe, capisci?” (Gambarini 2015a, loc 2282)

Per concludere questa carrellata di entità sovrannaturali, si veda infine la descrizione della figura spirituale del sovrano della chiesa, tra gli spiriti più potenti del mondo di Eternal War, di cui il papa è solo l’“operatore” umano nel mondo della materia: Era un gigantesco fiore con la base cinta da una corona d’oro, da cui si innalzavano centinaia di petali simili a cappelli vescovili di velluto candido. Dalla punta di ogni petalo si irraggiava un filo lucido, che saliva a scomparire oltre l’oculo della cupola. Dagli interstizi tra i petali stillava una densa melma nera, che colava ad ammucchiarsi sul pavimento. Spiriti alacri con mani di vanga la spingevano in cumuli mollicci agli angoli del salone, dove ecclesiasti incappucciati erano intenti a divorarla, bruciarla e tramutarla in inchiostro santo; quella in eccesso spariva semplicemente in larghe fenditure sul pavimento. (Gambarini 2018, loc. 1134 sgg.)

Significativamente, la melma prodotta da questa mostruosa entità sovrannaturale è definita Corruzione (con la “C” maiuscola), che, nelle parole di Kabal, «[s]i genera quando le azioni degli umani contraddicono i dettami imposti dalle cariche che ricoprono» (loc. 1168). Anche in questo caso, il ricorso all’immagine della melma nera come indice di corruzione (sia essa fisica, morale o spirituale) può ricordare

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il modo in cui questa stessa corruzione viene rappresentata nei film dello Studio Ghibli. Penso soprattutto all’episodio del “dio putrido” (così chiamato nel doppiaggio italiano) nella Città incantata, in cui un’entità spirituale costituita da una massa vischiosa che produce quantità infinite di fango si rivela essere il dio di un fiume, la cui vera forma è quella di un leggiadro drago bianco, trasformato in un ammasso di fango a causa dell’inquinamento del fiume stesso.

2.2 Storia, finzione, fantasy Può valere la pena a questo punto soffermarsi rapidamente sulla cronologia degli eventi raccontati nella quadrilogia, e, più precisamente su come viene manipolata. È lo stesso Gambarini a spiegare le alterazioni cronologiche che ha operato e ad illustrarne le motivazioni. Si prenda, ad esempio, il passo seguente, tratto dalla postfazione a Vita Nova: Ho ambientato EW1 [Gli eserciti dei santi] tra due degli innumerevoli momenti bellici che hanno opposto guelfi e ghibellini in Toscana: la battaglia di Montaperti (1260) e quella di Campaldino (1289). Ovviamente, la guerra reale è stata molto più lunga e complessa, e al suo interno avrebbe meritato menzione almeno l’altro grande scontro campale tra le fazioni: la battaglia di Benevento (1266). Storicamente, risale a quell’anno non solo il ribaltamento degli equilibri politici a Firenze in favore del partito guelfo, ma anche il fidanzamento di Guido e Bice, secondo il Villani, a opera dei loro padri Farinata e Cavalcante. È stato il cambiamento più vistoso che ho apportato alla cronologia reale nel primo EW [Eternal War], e la ragione è molto semplice: in quell’anno Guido aveva dieci anni, e Dante solo pochi mesi, perciò se avessi adottato il medesimo scrupolo filologico che adopero nei miei romanzi storici, avrei dovuto ritardare troppo l’entrata in scena dei due massimi poeti del Duecento. (Gambarini 2018, loc. 5564 sgg.)

In Vita Nova, invece, Gambarini fa coincidere la morte di Beatrice con l’elezione a papa di Pier del Morrone col nome di Celestino V: «Dante annota la morte di Beatrice l’8 giugno 1290, quattro anni prima dell’evento storico con cui la faccio coincidere, ovvero l’elezione papale dell’eremita Pier del Morrone (5 luglio 1294). Anche la matu-

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razione dei rapporti tra gli Stilnovisti è stata rimaneggiata di conseguenza» (loc. 5572 sgg.). Ciò che colpisce in questi passi è soprattutto lo scrupolo storico-filologico con cui Gambarini ha lavorato sulla cronologia degli eventi allo scopo preciso di sovvertirla, per ottenere effetti estetici e risultati narrativi più efficaci. Questo sovvertimento viene difeso con esplicito riferimento a uno degli ipotesti alla base di Eternal War, ossia la Vita Nova: Se la libertà di redistribuire cronologicamente i fatti dovesse farti storcere il naso, ricorda che l’Alighieri fa esattamente la stessa cosa nella (vera) Vita Nova, il prosimetro autobiografico in cui egli descrive questi anni. Prendi ad esempio Donne ch’avete intelletto d’amore, che Dante dice di aver steso prima della morte di Beatrice (una versione dei fatti a cui mi attengo nel c. IX): la dantistica contemporanea concorda sul contrario. Incastrare gli eventi reali nel telaio della fiction è quindi un artificio dantesco che io ho adottato volentieri, per parlare di lui e dei suoi tempi. (loc. 5575)

Da questa prospettiva, manipolare la cronologia interna di una narrazione che ha tra i suoi testi-sorgente una narrazione che manipola la sua propria cronologia interna diventa, paradossalmente, un atto di fedeltà, o perlomeno di omaggio, al testo-sorgente stesso. Più in generale, questi passi dimostrano che l’intersezione tra i diversi orizzonti immaginativi descritta sopra non si configura per Gambarini semplicemente come un gioco trasformativo da prendere alla leggera, ma piuttosto come un “gioco serio” alla base del quale stanno lo studio e la ricerca, in modo che le trasgressioni storico-cronologiche possano essere costruite a tavolino e sistematicamente motivate, se necessario. La cosa più importante da notare qui, tuttavia, non è che Gambarini ha preso seriamente la ricerca storica che sta dietro alla costruzione del mondo di Eternal War, ma che ci tenga ad informare le lettrici del fatto che ha preso sul serio questa ricerca. Sarebbe infatti assolutamente plausibile immaginare un autore fantasy che non senta minimamente il bisogno di spiegare una sfasatura cronologica negli eventi storici alla base del proprio romanzo, in quanto percepisce il bisogno di far coincidere fatti finzionali e fatti storici nel contesto di un romanzo fantasy – ossia di un romanzo che, per definizione, ha a che fare con personaggi ed eventi impossibili – come qualcosa di non necessario, se non addirittura

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di assurdo. Al contrario, l’autore di Eternal War sente il bisogno di spiegare le proprie scelte alle lettrici, e lo fa con piglio risolutamente accademico, facendo riferimento sia a fonti storiche («il Villani») sia alla letteratura critica su Dante («la dantistica contemporanea concorda sul contrario»). È interessante, da questo punto di vista, che Gambarini avverta il bisogno di spiegare, seppur brevemente, cos’è la Vita Nova («il prosimetro autobiografico in cui egli descrive questi anni»), ma che si riferisca alla Cronica di Giovanni Villani, opera sicuramente meno conosciuta della Vita Nova, semplicemente come a «il Villani», come farebbe uno storico del medioevo o un filologo medievale. Eternal War si presenta così come la messa in scena di un mondo finzionale radicato tanto nell’immaginario fantasy contemporaneo quanto nella ricerca storica e letteraria sui propri ipotesti. Attraverso la postfazione a Vita Nova emerge dunque l’immagine di un autore che si impegna a legittimare la propria trasformazione di materiali e personaggi “alti” e “seri” in senso fantasy (genere percepito spesso come popolare o “basso”, lontano dalla “serietà” del canone) mettendo in evidenza lo studio “serio” delle fonti e della letteratura critica che sta alla base di questa stessa trasformazione.

2.3 Il fantasy dello stil novo Nel corso di questa analisi si è fatto più volte riferimento alla nozione di “potere spirituale”. È ora il momento di illustrare a cosa esattamente questa nozione rimanda nel mondo della quadrilogia di Gambarini. Tocchiamo qui infatti l’intersezione cruciale tra le dimensioni immaginative di cui si compone Eternal War e la logica di funzionamento dei giochi di ruolo cui si accennava sopra. Se il fattore che determina la ricchezza nel mondo della materia è il denaro, il mondo dello spirito si regge su una merce molto più preziosa, che rappresenta uno degli elementi fondamentali intorno a cui ruotano le vicende dei personaggi: la Virtù. Kabal definisce così la Virtù in un dialogo nel primo libro della serie: “Deh, non è semplice da spiegare. La Virtù è un distillato di celebrità, può avere fonti molto diverse. Prodezze belliche, opere artistiche, discorsi memorabili; qualunque cosa nella Materia desti ammirazione o ispirazione negli esseri umani, nello Spirito genera Fama. Oppure, la Virtù si può ricavare anche dalla Diceria. Anche la morte di un

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umano è una grande occasione di celebrità: dopo la morte la gente ricorda il defunto, prega per la sua anima e piange per la propria perdita. Questa forma di Virtù si chiama Lutto e di solito è proporzionata al numero di gocce ricevute dall’umano durante la sua gravidanza”. (Gambarini 2015a, loc. 1948 sgg.)

Questo passo non sfigurerebbe in un manuale di gioco di Dungeons and Dragons, in quanto adotta uno stile non troppo diverso da quello usato in questi manuali per descrivere le proprietà dei personaggi. La Virtù è quantificata in gocce, può provenire da fonti diverse e rappresenta, in ultima analisi, una merce di scambio che può essere spesa dall’ancestrarca per gli scopi più diversi. Mi importa chiamare in causa la Virtù e il suo ruolo chiave nel mondo di Eternal War non tanto per analizzare la sua presenza e il suo funzionamento nel corso della serie – cosa impossibile nel contesto di un’analisi breve e generale come quella che si sta conducendo qui – quanto piuttosto per evidenziare la complessità dell’intreccio di codici su cui si fonda questo mondo secondario. Tali osservazioni permettono inoltre di mettere in luce, en passant, l’influenza che i giochi di ruolo fantasy come Dungeons and Dragons –  nati originariamente come trasformazioni e transcodificazioni della letteratura fantasy à la Tolkien – possono esercitare sul fantasy contemporaneo. Con un interessante effetto boomerang, i codici dei giochi di ruolo, sviluppati a partire dalla narrativa fantasy, hanno finito con l’influenzare i codici della narrativa fantasy stessa. Una delle funzioni principali che la Virtù riveste nel mondo di Eternal War è quella di produrre un erede “virtuoso” per la famiglia dell’ancestrarca. Per ottenere un “buon” erede occorre infatti che l’ancestrarca riversi della Virtù nel grembo della moglie del pater familias durante una gravidanza: maggiore è la Virtù spesa nel produrre un erede, migliore sarà la “qualità” dell’erede stesso. Si noti, a ulteriore dimostrazione della complessità diacronica su cui si fonda il mondo di Eternal War, che gli eventi della quadrilogia sono ambientati in un’epoca povera di Virtù, e in quanto tale opposta all’epoca “dei Progenitori”, in cui invece vigeva un regime di incredibile abbondanza di virtù. Si veda questo dialogo tra un ancestrarca di nome Chiaranima e Kabal:

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[parla Chiaranima:] “Si parla dei tempi dei Progenitori: secoli fa circolava così tanta Virtù che nelle grandi famiglie ciascuna gravidanza riceveva cento, centocinquanta gocce. Era l’epoca delle ballate antiche: il mondo era pieno di uomini impavidi e donne talentuose, di cavalieri formidabili e streghe dai poteri sbalorditivi. Pensa che a quell’epoca si usava la Virtù anche per rafforzare l’amore dei nostri umani!” Kabal scoppiò a ridere: “Il famoso Vero amore!” (Gambarini 2015a, loc. 1703sgg.)

L’invenzione della Virtù come elemento che anima (letteralmente) il mondo di Eternal War viene usata dunque non solo per dare forma agli eventi della quadrilogia, ma anche per dare consistenza al mondo che circonda questi eventi, mondo che, in quanto tale, è dotato di una propria storia. I cavalieri del ciclo arturiano e il concetto stesso di vero amore possono venire così transcodificati come epifenomeni di certi usi della Virtù nel mondo passato. L’idea dell’erede “virtuoso” rappresenta una premessa estremamente importante per l’intera narrazione, giacché nel primo libro della serie apprendiamo che Guido Cavalcanti è destinato a diventare un uomo dalle qualità eccezionali, in quanto è il frutto di uno smisurato investimento di Virtù: Di solito gli Ancestrarchi chiamavano “virtuosi” quei rari umani in cui investivano quaranta o cinquanta gocce. Sopra quella soglia, il rischio diventava eccessivo […]. Niente di tutto questo aveva dissuaso Kabal: voleva scommettere, voleva superare il limite. Aveva risparmiato per tre generazioni. Alla fine, nella primavera del 1255, aveva riversato una cascata di Virtù nel ventre gravido di Maria Cavalcanti. […] Aveva contato le gocce: erano duecentoquindici. Kabal sapeva già di aver fatto una pazzia, ma se ne rese conto solo quando Guido venne al mondo. Due minuscole anime, bianche come farina: dapprima pensò a un parto gemellare, ma quando si accorse che nella Materia c’era un corpicino solo, sprofondò nello sconforto. Un umano con due anime? Cos’era, una malattia spirituale? Che diavolo significava? Aveva chiesto in giro, ma nessuno della sua fazione gli aveva saputo rispondere. (Gambarini 2015a, loc. 1088 sgg.)

Circa alla metà dello stesso libro, scopriamo che la nascita di un due-anime, evento di una rarità estrema, si è prodotto a Firenze

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anche in un altro caso, nella famiglia Alighieri, controllata da un ancestrarca di nome Alagaira. Il secondo due-anime, di pochi anni più giovane di Guido, è appunto Dante. I due si incontrano per la prima volta nella seconda metà di Gli eserciti dei santi per il tramite di Beatrice Portinari, cara amica di Dante e grande ammiratrice delle poesie di Guido: Beatrice gli [a Cavalcanti] tirò il braccio finché raggiunsero un adolescente solitario, vestito di nero. Aveva un grosso naso a punta e il più grande pomo d’Adamo che Guido avesse mai visto; appena li vide avvicinarsi, incurvò la schiena e incassò il collo magro nelle spalle. “Ciao, Beatrice”. La voce del ragazzo era rapida e nasale. “Chi è il tuo accompagnatore?” “Caro amico”, disse lei, la voce fremente di orgoglio. “Questo è il nobile Guido Cavalcanti. È stato uno dei testimoni della pace del cardinale, ed è anche un grande guerriero e un poeta dal talento incredibile”. Le narici del ragazzo si dilatarono, i muscoli ai lati delle mascelle si mossero sotto la pelle. Beatrice proseguì con le presentazioni: “E questo, Guido, è l’amico dotto di cui ti accennavo. Sa un sacco di cose sulla poesia antica e nuova”. L’adolescente alzò il naso appuntito e tese la mano verso di lui. “Molto onorato”. La sua stretta era rigida. “Il mio nome è Dante Alighieri”. (Gambarini 2015a, loc. 2120 sgg.)

Inizia qui il progressivo avvicinarsi dei due poeti, che cementano la loro amicizia durante la battaglia di Campaldino, evento che chiude Gli eserciti dei santi: [È Dante a parlare, rivolgendosi a Guido:] “[…] ho capito che sei tu il maestro che stavo cercando: le tue poesie hanno qualcosa di diverso dalle altre, sono intelligenti e melodiose allo stesso tempo, si vede che scaturiscono da un cuore nobile. Ho cercato qualcosa di simile nelle poesie di ogni epoca, e non l’ho mai trovato. Quando questa guerra sarà finita e Firenze sarà di nuovo in pace, farò di tutto per aiutarti a sviluppare e diffondere il tuo Stil Novo”. Guido era senza parole. Quel Dante! Persino in mezzo a un campo di battaglia riusciva a pensare alla poesia. Era esausto e la gamba pulsava per il dolore, ma riuscì lo stesso a sorridere: “Ne sarò felice, amico mio”. (Gambarini 2015a, loc. 2120 sgg.)

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La “nascita” dello stil novo trova così una dimensione umana, legata al rapporto di crescente amicizia tra Dante e Guido. Cosa ancora più importante, nel corso di Vita Nova, il secondo romanzo della serie, il mondo di Eternal War si arricchisce progressivamente di entità, concetti e fenomeni che altro non sono se non la letteralizzazione di entità, concetti e fenomeni espressi appunto nelle poesie stilnoviste di Dante e Cavalcanti. Questo arricchimento è reso possibile dal fatto che, all’inizio di Vita Nova, Kabal dona al suo patriarca Guido la capacità di vedere ciò che accade nel mondo dello spirito e di agire su di esso. Grazie a questa capacità, Guido è anche in grado di osservare il suo corpo spirituale, ossia il suo corpo per come appare nelle Lande. Osservandosi per la prima volta dalla prospettiva del mondo dello spirito, Guido nota che nel suo cuore è scavata una sorta di nicchia. Nel dialogo che si riporta di seguito, Guido chiede spiegazioni al suo ancestrarca circa questo fenomeno: “E questa nicchia, invece, cos’è?” “È Vero Amore; una ferita più grave di qualunque acciacco corporeo. Il tuo cuore dimora nell’anima di tua moglie; a meno di non ammazzare Amore, non ci si può far molto”. Guido spalancò la bocca in un sorriso meravigliato; deh, l’aveva presa per una metafora? (Gambarini 2018, loc. 275 sgg.)

Assistiamo qui a un ironico gioco metaletterario. Nella finzione del romanzo, Guido è un autore di poesie, proprio come il Cavalcanti storico; nei suoi componimenti, Guido ha creato l’immagine metaforica del cuore ferito da Amore, e adesso si meraviglia nello scoprire che questa non è una metafora: l’amore per la sua Bice ha letteralmente provocato una ferita nel suo cuore spirituale – di cui il cuore fisico non è che la manifestazione nel mondo della materia. In questo passaggio viene dunque rappresentato en abîme il processo di letteralizzazione delle immagini poetiche dello stil novo messo in atto dal romanzo stesso. L’idea che il vero innamoramento provochi una ferita nel “cuore spirituale” è ripetuta più volte nel corso dei romanzi. Anche Lapo Gianni, ad esempio, ne soffre: [è Cavalcanti a parlare:] “Alighieri, questo giovane mi pare assai vispo. Ma che mi dici riguardo al suo animo? […]” Lapo Gianni si fece piccino e guardò Durante, che fissò il giovane per il tempo di un respiro. “Fra tutti i cristiani che ho incontrato, potrei contare su una

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mano quelli che possiedono la particolare qualità del cuore necessaria allo Stil Novo. E per me ser Lapo è uno di essi”. Particolare qualità del cuore? Guido si decise a sbirciare attraverso le Lande. Eh già, anche l’anima del giovane Lapo Gianni aveva un buco nel torace! Quello era il marchio di Vero Amore, e l’Alighieri aveva intuito l’affinità che li legava. Poesia e profezia, a quanto pareva, germogliavano nello stesso prato. (loc. 2732)

Il legame che unisce il poeta alla propria amata viene letteralizzato non solo attraverso la ferita d’amore: nel mondo dello spirito, le persone sono materialmente legate tra loro da fili appena visibili. Guido, ad esempio, è legato a Bice: attorno alla nicchia cardiaca, l’anima era infiammata. E ora che la guardava meglio… dal buco usciva uno spago. Diamine. Era proprio un cordino d’oro, in tensione, che partiva dal suo petto e puntava dritto davanti a sé. A cinque passi di distanza scoloriva, e svaniva oltre l’estensione della sua veggenza. Chissà a cos’era ancorato? Si ripromise di verificarlo. (loc. 1093 sgg.)

Nel corso delle vicende narrate in Vita Nova, Guido attraversa un momento di profonda crisi interiore. Deciso a conquistare la totale indipendenza dalle entità che influenzano il suo animo e le sue azioni nel mondo dello spirito, egli si libera prima dalla sudditanza nei confronti di Kabal – recupererà questo legame, in forma rinnovata, più avanti nella storia – per poi prepararsi a liberarsi dalla servitù d’Amore. Non stupirà apprendere, a questo punto, che Amore è uno degli spiriti più potenti del mondo di Eternal War e che liberarsi dalla servitù nei suoi confronti implica una vera e propria battaglia, che Guido vince a carissimo prezzo. La battaglia è raccontata nel capitolo VIII di Vita Nova che, significativamente, porta in esergo il sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core: Voi che per li occhi mi passaste ’l core e destaste la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore: […] Questa vertù d’Amore, che m’ha disfatto da’ vostr’ occhi gentil presta si mosse:

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un dardo mi gittò dentro dal fianco. Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse, veggendo morto ’l cor nel lato manco. (citato in Gambarini 2018, loc. 3614 sgg., corsivi miei)

La battaglia tra Guido e Amore rappresenta, sotto diversi aspetti, una letteralizzazione delle metafore dispiegate in questo sonetto; alla fine della battaglia, Guido riuscirà effettivamente a liberarsi dalla servitù nei confronti di Amore, ma la separazione del suo legame con Bice provocherà la morte del suo “cuore spirituale”, realizzando così nel mondo dello spirito ciò che nell’ultimo verso del sonetto si realizza in forma metaforica. Anche la ricca popolazione di spiriti e spiritelli legati alla visione e alla “trasmissione” dell’amore vengono sistematicamente letteralizzati in Eternal War. Si prenda, ad esempio, il passo della Vita Nova di Dante posto in esergo al capitolo IV del romanzo Vita Nova: E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso e dicea loro: “andate a onorare la donna vostra” ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de li occhi miei. (Vita Nova, cap. XI)

Nelle primissime pagine dello stesso romanzo, Guido scopre il funzionamento della visione umana, e il ruolo che gli spiriti della vista giocano in essa, subito dopo essere diventato capace di osservare il mondo: Prese un respiro e schiuse le palpebre: i lievi esseri si precipitarono in massa verso la sua pupilla, penetrandogli nell’occhio. Guido soffocò un gemito: il loro passaggio non gli dava dolore né fastidio, a parte il normale abbaglio del sole. Appena la prima ondata fu entrata, altri presero il loro posto e gli varcarono le pupille in un flusso regolare. Guido si guardò attorno con gli occhi sbarrati: tenda, panca o rastrelliera, ovunque posasse lo sguardo, uno sciame di spiritelli schizzava in volo e si tuffava nei suoi occhi. Che mirabile fenomeno; chissà se avevano una funzione? […] Il suo cuore saltò un battito. Ma certo! Erano quegli spiritelli a trasportare le immagini, viaggiando su raggi luminosi! (Gambarini 2018, loc. 611 sgg.)

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Ma l’operazione di transcodificazione più interessante e originale messa in atto in Eternal War consiste nel dotare la poesia di Guido, prima, e di Dante poi, di proprietà autenticamente magiche: più complesso il componimento, più potente l’incantesimo. Cavalcanti si accorge di possedere questa facoltà per puro caso, nel tentativo di scacciare uno spirito in forma di coniglio (allegoria della viltà) dal cardinale protagonista della scena già descritta sopra: Guido fece un passo indietro; il coniglio avanzò con cautela, gli occhietti strabici. Iniziò a rosicchiare il calcagno del cardinale. “Ahi, vattene, dannato…”, ripeté Guido. “Adesso mi hai seccato”. La sua gola risuonò di un fremito, che gli mandò brividi a rotolare fino all’inguine. Un filo lucido e sottile come ragnatela gli uscì dalle labbra. Solcò l’aria in un battito di ciglia, raggiunse il coniglio. Il triangolo del muso si ritrasse di colpo e sprofondò nella pelliccia del collo; la bestia mulinò zampe e orecchie in un vortice disordinato e scappò di nuovo a rintanarsi dietro il letto. Guido sbatté le palpebre. La rima. Il comando aveva funzionato perché le frasi erano in rima! Entrambe composte da sette sillabe, tra l’altro; come una coppia baciata in uno schema settenario… Una folgorazione gli rizzò i peli delle braccia. Nelle Lande la sua poesia era… magia? (loc. 3471 sgg.)

Sarà proprio la poesia di Dante a decidere le sorti della battaglia finale tra le forze del male – incarnate dalla Bestia dell’Apocalisse di Giovanni – e le forze del bene, in uno scontro che per quantità di personaggi, complessità dell’azione e svolgimento drammatico non ha nulla da invidiare alle migliori scene di battaglia dei film di supereroi di Hollywood. L’incipit della Divina Commedia diviene qui, in una scena carica di valore simbolico, la formula di un incantesimo attraverso cui l’intera umanità trionfa sull’Apocalisse: Come faceva, un uomo imperfetto, a parlare del Male assoluto? Come poteva sconfiggerlo, la magia poetica? No, erano le domande sbagliate. Doveva partire dalla propria verità. Dal personale e il particolare avrebbe poi astratto l’assoluto. […] Dante chiuse gli occhi, ascoltò lo sfioramento dei tessuti d’anima sulla sua pelle. Il fremito gli sorse nel petto: lo spinse in fuori. “Nel mezzo del cammin di nostra vita, | mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita!” | […] Puntò l’indice sulla Bestia, che

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esitò con la frusta levata. Una luce accecante deflagrò dall’incipit sopra la sua testa, proiettando ombre frastagliate dietro tutti i lastroni di ghiaccio. La potenza dei suoi stessi versi gli sconquassò il petto e gli diede le vertigini: quell’incipit s’era appena inciso nella materia stessa dei secoli. (Gambarini 2020, 277-278)

Concludo questi appunti su Eternal War tornando alla domanda, menzionata sopra, che Gambarini si è sentito rivolgere più spesso a proposito di quest’opera: perché scrivere un fantasy ambientato nella Firenze medievale? La risposta data dall’autore nella postfazione a Vita Nova può essere interessante da analizzare in termini di teoria dell’adattamento: Perché ho scritto EW? Ebbene, la risposta completa richiederebbe troppo spazio, ma uno dei miei scopi principali è di compiere un’opera di public history e di divulgazione. […] Penso che molta più gente si appassionerebbe alla storia e alla letteratura fin dalla prima gioventù, se disponesse di strumenti adeguati. Eternal War vuole essere uno di questi strumenti: un gioco gustoso per chi cammina già con piede fermo su quel terreno culturale, e un richiamo vestito di magia per chi non ne abbia mai scoperta la meraviglia nascosta. (Gambarini 2018, loc. 5615 sgg.)

«[P]ublic history», «divulgazione», «strumenti», «gioco»: le espressioni mobilitate da Gambarini costruiscono chiaramente i suoi romanzi come testi al servizio della Commedia, degli stilnovisti e del periodo storico in cui vissero. Delle quattro espressioni, solo «gioco» rimanda a una relazione non direttamente strumentale tra Eternal War e i suoi testi-sorgente. Come nel caso della legittimazione tramite lo studio delle fonti e della critica dantesca affrontato sopra, anche qui l’autore sembra scotomizzare le qualità estetiche della propria opera a favore non solo e non tanto dell’elogio delle qualità dei suoi testi-sorgente, quanto piuttosto a favore della tematizzazione della qualità “seria” e “nobile” del suo approccio ai testi-sorgente stessi. In altre parole, l’autore sembra, più o meno consciamente, deviare l’attenzione dall’estetica di Eternal War per orientarla piuttosto verso la sua pragmatica sociale, come se il peso del canone letterario rimanesse sempre, in qualche modo, avvertibile, anche nel contesto di una trasformazione audace, complessa ed efficace di alcuni tra i

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testi chiave del canone stesso. Ci troviamo dunque in una situazione in qualche modo paradossale, in cui la validità di un testo trasformativo che propone una radicale transcodificazione di una serie di testi-sorgente viene costruita a partire dai canoni gerarchici della teoria dell’adattamento pre-Hutcheon, basata in primo luogo sull’“omaggio” e sull’idea di trasposizione come opera “al servizio” del cosiddetto originale.

3. Dante tra gli zombie: su Valley of the Dead di Kim Paffenroth

3.1 Il lupo e lo zombie La sezione del Commento Baroliniano dedicata al trentatreesimo Canto dell’Inferno si intitola The Wolf and the Zombie (Barolini 2018). Il lupo cui il titolo fa riferimento è il Conte Ugolino, incarnazione della cupidigia e della sete di potere, il quale racconta a Dante di aver avuto un sogno premonitore circa il destino suo e dei suoi figli («il mal sonno / che del futuro mi squarciò il velame» Inf. 33, vv. 26-27) in cui assumeva la forma di un lupo.1 La categoria di zombie è invece usata da Barolini per descrivere la condizione «teologicamente eterodossa» («[T]heologically unorthodox», (Barolini 2018) di molti dannati puniti nella Tolomea, la zona dell’inferno in cui vengono puniti i traditori degli ospiti. Questi infatti paiono spesso abitare ancora tra i vivi, ma si tratta di un inganno. I loro corpi esistono sì ancora nel mondo terreno, ma sono animati da demoni, mentre le loro anime sono già finite all’inferno. Secondo Barolini (2018), «[t]he sinners of Tolomea are medieval versions of the modern “zombie”: an undead being created through the animation of a corpse» (par. 28). Dante viene a conoscenza dell’esistenza di questi “zombie cristiani” dialogando con l’anima di frate Alberigo: «Oh», diss’ io lui, «or se’ tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea

«Ugolino sees himself in dream as a wolf being hunted with its cubs: he is “il lupo” with its “lupicini” (Inf. 33.29). The wolf holds a particular place in Dante’s imagination: by characterizing the Count as a wolf, Dante signals that Ugolino is a figure of rapacious greed, in whom hunger for power was paramount» (Barolini 2018, par. 21). 1

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nel mondo sù, nulla scïenza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea. […] sappie che, tosto che l’anima trade come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto. (Inf. 33, vv. 121-126, 129-132)

Fin dai tempi di Jacopo Alighieri, le commentatrici hanno notato come i cadaveri animati descritti da frate Alberigo rappresentino una lampante quanto consapevolissima violazione del sistema teologico sul quale si regge l’inferno dantesco, in cui una simile separazione tra anima e corpo non può venire ammessa.2 Perché allora il Dante-poeta avrebbe volutamente aperto una falla nella struttura filosofica su cui si regge la sua stessa opera? Secondo Inglese, si tratta di uno di quei casi in cui «il gusto dell’invenzione smaglia la razionalità della struttura» (Commento Inglese, Inf. 33, v. 126), e, a parere dello studioso, Dante avrebbe tratto ispirazione per questa invenzione dal Vangelo di Giovanni.3 Diversa e, nella prospettiva di questo libro, più affascinante è l’ipotesi di Barolini, secondo la quale «[i]n elaborating the concept of a zombie, a body on earth that seems alive but is not really alive because the soul is already in Hell, Dante is playing with dualistic elements of popular culture» (2018, par. 30, corsivo mio). Emergerebbe dunque, nel racconto di frate Alberigo, quel “Dante popolare” identificato da Pertile (2021), un Dante per il quale vale la pena sacrificare occasionalmente la tenuta strutturale del poema per poter accedere a certe risorse estetiche che solo la cultura popolare può offrire. Se l’interpretazione di Barolini è corretta e i non-morti della Tolomea provengono dall’immaginario della cultura popolare, è naturale

Secondo Barolini, questi zombie contraddicono «Dante’s continual insistence on the unity of body and soul, a unity that holds even when the individual tried to sunder that unity, as in the case of the suicides» (2018, par. 30). Secondo Inglese, «[c]he un peccato, per quanto gravissimo, faccia precipitare immediatamente l’anima all’inferno, è insostenibile sul piano teologico […], come Dante sa bene» (Commento Inglese, Inf. 33, v. 126). 3 «[D]urante l’ultima cena, Gesù porge un boccone di pane a Giuda, “tunc introivit in illum Satanas”» (Commento Inglese, Inf. 33, v. 126). 2

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che la stessa studiosa mobiliti nel descriverli, con i dovuti aggiustamenti, un’altra categoria che viene dalla cultura popolare, a costo di far rabbrividire le dantiste più ortodosse: lo zombie. E se addirittura la dantistica più autorevole può permettersi di chiamare in causa gli zombie in un commento all’Inferno, era solo questione di tempo prima che l’associazione tra Dante e i morti viventi per eccellenza della (post-)modernità infiltrasse il mondo della fiction. Le dense e complesse implicazioni di questa associazione sono state esplorate, ad oggi, da due romanzieri statunitensi: Kim Paffenroth, autore di Valley of the Dead: The Truth Behind Dante’s Inferno (2009), e Rachel Aukes, autrice di 100 Days in Deadland (2013), romanzo la cui tagline recita «A journey through Dante’s Inferno with a shambling twist» e primo volume della Deadland Saga, che comprende anche Deadland’s Harvest (2014) e Deadland Rising (2015).4 La analisi che seguono saranno dedicate al romanzo di Paffenroth.

3.2 Origini di una contaminazione Significativamente, Kim Paffenroth è sia un apprezzato autore di zombie fiction che un docente di studi religiosi. Esperto di filologia dei Vangeli (vedi Paffenroth 1997), di Giuda, figura a cui dedica la monografia Judas: Images of the Lost Disciple (Paffenroth 2002) e di Agostino, sul quale cura numerosi volumi a partire dal 2003 con A Reader’s Companion to Augustine’s Confessions (Paffenroth e Kennedy 2003). Paffenroth inizia ad interessarsi al rapporto tra teologia cristiana e cultura contemporanea (soprattutto popolare) nei primi anni 2000. Nel 2005 pubblica la monografia The Heart Set Free: Sin and Redemption in the Gospels, Augustine, Dante, and Flannery O’Connor (Paffenroth 2005); seguono nel 2006 The Truth Is Out There: Christian Faith and the Classics of Tv Science Fiction, scritto con Thomas Bertonneau (Bertonneau e Paffenroth 2006) e Gospel of the Living Dead: George Romero’s Visions of Hell on Earth (Paffenroth 2006), che gli vale il Bram Stoker Award – il premio annuale

L’unica altra opera a me nota che associ l’universo dantesco agli zombie è Zombies: The Divine Comedy, fumetto scritto da Olivier Peru, disegnato da Sophian Cholet e colorato da Simon Chanpelovier, apparso nel 2011 sulla rivista Heavy Metal (Peru, Cholet, e Chanpelovier 2011).

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della Horror Writers Association – per la saggistica. Negli stessi anni, Paffenroth inizia ad affiancare all’attività accademica quella di autore di zombie fiction. Tra 2007 e 2009 escono quindi, tra gli altri, Dying to Live: A Novel of Life Among the Undead (Paffenroth 2007b), primo romanzo di una serie che conta oggi tre volumi,5 e il già menzionato Valley of the Dead: The Truth Behind Dante’s Inferno. Pubblicato nel 2009 in edizione limitata per Cargo Cult Press, passato poi a Permuted Press nel 2010 e pubblicato in traduzione italiana da Nero Press nel 2012 col titolo Exilium. L’Inferno di Dante, il romanzo Valley of the Dead ha per protagonista un Dante che ha abbandonato la scrittura dopo la stesura della Vita Nova per dedicarsi esclusivamente all’attività politica a Firenze. Una volta esiliato, vagabonda per l’Europa fino a raggiungere il regno di Ungheria e, più precisamente, una valle non lontana da Buda nella quale sta dilagando un’epidemia zombie nello stile classico di George Romero. Nel tentativo di scampare all’apocalisse zombie, Dante si unisce a Bogdana – una donna del popolo che ha perso il marito e il figlio a causa dell’epidemia ed è incita del suo secondo figlio – e a Radovan, un soldato disertore dell’esercito ungherese. Ai tre si aggiunge presto il monaco Adam, che li guida verso l’unica uscita dalla valle, nascosta tra le montagne e sconosciuta al resto della popolazione locale. È possibile ricostruire il percorso creativo che ha condotto Paffenroth a scrivere Valley of the Dead a partire da alcune delle interviste che ha rilasciato per promuovere il romanzo. In un’intervista con Gabrielle Faust (2016), Paffenroth descrive così l’inizio del percorso che lo avrebbe condotto a realizzare la propria versione dell’Inferno: It started with my nonfiction analysis of [George A.] Romero, when I saw how close his vision of damnation was to Dante’s – endless, mindless wandering, never mind any flames or tortures of hell. So I thought, why not reverse it: suppose Romero is so similar to Dante, because Dante had firsthand experience of zombies?

Leggendo Gospel of the Living Dead, la monografia che Paffenroth dedica all’analisi dei primi cinque film del ciclo zombie di Romero, da

A Dying to Live: A Novel of Life Among the Undead seguiranno Dying to Live: Life Sentence nel 2008 e Dying to Live: Last Rites nel 2011. 5

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Night of the Living Dead (1968) a Land of the Dead (2005),6 si rimane infatti colpiti dai numerosi paralleli che l’autore stabilisce tra gli zombie e di dannati danteschi e, più in generale, tra i film di Romero e la Commedia.7 Si prendano ad esempio queste osservazioni su Dawn of the Dead, il secondo film del ciclo zombie di Romero: Exactly like Dante’s Inferno, the film is ghastly, funny, shocking, but also humane and humanizing. Both works unmask human beings for the selfish, greedy, self-destructive creatures that they are, but thereby, these works seek to shock us out of our sins, especially out of our violence and materialism. (Paffenroth 2006, 70)

Se accostare i film di Romero alla Commedia, a detta dello stesso Paffenroth, non è insolito – lui stesso cita come esempio una recensione a Land of the Dead apparsa sul New York Times (Dargis 2005) – Gospel of the Living Dead cerca di sviluppare questi accostamenti con una qualche sistematicità, particolarmente in una sezione del volume intitolata Zombies and theology. La riflessione di Paffenroth muove dalla seguente premessa: Zombie movies deal not just with a deadly attack of monsters, but with a situation in which all humans are quickly reduced to a hellish existence, either as zombies, who are the walking damned, robbed of intellect and emotion, or as surviving humans, barricaded and trapped in some place from which there is no escape. Either way, people are doomed to a shadowy, trapped, borderline existence that resembles hell. It is probably no surprise, then, that much of the imagery of zombie movies is borrowed, consciously or unconsciously, from Dante’s Inferno. (Paffenroth 2006, 22)

Si tratta di affermazioni che soffrono probabilmente di un eccessivo grado di generalità, in quanto potenzialmente applicabili, oltre che ai film di zombie, a moltissimi altri prodotti della cultura dal Novecento

Al ciclo si aggiungeranno poi altri due film: Diary of the Dead, del 2007, e Survival of the Dead, del 2009. 7 Per l’analisi del contributo che le riflessioni di Paffenroth su Romero possono apportare a una teoria generale degli zombie si veda Garrett 2017. 6

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a oggi. Esse offrono tuttavia una prospettiva potenzialmente interessante su come il concetto di dannazione può funzionare nel contesto dell’apocalisse zombie. Questa pare infatti costruire un inferno che potremmo definire “biplanare”, ossia a dannazione doppia. Nell’inferno dantesco (e, più in generale, nell’inferno cristiano tradizionale) a soffrire per la dannazione sono i morti; nelle riscritture e rielaborazioni novecentesche dell’inferno, a soffrire sono invece i vivi, in quanto l’inferno non corrisponde a un mondo ultraterreno, bensì alla realtà di cui l’umanità fa esperienza ogni giorno (si ricordi il passo delle Città invisibili citato nell’introduzione); nell’apocalisse zombie, a venire dannati, in modi diversi, sono invece sia i vivi che i morti. Gli zombi, continua Paffenroth, rappresenterebbero il perfetto equivalente dei dannati danteschi: «zombies […] eerily resemble the description of the damned that Dante gives as he begins his descent into hell: they are “the suffering race of souls who lost the good of intellect”. This is exactly how zombies act in all the movies, humans devoid of intellect and reduced just to appetite» (22). Potrebbe non essere superfluo notare che, se è certamente vero che gli zombie di Night of the Living Dead hanno perso quello che Dante avrebbe chiamato “l’intelletto”, lo stesso non vale per i dannati dell’Inferno. Paffenroth fraintende infatti il passo del terzo Canto che cita in traduzione, tratto dalla celebre terzina in cui Virgilio si rivolge a Dante subito prima di attraversare la porta dell’inferno: […] Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto che tu vedrai le genti dolorose c’hanno perduto il ben de l’intelletto. (Inf. 3, vv. 16-18)

I dannati (le «genti dolorose») non hanno perso l’intelletto, bensì il fine (il «ben») dell’intelletto, che corrisponde a Dio.8 Più in generale, le interpretazioni di Romero alla luce di Dante proposte da Paffenroth sono chiaramente influenzate da una visione molto novecentesca tanChiavacci Leonardi parafrasa «ben de l’intelletto» con «la verità, cioè Dio, bene supremo dell’intelletto umano», rimandando a un passo del Convivio: «sì come dice lo filosofo [Aristotele] nel sesto de l’Etica, quando dice che ’l vero è lo bene de lo intelletto» (Conv. II, XIII 6, citato in Commento Leonardi, Inf. 3, v.16). Più essenziale ma identica la lettura di Inglese: «Il bene, il fine, dell’intelletto è il vero; il sommo vero e sommo bene è Dio» (Commento Inglese, Inf. 3, v. 16).

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to dell’inferno cristiano quanto dell’Inferno dantesco. Di quest’ultimo, in particolare, Paffenroth offre talvolta una visione “postmoderna” che tiene forse troppo poco in considerazione la natura profondamente e necessariamente medievale della Commedia. Si prenda ad esempio questo passo: zombie movies have picked up on what is perhaps Dante’s greatest and most surprising notion, that hell is not so much a place of external […] punishments inflicted on the damned from some force outside of themselves, […]. Rather, both Dante’s hell and the hell of a zombie-infested earth are places where the hell is primarily internal, of our own making. (Paffenroth 2006, 24)

Se è sicuramente possibile interpretare l’inferno (con la i minuscola) come una condizione che l’uomo crea per se stesso senza alcun intervento sovrannaturale, l’Inferno dantesco genera i suoi significati teologici e poetici proprio in quanto «place of external punishments», ossia in quanto luogo fisico nel quale i peccatori vengono puniti dopo essere stati giudicati «from some force outside of themselves», nella forma di un’autorità sovrannaturale che definisce, senza possibilità di negoziazione, le nozioni di “bene” e “male”. La «greatest and most surprising notion» di Dante è semmai quella “grandezza”, descritta da Auerbach a proposito di Farinata degli Uberti, a cui gli abitanti dell’inferno possono accedere tramite la poesia dantesca, grandezza che essi ottengono non a discapito della loro condizione di dannati, ma proprio in virtù di essa.9 Se insomma riflettere sul rapporto tra Romero e Dante in forma saggistica ha permesso a Paffenroth di modellare la convergenza tra immaginario dell’Inferno e immaginario dell’apocalisse zombie che sta alla base di Valley of the Dead, è in

Un altro passaggio del volume di Paffenroth che dimostra i rischi di un’eccessiva “postmodernizzazione” dell’Inferno è il seguente: «in both Dante’s hell and a zombie-infested earth, the really horrifying part is not the tortures or punishments, but the endless boredom and repetition; or, rather, the endless repetition is the punishment of sin» (2006, 24). Nell’Inferno dantesco, la «endless repetition» non rappresenta una punizione in sé: la ripetizione acquista il significato di una pena infernale solo in quanto a ripetersi per l’eternità sono proprio le spaventose «tortures or punishments» che il Dante-poeta si sofferma a descrivere con dovizia di particolari cruenti. 9

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questo romanzo, e dunque in forma narrativa anziché saggistica, che tale convergenza raggiunge i suoi effetti più complessi e significativi, grazie all’adozione di strategie che possono stavolta a buon diritto definirsi compiutamente ed efficacissimamente postmoderne. Se Gospel of the Living Dead riflette sul rapporto tra l’Inferno e gli zombie da una prospettiva accademica, il romanzo di Paffenroth adotta invece una prospettiva ironicamente metatestuale sulla propria stessa origine. Valley of the Dead – il cui sottotitolo recita The Truth Behind Dante’s Inferno – è infatti preceduto da un prologo, narrato in prima persona dall’autore del romanzo stesso, che rende chiaro il significato del sottotitolo e spiega il nesso tra l’Inferno dantesco e gli zombie. L’autore del prologo è sempre stato affascinato dal carattere intensamente personale dell’opera di Dante. È proprio il fortissimo legame che Dante stabilisce tra gli eventi e le immagini della Commedia e il proprio vissuto personale che, secondo l’autore, rende il dettato dantesco così potente: «How else could he write so powerfully and convincingly?» (Paffenroth [2009] 2010, 9). Se queste affermazioni non sono assolutamente nuove nel campo della critica dantesca, l’autore del prologo ne sviluppa le conseguenze saltando dal piano della critica dantesca a quello della fiction, preparando in questo modo la narrazione che seguirà. Se la Commedia è un’opera così personale, Dante non può aver semplicemente immaginato i tormenti che descrive nell’Inferno, ma deve averli visti, e non già in una visione mistica o in sogno, ma da qualche parte in questo mondo: during his years of exile and wandering, when details of his whereabouts are lost and legends abound, Dante must have actually seen the horrors on which he would later base Inferno. […] Lest people think him mad, and building on his deeply-held religious convictions that God must have shown him these things for a reason, he wove these horrors into a supposedly “fictional” account of a journey through the afterlife, significantly changing the details […]. I finally saw clearly there really could be no other explanation for his poem. (9)

Con un salto mortale esegetico che risolve in maniera ironica e paradossale la disputa che da più di un secolo e mezzo oppone coloro che considerano la Commedia una visio e coloro che la considerano

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invece una fictio,10 l’autore del prologo interpreta l’Inferno come la trasposizione finzionale di un’esperienza reale. Ma cos’è esattamente che Dante avrebbe visto negli anni dell’esilio? Secondo l’autore del prologo, la risposta risiede nuovamente nella pratica che potremmo definire “esegesi dantesca finzionale”: «in the final circle of hell, there is a sinner vigorously engaged in cannibalism, even though he is not put there for that individual crime, and even though Dante does not assign a circle of hell to that sin» (10). Ne consegue che Dante must have seen such a massive, horrifying outbreak of cannibalism that he couldn’t bring himself to confine it to one circle of hell, but instead made it the state and situation of every sinner, the landscape […] of hell itself. […] And I knew, as you probably do, there is only one situation that causes cannibalism on such a massive scale, and which would cause a devout man to imagine […] that hell itself was breaking loose upon the earth. (10)

Questa interpretazione troverebbe ulteriore conferma nel fatto che il Conte Ugolino aggredisce l’arcivescovo Ruggieri mangiandone il cervello, proprio come fanno gli zombie nell’immaginario pop attuale.11 La conseguenza logica di queste affermazioni, di nuovo, è una sola: «Dante had witnessed what I had previously thought was a deadly plague only in our modern world – zombies, ghouls, the undead, the living dead» (10). La storia che le lettrici si apprestano dunque a leggere, in conclusione, «is far more than an interpretation

Riducendo la questione all’osso e tralasciando le differenze tra la dantistica europea e quella americana, questo dibattito ha opposto in tempi recenti i seguaci della posizione classica di Bruno Nardi ([1942] 1949) a favore del “Dante profeta” (come recita il titolo di uno dei capitoli del suo Dante e la cultura medievale), il quale riporterebbe nella Commedia le esperienze di una visione mistica, ai seguaci della tesi altrettanto classica – ed espressa in maniera particolarmente influente da Cesare Segre (1990) – secondo cui la Commedia inizierebbe come una visione mistica per poi proseguire come un racconto puramente finzionale. 11 Si noti, en passant, che la figura dello zombie mangia-cervelli non è un’invenzione di George Romero ed emerge poco più di un quindicennio dopo l’uscita di Night of the Living Dead: «the concept of zombies eating brains […] was invented by cult classic 1985 horror comedy The Return of the Living Dead, written and directed by Dan O’Bannon, who also co-wrote Ridley Scott’s original Alien movie» (Kennedy 2021). 10

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or adaptation of Inferno: this is the real story, of which Inferno is the interpretation» (11). Si può leggere in questo esercizio esegetico formalmente sbilenco e contenutisticamente bislacco, che ribalta la prospettiva proposta da Barolini (il “vero” zombie del Canto 33 è Ugolino, non i corpi animati da demoni descritti da frate Alberigo), un’ironica riflessione metaletteraria sulle pratiche dell’adattamento e della riscrittura – riflessione la cui componente ironica è rafforzata dal fatto che l’autore, quasi fosse un “vero” dantista eslege in preda al furore esegetico, sottolinea più volte la ferrea consequenzialità della logica che sottostà alle tesi che sta proponendo («I finally saw clearly there really could be no other explanation»; «I […] saw with chilling clarity»; «there clearly was only one answer possible»). Da un lato, il prologo radica la narrazione che segue nell’esegesi dantesca e nel testo stesso della Commedia, cui si fanno diversi riferimenti pur senza mai includere citazioni dirette. Il romanzo si presenta così come il prodotto di una riflessione attorno alla biografia di Dante e al retroterra storico dell’Inferno. Questa strategia di radicamento nel testo dantesco proseguirà con sistematicità per tutto il romanzo: Valley of the Dead è diviso in quaranta brevi capitoli, ciascuno dei quali rielabora, con diverse strategie, una scena o un incontro con un personaggio dell’Inferno, e lettrici e lettori vengono guidati in questo viaggio “rielaborato” dalla presenza in esergo, per ciascun capitolo, di una citazione (stavolta diretta) dalla Cantica. Dall’altro lato, il prologo si radica nella Commedia al punto tale da ribaltare paradossalmente i rapporti tra testo “di partenza” e testo “adattato”: sono le vicende narrate in Valley of the Dead a fungere da base per quelle narrate nella Commedia, e non viceversa.

3.3 Splatter o non splatter? In termini di generi letterari, Valley of the Dead si apparenta forse più all’horror sovrannaturale che al fantasy in senso “stretto” – anche se, come si è visto nel primo capitolo, le fiction dell’immaginario contemporanee si muovono lungo uno spettro liquido e fluttuante di fenomeni narrativi piuttosto difficili da definire univocamente in termini di genere. Non mancano tuttavia elementi che attraggono il romanzo di Paffenroth verso il polo concettuale del fantasy, tra cui soprattutto l’ambientazione medievale e la scelta dei personaggi. A proposito dell’ambientazione, si noti che il Medioevo nel quale Dante

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e gli altri protagonisti di Valley of the dead sono immersi non è quello nobile ed eroico delle saghe cavalleresche, ma piuttosto un Medioevo povero e arretrato, sommerso nel fango e nella sporcizia e governato, per la maggior parte, dalla violenza e dallo spirito di sopraffazione. La scelta dei personaggi sembra invece evocare, almeno parzialmente, la tipica squadra di un’avventura di Dungeons and Dragons – gioco ispirato, a sua volta, alla narrativa fantasy medievalista à la Tolkien –, che solitamente comprende almeno un guerriero (il Radovan del romanzo), un appartenente a un ordine magico o religioso (Adam) e un bardo (Dante).12 Si potrebbe anche offrire una classificazione dei protagonisti del romanzo osservandoli da una prospettiva “sociale”. Da questo punto di vista, essi appaiono come i rappresentanti stereotipici della società medievale per come costruita dai moderni: il guerriero (Radovan), la persona che fa parte di un ordine religioso (Adam), la persona che appartiene al “popolo minuto” (Bogdana) e il poeta-uomo di cultura (Dante). In un saggio che analizza Valley of the Dead accanto a Francesca (film argentino del 2015 diretto da Luciano Onetti), incluso nel collettaneo Dante trash, Filippo Fonio (2021) propone invece di interpretare il romanzo di Paffenroth e il film di Onetti come due istanze di «splatter dantesco» (69), categoria che ricadrebbe a sua volta in quella più ampia di “trash”, cui è appunto dedicato il volume curato da Lazzarin. Nella prospettiva adottata da Fonio, «[p]er avere una predominanza della componente trash in un determinato prodotto ci vuole […] costanza nell’eccesso, e che quest’ultimo vada nel senso del cattivo gusto, della dissacrazione, della rifunzionalizzazione estrema» (68-69). Da questo punto di vista, lo splatter dantesco può essere dunque sussunto nella macro-categoria del trash, in quanto esso «ha come caratteristiche salienti l’abbassamento del modello e il forzare i limiti dell’interpretazione in un eccesso costante» (69). In termini di genere, lo splatter presenterebbe inoltre importanti affinità con il porno: fra le loro caratteristiche fondamentali vi sono infatti, afferma Fonio, «quella di suscitare determinate pulsioni e una funzione iconico-emotiva preponderante (le immagini tendono a esservi trattate

È significativo, in questa prospettiva, che una persona “comune”, quale è appunto Bogdana in Valley of the Dead, non si avvicini a nessun personaggio tipico del gioco, almeno nella sua forma classica. 12

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come ipostasi)», unita al fatto che «la cultura tradizionale considera tali generi come forme di intrattenimento malsane, devianti e potenzialmente pericolose» (69). Secondo Fonio, l’approccio alla riscrittura dantesca sviluppato da Paffenroth – approccio radicalmente diverso da quello di Francesca, film costruito come un omaggio al cinema giallo italiano degli anni Settanta – correrebbe, sul piano teorico, numerosi rischi. Contaminando l’universo della Commedia coi moduli della zombie fiction (o, viceversa, contaminando la zombie fiction con l’immaginario della Commedia) si potrebbe presentare ad esempio il rischio della monotonia, ossia di creare una «narrazione monocorde» che si sposti semplicemente «di combattimento in combattimento» (72); oppure, «l’idea di una lotta con gli zombie come ipotesto esistenziale di un’opera della complessità dell’Inferno rischia di risultare strampalata e di essere immancabilmente disattesa» (72). Valley of the Dead supererebbe però con successo questi rischi, creando «un equilibrio per nulla scontato fra i due grandi orizzonti di riferimento: la Commedia e l’immaginario dei morti viventi» (72). Date queste premesse, Fonio passa a individuare una serie di parallelismi tra il romanzo di Paffenroth e la Commedia, prima sul fronte delle vicende dei personaggi – soprattutto analizzando le corrispondenze tra le citazioni dall’Inferno che aprono un determinato capitolo e gli eventi descritti nel capitolo stesso –, poi sul fronte strutturale – i personaggi di Paffenroth, ad esempio, fanno spesso profezie sul futuro di Dante, proprio come i personaggi della Commedia. Si è visto come, sul fronte dei generi letterari, Fonio definisca Valley of the Dead in maniera decisa e univoca come un romanzo splatter. Le scene che mirano a suscitare un senso di disgusto e ribrezzo attingendo alle strategie dello splatter sono, in effetti, numerose. Basti leggere, a titolo di esempio, il passo che segue: The prone figure was a big man. He had been torn open in several places. The three kneeling figures were two boys and a woman. […] She was kneeling near the man’s midsection, and from the motions and sounds she was making, it was clear she was pulling the man’s organs out and eating them. […] Dante watched as the […] boy, near the man’s head, bent down further, placing his hands on the ground and leaning down to tear into the dead man’s neck with his teeth. As the child rose back up to a kneeling posture, he held one end of

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a long strip of flesh in his bloody mouth. The other end was still attached to the dead man, and the undead boy thrashed his head around like a dog would, till the morsel snapped and he sucked it into his mouth like pasta. (Paffenroth [2009] 2010, 82-83)

La scena trasmette il senso di disgusto tipico dello splatter insistendo allo stesso tempo su dettagli visivi e uditivi: «the motions and sounds»; «the morsel snapped» (verbo che comunica il senso di qualcosa che si stacca con uno schiocco); «he sucked it into his mouth». La crudezza visiva della scena è rafforzata dal fatto che il cadavere del «big man» si trova a terra e i morti viventi lo circondano come farebbe un branco di predatori intorno a una carcassa. L’animalità degli zombie è particolarmente enfatizzata nella descrizione del ragazzo che divora un brandello del collo dell’uomo. I suoi movimenti vengono descritti in dettaglio: passa da una posizione “bipede”, in ginocchio, a una a quattro zampe molto chinata in avanti, per fare forza con le braccia contro il terreno, poi di nuovo a una posizione in ginocchio. Nel momento immediatamente successivo, in cui il ragazzo dimena la testa per staccare il brandello di carne (e il verbo “trash” indica movimenti violenti e scomposti), interviene una similitudine animalesca esplicita: «like a dog would». Questa, a sua volta, genera un contrasto grottesco con la similitudine che segue, che evoca invece un’azione umana, quella di risucchiare la pasta, insieme al suono distintivo che la accompagna. Ma anche questa azione è stata pervertita in senso animalesco: alla pasta – prodotto umano legato alla coltivazione dei cereali, ossia al passaggio dalle culture nomadi di cacciatori e raccoglitori alle culture sedentarie – si sostituisce un boccone di carne cruda, legato alla vita animale e al mondo dei predatori. La categoria dello splatter è dunque assolutamente adatta a descrivere Valley of the Dead. Per comprendere a pieno la presenza e il significato di questa categoria estetica nel romanzo, occorre tuttavia inserirla in un contesto più ampio con l’aiuto di due osservazioni. In primo luogo, occorre notare che le scene splatter ricorrono soprattutto nella prima metà del romanzo, nella quale ampio spazio viene lasciato alla descrizione degli zombie e delle devastazioni provocate dall’epidemia. In secondo luogo, lo splatter e, più in generale, l’horror, non sono le uniche modalità di rappresentazione fortemente attive in questa macro-sezione del romanzo. Vi sono infatti numerosi momenti in cui subentrano atmosfere assai diverse – in linea con

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quell’«equilibrio […] fra i due grandi orizzonti di riferimento» giustamente notato da Fonio. Si è visto come il prologo del romanzo ribalti i rapporti tra il romanzo stesso e il suo testo “di partenza”, ossia l’Inferno dantesco. Per esplorare il ricco arsenale di strategie narrative e rappresentative che si dispiega in Valley of the Dead, al di là delle possibilità offerte dall’horror e dallo splatter, si potrebbe ripartire proprio dalle pagine che seguono immediatamente il prologo, le quali continuano ad elaborare con successo il ribaltamento tra testo adattato e adattamento. Il capitolo 1 si apre infatti – come accade in moltissimi adattamenti e riscritture danteschi, quasi fosse una sorta di prassi rituale – con una citazione della prima terzina dell’Inferno, nella traduzione di Longfellow («Midway upon the journey of our life / I found myself within a forest dark, / For the straightforward pathway had been lost»), cui fa immediatamente seguito l’incipit del romanzo, che recita: «Dante was not lost in a dark forest» (Paffenroth [2009] 2010, 12, corsivo mio). Segue una descrizione della scena in cui Dante si trova immerso: è un pomeriggio di primavera, c’è il sole, Dante è a cavallo lungo una strada e alla sua sinistra si estende un’immensa foresta. L’atmosfera e il paesaggio sarebbero quasi piacevoli – dunque opposti rispetto a quelli in cui si ritrova il protagonista della Commedia –, se non fosse che Dante non è dell’umore adatto per apprezzarli. A rendere il paesaggio inquietante (non spaventoso, si noti, come nel caso della selva dantesca) c’è tuttavia un bizzarro senso di mancanza: c’è un silenzio innaturale, l’aria sembra non riuscire a trasmettere né suoni né odori.13 Dante percepisce i dintorni come «unnatural, flat, and soulless» (12). Se la geografia del paesaggio cambierà nel corso della narrazione (Dante e gli altri attraverseranno campagne e paesi, in un percorso che li porterà sempre più in alto, tra le montagne), il senso di opprimente vuoto generato dal paesaggio e descritto in queste righe rimarrà pressoché invariato lungo tutta la narrazione. È possibile, tuttavia, inscrivere questa negazione di una premessa fondamentale dell’In-

«[L]ight abundantly overflowed, but there were no sounds beyond the horse’s footfalls – and even these seemed small and muffled, though the horse was a big, plodding beast. No smells, and the air didn’t carry to Dante’s tongue any hint of budding life as it should at this time of year» (12). 13

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ferno (Dante non si è smarrito in una «selva oscura») all’interno di una più ampia rete di significati che il romanzo di Paffenroth genera a partire proprio dal suo titolo: Valley of the Dead. Lettrici e lettori dell’Inferno sanno infatti che la selva corrisponde geograficamente a una «valle» spaventosa, all’uscita della quale Dante si trova ai piedi di un «colle» la cui sommità è illuminata dai raggi del sole:14 Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. (Inf. 1, vv. 13-18)

Se è vero che il protagonista di Valley of the Dead «was not lost in a dark forest», un’interpretazione del titolo del romanzo in chiave dantesca lascia tuttavia intendere che l’intera valley che Dante e i suoi compagni attraverseranno è la selva oscura, spostata semplicemente su un piano più astratto. Questa interpretazione sarebbe del resto coerente con la visione allegorica della triade valle/selva-colle/ sole: «la selva, il colle, il sole prefigurano già qui all’inizio, in un solo passaggio, i tre regni che Dante visiterà nel suo viaggio» (Commento Leonardi, Inf. 1, v. 13). Alla descrizione del paesaggio in cui Dante si trova immerso all’inizio del romanzo segue un’altra negazione delle premesse narrative poste dalla prima terzina dell’Inferno: Dante was also not midway through life’s journey. He had been wandering Europe for several years already, and he had started his exile at age thirty-seven. Even with the rather generous biblical estimate that our lifespan was set at three-score and ten, he knew he had more years behind than ahead of him. (12)

Secondo Inglese, la valle-selva è sia «dato materiale (la selva è infossata rispetto al colle)» sia «immagine evocativa» (Commento Inglese, Inf. 1, v. 14) della «vallis lacrimarum» di cui si legge in Salmi 83. Per Chiavacci Leonardi la valle «è la selva del v. 2, con la quale si identifica» (Commento Leonardi, Inf. 1, v. 14), mentre «[i]l colle rischiarato dal sole rappresenta la via della virtù […] che si contrappone alla valle (o selva) oscura del peccato» (Commento Leonardi, Inf. 1, v. 13).

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La narrazione ritratta così non solo i dati spaziali esposti all’inizio del poema dantesco, ma anche quelli temporali: Dante ha superato il mezzo del cammin di nostra vita ormai da diversi anni. Questa ritrattazione si conclude estendendosi dalla terzina inaugurale del primo Canto all’incontro con la lupa: As Dante approached, he could have sworn it was a lean, hopeless-looking wolf, though it hardly seemed possible. […] Each rib was visible on its taut, mangy side. And then, as though it really were just a phantom, it slinked noiselessly into the woods, leaving Dante blinking and shaking his head. Perhaps it had just been a large, starved dog. (14)

Non c’è traccia delle altre due fiere che nell’Inferno rappresentano allegoricamente la terna di peccati che impedisce a Dante l’ascesa al colle della virtù, e della lupa dantesca la “fiera” di Paffenroth conserva solo l’estrema magrezza – ha le costole chiaramente visibili sotto la pelle. Laddove però la magrezza della lupa dantesca sta a significare un appetito spaventoso poiché reso assolutamente insaziabile dall’avarizia («che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza» Inf. 1, vv. 49-50), quella esibita dalla lupa di Paffenroth sta piuttosto a indicare denutrizione, debolezza e squallore («mangy side»). Laddove lo sguardo della lupa dantesca incute una paura tale da indurre Dante a perdere «la speranza de l’altezza» (Inf. 1, v. 54), al Dante del romanzo si presenta una lupa «hopeless-looking», la cui fugace apparizione non spaventa minimamente il protagonista. Quest’ultimo non è nemmeno sicuro che si tratti davvero di una lupa, la cui inconsistenza ne rende l’aspetto quasi fantasmatico («as though it really were just a phantom»): forse era solo un grosso cane affamato. La primissima pagina del romanzo presenta dunque almeno due personaggi (Dante e la lupa) per negazione e per contrasto rispetto ai loro corrispettivi danteschi, a sottolineare che la vera storia di Dante (ossia la verità nascosta evocata dal sottotitolo del romanzo) è quella che si sta per raccontare, e che si tratta di una storia profondamente diversa da quella che Dante stesso, secondo l’apparato finzionale creato dal prologo, ci ha tramandato. Questo gioco di contrasti col testo dantesco investe anche numerosi aspetti della personalità del Dante di Paffenroth. Nelle pagine

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di apertura di Valley of the Dead, il viso di Dante viene descritto in perfetto accordo coi ritratti tradizionali dell’autore della Commedia. Questa descrizione serve tuttavia soprattutto a spostare la presentazione del protagonista dal piano fisico a quello psicologico: Dante had never been a handsome man. Though the arcs of his eyebrows were delicate and graceful, his brow overhung his eyes too much – eyes that were too small and set too deep. His chin was far too prominent, and his nose was too pointy, especially noticeable and unappealing since it bent slightly downward. But since leaving Italy, Dante sometimes wondered if his ugliness had been exacerbated and turned inward to fester and poison him in some more permanent, irreparable way. (13)

Nel giro di poche righe, la descrizione di un uomo che reputa i lineamenti del suo viso non affascinanti (si noti la descrizione ammorbidita dalla litote: «had never been a handsome man») assume toni cupi ed estremamente duri. La bruttezza fisica di Dante («ugliness»: stavolta indicata in maniera diretta, senza litote) si trasforma così in un’infezione che potrebbe aver avvelenato la sua psiche – infezione la cui gravità è sottolineata dalle coppie «fester and poison» e «permanent, irreparable». Scopriamo immediatamente dopo che la vita del protagonista è stata avvelenata dal fatto che l’esilio lo ha costretto a vendere le sue doti poetiche in cambio di ospitalità, vagando di potentato in potentato: It turned out that crawling to some petty potentate’s frigid, ramshackle castle to beg for supper was the least embarrassing part of Dante’s new lifestyle. Far more demeaning and debilitating was the dance of dependency and sycophancy that would ensue, the doggerel he’d have to write for the ruler and his court, celebrating all their munificence, bravery, and nobility. […] That was Dante’s life, and he loathed himself for it. (13)

Dante è dunque sopravvissuto all’esilio tramite l’adulazione e la composizione di brutti versi («doggerel») a carattere puramente celebrativo, azioni che immediatamente dopo assimila alla prostituzione: «whoring himself to these illiterate barbarians» (13). Ha smesso di scrivere “vera” poesia molti anni fa – apprenderemo più in là che

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la sua ultima opera è stata la Vita Nova – e non sa se tornerà mai a scriverne: «He doubted he could ever create something worthy of his beloved Beatrice, let alone anything acceptable to the God he had offended and betrayed» (13-14). Il Dante di Paffenroth si trova dunque in una condizione in parte sovrapponibile a quella del protagonista della Vita Nova nell’ultimissima sezione dell’opera, il quale ha deciso di smettere di scrivere di Beatrice finché non sarà in grado di farlo «degnamente».15 Tanto il Dante della Vita Nova quanto quello di Valley of the Dead sono dunque animati dal desiderio di «create something worthy of [their] beloved Beatrice». Ma se per il primo il tornare a scrivere dell’amata è solo questione di tempo e di studio («Se piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni» Vita Nova, Cap 31), il secondo pare dubitare profondamente delle sue capacità di artista. Il viaggio attraverso la valle infestata dagli zombie si trasforma così anche in un percorso verso il ritorno alla poesia e, più in generale, a una vita dotata di uno scopo e di un significato, in opposizione alla vita girovaga condotta in esilio fino a quel momento. Questa radicale trasformazione esistenziale è dovuta non solo al viaggio nella valle, ma anche alla fondamentale presenza di Bogdana, incarnazione di una femminilità “popolare” radicalmente diversa dalle donne fiorentine sulla base delle quali il poeta aveva dato forma al suo modello di donna amata. Bogdana uccide zombie staccando loro la testa, comprende il comportamento degli animali16 e ha sviluppato un forte senso di familiarità

«Apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei. E di venire acciò io studio quanto posso, sì com’ella sae, veracemente» (Vita Nova, Cap 31). 16 Si prenda ad esempio il capitolo 22, che re-immagina l’episodio del Minotauro che apre il Canto 12 dell’Inferno, e nel quale il cammino di Dante e della sua congrega è bloccato da un gigantesco toro. L’animale incorna e calpesta con incredibile violenza uno zombie che gli passava vicino, poi carica con altrettanto furore la recinzione che lo separa dalla strada, venendosi così a trovare faccia a faccia con la congrega. È Bogdana a suggerire ai compagni come comportarsi: «“Just stay still and let it go,” Bogdana said. “It’s outside your control. Just let it do what it’s going to do. All you can do is react.” The animal’s black-eyed stare remained fixed on them, and a muscle in its massive shoulder twitched, but still it didn’t move. It gave a huff, turned, and walked slowly off into the field to the right, only stopping to look back at them when it was some distance away. […] 15

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col dolore, la fatica e la morte – tutte caratteristiche che Dante non credeva nemmeno potessero appartenere a una donna: He marveled at her controlled, calculated violence, and again could not understand how a woman knew such things or behaved in such ways. Everything she did was always so direct and practical, without subtlety or guile. Women in Florence were not like this. (Paffenroth [2009] 2010, 98)

Se la vita sociale della corte era per Dante insopportabilmente umiliante in quanto fondata sull’adulazione ipocrita, egli pare non rievocare con gioia nemmeno la vita sociale di Firenze, soprattutto nei rapporti con le donne, in cui parole e gesti possono assumere significati così complicati da provocare una sorta di implosione del senso. Per contrasto, in Bogdana il protagonista pare trovare una forma di comunicazione più diretta e rassicurante, in quanto basata su un’idea di performatività sociale meno complessa, soprattutto in momenti di intimità fisica o verbale: She [Bogdana] slipped her hand in his and squeezed. […] Dante thought of how different this gesture would be in Florence. So fraught with conflicted meanings it would be empty, even painful, like eating tasty food when you knew it was going to make you ill later on. But in the silent forest of death, the gesture only signified what it made visible and concrete. (167)

Sarà proprio tramite il legame con questa nuova Beatrice che Dante deciderà, alla fine del romanzo, di tornare alla poesia per creare finalmente qualcosa che parli «degnamente» (prendendo in prestito l’avverbio dal passo della Vita Nova citato sopra) non solo di Bogdana, ma di tutti i membri della congrega: «I have a new purpose now. I have something to do that’s worthy of you. Something that just has worth, period. It will even have eternal worth. I will tell the world of what we four went through» (244). La fine del romanzo coincide inoltre con l’uscita dalla valle e con l’arrivo in un’area di campagna

“See,” Bogdana said. “Now it might stay still and eat for hours. Or it might charge us in the next moment”» (Paffenroth [2009] 2010, 127).

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illuminata dalla luna, nonché, dantescamente, col ritorno «a riveder le stelle»: «Bogdana tilted her head back to look up at the sky. […] “It’s good the stars are out,” she said» (244). Per un’ulteriore esemplificazione, stavolta assai più succinta, di come la contaminazione operata da Paffenroth tra l’orizzonte immaginativo dell’Inferno e quello dell’apocalisse zombie possa raggiungere effetti drammatici che trascendono il binomio horror-splatter, si possono analizzare due passaggi provenienti, rispettivamente, dai capitoli 12 e 13, dedicati alla riscrittura del quinto Canto dell’Inferno. Il corrispettivo di Francesca da Rimini è qui una donna senza nome che sta per trasformarsi in morta vivente. Suo marito, già infettato dal morbo zombificatore, l’ha sorpresa a letto con un altro uomo, di nome Pavel, e ha aggredito entrambi, contagiandoli. L’estetica della scena riposa, in misura tutt’altro che trascurabile, sullo splatter;17 eppure, prima e dopo la scena centrale in cui, in stile dantesco, il “dannato” di turno racconta la propria storia, la narrazione genera atmosfere ed effetti che paiono risuonare più con l’Inferno che con l’horror-splatter. Arrivando presso la casa della donna senza nome, Dante nota che l’ingresso è intralciato da un corpo a terra: The door couldn’t close all the way because two motionless, human legs were sticking out through the doorway. He heard the familiar moaning [il lamento tipico degli zombie]. It rose in volume and pitch, cutting above the sound of the storm, as it grew into a howl of hunger and rage – and this time, Dante thought, of infinite, sleepless sadness. (73)

La «infinite, sleepless sadness» che il morto vivente suscita in Dante si apparenta forse più alla “tristezza” spesso associata – anche se con un significato non del tutto sovrapponibile a quello che la parola

Un unico esempio, tratto dalla descrizione che la donna fa dell’aggressione da parte del marito: «“My husband was a big man – a hunter. Very strong, very angry, very violent. Pavel was on top, so he got him first. Got him from behind. Tore his neck open with his teeth. Blood all over me.” […] “I’m sure most of this is his. It gave me a chance to get away. I got a knife, but he was on me before I could stab him. Bit me twice. Horrible, burning pain, into my heart, down to my stomach. My big, disgusting, dead husband tearing my breast off with his teeth, making me as dead and loathsome as he was”» (77). 17

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possiede nell’italiano di oggi – alle anime dell’Inferno dantesco, che non alla condizione dei morti viventi che si incontrano di solito nella zombie fiction: nel Canto 3, Virgilio evoca prima «l’anime triste di coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo» (vv. 35-36), poi «la trista riviera d’Acheronte» (v. 78);18 nel Canto 6, Ciaccio si definisce «anima trista» (v. 55).19 Visto che ci troviamo in una riscrittura del quinto Canto, potrebbe inoltre valere la pena notare che l’episodio di Paolo e Francesca rappresenta uno dei rari casi in cui Dante personaggio definisce se stesso come triste. Dante si rivolge infatti a Francesca affermando: «Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio» (vv. 116-117);20 e in apertura del Canto 6 descrive così il risveglio dallo svenimento su cui si era chiuso il Canto precedente: Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d’i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse (vv. 1-3)

Poco dopo l’ingresso nella casa dei non-morti, il Dante di Paffenroth si trova nel mezzo di un’implacabile tempesta di vento, corrispettivo di quella che tormenta le anime dei lussuriosi. La lettrice fa esperienza della tormenta dalla prospettiva di Dante attraverso la focalizzazione interna (si noti, di passaggio, che la narrazione passa alla focalizzazione interna solo per riportare la vita interiore e il punto di vista di Dante, mai quello degli altri membri della sua congrega): Tears streamed down Dante’s face as the wind stung him, worse than anything he’d ever felt before. Even his tears seemed to scald unnaturally, mixing with the windblown debris into rivulets that burned and tore more than they cleansed. He squinted, and thought that even fighting the dead was preferable to this relentless, remorseless assault, against which their bodies seemed insubstantial and wholly inadequate. (Paffenroth [2009] 2010, 74)

Nella traduzione di Logfellow, che Paffenroth utilizza per le citazioni in esergo, le due espressioni sono tradotte rispettivamente con «the melancholy souls» e «the dismal shore of Acheron». 19 Longfellow traduce «sad soul». 20 Longfellow traduce «Thine agonies, Francesca, / Sad and compassionate to weeping make me». 18

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Anche in questo caso, siamo molto lontani dai modi espressivi dell’horror, del trash e dello splatter. La descrizione degli effetti innaturalmente brucianti del vento sul viso di Dante («seemed to scald unnaturally»; «rivulets that burned») sembra ibridare la tempesta che punisce i lussuriosi del quinto Canto con la pioggia di fuoco che tormenta i peccatori contro la natura nel Canto 14: Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, […] tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’ esca sotto focile, a doppiar lo dolore. (Inf. 14, vv. 28-33, 37-39)

Nelle lacrime che «bruciavano e laceravano» («burned and tore») si potrebbe forse leggere anche un ribaltamento delle lacrime che versano i dannati della Tolomea nel Canto 33, le quali anziché fluire in «rivulets» congelano all’istante formando uno strato di ghiaccio tra la cornea e la pupilla: Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo. (Inf. 33, vv. 94-99)

Concludo questa rassegna delle atmosfere e delle risposte estetiche attivate dal romanzo di Paffenroth osservando alcune peculiarità che lo contraddistinguono nella rappresentazione degli zombie. Si è detto sopra che lo splatter in quanto modalità di rappresentazione è attiva soprattutto nella prima metà di Valley of the Dead. Nella seconda metà, infatti, la narrazione scivola progressivamente in un’atmosfera di grigia disperazione e sempre maggiore spazio viene lasciato all’incontro con personaggi che hanno imparato, in modi diversi, a “domare” gli zombie o addirittura a trarre profitto dall’epidemia, e che si

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fanno portatori della morale classica per cui i veri mostri sono in realtà sempre e solo gli esseri umani. Gli zombie vengono presentati quasi esclusivamente come entità isolate o che si muovono al massimo in piccoli gruppi: siamo all’opposto rispetto alle orde immense e inarrestabili di morti viventi messe in scena in opere di zombie fiction come il romanzo World War Z di Max Brooks. Soprattutto, nella seconda metà del romanzo, gli zombie vengono rappresentati quasi esclusivamente come del tutto assoggettati ai vivi e ridotti a una condizione di innocua schiavitù. L’assoggettamento degli zombie raggiunge l’apice nelle ultime scene prima dell’uscita dalla valle. Dopo aver superato un lago ghiacciato – equivalente del Cocìto rappresentato nel Canto 34 dell’Inferno – Dante e i suoi compagni scoprono tra le montagne una miniera amministrata da un uomo di nome Ahriman.21 Incarnazione del male nella sua più pura spietatezza ed equivalente re-immaginato del Lucifero dantesco, Ahriman ha addestrato con la violenza un’orda di zombie ad estrarre metalli e pietre preziose dalla roccia. Dante e i suoi compagni si trovano così davanti una vasta orda di zombie – l’unica del romanzo – la cui forza letale è stata però assoggettata e trasformata in forza lavoro: «They were close enough now to see the hundreds of men swinging their picks in the dark pit. As more and more of the miners turned to notice them, Dante saw their eyes were as dead as the stone at which they were hacking» (Paffenroth [2009] 2010, 229). Nell’unica scena del romanzo che ricorda le grandi scene di massa dell’Inferno dantesco, i dannati-zombie non sono più agenti implacabili di morte e divoratori di esseri umani, ma schiavi minatori. Alla luce di tutte queste osservazioni, preferirei definire Valley of the Dead, in termini sfumati, come una riscrittura o reinvenzione dell’Inferno in chiave zombie che si muove tra l’horror sovrannaturale, lo splatter e il dramma psicologico, piuttosto che come uno splatter dantesco. In questa prospettiva, il romanzo di Paffenroth sarebbe forse più vicino al campo culturale del “Dante pop” piuttosto che a quello del “Dante trash” (per citare i titoli di due volumi curati da Stefano Lazzarin), in quanto collisione tra l’immaginario dell’Inferno e quello degli zombie, figure per eccellenza della cultura pop contemporanea. Al di là delle definizioni di genere, Valley of the Dead dimo-

Significativamente, questo personaggio porta il nome dello spirito maligno nemico di Ahura Mazda, la divinità creatrice dello zoroastrismo. 21

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stra la complessità dei processi di trasformazione che la Commedia può innescare in un testo apparentemente “di consumo”. Il romanzo di Paffenroth è infatti un’appropriazione che adatta un testo poetico in prosa e lo ricodifica, in forma di mash-up, attraverso l’immaginario dell’apocalisse zombie, mantenendo però, significativamente, un’ambientazione medievale. Per di più, pur presentandosi come un prequel storicamente accurato dell’Inferno, è pensato per essere fruito anche semplicemente come una zombie fiction. Per dirla con Genette, siamo ben oltre la letteratura “al secondo grado”.

4. «Do you mind if I call you Dan?»: percorsi nel fantext dantesco

Questo capitolo intende fornire una breve panoramica e una mappatura preliminare di un campo che, ad oggi, quasi nessuno ha esplorato: il campo delle fan fiction dantesche. Si tratta di testi narrativi, prodotti e messi in circolazione al di fuori dei canali dell’editoria tradizionale, che hanno sia come autrici che come pubblico una comunità di individui che si riconoscono, in diversi modi, come fan (abbreviazione dell’inglese fanatic) della Commedia. L’analisi di questo tipo di testi interseca lo studio delle ricodificazioni e trasposizioni dantesche con almeno altri due ambiti di ricerca: quello dei fan studies, ossia il campo degli studi sulla cultura popolare che si occupa dei fandom (da “fan” + “kingdom”, termine che indica una comunità di fan), e il campo che potrebbe ricadere, come si è visto nell’introduzione, sotto l’etichetta di “Dante e le culture di internet”. Poiché, in generale, la fan fiction circola oggi quasi esclusivamente in rete, le fan fiction dantesche possono essere considerate un ideale punto di incontro tra ricezione dantesca e culture di internet, incontro che dà vita ad alcune delle più sorprendenti, originali e dissacranti appropriazioni della Commedia che siano mai state prodotte. Scopo di questo capitolo sarà dunque una prima esplorazione di un corpus che, per citare un importante saggio di Hellekson e Busse, possiamo definire “fantext dantesco”, dove la parola fantext indica «the entirety of stories and critical commentary written in a fandom» (2006, loc. 84). Il fantext non include dunque solamente i testi finzionali prodotti dai fan di Dante e della Commedia e distribuiti online attraverso piattaforme apposite, ma anche i commenti e le interpretazioni di questi testi prodotti all’interno del fandom e messi in circolazione attraverso queste stesse piattaforme. Questa

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definizione allargata di testualità rende conto di uno dei caratteri più affascinanti della fan fiction: la sua natura spesso collettiva, collaborativa e conflittuale, basata su una strettissima prossimità (spesso, ma non necessariamente, amichevole) tra creatrici e fruitrici, che ha come scopo la ricodificazione di un mondo narrativo lungo innumerevoli assi trasformativi. Secondo Hellekson e Busse, queste trasformazioni «are often contradictory yet complementary to one another and the source text»; come risultato, «working with and against one another, this multitude of stories creates a larger whole of understanding a given universe» (2006, loc. 85-86). È necessario a questo punto fare un passo indietro e ripartire da alcune definizioni e questioni teoriche.

4.1 Premesse: la fan fiction come lavoro trasformativo 4.1.1 Definizioni Si è detto che il termine “fandom” indica una comunità di fan, intesa nel suo senso più ampio. Più precisamente, si può definire un fandom come «[a] group of people involved in the fan activities surrounding a particular film, television series, or book and the texts that they produce» (Kustritz 2003, 371). La fan fiction è dunque solo una tra le moltissime attività performative e trasformative cui le fan si dedicano.1 Il termine “fan fiction” indica sia – per citare un altro saggio di Hellekson e Busse – una forma di «derivative amateur writing» (2014, 5), sia uno o più testi specifici prodotti nel contesto di questa pratica (come nelle espressioni “ho letto una fan fiction” o “ha scritto alcune fan fiction”). I termini “derivative” e “amateur” sono da intendersi in senso strettamente tecnico e assolutamente non denigratorio: la fan fiction è amatoriale in quanto praticata da persone che non scrivono per professione e non pubblicano nei circuiti dell’editoria commerciale; i testi che le fan producono sono derivativi in quanto si basano sull’adattamento o l’appropriazione di altri testi – i testi che compongono il cosiddetto “canone” (canon in inglese), come i libri della serie di Harry Potter, i film degli

Per un’introduzione generale e aggiornata allo studio dei fandom si vedano i saggi raccolti in Gray, Sandvoss e Harrington 2017.

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Avengers, gli episodi della serie tv Supernatural o quelli dell’anime giapponese Naruto, per menzionare alcuni tra i testi con il fandom più vasto e attivo. Per citare ancora una volta Hellekson e Busse, la fan fiction è dunque una prassi legata alla creazione di «derivative and transformative fiction based on other media texts» (2014, 7). In termini di storia culturale, la pratica della fan fiction, intesa come attività di trasposizione e ricodificazioni di un testo (o corpus di testi) da parte di una comunità di appassionate, può essere fatta risalire ai pastiche creati dalle amanti delle storie di Sherlock Holmes a partire dagli anni dieci del Novecento. Per come viene prodotta e fruita oggi, invece, la fan fiction nasce negli anni sessanta in alcuni fandom legati alle serie tv di fantascienza – e soprattutto a Star Trek. Nel contesto del fandom di questa serie hanno infatti preso forma molti dei generi e delle convenzioni narrative che plasmano ancora oggi il panorama globale della fan fiction. La definizione di fan fiction formulata da Hellekson e Busse non si allontana molto da quella promossa dalla Organization for Transformative Works (OTW), organizzazione non profit dedicata alla conservazione e alla promozione della fan culture. Tra i portali internet più importanti gestiti dalla OTW vi sono fanlore.org, un’enciclopedia collaborativa dedicata ai fandom, alla loro storia e alle loro pratiche; Archive of Our Own, uno tra i più grandi database di fan fiction esistenti insieme a fanfiction.net; e la rivista accademica Transformative Works and Cultures. Alla voce “fanfiction” (scritto come un’unica parola)2 di Fanlore si legge: «Fanfiction (fanfic, fic) is a work of fiction written by fans for other fans, taking a source text or a famous person as a point of departure. Fanfiction is most commonly produced within the context of a fannish community and can be shared online such as in archives or in print such as in zines» («Fanfiction» s.d.). Si noti come questa definizione eviti aggettivi che potrebbero suonare denigratori come “derivative” e “amateur” ed enfatizzi invece il carattere trasformativo della fan fiction. A questo proposito, Anna Wilson (2021) osserva che fans and fan scholars often also use the term “transformative” in place of counter-terms like “appropriative” or “derivative,” where

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Sulle diverse grafie del termine fan fiction/fanfiction si veda Klink 2017a.

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the operative discourse is not legal or even moral but aesthetic. Here, the term “transformative” serves to argue that originality is not the be-all and end-all of artistic practice, as well as that fan fiction as art – legal considerations aside – does not necessarily occupy a place below its source in a cultural or artistic hierarchy. (§ 3.4)

Le due definizioni di fan fiction fornite fin qui sono allo stesso tempo estremamente generali ed estremamente sintetiche, in quanto tematizzano le caratteristiche fondamentali della fan fiction sulle quali vige il massimo grado di consenso tanto nelle comunità di fan (è il caso di Fanlore) quanto in quelle dei fan studies (è il caso di Hellekson e Busse). Per avere un’idea della pluralità di posizioni che si cela dietro queste definizioni e, più in generale, dietro l’atto stesso di definire il concetto di fan fiction, può essere utile consultare i risultati di una vasta indagine promossa nel 2017 sul sito del podcast Fansplaining, in cui più di 3500 persone hanno risposto a una serie di domande su come definire la fan fiction. L’analisi dei risultati dell’indagine (Klink 2017b) ha fatto emergere in maniera assai vivida la pluralità dei punti di vista a partire dai quali la fan fiction può essere concettualizzata: Definitions of fanfiction can orient themselves in different ways. They can be formalist (“What is this text? What are its features?”) or social (“Who was it written for? Who wrote it?”) or affective (“What mood was the writer in? What mood does it seek to inspire in readers?”) or socio-economic (“What political and economic structures does it exist in? What does it challenge?”) A good definition might take more than one of these tactics, depending on its context. (Klink 2017b)

La definizione di fan fiction – come ogni definizione che si rispetti – varia dunque a seconda della comunità che la usa. In ultima analisi, «[f]anfiction is what authors claim to be fanfiction, and what audiences accept as fanfiction» (Klink 2017b). C’è tuttavia almeno un aspetto che determina in modo fondamentale l’orizzonte della fan fiction al di là delle posizioni dei singoli fan: quello giuridico. Nella stragrande maggioranza dei casi, i testi – e più in generale gli universi narrativi – dei canon su cui si basano le fan fiction sono infatti protetti da diritto d’autore, e possono essere rielaborati senza l’autorizzazione di chi ne detiene i diritti solo al fine di creare prodotti che non avranno una circolazione economica. Da

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un lato, la fan fiction si oppone così a tutto ciò che, in un determinato universo narrativo, è canon, ossia coperto da diritto d’autore; dall’altro, si oppone a tutti i testi che circolano nel sistema editoriale capitalista.3 La fan fiction (fanfic), gratuita e non professionale, si definisce così in opposizione alla literary fiction (litfic), prodotta nell’ambito dell’editoria professionale e distribuita a pagamento. Tra fanfic e litfic può esserci, ad ogni modo, una qualche porosità: si pensi al caso ben noto del romanzo 50 Shades of Grey, nato originariamente come una fan fiction della saga di vampiri Twilight. A ben vedere, la porosità si situa non solo e non tanto al livello della dicotomia fanfic/litfic, quanto piuttosto a quello della dicotomia scrittura amatoriale/scrittura professionale. A questo proposito, l’indagine del podcast Fansplaining ha messo in luce come le persone che sono entrate a far parte di uno o più fandom intorno agli anni ’90 tendano a vedere la comunità delle autrici di fan fiction come rigidamente separata da quella delle autrici di professione; mentre nelle fan più giovani la percezione di questa separazione risulta ammorbidita.4 Insisto su questa distinzione perché si tratta di un elemento cruciale nella scelta del corpus di quelle che ho definito fan fiction dantesche. Nel caso degli scritti di Dante ci troviamo infatti in una situazione opposta rispetto a quella che ho descritto finora: numerose edizioni di queste opere fanno parte del pubblico dominio e non sono soggette a diritto d’autore. Questo vuol dire che un’autrice avrebbe la possibilità di scrivere una fan fiction basata sulla Commedia e metterla in commercio attraverso i canali dell’editoria tradizionale con grande libertà – cosa assolutamente impossibile nel caso di una fan fiction

Sulla gift economy cui partecipa la fan fiction e sui suoi aspetti problematici, si veda Turk 2014. 4 Secondo Klink (2017b) i risultati dell’indagine di Fansplaining indicano «that the borders between amateur and professional writing have become more porous in the past ten years. Anecdotally, this seems to be the case: Wattpad’s FANtasies, Kindle Worlds, and the successes of original novels by writers who also admit to fanfic (His Majesty’s Dragon), of stories “with their serial numbers rubbed off” (50 Shades of Grey), and of YA [Young Adult] novels about fanfic writers (Fangirl) all point to a wider mainstream acceptance of fandom and fanfiction. We think that newer members of fandom are more likely to take this situation as the status quo, whereas those who have been in fandom longer are more likely to see themselves as very separate from the professional world». 3

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basata su un testo contemporaneo protetto da copyright. Sulla base di queste premesse, l’unico studio a me noto dedicato alla presenza di Dante nella fan fiction (Sajewska 2018) si concentra sull’analisi di due appropriazioni dantesche messe in commercio attraverso i canali dell’editoria tradizionale (I delitti della luce di Giulio Leoni, uscito per Mondadori nel 2005, e La profezia perduta di Dante di Francesco Fioretti, uscito per Newton Compton nel 2013), definendo entrambi i testi come esempi di fan fiction. Il mio approccio al concetto di “fan fiction dantesca” è esattamente opposto: poiché ritengo che la circolazione attraverso canali esterni all’editoria commerciale sia una caratteristica definitoria essenziale della fan fiction per come esiste oggi, prenderò in esame solo testi distribuiti gratuitamente in rete. 4.1.2 Fan fiction e adattamento Prima di passare alla descrizione delle peculiarità che distinguono la fan fiction dalla literary fiction tanto sul fronte dell’organizzazione dei generi letterari che su quello della pragmatica della letteratura, occorre affrontare brevemente la spinosa questione del rapporto tra la fan fiction e la galassia di nozioni che orbitano intorno al termine “adattamento”. Se questo libro si è aperto con la domanda “in che rapporto si pongono i testi del corpus con i testi danteschi?” è ora necessario porsi la domanda “in che rapporto si pongono le fan fiction dantesche con gli altri testi del corpus?” Non intendo qui fornire una teoria originale della fan fiction in relazione alle teorie dell’adattamento, quanto piuttosto prendere rapidamente posizione in un dibattito già piuttosto acceso. Nella teoria classica di Hutcheon (2013), discussa nell’introduzione, la fan fiction si apparenta al plagio, ai sequel e ai prequel in quanto pratica che non ricade né nella categoria di adattamento né in quella di appropriazione: Plagiarisms are not acknowledged appropriations, and sequels and prequels are not really adaptations either, nor is fan fiction. There is a difference between never wanting a story to end […] and wanting to retell the same story over and over in different ways. With adaptations, we seem to desire the repetition as much as the change. (9)

In un volume di pochi anni fa dedicato al fandom shakespeariano, Johnathan Pope critica con una certa durezza la posizione di Hutche-

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on a partire dalle osservazioni di Anne Jamison (2013), secondo cui, se è vero che in linea teorica una fan fiction può essere letta come un testo a sé stante da parte di una lettrice che non possiede alcuna familiarità col testo sorgente, una lettura di questo tipo si allontanerebbe moltissimo dalla pragmatica alla base della fan fiction stessa. Secondo Pope (2020): it should be obvious that fan fiction and adaptation overlap in significant ways, to the point that we are better served by considering fan fiction as a form of adaptation where the primary concern is breathing new life into established characters and established worlds in a way that is both allusive and citational. If you are not engaged in the active intertextuality of fan fiction, then you aren’t reading it right. (13)

Ma non è solo questo il punto. Alla base della tassonomia di Hutcheon c’è, secondo Pope, una concezione largamente superata delle fan e dei loro prodotti trasformativi: Hutcheon positions the fan as passionate but lacking agency in relation to adaptation, which is important because her discussion of fan fiction excludes fans from participating in the adaptive process. This casts fans as passive media spectators, a position that fan studies has convincingly argued against for over three decades. (14)

Le riflessioni di Pope centrano il cuore del problema e reclamano giustamente la necessità teorica di studiare la fan fiction in relazione all’adattamento. Aggiungo solo una nota che renda conto delle distinzioni, operate nell’introduzione, tra diversi tipi di trasformazione testuale – distinzioni che Pope sembra ignorare. Come si vedrà tra poco, alcune fan fiction ricadono in maniera assolutamente aproblematica nella categoria di adattamento per come formulata da Hutcheon, poiché raccontano, ad esempio, un evento della Commedia dal punto di vista di un personaggio non protagonista – nella tassonomia di Genette, si tratterebbe di un tipico caso di transfocalisation. Queste fan fiction rappresentano tuttavia una minoranza nel corpus che sarà oggetto delle analisi che seguono. Nella maggior parte dei casi, i processi trasformativi messi in atto nelle fan fiction sono così profondi da apparentarsi piuttosto alla nozione di appropriazione per come de-

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finita da Sanders ([2006] 2016), al remix e al crossover.5 In ogni caso, ciò che conta davvero analizzare sono le strategie di transcodificazione messe in atto dalla fan fiction, in quanto assolutamente peculiari e, in larga parte, presenti solo in questa categoria di testi narrativi. Se si guarda alla fan fiction, come fa Pope sulla scorta dei fan fiction studies, come a un lavoro di trasformazione originale in quanto orientato da dinamiche codificate nei decenni all’interno delle comunità di fan, queste trasposizioni della Commedia appariranno tanto radicali quanto perfettamente coerenti col sistema di codici che governa la produzione di fan fiction. Un passo necessario per poter passare all’analisi dei testi consiste dunque nel familiarizzare con questi codici. 4.1.3 Codici e generi della fan fiction I fan studies come disciplina accademica emergono negli anni ’90 grazie al contributo pionieristico di almeno tre volumi: Enterprising Women di Camille Bacon-Smith (1992), Textual Poachers di Henry Jenkins ([1992] 2013) e NASA/Trek di Constance Penley (1997). Tra le acquisizioni teoriche fondamentali promosse da questi saggi vi è l’idea, già accennata in riferimento alle tesi di Pope sul rapporto tra fan fiction e adattamento, secondo cui le fan non sono semplicemente consumatrici passive e acritiche ossessionate da determinati prodotti della cultura di massa, bensì fruitrici attive, critiche ed interessate al dialogo (e al dibattito) con altre fruitrici. In un influente saggio dei primi anni 2000 – periodo in cui i fan studies iniziano a “esplodere” – Anne Kustritz (2003) riassume così questa premessa chiave della disciplina in relazione allo studio della fan fiction: Cultural entertainment products reflect the dominant ideology of an era, and taken on their own, they remain the product of an individual interpretation. What occurs in fan rewrites is that these products are not merely accepted, but rather analyzed with the same amount of care, appreciation, and religiosity that is otherwise only bestowed upon art objects. Fans discuss the narratives and characters provided for them by the mass media, and then alter those hegemonic messages to reflect their own needs, experiences, and desires. (373-74)

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Per la definizione di questi concetti si veda l’introduzione.

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In maniera non sostanzialmente diversa dalle rappresentanti della critica letteraria, le fan sono interessate ad analizzare determinati corpora di testi. Se l’interesse di base che articola il rapporto di accademiche e fan coi testi è, in termini molto generali, lo stesso, ciò che cambia radicalmente tra le due comunità sono piuttosto gli spazi, i modi e i codici che danno forma a questa attività critica. In particolare, se l’interpretazione dei testi nella critica letteraria passa principalmente dalla produzione di testi saggistici, nei fandom si predilige invece la produzione di fan fiction, intese come appropriazioni di uno o più ipotesti. Se il tono di queste appropriazioni presenta infinite variazioni in uno spettro che va dal demenziale al giocoso, al serio al tragico, esse rappresentano sempre il prodotto di un’attività ermeneutica e critica esercitata, nei modi e coi risultati più diversi, a partire dagli ipotesti del canon. L’attività critica esercitata dalle autrici di fan fiction riposa a sua volta, in larga parte, su un sistema di generi letterari – quindi, più in generale, su un apparato teorico – profondamente diverso tanto da quello usato nel mercato editoriale, quanto da quello adottato dalla critica letteraria accademica. Hellekson e Busse (2006) lo descrivono così: Within the field of fan fiction, the three main genres are gen, het, and slash. Gen denotes a general story that posits no imposed romantic relationships among the characters. Het stories revolve around a heterosexual relationship, either one invented by the author or one presented in the primary source text. Slash stories posit a same-sex relationship, usually one imposed by the author and based on perceived homoerotic subtext. (loc. 127-129)

Tra i primi compiti importanti di ogni newbie – ossia di ogni utente che muove i primissimi passi nel mondo della fan fiction – vi è appunto quello di acquisire familiarità con questa tassonomia di base, alla luce della quale, secondo Meneghelli (2019), it is no exaggeration to say that fan fiction – no matter which fandom, which community or subcommunity – is principally concerned with pairing, that is, with the development of personal, emotional relationships between the characters: love and/or erotic desire more often than not, but also friendship or family bonds. And even when

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personal relationships are not the main focus, such a dimension plays an important role anyway. (179)

Ma questa non è che la punta dell’iceberg, poiché la tripartizione gen/het/slash è solo la base per l’eleborazione di «literary techniques around which fan fiction communities have developed huge and highly specific taxonomies» (Wilson 2021, § 3.6). Una breve rassegna di sottogeneri e microgeneri può includere, tra moltissimi altri esempi, la curtainfic, «a story with domestic details and a comforting affect, in which characters from the source text, usually in a happy relationship, do domestic tasks, often centered around cultivating their shared space, such as shopping for curtains» (§ 3.6); la fan fiction fluff, «an often light story that usually seeks to make a tender emotional impact rather than put forward a plot» (Hellekson e Busse 2006, loc. 144); le narrazioni hurt/comfort (abbreviato in h/c), che, «as the name implies, revolve around a character being injured and another character comforting him» (loc. 139); il genere AU (alternate universe), «where familiar characters are dropped into a new setting (which, depending on the media source, may or may not be canonical […])» (loc. 142); il genere PWP, «which gets spelled out either as “porn without plot” or “plot? what plot?”» (loc. 142). La lista potrebbe proseguire per diverse pagine e altri generi e figure verranno chiamati in causa più avanti. Ciò che conta per adesso è osservare – ponendo così un’altra premessa fondamentale per le analisi che seguiranno – che, come scrive Wilson (2021), [t]his taxonomy is literary theory: it is the product of decades of communal debate about how specific kinds of narrative work and how the foot traffic of fan readers creates desired paths through source texts. Genre here emerges from the ways in which readers respond to pre-existing texts or storyworlds rather than from publishing categories or cultural technologies like literary prizes. (§ 3.6)

Questa teoria letteraria, in quanto vasto apparato di tassonomie, definizioni e concetti, determina tanto la ricezione dei testi da parte dei fan, quanto la produzione di fan fiction, proprio come la familiarità con certe teorie accademiche della letteratura determina tanto il modo in cui le studiose di fiction fruiranno i testi primari che intendono sottoporre ad analisi quanto il modo in cui le analisi stesse verran-

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no condotte. Secondo Hellekson e Busse (2006), anche questa teoria letteraria è parte del fantext: «by looking at the combined fantext, it becomes obvious how fans’ understanding of the source is always already filtered through the interpretations and characterizations existing in the fantext» (loc. 87-88). L’influenza determinante che la teoria letteraria della fan fiction esercita nel dare concretamente forma tanto alla creazione che alla ricezione di questi testi è resa perfettamente evidente già dal funzionamento dei più importanti database che raccolgono fan fiction, tra cui i già citati fanfiction.net e Archive of Our Own. In entrambi i casi, l’esplorazione del database e l’accesso ai contenuti sono governati da una complessa griglia paratestuale basata appunto su generi, sottogeneri e tag – ossia parole-chiave addizionali che orientano con quanta più precisione possibile le aspettative delle lettrici.6 Rimane a questo punto un’ultima questione preliminare da affrontare: se la fan fiction è, come si è visto, legata soprattutto alla trasposizione di testi contemporanei, che posto occupano le fan fiction dantesche in questo panorama? 4.1.4 La fan fiction e il mondo pre-contemporaneo Con una certa probabilità, chi legge e/o scrive fan fiction tende solitamente a non associare questa pratica alla Commedia. Viceversa, studiose e appassionate della Commedia tendono con tutta probabilità a non associare il poema dantesco alla fan fiction. Eppure, nell’immensa lista in cui Archive of Our Own riporta tutti i fandom dedicati ad opere letterarie nel contesto dei quali è stata prodotta della fan fiction,7 figura proprio “La Divina Commedia | The Divine Comedy – Dante Alighieri”, con 114 testi archiviati.8 Siamo prevedibilmente lontanissimi dalla quantità di testi archiviati sulla piattaforma dalle fan di Harry Potter (quasi 400.000 testi), dell’universo Marvel (quasi 600.000 testi) o di Star Wars (poco più di 200.000 testi); siamo anche lontani dalle Sull’importanza fondamentale di paratesti e peritesti nell’accesso alla fan fiction si vedano Meneghelli 2019 e Leavenworth 2015. 7 La lista è accessibile al link https://archiveofourown.org/media/Books%20 *a*%20Literature/fandoms. 8 Si veda il link https://archiveofourown.org/tags/La%20Divina%20Commedia%20%7C%20The%20Divine%20Comedy%20-%20Dante%20Alighieri/works. 6

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diverse migliaia di testi prodotti come fan fiction di opere di Shakespeare.9 Il fandom dantesco è dunque una comunità decisamente di nicchia, particolarmente in riferimento al mondo anglofono – si noti che Archive of Our Own ospita soprattutto, anche se non esclusivamente, testi in inglese. In termini numerici, dunque, la presenza nella fan fiction di autrici e opere del mondo pre-contemporaneo (ossia, in termini grossolani, del mondo pre-1789) sembra di rilevanza assai scarsa. La già più volte citata Anne Wilson osserva tuttavia che, se si guarda a questa presenza da altre prospettive, essa diventa tutt’altro che banale. Basti pensare alla nozione stessa di textual poachers adottata da Jenkins ([1992] 2013) nel suo studio della fan fiction, in cui il sostantivo “poacher” non rimanda affatto ai bracconieri intesi in senso moderno, quanto piuttosto ai “nobili ladri” del mondo medievale: fans hungry for media steal from large media conglomerates as hungry medieval peasants stole from landowners who hunted only for sport. In this metaphor, copyright is analogous to the medieval enclosure of the commons, a practice that restricted hunting and grazing rights to landowners, […]. The poaching metaphor evokes a heroic folk lineage including figures like Robin Hood and situates fandom in a kind of Sherwood Forest, a marginal, unregulated, premodern space. (Wilson 2021, § 2.2)

Da una prospettiva ancora diversa, la letteratura pre-contemporanea ha giocato (e continua a giocare) un ruolo importante nella legittimazione estetica della fan fiction: «claiming authors like Shakespeare and Virgil as fan fiction’s literary ancestors has had significant strategic value for defenses of fan fiction’s artistic validity and even legality» (§ 1.4). Il tentativo di proiettare la nozione di fan fiction indietro nel tempo per costruirne una sorta di genealogia sulla lunga durata ha interessato anche il mondo accademico: due numeri della già menzionata rivista Transformative Works and Cultures, intitolati rispettivamente The Classical Canon and/as Transformative Work (2016) e Fan Fiction and Ancient Scribal Cultures (2019) sono dedicati appunto a questa indagine.

Si veda il link https://archiveofourown.org/tags/SHAKESPEARE%20William%20-%20Works. 9

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Ad ogni modo, ciò che più conta sottolineare qui è che la teoria letteraria della fan fiction descritta sopra si applica in maniera assolutamente identica ai testi contemporanei e a quelli pre-contemporanei. La maggior parte delle fan fiction dantesche che stanno per essere prese in esame esplora infatti, dalle angolazioni più diverse, il rapporto di amicizia e/o di attrazione omoerotica tra Dante e Virgilio.

4.2 Harry Potter nel nono cerchio: il crossover come critica letteraria Al fine di abbozzare una mappa preliminare del fantext dantesco ho individuato, a partire da un corpus di 114 opere disponibili su Archive of Our Own, un campione ristretto di 13 fan fiction prodotte tra il 2013 e il 2022. Partendo da questo campione, ho poi selezionato i quattro testi, rappresentativi di quattro modalità diverse di approccio alla fan fiction, che saranno oggetto di analisi in questo capitolo. Ho scelto Archive of Our Own come database di riferimento in quanto è il solo ad indicare la Commedia come specifico oggetto di un vero e proprio fandom, cosa che rende il reperimento dei testi attraverso i tag molto più pratico rispetto, ad esempio, a fanfiction.net. Ho scelto inoltre di analizzare le fan fiction che hanno ricevuto più hit, ossia che sono state lette il maggior numero di volte, e che hanno ottenuto il maggior numero di kudos, ossia di complimenti, conteggiati con un sistema analogo a quello che Facebook usa per i like. Ho escluso dalla selezione le fan fiction di genere crossover, ossia i testi «combining two different sets of characters from two media sources into a single story» (Hellekson e Busse 2006, locs. 143-144), in quanto meriterebbero un’analisi di tipo radicalmente diverso, con un’unica eccezione che esaminerò tra un istante. Vorrei così cercare di restituire un quadro dei testi dedicati esclusivamente a Dante e/o alla Commedia che hanno avuto maggior successo nel fandom, e che sono quindi considerati da questa piccola comunità i più riusciti e meritevoli di essere letti – in una parola, i più belli. Le mie analisi saranno orientate da due domande molto generali: cosa succede a Dante e alla Commedia quando vengono transcodificati attraverso la teoria letteraria della fan fiction? In cosa si trasformano? E con quali conseguenze concettuali ed estetiche? Data l’importanza dei criteri di genere che ho analizzato sopra, ho suddiviso le fan fiction in due gruppi: quelle che tematizzano primariamente l’amicizia/attrazione

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sessuale tra Dante e Virgilio e quelle (in numero decisamente minore) che tematizzano altro. Partiamo da queste ultime, più precisamente dal crossover cui mi riferivo appena sopra. La fan fiction dantesca più letta e con più kudos in assoluto è If The Sun Caught Icarus dell’utente dantesstarsxxxii, che ibrida la Commedia e l’universo narrativo di Harry Potter. Si tratta di un lavoro in corso, aggiornato con frequenza, la cui lunghezza si aggira oggi intorno alle 400 pagine – una mole radicalmente diversa da quella degli altri testi, piuttosto brevi, che compongono il mio corpus per questo capitolo. Ne analizzerò solo un piccolo elemento peritestuale che, pur nella sua brevità, può contribuire in maniera importante a comprendere in che senso la fan fiction è un lavoro trasformativo che ha alla base un approccio all’ipotesto tutt’altro che passivo. Come tutti i testi su Archive of Our Own, If The Sun Caught Icarus è aperto da due brevi sezioni peritestuali: un riassunto (Summary), che possiede una funzione analoga al testo sulla quarta di copertina di un romanzo, e una nota (Notes), il cui contenuto è molto libero e nel quale l’autrice cerca spesso di stabilire una relazione con le proprie lettrici.10 Nella nota alla sua fan fiction, dantesstarsxxxii si rivolge alle proprie lettrici dicendo che desidera raccontare da dove deriva l’ispirazione per la storia che segue. Poiché nelle note non è possibile includere immagini, le lettrici sono invitate, prima di continuare a leggere, a reperire tramite Google le due illustrazioni di Doré per il Canto 32 dell’Inferno. La prima mostra Dante nell’atto di afferrare per i capelli Bocca degli Abati, punito nell’Antenora, tra i traditori politici, per essere passato dalla parte ghibellina a quella guelfa durante la battaglia di Montaperti.11 Nella seconda, Dante e Virgilio osservano Ugolino aggredire l’arcivescovo Ruggieri. dantesstarsxxxii prosegue:

Sull’importanza e gli usi di questa sezione peritestuale si veda Meneghelli 2019, 181-85. 11 Allor lo presi per la cuticagna / e dissi: «El converrà che tu ti nomi, / o che capel qui sù non ti rimagna».[…] / Io avea già i capelli in mano avvolti, / e tratti glien’ avea più d’una ciocca, / latrando lui con li occhi in giù raccolti, / quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? / non ti basta sonar con le mascelle, / se tu non latri? qual diavol ti tocca?». / «Omai», diss’ io, «non vo’ che più favelle, / malvagio traditor; ch’a la tua onta / io porterò di te vere novelle» (Inf. 32, vv. 97-99, 103-111). 10

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Figg. 1 e 2 – Dante nell’atto di afferrare per i capelli Bocca degli Abati (sopra); Dante e Virgilio osservano Ugolino aggredire l’arcivescovo Ruggieri (sotto); illustrazioni di Gustave Doré per il Canto 32 dell’Inferno. Fonte: L’Enfer de Dante Alighieri, avec les dessins de Gustave Doré. Traduction française de Pier-Angelo Fiorentino, accompagnée du texte italien, Parigi, Hachette, 1861.

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In case you haven’t noticed, in both illustrations there is a man in a “lake of ice” beside 2/3 other men. When i first saw this illustration my mind travelled immediately to the cave where regulus drowned. In fact, i was so convinced of its resemblance that i opened up my copy of dante’s inferno and went to canto 32 – which this illustration is based on. The sins of canto 32 are this: (Treachery) Traitors to family, traitors to nation, and traitors to guests. Ring any bells? Their punishment: forever trapped in a lake of ice located in a cave. are the bells ringing yet??? (i’m wholeheartedly convinced jk rowling stole this idea from dante). (dantesstarsxxxii 2022)

Il «regulus» cui fa riferimento il passo è Regulus Black, un personaggio minore della serie di Harry Potter, fratello del più noto Sirius Black – il “prigioniero di Azkaban” al centro del terzo libro della serie. Al contrario di Sirius, che si unisce alle forze del bene nella lotta contro Voldemort (l’antagonista della serie), Regulus si unisce alle forze del male, diventando un Death Eater (Mangiamorte nella traduzione italiana), ossia un servo di Voldemort. Nell’ultimo libro della serie, Harry Potter and the Deathly Hallows, apprendiamo tramite un racconto analettico che Regulus ha finito col pentirsi della propria scelta e ha tentato di fare ammenda rubando un Horcrux – uno tra i numerosi oggetti nei quali Voldermort ha infuso un pezzo della propria anima per garantirsi una quasi-immortalità. L’Horcrux in questione è un ciondolo custodito in una caverna, su un’isoletta al centro di un lago12 abitato dagli Inferi, una schiera di corpi morti animati dalla magia al servizio di Voldemort.13 Regulus riesce nel

Le lettrici conoscono già la caverna dal libro precedente, Harry Potter and the Half-Blood Prince, in cui Harry Potter la visita insieme a Dumbledore (Silente in italiano), uno dei personaggi più importanti della serie: «They [Harry e Dumbledore] were standing on the edge of a great black lake, so vast that Harry could not make out the distant banks, in a cavern so high that the ceiling too was out of sight. A misty greenish light shone far away in what looked like the middle of the lake; it was reflected in the completely still water below. The greenish glow and the light from the two wands were the only things that broke the otherwise velvety blackness, though their rays did not penetrate as far as Harry would have expected. The darkness was somehow denser than normal darkness» (Rowling 2005, 560). 13 «The surface of the lake was no longer mirror-smooth; it was churning, and everywhere Harry looked, white heads and hands were emerging from the dark water, men and women and children with sunken, sightless eyes were moving 12

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furto con l’aiuto del suo elfo domestico, Kreacher, ma perde la vita annegando, trascinato nel lago dagli Inferi. Nella nota alla sua fan fiction, dantesstarsxxxii descrive dunque, un passo dopo l’altro, la progressiva attivazione di una fitta rete intertestuale e intermediale. Per prima cosa, l’utente associa l’ambiente raffigurato in due illustrazioni della Commedia – un lago ghiacciato, sotto la superficie del quale stanno dei dannati, su uno sfondo scuro – all’ambientazione di una scena della serie di Harry Potter in cui un personaggio perde la vita annegando in un lago per mano di un’orda di morti viventi. Questa associazione è descritta come istantanea, quasi istintiva: «When i first saw this illustration my mind travelled immediately to the cave». Questa associazione conduce l’utente a consultare il testo dell’Inferno, da cui apprende che il lago illustrato da Doré è il Cocìto, dove vengono puniti i traditori. La lettura conferma e rafforza dunque l’associazione: nel Cocìto sono imprigionati i traditori; Regulus Black ha tradito il fratello alleandosi con le forze del male ed è morto in un lago per mano di un’orda di morti viventi. «are the bells ringing yet???»: secondo l’utente, se si conosce la storia di Regulus, non si può non essere d’accordo con questa associazione, la quale diventa il punto di partenza per lo sviluppo di una narrazione crossover che reinventa l’universo di Harry Potter alla luce di quello della Commedia e viceversa. La nota si chiude con una considerazione di critica letteraria: il Canto 32 dell’Inferno è indubbiamente uno degli ipotesti alla base della vicenda di Regulus Black; o meglio, Rowling avrebbe rubato l’idea del lago dalla Commedia. Anche in questo caso, l’utente esprime una convinzione assoluta nella propria ricostruzione («i’m wholeheartedly convinced jk rowling stole this idea from dante», corsivo mio). La ricostruzione del processo creativo che ha condotto dantesstarsxxxii a elaborare un crossover Commedia/Harry Potter non è apparentemente troppo diversa dalla ricostruzione che l’autore implicito di Valley of the Dead di Paffenroth propone nella sua prefazione al racconto delle “vere” vicende che hanno ispirato l’Inferno. Per Paffenroth, il testo alla base dell’associazione è l’Inferno stesso; per dantesstarsxxxii è un suo adattamento visivo – a sottolineare come la nozione di “te-

toward the rock: an army of the dead rising from the black water» (Rowling 2005, 575). Rowling ha descritto la differenza tra Inferi e zombie in una pagina del sito Pottermore (Rowling 2015).

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sto-sorgente” non debba necessariamente coincidere con il cosiddetto “originale”, anzi: a fungere da ipotesto di un adattamento è spesso un testo a sua volta adattato. In entrambi i casi, l’associazione porta dalla Commedia a un elemento narrativo esterno all’universo dantesco (le vicende di Regulus Black da una parte, l’apocalisse zombie dall’altra). C’è tuttavia almeno una differenza sostanziale: se l’autore di Paffenroth tratta la sua argomentazione con aperta e giocosa ironia, dantesstarsxxxii espone la sua interpretazione del rapporto tra Harry Potter e l’Inferno con assoluta serietà, pur utilizzando uno stile spigliato e giocoso. È un’interpretazione certamente lontana dai codici accademici – affermare che il Cocìto si trova in una caverna, ad esempio, garantirebbe ottime possibilità di bocciatura in un esame di letteratura italiana – ma, del resto, i codici dell’accademia non sembrano interessare dantesstarsxxxii. L’idea che le illustrazioni di Doré possano aver in qualche modo ispirato Rowling – soprattutto per quanto riguarda il lago abitato dagli Inferi – è inoltre, in linea di principio, tutt’altro che implausibile. Nel commentare la nota introduttiva alla fan fiction di dantesstarsxxxii, non intendo proporre di valutare la plausibilità delle interpretazioni sviluppate dall’utente da un punto di vista accademico, quanto piuttosto di valutare le implicazioni che derivano dall’esistenza stessa di queste interpretazioni. La nota a If The Sun Caught Icarus ci dimostra come questa fan fiction abbia origine da un processo ermeneutico complesso – di nuovo, che il processo sia “corretto” o meno secondo i codici dell’accademia è, nel contesto di questa analisi, irrilevante. dantesstarsxxxii offre infatti il resoconto della costruzione di una rete intermediale di immagini e significati a partire da un’ipotesi interpretativa, cui seguono la verifica dell’ipotesi sul testo dantesco e l’analisi delle implicazioni di questa ipotesi in termini di filologia degli avantesti della serie di Harry Potter. L’iter ermeneutico da cui ha origine questo crossover presuppone dunque un soggetto critico – ossia tutt’altro che passivo – che trasforma i testi in maniera tutt’altro che derivativa in senso deteriore. Se, come dimostra Wilson, la complessa tassonomia dei generi della fan fiction è teoria letteraria per la comunità di autrici e lettrici di fan fiction, così le osservazioni di dantesstarsxxxii sono critica letteraria in riferimento a questa stessa comunità, che viaggia parallela alle comunità degli accademici. Da questo punto di vista, le fan fiction dantesche – e le fan fiction in generale – rappresentano un incredibile laboratorio per l’esplorazione di come la critica letteraria possa funzionare fuori dai circuiti dell’accademia.

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4.3 Dalla metariflessività al porno Vorrei passare ora all’analisi di un testo completamente diverso, che annovererei tra le fan fiction dantesche più originali e giocosamente acute. Si intitola If Dante had a beta reader e il suo autore, Dusk Peterson, scrive sia fan fiction che literary fiction. In questo scherzo metaletterario, Peterson immagina che Dante sia un autore di fan fiction che ha inviato il manoscritto della Commedia a un beta reader, ossia a una persona incaricata di dare un giudizio preliminare sul testo e suggerire aggiustamenti prima che venga pubblicato in un archivio online. Il testo di If Dante had a beta reader è appunto la lunga mail con cui il beta reader invia i propri commenti a Dante, divisi in opinioni generali sull’opera e osservazioni puntuali su singoli versi. Questa fan fiction rappresenta dunque un’intelligente variazione su un tema già proposto da Umberto Eco, che nel Diario minimo immaginò la lettera di un editore moderno a Dante nella quale il manoscritto della Commedia viene bocciato.14 Si tratta dunque di guardare all’universo della fan fiction con grande dettaglio – il testo è pieno di termini tecnici che rimandano alle relative definizioni sul portale Fanlore – attraverso la lente ironicamente straniante di un’opera infinitamente lontana dai codici della fan fiction stessa. La beta reader, che si firma “Jenny”, assume fin dall’inizio toni amichevolmente informali: «Dear Dante (do you mind if I call you Dan?)» (Peterson 2013). Il suo giudizio sarà severo, ma seguendo i suoi consigli Dante avrà discrete possibilità di successo su historic_slash, la comunità di Livejournal – il principale social network per autrici e lettrici di fan fiction – specializzata in narrativa slash con protagonisti personaggi storici.15 Tutti i commenti negativi che seguiranno

«Particolarmente gustose mi paiono le descrizioni di astronomia e certi concisi e pregnanti giudizi teologici. Più leggibile e popolare la terza parte del libro, che tocca argomenti più vicini al gusto dei più, e concerne interessi quotidiani di un possibile lettore, quali la Salvezza, la Visione Beatifica, le preghiere alla Vergine. Oscura e velleitaria la prima parte, con inserzioni di basso erotismo, truculenze e veri e propri brani scurrili. Questa è una delle non poche controindicazioni, perché mi domando come il lettore potrà superare questa prima “cantica” che, quanto a invenzione, non dice più di quanto non abbia già detto una serie di manuali sull’oltretomba, di trattatelli morali sul peccato, o la Leggenda aurea di fra Jacopo da Varagine» (Eco [1975] 2022, 160-61). 15 «I think you have a really good fic here, with lots of interesting characters 14

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sono per il bene di Dante: «I’m trying to save you from flames – remember that» (Peterson 2013). Le fiamme cui si allude qui non sono quelle dell’inferno; si tratta, metaforicamente, dei commenti offensivi dei fan: secondo Fanlore, il sostantivo “flame” indica «a comment or message that is hostile, personally insulting, or intentionally offensive» («Flame» s.d.). Traslato dai territori della poesia sacra a quelli della fan fiction, Dante si muove in un mondo in cui la dannazione infernale corrisponde al ricevere insulti gratuiti da parte degli utenti di una piattaforma online. Tra i problemi più seri riscontrati da Jenny nella Commedia c’è quello della self-insertion: You do realize, don’t you, that your main character is a total self-insertion? […] [I]t’s clear as day that he’s an idealized version of yourself. I mean, practically every stranger who meets him knows who he is, some higher-up has arranged for him to get a special tour of hell […], and for heaven’s sake, all those passages about what a wonderful writer he is… (Peterson 2013)

L’espressione “self-insertion” si riferisce alla pratica di inserirsi come personaggi nella fan fiction che si sta scrivendo, in modo che l’autrice possa immaginare di interagire personalmente coi personaggi che ama. Si tratta di una pratica considerata ingenua e di cattivo gusto, a meno che non venga usata per fini ironici o metariflessivi. Secondo Jenny, il fatto che il Dante-autore abbia orchestrato un viaggio ultraterreno voluto da una potenza divina per il Dante-personaggio è dunque un segno di intollerabile boria e abissale ingenuità: come fa Dante a non sapere che le sue lettrici non gli perdoneranno una self-insertion così evidente? Ma non è questo l’unico problema: «Truth to tell, your manuscript is littered with Marty Stus and Mary Sues. I mean, just look at Virgil. It’s positively embarrassing how Dante gushes over him in Chapter One. And when you get to the sequel [il Purgatorio], and Statius is going all fan-girlish over him too…» (Peterson 2013). I nomi Mary Sue e Marty Stu chiamano in causa un altro elemento fondamentale della narratologia della fan fiction, tra i

and fantastic action. With a little work, I think you can make it good enough to post at historic_slash» (Peterson 2013).

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più discussi e criticati in ogni fandom: una Mary Sue è un personaggio femminile troppo bello, troppo abile, troppo talentuoso o dotato di troppi poteri, insomma troppo perfetto, il quale attira l’ammirazione immediata e irrefrenabile di tutti gli altri personaggi; il Marty Stu è il suo corrispondente maschile. Tra autrici e lettrici di fan fiction, inserire una Mary Sue o un Marty Sue è sintomo di un’immaginazione povera e/o megalomane – a meno che, di nuovo, non vengano usati in maniera chiaramente ironica o metariflessiva – poiché la loro perfezione li rende molto spesso inadatti a interagire con gli altri personaggi della narrazione in maniera interessante. Secondo Jenny, Virgilio è decisamente un Marty Stu, poiché gli altri personaggi non fanno che adorarlo – il suo fallimento nel garantire accesso a Dante alla città di Dite, raccontato nei Canti 8 e 9 dell’Inferno e risolto solo con l’intervento di un messo divino, non è a quanto pare sufficiente a scalfirne la perfezione. Da un diverso punto di vista, si potrebbe infatti affermare che l’episodio alle porte di Dite ha forse non come scopo, ma certamente come effetto,16 proprio quello di ammorbidire l’aura di perfezione che circonda Virgilio fin dalla sua prima apparizione. Secondo Jenny anche il personaggio di Beatrice rischia seriamente di essere etichettato come una Mary Sue, ma Dante riesce a “salvarlo:” «Beatrice comes close to being a Mary Sue, but you save her in those scenes toward the end of “Purgatory,” by adding in some rather spicy domestic discipline stuff. That should go over well with the femdom fans, but why did you stop short of having her spank him? Don’t censor yourself!» Il severissimo rimprovero di Beatrice a Dante nel Canto 30 del Purgatorio si spoglia qui di qualsiasi senso morale e teologico per venire reinterpretato in chiave BDSM.17 Nel

Dal punto di vista allegorico, «[l]a sconfitta di Virgilio [alle porte di Dite] significa l’insufficienza delle virtù morali e intellettuali (e del mondo pagano, cultore di esse) a completare un itinerario di emancipazione dal male, se mai mancasse il soccorso divino» (Commento Inglese, Inf. 8, v. 116). Eppure lo stesso Inglese riconosce che l’interpretazione allegorica dell’episodio non spiega perfettamente il fallimento di Virgilio: «ma si rammenti che, fin dall’inizio, Virgilio ha operato per forza del mandato conferitogli in cielo, e non per virtù propria» (Commento Inglese, Inf. 8, v. 116). 17 Per gli aspetti terminologici, si veda Weiss 2011: «The terms SM and BDSM are used interchangeably to denote a diverse community that includes aficionados of bondage, domination/submission, pain or sensation play, power exchange, 16

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contesto della “domestic discipline”, la dinamica rimprovero/punizione è infatti rifunzionalizzata in senso sessuale, con la persona che rimprovera nel ruolo di master e la persona rimproverata nel ruolo sottomesso. Jenny sembra apprezzare la scena, giudicata «rather spicy», ma sarebbe stata ancora migliore se Beatrice fosse arrivata alle sculacciate, performance simbolo della sessualità BDSM: le lettrici femdom, ossia che assumono la posizione di dominatrice in un contesto BDSM, avrebbero di certo apprezzato. Si può leggere la trasformazione di Beatrice in una dominatrix e la rilettura in chiave sessuale di un momento fondamentale del percorso dantesco verso il paradiso non solo come un simpatico esercizio di dissacrazione. Il riferimento alla domestic discipline, così come quello alla Mary Sue e al Marty Stu – insieme a numerosi altri che pervadono questa fan fiction – ci restituiscono un’impressione estremamente vivida e dettagliata di cosa significhi leggere come una lettrice di fan fiction e quali siano i fattori determinanti nel dare forma all’esperienza estetica di questo tipo di testi. La Commedia funge così da ideale lente straniante a partire dalla quale compilare un prontuario delle aspettative, delle preferenze e, più in generale, della galassia di costrutti che orientano le comunità di autrici e lettrici di fan fiction. Ancora una volta, ci troviamo in una sorta di mondo parallelo, dotato di una propria tassonomia che copre non solo i generi letterari, ma anche le funzioni narratologiche (e la Mary Sue è una di queste), e nel quale l’esperienza estetica è mossa prevalentemente dall’esplorazione delle relazioni tra i personaggi. In questo senso, immaginare una Beatrice dominatrix dimostra come la fan fiction rappresenti uno spazio intensamente vitale per l’esplorazione di forme di desiderio e sessualità alternative rispetto a quelle discorsivizzate (e autorizzate) dalla cultura dominante. Si potrebbe addirittura ipotizzare che la distanza storica che separa la Commedia dalla cultura contemporanea, generando un significativo senso di straniamento, catalizzi ulteriormente questa esplorazione tramite

leathersex, roleplaying, and fetishes. […] BDSM is of relatively recent (and, many suggest, Internet) coinage. It is an amalgamation of three acronyms: B&D (bondage and discipline), D/S (domination/submission), and SM (sadomasochism). The use of SM (sometimes S/M or S&M) as the inclusive term predates BDSM, but BDSM is fast becoming the acronym of choice, especially in the pansexual community […]. [A]nother inclusive linguistic term for the community and its practices and practitioners is kinky (with its opposite, vanilla)» (vii–viii).

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l’esercizio ermeneutico innescato dalla necessità di reagire allo straniamento stesso. E che la Commedia si sia trasformata in un ipotesto a partire dal quale poter riflettere e speculare liberamente su questioni identitarie legate alla sessualità e al desiderio – questioni la cui importanza varia da persona a persona, lungo uno spettro che va dall’assolutamente fondamentale all’assolutamente trascurabile – è qualcosa di piacevolmente sorprendente e profondamente affascinante. Un ulteriore commento di Jenny prosegue l’analisi della Commedia dalla prospettiva del desiderio e della sessualità. Si deve ricordare infatti che da questa prospettiva, nella forma della tripartizione gen/ het/slash, dipende anche il genere di afferenza della fan fiction e, di conseguenza, il potenziale pubblico. Jenny è scettica circa la possibilità di far circolare la Commedia come una fan fiction het: c’è sì, in linea teorica, una relazione eterosessuale tra Dante e Beatrice, ma la sua tematizzazione è debole, e per di più Beatrice compare solo alla fine della seconda Cantica. In più, secondo Jenny, questa linea narrativa het è forse solo una scusa per nascondere una diversa e ben più interessante relazione tra i due protagonisti maschili: it’s quite obvious to me that you’re writing a slash story. You haven’t admitted it to yourself (a little internalized homophobia, hmm?), but the subtext is so loud that it screams. “Virgil had left me, and nothing could keep my dew-washed cheeks from turning dark again with tears…” That’s drop-dead gorgeous. Just add a sex scene between Dante and Virgil, and you’ll have the original slash readers Friending you like crazy. (Peterson 2013)

Le lacrime versate da Dante nel momento in cui sta per incontrare Beatrice quando realizza che Virgilio non è più con lui18 si trasformano qui nel pianto di un uomo che ha lasciato la persona che ama davvero per tornare a una relazione eterosessuale socialmente non stigmatizzata, ma decisamente meno intensa della relazione precedente. Jenny non è affatto l’unica a ritenere che il «sottotesto» omoerotico sia palese: come si è detto, la maggior parte delle fan fiction

«Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi; / né quantunque perdeo l’antica matre, / valse a le guance nette di rugiada, / che, lagrimando, non tornasser atre» (Purg. 30, vv. 49-54).

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dantesche partono proprio dal desiderio di portare questo sottotesto alla luce ed esplorarne gli effetti. Concludo questa analisi di If Dante had a Beta Reader prendendo rapidamente in considerazione un elemento del fantext “espanso” per come definito da Hellekson e Busse, più precisamente un commento alla fan fiction da parte di un utente che si firma Jayska: I’m writing a paper on dante right now and it has killed so many of my brain cells because everywhere i look and anything i see just screams SELF-INSERT REVENGE FIC, and was like, hmm.. let’s see if ao3 [Archive of Our Own] has anything, i can’t believe someone else agrees with me on this! and yes dante seriously needed a beta reader, his character dante practically has mary sue tattooed all over his skin. (commento a Peterson 2013)

Il commento di Jayska illustra la porosità che può esistere tra la ricezione scolastico-universitaria della Commedia («I’m writing a paper on dante right now»: il termine “paper” può indicare una relazione o breve saggio scritto nel contesto sia di studi superiori che universitari) e la sua ricezione nel fandom. Questa porosità si traduce, nel caso di Jayska, in una vera e propria contaminazione ermeneutica. Nel lavorare a un paper sulla Commedia – attività che presuppone l’adozione delle teorie letterarie, delle categorie narratologiche e delle strategie ermeneutiche trasmesse dalla scuola e dall’accademia – Jayksa non può fare a meno di interpretarla secondo i generi della fan fiction: «everywhere i look and anything i see just screams SELF-INSERT REVENGE FIC». Jayksa costruisce dunque la Commedia in primo luogo come una fantasia di self-insertion prodotta dal Dante-poeta (visto che ci troviamo in un contesto di ibridazione ermeneutica, perché non chiamare in causa questa classica categoria continiana per parlare di una fan fiction?) allo scopo di vendicarsi di persone a lui note («revenge fic[tion]»), immaginando per loro tormenti infernali. Il contrasto tra l’approccio scolastico-universitario alla Commedia e quello promosso dai fan crea inoltre in Jayksa una fastidiosa dissonanza cognitiva: «it has killed so many of my brain cells». Convinto che il poema dantesco sia appunto una self-insert revenge fic, l’utente consulta Archive of Our Own per verificare se altre persone hanno formulato la sua stessa ipotesi ermeneutica («and was like, hmm.. let’s see if ao3 [Archive

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of Our Own] has anything») e rimane piacevolmente sorpreso nello scoprire, leggendo If Dante Had a Beta Reader, che in effetti è così: «i can’t believe someone else agrees with me on this!». Per di più, autrice e lettrice-commentatrice concordano non solo nell’interpretare la Commedia come una self-insert fic, ma anche nel constatare la fastidiosa presenza di Mary Sue. Se la teoria della fan fiction è teoria della letteratura e le osservazioni di dantesstarsxxxii analizzate sopra in relazione al crossover Harry Potter/Commedia sono critica letteraria – sempre, ovviamente, nella percezione della comunità argomentativa formata da autrici e lettrici di fan fiction – allora il commento di Jayksa è un dialogo critico attraverso cui un’interpretazione promossa da un membro della comunità argomentativa viene confermato come esatto secondo i parametri della comunità stessa. Prima di passare all’analisi di alcune fan fiction che realizzano in forma esplicitamente sessuale il sottotesto erotico che l’immaginaria beta reader Jenny individua nel rapporto tra Dante e Virgilio, vorrei osservare che il desiderio di rendere Virgilio meno perfetto, di cui si è parlato sopra, anima almeno un’altra fan fiction dantesca: A lapse dell’utente Stephen9260. La storia è un’appropriazione del primo Canto del Purgatorio, con focalizzazione sul personaggio di Virgilio, il quale offende involontariamente Catone con la sua captatio benevolentiae.19 Al sentir pronunciare il nome di Marzia, il guardiano del purgatorio reagisce infatti in maniera inaspettata: “Don’t- name Marzia in front of me. I have listened to her every plea in life, but we are now separated. What may please her does not concern me nor moves me to kindness.” what? No- this was not it. Why was Cato saying that? He should have been happy to hear Marzia’s name, that should have been their ticket into Purgatorio…

[è Virgilio a parlare:] «[…] son del cerchio ove son li occhi casti / di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega, / o santo petto, che per tua la tegni: / per lo suo amore adunque a noi ti piega. / Lasciane andar per li tuoi sette regni; / grazie riporterò di te a lei, / se d’ esser mentovato là giù degni». / «Marzïa piacque tanto a li occhi miei / mentre ch’i’ fu’ di là», diss’ elli allora, / «che quante grazie volse da me, fei. / Or che di là dal mal fiume dimora, / più muover non mi può, per quella legge / che fatta fu quando me n’usci’ fora» (Purg. 1, vv. 78-90).

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Catone lascia il pellegrino e la sua guida passare nonostante l’offesa, ma l’incidente porta Virgilio a dubitare della sua capacità di continuare a guidare Dante nel suo viaggio oltremondano dopo l’uscita dall’inferno: Virgil really wanted for him [Dante] not to see how little he knew of this place, how utterly confused he was, how he did not know what he was doing as much as he did when they were back in Inferno and he knew everything […], he couldn’t misstep again like this, he“Is everything alright, Maestro?” “Just- just call me Virgil. A mentor shouldn’t mess up as much as I did before, so just…” (Stephen9260 2021)

Nel tipico stile della fan fiction di genere hurt/comfort con sottintesi omoerotici,20 menzionato sopra, Dante si accorge del turbamento della sua guida, le fa forza e la prende per mano. I due riprendono così il viaggio: Purgatorio had brought so many doubts to him [Virgilio]. Dante looked at him puzzled- worried? […] “Virgil-” started Dante, but then found that he didn’t have words in him that fit, so he simply took Virgil’s hand. And that was enough. (Stephen9260 2021)

Come esempio tipico di narrazione hurt/comfort in un contesto slash, A lapse illustra chiaramente il motivo per cui le figure della Mary Sue e del Marty Stu sono così aspramente criticate nelle comunità della fan fiction. L’effetto estetico di molte di queste narrazioni, soprattutto di quelle con protagonisti uomini in un contesto omoerotico, si fonda infatti proprio sulla tematizzazione di una maschilità insicura, fragile, insomma tutt’altro che perfetta. Come osserva giustamente Kustritz, questo tipo di fan fiction riscuote grandissimo successo – specialmente tra autrici e lettrici bianche eterosessuali  – in quanto permette di esplorare (e godere di) forme alternative di attrazione rispetto a quelle che vigono nel mondo primario, le quali dipendono da canoni di bellezza e comportamento rigidamente eteronormativi.

Uno dei tag applicati alla descrizione di questa fan fiction recita: «could be read as platonic but why would you» (Stephen9260 2021). 20

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Nella fan fiction, invece, molto spesso the characters’ attraction to each other is primarily intellectual or spiritual, based upon a long friendship. They are deserving not because of their appearance, but because of their character. Slash characters could not be described as “perfect” – rather the opposite, as authors spend an inordinate amount of time focusing on and developing their flaws. (Kustritz 2003, 378)

Questa fan fiction, insieme a If Dante Had a Beta Reader analizzata in precedenza, ha già messo chiaramente in evidenza la «playful transgression» (Kustritz 2003, 371) alla base della fan fiction di genere slash, che assume le forme narrative e stilistiche più diverse lungo uno spettro che va dal romance (nel senso che questa parola possiede nella teoria letteraria accademica) alla pornografia. A lapse di Stephen9260 si colloca in un’area piuttosto precisa di questo spettro che Elizabeth Woledge (2006) ha definito intimatopia, coniando il termine a partire da quello di romantopia, usato da Salmon e Symons (2001) per definire il genere più diffuso e commercializzato di romanzi di romance eterosessuale. Secondo Woledge (2006), la categoria di intimatopia si può applicare tanto alla descrizione di un sottoinsieme della slash fiction quanto a quella di un sottoinsieme della letteratura romance commerciale, e circoscrive un’area della cratività letteraria la cui «central defining feature is the exploration of intimacy» (loc. 1414). Alla base della necessità di coniare questo termine sta per Woledge il fatto che «[r]omance novels and pornography, although in different ways, both work to separate sex and intimacy. Intimatopic texts, on the other hand, work to connect these two elements, and this is why they need a separate genre all to themselves» (loc 1416-1417). Lo studio di Woledge dunque conferma ed amplia le considerazioni formulate da Kustritz nel suo influente e già spesso citato articolo sulla slash fiction del 2003: «[s]ex in a slash narrative always occurs within some kind of emotional context, but of particular interest is the fact that sex always has direct and dramatic emotional ramifications» (378). Date queste osservazioni, l’amicizia21 e l’ammirazione che nella

Sui significati del concetto di “amicizia” in Dante e, più in generale, nell’Italia tardomedievale, si veda il volume di prossima pubblicazione di Coggeshall (2023).

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Commedia legano Dante alla sua guida (e viceversa) possono assumere forme che vanno da quelle illustrate da A lapse all’attrazione sessuale che sfocia nel racconto pornografico. Il fatto che, nella Commedia, Dante si riferisca a Virgilio col termine “maestro”, assai facile da trasformare in “master” nel significato che il termine assume in un rapporto BDSM, catalizza inoltre trasposizioni che vanno appunto in questa direzione. Inizio da quella che è sicuramente una tra le più sorprendenti appropriazioni dantesche in senso pornografico: The Miracle of the Reeds, testo del 2020 dell’utente vergilia_43, che parte dalla traduzione inglese di John Ciardi del Purgatorio per raccontare in terzine una scena di sesso tra Dante e Virgilio tra i giunchi che crescono sulla spiaggia alla base del monte del purgatorio. Come in A lapse, si noti anche qui l’ambientazione nella seconda Cantica, statisticamente poco gettonata tra adattamenti e appropriazioni danteschi, ma che su Archive of Our Own ha invece due occorrenze di grande successo. E si noti, soprattutto, che il testo è in versi con schema ABA CDC EFE, ossia lo schema con cui Ciardi adatta la terzina dantesca. La scena che funge da ipotesto è quella con cui si chiude il primo Canto del Purgatorio. Catone ha richiesto per Dante un rituale di purificazione fisica (e dunque spirituale) che sancisca il passaggio dall’inferno al purgatorio: il suo viso deve essere ripulito dalla sozzura e dalle lacrime versate fino a questo punto del viaggio con della rugiada22 e la sua vita deve essere cinta da un giunco, simbolo di umiltà. La scena finale del Canto descrive appunto questo rito, operato da Virgilio: Quando noi fummo là ’ve la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l’erbetta sparte soavemente ’l mio maestro pose: ond’io, che fui accorto di sua arte, porsi ver’ lui le guance lacrimose;

«Il valore simbolico della rugiada come segno della grazia divina è già nella Scrittura, ed è ritrovabile in più testi notissimi della liturgia romana; quindi di immediata comprensione per il lettore di allora» (Commento Leonardi, Purg. 1, vv. 121-123). 22

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ivi mi fece tutto discoverto quel color che l’ inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l’avelse. (Purg. 1, vv. 121-136)

The Miracle of the Reeds inizia riprendendo alla lettera la traduzione di Ciardi, per poi modificarla progressivamente nel corso di quattro terzine: When we had reached a place along the way Where the cool morning breeze shielded the dew Against the first heat of the gathering day, With gentle graces my Sweet Master bent And laid both outspread palms upon my chest. Then I, being not aware of his intent, Lifted my tear-stained cheeks to him, and so He made his purpose clear, revealing my true color For underneath the linen robes his hands did go. There he took me, as it pleased him, laying me Among the reeds, that touched my naked loins, My skirts pushed high by his hands instantly. (vergilia_43 2020)

I primi quattro versi sono identici alla traduzione di Ciardi di Purg. 1;23 la prima modifica viene introdotta nel quinto verso: anziché poggiare entrambe le mani «su l’erbetta», Virgilio le poggia direttamente sul petto di Dante. Nella Commedia, quest’ultimo comprende immediatamente le intenzioni del maestro: «fui accorto di sua arte», che Ciardi traduce con «being well aware of his intent». Il protagoni-

«When we had reached a place along the way / where the cool morning breeze shielded the dew / against the first heat of the gathering day, / with gentle graces my Sweet Master bent / and laid both outspread palms upon the grass» (Alighieri 1977). 23

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sta della fan fiction invece reagisce in maniera contraria: «being not aware of his intent». La divergenza diventa a questo punto radicale. Il testo di Ciardi recita: [I] lifted my tear-stained cheeks to him, and there he made me clean, revealing my true color under the residues of Hell’s black air. We moved on then to the deserted strand which never yet has seen upon its waters a man who found his way back to dry land. There, as it pleased another, he girded me. (Alighieri 1977)

Nel testo di vergilia_43, Virgilio rende “clear/clean” non il viso di Dante, bensì i suoi intenti verso quest’ultimo. A ciò fa seguito un gioco di parole intorno all’espressione “to reveal/show one’s true colors”. Nel testo di Ciardi l’espressione è da intendersi in senso letterale (la rugiada rivela il “vero” colore delle guance di Dante, prima coperte di polvere e lacrime), qui invece in senso traslato: “to reveal one’s true colors” significa “rivelare le proprie vere intenzioni o chi si è veramente”. Il verso viene così a significare la scoperta o rivelazione del desiderio sessuale di Dante nei confronti di Virgilio. Il testo della fan fiction a questo punto prende una strada completamente diversa, mantenendo però lo schema metrico di Ciardi: My Master pressed his lips to mine. My heart leapt and fluttered so in my chest I scarcely thought of Beatrice, my Divine, And rather thought of Virgil, with ecstasy – How his lips felt almost like that of the living, How I looked forward to each caress he offered me. Was this the sin Latini did commit, and for This somehow-holy state of being alone? Under my Guide, I tried wordlessly to convey, “More.” (vergilia_43 2020)

Segue una scena di sesso orale, alla fine della quale i due amanti rimangono distesi tra i giunchi, uno a fianco all’altro. La narrazione si conclude come segue:

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[…] He [Virgilio] still was gasping From our exertions, but said of our bedding, “I had long imagined our consummation with delight, But you, my dearest, made this our wedding “More wonderful than all I ever dared to write.” I bent him down to kiss him then, and we both Smiled when we broke. Ask me where my love lies, And I shall answer even faster Than lightning, and say, “My Master.” (vergilia_43 2020)

The Miracle of the Reeds dimostra perfettamente che tipo di lavoro ermeneutico può implicare la creazione di una fan fiction, anche e soprattutto una a carattere apertamente pornografico, ossia il cui tema è spesso percepito dalla cultura dominante come “basso”. Dopo essersi presentato esplicitamente alle lettrici come la rielaborazione di una traduzione in versi della Commedia, di cui viene anche adottato lo schema metrico, il testo gioca in maniera tutt’altro che grossolana con questa stessa traduzione prima di abbandonarla per proseguire nel racconto di una scena radicalmente diversa da quella che chiude il primo Canto del Purgatorio. Questa radicale diversità non annulla tuttavia la tensione tra ipotesto e adattamento che sta alla base dell’esperienza estetica di un testo trasformativo, anzi: laddove il testo dantesco descrive un rito di passaggio verso la salvezza, il testo di vergilia_43 descrive un rito di passaggio nell’esplorazione dell’identità di due uomini. Se A lapse rappresenta un ottimo esempio di intimatopia, The Miracle of the Reeds può essere interpretato come un perfetto esempio di quel complesso di attività trasformative che Alexis Lothian (2018) ha definito critical fandom, ossia trasposizioni in cui i fan si appropriano dei testi del canon (o, come in questo caso, dei testi del canone letterario tradizionale) per dare voce a forme di soggettività e identità stigmatizzate, represse o socialmente scotomizzate.24 La nozione di critical fandom potrebbe essere messa in relazione, a sua volta, con quella di creative misreading formulata da Finn e McCall (2016) nella loro analisi del fantext shakespeariano. Il termine misreading può assumere tuttavia un significato problematico nel contesto di uno studio del fandom, in quanto presuppone che un testo possa essere letto in modi giusti o sbagliati, creando così una dicotomia che, almeno nella prospettiva di Stanley Fish che sto adottando, non esiste.

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Più in generale, le analisi condotte in questo capitolo hanno dimostrato come il fandom dantesco funzioni come uno spazio ermeneutico alternativo a quello accademico che si alimenta della produzione e fruizione di trasposizioni testuali in forma prevalentemente narrativa. Attraverso queste pratiche trasformative, i membri di un fandom reclamano il diritto a manipolare, reinventare e fare propri i testi che amano, spesso elaborando tracce e indizi che le fan riconoscono come già tematizzati, in forma più o meno celata, nel testo-sorgente stesso. La comunità argomentativa delle autrici e lettrici di fan fiction dantesca non è strutturalmente diversa da quella degli altri fandom, in quanto si alimenta della stessa teoria letteraria, degli stessi schemi narratologici e degli stessi procedimenti ermeneutici che è possibile ritrovare in infinite altre fan fiction provenienti dai fandom più diversi. Si tratta di procedimenti che il mondo accademico potrà giudicare sbagliati o inutili o addirittura dannosi per una “corretta” lettura della Commedia – qualsiasi cosa questa espressione significhi – ma che non per questo sono da ritenersi indegni di legittimità culturale. La fan fiction è infatti la pratica che forse più di ogni altra contribuisce oggi a riattivare il potenziale immaginativo della Commedia, attualizzandolo nelle forme più disparate attraverso l’applicazione di una precisa grammatica della creatività. L’esistenza di un fandom dantesco che produce testi trasformativi dimostra come i significati generati dalla lettura del poema di Dante possano proliferare al di fuori della scuola e dell’accademia, al di fuori della cultura cosiddetta “alta” e al di fuori delle rigide forme “iconizzate” cui si è accennato nell’introduzione. Attraverso la fan fiction, la Commedia (ri)diventa così un testo da leggere con interesse, passione e spirito di investigazione – (ri)diventa, in altre parole, puramente e semplicemente, una fonte di piacere – nonché il punto di partenza di un’esperienza estetica e cognitiva dotata di una pragmatica forte, che conduce ad interrogare se stessi e il mondo. E se si sospetta che la fan fiction possa finire con lo “schiacciare” la Commedia contro altri testi, trasformandola in una narrazione come tante, non si tema: Stanley Fish ([1976] 1980, 170) ha dimostrato che diversi orientamenti della critica letteraria fanno esattamente la stessa cosa. È appunto questo il punto di partenza della sezione conclusiva di questo libro.

Conclusioni: perché trasformare Dante e la Commedia?

Questo libro ha cercato di mostrare come Dante e la Commedia possano venire trasformati quando vengono fatti propri dai membri di due comunità argomentative alimentate dalla creazione e fruizione di testi finzionali, in che modo tali trasformazioni possano essere studiate e quali nuovi significati Dante e la Commedia possano produrre in queste comunità. Vorrei ora concludere cercando di rispondere, adattandole alla ricezione di Dante, ad alcune delle domande che Johnathan Pope (2020) si pone in apertura della sua monografia sul fandom shakespeariano, poiché mi pare che intercettino in maniera puntuale diverse questioni cruciali che sono alla base delle analisi che sono state condotte fin qui: [W]ho owns Shakespeare? Who determines the acceptable parameters for engagement with this playwright? What is at stake when we as academics, scholars, and educators denigrate affective and subjective responses to Shakespeare from our students, colleagues, and the general public? (11)

Per poter rispondere occorre prima fare un passo indietro per tornare a Stanley Fish ([1976] 1980), e più precisamente allo stesso saggio, citato nell’introduzione, in cui questi formula il concetto di “comunità interpretativa”. In Interpreting the Variorum si trovano infatti alcune riflessioni che potrebbero condurre verso una re-interpretazione “radicale” del concetto di “adattamento”, partendo dall’osservazione apparentemente banale secondo cui il termine adattamento descrive la trasformazione di un testo-sorgente in un altro testo che è, per definizione, diverso rispetto al primo. Questa affermazione è possibile, a

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sua volta, solo se si postula l’esistenza di una dicotomia concettuale “uguale/diverso”. Ma è davvero possibile, si chiede Fish, postulare una tale dicotomia? E sulla base di cosa? The large conclusion that follows […] is that the notions of the “same” or “different” texts are fictions. If I read Lycidas and The Waste Land differently (in fact I do not), it will not be because the formal structures of the two poems (to term them such is also an interpretive decision) call forth different interpretive strategies but because my predisposition to execute different interpretive strategies will produce different formal structures. That is, the two poems are different because I have decided that they will be. (169-70)

Secondo Fish, la dicotomia uguale/diverso non possiede alcun fondamento ontologico stabile, in quanto frutto unicamente del complesso sistema di costrutti attraverso i quali una comunità di interpreti produce i significati di un testo e lo pone in relazione con altri testi. Se le cose stanno così, continua Fish, è perfettamente possibile che si dia il caso di una comunità di interpreti che genera sempre lo stesso insieme di significati a partire dai testi più diversi, producendo così, in ultima analisi, sempre lo stesso testo: it has always been possible to put into action interpretive strategies designed to make all texts one, or to put it more accurately, to be forever making the same text. Augustine urges just such a strategy, for example, in On Christian Doctrine where he delivers the “rule of faith” which is of course a rule of interpretation. It is dazzlingly simple: everything in the Scriptures, and indeed in the world when it is properly read, points to (bears the meaning of) God’s love for us and our answering responsibility to love our fellow creatures for His sake. […] This then is both a stipulation of what meaning there is and a set of directions for finding it, which is of course a set of directions – of interpretive strategies – for making it, that is, for the endless reproduction of the same text. (170)

La dottrina agostiniana non è inoltre l’unica ad adottare strategie interpretative che risolvono sistematicamente il diverso nello stesso: In our own discipline programs with the same characteristic of al-

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ways reproducing one text include psychoanalytic criticism, Robertsonianism (always threatening to extend its sway into later and later periods), numerology (a sameness based on the assumption of innumerable fixed differences). (170)

La cornice teorica proposta da Fish ci permette di osservare come, per ogni comunità argomentativa che considera un insieme di testi come incredibilmente vario e infinitamente ricco di variazioni, sfumature, contrasti e trasformazioni, ci sarà sempre almeno un’altra comunità argomentativa che considera questi stessi testi tutti uguali tra loro. Secondo la stessa logica, per ogni comunità che apprezza e ammira determinate strategie di trasformazione testuale, ce ne sarà sempre almeno un’altra che le disprezza. Se si porta poi la teoria di Fish alle estreme conseguenze, si giunge alla conclusione che, se il testo non esiste come unità di significati ontologicamente stabile, allora ogni lettura è per definizione un’appropriazione, e ogni appropriazione ha dunque diritto di cittadinanza culturale, almeno nell’ambito della comunità interpretativa in cui è stata operata. Si può senz’altro non essere d’accordo con questa prospettiva radicale; eppure, adottarla anche solo per qualche momento potrebbe rappresentare un salutare esercizio di stretching cognitivo, capace di spingerci a pensare ai meccanismi della ricezione e alle teorie della trasformazione testuale in maniera il più possibile “pluralista”. Sulla base di queste considerazioni, è forse possibile iniziare a rispondere alle domande che Pope si pone in relazione alla ricezione di Shakespeare, adattandole al contesto di questo studio. Chi possiede Dante? Lo possiedono le comunità argomentative che, nel corso della storia, lo hanno fatto proprio per i motivi e con gli scopi più diversi. Se, dal punto di vista della cultura dominante, queste comunità sono spesso percepite come gerarchicamente ordinate, analizzare la ricezione di Dante, tanto in prospettiva sincronica che diacronica, ci invita piuttosto a considerarle in maniera orizzontale, antigerarchica e antilineare. Chi determina i modi “giusti” e “sbagliati” di entrare in rapporto coi testi danteschi? Di nuovo, ogni comunità argomentativa elabora i propri parametri per determinare cosa sia giusto o sbagliato fare con (o fare a) un determinato testo. Più una comunità argomentativa si trova in alto nella gerarchia determinata dalla percezione della cultura dominante, più essa tenderà a giudicare i parametri impiegati in altre comunità come sbagliati. Anche in questo caso, studiare la

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ricezione della Commedia in comunità argomentative non “allineate” con la cultura dominante ci invita a considerare i parametri ermeneutici impiegati da diverse comunità non in termini di giusto o sbagliato, ma piuttosto in termini di somiglianze e differenze. Veniamo così alla domanda forse più importante in termini etico-morali: cosa c’è in gioco quando accademici e insegnanti denigrano le risposte estetiche e cognitive ai testi di Dante esperite da studentesse, colleghe e lettrici in generale? C’è in gioco una percezione pluralista della ricezione di Dante in quanto complesso di fenomeni diffuso, pulviscolare, che non può e non deve essere irregimentato secondo parametri prestabiliti. Ma tutte queste riflessioni lasciano ancora aperta la domanda che dà il titolo a questa sezione e che è implicita in qualsiasi indagine di testi trasformativi: perché trasformare? Nel nostro caso, perché trasformare Dante e la Commedia? Provo ad abbozzare una risposta a partire da un gioco di parole solo apparentemente gratuito: per il piacere della trasformazione e per la trasformazione del piacere. Da un lato, Dante e la Commedia vengono trasposti e re-immaginati per il piacere di vederli collidere con altri orizzonti immaginativi, con altre possibilità narrative, con qualcos’altro. Non si tratta, con queste trasformazioni, di “aggiornare” la Commedia per adattarla all’immaginario contemporaneo, quanto piuttosto di rileggerla attraverso lenti sempre diverse per far proliferare nuove reti di significati. Dall’altro lato, si re-immagina la Commedia per rinnovare e trasformare il piacere che deriva dall’esperienza estetica della Commedia stessa o di uno dei suoi innumerevoli adattamenti. Ogni trasformazione va dunque messa in relazione non solo e non tanto con uno o più testi-sorgente, ma con le esperienze estetiche generate dai testi-sorgente, poiché è solo nell’esperienza estetica che il testo prende vita. E forse è proprio cercando negli angoli più nascosti e improbabili che possiamo trovare le fonti e i mezzi attraverso cui Dante e la Commedia continuano a proliferare con sempre nuova vitalità.

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