I caffè storici d'Italia. Da Torino a Napoli. Figure, ambienti, aneddoti, epigrammi 8882127206, 9788882127206

Ripubblicazione di un libro di culto degli anni trenta su figure, ambienti, aneddoti ed epigrammi, con illustrazioni d&#

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Italian Pages 220 [225] [225] Year 2010

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I caffè storici d'Italia. Da Torino a Napoli. Figure, ambienti, aneddoti, epigrammi
 8882127206, 9788882127206

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BIBLIOTECA DEL PIEMONTE ORIENTALE diretta da Giovanni Tesio e Giuseppe Zaccaria

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Nino Bazzetta de Vemenia

I CAFFÈ STORICI D’ITALIA DA TORINO A NAPOLI FIGURE, AMBIENTI, ANEDDOTI, EPIGRAMMI CON ILLUSTRAZIONI E RITRATTI presentazione di Stefano Giannini

interlinea

edizioni

La collana “Biblioteca del Piemonte Orientale” è promossa dall’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” e dalla Regione Piemonte © Novara 2010 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 [email protected], www.interlinea.com Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-720-6 Prima edizione: Ceschina, Milano 1939 In copertina: Irving Penn, Gruppo al Caffè Greco di Roma, New York, collezione dell’autore

PRESENTAZIONE

Considerato in alternativa alla più ambigua taverna, il caffè ha sempre goduto di buona fama e ampio successo. Se per la taverna l’immagine prevalente è legata soprattutto al consumo di alcol (uno svantaggio per la civile conversazione e per la conduzione degli affari), al caffè si poteva consumare una bevanda che, secondo l’Usbek delle Lettere persiane di Montesquieu «dà spirito a chi lo beve: almeno, tra tutti quelli che ne escono non c’è nessuno che non creda di averne quattro volte di più di quando c’era entrato». Non si sa quanto alto fosse il quoziente di ironia della perentoria affermazione della lettera, ma è evidente che la bevanda caffè si avvantaggiava già da allora di una nomea per lo più positiva, presto trasferitasi al locale nel quale si serviva. Fin dall’apertura dei primi locali nel tardo Seicento, il caffè è stato il luogo tradizionalmente privilegiato dagli individui in cerca di uno spazio pulito nel quale passare il tempo tra buona conversazione, buone letture e civile confronto di idee. Se per Joseph Addison si trattava di uno dei luoghi deputati (con i club e le sale da tè) alla liberazione della filosofia dal chiuso delle biblioteche e delle scuole, per il Goldoni della Bottega del Caffè rappresentava lo spazio che la piccola e media borghesia, esclusa dai salons, aveva scelto per mostrarsi sana e intraprendente. Immagini idealizzate, senza dubbio, ma non lontane dal vero se si pensa alla clientela settoriale che il caffè riesce a conquistarsi col passare del tempo. Come si leggeva in un numero della britannica “National Review”, un periodico di metà Ottocento, a proposito dei caffè londinesi: Ogni professione, corporazione artigiana, classe, partito aveva il suo caffè preferito. I giuristi discutevano di diritto, criticavano l’ultimo caso o si raccontavano le ultime “ghiottonerie di Westminster” da Nando’s o al Grecian, nei dintorni del Temple… Gli uomini della City si incontra-

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vano da Garraway’s o da Jonathan’s per discutere l’ascesa e la caduta delle azioni e verificare lo stato dei premi di assicurazione. Gli ecclesiastici si scambiavano pettegolezzi universitari o si pronunciavano sull’ultima predica del Dr. Sacheverell da Truby’s o al Child’s. I soldati si riunivano per le loro lamentele all’Old o al Young Man’s nei pressi di Charing Cross.

E così via per altre categorie: i politici whig e tories, gli attori, gli artisti, i dandies, i commercianti, i diplomatici, i banchieri, i filantropi. Allo stesso modo, osserverà Nino Bazzetta de Vemenia, a Venezia i patrizi frequentavano in prevalenza i caffè del ponte dell’Angelo e delle Rive a San Moisè; i letterati quello di Menegazzo, i segretari quello omonimo a San Giuliano, i procuratori di San Marco quello della Nave in calle larga San Marco. L’atmosfera tollerante ha ben presto attirato personaggi anche fuori dagli schemi, compresi nottambuli e flâneurs. La civile conversazione non escludeva la battuta fulminante, o l’insulto in guanto di velluto. Ma l’aurea di spazio democratico, non in contrasto anzi incoraggiata da una clientela a volte irregolare, ha sempre guidato lo spirito originale del caffè, spesso indicato da nomi come quello del Caffè dell’Amicizia di Novara, che un tempo, ricorda Bazzetta, si chiamava Caffè dell’Uguaglianza. In anni di rinnovato apprezzamento per locali in grado di proporre atmosfere stimolanti, rileggere il viaggio di Bazzetta tra i tanti caffè che punteggiavano il panorama della penisola (e del Ticino) alla fine degli anni trenta è salutare fonte di ispirazione. Dopo un breve profilo storico iniziale in cui, ancora una volta, appare chiara l’impossibilità di precisare le coordinate cronologico-spaziali sia del caffè sia del locale che da esso prende il nome (la bevanda arrivò quasi sicuramente dal vicino Oriente, forse dalla penisola arabica, ma quando si può parlare di nascita del caffè come locale in Europa? Nel 1640? Nel 1679? A quale città spetta il primato? Venezia o Torino? Londra o Parigi?), Bazzetta accompagna con scrittura elegante e divertita il lettore nelle decine e decine di caffè storici e letterari ancora esistenti nei suoi anni e rivisita le memorie dei tanti già scomparsi. Quando nel 1939 uscì questo volume sui caffè, il suo autore, nato a Novara nel 1880, aveva già alle sue spalle una lunga carriera di giornalista di costume, polemista, storico ed erudi6

to, con un seguito di ammiratori e nemici che il suo interesse per il pettegolezzo e l’attualità salottiera gli avevano procurato. È proprio questo suo fiuto da segugio per il particolare interessante e curioso, elegantemente mescidato con l’erudizione e l’amore per quello spazio di incontri che è il caffè che rende I caffè storici d’Italia un testo capace di rinnovare ancora oggi l’attenzione dei lettori. Accanto all’amore per il caffè, visibilissimo nelle pagine cariche di affetto che Bazzetta gli dedica, si può individuare una inclinazione al dato antropologico che ben risponde ai nostri contemporanei interessi per le atmosfera d’antan di un mondo in cui l’informazione era prodotta e circolava in maniera più ridotta e controllabile, in cui le dispute letterarie potevano sfociare in duelli, in cui l’abilità retorica (compreso il saper dire onestamente villanie di boccacciana memoria) definiva la persona e ne poteva sancire la posizione tra i membri di quella società. Il passo tra il parlare arguto e il dato letterario è breve in Bazzetta. Infatti l’autore aggiunge alle sue pagine quella sensibilità per la letteratura a cui in Italia il caffè è stato sempre associato. Nella tradizione italiana, infatti, il caffè è soprattutto uno spazio al cui centro stanno la lettura, la discussione e l’elaborazione di idee. È il ritrovo che ispirò il “Caffè” di Verri, la cui influenza prevalse, nelle ricerche e rievocazioni letterarie, sull’aspetto forse più robusto ma meno visibile, di spazio economico e di interazione pratica quotidiana che caratterizzò il caffè, per esempio, della Bottega goldoniana. Se lo stimolo di Goldoni non ricevette lo sperato seguito, anche l’immagine del caffè come accademia fuori dall’accademia (già avanzata in Inghilterra da Addison) è riduttiva e imprecisa. Dopotutto, nei caffè ottocenteschi l’atmosfera sembra più incline a promuovere intendimenti di traffici illeciti, o all’opposto nobili richiami al patriottismo, come quando nel febbraio del ’48 il Caffè Pedrocchi di Padova fu teatro di sanguinose lotte contro le truppe occupanti di Vienna. Più forte, nelle pagine di Bazzetta, è senz’altro l’idea di palestra retorica in cui esercitare l’intelligenza pronta – «aristocrazia dell’ingegno» per Bazzetta – che attraversa e sconvolge l’immobilità plumbea delle classi sociali. Questo aspetto della dimensione dei caffè è colto da Bazzetta grazie a una attenzione felice e efficace agli epigrammi. 7

Genere solo quantitativamente minore nel panorama letterario italiano, l’epigramma è scelto e generosamente antologizzato dall’autore che – si capisce, per indole polemica e abitudine all’osservazione del particolare – lo predilige e lo coltiva con abilità. Sono memorabili quelli che Antonio Baratta (per Bazzetta il vero «sovrano dell’epigramma») componeva nei suoi lunghi soggiorni nei torinesi Caffè Calosso, Biffo, Florio. La sua penna era elegantissima e affilata. Preziosa la risposta di Baratta alla volgarità di chi lo prevedeva, lui in condizioni di miseria, prossimo ministro delle finanze: Ministro di Finanza nominato per mostrar quanto loro sono grato, per cortese favor di certi tali, abolisco la tassa sui maiali.

Le pagine di Bazzetta sono ideali per ospitare i numerosi epigrammi di letterati famosi o dimenticati, di personaggi da caffè la cui memoria oggi vive solo grazie a lui. Sono versi a volte già pubblicati, spesso ricordati e trascritti per la prima volta, che colgono una situazione, che pungono e che danno la cifra di un’atmosfera non sguaiata, intelligentemente controllata ma non per questo innocua. Coerente con la misura rapida e scattante dell’epigramma, aspetto notevole del volume è lo stile brillante di scrittura con cui l’autore affronta quello che potrebbe diventare un elenco debole e tutto sommato noioso di nomi. Infatti, se il suo lungo elenco di caffè inizialmente minaccia il sopore anagrafico, i brevi commenti dedicati ai tantissimi caffè che da Torino, attraverso la sua Novara, i laghi, il Ticino, l’amata Pavia, poi Milano, il Veneto tutto e poi a capofitto verso Bologna, Firenze, Roma e infine Napoli, sono esempi di scrittura vivace, di concisione variata – che non tralascia l’inserto dialettale –, il cui ritmo coinvolge il lettore, città dopo città, alla scoperta d’un mondo che si ha l’illusione di poter ritrovare. Nel testo tuttavia mancano riferimenti al clima politico contemporaneo a Bazzetta. Quando il suo libro è pubblicato siamo nel 1939, anno XVII dell’era fascista come lugubremente ricorda il frontespizio dell’edizione Ceschina. Bazzetta, prudentemente, non s’avvicina al dibattito politico, forse avendo in mente il “qui non si fa politica” che il regime aveva imposto come limite alla discussione nei locali 8

pubblici. Mantiene una linea di impegno indiretto in cui il dileggio politico verso l’autorità (sempre limitato) è riservato a personaggi del passato. Più frequente è il dileggio per motivi di costume, di abitudini, di comportamenti pubblici di personaggi conosciuti come Carducci, o i fratelli Cantù, o altri che «ebbero dal tempo devastata la fama» ma che Bazzetta riporta tra i lettori. Bazzetta ama l’erudizione e ci spiega il perché dell’espressione «figura da cioccolattiere», del potere del bicerin, racconta di bevande oramai scomparse come lo “scottum”. Si diverte a riportare embrioni di storie, burle, battute, come la nascita della tassa sulle «frottole più grosse» istituita al Caffè Arena di Bologna, preclaro esempio di convegno di “spacciatori di storielle”; o osservare come al fiorentino Michelangiolo si riunisse un cenacolo di artisti «che non avevano da cenare»; o come, di fronte all’imperversare dello scandalo della Banca Romana, Riccardo Selvatico, figura conosciuta nei caffè delle Procuratie veneziane, ottenuto il titolo di commendatore, fece stampare un biglietto da visita che leggeva: «Riccardo Selvatico, commendatore a piede libero». Già in grado di avvertire l’avvicinarsi inesorabile dei bar, indice affidabile dei cambiamenti di ritmo della modernità, Bazzetta nota la resistenza dei caffè nella provincia italiana. Sarà Piero Chiara, scrittore geograficamente vicino a Bazzetta, a cogliere saldamente questo motivo. Chiara ha ricreato quegli spazi famigliari (a lui come a Bazzetta) all’interno dei caffè di provincia che tanto spesso ha descritto nei suoi racconti e nei suoi romanzi. È un’atmosfera forse decadente e gioiosamente fannullona, ma che ci avverte del necessario distacco che bisogna mantenere dai fatti della vita, seguendo una massima che si potrebbe identificare così: non prendersi mai troppo sul serio. Oppure: riservare lo sdegno e la protesta ai momenti veramente delicati, consapevoli che gli innumerevoli fatti della vita sono molto spesso meno seri di quel che pare a prima vista. Ironia prima di tutto, come quella che anima le pagine di Bazzetta. Resta l’immagine di un locale che è stato una parte di storia d’Italia, di un luogo della memoria con cui confrontarci. Il caffè, ci ricorda Bazzetta, è crogiuolo di idee, una fonte di discussioni e dibattiti civili, di elaborazione di storie da raccon9

tare e ascoltare. Una volta apprezzata la distanza cronologica che ci separa dall’autore (più di settanta densissimi anni), il suo libro ha il potere di renderci una fotografia di qualità di un aspetto della storia italiana che sta perdendo la sua specificità per rientrare in un quadro più grande, cinicamente monodimensionale, per forza più povero, ma che così non era. STEFANO GIANNINI

La presente edizione riproduce la princeps del 1939 con la sola correzione dei refusi e una essenziale normalizzazione nell’uso dei corsivi, delle maiuscole e delle virgolette. Anche le immagini e le didascalie sono riprese dalla medesima edizione, ad eccezione di quelle alle pp. 18, 102, 148, 151 e 183 (ndr).

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I CAFFÈ STORICI D’ITALIA da Torino a Napoli

A Sua Eccellenza l’onorevole Senatore Conte P. Gaetano Venino, Presidente della “Famiglia Meneghina”, con saldo, devoto, affettuoso ricordo dei giorni di guerra e di pace.

Una “pevera”.

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I. IL CAFFÈ ITALIANO NELLA VITA NAZIONALE

«L’uomo che entra nel gabinetto di toeletta della propria moglie – ha scritto Balzac – è un filosofo, o è un imbecille»: quello che entra al caffè o all’osteria, è un avviato alla conoscenza della morale. Pur non volendo sopravalutare la boutade dell’autore della Commedia umana, è certo che, non di rado, entrando in un caffè voi vedete affissi al muro cartelli che richiamano ai doveri di creanza e di moralità, quali non trovereste neppure in una chiesa: non bestemmiate – è vietato il turpiloquio – non si tollera la bestemmia – è vietato di parlare di politica, ecc. Una storia dei caffè italiani non fu ancora tentata. Hans Barth, il più italiano dei tedeschi, che tanto amò l’Italia, consacrò la gloria delle sue osterie elevandole ad un livello spirituale, tanto che al suo libro smagliante e vivace intitolato Hosteria, credette necessario aggiungere il sottotitolo Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri. Questo libro ebbe l’onore di essere presentato da Gabriele d’Annunzio. Qua e là in libri e riviste troviamo rievocazioni di vecchi e storici caffè d’Italia; ma un volume che ne presenti una trattazione completa non è ancora venuto a precederci. Ricordiamo tra i vari opuscoli rintracciati il rarissimo intitolato: Sei caffè veneziani, pubblicato senza nome di autore e senza data, e stampato dalla tipografia dei compositori di Venezia. Tra gli scritti che parzialmente illustrarono i vari caffè d’Italia, possiamo ricordare: l’opuscolo commemorativo che ebbe l’Hagy di Milano, in occasione del trasloco nella Gal-

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leria del Corso a pochi passi della centenaria sua sede; l’articolo dell’Adami sul patavino Pedrocchi, pubblicato nel 1905; lo scritto del Virgilio, che nell’opuscolo “Torino e i torinesi” rievocò alcuni dei vecchi caffè di Torino; l’articolo dell’autore di questo libro sull’“Ambrosiano” del 1927, rievocante i vecchi caffè milanesi e celebrante le glorie del Cova; e nel suo volume Milano intima un capitolo appunto intitolato: I caffè storici milanesi. Cesare Calzoni, nell’Almanacco della “Famiglia Meneghina” per l’anno 1933 ricordò pure in un capitolo I vecchi caffè milanesi. Adone Nosari dedicava nel 1928 un interessante volume alla “Saletta d’Aragno” cronaca del giornalismo italiano, con tavole e disegni, pubblicato a Roma dalla Sapientia. Pompeo Molmenti in un bell’articolo della “Lettura” rievocava I caffè di Venezia, che il Sugana nella Venezia Notturna – Venezia, Tip. Visentini 1891 – faceva rivivere e vibrare nelle manifestazioni della vita teatrale, caffettiera e bettoliera. * Fu un italiano che tenne a Parigi uno dei più antichi caffè; si chiamava Francesco Procopio Custelli, siciliano; il Caffè Procopio, come fu sempre chiamato, diventò un ritrovo di letterati, di filosofi: Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, gran bevitore di caffè come Balzac, Fontanella, Diderot, Napoleone e altri illustri lo frequentarono. Il Procopio ebbe due mogli e dodici figli; fu dapprima garzone nel caffè stesso, poi socio, poi unico proprietario. Si narrava che la magica bevanda data a Telemaco per consolarlo degli affanni che gli dava la bella Elena – per la quale gli Achei dai belli schinieri si fecero ammazzare per dieci anni per restituirla avariata al marito – fosse il caffè, o almeno quella bevanda che la moglie di Menelao aggiunse al vino, e che Omero chiama nephentes. Si vuol far risalire la coffea arabica ai tempi biblici e nessuna meraviglia deve

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suscitare questa credenza, perché il caffè dovette esistere dalla creazione del mondo e perché l’Arabia non dista eccessivamente dalle terre bibliche. La storia non fa cenno del caffè arabo che nel IX secolo, anzi nell’875, per opera di un medico arabo, il quale lo dice originario della sua patria: è un fatto che gli europei, secondo le cronache, trovarono in Arabia coltivata la pianta del caffè e fu in quel Paese che il commercio fece le sue provvigioni per l’Europa tosto che se ne generalizzò l’uso. Fra le antiche leggende sulla magica e prelibata bevanda, mi piace citare quella che racconta il maronita Naironi nel suo libro De saluberrima posione Cahue seu Cafe e in cui è detto che un guardiano di capre accortosi come le sue bestie vegliavano e saltabeccavano tutta la notte, se ne lagnasse con dei monaci di un convento vicino, e come il priore constatasse che le capre «mangiassero i frutti di alcuni alberi, i quali, fatti bollire nell’acqua, davano una decozione che toglieva il sonno». Allora il priore, si dice, somministrò ogni sera tale bevanda ai suoi monaci per impedir loro di… dormire durante gli uffici religiosi notturni. La poesia popolare si mostrò irriverente verso i re Magi che portarono dall’Oriente droghe e aromi: Noi siamo i tre Re Venuti dall’Oriente, Per imbrogliar la gente Con zucchero e caffè.

Dall’Oriente il caffè passò a Venezia e a Padova e si diffuse per l’Italia tutta. È tradizione che a Torino si aprisse la prima “bottega da caffè”; altri affermarono che Venezia precedesse Torino nel 1640 o che l’apertura fosse contemporanea. Ai tempi di Solimano il Grande, furono aperti i primi caffè; il caffè fu poi proclamato liquore proibito e il sultano Amurat IV, facendo di notte la ronda personalmente per la città, irrompeva colla scimitarra in mano per punire gli

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spacciatori della «bevanda maledetta» che fu chiamata «nemica del sonno e della fecondità». Editti imperiali, dispute di teologi, lotte sanguinose, provocò l’arabico nettare. Gli austeri ulema lo maledirono, quelli più miti lo chiamarono «genio dei sogni e sorgente della fantasia». Ma il caffè vinse e trionfò dalla torre di Galata alla torre del Seraschiere. * Lloyd è il nome adottato da parecchie compagnie di navigazione e di assicurazione. Era questo il nome di un tale, levantino, che alla fine del 700 aveva aperto a Londra in Lombard Street un esercizio (caffè?) nel quale ogni giorno si riunivano i proprietari delle compagnie di navigazione. * Non mancarono i diffamatori dei caffè: si dice politica da caffè, la politica spicciola e avventata, chiacchiere da caffè, oziosi da caffè. Ma Sabatino Lopez poté dimostrare che si impara più in un’ora al caffè che in cinque ore alla biblioteca. Camillo Antona Traversi, visse più al caffè che in casa, vi compose commedie, vi distribuì sorrisi e biglietti; Rovani vi pensò opere insuperate e vi tessé la trama dei Cento anni; Arrigo Boito, Butti, Carducci, andavano ogni giorno a passare qualche ora al caffè. Vi furono signori milanesi, torinesi, veneziani, che passarono più di meta della loro vita al caffè. E qui certo si crearono fame di artisti, di letterati, si demolirono glorie, si distrussero o divulgarono piccole e grandi idee! Il caffè, come l’osteria, è la casa di chi non ha una sua casa; il rifugio di chi vuol pensare in solitudine e sognare anche fra la gente; l’oasi di pace e… di salvezza, lontano dalla moglie iraconda o dalla suocera bisbetica. Il posto di osservazione delle svariate psicologie umane, il centralino delle informazioni cittadine, ed infine un angolo di casa propria in casa d’altri. Gloria dunque al caffè, cantato dai poeti, gustato da

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grandi uomini e piccoli, che nel suo aroma ritrovarono per un attimo sollievo, serenità, forza! Il nostro Parini aveva cantato: Ma se noiosa ipocondria t’opprime E troppo intorno alle vezzose membra Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora La nettarea bevanda, ove abbronzato Fuma ed Arde il legume a te d’Aleppo Giunto e da Moka...

E lasciamo che il Redi si sfoghi a dire nel suo ditirambo: Beverei prima il veleno che un bicchier che fosse pieno dell’amaro e rio caffè.

Il Redi scriveva nel 500… Oggi la macchina degli espressi, lucente come il mitico scudo di Achille, sprizzante vapore, rappresenta la vittoria novecentesca del bar contro il caffè ottocentesco che va passando alla storia. E conviene finire col ricordo che il Redi amava e usava il caffè ed è da Bacco e non da se stesso che lo fa chiamare «rio». Il mondo è fatto di contrasti tanto che il Beccaria fece mettere alla tortura un suo servo ritenuto ladro perché confessasse, pure già pensando al suo celebre libro! Ma l’inno imperiale del caffè fu quello di Giacomo Delille, l’autore del Dithyrambe sur l’Être suprème che glorificando il caffè così lo canta: Il est une liqueur au poête plus cher qui manquait à Virgile et qu’adorait Voltaire, c’est toi, divin café...

Curioso libro sul caffè nel costume antico è questo: – Virtù del caffè. – Bevanda la più salutifera e la meno conosciuta, introdotta nuovamente nell’Italia con un breve Trattato della Cioccolata, dell’erba Thè, e del Ribes Sorbetto Aulico ed in fine i benefizi delle Fresche bevande e le utilità che poco importa il bever in ghiaccio. – In Venezia, Pittoni, 1716.

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Porta Palatina a Torino in una xilografia del 1880 di Th. Weber e A. Closs.

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II. I CAFFÈ DELLA REGAL TORINO E LE CRONACHE DEL RISORGIMENTO

Gaia senza strepito, altera senza orgoglio, Torino può dirsi l’ultima conservatrice dei caffè storici nazionali. Giovanni Prati pontificando tra gli emigrati politici sotto i portici di via Po, mangiava a mezzogiorno al Caffè Diley, chiamato poi l’Accademia, una bistecca proporzionata alla sua statura e alla sua corpulenza, e usava poi passeggiare collo stecchino fra le labbra; passando un giorno davanti all’università, un gruppo sempre crescente di studenti, cominciò a seguirlo cantando in coro una poesia comparsa in quei giorni, opera del Prati, che aveva commossa tutte le tote e le madamin della città, le quali in buona fede, si raffiguravano il poeta come egli stesso si era dipinto: Quale augellin che vagola per le celesti rive, e di rugiada e d’etere, arcanamente vive.

Per una settimana non si parlò d’altro a Torino ed il Baratta scrisse sull’episodio un epigramma che andò perduto. Gli anni dell’ospitalità torinese al poeta irredento furono anche gli anni gloriosi dei caffè nella capitale del Piemonte reale, precorritrice dell’Italia unitaria. Quando si aprirono i primi caffè a Torino? In un libretto di F.A. Tarizzi intitolato Ragguaglio di quanto occorse nell’assedio 1705-1706 della città di Torino si parla di una bottega da caffè di un tale Pompeo, rimasto non meglio identificato; Carlo Botta poi, accenna ad un caffè che doveva esistere a Porta Palazzo dove, reduce della guerra, il principe

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di Anhalt, insieme ai suoi ufficiali tracannò tutto quanto di liquido gli venne fra le mani. I locali erano angusti ed oscuri, sedie, tavoli e panche di legno; le tazze avevano la forma di scodelle senza manico. I vecchi caffettieri erano qualificati acquavitai ed il Vicario di Torino li aveva favoriti permettendo loro di mescere anche altre bibite, pure nei giorni di festa quando tutti i negozi erano chiusi. I caffè andarono crescendo e nel 1839 se ne contavano a Torino novantotto; le monete si gettavano come al tempo della peste, in una conchetta d’acqua, ed il garzone, per dare il resto, tuffava mezzo braccio nell’acqua e porgeva le monete stillanti all’avventore. Fu il Calosso che, nel 1843 circa, tolse questo uso e fece dare ai clienti l’acqua in minuscole caraffe di vetro spesso. Nei pressi del Caffè del Centro certa madama Basile nel 1728 teneva non un caffè, come per errore fu scritto, ma un negozio di oggetti preziosi; al Centro andava Jean-Jacques Rousseau quando, giovane ancora, a Torino copriva l’umile ufficio di valletto della famiglia Solaro di Govone, il cui capo era grande scudiero della regina; il Rousseau corteggiava la Basile che un tempo… come la rocca Paolina, era stata molto bella. Dalla livrea torinese del lacchè, come la farfalla dalla crisalide, stava per uscire l’uomo di mondo, il conquistatore di genio. La Basile era una donnetta deliziosa, dai modi dolci e dalle bianche mani. Il sedicenne Rousseau arrivato da Annecy, senza vesti, senza denaro, senza biancheria, prese fuoco; ma v’era un rivale, un commesso suonatore di flauto, che dovette avvertire il marito che era in viaggio. Monsù Basile, un bell’uomo forte alto, vestito di rosso, arrivò all’improvviso rumorosamente, e dopo qualche preambolo, cacciò via il giovanetto incisore. Fu questa la prima avventura torinese di Rousseau. Quel tale Pompeo che ricordammo, diede nome alla Bottega di Pompeo come fu chiamato il suo caffè. Il Cibrario accenna ad un altro caffè che era in San Dalmazzo di20

rimpetto alla porticina della chiesa; nel 1714 lo teneva un certo Forneris nel palazzo dei marchesi Biandrate di San Giorgio, sull’angolo della via Dora Grossa e via Orfane. Una vecchia canzone accenna ad un … tramontán Cananeo, una testa da gabinet, ch’a savía tutt’i segrèt ogni poc posava l’anca su la famösa banca,

quella dei vecchi caffè dove si leggevano le effemeridi e gli almanacchi. Fu sotto i portici di piazza Castello che verso la fine del 700 si aprì uno spaccio di vermouth e quel ritrovo fu detto “Marendazzo”. Il vermouth che era da molto tempo noto diventò il vermouth di Torino. I successivi luoghi di vendita, divennero fulcri di vita cittadina: nell’archivio di una bottega di via San Tommaso fu trovata la ricetta di un vermouth che «faccio per Sua Maestà». Erano i tempi di Carlo Alberto. E dire che fu Dante Alighieri a segnalare gli elementi per la fabbricazione del vermouth! Mi è caro ricordare dopo tanti anni come, studente a Torino, ebbi ad interessare il compianto Teofilo Rossi su certi versi della Divina Commedia che, a mio avviso, contenevano gli ingredienti del vermouth; molti anni dopo il conte Rossi di Montelera, rievocava in un suo geniale articolo quegli elementi. Il vermouth si fa derivare da veran: sollevare e da muth che significa in antico teutonico linguaggio, spirito. Il poeta fa dire a Forese che la sua consorte Nella lo ha condotto: «a ber lo dolce assenzio dei martiri». E parlando della Fenice, simbolo dell’eterno rinnovamento umano, dice: Così per li gran savi si confessa che la Fenice muore e poi rinasce, quando al cinquantesimo anno appressa; 21

erba né biada in sua vita non pasce, ma sol d’incenso, lagrime ed ammonio; e nardo e mirra son l’ultime fasce.

Del resto i Romani dovevano conoscere una specie di vermouth o vino chinato se chiamavano una loro bevanda col nome di absenthiatum vinum, quello che i francesi per ignoti motivi definivano Vin de Socrate e questo liquore era fatto di incenso (o assenzio) nardo e mirra. * Il Valery, l’unico viaggiatore straniero che parli dei caffè di Torino dal 1826 al ’40, scrive che «la vita di caffè è a Torino assai comune e non nuoce alla considerazione, perché la fanno non solo gli oziosi, ma anche i primi magistrati ed anche i ministri». Molto scarse le indicazioni di caffè nella Guida dei forestieri per la Reale città di Torino, pubblicata nel 1753 da un Craveri. Alcuni caffè erano nella via Dora Grossa, nella contrada Nuova (le attuali vie Garibaldi e Roma) nella contrada dell’Accademia, ora via Verdi, nell’isolato di San Lazzaro che fu tagliato per la costruzione di via Pellico, nella contrada di Po, a San Carlo nella piazza Castello. Giacomo Casanova, il fauno in calze di seta, ricorda nelle sue memorie un Caffè del Cambio, che dovette essere fra i più antichi di Torino, e che durò fino ad oggi. Il Casanova lo frequentava nel 1759 visitando Torino. È il medesimo che il Paroletti individuò nel 1818 quando, discorrendo della piazza Carignano, scriveva: «Cette place est le rendezvous des gens d’affaires et de commerce, a cause d’un café très achalandé ou était autrefois la bourse des négociants». Al principio del 1800 risale la fama del Florio, che, dopo la Restaurazione reale del 1814, accolse il fiore di Torino. Il caffè fu una delle maggiori fucine della pubblica opinione, e Carlo Alberto si preoccupava, se pure non li temeva, dei

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giudizi che uscivano dal Caffè Florio. Egli vi mandava fedeli informatori per udire quanto vi si diceva sulla politica dello Stato. Era chiamato il «caffè d’le cue», perché ambiente di conservatori. Ebbe il merito di aver rimesso in valore il giuoco del Goffo che fu tanto in voga al tempo della Restaurazione. Verso il 1898 il cagnolaio del Florio era un’istituzione. Nel 1845 ebbe grande fortuna una satira sul «caffè dei Codini» di cui riporto una strofa: Là tra vecchion prudenti, di Stato si ragiona che grandi idee, che menti che ingegno ognun sprigiona! Progetti fan novelli fra l’acqua fresca e il thè; evviva i Machiavelli del nobile caffè!

e quei Machiavelli, quei codini dettero all’Italia averi, intelligenza, sangue. Machiavelli che non presentarono ad opera finita, la parcella di patriottismo! Divenuto il caffè dell’aristocrazia e dell’eleganza, quando l’Italia sdegnò – come dice il Viriglio – di ulteriormente poppare alle mammelle di Vienna – il Florio, dovette abbassare le sue arie e divenire più democratico. Ma quanti bei nomi cari alla nostra rimembranza furono clienti affezionati del celebre caffè! Da Giovanni Prati al Lisio, dal Santarosa al Collegno, dal Cisterna al Lamarmora, allo Sclopis, infine a Cavour! Vi furono a Torino persone che dalla prima giovinezza alla morte frequentarono il caffè: quando morì il conte X. Onorio, che passava tutta la giornata in questo celebre ritrovo, d’estate sulla soglia, d’inverno dietro le vetrate, il Baratta ne salutò la dipartita colla terzina: Sia leggera la terra al conte Onorio, la cui morte, ahi! dolore! un vuoto grande sulle panche lasciò del caffè Florio!

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Il Caffè Florio dovette accogliere, cogli aristocratici, mercanti di cavalli, fantini, scozzoni e strozzini, che si infiltravano fra gli eleganti e i signori; più tardi ebbe fra i clienti, i democratici ed allora comparve sulle vetrate la nuova denominazione: Caffè della Confederazione Italiana. Agli avvenimenti del Risorgimento si riallacciano le memorie di un caffè ch’ebbe fama: il Nazionale; fu qui che l’8 febbraio 1848 Roberto d’Azeglio lesse commosso agli amici prima dell’affissione al pubblico, il proclama di re Carlo Alberto che prometteva la Costituzione. Al Nazionale andavano gli ufficiali dei bersaglieri, i professori dell’Accademia Albertina, tutti fedelissimi clienti. Ebbe anche i nomi di “Vassallo” e poi “delle Colonne”. Il Caffè Madera, era un convegno di giuocatori che chiameremo professionisti, e di lettori di giornali e riviste che vi abbondavano; il caffè si apriva fra le vie Lagrange ed Ospedale. Qualche apparizione vi fece Silvio Pellico, passato dalle grinfe dello Spielberg a quelle forse più temibili dei Gesuiti e della marchesa di Barolo! E fu in un piccolo caffè ignorato che nel maggio del 1848 Felice Govean e G. Battista Bottero gettarono le basi della “Gazzetta del Popolo” lottando contro i tipografi che non ammettevano la vendita dei giornale ad un soldo. Nel giugno dello stesso anno, la tipografia Arnoldi stampava il giornale, che venne “gridato” dal noto e barbuto giornalaio Minghetti... Sfilano nelle memorie della regal Torino, altri vecchi caffè, ritrovi di svariate classi sociali; sono l’Alta Italia, di via Dora Grossa, sull’angolo di Sant’Agostino, aperto al pubblico il 18 luglio 1848; tempi di baccanali psicologi, quando l’eco di facili vittorie risonava in Piemonte come gli squilli di una fanfara reale. Il giorno dell’apertura coincidette colla “distribuzione” del vessillo alla guardia nazionale. L’Azeglio in via Principe Amedeo, il Caffè degli ebrei, il Bedotti in Dora Grossa, che aveva una clientela di avvocati e procuratori, il Brunetti, il Biffo, il Chinese, il Corso, il Dante in via Milano, il Gazometro in via Roma, il Piemonte che ave-

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va dodici bigliardi e la specialità di certi salamini che negli anni 1825-’26 formavano la delizia di una compagnia di fedelissimi: Carlo Boucheron, Luigi Cibrario, Lodovico Sauli, Federico Sclopis, Costanzo Gazzera, ed altri ebbero dal tempo devastata la fama. Vi compariva anche Cesare Alfieri, primo scudiero del principe Carlo Alberto di Carignano, del quale fedelmente riferiva giudizi, censure, propositi ed atti della vita. In piazza Solferino ebbe rinomanza il Caffè Catlina che ci richiama alla Marcia Reale... di Gianduja: Virte d’sa Maria Catlina, Veuli ch’it daga ’na siasà?

Alberto Arnulfi, il Fulberto Alarni della poesia piemontese, di professione.... agente di assicurazione, passava le sere ed anche molta parte delle notti, dopo una giornata di lavoro intenso, spesso sfibrante, al Caffè Catlina in compagnia sovente del Pietracqua, nota e simpatica figura di popolano che lo informava di fatti e tipi ambientali torinesi. Là, aveva concepito quella splendida raccolta di sonetti: Sang bleu, nei quali sono magnificamente dipinti i nobili decaduti del suo tempo, ancora infranciosati, titubanti fra il passato e il presente, in mezzo a fenomenali forme di ignoranza e Sor Count e Conseguensse, il dramma intimo di una fanciulla borghese di ricca famiglia sposata per forza ad un nobile dissoluto. Avevano gli eventi dovuto deciderlo a trasferirsi a Roma dalla sua patria; morì nelle braccia di Eraldo Baretti che da Palermo era venuto a Roma, di mal sottile, col pensiero nostalgico alla sua piccola patria alpina: O me cit Canaveis, com’it ses bel! O me cit Canaveis, com’it veui ben!

Torino vide decadere e scemare il numero dei suoi caffè colla “scapitalizzazione” e come dice il Viriglio questa «diede un ben rude colpo nello sciame, il quale si sosteneva per

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l’esistenza bighellona delle falangi annesse al lustro di una sede ufficiale, centro di movimento politico e militare». Non dobbiamo però dimenticare altri ritrovi del periodo aureo dei caffè torinesi: accenniamo all’Aurora in San Tommaso, al Bellardi in via Milano, al Brunetti fra via Lagrange e A. Doria che venne poi chiamato L’Italiano, al Bertino presso il teatro Gerbino, al Massimino in San Tommaso, al Maria Teresa o Capello, che aveva una caratteristica saletta rotonda. Da ricordare poi il Melano, il Monviso, l’Industria Nazionale di fronte alla cosidetta «porta del Diavolo». La Madonnetta, più nota come il «caffè d’j doi sold» che si chiamò anche Industria Artistica e Caffè Benna da un Melchiorre Benna, poi l’Inglese in piazza Statuto, il Genio di via Roma frequentato da Giuseppe Revere, il Giamaica situato nella casa di Carlo Botta in via dei Pellicciai, che aveva un atrio curiosissimo a porticato. Il Caffè Nord era presso il Palazzo di Giustizia ed accoglieva per la colazione avvocati, magistrati, attori e convenuti, dando origine al motto: «La luce viene dal Nord». Ebbe brevissima vita in piazza Vittorio Emanuele il Nuovo; poi c’erano l’Oriente in via Corte d’Appello, il Parlamento in via Roma, la Perla in via Mazzini, bello per un minuscolo giardino e una vasca dove diguazzavano dei pesci rossi e uno zampillo d’acqua freschissima. Al Pontida nella piazza Vittorio Emanuele, convenivano gli emigrati; invece il Marsiglia in via della Palma di vecchia data, era il convegno dei repubblicani del 1799. Così la Rotonda dei ripari, curioso edificio caduto poi collo spianamento dei baluardi; il Sacchi in via Maria Vittoria; il Saluzzo in via Berthollet dove nelle domeniche abbondavano i coristi presieduti da Napoleone, soprannome di un Enrico Mattia. I vecchi attori delle compagnie dialettali andavano per lo più al Caffè Sardegna. Ai santi Dalmazio, Maurizio, Martiniano, Tommaso e Giovanni, erano dedicati altri caffè frequentati da gente della suburra torinese sparita e sparente.

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La colonia veneziana amava fermarsi al Venezia, sull’angolo di via Po e via Rossini; fiorirono ancora l’Unità Italiana, il teatro Nazionale, il Conte Verde che prese poi il nome di Viarengo, centro di nottambuli, delle peripatetiche falene notturne, dei poliziotti investigatori, dei senza tetto e dei viaggiatori in attesa dei primi treni del mattino. Una caratteristica figura frequentava questo caffè; era un barone Ponti Talpa, non inscritto però negli elenchi nobiliari, onusto di infinite decorazioni di svariati ordini, che gli coprivano una palandrana di tipo antidiluviano costellata di macchie; decorazioni che erano tutte... di stagno o di ottone! Tra le più tipiche quella del “Ratto pelato”, della “Barba di meliga”, del “Mulo vedovo” e quella delle “Due cugie” formata da due pendule palle di piombo, che ballonzolavano dal nastro del cilindro lucente. Godeva una piccola pensione del ministero della Guerra ed abitava in casa Noli in via Nizza; morì a ottant’anni il 21 aprile 1895. Una curiosa insegna era quella del Moka, un lampione ad otto facciate che lasciava leggere la parola Caffè Moka in diversi modi fra i quali... Femokaka. Come avveniva al Caffè del Centro, al Moka si pagavano le matricole e si avviavano i minorenni al piccolo giuoco d’azzardo. In via Lagrange sull’angolo di via Cavour c’era il Cairo che conservò il nome, mentre l’altro, quello del Corso, passò attraverso le denominazioni di Penn, Firenze, Carlo Felice. Il vino fu sempre dispensato in tutti i caffè di Torino, ma al Sardegna convenivano gli amatori del Barolo, vino da principi, da prelati, e... d’altri, tanto da ispirare la quartina... Io riassumo da secoli l’onore dei più classici vini del Piemonte, la gloria del mio nome: Mirafiore! splende invitta oltre mare ed oltre monte.

Alla gloria del Barolo che largamente gustò fino allo statum deliciarum si raccorda in Torino la venuta di Tom Pouce il celeberrimo nano di Bridgeport nello Stato del Con-

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necticut, America del Nord, venuto al mondo nel 1832. Dopo un giro trionfale nei due mondi capitò a Torino sul finire del 1847. Aveva attraversata la Francia, la Savoia, il Moncenisio ed era disceso alle rive del Po. Alloggiò a Torino all’hotel Trombetta; affluirono a Torino per vedere il fenomeno migliaia di persone dalla Liguria e da tutto il Piemonte. Erano i momenti precorritori delle libertà statutarie ed una sera al Regio Tom Pouce comparve, fra applausi deliranti, in costume italiano. Il suo viaggio in Piemonte, a Novara, a Vercelli fu accompagnato dal grido «viva l’Italia!», grido che cessò solo al Ticino dove già campeggiava Radetzky. Una sera al Caffè Nazionale avvenne una vibrante dimostrazione al nano meraviglioso che venne accompagnato all’albergo da migliaia di dimostranti. I suoi concittadini lo chiamavano Tom Thumb, era di finissima educazione ed a Parigi Luigi Filippo lo aveva voluto a mensa. * Torino ebbe fra i numerosi caffè delle cioccolatterie che conservarono buona nomea per molti decenni. Questi ambienti ci richiamano all’origine di una frase: «una figura da cioccolattiere», così diffusa nel linguaggio piemontese. Nei primi anni del regno di Carlo Felice, un cioccolattiere arricchito, aveva inaugurato una magnifica carrozza con quattro cavalli di lusso, e scarrozzando per le vie di Torino, ostentava la sua nuova fortuna. Carlo Felice, non vide di buon occhio lo sfoggio di quel parvenu e lo fece avvertire di smettere di fargli ombra e concorrenza nelle pubbliche vie, perché il re di Sardegna uscendo in quadriga per le vie di Torino non bramava «fare una figura da cioccolattiere». Ai sacerdoti era permesso di andare alle cioccolatterie e parecchi di essi frequentavano quella presso San Filippo, dove c’era un caffè che poteva chiamarsi del silenzio. Ben pochi erano i poeti invece che non andavano al caffè.

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La cioccolatta.

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Al Gallina si vedeva il professor Saletta, Lorenzo Dolcitto, che prendendovi il bicerin non dimenticava i quintini del «Porto di Savona». L’arcivescovo Gastaldi era nemico dei caffè e ne vietava l’entrata ai preti, chiamandoli «taberna cafetariae». Ma gli ordini dell’arcivescovo non furono esemplarmente eseguiti, specialmente dal canonico Paolo Brizio, che frequentava il Caffè Calosso e vi portava il verbo del suo nume: Angelo Brofferio. * Gloria al bicerin! Il bicerin fu sempre il pezzo forte mattiniero dei caffè torinesi. Quando Dumas fu a Torino nell’agosto del 1859, lo definì, ammirato così: «Parmi les belles et bonnes choses rémarquées a Turin je n’oublierai jamais le bicerin, sorte d’excellente boisson composée de café de lait et de chocolat» e ne scrive entusiasta alla De Rande. Il bicerin era la delizia di tutte le classi sociali: lo prendevano le serve in fretta e furia tra una provvista al mercato e l’altra, e le dame di quella vecchia scaduta nobiltà, che faceva dire alla bela Rosin alludendo a certe dame dell’aristocrazia decaduta che avevano deplorata l’ascesa della tota di Moncalvo: «Vaire a l’à pagà ij pruss a porta Palass marcheisa?» colla risposta: «E chila, contessa, vaire ij coussot ch’à l’à ’ntla boursa?» riferendo un dialogo verosimile. Il famoso avvocato Benvenuti di San Giorgio Canavese gran sbafatore di bicerin, aveva composta questa quartina: Tempo verrà ch’io sarò ministro, e mangiando capponi farò trarre al capestro chi mai m’avrà pagato bicerini.

Giuseppe Gentile che da lustrascarpe sull’angolo del Caffè Baroni, salì a proprietario del Caffè Alfieri, lasciando alla sua morte circa mezzo milione all’Ospedale della Carità, volle che l’armamentario del bicerin fosse scolpito sulla sua

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tomba. Il tasson è il... carnera dei bicerin; costava cinque soldi e dava diritto ad un supplemento di zucchero. Si contavano, quarant’anni or sono, ben quattordici denominazioni e qualità di... pezzi di immersione nel bicerin: cröciön, biciölan, torcett, giassà, sfoià, garibaldin, tortillie, furè, democratic, savojardina, chiffel, parisien, brioss, bigol ’d frà, pupe ’d monia... * Il Caffè Biffo aveva pure una buona trattoria e vi si davano cene di gaudenti; era in piazza Vittorio come abbiamo accennato, e una volta essendovi andato il professor Lorenzo Martini di Cambiano, insegnante di medicina legale e Rettore dell’università, gran mangiatore ed amico del Baratta, questi così ne cantò l’appetito: Se Giona avesse avuto l’appetito che dimostrò Martini a quella cena, invece d’esser egli l’inghiottito, inghiottiva sé stesso e la balena.

* Sono spariti tanti caffeucci della vecchia Torino; in quella che fu chiamata «la piazza di Torino», l’antica piazza delle Erbe, dove sorge il Municipio, centro dell’antichità torinese, nella contrà d’le pate, la via Corte d’Appello, nella tortuosa stradetta che lasciò poi il posto alla via Milano, presso la “volta rossa” e il porticato contorto che arrivava alla via Dora Grossa, nella contrada dei panierai, divenuta via Palazzo di città, nella contrà dle frole, corrispondente ad un tratto della via Conte Verde, per lungo giro di anni ebbero vita ritrovi più o meno famosi, ma che tutti contribuirono a dare alla vita di Torino una specialissima fisionomia, ricca di aneddoti, di tipi e di figure che il tempo non tutte ha fatte cadere nell’oblio.

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Nel novembre 1936 è sparito l’antico Caffè Romano, che già aveva subito una riduzione ambientale. Sulle scene del caffè chantant passarono dinastie di artisti d’operetta e di varietà; giocolieri e ginnasti di tante nazioni e vi comparvero i primi artisti veri: Pasquariello, Maldacea, Villani, Petrolini, Fregoli e tanti altri vi sfilarono agli albori della loro carriera Il vecchio “Romano” accolse Francesco Crispi quando, diventato capo del governo, parlò ai rappresentanti della sinistra parlamentare adunati a banchetto, esponendo le ragioni della necessità di un’espansione coloniale. Al posto del palcoscenico che vide cogli altri Tosti, Di Capua, Donnarumma, Campi, Denza sorgevano un laghetto, una cascata, una grotta. * Qualcuno degli scomparsi caffè di Torino ebbe una vera storia: tra questi, il Caffè del Progresso, che si apriva nel palazzo di via Vanchiglia all’incrocio di via Verdi. Di stile rinascimento, sorto più di un secolo fa per opera del marchese Carlo Emanuele Birago di Vische, per la sua originale planimetria, ricordava lo scafo di una nave. Ne fu architetto il famoso Alessandro Antonelli. Il marchese lo eresse in un luogo allora solitario, fra i prati, per creare un rifugio ai carbonari e la costruzione fu avvolta un po’ dal mistero, perché si fecero due piani sotterranei e due innalzati; due gallerie vennero aperte per via di scampo ai cospiratori, una che conduceva ai murazzi del Po, l’altra si raccordava coi sotterranei di palazzo Madama. Grande sorpresa per i torinesi vedendo aperto un caffè in un luogo deserto! V’erano sale di stile impero, poltroncine di velluto rosso, tavolini di marmo. Deserto di giorno, si animava alla sera. Una botola portava ai sotterranei delle riunioni dei carbonari. Si chiuse quattro anni dopo la morte del suo vecchio proprietario, il garibaldino Alessandro Dalmazzo, fervente patriotta che

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conduceva i clienti in un piccolo gabinetto, presso la sala centrale, dove non c’erano altri mobili che un tavolo di marmo ed una seggiola. «Qui veniva a rinchiudersi Camillo Cavour per prendere il caffè» narrava il Dalmazzo; ai privilegiati, lasciava vedere la tazza di maiolica usata dal Tessitore, agli intimi permetteva di toccarla. Studente di università a Torino nel 1901, ebbi anch’io tale onore. Morto ad 84 anni il Dalmazzo, la vedova Maria Zorelli continuò a narrare le vicende del caffè, e sul palazzo venne murata questa epigrafe: Questo palazzotto fu fatto costruire cent’anni fa dal marchese Birago di Vische Carlo Emanuele I su disegni dell’ing. Alessandro Antonelli. Qui convennero i più illustri carbonari e i più alti personaggi d’Italia, fautori dell’unione, dell’indipendenza, e della libertà degli Italiani: da Cavour a Garibaldi, a Francesco Crispi. Fu fatto restaurare dal dott. G.A. Martinetti, su disegni degli Ing. Ganeo e Fanti; ne eseguì le opere l’impresa Strambi e C., 1931-IX.

Al celebrato Caffè Alfieri non andò forse mai il fiero conte astigiano, grande amatore di cavalli, che di sé poté dire coll’Ariosto: «da cavalier cavallar mi feo». E neppure la stagionata contessa d’Albany, grossolana tedesca, che tradì il marito vecchio coll’Alfieri giovane, più tardi l’Alfieri con un pittore francese e che, al dire di Papini, «tradì finalmente la posterità che la crede ancora una delle tante Laure venute in terra a grattare la pancia ai poeti cicale» provocando quell’atroce epigramma: Sull’Arno ammirano i forestieri una reliquia del conte Alfieri; si dice il fodero...

Il resto non può esser ripetuto. Ai tempi di Torino capitale il caffè era frequentato da uomini politici e ufficiali; vi primeggiava il Prati; in incognito apparve anche Vittorio Emanuele col generale Galletti. Qualche comparsa vi fecero pure Della Rocca, Lamarmora, Cialdini, Durando; vi passò Garibaldi; parecchi ge-

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Da sinistra, un “nume” del Florio, il cavalier Lustra e il «cavaliere senza camicia», Antonio Baratta, il primo epigrammista dei caffè del Risorgimento.

nerali francesi lo predilessero nel loro soggiorno torinese, anche Nigra e Cavour, Sella e Lana, Balbo e D’Azeglio, pur fugacemente lo frequentarono. * La vita dei portici di via Po, non potrebbe narrarsi senza ricordare il Diley; qui si accampavano quegli ultimi vecchi cortesi dai lunghi solini inamidati e dai catramini superstiti a bomba o a mezzo cilindro, come li portava a Milano ultimo tra gli ultimi, il Cottalorda. Sapevano questi vecchi, arrotondare il gesto come D’Artagnan, al cospetto della regina, e modulare la voce al pari di Cirano, sotto il balcone della bella, o inchinarsi come Armando davanti a Margherita. Il Diley era il punto di ritrovo della novella nobiltà improvvisata; un tempo aveva veduto Massimo D’Azeglio fermarsi avvolto nel tipico mantello alla Fra Diavolo, o i cospiratori dal largo cappello, che gridavano l’evviva a re Vit34

torio Emanuele il quale ringraziava dicendo «Sì, cari fioeui, viva l’Italia, lasseme passé ch’à jè chi c’am speta». Negli anni 1848-1849 il Diley ebbe una clientela repubblicana che per varii incidenti sopravvenuti e per le frequenze dei referendari nel caffè, lo abbandonarono; prese poi il nome di Caffè dell’Accademia che era nella vicina via della Zecca, e dove si preparavano gli ufficiali del Genio e dell’Artiglieria. E fu al Diley che molti anni dopo della pubblicazione dell’Edmengarda di Giovanni Prati, quella che fece tanto piangere gli occhi belli delle belle e brutte romantiche d’Italia, quando già il poemetto era dimenticato, un pomeriggio un amico del poeta mostrandogli una donna bionda, ma sfiorita, gli disse: «Sai chi è? Ildegarda Manin, la tua Edmengarda. La conosco. Vado a salutarla. Voglio sapere se desidera dopo tanti anni conoscere di persona il poeta che ha così nobilmente cantato il suo amore infelice, il suo lungo e pietoso martirio». E dopo pochi minuti l’amico ritornò per dire al poeta che essa non voleva conoscerlo, che nulla più ricordava del tempo lontano, che abbandonata dal marito e dal figlio non ricordava che Zenadio, morto da anni, quell’orribile Leoni che alla luce della critica non fu altro che un volgare sfruttatore ed avventuriero. Al Diley compariva anche Arturo Graf che avendo sposata la ricca, ma anziana vedova dell’editore Loescher fu attaccato da un epigramma di Ernesto Sarasino: Della letteratura nostra lustro e decoro per brama di cultura sposava… il secol d’oro!

* Di antica fama il Caffè Calosso che nel 1847 diventò la Lega Italiana. Erano i tempi precorritori del grande carnevale quarantottesco, quando per favorire le idee della rivoluzione, si andavano mutando nomi di circoli, di società, di ritrovi, di ambienti. 35

Il Calosso era situato in via Dora Grossa al numero 1-3 dove fu poi aperta la libreria Lattes. Il Calosso ha una sua storia. Fra gli incidenti che vi si svolsero fu l’aggressione dell’avvocato Bersezio da parte di uno dei figli del conte Lazzari capo della polizia, e già colonnello dei carabinieri, in seguito ad un articolo del “Fischietto”. Angelo Brofferio, il gran trombone della democrazia piemontese, vi pontificava; ma sovente era colpito dai sali attici di Antonio Baratta, il famoso epigrammista, detto per la sua povertà e perché cavaliere mauriziano... «il cavaliere senza camicia». Il Brofferio vi fece inutile propaganda repubblicana. Al Calosso andavano Tegas, Bersezio, Chiaves, tutti liberali ed in essi la polizia vide una specie di società secreta, tanto che il proprietario dovette cambiar nome al caffè. Il primo caffè che sostituì i famosi e fumosi quiquets colla luce a gas idrogeno, fu il Caffè della piazza d’Armi, poi San Carlo, uno dei classici caffè italiani, e la sostituzione avvenne nel 1822. * Il Molinari dovette cedere alla legge del tempo e questo caffè ristorante della bohème dorata, lasciò tanti cocenti rimpianti. Sui rossi divani del “Moli”, si diedero convegno letterati ed artisti, attori e scrittori, e pubblicisti e tribuni e uomini politici al tempo in cui Gandolin registrava in Italia diciassette partiti politici. Vi libarono in lietissimi calici Butti e Giacosa, Lopez e Pastonchi, Virginia Reiter e Tina Di Lorenzo, Irma ed Emma Grammatica, Dina Galli e Lyda Borelli, Calabresi e Gandusio, Scarfoglio, Bergeret e Gozzano. I due “ninfi” erano Cichinet e Bastianin che assistevano alla gloria dell’ambiente e vi si vide anche il Marsaglia (che doveva poi morire in una sciagura aviatoria) entrarvi con una rumorosa automobile. Sui tavolini del Molinari, scrisse la maggior parto dei suoi versi notturni Ernesto Ragazzoni, dalla capigliatura a 36

“cavaturaccioli”. E, poiché un illustre cuoco inviava ai clienti dei piatti degni del paradiso egli scrisse i versi della Lasagna e della Cocota del buon re Momotombo che era una «cocotta al cocco poco cotta». Una figura da non dimenticare fu quel Francesco Metzger, notissimo proprietario della fabbrica di birra e intinto di letteratura che entrando all’ora di cena ne usciva a quella della colazione. In tempo di guerra cominciò la decadenza del Molinari che fu malinconicamente affrettata dalla tragica fine del povero Cichinet, che dava a tutti del tu, e che morì miseramente in una sciagura automobilistica. La nuova guardia artistica tentò di galvanizzare le tradizioni e le memorie del luogo, ma dopo un effimero bagliore questo si chiuse con tutti gli onori delle armi. Torino vide anche dei cafferucci ambulanti, quelli che a Milano si chiamavano del genoeucc. Fra i “brandisti” fu celebre monsù Tasca che dopo aver posteggiato in piazza della Legna e altrove, girava per via Roma di notte col suo carrettino e incontrando un possibile cliente, gli presentava un bicchierino; se costui rifiutava, il brandista, socchiudendo gli occhi lo tracannava esclamando: «A lo veul nen chiel? I lo bevo mi!» e sorrideva gonfiando le gote, accese per le vampe dei grappini. Aveva avuto allora fortuna la sestina: Cerea, monsù Tasca, ch’a cala giù da li, ch’am daga un cichet ’d branda ’d cola ch’am pias a mi: ch’am daga ’d branda forta ch’am fassa digerì!

La rassegna dei tipi dei vecchi caffè torinesi non può finire senza la tipica figura del cavaliere della Rocchetta che passava gran parte della giornata nei caffè antichi di via Po. Sovente si accontentava di un bicchiere d’acqua e la sua tipica figura di patrizio decaduto, resa più solenne da un po37

deroso cilindro, era il complemento dei vecchi portici. Il cavaliere Parrucca della Rocchetta, stravagante figura di patrizio che poteva dirsi il sosia di Bottero andava al caffè a leggere i giornali, mangiando una libbra di pane e come dicemmo, bevendo sovente la francescana... «sorora acqua»! Aveva 5 lire di rendita giornaliera, che, tolti esattamente 30 centesimi al giorno per il frugalissimo pasto e 25 per l’alloggio, andava ripartita tra i tentativi per la pietra filosofale e la coltura delle dalie azzurre, due sue manie. Aveva ancora la passione delle più disparate raccolte: manichi di ombrelle, bottoni, fibbie di scarpe, e... calli tagliati, tutti elencati in cataloghi. Era pur geologo. Dimorava in una soufietta di via Lamarmora vicino ad un altro nobile decaduto: Enrico Balbiano di Viale pittore di merito e patrizio in rovina e sulle due porticine erano scritte queste indicazioni: in una: In questa miserabile soffietta, Dimora il cavalier della Rocchetta

e sull’altra: Dentro di questo povero trabiale Abita il conte Balbiano di Viale

Alla Madonna degli Angeli si poteva vedere ogni mattina il Campanella che a 106 anni, giuocava strenuamente alle boccie; lo accompagnavano la moglie e la figlia e la venerabile trinità contava 250 anni! * Il primo caffè chantant, d’importazione francese, sorto a Torino, credo fosse quello della contrada di Porta Nuova, che si chiamò poi via Roma, di fronte all’albergo della Zecca. Era un locale lungo, che fu poi occupato da un magazzino di cornici e specchi.

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Vi furoreggiavano certe dive mature, passate in posizione ausiliaria come cantanti… ma il fascino delle loro gambe non venne mai meno. Il posto d’onore dei caffè chantants torinesi lo tenne il Romano, all’imbocco della Galleria Subalpina che diventò il ritrovo dell’aristocrazia e delle etere domiciliate a Torino e di passaggio. L’Emilia si chiamò il piccolo Romano di Porta Palazzo, ma lo superarono in fama il Montecarlo, il Madrid, il Lago Maggiore, il Bosio, la Follia, il Guala. * Torino è come Venezia l’ultima delle città italiane che vide resistere il caffè. Il caffè va lasciando il posto al bar, più adatto ritrovo in questi tempi, in cui il ritmo affrettato della vita non consente le lunghe soste davanti alla tazza... non più fumante «dell’amaro e rio caffè». Ancora la vita di caffè resiste nei paesi di provincia: fra quelli del Piemonte non vogliamo dimenticare il Caffè di Cavour, la rocca del presidente, che poté chiamarsi per un mese all’anno, una piccola succursale dei caffè torinesi. Quando Giolitti di bombardata memoria, era in vacanza a Cavour, e si spogliava per intero dell’abito presidenziale, vivendo a modo suo, frequentava il vecchio caffè, dove disse tante delle sue barzellette, le “drolarie” che giravano dal palazzotto di via Plochini a Montecitorio. Non andava al caffè ad un’ora fissa per farvi la partita alle carte, all’ombra della rocca di Cavour, e quindi quelli che partivano da qualche città per vedere da vicino l’uomo di governo, arrischiavano spesso di attenderlo per varie ore nel vecchio ritrovo. Egli vi andava sempre in compagnia del suo vecchio amico monsignore Bernardo Arata. Sedeva sempre in un angolo discreto, dal quale vedeva tutti entrare senza essere veduto e, Gianni il nichilista, come lo chiamavano gli intimi, se la svignava quando non era desideroso di parlare. Giolitti, ri-

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masto uomo semplice anche attraverso dieci anni e sei mesi di governo, non aveva perduto l’amore della campagna, che era stata la passione di Cavour, ed amava coltivare, all’ombra di un il enorme cappello di paglia, l’orto. Divenne celebre una certa insalata, della coltivazione della quale si interessava personalmente, e di cui faceva… omaggio ad amici e conoscenti non lasciando ultimo il caffettiere di Cavour. Era naturale che l’insalata divenuta celebre, fosse anche celebrata e difatti circolò per il paese e fuori la quartina: L’insalata del presidente è gradita immensamente oh, se a qualche fogliolina s’attaccasse una crocettina!

* Fiorì anche a Torino, particolarmente durante gli anni del Risorgimento, dal 1848 al ’66 l’epigramma. Napoleone definiva l’adulterio... un affare da canapè. L’epigramma può ben definirsi una produzione da caffè. Dall’Alfieri, dal Calosso, dal Florio, uscì una legione di epigrammi che raccolti e studiati potrebbero riflettere trent’anni di vita cittadina. Prati, Baratta, Paravia, Brofferio, Romani, Bianchi-Giovini e altri parecchi furono autori e vittime di tale forma di componimento letterario a base per lo più aggressiva. Un epigramma può ammazzare un uomo; come al dire di un poeta, il gatto solo può guardare ironicamente un re. Questi signori si davano del ladro, della spia, del furfante, del lenone, del venditore della moglie, della canaglia, del Giuda! Sovrano dell’epigramma era Antonio Baratta, genovese, il «cavaliere senza camicia» vissuto a Torino, già addetto consolare, scrittore, nato nel 1802 e morto nel 1866, conservatore, uomo d’ingegno, ridotto a passare le notti dall’uno all’altro caffè, non avendo spesso un origliere proprio dove posare il capo. Morì all’Ospedale Mauriziano.

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Scriveva al Calosso, al Biffo, al Florio e in altri luoghi di ritrovo. Ecco alcuni dei suoi strali; il Brofferio, col quale fu in continua polemica, aveva detto di voler prendere a calci il Baratta, ma questi gli rispose:. Dare un calcio, Brofferio, a me ti vanti? Che picciol dono da chi ne ha presi tanti!

ed ancora: Dimmi, pagliaccio, il calcio che cortese mi promette la penna tua maestra, è quello che prendesti da Borghese, o quello che prendesti da Balestra?

e per la tomba di Cavour: Passegger, troppo vicino a quest’urna non t’accosta, se si sveglia l’inquilino paghi subito l’imposta.

Avendo Napoleone III conferita la Legion d’Onore al conte Luigi Cibrario, il Baratta che stimava assai il ministro e storico di Casa Savoia, gli mandò un biglietto di congratulazioni col distico: poiché già tante croci i re t’han dato, possa darti la sua Ponzio Pilato.

È noto in quanta permanente miseria versasse il povero Baratta, ma alcuni burloni sparsero la voce della sua prossima nomina a... ministro delle Finanze; egli si vendicò subito così: Ministro di Finanze nominato per mostrar quanto loro sono grato, pel cortese favor di certi tali, abolisco la tassa sui maiali.

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Il più celebre forse degli epigrammi fu quello sulle continue polemiche fra Brofferio, Bianchi-Giovini ed altri, polemiche che veramente cominciavano a stancare i torinesi: Bianchi-Giovin, Brofferio e compagnia si dan fra loro del ladro e della spia, altro sul conto lor non vi so dire che li credo incapaci di mentire.

Poco prima di morire il Baratta passava per i viali del Valentino, dove si stavano tagliando dei vecchi rami di alberi; un pezzo di legno gli cadde sulla testa: fu portato a casa dove il Brofferio, da lui tante volte attaccato, andò a vederlo ed ebbe modo di constatare la grande miseria nella quale viveva. Lo fece condurre all’Ospedale Mauriziano, dove, prima di morire scrisse su se stesso questo epigramma estremo: A lieto premio del mio lungo canto di quercia un ramo desiai soltanto, ma la città che il toro ha per bandiera m’incoronò con una quercia intera!

Al funerale del Baratta erano presenti due soli amici: uno di questi, se è vero, era Cesare Cantù. Così finì il «cavaliere senza camicia».

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III. I VECCHI CAFFÈ MILANESI

«Te voeut fènilla, o asen?» L’esclamazione risuonò al Monumentale durante i funerali di Giuseppe Rovani, quando un tale pronunciando l’elogio funebre del grande critico voleva coll’esempio di Orazio scusarne «le classiche voluttà dell’intemperanza». Per fortuna il discorso era finito davvero, tutti si mossero seguendo il feretro al Famedio e l’interruzione fu udita da pochi. Ne era autore un piccolo uomo dalla grande testa, Emilio Praga che parlava per... fatto personale! Eravamo alla fine di gennaio 1874, in una triste giornata, scendeva una pioggerella gelida e penetrante e si chiudeva la vita terrena di un genio. Il povero Praga aveva in quel momento pensato alle peregrinazioni sue e del Rovani nei varii caffè ed osterie di Milano, dall’Hagy al Polpetta, dal Canetta al Rainoldi, dal Campari al Caffè del teatro Manzoni. I frequentatori dei vecchi caffè settecenteschi avevano poco da scegliere; le consumazioni si riducevano poco più che al caffè prima bollito, detto “torbolin”, poi filtrato; quando si introdussero le macchine da caffè, la cogoma di rame dal lungo manico, era pronta sulla bragia e una tipica brasera di ferro accoglieva sovente la caffettiera. Oltre al caffè v’erano il cioccolato, la “barbajada”, l’agher, fatto di limone, il tamarindo, l’orzata e le marene in sciroppo; poi qualche altro sciroppo, il marsala e ben poco o nulla d’altro. I primi caffè di Milano si aprirono nella Corsia dei Servi, alle Pescherie, sotto il portico dei Figini, nella vecchia cerchia del Duomo. Pochi i giornali che vi si potevano trovare, per lo più la “I.R. Gazzetta”, dopo il 1814; il “Caffè” del Verri molti an-

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ni prima, ed al tempo giacobino gli strampalati fogli ufficiali od ufficiosi. Il privilegio della lettura però era dei pochi clienti detti di qualità, che godevano di tal nome, perché l’andare al caffè era un lusso a pochi consentiti. I primi caffettieri di Milano furono quasi tutti del lago Maggiore, di Lugano, del Veneto. Alcuni rimasero nella città creando vere dinastie di successori. Parecchi di Brissago, di Cannobio, di Locarno, divennero anche albergatori come i Petrolini, i Bazzi, i Borlotti, i Barbitta, i Chierichetti ed altri. Durante la rivoluzione ebbe nomea il Cambiaso, chiamato anche Cambiaggio, presso il teatro della Scala; narrasi che un giorno vi passasse davanti un frate ed alcuni giovani scapestrati dalla soglia lo dileggiassero. Il frate si fermò e disse pacatamente: «Il governo ci lascia vivere per poter accompagnare i giovani scapestrati alla ghigliottina». Il frate fu applaudito. Il buon senso c’era, come dice il Manzoni, ma stava nascosto per paura del senso comune. Fu in questo caffè che il Barbaja napoletano, impresario e protettore di Vincenzo Bellini, introdusse la “barbajada”, che da lui prese nome e che divenne assai popolare. Era uso del padrino di Cresima offrirla al Cresimato ed alla sua famiglia, così come il giorno della prima Comunione, dopo la cerimonia si passava al caffè a sorbire la barbajada coi biscotti. Anche nelle famiglie era diventata la bevanda di riguardo e in tal modo particolare la si offriva ai sacerdoti quando erano chiamati a dire la messa presso qualche cappella privata. Il Caffè Demetrio ebbe il vanto di servire da soggetto al “Caffè” di Pietro Verri, giornale uscito nel 1764 e durato fino al 1766. Il Rovani nei Cento Anni dice che «la società del caffè Demetrio [era] tanto rinomata per il suo spirito, che per dare spaccio al suo giornale, Verri stesso, ha stimato bene di dar ad intendere che venga pensato e scritto qui». Il Verri era malignamente chiamato «il saputello di Milano» per la sua omnigena pretesa comprensione di tutto lo scibile umano del suo tempo!

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Il Caffè Balzaretti, ricordato nei Cento Anni dal Rovani, in una stampa della prima metà dell’Ottocento è qualificato «posto sulle prealpi al nord di Milano». Il Caffè delle Colonne a San Babila, dalla facciata a foggia di tempietto colle colonne e durante le Cinque Giornate fu la vera… colonna della resistenza a San Babila. Nella corsia del Giardino, l’attuale via Manzoni, figura il «caffè tenuto dal cittadino Castelli» che era chiamato il caffè della maldicenza. Celebre fu sotto il portico dei Figini il Mazza, frequentatissimo; quello dei Figini, col portico della Ragione, fu l’ultimo dei sessanta coverti di cui si vantava Milano nel 1300 e che prendevano quasi sempre nome da qualche famiglia patrizia o cospicua. Il Caffè Mazza si apriva all’estremità del portico verso il Duomo, dal quale distava pochi metri. Cominciata la demolizione, la rovina del portico presentava un aspetto tanto lugubre, che un mattino vi si trovò attaccata la scritta: «Casa d’Austria». Erano i giorni precorritori dell’aurora di Magenta. Non l’avrebbe certo predetto quel Pietro Figini che lo eresse, per festeggiare le nozze di Gian Galeazzo Visconti con Isabella di Francia. Dal Caffè Mazza uscirono colle spade sguainate, gli ufficiali austriaci alle prime avvisaglie del tragico febbraio 1853 accorrendo alla Gran Guardia, durante lo sciagurato tentativo mazziniano d’insurrezione che insanguinò di lutti e di patiboli Milano. Il Caffè Mazza – di cui più volte si è scritto erroneamente, attribuendogli una sede non esatta – occupava precisamente l’angolo orientale del venerando Coperto dei Figini al numero civico 4075 della mappa di Milano, l’ultima sotto gli austriaci, e guardava su tre facciate la piazza del Duomo, verso il Duomo e Santa Radegonda, fino alla via Borsinari che separava il Coperto dei Figini dalla vetusta e sgangherata fronte di case che vennero demolite dopo il 1859 per la costruzione della Galleria e dei portici settentrionali.

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Dirimpetto al caffè abitava l’Annetta Olivari, guantaia ed amante di ufficiali austriaci, la nefasta femmina che provocò i tumulti del 22 agosto 1849 colle bastonature in occasione della festa dell’Imperatore. Dal caffè uscirono gli ufficiali austriaci per applaudire l’Olivari ed attaccare i cittadini che fischiavano il drappo giallo-nero esposto dalla guantaia. È noto che l’erculeo prete Giani del ginnasio Sant’Alessandro schiaffeggiò il figlio di Radetzky, che gli aveva tolto di mano la “I.R. Gazzetta”, dicendogli di leggere il breviario. Questo prete Giani che stava molto bene di corpo e di spirito, fu poi chiamato dal maresciallo che, udito il fatto lodò il prete e congedò il figlio con una pedata, onde ne venne la frase: «Te do on radeschi» per dire: ti do una pedata. Vi fu chi disse fantastico l’incidente fra il prete e l’ufficiale; altri dissero che il fatto non avvenne al Caffè Mazza. Non è vero che l’incidente avvenne al caffè di piazza San Carlo, ma bensì all’attuale corso Magenta, come lo provano le memorie del prevosto Ratti di San Fedele. Il Caffè Greco sorse nel 1832 nella Galleria Vecchia ed apparve tanto lussuoso per quel tempo, che l’“I.R. Gazzetta” ne parlò in due lunghi articoli. Un giovane di condizione non avrebbe potuto andare in un salotto senza essere passato al Greco per attingere le novità del giorno. Vi andava nei frequentissimi giorni di miseria il pittore Luigi Galli, morto di fame, artista grande e povero. I proprietari Gubinelli gli davano sovente il caffè e latte; lo sguattero, i gusci d’uovo che gli metteva in serbo, e coi quali il pittore si procurava il bianco per dipingere. Mancando una volta di pennelli, prese le code del baccalà da un pizzicagnolo e ne formò dei pennelli; questo pittore stravagante e di grande ingegno fu trovato morto d’inedia e di stenti verso la metà del settembre del 1900 a Roma nel suo studio di via Flaminia, da Edoardo Gioia. Al tempo del Porta, era celebre il Caffè Albanelli, al quale il poeta dedica certi versi che non si trovano nelle consuete edizioni portiane, ma che comparvero in certe edizioncine di Lugano stampate a... Milano, fra le quali 46

quella accurata e graziosa – a cura di un gruppo di bibliofili – coll’indicazione: Lugano, ormai introvabile. Dove fosse veramente l’Albanelli non mi riuscì di saperlo con certezza, benché nelle citate memorie del Ratti, se ne trovi un cenno come di caffè vicino alla storica chiesa presso la distrutta casa del ministro Prina. Su questo Caffè Albanelli correvano a quel tempo leggende erotiche. I vecchi caffè ricordati dal Porta durarono a lungo sul Corso, fra questi v’erano il Caffè dei Servi e le Due Colonne: andé pur la mia gent ai do Colonn, o ai Serv, a toeu on cafè che ve sassina i nerv

e dichiara che preferisce di andare: «a fà l’amor cont on bicer de vin». Tanto che aggiunge: voo al Gall, voo alla Scala, voo al Gamber, voo ai Tri Re voo in Oronna putost che na a on cafè.

* Il primo caffè che si incontrava sul Corso venendo dal Duomo, era il Madera, fra il Quercetti, ottico ed un orologiaio che aveva sull’insegna: «pendole-Pugni-orologi»; Pugni era il nome dell’orologiaio! Il Madera finì con poca gloria, perché avendo alcuni clienti l’abitudine di addormentarsi al caffè si svegliavano derubati. La Questura vi mandò un delegato che fingendo di dormire agguantò quello che lo stava depredando del portafoglio e che era... il caffettiere! Nel 1870 v’erano a Milano una trentina di caffè di qualche nomea, esclusi i baccanitt, bars primitivi, uno dei quali aveva sull’insegna la parola «Cicchetterio», come ricordava Luca Beltrami di aver letto, nella sua giovinezza a Porta Garibaldi. Il numero delle latterie era invece piuttosto notevole ai tempi della classica colazione milanese: «du oeuv in cereghin», ossia «ovas duas in parvum clericum». 47

Ed anche i preti, che andavano al caffè in numero limitatissimo, potevano consumare alla latteria e in certi morigerati cafferini (come quello presso l’Arcivescovado) la barbajada o il cioccolato. Al Caffè Sanquirico, andavano le persone timorate a prendere il caffè latte e le ordinazioni erano ripetute dal cameriere al dispensiere, attraverso una serie di echi viventi; vegetava quel caffè alla duplice ombra della Procura di finanza e del campanile di Santa Maria Segreta. Sulla soglia v’era il menù del giorno colla settimanale lista dei piatti e alla domenica si leggeva la scritta: «pasta». Questa parola provocò una allegra questioncella diplomatica perché a Porta Garibaldi una venditrice di pizzi che aveva il nome scritto sulla vetrina: «Domenica Pasta», si trovava ogni domenica incollato sui battenti... il menù del Sanquirico: «Domenica pasta, Lunedì riso», ecc. La gente si fermava e i ragazzi gridavano: «Nè lé, sciora Pasta, la gh’a la busecca?» per cui la poveretta dovette cambiare l’insegna così: «Pasta Domenica». In piazza del Duomo, vicino ai locali poi occupati dal cinematografo Centrale, detto «caffè del Corso», dove ora è il Motta, v’era un caffè molto vasto, elegante, con poltrone e divani di velluto rosso, il colore tipico dei vecchi caffè; durò fino al 1872. Vi si giuocava molto a dama, agli scacchi, a tavola molino, e a calabrac, o quattro in tavola, che il Dossi definiva il più idiota dei giuochi dopo l’oca e la tombola. Era un semaforo per quanto avveniva in piazza del Duomo: si dice che vi fosse stato qualche volta in incognito anche l’Arciduca Raineri. V’era una poltrona rossa molto ampia, dove usava sedersi un noto monsignore del Duomo; il Rovani la chiamava «el semicupi de monscior B.» E dicesi, che sia stato proprio questo monsignore a scrivere il distico: Qund san pu se fan d’on omm, ne fan foeu un monscior del Dômm!

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Alberto Pisani Dossi, ricordava che davanti al Caffè del Corso non passavano le educande della Guastalla e delle Marcelline perché erano troppo guardate e la loro modestia era tale, che... arrossivano alla sola vista di un gallo! Il segretario di Crispi, l’amico del cardinale Hohenlohe, l’autore della Colonia felice e della Desinenza in A pensò ed abbozzò in questo caffè pagine stupende. Si rintanava anche da solo al Bourné a scrivere. Altri antichi caffè erano il Levante, il Giardino; il Cappello, il Laghetto, la Posta, il Serraglio; frequentavano il Laghetto i tencitt e i verzeratt, e gli scalpellini che lavoravano i marmi e i graniti al Laghetto dove arrivavano i barconi da Mergozzo, da Baveno, da Candoglia. Un altro caffè molto frequentato era il Rinascimento, nell’ultima casa a destra del corso Venezia; aveva una lunghissima terrazza alta cinque metri sulla strada; vi passavano davanti equipaggi, carrozze e cavalieri, diretti ai Bastioni di Porta Renza all’ora del Corso. Il Caffè delle Colonne si apriva dove fu poi il bar, sul corso Venezia all’angolo di via Bagutta col «so fioeu el baguttin», così il Rovani; ne è rimasto un successore colla riproduzione della vecchia insegna; vi si beveva una speciale semata che un vecchio canonico consigliava come ottima contro le «titillazioni di concupiscenza» in primavera per giovani chierici ed educande. Le gestiva un Capretti che ebbe fama e che poi passò al Biffi in Galleria nuova. Un caffè caratteristico nella piazza Fontana fu il club dei Sordomuti, che vi andavano a radunarsi; un vero club dei silenziatarî. Le conversazioni si facevano a gesti, ed anche le donne, come quella dell’oste manzoniano alla Luna piena, vi stavano silenziose. In Monte Napoleone, dove poi fu aperto un caffè col nome di Leonardo da Vinci, ve ne era un altro dalle discrete penombre, con certe nicchiette, convegno degli innamorati che andavano là a discorrere. Si chiamava el cafè di moros. Là, dopo i primi appuntamenti, fra il vecchio Trench e

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l’imbocco del Monte Napoleone, le coppie facevano miglior conoscenza. Prima del Trench nella Galleria De Cristoforis la cà de veder dove entrando dal transetto di Monte Napoleone o dal fronte del Corso, i contadini si levavano il cappello, era il Caffè di Tommaso Gittardi, riprodotto nelle stampe del 1800. Era frequentatissimo e nessuno passava davanti allo specchio dell’angolo destro senza guardarsi dentro, tanto che una celebre novella ebbe origine da una macchia dello stesso specchio, che faceva credere ai passanti di averla sul volto. Il Carini, sotto i portici meridionali, dietro ai quali c’era il Boeucc, da non confondersi con quello di via Borgogna, aveva il privilegio dell’apertura notturna, come poi il Reale; la squadra volante vi faceva di notte delle incursioni bloccando le entrate. Vi penetravano parecchi: el berreton, el barbison, terrore della malavita, il Mazza detto “Dondina”, popolarissimo; l’omm de brasciada, el fighett, altri noti poliziotti fra i quali il Tommas balbuziente, l’orevesin assai temerario, el pè piatt, el gatt, el foin, tutti di diverse epoche fino al tempo del Turri, del Santagostino, del comandante Cappa, dell’ispettore Locatelli, del brigadiere Rigamonti, del maresciallo Eusebio, dell’ispettore Giamboni, del Travaglino; più tardi fu la volta del brigadiere Crespi, il Maciste ora maresciallo. La piazza della Scala ebbe caffè notissimi: uno al numero 1149 si chiamava Caffè Dujardin Vincenzo; l’altro al 1144 il Caffè dei Virtuosi; a pochi passi sorgeva la caffetteria e offelleria di Antonio Cova alla quale dedichiamo qualche pagina più avanti. Il Dujardin era ritrovo di artisti, di politicanti, di retori, ed è interessantissima, per i tipi caricaturali, una stampa della prima metà del secolo XIX della collezione Labus, riprodotta da quel simpatico gentiluomo e degnissimo giornalista che è il N.H. Comm. Beniamino Gutierrez nel suo libro Piazza della Scala nella vita e nella storia. In una storia intima dei Risorgimento a Milano si dovrebbe consacrare un lungo capitolo ai due Caffè della Pep50

Il Caffè di Tommaso Gittardi nella Galleria De Cristoforis.

pina e della Cecchina, centri di patriotti e di cospiratori, quando i milanesi, come scrisse Bonfadini, «si preparavano ad audacie grosse» aggiungendo che «le due società intime segrete che avevano scelto per loro confidenti i tavolini di quei due caffè, rappresentavano su per giù, due diverse scuole di movimento politico». La Cecchina sorgeva dove fu poi collocato il giardinetto sparito presso il monumento a Leonardo da Vinci; la Peppina dietro i portici meridionali tra il Falcone e il Cappello e vi stette fino al 1858. Il nome ufficiale di quest’ultimo caffè era Caffè degli Artisti. Gli aderenti alla Giovane Italia, non credendosi sicuri in quel caffè, si ritrovavano nella casa di Attilio De Luigi a Sant’Ambrogio dei Disciplini. Il caffè era frequentato anche da coristi della Scala, che poveretti, sovente si accontentavano di consumare della pura acqua, per cui quel ritrovo fu chiamato... «il caffè dei pompieri». Giovanni Visconti Venosta scherzando sul nome Peppina, diceva che è uno dei più disgraziati, poiché dalle forme 51

A sinistra, la sede del Caffè Bourné a San Babila; qui sopra, il Caffè della Cecchina o Caffè Borrani, presso la Scala.

vezzeggiative: Pinina, Pinetta, Pinotta arriva fino all’accrescitivo ed al dispregiativo di Pinascia e di Pepascia! Fra la Cecchina e la Peppina faceva la spola Cesare Correnti per conciliare, in nome della patria rinascente, le due tendenze. La Cecchina conservò il nome anche quando le succedette una Erminia. Una stampa del 1800, che riproduce un acquerello, ci raffigura il celebre caffè al piano terreno di una casa a quattro piani; ai fianchi della porta sono due grandi vestiboli maggiori, con figure statuarie in piedi fiancheggianti, e medaglioni sugli archi. Il caffè era nella casa dei Borrani di Brissago, dinastia di caffettieri e di cuochi, al civico numero 1549. Non mancavano di visitare questi caffè il Bolza, erroneamente chiamato conte, che diventò dopo la rivoluzione del quarantotto, intendente della casa di Radetzky. Ospiti della Peppina erano il D’Adda, i due visconti Venosta, i due Jacini, Alessandro Porro, i Giulini, C. Taverna, i Prinetti, Giulio Venino, Bonfadini ed altri monarchici. È fama che il ministro Prina nella funesta giornata del 10 aprile 1814, trovasse temporaneo rifugio nel retro dell’osteria

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detta allora della Scala, nella località dove sorse poi il Caffè Martini. Ma prima in quel luogo, sull’angolo della Corsia del Giardino e della contrada di San Giovanni delle Case Rotte, al numero 1157 c’era una offelleria di un Ambrogio De Marchi. Nei suoi ammezzati si era formato nel 1848, un vero club patriottico, divenuto il focolaio delle dimostrazioni, quando il Casino dei Nobili, situato poi dove fu aperta la Patriottica, venne chiuso per ordine della imperial regia autorità. Fu davanti allo storico caffè che sorse una curiosa barricata, fatta colle sedie del teatro della Scala, dettaglio di quella che il Raiberti chiamava «l’architettura della libertà». Alla barricata del Martini concorsero anche gli attrezzi adoperati per l’incoronazione di Ferdinando I a re del Lombardo Veneto. Fu in una saletta del caffè che Federico Bellazzi, il fedele segretario di Garibaldi, raccolse parecchi amici per consultarsi sul modo di contenersi dopo che il Farini succeduto al Rattazzi, ricordandogli il trafugamento delle carte del governo provvisorio del 1848, lo aveva dichiarato indegno di occupare la carica di deputato di Erba, invitandolo a dimettersi prima che le dimissioni gli fossero imposte. Gli venne consigliato di attendere la caduta del ministero che invece resistette qualche tempo, onde il Bellazzi dovette dimettersi e fu per impazzire, finché si tolse miseramente la vita. Era frequentatissimo dagli artisti, e, Antonio Ghislanzoni negli Artisti di teatro, ci ricorda che questi si radunavano «in piccolo comitato ricambiandosi auguri e felicitazioni, magnificando ad alta voce i successi riportati recentemente». Fiere dispute si accendevano fra i tifosi del passato nel Caffè Martini per il merito dell’una o dell’altra opera teatrale; non parliamo delle maldicenze nelle più svariate forme e le invidie professionali! Il Caffè Martini era formato da una elegante sala con sopra dei mezzanini; ogni tavolo, e ve ne erano in abbondanza, era ingombro di giornali. V’era in un angolo una

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stufa assai grossa, e funzionava regolarmente anche un deposito di ombrelle, bastoni, cannocchiali e tabarri, gratis nove mesi all’anno, tranne il carnevale, in cui si chiedeva per il solo tabarro un lieve contributo. «Il Caffè Martini» è il Pasta che parla «è il primo telegrafo dei fiaschi della Scala; l’aréopago che libra le fame esigue e colossali della scena; la Borsa che regola i consolidati dei cantanti, dei commedianti e dei ballerini». Ci piace a questo proposito citare alcuni versi di Giovanni Raiberti: Se sa vita, miracol, virtù e vizzi, Di ballarin famos e di primm donn, E i pontilli e i caprizzi Se in magnan o ciallonn, Cioè se magnan o se fan magnà: Chi gh’avevan, chi gh’han: Dove allogen de cà: De che sit vegnen, a che piazza van; Cossa ciappen: perché gh’han giò la vos: I lit coll’impresari e coi moros...

In un giornale del 1881, il Piazza parlandone diceva: «Ivi si mangia, si beve, si giuoca e si paga, e vi si fa anche inscrivere il proprio nome sul volume dei debitori! Il servigio vi è pronto ed esatto. Una ricca e buona cucina reca a voi davanti i suoi doni senza la nausea dell’odore delle osterie e senza spesa per il cameriere. Una collana di bottiglie, che vale per lo meno quella degli storici greci, dallo spumante Silleri al Joannisberg vi aiuta a smaltire un buon pezzo di vitello coronato di patate fritte, la cui cucinatura, non era per anco compiuta». Erano abolite le mancie, come si vede, certo per un riguardo agli avventori che spesso, molto spesso, ne avevano pochi in tasca. In compenso il servizio da tavola era tutto in argento, né mancava una lucida e tersa bacinella ed un piccolo asciugamano «coi quali si poteva ripulire ed asciugare l’estremità dell’indice e del pollice, di quella mano che

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avesse per avventura avvicinato alle vostre labbra l’osso di una costerella». Vi andava l’autore di Fosca: Iginio Ugo Tarchetti; alla sua tomba al Monumentale, segnata da una colonnetta spezzata, narrava un custode, venivan sempre molti a leggere l’epigrafe: «Qui giace un poeta». Il custode aggiungeva: «Chi inscì ghe ven semper gent, di giovin, di donn, di popól e gho vist di queii bei dolor!» Un giorno d’ottobre si riunirono al Martini, Emilio Praga, Arrigo Boito e Giovanni Camerana, il quale veniva sovente da Torino a salutare gli amici milanesi che aveva conosciuti alla osteria del Polpetta all’Ortaglia, ormai storica. E fu al Martini che scrisse questi versi giocondi che ricordano i tempi della scapigliatura milanese: Quando eravamo studenti di Pavia la pipa in bocca e il cappel sull’orecchio, e s’annegava la malinconia del diritto roman nel vino vecchio, quando in barba agli stoici ed ai pedanti si rideva di Lucrezia e si giurava che un museo di citrulli erano i santi e che Maria nel cielo s’annoiava…

Ma non molti anni dopo cantò invece la Madonna d’Oropa, la gran taumaturga dei montanari... Poi si tolse la vita. * Un altro cliente… d’eccezione, un giornalista d’altri tempi faceva abituali apparizioni al Martini: Romeo Carugati. Andò egli un giorno alla fiera di Porta Genova in marsina, una marsina troppo stretta per lui, e coll’inseparabile cappellone a larghe falde; si fermò davanti al giuoco della mazza; l’afferrò e si diede a vibrare colpi da ammazzare un toro; poi tutto trionfante per la decorazione di latta ottenuta e che attaccò alla marsina, andò al Canetta ripetendo: «Forza a chi batte!», a farsi vedere. Poi smise quell’abito

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La vecchia piazza della Scala col Caffè Martini.

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per sempre. Andava alle prime della Scala e le sue critiche d’arte erano temute ed apprezzate; entrava al Cova colle tasche gonfie, Calzoni a bozze, a sacchi, a ginocchiere, un cappellaccio da brigante Gasparone ed un’enorme pipa; di più usava un terribile profumo che si fabbricava da sé e che, commisto ad altri profumi fauneschi, era il terrore delle dame. Egli viveva in mezzo ad un sudiciume particolare in compagnia di varie bestie, fra cui la... Tina di Romeo; una curiosa scimmietta permalosissima ed un cane infingardo, ch’egli chiamava el stupit; e sopra la sedia dove posavano i seccatori teneva sospeso ad una cordicella... uno spadone! Era al Caffè Martini che il Ghislanzoni si divertiva a cercare titoli impressionanti da suggerire ad Ulisse Barbieri per i suoi romanzi e drammi da Stadera – robb de Stadera – il vecchio teatro popolare; ed erano di questa forza: la Caverna di Satana, la Danza dello Scheletro, la Figlia del boia, la Corda dell’impiccato, lo Strangolatore della notte, il Teschio parlante, il Bacio avvelenato, ecc. Al Martini si poteva anche assistere, alle diverse varianti di questa scena: quando il Petrella, autore della Jone vi entrava per aggredire il suo impresario, lanciandogli la stoccata di un... anticipo, quello continuava imperterrito la partita a tresette coi tre fidi amici; il povero Petrella usciva sovente a mani vuote e l’impresario si giustificava così: «Quel li per scriv musica l’è on caffù, ma de soramaros on strason de no di!» Al Martini comparivano quelli della consorteria delle effe: Faccio, Fambri, Fano, Filippi, Ferrari, le artiste Ferni e Fricci ammesse in grazia della lettera F. * Il Cova, fu un’istituzione cittadina all’ombra della Scala. Un brindisi di Sabatino Lopez, raccolto nel 1925 con altri scritti di Arnaldo Fraccaroli, Vincenzo Bucci, Marco Ramperti, sul Cova, comincia così:

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Il Cova, più che un ritrovo, meglio che un ristorante, è addirittura una istituzione. La sua fama è internazionale. Dopo il Duomo e la Scala, viene subito il Cova. I milanesi, sono orgogliosi del Cova quanto del loro panettone. Al Cova fiorisce ugualmente il riso e il risotto. È un ambiente così signorile e insieme così famigliare che più di una volta si comincia col thè... e si finisce col tu. Il Cova non è un ristorante: è il ristorante. Allorquando in giovinezza si aspetta, si spera e si sogna, io non puntai gli occhi alla Gloria solenne, colla lettera maiuscola. Ma mi parve di poter aspirare come al massimo premio, a un successo lieto al teatro Manzoni e a un pranzo di trenta o quaranta coperti al Cova. Li ho avuti, ma il pranzo mi parve anche più gradito, più giocondo del successo, perché non scontato e sofferto con l’ansia e l’incertezza delle prove e della recita. Sono passati gli anni, ma anche in grazia di quel ricordo il Cova mi è caro. E molte antiche memorie mi riallacciano al Cova dove sedetti alla mensa di Arrigo Boito, di Giovanni Verga, di Gerolamo Rovetta – frequentatori abituali del Cova – indimenticabili amici che nell’ora della tavola ci facevano sprizzare le luminose faville del loro ingegno e del loro spirito. Dite Cova e dite Milano, perché in qualunque parte d’Italia v’intendono. Dite Cova, rievocate manicaretti gustosi, sieste gioconde, conversazioni e polemiche che vi allargavano l’orizzonte e vi chiarivano le idee più e meglio di qualunque dotta lezione accademica.

Poiché, secondo Paul Claudel, l’amore È sempre la stessa cosa O la morte o la levatrice!

il luogo dove sorse il Cova era chiamato... la casa della levatrice, in dialetto la càa de la comàa; v’era unito un magazzino di paglia e fieno di proprietà di certa Caterina De Padroni che sulla fine del 1500 faceva appunto la levatrice. Era poco meno di una cascina con alcune botteghe; più tardi agli albori del 1800, in pieno periodo napoleonico, passò in proprietà di certi Morardati e quindi restaurata ed anzi del tutto rifatta, diventò offelleria e caffè di un soldato di Napoleone, Antonio Cova, che poté imprimervi con tanta forza lo stigma del suo nome, da vederlo immutato dopo oltre un secolo. Questo Cova aveva iniziato, il mestiere nella Galleria De Cristoforis o per essere più esatti in quella zona.

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Fu al Cova che nella quarta giornata del marzo memorando, gli animatori della rivoluzione si accordarono per l’assalto al palazzo del Genio, in via dei Tre Monasteri, chiamata poi del Monte di Pietà. Una pallottola austriaca spezzava una specchiera del caffè che già era divenuto il ritrovo della migliore società milanese; la specchiera spezzata venne gelosamente conservata, e dopo la liberazione vi fu scritta la data gloriosa: marzo 1848. Al vecchio Cova succedette il figlio Costantino, che amava gli studi e che per questo forse non aveva le attitudini paterne. Egli si associò due giovani, un Lavezzari e un Chierichetti, che, al ritiro dei soci ne divenne l’unico proprietario, avendo sposato la sorella di Costantino, morta giovanissima. La sua memoria è legata alla bella statua della Fede fatta dallo Strazza al Monumentale. Il Chierichetti, alto, asciutto, sbarbato, pareva un lord od un baronetto inglese; era cavaliere e la sua abilità nel selezionare la clientela, nell’incontrarla, nel chiamarla colla più impeccabile esattezza del cerimoniale, e colla conoscenza dell’almanacco di Gotha, faceva del Cova il più aristocratico convegno d’Italia che serviva il soprastante club dell’Unione e il più alto pubblico della Scala. La società Carlo Prati lo salvò da un principio di decadenza, poi passò a varie mani. Si trovavano spesso, la sera e nello stanzino di fondo, alcuni collaboratori della “Perseveranza”, palestra giornalistica della mia giovinezza. V’erano il direttore Candiani, che tanto amava di scomparire, che i più ignoravano come egli ne fosse il capo, Camillo Boito, architetto, giornalista, scrittore; l’avvocato Zambaldi scrittore mordacissimo, conservatore estremista; Giovanni Visconti Venosta. Arrigo Boito vi compariva verso le quattro, ma si fermava ben poco, pur essendo questo l’unico suo luogo di pubblico ritrovo. Egli amava l’ambiente del Cova e non era raro il caso di vedere qualche volta anche la sua intima amica Romilda Pantaleoni, donna di ingegno e di bellezza e cantante di alto rango.

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Gerolamo Rovetta, dall’ambiente del Cova trasse tipi e figure: nel suo romanzo Baraonda, si volle vedere Leone Fortis nel Cantasirena, il noto personaggio; così, come nel duca di Casalbara, si ravvisò un assiduo frequentatore del caffè, erede di un gran nome. Leone Fortis, era veramente una... colonna del Cova! Da mezzogiorno all’una, lo si vedeva sempre coll’aria tipica del milionario annoiato, dopo aver combinato magari una ennesima incarnazione del Pungolo a... malefizio degli azionisti. La sera del 28 febbraio 1907 figurò al Cova un menù prettamente dantesco che riproduciamo poiché ormai ben raro; a quella cena convennero artisti e letterati: l’adunata era in onore di Francesco Pozza e i convenuti circa trecento. Ed eccolo: CAMANGIARI Lo secol primo quant’oro fu bello; Fè savorose con fame le ghiande, E néttare con sete ogni ruscello. (Purg. XXII).

Disiato riso (Inf. V) alla milanese. Cotechini di Ciacco (Inf. VI) con patate passate e cavoli. Dolce mischio (Parad. XXV), ossia Pasticcio alla milanese. Fagiolini verdi come fogliette pur mo nate (Purg. VIII) conditi col bianco burro (Inf. XVII). Polli venuti da quelle parti calde d’India (Inf. XIV). Fresche erbette (Purg. XXIX), in insalata con le uova. Gelati guazzi (Inf. XXXII). Pasta frolla, dolce al gusto (Purg. XXXII). Dolci pomi (Inf. XVI), dattero per figo (Inf. XXXIII) ed altre frutta non del mal orto (ivi). VINI per Lo dolce ber, che mai non m’avria sazio (Purg. XXXIII). Di tre colori e d’una continenza (Par. XXXIII). (Soave, Chianti, Champagne Piper-Heidsieck). CAFFÈ Di color bruno Che non è nero ancora e il bianco more (Inf. XXV).

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Ma l’autore di questo libro, studente a Pavia nel 1903 lo aveva quasi per intero composto per una cenetta goliardica ai Tre Gigli! Al Cova il 19 giugno 1848 alcuni signori offersero un banchetto alla IX batteria piemontese che era stata festosamente accolta a Milano. Alla fine del pranzo il capitano Revel che comandava la batteria terminò un brindisi con queste parole, freneticamente applaudite: «Pochi artiglieri lombardi, poche truppe piemontesi? Viva l’artiglieria, viva la cavalleria italiana!» * Ad insegnarci la modestia e la continenza al Canetta, già detto Bottiglieria del leone a San Babila, prima dell’ampliamento, stava dietro il banco dei beveraggi tipici: il costumé e la mistura, la statuetta marmorea, bella e casta concezione del Sala, una donnina nuda rinfrescata alle “fonti della vita” dal getto d’acqua, permanente. Poi fu relegata a destra del banco verso la prima entrata, rivolgendo all’aperto i fianchi paganamente ellenici in forma di anfora. La vecchia bottiglieria, prese nome dal leone veneziano, che dall’alto della colonna ci fa ricordare il «leone ruggibondo e divorier» del povero Ragazzoni, diventò poi il Canetta. Quella colonna rifatta da Giuseppe Robecco nel 1628-1629 reca il simbolo della Porta Orientale. Un angolo dell’antica Venezia, molto ridotto, fu rappresentato dalla casa colle finestre veneziane e da quella colonna... leonina nel cuore della vecchia Milano. Vi fu un altro Canetta, bar e ristorante di lusso nella via San Giuseppe dove fu poi aperta la sartoria Martinenghi. La demolizione della Galleria De Cristoforis, del Monte Napoleone, delle case attorno a San Carlo, di Bagutta, del Baguttino, hanno sconvolto e mutata la fisionomia di un angolo caro ai vecchi milanesi. Lo sbocco del corso Monforte a San Babila soggiacerà alla trasformazione, il vecchio Canetta sarà anch’esso trasformato e ne rimarranno le sole memorie.

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Il Donnini, statura da corazziere del re, vi dominò senza rivali a lungo. Il cantinino fu il sancta sanctorum del luogo; il Fortunaa, un veneziano piccolino, membruto e nasuto, ne fu una divinità di bassa forza nel dopo guerra; si chiamava Fortunato Michielutti, morto a sessantotto anni nel 1921; aveva un naso tale da far pensare ad un celebre aforisma salernitano. D’estate parlava sempre della sua problematica villeggiatura a Venezia ed annunciava: «Vado al Lido!» e questa andata era rappresentata dal proprio collocamento sotto la tenda dell’entrata, invece di raggomitolarsi sulla solita sedia. «Oh! ma el sa, sol per quindeze zorni». Diceva «Bon giorno signor, bona sera signor!» e vivacchiava rendendo dalle otto di mattina a tarda sera, piccoli servizi ai clienti del Canetta. «Galo la bicicleta? Ghe do ona ogiada mi? Vado a comprarghe el zornal?» L’affabilità servizievole del popolo veneziano sembrava in lui riassunta. Durò a lungo una sua caricatura di profilo disegnata sopra un vetro nell’andito che conduce al cortiletto. Il Caffè dell’Accademia era situato in piazza della Scala verso Santa Margherita, e fu un caffè di consacrazioni artistiche; questo caffè diventò per una settimana l’Aventino dei banchieri e cambisti che tenevano la piccola Borsa alla birreria della Scala sotto il portico del Casino Ricordi. Dopo un incidente avvenuto fra uno di essi e un cameriere, tutti emigrarono all’Accademia, per poi far ritorno, dopo molte trattative, all’usato ritrovo. Era presso l’Accademia che si tirava la catena che, nelle sere di spettacolo alla Scala, impediva il passaggio delle carrozze. Un caffè collegato alle gloriose giornate milanesi del marzo 1848 fu quello di Santa Margherita, che si apriva di fronte agli sbocchi delle scomparse contrade di San Salvatore e dei Due muri, a breve distanza della famigerata Direzione di polizia. In questo caffè entrò nella notte del 30 luglio 1851 Amatore Sciesa per ripararsi del sopraggiunto temporale, in tasca i manifesti patriottici che dovevano costargli la vita, sen-

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za aver pronunciata la frase attribuitagli: «Tiremm innanz»! Vi bevette un bicchiere di birra poi si avventurò nella notte tempestosa ed oscura che doveva costargli la vita, gettata fieramente in olocausto alla patria. Pare che lo Sciesa abbia ricevuti i manifesti al caffè di via Crocifisso, ritrovo preferito dall’Assi e dal sedicente conte Gualtieri. Questo caffè ebbe antica e buona nomea e fu uno dei primi di Milano. Il Caffè delle Antille era nella Corsia del Giardino, ora Alessandro Manzoni; vi convenivano gli ufficiali superiori austriaci per lo più, e gli aristocratici amici dell’Austria, al tempo della dominazione. Il cuoco dell’avventuriera moscovita Giulia Samoyloff dopo che questa aveva fatto il bagno nel latte (l’imperatrice Poppea lo faceva nel latte di asina), lo vendeva al Caffè delle Antille; ma la povera Bulka, come chiamava se stessa, lo cacciò indignata. Sul Corso, vicino al Caffè Verde, c’era quello detto «del Luganeghin», per la sua forma stretta e allungata. Era un ritrovo di patriotti di marca repubblicana e democratica ed i mazziniani vi organizzarono quella sciagurata cospirazione che doveva culminare coi moti del 6 febbraio 1853, causa di tanti lutti, ma che diedero il tracollo alla politica “acchiappanuvole” di Mazzini. In quel caffè si leggevano tanti giornali e si beveva poco; il popolino vedendo tante persone colla testa appoggiata ad una mano, chiamava quello il «caffè del male di testa» o addirittura il «caffè dell’asino»! È sparito il vecchio cafferino degli studenti del Politecnico quando questo era sulla piazza Cavour, dove la famosa statua dell’Italia fa il noto gesto, che veduto da un certo punto fa pensare alla frase: roba da criminale! Il Savini, sorto cogli albori della nuova Italia, non ha una lunga tradizione storica, ma fu convegno di letterati, di artisti, di giornalisti, fino alla non lontana agonia dei cenacoli intellettuali. Non vi fu scrittore od artista che venisse a Milano (la città che in pochi giorni può accendere la fama

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di un cantante, di un artista o di un letterato, come quella di un cavallerizzo o di una etera) che non frequentasse il Savini. Fu qui, che Giovanni Pozza scommise con Arrigo Boito, che il Nerone non sarebbe stato pronto alla fine di un certo anno e vinse perché ne dovettero passare altri venticinque! Quando la farmacia Valcamonica-Introzzi aprì il bar con bibite di prima scelta e di carattere medicinale, lasciando circa due metri quadrati di spazio a disposizione dei clienti, le altre farmacie gridarono allo scandalo! Fu un giovane intraprendente che aveva fatto pratica presso la vecchia farmacia, che aprì il bar Bellati sull’angolo del San Martino, ma il primo bar fu quello del Montano sull’angolo dell’Agnello che si chiamava così da un antichissimo agnello pasquale che rimase murato nella casa. Al bar Bellati capitò un giorno il re Giorgio di Grecia e sulla sedia da lui adoperata fu incisa un’iscrizione commemorativa della visita. Ma il bar tipico, quello dei Farfallini, ossia degli scrittori della insuperata “Farfalla” milanese, di cui ci diede la storia Francesco Giarelli nel suo libro di ricordi giornalistici, era quello della Giulietta sul Corso. Tutto lo stato maggiore di Angiolino Sommaruga lo frequentava, e vi faceva delle apparizioni anche la famosa Teresina la fioraia; vi andava pure la Ivon, due donne queste che fecero parlare di sé tutta una generazione come le stendardiere del malefizio amatorio. La Giulietta dei bei oggion vedeva intorno quelli detti della latteria, ossia i giovani fra i diciotto e venticinque anni. Gli occhi della Giulietta avrebbero potuto riconciliare alla vita i più scettici, i suicidi intenzionali. Le sue sembianze furono eternate nella fanciulla sorridente sulla testata della “Farfalla”. Gli occhi della Giulietta erano del tipo che il Rovani chiama «saraceni o sagittari», il Giarelli la proclamava «inconscia Messalina». Viveva separata dal marito, un marito non del tipo uxorius; questi teneva un altro bar vicino a quello della moglie;

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quando uscì a Milano il libro di Cletto Arrighi, imperniato sulla Ivon, «Nanà a Milano», nella figura di Romea, tutti ravvisarono la Giulietta, la nota liquorista che faceva pensare alla quartina goliardica: Locus est genialis ubi potus est venialis quem vendit socialis nobis foemina.

Aveva un seno potelé ovattato di carni paradisiache, un seno dominatore. La Giulietta ebbe certo più omaggi di Vittoria Colonna o di Laura, ai tempi suoi il Corso vedeva tipiche figure: el Senna, parrucchiere, la fioraia Teresina, la Dunant, la bella zoppin, il profumiere Sottocasa, el barbador, dalle guancie accese per le vampe dei grappini, più tardi la «lembo di cielo», una lunga serie di figure sparite che ebbero tanta notorietà nell’ambiente milanese. Il Campari da almeno settant’anni, è il punto di riferimento... degli appuntamenti: «Ci troviamo al Campari», «il primo che arriva davanti al Campari», «attendimi al Campari», sono su per giù le frasi abituali, di chi, o in corsa o con tutta comodità di orario o di mezzi, vuole fissare nel movimentato andariveni del centro di Milano un punto fisso per non cercarsi invano. Gaspare Campari, il fondatore della ditta Campari, venne a Milano nel 1863, dopo aver fatto a Torino il suo tirocinio. Si stabilì in piazza del Duomo in un piccolo locale adiacente al Coperto dei Figini, allora in demolizione, in attesa di occupare il nuovo locale che egli aveva accaparrato nella costruenda Galleria Vittorio Emanuele. Nel 1867, Gaspare Campari colla moglie, prendeva possesso del locale ad uso caffè sull’angolo fra la Galleria e i portici e del soprastante appartamento dove la vita della famiglia Campari si svolse tra il ’67 e il ’95 e dove nacquero i figli; primo fra essi Davide Campari. Il caffè fu allora decorato molto limitatamente se-

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Emma Ivon in un ritratto dell’epoca.

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condo il gusto dell’epoca in stile impero. Qualche statuetta, fra le quali l’ottimo putto col delfino dello scultore Spertini (divenuto per parecchi anni marchio distintivo della casa) rallegravano l’ambiente. Il caffè per la sua felice posizione, divenne in breve il ritrovo della migliore società milanese e di tutti gli artisti che frequentavano il nuovo passaggio coperto. Gaspare Campari iniziava allora nella cantina del caffè la preparazione di un aperitivo da lui chiamato «Bitter all’uso d’Olanda» destinato esclusivamente alla consumazione dei clienti del caffè. Da questa prima preparazione derivava il Bitter Campari dall’incessante successo. Dopo varie e successive trasformazioni nel 1916 il caffè veniva rimodernato, nuovamente decorato e in parte trasformato; i locali aumentati con l’aggiunta delle sale nel piano superiore che costituiscono oggi uno degli ambienti più eleganti e distinti di Milano. Al semplice esercizio di caffè e gelateria venne aggiunto il servizio di ristorante che ebbe l’onore di annoverare fra la sua clientela le personalità più in vista dell’aristocrazia, del censo e dell’arte allora a Milano. In seguito venne aperta l’elegante pasticceria che fu modello del genere per vari anni e che si mutò poi nel Camparino. Nel novembre 1936 moriva Davide Campari. Alla storia del Campari si ricollega il ricordo di una strofa scritta sul primo tavolino a fianco della porta verso il Duomo da Felice Cavallotti, poco prima di recarsi a Roma dove morì nello scontro con Ferruccio Macola. È una strofa che sembra riflettere e riassumere il vicino dramma ed appare piena di presagi; rimase per tanti anni inedita ed è quasi ignorata: E più s’abbuia il cielo più chiaro ti discerno bel sogno del passato marciante all’avvenir, che il cuor dà il suo sembiante all’ideale eterno per cui m’è oscuro fato combattere e morir.

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Un vecchio frequentatore del Campari aveva esattamente registrato che in quarant’anni i vetri vennero rotti ottantasette volte durante le dimostrazioni; certo che i vetri dei grandi caffè della Galleria furono vittime della politica, anzi la storia di queste rotture è un po’ la storia della vita milanese dei cinquant’anni prima del fascismo. Di vecchia data è il Biffi; il grande caffè ristorante della Galleria ebbe un predecessore nella piazza posteriore del Duomo, ora Camposanto, prima della sua sistemazione che si iniziò subito dopo l’annessione di Milano al Piemonte. Ma il Biffi precedente, poi spostatosi di contro, era una pasticceria che produceva fino a cinquecento panettoni al giorno, cifra allora formidabile. L’offelleria era di fianco al Duomo sino a poco tempo fa, ed il proprietario era padre di una decina di ragazze; appena una lasciava il banco per andare a marito ne compariva un’altra, e poiché tutte si rassomigliavano accadevano comici equivoci. Il panettone andava anche ai principi di Savoia ed a Garibaldi il Biffi mandava delle torte. Egli usava dire che il caffè gli serviva «a fa foeura i tosann». Quando Daniele Ranzoni a Londra fu preso dalla nostalgia di Milano, benché vi lavorasse protetto da Lord Paget, se ne fuggì dicendo al bigliettario inglese: «Mi dia un biglietto per il Biffi!» Paolo Mantegazza ne era assiduo frequentatore. Ma ancora non lo aveva raggiunto il famoso giudizio: «Il più scienziato de ciarlatani e il più ciarlatano degli scienziati». Quando si aprì la Galleria si dischiusero altri caffè e il Biffi passò all’ottagono sotto l’affresco maestoso dell’Africa del Pagliano, mentre quello dell’Asia del Giuliano, quello dell’America del Casnedi e l’altro dell’Europa del Pietrasanta vigilarono altri ritrovi. Il Biffi diventò rapidamente il primo caffè di Milano. Lo dirigeva il cavalier Capretti che proveniva dalle Colonne a San Babila; il Capretti aveva la mania di volare e si fece anzi ritrarre nell’atto di spiccare il volo dall’alto della Galleria e poiché era presidente della società per il pane di lusso, venne scritto sotto la fotografia del non compiuto volo questo epigramma:

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Gran rumore ed allegria mi condusse in Galleria, guardo in alto cosa c’è: quel del pane da caffè!

Il “melange Biffi” oscurò subito il “busser”, famigerata bibita che si diceva fatta di vino bianco e di sugo di limone senza zucchero. Il primo Caffè Gnocchi fu aperto nella Galleria De Cristoforis nel 1832: era rinomato per il suo “caffè e panera” e per il “Levante”, nome che comprendeva tutte le qualità di caffè. Però di Caffè Gnocchi ve ne furono parecchi: uno era in piazza Castello, tenuto dal Freguglia. Molto frequentato d’estate dopo gli spettacoli all’Arena o al circo Ciniselli dalle belle e formose cavallerizze, era un circo di legno che poi diventò il teatro Dal Verme; un altro Gnocchi era in Galleria non lungi dalla Grande Italia; una stampa pubblicata nel libro del Comandini nell’Italia nei cento anni del secolo XIX raffigura un Caffè Gnocchi a Porta Tosa. Al Gnocchi era fedelissimo, come un tempo al Martini, Iginio Ugo Tarchetti con Salvatore Farina; anzi per essere più vicino all’amato caffè volle trasferirsi dalla casa del Farina al Broletto presso San Tommaso; un angolo del caffè raccoglieva alcuni habitués che divennero poi deputati: Andrea Ghinosi, Antonio Billia, Achille Bizzoni, Leonello Patuzzi, Raimondi ed altri del “Gazzettino Rosa”. Al Gnocchi andava anche negli ultimi tempi della sua decadenza Giuseppe Rovani. Vi fu anche un Caffè Gnocchi alla stazione Ferdinandea sulla linea di Monza, se ne conservavano delle vedute; era un edificio ad un piano con due torrette menate, di stile eterogeneo con prevalenza di linee veneziane e lo riprodusse nell’edizione illustrata dei Cento anni il Gutierrez. Le cosidette “dame viennesi” del Gambrinus chiamato poi per riscossa antitedesca nel 1915 Grande Italia, erano tanto... viennesi che non era difficile udirle parlare così: «Ven chi che te spetasci la lumaga, ven chi che te strèppi giò el scignon, te strèppi!» 70

Parecchie erano Walchirie nate sulle rive dell’Olona e del Naviglio, disperatamente bionde tutte. * Sfolgora nella storia dei caffè milanesi il celebre Hagy dal nome orientale e di vita più che secolare. Il popolo lo chiamò el recanatt di sciori, nome dato anche ad altri caffè: l’Europa e il Canetta. La sera del 4 febbraio 1932 si chiudevano alle ore 20.20 precise, i battenti dell’Hagy dopo 122 anni di vita, e nello stesso tempo si apriva il nuovo Hagy sul Corso e nella nuova Galleria al numero 2; fra le alte personalità che assistevano all’inaugurazione era il duca di Bergamo. Ora è un bar tabaccheria. Quando nel 1805 Napoleone lasciò Milano, avviato alla gloria di Austerlitz, commettendo il governo al viceré Eugenio Beauharnais, un addetto alla casa imperiale volle rimanere a Milano al servizio del viceré; si chiamava Carlo Hagy Hannat ed era un egiziano venuto in Italia al seguito di Bonaparte come confettiere e credenziere. Questo orientale, venendo ogni giorno dalle cucine imperiali al palazzo Serbelloni Busca sul corso di Porta Orientale, nel passare davanti alle botteghe del Corso e della Corsia dei Servi, vide (e se ne innamorò) una bella milanese; la sposò e naturalmente non volle più abbandonare Milano. Fu detto pertanto che l’Hagy era figlio dell’amore! Nel 1810 al civico numero 591 del Corso si apriva col nome di Hagy e nel locale dove stette per 122 anni, una vendita di «dolci orientali e spaccio di caffè alla turca». Prima il caffè si chiamava “Levante”. In breve quel centralissimo caffè fu frequentato dal fiore della cittadinanza. L’Hagy ebbe fortuna; nel 1839 l’esercizio si trasformava in «negozio di vini di lusso, di liquori, di distillatore, dirimpetto all’Uomo di pietra». Così è qualificato nelle matricole municipali del tempo. Vi si vendevano anche profumi ed acque da toeletta. Una storia dell’Ottocento milanese non potrebbe far a meno di dedicare pa71

recchie pagine al celebre e celebrato Hagy per nominarne i frequentatori. L’assenzio, il tetro assenzio che si mesceva nel tipico bicchiere contagoccie, diventò il più celebre di Milano. Fu all’Hagy che si combinò una famosa burla, la morte avvenuta secondo gli ideatori, per una indigestione di ostriche a Venezia, della Teresina Brandi la bella fioraia, venuta a Milano in zoccoletti nel 1870 e salita a veri fastigi. Tutta Milano si commosse, parecchi giorni dopo la crisalide già lanciata al volo di farfalla, fece ritorno in maggior fama che la notorietà per il processo Viganotti doveva tanto aumentare nel 1881. Nel Caffè del Corso essa aveva una clientela di azzurri. Invece all’Hagy si presero le difese della Ivon quando a Milano vi fu tanto scalpore per una scenetta avvenuta durante un privato veglioncino, durante il quale la bella attrice si produsse colla canzonetta: levate à cammesiella dopo il Sur Pedrin a popol col Ferravilla ricordato nelle Confessioni di Emma Ivon. Poiché abbiamo ricordata la famosa Teresina, per la quale sarebbe certo rimasto disoccupato il deus pertundus romano, ci è caro di pubblicare una poesia ormai introvabile che un giorno ebbe un celebrato successo. Nel dicembre 1881 svolgendosi alle Assisi di Milano il processo della Teresina, così si diceva, mentre si sarebbe dovuto dire quello del Viganotti, l’avvocato Carlo Nasi scrisse questa poesia apparsa in un numero unico: Povera Teresina, che gran torto t’han fatto! Alla tua giusta collera il Pinzi l’ha sottratto con un sol monosillabo! […] […] Reo confesso egli era. Il Ministero pubblico chiedeva la galera La legge inesorabile citando, commentando; E tu fremente… d’ansia già stavi preparando La parcella dei danni; e calcolavi quanti Perduto avevi e avresti per quello sfregio amanti, E invece eccolo libero; non la più lieve pena; È sfuggito alla tua... ed all’altra catena! Nè basta; il colto pubblico al verdetto applaudiva E te, povera vittima occulta, ancor scherniva, Povera Teresina! M’han detto che piangesti

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Quando l’inaspettata notizia conoscesti… È vero?… è vero?… Sentimi, io non t’ho mai veduta, Ma ti so bella, giovane, procace, ardente, astuta Nelle lotte di Venere, so che sul tuo bel viso... Facile e pronta alternasi la lagrima al sorriso. Ebbene… perché piangere?… … Ma Dio! Le hai tu contate Le ansie, i dolor, le lagrime che altri han per te provate? Ma tu che degli uomini l’ingiustizia lamenti, E gridi, e piangi, e imprechi ed atteggiarti tenti A vittima, hai scordato quanti e quanti al tuo piede Han perduta la pace, han perduta la fede, La balda fede inconscia degli anni primi? Sai Che v’han ferite all’anima che non guariscon mai; Che v’hanno solchi al cuore che il tempo non cancella? Non pianger; la ferita non t’ha resa men bella! Ridi, scherza, t’inebria in mezzo all’orgie audaci E i profumi: continua a vendere i tuoi baci E le tue notti come vendevi un giorno i fiori! Insaziata Circe, cambia ogni giorno amori Siccome cambi d’abito. Per te la vita è questa! Non è galante il tempo, nel cammin non l’arresta Uno sguardo di donna! Va, cara godi, avanti Che con le rughe giungano i rimorsi e i rimpianti. Di adolescenti ingenui cui la borsa trabocchi Non v’ha, fanciulla credilo, penuria; i tuoi begli occhi Hanno gli arcani fascini dell’antica sirena, Han fuochi inestinguibili... finché la borsa è piena! Non piangere; che importa a te se l’hanno assolto? Non è per la ferita men leggiadro il tuo volto! S’egli dall’urna libero innocente è sortito Dal severo giudizio degli onesti è colpito. Non ebbe, pusillanime, la forza d’obliarti; Il facile coraggio non ebbe di affrontarti E colpirti egli stesso! Rannicchiato, tremante, D’una strada all’angolo ti attese; e nell’istante Che te sicura, inconscia, colpia l’amico fido, Quando all’orecchio giunsegli il trepido tuo grido Fuggì... mentendo poscia... Fuggì... uomo… soldato! Nella coscienza pubblica, credilo, è condannato! Non piangere: che importa a te se l’hanno assolto? Non è per la ferita men leggiadro il tuo volto. Ridi, scherza, dimentica tutto, fra l’orgie audaci E i profumi; t’inebria di voluttà, di baci... Ridi... scherza, sei libera siccome il vento, avanti Che colle rughe giungano i rimorsi e i rimpianti.

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In alto, una saletta del Caffè Hagy nel 1880; in basso, gli eleganti davanti al Caffè Hagy nel 1858 (da una stampa dell’epoca).

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Durante il carnevale ed il passaggio dei “barconi” (i carri mascherati), dai balconi dell’Hagy si gettava la maggior parte dei coriandoli, e le sue soglie erano il punto di battaglia più intenso per l’infarinatura dei milanesi. Chiusi i veglioni e le feste da ballo, all’Hagy venivano gli impenitenti viveurs, che duravan fin al giorno dopo a vuotare bottiglie. Non vogliamo chiudere queste ricordanze sullo storico ritrovo senza narrare un episodio. A quattro lustri dalla morte di una dama regale di bellezza e di fortuna, vogliamo ricordare il carnevale del 1870 quando essa apparve con due altre bellezze milanesi, in domino nero all’Hagy. Le dame mascherate entrarono all’Hagy per rivolgere qualche frase ai nobili frequentatori, mentre un lussuoso equipaggio le attendeva alla soglia. E fu per questa bellezza che Arrigo Boito aveva scritto: Duchessa, l’epigrafe del vostro blasone par scritta da un angelo mutato in leone il motto al mio genio Dio forse aveva dato, ma l’uom l’ha graffiato, non leggesi più!

La “mistura Hagy” acquistò la celebrità dell’inventore per la potenza alcoolica, parliamo di quella di un tempo poiché a dire del Ghislanzoni, al terzo bicchiere non si sentivano più né le campane delle chiese né le campanelle dei tram... né la voce dei creditori! Un gruppo di capiscarichi, creò all’Hagy la Confraternita di San Bevaristo, dimostrando come tutti i cattivi siano bevitori d’acqua, tanto è vero che per essi venne il Diluvio Universale. Essi forse ricordavano la vecchia canzone del conte di Segur: Tous les méchants sont buveurs d’eau; c’est bien prouvé par le deluge!

In una saletta superiore dell’Hagy antico venne riprodotto il celebre e tanto discusso quadro del Grosso: Il supremo convegno il quale suscitò le ire dell’allora patriarca di Venezia Giuseppe Sarto che diventò poi pontefice.

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Sono note le vicende e la fine tragica della celebre tela ammonitrice; nella saletta, fervendo le polemiche sul quadro, convennero alcune belle donne che avrebbero potuto dare accademia di nudo, con vari artisti, fra i quali Peppino Galli che fu messo nella bara aperta al posto del morto al quale rassomigliava assai. Fu alla soglia dell’Hagy che Ferravilla, in un raccoglitore di mozziconi, scoprì il Rico, il Quasimodo di Milano, l’ultima contraffazione del Triboulet sul lastrico milanese, morto nel maggio 1880 a trentasette anni per alcoolismo all’Ospedale Maggiore, dopo aver passato qualche mese all’Ospizio di mendicità a San Marco; morì allargando la bocca enorme nell’ultimo lazzo. La riproduzione del Rico da parte di Ferravilla fu un miracolo di talento di imitazione. Le caricature del giornalismo e dell’arte milanese, ricordarono per un secolo i frequentatori più in vista dell’Hagy. Notissima fu quella del 1858 apparsa sulla rivista musicale di Ignazio Cantù che pubblicava il Redaelli; ne fu autore De Albertis. Raffigurava tre elegantoni di allora, quando si camminava in silenzio, cilindrati e cogli scopettoni. I milanesi li ravvisarono nel marchese Trotti, nel nobile Simonetta, nipote del Gargantini-Piatti padre della contessa Dal Verme e in un Visconti. Nel pomeriggio, all’ora dell’aperitivo i frequentatori erano tanti, che molti dovevano occupare il marciapiedi. Fiorirono naturalmente gli anneddoti sull’Hagy: notissimo è quello attribuito al Rovani. Sullo stesso lato del Corso v’era la salumeria Rainoldi dove si poteva anche avere un “bianco” allora in uso come poi il bitter o il costumé o il vermouth, allietati dal sorriso della bella padrona che riceveva gli omaggi del sindaco Bellinzaghi, sempre galante. Si chiedevano due milanesi: «Te set che differenza gh’è tra el Rainoldi e l’Hagy? La differenza l’è questa che in del Rainoldi i salam in de denter e a l’Hagy invece in de foeura». Il rinnovamento nazionale trova il caffè in altre mani. Il maneggione e procuratore dei nuovi conduttori, il Costan-

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tino, fu abilissimo nel trattare la clientela. Il periodo della Scapigliatura milanese vede questa invadere l’Hagy. Nella sala davanti che corrisponde alle due arcate d’entrata corrono lungo le pareti due lunghi sedili. Sono i due campi: a destra siede l’aristocrazia, a sinistra la democrazia della politica, della letteratura e dell’arte. Non vi sono abituali contatti fra i due campi. La Scapigliatura milanese è dominata per vent’anni dal Rovani che amava essere circuito da fedeli ammiratori. Per trent’anni sfolgorò il suo spirito epigrammatico in svariati episodi, alcuni dei quali inesatti nelle rievocazioni. Egli lanciò un giorno al Costantino del caffè questa quartina: Non è credibile com’è terribile, la vista orribile d’un creditor!

Diceva che il suo orgoglio poteva equiparare quello d’uno spazzino… e di Victor Hugo! All’Hagy era assiduo il colonnello garibaldino Missori, il salvatore di Garibaldi, uno dei galanti di Milano dell’epoca; vi entrava quasi sempre in compagnia dell’inseparabile ingegner Pozzoli, che tutti chiamavano «Zio Ombrella» perché in ogni stagione, con qualunque tempo, portava un’ombrella. Il Missori era il tratto di unione dei due campi opposti, avendo amici in ognuno. La più bella barba di Milano era quella del principe Trivulzio dall’alta imponente figura, lo circondavano il duca Melzi, che morì per una indigestione di ostriche fatta il venerdì santo, il duca Visconti di Modrone, il duca Scotti; i quattro grandi signori di razza a Milano, essendo già sparito il famoso conte Archinto. Enumerare i clienti abituali o di eccezione che sfilarono nel celebre Hagy è arduo compito: principi del sangue, aristocratici, letterati, artisti, celebrità teatrali, arricchirono tutti la grande fama del ritrovo, che per tanti anni fu una

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delle caratteristiche cittadine della Milano centro intellettuale, industriale, generosa nell’accogliere e nell’allietare il soggiorno di quanti arrivassero attratti nella sua orbita. Una succursale dell’Hagy, poté dirsi l’American Bar che un tempo si chiamò l’Europa, sull’angolo della Passerella, al punto centrale di corrispondenza – per usare una frase da carabiniere – della cosidetta compagnia del Frico, che cominciava al Canetta e finiva all’Hagy. Giovanni Pozza sopra uno dei tavolini di marmo, oggi scomparsi, gettava giù dei versi o degli appunti per il “Guerino”. Il suo posto era presso la finestra verso la Passerella; chiuso, barbuto, accigliato, questo sovrano dell’umorismo, non rideva mai. Scrisse un giorno, su quel tavolino, al tempo delle congiure di corridoio, capitanate da Lacava, il «lupo di Corleto» e da Cocco Ortu, questi versi: A fulgore et tempestate et a Gonococco Ortù libera nos domine!

La storia del bar potrebbe essere narrata dal conte Pedroli l’alabardiere del luogo; ma un tempo ne furono frequentatori Manara, Dandolo, Cernuschi, in tuba, pantaloni di Nanchino e scarpette lucide, occupati ad ammazzare il tempo in attesa di salire sulle barricate ad ammazzare i nemici d’Italia. Al vecchio Europa andavano i giuocatori di tarocchi, carte un tempo importanti nella vita cittadina. Quando morì il Bagatti-Valsecchi, padre di don Fausto e di don Peppino, un freddurista girò tutti i caffè di Milano, nel centro, dove si giuocava a tarocchi, per ripetere questa piacevolezza: «Come fèmm stasira a giugàa a tarocch che gh’è pù el bagatt?» Quando a Milano cominciavano a diffondersi le poesie futuriste, sul marmoreo tavolino dell’American Bar, caro al Pozza, venne scritta questa poesia strampalata che fece il giro di Milano, quale satira della nuova tendenza poetica:

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Sui bicipiti fianchi di Santippe Si levò baldanzoso il gonococco, Ed un grido di guerra a Libicocco Con sterquilineo cor gli schiccherò, Sfolgorando sul mondo barattiere L’iperscrofico amor d’un baccelliere, La virtù delle donne di Lutezia E la casta lussuria di Lucrezia.

* Nuda nel bagno Davide vide la Bersabea – Allora non si usava la donna antipoppea – E con fatal desio prese alla bella il cuore Colle sue adunche mani qual forcipe d’amore. Sul Chimborazo un giorno, nel culmine d’un’orgia, Un rospo innamorato baciò Lucrezia Borgia; Pensa il poeta estatico ai vezzi delle Muse, Piange D’Annunzio aspasico i tempi della Duse. Un granatier polifago baciò la Ninfa Egeria Là dove Santarosa immortalò Sfacteria; Dove l’anfibia vergine dai Farisei rapita Pianse l’imene allobroga sul seno ermafrodita. Freme in visione eterna l’eterno uccellatore, E sente il carnoplastico nel fulcro animatore; E colle braccia infrante la Venere di Milo Apollo spidocchiava un giorno in riva al Nilo. E voi, chiomate vergini, sol dal desìo pollute, Porgetemi le vostre curve scapezzolute. Donate al dio dei capri l’amor del pollivendolo E canti un Bardo italico l’onor del velopendolo. E tu Polinnia Musa, fra tutte l’arcibella, Andrai volando in cielo, celeste pipistrella. La pommarola arrossa in coppa ai maltagliati Al vento sfolgorando la barba di Turati; Canta col brando ostetrico, canta l’ausonio core, Spira nei minorenni gazzofilaccio amore! Presso alle tibie stridule di Dina Galli al rezzo Siede fremendo il paggio al pulzellame avvezzo. Musa cercopiteca, dai seni inorpellati, Ridi sui cinocefali cerebri inanellati. Là dove brilla il vino dentro le coppe orgiastiche Torni la Magentina colle sue fauci plastiche! La rubiconda Luna, la squattera celeste, Rivale sia di Diana infibulata e agreste. Anna Fougez, già esperta nel giuoco del rampazzo, Sarà fatal consorte un giorno a Draghignazzo. Brilli la stella efebica sul cielo dei due mondi

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Ma della Teresina sia gloria ai mappamondi! Canta il poter fatale della Madama Angot, E tu, ribalda ostessa, porgimi il fricandò. E tu poeta aspasico, sopra la tua padella Poni con rito ellenico il cuor della tua bella Musa fisiobatracica, sopra la fiamma spessa Poni la lira infranta e... friggiti con essa!!!!

La Magentina era un’etera stradaiuola notissima e il... poeta è l’autore di questo libro. A fianco del Duomo era un tempo il «Caffè del Silenzio», così detto perché i circospetti clienti vi entravano in punta di piedi, ordinavano le consumazioni a gesti e si accucciavano a leggere la “Gazzetta” mentre un gran baccano di biglie urtantesi e di grida veniva dalle attigue sei sale. Carducci amava la vita dei caffè milanesi e quando venne a Milano fu al Gnocchi, al Biffi, al Cova; lo accompagnava la giovane poetessa Annie Vivanti. Le sue preferenze erano per il Biffi e il “Guerino”, in uno dei suoi soggiorni del 1888 lo ricordò così: Alla Stazione domandò: «Dove del Pozzo trovasi il pesante omnibusse, – sospeso ai roteanti quattro circoli?» Disceso all’Albergo, al cameriere che lo accompagnava chiese: «Non di sebacea ma di cerogena face, – i faticati gradi m’illumina al cubicolo – d’una mezza persona ed una». Alla mattina suonò il campanello e: «Appropinquami, o famulo, i vigili calzari lucidi». Si vestì, senza far delle rime, e prima di uscire, scrisse due righe al proprio busto in bronzo, rimasto a Bologna. Scese, andò in Galleria, a far colazione e ordinò: «M’arreca un buco di carneo osso rivestito, – e disotto i suoi bravi col sugo spaghetti mettici, – e un quinto uniscici di lagrima di pampini». Quando pagò il conto: «Non calcare la penna, la mano mi gira nella tasca tre volte o quattro e ne esce malcontenta». Si mosse quindi per recarsi alla Braideise a consultare alcuni papiri che l’aspettavano da parecchi anni avanti Cristo. Seguendo il suo stile, invece di prender la via più corta, passò per piazza Castello. Quivi provò una di quelle grandi consolazioni, riservate solo ai capo-scuola, vedendo quelle BARBARE COSTRUZIONI; e non poté a meno d’esclamare: «Non ancor viste orribili erette mura sempre umide – nella strada strettissima troppo caro appigionansi».

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Al Caffè Carini della prima maniera non v’era nottambulo che avesse qualche soldo che non vi facesse una visita. Alcuni poi si fermavano fino al mattino; la clientela notturna brillava per i vari tipi della malavita, era l’antro dei nottivaghi, dei più ribelli al letto, alla casa, alla famiglia, di coloro che vagavano dalle due di notte all’alba. Il Ghislanzoni lo chiamava il caffè dei… lemuri vaganti. Quando sorgeva il sole, la fisionomia del Carini, mutava; i nottivaghi si allontanavano, cominciava l’entrata dei negozianti, dei mediatori, dei viaggiatori mattinieri; v’entrava qualche serva svelta e guardinga a prendere la tazza di caffè prima di far la spesa. Verso le undici cominciavano ad arrivare da piazza Fontana o dai Mercanti, commercianti per la colazione; a mezzodì si vedevano parecchi impiegati di Palazzo Marino abituati all’osso buco con contorno di risotto, né vi mancava mai di passaggio a Milano il brillante della Compagnia Milanese Giraud. Faceva sovente la ronda nei pressi el Peppinett il più celebre lenone di Milano di quarant’anni orsono, guercio e repubblicano, secondo quanto si dichiarava. Il Caffè Manzoni, ebbe anch’esso figure singolari della bohème e perché faceva parte del teatro Manzoni, fu campo di battaglia per le prime impressioni e le prime critiche in serate memorande. Verso il 1886 vi era il Doro un famoso cameriere notissimo per le premurose attenzioni ai clienti e le frasi complimentose condite di graziose osservazioni. Aperto sull’angolo di via Silvio Pellico, fra l’arco della casa del Teatro che mette in piazza San Fedele e la porta dove dimorava l’impresario della Scala, v’era la botola che conduceva all’angolo dove l’Aliprandi aveva aperto il caffè. Clienti abituali erano: Cletto Arrighi, Enrico Rossi, fratello del grande tragico ed impresario del Gerolamo, Isnardo Sartorio autore drammatico; nei suoi soggiorni milanesi Illica, a sbalzi Bizzoni e Cavallotti, Moneta e Romussi, Boccelli e Tronconi, Dario Papa e Napoleone Perelli per non ricordare che in parte la varia clientela di questo ritrovo.

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Fulvio Fulgonio si può dire che vi stesse di casa. Una volta il proprietario gli fece negare il caffè perché aveva un insoluto conto inveterato, e il brillante scrittore andò al banco e gli disse: «Mi dia almeno venti centesimi per andarlo a prendere in un altro posto». Il Caffè del Giardino pubblico ebbe invece una fisionomia tutta propria, anche per la clientela in maggior parte formata di coppie in cerca di solitudine più o meno compiacente. In questo caffè comparve un giorno un personaggio: el Giacom; solo i vecchi ricordano questo scimmione di buona indole, che fu delizia dei ragazzi di un tempo; fece una scappata e si sedette come on scior al caffè che era deserto. Era brutto el Giacom, tanto che si diceva a Milano: brut come el Giacom. Finì, male, poveretto, in seguito ad un incidente piuttosto allegro. Un gentiluomo accompagnava un’augusta dama ai giardini pubblici e giunto davanti alla gabbia della scimmia, vede questa secondo il costume dei suoi simili, fare certi gestacci...; indignato il gentiluomo percuoté col bastone che portava la bestia, ma essendo il baculum animato di piombo, il povero Giacomo soccombette! Lunga vita ebbe il cafferino nel palazzo del Tribunale condotto da Pietro Cesati. Il cafferin di Veggion nel Verziere vecchio è stato un’istituzione; la clientela era tutta formata dai vecchi col tipico cilindro e dalle vecchine dallo scialle color pulce. Demolita la casa dove aveva sede disparve, ma il proprietario fu l’ultimo a sloggiare; la casa era già in demolizione e il cafferuccio che aveva l’insegna del Guatemala resisteva ancora. In quei tempi il caffè abbondante ma non troppo eccitante, «l’amaro e rio caffè», si versava da una grande cogoma azzurra che era tenuta sempre sulla cenere calda; costava due soldi. Sovente era l’ultima dovizia di quei poveri vecchi della Signora. Addossati alle pareti v’erano parecchi tavolini ed attorno sedevano a bere il tencet, prima di cominciare, il giovedì e la domenica, le loro peregrinazioni presso parenti e conoscenti e protettori.

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Al cafferin Gaetano Sbodio veniva a studiare i tipi che crearono el duettin d’amor. Vi entrava el barbapedanna colla chitarra, forse già presago che egli pure avrebbe finito al Loeug; fra le macchiette era el nason che vinse un concorso fra i più grandi nasi di Milano, indetto dai frequentatori del ristorante delle Asse a Porta Vittoria, fra i quali lo scultore Grandi, il fotografo Pettazzi ed altri. Nelle sere d’inverno si vedevano davanti al cafferin parecchie vetture pubbliche ad attendere i brumisti che entravano a bere le “acque calde” sul tipo che beveva la schiuma della loccheria, nella “cantinozza” famigerata di via Conca. Paolo Valera era di questo locale un frequentatore poiché veniva a studiarvi i suoi tipi che trovavano solo riscontro in altri tipi romani del vicolo del Micio o di quello del Bologna. Il Caffè delle Cinque Vie, nel cuore del piccolo mondo antico milanese, resistette fra gli ultimi alle demolizioni del vecchio quartiere tra piazza Borromeo e la Posta. Le Tre Marie del Corso erano prima in via Pattari; il forno delle Quattro Marie (come poi ne perdessero una è un mistero ambrosiano) diventò poi caffè e pasticceria. Più avanti presso la libreria Dumolard tenuta dal caro e compianto cavalier Brugnatelli chiamato «el smortin del Dumolard» si apriva il Gamberini. Povero Brugnatelli: morì vivamente compianto nel ’35 e volle che sulla sua tomba si scrivesse: «Libraio milanese». Il Caffè del Genoeucc classico, diremo così, fu quello tenuto dalla Mammetta; era notturno: davanti al Carini, e poiché il nome fu dato anche ad altri rivali, la donna ci teneva a dichiarare che il suo era quello vero! E, a valorizzare le sue asserzioni faceva vedere la patenta. Era là che la fierezza morale della senza tetto, vedendo passare di notte, in stivaletti e cappellone alla Rembrandt, qualche cinquelirofila dell’anteguerra, esclamava con compassione: «Povera tosa!» E se i clienti osservavano alla Mammetta che il caffè era un po’ leggero, si sentivano rispondere: «Come? è il fondo del Caffè Sanquirico e l’ho fatto bollire appena due volte!»

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La clientela di nottivaghi, di locch, di ciccaiuoli, di infelici veneri, andavano a riscaldarsi e la clientela era tante volte così abituale che la padrona faceva... credito. Se le si chiedeva il perché del nome: «Caffè del Genoeucc» e se questo alludesse ad una usanza dei clienti di prendere il caffè per caso in ginocchio, rispondeva sdegnata: «I noster client staven in pè!» *

Le demolizioni per la Galleria, quelle per l’ampliamento di piazza della Scala e per la costruzione del palazzo della Banca Commerciale, altri lavori di trasformazione, fecero sparire una trentina di vecchi caffè del centro. Disparvero così il Caffè del Beruto, dove si passavano in rassegna le popole che ritornavano colle mamme dalla messa a San Giovanni delle Case Rotte o da San Fedele; il Martini, l’Accademia, il Mazza; il Caffè del Duomo e tanti altri che da lunga teoria di anni avevano dato alla vita della città tipica fisionomia inconfondibile. Ferdinando Fontana, quando cadde l’isolato del Rebecchino nel 1875 scrisse: In un nembo di polvere cadon le vecchie mura; sembran colte le tegole da un’orrenda paura; ed i balconi vedovi d’imposte e senza vetri sopra i passanti guardano come occhiacci di spettri,

e più avanti manda un saluto: […] alla storia delle mura cadenti; ai drammi, alle commedie che si ordiron per secoli nelle piccole stanze, ed impressero un marchio alle umane sembianze.

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Una frequentatrice notturna del Caffè del Genoeucc (schizzo di Pinochi).

In pochi caffè si ebbero a Milano le “chellerine”. Ma quando esse fecero la loro apparizione, sorsero grandi proteste dei camerieri che avevano a loro tribuno Alberico Pierotti dai polmoni possenti e dalla... trachea taurina. Le chellerine comparvero dunque verso il 1887 a Milano. D’importazione nordica, esse invasero dapprima le birrerie, poi i caffè, ma per poco tempo, ché disparvero. Ebbero anche il loro cantore e fu un ignoto Felice Cavallini, pseudonimo, che scrisse una briosa metrica in loro onore:

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CHELLERINA Tozza o smilza – sempre ardita. Bionda o bruna – sempre ardente Per istinto di sua vita, Per molestia d’incombente, Col grembiule e i manichini, Col chignon, la pettiniera, Vispa eretta, co’ piedini Irrequieti e la gorgiera Merlettata a pizzi, a sbuffi, Smorfiosetta, sorridente Dee mostrarsi anco ai rabbuffi, Vezzeggiando, compiacente. Via, succinta, in gonnellino Striscia, scatta come molla, Guizza al par di un pesciolino; Cinghia al sen, borsa a tracolla, Nappa a lato e la supina Destra palma alto levata Che il vassoio e la manina Porge ahi! troppo regalata! Troppo ha perso il suo profumo: Il candor di verginella Già da tempo è andato in fumo!… Spia ne è un lembo di gonnella. Onta a chi pria l’ha gualcito O a bassezza di mestiere? No – al destin che ha mostre a dito Le viltà del suo potere. È condanna all’infelice L’abbominio dell’esempio, L’indigenza ammonitrice Che la dee guidare al tempio Del dio Pluto, all’agiatezza De le doti venturiere, Alla stolta e falsa ebbrezza Del piacer senza dovere. A lusinghe non restia Finge storcer la boccuccia, A dispetti e gelosia Si contenta far spalluccia. […] Pure anch’essa ama – e esercita Il suo amor quale un congegno, Non si pasce sol di chiacchiere… È un amor che vuole il pegno. È un amor che esige un lascito

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E che valuta il suo bene Dal trovarsi ognor solvibile Per bontà di chi mantiene, Che si lega e che si svincola A capriccio e non è avvezzo A patir doglie di stomaco E quel ch’è – un amore a prezzo. Pure anch’essa ha gioie e triboli, La sconfitta e la vittoria, Ha speranze, ansie, pericoli... Pure anch’essa ha la sua storia, Una storia di carattere Femminile schietto schietto Storia inver tutta muliebre Perché è quella del protetto, Di chi geme supplichevole, Obbedisce e non comanda Di chi, tra sorrisi e lagrime Sempre, ognor si raccomanda. Sente, prova e sa discernere Nobil atto dall’immondo; Non lo ignora; lo dimentica Per lucrar – sua meta al mondo. Sol vergogna non ha stimoli Per l’incauta tratta al mare – Preso aire nello sdrucciolo Chi si puote più arrestare?! FELICE CAVALLINI

Fu più volte stampata una poesia dell’almanacco “Desmenteghet minga de mi” che enumera le glorie dei caffè milanesi dal 1840 al 1850: On caffè, varel tant, varel poch, semper el se disting per quaj oggett; gh’emm l’Europa, el Mazza per sorbett, per caffè-panera el Levant, el Gnocch, per conserv gh’emm el Cova de trat locch. No parland di so sal di bon polpett, vorii Ciavenna, gener perfett? Caffè Giardin ve la dà coi fiocch, se no fus per paura che quajvunn el me dess de l’ozios del leccard, fenissi con la Posta e col Cappell, i non plus ultra in quant a pasta frolla, ai oss de mort, al smercio in grand d’offell.

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In piazza della Rosa, dove il Bazzoni pose la casa della bella Celeste degli Spadari, c’era un caffè tipico per la vendita dello “scottum”, un beveraggio che è oramai sparito, ma che deliziò i nostri nonni e padri. Fu quello il primo bar di Milano, novità questa che pareva sbalorditiva, perché bisognava bere lo scottum in piedi, in quei tempi nei quali la vita del caffè era ancora fiorente. Quel bar era frequentato da Cavallotti col pensoso e querulo Romussi che lo seguì anche nel feudo elettorale di Corteolona, seguito poi dai Cappa. Iniziò la concorrenza un altro bar, dove si beveva una mistura di ignorata composizione, chiamata se sa minga; quel bar era al largo di Santa Margherita, ma lo scottum continuò a tenere il primato, tanto che non si sarebbe concluso un affare senza un’amichevole bevuta di scottum. Il tempo che tutto cancella e devasta la bellezza come intiepidisce il valore, ha fatto cadere nella dimenticanza anche lo... scottum! C’era un segreto per comporlo e lo possedeva un certo Giorgio, vecchio operaio che lo cedette ai Branca. Ricorda il Giarelli nel suo scintillante libro oramai quasi introvabile Vent’anni di giornalismo 1868-1888 il sonetto a rime obbligate: «Scottum bum-zum» che fece sul liquore per invito di Giuseppe Bestazzi giornalista della vecchia guardia e redattore capo della “Gazzetta di Milano”. Ad introdurre poi la musica nei caffè e nelle birrerie, crediamo sia stata la Birreria Stoker in Galleria; essa aveva anche un coro di cantanti “quasi tirolesi”, perché al pubblico occorre dare sempre delle illusioni, mentre, come scriveva il povero Oronzo Marginati, al pupo bisogna «dargli tanto di zinna!» * Ed aggiungiamo qualche poesia scherzosa, letteratura creata dai caffè milanesi, che comparve parecchi decenni or sono, oggi si può dire introvabili, quando fu introdotto il Ferro China Bisleri e il Fernet Branca. La réclame si sbizzarrì in cento modi; il Branca fece fare dei divani e delle poltrone che face-

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vano una specie di ruggito di leone quando ci si sedeva sopra. Il leone simbolizzò il fernet e comparve in tutte le bottiglie, mentre compariva… questa poesia: I LEON DEL DÌ D’INCŒU L’omm, che l’è proppi el re di animai, Minga content d’avè domàa i leon I a ridott a tal umiliazion De fagh forse pietàa finna ai cavai De l’omnibus-réclame che g’ha i Boccon. Che colp per i quart pagin di giornai Quand i re del desert di barracon Compariran doman cont l’Hollovai Oppur col Fernet-Branca e el Zoèdon. Pitturàa sulla panscia o sui garon!

Più tardi nell’anno 1885 fu pubblicata sempre nella Commedia umana del Bizzoni, anche quest’altra poesia che aveva per soggetto la Galleria: La MALDICENZA, all’undici, anche senza denari, Lo sciampagnino cabala dal docile Campari: Beve, ribeve... sbraita!... di fernet si alimenta, E con l’amaro, in corpo, la CALUNNIA diventa. Poi, briaca d’assenzio, manda tutti in galera… Specie, se non azzecca, di pranzar, la maniera. Va via, quando la cupola splende, accesa dal topo, Ma torna al sicut erat più trista il giorno dopo, E a disdoro dell’opera del compianto Mengoni, Taglia più panni addosso dei fratelli Bocconi!

* Né si potrebbero obliare in queste pagine di rievocazioni milanesi alcuni epigrammi che si può dire fiorirono negli ambienti dell’Hagy e del Cova, e da questi due cenacoli divulgati. Raccolti dal mio concittadino di Omegna, Luca Beltrami, in un prezioso quadernetto, che poco prima della sua dipartita mi aveva favorito, consigliandomi di pubblicarli a suo tempo, essi possono ben prendere posto qui.

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Per un cane di d’Annunzio ucciso alla Capponcina da un villano con un colpo di zappa: Qui giace il veltro del poeta, cane intelligente, rapido, garbato; di superuomo degno supercane, da un crudele bifolco massacrato Bagna, o Gabriele, il tumulo di pianti, lo superbagneranno i can passanti!

Per la tomba di Depretis a Stradella: In questa sontuosa e mortuaria cella riposa tutto solo il mago di Stradella, non lo turbate, in premio al ben che a Italia fea lasciate ch’egli in pace… si cambi di livrea.

Per il Trionfo d’amore di Giacosa: Signor di Pennino sai dirmi qual vino, Moscato o Pomino, ti fece alterar? Fu vin d’Alicante? Fu vino spumante? Dovresti all’istante tre fiaschi vuotar!

Pubblicandosi Gli amori degli uomini di Paolo Mantegazza: Se gli amori degli uomini son quelli che ha descritto il Mantegazza, povera umana razza! Dei mandrilli non siamo neppur cugini; ma discendiamo tutti dai suini, e il professore, che egli è uom di scienza, col suo libro affermò la discendenza!

Furoreggiando nel 1877 la Patti a Milano, dall’Hagy partirono questi versi diretti alla diva da un ammiratore:

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Patti Adelina che viene dai cieli: per udire una nota del tuo canto, tutta vita pattugliar vorrei sulla tua porta fra le nevi e i geli per quindici anni sopra un mar di fuoco, struggendomi d’amor, pattinerei, a patti col diavolo verrei… e per te sul patibolo morrei.

e poi ancora: Forti, compatti, o putti, ad acclamar la Patti or su venite tutti. Diventerete matti, e il suon dei vostri petti lo sentiranno a Pitti...

alludendo all’affermazione di Filippo Filippi che aveva scritto udirsi in piazza del Duomo gli applausi alla Patti al teatro della Scala. Essendosi pubblicato da un giornale che a Pinerolo vivevano cinque generazioni sotto lo stesso tetto, nel 1925, all’American Bar fu scritto questo epigramma: Il maestro Franchetti esclama: cinque? oh inetti! io batto que’ campioni, ché d’ospitar mi garba venti generazioni entro la stessa barba!

Per la venuta a Milano della spettrale Sarah Bernhardt, nel 1889: Per Bacco! val tant’oro ... Quant’essa pesa – dice Lo spettatore in coro Parlando dell’attrice – Elogio sconveniente Meschino ed infelice,

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poiché la grande attrice Si sa – non pesa niente!

Quando per l’ennesima volta morì il “Pungolo”: È morto il vecchio Pungolo, è il meglio ch’egli fece, ma un altro vecchio Pungolo, rinasce alla sua vece; il neonato, almen sul morto il pregio avrà, che nato essendo vecchio, più presto morirà!

Tale a larghi tratti le vicende e le fisionomie dei caffè milanesi che ebbero fama e vita nella città raggio d’Italia.

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IV. PER LAGHI E COLLINE DALLA SESIA ALL’ADDA E SUL CERESIO FOGAZZARIANO

Così aveva cantato un umorista a proposito del classico Caffè dell’Amicizia: L’amicizia è creatrice degli affetti più santi, oggi berrem barbera domani berremo chianti!

Nel 1849, l’anno storico di Novara, i caffè più noti a Novara erano l’Amicizia nella contrada del Pesce, la Lega Italiana, le Colonne chiamato poi Costituzionale sotto i portici dei Mercanti, condotto da due soci dal nome esotico e di stirpe esotica: un Gruber ed un Ivedroskj; una Maria Palco teneva il Nazionale che un tempo si chiamò la Meridiana; poi c’erano l’Unione già della Posta, sul corso di Porta Milano al numero 334. Un vecchio cafferuccio fu quello sotto il voltone del Broletto che resistette fino alle demolizioni per i recenti ristauri e che non aveva nome. Il Moro era sotto i portici di piazza delle Erbe ed aveva un’impronta settecentesca, nel quarantotto lo eserciva un Luigi Cassinoni; il pubblico che lo frequentava era tutto di commercianti dei portici, quelli del Paradiso, della contrada della Tela, e di quella dei Fiori. Il caffè storico novarese fu l’Amicizia durato fino al 30 giugno 1935; esso fu il centro della vita di Novara. Un tempo si era chiamato l’Uguaglianza, riflesso di meteore democratiche; ed era frequentato da funzionari, ufficiali superiori per lo più, consiglieri provinciali venuti in città per le sedute, liberali della vecchia scuola, conservatori. Vi fu un tempo, quando venne illuminato a gas, che molti lo diserta-

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rono per timore di qualche scoppio. Passò a parecchi: al Maestri, al Signorelli, al Testa e Tommaselli, alla vedova Invernicci, al Gaia che lo riaperse in altro luogo la sera dell’11 ottobre 1936 dove era il Barlocchi chiuso da qualche anno. Il cameriere Gaetano ne era diventato il genius loci, salutava tutti colla tipica parola «j’auguro», ai giocatori serali si offriva come... sovventore. Per vent’anni il Giuannin sempre minorenne, rimase fedele al vecchio caffè sulla cui soglia si sedeva un tempo il Sciuscetta che gettava via i mozziconi uno dopo l’altro avendo sempre qualche raccoglitore pronto. Il Sciuscetta era un causidico Donzelli. Al tempo dei Consigli provinciali convenivano al Caffè dell’Amicizia Quintino Sella, Costantino Perazzi, Giovanni Faldella, Alfredo Falcioni, Felice Cavallotti da Meina e Dagnente, che molte volte buttava giù dei versi sui marmi dei tavolini; dell’Amicizia fu quotidiano ospite il senatore Raffaele Faraggiana che vi posteggiava e che vi passò metà della sua vita. È tradizione che sull’angolo delle Ore dove si apriva il caffè, la sera della battaglia di Novara, quando la città fu invasa dai soldati avviliti, vinti, affamati, gridanti al tradimento, il duca di Genova, richiesto di intervenire per ristabilire l’ordine, uscito con un gruppo di ufficiali e carabinieri, abbia dato un colpo di sciabola ad un bersagliere che gli era stato indicato come saccheggiatore e che era stato veduto commettere violenze. L’epigramma sulla cantina Porazzi, attribuita a vari ed anche a Cavallotti, fu scritto a matita sopra il marmo di un tavolino del Caffè dell’Amicizia verso il 1890, la lastra venne rivoltata e l’epigramma si poté vedere per alcuni anni, poi disparve. Diceva: Sette del mondo un giorno eran le meraviglie, ma di Porazzi ancora non c’eran le bottiglie.

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Nella saletta dietro il caffè era di sera regina la Borbanella, anch’essa scomparsa. Il piccolo Caffè di San Carlo, che fu di Biagio Del Prete, ritiene in nome del San Carlone, che è poi invece la statua di Carlo Emanuele IV del Marchesi. Altro vecchio caffè fu all’angolo del vicolo del Mazza, quello che prese il nome da un liquido fisiologico e che ebbe momenti di modesta gloria. Pure di vecchia data fu il Caffè Leone sul corso di Porta Milano, davanti alla casa Bollati. Il Caffè del Popolo fu sempre il convegno dei cacciatori e non si parlò altro che di tiri, di schioppi, di cani e di gesta venatorie. Altro antico caffè fu quello dell’Allea, dietro il teatro Vecchio, detto il Caffè del Reina. Il Caffè Novara, già tenuto da Giovanni Battaglia, conservò per lunghi anni le caratteristiche degli antichi caffè italiani coi sedili di velluto rosso e i tipici tavolini; lo sostituì una banca. Sugli ammezzati del caffè però un pappagallo insolente che vedendo arrivare il Barabec, una macchietta locale, lo chiamava, facendolo inferocire e gridare maledizioni al padrone e all’uccello. Il Caffè Peer, sotto i vecchi portici di piazza del Duomo, durò fino a pochi anni fa ed ebbe vita di oltre un secolo; si chiamava un tempo Caffè Gioberti. Il Peer era uno svizzero per il commercio della birra venuto a Novara; il suo caffè aveva varie entrate, una rispettabile clientela, divani vetusti del tipo classico dei caffè dell’epoca. Altro antico caffè era quello della Milizia Nazionale che nel quarantotto si apriva nella contrada del Civico Palazzo, con una popolare pasticceria. Pure antico è il Caffè Statuto nella piazza omonima detta del Rosario per la chiesa della Madonna del Rosario che vi sorge. All’Italia, tenuto per tanti anni dalla signora Concessa, cognata del pittore Ranzoni, il comandante Ugo Ferrandi, l’esploratore novarese che tenne Lugh contro le minaccie abissine, aveva il suo... quartier generale.

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Lo scomparso Barlocchi sotto i portici prospicenti al Duomo, fu una vera istituzione novarese e là si passavano in rassegna le bellezze muliebri nelle ore della passeggiata e dei concerti della banda militare o cittadina. Scomparso in questi ultimi anni per un riadattamento del palazzo che lo ospitò per tanti anni, il Caffè Barlocchi fu riaperto nei locali del palazzo Venezia al principio dei viali dei giardini pubblici di fronte al teatro Coccia; la bella piazza Vittorio Emanuele ha dunque tre lati ornati da tre dei migliori caffè cittadini, due di vecchia data mentre il Caffè Novara è da pochi anni centro della gioventù sportiva e gioconda. Il Caffè Goccia di cui abbiamo fatto cenno è sorto coll’apertura del nuovo teatro. Vi passarono per mezzo secolo cantanti celebrati e illustri maestri che onorarono il teatro novarese grandioso e architettonicamente cospicuo. Al Caffè Novara il professor Augusto Bosoni, ora defunto, raccoltosi al suo fedele tavolino scrisse rapidamente una poesia di protesta contro il monumento ai caduti di Novara che tante discussioni aveva sollevato, dipingendolo in modo scultorio: Di Novara ai caduti il monumento al volgo miserello fa spavento, ma d’esultanza riempie la coorte degli autogeni, a cui del ver le porte Minerva oscure aprì. Son le colonne simbol d’un tempio, e giorno e notte insonne, fruga l’Italia in quel suo testolino, come spinger lassù l’eroe divino. Vano è il tentar, perché non basta un’ala a superar del tempio l’ardua scala mentre l’Eroe, d’anatomia modello, alza le braccia ad imitar l’uccello. Al tragico spettacolo la madre piange, ed invidia le beate squadre di quei che dietro, in atto pagliaccesco, si stan nudi a goder dell’ombre il fresco. Meglio al macel che a fecondare acconci di fichi secchi inghirlandati e sconci, di pinguedine floscia, il passo tardo stentan due tori; è a lor d’impaccio il lardo, e d’una donna a tergo il gesto arguto,

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tenta un bimbetto di otturar l’imbuto, mentre d’oscena foia un vecchio invaso frega sul petto d’altra donna il naso; della vita, dell’uom sintesi vera: di dietro impazza e avanti si dispera!

* Il Bolongaro di Pallanza sulla piazza del lago che vide passare le tre generazioni dei Cadorna, da Luigi Cadorna al generalissimo dal 1915 al 1917, dopo il viale delle magnolie, raccolse per mezzo secolo, ed anche oggi dopo le trasformazioni, il fiore della cittadina verbanese, gloriosa di memoria, opulenta di bellezze. Vi dipinse ampi quadri di paesaggio Federico Asthon, tragicamente perito sull’alto valico del Sempione in una sera oscura; paesista nato di padre inglese e di madre fiorentina, rifugiatosi poi all’ombra della torre di Matarella sul colle di Domodossola, a condurvi un’esistenza di sogni e di mal pagato lavoro. * Fra gli antichi tipici caffè verbanesi che adunavano la piccola società locale deve aver posto quello cannobiese della Salute che tenne un posto intimo di vita borghigiana, di fronte alle rocche fra Cannobio e Cannero, nido di banditi, insieme all’osteria del Moretto. Il Caffè della Salute si apriva nel cuore di Cannobio, a fianco della Colleggiata, sotto il campanile di San Vittore e vicino al Municipio, alla Pretura ed alle scuole colle quali sembrava formare un corpo unico; nel cortile torreggiava un vecchio gelso all’ombra del quale gli scolari attendevano l’ora di apertura delle aule; più avanti gemeva d’autunno un vecchio torchio, in fondo al cortile stazionava un tipico vecchio fabbricatore di tela detto «el Giuvan di ball»; il caffè fu il centro di propaganda di quello stabilimento detto della Salute presso l’Orrido del Cannobino, che ispirò questo epigramma:

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Tetra di morbi origine È la beltà sì spesso, Che la Salute all’orrido S’è ricovrata appresso.

Il caffè scomparve quando il centro della vita cannobiese si spostò verso il lago e scomparve pure il vecchio Caffè dei Pironi nel cuore del borgo medioevale. * Varcato il confine fra Cannobio e Brissago, in quest’ultimo bel paese del Ticino un caffè è legato alla vita di Leoncavallo che si era innamorato di Brissago creandovi una villa dove viveva colla Berta. Era il Caffè del Siro dove ricordo di avere più volte giuocato prima del 1911 col maestro a scopa; erano quelle partite... terribili! Una sera si accese una disputa sulle guardie doganali svizzere che in quel tempo apparivano esageratamente fiscali. Qualche brissaghese che non aveva troppa simpatia col maestro credette offesa la patria per una sua frase. Corse anche qualche pugno fra i contendenti, ma Leoncavallo non fu toccato; forse perché aveva brandita una sedia mettendosi sulle difese. Però alcuni giovani e ragazzi si riunirono fuori e lo accompagnarono a casa gridando e lanciando qualche sasso. Il maestro ad intimorire quei ragazzi si arrestava volgendosi minaccioso ed essi scappavano. La domenica dopo, essendosi inviperita la questione nei caffè e nelle osterie la musica passò sotto la villa di Leoncavallo suonando una marcia funebre interrotta subito per l’intervento di persone autorevoli. Poi tutto si calmò; quando il maestro comparve in pubblico dopo qualche giorno fu vivamente applaudito. Ma egli non perdonò l’offesa, chiuse la villa per questa ed altre vicende e se ne andò colla sua Berta. *

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Più avanti verso l’Ossola, percorsa dalla verde scia del Toce, nella piccola capitale millenaria dei Leponzi, in uno di quei centri di vita borghigiana, un tempo resi lontani per le comunicazioni delle corriere, prima che la ferrovia del Sempione attraverso il più grande valico delle Alpi, unisse la valle del Rodano al lago Maggiore, i vetusti caffè riunivano gli amici alle serali partite. Vi si viveva la vita uniforme delle piccole città, vi si crogiolavano le idee, vi si fondevano i pettegolezzi in un unico forno. Il Caffè dell’Jnugi, delle Centa Piazza, il Boschetti, lo Stevenino, il Tiro a Segno, il Borlotti, videro nella seconda metà del secolo XIX, lo svolgimento della pacifica vita provinciale della cittadina, prima che l’invadessero elementi forestieri. Fu a Domodossola, nel vecchio Caffè Boschetti che Severino Ferrari, nel 1899, commissario regio agli esami del liceo Mellerio Rosmini, scrisse questa curiosa poesia: L’alba. Il Carducci, a cui l’aveva in seguito inviata, l’aveva definita del tipo «pazzarellissimo»: Cantò il gallo! Andò la voce a percuotere la valle. Vi risposero sul Toce striscie bianche e striscie gialle, e chi, fruste, bussi e crocchi. Il fringuello per l’adorna fronda andò saltando in vetta. Ritirarono le corna le pie stelle! La civetta tornò al tufo e velò gli occhi.

* L’ultimo dei Lusignano deve essere ricordato in questa rievocazione dei caffè storici italiani. Guido di Lusignano, dopo tante vicissitudini, dopo aver guadagnato e perduto al giuoco, dopo aver viaggiato sui wagons-lits, dopo aver fatto l’ebanista, diventò conduttore di un piccolo caffè milanese in via Galilei. Raccolto un mo-

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desto peculio, si ritirò colla moglie, ottima donna paziente e serena, a Varallo Sesia, dove condusse fin quasi alla morte il Caffè-ristorante della Stazione. Visse a Varallo, alcuni anni, querulo, iroso, fra angustie; a chi gli ricordava la sua origine reale, dopo la pubblicazione del mio libro Ultime Coronate e Principesse in esilio, che originò articoli sul Lusignano, in una mezza dozzina di quotidiani, rispondeva: «semm tutt fioeu d’Adam!» Gli ultimi giorni gli furono amareggiati dall’apertura di un altro caffè concorrente fuori della stazione. La sciora Angioleta la moglie, tentava invano di calmarlo. Guido di Lusignano, come il padre, morì a Milano nell’Ospedale Maggiore il 2 luglio 1933, quasi repentinamente tanto che qualche parente non arrivò in tempo a vederlo in vita. Con lui si spense la dinastia dei Comneno, imperatori di Bisanzio e di Trebisonda, re di Cipro e di Gerusalemme. Varallo, ch’ebbe il canto del Regaldi, la gloria di artisti di opulenze coloristiche, il saluto nostalgico del Pellico e la visione ispiratrice di Gaudenzio Ferrari, non ebbe caffè tipici, ma osterie di buoni bevitori dei vini di Fara e Sizzano, di Ghemme e di Gattinara, pur tuttavia non possiamo dimenticare il Nazionale in Varallo vecchio, quello scomparso dei Tre Re a fianco dell’albergo omonimo sulla piazza di San Rocco, il vecchio Commercio, tutti elementi di vita di quel suggestivo ambiente subalpino che al maestro Toselli nel suo libro Il mio matrimonio con Luisa di Sassonia ricorda: «Varallo in una delle più belle regioni del mondo». * Le lettere «L.V.G.A.» che compaiono sullo stemma di Lugano, vorebbero, secondo parecchi, ricordare la quinta legione dei Gauni ausiliari dell’esercito romano: Legio quinta Gauni auxiliares. Per questo forse Hans Barth, alleato spiritualmente, tedesco d’Italia e cantore in briosa prosa delle osterie nostre quando per la guerra dovette malinconicamente varcare il confine, andò a stabilirsi sul Ceresio e vi rimase tanto che 100

poté visitare molto bene tutte le sue osterie e scriverne un capitolo che fu aggiunto alla seconda edizione di Hosteria. Quando d’Annunzio accennò al naso del giornalista, chiamandolo «totus rubens», questi protestò affermando che il suo naso era bianchissimo come un giglio, anzi come la bianca figlia di Fiesole o come quello di Madonna Gigliata. Il lago di Lugano è dovizioso di crotti, di “canvetti”, di cantine scavate naturalmente o per mano d’uomo nelle roccie dei suoi monti, anzi si può dire, anche per le osterie, è tutta una sala bacchica. Ma birrerie e caffè non mancano sul lago ospitale agli esuli italiani del Risorgimento ed ai profughi di tutto il mondo. La Posta di Lugano è il caffè tipico provinciale del secolo XIX, colle sue caratteristiche, colla fedele clientela. Era la meta di Fogazzaro durante le sue giterelle a Lugano. La fama dei caffè luganesi è però divisa tra il Federale, il Brusa e la Posta. Vi si beve birra e vi si beve vino, per non lasciare tutta la gloria bacchica alla Tota di Fra, al Crotto Luganese, all’Osteria Italiana di val Nassa, alla Lanchetta, alle Cantine di Caprino, agli infiniti “canvetti” del Brè, del San Salvatore, della Castagnola, della Collina d’oro. Non si può dimenticare fra i caffè di Lugano il Piccadilly, la Riviera, il Jacchini, il Gambrinus. Di fronte all’imbarcadero centrale, ecco il Caffè della Città, meta dei forestieri, poi il Lugano, il Conza, il Danonelli, il Vanoni, il Forster, l’Astoria. * Una punterella in Valsolda, passando davanti al Niscioree di fogazzariana memoria, ci porta al caffè centrale della Valsolda, sulla piazza di San Mamete: la Stella d’Italia, annesso all’albergo. Quivi andavano Fogazzaro e tutti gli ospiti suoi o i forestieri che attratti dalle magnifiche descrizioni dei luoghi, venissero a ricercare nella verde quiete della vallata la serenità che aveva ispirato lo scrittore dalle grandi rinunzie sessuali sulla carta dei romanzi.

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Il Caffè concerto Giardino d’Italia a Genova. 102

V. NELLA SUPERBA

La vita del caffè a Genova ci fornisce argomento per poche rievocazioni. I genovesi sono grandi lavoratori qualunque sia la loro condizione sociale e molto economi. Un uomo che passasse la vita al caffè sarebbe chiamato in senso psicologico un... meschino! Poca vendemmia dunque di impressioni, anche perché a Genova manca ed è mancato veramente il caffè “storico”. Quello che ai tempi di Carlo Porta a Milano si diceva: fà el scior, non è forse mai esistito a Genova. Pur essendo gran signore, ricco, il genovese non vive in ozio; quel padre dei vizi che vegeta e prospera è sconosciuto al genovese della terra sacra alle navi che salpano, ai camini fumanti delle industrie; egli ama nostalgicamente e tradizionalmente il pesto, la fainà, la buridda di pesce, il pane dolce, la torta pasqualina, il bianco innaffiante della Coronata, o friscione, il cappon magro, la cimma pinna, la sciocca e le gagliarde bevute del vino delle Cinque Terre. Al caffè vanno poco e si fermano pochissimo: liberi dall’assillante lavoro quotidiano, vanno a cercare le impressioni della vita, nella scia dei ritrovi cittadini a tutti cari e corrono dall’Olimpia, all’Andrea Doria, dall’Erhard, al Giardino d’Italia su all’Acquasola. Più fiorenti dei caffè sono le birrerie e fra le vecchie e le nuove il Löwenbrau di Monsch, che ispirò i versi: Wer der Bier will und nicht ponsch Geth su Monsch Ausredem geht jeder Mensch Noch zu Jensch

ossia: chi vuol birra e un punch vada da Monsch e quindi ognuno ad Augustinerbrau fondata da Jensch, figlio di un 103

deputato prussiano, dal Gambrinus al Foeth dalla magnifica sala orientale. Il Caffè concerto Zolesi, la Bottiglieria del Santo in salita Gian Battista, il Bavaria lussuoso, il Roma nella Galleria Mazzini, sono fra i caffè più degni d’onore. Il ritmo affrettato della vita del porto e delle sue adiacenze, animava vecchi cafferucci che poterono dirsi i progenitori dei moderni bars, frequentati da camali, marinai, carrettieri, barcaiuoli del porto. Nell’alta Genova soltanto troviamo i caffè della borghesia e delle classi più elevate. Nel sestiere della Maddalena, il quartiere tipico genovese, a sinistra di piazza De Ferrari, abbondarono dalla metà del secolo scorso, piccoli caffè, in una zona dove pare che l’opera dell’uomo sia costantemente in conflitto per disputare alla natura lo spazio per manifestare la sua attività. Ebbero una maggiore vita alcuni caffè che definiremo “garibaldini” dove si radunavano le due tendenze superstiti dell’epopea: i repubblicani di vecchia marca mazziniana, gli intransigenti e gli addomesticati, i monarchizzati dalle leali dichiarazioni di re Vittorio, dal sorriso accaparrante di Margherita. E fu in omaggio alla prima regina d’Italia che l’osteria di Vignolo, detta «del Giglio», fu prima chiamata «Margherita» o «delle donne», uno degli originali ritrovi genovesi che tutti ricordano. La pace fra le due birrerie-caffè Löwenbrau e Burgherbrau la teneva Gianotto in via San Sebastiano, un ponte incastrato fra queste, istmo di vino fra due rive di birra come direbbe Hans Barth. Pippo al primo piano della Galleria Mazzini contrasta per la posizione collo Zolesi che è di sotto. Ma a Genova, necessita pur dirlo, il bianco di Coronata, il vino delle Cinque Terre, come si beveva all’osteria della Gina, detta anche la Mazzetta, i vini di Ovada e di Rocca Grimalda tengono testa vittoriamente al caffè che sembra ritirarsi stremenzito – sì come fa la limaccia – per usare una frase del Seicento. 104

VI. DAL TICINO AL MINCIO: NELLA VECCHIA PAVIA GOLIARDICA E NEI DUCATI REDENTI

Trent’anni or sono “i papiri” delle matricole universitarie recavano in latino maccheronico i ricordi del “vinattiere” Orlando... – «apud Orlandum tabernarum» – della Tettonia: «Tettonia Virgo mater lactifera», la celebre lattaia che in due sgabuzzini di fianco all’università ci dava la colazione di uova, burro, latte e caffè in tempi frequenti di magra, e che noi studenti facevamo arrabbiare dicendo che aveva a sessant’anni un amante per ogni giorno della settimana e tutti e sei alla festa. E vi trionfava lo “smegmatico” gorgonzola. Quell’antico ambiente che stava tra la trattoria, la latteria, il caffè, sfila tra le memorie della goliardica Pavia ottocentesca; i clienti della virtuosa Tettonia erano detti paccialatt dai pavesi che invidiavano le presunte fortune amorose degli studenti. Davanti all’università c’era un cafferuccio che portava un curioso nome di origine dermosifilopatica, forse perché vi abbondavano i clienti di Scarenzio, poi di Truffi e di Gnocchi. Un altro caffè della Strà Noeva, ossia del corso Vittorio Emanuele, era il Verzelatti, seguiva il De Bernardi, mentre lo Stringa era nella piazza grande. Questo caffè bottiglieria era notissimo, v’erano poi il Morandotti, il Battanoli e in fondo al corso il Bixio, di più elevato rango e d’intonazione garibaldina. Sotto la galleria, che conduce dal corso alla vecchia piazza del Lino, chiamata poi del Popolo, si apriva il Caffè di Bortolo dal nome del proprietario passato poi a Roma: Bortolo Polloni. Vi si vedeva taciturno con un mezzo toscano perennemente fra le labbra il Montini, direttore della “Provincia Pavese”, tipica figura di giornalista di provincia, rappresentante della tradizione demo105

cratica, garibaldina, massonica. Una canzonetta correva verso il 1900 fra gli studenti sulla figlia del Bortolo, naturalmente chiamata la Bortolina, suonatrice d’arpa, pienotta e sorridente e che non era la dannunziana «Lalla dal fianco di dama»: La Bortolina quando suona l’arpa ha gli occhi belli ma belli assai, ha gli occhi belli ma belli assai, la Bortolina quando suona l’arpa,

come fu ritratta in un notissimo numero unico goliardico del 1906 col poetico strumento a fianco. A quei tempi la Pavia goliardica s’intrecciava con parecchie macchiette indimenticate: il professor Roma, la Sett bell (la mala gatta degli studenti); la Padellotta, la Gippa, il Pippo, che apparivano per turno sul “Fasulin” e formavano il vecchio mondo pavese cantato da Rocch Canton, quello che dal numero cinque in Borgo, tenuto dalla “Nicchia d’oro”, finiva al San Marco, un piccolo mondo vigilato dal “Muto del laccio al collo”. Al caffè ad ogni modo gli universitari andavano tutti a costo poi di ridursi all’albergo Bianucci, ossia alla baracca del polentatt, friggitore di pesce a Ponte Ticino, di fronte alla giornalaia Ardemagni; era chiamato anche dagla mia ed il nomignolo gli era stato affibbiato da una sua abitudine di ripetere alla moglie la frase, quando questa vendeva una minestra piuttosto pessima, e doveva ribattere ad ogni rimostranza degli studenti. Quel professor Roma, che abbiamo ricordato, era una macchietta che viveva facendo l’impegnatario ed altri servizi agli studenti. Un anno fu inaugurato... l’anno accademico con un poderoso... pelasgico discorso storico di Giacinto Romano, e contemporaneamente gli studenti inaugurarono... il vespasiano davanti all’aula magna, con un discorso di quell’accademico stradaiuolo, che per tale avvenimento fu ricordato in certe cartoline, mentre col braccio, la mano,

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il dito, al pari dell’iscrizione all’Imbriani, tesi indicava il monumento che prese il nome dal romano imperatore. Il professor Roma portò una volta ad un funerale lo stendardo nero che andava davanti al nostro, per una scommessa, essendo vestito da confratello, e gli studenti gli attaccarono un cartello colla scritta: io porto per una scommessa! Il Caffè Demetrio accoglieva una mezza dozzina di studenti… aristocratici. Benedetto Cairoli lo aveva battezzato il Gregorio Magno dei caffè; lì, convenivano i professori dell’università. Anche Contardo Ferrini lo frequentava e la sua colezione era molto parsimoniosa. Vi andava il Cattaneo, chiamato Cattaniello, perché meridionale, per distinguerlo da un omonimo; al mattino qualche volta di buon’ora entrava toccandosi il petto e dicendo: «qui c’è gastrica! dammi, dammi qualche cosa per digerire» e al cameriere che sfilava l’elenco dei digestivi caldi e freddi, Cattaniello rispondeva troncando ogni indugio: «dammi, dammi... un risotto al salto!» Sfilano nelle memorie del 1898 al 1908, tra i frequentatori del Demetrio: Ercole Vidari, Mariani, Civoli penalista, Eteocle Lorini reduce della Persia, dove era andato in missione presso il governo dello Scià, Francesco Bonfanti, Carlo Devoto, Achille Monti, Camillo Golgi, Schiappoli, Longo, Benini, Buzzati, i Filomusi Guelfi: Gioele e Francesco, Giacinto Romano in lotta politica con don Anastasio Rossi, divenuto poi vescovo ed allora direttore del cattolico “Ticino”; Pietro Pavesi storico, naturalista, combattivo democratico, sindaco di Pavia, che andava al caffè fulminando tutti collo sguardo e agitando per ira la tipica barba, quando gli studenti lo seguivano fin là chiedendogli le vacanze: «buone feste! buone feste!» Dopo fiere lotte che duravano tre giorni per ottenere l’anticipo delle ferie natalizie o pasquali, egli, rigido al dovere non le voleva concedere, cedendo solo di fronte a nuovi tumulti. Persistette una volta ad insegnare zoologia fra le urla degli studenti e tentò di parlare del pediculus pubis fra l’aprire e il chiudere delle finestre, il suono delle ocarine, i fischi,

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circondato dalle studentesse ed avendo al fianco l’assistente: la ieratica Rina Monti, che sposò poi il professor Stella e che ora è morta. Le clamorose dimostrazioni per ottenere l’anticipo delle vacanze duravano a lungo e il buon Pavesi cedeva poi, uscendo a precipizio dalla scuola dopo aver afferrato per il petto qualcuno degli studenti, che invariabilmente lo applaudivano e l’accompagnavano a casa. La scena era tanto degna di assistervi che qualche studente non partiva, fermandosi uno o due giorni di più a Pavia per godersela. Quando il Pavesi pubblicò l’opuscolo di storia locale Il bordello di Pavia ed i soccorsi di San Simone e Santa Margherita gli studenti gli fecero una burla non dimenticata: il Pavesi, quale amministratore della città, aveva caldeggiato e compiuto il forno crematorio; per provarlo, mancando un morto cremazionista, si dovette ricorrere ad un morto dell’ospedale i cui parenti non avevano reclamata la salma, e la sorte toccò ad un tale che si chiamava Albini di Albuzzano, il quale venne cremato per provare il forno. Ire, polemiche, battaglie per conseguenza durarono per molti giorni. In generale le dimostrazioni studentesche culminavano davanti al Demetrio e non era raro che vetri delle sue entrate e le vetrine andassero in pezzi. A breve distanza dello stesso caffè avvenne nel 1898 l’uccisione dello studente Muzio Mussi nella sommossa del 1898. Vi fu una dimostrazione durante la quale fu strappata l’antica bandiera universitaria che l’autore di queste pagine portava nella vibrante settimana irredentista culminata a legnate spulciatrici delle schiere goliardiche e poliziesche al tempo del commissario Latini, che fu poi vice questore a Milano. Nerbate da asino volarono dal portone dell’università al vicolo della Malora dove c’era la Questura. Si era nel 1903. Chi non ricorda lo Squisitissimo della vecchia Pavia? Alle Canoeuve di San Lanfranco c’era un giuoco delle boccie al quale convennero nel 1903 anche certe artiste, che si ebbero poi il nome di... vergini delle boccie, parafra-

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sando il titolo dannunziano. Erano i tempi della Menghini, della povera Poderini, della Nascimbene, della Romano nostre ricordate compagne di studi. Un piccolo caffè, col carattere piuttosto di cioccolatteria, quello del Cima, era un ambiente costumato e tranquillo di sognatori e... di bollettisti che non potevano frequentare il Cannon d’oro, i Tre Gigli, la Gambarana, la Francesa, il Pesce d’oro, il Voltone, il Manelli, il San Siro ed altri ritrovi di universitari. Da Stringa, di regola si scioglievano le brigate notturne goderecce e canterine; fra le note del Canticum universitarium che amiamo ancora perché ci richiama alla giovinezza quando: «era colma l’anima d’affetti e d’armonie» e come nella canzone del Praga ognuno poteva dire di sé che prodigava al lastrico le esuberanze mie

parafrasando i versi del poeta. Vogliamo riprodurre qui il cantico che non è facile trovare nel suo testo esatto: In amore puellarum In deliciis chorearum Et sub furca examinis. Simul volumus studere Simul volumus gaudere Simul lauream capere. Eia, Medici et Legistae, Mathematici et Artistae, Macte simus animo! Nobis imperent soventes Rector, Praesides, Docentes, Tum Bidelli faveant. Conclamata ter et quater Hodie et semper alma mater Sit nostra Universitas.

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Semper floreat, et una Patriae nostrae cum fortuna Stet per omnia saecula. Novicii Ecce venimus, sodales, Quales vos nos quoque tales Almae matris filii. Juristae Coequales Tribonianus, Gaius, Paulus, Gratianus Facit nos et Salvius. Artistae Facit Maro, facit Plato, Varro, Homerus atque Cato, Flaccus, Livius, Cicero. Medici et Naturalistae Nos coëquat et Galenus, Celsus, Trotula, Serenus Maximusque Hippocrates, Aristoteles divinus Plinius quoque Comacinus Theochrastus Lesbius. Matematici Et Euclides Magrensis Et Hipparcus cithyniensis Archimedes siculus. Chorus Pares nos coram Rectore Pares coram Professore Super scamnis aulae.

* A Como, nei tempi gloriosi della villeggiatura ottocentesca lariana accadeva sovente di udire nei pomeriggi autunnali sulla riva al giungere dei battelli o delle barche padronali dalle ville circostanti, queste parole: «Allons chez Lagarde prendre quelque chose?»

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Era questo Lagarde il nome del primo caffè della piazza quando c’era ancora il vecchio porto colle Madonnine nelle nicchie d’entrata. Allora era celebrato sulla piazza del lago il Frasconi, per gli spuntini precorritori del pranzo serale. Il padre di Alessandro Lagarde, fuoruscito di Saint Esprit al tempo della rivoluzione, venne a Como dalla Francia e impiantò una tintoria di seta a San Rocco. Alessandro, suo figlio, che aveva 10 fratelli e sorelle aprì il caffè sulla riva. Egli conosceva e frequentava vari patrizi milanesi che avevano ville sul lago, particolarmente i conti Passalacqua di Moltrasio, il marchese Raimondi, padre della seconda moglie di Garibaldi, i conti Salazar ed altri. Uno dei Passalacqua aveva un difetto di pronuncia e per dire che era andato a Pavia a sostenere un esame, il popolino per imitarlo burlescamente diceva così: «el tontin Pattalacqua l’è andà a Pavia a fà letam». Quando il primo bacino del lago era il carrosello della aristocrazia milanese e dalle ville di Borgo Vico, di Cernobbio, Moltrasio, Uno, Carate, Bleyio, venivano a Como la Belgioioso, la Plaisance, i Visconti di Modrone, la Rattazzi, la Pasta, la Ristori, i Raimondi, i Giovio, i Taverna, che facevano echeggiare le rive di una fanfara principesca, il caffè di Alessandro Lagarde vedeva riunirsi gli azzurri, le grandi dame, le dive della bellezza, le celebrate etere della prima metà del secolo scorso. Ma il vecchio caffè comasco del centro era il Bottegone sotto i portici di piazza del Duomo, di fronte al Broletto millenario; un ambiente che si inquadrava nella placida, amorfa, sobria anima locale dell’anteguerra, nel mondo dei “pesaseda” che annoveravano l’arpin e il cuntafil fra gli strumenti indispensabili della vita. E le pesanti zattere della vita provinciale navigavano conquistando la ricchezza attraverso la secolare industria setaiola. Il Bottegone, di parca luce, aveva un locale lungo come il Passio della Domenica delle Palme, ed era un ambiente pesante e massiccio. Lo frequentavano tutti gli illustri della città e di passaggio: Volta, Maspero, don

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Claudio Riva, lo storico marchese Rovelli, i Reina, il generale Bellati, Paolo Carcano, Francesco Ambrosoli, ed altri signori. Volta vi prendeva la mattina la barbajada introdotta anche a Como dopo il successo di Milano. Al Club, presso il teatro Sociale, i parsimoniosi comaschi erano invitati a bere la limpida e francescana «sorora acqua» dal Berretta che circolava coi bicchieri sul vassoio dicendo: «acqua sciori»! La Besana, tipica figura comasca, vigilava da una specie di trono, il movimento delle barche e tutto il pubblico dei caffè della piazza; anzi le Besane furono due e vedevano emergere dal trono, durante gli allagamenti, lo scomparso “panettone”, un rialzo fiorito della piazza e dominavano il vecchio porto chiuso colle due nicchie dei madonnitt la fontana detta dell’oca donata nel 1873 dal conte Mandolfo, vanto fino al 1891 della «regia zitaa di missollitt» come Carlo Porta chiamava Como millenaria e turrita. Le due Besane potevano contendere sulla paternità delle tre meraviglie comasche: la fontana, la rana e i t... della Besana. Cinquant’anni or sono Como era piena di cafferucci, molto minori le osterie, essendo i comaschi moderati bevitori di vino. Quello di Abbondio Besana era sul lungo Lario, quello della Nilinda Cavadini in via Bernardino Lui, l’Orologio in via Plinio, l’Isorni in via Adamo Del Pero, dove il vecchio stemma colle pere sormonta il nereggiante palazzotto vetusto, il Bassetti in piazza del Duomo, il Commercio a San Fedele, il Roma in via Borromeo, la Corona in piazza Vittoria, l’Italia, il Lario, il Marinoni, il Ticino, ed altri e altri che, in parte mutate le insegne o i proprietari, ancora sopravvivono. Il Bottegone rimase però per un secolo e più il caffè storico di Como. L’abate Brambilla, autore di feroci epigrammi, ne era un assiduo frequentatore e sui tavolini di marmo usava scrivere le sue causticità che riportava poi sulla carta. Uno feroce egli lanciò contro Cesare ed Ignazio Cantù: Qui il beffeggiato saputel di Brivio

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tenta ogni arte per uscir dal trivio, mentre Ignazio Cantù, suo fratel degno, raglia verso di lui: venga il tuo regno!

Il Bottegone fu per lungo periodo di anni il convegno preferito di una parte eletta della cittadinanza comasca; tra i clienti tranquilli e abitudinari si poteva contare anche una rappresentanza tutt’altro che sonnolenta formata dal scior da Baragazz, il professor Reina dalla barba bianca, che per oltre mezzo secolo insegnò diritto all’istituto tecnico, e che aveva una specialità: quella di rigare con fulminea rapidità i fogli per gli appunti! Il Bottegone venne in seguito reso più moderno nell’ambiente, trasformato e abbellito, ma rimase nelle memorie cittadine la rocca delle adunate contemplative. * A Varese i caffè tipici erano pressoché tutti sotto i portici del Corso; la Versailles lombarda in autunno, al tempo felice delle corse di Casbenno, alle quali veniva sempre da Monza re Umberto, il grande gentiluomo dei Savoia, accoglieva il fiore della società milanese. Moltissimi erano i frequentatori dei caffè del Corso, numerosi e tipici. Ricordiamo: il Guarneri, il Brusa, il Pelitti. Alla Siberia in Pozzaghetto, si riunivano la sera i fedeli della brasera, mentre i repubblicani e radicali, l’Arconati dei Mille, il Bolchini, il Della Chiesa, ed altri frequentavano il Guarneri. Varese offrì un tempo la fisionomia della città di provincia tipica, pur conservando sempre una punta di regalità che le veniva dalla reggia del duca di Modena. Vecchio caffè sotto il portico fu quello del Pelitti che lo cedette; il Forzinetti lo rinnovò e ne fece il Caffè-ristorante Splendide. Al vecchio Caffè della Siberia, quello scomparso oramai da molti anni e che fu uno dei più rinomati ritrovi varesini, comparve, quando villeggiava, poco prima della morte al colle dei Miogni, un pallido musicista, giocatore di bigliar-

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do strenuo ed abilissimo, Alfredo Catalani, che sembrava guardare alle mistiche ombre della morte! * Quel ciabattino Asdente di Parma che Dante nel Convito nomina come un indovino, dicesi si chiamasse Benvenuto e fosse detto Asdente, cioè senza denti, per antitesi, perché anzi troppo grandi li avesse, dovette sentire nella vecchia Parma la propria superiorità... perché il ciabattino è più dignitoso del calzolaio, non essendo obbligato ad inginocchiarsi davanti al cliente per prendergli le misure della calzatura. E nell’Inferno si fa accennare Asdente da Virgilio nella bolgia degli indovini; si credette sempre che abitasse oltre torrente nella parrocchia di Santo Spirito di Capodimonte; con un documento scoperto da Giovanni Drei, prova che abitasse sulla via Emilia in Sant’Ilario. Dice Dante: Vedi Guido Bonatti, vedi Asdente che avere inteso al cuoio ed allo spago, ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Ma di qui o di là del torrente a Parma quel ciabattino ed indovino avrà certo frequentato qualche bettola doviziosa di Lambrusco, lasciando ai successori le dispute infuocate dei vecchi caffè parmensi ai tempi dell’ultimo pugnalato duca Carlo, caduto sotto il colpo di lima del tappezziere e sellaio Carra. Fatale storico destino! Lo suocero era caduto pure sotto il colpo di lima di un altro tappezziere a Parigi, il Louvel, che l’aveva colpito alla sua entrata al veglione! Fu il duca di Berry. Parma vecchia, quella del forte di Makallè nell’oltre torrente, dei tumulti popolari al tempo dell’Agraria e di De Ambris, delle zuffe politico-universitarie, aveva e conserva nel vecchio Caffè Ravazzoni un vero ritrovo storico che ebbe negli ultimi anni del ducato borbonico la sua più grande rinomanza.

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Una fosca tragedia, che superò per ferocia quella dell’eccidio del ministro Prina e che trista luce gettò sul popolo parmense, culminò proprio a quel caffè: l’eccidio selvaggio del colonnello della gendarmeria ducale, il conte Anviti, avvenuta il 5 ottobre 1859. Riconosciuto a Ponte d’Enza, da alcuni cittadini, memori che era stato egli bieco strumento della tirannide ducale del pugnalato Carlo III e della duchessa, durante il quinquennio di reggenza, venne tradotto a Parma nella caserma dei carabinieri. Offertogli da un milite una pistola, il conte non ebbe il coraggio di togliersi la vita, il furore del popolo lo trascinò per le vie a ludibrio, finché nel caffè sopracitato gli venne tagliata la testa e questa portata, confitta ed in mezzo alle torcie, sopra la colonna di Ferdinando I. Solo a tarda sera una pattuglia di soldati del reggimento di Pinerolo, poté ricuperare quei miseri avanzi. Si narrano dei particolari macabri: dai più inferociti fu ordinato: «Un caffè per il signor colonnello» e presentato alla misera spoglia per dileggio. In un altro caffè venne trasportato morente, e vi spirò poco dopo, il conte cavaliere Magawlij direttore delle carceri del ducato, pugnalato anch’egli come lo era stato il duca sciagurato. Al Caffè Ravazzoni, ritornato dall’esilio d’America, dove aveva potuto rifugiarsi, comparve più volte Antonio Carra; egli sperava di trovare nella sua città trionfali accoglienze, ma dopo tanti anni molto si era dimenticato, ed egli ebbe fredde accoglienze, anche in quel caffè che aveva veduto tanta passione di popolo. Si sdegnò, chiamò Parma ingrata e partì furente come Catilina quando uscì da Porta Capena, ritornò in America e vi morì dimenticato. * Modena! che sfilata di sacro, di ducale, di profano! La Ghirlandina, la Secchia, il Tassoni, Matilde, Obizzo d’Este,

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il conte di Culagna, i duchi, Ciro Menotti, lo zampone, il Sorbara!!! Due caffè storici ebbe la vecchia Modena ducale: la Secchia e il Sandri, entrambi nella via Emilia; frequentatori del primo i viveurs della città, italianamente vitaiuoli o vivaiuoli come voleva che si chiamassero Severino Ferrari; del secondo, caffè antico, i funzionari, gli ufficiali ed i forestieri di passaggio. Ed il poeta della Secchia rapita ricorda: E smontati al Monton col vetturino chiesero all’oste se egli aveva vino

e l’oste glielo avrà certo dato, mentre a Bastiano per rappresaglia Pasquino lancia un quadrello per colpirlo nelle «parti poco oneste». Ma quando viveva Alessandro Tassoni il Caffè della Secchia non esisteva… e i Gemignani, ossia i modenesi guardavano fidenti alla protezione della statuetta della Bonissima, sul lato nord del palazzo comunale. Tra i frequentatori del Sandri, sessant’anni fa, era un curioso tipo, il veterinario Personali, che posava a commediografo e a tragico; avendo una volta criticato Paolo Ferrari questi gli rispose di... andare a curare i suoi simili! Avendo dato un dramma sulla modenese Maria Pedena, eroina di castità, nata nel 1812 uccisa da Eleuterio Malagoli uccisosi a sua volta per il rimorso, ad indicare come la fanciulla fosse stata vittima della sua violenza fa entrare in scena il Malagoli che si abbottona i calzoni! Ma dal Sandri era abitualmente messo fuori un’altra macchietta modenese, il Lisander che una sera, ubbriacatosi più del solito, andò a dormire sotto il monumento di Ciro Menotti dove certi studenti gli attaccarono alla gola due sanguisughe; furono queste che lo salvarono! E per finire ecco un episodio che crediamo ignorato dai più e che fu narrato da un vecchio testimonio del fatto al concittadino professor Gerolamo Daccomo dell’Università di Modena. 116

La sera del 21 gennaio 1846 essendo il Giusti a veglia presso il professor Giorgini, giunse la notizia della morte di Francesco IV duca di Modena. Improvvisò allora il poeta questo epitaffio: Quando lo porteranno al cimitero Questo ducaccio finalmente morto, Io prego Dio che gli faccia da clero Un cento d’aguzzin dal collo torto. La ghigliottina sia l’ultimo cero, Il diavolo gli firmi il passaporto; Se lo piangono i birri in ginocchioni Noi metteremo il bruno agli zamponi.

L’epitaffio comparve qualche giorno dopo attaccato ai battenti del Caffè Sandri di notte; tolto dalla polizia riapparve qua e là sotto la Ghirlandina e fece il giro della città. I frequentatori del Caffè Sandri erano sospetti di liberalismo: al tempo del duca e nell’aprile 1849 venne fatto chiudere dalla polizia estense. Riaperto, ebbe a soffrire nel maggio 1859, fra gli estremi aneliti ducali, l’invasione dei dragoni che arrestarono parecchie persone le quali al passaggio del duca Francesco IV non si erano levato il cappello. Il duca si recava a salutare un capo dei tedeschi provenienti da Bologna, un battaglione di Giulay. Era il 2 maggio: i dragoni di scorta al duca, passando dal portico del collegio davanti al caffè, entrarono coi cavalli sotto le tettoie e perfino nel caffè, distribuendo piattonate. Fra gli arrestati vi furono tre ingegneri delle strade ferrate. Parecchi i contusi ed i feriti leggermente, alle ore quattro gli austriaci entravano in Modena. Poche settimane dopo le milizie di re Vittorio, liberatore, e il dittatore Farmi, vennero a cancellare il tirannico giogo di Francesco V e di Aldegonda. L’ombra di Ciro Menotti fu vendicata dell’onta del capestro! Era uso di far credere che il Caffè della Secchia, fosse così chiamato perché il Tassoni ne era un frequentatore: e i forestieri, ingenui, potevano anche crederlo, ma lo scherzo era lecito più di quello di Bastiano di Sant’Oreste, quello 117

sporcaccione che schernisce il nemico mostrandogli delle immonde cose. Il Tassoni, che a giudicarlo dal ritratto doveva avere un naso barberofilo, avrà certo bevuto del buon Lambrusco di Sorbara o del Pomino all’albergo del Montone, dove furono ospitati i due ambasciatori di Bologna, piuttosto che il caffè, al suo tempo poco noto.

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VII. A MADONNA VERONA E NELLA REGGIA DELLA DIVINA ISABELLA SUL BENACO – A TREVISO – A VICENZA

Gloria a Verona scaligera, a madonna Verona, la città di Romeo e Giulietta, il «grande rifugio dei popoli» come la chiamò Heine, l’argentea lunata Verona aleardiana, quella che Catullo cantava: poetae tenero, papyre dicas Veronam veniat...

prima che un altro poeta dicesse passavan su i carri diritte e bionde le donne amate entro la bella Verona, odinici carmi intonando [...]

quella che faceva dire ad Hans Barth «dammi o Giove, un’eterna giovinezza ed io vorrò andare, camminando sulle ginocchia, a Verona, sognare all’ombra nel crepuscolo del Palazzo degli Scaligeri e brindare con Can Grande, con Romeo e con Dante». E gloria al suo Caffè Dante, il parlamentino veronese di salda e indistruttibile memoria! Da qualche anno se ne è celebrato il centenario, un centenario un po’ discusso, poiché v’è chi lo fa risalire al 1750, quindi avrebbe quasi due secoli! Altri lo dicono sorto soltanto verso il 1835. L’anno è un periodo di diciotto mesi per le donne, ma per i caffè, gli alberghi, le istituzioni lo è... di ventiquattro! Sta di fatto che documenti dell’Archivio degli Esposti assicurano la locazione del locale nel 1837 a certo Giovan-

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ni Squazzoni il primo di tre fratelli che lo condussero fino al 1860; in questo anno passò ai Capobianco che gli diedero il loro nome. Al Dante, nelle tre salette, passarono tutte le figure tipiche, tutte le personalità veronesi e gli ospiti di soggiorno o di passaggio. Tutti erano un tempo vigilati, controllati da un vecchio orologio claudicante, che vide Aimo e Fossi, Caperle e Lombroso, Righi e Massarani-Prosperini, Dorigo e Aleardi, Perez e Barbarani e Dall’Oca Bianca. Un tempo del vecchio caffè si sarebbe potuto dire: Tuti, che i gabia un fià de sal in testa qua i casca in setimana o almen de festa.

Oggi anche a Verona la vita del caffè ha ricevuto colpi mortali e contiene una verace pittura del momento il distico affermatore Botega! un saltimpanza e un capiller; ma caldo e presto, setu, fa un piacer!

Il Caffè Dante aveva ed ha uno sfondo storico ed architettonico, unico forse in Italia: la solenne, aristocratica piazza dei Signori col bel monumento a Dante di Ugo Zannoni, il palazzo del Comune dal fianco romanico col leone, il palazzo che fu sede del capitano veneto col torrione scaligero e il bel portale del Sammicheli, il loggiato, la bizzarra porta dei bombardieri, formata e decorata di arnesi di guerra, poi il palazzo del governo, già residenza degli Scaligeri, poi del podestà veneto. Il pubblico veronese affermò le proprie simpatie al Caffè Vittorio Emanuele in piazza Bra all’ombra dell’Arena, e al Caffè della Borsa al palazzo della Gran Guardia. Ma non vanno dimenticati altri vetusti e cari ritrovi: l’osteria Scaligera, la bottiglieria di Piccolo Mondo Antico, la Luna a porta San Zeno che ispirò la quartina: 120

Non avrai tu riposo o strano pellegrino entro la bella Luna nel più ricolmo tino?

versi degni dell’ispirazione del duca di Clarence. Altri ritrovi vinattieri dell’alma Verona non poterono soffocare la gloria del caffè dantesco, anche se poterono ritenersi cantati nell’Itinerario del 1600, là dove è detto: Verona qui te viderit et non amavit protinus amore perditiosimo is credo se ipsum non amat caretque amandi sensibus et odiat omnes gratias,

in onore della città che fu chiamata la Capua dei Germani, che vide Attila e Carlo Magno e Alarico e lo svevo Corradino e Alboino e Can Grande e il perfido Giuda traditore di Verona che la consegnò alla Serenissima e che si chiamava... Bevilacqua! Vi fu un tempo in cui si voleva cambiare il nome al caffè, pensando forse che il nome del divino poeta applicato ad un caffè fosse una stonatura: prevalse l’idea di lasciare la denominazione antica. Il nome di Dante può servire a tutto. Povero Dante! In amore non fu fortunato, benché fosse uno spiritualista. La moglie, a quanto si dice, dovette fargli qualche torto, non poté mai avere la sua Beatrice, poiché quando la conobbe aveva nove anni e quindi era... un po’ immatura; sposò poi Simone dei Bardi che stava molto bene di spirito e di corpo ed avrebbe gratificato il poeta di un conveniente numero di «sergozzoni» come si diceva nel Trecento. I repubblicani veronesi non abdicarono dal diritto di andare al Caffè Dante; essi oramai come i vecchi di Barbarana, discorrevano lungo l’Adigetto «frammenti di giornali vecchi». Ma si confortavano di una grande vittoria ottenuta col monumento di Garibaldi, un Garibaldi senza la pa121

palina degli anni del dissolvimento, senza pantofole, ma sopra un cavallo impennato e con in testa il cappellaccio americano. Quei repubblicani si vantavano al Caffè Dante di aver ordinato allo scultore, che le staffe del cavallo – nonostante lo storico incontro di Caianello e il saluto al re d’Italia di Garibaldi – avessero le forme di due corone capovolte, come infatti appaiono. Un qualche simbolo di repubblica c’era! Passa la folla davanti ai tre caffè di piazza Bra, passa lungo il Liston fra piazza Teatro Filarmonico e via Mazzini, e a tutto sembra presiedere il Gran Cane coll’elmo abbattuto dietro le spalle, che ride beffardo dall’alto della tomba, fra le arche scaligere di Mastino e colla spada sguainata, salda nel pugno, cavalcatore magnifico e possente; volto di cinico, di predatore di femmine, e di signore cortese ai poeti Al Caffè Dante avvenne una grande gazzarra alla sera di un battesimo civile che rasentò il grottesco, quello del bambino di un sarto di Verona, Amodio Somma colla formola: «io ti battezzo in nome di Dio e del legislatore Gesù; possa tu divenire un apostolo del vero; ama il tuo simile: assisti gli sventurati; sii forte a combattere i tiranni dell’anima e del corpo; sii degno del bravo Chiassi di cui ti impongo il nome». Fu una gazzarra a base manicomiale e a lungo ricordata. * Mantova! chi avrebbe pronunziato questo nome animato da virgiliane memorie, senza un tempo vedere una sfilata di secrete, di patiboli, collo sfondo di un lago irto di canneti e dominato dal tetro castello, ingentilito dall’estense Isabella e da una corte sfarzosa? Mantova! sussurra lo Zerboli, imperial regio commissario di Porlezza nel Piccolo Mondo Antico a Franco Maironi che gli chiede sdegnosamente quale sia il pericolo che lo minaccia.

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Ma Isabella d’Este, non aveva ancora conosciute le vellicatorie attrattive del caffè, la «droga maledetta» del fiero editto ottomanno. Si diceva scherzando a Mantova che la fata Manto andasse al Caffè del Veneziano con un legionario d’Augusto a prendere... un cappuccino, recandosi poi fuori porta Mulini ad acchiappar le zanzare. Il Veneziano sotto il portico, prima di arrivare al voltone che porta in piazza Sordello, è secolare ed ebbe ed ha ancora in parte l’impronta veneta. Fu un tempo il principale caffè mantovano che accoglieva gli ufficiali austriaci. Lo frequentavano i liberalissimi fratelli Tassoni farmacisti, col Frattini, uno dei martiri di Belfiore. Vecchi caffè Mantovani erano il Marchini, il vetusto Caffè di Pradella; vennero poi la Borsa vicino al Marchini, il cafferuccio della Pace sotto il portico del Broletto; la Posta ed altri che facevano concorrenza alle storiche osterie della città dove dopo oltre settant’anni dalla liberazione si conta ancora a pfenning; quella del Cane che abbaia alla Luna, il Merlin Cocai, la Marietta ’n di Stabi, i Cento rampini, la Farmacia dei sani ed altre caratteristiche della simpatica e ospitale città. Roberto Ardigò – che lasciò la chiesa per aver veduto lo sbocciare di una rosa – frequentava il vecchio Caffè del Corso quando alternava la sua dimora fra Mantova e Padova, ed amava giuocare al bigliardo. Il filosofo viveva solitario tra i libri e i fiori nella sua amata casetta e l’unico suo svago era quella di una breve visita al caffè prediletto. * A Treviso, cuor della millenaria Marca, gentile e cara città dove «Sile a Cagnan s’accompagna», non c’erano certo i caffè quando Riccardo Camino, figlio del buon Gherardo, fu ucciso, ma ben vecchi furono questi che ricordiamo. In piazza del Duomo il Caffè Militare era così chiamato perché fino al 1866 lo frequentarono gli ufficiali austriaci; e la banda imperial regia suonava buona musica alla domenica.

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Questo caffè fu da poco demolito per allargare il Calmaggiore, la classica contrada della città, e liberare la chiesetta di San Giovanni Battista, di stile romanico, da casuccie e piccoli negozi che la rinserravano. Il Caffè Pacchio in “Croce di via” di fronte alla bella Loggia dei Cavalieri, fu demolito completamente da una bomba nemica nel 1918; lo frequentavano le notabilità cittadine e le maggiori autorità, essendo situato vicino agli uffici del governo, del Comune, e il popolo lo chiamava il «Caffè degli Omenoni». Vi arrivava il vento che anima il sottoportico dei Soffioni, come lo chiama il popolo. I tre maggiori caffè della città sono però anch’essi di vecchia origine. Il Roma che dopo l’armistizio accoglieva i maggiorenti per cui veniva chiamato il Caffè del Senato, oggi modernizzati gli ambienti, e divenuto il ritrovo di pensionati e di gente... che non ha il tempo contato col tassametro; quando vi è concerto nella piazza dei Signori, si affolla anche di un pubblico vario colla nota gentile dello stuolo femminile. Il Commercio, è frequentato da vecchissimo tempo da gente d’affari, specialmente nei giorni di mercato del martedì e del sabato; la Stella d’oro il caffè dei signori e dei galanti che stanno in vedetta nelle ore del passeggio. Popolarissimo poi il caffè chiamato Pettola sotto il salone dei Trecento dominato dalla torre del Comune. Anche il Caffè del Portico nel vecchio oscuro Ghetto, parcamente animato dai vari Aronne, Elifas, Giacobbi, Samueli ecc. vedeva modeste famiglie che vi andavano a prendere il cioccolatto. Lo ha sostituito una pasticceria. I pochi passanti che temendo gli areoplani nemici, e non volendo allontanarsi dalla città, in quel terribile periodo di prove per la bella Treviso dall’aprile al luglio 1916, si rifugiavano nei caffè del centro ai primi allarmi. Certo i caffè trevigiani, dopo i rifugi, furono il ricetto più intenso della popolazione durante quei tragici anni che videro trentadue incursioni aeree nemiche, con 1526 bombe che semidi-

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strussero la città. La prima vittima, dopo quelle della casa De Benedetti, cadde presso il Caffè Roma nella prima tragica incursione dell’aprile 1916. Memore dei due Gherardi, quel da Camino e l’altro dei Castelli, del suo «Castello d’amore» e della «gaia scienza» che gli procacciò il nome di «Marca gioiosa ed amorosa», fiera delle fiere parole ultime del suo provveditore Augusto Giustiniani, Treviso va gloriosa del luminoso verso del Dittamondo: «che di chiare fontane tutta ride». * Anche il Garda offre argomento a questa rassegna. Quando Dante, venuto sulle rive benacensi a bere il vino di Sugana si affacciava alle torri di Sirmione guatando l’argenteo lago di Catullo e gli uliveti di Salò e di Gardone era lontano il tempo che vide Catullo piangere d’amore nella romita penisola. Ma allora non v’erano caffè sul Garda, v’erano castelli, torri, conventi, frati e soldati e certo vi dovettero abbondare le bettole. Più tardi, assai più tardi ebbero vita i primi caffè. Nella vetusta Sirmione abbiamo il Caffè del Risorgimento; il bar Catullo ci fa pensare che se non vi andò il poeta colla sua Lesbia vi si beve e vi bevette non solo il caffè ma anche il buon vino benacense, di quello gagliardo che piaceva al senatore romano Marco Fulvio Bibaculo o a quell’altro che si chiamava Messala «sempre putrido di vino» che possedeva in Roma il miglior falerno della repubblica, quando il Garda era il Gardasee come lo ha dipinto nel suo libro Luigi Federzoni, il Giulio de Frenzi del giornalismo bolognese. Fiorirono più che adesso le birrerie-caffè: la Bavaria e la Wurcher di Salò contrastavano colla Bettola Sant’Antonio, coi Promessi Sposi, col Bue, coll’Alpino, colla Bettola dei cacciatori. E ricordiamo anche il vecchio caffeuccio di Bardolino.

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A Garda l’antica Torre come osteria si chiamava così e come birreria ricevette il nome di Gambrinus e come caffè conservò il primo… quindi le tre categorie di clienti… andavano d’accordo. A Riva il Caffè Centrale vendeva torrenti di birra quando i rigidi, incatramati ufficiali dell’impero stavano a sentire il concerto delle dame viennesi, pizzicando le braccia pienotte delle chellerine che facevano pensare al quadretto del Cremona El bel brasciott. Anche a Riva, la birreria vince il caffè ma la nomea di Karasek, di Bachleckner non ha potuto oscurare quella della Cantina delle oche del Nascimbeni, della Cantina Ditzmann a fianco dell’Apponale e che ha caratteristiche medioevali ricordanti le gagliarde bevute dei guerrieri imperiali scesi per secoli dall’Alto Adige prima che risalissero «in disordine e senza speranza quelle valli dalle quali erano discesi con orgogliosa sicurezza». * Vicenza, una delle più gentili città d’Italia quella che diede i natali a Bartolomeo Panizza, a Giacomo Zanella, a Fogazzaro, a Lampertico, reggia del genio di Palladio, superba di palazzi magnifici, di guerresche memorie, ebbe un tempo una fervida vita di caffè come tutte le città venete. Ma anch’essa vide sostituire quasi tutti i suoi vecchi caffè dai bars. Sono così scomparsi il Cavour verso piazza Castello, il Garibaldi a piazza dei Signori demolito per la sistemazione di quel magnifico e imponente angolo di Medioevo, dovendosi restaurare la Loggia del Capitano. Superstite dei vecchi caffè vicentini è il Nazionale. Anche il Caffè Monte Berico, fu demolito per la costruzione del piazzale della Vittoria. Lo frequentava nella prima sera, d’inverno, il senatore Fedele Lampertico e qualche volta Antonio Fogazzaro. Lioy lo si vedeva al Nazionale dove la sua briosa conversazione lo aveva fatto proclamare “capotavola”.

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In piazza dei Signori, dal lato ovest, un tempo c’era il Caffè dei nobili frequentato solo da soci dell’esercizio. Il Manzoni, di passaggio per Vicenza, ignorando la natura dell’ambiente, vi entrò, fu servito, ma quando volle pagare si sentì rispondere che i nobili vicentini erano molto onorati di averlo accolto.

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Personaggi del Caffè Pedrocchi.

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VIII. IL PEDROCCHI GLORIA DEI CAFFÈ D’ITALIA

Nelle secolari schermaglie, ricordo di tempi lontani di comunali battaglie, fra città e città, rimasero, fra altre i vanti di Como, di Cremona e di Padova. Della prima si ricordano la rana, la fontana e i t... della Besana, scolta del vecchio porto comacino. Di Cremona abbiamo tre particolarità: toron, torazz, tetazz, glorificatore vocabolo delle sporgenze delle sue donne per le quali invano Caterina Sforza avrebbe scritto delle ricette «ad faciendas mamillas parvas». Padova ha tre altre particolarità: un santo senza nome, un prato senza erba, una casa senza porta. Questa è la sede del Caffè Pedrocchi, il più celebre caffè italiano. Il fondatore del famoso caffè fu Antonio Pedrocchi, che lo aperse il 9 giugno 1831, su disegno dell’architetto Giuseppe Japelli, al quale, per il compimento, successe poi Bartolomeo Fraschini. Antonio Pedrocchi, viene così descritto da Andrea Cittadella Vigodarzere nel “Raccoglitore” del 1853 anno sinistro di patiboli: «Un ometto alto quattro piedi e mezzo; testa grossa, lunghe orecchie, labbra larghe e tumide, occhi grandi e tardi, fronte alta, cigli spessi, nasuto, paffutello, mobilità somma dei muscoli facciali, fisionomia alternata come incerta fra le contrarie espressioni d’impeto e di calma, di gravità e di leggerezza, di raccoglimento e di distrazione, la persona inclinata per all’innanzi quasi stesse con le calcagne alzate e quasi tra il cadere e il volare; gestire corto, stretto, rotto, ma continuo; in tutti i movimenti una contraddizione di affaccendamento e di posa, di vivacità e di imbarazzo, di risolutezza e di pentimento: ecco le sue sembianze».

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Sulle vicende amorose, pressoché tutte ancillari, del Pedrocchi si narrano vari episodii, veri ed anche inventati. Di lui si narra che, non bello certo, fosse di temperamento amoroso e gran cacciatore di femmine, per di più avesse la mania di volare. Erano i tempi dei primi tentativi di volo fatti dallo Zambeccari e quando, nel 1808 questi compì i voli in Padova, si dovette faticare per trattenere il Pedrocchi a terra e si arrivò a chiuderlo a chiave in una stanza. Di temperamento fantasioso, era un lettore appassionato delle Mille e una notte e lasciava vagare il pensiero oltre certo il primitivo cafferuccio, verso le Urì del Profeta, ma intanto progettava un grande caffè con scorci orientali. Era divenuto parsimonioso ed accumulava denaro per realizzare il suo sogno. «Un jour – scrisse “Le Magasin Pittoresque” nel 1841 – on vit des macons occupés à démolir, moitié à reconstruire une vieille maison située dans la grande rue de Padoue, en face de la “maison de la poste” ou s’arrêtent toutes les voitures qui vont de Milan à Venise, ou de Venise à Bologne, et à soixante pas enviros de l’Université. Les oiesaux, et ils abondent à Padoue, s’arrêtaient émerveillés. “Qui va s’établir là?” Se demandaient-ils entre eux. “Un tailleur allemand” disait l’un. “Une marchande de modes de Paris” disait l’autre. “Un roi ou une reine qui vient d’abdiquer” disait un troisième. On pensait à tout excepté à un café et à Pedrocchi». Parecchie difficoltà dovette superare l’architetto per la costruzione perché per accedere all’area prescritta, di pianta irregolare, v’erano tre strade; quindi si dovettero costruire tre facciate prospettiche armonizzanti fra di loro; il salone fu costruito col sostegno di colonne ioniche in marmo giallo veronese, lo decorava la vasca semielettica che servì da banco. I bassorilievi sulle porte rappresentanti il Mattino e la Sera, sono opera del Romano Petrelli; poi sorsero il salone detto della Borsa e le sale laterali che conducono nelle doriche loggette. 130

Al piano superiore sorse il Casino che ebbe vita nel 1856. L’ingresso è di stile etrusco, la sala greca ottagonale, ha un affresco del Denin rappresentante Diogene che lancia a Platone ed ai discepoli il gallo spennato dicendo: «Ecco il bipede implume». La saletta rotonda coi quadri di Ippolito Caffi, l’armeria adorna di stemmi, che fu poi il gabinetto di lettura, la stanza detta dei Millecinquecento col soffitto del Garzotto raffigurante l’aurora del Risorgimento; la sala d’Ercolano cogli affreschi del Paoletti colle teste di Diana, la gran sala da ballo dalla quale si accede alla magnifica sala egiziana; a fianco dell’edificio la bella costruzione collegata a questo con un cavalcavia completano l’ambiente caratteristico. Il caffè non ha porte e per questo rimasero inascoltati gli ordini del governo austriaco che ne disponevano la chiusura quando alcuni studenti caddero sotto il piombo e le baionette austriache ed un centinaio furono i feriti. Celebrandosi il 7 febbraio 1848 il funerale dello studente Giuseppe Polacco di Montagnana si volle fare una dimostrazione contro il governo imperial regio; arrivato il corteo all’università la carrozza del maresciallo D’Aspre che saliva dalle Beccherie volle attraversare il corteo, quando lo studente Bortolo Lupati balzando ai cavalli li trattenne esclamando: «Indietro, maresciallo, tu che opprimi la vita, arrestati davanti alla morte!» Fu la scintilla della rivolta; alla sera i soldati invasero il Caffè Pedrocchi e ne nacquero conflitti sanguinosi. A ricordo del tragico giorno è rimasta una palla confitta nella parete della prima sala. Quando Mazzini rivolse l’invito ai lombardo veneti, fu al Pedrocchi che si spezzarono le pipe e i sigari; proclamata a Venezia la repubblica il 22 marzo, il caffè divenne la tribuna degli oratori: al Pedrocchi Teobaldo Ciconi nel 1848 improvvisò per il richiamo fatto da re Ferdinando alle truppe napoletane i famosi versi: Per chi sono i tuoi cannoni, Stirpe iniqua dei Borboni?

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Ed il Prati in un sonetto del 1858 richiama le memorie del Pedrocchi, le belle ore ivi passate e la pallottola austriaca conficcata nella parete. Arnaldo Fusinato colloca al Pedrocchi le maggiori scene del suo Studente di Padova e lo chiama: Ampia caldaia ove ribolle e fuma In guanti bianchi del bon ton la schiuma.

Col nome del caffè sorsero molti giornaletti letterari, politici, umoristici; uno ne fondò il padovano Guglielmo Stefani, ideatore della nota agenzia. Neppure la satira poteva risparmiare il celebrato caffè e già nel 1831 comparve un sonetto del Buratti che mise in burla il caffettiere Pedrocchi; questi fece rispondere al poeta occasionale con un’altra satira: Se al baston ghe scampé xé un gran portento che ingema la comune aspettazion; e se in aresto vu no sé sta drento, podé servir de strana ammirazion. Se de far versi mi no go talento gnente m’importa de sta privazion, mi son de quel che magno assae contento; de bancheti sia vostra l’ambizione. Quando l’Eliseo mio xe pien de zente qua mi ve sfido che vegnì in persona e po tirarve del mio genio arente. Dirà el mio genio, lengua buzarona; Sarà immortal Pedrocchi certamente e i vostri versi…

Il finale si omette per rispetto dei lettori. Al Pedrocchi è collegata l’origine del poemetto romantico Edmengarda che, oggi dimenticato, lanciò all’Italia il nome di Giovanni Prati, il bardo trentino. Stava un giorno il poeta, sconfortato dalla morte della moglie, ad un tavolino del caffè, pensando forse alla sua bambina ed al suo avvenire, quando gli si avvicinò uno studente di Rovereto che lo conosceva e che gli

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Il Caffè Pedrocchi di Padova nel XIX secolo.

suggerì il tema del poemetto, avendogli il Prati confessato che gli mancava un soggetto. Il Prati scrisse alcuni versi sul momento che dovevano poi svilupparsi nell’Edmengarda, la sorella di Daniele Manin moglie di lord Meryweather, amante di Zenodio, l’Udigarde allo stato civile, l’Edmengarda della letteratura. Non è questo il luogo di rifare la storia del poema e quella dei protagonisti tanto diversi alla luce della critica da quelli foggiati dal poeta. Il trionfo del poema era stato fulmineo. Parlando del Prati a Torino ne ricordammo l’epilogo. Durante il blocco di Venezia nel 1848 convennero al Pedrocchi i frequentatori dei caffè veneziani che volevano sfuggire... al digiuno! Per il congresso dei dotti nel 1842 un dottor Mendoro subì persecuzioni e prigionia per avere salutato un carro di zucche con le parole: «i dotti mandano avanti le loro teste al congresso!» Francesco Trevisari per tale congresso scrisse un poema “pelasgico”: Il caffè Pedrocchi in Padova con appena 7000 versi e 300 note.

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Morto il Pedrocchi ebbe onore di epigrafe da Carlo Leoni; egli aveva lasciato per testamento che nel suo caffè a nessuno si negasse il posto, l’acqua, l’ago e il filo per rattoppare l’abito ed un ombrello quando pioveva, ma poiché troppi ombrelli sparivano, questo uso fu tolto. Ricordarono e frequentarono il Pedrocchi Fusinato, Aleardi, Prati, Ciconi, Dell’Ongaro, Gauthier che nel suo Voyage en Italie gli dedicò una bella pagina vivace. Quante macchiette vi sfilarono! Due coniugi Bassan vi stavano tutto un giorno; un Neri vetraio napoleonico era il primo ad entrarvi; un maggiore Palmarini raccontava a tutti d’aver combattuto sui Pirenei con Bonaparte. Essendo morto di apoplessia un frequentatore uscendo dal caffè, un tale scrisse che «spedroccando svisse». Fra i versi di Arnaldo Fusinato, a lungo rimasti inediti, v’è questo elogio dello sciampagna, forse improvvisato, conservato dalla figlia Teresina Bianco Fusinato, e che il poeta scrisse al Pedrocchi: Re di letizia deh tu m’ispira la facil corda della mia lira e invia il tuo spirito a suscitarmi giù nel ventricolo, l’estro dei carmi... viva il sciampagna! Del labbro in cima facile e pronta spinge la rima; per lui dell’anima limpidi e tersi inesauribili sgorgano i versi né mai il poetico estro si stagna. Oh il gran rimedio ch’è lo sciampagna!

Una specie di istituzione del caffè fu il vecchio cameriere Saro che per sessantacinque anni visse nel caffè stesso, salendo da “pinella” a capo cameriere e che morì ottantenne. Il novembre 1891 moriva Domenico Cappellato Pedrocchi, ultimo della famiglia; morendo lasciò per testamento il caffè alla città di Padova ed ai «suoi concittadini». Aperto tutta la notte per lungo giro di anni e di eventi il Caffè Pedrocchi fu chiuso soltanto il 19 ottobre 1916 alle

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10 di sera per un decreto luogotenenziale, dopo ottantacinque anni di apertura notturna. Tali le vicende del Pedrocchi che nel 1831 venne chiamato «il primo caffè del mondo» e che nel 1935 doveva chiudere i battenti per fallimento. Fu poi riaperto ed oggi continua nella tradizione di convegno ospitale e signorile di Padova gentile che ognuno saluta colla terzina dantesca: Ma tosto fia che Padova al palude cangerà l’acqua che Vicenza bagna per esser al dover le genti crude.

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Le torri presso il Caffè dei Cacciatori a Bologna (stampa del 1835).

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IX. I CAFFÈ DI BOLOGNA

La Bologna di Testoni, della «sgnera Catereina», la Bologna godereccia e goliardica onorò largamente la vita del caffè e dell’osteria Cinquant’anni or sono il glorioso Caffè dell’Arena, sull’angolo delle vie Indipendenza e Repubblicana, conservava ancora le tipiche impronte dei vecchi caffè che furono centri d’intellettualità, quell’intellettualità emiliana che si associa alla tavola opima, che non ha mai avuto pose e che faceva dire a Stecchetti: noi la face l’amor lieta rischiara, noi l’opulenta mensa abbiam per ara.

Vi convenivano giornalisti a scrivere articoli, attori a raccogliere giudizi sulla loro virtuosità, è là, di fronte all’Arena del Sole, la superstite caratteristica del secolo scorso in Bologna, dove le dame vanno all’ora del tè, c’era il caffè festoso e celebrato. Non aveva pretese di lusso e le vecchie salette erano vigilate da un antico orologio a pendolo che sembrava considerare con una punta di ironica bonomia i cartelli policromi elogiatori di amari, di aperitivi, di ristorativi. Ai divani, fondi come stalli canonicali, facevano corona sedie e poltrone di tutti i tipi. Tutto fu trasformato seguendo l’imperioso richiamo della modernità: l’impronta è mutata, ma coloro che lo frequentarono, ne conservano cara ricordanza. Vi si accendevano discussioni animate che erano il terrore del proprietario, il Tugnein, che temeva il sorgere di un litigio paventato dagli elementi tranquilli, che si facevano sempre più rari.

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Trascinati da qualche amico, vi comparivano raramente Stecchetti o Carducci: onusto il primo delle glorie recenti delle Postume, l’altro delle Odi discusse; gli avventori si alzavano al loro apparire ed a poco a poco stringevano il cerchio intorno ai due poeti. E vi comparve quel barone Franco Mistrali, il più discusso giornalista del suo tempo, già ufficiale della marina austriaca, autore dei Cinque anni di reggenza, polemista brillante, che morì, non già in carcere – come si era affermato – ma paganamente tripudiando alla Porretta, dopo un’orgia di sapore neroniano. Vi si poteva anche vedere Zacconi intento alla partita di scopone, coll’attenzione di un generale che studia un piano di battaglia; il grande attore sembrava ipnotizzato per la responsabilità della partita e riprendeva il naturale brio… soltanto a partita vinta! Quando il risultato gli era contrario, diventava «negher come on scurpi» a dire di Ferravilla. Una sera Calabresi cenava all’angolo del portico sotto un oleandro in fiore, quando arrivò in vettura Giovannini che sdraiato mollemente fumava maestosamente un Avana; urla, proteste per quello sfoggio da nababbo; l’altro continua tranquillamente a lanciare fumo come una ciminiera, finché il sigaro gli cade; venti mani si protendono a raccoglierlo, mentre Giovannini dà ordine al vetturale di partire di corsa per la piazza Maggiore. La vettura parte... ma si trascina dietro il tavolino colla tovaglia e la cena di Calabresi. Il tavolino era stato destramente agganciato alla vettura di Giovannini. Questo uno dei mille episodi che ebbero per teatro il caffè e spettatori i clienti allegri del celebre ritrovo. Al tempo del patto dell’alleanza, l’Arena, pareva un club di comunardi. Vi si giuocava al toccfrullon, i giuocatori di scopone avevano il soprannome di curnisutt. All’Arena si festeggiavano battesimi, nozze, successi letterari e teatrali, promozioni e croci cavalleresche, successi d’ogni genere e di ogni entità, e qualche volta bastavano frittelle e caffè e latte per tali banchetti, ma l’allegria dominava tutto e tutti.

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Era, nel cuore di Bologna, il rifugio dei nottambuli, e la sua fama andava sempre diventando più salda. Eppure un tempo era stato un modesto forno! Durante uno di quei nevosi inverni bolognesi, che nulla hanno da invidiare a quelli della valle d’Aosta, entrò nella panetteria un operaio della vicina fabbrica Manservizi a chiedere qualche cosa per riscaldarsi; gli fu dato un caffè: se ne andò ringraziando per il ristoro e il giorno dopo ritornò con dei compagni a prendere del caffè caldo che fu naturalmente pagato. Così nacque il Caffè dell’Arena che al tempo del Tugnein arrivò all’apogeo. Quando il fornaio ebbe guadagnato qualche centinaio di lire, cedette quel simulacro di caffè ad un conoscente che lo passò anni dopo, ai fratelli Nerozzi; Raffaele, detto Bartoc, arcigno, assiduo al banco per quindici ore al giorno, scrutatore e furbo, e Tugnein, festoso e cordiale, che lo portò ad alto destino pur non possedendo lo spirito commerciale del fratello. La miseria dissimulata, l’aristocrazia dell’ingegno, trovavano in lui una cordiale confidente accoglienza: egli riusciva così a sapere vita e miracoli di tutti i suoi clienti. Essendo egli l’anima del suo caffè, la sua morte doveva segnare un principio di decadenza, i vecchi abitudinari lo frequentavano ancora, ma la clientela andò disperdendosi lentamente. In questo celebrato caffè gli assidui avevano messo una tassa sulle frottole più grosse... che potevano essere dispensate e i proventi erano raccolti nel Gobbo, un grosso salvadanaio, che una volta all’anno veniva spezzato: il contenuto era investito in una cena col dono di un “panspeziale” a chi durante l’annata avesse raccontata la frottola più grossa. Quando vi capitava Fregoli nessuno lo lasciava più; fu abbandonato però una sera quando volle entrare nella gabbia dei leoni al serraglio di Numa Hava. Pezzaglia vi diceva certi epigrammi con o senza camicia; Garavaglia narrava le avventure di sua vita che fu tanto variata da obbligarlo ad andare in America nelle osterie… a declamare Dante. Pezzaglione a Pasqua apriva l’Arena del

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Sole; Attilio Fabbri era un altro spacciatore di storielle e fedele cliente del caffè. Rifatto, abbellito, reso splendente, continuò la sua vita, mentre qualche sua caratteristica andò perdendosi, ma la sua storia e la sua vita rimangono nelle vecchie memorie felsinee, in una affettuosa e intima continuità, cara ai bolognesi, quella che Leopardi definiva: «vespa senza pungolo». Attorno al palazzo del re Enzo il tempo volle le demolizioni, così quelle effettuate per la via Rizzoli e nella zona del centro, fecero scomparire parecchi dei tipici caffè bolognesi che fiorivano un tempo all’ombra della Garisenda, al Fittone della Spaderia, dietro San Petronio, sotto i portici. Rimasero però il Caffè San Pietro, il Caffè del Podestà, il Medica, ed altri ancora. Il caffè del Carducci non è mai esistito. Carducci usciva di casa verso le otto di sera e andava per la via del Piombo, per recarsi nella libreria Zanichelli sotto le Logge luminose del Pavaglione; lo attendevano Alberto Dall’Olio, Severino Ferrari, Olindo Guerrini, Giovanni Pascoli, qualche volta Alfredo Oriani e Gianni Federzoni. Andava poi a finire la sua serata da Cellario nella cameretta dietro. Gli studenti andavano anche nella via Calzolai e all’angolo degli Orefici, dalla Giulia dall’ampio seno, della quale Carducci scrisse: «Vino ed amore, o Giulia». Andavano anche all’Offesa di Dio, detta pure la Buca di San Silvestro, all’Osteria dei Bastardini o della Checcona, al di là del Reno. Degno di ricordo è il Caffè di San Pietro dalle pareti dipinte, dal pomposo specchio gigantesco, dai soffici divani, luogo di estiva serale adunata delle formose bolognesi. Là vicino è l’Arcivescovado dove si mettevano in tempo di caldura, al fresco i poeti innamorati per «titillazioni di concupiscenza». Vi compariva qualche volta Carlo Mussi, bardo popolare, vissuto sempre povero ma felice, e che soleva dire abitualmente: «mè al mond am i atrov bein» che sembra il detto dei sette savi riuniti; il povero Mussi fece onestamente tutti i mestieri e finì nel 1901 impiegato di posta per morire serenamente.

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La tradizione taverniera bolognese non ha ucciso il caffè e l’itinerario “ampelideo” consente delle diversioni nei vecchi caffè storici felsinei. Lorenzo Stecchetti, il cantore di Ciacco, il bombardiere versaiolo della tentata riscossa di Abba Garima, quello che proclamava: «Noi d’Epicuro i sacerdoti siamo», non seguiva soltanto l’itinerario carducciano, ma si poteva incontrarlo in altri caffè ed osterie, sempre pronto all’epigramma, alla barzelletta, alle poesie più audaci e festaiuole. E al caffè che egli scrisse, quasi di getto, quella parodia del Cinque Maggio per la morte di Napoleone III: E ripensò le mobili scene dei suoi piaceri il lampo dei turaccioli, il cozzo dei bicchieri, lo sparecchiar sollecito e il celere imbandir.

Sui tavolini dell’Arena, Stecchetti scrisse anche l’ode alla bicicletta, un saggio di romanticismo del pedale, parodiando l’Ave rima del Carducci: Ave, o cielo! Con bell’arte, sulle carte Te persegue il trovatore E tu brilli, tu scintilli, Tu sfavilli Sotto il piè del corridore [...] […] Zimmermanne, dondolando, Va vincendo gli altri e gli uni Ma pur sempre Odi il grido: Molla Buni, Molla Buni!

Ed ancora vi scrisse questi versi di presentazione per una signora che lo sollecitava di raccomandarla al professor Raffaele Belluzzi:

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Ti presento e raccomando La signora M[...]ri lavativo senza pari E senz’altro te la mando. È una donna molto retta, Rompiscatole perfetta. Deh! tu accoglila perché Possa romperle anche a te!

A Lorenzo Stecchetti poté però applicarsi l’epigramma che il Baratta scrisse per il Gioberti e che termina: «Cominciò sole e lucciola finì». Fine miserrima e non del tutto immeritata. «La letteratura del vino – ha scritto Papini, che avrebbe compiuto la più bella delle sue opere col Dizionario dell’Omo salvatico, se non glielo avessero troncato alla lettera B – dopo quella dell’amore e del dolore, è forse quella più copiosa di illustri esempi». E Carducci nel «mescete, o amici, il vino!» glorificò l’amore del nettare che ispirava al “Guerin Meschino” la mutata generalità: Crosuè Quartucci; in Levia Gravia aveva proclamato: Ne’ colmi bicchieri Ricevo pur io, Men fiero un iddio Ricevo l’amor.

In tempi di magra Carducci atteso al caffè o da Cellario dallo Stecchetti, diceva alla moglie: «Elvira dammi cinque lire!» «Te le ho date anche ieri». «Tira via, dammene dieci!» * Il Caffè dei Servi è legato al misterioso dramma del 1874: la scomparsa dell’avvocato Cavagnati, sostituto procuratore del re a Bologna, assassinato e sepolto in una villa secondo

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le rivelazioni postume del questore Bondi, mentre era diretto a trovare la fidanzata. Fu veduto uscire dal caffè, poi disparve per sempre e, dopo sessantaquattro anni permane il mistero della sua fine. Chi lo disse caduto in una fogna di via Barbarano, chi lo vide tra i carlisti, chi in Slavonia ramingo, altri assicurarono di averlo incontrato vestito del saio in America, altri ancora vollero parlare di un misterioso suicidio; ma il mistero non fu mai svelato. Nel 1898 correva per tutti i caffè di Bologna un epigramma firmato Rapagnetta, contro il Carducci che aveva sostenuto in Senato la celebrazione cinquantenaria dello Statuto: Dell’inno a Procida sorse il cantore e ai senatori fatto un saluto, prende a parlare qual relatore della trovata dello Statuto. Un indirizzo coi fiocchi ei dice, steso che in tono alto e virile, la mia ripeta frase felice: la nostra patria, colleghi, è vile!

Ricordo esattamente questo episodio di Carducci. Una sera si trovava al caffè con alcuni di noi studenti parlando d’arte, di letteratura, di politica. Ci movemmo poi tutti insieme per accompagnarlo a casa; poi prima uno, poi due, poi quasi tutti cominciammo a cantare canzonette in voga, Carducci da prima sorrise con indulgenza, poi col suo rude accento maremmano che non lo abbandonava mai esclamò: «Be’! be’! o i canti della Patria ’un li sapete più? Via! Fratelli d’Italia...» Intonammo allora l’inno di Mameli, poi quello di Garibaldi, poi quello di Oberdan. Il poeta ci accompagnava battendo il bastone sul selciato ed aveva gli occhi umidi di commozione. Noi studenti lo chiamavamo: «Tigrin della Sassetta» in omaggio alla canzone: Faida di comune. *

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Il Caffè dei Cacciatori, ha una storia goliardica, piacevolissima. Nelle memorie di via Rizzoli, brillano quelle del vecchio caffè, che dopo quasi un secolo di vita si chiuse il 22 settembre 1915, per la demolizione della popolarissima strada. Il caffè fu aperto in principio del secolo XIX e si chiamò Ungherese, la “caffettiera” amava gli uccelli, tanto che le pareti del locale erano fatte di quadri, specchi e gabbie di volatili. Come sarà stata questa donna? Le succedette Carlotta Macchiavelli sulla quale le cronache sono molto loquaci; fra le altre sue qualità v’era quella di amare molto l’inclita guarnigione. Nel suo caffè andavano Cialdini coll’ufficialità, e i più ardenti patriotti bolognesi da Giovacchino Pepoli a Berti Picchiati; dal ’48 al ’66, al caffè passarono tutti quei giovani che ebbero poi nomea nella vita pubblica, nelle lettere e nelle arti. La padrona ebbe fama anche di bellezza e non pativa penuria di sospiranti. Ed il caffè, che era troppo disadorno ed angusto, dovette cambiare nome e rinnovarsi; diventò, tolto quel nome che sapeva troppo di austriaco, Caffè dei Cacciatori. Ritiratasi la bella guerriera a vita privata nel ’67 cominciarono, per opera del nuovo padrone, quei restauri che un Riguzzi nell’81 compì. Le sorti del caffè si elevarono: decorato da Giacomino Lolli, il salone rettangolare diventò la sala di Diana. Il caffè fu il ritrovo dei borsisti, degli uomini d’affari, dei commercianti, ma ebbe infiniti clienti d’ogni genere, compresa la disordinata schiera dei carducciani che vi andavano saltuariamente. Carducci lo frequentava ma si fermava poco; i più assidui erano Pascoli, Brilli, Ferrari, Rugarli, che vi arrivavano sul tardi dopo aver cenato al Foro Boario, pellegrinando in «stuol d’amici numerato e casto» dal Lampione al Caffè del Pavaglione, alla Fiaschetteria Toscana, per ritornare poi ai Cacciatori. La sala di Diana fu inaugurata la sera del 25 ottobre del 1889 e la stampa dedicò articoli allo scultore Golfarelli, al pittore Colli, al Banzi stuccatore. Diana v’è ritratta sugli arazzi delle pareti in quattro pose diverse, ed in una il can-

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dido piedino è posato sulla pantera. Questa sala era il convegno degli artisti: il Rubbiani vi trovò collaboratori ed allievi: Cézanne, Tantarini, Callamarini, Samoggia, Casanova e Pasquinelli; era assiduo anche Luigi Serra; quella che il Ceri chiamò la «geldria nubbianesca» vi andava tutta. Chiuso il caffè passano tutti al Cobianchi, poi Pini, al Portico del Podestà. Al Caffè dei Cacciatori, c’era una compagnia di capiscarichi detta la «Banda di Stefano Pelloni, il Passatore», capitanata da Salaroli e Zignano, che fecero delle burle passate alla storia di Bologna. Qui si organizzavano dagli studenti le peregrinazioni del sabato sera, dette “le sabatine” per quei ritrovi che il castigato Matteo Benvenuti chiama: «il vivaio delle femmine sgraziate ed impudiche, le quali, ahi! misere! hanno fatto di verecondia il getto». Poca differenza insomma dai tempi del monaco-studente Crisolito che in Bologna, nei primi anni del Dugento, presenta tutti i “connotati” del perfetto gogliardo. Eccone un saggio di cronaca: Fra Crisolito, vociando, coi pugno furioso agita i dadi, lancia in aria una moneta per farla cadere sul tavolo da gioco e scomporvi i segni, e con un fare indiavolato grida e urla e bestemmia, maledicendo alla Vergine e ai Santi. Di che non è a far meraviglie, essendo egli divoto sopratutto di Bacco e della borsa (Veneratur namque Baccum et saccum). Alla posta delle partite suol mettere perfino dei chiodi, mandorle, noci e uova. Si spoglia d’ogni cosa al gioco, impegna tutto sé stesso, perfino i capelli ed altro ancora. Nei giorni di mercato poi arriva al punto di porre in vendita oggetti e libri altrui per giocare. Ridotto così al verde, si trascina miserabilmente per le taverne e in luoghi peggiori, dove consuma col vino, al gioco e nel resto, quei pochi quattrini che riesce talvolta ad arraffiare rubacchiando ed aggredendo la gente. Più volte ha giurato e fatto voto di correggersi, di cambiar vita ma ogni volta è daccapo, e ritorna a far peggio di prima.

Al Caffè dei Cacciatori, compariva qualche volta Alfredo Oriani, quando ancora firmava Ottone di Banzole; alto, ossuto, barbuto, gran ciclista, lo chiamavano a Casole Valsenio il «matt del Cardel»; ma a Casole frequentava il cafferuccio descritto nella Disfatta; il forte scrittore vi passava

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delle ore a cavalcioni su di una sedia di paglia e chiamava quel ritrovo: «piccolo fumoso, pieno di braccianti [...] di puzzo di carbone e di pipa». Ed a Casole, mentre le pipe paesane affumicavano il soffitto del tipico cafferuccio e i convenuti vociavano, Oriani seduto in un angolo pensava alle figure dei suoi romanzi: il conte Giorgio che, facendo un grande strappo all’etichetta, cavalca in frak alle undici di mattina, pensando ad eterei amplessi e nella visione della donna amata «frantuma una bestemmia fra i denti» ed in eccesso di erotomania, superando i Maironi di Piccolo Mondo Moderno tentato dalla camerierina della suocera, si caccia un tizzone ardente sotto lo sparato, e in un altro punto «si svelle un pugno di capelli» l’avvocato Carlo amante non riamato di una virago meridionale che gli rapisce la moglie, mentre nello sfondo appare l’ombra della zoliana Satin, il saffismo delle due amiche, il bagno profumato, la schiava araba, lo spruzzatore d’etere ed i cuscini, le penombre, i tappeti e tutto l’ambiente del romanzo di Oriani. Andava qualche volta anche al Cellario; la canzone carducciana Cadore, scritta a Misurina ed a Pieve di Cadore nel 1892, trovò proprio al Cacciatori, un critico che, vincendo un oppositore scervellato da prima, salì poi per virtù propria ad alti offici di stato e da ultimo ad altissima carica. Il fatto merita una digressione. Aveva detto il Carducci che Pietro Calvi lacerò il patto iniquo coll’Austria: Leva in punta a la spada, pur fiso al nemico mirando il foglio e ’l patto d’Udine, e un fazzoletto rosso, segnale di guerra e sterminio, con la sinistra sventola!

Come il sole cala non dietro, ma davanti ai Resegone, come l’italo Amleto non è creazione carducciana, come non lo è la «brumal Novara», frasi scritte da altri, così, non Pietro Calvi, che si intitolava «generale comandante della repub-

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blica di Venezia», fu quello che lacerò il patto! Questi venne lacerato da un umilissimo popolano: Ignazio Damos detto «el pievan de Damos». Egli morì l’anno 1910 all’ospedale di Belluno, e fu in vita beneficiato da una pensione di quindici lire mensile nei suoi ultimi anni, ma ogni tanto per “cattiva condotta”, ossia per qualche sua… intemperanza vinicola, gli veniva sospesa. L’archivio di Pieve di Cadore contiene documenti su tale circostanza. Tipo fierissimo, anche in tarda età, venditore ambulante di cerini, perseguitato dai monelli, fu il vero milite ignoto, del suo Cadore, ma sempre pronto alla rampogna ed alla reazione. Gli mancava il piastrino e Carducci glielo ha dato pur non conoscendolo. Pure un cliente assiduo del Caffè dei Cacciatori era un tipo singolare della vecchia Bologna: l’epigrafista Teodoro Landoni, illustrato da Stecchetti nei Brandelli stampati dal Sommaruga. Narravano gli intimi del Landoni che una volta il… Morgante Maggiore sarebbe partito dalle case dei Pulci venendo a Bologna, per le valli del Mugello e di Severo. Incontrando verso la mezzanotte il Landoni, che andava al Caffè dei Cacciatori, gli disse: «Oh! Landoni, dove andate?» E l’altro: «To’! vado al caffè, ma voi chi siete?» «Sono il Morgante Maggiore!» «Ma di quale edizione? quella di Luca Veneziano del 1481 o l’altra di Francesco Dino del 1482?»

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Vignetta di Giuseppe Novello da Che cosa dirà la gente?, edito da Mondadori nel 1938.

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X. DA FIRENZE GRANDUCALE A FIRENZE REALE

«Quando lo imperatore Otto IV venne in Firenze – narra nella sua cronica il Villani – veggendo le belle donne che in Santa Reparata per cui erano radunate ecc.» non esistevano certo Doney, il Caffè Michelangiolo, il Reininghaus, l’antico Bottegone e neppure Pirro e Piccioli e la cantina Torregiani e la Buca dei Lapi e altre buche. I caffè erano allora sconosciuti, ma già si beveva gagliardamente quel buon Chianti che fin dai 1542 ispirava la contessa Guicciardini a scrivere al marito «il Chianti mi piace assai e io non me ne diparto», e la contessa si beveva il fiasco paesano del Carducci! Non molti sono i caffè fiorentini che hanno un po’ di storia, ma questi tutti di buona razza. Una bella... covata di ingegni si adunava al Caffè delle Giubbe Rosse. Il vecchio Bottegone in piazza del Duomo è un «caffè di sussiego» direbbe Hans Barth; piccolo ma clamoroso, affollatissimo è il Caffè Rosa, ritrovo di letterati, di artisti, di nottambuli e di fiaccherai posteggianti. Un vecchio caffè fiorentino, famosissimo, era il Castelnuovo ora sparito nella via Calzaiuoli. A questo caffè si riannoda l’origine di una celebre canzone: l’Inno dei Volontari che fece fremere i cuori dei nostri nonni. Un giorno nel ’48 si udì il rapido passo dei volontari fiorentini, che serrati in battaglione marciavano. Nel caffè intento a bersi un poncino, stava l’avvocato Carlo Alberto Bosi che uscì fuori a vederli e quindi rientrato, ispirato certo dal fervore di quei giovani, rapidamente scrisse al tavolino quell’inno che animò tre generazioni e che divenne celebre:

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Addio, mia bella, addio, l’armata se ne va, se non partissi anch’io, sarebbe una viltà!

Un altro vecchio caffè era quello del Parlamento, frequentato anche da quel Giuseppe Luciani che fu mandante dell’assassinio di Raffaele Sonzogno nel 1875 e che morì ventiquattro anni dopo nell’ergastolo di Nisida. Fremente di cento clamori, echeggiante di grida, di motti, roccaforte dei boemi fiorentini il Caffè Michelangiolo potrebbe certo dare argomento per un volume che dovrebbe enumerare i suoi tanti frequentatori; anche i «Michelangioli cenciosi», di quel certo scrittore, benché quel ritrovo abbia accolto al tempo di Firenze granducale quanto di più eletto la città avesse nel campo patriottico e spirituale. Che nel Granducato si vivesse con una certa libertà lo prova l’aver potuto impunemente dire al caffè, il chirurgo Michele Carducci, padre del poeta «che bisognava togliere di mezzo nel quarantotto quel traditore del Granduca». I frequentatori del Caffè Michelangiolo nella via Lanza ora corso Cavour, al tempo della sonnacchiosa cosidetta tirannia di Leopoldo, si staccavano nettamente dai clienti del Doney o di Castelmur, in maggioranza ufficiali, funzionari, aristocratici attaccati per necessità o per tendenza al governo granducale. Annessa Firenze al Piemonte e proclamato il regno d’Italia, in una saletta presso quella principale cominciarono a riunirsi pittori, scultori, artisti di vario genere e si formò un cenacolo di persone che sovente non avevano da cenare. Vi sfilarono anche parecchi artisti lombardi e piemontesi venuti nella città delle arti a studiare. L’obbligo nel locale era, fra artisti, di darsi del tu alla quacchera. La storia del Caffè Michelangiolo fu narrata nel “Gazzettino delle arti de disegno” del 1867, unico anno di sua vita, poi riprodotta dall’autore Telemaco Signorini, nel volumetto Caricaturati e Caricaturisti al caffè Michelangiolo tra il 1848 e il 1866.

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In alto, antica immagine della facciata del Caffè dei futuristi, che si chiama “Fratelli Reininghaus” e non ancora “Giubbe Rosse”. Questo nome, poi divenuto famoso nel mondo, viene conferito al locale dai futuristi che s’ispirano al colore delle giacche dei camerieri. In basso, Eugenio Montale alle Giubbe Rosse. Con lui, da sinistra, Vittorina e Giuseppe Raimondi, Alessandro Parronchi, il marchese di Villanova (in piedi con il cappello di feltro), Mario Luzi, il cameriere Cesare, Giacomo Natta, Ugo Capocchini, Leonetto Leoni.

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Telemaco Signorini, il dio del Caffè Michelangiolo (caricatura di Boldini).

Esso rappresenta una vera e propria miniera di aneddoti, di epigrammi, di satire, di burle, di caricature. Oggi è rarissimo a trovarsi e meriterebbe una ristampa. Fu pubblicato nel 1893 e dedicato a Camillo Boito. È al Michelangelo che Telemaco Signorini scrisse una poesia umoristica che andò a finire nel catalogo di un autore di libri ed autografi e che fu venduta per 120 lire! È diretta ad un amico che doveva pranzare al castello Granatolo ai Pucci; eccone la chiusa che ho potuto trascrivere:

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Il dente non raschiar colla forchetta, se ti vien da tossir, voltati in là, non ti nettar il c... colla salvietta, non ti ficcar le dita dentro il nà. Se seguirai questi precetti sani, che costeranno certo un gran dolore, può darsi, ormai son tanti i casi strani, che tu possa passar per un signore.

E quanti aneddoti al Michelangiolo! Vi comparve una sera un pittore piemontese che vestiva molto trasandato; venne accolto con grida, applausi, battimani. I clienti della sala grande, incuriositi si chiesero il motivo di quella dimostrazione ed un cameriere era corso ad informarsi. Questi ritorna e risponde: «Niente niente, battono le mani ad un pittore che s’è mutata la camicia». Durante un banchetto a Paolo Emiliani Giudici scrittore catanese, Michele Rapisardi pittore e cugino dell’autore di Lucifero cominciò così un brindisi: Mi ci vorrebbero termini sudici per fare un brindisi al signor Giudici.

quindi ire, rancori, proteste del festeggiato. Michele Corvigiani fu un valoroso pittore mentre suo fratello Anatolio era uno... scapigliato. Provenivano da una famiglia dove regnava l’ingegno. Il padre musicista bizzarro e valente era celebre per le burle, inesauribile nell’inventarne sempre di nuove. Anatolio, figlioccio di battesimo di quel principe Anatolio Demidoff che dimorò in Firenze e che fu munifico protettore di artisti, morì giovane consunto da una vita di strapazzi, di avventure, di inappagate aspirazioni. Era stato volontario in cavalleria e andava per Firenze a cavallo per farsi ammirare dalle belle donne. Anatolio che era chiamato “Ciuci” passando una mattina in via del Fosso, notò che una ragazza abitante al terzo piano, non era venuta come di consueto, alla finestra. Ciuci

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non ci pensò due volte: prese per la briglia il cavallo e gli fece salire le sei scale. Quando suonò comparve alla porta la ragazza che rimase allibita vedendo la testa del cavallo. Urla e tonfo della porta richiusa! Accorsero tutti i casigliani e il cavaliere con molto zucchero e molte carezze... al cavallo riuscì a fargli ridiscendere le scale. Ma intanto l’aveva veduta! Si parlò per tre giorni in Firenze del fatto e Ciuci accrebbe la sua popolarità. Egli era stato accolto nel celebre studio di Telemaco Signorini, il capo dei macchiaiuoli, per le preghiere del fratello Michele, ma il bizzarro giovane tante ne fece e tante ne combinò che fu licenziato. Il padre aveva composto una canzone con musica: Il mangiafuoco, un ritmo monotono e lamentoso sul tipo delle canzoni dei ciechi mendicanti. Ciuci comparve davanti allo studio del Signorini in San Marco: con un cappellaccio alla brava, una coperta in spalla e si diè a cantinelare strofe di questa risma: In un paese chiamato Ventimiglia viveva un tempo una buona famiglia, v’era il padre ed un sol figlio, poi la madre ed un coniglio.

Signorini si arrese e le porte dello studio si riaprirono. Carlo Lari che in un articolo ricordò qualche pagina di vita del celebre Caffè Michelangiolo, potrebbe narrarcene tutta la storia ed illustrare la vita meravigliosa di quei capiscarichi che dopo aver distribuito manifestini patriottici sotto gli occhi degli sbirri austriaci la sera in cui il teatro del Cocomero cambiò il nome in quello di Niccolini, ed Ernesto Rossi e Lorenzo Piccinini in un delirio di tutta Firenze declamarono gli infiammati versi dell’Arnaldo da Brescia, corsero ad arruolarsi nella Fortezza di basso tra i volontari del ’59! Il Doney, l’Eldorado degli azzurri! il gran ritrovo dell’eleganza, della bellezza, della colonia straniera di Firenze. Lo frequentava anche il Rajà indiano che volle poi essere

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Il Caffè del “paretaio” ai Bagni di Lucca.

bruciato sulla pira, secondo l’uso del suo paese, alle Cascine. E vi andava la scrittrice Ouida. Fu al Doney che venne “scoperta” Emma Ivon, bellezza fulgidissima, che maritata giovanissima ad A. Pessina divenuto intendente della reale tenuta di Sala Baganza, fu amica di Vittorio Emanuele e terminò la sua avventurosa vita a Genova a quarantotto anni, dopo aver provato la gioia della popolarità recitando a fianco di Ferravilla attrice del teatro milanese, e poi l’onta di un’accusa e d’un processo. Tutta l’alta società fiorentina della capitale sfilò al Doney: i Guicciardini, i Demidoff, i Peruzzi, la Rattazzi autrice della Bicheville, i Lamporecchi, i Fenzi, i Giorgini, i Ricasoli. Chiudendo la rassegna bisogna ricordare il cafferino di via Ciondoli, ricordato da Yorick nel Lungo l’Arno. Esso fu

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un tempietto d’arte e di politica per le animate autorevoli discussioni; era un ritrovo modesto e quasi solitario ma di là partivano idee e critiche sovente tradotte in salaci e vivaci epigrammi, forma di letteratura che ha sovente la violente forza di una pugnalata come questa diretta ad un ministro delle Finanze che si tingeva disperatamente i capelli: Guai se il ministro collo stesso slancio ci ingannasse nelle chiome e nel bilancio!

Lorenzo de’ Medici fu richiesto da alcuni cortigiani di amicarsi un tale alquanto sospetto allo Stato di Toscana ma molto dedito al vino. I cortigiani dissero: «Voi gli farete fare quello che vorrete con un bicchier di vino». Lorenzo allora rispose: «Bene, ma se poi un altro gliene desse un fiasco, come mi troverei?» * Vittorio Emanuele confidandosi col suo intimo, il cavalier Paolini della Questura pare gli dicesse che... i fiorentini bisogna lasciarli bere...! E per finale di questa breve rassegna dei caffè fiorentini una stroncatura comparve quando all’Arena Nazionale fu rappresentato il Trionfo d’amore del Giacosa. L’attore Francesco Ciotti rabberciava a Pisa e lo recitava uno degli indovinelli ad onore dell’avvocato Gherardini noto bevitore di assenzio nei caffè fiorentini, particolarmente al Bottegone: Signor di Poncino, sai dirmi qual sia quel verde liquore che sta in drogheria di Barchi, Bagnani, del nolo Ciardelli, quel forte liquore color dei piselli che latte diventa nell’acqua stemprato, che il naso fa rosso, lo spirto accasciato? Bevuto in gran copia la testa va via, Signor di Poncino, sai dirmi qual sia? *

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A Lucca la città «dall’arborato cerchio» ebbe un caffè le cui memorie si congiungono a quella di Alfredo Caselli droghiere e caffettiere ch’ebbe dimestichezza col Pascoli, con Catalani, con Puccini ed altri illustri. Nei quindici anni che precedettero e in quelli che seguirono il 1900 il Caselli diventò il centro della vita letteraria ed artistica di Lucca. Il padre suo eserciva la drogheria e il caffè nel Fil lungo che fu noto in tutta la Lucchesia e fuori come il Caffè del Carluccio; Alfredo doveva nella drogheria fare opera di commesso e nel caffè talvolta quella di sguattero, ma viveva coi giovani artisti e musicisti: Puccini, Catalani, Lupporini, Andreotti, Guidotti, Lucchesi, Salvadori, Fazzi, Petroni. Pascoli gli dedicò una poesia coi versi: Se non sei nulla tu, siamo nulli, Che in tutto, Alfredo, simile, io t’amo.

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Il Caffè Florian durante la rivoluzione del 1848 (da una stampa).

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XI. I CAFFÈ DELLA SERENISSIMA

Allorquando prospettai a Pompeo Molmenti negli ultimi tempi di sua vita l’idea di questo libro, questo grande gentiluomo della storia intima veneziana, dando larga approvazione all’idea stessa, mi consentì di riprodurre un suo articolo, raro oggi a trovarsi, sui caffè storici della sua Venezia. Per cui l’articolo che qui ricompare dopo alcuni decenni, mentre è ospite onoratissimo di questo libro, è un omaggio alla memoria del massimo rievocatore di tutto ciò che in Venezia fu arte e bellezza, voce ed anima di ottimati e di popolo, fremito di vecchie glorie e di superstite venustà. Un Floriano Francesconi nel 1726 apriva coll’insegna di Venezia trionfante il caffè che per due secoli portò il suo nome e Menegazzo diventò l’Olimpo dei letterati e il centro delle dispute accese dal Baretti e dallo Schiavo e il Caffè dei Segretari a San Giuliano fu quello degli uomini curiali di segreteria, mentre quello della Nave accoglieva i procuratori di San Marco, come leggeremo più avanti nello scritto del Molmenti. Fra le memorie veneziane non bisogna obliare la sfilata degli storici caffè lungo le Procuratie: il Florian, la Borsa, il Quadri, l’Ortes Lavena, Rosa Salva, il Giacomazzi in Villaresso, le Nazioni, l’Orientale agli Schiavoni. Nei vecchi caffè, coperti colla toga pavonazza a larghe maniche, colla stola di velluto cremisino, avranno certo fatte lunghe soste i procuratori di San Marco che avevano l’obbligo di abitare nella più bella piazza del mondo, vicino alla Signoria. Ai tempi più floridi della vita dei caffè veneziani, fra le salette dei caffè di piazza ce n’era una celebre detta “il Se-

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nato” durante il sindacato di Riccardo Selvatico, sindaco poeta morto improvvisamente a 52 anni il 21 agosto 1901, dopo aver tuonato in Consiglio contro la proposta di erigere un edificio scolastico presso il Macello, e che oggi è ricordato a Roncade con un monumento recante questi versi: No gh’è a sto mondo, no, cità più bela Venezia mia, de ti […]

In quella saletta sfilò il fiore dell’intellettualità e del patriottismo veneziano dopo la liberazione; vi convenivano col Selvatico, Giovanni Bordiga novarese, Pompeo Molmenti, Emilio Castelnuovo, Bartolomeo Bezzi e Luigi Noni pittore e poi Marius pictor, Angelo Alessandri, Guglielmo Ciardi, Alessandro Zezzos, Cesare Laurenti, gli scultori Emilio Marsili, Antonio Del Zotto; fu in quel cenacolo che Riccardo Selvatico gettò l’idea dell’Esposizione Biennale Internazionale, votata dal consiglio e che ebbe vita il 30 marzo 1894 in onore dei sovrani d’Italia perché tutti i valorosi artisti potessero liberamente e periodicamente cimentarsi nel più artistico scenario d’Italia. Fu in quel tempo, che imperversando gli scandali bancari di Bernardo Tanlongo della Banca Romana colla rivelazione del plico Santoro ed altri loschi avvenimenti, il Selvatico ebbe la commenda, l’accettò, ma fece stampare dei biglietti da visita così concepiti: «Riccardo Selvatico, commendatore a piede libero». Al Florian andava De Musset morto vittima dell’assenzio e dell’amore, a quarantasette anni, disperato e glorioso; andava d’Annunzio, e raramente el rey neto, don Carlos di Borbone, duca di Madrid, che abitava nello storico palazzo della duchessa di Parma, sua prima moglie (l’austera figlia del pugnalato duca Carlo). Rinverdito dalle nozze con Berta di Rohan, che da quattordici anni l’amava di un mistico amore da leggenda, scelse Venezia per soggiorno. Accompagnato da un paggio nero e da uno bianco, preceduto da

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un grosso cane, salutato da tanta poveraglia, passeggiava silenzioso per piazza San Marco. Alto, ieratico, barbuto, olivastro pensava al vecchio sogno di Restaurazione reale, infranto dalla morte e dai tempi nuovi. La Bottega del caffè del Goldoni fu da poco allestita in quella Corte di San Luca dietro il Campo, di dove, per una calle che sembra una stretta gola di monte, si esce alla riva del Carbon, presentando il doppio scenario incantato del Canal Grande, tra il fastoso e festoso ponte di Rialto e ca’ Balbo e ca’ Foscari in un alone scintillante di marmi ed arabeschi. Il luogo della scena è un quadrivio con tre botteghe, una delle quali è di barbiere, quella di mezzo un caffè, l’altra è di un tenitore di giuoco. Il padrone del caffè, onesto e servizievole, cortese e generoso si prende a cuore le sorti di una povera famigliuola ed arriva a correggere il giovane marito sregolato e a rendere felice la moglie; un cliente maldicente e ciarliero, comico ed originale, rende tutti inquieti, annoia gli avventori e sopratutto molesta i coniugi amici del caffettiere, ma il maligno è punito, credendo di fare il faceto scopre l’intrigo e il raggiro di un birbaccione biscazziere addetto all’esercizio, l’uomo è arrestato, ma il linguacciuto è cacciato e vilipeso come un traditore. Al Caffè di San Luca si poteva incontrare Giacinto Gallina e quel caffè era un centro strategico di Venezia, come quello dell’Unità d’Italia a Santa Margherita ai tempi di Milesi, di Dal Zotto, di Tito, dei due Nono, di Castagnaro, di Martina, dei Ciardi, dei quali, la Emma, lasciava papà sulla soglia per schizzare le zattere dalle vele enormi che parevano gabbiani feriti. * Ed ora riproduciamo le memorie del Molmenti. Un dì, sulla piazza di San Marco, palpitava giovenilmente lieta la vita, tra il chiasso, i canti, le feste, i carnevali, i bagliori. Ondeggiavano romorosi i celebrati passeggi, evocati dal vivace pennello del povero Favretto nel

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quadro il Liston del secolo XVIII, dove par rivivano le dame incipriate e i cavalieri imparruccati, tra il fruscìo di seriche gonne, e il susurro di voci e di risa. Anche ai giorni nostri, meno allegri, la vita sociale ed economica di Venezia si accentra nella piazza di San Marco, e vi si dànno convegno gli ospiti, che giungono da ogni parte del globo. Un altro quadro del Favretto, il Liston moderno, ritrae nella Piazza l’agitarsi della folla odierna, assai meno vaga e brillante e piacevole all’occhio di quella dei vecchi tempi. Il quadro, rimasto incompiuto, immagine melanconica della vita così precocemente interrotta del pittore attraentissimo, ha talune figure finite, altre appena abbozzate, ma rende mirabilmente l’impronta caratteristica della vita veneziana, che si svolge con placida uniformità sulla piazza e particolarmente nei caffè. Quante cose hanno veduto e udito le pareti dei caffè veneziani, dove si potrebbe rintracciare la storia della vita intima della città singolare, dove il commercio, la maldicenza, gli amori ordiscono ancora le loro tele, dove restano ancora nell’aria un po’ di profumo della vecchia ilarità veneziana e un po’ della piacevolezza di spirito dei nostri nonni! Nessuno, più del veneziano, ama trascorrere le ore nelle piccole ed eleganti stanze dei suoi caffè, sorbendo a centellini l’amaro succo, contro il quale Francesco Redi scagliava la sua poetica maledizione. Se si dovesse credere ai romanzieri dell’erudizione, il caffè sarebbe anche più antico di Virgilio, e sarebbe, secondo alcuni, la bevanda offerta da Davide ad Abigaille, e secondo altri il nepente di cui parla Omero nell’Odissea. Ma, senza badare a queste storielle, pare che della preziosa droga non si trovi fatta menzione, se non nel secolo IX da Razete, medico arabo, e nel secolo XI da Avicenna. Sembra anche certo che, verso il principio del secolo IX dell’Egira, furono aperte alla Mecca le prime botteghe di caffè, dove la gente si riuniva a conversare, a giuocare agli scacchi, a cantare, a ballare – precorrendo, a tanti secoli di distanza, ai nostri cafés-chantants. A Costantinopoli, la prima bottega di caffè fu aperta nel 1554. In Francia, Luigi XIV, nel 1644, fu il primo a bere la profumata bevanda, il cui uso era già sparso in Italia. Ma l’infusione della bacca torrefatta e polverizzata era considerata, nei primi anni del secolo XVII, come una bevanda medicinale, che, già nel 1638 si vendeva a Venezia ad altissimo prezzo. Nel 1676, il caffè incominciava a dar molto nel genio dei veneziani, giacché il Senato incaricava i Savi alla mercanzia, destinati a sopraintendere ai provvedimenti del commercio, di ritrarre una rendita maggiore dalla abbondante vendita introdotta del caffè, giacci et acque aggiacciate, che sono inventate dall’allettamento del senso. Nel 1683, fu aperta una bottega da caffè sotto le Procuratie nuove, e ben presto altre botteghe sorgevano e divenivano gradito ritrovo di ogni classe di veneziani, molto ghiotti della eccitante bevanda. La quale esalò presto l’odoroso suo fumo in molte botteghe sparse nelle varie contrade della città. Nella sola piazza di San Marco, nel secolo XVIII, v’erano, sotto le Procuratie vecchie, i caffè all’insegna del Re di Francia, dell’Abbondanza, di

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Pitt, l’eroe della Regina, d’Ungheria, dell’Orfeo, del Redentore, del Coraggio, del Quadri, della Speranza e dell’Arco celeste; e sotto le Procuratie nuove i caffè della Venezia trionfante (poi Florian), dell’Angelo custode, del Duca di Toscana, del Buon genio, del Doge, dell’Imperatore, dell’Imperatrice della Russia, del Tamerlano, della Fortuna di Diana, delle Dame Venete, dell’Aurora, delle Piante d’oro o dell’Arabo, delle Piastrelle e della Pace. Fra questi i più rinomati, come due rivali posti l’uno di contro l’altro, furono il Florian, aperto coll’insegna di Venezia trionfante, e il Quadri aperto nel 1775 da Giorgio Quadri di Corfù, il quale ai veneziani, adoratori della aromatica bevanda, servì per la prima volta il genuino caffè turco. Fuori della Piazza, i più celebri caffè furono quelli del ponte dell’Angelo e delle Rive a San Moisè, frequentati da patrizie e patrizî allegri; quello a metà circa delle Mercerie, detto di Menegazzo, dal nome del padrone Menico, uomo grasso e tarchiato, l’eden dei letterati, come il Procopio a Parigi, dove si udivano spesso le voci alte e le accese dispute del Baretti e di Biagio Schiavo; quello dei Secretari a San Giuliano, favorito ritrovo dei Segretarî veneti, come il Giacomuzzi, il Businello, il Gratarol; e finalmente il caffè della Nave in calle larga San Marco, convegno dei Procuratori di San Marco e dei nobiluomini d’alto affare. Al Caffè, divenuto come la casa dei veneziani, conveniva, ad ogni ora del giorno, gente d’ogni classe, d’ogni età, d’ogni condizione sociale. Dal mattino a mezzogiorno convenivano i negozianti, gli avvocati, i medici, i sensali, gli operai, i rivenditori ambulanti. Nel pomeriggio fino all’ora del desinare si vedevano fermi a chiacchierare intorno ai tavolini gli sfaccendati e le donne, per far la rivista ai casi del giorno, per raccontare il fatterello e l’aneddoto, lo scandaluccio e la barzelletta. Alla sera poi i caffè pigliavano un aspetto di festa e di buon umore, e specialmente nel carnevale il giulivo tumulto durava fino all’albore dei primi crepuscoli. Le maschere, che passavano sotto le Procuratie e sfilavano per la Piazza, entravano anche nelle botteghe, piene zeppe di gente, e Arlecchino, dal viso di pece, e Pantalone, dalla lunga bazza, facevan ridere le brigate con versi strambi e frizzi arguti. Le stanze erano basse, modeste, disadorne, senza vetri, mal rischiarate da una luce tremola ed incerta, ma entro vi portava come un soffio di eleganza la folla varia e lieta, dalle vesti graziose e variopinte, che si divideva in crocchi romorosi, fra i quali serpeggiava arguta la maldicenza. In un crocchio si annodavano le file di intrighi amorosi, in un altro si scialavano in giuochi rischiosi i denari accumulati dagli avi. Insomma gente allegra e spensierata, che forniva a Carlo Goldoni e a Gaspare Gozzi la nota satirica per la commedia o per il sermone, a Giambattista Tiepolo il motivo di qualche scintillante capriccio, a Pietro Longhi i soggetti delle sue piccole tele deliziose. Nella piazzuola descritta dal Goldoni, dove s’aprono le botteghe di caffè, di barbiere e di giuoco, vivono di vita immortale, Don Marzio, meraviglioso tipo di ciarlone maldicente, il caffettiere Ridolfo, che fra le chicchere e i fornelli, trova il tempo per fare il moralista, il Trappola, garzone maligno, Lisaura, la ballerina, intorno a cui gironzolano i protetto-

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ri e gli aspiranti, Eugenio, il giocatore, vittima dei furfanti. Animata da tutta questa gente che va e viene, chiacchiera dei fatti suoi e di quelli degli altri, che attende ai suoi affari o ai suoi piaceri o ai suoi vizi, con tanto brio, tanta rapidità, tanto moto, la Bottega da caffè goldoniana è, come dice graziosamente Ernesto Masi, nello stesso tempo un paesaggio, un interno, una commedia, è Canaletto, Longhi e Goldoni, uniti insieme a rappresentare un capitolo di vita veneziana del secolo XVIII, il solo tipo schietto di vita italiana che rimanesse ancora in quel secolo. L’amore e il giuoco versavano nelle anime il filtro dell’oblio, e finché il popolo sulla piazza si dava, ne’ carnevali famosi, alle più matte baldorie, i nobili e i ricchi consumavano le intere notti nel Ridotto, nei casini, nei caffè, giuocando a faraone, alla bassetta, al biribisso, al panfil. Nelle sale della pubblica casa da giuoco, chiamata Ridotto, aperta nel 1638, nell’antico palazzo dei Dandolo a San Moisè, erano disposte lunghe file di tavolini dinanzi a ciascuno dei quali stava seduto un patrizio, con varî mucchi di zecchini e ducati a lato e parecchi mazzi di carte, pronto a tenere il banco con chiunque si presentasse, purché patrizio o mascherato. Un poeta veneziano, il prete Angelo Maria Barbaro, descrivendo queste sale, esclamava con impeto d’indignazione: Ridoto! Tempio de Fortuna e Amor Dove l’omo che vanta la razon Va a tributar, opresso da ilusion, Oro, salute, vita, quiete, onor!

Il 27 novembre 1774, il Maggior Consiglio ordinò che si chiudesse il Ridotto per sopprimere nella sua principal sede il vizio del giuoco. Ma il male era ribelle ad ogni rimedio, ed i giuochi di rischio, banditi dal Ridotto, si rifugiarono nei caffè e nei casini, piccole case o stanze, che si prendevano a pigione per radunarsi a conversare e a giuocare, e di cui vi è memoria sin dal secolo XV. E, fin dall’anno 1457, quei ridotti si proibivano pro honore Dei et nostrorum civium; e nel secolo XVI si rinnovarono varie volte i divieti contro i pubblici et infami redutti di giuoco, di crapula et d’altre disonestà. Convien credere però che i Dieci non si mettessero con tutta la loro solita buona volontà nel combattere quei redutti, giacché essi continuarono nei secoli seguenti. La mala pianta del giuoco prosperò anche nei caffè, in certi camerini appartati, dove uomini e donne giuocavano con morboso ardore. Le vecchie patrizie non avevano vergogna di correre ai ritrovi del vizio. Per un esempio, Luigi Ballarini, agente di Sua Eccellenza Andrea Dolfin, ambasciatore alla Corte di Francia, scriveva al suo padrone: «Il caffè al ponte dell’Angelo è ridotto per metà casino privato e colà si giuoca tutta notte. L’Ecc. signora Cavaliera Sua Madre non parte di là che ad ora di terza». Il Governo, vedendo come certi caffè servissero a tutt’altro che a quello cui parevano destinati, ordinò si chiudessero quelle stanze ove si giuocava, proibendo perfino alle donne di entrare nei caffè. Il provvedimento severo diede argomento allo scherzo di un licenzioso poeta, il Baffo.

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La gera in fato una gran bela cosa Veder in le boteghe una filada De done vestìe tute de parada! O Dio che mutazion trista e noiosa!

E ancora: Ma per quanto che i vogia tegnir duro Che in botega no vada più le done Gnente no i farà mai ve l’assicuro!

E qui il poeta aveva ragione: i provvedimenti per quanto severi furono sempre inefficaci. Le donne, giuocatrici impenitenti, trovarono rimedio ai divieti degli Inquisitori, e per avere libertà di giuocare si raccolsero nelle malvasie, dove oltre al cipro, all’aleatico, allo scopulo, al samos e ad altri vini delle isole greche, si vendeva un vino che veniva dalla città di Malvasia dell’Epiro;1 si diedero convegno nelle botteghe dei pesrini (lattivendoli), dove si andava a prendere il fior di latte sbattuto (panna) co’ cialdoni (storti); e perfino si radunavano nelle taverne popolari, che si chiamavano magazzeni e bastioni. La vecchia città, come invasa dall’ardenza dei godimenti, lentamente si disfaceva, e neppur quando la tempesta incalzava, neppur quando il cannone del Bonaparte tuonò a Montenotte, a Dego, a Millesimo, i veneziani perdettero la loro quiete serena. V’era in quei pigri giocondi il desiderio della calma e del godimento, quasi inconscio, senza nessuna altra cura. I carnevali erano sempre allegri: continuavano i patrizi nei caffè e nei casini a giuocare e a godere: vagavano per la laguna le gondole, poetici talami a facili amori: […] in barca de tragheto Su l’ora del frescheto Se andava a scorsizar.

Allora che avvenne il crollo supremo, alla vile senilità dell’aristocrazia seguì l’imbecille esultanza della demagogia. Molti fra gli uomini, sopravvissuti alla procella rivoluzionaria, continuarono a cullarsi in una molle, morbida inerzia, tra le chiacchiere dei caffè e gli spettacoli dei teatri. Molte fra le belle patrizie, che ancor giovani avevano assistito alla caduta della Serenissima, non mutarono, anche sotto altre vesti, i sentimenti del cuore. Rimasero sempre donnine amabilissime, un po’ larghe di manica e un po’ sciolte di lingua, e continuarono a tener corte bandita di brio indiavolato e di piacevole arguzia nelle conversazioni dei salotti e tra i crocchi dei caffè. Fra quelle conversazioni, tra quei crocchi, a quando a quando scoppiava la satira di Pietro Buratti, in cui sentì il dolore e il rimprovero: Vogio ben che i Paruconi Carghi i fusse de pecai, No lo nego, ma – mincioni! – Troppo avanti semo andai

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Ma i veneziani, rassegnati, guardavano ormai senza commuoversi alle bugiarde promesse di una libertà «Che libertà nomossi e fu rapina». Come a Parigi la Rivoluzione del 1789 cambiò i caffè in ritrovi pubblici, così a Venezia, nella breve vita della repubblica democratica, si udirono nei crocchi dei caffè le enfatiche frasi dei demagogi, che inneggiavano al nuovo ordine di cose e imprecavano al vecchio leone caduto. Ma fra l’arguzia veneziana le parole gonfie e ampollose svanivano nel frizzo salace. Così, quando ogni illusione dileguò, e Venezia fu spogliata, derisa e venduta, invece di una protesta, che risonasse alta e fiera, si alzò il sorriso canzonatorio, e nel caffè chiamato del Gobbo alcuni uomini colti, trovandosi una sera insieme per scherzare sulla falopa o bugia del tempo felice, promesso dai democratici, finirono col raccogliersi in società, cui dettero il nome di falopiana. Quando finalmente su Venezia pesò il tristo dominio dell’Austria, la città dominatrice, che aveva avuto tutte le grandezze, dovè provare tutte le miserie. Senza odio verso il dispotismo, senza amore per la libertà, nessun patrio sentimento agitava gli animi di quella gente, assidua consigliatrice di tranquillo vivere. Pareva spettacolo grande e solenne l’apertura di un nuovo caffè, e quando, nel 1832, nella vicina Padova s’innalzò sul disegno del Japelli il magnifico caffè Pedrocchi, ornato co’ dipinti del Demin e del Paoletti, murato poema, come lo chiamavano i critici d’allora, Venezia provò un sentimento, misto di meraviglia e di invidia. A Venezia infatti le botteghe da caffè ricordavano i tempi della Serenissima. Florian era una specie di monumento cittadino, come il Palazzo dei Dogi e la Basilica: «Florian botega nota a tuto el mondo», come cantava il Buratti. Ma il fulgor del suo nome non era raccomandato alla eleganza delle sue stanze, bensì alla festiva e arguta società, che ivi si raccoglieva, ai frizzi, alle celie, alle graziose malignità dei suoi frequentatori. Fra quelle arguzie e quelle chiacchiere allegre, placidamente si cullava l’animo gracile della città dai morbidi amori, così che parve miracoloso l’improvviso risveglio. Venezia, dopo una molle inerzia, si destò gagliarda e, rivendicatasi a libertà, seppe resistere allo straniero con tenace e meraviglioso coraggio. Nella eroica rivolta del ’48, durante il lungo memorando assedio, il caffè Florian fu come il quartier generale dei patriotti, e per quelle piccole stanze passavano, sedevano, discutevano, gridavano uomini vestiti teatralmente, con divise dai colori sfoggiati, con i cappelli alla Ernani e gli elmi dalla lunga criniera. Eppure quegli improvvisati guerrieri, dalle sonore ed enfatiche parole, seppero andare incontro alla morte con slancio ardimentoso. Dopo avere per lunghi giorni, per lunghi mesi, resistito al fuoco, alla fame, alla pestilenza, Venezia dovè cedere all’austriaco. Seguirono tempi di cupa tirannide per la povera città, su cui pareva risuonasse la lamentazione dell’antico profeta. Senza palpiti e senza speranze, sembrava veramente la Gerusalemme dell’Adriatico. Esiliati dall’Austria od esuli volontari, moltissimi aveano lasciato la patria, chiedendo ospitalità al nobile Piemonte. Fra la tristezza silenziosa, si accendevano però nei caffè della Piazza dialoghi animati, in cui vibravano aspettazioni inquie-

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Cartello pubblicitario del Caffè della Nave a Venezia.

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te, palpiti indefiniti, indistinti presagi. Non c’era una sola casa italiana, degna di rispetto, dove si ricevessero austriaci: non si andava a teatro: nessun italiano avrebbe osato entrare nei caffè, frequentati da ufficiali stranieri, e quando sulla Piazza suonavano le bande austriache, composte di quegli eccellenti suonatori, che avevano commosso l’animo del Giusti, la Piazza e i caffè divenivano, come per incanto, deserti. Ma intanto la Piazza e i caffè si andavano in parte trasformando e abbellendo, come nell’aspettazione di ospiti graditi. Nel 1854, si apriva un caffè, che poteva sostenere il confronto di quelli di Parigi e di Londra, ed ebbe il titolo degli Specchi, che ne costituivano la principale decorazione. Dopo quattro anni anche Florian ne imitò l’esempio, si fece bello ed elegante, ma, levandosi all’altezza dei moderni conforti, perdette non poco della sua originalità. L’antico ritrovo non spariva sotto la nuova eleganza senza rimpianti. Tommaso Locatelli, nella Gazzetta di Venezia del 24 luglio 1858, scriveva: «Il crocchio della mezzanotte non trova più l’antico e naturale suo centro, un po’ alla buona, se si vuole, ma tanto simpatico: porterà forse altrove i suoi penati; e Florian avrà guadagnato nell’arte, in magnificenza, ma scapitato per avventura nella geniale e libera conversazione, a cui fu tolto la fede natia». No, a Florian continuò a pulsare il cuore di Venezia. Quante parole piene di angoscia e di pianto scoppiarono irrefrenate, quanti propositi di vendetta si andarono accendendo in quelle stanze, allora che nel ’59 Venezia fu condannata ancora al servaggio abbominato, mentre si alzavano rinnovellati alle prime aure di libertà i più felici fratelli della Lombardia, della Toscana dell’Emilia! Ma un giorno sui tre pili di Alessandro Leopardo, destinati dalla repubblica a reggere le bandiere, ornate del sacro leone, al vessillo dell’Austria si sostituì il tricolore dell’Italia rigenerata. E, più nobile, più alto dell’antico grido di Viva San Marco, s’alzò sulla Piazza il grido, che affratella tutte le genti della penisola: Viva l’Italia! Dopo le prime esultanze, nei caffè veneziani la povera vita moderna riprese a ordire la sua tela d’interessi e di compiacenze, di speranze e di disinganni, di amori e di livori. E oggi ancora al Florian come al Quadri, come all’Aurora, come in molti altri caffè, tra le discussioni di arte e di politica, di filosofia e d’amore, di affari e di commercio, fra i dialoghi, che toccano con grande arguzia tutte le idee e tutti i sentimenti, tutti i capricci del cervello e tutti i raffinamenti del cuore, tutti gli interessi leciti e non leciti, sbocciano le calunnie e le malignità, crepitano gli epigrammi velenosi e le festose inezie, s’intrecciano gli aneddoti salaci e i pettegolezzi scandalosi.2

* Fin qui il Molmenti. Al Florian avvenne questo episodio narratomi da un testimonio.

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Ferruccio Macola, poco dopo il duello con Cavallotti che vi lasciò la vita, insultato da ogni parte d’Italia quale assassino del cosidetto bardo della democrazia, mentre non aveva fatto che battersi in duello con uno che ne aveva fatti più di trenta, stava un giorno seduto al Florian. Un gruppo di studenti era venuto da Padova per incontrarsi con lui; essi erano pronti sulla piazza davanti al caffè. Fu mandato davanti al Macola il più atletico che chiese al battagliero giornalista soddisfazione per la morte di Cavallotti. Macola si alzò e lasciò andare, quale soddisfazione allo studente, un tale manrovescio da buttarlo a terra. L’atto audace fu seguito da un tumulto, ma tutto finì senza vittime. Quando tutto fu cessato arrivarono le guardie. Era il tempo che vedeva Ferruccio Macola intimo della Ivon, una delle più belle donne d’Italia, che vedeva ancora girare Fisciola per i caffè di Venezia. Poco dopo Macola, scaduto anche a corte per la frase infelice della «rosicchiatrice di castagne», assillato dal morso della nevrastenia, si toglieva la vita, ponendo fine al dramma cavallottiano. Nel 1934, già lo dicemmo, in giugno fu rappresentata a Venezia all’aperto la goldoniana Bottega del caffè, scenario la corte del teatro, in un’atmosfera di storia e di leggenda, dove nel 1622 era stato il teatro dei Vendramin, due volte incendiato, due volte risorto più bello, il teatro che Goldoni diresse dal 1752 al 1761, per il quale scrisse I rusteghi, Le massere, la Casa nova, il Campiello. Lord Byron, l’arbiter elegantiarum del suo secolo, lo zoppo corteggiatore di popolane dei campielli e di dame azzurre, che lasciò a Venezia memorie dongiovannesche, frequentava il Quadri e il Florian assiduamente e vi studiava tanti curiosi tipi dello scomparso mondo veneziano che dovevano poi comparire nel Beppo. E certo, oltre quella specie di pantera nera della moglie d’un fornaio che lo sfruttò e finse di amarlo, saranno state anche le libazioni dei caffè veneziani ad ispirargli la confessione: «Il vino e i liquori spiritosi mi rendono cupo e selvaggio fino alla ferocia».

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La corte del teatro a San Luca nella Bottega del caffè del Goldoni.

Questo don Giovanni nordico, strepitosamente famoso sul principio del secolo scorso, lasciò a Venezia memorie di orgie, di rovine e di spettri al chiaro di luna, ma la sua figura appare nei caffè della Serenissima a compirvi il caleidoscopio degli ospiti del Romanticismo fra gli istrioni estetizzanti. Ed era esteta ed estetico tanto che il popolo lo chiamava «el bel zovaneto ingrese»; il quale bel zovaneto nel Corsaro aveva di queste trombonate: «Zitto! chi avanza di là sopra un nero corsiero? Avvicinati, vile schiavo, e rispondi: non sono forse laggiù le Termopili?» Ma erano i tempi della grande malattia romantico-rivoluzionaria del primo Ottocento.

1 La malvasia, detta anche grechetto, era di due sorta: dolce e amara. Quest’ultima, molto usata dai veneziani, si chiamava garbo. Vi sono ancora a Venezia alcuni ponti e strade denominati «della malvasia». 2 L. SUGANA, Venezia notturna, Tip. Visentini, Venezia 1891. – Vedi anche l’opuscolo anonimo e senza data: Sei caffè di Venezia, Tip. Compositori, Venezia.

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XII. I CAFFÈ ROMANI

È loco in Roma in cui quel che va dentro e mangia e beve, dee pagar lo scotto che niun fa l’oste per divertimento. E in questo vano che si fa complotto di gazzettieri a un lato e in un altro canto stanno borsisti attratti dal risotto. In quella Roma che d’Italia è vanto a manducar convengonvi ogni giorno i capi del Bargello; e questo è quanto.

Queste terzine, d’ignoto autore, che risalgono al 1889, con intonazione dantesca, si potrebbero applicare a qualcuno dei tanti ritrovi romani. I romani vanno all’osteria e al caffè e sono tutti ammiratori delle peregrinazioni comprese nell’itinerario che va dall’Aliciaro ai Tre ladroni, dal Rampighini al Richetto, dal bettolino degli Svizzeri a Padre Abramo, dal Fedelinaro alla Sora Nanna, dal Grilletto alla Sora Mariannina, alla Palombella a Zi’ Pippo, a Brecche, a Ricciarolo, alla Bianca, a Gregorio vieccè a trovà, al Carlone, alla Cisterna, alla Fornarina, da Vacce forte a Galitta, alle Colonnette, a Santo Cocu, dallo Scarpone a Melafumo, a Pippo Burone, tutto l’itinerario bacchico dell’alma Roma. Nel secolo XVIII, la vita dei caffè floridissima a Venezia, è agli inizi a Roma. Leibnitz durante il suo soggiorno a Roma nel 1689 osservava che i caffè erano già centri di conversazione e di cultura, particolarmente a piazza di Spagna. Un celebre caffè fu quello dell’Arco che si apriva nel 1800 sul corso all’Arco dei Carbognani; vi si giuocava molto malgrado le “grida” del Buongoverno, ma correvano le regalie ai birri ed agli esecutori.

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V’era pure il Caffè dei Nobili che per esser stato rinnovato da un giovane veneziano, che lo fece decorare nello stile della sua città, fu poi detto «il Veneziano». Si apriva sull’angolo di Caravita, davanti a palazzo Sciarra, ed era il ritrovo dei «neri o barbacani» nomignolo dato dai liberali ai partigiani del governo pontificio. Il caffè ebbe vita fino alla costruzione del palazzo della Cassa di Risparmio nel 1861; una sera venne sparato un petardo che mise in fuga tutti i clienti colla conseguenza di un profluvio di bibite non pagate e di tazze e bicchieri rotti! Contemporaneo di questo caffè fu quello «delle case bruciate» nome che gli derivò da un incendio di case avvenuto in quei paraggi. In piazza di Spagna fu celebre il Caffè Inglese, che sorgeva nel luogo dove fu poi aperta la libreria Spithover e dove un noto pittore, innamorato di una modella di Anticoli più volte dipinta sotto le forme di una romana antica, la portò dopo averla sposata in giuste nozze. Questo caffè era il convegno dei letterati e degli artisti e vi andavano a posteggiare i ciceroni in attesa dei clienti stranieri. Il Caffè delle Nocchie, merita un cenno di ricordo, era il caffè e l’osteria in un tempo, ebbe larga fama; il nome gli venne dalle quattro sorelle Apollonia, Maria, Rosalia e Vincenza Nocchia: erano tutte ridanciane, simpatiche, sature di frizzi romaneschi e coi clienti conversavano come in famiglia. Alle Nocchie convenivano molti artisti tedeschi; il ritrovo era nella casa d’angolo fra le vie Sistina e Porta Pinciana. Gli artisti chiamavano le proprietarie «nottole» o «nocture». V’era anche il Caffè Nuovo a palazzo Ruspoli sul Corso e vi andava Gherardo de Rossi che nelle sue commedie descrive vivacemente la vita romana del Settecento. Lo frequentava pure Giraud, il quale si incontrava col Pinelli, in ultimo v’ebbe convegno la cosidetta “Scuola Romana” del Gnoli, del Celli, del poeta Giuseppe Maccari e d’altri. I caffè romani si moltiplicarono durante l’occupazione francese; sorsero fra altri quello delle Convertite sul Corso,

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il Caffè Ruspoli, il Caffè delle Belle Arti, quello degli Scacchi, il Colonna. Questi ritrovi consistevano pressoché tutti in un solo ampio stanzone col banco in fondo, una fontanella zampillante e sulle pareti una figura di Madonna, coi fiori ed altri quadri disposti con bel garbo fra le bottiglie, i dolci, le tavolette di cioccolatto. Un vecchio caffè romano è ricordato nei sonetti di Gioachino Belli: il Caffè della Speranza. Questo caffè era in piazza San Giovanni della Malva e sopravvisse fino a non molti anni or sono. Per pulizia gareggiava con altri… colleghi, quali il Caffè del Pulciaro, con quello del Pidocchietto, coll’altro del Moccio ed altri nomi non meno eloquenti che sono elencati nelle Notizie storiche sui nomi delle osterie, caffè, alberghi e locande di Roma raccolte da Alessandro Ruffini a Roma nel 1855. Altro vecchio caffè, il caffè “storico”, è il Greco; moltissimi fra i visitatori dell’urbe «in aeternum condita et in immensum crescens» ne ignorano l’esistenza e non vanno a visitarlo, pure essendo nel cuore della città. Ma Diego Angeli, vivificatore di antiche memorie romane, cronista di giorni passati, animatore della Roma da poco sparita, di salotti e di dame, di ambienti e figure cittadine, ha dedicato un bel volume: Le cronache del caffè Greco, al vecchio ritrovo che oggi accoglie un pubblico formato in maggioranza da vecchi sonnacchiosi, tranquilli giocatori di scacchi, posati lettori di giornali e riviste. Sui vetri del locale c’è scritto: «Caffè del Greco» e poi «Fondato nel 1760». Sul primo proprietario del Caffè Greco ci sono due versioni: una è la nota di censimento che attribuisce la vecchia bottega ad un levantino, Nicola Maddalena, il quale, nel 1765, abitava in via Condotti con una domestica ed un garzoncello; l’altra è una stampa, conservata alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele, che rappresenta l’esercente della bottega nel suo costume turchesco, e porta questa iscrizione in italiano e in francese: «Chi sarà stato a Roma conoscerà Giorgio nella sua bottega; sto turco fa il gatto

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morto, ma per lui la musica è il suono delli quattrini». A giudizio di Diego Angeli si è corso troppo ad attribuire questa stampa del 1770 al Caffè Greco mentre egli opina che essa debba riferirsi al Caffè del Turco che appunto in quegli anni si era aperto in piazza Sciarra. Una vecchia stampa da un rame rinvenuto da Domenico Gnoli, raffigura il presunto fondatore del caffè, un greco barbuto, in costume orientale, che volge le spalle ai fornelli dove bolle il caffè, mentre un cliente di qualità in attesa è rallegrato da un suonatore di chitarra; non manca il gatto... ma quel greco ha tutto l’aspetto di un mercante di schiave!! La scrittrice Madame Bulteau, nota collo pseudonimo di Jacques Voutade, pubblicò tra altri nella Renaissance Latine, un interessantissimo saggio sul Caffè Greco, e Stendhal in un articolo: Du Viminal à l’Aventin rese omaggio al ritrovo romano: «un luogo dove passo quasi ogni giorno un’ora eccellente». Scrittori d’ogni Paese vollero ricordare in articoli di giornali o nei loro libri, il rumoroso cenacolo. Il Thackeray nel saggio intitolato Our Street, dice: «Io conobbi quei due signori a Roma, dove George portava, una giacca di velluto, una barba che gli scendeva fino alla vita e usava, parlare della Grande Arte del Caffè Greco». Ma poche memorie ci restano di artisti italiani che frequentarono il caffè storico di via Condotti, perché gli italiani furono sempre avari di notizie autobiografiche nei loro scritti. Chi è avvezzo a parlare di Achilli e di Tesei, di Numi e di Eroi, non può scendere fino a farci sapere che frequentava un caffè! Una lettera scritta da un abatino nel 1825 (Giovacchino Pecci, colui che doveva essere nel 1878 sommo pontefice, col nome di Leone XIII) a un amico, dice: «Quando ero studente tutti i denari che mi mandava mio padre e le regalie che mi dava il Collegio Germanico, essendo ivi ispettore, mi servivano a comprar libri e a prendere un buon caffè nel Caffè Greco di via Condotti».

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Il presunto fondatore del Caffè Greco a Roma (da un rame del tempo, rinvenuto da Domenico Gnoli).

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Il celebre e celebrato caffè fu frequentato da scrittori e poeti, vi convennero i più insigni rappresentanti delle arti e delle lettere d’Italia, di Francia, di Germania e di Russia. Il Caffè Greco può dirsi un museo: ognuno dei suoi frequentatori vi ha lasciato un ricordo, un autografo, un disegno, una statuetta, un dipinto, un sonetto, una caricatura, un pannello. Giovanni Sgambati donò il medaglione di Liszt, opera di Welinsky che campeggia nella sala detta “dell’omnibus” per la sua forma. Goldoni che girava per studiare i tipi delle sue commedie, fin dal 1759 scriveva al Cornet: «Voi andate in traccia di buoni corrispondenti, ed io di nuovi caratteri. In Roma avrei modo di provvedervi, ma sono coperti da certe divise interdette alle scene e lo spogliarsi di queste è lo stesso che far vedere una donna disabbigliata». Allora Goldoni era a Roma per mettere in scena nuove commedie a soggetto ed abitava presso un abate «fort poli e fort honnête» che si dava attorno a preparare un piatto speciale per l’avvocato Goldoni che sovente era a pranzo fuori; allora il povero abate si arrabbiava a tal punto da strepitare e gettare dalla finestra nel cortile il tegame e i piatti e... forse anche la serva! Al Caffè Greco Goldoni andava a prendere il buon caffè che allora non costava certo più di tre soldi! Volfango Goethe, che soggiornò a Roma nel 1786-87-88 e che cantò: Come lieto ispirato io qui mi sento qui sul classico suolo!

frequentò assiduamente il caffè che poteva dirsi il quartiere della colonia straniera. Rossini, il cigno di Pesaro, che Rovani ammirava freneticamente e che ci dice gli facesse pensare «ad un passero ben pasciuto», venne a Roma da Napoli, trionfatore dell’Elisabetta, interpretata dalla Colbrand, che il maestro sposò poi nel 1822 e qui in soli quattordici giorni, febbrilmente

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compose il Barbiere di Siviglia. L’opera non ebbe il successo e a chi voleva consolarlo Rossini rispose: «O che io fui una gran bestia a comporre il Barbiere o i romani sono una massa di imbecilli!» Era un cliente assiduo del Greco e attorno alla sua persona si accendevano gli entusiasmi e le critiche non sempre spassionate. Anche Stendhal, il paffuto console francese di Civitavecchia e che oggi ci sembra esageratamente esaltato, veniva di frequente a Roma e non mancava di fermarsi ai caffè dove andava pure Berlioz che lo definì «une détestable taverne» perché oscura sudicia ed umida, giudizio condiviso da Mendelssohn che lo chiamava «uno stambugio». Bizet fu giovanissimo a Roma, sul principio del 1858, studente all’Accademia di Francia per ottenere il Prix de Rome. Aveva un biglietto di presentazione e raccomandazione per Mercadante, volle conoscerne il contenuto e vide che la raccomandazione era... una vera denigrazione. L’autore della Carmen frequentava il Greco, dove fu tante volte Liszt dopo il 1839 quando venne a Roma in compagnia di quella contessa d’Agoult che aveva lo sguardo tedesco ed il sorriso francese, intima amica del musicista magiaro per dieci anni e che firmava i proprii scritti col pseudonimo di Daniele Stern. Fu a Roma che Giovanni Sgambati rivide Liszt, quando aveva rotta la relazione coll’amica e ne divenne l’allievo e l’amico. Nicola Gogol’, l’autore delle Anime morte, venuto dalla Russia a Roma nel 1840, fu un frequentatore del Greco e fu nel suo soggiorno romano che scrisse “le lettere religiose”. Si può dire che non uno straniero di passaggio nella città dei Cesari, o che avesse eletto il suo domicilio nell’Urbe, mancasse di conoscere il ritrovo dove sfilarono per tanti anni il fiore delle Arti. Molti parlarono di questo caffè e vi lasciarono ricordi. La saletta dell’omnibus aduna i medaglioni dei celebri frequentatori; vi sono quelli di A. Thornwalds, di Liszt, la statuetta di Mark Twain dello scultore Amici; nella prima sala le vedute veneziane di Ippolito Caffi che ricordano quelle del Canaletto. Il Caffè Greco può vantare una ve-

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In alto, da sinistra, Buffalo Bill al Caffè Greco; a destra, La fioraia e il reverendo: «Che seccatura!», scena del Caffè Greco nel 1845, pittura di Widar acquistata nel 1878 dall’imperatore Guglielmo I. In basso, da sinistra, medaglioni di A. Thorwaldsen e di Liszt (opera di Welonsky) nell’omnibus del Caffè Greco.

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ra e propria letteratura. Uno dei primi a parlarne fu Berlioz; Augusto Villemont nel libro: Brigands et voleurs dice che in quel luogo «straordinariamente pittoresco» poté conoscere perfino il famoso brigante Gasparone; Ippolito Taine nel Viaggio in Italia, avvenuto nel 1864 lo descrive così: «Una lunga sala piuttosto bassa, niente affatto elegante o brillante, ma abbastanza comoda. È vero che ogni cosa costa pochissimo ed il caffè è eccellente, costa solo tre soldi la tazza». Carlo Baudelaire, già preso dalle grazie della famigerata Venere nera e dalle branche dell’alcool ne parla, senza averlo veduto. Era stato a Roma nel 1892 per scrivere Cosmopolis ed in una novella intitolata L’adoration des mages, così ricorda il vecchio caffè: «Mon ami la Rochette déjeune au café Greco par économie d’un fette de pain et d’une tasse de café, qui moyennant quattres sous, le conduisent jusqu’à six heures». Convenivano al Greco abitualmente Morizon, Strauze, Wiuchelman, Overbeck, che dovette lasciarlo per le divergenze fra le sue idee sul rinnovamento cattolico con quelle della grande maggioranza (ma si vendicò scrivendo alla sorella in una lettera che erano degli stupidi...). Nel 1867, alla vigilia di Mentana al Caffè Greco un inviato di Enrico Cairoli venne ad accordarsi con varii patriotti romani per suscitare un moto in città mentre i garibaldini da villa Glori, sarebbero entrati in Roma assalendo Porta del Popolo. Precedentemente nel 1831 al Greco fu organizzato l’assalto alla caserma dei granatieri in piazza Colonna; capitanava i rivoluzionari lo scultore Lupi che sparò un colpo di pistola; rispose un plotone di fanteria pontificia e fra i feriti fu lo stesso Lupi, col pittore Pasqualini figlio di un corso, antico soldato di Napoleone, che dovette la salvezza alla regina Ortensia moglie di Luigi Bonaparte ex re d’Olanda, che lo accolse in casa e pose in salvo. Diego Angeli nel suo libro, eleva veramente un monumento imperituro al Caffè Greco. * 179

All’Inglese andava anche Goethe; a questo ritrovo si adattava, meglio che ad altri, la descrizione ironica che della vita romana e dei caffè del 1789 fa l’avventuriero Giuseppe Gorani di Milano, citoyen français, che lo dice formicolante da mane a sera di novellieri, artisti, avventurieri, narrando che dovette assistere ad una disputa furibonda a proposito di una testa. Il Caffè Inglese divenne il cenacolo di Piranesi, di Zucchi, marito di Angelica Hauffmann e che l’autore del Werther paragonava a... San Giuseppe, di Fea, di Volpato, di Cavaceppi e di Vincenzo Monti. Il caffè, divenuto poi sulla fine del 1700 convegno degli stranieri, fu chiamato «Caffè tedesco». Il Guardabassi in piazza Montecitorio, di fronte alla Camera dei deputati, quella che Gandolin vent’anni or sono, chiamava il bagolatoio parlamentare, fu un ritrovo di giornalisti e di onorevoli e passò attraverso una lunga vicenda giudiziaria dal Tribunale alla Cassazione. Al Castellino andavano e vanno ancora molti piemontesi, lasciando al gran Faraglia (ora chiuso) la gloria dei frequentatori di ogni regione. Altri antichi caffè furono le Colonne, gli Scacchi, le Belle Arti. Ma al Castellino si riannoda una frase umoristicamente editoriale. L’editore Perino aveva pubblicato la Vita di Gesù del Renan; incontrandosi nel caffè col deputato Tura questi lo complimentò per la sua iniziativa e l’editore lusingato dall’augurio di una splendida diffusione dell’opera rispose: «Spero bene anch’io, perché anche della vita del brigante Gasparone se ne vendettero migliaia di copie!» * L’Aragno è il tempio di Giove della vita romana del caffè: la saletta dell’Aragno è stata uno dei più celebri ritrovi d’Italia ed una lapide ne ricorda le riunioni di uomini politici, di letterati, di artisti; l’Aragno fu sopratutto un caffè politico, il convegno della capitale, il centro della vita elegante ro-

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mana, il luogo dove convennero i forestieri in visita. Anche chi non ha veduto la Cappella Sistina ha veduto ed è stato all’Aragno!! Vi culminavano le dimostrazioni di ogni gradazione e colore dal settanta all’avvento del fascismo. Non sono dimenticate le scene che davanti al caffè culminavano, per l’arrivo del conte Tacchia, del generale Mannaggia La Rocca, per le dimostrazioni a Coccapieller, per Sbarbaro e simili sgonfioni. «La saletta di Aragno – scrisse Adone Nosari che vi appartenne – fu tutta una pugna eroicomica. Ci si batteva per una commedia applaudita o fischiata, per un sonetto, per un callo pestato, per un giudizio audace... I direttori, allo scoppio delle tempeste, lasciavano il banco di comando eretto nella seconda sala per venire ad indignarsi delle diavolerie dei salettisti. Nella saletta si organizzavano campagne teatrali e giornalistiche, si fondavano riviste, si lanciavano sfide per motivi anche futili, ci si ingiuriava e si mandavano in frantumi tazze, bottiglie, marmi e specchi, tanto che si dice che i proprietari avessero segnato nei preventivi, tre mila lire annue di rotture (lire, si intende dell’anteguerra)». Come cenacolo di giovinezza, la saletta di Aragno finì nel maggio del novecentoquindici, quando i suoi fedeli si dispersero nelle caserme, nelle retrovie, nelle trincee. Nel 1927 questa storica saletta fu staccata dal Caffè Aragno per diventare un bar attiguo indipendente; ma sull’architrave della porta, che fu murata, una lapide ricorda i nomi di coloro che partirono da quel «nido irrequieto di giovinezza, di sogni e di gloria». All’Aragno Gandolin fece al Carducci uno scherzo che lo lasciò furibondo per non aver potuto individuare l’autore. Il Carducci era alla Minerva in una commissione d’esami dei titoli di una cattedra; Gandolin andò al telefono e chiese del poeta; un usciere rispose che non era possibile avvicinano in quel momento. Gandolin insiste dicendo che un funzionario della casa della regina Margherita voleva assolutamente parlargli. Il Carducci accorse e l’umorista cominciò:

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«Parlo con Giosue Carducci?» «Sì!» «Col professor Carducci?» «Sì!» «Col senator Carducci?» «Sì!» Scoppio d’ira del poeta e allora Gandolin si pose a recitare il finale della canzone della regina: Salve, o tu buona, sin che i fantasimi di Raffaello ne’ primi vesperi trasvolin d’Italia e tra lauri […] la canzon firulirulin, firulirulà la canzon firulirulin firulirulà!

Carducci ne conobbe l’autore dopo un anno. Fu davanti all’Aragno che durante un carnevale apparve fra il tripudio romanesco la bizzarra figura di un generale Mannaggia La Rocca, di cui fu creatore certo Luigi Guidi, popolare cenciaiuolo del rione Ponte, il quale si fece iniziatore e duce di una mascherata militaresca, che, partendo dal ponte Sant’Angelo, percorreva di giovedì grasso le vie principali della città: il generale carnevalesco, in elmo e pennacchio con uno sciabolone in pugno, gridava reboanti comandi al suo seguito di cavalieri, letteralmente coperti di galloni e lustrini. Sembra che la mascherata rimontasse al periodo dell’occupazione francese ed avesse intenti satirici contro le truppe occupatrici. E il tipo ebbe un momento di notorietà internazionale nel 1898, quando un giornalista della “Tribuna” per mettere a posto certi giornalisti francesi che denigravano l’Italia per lo scacco di Adua, inviò al più pettegolo di quelli, tal Tomegueux una sfida firmata Mannaggia La Rocca. Il Tomegueux abboccò: confuse il “Mannaggia” coll’autentico generale Morozzo della Rocca e menò vanto della sfida coprendosi di ridicolo nella sua stessa patria. Come si ricorderà, l’incidente franco-italiano

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Irving Penn, Gruppo al Caffè Greco di Roma. Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Goffredo Petrassi, Mirko, Carlo Levi, Pericle Fazzini, Afro, Renzo Vespignani, Libero De Libero, Sandro Penna (in piedi), Lea Padovani, Orson Welles, Mario Mafai, Ennio Flajano, Vitaliano Brancati, Orfeo Tamburi (al centro). New York, collezione dell’autore.

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fu di poi seriamente risolto col duello fra il conte di Torino e il principe Enrico d’Orleans, non ritenendosi opportuna la sfida precedente del tenente di cavalleria Pini al principe. Il cenciaiuolo Guidi morì nel 1901 all’ospedale: tre pretendenti (uno dei quali era al manicomio) si disputarono poi l’onore di rappresentare il personaggio; ma essi erano ben lontani fisicamente dalla guerriera maestosità del Guidi. Un impiegato delle tramvie municipali romane si prestò a continuare la tradizione allegra. Fu all’Aragno che a proposito della mancia Gandolin, ricordando don Chisciotte della... Mancha, aveva scritto questa quartina: Un tale del passato famoso cavaliere, Servito era con gioia da ogni cameriere; Or tu che mi ascolti, se il nome mio dirai, La spiegazion del fatto nel nome troverai. (don Chisciotte della… mancia)

Per la letteratura speciale dell’Aragno, occorrerebbe un volume.

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XIII. I CAFFÈ DI NAPOLI E GLI EPIGRAMMISTI PARTENOPEI

La vita dei caffè napoletani è la storia dell’epigramma cittadino, principale elemento della vita psicologica partenopea. Nelle peregrinazioni per Napoli, sentimentalmente rievocative, invano cercheremmo il Caffè della Croce di Savoia, aperto giorno e notte, ritrovo di cabalisti, nel cuore di via Toledo, né quello della Pignasecca, di Vicaria, di Mercato e di Porto, che furono fra le caratteristiche della vecchia Napoli descritta dal Mastriani nei romanzi sul tipo dei Vermi ch’ebbero tanta fama popolare. Hanno seguito le sorti del portentoso ed antico Pallino al Vomero, del Polisano a Posillipo, di Monsieur Piccolo a Caroglio, dello Scoglio di Frisio, di Monzu Testa al Purgatorio, del popolarissimo Giardinello al supportico di Lopez, della Paglierella, del Vasto celebrato per ’a muzzarella ’a Luigge ô Vasto, di Torre Starita a Santa Lucia dove sovente compariva l’assistito a darvi i numeri del lotto per rifare le finanze consumate dalle vecchie feste dell’Archetiello, dei Gigli, dei Quattro Altari, della Madonna della Catena a Santa Lucia colla selvaggia cerimonia del tuffo in mare “ngegna”. In quei tempi si credeva ancora di vedere nelle ore notturne vagare per Napoli ’o monaciello, e per i chiassuoli dalla piazzetta della Duchessa al Cavalcatore, da Porta Capuana a Santa Lucia, a marina di Chiaia o’ pazzariello nella divisa del maresciallo Murat, che adunava lazzari, scugnizzi, guagliò, guappi, mercantesse, cerinarelle, cantastorie del Molo, e i devoti d’o’Munacone e di Madonna Schiavona del Carmine.

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Erano i tempi degli equipaggi imponenti del duca D’Alife e di altri fastosi signori che ritornavano dalle corse o dal passeggio, col battistrada che urlava: «levate ’o miezzo, guagliù! levate ’a loco», quando ancora si tremava per il ritardo nell’ebollizione del sangue di San Gennaro, faccia gialluta, bello guappo nuosto, quando si poteva dire: a Napoli si nun se canta se more e al tempo delle speranze e delle delusioni si cantava: puozze na vota risuscità scètete, scètete, Napule, nà!

e dovunque risuonavano le canzoni; lo cardillo, lo passeriello, te voglio bene assaie, chiè che tozzola, la nocca, o mare ba’, la palomella, funiculì funiculà, duorme Carmè e tutta la gamma canzonettistica partenopea piazzaiola. * Della vecchia Napoli il Caffè d’Europa, in piazza San Ferdinando, all’imbocco di via Chiaia, fu celebrato per frequentatori ed aneddoti. Sfolgorava di dorate specchiere e di divani vellutati; fino alla seconda metà del secolo scorso era uno dei pochi caffè sopravissuti fra quelli aperti in via Toledo durante la rivoluzione. Prima si chiamava Caffè Grande ed era al Largo di Palazzo; frequentato dalla migliore società napoletana e di passaggio, i clienti erano così assidui da farsi colà recapitare la posta; si disputavano inoltre i giornali stranieri in arrivo ed una saletta del locale serviva per il disbrigo della corrispondenza personale dei clienti. Questa vita animata e brillante segnò particolarmente il decennio dal 1840 al 1850 ed è nell’autunno del 1845, che l’Hettner ne trasse l’ispirazione per il suo Tanerspiel in Sicilien. Il Caffè Europa fu anzitutto sede della Palestra letteraria e dell’Accademia che aveva i quattro stadii: prime armi, adepti, pervenuti e decani. Il giornalismo ne fe-

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ce la propria rocca: vi sfilarono Nicola Amore, Pietro Sbarbaro, Rocco de Zerbi non ancora avviato alla tragedia del suicidio, Schipa, D’Ovidio, Peppino Turco, Zambini, Scarfoglio, De Leva, Paolo Tosti, Mario Costa, Migliro, Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Luigi Stellato. Aperto verso il 1837, da un certo monsieur Revany fu adornato con un lusso orientale di specchiere, di marmi e di dorature, intonato all’ambiente napoletano similoro. In quei tempi a Napoli si introducevano parecchie cose nuove, che sbalordivano come l’apertura della ferrovia di Castellamare. Una boulangerie française, una trattoria palermitana che stava aperta tutta la notte alla clientela, Thalbery giungeva a Napoli, monsieur Raison, parrucchiere francese, metteva in vetrina un busto in cera per i suoi modelli di pettinature... commozione e sbalordimento delle dame e delle... pedine!!! L’apertura del Caffè d’Europa diventa il titolo di una commedia napoletana di Pasquale Altavilla, nella quale brilla tutto lo spirito di comicità partenopeo. Ernesto Murolo ci sarà cortese di consenso per la riproduzione da un suo bell’articolo Ombre e figure napoletane dell’episodio che, tracciando un profilo di Ferdinando Russo protagonista accenna a un movimentato e comico incidente che ebbe per sfondo il Caffè d’Europa. Fra “i numeri” d’attrazione che verso l’88 formavano un programma di varietà al circo Equestre, ora Politeama Giacosa, c’era un atleta straniero, che spezzava una spranga di ferro colle mani, e che si produceva in tutti quei giochi di forza bruta che seducono ed entusiasmano gli spettatori; il successo era stato enorme e l’atleta ne approfittò per esibirsi nella sua erculea figura, di giorno, di notte, in tutti i ritrovi pubblici dove era fatto segno all’ammirazione di quanti, nel pomeriggio o dopo il teatro, si riunivano nel caffè. Al tocco dopo la mezzanotte di una sera di luglio, parecchi anni or sono, “il gigante” entrò nel Caffè d’Europa seguito dal suo segretario e dai suoi ammiratori.

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Era ad un tavolo, seduto in animata discussione letteraria con vari giornalisti e scrittori, Ferdinando Russo, al quale non fece una gradita impressione l’ingresso tronfio e smargiasso dell’atleta formidabile: tanto più che costui avendo picchiato sul marmo di un tavolo per richiamare l’attenzione del cameriere si sdraiò sconciamente su un divano sbuffando e vociando. «Ferdinà», disse Vittorio Pica al Russo, «sai chi è costui? È il gigante che lavora al Politeama... ci sei stato?» «A me i giochi di forza non piacciono...» fece il Russo. «Bada che spezza fra le dita un bastone di ferro!» affermò il Pica. Masticando la sua sigaretta Ferdinando Russo borbottò fra i denti: «Spezzerà tutto quello che volete voi, ma a me dall’aspetto pare nu sbruffone». Volle dire un miles gloriosus. Gli amici conoscevano l’insofferenza, l’eccitabilità e l’atteggiamento da guappo del così detto signore che si diceva don Ferdinando. Del resto è ancora un po’ di tutti i napoletani di buona famiglia che abbiano fatto un po’ “la vita”, quella mollezza d’andatura, l’aria da “padrone della strada”, lo strisciare e il gonfiare la parola nell’esprimere l’indifferenza per un pericolo o il proposito d’una minaccia. Nel caso dell’atleta però, il giudizio del bollente don Ferdinando parve una tracotanza ai componenti il cenacolo d’arte del Caffè d’Europa. Il colosso, intanto, ripicchiava sui tavolo. Per mala ventura i suoi sguardi, si incontrarono con quelli di Ferdinando Russo; e in essi l’atleta parve di sorprendere una intenzione di dileggio e di sfida. In un italiano storpiato, e con uno scoppio di voce, egli allora puntando l’indice contro il Russo esclamò: «Perché ridère voi? Volère vedere saltare mio pugno vostra bella dentiera?» (Intendeva dire dentatura). Poggiando i gomiti sul tavolo don Ferdinando, con il solito sorriso nell’angolo della bocca rispose pacatamente: «Calma... mossiù... calma: se no vi guastate la digestione...»

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«... non comprendere lingua... sarracena...» scattò l’atleta dando un pugno formidabile sul tavolo. «Napoletani essere tutti po...» Chi riferisce ancora oggi, la scena, aggiunge che non si può descrivere lo slancio felino che ebbe Ferdinando Russo, allora smilzo, sottile, elastico come un giunco. Levarsi da sedere, rovesciare i vassoi ed i bicchieri del suo tavolo, aggredire il gladiatore a ceffoni e a pugni fu tutt’uno. Tra gli avventori ed il gruppo degli amici di Russo, si produsse un panico indescrivibile. Tutti, dall’inevitabile e brutale reazione dell’atleta temettero lo... stritolamento del giovane e audace artista. Ma un colpo di scena li sbalordì. Quello che non era mai accaduto all’Ercole da circo, all’uomo che lanciava in aria chilogrammi di peso in una sfera di ferro, lasciandosela ricadere sulla nuca; che faceva scattare a breve distanza del suo volto due spranghe d’acciaio infisse in un massiccio cavalletto, fermandole colle mani e spezzandole, si verificò in lui, in un istante, per quell’invincibile ed anormale turbamento dal quale all’improvviso, anche i più coraggiosi sono vinti dinnanzi ad un vago pericolo, e che è come la decomposizione dell’anima: la paura. Il gigante ebbe paura! Sorpreso... indeciso, anche più intimidito da un rapido gesto del Russo col quale costui portò una mano alla cintola, come per cavarne un’arma, tra la viva sorpresa di tutti… fuggì! E don Ferdinando ad inseguirlo fino allo svolto del largo Carolina, dove lo raggiunse, con due definitive scudisciate sulla schiena. Naturalmente il puosto di vetture da nolo di piazza San Ferdinando fu messo a rumore. «È don Ferdinando Russo» vociarono i cocchieri. «È o signurino, è don Ferdinando». Tutti a favore del popolare poeta, il quale, ogni notte, a tarda ora, amava d’intrattenersi con tutte quelle caratteristiche figure di vetturini che lo conducevano alla trattoria della Regina d’Italia e che confidenzialmente lo mettevano al corrente di tutti i guai della famiglia, del cavallo, della stalla, delle contravvenzioni ingiuste del guardio e che gli

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fornivano tutti quegli spunti di quadretti popolari rimasti indimenticabili in Sunettiata. Tra la folla degli amici che sulla soglia del Caffè d’Europa accolse con voce di ammirazione il trionfante vendicatore dell’ingiuria ai napoletani, Vittorio Pica, preoccupato, gli disse in tono paterno: «Ferdinà, io ti ho visto portare la mano alla cintola; ma tu, benedetto Dio, oltre la cravache porti anche la rivoltella?» «Si capisce!» rispose Russo, e tirò fuori dalla tasca posteriore dei calzoni, il suo lungo e luccicante chiavino di casa... * Il Caffè d’Europa fu un cenacolo di epigrammisti; ricordiamo tra i suoi assidui frequentatori Cesare de Sterlick, Luigi Coppola, Vincenzo Torelli, Adolfo Cassiero, Michele D’Urso, Nicola Sale, Martino Cafiero, Francesco Proto duca di Maddaloni, Raffaele Petra marchese di Caccavone e duca di Vastogirardi, tutti epigrammisti, celebratissimi gli ultimi due. Non basterebbe un volume per parlare degnamente di questi spiriti pronti ed acuti che della loro penna fecero un’arma spesso tagliente e qualche volta mortale! Un marchese Alberghi di Napoli, diplomatico, aveva fama di iettatore grandissimo (togliere ai napoletani la mania e la credenza della iettatura è come togliere loro i maccheroni o san Gennaro...). Questo marchese Alberghi un giorno, volle scrivere un poema: La Spagna liberata dedicandone ogni canto a qualche personaggio; Ferdinando re, il ministro Vecchioni e la marchesa Partane ai quali erano dedicati i primi tre canti in breve morirono. Alcuni assidui al Caffè del Molo, fra i quali Rocco, Caccavone, Sterlich proposero al Caccavone di scrivere un epigramma che suonò così: Alberghi a Ferdinando un canto offrì E repentinamente il Re morì. Poscia a Vecchioni dedicò il secondo E Vecchioni partì per l’altro mondo. Alla Partanna il terzo consacrò,

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La Partanna non l’ebbe e trapassò... Se ti prendesse di offerirmi il quarto, Marchese mio, prendo la posta e parto!...

L’Alberghi lesse la tirata e argutamente rispose: S’è ver che della «Spagna liberata» Tre canti dier la morte a tre persone, Onde Napoli mia venga salvata Da Rocco, Sterlich, D’Urso e Caccavone, Di scrivere prometto un canto solo Pei quattro amici del «Caffè del Molo»: E questo canto di miglior effetto «Napoli liberata», sarà detto.

Il duca di Maddaloni, autore di un bel libro su... Ponzio Pilato, fu arguto scrittore ed autore drammatico e prefetto del regno; delle sue produzioni teatrali si ricorda un truce atto: Ruit Hora nel quale debuttò giovanissima Tina Di Lorenzo al teatro Rossini di Napoli nel 1884 e il dramma Friedmann Bach in quattro atti. Alla Francia dedicò questo epigramma per una mala prova di fraternità politica: Quando avverrà che il secolar progresso farà che i Galli sian giusti e buoni? Quando la Senna muterà di sesso!

Inaugurandosi una trattoria svizzera, avvenimento al quale il duca era intervenuto cogli amici del Caffè d’Europa, scrisse: È ristorante svizzero davver questa taverna; lo riconosco all’olio, vero olio di Lucerna;

Ma anch’egli dovette sopportare gli altrui strali, compreso il nomignolo di... «Venere dei dotti»! All’inventore del soprannome scrisse: Vieni d’oscuro vicolo in disparte e vedrai se sarò Venere o Marte!

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Il duca si riuniva ogni sera al Caffè del Molo con Russo, Sterlich e D’Urso tanto che venivano chiamati «i quattro del Molo». Tutti, perfin la corte Borbonica, temevano gli epigrammi dei quattro, che uscendo da quel caffè o dall’Europa, giravano per le botteghe dei barbieri, per i caffè e cafferucci, le bettole, fra i servi, andavano in curia, alla corte, ai teatri e quando i quattro apparivano nel palchetto dei Fiorentini fra un atto e l’altro, le dame si coprivano pudicamente il volto coi ventagli… ma tutti attendevano quelle primizie della maldicenza salace o giocosa che sprizzava come vin generoso da una botte mal connessa! La salacità di qualche epigramma arrivava è vero a limiti trascendentali, ma allora l’epigramma scuoteva dal letargo della vita quelli che, anche in una capitale di regno, vivevano nella sonnolenta quiete che impronta le zattere pesanti della vita provinciale. Molti epigrammi del duca di Maddaloni andarono dispersi e rimasero inediti; in una raccolta a stampa, alla quale furono aggiunti parecchi manoscritti di un ignoto, troviamo questi. L’arcivescovo Sanfelice era ritornato da Roma senza la porpora che si dava per sicura: «La Libertà Cattolica» ne dice che il nostro buon Pastore Sanfelice sia venuto da Roma accatarrato; e il perché si capisce facilmente: perché senza il cappel è ritornato.

Ed ecco questo: L’aiutante di campo di quel brav’uom del general Sculpizio la vedova or ne sposa: Oh! fedeltade... in questo e quel servizio!!

Per la nomina a cameriere segreto pontificio di un conte: Con sovrano decreto il conte Tommasino è nominato del Santo Padre camerier segreto.

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Lo dice a tutti, ma dovria tacere. Per il troppo parlar che segue? È chiaro: Sfuma il segreto e resta il cameriere.

Celeberrimo fu questo: Bisticciandosi Lisa e Carolina a cagion dei mariti, questa a quella dicea: senti, piccina, fa sapere al tuo caro che se non smette gli rompo le corna! E Lisa: fate pur le vostre prove. Gliele rompete? E io gliele faccio nuove!

Raffaele de Cesare nella Fine di un Regno lo giudica in politica ed in arte un versipelle; deputato nel 1848 fu tra i più spinti; ritornato a Napoli dall’esilio per grazia di Ferdinando II, pure professandosi liberalissimo, lodava il passato ma forse, letterato, non prese mai sul serio la politica. Attaccò così i liberali dopo il sessanta: Alle ciarle non più batto le mani; conosco assai questi liberaloni. Bruti a digiuno ed al poter Seiani.

E verso il settanta: Eran quindici quelli che intendevano a’ tempi del Murat e de’ Borboni, e trentasette poi sottointendevano. Gli altri, nulla intendevano, ma la barca frattanto camminava come la Provvidenza la menava. Oggi che intendon tutti, Dio ci aiuti! Siam belli e fottuti!

Le donne ebbero i suoi strali e affilatissimi: Lidia geme e sospira e col fato s’adira, ché ogni dì più s’appressa ai quarant’anni. ma io temo che si inganni, e la paura sia bugiarda e vana, ché ogni giorno più se ne allontana!

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Gli epigrammisti dei caffè partenopei: a sinistra, il duca di Maddaloni; a destra, il marchese di Caccavone.

Nato nel 1822 da famiglia patrizia, ricco di censo e di ingegno, godette la vita in tutte le sue forme, e l’amò in letizia e finezza. Chiuse a settant’anni i suoi giorni nella pace silenziosa del castello di Cellamare che si erge sulla rumorosa strada di Chiaia; non volle fiori e parole sulla tomba; terziario francescano si fece rivestire del saio e coricare per terra, vegliato dai frati nell’umile stanzetta dove a lungo e molto sofferse non d’altro lagnandosi che della lunga attesa della morte, che previde ed aspettò serenamente. Due mesi prima di morire uscì per l’ultima volta per rivedere il suo studiolo; andò a visitarlo Salvatore Di Giacomo che entrando nella sala un po’ commosso e trepido cominciò: «Duca...» «Oh figlio… buon giorno». «Come state, duca?»

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Egli rispose piano, colle braccia penzoloni dai bracciuoli della poltrona di cuoio rosso presso la finestra aperta: «Nun vide? Sto murenno!» Achille Torelli ne disse le lodi. * Compagno, ma non rivale del duca, fu il marchese di Caccavone che fu celebre per i suoi salaci epigrammi dialettali ed italiani e per varie poesie... scollacciatissime. Le diceva al Caffè del Molo e all’Europa, e subito correvano tutta Napoli. Raffaele Pietra, marchese di Caccavone ebbe altissimo ufficio nelle Finanze; suo figlio divenne questore e prefetto e invano tentò di imitare il padre nell’epigramma. Il celebre epigrammista, anche in tarda età fu un bell’uomo, aveva il volto di uno strano pallore e di se stesso aveva scritto: Perché livide a volte, a volte accese ha le guance il marchese? E disgustosa poi sempre la grinta, dice di me Giacinta. Ma quale in lei colore non è? Quel del pudore. E quale in me, satirico scrittore, è musoneria tinta quella del riso o quella del livore?

Fra i più celebrati epigrammi suoi furono questi. Per un professore di filologia scrisse: Il vostro Mezzofante che a posseder è giunto venti idiomi e venti, è come un elefante che non val nulla a fronte d’un frinquellin, che a’ venti affida l’ali – e canta – e da un gentile istinto a rallegrare è spinto la pianura ed il monte... O divino ignorante!...

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Quest’altra, intitolata Male tiempo a Baja, è in dialetto napoletano: «Vi’ che nera traverzia! – dice Mineco a Retella – Che sarrà d’a varca mia? E d’a rezza che sarrà?...» «Staie cu mmíco – dice chella – staie cu mmíco, e pienze llà?» «Nì a la rezza – isso risponne – nì a la varca, bella mia, te l’accerto, io penzarria si penzasse sulo a me. Ma la donna è comm’a l’onne, e a cagnarse è sempe avvezza... Restarraggio senza rezza, senza varca, e senza te».

In queste vampate del suo spirito caustico Raffaele Petra fu pungente, come quando per Martino C., un giornalista assai noto, egli scrisse: Martino è buio. E sfido l’uom più scaltro a penetrar da que’ suoi sguardi bui, se sia toccata una disgrazia a lui, o una buona ventura a qualcun altro!

Commentando la meritata sventura dell’amico suo Francesco B., scrisse l’epigramma che segue: Checco affoga nei debiti, ma, nato a buona luna, partendo per l’America, cerca di far fortuna. Parte – E la moglie gravida, che indarno egli conforta, rimane – inconsolabile, innamorata morta. Ed egli invoca, in cambio almen di tanta ambascia, che i Numi glie la serbino così come la lascia. Impetra e ottien la grazia, perché, dopo la quinta età, torna più povero, ma la ritrova incinta. 196

Quando arrivò all’Europa notizia delle disperate condizioni del Caccavone, un amico intimo ripeté l’epigramma da lui composto: Gli occhi mi vengon meno – mi son talmente infidi, che nitida la morte – vidi qual mai non vidi. Sordo divento appieno – lubricamente invecchio, Sento l’eternità... – e la mia sordità, Me ne parla all’orecchio.

* Fra gli epigrammisti dei caffè partenopei dobbiamo ricordare il Coppola, lo Sterlich, il Bardare. Riproduciamo dei tre, un epigramma tra i notevoli dell’abbondante loro produzione. Il Coppola, per una signora:. «Ho pochi istanti a vivere... (Parla a stento il marito) E tu fammi una grazia: dimmi se m’hai tradito! Aprimi il cor sincero, di che temer più puoi? Svelami tutto. A tutto evvi riparo, fuori che alla morte». «Sì, è vero» dice la moglie in lagrime. «Ma, se per caso, poi, tu non morissi, caro!»

E il de Sterlich, per un maligno: Il cavalier don Pietro, feroce epigrammista, senza un’ombra di spirito, e cicisbeo costanet con un occhio di vetro, agonizzante è da tre mesi in qua. Ci vuoi levar l’incomodo. Però non è credibile quanto ci faccia attendere! Eppure egli non ha altro che un occhio a chiudere, né spirito ha da rendere.

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Ed Emmanuele Bardare sul caso occorso a un suo amico: Don Ciccio Carnesale, ch’è guardia nazionale, e cinge allato il brando, tornando a casa coglie la delinquente moglie col capitano Orlando. E snuda il ferro, e lanciasi... L’afferra ella con subite mani, siccome artigli, e, superando i gridi di lui, gli grida: arretrati, o sconsigliato! Uccidi il padre de’ tuoi figli!

Anche al Caffè di Napoli andavano vani epigrammisti e poeti, però le adunate classiche avevano sempre luogo negli accennati Caffè d’Europa o al Molo. Un gruppo di cabalisti, disperati giocatori del lotto fu quello che frequentò il Caffè Uccello al Duomo. Morto don Cicillo al Gambrinus mancò il capogruppo. Prima di lui c’era stato il colonné. Questo colonnello Rosati, di spirito e cultura era un... capotavola autorevole, fiorì nell’ultimo decennio del secolo passato. Un giovanottino di buona famiglia, attraversando la sala centrale dell’Europa per uscirne verso San Ferdinando, passando davanti al tavolo del colonnello, fu da questi riconosciuto come figlio di un vecchio amico. «Addio, guagliò, salutami quel grande eroe di tuo padre!» Grandi risate; seppe poi da un conoscente che colonné chiamava eroi tutti i “fessi”. «Ah! me la paga quel vecchio porco!» esclamò il giovane e rientrato furiosamente al caffè, andò verso il colonnello e gli disse forte: «Vi saluto re degli eroi!» E l’altro: «Ma perché pate to (tuo padre) ha abdicato?» Sorpreso una volta il Rosati da uno stoccatore che gli disse: «Colonné, mi fate il favore, mi servono dieci lire...» e mancando una via di scampo, il colonnello trasse il portafoglio, diede cinque lire, e all’altro che gli faceva osserva198

re che ne aveva chiesto dieci, rispose sospirando: «Nun importa, perdimmo cinque lire per uno». E il famoso don Achille? Ecco due suoi epigrammi uno diretto ad un professor S. dal nome che finiva in... ano. Un rospo sul mefitico letto del suo pantano ingravidò la vipera e generò... Sultano.

ed all’ottimo don Peppino Turiello, che era però una seccantissima persona scrisse: A formarlo concorsero La rompitrice delle tasche umane, Severità di Aristide, Il freddo assiduo del naso del cane, La compatta virtù del ferro fuso, E tutti quanti gli angoli Dal più acuto al più ottuso.

Non possiamo finire questo capitolo senza ricordare che fra le vittime dei frequentatori del Caffè Europa vi fu una strana figura di magistrato borbonico, le cui strampalate poesie vogliamo in parte riprodurre perché quasi introvabile è il volumetto di 130 pagine in piccolissimo formato col complicato titolo: Opuscolo che contiene la raccolta di Cento Anacreontiche su di talune scienze, virtù, vizi e diversi altri soggetti di Ferdinando Ingarrico Giudice della Gran Corte di Salerno composto per solo uso dei giovanetti. – Italia, 1860. FERDINANDO INGARRICO Fra gli Arcadi Spagnuoli (Detto Burrico)

e più sotto: Il mondo m’ha giudicato Il Ministro v’acconsente. In virtù di queste anacreontiche Son nominato vicepresidente.

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L’Ingarrico era giudice della gran corte di Salerno, fedelissimo ai Borboni, di mediocrissimi talenti giuridici. Un amico maligno che ne aveva letto qualche saggio lo incoraggiò a pubblicarlo, il resto lo fecero gli epigrammisti del Caffè Europa. Lo scopo del libro è detto a p. 6: «raccogliere in 8 versi, o 2 volte 4, l’argomento di ogni anacreontica ed ha procurato – per quanto è stato possibile – dispiegare le definizioni e le cose più notabili dell’argomento stesso, colla legge che la prima parola di ogni composizione è la stessa del soggetto ciò onde il giovinetto abbia una iniziativa alla recita» (?!). Le anacreontiche sono scientifiche, artistiche, religiose, sociali, morali, didascaliche. Chiude il libro un epigramma giustificativo dell’autore: «in giustifica d’Ingarrico»: Finché intero non apra il gran bocchino Il nuovo del saper nobil cammino, Deh! non osate d’arrogarvi il diritto. Di censurar quel che Ingarrico ha scritto. E ver che de’ pedanti la genìa Ritrovi in ogni verso un’eresia, Ma forse diverran coselle Angeliche Spiegate colle chiavi Aristoteliche.

Al Caffè d’Europa si dava addirittura accademia delle poesie dell’Ingarrico che venivano commentate dai clienti e dai camerieri e circolavano per Napoli. Eccone qualche saggio: LA LEGGE È la Legge in ver quell’atto; Che dal Prence dassi fuora; Onde il Popolo da allora Obbedisca a quel voler. Dio die’ in prim la Legge all’Uomo, Quindi il prence in vece sua, L’obbedienza è dunque tua Se al Gran Dio vuoi piacer.

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Apro a caso, dove capita, e cito senz’altro. È tutto stupendo! LA STRONOMIA Stronomia è scienza amena Che l’uom porta a misurare Stelle, Sol e glob’ Lunare E a veder che vi è là su. Quivi giunto tu scandagli Ben le fiaccole del mondo: L’armonia di questo tondo Riserbata a Dio sol è. LA CACCIA Caccia, è arte anche antica Che usaro gli avi nostri, Anche oggi ai dì nostri Serve l’uom a divertir. Si eseguiva colla freccia Or si esegue col grilletto. Tanto il Dain che l’augelletto Dan buon pasto e fan piacer. LA CLEMENZA Clemenza è don celeste Che discende in tutte l’ore In chi Regio nutre il core A favor di umanità. L’abusar di tanta gioia È di cuor protervo e rio E più clemenza il Rege mio1 Spande al suon d’infedeltà!

Ed ecco la definizione della Trinità: La Trinità significa Un Dio in tre persone Di una intenzione, Ma di diverse età. Il padre col cappello, Il figlio colle spine, Lo Spirito coll’augello. Oh che bella Trinità!

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LO SGHERRO È lo Sgher colui che finge Di sentir bravura in petto: Ti assicuro a suo dispetto, Ch’egli è vile, e tal sarà. Ver coraggio ha poi colui Che all’offesa dell’Onore Spiega tutto il suo valore Per poterlo conservar. LA CIVILTÀ Civiltà tu sei la Diva Che per man l’uom conducesti Per gli oscuri secol mesti Fino al dì del bel saper, Un altare l’uom ti deve Pei favori a lui prestati; Con preghier, che abbandonati Non ti piaccia mai lasciar. L’ECLISSI Eclissi è quando s’incontra Fra il Sol la Lun sovente O fra Lun la Ter movente E scuror ne vien quaggiù. Questo fatto sì innocente Una volta fe’ timore, Si credea che Dio in livore Stesse colla Umanità. L’AUTUNNO L’autunno hassi allora Che Natur tutta vestita All’uom porge doni, e vita Pei bisogni soddisfar. La Natur pare superba Del ghermir che Dio gli rese; Per cui vuol buone spese Faccia ad Essa Agricoltor. PER L’AMMISSIONE DELLE 50 DONZELLE AL MONASTERO LASCIATO IN TESTAMENTO DA MARIA CRISTINA Testamento è un atto grande Che fa l’uom vicino a morte, 202

Per lo più a chiuse porte E si deve venerar La Regina; il fece tosto Con cinquanta sventurate In un chiostro rinserrate Notte e giorno a salmeggiar.

All’Europa si era formato il «gruppo Ingarrichiano» al quale apparteneva il pittore Dal Bono. Quando si festeggiò Domenico Morelli, il Dal Bono scrisse sopra un tavolino della sala grande questi versi di sapore ingarrichiano: È la Rap inver quel frutto Che sotterra stassi ognora, Onde il bifo fa di tutto Per poterla conquistar. Cotta in forno ovver nel riso È una cosa inver amena Sia per pranzo, sia per cena. Ognor grata al palat’ è.

E Abeniacar scrisse per la birra: È la Bir quella bevanda Che in Està spegne l’arsura, Onde dassi ognuno cura Per poterla ritrovar.

Ritornando all’Ingarrico ecco i versi fatali che gli costarono lo stroncamento della carriera: AL PRINCIPE NEONATO (Francesco II di Borbone) O Francesco sei piccino E mi sembri tanto grande Che Golia quel gran gigande È pigmeo vicino a te Possa presto la fortuna Farti ascendere sul trono E sarà il più gran dono Che può farci il nostro Re.

A questo sentito augurio, Ferdinando II lo destituì immediatamente. 203

E doctor Vesuvius così definiva nel 1888 l’Ingarrico: Ingarrico è un gran poeta Ed è pur un magistrato, Io perciò l’ho articolato Per spassare farvi aver. Se lo scrit vi ha noiati A Dio volgo la preghier Che onde farvi piacer Un bel tern vi mandi al lot!

Ai tempi della vita solidale con Edoardo Scarfoglio, Guido Boggiani ed altri intimi, Gabriele d’Annunzio frequentava l’Europa. Ospite Napoli sulla fine del 1892, tempi di scapigliatura e di amori, nel «dolce travaglio» nel salotto di Emma Gallone conobbe la baronessa Anna Cassito della Marra che gli offrì in affitto un appartamento nella villa Vargasa a Resina, un sobborgo napoletano eretto su alcune rovine di Ercolano. Nell’appartamento non aveva trovato una scrivania che piacesse al suo estetismo, ma girando per Napoli, trovò presso un antiquario di via Costantinopoli, una scrivania... ma ci volevano cento lire! Allora pensò di scrivere una lettera al genero della baronessa, grave e barbuto gentiluomo alla corte pontificia, il quale non potendo dire altro, la mandò alla suocera. D’Annunzio, che a quel tempo, prendeva venti lire per articolo dal “Mattino”, pensò di scrivere alla baronessa una supplica poetica che oggi non è facile ritrovare: ALLA BARONESSA DELLA MARRA SUPPLICA

Mia dolce baronessa; non mi sarà concessa dunque una scrivania che in tutto degno sia dello scrittor famoso? L’animo generoso non moveranno i versi supplici? Dunque apersi in vano la mia vena? O amica, «gratia plena»,

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non mi fate languire per quelle cento lire che l’antiquario chiede! Voi sarete l’erede del morituro sposo. Domani un prodigioso flutto d’oro le casse v’empirà senza tasse... Che sono dunque cento lire buttate al vento? Deh! fate che domani sera le belle mani baronali io vi possa baciare! Non vi ho mossa la pietà nel pio cuore? Orrore! Orrore! Orrore! È dunque un cor di pietra che né pure la cetra d’Orfeo discioglierebbe? Ahi me, chi mai l’avrebbe imaginato? Addio, baronessa crudele! Misero Gabriele! Nella sua innocenza egli resterà senza la scrivania. Per cento lire! Per sole cento lire! Per cento lire sole! Ah, meglio morire! Il vostro cor m’ascolta? Questa è l’ultima volta. L’ultima volta sia. Voglio la scrivania, quella di cento lire o pur voglio morire... 22 dicembre ’9 2

GABRIELE D’ANNUNZIO

Poco dopo la scrivania era nel salotto di d’Annunzio, e la sera stessa egli poté, per omaggio e gratitudine, baciare le baronali mani!

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Il magnanimo re Ferdinando II.

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NOTIZIA SU NINO BAZZETTA DE VEMENIA a cura di Raffaella Fontana e Lino Cerutti

La vita Giovanni Bazzetta de Vemenia detto Nino, nasce a Novara al terzo piano di Casa Bossi, il 12 novembre del 1880. La madre, la nobildonna Francesca (Fanny) Princisvalle Lampugnani, marchesa di Dairago, è figlia di un magistrato del Lombardo Veneto. Il padre, il tenente colonnello Giulio Gerolamo Bazzetta, appartenente ad illustre e storica famiglia omegnese di notai e uomini politici presente nel borgo lacustre già dal XVI secolo, è figlio del dottor fisico Giovanni (medico ad Omegna e Domodossola, esperto di anatomia e imbalsamazione) e di Marianna Ratti di Massiola, sorella di quel don Giulio, tanto per citare il fratello più illustre, che fu prevosto di San Fedele della Scala a Milano nonché parroco, guida spirituale e amico intimo di Alessandro Manzoni. Nino Bazzetta trascorre poi infanzia e giovinezza a Domodossola, dove il padre gode della pubblica stima, sia per il glorioso passato militare – aveva partecipato alle guerre per l’indipendenza italiana e alle campagne di repressione del brigantaggio nell’Italia meridionale – che per il decisivo impegno nella promozione culturale e paesaggistica della terra ossolana.1 Nel 1886 inizia a frequentare la scuola elementare presso il collegio Mellerio Rosmini di Domodossola. Qui, tra i padri rosminiani, si compie l’intera sua formazione scolastica, dalle elementari sino al liceo. Per la morte del rosminiano Giovanni Tortone, suo maestro in terza elementare, scrive per il settimanale “L’Ossola” il suo primo articolo di giornale. Questa breve necrologia, accolta fra le lodi della redazione «per lo scolaro che sempre si ricorda dei suoi primi maestri»,2 segna il suo debutto giornalistico quando ha appena compiuto i quattordici anni. Nel 1899, terminati gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Legge dell’Università di Torino che frequenta per un anno 209

nell’ateneo piemontese per poi trasferirsi per i successivi anni di studio presso l’Università di Pavia. Iniziano intanto le collaborazioni presso le redazioni delle testate domesi, spesso solo per brevi interventi in cui già appare il tono vivace e l’intento polemico. Non è che l’esordio di un’attività giornalistica sempre crescente che lo condurrà, nel giro di pochi anni, ad essere considerato una delle firme più note del panorama lombardo-piemontese; una produzione, la sua, talmente vasta nell’arco di un’esistenza, che risulta oggi difficilmente catalogabile. Parallelamente fanno seguito le prime esperienze letterarie: ha da poco compiuto vent’anni quando pubblica la sua prima opera a stampa, un volumetto di settanta pagine in cui raccoglie una serie di biografie a carattere encomiastico dedicate a personaggi ossolani del passato e non solo. Il 10 dicembre del 1904, con il massimo dei voti e il conseguimento della lode, viene proclamato, dal rettore della Regia Università di Pavia, dottore in Giurisprudenza. È un giovane promettente, dotato di una vivace intelligenza e di un sapiente eloquio, destinato naturalmente ad una felice carriera nel mondo dell’avvocatura. Tuttavia egli non farà mai l’avvocato: «E per fortuna!» riconoscerà sarcasticamente più tardi. «A Milano, facendo pratica, difesi una vedova e un pupillo, ma la prima finì in una casa chiusa e l’altro nelle brigate nere a sessant’anni e morì fucilato a Milano».3 Rientrato con stabilità a Domodossola, in attesa di un decoroso impegno nella pubblica amministrazione, si dedica intensamente all’attività giornalistica, locale e non. Nel gennaio del 1905, con alcuni collaboratori, fonda “La Libertà”, «giornale democratico indipendente» – di cui sarà direttore e poi unico proprietario – che avrà vita fino al giugno del 1906. Su di esso, già dal secondo numero, inizia a pubblicare a puntate la Storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore, opera che uscirà per intero, tra mille polemiche, solo nel 1911. Indipendente per definizione, “La Libertà” di Nino Bazzetta non intende farsi portavoce di alcuno schieramento politico. Il 24 gennaio del 1906, dopo breve malattia muore a 67 anni d’età Giulio Gerolamo Bazzetta, suo padre. Imponenti e solenni i funerali si svolgono alla presenza dell’intera cittadinanza, atto di riconoscenza e ultimo doveroso tributo verso l’uomo che – come recita l’annuncio funebre – «tutto consacrò se stesso ad 210

illustrare le valli natie nelle discipline storiche, naturali e archeologiche, nei pubblici uffici, nelle iniziative più belle del suo paese». Con la sua morte spetta all’unico figlio ereditarne alcune delle numerose cariche pubbliche. Gli subentra infatti, ma per breve tempo, nella direzione del museo e della biblioteca della Fondazione Galletti («dove il carattere irruente e i modi disinvolti gli procurarono ben presto astiose critiche»)4 e, fino al 1911, alla guida dell’ispettorato dei monumenti. Questi impegni, a cui fanno seguito i primi incarichi lavorativi – dapprima presso il Comune di Domodossola, poi presso le intendenze di Finanza delle città di Novara e di Alessandria – non lo porteranno a tralasciare quella che considera la sua occupazione primaria: l’attività giornalistica e letteraria. Dopo la chiusura della “Libertà” assume la cura della pagina ossolana (“Corriere Ossolano”) del “Sempione”, settimanale cattolico della città di Arona, e intensifica, con pubblicazioni in articolo e in volume, la produzione legata alla storia e alle tradizioni dell’Ossola. La sua attività artistica stenta però a decollare, non trovando proprio nella terra tanto celebrata dai suoi scritti, gli appoggi e i consensi che avrebbero permesso di consacrarlo uomo di punta del mondo delle lettere e della cultura locale. Anzi. Nei mesi che verranno Nino Bazzetta sarà coinvolto in una catena di avvenimenti che metteranno seriamente in discussione non soltanto i metodi di studio e di ricerca e l’attendibilità storica delle sue opere,5 ma anche – come allora si scrisse – «l’integrità morale» della sua persona. Attaccato da pubbliche accuse, da querele (alcune delle quali sfociate in condanne giudiziarie), al centro di una bufera di polemiche sulla stampa e tra l’opinione pubblica, Nino Bazzetta sarà infine costretto ad abbandonare l’Ossola anzitempo. Decisivi in quell’allontanamento tutta una serie di avvenimenti che si susseguirono in maniera incalzante già a partire dalla morte del padre, ma che raggiunsero il loro culmine nel biennio 19101911, in un periodo in cui Nino Bazzetta non poteva che raccogliere le inevitabili conseguenze del proprio incauto e spregiudicato comportamento. Un episodio su tutti va però considerato in quanto più di ogni altro ne accelerò l’esilio forzato. Nel marzo del 1911, dopo una gestazione durata sette anni, era uscita alle stampe La storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore, opera imponente che utilizzando ampiamente gli 211

innumerevoli articoli e le monografie d’argomento ossolano precedentemente pubblicati dall’avvocato stesso, partiva dai tempi più antichi per giungere agli avvenimenti più recenti e vicini, evidentemente ancora troppo vivi per finire sotto il rigore e l’oggettività della storia. L’esempio più clamoroso in questo senso è dato da un paragrafo in particolare, quello dedicato ad uno dei personaggi più amati dell’epoca, «il grande e allora indiscusso e indiscutibile benefattore dell’Ossola Gian Giacomo Galletti».6 Così ne parlava il Bazzetta: Molto si è detto di vero e di falso sulla vita del Galletti e soprattutto sul modo col quale arrivò alla ricchezza. Ma nulla su questa argomento fu scritto per un non del tutto bene inteso pudore di regionalismo. Si disse che fu usuraio e venditore di gioielli con pietre false, capo segreto di contrabbandieri organizzati in comitive insieme ad un altro bognanchese; altre affermazioni si fecero vere, semivere ed anche false. Certo è che la grande idea della beneficenza stende un velo, se è necessario, sul suo passato. Gli sia molto perdonato perché molto ha amato la sua Ossola.7

Dalla Fondazione scatta immediatamente una denuncia per diffamazione mentre il Consiglio comunale convoca una seduta segreta per discutere la delibera della Fondazione ed eventuali provvedimenti. Nel mese di maggio, l’autorità giudiziaria che indaga su alcuni furti avvenuti nei locali della Fondazione già alla fine del 1910 (erano spariti nel nulla preziosi volumi, carte e pergamene antiche, ma anche monete, anelli, collane, orecchini e oggetti di vario genere), invia al Bazzetta un mandato di comparizione. L’accusa è gravissima: uno dei volumi mancanti all’appello, il prezioso manoscritto dell’inedito Storia dell’Ossola del canonico Pietro Allegranza, sarebbe stato largamente utilizzato, senza alcuna citazione di sorta, nella sua ultima, tanto discussa pubblicazione. La denuncia a suo carico è di «furto aggravato e continuato». Durante il processo, avvenuto due mesi dopo, «il procuratore del re e il giudice istruttore poterono convincersi doversi ritenere l’imputato anormale e soprattutto menzognero e pur ritenendo accertate le esportazioni di alcune pergamene e del manoscritto inedito della Storia dell’Ossola dell’Allegranza e insufficienti le prove per altre, conclusero indulgentemente, in relazione alla sua costituzione fisica e al difetto morale per il non luogo».8 Nell’ottobre del 1911 Nino Bazzetta apprende con sollievo che la domanda da tempo inoltrata alla prefettura di Novara per un posto da consigliere aggiunto è sta212

ta accettata. Si appresta a lasciare definitivamente l’Ossola. Vi tornerà soltanto per brevi e saltuari soggiorni. Nel 1915, allo scoppio della guerra, si trova a Como come commissario dell’ufficio militare di censura. In seguito si arruola in fanteria come ufficiale volontario e diventa sottotenente del 68° Reggimento di stanza a Pinerolo. A guerra finita, è nuovamente a Como. Sarà per alcuni anni consigliere nella prefettura cittadina e, all’occorrenza, commissario prefettizio di alcuni comuni del lago. Lo segue nei suoi spostamenti l’anziana madre. Nel 1919 riprende a pieno ritmo con l’attività giornalistica anche la pubblicazione delle sue opere con un interesse in questa seconda fase, «più che per il vaglio critico della storia, all’attualità, all’opinione e frequentemente al pettegolezzo raccolto nei salotti della buona borghesia in cui era di casa».9 È un genere nuovo e diverso il cui interesse da parte dell’autore crescerà negli anni arricchendosi via via di nuove pubblicazioni. Nel 1923 pubblica I Savoia e le donne e crea un altro scandalo. In un passo del libro, infatti, arriva a mettere in dubbio la regalità di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia e figlio, a suo dire, di Gaetano Tiburzi detto “Il Maciacca”, nerboruto macellaio fiorentino. Per questo viene sfidato a duello. Tra 1925 e il 1926 torna in pianta stabile a Novara e al suo impiego in prefettura: abita per un certo periodo in via Pier Lombardo nella casa in cui è nato, poi si trasferisce in corso Umberto 34 (ora corso Italia). Nel 1928, dopo aver pubblicato un libro sulla contessa di Mirafiori, La “Bella Rosin” «esaurito in un mese»,10 viene messo a riposo dal suo incarico in prefettura «per scarso rendimento».11 Al primo piano dell’abitazione di via Mossotti 7, dove ora vive, apre uno studio «Legale-Amministrativo-Tributario». Facendo tesoro della esperienza lavorativa precedente, il dottor Nino Bazzetta si rende disponibile per «ricorsi e pratiche presso Prefettura, Questura, Intendenza, Genio Civile e altri uffici provinciali. Pratiche presso Ministeri, consulenza amministrativa e tributaria». Un “trattamento privilegiato” è riservato ai clienti ossolani. L’11 febbraio del 1929, a quarantotto anni d’età, sposa la trentasettenne Piera Campo, omegnese, ostetrica a Novara. Il matrimonio celebrato a Omegna dal prevosto Geri «va in frantumi dopo soli sei mesi quando la Campo, più risoluta che ro213

mantica, mette alla porta l’incorreggibile viveur, fedifrago e sciupasoldi».12 La separazione coniugale non interromperà però i rapporti fra i due. Negli anni una fitta corrispondenza conferma una salda amicizia. Lui la vorrebbe unica responsabile di un archivio personale (carte, documenti e volumi di vario genere che permetterebbero oggi di ricostruire più facilmente la sua eclettica esistenza) che sta – tra molte difficoltà – cercando di costruire. E lei si farà carico di questo suo desiderio tanto che, negli ultimi anni, per non lasciar disperdere la ricca biblioteca di famiglia che in seguito a dissesti finanziari il Bazzetta è costretto a svendere a poco a poco per sopravvivere, segretamente, attraverso intermediari acquisterà i volumi nei caffè dove egli si apposta per i suoi commerci. Grazie a Piera Campo parte di questo archivio, interamente destinato alla dispersione, si è, almeno in parte, conservato. Sempre in questi anni continuano le collaborazioni giornalistiche e si intensifica la sua produzione artistica fatta di guide turistiche, manuali di storia e testi biografici d’interesse mondano. Il 15 marzo del 1939 muore, nell’abitazione di via Mossotti, la madre, Fanny Lampugnani, presso cui abitava. Senza più fissa dimora, Nino Bazzetta vive tra locande, stanze d’albergo e camere in affitto. Per alcuni periodi sarà ospitato in casa d’amici. È il 1941 quando comunica sulla stampa di essere in possesso delle memorie manoscritte di don Giulio Ratti, suo prozio per parte paterna, parroco e amico intimo di Alessandro Manzoni. Si tratta un vero e proprio zibaldone d’argomento manzoniano con una carrellata di notizie gustose, curiosità e rivelazioni del tutto inedite che permetterebbero di integrare non solo la biografia del Manzoni, anche quella di due personaggi che a quest’ultimo furono molto vicini, Antonio Rosmini e Massimo D’Azeglio. La notizia, ripetuta a più riprese sui giornali, mette chiaramente in subbuglio il mondo degli studiosi e critici manzoniani, che ne attende con ansia l’annunciata pubblicazione. Il progetto non verrà mai realizzato. Soltanto anni di studio molto attento stabiliranno che i manoscritti del prevosto Ratti sono falsi. Siamo intorno al 1954:13 il loro autore, appunto l’avvocato Nino Bazzetta, è ormai morto da qualche anno. Autore riconosciuto di una quartina in cui colpisce scopertamente i vertici del potere fascista in Novara («Rossini, Gray, Belloni e simil compagnia / Si dan l’un l’altro del ladro e della spia. 214

/ Io li conosco e ben vi posso dire / Che li credo incapaci di mentire!»), è rinchiuso nella prigione del Castello, il carcere di Novara. Da qui viene mandato, il 21 luglio del ’42, al confino politico a Castelvecchio Subequo (L’Aquila). Rientra a Novara dopo l’armistizio dell’8 settembre. Qualche giorno dopo l’occupazione tedesca della città, assume la direzione dell’«Ufficio segreto politico informativo per la repressione del fascismo» costituitosi a Novara per volontà di un gruppo ristrettissimo di persone.14 Suo scopo è «la vigilanza stretta e segretissima dei gerarchi civili e militari della repubblica e delle autorità: prefettura, magistratura e altre, seguendo da vicino la singola azione delle persone e raccogliere gli elementi per la futura repressione».15 All’inizio di dicembre del 1943, convocato segretamente da Filippo Maria Beltrami, capo di un nutrito gruppo partigiano che opera in valle Strona, accetta di farsi intermediario in una rischiosa missione di trasporto di materiale esplosivo.16 Alla fine di luglio del ’44, sospettato di far parte di un’associazione clandestina, è attestato e imprigionato nuovamente nelle carceri di Novara. Rilasciato il 18 agosto, subisce varie perquisizioni notturne. All’inizio di settembre rifiuta la carica di podestà della repubblica che Vezzalini, prefetto fascista di Novara, gli aveva offerto.17 A fine mese partecipa all’ardito progetto di liberazione dei partigiani ossolani detenuti nelle carceri di Novara ma il piano fallisce prima di essere messo in atto.18 Da questo momento in avanti, «strettamente vigilato», è costretto ad abbandonare Novara e a vagare sotto falso nome nelle formazioni partigiane. Dopo la Liberazione gli viene offerta la questura di Novara: «Non accettai», annota ancora una volta sulle pagine di “Risveglio Ossolano”, «perché proprio in quei giorni ebbi un forte attacco d’asma acuita nelle umidi carceri del Castello dove dalle pareti colava l’acqua e si formava il salnitro e perché, forse per un eccesso di scrupolo, temevo che avendo quei vasti poteri dei questori di allora non avrei potuto dimenticare quello che dal fascismo avevo sofferto e avrei potuto usare qualche ingiustizia. E ripresi il mio lavoro di penna che mi assicurava l’indipendenza».19 Entra come opinionista nella redazione del rinato “Corriere di Novara”: qui conosce il critico d’arte Alfio Coccia, «l’informatissimo bibliotecario»20 Amleto Rizzi, il musicista e compositore Luigi Sante Colonna. Si alternano in que215

gli anni alla direzione del giornale i novaresi Giulio Genocchio e Romolo Barisonzo. Per sua esplicita dichiarazione, raccoglie allora i frutti del meticoloso lavoro di schedatura fatto in qualità di direttore dell’«Ufficio segreto politico informativo»: Per molti mesi ancora dopo la Liberazione, dovetti fornire copie di notizie a varie autorità e ad interessati, perché l’Ufficio, pur non avendo nulla di ufficiale, ebbe quella considerazione che sempre infine accordata alla verità e a chi la dice. Altre duecento persone furono liberate per le nostre informazioni. Come rappresentante alle Assise fra i giudici popolari, ho la soddisfazione di aver potuto fornire notizie ai colleghi e salvare varie persone da rappresaglie prima delle amnistie. Naturalmente chi fu colpito, tentò di colpirmi.21

Il 12 dicembre 1948 viene ricoverato presso il reparto di medicina dell’Ospedale Maggiore di Novara. Viene dimesso un mese dopo. Nel 1949, in novembre, lascia il giornalismo attivo mantenendo l’unica e significativa collaborazione con il “Risveglio Ossolano”. Tra le opere che egli stesso definisce, nel risvolto di copertina di una delle sue opere, «in lavorazione» ma mai portate a termine figurano: La papessa Giovanna nella leggenda e nella storia, Augusta Lepontiorum, La Madonna delle rose, Ballerine d’Italia, memorie di palco e d’alcova e Dame e Aspasie dell’Ottocento. Il 26 giugno 1951 muore in una soffitta della Curia di Novara. Sepolto dapprima a Novara, la moglie fa successivamente trasportare i suoi resti e quelli della madre nella tomba della famiglia Campo, presso il cimitero di Omegna, città dei suoi avi dove, in tempi recenti, gli è stata dedicata una via. RAFFAELLA FONTANA

Opere BIOGRAFIE ENCOMIASTICHE Ossolani illustri contemporanei. Profili biografici, Tip. Porta, Domodossola 1901 (con lo pseudonimo PREALPINO). La famiglia Bazzetta de Vemenia. Cenni storico-araldici, Sezione Stampa L’Infrangibile, Laveno-Mombello 1909 (a cura di Lepontius).

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Nuove biografie di ossolani illustri, Tip. Porta, Domodossola 1910. Bandiere, armi e amori. Profili, ricordi e frammenti novaresi, Tip. Miglio, Novara 1911. MONOGRAFIE DI STORIA LOCALE Albori di Libertà. I moti patriottici del 1798 sul Lago Maggiore e nell’Ossola e i 64 fucilati di Domodossola. Storia, profili, ideali, Tip. Porta, Domodossola 1904. Rocche, torri e castelli ossolani, Tip. Danzi, Locarno 1908. Nuova ipsometria ossolana, Tip. La Cartografica, GozzanoOmegna-Domodossola 1910. Altimetria generale della provincia di Novara, Tip. Cattaneo, Novara 1911. Storia del Lago d’Orta, Tip. La Cartografica, Gozzano-Omegna-Domodossola 1911. Storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore, Tip. La Cartografica, Gozzano-Omegna-Domodossola 1911. Storia della città di Novara, Tip. Miglio, Novara 1911. Il comune di Cardezza nella valle dell’Ossola, memorie, Tip. Gaddi, Novara 1912. La legislazione sulla caccia nella provincia di Novara, Tip. Cantone, Novara 1913. Il borgo di Omegna e il suo Contado, Tip. La Cartografica, Gozzano-Omegna-Domodossola 1914. Storia di Novara, Tip. Parzini, Novara 1931. Vecchie vie, piazze e torri di Domodossola, Tip. Zonca, Domodossola 1932. La nostra vecchia Domodossola, Tip. Zonca, Domodossola 1933. STUDI DI INTERESSE STORICO-ARTISTICO Il traforo del Greina e gli interessi italiani, Tip. Miglio, Novara 1908. L’isola di San Giulio. Memorie e impressioni di storia d’arte per l’avv. Nino Bazzetta R. Ispettore dei Monumenti, Tip. Merati, Novara 1908 Il traforo del Greina e gli interessi italiani con particolare riguardo alla provincia di Novara, Tip. Miglio, Novara 1908. Atrocità degli austriaci nel 1848 a Milano e dintorni, Tip. Popolare, Pavia 1917. 217

CONFERENZE COMMEMORATIVE E CELEBRATIVE Le donne novaresi nell’arte, nella poesia e nelle memorie. Conferenza, Tip. Miglio, Novara 1912. Nel II centenario di Regno della Casa Savoia. Commemorazione tenuta a Novara addì 18 maggio 1913 all’Università Popolare, Tip. Gaddi, Novara 1914. Nel XV anno di vita parlamentare dell’on. Alfredo Falcioni Deputato dell’Ossola, Tip. Cantone, Novara 1915. Comune di Milano: un anno di amministrazione. Relazione, Tip. La Tipografica, Novara 1916. La duchessa di Genova, commemorazione nazionale promossa a Novara dall’Università Popolare, Tip. Gaddi, Novara 1916. Neera. Commemorazione tenuta al Broletto di Como, 20 settembre 1920, Tip. Airaldi, Como 1920. Dieci mesi di reggenza del Comune di Massino. Relazione a S.E. il Regio Prefetto di Novara, Tip. S. Gaudenzio, Novara 1929. Comune di Pisano: un anno di amministrazione. Relazione, Tip. La Tipografica, Novara 1929. BIOGRAFIE E SAGGI DI INTERESSE MONDANO Donne e amori di Fogazzaro, Tip. Cattaneo, Novara 1915. Donne e amori, ville e misteri di Milano e del Lario, Tip. Omarini, Como 1919. Il Patriziato Milanese e Leggenda Azzurra, edizione dell’autore, 1919. Il Patriziato Novarese, Tip. Cavalleri, Como 1919. La Leggenda Azzurra, Tip. Volta, Como 1920. Cento anni di vita galante e intima milanese, Tip. Bocca, Milano 1921. Danzatrici ed etere d’Italia. Memorie di palco e di alcova, Tip. Cavalleri, Como 1921. Gli amori dei laghi. Donne e amori, cronache e ricordi, Tip. Bocca, Milano 1921. Luci e penombre di Lombardia, Tip. Omarini, Como 1921. Valsolda. Tipi e figure e identificazione dei personaggi di Antonio Fogazzaro, Tip. Cavalleri, Como 1921. I Savoia e le donne, Tip. Caddeo, Milano 1923. Milano intima. Tipi e figure. Dame ed etere. Passioni ed ebbrezze, Tip. Rusconi e Bajetti, Olgiate Comasco 1923.

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L’ultima delle donne dei Cesari, la Contessa di Castiglione, Napoleone III e l’Italia, Tip. Cavalleri, Como 1924. Harems d’Oriente e favorite d’Italia, Tip. La Cisalpina, Novara 1924. La milizia della malizia. Il ballo e le ballerine milanesi, Tip. Cavalleri, Como 1924. Dizionario del gergo milanese con una raccolta di nomignoli, Tip. La Cisalpina, Novara 1926. La “Bella Rosin”. La contessa di Mirafiori e il primo Re d’Italia, ivi, 1928. Ultime coronate e principesse in esilio, ivi, 1931. Venus imperatrix. Le cortigiane milanesi, ivi, 1931. Venus imperatrix. Le cortigiane lombarde con ritratti e riproduzioni, ivi, 1933. I caffè storici d’Italia, Ceschina, Milano 1939. Dizionario del gergo milanese e lombardo con una raccolta di nomignoli compilata dal 1901 al 1939, s.e., Milano 1940. Le cantanti italiane dell’Ottocento, Tip. La Tipografica, Novara 1945. GUIDE TURISTICO-DESCRITTIVE Guida della città e del Lago di Como, Tip. Cavalleri, Como 1924. Guida al Lago d’Iseo con Idro ed Endine, Tip. Preda, Milano 1930. Guida ai Laghi di Garda, Iseo, Idro, Endine, Varese, ivi, 1931. Guida al Lago Maggiore e Lago d’Orta, ivi 1931. Guida al Lago d’Orta e Valle Strona, ivi, 1931. LINO CERUTTI

1 Tornato a Domodossola, dove era stato giovane studente, come ufficiale della 10ª compagnia alpina, Giulio Bazzetta aveva abbandonato la carriere militare per dedicarsi interamente al museo di storia naturale della Fondazione Galletti, ente cittadino sorto nel 1869 con lo scopo di provvedere allo sviluppo culturale ed economico della val d’Ossola. Ispettore degli scavi e monumenti, conservatore e bibliotecario della fondazione, fondatore della sezione ossolana del Cai, vicepresidente della Croce Rossa, segretario della società Veterani, membro e collaboratore di tanto altro ancora, Giulio Bazzetta – come recita l’annuncio funebre – «tutto consacrò se stesso ad illu-

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strare le valli natie nelle discipline storiche, naturali e archeologiche, nei pubblici uffici e nelle iniziative più belle del suo paese». 2 Commento al Necrologio, a cura della redazione del giornale, in “L’Ossola”, 16 febbraio 1895. 3 N. BAZZETTA, Figure domesi del passato, in “Risveglio Ossolano”, 4 luglio 1951. 4 G. MORO, Come è attuale quel passatista, retorico, confusionario del Bazzetta, in “Ambiente”, 9 (1984), p. 32. 5 A lungo si ironizzò su quello che venne definito «metodo storico-copiativo» del Bazzetta. 6 E. RIZZI, Gli anni domesi di Nino Bazzetta de Vemenia, in “Almanacco Storico Ossolano”, 1998, Edizioni Grossi, Domodossola 1997, p. 21. 7 N. BAZZETTA, Storia di Domodossola e dell’Ossola Superiore, La Cartografica, Gozzano-Omegna-Domodossola 1911, p. 486. 8 Un non luogo a procedere verso l’avvocato Bazzetta, comunicato dell’Amministrazione della Fondazione Galletti di Domodossola, in“L’indipendente”, 6 agosto 1911. 9 G. MORO, Come è attuale quel passatista…, p. 32. 10 N. BAZZETTA, Venus Imperatrix, La Cisalpina, Novara 1930, p. 9. 11 Ibidem. 12 R. BARISONZO, Piera Campo, l’ostetrica, in ID., Novaresi bella gente tre, EDA, Torino 1994, p. 44. 13 C.C. SECCHI, Non ci fu giallo nell’agonia di don Lisander, in “Il Popolo”, 11 marzo 1954; D. PROVENZAL, Un falso manzoniano, in “Gazzetta del Popolo”, 30 giugno 1954. 14 Le notizie sull’avventurosa ed eventuale attività partigiana del Bazzetta, non confermate altrove, si ricavano soltanto da una serie di articoli che l’autore stesso ha raccolto nel “Risveglio Ossolano” negli anni 1949-’50. 15 N. BAZZETTA, L’ufficio segreto politico informativo per la repressione fascista, in “Risveglio Ossolano”, 15 marzo 1949. 16 ID., Come arrivò nell’Ossola il primo tritolo. Ricordi di un vecchio partigiano, in “Risveglio Ossolano”, 21 settembre 1949. 17 ID., Come i domesi evitarono la disgrazia di avermi a loro podestà della Repubblica, in “Risveglio Ossolano”, 30 novembre 1949. 18 ID., Come fallì il tentativo di liberare i partigiani dell’Ossola dal Castello di Novara, “Risveglio Ossolano”, 16 novembre 1949. 19 Cfr. ID., Come i domesi evitarono la disgrazia… 20 R. BARISONZO, La mia fatal Novara, Interlinea, Novara 1997, p. 14. 21 Cfr. N. BAZZETTA, L’ufficio segreto politico informativo…

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SOMMARIO

Presentazione

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I CAFFÈ STORICI D’ITALIA I. Il caffè italiano nella vita nazionale II. I caffè della regal Torino e le cronache del Risorgimento III. I vecchi caffè milanesi IV. Per laghi e colline dalla Sesia all’Adda e sul Ceresio Fogazzariano V. Nella Superba VI. Dal Ticino al Mincio: nella vecchia Pavia goliardica e nei ducati redenti VII. A Madonna Verona e nella reggia della divina Isabella. Sul Benaco – a Treviso – a Vicenza VIII. Il Pedrocchi gloria dei caffè d’Italia IX. I caffè di Bologna X. Da Firenze granducale a Firenze reale XI. I caffè della Serenissima XII. I caffè romani XIII. I caffè di Napoli e gli epigrammisti partenopei

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Notizia su Nino Bazzetta de Vemenia

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Gloria dunque al caffè, cantato dai poeti, gustato da grandi uomini e piccoli, che nel suo aroma ritrovarono per un attimo sollievo, serenità, forza