Hegel e il cervello postumano 8833314812, 9788833314815

Due idee configurano il mondo postumano in cui stiamo entrando: la «Singolarità» (l'accelerazione tecnologica che p

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Introduzione. «Un jour, peut-être, le siècle sera hégélien»
Un approccio hegeliano...
...a un cervello connesso
Paratassi
1. Lo stato di polizia digitale: la vendetta di Fichte su Hegel
2. L’idea di un cervello connesso e i suoi limiti
3. L’impasse della tecnognosi sovietica
4. Singolarità: la svolta gnostica
5. La Caduta che ci rende simili a Dio
6. Riflessività dell’inconscio
7. Una fantasia letteraria: l’innominabile soggetto della Singolarità
Un trattato sull’apocalisse digitale
Apocalisse con o senza regno?
Caduta dalla Caduta
L’economia libidica della Singolarità
La fine della storia
Note
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Hegel e il cervello postumano
 8833314812, 9788833314815

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Saggi SLAVOJ ŽIŽEK HEGEL E IL CERVELLO POSTUMANO Traduzione di Leonardo Clausi

www.ponteallegrazie.it facebook.com/PonteAlleGrazie @ponteallegrazie www.illibraio.it

Titolo originale: Hegel in a Wired Brain © 2020 Slavoj Žižek Questra traduzione di Hegel in a Wired Brain è pubblicata da Ponte alle Grazie in accordo con Bloomsbury Publishing Plc Traduzione di Leonardo Clausi Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria In copertina: Illustrazione di Maurizio Ceccato | Ifix Progetto grafico: Camille Barrios / ushadesign © 2021 Adriano Salani Editore – Milano ISBN 978-88-3331-787-7 Prima edizione digitale: maggio 2021 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Hegel e il cervello postumano Introduzione « Un jour, peut-être, le siècle sera hégélien» Nel 2020 si è celebrato il 250o anniversario della nascita di Hegel. Ma è solamente una curiosità storica, Hegel, o il suo pensiero si rivolge ancora a noi? « Un jour peut-être, le siècle sera De-leuzien» scriveva Michel Foucault decenni fa nella recensione di uno dei libri di Gilles Deleuze. L’assunto del presente libro è che se, in un certo senso, il XX secolo non è stato deleuziano bensì marxiano, il XXI sarà hegeliano. Una simile pretesa non può che apparire folle: in un

universo di fisica quantistica e biologia evolutiva, di scienze cognitive e digitalizzazione, di capitalismo globale e totalitarismo come il nostro, non è un pensatore come Hegel semplicemente fuori moda? La nostra prima osservazione non è che Hegel abbia, in qualche modo, compreso tutto questo o ne abbia avuta premonizione: no, non l’ha fatto e sapeva di non poterlo fare. La «Conoscenza Assoluta» hegeliana non dà per implicito che Hegel «sappia tutto»: sta proprio per la con-tezza di un limite insormontabile. Si ricordi l’enfatico rifiuto di Hegel di «dare istruzioni su come dovrebbe essere il mondo» dalla prefazione ai suoi Lineamenti di filosofia del diritto: Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. 7 Hegel e il cervello postumano Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. [...] Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.1 Robert Pippin ha rilevato l’ovvia (sebbene di rado ribadita) implicazione di questa affermazione: essa deve essere appli-cata anche alla nozione di Stato utilizzata nella sua filosofia del diritto. Il fatto che Hegel fosse in grado di adottare il suo concetto significa che il crepuscolo sta calando su ciò che gli studiosi di Hegel solitamente intendono come la descrizione normativa di uno stato razionale modello. Ecco perché il pensiero di Hegel rappresenta un’apertura radicale verso il futuro: in lui non esiste nessuna escatologia, nessun’immagine del futuro luminoso (o oscuro) verso cui tenda la nostra epoca. Per la stessa ragione, potrebbe apparire non meno ovvio che Hegel sia la peggiore scelta possibile per un pensatore attraverso la cui lente leggere il nostro presente: sì, sarà stato anche

del tutto aperto verso il futuro, ma non era proprio per questo incapace di farvi luce? La nostra scommessa è l’esatto opposto di quest’«ovvia» ba-nalità: è proprio perché del tutto «datato», che il pensiero di Hegel fornisce una lente unica per cogliere le prospettive e le minacce del nostro tempo. Essere hegeliani oggi non significa costruire un nuovo ideale (di pieno riconoscimento, di stato razionale, di conoscenza scientifica), e quindi analizzare come e perché ancora non ci siamo arrivati e come arrivarci. Significa agire da autentici posthegeliani, prendere Hegel non come una conclusione, ma come un punto di partenza e chiedersi: come 8 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» apparirebbe il nostro attuale stato di cose da questo punto di partenza? E se, ancora una volta, Hegel ci consentisse una migliore (più esatta) comprensione proprio di quei fenomeni che sono distintamente posthegeliani, che rappresentano ciò che «Hegel non poteva immaginare»? Un approccio hegeliano... Ma a quale Hegel mi sto qui riferendo? Da che punto di vista parlo? 2 Per semplificare al massimo, la triade che definisce la mia posizione filosofica è quella di Spinoza, Kant e Hegel. Spinoza è senza dubbio l’apice dell’ontologia realista: lì fuori una sostanziale realtà esiste, e possiamo conoscerla attraverso la nostra ragione, dissipando il velo delle illusioni. Qui la svolta trascendentale di Kant introduce uno scarto radicale: non possiamo mai avere accesso al modo in cui le cose sono in sé stesse, la nostra ragione è limitata all’ambito dei fenomeni e, se proviamo ad andare oltre i fenomeni verso la totalità dell’essere, la nostra mente è irretita da necessarie antinomie e contraddizioni. Qui Hegel presume che non

esista una realtà in-sé oltre i fenomeni, il che non significa che tutto ciò che c’è sia l’interazione dei fenomeni. Il mondo fenomenico è segnato dal divieto dell’impossibilità, ma oltre questo divieto non c’è nulla, nessun altro mondo, nessuna realtà positiva, non stiamo quindi tornando al realismo pre-kantiano; è solo che ciò che per Kant è la limitazione della nostra conoscenza – l’impossibilità di raggiungere la cosa-in-sé – è contenuta in questa cosa stessa. Eppure, di nuovo, può Hegel svolgere ancora questo ruolo di orizzonte insormontabile del nostro pensiero? Non avviene più tardi la vera rottura con l’universo metafisico tradizionale, quella che definisce le coordinate del nostro pensiero? Il se-9 Hegel e il cervello postumano gnale più sicuro di questa rottura è quella sensazione viscerale che ci investe quando leggiamo un testo metafisico classico: qualcosa ci dice che oggi non possiamo più pensare in quel modo... E non ci travolge forse una simile sensazione viscerale anche quando leggiamo le speculazioni di Hegel sull’Idea assoluta ecc.? Ci sono un paio di candidati per questa rottura che fa di Hegel non più un nostro contemporaneo, a cominciare dalla svolta posthegeliana di Schelling, Kierkegaard e Marx, ma di questa svolta si può facilmente dar conto nei termini di un’inversione immanente all’idealismo tedesco. Per quanto riguarda le questioni filosofiche prevalenti negli ultimi decenni, ad argomentare questa rottura in modo nuovo e più convincente è stato Paul Livingston che, nella sua Politics of Logic,3 l’ha collocata in un nuovo spazio simboleggiato dai nomi «Cantor» e «Gödel», dove naturalmente «Cantor» rappresenta la teoria degli insiemi attraverso procedure autorelazionantisi (insieme vuoto, insieme di insiemi) e ci costringe ad ammettere un infinito di infiniti, e «Gödel» per via dei suoi due teoremi di incompletezza che dimostrano che – volendo semplificare al massimo – un sistema assiomatico non può dimostrare la propria coerenza poiché genera necessariamente dichiarazioni che non può né provare, né smentire.

Con questa rottura, entriamo in un nuovo universo che ci obbliga a lasciarci alle spalle l’idea di una visione coerente di (tutta) la realtà. (Anche il marxismo, almeno nella sua forma predominante, può ancora essere visto come un modo di pensare che appartiene al vecchio universo: elabora una visione abbastanza coerente della totalità sociale, in alcune versioni persino dell’intera realtà). Il nuovo universo, tuttavia, non ha nulla a che fare con l’irrazionalismo di una Lebensphilosophie il cui primo rappresentante fu Schopenhauer, e cioè con l’idea che la nostra mente razionale sia solo una sottile superficie e che le vere basi 10 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» della realtà siano le pulsioni irrazionali. Rimaniamo nella sfera della ragione, e questa è privata della sua coerenza dall’interno: le contraddizioni immanenti della ragione non presumono che ci sia una qualche realtà più profonda che sfugge alla ragione; esse sono in un certo senso «la cosa stessa». Ci troviamo dunque in un universo in cui le contraddizioni non sono un segno della nostra confusione epistemologica, del fatto che «la cosa stessa» (che per definizione non può essere contraddittoria) ci sfugga, ma, al contrario, del fatto che abbiamo toccato il reale. Alla radice di tutte queste contraddizioni ci sono, ovviamente, i paradossi dell’autorelazionarsi, di un insieme che diventa uno dei propri elementi, di un insieme che comprende un insieme vuoto come uno dei propri sottoinsiemi, come il proprio sostituto tra i suoi sottoinsiemi. La prospettiva hegelo-lacaniana concepisce questi paradossi come un’indicazione della presenza della soggettività: il soggetto può emergere solo nello squilibrio tra un genere e la sua specie, il vuoto della soggettività è in definitiva l’insieme vuoto come la specie in cui un genere incontra sé stesso nella propria determinazione contraria, come avrebbe detto Hegel. Ma come può la stessa caratteristica essere segno di soggettività e, allo stesso tempo, del fatto che abbiamo toccato il reale? Non è proprio quando

riusciamo a cancellare il nostro punto di vista soggettivo e percepiamo le cose «come sono realmente», indipendentemente dal nostro punto di vista soggettivo, che tocchiamo il reale? La lezione di Hegel e Lacan è esattamente l’opposto: ogni visione della «realtà oggettiva» è già costituita attraverso la soggettività (trascendentale) e tocchiamo il reale solo quando includiamo nel campo della nostra visione il taglio-nel-reale ( cut-in-the-real) della soggettività stessa. La metafisica della soggettività si occupa di questi paradossi per via della nozione di riflessività come caratteristica fonda-11 Hegel e il cervello postumano mentale dell’autocoscienza, della capacità della nostra mente di relazionarsi con sé stessa, di essere consapevole non solo degli oggetti ma anche di sé stessa, di come si relaziona agli oggetti. Il gesto elementare della riflessività è fare un passo indietro e includere la propria presenza nell’immagine o nella situazione che uno sta osservando o analizzando; solo in questo modo si può ottenere il quadro completo. Quando, in un romanzo poliziesco, l’investigatore sta analizzando la scena del crimine, deve includervi la propria presenza, il proprio sguardo. A volte il crimine è letteralmente messo in scena per lui, per attrarne lo sguardo, coinvolgerlo nella storia (in alcuni film, il detective che indaga su un omicidio scopre di esserne il diretto destinatario, ossia l’assassino intendeva il crimine come un avvertimento per lui). Allo stesso modo, in uno dei romanzi di Perry Mason, questi assiste all’interrogatorio della polizia di una coppia sospettata di omicidio e non riesce a capire perché il marito racconti più che volentieri tutti i dettagli di ciò che la coppia stava facendo il giorno dell’omicidio, soltanto per compren-derlo successivamente: il vero destinatario del rapporto dettagliato del marito era la moglie, questi stava cioè approfittando dell’occasione in cui si trovavano assieme (i due erano tenuti separati in prigione) per comunicarle il loro falso alibi, la bugia a cui entrambi si sarebbero dovuti attenere...

Si può anche immaginare una storia in cui la versione che il sospetto assassino racconta alla polizia sia una velata minaccia di ricatto a uno degli investigatori presenti. Ciò che accomuna tutti questi casi è che per comprendere un’affermazione si debba identificarne il destinatario. Ecco perché un detective ha bisogno di una figura come Watson per Holmes o Hastings per Poirot: qualcuno che rappresenti il grande Altro nel suo aspetto di senso comune, lo sguardo che l’assassino aveva in mente quando commetteva il crimine. 12 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» A diventare palpabile con la rottura di Cantor-Gödel è la piena estensione dei paradossi autoreferenziali che pertengono alla soggettività: una volta inclusa la nostra posizione nell’immagine del tutto, non c’è modo di tornare a una visione coerente del mondo. La rottura di Cantor-Gödel rende quindi impossibile una totalità coerente. Dobbiamo scegliere tra totalità e coerenza, non possiamo avere entrambe allo stesso tempo, e questa scelta si attualizza nei due orientamenti del pensiero del XX secolo ribattezzati da Livingston come generico (la posizione di Badiou, che sceglie la coerenza a spese della totalità) e paradossale-critico (che sceglie la totalità a scapito della coerenza: in questo calderone, Livingston getta in modo non del tutto convincente Wittgenstein, Heidegger, Lévi-Strauss, Foucault, Deleuze, Derrida, Agamben e Lacan). A questo punto notiamo il primo fatto strano nella costruzione di Livingston, uno squilibrio sorprendente: sebbene il paradossale-critico e il generico siano presentati come due modi per affrontare il nuovo universo che rende impossibile una totalità coerente, da un lato otteniamo una molteplicità di pensatori fra loro assai distanti e dall’altro un solo nome, quello di Badiou. L’implicazione di un simile squilibrio è chiara: dimostra che il vero argomento del libro di Livingston è di fornire una risposta paradossale-critica adeguata all’approccio generico di Badiou.

Livingston tratta Badiou con grande rispetto ed è ben consapevole che le basi logiche e politiche della sua posizione generica sono elaborate in modo molto più preciso rispetto alle rispettive posizioni dei principali rappresentanti dell’approccio paradossale-critico. Ciò che rende Badiou così importante è che elabora esplicitamente la sua posizione sull’argomento indicato dal titolo del libro di Livingston, la «politica della logica»: le profonde implicazioni politiche dell’argomento filosofico-logico di coerenza, totalità e dei paradossi di autoriferimento. 13 Hegel e il cervello postumano Non stanno forse, simili paradossi, al centro di ogni edificio di potere che deve imporsi in modo illegittimo e quindi legittimare retroattivamente il proprio esercizio di potere? Benché apprezzi profondamente l’approccio di Livingston, le differenze tra noi sono molteplici. Innanzitutto, la dualità fondamentale dell’universo del pensiero che precede la rottura di Cantor-Gödel non è per me quella tra ontoteologico e criteriologico, ma quella tra ontologico (nel senso di ontologia universale realista) e trascendentale: tra Spinoza e Kant, per fare due nomi esemplari. In secondo luogo, la vera rottura con questo universo è già stata posta in essere da Hegel, e il pensiero posthegeliano è una regressione rispetto a Hegel. La posizione di Livingston nei confronti di Hegel è chiara: mentre ammette che la dialettica di Hegel è un caso esemplare di totalità incoerente, afferma tuttavia che, nel pensiero di Hegel, questa contraddizione è in definitiva «superata» in una più ampia totalità di autosviluppo razionale, cosicché gli antagonismi e le contraddizioni si riducono a momenti subordinati dell’Uno. Benché possa apparire pressoché scontata, quest’opinione andrebbe comunque messa in discussione. Hegel differisce dalla posizione paradossale-critica non perché nel suo pensiero tutti gli antagonismi e le contraddizioni siano «superati» nell’Uno della totalità dialettica: la differenza è molto più sottile.

Per spiegare questa differenza, facciamo un détour attraverso Lacan. Per un lacaniano, è subito evidente che la dualità tra generico e paradossale-critico di Livingston si adatta perfettamente alla dualità del lato maschile e del lato femminile delle «formule della sessuazione». La posizione generica di Badiou è chiaramente «maschile»: abbiamo l’ordine universale dell’essere (la cui struttura ontologica è dettagliatamente descritta nell’opera di Badiou) e l’eccezione di eventi-verità che possono accadere di tanto in tanto. L’ordine dell’essere è coe-14 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» rente e continuo, obbedendo a rigide regole ontologiche, senza consentire paradossi autoreferenziali; è un universo senza unità prestabilita, un universo composto da moltitudini di moltitudini, di molti mondi e molte lingue. Badiou impartisce qui una grande lezione contro l’opinione diffusa per cui la vita è un movimento circolare e alla fine tutto ritorna in polvere:4 questo circolo chiuso della realtà, della sua generazione e corruzione, non è tutto ciò che esiste; a volte accadono dei miracoli, il movimento circolare della vita è sospeso dall’irruzione di qualcosa che la metafisica e la teologia tradizionali chiama-vano eternità, un momento di stasi nel duplice senso del termine (fissazione, congelamento del movimento della vita e contemporaneamente turbamento, disordini, l’avvento di qualcosa che resiste al flusso regolare delle cose). Si pensi all’innamoramento: è un turbamento radicale della mia solita vita, e questa è immobilizzata dalla fissazione sull’amata/o... In contrasto con questa logica dell’ordine universale dell’Essere e la sua eventuale eccezione, l’approccio paradossale-critico si concentra sulle contraddizioni immanenti e sui turbamenti dell’ordine stesso dell’Essere. Non c’è eccezione all’Essere: non perché l’ordine dell’Essere sia tutto ciò che c’è ma perché, per dirla in termini speculativi, l’analisi paradossale-critica dimostra come quest’ordine sia già in sé la sua eccezione, sostenuta da violazioni permanenti delle proprie regole. Sebbene Badiou descriva in termini precisi come

i vuoti e gli scarti (tra presenza e rappresentazione) nell’ordine dell’Essere rendano possibile un Evento, definisce tuttavia quest’ultimo come un’intrusione mi-racolosa che turba la continuità dell’Essere, qualcosa che non ne fa parte. 5 Ciononostante, dal punto di vista paradossale-critico, l’ordine dell’Essere è polverizzato e turbato dall’interno per costituzione; in termini freudiani – e nella misura in cui Badiou si 15 Hegel e il cervello postumano riferisce costantemente all’ordine dell’Essere umano come ricerca di piaceri tesa alla sopravvivenza – si potrebbe dire che Badiou trascuri la dimensione di quella che Freud chiamava la «pulsione di morte», la forza dirompente del non-essere nel cuore dell’Essere. In questo modo si passa dalla logica «maschile» alla logica «femminile»: anziché turbato da eventuali eccezioni nel proprio ordine universale, l’Essere stesso viene marchiato da un’impossibilità di base, è non-tutto. Livingston nota con perspicacia il prezzo che Badiou deve pagare per la sua ontologia matematica universale e coerente: deve supporre, come componenti basilari della realtà della moltitudine e del vuoto, delle «moltitudini di moltitudini» che emergano dal vuoto e non per via della autodifferenzia-zione dell’Uno. Nell’universo Cantor-Gödel si può ottenere un’universalità coerente solo se l’Uno ne è escluso al livello più elementare: l’Uno compare in un secondo momento, come risultato dell’operazione di conteggio che da una moltitudine costituisce un mondo. A questo livello, abbiamo anche una molteplicità irriducibile di mondi: corpi, mondi, lingue, sono tutti multipli, impossibili cioè da totalizzare in qualche Uno. L’unica vera universalità che sia in grado di imporre un Uno che attraversi la molteplicità dei corpi e dei linguaggi (e anche dei «mondi») è l’universalità di un Evento. In politica, a livello dell’Essere c’è solo una molteplicità di corpi e lingue, o di «mondi» (culture),

quindi tutto ciò che possiamo ottenere a questo livello è una sorta di multiculturalismo liberale e tol-leranza per l’irriducibile differenza; ogni disegno di imporre un Progetto universale che unisca tutte le culture – come il comunismo – deve apparire come un’oppressiva imposizione violenta. Contrariamente all’approccio generico di Badiou, quello paradossale-critico non accetta la priorità ontologica del multiplo sull’Uno: ovviamente ogni Uno è indebolito, di-16 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» fettoso, fratturato da antagonismi e contraddizioni, ma è qui fin dall’inizio come l’impossibilità che sgombra il campo alla molteplicità. Per quanto riguarda la lingua, la Bibbia ha ragione con la sua parabola della torre di Babele: la molteplicità delle lingue presuppone il fallimento dell’Unica Lingua. A questo punta Hegel, con la sua nozione di «universalità concreta»: all’incatenamento degli insuccessi. Le forme multiple di Stato sorgono perché lo Stato è di per sé una nozione contraddittoria/antagonistica. Per dirla in modo diverso, la mossa elementare dell’universalità concreta consiste nel trasformare l’eccezione in un’universalità nell’elemento che fonda questa universalità stessa. Si prenda un caso forse sorprendente, quello degli ebrei e dello Stato di Israele. Alain Finkielkraut ha scritto: «Gli ebrei, oggi hanno scelto la strada del radicamento». 6 È facile discernere in quest’affermazione un’eco di Heidegger, che nella sua intervista allo «Spiegel»7 affermava che tutte le cose grandi ed essenziali possono emergere soltanto dal nostro avere una patria, dall’essere radicati in una tradizione. L’ironia è che qui abbiamo a che fare con un bislacco tentativo di ricorrere a cliché antisemiti per legittimare il sionismo: l’antisemitismo rimprovera agli ebrei di essere senza radici, ed è come se il sionismo cercasse di correggere questo fallimento fornendo tar-divamente agli ebrei delle radici... Non sorprende che molti antisemiti conservatori sostengano ferocemente l’espansione

dello Stato di Israele. Tuttavia, il problema con gli ebrei oggi è che ora stanno cercando di mettere radici in un luogo che per migliaia di anni non è stato loro ma abitato da altri. La soluzione non è qui di rinormalizzare gli ebrei in un’altra nazione radicata, ma di ribaltare la prospettiva: e se gli ebrei come eccezione fossero un vero sostituto dell’universalità, cioè se – a un livello più radicale – «fossimo tutti ebrei», se l’essere-senza-17 Hegel e il cervello postumano radici fosse lo stato primordiale dell’essere-umani e le nostre radici un fenomeno secondario, un tentativo di offuscare la nostra costitutiva assenza di radici? Ma Hegel qui fa un passo avanti rispetto a ciò che Livingston descrive come la posizione paradossale-critica: per Hegel, l’Uno dell’autoidentità non è solo sempre contraddittorio, fratturato, antagonistico ecc. L’identità stessa è affermazione della radicale differenza (da sé): dire che qualcosa è identico a sé stesso significa che è distinto da tutte le sue proprietà particolari, che non può essere loro ridotto. «Una rosa è una rosa» significa che una rosa è qualcosa di più di tutte le sue caratteristiche: c’è un certo je ne sais quoi a renderla una rosa, qualcosa di «più in una rosa che non la rosa stessa». Come indica quest’ultimo esempio, qui abbiamo anche a che fare con ciò che Lacan chiamava l’ objet petit a, la misteriosa X al di sotto di tutte le sue proprietà che rende un oggetto quello che è, che sostiene la sua identità unica. Più precisamente, questo «più» oscilla tra il sublime e il ridicolo o il volgare, l’osceno addirittura: dire «una legge è una legge» significa che, anche se è in-giusta e arbitraria, finanche uno strumento di corruzione, una legge rimane tale e deve essere rispettata. La struttura minima dell’identità (che è sempre autoidentità poiché, come ben sapeva Hegel, è una categoria riflessiva) è quindi 1-1-a: una cosa è essa stessa in contrasto con le sue proprietà determinate, e objet a è l’ineffabile eccesso che sostiene questa identità.

Questo, infine, ci porta alla sottile differenza tra Hegel e l’approccio paradossale-critico: essa non sta nel fatto che Hegel subordini le contraddizioni e gli antagonismi a una qualche unità superiore; al contrario, è che per Hegel l’identità, l’unità dell’Uno, è una forma di differenziazione da sé. L’identità è la differenza portata all’estremo del relazionarsi con sé. L’unità dell’Uno non è permanentemente minacciata da crepe e con-18 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» traddizioni, l’unità dell’Uno è la crepa in quanto tale. Ciò significa che la totalità hegeliana è paradossale, incoerente, ma non «critica» nel senso di resistere al centro del potere; non è intrappolata nell’eterna lotta per minare o spostare il centro del potere, alla ricerca di crepe ed eccessi «indecidibili» che ne disturbino e decostruiscano l’edificio. Oppure, per dirla nei termini hegeliani d’identità speculativa, il potere è la sua stessa trasgressione, fondata sulle violazioni dei suoi principi fondanti. Sebbene l’approccio paradossale-critico evidenzi le contraddizioni costitutive delle nostre identità, la sua posizione critica lo impegna a superare queste contraddizioni; questo obiettivo è, ovviamente, irraggiungibile, mancato e rimandato per sempre, ragion per cui l’approccio paradossale-critico percepisce sé stesso come un processo senza fine. A Derrida, il massimo pensatore paradossalecritico, piace parlare della decostruzione come di una ricerca infinita della giustizia e, in politica, di «democrazia a venire» (mai già-qui). In netto contrasto con questa posizione, Hegel non è un pensatore critico: la sua posizione di base è quella della riconciliazione, non della riconciliazione come obiettivo a lungo termine, ma della riconciliazione come un fatto che ci pone dinanzi l’inaspettata, amara verità dell’Ideale attualizzato. Se c’è un motto hegeliano è qualcosa del tipo: trova una verità nel modo in cui le cose vanno a finir male! Il messaggio di Hegel non è «lo spirito di fiducia» ( Spirit of Trust, dal titolo dell’ultimo libro di R.B. Brandom sulla Fenomenologia di Hegel), bensì lo spirito di sfiducia: la sua premessa è che ogni grande progetto umano va storto e che solo così attesta la sua verità. La

Rivoluzione francese voleva la libertà universale e ha raggiunto il suo culmine nel terrore, il comunismo voleva l’emancipazione globale e ha generato il terrore staliniano... La lezione di Hegel è quindi una nuova versione del famoso slogan del Grande Fratello in 1984 19 Hegel e il cervello postumano di Orwell, «libertà è schiavitù»: quando proviamo a imporre direttamente la libertà, il risultato è la schiavitù. Qualunque cosa sia, di certo Hegel non è il pensatore di un ideale perfetto cui avvicinarsi all’infinito. Heinrich Heine (che del filosofo era stato allievo quando questi era già anziano) fece circolare la storia secondo cui, una volta, gli aveva detto di non poter sottoscrivere il suo motto «tutto ciò che è reale è razionale», e che Hegel si fosse guardato attorno con circospezione per poi rispondere al suo studente, a voce non troppo alta: «Forse dovrei dire che tutto ciò che è reale dovrebbe essere razionale». Quand’anche fosse vero da un punto di vista fattuale, filosoficamente quest’aneddoto è una bugia, se non una vera e propria invenzione di Heine; rappresenta il tentativo di Hegel di nascondere al disce-polo la dolorosa verità del suo pensiero. Rinunciare a una posizione critica non comporta una rinuncia al cambiamento sociale, ne aumenta solo la posta in gioco. Si prenda il delicato caso dell’accoglienza ai migranti. Pia Klemp, capitano della nave Iuventa in soccorso ai profughi nel Mediterraneo, concludeva la propria spiegazione del motivo per cui aveva deciso di rifiutare la medaglia Grand Vermeil assegnatagli dalla città di Parigi con lo slogan: «Documenti e al-loggi per tutti! Libertà di movimento e di residenza!»8 Se questo significa che – per farla breve – ogni individuo ha il diritto di trasferirsi in un paese di sua scelta e che questo paese ha il dovere di fornirgli la residenza, allora abbiamo a che fare con un’idea astratta in senso stretto hegeliano: che ignora il complesso contesto della totalità sociale. Il problema non può essere risolto a questo livello: l’unica vera soluzione è di cambiare il sistema economico globale che produce migranti. Il compito è quindi

di fare un passo indietro dalla critica diretta all’analisi dell’antagonismo immanente al fenomeno criticato, concen-20 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» trandosi su come la nostra stessa posizione critica partecipi al fenomeno che critica. La lezione hegeliana sul tentativo di cambiare il mondo è quindi disperatamente ottimistica: tali tentativi non raggiun-gono mai il loro obiettivo, ma dal loro ripetuto fallimento può levarsi una nuova forma di essere. Sì, il chavismo è fallito in Venezuela, Syriza in Grecia, il comunismo cinese non può essere il nostro ideale, ma tutti questi processi contribuiscono alla sotterranea tessitura dello Spirito che potrebbe dare vita a nuove imprevedibili visioni... o orrori. ...a un cervello connesso E questo ci porta all’argomento del presente libro. La nostra premessa è che il profilo di una totalità incoerente tratteggiato da Hegel sia l’ultimo baluardo del pensiero, e che nemmeno dovremmo temere di applicarlo alla succitata affermazione hegeliana secondo cui la filosofia può solo dipingere «chiaroscuro su chiaroscuro», che possa solo cogliere cioè la verità no-zionale di un’epoca quando questa si avvicina alla fine. Il fatto che il pensiero di Hegel stia riemergendo oggi come l’ultima forma dell’universo Cantor-Gödel significa che all’orizzonte c’è una nuova forma storica, che per tale universo costituisce una minaccia. È nostra premessa ulteriore che la prospettiva di un «cervello connesso» (un collegamento diretto tra il nostro cervello e una macchina digitale, ciò che viene comunemente chiamato «Neuralink») sia l’indicazione principale di questa minaccia; la domanda quindi è: cosa accadrà allo spirito umano, alla nostra soggettività, se davvero apparisse qualcosa come il cervello connesso? Forse ciò che sfuggirà allo spazio digitale non è la complessità del pensiero, ma la più elementare autoi-21

Hegel e il cervello postumano dentità di una cosa, il semplice «A è A» che funziona solo in uno spazio simbolico... Quindi, questo libro non è uno studio su Hegel. Cerca invece di mettere in pratica un approccio hegeliano. La premessa è che Hegel è vivo come pensatore solo se il suo approccio funziona ancora, cioè solo se la domanda «come appare la nostra epoca agli occhi di Hegel?» resta pregna di significato e produttiva. E si può forse immaginare un test sulla continua produttività dell’approccio hegeliano più severo del fenomeno del cervello connesso, un fenomeno posthegeliano per eccellenza, qualcosa per Hegel di totalmente impensabile, che appartiene chiaramente a un’era diversa? Praticare un approccio hegeliano significa un paio di cose. Innanzitutto, questo libro offre un’analisi filosofica della nozione di «cervello connesso» e della sua estrapolazione ideologica, la nozione di «Singolarità». Non verte sui vasti ambiti empirici di tecnologia, economia, politica, sessualità o arte, ossia non fornisce un’analisi approfondita di fenomeni specifici, come le implicazioni del cervello connesso per la tecnologia della medicina, dei mercati, degli algoritmi informatici, come anche ignora argomenti specifici quali le implicazioni del cervello connesso per la transessualità. Si concentra su un’unica questione fondamentale: in che modo il fenomeno di un cervello connesso influenzerà non solo la nostra autoesperienza di liberi individui umani, ma anche il nostro stesso status di liberi individui umani. Tale questione ci costringerà anche a chiarire la nozione stessa di essere-umani: se davvero stiamo entrando in un’era postumana, come ci permetterà questo fatto di cogliere nuovamente l’essenza dell’essere-umani? Di norma, possiamo percepire la dimensione essenziale di un certo fenomeno solo quando la sua stessa esistenza è minacciata; proprio come quando, di una persona che muore ina-22 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien»

spettatamente, siamo in grado di esperire il peso spirituale. La mia attenzione su questa fondamentale questione è facilmente riconoscibile dal suo ossessivo ripetersi in quasi ogni capitolo del libro, come se stessi cercando disperatamente di svelare un enigma irrisolvibile. In secondo luogo, approccio hegeliano significa che sarebbe inutile cercare di definire in anticipo le nozioni di cervello connesso e di Singolarità, poiché elaborarle è proprio il compito di questo libro. Qui tutto ciò che possiamo fare è delimitarle in modo puramente formale. «Cervello connesso» si riferisce a un collegamento diretto tra i nostri processi mentali e una macchina digitale, un collegamento che – mentre mi consente di at-tivare direttamente gli eventi nella realtà con un semplice pensiero (penso a qualcosa come l’avvio del condizionatore d’aria, il computer decifra il mio pensiero e attiva il condizionatore d’aria) – permette inoltre alla macchina digitale di controllare i miei pensieri. «Singolarità» si riferisce all’idea che, attraverso la condivisione diretta dei miei pensieri e delle mie esperienze con gli altri (una macchina che legge i miei processi mentali può anche trasporli in un’altra mente), nasca una sfera di esperienza mentale, condivisa a livello globale, che funzionerà come una nuova forma di divinità: i miei pensieri saranno direttamente immersi in un Pensiero globale dell’universo stesso. Va specificato che lasceremo da parte anche il problema della fattibilità tecnologica di un cervello connesso (può davvero essere realizzato secondo i piani dei postumanisti?) Tra i vari resoconti in materia, citeremo solo quello su AlterEgo, «un dispositivo di input/output locutivo, silenzioso e indossabile, sviluppato da mIt Media Lab. Il dispositivo è attaccato alla testa, al collo e alla mascella e traduce l’impulso d’ingresso im-messo dal centro del linguaggio nel vostro cervello in parole su un computer, senza vocalizzazione». 9 Arnav Kapur (che ha svi23

Hegel e il cervello postumano luppato il sistema) sottolinea che «non si tratta solo di leggere i tuoi pensieri; devi consapevolmente decidere di usarlo»: Il piccolo auricolare è in grado di rilevare, tramite dei potenti sensori, i segnali che il cervello invia ai meccanismi vocali interni – come la lingua o la laringe – quando parli con te stesso. Immagina di farti una domanda, ma in real tà di non pronunciare le parole ad alta voce. Anche se non muovi le labbra o il viso, il tuo sistema vocale interno sta comunque facendo il lavoro di formare quella frase. I tuoi muscoli dell’eloquio come la lingua vibrano a seconda delle parole che stai pensando in modi molto sottili e quasi impercettibili. 10 Per il momento devo dunque volerlo, poiché la macchina non legge la mia mente ma i miei muscoli interni del linguaggio, che si muovono solo quando ho intenzione di parlare. A questo livello, mentire è ancora possibile: immagino semplicemente di voler dire qualcosa che non è vero, i miei muscoli del linguaggio si muoveranno di conseguenza e la macchina «leggerà» questa mia intenzione di discorso ingannevole come un fatto... Tuttavia, si può facilmente immaginare il passo ancora successivo, che consentirebbe alla macchina di seguire la mia linea di pensiero senza il mio consenso, o anche la mia consapevolezza di esso: una chiara prospettiva distopica. Ma viviamo davvero in un’epoca distopica, o piuttosto in un’epoca di fantasmi distopici? Non è l’idea di un cervello connesso, con la sua visione della condivisione collettiva di esperienze intime, essa stessa un fantasma, un’estrapolazione fantasmatica di tendenze che non possono essere realizzate nel modo in cui sono concepite? Una cosa è certa: non dovremmo sottovalutare l’impatto sconvolgente dell’esperienza colletti-24 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» vamente condivisa: quand’anche fosse realizzata in un modo molto più modesto rispetto alle grandiose, odierne visioni della Singolarità, con essa cambierà tutto. L’opinione degli scettici è stata condensata

al meglio in un recente dibattito, svoltosi a Seoul, in cui un vecchio signore (il cui nome mi sfugge) ha proposto un magnifico paradosso: non solo la Singolarità non sarà così funesta come previsto (noi umani manterremo la nostra spiritualità con tutte le sue ambiguità, credenze senza credenze, riferimenti ad assenziali ecc.), ma nemmeno potrà accadere. Pur concordando che non possa avvenire nel modo in cui viene descritta dai suoi propugnatori, dovremmo comunque insistere sul fatto che qualcosa di nuovo e imprevedibile occorrerà. Peter Sloterdijk11 aveva ragione a definire Ray Kurzweil come un nuovo Giovanni Battista, il precursore di una nuova forma di postumanità: Kurzweil ha colto perfettamente le implicazioni radicali di un cervello connesso; ha compreso con chiarezza che la nostra intera visione della realtà e il nostro ruolo in essa cambieranno. Più che sull’idea di un cervello connesso, la nozione di Singolarità di Kurzweil si basa sulla prospettiva dell’intelligenza artificiale (Ia): vista la crescita esponenziale della capacità delle macchine digitali, secondo le sue previsioni avremo presto a che fare con macchine che non solo mostreranno tutti i segni dell’autocoscienza, ma supereranno anche di gran lunga l’intelligenza umana. Non dovremmo confondere questa posizione «postumana» con la convinzione paradigmaticamente moderna della possibilità di un totale dominio tecnologico sulla natura; ciò cui stiamo assistendo oggi è un’inversione dialettica esemplare: lo slogan delle odierne scienze «postumane» non è più la dominazione, bensì l’emergere della sorpresa (contingente, non pianificata). Jean-Pierre Dupuy ha rilevato una bizzarra inversione della tradizionale arroganza antropocentrica 25 Hegel e il cervello postumano cartesiana che ha fondato la tecnologia umana, un’inversione chiaramente riconoscibile nella robotica, nella genetica, nelle nanotecnologie, nella vita artificiale e nelle ricerche dell’Ia di oggi:

Come possiamo spiegare che – secondo alcuni importanti scienziati – la scienza sia diventata un’attività tanto «ri-schiosa» da rappresentare oggi la principale minaccia per la sopravvivenza dell’umanità? Alcuni filosofi rispondono a questa domanda affermando che il sogno di Cartesio – «diventare padrone e possessore della natura» – si è dimostrato sbagliato e che dovremmo tornare urgentemente alla «padronanza della padronanza». Non hanno capito niente. Non vedono che la tecnologia che si profila al nostro orizzonte attraverso la «convergenza» di tutte le discipline mira proprio alla nonpadronanza. L’ingegnere di domani non sarà un apprendista stregone a causa della sua negligenza o ignoranza, ma per scelta. Si «darà» strutture o organizzazioni complesse e cercherà di imparare di cosa sono capaci esplo-randone le proprietà funzionali: un approccio ascendente, dal basso verso l’alto. Sarà esploratore e sperimentatore almeno quanto esecutore. La misura del suo successo sarà più nella misura in cui le sue stesse creazioni lo sorprenderanno, quanto nella conformità della sua realizzazione all’elenco dei compiti prestabiliti. 12 Questa bizzarra tendenza all’autoannientamento non è una forma inquietante e inaspettata di ciò che Freud chiamava «pulsione di morte»? Il motore di questo autosuperamento degli umani è il progresso scientifico in corso nella biologia evolutiva, nella neurologia e nelle scienze cognitiviste del cervello, sostenuto a sua volta da una bizzarra forma di vergogna: 26 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» per i nostri limiti biologici, la nostra mortalità, il modo ridicolo in cui ci riproduciamo. Quella che Günther Anders ha definito la «vergogna prometeica»,13 la semplice vergogna, in fin dei conti, di «essere nati e non essere stati fabbricati».

L’idea di Nietzsche che siamo gli «ultimi uomini» a gettare le basi per la nostra stessa estinzione e l’arrivo di un nuovo Superuomo assume qui una piega scientifico-tecnologica... Ciononostante, viste le nostre limitazioni, ignoreremo in questo libro l’argomento dell’Ia. Per quanto ovviamente correlati, l’Ia e il cervello connesso sono nettamente distinti: l’Ia può superare noi umani senza trarci nello spazio dell’esperienza condivisa, lasciando cioè che i nostri miserabili cervelli funzionino come hanno sempre fatto finora. Stiamo quindi supponendo che – nonostante tutte le sem-plificazioni e le esagerazioni nei media – qualcosa in questo set-tore stia succedendo e ci limiteremo a metterne in discussione le implicazioni e le conseguenze filosofiche. È per questo che l’idea della Singolarità merita di essere presa in considerazione. In barba al sovraccarico di oscurantismo new age frammisto di tecnoingenuità, dovremmo parafrasare Groucho Marx e dire: «Pretendono di presentare qualcosa di veramente Nuovo, e si comportano come se presentassero qualcosa di veramente Nuovo, ma non lasciatevi ingannare: indicano la nascita di qualcosa di veramente Nuovo!» In questa fase iniziale di sviluppo, possiamo solo ipotizzare come sarà organizzata l’immersione nella Singolarità come spazio di pensieri ed esperienze condivisi: in che modo il soggetto e/o la macchina decideranno di connettersi (o disconnettersi)? Come verrà decisa l’ampiezza della connessione? (Quanta della conoscenza della macchina mi sarà accessibile? In che modo e con chi condividerò le esperienze?) Andrà soltanto tenuto presente che tutte queste sono anche domande della massima importanza politica. 14 27 Hegel e il cervello postumano Il punto non è quindi quello di criticare le idee sulla mente umana e sul linguaggio presupposte da Musk, Kurzweil e altri sostenitori del cervello connesso come ingenue e primitive: ovviamente combinano una nozione di senso comune dell’Io

con un volgare naturalismo, ma il punto è che queste idee possono diventare realtà laddove saranno incorporate da macchine digitali che scansioneranno e cureranno il nostro cervello. Anche quando Musk e altri parlano di come il cervello connesso può minacciare la nostra umanità, concepiscono questa dimensione minacciata – l’essenza del nostro essere-umani – in un modo assai ristretto e fuorviante. Quindi, forse, la vera minaccia per il nostro essere-umani è insita nella nozione assai ristretta e fuorviante dell’essere-umani che Musk, Kurzweil e altri automaticamente immaginano quando descrivono ciò che è minacciato dal cervello connesso. Quando parliamo di postumanità, dovremmo sempre stare attenti a come intendiamo l’umanità stessa. Forse la prospettiva della postumanità ci consentirà proprio di ottenere una nuova comprensione di ciò che significa essere umano. 15 Pertanto, nel nostro progetto, le dimensioni indissolubilmente interconnesse sono tre: teorica, esperienziale e istitu-zionale. Oscilliamo tutto il tempo tra queste tre dimensioni: 1) l’indagine sulla struttura di un cervello connesso, quali saranno le sue implicazioni teoriche; 2) cosa significherà per le persone avere i cervelli connessi, come trasformerà la loro (auto) esperienza; e last but not least, 3) quali saranno le implicazioni istituzionali e sociopolitiche dei cervelli connessi, che tipo di nuove relazioni di potere genereranno, come sarà organizzata e regolata la vasta rete digitale che li sostiene. Le istituzioni mi-litari stanno reagendo a questa minaccia in modo prevedibile: «Cercasi ‘eticista’ militare. Competenze: analisi dei dati, apprendimento automatico, killer robot. Requisiti: mente fredda, bussola morale e volontà di dire no a generali, scienziati e per-28 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» sino presidenti. Il Pentagono è alla ricerca della persona giusta che lo aiuti a navigare le acque moralmente torbide dell’intelligenza artificiale

(Ia), messa in cartellone come il campo di battaglia del XXI secolo». 16 Una pseudo-soluzione alla maniera dei diversi comitati etici intendeva limitare gli «abusi» della scienza, ovviamente: ma quello che ci vuole è la trasparenza pubblica di tali progetti. Un osservatore ben informato non può fare a meno di notare che queste stesse tre dimensioni sono costitutive di ogni ideologia. Si prenda la religione: una religione è 1) un sistema di credenze elaborato dalla teologia che contiene risposte a «grandi» domande sulla natura ultima della realtà; 2) una complessa rete d’intime esperienze della dimensione divina; e 3) un apparato ideologico, un insieme d’istituzioni e pratiche materiali (rituali ecc.) E lo stesso vale per la psicoanalisi, che è una teoria (non soltanto) sulla psiche umana, una prassi clinica e, non dovremmo mai dimenticarlo, una «folla organizzata», un’istituzione terapeutica con le sue regole d’identificazione. 17 Per tornare alla Singolarità, questa comprende le stesse tre dimensioni: offre una nuova rappresentazione dell’umanità e del suo passaggio nella postumanità, anche con una nuova dimensione teologica; promette una nuova esperienza soggettiva d’immersione in uno spazio di mente collettiva; ma – l’aspetto che viene regolarmente trascurato – la Singolarità implicherà anche una vasta rete di macchine integrate nelle nostre relazioni sociali di dominio. Saremo semplicemente controllati dalle macchine? Una parte dell’umanità manterrà con esse un contatto privilegiato? Per dirla in termini brutalmente semplificati: in che modo l’(eventuale) avanzamento della Singolarità influenzerà il capitalismo e le forme di potere sociale? Bisognerebbe quindi sottoporre l’idea di un cervello connesso a un’analisi critica che operi su tre diversi livelli. In primo 29

Hegel e il cervello postumano luogo (ma questo non rientra nell’ambito di questo libro), dovremmo metterne in discussione la fattibilità tecnologica: possiamo davvero costruire macchine che interagiranno direttamente con il flusso neuronale che fornisce la base materiale immediata della nostra autocoscienza? In secondo luogo, se anche riuscissimo in qualche modo a connettere il nostro cervello, davvero questo consentirà una condivisione diretta delle altrui esperienze? Che dire della visione «esternalista» secondo cui le nostre esperienze rilevanti non sono come immagini in-terne situate da qualche parte nel nostro cervello, bensì «fuori dal cervello», cioè qualcosa che si verifica come risultato della complessa interazione tra il nostro cervello, le nostre attività corporee e la complessa realtà in cui interagiamo, sicché il concentrarsi sul nostro cervello isolato manca per definizione l’esperienza cui punta? Terzo, anche se la condivisione delle esperienze funzionerà in qualche modo, sopravvivrà la nostra soggettività a questa immersione in uno spazio comune? Per dare un indizio sul nostro risultato finale, ciò che sfugge alla Singolarità non è la mia esperienza vissuta, bensì il nostro inconscio correlato all’autonomia del soggetto cartesiano. Paratassi Un’ultima avvertenza: un approccio hegeliano che si concen-tri su nozioni elementari non comporta un’analisi concettuale sistematica che ignora contenuti particolari. Se si legge attentamente Hegel, ci si rende subito conto che Hegel davvero procede in modo paratattico, spostandosi a balzi spesso violenti da un contenuto particolare all’altro, e questo libro è anche una presentazione paratattica del proprio argomento. La paratassi (in greco παράταξις, l’«atto di affiancare») è una tecnica lette-30 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» raria che favorisce frasi brevi e semplici, con l’uso di congiun-zioni coordinative piuttosto che subordinative. Nella paratassi poetica, due immagini o frammenti – di solito immagini o frammenti fortemente

dissimili – sono giustapposti senza una chiara connessione, in modo che il lettore debba effettuare le proprie connessioni implicite nella sintassi paratattica... Quindi, in un certo senso, il rimprovero che questo libro non riguardi né Hegel né il cervello connesso coglie nel segno: lo coglie, pur non capendo che il punto della questione è proprio il suo circolare in modo paratattico attorno ai suoi due punti nodali. Ma questa non è una procedura completamente estranea all’approccio sistematico di Hegel? No: si può forse immaginare un’opera più paratattica della Fenomenologia dello spirito di Hegel? Modello segreto del presente libro è la mia opera preferita di E.L. Doctorow, Vite dei poeti e altri racconti:18 sei racconti completamente irrelati (con alcuni echi sotterranei tra loro) sono seguiti da un romanzo breve su uno scrittore di New York, a partire dal quale diventa chiaro che le storie sono frammenti dell’autobiografia immaginaria dello scrittore stesso. Questo libro avrebbe potuto anche essere sottotitolato «Un trattato e sette saggi»: sette saggi su argomenti disparati (Neuralink, teologia della caduta, ostacoli alla costruzione del socialismo agli inizi dell’Unione Sovietica, un nuovo stato di polizia di controllo digitale...), seguiti da un trattato più sostanziale che si riferisce a tutto ciò che lo precede, al fine di spiegare le implicazioni filosofiche della prospettiva di un cervello connesso. Cominciamo con le implicazioni politiche della digitalizzazione delle nostre vite: si prospetta un nuovo stato di polizia? Dalla digitalizzazione e dal controllo digitale in generale, si passa al progetto più specifico del cervello connesso e se ne completa la descrizione – semplice, ingenua perfino – con alcune domande aperte. Il problema di come il cervello connesso influenzerà le 31 Hegel e il cervello postumano nostre relazioni di potere ci riporta al biocosmismo sovietico, la cui visione del comunismo come spazio di esperienze condivise prefigura la nozione gnostica di Singolarità: una nozione gnostica di comunismo di cui Andrej Platonov aveva

chiaramente compreso i limiti. Passiamo poi all’analisi critica della lettura teosofica popolare (New Age) della Singolarità come ricongiungiumento finale di Spirito e materia. Laddove la Singolarità promette di annullare ciò che il cristianesimo chiama Caduta, si esplora un legame tra la Caduta, la libertà e la limitazione della nostra conoscenza, con l’obiettivo di chiarire il contrasto tra la nozione di Aufhebung di Hegel e il superamento della nostra finitezza nella Singolarità. Poi si elabora la struttura autorifles-siva dell’inconscio, per delineare i contorni di una dimensione del nostro universo simbolico che sfuggirà alla Singolarità. Una successiva fantasia letteraria cerca di immaginare la modalità soggettiva originata dall’espansione dei cervelli connessi: cosa accadrebbe se a mostrarci la strada fossero le ruminazioni cartesiane dell’«innominabile» di Beckett? La premessa del trattato conclusivo è che l’eventuale accadimento della Singolarità sarà ovviamente apocalittico, ma che tipo di apocalisse sarà? Ne scaturirà un nuovo regno oppure no? Il passaggio alla postumanità segna chiaramente la fine della storia come la conoscevamo, ma cos’è che con essa finisce e inizia? Il lettore non cerchi qui delle previsioni dettagliate: questo libro è una riflessione filosofica che può solo speculare su come la nostra soggettività sarà influenzata dall’eventuale avvento del cervello connesso. Inoltre, poiché i nostri cervelli saranno collegati senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, sorgeranno nuove forme di libertà e potere insite semplicemente nella nostra capacità di isolarci (o meglio, disconnetterci) dalla Singolarità. La prospettiva del controllo digitale totale di cui non siamo nemmeno consapevoli ci pone brutalmente di fronte alla domanda filosofica elementare: la 32 IntroduzIone. « un jour, peut-être, le siècle sera Hégélien» nostra unica possibilità di libertà è nell’isolamento dallo spazio della Singolarità, o c’è una dimensione dell’essere-umani che in linea di principio elude la Singolarità anche se vi siamo completamente immersi?

Così, in un certo senso, questo libro è anche una serie di saggi sul paradosso della tortuosità che perseguita la filosofia sin dai suoi inizi: il motivo per cui una deviazione nel nostro approccio a un oggetto offra più del tentativo di afferrarlo direttamente. Questo paradosso funziona a una molteplicità di livelli. Perché possiamo avvicinarci alla verità solo attraverso bugie e inganne-voli illusioni, ossia perché manchiamo la verità stessa se igno-riamo la ragnatela di bugie che la circonda? Winston Churchill aveva ragione quando scriveva che la verità è tanto preziosa da dover essere protetta da uno spesso muro di cinta di bugie. Perché una finzione artistica può rendere l’essenza di un’epoca molto più fedelmente della sua descrizione documentaria? Perché impariamo di più sull’Inghilterra elisabettiana dalle opere teatrali di Shakespeare che da dettagliate ricerche storiografi-che? E, last but not least, perché l’approccio diretto a un oggetto erotico offre meno piacere della complessa strategia della po-sticipazione dell’incontro e del girare intorno all’oggetto? Due pensatori hanno elaborato in dettaglio questo paradosso della tortuosità: Hegel e Lacan. La premessa di base della dialettica hegeliana è che il percorso verso la verità sia un momento della verità stessa: la verità, in definitiva, non è altro che l’articolazione sistematica di una successione di errori. Lacan ha introdotto il concetto di «plus-godere» proprio per spiegare perché il rinvio del piacere, persino il suo divieto, generi un godimento tutto suo. Oggi, con lo sviluppo esplosivo delle tecnologie digitali, questo problema di tortuosità si acutizza all’estremo. La digitalizzazione rende indirette le nostre esperienze più intime: la pornografia sta diventando parte della nostra vita erotica quotidiana 33 Hegel e il cervello postumano e ci stiamo sempre più avvicinando alla realtà stessa attraverso i media digitali che non solo la restituiscono fedelmente, ma addirittura la migliorano. Ciononostante, le nuove tendenze nelle scienze e nelle tecnologie cognitive spalancano la prospettiva di una diretta partecipazione al pensiero e

alle esperienze altrui, aggirando il medium del linguaggio e altre forme di comunicazione: in che modo tutto ciò influenzerà il nostro essereumani? Perciò, ancora una volta, questo non è un libro su Hegel, ma su come un Hegel odierno avrebbe dovuto confrontarsi con qualcosa di totalmente estraneo al suo universo, il fenomeno di un cervello connesso, una versione contemporanea del giudizio infinito di Hegel «lo spirito è un osso»: la nostra mente è una macchina digitale. Hegel afferma che il vero inizio della logica è la «risolutezza» nel pensare: pensare qualsiasi cosa, nel fare qualcosa, anche se non nel senso di un’azione positiva. Un heideggeriano leggerebbe immediatamente quest’affermazione come la prova che Hegel rimane nell’orizzonte della metafisica del Volere; anche se questa lettura può essere rifiutata, rimane comunque il ruolo fondante della risolutezza nel segnalare la dimensione della soggettività – ma in un modo molto complesso, non solo nel senso che «qualcuno deve pensare pensieri». Lo stato di «risolutezza» in Hegel non è psicologico o irrazionale (un eccesso irrazionale esterno alla logica), ma strettamente logico, immanente all’edificio logico. È la stessa risolutezza che deve intervenire direttamente in ogni svolta importante, quando nasce qualcosa di radicalmente Nuovo: in simili punti di svolta, dobbiamo essere ancora risoluti a pensare se vogliamo cogliere efficacemente il nuovo fenomeno; e la prospettiva del Neuralink è di certo una di queste occasioni. 34 Capitolo primo Lo stato di polizia digitale: la vendetta di Fichte su Hegel A che punto siamo, oggi, quanto alla nostra libertà sociale? La prospettiva della completa digitalizzazione della nostra vita quotidiana,

unita alla scansione del nostro cervello (o al monitorag-gio dei nostri processi corporei con impianti), apre il campo alla possibilità realistica di una macchina esterna che ci conoscerà – biologicamente e psichicamente – molto meglio di quanto non ci conosciamo noi stessi: registrando ciò che mangiamo, compria-mo, leggiamo e guardiamo e discernendo i nostri umori, paure e soddisfazioni, la macchina esterna otterrà un quadro molto più accurato di noi stessi di quanto non faccia il nostro io cosciente che – come sappiamo – neanche esiste come entità coerente. Yuval Harari, che ha adottato quest’idea,1 fa notare che il nostro «io» è composto da narrazioni che cercano retroattivamente di imporre una certa coerenza al pandemonio del nostro vissuto, cancellando le esperienze e i ricordi che disturbano queste narrazioni. L’ideologia non ha sede principalmente nelle storie inventate (da chi è al potere) per ingannare gli altri, ma in quelle inventate dai soggetti per ingannarsi. Ma il pandemonio persiste, e la macchina registrerà le discordie e sarà forse persino in grado di affrontarle in modo assai più razionale del nostro io cosciente. Ad esempio, se dovessi decidere di sposarmi oppure no, la mac-35 Hegel e il cervello postumano china rileverebbe tutti gli atteggiamenti ondivaghi che mi perse-guitano, i dolori e le delusioni del passato che preferisco fingere d’ignorare. E perché non estendere questa prospettiva anche alle decisioni politiche? Laddove il mio io può facilmente essere se-dotto da un demagogo populista, la macchina prenderebbe nota di tutte le mie frustrazioni passate, registrando la contraddizione tra le mie fugaci passioni e le altre mie opinioni: perché non dovrebbe quindi votare per mio conto? Così, mentre le scienze del cervello confermano l’idea «poststrutturalista» o «decostru-zionista» che siamo le storie che raccontiamo a noi stessi e che queste storie sono un confuso bricolage, un’incoerente molteplicità di storie senza un singolo io che le unifichi, la macchina

che ci legge tutto il tempo sembra offrire (o almeno promettere) una via d’uscita dovuta al suo stesso svantaggio: proprio in quanto «cieca», senza consapevolezza, un algoritmo meccanico, può prendere decisioni che sono assai più adeguate di quelle prese da individui umani, più adeguate non solo rispetto alla realtà esterna, ma anche – e soprattutto – rispetto a questi stessi individui, a ciò che realmente desiderano o di cui hanno bisogno: Il liberalismo sacralizza il sé narrante e gli consente di scegliere nelle cabine elettorali, al supermercato e nel mercato matrimoniale. Per secoli tutto questo è apparso di buon senso, poiché malgrado ogni sorta di storie e fantasie a cui il sé narrante era disposto a credere, nessun sistema alterna-tivo mi conosceva più a fondo. Tuttavia, quando avremo un sistema che davvero mi conoscerà meglio, sarà dissennato continuare a riconoscere l’autorità del sé narrante. Abitudini liberali come le elezioni democratiche diventeranno ob-solete, perché Google sarà in grado di rappresentare perfino le mie personali opinioni politiche meglio di me.2 36 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe Si può argomentare assai realisticamente in favore di questa possibilità: non è tanto il computer che rileva la nostra attività a essere onnipotente e infallibile, è semplicemente che, in media, le sue decisioni funzionano sostanzialmente meglio di quelle della nostra mente: in medicina fa diagnosi migliori del nostro medico ecc., fino al boom del trading algoritmico sui mercati azionari, dove programmi scaricabili gratuitamente già superano i consulenti finanziari. Una cosa è chiara: il liberale «vero io», il libero agente che attua ciò che «desidero veramente», semplicemente non esiste, e approvare pienamente quest’inesistenza significa abbandonare la premessa indivi-dualistica di base della democrazia liberale. La macchina digitale come ultima incarnazione del grande Altro, il «soggetto che si suppone sappia», che opera come un campo di conoscenza senza soggetto...

Qui sussistono, ovviamente, tutta una serie di domande. Harari ne è ben consapevole: «In passato, la censura operava bloccando il flusso d’informazioni. Nel XXI secolo, la censura opera inondando le persone di informazioni irrilevanti [...] Nei tempi antichi, deteneva il potere chi aveva accesso alle informazioni. Oggi avere potere significa sapere cosa ignorare». 3 Questo ignorare può essere fatto da una macchina «cieca», o richiede una minima forma di soggettività? Esiste una lunga tradizione, in filosofia e nelle scienze, di negazione del libero arbitrio, ma i dubbi sul libero arbitrio «non cambiano la storia, a meno che non abbiano un impatto sull’economia, la politica e la vita quotidiana. Noi esseri umani siamo maestri della dissonanza cognitiva, e ci concediamo di credere una cosa quando siamo in laboratorio e una completamente diversa in tribunale o in parlamento».4 Harari sottolinea come persino dei celebri campioni del nuovo mondo scientifico come Dawkins o Pinker, dopo aver scritto centinaia di pagine 37 Hegel e il cervello postumano che sfatano il libero arbitrio e la libertà di scelta, finiscano per sostenere il liberalismo politico.5 Tuttavia, oggi «il liberalismo non è minacciato dall’idea filosofica che «gli individui liberi non esistono», ma piuttosto da tecnologie concrete. Stiamo per essere sommersi da un diluvio di dispositivi, strumenti e strutture estremamente utili che non ammettono il libero arbitrio dell’individuo umano. La democrazia, il libero mercato e i diritti umani, riusciranno a sopravvivere al diluvio?»6 Se dunque lo sviluppo renderà obsoleto l’ homo sapiens, che cosa verrà dopo di esso? Un homo deus postumano (con abilità tradizionalmente identificate come divine), o una macchina digitale pressoché onnipotente? La Singolarità (coscienza globale), oppure una cieca intelligenza priva di consapevolezza?

L’immersione nella Singolarità è solo la prima possibilità. La seconda è: se le macchine vincono, allora «gli uomini corrono il rischio di perdere il loro valore economico, poiché l’intelligenza si sta separando dalla coscienza».7 Tale separazione tra intelligenza e coscienza ci mette di nuovo di fronte all’enigma della coscienza: nonostante numerosi tentativi piuttosto disperati, la biologia evolutiva non ha una risposta chiara su quale sia la funzione evolutiva della consapevolezza/coscienza. Di conseguenza, ora che l’intelligenza si sta separando dalla coscienza, «che cosa accadrà alla società, alla politica e alla vita quotidiana quando algoritmi non coscienti ma dotati di grande intelligenza ci conosceranno più a fondo di quanto conosciamo noi stessi?»8 La terza e più realistica possibilità: una divisione radicale, assai più netta della divisione di classe, all’interno della stessa società umana. Nel prossimo futuro, la biotecnologia e gli algoritmi informatici uniranno i loro poteri nella produzione dei «corpi, i cervelli e le menti», con un golfo che si spalanca «tra chi saprà come ingegnerizzare corpi e cervelli e chi no»: «co-38 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe loro che salteranno sul treno del progresso acquisiranno capacità divine di creazione e distruzione, mentre coloro che rimarranno a piedi andranno incontro all’estinzione».9 La minaccia principale è quindi quella dell’ascesa di una piccola e privilegiata élite di umani potenziati. Questi superuomini godranno di capacità inaudite e di una creatività senza precedenti, che consentiranno loro di prendere molte delle decisioni più importanti a livello mondiale [...] D’altro canto, la maggior parte degli uomini non sarà potenziata, e di conseguenza diventerà una casta inferiore dominata sia dagli algoritmi informatici sia dai nuovi superuomini. Suddividere il genere

umano in caste biologiche farà schiantare le basi dell’ideologia liberale.10 Tuttavia, anche questa suddivisione in caste non sarà così semplice come potrebbe apparire. Come sarà definita la nuova élite? Sarà una speciale casta biologica potenziata con abilità so-vrumane (il che significa che anche i suoi membri saranno controllati e manipolati geneticamente), oppure sarà esentata dal controllo mentre controlla e manipola gli altri? Probabilmente tutt’e due le cose allo stesso tempo. Nella zona residenziale di Shanghai ci sono già delle cliniche in cui le ricche coppie occi-dentali vanno a controllare e manipolare geneticamente la loro prole prima che i figli nascano; fino a che punto la nuova élite sarà quindi in grado di controllare le macchine digitali e biochi-mico-genetiche che la controllano? Qui non abbiamo lo spazio per occuparci del vasto ambito d’interventi biogenetici desti-nati a creare nuove entità postumane, in ogni caso ecco il titolo e i sottotitoli di un servizio del «País»: « Gli scienziati spagnoli crea no una chimera umano-scimmiesca in Cina. Il team guidato da Juan Carlos Izpisúa ha iniettato delle cellule staminali negli 39 Hegel e il cervello postumano embrioni dell’animale come parte di una ricerca volta a trovare un modo per far crescere organi per trapianti».11 Notare la solita giustificazione umanitaria: lo stiamo facendo per sviluppare organi per trapianti, certo, e non per la ragione molto più ovvia di migliorare (o diminuire) le capacità umane al fine di creare dei perfetti lavoratori o dei soldati postumani. Questa idea ha una lunga storia nel XX secolo: alla fine degli anni Venti, lo stesso Stalin, per qualche tempo, aveva sostenuto finanziariamente il progetto di «scimmia umana» proposto dal biologo Il’ja Ivanov. L’idea era che, accoppiando umani e oranghi, sarebbe stato possibile creare un perfetto lavoratore e soldato, resistente al dolore, alla stanchezza e al cibo scadente. (Ovviamente, nel suo razzismo e sessismo spontanei, Ivanov cercò di far accoppiare uomini maschi e

femmine scimmie. Per di più, furono utilizzati maschi afri-cani del Congo, ritenuti come geneticamente più vicini alle scimmie; lo stato sovietico finanziò una costosa spedizione in Congo). Naturalmente, falliti gli esperimenti, Ivanov fu liquidato. In termini di linguaggio comune, la prospettiva che si apre qui è quella di un nuovo Stato di polizia: ma di che tipo? Qui dovremmo tornare a Hegel e alla sua polemica con Fichte. Fichte è spesso deriso, non solo per il suo postulato soggettivo idealistico dell’autorealizzazione dell’Io assoluto (una versione filosofica dell’affermazione del barone Münchhausen di essersi salvato dalla palude in cui stava annegando tirandosi su per i capelli); viene anche regolarmente denunciato come il precursore del moderno Stato di polizia che controlla totalmente i suoi cittadini. Le stesse sue parole sembrano confermare quest’aspro giudizio: In uno Stato con la costituzione qui stabilita, ognuno ha la sua determinata collocazione, la polizia sa dunque pres-sappoco dove ogni cittadino sia a ogni ora del giorno e cosa 40 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe faccia [...] In uno Stato simile, il crimine è qualcosa di estremamente inconsueto: precede un certo movimento che non è abituale. In uno Stato dove tutto è ordine, e tutto va secondo le regole, la polizia nota questi movimenti inconsueti e si fa subito attenta [...]. 12 Zdravko Kobe, nella sua concisa descrizione dello Stato ben ordinato di Fichte, ha quindi ragione a sostenere che, in esso, la polizia risulta onnipresente. Non è solo che, come aveva notoriamente proposto, ogni persona dovrebbe avere una carta d’identità con la propria immagine all’interno, in modo che la polizia possa identificare chiunque sul posto, o che le cambiali dovrebbero essere stampate su carta speciale accessibile esclusivamente alle autorità statali, il che renderebbe la contraffazione effettivamente impossibile. Al fine di proteggere i cittadini dal crimine in modo efficace, la polizia dovrebbe,

sostiene Fichte, porre anche una maggiore enfasi sulla prevenzione delle trasgressioni e dirigere le proprie attività non solo contro il dolo vero e proprio ma anche contro la stessa sua possibilità... L’obiettivo finale dei regolamenti di polizia è quindi quello di stabilire un ordine trasparente che renda le azioni illegali materialmente impossibili. 13 Già nel suo primo libro, pubblicato nel 1801, Hegel aveva respinto «l’intelletto preventivo e il suo potere, cioè il dovere della polizia» e accusato Fichte di essere un maniaco del controllo: nello stato di Fichte, «ogni cittadino [...] terrà occupati almeno mezza dozzina di uomini e ciascuno di questi controllori altret-tanti e così via, all’infinito [...]». 14 Nei frammenti inediti sulla costituzione tedesca del 1802-1803, ribadì questa critica: 41 Hegel e il cervello postumano Il pregiudizio fondamentale delle nuove teorie, in parte messe a effetto, è che lo Stato sia una macchina con una sola molla la quale comunica il movimento a tutto il resto del meccanismo senza fine; tutte le istituzioni implicite nell’essenza di una società devono procedere dal supremo potere statale, ed essere da lui regolate, comandate, sorvegliate, guidate. 15 In contrasto con la «pedantesca mania di regolare ogni particolare», Hegel ha sostenuto che «lo Stato dovrebbe piuttosto stabilire una chiara distinzione tra ciò che è essenziale per la sua esistenza e unità e ciò che può essere lasciato al caso e alla volontà arbitraria»:16 lo Stato dovrebbe «esige[re] dal singolo solo ciò che per sé stesso è necessario» e «garantire la libertà vivente e la propria volontà dei cittadini, e di lasciare a quest’ultima, inoltre, un vasto campo di azione».17 Il centro, cioè il potere statale, il governo, [deve] lasciare alla libertà dei cittadini ciò che non gli è necessario per la sua destinazione, che è di organizzare e mantenere il potere, ciò che non gli è necessario, insomma, per la sua sicurezza interna ed esterna; e che nulla deve

essergli così sacro quanto garantire e proteggere, in tali cose, la libera attività dei cittadini, senza stare a calcolare l’utilità: questa libertà, infatti, è sacra in sé stessa. 18 Ai sostenitori di Hegel piace citare passaggi come questo per placare il sospetto che fosse un ammiratore proto-totalitario dello Stato. Tuttavia, la prospettiva della digitalizzazione delle nostre vite getta una nuova luce su quest’opposizione tra Fichte e Hegel: è come se fosse arrivato il momento della vendetta di Fichte contro Hegel. Quando questi osserva bef-42 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe fardamente che, nello Stato di Fichte, «ogni cittadino ne terrà almeno un’altra mezza dozzina impegnata nella supervisione, e così all’infinito», non possiamo fare a meno di notare che questa confutazione della visione di Fichte su basi empiriche non tiene più: con una complessa rete digitale che registra in modo permanente le nostre attività, il controllo previsto da Fichte è oggi non solo possibile ma già ampiamente un dato di fatto. La registrazione digitale di tutti i nostri atti (oltre alla nostra salute, le nostre abitudini di lettura, le nostre opinioni e disposizioni...) alla fine mira precisamente a prevedere le nostre violazioni della legge e ad agire preventivamente per impedirci di farlo. A peggiorare ulteriormente le cose, esiste una differenza importante tra il progetto di controllo della polizia di Fichte e l’odierna realtà emergente del controllo digitale: la visione di Fichte rimane «totalitaria» nel senso standard di un’agenzia esterna che ci controlla apertamente, mentre il controllo digitale di oggi non è vissuto come una limitazione esterna della nostra libertà. Ciò che abbiamo qui è una nuova, unica forma di «unità degli opposti», dove l’esercizio soggettivo della libertà coincide con l’oggettivo controllo. È facile vedere l’omologia strutturale tra questo paradosso e la visione generale del Neuralink, in cui si realizza un cortocircuito che Hegel non era in grado di immaginare (un’unità materiale diretta di pensiero e realtà materiale digitale).

La più pericolosa minaccia alla libertà non proviene da un potere apertamente autoritario; avviene quando la nostra stessa non-libertà viene vissuta come libertà. Poiché la permissività e la libera scelta sono elevate a valore supremo, il controllo sociale e il dominio non possono più apparire come una violazione della libertà del soggetto: devono apparire come (ed essere sostenuti da) la stessa esperienza di sé degli individui come liberi. Esiste una moltitudine di forme dell’apparire di quest’illibertà sotto le 43 Hegel e il cervello postumano spoglie del suo contrario: quando ci tolgono la sanità pubblica ci viene detto che riceviamo una nuova libertà di scelta (scegliere il nostro fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più fare affidamento sul lavoro a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci viene data l’opportunità di reinventarci e scoprire nuovi inaspettati potenziali creativi celati nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare per l’educazione dei nostri figli ci viene detto che diventiamo «imprenditori di sé stessi», agendo come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse che possiede (o ha preso in prestito) nell’istruzione, nella salute, nei viaggi... Costantemente bombardati da «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per le quali non siamo quasi mai adeguatamente qualificati (o in possesso di informazioni suffi-cienti), viviamo la nostra libertà sempre di più come un peso che provoca un’ansia insopportabile. Per di più, la maggior parte delle nostre attività (e passività) è ora registrata in qualche cloud digitale che ci valuta anche in modo permanente, rintracciando non solo i nostri atti ma anche i nostri stati emotivi; quando ci sentiamo massimamente liberi (navigando sul web dove tutto è disponibile), siamo del tutto «esternalizzati» e sottilmente manipolati. La rete digitale dà un nuovo significato al vecchio slogan «il personale è politico». E in gioco non c’è solo il controllo della nostra vita intima: oggi tutto è regolato da una rete digitale, dal trasporto alla salute, dall’elettricità all’acqua. Ecco perché la rete è il nostro bene comune più importante oggi, e la lotta per il suo controllo

è la lotta di oggi. Il nemico è la combinazione di beni comuni privatizzati e controllati dallo stato, corporations (Google, Facebook) e agenzie di sicurezza dello Stato (nsa). Già da solo, questo fatto rende insufficiente la tradizionale nozione liberale di potere rappresentativo: i cittadini trasferiscono 44 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe parte del loro potere allo Stato, ma in termini precisi (questo potere è vincolato dalla legge, limitato a condizioni molto precise nel modo in cui viene esercitato, giacché il popolo resta la fonte ultima di sovranità e può abrogare il potere se decide di farlo). In breve, lo Stato con il suo potere è il partner minore in un contratto che il socio principale (il popolo) può in qualsia si momento rescindere o modificare, sostanzialmente proprio come ciascuno di noi può cambiare il supermercato dove fa la spesa... Non è, tuttavia, ciò che sta accadendo adesso. Bisognerebbe fortemente ridimensionare l’affermazione, spesso fatta oggi, che lo Stato non dispone più dei dispositivi necessari per regolare la società civile e non induce l’attaccamento che una volta derivava dal processo di formazione della società civile. In breve, lo Stato si estingue. Ciò che rimane è pura società civile e la sua polizia. Siamo con una polizia senza Stato, con una polizia che ha assunto il ruolo di Stato. L’interfaccia dell’universale senza l’universale, la polizia come uno Stato: questo è il problema inquietante che dovrebbe agitare la nostra società.19 Quando lo Stato inizia a estinguersi, non abbiamo una polizia radicata direttamente nella società civile, vale a dire un qualche tipo di milizia popolare che dà forma a (o esprime) comunità, superando il divario che separa la società dallo Stato. Poiché la società è di per sé antagonista – ossia, giacché l’antagonismo tra Stato e società è un effetto secondario dell’antagonismo che attraversa la società stessa – tutte queste «milizie»

sono un’espressione diretta di una parte della società contro l’altra/le altre. La realtà della polizia senza Stato è il puro Stato di polizia: perché? Qui dovremmo chiederci: lo Stato si sta 45 Hegel e il cervello postumano davvero estinguendo nel capitalismo globale di oggi? Non sta piuttosto diventando più forte che mai, non solo regolando la società civile, ma intervenendovi direttamente e collaborando con (parti di) essa? L’emblema del «controllo poliziesco» odierno volto a prevenire il crimine è la collaborazione diretta tra gli apparati statali e le aziende che si occupano di controllo e informazione: Julian Assange aveva ragione a definire Google come una versione privata della nsa. La polizia è più vicina alla società civile che allo Stato; è una specie di rappresentante dello Stato nella società civile, ma proprio per questo deve essere vissuta come una forza esterna, non un potere etico interno. La società civile è la sfera del perse-guimento di particolari interessi privati, della libertà privata, e questa libertà può (senza essere distrutta) solo essere limitata dall’esterno. Ecco perché è ridicolo equiparare i crimini della società civile a violazioni etiche nei confronti dello Stato. Nella società civile, ciò che conta è che tu non infranga la legge (e che non ti scoprano a farlo), e qui tutti i trucchi legali (piegando letteralmente la legge contro il suo spirito) sono ammessi. La forza della legge deve rimanere una forza esterna. È per questo che è totalmente sbagliato e potenzialmente «totalitario» parlare di polizia integrata nella società civile, una polizia la cui autorità non emani dallo Stato, poiché funziona come autoorganizzazione del popolo stesso: questa è una «milizia popolare», e non c’è da stupirsi che i regimi comunisti tendessero a chiamare «milizia» la loro polizia. E chi organizza le milizie, oggi? I neofascisti di destra come Orbán in Ungheria, che hanno fatto appello alla gente comune per organizzare gruppi di miliziani alla ricerca di migranti illegali. La polizia è potere statale come appare nella sfera della società civile, in cui gli individui perseguono i loro interessi privati; è

per sua natura una forza «meccanica» esterna, controparte della vivacità astratta 46 1. Lo stato dI poLIzIa dIgItaLe degli interessi individuali. La milizia è – al contrario, proprio per il suo carattere «organico» – una diretta negazione della libertà individuale che è essenziale per la società civile. Questo ci riporta al nostro punto di partenza: oggi la «milizia» acquisisce una nuova forma in quella rete di controllo digitale che Shoshana Zuboff ha battezzato «capitalismo della sorveglianza»: Funziona fornendo servizi gratuiti che miliardi di persone usano allegramente, consentendo ai fornitori di tali servizi di monitorare il comportamento di quegli utenti con dettagli sorprendenti, spesso senza il loro esplicito consenso... «Il capitalismo della sorveglianza» scrive, «rivendica unilate-ralmente l’esperienza umana come materia prima libera per la traduzione in dati comportamentali». Sebbene alcuni di questi dati vengano applicati al miglioramento del servizio, gli altri sono dichiarati come plusvalore comportamentale proprietario, immessi in processi di produzione avanzati noti come « machine intelligence» e trasformati in prodotti predittivi che anticipano ciò che farai ora, presto e più tardi. Infine, questi prodotti predittivi sono scambiati in un nuovo tipo di mercato che io definisco «mercati dei futures comportamentali». [...] Conoscenza, autorità e potere sono responsabilità del capitale della sorveglianza, per il quale siamo semplicemente «risorse naturali umane». Ora siamo i popoli indigeni le cui pretese di autodeterminazione sono svanite dalle mappe della nostra stessa esperienza. 20 Noi, gli osservati, non siamo solo materiale, siamo anche sfruttati, coinvolti in uno scambio diseguale, ragion per cui il termine «plusvalore comportamentale» (nel ruolo del plusvalore) è qui pienamente giustificato: navigando, acquistando, guardando la tv, ecc., riceviamo ciò che vogliamo, ma diamo di 47

Hegel e il cervello postumano più: ci mettiamo a nudo, rendiamo i dettagli della nostra vita e delle sue abitudini visibili al grande Altro digitale. Il paradosso è, ovviamente, che viviamo questo scambio diseguale, l’attività che effettivamente ci schiavizza, come il nostro più alto esercizio di libertà: cosa c’è di più libero della libera navigazione sul web? Con il semplice esercizio di questa nostra libertà, produciamo il «plusvalore» di cui il grande Altro digitale che racco-glie dati si appropria. 48 Capitolo secondo L’idea di un cervello connesso e i suoi limiti Benché l’ascesa del «capitalismo della sorveglianza» abbia conseguenze di vasta portata, non è ancora il vero punto di svolta: c’è un potenziale ancora maggiore per nuove forme di dominio prospettate dall’interfaccia diretta cervello-macchina. Si può tranquillamente supporre che ogni sorta di servizi segreti ci stia già alacremente lavorando; quel che veniamo a sapere è solo la pubblica facciata, le notizie spesso sensazionali al riguardo nei nostri media. Il progetto più noto in questo senso è quello di Neuralink, una società americana di neurotecnologia fondata da Elon Musk e altri otto soci, dedicata allo sviluppo di «interfacce cervello-computer impiantabili» ( Implantable Brain-Computer Interfaces, o bcI), dette anche «interfaccia di controllo neurale» ( Neural-Control Interface, ncI), «interfaccia mente-macchina» ( Mind-Machine Interface, mmI) o «interfaccia neurale diretta» ( Direct-Neural Interface, dnI); tutti questi termini indicano la stessa idea di un percorso di comunicazione diretta, prima tra un cervello potenziato, o connesso, e un dispositivo esterno, e successivamente tra i cervelli stessi.1 In questa comunicazione diretta vi sono quindi due passaggi: in primo luogo, quando il nostro cervello è connesso a macchine digitali, possiamo far sì che le cose accadano nella 49

Hegel e il cervello postumano realtà solo pensandoci (indirizzo il mio pensiero allo schermo della tv e il programma selezionato inizia; lo dirigo alla macchina del caffè e questo viene preparato ecc.); e che poi il mio cervello si colleghi direttamente a un altro cervello, dimodoché i miei pensieri siano condivisi direttamente da un altro individuo (io fantastico un’intensa esperienza sessuale e l’altro/a può condividere direttamente la mia esperienza). Il graduale sviluppo della comunicazione indirizzato all’aggiunta di ulteriori livelli di mediazione – lingua parlata, scrittura, telegrafo, telefono, Internet... – è qui abbreviato, e si profila la prospettiva del collegamento diretto aggirando questi strati aggiuntivi, in modo di passare da: le tue il tuo il mio il mio > corde > aria > > cervello orecchio cervello vocali le tue

network di il tuo il tuo il mio il mio il mio > corde > aria > > telecomuni- > > aria > > cervello telefono telefono orecchio cervello vocali cazioni network di

il tuo i tuoi il tuo il mio i miei il mio > > > telecomu- > > aria > > cervello pollici telefono telefono occhi cervello nicazioni

ecc., a: il tuo il mio > cervello cervello La conseguenza di questa comunicazione diretta cervello-cervello non è solo una maggiore velocità, ma anche più accuratezza: quando penso a qualcosa, non devo tradurre il mio pensiero in segni linguistici che semplificano brutalmente il significato, il mio partner percepisce già direttamente ciò che penso; ossia, per citare lo stesso Musk: 50 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI Nella tua testa ci sono un sacco di concetti che poi il cervello deve cercare di comprimere a una velocità dati incredibil-mente bassa chiamata discorso o battitura. Il linguaggio è questo: il tuo cervello ha eseguito un algoritmo di compressione del pensiero, sul trasferimento di concetti. E poi deve anche ascoltare, e decomprimere, ciò che sta ricevendo. E anche questo comporta una perdita. Pertanto, quando fai quella decompressione, provando a capire, stai simultaneamente cercando di fare un modello dello stato mentale dell’altra persona per capire cosa intende, per ricombinare nella tua testa i concetti che ha nella sua e che sta cercando di comunicarti... Se avessi due interfacce cerebrali, potre-sti effettivamente operare una comunicazione concettuale diretta non compressa con un’altra persona... Se ti comunicassi un concetto, essenzialmente saresti coinvolto in una telepatia consensuale. Non avresti bisogno di verbalizzare, salvo che tu non

voglia aggiungere un po’ di élan alla conversazione, o qualcosa del genere [ride], ma la conversazione sarebbe un’interazione concettuale a un livello difficile da concepire in questo momento... È questo il fatto: è difficile capire come davvero sarebbe pensare con qualcuno. Non ci abbiamo mai provato. Comunichiamo con noi stessi attraverso il pensiero e con tutti gli altri mediante le sue rappresentazioni simboliche, e questo è tutto ciò che possiamo immaginare. Ciò che è difficile da concepire è l’idea di condividere direttamente esperienze intime: «Supponi di fare una bella escur-sione e di voler mostrare il panorama a tuo marito. Nessun problema: pensa semplicemente a lui per richiedere una connessione cerebrale. Quando accetta, collega il tuo feed retinico alla sua corteccia visiva. La sua visione si riempie di ciò che vedono 51 Hegel e il cervello postumano i tuoi occhi, come se fosse lì. Chiede che anche gli altri sensi ottengano il quadro completo, quindi colleghi anche quelli: ora sente la cascata in lontananza, la brezza, sente l’odore degli alberi e ha un sussulto quando un insetto si posa sul tuo braccio». E che c’è di più logico che estendere quest’idea alla sfera della sessualità? «Potresti salvare una grande esperienza sessuale nel cloud per goderne di nuovo in seguito; oppure – se non sei una persona troppo riservata – puoi farla provare a un amico inviandogliela. (Inutile dire che l’industria del porno prospererà nel mondo del cervello digitale)». Il primo – e piuttosto ovvio – rimprovero filosofico a questa visione proviene dalla cosiddetta teoria della coscienza «esternalista»: la mia autocoscienza non è «nel mio cervello», è radicata nella mia esistenza corporea individuale, è significativa solo all’interno di questo orizzonte, come un momento della mia esistenza concreta personificata che comprende la fitta trama delle mie

interazioni con gli altri. Quindi che cosa sopravvive del mio stato mentale (esperienza) se viene strap-pato da questo contesto concreto? E se le esperienze potessero essere condivise solo in una trance collettiva astratta, quasi religiosa, che annulla ogni divergenza? L’ultima versione della posizione «esternalista radicale» è stata adottata da Riccardo Manzotti. Ecco il resoconto che Tim Parks offre dell’affermazione di Manzotti secondo cui la mia esperienza è «fuori dalla mia testa»: Perché accada l’esperienza dell’arcobaleno, abbiamo bisogno di sole, gocce di pioggia e uno spettatore. Non è che il sole e le gocce di pioggia cessino di esistere se non c’è nessuno lì a vederli. Manzotti non è un George Berkeley. Ma se non è presente qualcuno in un determinato punto, nessun arco colorato può apparire. L’arcobaleno è quindi un pro-52 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI cesso che richiede vari elementi, uno dei quali si dà il caso sia uno strumento di percezione dei sensi. Non esiste intero e separato nel mondo, né esiste come un’immagine acqui-sita nella testa, separata da ciò che viene percepito (il punto di vista degli «internalisti», che rappresentano la maggior parte dei neuroscienziati); piuttosto, la coscienza si diffonde tra la luce del sole, le gocce di pioggia e la corteccia visiva, creando un nuovo tutt’uno transitorio, l’esperienza dell’arcobaleno. O ancora: lo spettatore non vede il mondo; partecipa di un processo del mondo. 2 (Da un punto di vista marxista, qui andrebbe aggiunto che a formare le percezioni umane non è solo l’intera esperienza, ma anche il modo in cui queste sono integrate nella totalità dell’attività umana, come momento dell’interazione tra gli umani stessi e tra umani e oggetti e processi non umani: ciò che percepiamo e il modo in cui lo percepiamo è sempre so-vradeterminato dai nostri interessi pratici). In questa posizione vedo un duplice problema. Primo: sì, la mia percezione di un arcobaleno si sparge tra la luce del sole, le gocce di pioggia e la corteccia visiva, creando un nuovo tutto unico, transitorio,

l’esperienza dell’arcobaleno, dimodoché – quando un altro essere vivente osserva come me la stessa parte di realtà – non vede un arcobaleno, ma in un certo senso stiamo guardando la stessa parte di realtà, o, piuttosto, il mio intero transitorio (di percepire l’arcobaleno) e l’intero transitorio di un altro nel vedere qualcosa di diverso si sovrappongono parzialmente. Come possiamo pensare questo Reale in cui coesistono entrambi i transitori? Per rendere più chiaro questo punto, sostituiamo l’arcobaleno con un tavolo: il punto non è che dovremmo cercare di isolare lo stesso tavolo «reale», isolato, che resta lo stesso quando ognuno di noi lo percepisce in un modo 53 Hegel e il cervello postumano diverso, ma semplicemente quello di pensare lo spazio condiviso in cui coesistono diversi «interi transitori». Qui potrebbe venirci in aiuto il modello topologico dello spazio torto della bottiglia di Klein:3 il Reale non è una trascendente cosa-in-sé cui si arriva quando ci astraiamo da tutte le nostre distorsioni percettive, bensì lo spazio fluido «non orientabile» in cui, attraverso dei riflessivi volgersi-in-sé, possono emergere molteplici realtà. Per dirla in termini leibniziani, ci troviamo qui in presenza di una sorta di monadi estese che si sovrappongono parzialmente quanto al loro contenuto, e il problema è come pensare allo spazio della loro coesistenza, giacché non esiste un assoluto divino che le racchiuda tutte. Secondo: è un po’ troppo facile dire che «lo spettatore non vede il mondo; fa parte di un processo del mondo». In un certo senso radicale, io (come soggetto osservatore) non sono mai direttamente parte del mondo in cui ha luogo la mia percezione, poiché ogni realtà che percepisco già si basa sul mio specifico punto di vista soggettivo: per definizione, non riesco a situarmi direttamente nella realtà, poiché ciò significherebbe che in qualche modo sono uscito da me stesso e mi sono osservato «oggettivamente», da nessun luogo. Significa che, come soggetto, io non faccio direttamente parte del mondo: ovviamente non ho una

sostanziale realtà fuori dal mondo, ma sono il vuoto (ciò che Hegel chiama la pura negatività riflessa) che consente la costituzione di una specifica realtà (l’«insieme transitorio» di Manzotti) nel mezzo del Reale caotico e non orientabile. Per tornare alla Singolarità: potrebbe sembrare che, se aval-liamo la visione esternalista radicale, sulla prospettiva di esperienze condivise mediante un cervello connesso penda l’accusa di essere un vicolo cieco. Ovverosia, anche se una macchina può riprodurre completamente i miei processi cerebrali – dal momento che la realtà che percepiamo non è un’immagine 54 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI nella nostra testa ma fuori di essa, situata in tutto il mio cervello, gli oggetti o i processi percepiti e la loro interazione –, non può riprodurre la nostra esperienza di ciò che vedo poiché la riduce a ciò che accade nel mio cervello e, per definizione, non coglie la complessa interezza in cui si trova la mia esperienza... Ciononostante, la questione è tutt’altro che conclusa: la complessa interazione del mio cervello con il suo ambiente dà origine a complicate esperienze significative, ma questa interazione deve essere in qualche modo registrata nel mio cervello, cosicché riproducendo i processi neuronali nel mio cervello potrebbe essere possibile generare in un altro soggetto la condivisione della stessa esperienza. Non succede qualcosa del genere quando sento un arto mancante? Ovviamente una simile esperienza può nascere solo dalla concreta interazione tra me, il mio corpo e i suoi dintorni, ma rimane registrata nel mio cervello e può essere «patologicamente» rianimata anche quando manca l’arto. Non dovremmo sorprenderci troppo della prospettiva di macchine controllate dalla mente: il mio corpo non è già una specie di macchina controllata dalla mente, un organismo direttamente regolato dalla mia mente? Il problema è, ovviamente, che il mio corpo è mio: gli sono direttamente «incorporato», mentre una macchina mi è esterna. Tuttavia, la prospettiva di un cervello connesso introduce una crepa in questa immediatezza: il fatto che per una macchina esterna sia

possibile registrare direttamente i miei pensieri, non comporta che nemmeno io sia direttamente il mio corpo, cioè che anche il mio corpo mi sia esterno, che io sia in un certo senso al di fuori di me stesso? In ogni caso, anche ammettendo la realizzabilità delle esperienze condivise, sorgono varie domande. La prima riguarda il ruolo del linguaggio nella formazione dei nostri pensieri e della 55 Hegel e il cervello postumano nostra «vita interiore» in generale. Musk presuppone semplicemente che i nostri pensieri siano presenti nella nostra mente indipendentemente dalla loro espressione nel linguaggio, dimodoché, se collego il mio cervello direttamente a quello di un altro, costui sperimenterà i miei pensieri direttamente in tutta la loro ricchezza e finezza, non distorti dalla goffaggine e semplificazione del linguaggio. Ebbene, e se fosse proprio il linguaggio in tutta la sua goffaggine e semplificazione a generare la sfuggente ricchezza dei nostri pensieri? Sì, il linguaggio riduce il disordine dei nostri pensieri a semplici parole e frasi: per dire, quando dico a qualcuno «ti amo», la ricchezza dei miei sentimenti si riduce a una semplice formula, pronun-ciata migliaia di volte ogni giorno. È proprio questa conden-sazione della ricchezza caotica, tuttavia, a creare un significato complesso, a evocare la ricca trama del non detto. Qui siamo automaticamente vittime di un’illusione feticista: il surplus di «significato più profondo» lasciato non detto non è già lì, appena scoperto o accennato; è generato dalla riduzione dei nostri pensieri a mere formule linguistiche. Basti ricordare la semplice sostituzione di «una barca» con «una vela»: la barca è ridotta a una delle sue parti, ma questa riduzione in sé dà vita a una rete di significati che travalicano ampiamente quello di una semplice «barca». Qui si potrebbe giocare con le variazioni hegeliane: il vero contenuto di un pensiero si attualizza solo attraverso la sua espressione linguistica; prima di questa espressione, non è nulla di sostanziale, solo una confusa intenzione interiore.

Quando parlo, imparo quello che volevo dire solo effettivamente dicendolo. Pensiamo in parole: anche quando vediamo e sperimentiamo cose e processi come entità particolari, la loro percezione è già strutturata attraverso la nostra rete simbolica. Per dire, quando vedo una pistola di fronte a me, tutti i signi-56 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI ficati a essa associati sono simbolicamente sovradeterminati: in breve, percepisco una pistola ma a questa percezione viene dato il suo taglio specifico dalla parola «pistola» che risuona in essa, e le parole fanno sempre riferimento a delle nozioni universali. E qui sta il paradosso della sovradeterminazione simbolica: quando percepisco una pistola di fronte a me, è la parola astratta-universale «pistola» a essa associata che conferisce alla mia percezione la trama ricca e complessa del significato che colora questa percezione. Tuttavia, questo ruolo chiave delle parole nella nostra esperienza di significato non svaluta automaticamente il progetto Neuralink: per salvarlo, basta abbandonare la premessa di Musk per cui i pensieri sono presenti nella nostra mente indipendentemente dalla loro espressione nel linguaggio. Laddove il Neuralink registrasse il nostro flusso interiore di esperienza, perché non potrebbe anche registrare il materiale verbale presente nella nostra mente, le parole in cui pensiamo, parole ridotte a rappresentazioni mentali ma ancora parole?4 Il nòc-ciolo del problema sta altrove, nel fatto che la stessa riduzione del supporto materiale dell’espressione di un’idea possa raffor-zarne il contenuto espresso (il significato). Per illustrare questo punto chiave, Hegel evoca un meraviglioso esempio dalla sfera dell’educazione. Si accorge che i bambini piccoli preferiscono disegnare immagini usando i colori, mentre in seguito preferiscono farlo in grigio, con una matita incolore. I teorici umanisti dell’educazione vi leggono il risultato opprimente della violenza educativa: la creatività dei bambini è soffocata, sono costretti a esprimersi indossando la camicia di forza

della mancanza di colore... La lettura di Hegel, tuttavia, è esattamente l’opposto: è questa riduzione allo spazio incolore ciò che, riducendo la ricchezza sensuale, consente ai bambini di articolare la dimensione spirituale superiore. 57 Hegel e il cervello postumano Il tragico destino del Prato di Bežin di Ejzenštejn – il suo primo film sonoro – è leggendario.5 Commissionata da un gruppo di giovani comunisti, la produzione del film durò dal 1935 al 1937, finché non fu bloccata dal governo centrale sovietico, per il quale conteneva difetti artistici, sociali e politici. Negli anni Sessanta si apprese che la moglie di Ejzenštejn, Pera Ataševa, aveva salvato parti della pellicola dal tavolo di montaggio. Nel 1964 Sergej Jutkevič e Naum Kleiman intrapresero la ricostruzione del film (con la colonna sonora di Sergej Prokof’ev). Fu montato secondo la sceneggiatura originale, per preservare l’originale continuità del montaggio; furono anche creati dei nuovi intertitoli dalla sceneggiatura e fu aggiunta una nuova in-troduzione parlata. Il film esiste ora come un diaporama muto di 35 minuti, qualcosa di simile a La Jetée di Chris Marker, del 1962, un mediometraggio di 28 minuti girato in bianco e nero costituito quasi interamente da foto fisse (racconta la storia di un esperimento postbellico nucleare di viaggio nel tempo). Come la serie d’immagini fisse senza titolo di Cindy Sherman (da film inesistenti, a volte anche con aggiunta di sottotitoli di dia-loghi), la riduzione del flusso cinematografico di Marker a una serie d’immagini fisse è intenzionale, fa parte del suo progetto artistico. La situazione con Il prato di Bežin è più ambigua: la riduzione a una presentazione di diapositive di film muto non fa ovviamente parte del progetto originale; scaturiva dal disperato tentativo di salvare il salvabile, rendendo in qualche modo pre-sentabile il materiale grezzo rimasto. Tuttavia, il risultato è tanto

impressionante da far affiorare un dubbio: e se la riduzione a diapositive lo rendesse un film migliore dell’originale perduto di Ejzenštejn, un completo film sonoro? Se non solo producesse un effetto poe tico tutto suo, ma ci facesse anche immaginare la «vera» continuità dell’azione in modo molto più ricco della sua resa diretta in una ripresa cinematografica continua? 58 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI Ciò che troviamo nella sessualità umana è l’inverso della semplificazione che dà alla luce un plusvalore: una compli-cazione inutile che impedisce l’accesso diretto a un obiettivo. La sessualità umana si presenta in una varietà di forme e procedure pervertite che non solo non possono essere ridotte a modi diversi per raggiungere lo stesso obiettivo della procreazione, ma che possono spesso funzionare direttamente contro questo obiettivo. Tuttavia, va sempre tenuto presente che questa eccessiva diversità è messa in moto da un’impossibilità o antagonismo di fondo. Questo è il motivo per cui, dal punto di vista psicoanalitico, una cosa è certa: ciò a cui equivale più fondamentalmente il passaggio al postumano è il superamento (il lasciarsi alle spalle) del sessuale nella sua dimensione ontologica più radicale; non solo la «sessualità» come sfera specifica dell’esistenza umana, ma il sessuale come l’antagonismo, la proibizione di un’impossibilità costitutiva dell’essere umano nella sua finitezza. Qui sta la lezione del transgender: abbiamo il maschile, il femminile e il loro antagonismo (differenza) in quanto tale. Gli individui transgender sono diversi (dalla differenza stabilita) e, come tali, sono la diversità stessa: la diversità dalla diversità stabilita è la diversità stessa. Ecco perché la terza categoria, quelli che non si adattano al binomio egemonico del maschile e del femminile, sono «universali» e

«diversi»: rappresentano l’universalità proprio nella misura in cui sono radicalmente diversi, vale a dire nella misura in cui non hanno un posto nell’ordine stabilito (allo stesso modo, il terzo tipo di servizi igienici pubblici richiesti dal transgender, né maschio né femmina, può essere definito «universale» o «(per i) diversi»). E la questione evitata con cura dai partigiani del nuovo uomo asessuale è: in che misura molte altre caratteristiche solitamente identificate con l’essere umano come l’arte, la crea-59 Hegel e il cervello postumano tività, la coscienza ecc., dipendono dall’antagonismo che costituisce il sessuale? È per questo che l’aggiunta di «asessuale» alla serie di orientamenti sessuali elencati dagli attivisti LGBT+ è cruciale e inevitabile: il tentativo di liberare la sessualità da tutte le oppressioni «binarie», per liberarla nella sua intera perversità polimorfa, finisce necessariamente nell’abbandono della sfera della sessualità stessa. La liberazione della sessualità deve finire nella liberazione (dell’umanità) dalla sessualità. La sessualità fornisce anche la matrice elementare dell’inversione dialettica dell’insuccesso in successo. Dato che la Francia è la terra dell’amore e della seduzione, non c’è da stupirsi che la cucina francese, il paradigma dell’alta cucina, funzioni in questo modo: all’origine di molti dei suoi famosi piatti o bevande non c’è forse il fatto che, nel preparare un alimento o una be-vanda normali, qualcosa fosse andato storto – salvo poi rendersi conto che quell’insuccesso poteva essere rivenduto come successo? Il formaggio si faceva come sempre, poi, una volta che era andato a male, marcito e puzzolente, si è trovata questa mostruosità (misurata secondo i soliti criteri) a modo suo affa-scinante; si faceva il vino come sempre, poi qualcosa è andato storto con la fermentazione, e così si è cominciato

a produrre champagne... E non è esattamente così che funziona la nostra sessualità (umana)? Qualcosa va terribilmente storto (misurato in base agli standard del semplice accoppiamento istintuale), ma quest’insuccesso viene poi approvato e coltivato come la ri-sorsa di nuovi piaceri sessuali. Possiamo immaginare qualcosa di più stupido (dal punto di vista della riproduzione riuscita) della tradizione dell’amore cortese, in cui l’atto sessuale vero e proprio è continuamente rimandato? Come può l’amore cortese diventare un modello di alto erotismo? E che dire dei nostri giochi perversi, in cui un particolare oggetto o gesto che dovrebbe essere vincolato a un momento subordinato di preli-60 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI minari erotici diventa la caratteristica centrale, il focus dell’in-tensità libidica che eclissa il grande Atto procreativo? Questa dimensione della mediazione erotica non è forse minacciata da un legame diretto cervello-cervello? Nella serie televisiva britannica Doc Martin, ambientata in un piccolo villaggio costiero della Cornovaglia, gli appun-tamenti tra i due personaggi principali, Martin – un medico che si è trasferito lì da Londra – e Louisa, insegnante nella scuola locale, finiscono ripetutamente male per via dell’atteggiamento distante di lui (dopo averla baciata, le chiede se abbia qualche problema di stomaco, visto l’alito cattivo ecc.), lei quindi lo lascia e si ignorano discretamente, limitando al minimo necessario la reciproca interazione. Dopo uno di questi freddi incontri, lui sta per uscire dalla casa di lei: vicino all’ingresso improvvisamente si volta, le si riavvicina e le dice con voce disperata «Sposami!», lei ribatte «Sì!» e si abbracciano appassionatamente... Non c’è riavvicinamento graduale, nessun paziente lavorio per ricucire i legami spezzati: quando tra loro le cose vanno male, la loro situazione imbarazzante si riduce al semplice fatto che si amano davvero, un fatto che esplode in tutta la sua nuda potenza. È così che il successo (il riunirsi trionfante della coppia) può aver luogo solo dopo una serie di insuccessi.

Il finale in sospeso della seconda stagione della serie tv Succession (2019) è un altro superbo esempio di tale inversione. Logan Roy, patriarca di una ricchissima famiglia e capo della grande azienda mediatica Waystar Royco, raduna sul suo yacht i tre figli e la figlia, oltre ad alcuni altri massimi dirigenti, nell’imminenza dell’assemblea degli azionisti che determinerà l’assetto proprietario dell’azienda. Tutti sanno che a causa di un grosso scandalo di sfruttamento sessuale andrà compiuto un «sacrificio di sangue», ovverosia un membro di spicco della 61 Hegel e il cervello postumano famiglia (i principali azionisti suggeriscono che debba essere lo stesso Logan) andrà sacrificato. Lui o lei dovrebbe dichiarare pubblicamente di essere l’unico/a responsabile dello scandalo e quindi assumersene piena responsabilità poiché – come affermerà nella sua confessione – nessun altro al vertice ne era al corrente. La sera precedente, Logan ha una conversazione privata con Kendall, il suo secondogenito e papabile successore alla testa dell’azienda. Nonostante il rapporto tra i due sia sempre stato pieno di tensioni, Logan gli dice che davvero ne apprezza l’ingegnosità e l’intelligenza; ma quando Kendall gli chiede se lo abbia mai considerato come suo successore al comando, questi risponde che, nonostante tutto, gli manca una caratteristica essenziale del dirigente di una società: la prontezza a uccidere, a distruggere senza pietà l’avversario quando serve. Così, a famiglia riunita, Logan li informa che sarà Kendall il sacrificato: dovrà presentarsi all’udienza in tribunale e assumersi tutte le responsabilità, salvando così l’azienda di famiglia. Kendall accetta di buon grado di compiere questo gesto ma, una volta in udienza, si trasforma in assassino denunciando Logan, il padre, come unico responsabile dello scandalo e di altre attività illegali nella società, oltre ad annunciare che renderà presto pubblici i documenti che comprovano il tutto. Il capovolgimento arriva negli

ultimi secondi, quando vediamo Logan (che assiste alla dichiarazione pubblica di Kendall in tv) con un misterioso sorriso di soddisfazione: cosa significa questo sorriso? L’ha spiegato in un’intervista a «Vulture» Brian Cox (che interpreta Logan): «C’era una certa inevitabilità... Logan sta davvero preparando Kendall a diventare l’uomo che non era». Questo si ricollega alla conversazione della sera precedente, in cui Logan informa Kendall del suo sacrificio di sangue, e dove si riferisce alla profezia in cui un figlio fu annientato così brutalmente da essere risuscitato: 62 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI Logan sapeva che per sacrificarsi avrebbe dovuto farlo attraverso la sua famiglia. Aveva capito che l’unica possibilità che aveva era quella di trasformare Kendall nell’assassino. Ecco perché, alla fine, sorride. Ha raggiunto il suo obiettivo. «Mio figlio è diventato maggiorenne. Ora è ufficialmente un assassino» [...] Una volta ricevuta la condanna a morte, per Logan era importante chi sarebbe stato il carnefice. Voleva tenere la questione in famiglia. Nel suo sorriso si legge: «Alla fine, mio figlio è all’altezza di fare quello che deve per gestire un’azienda. Finalmente è l’erede legittimo della Waystar Royco».6 In breve, Logan sapeva che lui stesso avrebbe dovuto essere sacrificato per salvare l’azienda, e il suo gesto di immolare Kendall è ben calcolato: sa che Kendall lo tradirà e gli si ribellerà diventando così un killer, acquisendo dunque la qualità che gli mancava per diventare il prossimo dirigente della società. Il vero sacrificio non è quello di Kendall quindi, ma di Logan, e l’unica domanda che rimane aperta è: era, lo stesso Kendall, a conoscenza

di questo doppio gioco – cioè era l’intero piano coordinato tra padre e figlio – o Kendall pensava davvero che sarebbe stato sacrificato? Se seguiamo la logica impeccabile di Logan, il colpo a Kendall doveva essere sincero: il vertice andava sacrificato, ma per mantenere l’azienda in famiglia il colpo mortale doveva provenire dalla famiglia stessa; e per renderlo credibile al pubblico, l’assassino (Kendall) doveva apparire sincero... Perché il piano di Logan riesca, deve essere tradito per davvero, non solo come parte di un intricato gioco di famiglia.7 Tale figurazione positiva di un fallimento può essere meglio illustrata dal circuito della rappresentazione simbolica: un soggetto si sforza di rappresentare adeguatamente sé stesso, questa rappresentazione fallisce e il soggetto è il risultato di questo 63 Hegel e il cervello postumano fallimento. Si ricordi quello che si sarebbe tentati di chiamare il «paradosso-di-Hugh-Grant» (riferendosi alla famosa scena di Quattro matrimoni e un funerale): il protagonista cerca di articolare il suo amore per l’amata, si impappina in ripetizioni stentate e confuse ed è proprio l’incapacità di trasmettere il suo messaggio d’amore in modo perfetto ad attestarne l’autenticità... Questo paradosso chiarisce perché, come afferma Hegel nella sua Fenomenologia, possiamo dire che il nostro discorso e il nostro travaglio [esprimono] l’Interno, a un tempo, troppo, e troppo poco. Lo esprimono troppo, poiché l’Interno stesso vi irrompe cancellando ogni opposizione tra sé e le estrinsecazioni, le quali quindi non forniscono soltanto un’espressione dell’Interno, ma lo restituiscono immediatamente nella sua totalità. Lo esprimono troppo poco, per il fatto che, nella lingua parlata e nell’azione, l’Interno rende sé stesso un altro, e si abbandona così all’elemento dell’alterazione. La quale sovverte la parola parlata e l’atto compiuto e ne fa qualcosa d’altro da ciò che essi sono in sé e per sé, altro cioè dalle azioni di questo determinato individuo. 8

Lo esprimono troppo poco perché non riescono mai a catturare adeguatamente la nostra intenzione interiore: non riusciamo mai a esprimere a parole ciò che volevamo dire. Allo stesso tempo, lo esprimono troppo perché in (e proprio attraverso) quest’insuccesso esprimono più di quanto volessimo dire, la verità di ciò che intendevamo soggettivamente. Qui potremmo integrare Hegel: questo «troppo» ha due aspetti, può riferirsi al significato «oggettivo», socialmente determinato del nostro discorso (possiamo intendere qualcosa come lode sincera ma l’uso predominante del linguaggio la rende 64 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI una fredda valutazione cinica, non controlliamo gli effetti del nostro discorso), così come la verità più profonda sul soggetto parlante stesso (l’incapacità del soggetto di dire ciò che voleva veramente dire potrebbe far emergere una dimensione del suo desiderio di cui non era a conoscenza). Quindi, anziché pre-occuparci della domanda: «Può il Neuralink catturare il vero significato del nostro flusso di pensieri?», dovremmo concentrarci su una domanda diversa: può esso cogliere la sovrapposizione di troppo e troppo poco indicata da Hegel, può catturare l’eccesso prodotto dall’insuccesso stesso? Inoltre, è ovvio che l’individualità di Grant si esprima proprio attraverso questi insuccessi: se dovesse dichiarare il suo amore in modo perfetto e regolare, otterremmo una recitazione simile a quella di un robot. Per questo motivo, la domanda successiva da porsi è: la nostra individualità sopravvivrà a questo passaggio nella Singolarità? La tecnologia ha finora migliorato la nostra individualità perché ha introdotto più alienazione, livelli aggiuntivi nel nostro scambio con gli altri e persino alie-nandoci da noi stessi (la nostra immagine sullo schermo non è direttamente «noi stessi»); che cosa succede, dunque, quando questa distanza scompare? La prima linea di difesa di Musk è che – nella sua versione di bcI – l’individuo non vi è completamente immerso, si mantiene a una distanza minima dimodoché, per dare accesso alla macchina (o, attraverso di essa, a

un altro individuo) e/o condividere i tuoi pensieri e sentimenti, devi acconsentirvi attivamente, volerlo: Una preoccupazione che sorge quando le persone sentono parlare in particolare della comunicazione del pensiero è quella di una potenziale perdita d’individualità. Questo non ci renderebbe come un grande alveare mentale, in cui a ogni singolo cervello corrisponderebbe una delle api? Quasi 65 Hegel e il cervello postumano tutti gli esperti con cui ho parlato credevano sarebbe stato il contrario. Potremmo agire come un tutt’uno in collaborazione quando ci serve, ma la tecnologia ha finora migliorato l’individualità umana... Le persone non saranno in grado di leggere i tuoi pensieri, dovresti volerlo. Se non lo vorrai, non succederà. Proprio come se non vuoi che la tua bocca parli, non parla. Ma come fa Musk a sapere che un individuo manterrà questa minima distanza? Si ricordi che la bcI funziona «oggettivamente»: il nostro cervello è connesso, collegato a una macchina che, a rigor di termini, non «legge i nostri pensieri», ma i processi nel nostro cervello che sono i correlati neuronali dei nostri pensieri; di conseguenza, giacché quando penso non sono a conoscenza dei processi neuronali nel mio cervello, come faccio a sapere se sono connesso o no? Non è pertanto molto più ragionevole supporre che, da connesso alla bcI, non sarò nemmeno consapevole quando la mia vita interiore è visibile agli altri? Insomma, la bcI non si presta come mezzo ideale di controllo (politico) della vita interiore degli individui? Come con tutte le invenzioni che rappresentano una minaccia per la libertà umana, i loro promotori cercano di confondere il problema, ponendo l’accento sui luminosi esempi di come tali invenzioni potrebbero migliorare la vita delle persone disabili; ecco una notizia tipica: Paralitico cammina grazie a un esosche-letro controllato dalla mente. La svolta del paziente francese potrebbe portare a sedie a rotelle controllate dal cervello, affermano gli esperti.9 Nessun riferimento a come le

macchine controllate dalla mente comportino anche il controllo della mente stessa da parte delle macchine. Già nel maggio 2002, era uscita la notizia che scienziati della New York University avevano connesso il chip di un 66 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI computer in grado di ricevere segnali direttamente al cervello di un ratto, così da rendere possibile il controllo del ratto (determinare cioè la direzione in cui avrebbe corso) per mezzo di un meccanismo sterzante (nello stesso modo in cui si pi-lota una macchinina telecomandata). È stata la prima volta che la «volontà» di un agente animale vivente, le sue decisioni «spontanee» sui movimenti che avrebbe fatto erano rilevate da una macchina esterna. Naturalmente, la grande domanda filosofica qui è: come ha «esperito», lo sventurato topo, il suo movimento effettivamente deciso dall’esterno? Ha continuato a «esperirlo» come qualcosa di spontaneo (era cioè totalmente inconsapevole che i suoi movimenti fossero guidati?), oppure era consapevole che c’era «qualcosa non che andava», che un’altra forza esterna ne stava decidendo i movimenti? È più fondamentale ancora applicare lo stesso ragionamento a un identico esperimento condotto con gli umani (che, questioni etiche a parte, non dovrebbe essere molto più complicato, tecnicamente parlando, che nel caso del ratto). Nel caso del ratto, si può sostenere che non gli si dovrebbe applicare la categoria umana di «esperienza», mentre nel caso di un essere umano è una domanda che bisognerebbe porsi. Quindi, ancora una volta, un essere umano guidato continuerà a «esperire» i suoi movimenti come qualcosa di spontaneo? Rimarrà del tutto inconsapevole che i suoi movimenti sono guidati, oppure diventerà consapevole del fatto che «qualcosa non va», che un’altra forza esterna ne sta decidendo i movimenti? E questo «potere esterno» come apparirà precisamente? Come qualcosa «dentro di me», un inarrestabile impulso interno, o come

semplice coercizione esterna? Se il soggetto rimarrà totalmente inconsapevole del fatto che il suo comportamento spontaneo è guidato dall’esterno, si può davvero continuare a fingere che ciò non abbia conseguenze per la nostra nozione 67 Hegel e il cervello postumano di libero arbitrio? La maggior parte di quelli che riflettono sul Neuralink si sofferma sull’individualità della propria esperienza: quando sarò immerso nella Singolarità, la perderò oppure no? Ma c’è la possibilità opposta: e se mantenessi la mia individualità nell’esperienza senza nemmeno sapere che sono controllato e guidato? Quando si riflette sulle implicazioni della bcI, di solito ci si concentra su come ci influenzerà la nostra immersione nella Singolarità, rendendoci un homo deus: come un essere divino potrò muovere le cose e innescare dei processi nella realtà semplicemente pensandoci. Gli idealisti tedeschi chiamarono questa sovrapposizione di percezione e attività intellezione, una percezione che crea ciò che percepisce. Solo gli dei possono farlo: le nostre menti finite sono per sempre vincolate dal divario che separa il pensiero o la percezione dall’azione. Ma dovremmo piuttosto fare un passo indietro e chiederci: chi controllerà i chip nel nostro cervello che sostengono la bcI? I chip costano poco...* Forse l’aspetto più triste dell’idea del Neuralink è il cinico calcolo opportunistico che lo sostiene: noi (umani) abbiamo dato vita a una forma superiore d’intelligenza che lasciata indisturbata a dispiegare i suoi poteri ci ridurrebbe a gorilla in uno zoo: La maggior parte dei postumanisti concorda che sarebbe ironico se l’umanità fosse superata da esseri resi possibili dagli umani, e tragico se tali postumani eliminassero del tutto l’umanità. Tuttavia, non sono pochi i postumanisti che affermano senza troppe nostalgie che lo sviluppo evolutivo è indifferente rispetto al destino di ciò che è accaduto prima. Per loro, la prospettiva di migliorare drasticamente

* Gioco di parole intraducibile sul modo di dire cheap as chips [ N.d.T. ]. 68 2. L’Idea dI un cerveLLo connesso e I suoI LImItI noi stessi nel corso della creazione di qualcosa di molto più grande dell’umanità, giustifica abbondantemente i rischi che si corrono.10 L’unica scelta per evitare questo destino è quella di unirci al vincitore, lasciarci alle spalle la nostra umanità e immergerci nella Singolarità... Ma sarà l’intera umanità nel suo insieme «a unirsi al vincitore», oppure l’emergere della Singolarità darà origine a nuove forme di dominio senza precedenti, cosicché gli stessi (post)umani saranno divisi in nuovi vincitori e vinti? 69 Capitolo terzo L’impasse della tecnognosi sovietica Questo ci porta all’argomento trascurato dai transumanisti contemporanei: e le conseguenze sociali del passaggio alla Singolarità? Che tipo di ordine sociale ne comporta l’avvento? È chiaro in questo caso che, con il suo individualismo, la democrazia liberale contemporanea sia spacciata: cosa la sostituirà allora? I transumanisti si limitano ad avvertimenti occasionali sul rovescio delle prospettive di homo deus come inaudite possibilità di controllo mentale sociale e diretto. Ma in urss c’era una forte tendenza al postumanesimo già negli anni Venti: il cosiddetto «biocosmismo», una strana combinazione di materialismo volgare e spiritualità gnostica che formava un’occulta ideologia-ombra, l’osceno insegnamento segreto del marxismo sovietico. Rimosso dalla pubblica vista nel periodo centrale dello Stato sovietico, il biocosmismo fu diffuso apertamente soltanto nel primo e nell’ultimo decennio del regime; le

sue tesi principali erano che gli obiettivi della religione (paradiso collettivo, superamento di ogni sofferenza, piena immortalità individuale, resurrezione dei defunti, vittoria sul tempo e la morte, conquista dello spazio ben oltre il sistema solare) potessero essere realizzati nella vita terrena attraverso lo sviluppo della scienza e tecnologia moderne. Nel futuro, non soltanto 70 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca si sarebbero abolite le differenze sessuali con l’avvento di casti esseri postumani che si riproducevano per diretta procreazione biotecnica; si sarebbe anche potuto far risorgere tutti i morti del passato (stabilendone la formula biologica attraverso i loro resti e rigenerarli, all’epoca il dna era ancora sconosciuto...), cancellando così tutte le trascorse ingiustizie, «disfacendo» la sofferenza e le distruzioni passate. In questo luminoso futuro comunista biopolitico non soltanto gli uomini, ma gli animali, tutti gli esseri viventi avrebbero partecipato a una Ragione del cosmo direttamente collettivizzata... Qui la visione di Trockij è esemplare: Cos’è l’uomo? Di certo non un essere finito e armonioso. No, è una creatura ancora molto goffa. Come animale, l’uomo si è evoluto non secondo un piano ma spontaneamente, e ha accumulato molte contraddizioni. La questione di come educare e regolare, di come migliorare e completare la costruzione fisica e spirituale dell’uomo è un problema colossale che può essere compreso solamente in base al socialismo... Produrre una nuova, «versione miglio-rata» dell’uomo: è quello il compito futuro del comunismo. E per quello dobbiamo prima scoprire tutto dell’uomo, la sua anatomia, la sua fisiologia e quella parte di essa denominata psicologia. L’uomo deve guardare a sé stesso e vedersi come materia grezza, o al meglio come un prodotto semilavorato e dire: «Finalmente, caro il mio homo sapiens, lavorerò su di te». 1

Questi non erano soltanto principi teorici idiosincra-tici, bensì espressione di un autentico movimento di massa nell’arte, nell’architettura, nella psicologia, nella pedagogia e nelle scienze organizzative composto da centinaia di migliaia di 71 Hegel e il cervello postumano persone. Il culto del taylorismo – che vantava il sostegno uffi-ciale e il cui esponente più radicale era Aleksei Gastev, un ingegnere e poeta bolscevico che già nel 1922 usava il termine «bio-meccanica» – esplorava una visione della società in cui l’uomo e la macchina si sarebbero fusi. Gastev dirigeva l’Istituto del Lavoro che compiva esperimenti per addestrare gli operai ad agire come macchine. Vedeva la meccanizzazione dell’uomo come il prossimo passo nell’evoluzione, immaginando un’utopia in cui le «persone» sarebbero state sostituite da «unità proletarie» identificate da cifre quali «A, B, C, o 325, 075, 0» e così via... Un «collettivismo meccanizzato» avrebbe «preso il posto della personalità individuale nella psicologia del proletariato». Non ci sarebbe stato più bisogno delle emozioni e l’anima umana non sarebbe stata più misurata da un grido o un sorriso, ma da un indicatore di pressione o da un tachimetro».2 Bisognerebbe fare attenzione a non lasciarsi sfuggire le implicazioni teologiche di una simile visione: l’altro aspetto della sostituzione della personalità individuale con una nuova forma di consapevolezza collettiva – ossia della cancellazione della barriera che separa la mia mente dalle altre – è il rafforzamento di ciò che separa la mia mente dalla mia (auto)esperienza corporea: non sono più pienamente personificato, osservo il mio corpo in un atteggiamento privo di emozioni leggendone i messaggi come segni di una macchina (non sento il calore, lo registro come un numero nel mio termometro corporeo ecc.) Qui abbiamo la versione materialistica della redenzione dalla Caduta, qualcosa di vagamente simile alla particolare teologia elaborata da Nicolas Malebranche, un allievo di

Cartesio che abbandonò il ridicolo riferimento del maestro alla ghiandola 72 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca pineale al fine di spiegare la coordinazione tra la sostanza materiale e spirituale, cioè il corpo e l’anima. Se fra i due non vi è contatto, nessun punto nel quale l’anima possa agire in modo causale sul corpo o viceversa, come spiegarne dunque la coordinazione? Giacché le due reti causali (quella delle idee nella mia mente e quella delle interconnessioni corporee) sono del tutto indipendenti, l’unica soluzione è che una terza, vera Sostanza (dio) coordini e medi continuamente fra le due, sostenendo la parvenza di continuità. Quando penso di sollevare la mia mano e questa effettivamente si alza, il mio pensiero provoca il levarsi della mano non direttamente, ma soltanto «occasionalmente»: nel notare il mio pensiero diretto all’alzare la mano, dio mette in moto l’altra catena causale, materiale, che porta all’effettivo sollevarsi della mia mano. Se sostituiamo «Dio» con il grande Altro, l’ordine simbolico, possiamo vedere la vicinanza dell’occasionalismo alla posizione di Lacan. Per dirla con Lacan nella sua polemica con Aristotele in Televisione,3 il rapporto tra anima e corpo non è mai diretto, giacché il grande Altro si frap-pone sempre tra i due. L’occasionalismo è dunque un nome per «l’arbitrarietà del significante», per lo scarto che separa la rete delle idee da quello della causalità corporea (reale), per il fatto che è il grande Altro a spiegare la coordinazione fra le due reti, cosicché, quando il mio corpo morde una mela, la mia anima esperisce una sensazione piacevole. A questo stesso scarto mira l’antico sacerdote azteco che compie sacrifici umani per far sì che il sole sorga ancora: qui il sacrificio umano è un ap-pellarsi a dio perché sostenga il coordinamento delle due serie, la necessità corporea e la concatenazione di eventi simbolici. Per quanto «irrazionale» possa sembrare, l’implicita premessa del sacrificio del sacerdote azteco è assai più perspicace della nostra

ordinaria intuizione secondo cui la coordinazione fra corpo e anima è diretta; ossia, è per me «naturale» provare una 73 Hegel e il cervello postumano sensazione piacevole quando mordo una mela, giacché questa sensazione è causata direttamente da questa: a perdersi è il ruolo intermediario del grande Altro nel garantire la coordinazione fra la realtà e la nostra esperienza mentale di essa. E non è forse lo stesso con la nostra immersione nella realtà virtuale? Quando sollevo la mano per spingere un oggetto nello spazio virtuale, questo, in effetti, si muove: la mia illusione, naturalmente, è che sia il movimento della mia mano a causare direttamente la dislocazione dell’oggetto, cioè nella mia immersione sottovaluto l’intricato meccanismo di coordinazione compute-rizzata omologo al ruolo di quel dio che nell’occasionalismo ga-rantisce la coordinazione fra le due serie.4 È noto che nella maggior parte degli ascensori il pulsante «chiudi porte» è un placebo del tutto privo di funzione, messo lì tanto per dare l’impressione di partecipare, di contribuire alla velocità del viaggio dell’ascensore: premendolo, le porte impiegano per chiudersi esattamente lo stesso tempo di quando premiamo il pulsante del piano senza «velocizzare» il processo spingendo anche il pulsante di chiusura delle porte. Questo caso chiaro ed estremo di falsa partecipazione è una metafora appropriata della partecipazione degli individui al nostro processo politico «postmoderno». Ed è occasionalismo nella sua forma più pura: secondo Malebranche, premiamo di continuo questi pulsanti ed è l’incessante attività divina che li coordina con l’evento che segue (la chiusura della porta), mentre noi crediamo che questo risulti dal nostro premere il pulsante... L’occasionalismo ci permette inoltre di gettare nuova luce sull’esatto status della Caduta. Adamo finì in rovina e bandito dal Paradiso non

perché semplicemente traviato dalla sensua-lità di Eva; il punto, piuttosto, è che commise un errore filosofico e «regredì» dall’occasionalismo a un volgare empirismo sensuale secondo cui gli oggetti materiali condizionano i no-74 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca stri sensi direttamente, senza la mediazione del grande Altro (Dio): la Caduta è principalmente una questione inerente alle convinzioni filosofiche di Adamo. Questo per dire che Adamo, prima della Caduta, era pienamente padrone del proprio corpo e se ne manteneva a una certa distanza: ben consapevole che la connessione tra la sua anima e il suo corpo fosse contingente e soltanto occasionale, era in grado di sospenderla in ogni momento, di tagliarsi fuori e non provare dolore né piacere. Dolore e piacere non erano dei fini in sé: servivano unicamente a fornire informazioni su quanto fosse cattivo o buono per la sopravvivenza del suo corpo. La «caduta» avvenne nel momento in cui Adamo soccombé eccessivamente (cioè oltre lo scopo di cui c’era bisogno per fornire le informazioni necessarie alla sopravvivenza nel suo ambiente naturale) ai suoi sensi, nel momento in cui questi lo influenzarono al punto di fargli perdere la distanza da essi e distrarlo dal puro pensiero. L’oggetto responsabile della Caduta, ovviamente, era Eva: Adamo cadde quando la vista di Eva nuda lo distrasse per un momento, sviandolo a credere che fosse Eva stessa – direttamente e non solo occasionalmente – la causa del suo piacere sessuale. Eva è responsabile della Caduta nella misura in cui dà vita all’errore filosofico del realismo sensuale. E, come già aveva notato sant’Agostino, la punizione, il prezzo che Adamo doveva pagare per la propria Caduta, era, assai propriamente, il non essere più in grado di dominare pienamente il proprio corpo: perdere il controllo dell’erezione fallica. Troviamo qui tutti gli ingredienti principali del postumanismo: il transito allo stadio postumano attraverso la manipolazione tecnologica degli esseri umani; l’idea che, in questo modo, gli umani diventeranno divini (il concetto di bogograditel’stvo – «costruzione di dio» – promosso da Lunačarskij e anche da Gorkij):

l’idea che, con il passaggio alla postumanità, ci lasceremo la sessualità alle 75 Hegel e il cervello postumano spalle (come, in certe versioni, ultimo baluardo dell’ideologia borghese); e da ultimo l’idea che – in questo stadio postumano – la comunicazione attraverso i media sarà rimpiazzata da un collegamento diretto tra menti individuali. Andrej Platonov – che di questo movimento faceva parte pur guardandolo allo stesso tempo con occhio critico – scrisse La rotta celese, un rac-conto in cui uno dei protagonisti, uno scienziato di nome Matissen, crea un dispositivo che può trasmettere dei semplici comandi a distanza. La macchina converte onde elettromagnetiche generate da un cervello in un comando e lo passa a un’altra macchina, persona o anche alla natura... Tuttavia, i suoi test finiscono in un disastro ambientale e infine, nel corso dell’esperimento, con la sua morte.5 Il paradosso che qui non può non colpire è che lo gnosticismo hightech sovietico scoppiò in condizioni (materiali) di povertà estrema (l’Unione Sovietica durante e dopo la guerra civile). Platonov elaborò un’intera (implicita) «ontologia della vita povera» per fornire un profilo della vita di quelli che chiama «meno che proletari». Ma se questo non dovesse sorprenderci, se fossero cioè proprio le epoche di povertà e di caos esplosivo a provocare degli scoppi utopistici? E se oggi as-sistessimo a una simile «coincidenza degli opposti», con i sogni di Singolarità e l’aumento dei profughi senza dimora come due lati della stessa medaglia, come altro esempio ancora del «giudizio infinito» hegeliano (il legame fra l’«infimo» e il «sommo») che definisce la nostra era? Qui Bogdanov interpreta il ruolo chiave come partecipante a pieno titolo del movimento, ma con una distanza critica: la sua opera merita dunque uno sguardo più ravvicinato. Quello su cui dovremmo concentrarci è lo spo-76

3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca stamento che avviene nella sua opera verso la fine degli anni Venti. Fino a quel momento aveva visto la base materiale della «vita povera» in quello che aveva chiamato «il lavoro della vita», l’incessante lotta per la sopravvivenza. Quando siamo presi dal «lavoro della vita» non siamo davvero vivi, siamo semplicemente «coinvolti nella vita»: «Nell’essere che lavora non c’è tempo per vivere, oppure, nelle parole del riservista Komja-gin: ‘Dopotutto, non sto vivendo. Sono stato soltanto coinvolto nella vita’. Sembra che molti dei personaggi di Platonov non vivano, ma siano solamente ‘coinvolti nella vita’, ossia in lotta con lo stato della vita povera». E qui troviamo la prima delle puntualizzazioni di Bogdanov: «Il lavoro della vita» comprende la sessualità, che dunque non porta alcuna redenzione e rimane un altro fardello nella lotta per la sopravvivenza: qui la sessualità è ridotta a «lavoro di riproduzione sociale». Scrive Platonov in uno dei suoi primi saggi, Cultura proletaria: «Il sesso divenne il sentimento primo, centrale nella lotta per la sopravvivenza, l’anima di una persona. E per essa, l’applicazione della legge del sesso diventò un’autentica benedizione». Ne consegue che nella società capitalistica il genere, la riproduzione biologica, il sesso e la famiglia nucleare sono mezzi d’immortalità. In opposizione alla lotta inconscia per la sopravvivenza individuale in atti di riproduzione biologica, il comunismo è la vita comune del nuovo essere umano asessuato. Anche se la sessualità non indica la via d’uscita dal lavoro della vita, dov’è che possiamo dunque collocare una rottura o un’interruzione nel continuum del lavoro e della produzione? La soluzione di Platonov è toská, una parola russa da lui usata per designare l’esperienza che si verifica quando 77 Hegel e il cervello postumano il processo lavorativo forma uno spazio vuoto, una pausa. È

letteralmente vacuità, un vuoto formato dalla mancanza di lavoro. Questo vuoto produce un pensiero, laddove la pienezza (preoccupazione) assoluta per il lavoro non lascia spazio a una pausa o un margine al pensiero... Platonov utilizza una parola russa specifica, toská, per descrivere questo stato esistenziale o sensazione di schiavitù nella vita povera... Toská, si avvicina all’inglese « melancholy» e « longing», ma non ha causa, oggetto o direzione. La condizione di vita povera è quindi profondamente ambigua: è la lotta infima e costante per la sopravvivenza, ma funziona anche sull’orlo del ritiro dalla vita attiva, e come tale apre lo spazio per uscire dal continuum del lavoro e della produzione: a differenza dei proletari, i nomadici Altri non lavorano, la loro disperazione non riesce a trovare conforto nell’impegno produttivo. E – ancora una volta – non bisognerebbe lasciarsi sfuggire la dimensione cosmica di toská: «‘Ma perché, Nikita, i campi se ne stanno lì, così noiosi? Non sarà che toská è dentro il mondo intero e che un piano quinquennale è solo in noi?’» Toská non è solo una disposizione umana, permea la realtà intera, è presente anche nell’inerzia dei campi abbandonati. Per questo non ci si dovrebbe concentrare troppo sull’aspetto emotivo di toská (è disperazione, malinconia? ecc.) È piuttosto un pensare al suo grado zero, a un pensiero puro come disconnessione dal laborioso ciclo della vita: Platonov sembra giustapporre l’essere laborioso che non conosce interruzioni, da un lato, e il pensiero come una pausa che produce vuoto e un senso «senza tempo» di toská, dall’altro... La fine del tempo è la fine dell’essere che lavora e toská rivela la necessità del comunismo come unico mezzo per superare il tempo infinito della riproduzione. 78 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca In questa visione politicocosmica radicale, non ci sarà toská nel comunismo, giacché il comunismo lascia indietro la stessa condizione che dà origine al

toská: è la fine dei tempi come li conosciamo, nella misura in cui il tempo è per noi, per la nostra esperienza storica, tempo di perdita e mancanza, di sofferenza e sforzo. Come tale, il comunismo è un evento cosmico, non solo una trasformazione sociale, per quanto radicale possa essere: tutto ciò che esiste – inclusi animali e piante – deve essere liberato dalla vita povera... 6 Tuttavia, a metà degli anni Venti, Platonov perse ogni illusione sulla realizzabilità di questo cortocircuito cosmico-sociale (una rivoluzione sociale che riscatta la natura stessa); egli critica la possibilità di progresso tecnico e il superamento delle contraddizioni di classe mediante una pura forma di coscienza, concludendo invece che la produzione e la riproduzione cicliche, l’organizzazione e la disorganizzazione sono il presupposto ontologico di tutte le forme sociali... L’ambiente deve essere organizzato in modo tale da tener conto di queste leggi di organizzazione, al fine di poter organizzare il mondo sociale non contro, ma in accordo con esse. La vita sociale dipende dalla spontaneità e dalla negatività dei cicli naturali. Pertanto l’essere che lavora può solo essere negato, mai completamente abolito. Significa che Platonov non impiega l’idea di superamento ( Aufheben). Qui il termine Aufheben andrebbe letto in modo non hegeliano: nella visione originale di Platonov, la sessualità deve essere «superata» nel senso ingenuo di reale annientamento: non ci sarà sessualità nel comunismo postumano, mentre per Hegel il «superamento» è una negazione che mantiene la dimensione chiave del fenomeno negato e lo eleva a un livello superiore 79 Hegel e il cervello postumano (per dire, per Hegel, l’accoppiamento animale è superato nella sessualità umana), ed è esattamente un tale, più hegeliano, superamento della sessualità quello che Platonov immagina nella sua seconda fase: «La questione deve essere risolta

non nella totale abolizione del sesso, ma nell’abolizione della laboriosità della vita che costringe le donne a funzionare come merci e come macchine da nascita». Nell’opera esemplare del suo periodo «maturo», il breve romanzo Džan7 – sebbene il gruppo utopistico di Altri tipicamente platonoviano sia ancora rappresentato dalla «nazione», una comunità di emarginati nel deserto che ha perso la voglia di vivere –, le coordinate sono del tutto mutate. Il protagonista è ora un precettore stalinista, formato a Mosca; ritorna nel deserto per presentare alla «nazione» il progresso scientifico e culturale e quindi ripristinare la loro volontà di vivere. (Platonov, ovviamente, rimane fedele alla propria ambiguità: alla fine del romanzo, l’eroe deve accettare di non poter insegnare nulla agli altri). Questo spostamento è segnalato dal ruolo radicalmente mutato della sessualità: per il Platonov degli anni Venti, la sessualità era la «sporca» forza anti-utopica dell’inerzia, mentre qui viene riabilitata come il percorso privilegiato verso la maturità spirituale: sebbene fal-lisca come educatore, l’eroe trova conforto spirituale nell’amore sessuale, cosicché è come se la «nazione» si riduca quasi a sfondo della creazione di una coppia sessuale. Qui Platonov si trova pericolosamente vicino alla formula hollywoodiana di creazione di una coppia, riconoscibile anche in un recente western come Balla coi lupi (Kevin Costner, 1990): la storia di un tenente dell’esercito americano, John J. Dunbar, che abbandona il suo reggimento e va a vivere nella natura alla ricerca di una vita più autentica; unitosi a una tribù di Lakota, s’innamora di Alzata Con Pugno, una donna bianca che vive con loro (è stata rapita da bambina). I membri della tribù affermano di 80 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca non vederlo come un bianco, ma come un guerriero Sioux di nome Balla Coi Lupi. Tuttavia, durante l’accampamento in-vernale, Dunbar decide di andarsene con Alzata Con Pugno, perché la sua continua presenza metterebbe in pericolo la tribù inseguita dall’esercito americano; sicché, alla fine, si crea una coppia felice che ritorna alla civiltà, mentre la nomade

nazione Lakota scompare, ritirandosi in un territorio sconosciuto. Lo stesso vale anche per Risvegli (Penny Marshall, 1990), dove la «nazione» di pazienti catatonici viene rianimata dal loro medico (Robin Williams), un timido che ha difficoltà a chiedere a una donna di uscire assieme. Alla fine del film, il dottore chiede un appuntamento a un’infermiera e lei accetta volentieri, in modo che i pazienti possano tornare in catatonia: non sono loro a essersi veramente risvegliati, lo è il medico stesso. E, come ulteriore prova del legame tra Hollywood e l’«alto» stalinismo, citiamo il famigerato La caduta di Berlino (1948) di Čiaureli, il caso supremo di un’epopea di guerra staliniana, la storia della vittoria sovietica sulla Germania di Hitler. Il film inizia nel 1941, poco prima dell’assalto tedesco all’urss; il protagonista – un operaio siderurgico stakanovista innamorato di una maestra locale ma troppo timido per un approccio diretto – riceve il premio Stalin ed è ricevuto da Stalin stesso nella sua dacia. In una scena tagliata dopo il 1953 e poi perduta, dopo le congratulazioni ufficiali, Stalin nota un disagio nervoso nell’eroe e gli chiede cosa c’è che non va. L’eroe confessa i suoi problemi amorosi a Stalin e questi lo consiglia su come con-quistare il cuore della ragazza: recitale una poesia ecc. Tornato a casa, l’eroe riesce a sedurre la ragazza; tuttavia, proprio nel momento in cui la porta in braccio in mezzo all’erba (con ogni probabilità per fare finalmente l’amore), tutt’intorno iniziano a cadere le bombe degli aerei tedeschi: è il 22 giugno 1941. Nella seguente confusione, la ragazza viene catturata dai tedeschi e 81 Hegel e il cervello postumano portata in un campo di lavoro vicino a Berlino, mentre l’eroe si unisce all’Armata Rossa, combattendo in prima linea per tornare dal suo amore. Alla fine del film, quando la folla esultante dei prigionieri del campo liberati dall’Armata Rossa si mescola ai soldati russi, un aereo atterra su un campo aperto nelle

vici-nanze; è lo stesso Stalin a uscirne e a dirigersi verso la folla, che lo saluta acclamante. In quel preciso istante, come se, ancora una volta, ci fosse voluto l’aiuto di Stalin, gli innamorati infelici si riuniscono: la ragazza nota l’eroe nella folla; prima di abbrac-ciarlo, si avvicina a Stalin e gli chiede se può dargli un bacio... La caduta di Berlino è effettivamente la storia di una coppia riunita: la Seconda guerra mondiale costituisce un ostacolo da superare in modo che l’eroe possa raggiungere il suo amore, e il ruolo di Stalin è quello di un mago e un pronubo che conduce saggiamente la coppia al ricongiungimento... L’insistenza sul rigoroso significato hegeliano di superamento non è qui un fatto di pedanteria: ciò che il «maturo» Platonov prefigura è precisamente un’ Aufhebung hegeliana del «lavoro della vita» che include la riproduzione sessuale. Anche nel comunismo, la vita sociale continuerà a «dipendere dalla spontaneità e dalla negatività dei cicli naturali. Pertanto, l’essere che lavora può solo essere negato, mai completamente abolito». In hegelese stretto, l’«essere che lavora» non sarà precisamente negato direttamente, ma «abolito» nel senso del superamento: perderà il suo carattere immediato di lotta per la sopravvivenza e riapparirà come «mediato», come il momento di una totalità sociale superiore che segue obiettivi spirituali; lo stesso vale per il sesso, che diventerà un momento mediato di appagamento spirituale intersoggettivo... Tuttavia, qui sorgono immediatamente due problemi. Il primo è che, nel capitalismo, una simile Aufhebung ha già luogo: un capitalista non è motivato nella sua autoriprodu-82 3. L’Impasse deLLa tecnognosI sovIetIca zione dalla lotta per la sopravvivenza. Come già Marx aveva capito chiaramente (si vedano i riferimenti hegeliani della sua descrizione della circolazione del

capitale), nella sua autoriproduzione il «capitale» si comporta come un’idea hegeliana, lo scopo della sua riproduzione non è la sopravvivenza dei lavoratori, ma la sua riproduzione estesa (misurata dal profitto crescente). Per questo la critica del capitalismo come sistema egoistico manca totalmente di senso: un vero capitalista non è un edonista, può anche vivere una vita molto ascetica, sacrifi-cando tutto, piaceri compresi, al buon funzionamento della riproduzione del capitale. Dobbiamo quindi, come fecero tanto tempo fa Hegel e Marx, distinguere tra due «nature», l’immediata «natura naturale» (vita biologica) e la «seconda natura», un prodotto sociale che acquisisce una falsa autonomia e domina gli individui come loro destino. Ed è simile alla sessualità: la sessualità umana per definizione non è mai solo un mezzo di sopravvivenza (riproduzione), è per definizione sempre «denaturalizzata», imponendo al suo fondamento biologico il proprio ritmo. Anche se il capitalismo occasionalmente getta milioni nella povertà, la sua logica non è quella di una «vita povera», ma di una vita che genera povertà come l’altra faccia della sua produzione di ricchezza eccessiva. Il secondo problema, qui per noi cruciale: per un hegeliano, come anche per il Platonov maturo e altri sostenitori della Aufhebung, il Neuralink (Singolarità) risulta tanto destabilizzante per la «mediazione» di uno stadio inferiore nel momento di una totalità superiore perché fa (o almeno promette di fare) qualcosa che Hegel non prende nemmeno in considerazione. Per Hegel, tutta la vita spirituale, tutta l’esistenza reale dello Spirito, resta radicata nella nostra esistenza corporea finita, nella nostra realtà storica materiale: non esiste un regno indipendente dello Spirito; questo esiste solo nella cultura umana; la lingua ne è il 83 Hegel e il cervello postumano mezzo. Nonostante anche il Neuralink rimanga radicato nella realtà materiale (reti digitali, neurobiologia), e sebbene il Neuralink sia in un certo senso riduzionismo scientificomaterialista portato all’estremo, raggiunge anche l’estremità opposta:

con un grande balzo in avanti, spalanca la prospettiva di un legame diretto tra le menti, di una comunicazione senza un mezzo materiale di espressione. Quindi, per dirla nuovamente in hegelese, il Neuralink promette di emettere il proprio giudizio infinito, in cui l’infimo (la realtà materiale delle reti neurali e digitali) e il sommo (la mente) «coincidono». Si apre così la prospettiva del puro pensiero: un pensiero che sarà «puro» nel senso preciso di un legame diretto tra le menti senza alcun bisogno di mediazione comunicativa. Non è, questa, anche una versione del comunismo nel senso di spazio di pensieri direttamente condivisi? Nella visione del Platonov maturo, il comunismo non è più una versione della Singolarità, e toská rimane operativa in esso nel solito senso di disperazione per la vita laboriosa, non in senso assoluto. Forse, tuttavia, possiamo comunque leggere la situazione di base del suo capolavoro, Nel grande cantiere,8 come una specie di negativo della nozione cosmica del comunismo. E se il grande cantiere – questo gigantesco buco nella terra che non sarà mai riempito con il nuovo edificio comunista, questo simbolo di dispendio di lavoro senza senso che non ha alcun ruolo nella lotta per la sopravvivenza o per una vita migliore – fosse un monumento spettacolare a toská come in-delebile condizione della nostra vita? 84 Capitolo quarto Singolarità: la svolta gnostica Il ruolo chiave di toská nell’idea del comunismo di Platonov ci riporta dalla politica alla teologia, alle implicazioni teologiche di determinate visioni non solo del cervello connesso, ma anche del comunismo. Oggi, questa dimensione teologica del cervello connesso sta conoscendo uno spettacolare ritorno, privo soltanto (prevedibilmente) della base comunista. Il sublime opposto dell’intuizione cinica di Musk

− «proviamo a metterci al passo con le macchine per non diventare delle scimmie in uno zoo» − è la lettura new age e gnostica della Singolarità, in-tesa non solo come il nuovo stadio della postumanità ma anche come evento cosmico fondamentale, la realizzazione dell’autorealizzazione divina: nella Singolarità, non solo diventiamo divini noi esseri umani, lo diventa pienamente dio stesso. Laddove la Singolarità implica anche una sorta di sincronia delle menti, non c’è da meravigliarsi che richieda delle speculazioni teosofiche. Questo per dire che, quando si discute di sincronia, la tentazione oscurantista è quasi irresistibile: non c’è da meravigliarsi che quest’idea piacesse a Jung.1 Il saggio di Michael Zimmerman su quest’argomento fornisce una formulazione concisa di questa ipotesi elaborata in termini divulgativi da Ray Kurzweil: 85 Hegel e il cervello postumano La confluenza di nanotecnologia, intelligenza artificiale, robotica e ingegneria genetica produrrà presto degli esseri postumani che ci supereranno di gran lunga in potenza e intelligenza. Proprio come i buchi neri costituiscono una «singolarità» da cui nessuna informazione può sfuggire, i postumani costituiranno una «singolarità» i cui scopi e capacità travalicano la nostra comprensione. I postumanisti tecnologici, consapevolmente oppure no, attingono all’antico discorso cristiano della «teosi», secondo il quale gli esseri umani sono in grado di essere Dio o a lui simili. Da san Paolo e Lutero a Hegel e Kurzweil, l’idea di auto-deificazione umana gioca un ruolo di primo piano. Hegel, in particolare, rimarca che Dio è completamente attualizzato solo nel processo in cui l’umanità raggiunge la coscienza assoluta. Kurzweil concorda sul fatto che Dio diventi pienamente reale solo attraverso processi storici che illuminano e trasformano così l’intero universo. La differenza è che per Kurzweil e molti altri postumanisti, sarà la nostra progenie, i postumani, a compiere questo straordinario processo. 2

Oppure, per citare Kurzweil stesso dalla Singolarità è vicina: «La nostra civiltà si [...] espanderà verso l’esterno, trasformando in maniera sublime, trascendente tutta la stolida materia ed energia che incontriamo in materia ed energia intelligente. Possiamo quindi dire, in un certo senso, che la Singolarità alla fine infonderà l’universo di spirito».3 In breve, come nota Zimmerman, la Singolarità è per Kurzweil «un punto di svolta nel processo evolutivo che darà origine a esseri straordinari capaci di risvegliare l’intero universo. Un tale risveglio può essere visto come l’attualizzazione di un potenziale presente sin dall’inizio. Nello scrivere ‘Singolarità’ con la maiuscola, i postumanisti affermano che l’evento non è semplicemente importante, bensì 86 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca numinoso, possiede cioè l’equivalente di una dimensione sacra. I postumanisti come Kurzweil rappresentano il futuro in modalità che sono coerenti con almeno alcune concezioni di Dio». E qui sta l’ipotesi gnostica dei transumanisti: I postumani alla fine trasformeranno l’intero universo in un’intelligenza onnipotente che assomiglia per importanti aspetti al Dio monoteista. Il Dio di Kurzweil non trascende la natura, piuttosto la porta allo zenit delle sue intrinseche possibilità [...]. Solo attraverso l’umanità può darsi tale divina autocoscienza. Dopo aver posto un Altro a sé stesso in forma di natura, che è il Geist esteso nello spazio, il Geist si manifesta successivamente come l’umanità cosciente, che si accinge poi a conoscere, e quindi ad assimilare, l’Alterità costituita dalla natura estesa. Le cose materiali sono «intelligenza pietrificata» estesa nello spazio, laddove la coscienza è intelligenza liquefatta che si sviluppa nel tempo (storia). Estraniata dall’idea, la natura è solo il cadavere della comprensione. La natura è, tuttavia, solo implicitamente l’idea, e quindi Schelling la

definì un’intelligenza pietrificata, altri addirittura un’intelligenza congelata, ma Dio non rimane pietrificato e morto, le pietre stesse gridano e si elevano allo spirito [ Geist]. Qui sono chiaramente indicati i riferimenti hegeliani (o, più in generale, all’idealismo tedesco), così come lo scarto che separa l’idea di Singolarità dallo spazio dell’idealismo tedesco. Gradualmente, l’inerte realtà materiale si spiritualizza attraverso il processo di attualizzazione dei suoi potenziali immanenti spirituali. Il primo picco di questo processo è l’intelligenza umana, in cui lo Spirito diventa consapevole di sé stesso, ritorna a sé stesso dalla sua alienazione/esternalizzazione nella 87 Hegel e il cervello postumano realtà materiale. A questo stadio, però, lo Spirito rimane con-trapposto alla realtà; diventa consapevole di sé stesso come coscienza individuale opposta alla realtà materiale. Per attualizzarsi appieno, lo Spirito deve superare questa opposizione e diventare consapevole di sé stesso come la dimensione, la vita spirituale interiore dell’intera realtà (materiale) stessa. A questo livello, la mia autocoscienza si sovrappone a quella dell’intera realtà stessa o, in termini teologici, la mia consapevolezza di dio è contemporaneamente l’autoconsapevolezza di dio stesso. Dio non è un’entità al di fuori del processo della realtà che la guida da una distanza di sicurezza; il processo della realtà è il processo che si svolge in dio stesso, si sovrappone al divenire di dio stesso. La differenza che separa l’idealismo tedesco dai teorici della Singolarità è che, per gli idealisti tedeschi, questa piena unità di Spirito e realtà è già raggiunta nella speculazione filosofica (o, in una versione più mistica, nell’esperienza teosofica): la nostra autoconsapevolezza umana svolge un ruolo centrale nel cosmo stesso poiché, in essa, la realtà diventa consapevole di sé stessa e dio diventa pienamente reale. Per i teorici della Singolarità, al contrario, noi esseri umani limitati non possiamo attuare la piena unità di Spirito e realtà: la nostra consapevolezza individuale separata è un ostacolo troppo forte. La riconciliazione della realtà con lo Spirito si ottiene solo

quando rinunciamo alla nostra individualità separata e diventiamo tutt’uno con lo Spirito che permea la realtà stessa, quando la nostra autocoscienza si sperimenta come autocoscienza della realtà stessa. In breve, quando entriamo nella Singolarità: Il motore della storia, al lavoro «alle spalle» degli agenti storici, è l’imperativo dell’universo di rendersi pienamente autocosciente. Per Kurzweil, Hegel aveva ragione per molti aspetti, ma su questo sbagliava: Alpha non è diventato 88 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca Omega, il fine ultimo non è stato raggiunto e Geist non è ancora diventato completamente autocosciente. C’è ancora una vasta Alterità da risvegliare con l’essere assimilati alla divina intelligenza. Se, all’inizio, a generare l’umanità autocosciente ha contribuito un profondo telos cosmico, quello stesso telos potrebbe animare coloro che oggi immaginano e chiedono un futuro postumano [...] il cosmo si è portato all’autocoscienza attraverso l’umanità. Alla fine gli umani si evolveranno oltre sé stessi, generando modalità di coscienza e tecnologia che renderanno possibile un’autorealizzazione cosmica che ha qualcosa in comune con la speranza di san Paolo «che anche la stessa Creazione sia liberata dalla sua schiavitù nei confronti della corruzione nella libertà della gloria dei figli di Dio». Qui abbiamo un’altra (la terza) versione dell’«Hegel è arrivato troppo presto»: all’inizio c’era il giovane Lukács, per cui la riconciliazione di Hegel era la prefigurazione idealistica della reale riconciliazione di soggetto e sostanza, la rivoluzione proletaria attraverso cui il proletariato si appropria della sostanza storica alienata; poi c’è stato Fukuyama, per il quale lo Stato razionale ideale − la conclusione della storia mondiale in cui la libertà individuale è riconciliata con l’ordine sociale organico − non è raggiunto (come pensava Hegel) nella monarchia razionale, ma soltanto nella democrazia liberale contemporanea; infine ci sono i transumanisti, per i quali solo la prospettiva della Singolarità fa da apripista alla conciliazione effettiva di Spirito e realtà. 4 Il problema

che si pone qui è, ovviamente: cosa accadrà in questo passaggio a noi umani? Secondo i postumanisti, l’umanità non può evolversi nei modi richiesti per ricostruire l’universo perché il corpo or-89 Hegel e il cervello postumano ganico è troppo fragile per il compito. Proprio come l’umanità ha sterminato molte specie – molto probabilmente includendo altri primati superiori – nel processo di raggiungimento del dominio planetario, i postumani potrebbero sterminare l’umanità per raggiungere il dominio galattico e persino cosmico, il tutto alla ricerca di un’autocoscienza totale di una varietà che siamo incapaci di immaginare. Alcuni postumanisti sostengono eroicamente questa scomparsa come «l’unica opportunità nella storia cosmica per gli esseri autocoscienti di muoversi verso la Singolarità». Perdiamo la nostra esistenza corporea, ma possiamo cambiare la base della nostra esistenza dall’ hardware al software: possiamo scari-care ( download) la nostra coscienza in qualche entità post-biologica (digitale) e poi continuare a riprodurci in questo modo indefinitamente. Ovviamente la domanda resta: «Dovranno essere calpestati molti fiori innocenti – potremmo chiederci qui – perché il Geist compia il salto verso la super-coscienza immortale?» Questa può anche essere posta in termini teologici: dal momento che il nostro Sé in contrapposizione alla realtà (e separato da dio) è ciò che la religione descrive come la Caduta, potrebbe l’umanità riguadagnare il suo status prelapsario entrando nella Singolarità? Legato a questo dilemma ce n’è un altro che abbiamo già riscontrato: manterremo la nostra autocoscienza individuale nella Singolarità? Alcuni teorici sostengono che la Singolarità non significa totale immersione nella sostanza spirituale: resteremmo soggetti che giocano con un contenuto sostanziale. Ecco una citazione da Cadell Last: Direi che quando pensiamo «come avrebbe letto Hegel,

Kurzweil?» stiamo pensando che Kurzweil sia una specie di spinoziano, nel senso che desidera un’«unione immanente» 90 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca con la «sostanza fisica» (la mente che porta in vita l’intero universo attraverso la computazione avanzata). Tuttavia, non dovremmo forse leggere questa speculazione di Kurzweil attraverso una lente hegeliana come un’«Immagine Assoluta» (quella in cui Fichte era rimasto in stallo), e pensare invece a come «ogni soggetto potrebbe in definitiva richiedere la creazione (dal nulla) del proprio universo»? Non sarebbe la migliore espressione dell’«assoluto come sostanza, ma anche come soggetto»? In questa formula evitiamo la trappola del pensare «la soggettività si fonderà con altri soggetti» o «la soggettività si fonderà con l’oggetto fisico», o pensiamo piuttosto al modo in cui ogni soggetto agisce in relazione al proprio universo virtuale (concettuale)?5 In termini freudiani, la soluzione di Last è perversa: anziché essere immersi nella divina Singolarità, i soggetti la usano, vi s’impegnano ludicamente. Ciò che rende interessante questa soluzione è che riecheggia la posizione dell’ultimo Lacan. Dopo decenni di lotte per penetrare, a partire dalla ragnatela immaginaria e simbolica di finzioni, il puro Reale, aveva ammesso la sconfitta. Adrian Johnston6 ha messo in luce le complessità e le ambiguità della svolta «pessimistica» che si verifica proprio alla fine dell’insegnamento di Lacan e che culmina nella sua nuova formula della fine del trattamento psicoanalitico come identificazione con un sintomo (non la sua dissoluzione): Il passaggio attraverso un’esperienza conclusiva di «miseria soggettiva», in cui le identificazioni al livello di ego –

nonché i punti di riferimento come grandi Altro e soggetti che dovrebbero sapere – vacillano o svaniscono del tutto, è davvero un momento essenziale e ricorrente del processo analitico lacaniano. Ciononostante, Lacan non ritiene possi-91 Hegel e il cervello postumano bile o desiderabile il situarsi in pianta stabile in un tale stato carente di fine analisi. Vede sia come appropriato che inevitabile che l’ego, i grandi Altro, i soggetti che dovrebbero sapere e simili si ricostituiscano per il/la paziente nella fase successiva all’analisi. Si spera che le versioni di questi, ricostituite sulla scia e in risposta all’analisi, saranno per il/la paziente migliori e più vivibili. Qui abbiamo una specie di Lacan «postmoderno»: possiamo affrontare il Reale solo in rari momenti di lucidità, ma questa esperienza estrema non può durare, dobbiamo tornare alla nostra vita ordinaria situata nella parvenza, nelle finzioni simboliche... E non è lo stesso con l’ateismo cristiano? L’ovvio rimprovero a Badiou, a me e ad altri «atei cristiani» è: perché non affermiamo direttamente il materialismo, perché aver bisogno di una deviazione attraverso la religione? Gli atei cristiani affermano che non possiamo lasciarci alle spalle la religione, che abbiamo bisogno del suo miraggio per trasgredirla ripetutamente; oppure, per dirla in termini kantiani, la religione non è solo un fenomeno storico ma una sorta d’illusione trascendentale immanente alla mente umana. Quindi, anziché cancellare dio dalla scena, l’unico modo è quello di imparare a «‘fare uso di’ Dieu comme le Nom-du-Père». In che senso preciso, quindi, les non-dupes errent – quelli che fingono di non essere ingannati dall’illusione religiosa – hanno torto? Lo fa vedere Johnston: La parafrasi lacaniana di Dostoevskij, secondo la quale «se Dio è morto, allora nulla è permesso», sembra dare l’idea che l’ateismo radicale permanente sia indesiderabile secondo la stretta definizione lacaniana di desiderio. De Kesel afferma che, per Lacan, la religione gode della virtù di soste-92

4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca nere il desiderio. Se è così, la versione dell’analisi di Lacan cerca davvero di eliminare teismo, religiosità e simili? [...] L’economia libidica dell’inconscio, centrata sul desiderio con i suoi fantasmi fondamentali che coinvolgono l’ objet petit a, è sostenuta dalla Legge di Dio come padre morto e/o Nome-del-Padre. Se questo Dio muore, l’intera economia che Egli sostiene crolla (vale a dire, «nulla è permesso»). In Televisione, Lacan, parlando di questioni edipiche, osserva: «Anche se i ricordi della soppressione familiare non fossero veri, dovrebbero essere inventati, e lo si fa certamente». Parafrasando questa osservazione, si potrebbe dire che, secondo il ragionamento di Lacan, se Dio è morto, allora, almeno per ragioni libidiche, dovrebbe essere resuscitato: e questo è stato certamente fatto. Quindi «se dio non esiste, allora tutto è proibito» non significa che, per sostenere il nostro desiderio, abbiamo bisogno di qualcosa come dio (anche se è solo nella sua forma irreli-giosa più neutrale, come soggetto che dovrebbe sapere)? Come combinare questo con l’affermazione di Lacan secondo cui l’ateismo è l’apice dell’esperienza psicoanalitica? L’unica via d’uscita è la frase di Lacan secondo cui il nome del Padre non deve essere abolito, bensì utilizzato? Per di più, qualcosa di analogo non vale per il (futuro) passaggio alla Singolarità? Questo passaggio non comporta che, in un certo senso, il Simbolico cadrà nel Reale uccidendo così il desiderio (umano)? Dunque non ci troviamo qui anche di fronte all’alternativa tra il compiere questo passaggio e il rischio così di perdere tutto, o (paralle-lamente all’ultimo Lacan) l’astenercene restando fedeli alla sfera delle finzioni simboliche? Non dovrebbe quindi il «non entrare nella Singolarità» essere elevato a una nuova versione del divieto d’incesto? Ciò che questo inoltre comporta – lungi 93

Hegel e il cervello postumano dal rappresentare un passo nella dimensione divina (come sostengono i lettori new age della Singolarità) – è dunque che il passaggio alla Singolarità ne comporterebbe la perdita, l’abolizione di ogni trascendenza, la totale volgarizzazione/appiat-timento della nostra esistenza? Johnston legge la soluzione di Lacan come una fuga nella perversione, in un gioco trasgres-sivo perverso: tu poni il Grande Altro per violarlo/ucciderlo, dando come implicito che prima della sua morte fosse vivo/ pieno/non barrato: La paradossale condizione del cristianesimo come religione dell’ateismo – una condizione in cui Lacan si unisce a tutti, da Hegel a Žižek, nell’assegnare a questo monoteismo – è parte integrante di ciò che lo rende perverso nel senso più stretto delle considerazioni di Lacan. Il pervertito lacaniano gioca una doppia partita. Da un lato, rileva – almeno inconsciamente – il significante dell’Altro barrato, S(Ⱥ), vale a dire, le indicazioni che non esiste un locus di onniscienza, onnipotenza, perfezione e simili. D’altro canto, il pervertito si accinge ripetutamente, in reazione a questa registrazione di S(Ⱥ), a cercare in più modi di rintonacare le crepe di Le Grand Autre (cioè, «tappare il buco nell’Altro»). Come religione dell’ateismo, il cristianesimo rivela contemporaneamente che le grand Autre n’existe pas («Padre, perché mi hai abbandonato?» ecc.) e nasconde questa rivelazione in vari modi (negando la morte di Dio, deificando/feticizzando Gesù come Cristo-il-Dio, e così via). La chiave di questo paradosso è fornita da un passaggio nel seminario di Lacan Encore, in cui afferma che il trucco del divieto di incesto è quello di presentare un’impossibilità immanente come risultato di un divieto (in definitiva esterno): come 94 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca se – qualora la madre non fosse vietata – fosse possibile godere appieno dell’incesto.7 La proibizione dà così origine all’illusoria speranza che, se lo violiamo, potremo ottenere la Cosa: semplificando, il fatto che la madre sia proibita già

maschera il fatto che la madre stessa non è la Madre/Cosa. Gli uomini eterosessuali scelgono le donne come sostituti della madre per confondere il fatto che la madre stessa non è Madre. Quindi sembra che, nel suo ultimo periodo, Lacan stesso accetti questo gioco: per sopravvivere abbiamo bisogno di finzioni e illusioni. Perciò, anziché seguire la via del tentato raggiungimento del Reale puro (oltre il Simbolico-immaginario) attraverso la formalizzazione e/o il mormorio della lalangue, egli riafferma la dimensione del simbolico/immaginario – le sue finzioni e menzogne –, come inevitabile. Per questo motivo il focus sul Reale nel tardo Lacan non è la sua ultima parola, e dovremmo tracciare «una netta distinzione tra il tardo Lacan e l’ultimo Lacan»: l’ultimo Lacan, nei suoi seminari XXIV e XXV ( L’insu que sait de l’une-bévue, s’aile à mourre [1976-1977] e Le moment de conclure [1977-1978]), abbandona autocriticamente gran parte di ciò che aveva per-seguito durante il periodo successivo del suo insegnamento dagli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta [...] a partire dal 1976, Lacan pone fine al regno del mathema, vale a dire, la ricerca di un’analisi purgata di significato attraverso formalizzazioni in stile matematico che si basano su un Reale insensato [...] l’ultimo Lacan opta invece per un trattamento anti-riduttivo di senso dichiaratamente ispirato al materialismo marxiano. I significati della realtà immaginario-simbolica derivano da – ma poi diventano relativamente autonomi in relazione a – un Reale senza significato che a sua volta viene influenzato e perturbato da questi stessi significati.8 95 Hegel e il cervello postumano Johnston descrive correttamente lo spostamento che si verifica nell’ultimo Lacan; ciò che si dovrebbe aggiungere è che in questo finale non andrebbe letto troppo. Non è un trionfo conclusivo del pensiero di Lacan, piuttosto l’ammissione di uno stallo. Tantomeno un risultato positivo: il parallelismo con il materialismo storico (la relazione «non riduzionista» tra

l’«infrastruttura» del Reale e la «sovrastruttura» dell’ImmaginarioSimbolico) è piuttosto triste. Il compito rimane: come pensare al taglio nel Reale che squarcia lo spazio per l’avvento dell’immaginariosimbolico? Qui bisognerebbe essere molto chiari: l’ammissione finale del fallimento di Lacan è anche il fallimento della sua posizione «antifilosofica», è il risultato della sua riluttanza a pensare attraverso le implicazioni filosofiche della sua teoria. Ragion per cui dovremmo tornare impavidi alla filosofia e, nel concreto, a Hegel, giacché proprio questo è il problema chiave con cui anche Hegel si scontra: perché è necessaria la deviazione attraverso le illusioni? Dovremmo forse spiegarla come un gioco cinico dell’Assoluto con sé stesso? A volte, Hegel formula efficacemente le cose in modo ingannevole, come se l’Idea assoluta giocasse con sé stessa, si esternasse e poi superasse questa esternalizzazione; e, significativamente, qui Hegel usa persino il verbo «godere» ( genießen), come nell’ultima frase della sua Enciclopedia: «L’Idea eterna essente-in-sé-e-per-sé si attiva, si produce e gode di sé stessa eternamente come Spirito assoluto». 9 Cadiamo nella perversione solo se accettiamo che esiste un Assoluto che fa dei giochi (auto)trasgressivi per svagarsi. Di conseguenza, l’intera configurazione deve essere respinta in toto, si basa sulla lettura cinica di les non-dupes errent: devi stare al gioco per esserne ingannato, anche se sai che non è vero. Tuttavia, la formula les non-dupes errent dice qualcosa di diverso: se non sei ingannato ti sbagli, non solo 96 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca pragmaticamente (abbiamo bisogno di illusioni per sostenere il nostro desiderio) ma effettivamente, per quanto riguarda la verità stessa. Stare soltanto al gioco senza prenderlo sul serio non è la via d’uscita. Ma qual è allora la via d’uscita? Dobbiamo accettare che nessuna delle tre soluzioni funzioni: 1) dovremmo mirare al Reale e cercare di lasciarci alle spalle le illusioni; 2) pur sapendo che le illusioni sono

proprio questo, dovremmo «farne uso» per sostenere il nostro desiderio ed evitare il punto morto della depressione; 3) dovremmo accettare il fatto che tutto ciò che esiste è una trama incoerente di illusioni, che la massima illusione è l’idea stessa di un reale al di là delle illusioni, e dovremmo giocare spensieratamente con questa trama di illusioni. Esiste una quarta soluzione: il Reale non è esterno, al di fuori della trama Immaginario/Simbolica delle finzioni, di questa trama è l’immanente impossibilità: le illusioni circolano attorno a un Reale impossibile che non ha uno status sostanziale al di fuori della trama delle illusioni. In altre parole, il Reale non è un nucleo difficile e inaccessibile di realtà attorno al quale galleggiano finzioni simbolico/immaginarie che ci pro-teggono dal tocco diretto del Reale; il Reale è un punto di riferimento puramente virtuale (e in questo senso fittizio) attorno al quale costruiamo diverse versioni della realtà. Una volta aval-lata appieno questa nozione di Reale, non abbiamo più bisogno del cinico ricorso alla ragnatela delle illusioni per sostenere il nostro desiderio: la tensione che definisce il desiderio è già operativa nel Reale «puro» che non è un puro caos al di fuori del Simbolico, bensì l’immanente impossibilità del Simbolico. È per questo che la nozione di Lacan del nodo borromeo che lega indissolubilmente le tre dimensioni del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario non può essere la risposta definitiva alla domanda su com’è strutturata la realtà: il Simbolico e l’Im-97 Hegel e il cervello postumano maginario non fanno parte della definitiva realtà ontologica. La domanda da affrontare qui è: come debba essere strutturato il reale pre-umano in sé in modo che il Simbolico e l’Immaginario vi possano sorgere. E, ancora una volta, se Lacan viene colto in una situazione di stallo non è perché sia rimasto troppo all’interno della filosofia, ma perché non si è spinto abbastanza lontano nella riflessione filosofica: la sua nozione del Reale rimane ossessionata dall’idea ingenua del Reale come un’Alterità sostanziale che sfugge alla simbolizzazione. Lacan non è riuscito a trarre tutte le conseguenze dal fatto che il Reale è

assolutamente inerente al Simbolico, il suo immanente stallo/impossibilità. Questo è il motivo per cui «l’ateismo cristiano» non implica la posizione cinica di «far uso» della finzione religiosa o di giocare con dio, anche se sappiamo che è un’illusione: non è questo che intende Lacan quando afferma che i teologi sono gli unici veri materialisti. Ciò che afferma è che il Reale (nel senso più materialistico) può essere scorto solo nelle crepe/contraddizioni degli edifici teologici poiché da queste crepe è costituito, perché è insito solo in esse. Qui non c’è alcun gioco ironico o cinico, nessun «siamo veramente materialisti, ma giocheremo con le finzioni religiose per dimostrare la nostra posizione». Quando Lacan dice che Dieu est inconscient, è l’affermazione più anti-junghiana immaginabile. Non significa che la divinità sia la sfera dei nostri profondi archetipi psichici inconsci; laddove Lacan abbrevia « inconscient» con «ics», che evoca anche « inconsistant», contraddittorio, e nella misura in cui la contraddizione logica è per lui la caratteristica distintiva della materia-lità, la contraddittorietà divina è l’unica via al materialismo: «gli dei sono del reale» e il Reale è accessibile solo attraverso la contraddizione divina. Qualsiasi materialismo «diretto» cade nella trappola dell’ontologia. 98 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca E lo stesso non vale per la Singolarità? Si può ragionare a favore della lettura cinica della Singolarità: per non sof-focarsi nel suo spazio collettivo di esperienze direttamente condivise, i soggetti «faranno uso» dell’illusione della nostra interattività ordinaria come individui liberi e giocheranno a perseverare nella nostra ordinaria realtà come se fosse quella vera. Qui ci imbattiamo nella stessa ambiguità di quella che si incontra

verso la fine di Matrix: nell’ultima scena del film, Neo annuncia la liberazione dell’umanità da Matrix, ma lo stato di questa liberazione è ambiguo. Come risultato dell’intervento di Neo, in Matrix c’è un « errore di sistema»; allo stesso tempo, Neo si rivolge alle persone ancora prigioniere di Matrix come il Salvatore che insegnerà loro come liberarsi dai vincoli di questa: saranno in grado di infrangere le leggi fisiche, di piegare i metalli, volare... Tuttavia, il problema è che tutti questi «miracoli» sono possibili solo se rimaniamo all’interno della Realtà Virtuale sostenuta da Matrix e semplicemente pieghiamo o cambiamo le sue regole: il nostro status «reale» è ancora quello degli schiavi di Matrix, noi stiamo, per così dire, semplicemente guadagnando altri poteri per cambiare le regole della nostra prigione mentale. Perché Neo non propone di uscire del tutto da Matrix ed entrare nella realtà ordinaria in cui siamo miserabili creature che vivono sulla superficie terrestre distrutta? Perché, come ha appreso da Morpheus, questa miserabile realtà non è il Reale. Matrix è, naturalmente, una metafora di ciò che Lacan chiamava il «grande Altro», l’ordine simbolico virtuale, la rete che struttura la realtà per noi. Questa dimensione del «grande Altro» è quella dell’alienazione costitutiva del soggetto nell’ordine simbolico: il Grande Altro tira i fili, il soggetto non parla, «è parlato» dalla struttura simbolica. Il paradosso, il «giudizio infinito» di Matrix è la co-dipendenza 99 Hegel e il cervello postumano dei due aspetti: l’artificialità totale (la natura costruita) della realtà, e il ritorno trionfante del corpo nel senso delle lotte al rallentatore e delle sfide alle leggi della realtà fisica ordinaria a passo di danza. Sorprendentemente, Matrix è molto più preciso di quanto ci si aspetterebbe riguardo alla distinzione tra il Reale e la realtà: il famoso «Benvenuto nel deserto del reale!» di Morpheus non si riferisce al mondo reale al di fuori di Matrix, ma all’universo digitale puramente formale di Matrix stessa. Quando Morpheus mette Neo di fronte all’immagine delle rovine di Chicago, dice semplicemente «È

questo il mondo reale!», cioè quel che è rimasto della nostra realtà fuori da Matrix dopo la catastrofe, mentre il «deserto del reale» si riferisce al grigiore dell’universo digitale puramente formale che genera la falsa «ricchezza di esperienza» degli umani catturati in Matrix. La soluzione non è dunque quella di distruggere il grande Altro, ma la controparte di Lacan dell’alienazione, la separazione. In termini lacaniani, separazione significa forse ciò che Neo sembra predicare alla fine del film, un «saper fare», facendo uso di Matrix anziché esserne alienati? È questo che Lacan stesso intende per separazione? No: separazione significa principalmente la separazione del grande Altro da sé stesso e la nostra posizione (di soggetti) in questo divario che separa l’Altro da sé stesso. Come abbiamo già visto a proposito del cristianesimo, significa che il divario che ci separa da dio è quello che separa dio da sé stesso. Nessuno – né noi né dio – può godere qui della posizione di cinico manipolatore; semmai, separazione significa che l’intera costellazione è completamente contraddittoria e caotica poiché non esiste un’entità di controllo superiore che tiri segretamente i fili. La stessa operazione può essere eseguita per quanto riguarda la Singolarità? Il nostro punto di partenza qui dovrebbe 100 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca essere l’immanente contraddizione della Singolarità stessa? Perché immaginiamo automaticamente il passaggio alla Singolarità come la nostra immersione in un vasto campo singolare? Perché non dovrebbe essere un dominio di spazi in conflitto e incoerente? Se è, ovviamente, troppo presto per speculare sulle Singolarità in conflitto, dovremmo almeno prendere in considerazione la possibilità di livelli contraddittori e contrastanti di esperienze condivise che trasporranno il conflitto tra individui in un conflitto tra forme di esperienza collettiva diretta. Forse è così che possiamo

superare la nostra alienazione nella Singolarità con la separazione: con l’aprirci alle immanenti contraddizioni e ai conflitti che attraversano la Singolarità stessa. La separazione non è quindi di nuovo il gioco cinico in cui il soggetto, esentato dalla Singolarità, gioca selettivamente con le sue diverse parti. (Si ricordi la descrizione di Musk di come si sarà in grado di collegare o scollegare il nostro cervello dallo spazio delle esperienze condivise: in contrasto con questa descrizione, dovremmo sottolineare che, se immersi nella Singolarità, non ne saremo in massima parte nemmeno consapevole). Separazione significa che, mentre sono ancora esposto allo spazio della Singolarità, mi rendo conto che la Singolarità non è un agente singolare che controlla il gioco, ma uno spazio incoerente attraversato da contraddizioni, pieno di glitch. Cantor rivoluzionò la matematica sfatando il mito idealistico di un singolo Infinito e introducendo l’argomento materialistico di multipli infiniti inconsistenti. (Da devoto cattolico, cercò disperatamente di annullare il danno che aveva inflitto all’idea religiosa dell’Uno divino infinito, immaginando un Uno infinito non quantitativo che comprendesse la moltitudine di infiniti numerici). Forse dovremmo fare oggi una cosa simile con la Singolarità; per sfatare la nozione di Singolarità come nuova forma divina e introdurre molteplici Singolarità incon-101 Hegel e il cervello postumano sistenti e contrastanti. Al posto del grande disegno della Singolarità quindi, è molto più realistico considerare la produzione di particolari tipi di «postumani» per dei compiti specifici: i soldati che possono sopportare lunghe e faticose battaglie sono – per quanto ne sappiamo – già stati «prodotti». Torniamo per un momento alla succitata prospettiva di un’esperienza sessuale condivisa: la sua versione perversa non sarebbe quella di farlo con qualcuno lontano (un/un’ amico/a intimo/a mi permette di condividere la sua esperienza mentre fa l’amore), ma condividere

l’esperienza con il/la partner mentre lo stiamo facendo. Esperire immediatamente gli effetti della mia attività sessuale sul/la mio/a partner: non equivarrebbe a una versione sessualizzata dell’identità soggetto-oggetto? Questo esempio ci pone di fronte al tema della condivisione di esperienze che possono essere in conflitto tra loro. Immaginiamo un caso assai peggiore. Sono un sadico in grado di condividere l’esperienza della persona che sto torturando: sarò in grado di integrare questa esperienza nella mia e di usarla come fonte ag-giuntiva del mio piacere perverso («ottimo, posso sentire come sta soffrendo la mia vittima!»), oppure lo scontro delle due esperienze porterà a una sorta di crollo psichico? Questo tipo di sovrapposizione di esperienze multiple è simile a ciò che la fisica quantistica chiama sovrapposizione (che è possibile solo nello spazio virtuale delle oscillazioni quantistiche): non può accadere nella nostra realtà (allo stesso modo in cui il famigerato gatto di Schrödinger non può essere allo stesso tempo vivo e morto nella nostra realtà). Ma cosa succede se la Singolarità non sarà modellata su una singola autocoscienza? E se fosse uno spazio frammen-tario aperto a una pluralità di esperienze diverse, incoerenti, persino «contraddittorie»? Si ricordi l’ambigua posizione dell’adolescente nei confronti di suo padre: cosa succederebbe 102 4. sIngoLarItà: La svoLta gnostIca se la Singolarità fosse in grado non solo di contenere l’odio e l’amore a fianco a fianco, ma di registrare il loro conflitto in quanto tale? Tornando al nostro esempio di esperienza sessuale condivisa con il mio partner, cosa succederebbe se mi permet-tesse di provare il piacere di uno e la sofferenza dell’altro nello stesso modo in cui, nei momenti di godimento intenso, provo non solo piacere e dolore ma piacere nel mio dolore? Se abbiamo a che fare con la sovrapposizione di esperienze multiple che non possono essere sommate in un Uno estatico, ciò significa che non esiste una singola Singolarità, ma una trama incoerente di esperienze condivise che, per ragioni strutturali, devono sempre essere limitate: se questi limiti vengono portati all’eccesso, la mia esperienza condivisa esplode in un incubo.

Questo ci riporta alla questione del potere: quale meccanismo normativo deciderà quali esperienze condividerò con gli altri e chi controllerà questo meccanismo? Due cose sono certe: si dovrebbe scartare come utopistica l’idea che sarò io stesso in grado di connettere/disconnettere il mio cervello, e accettare pienamente il fatto che un ampio legame onnicomprensivo tra le menti non possa avvenire a livello di esperienza soggettiva ma solo a livello oggettivo, come una complessa rete di macchine che «leggono» i miei stati mentali: quello di una vasta esperienza collettiva «sincrona» è un mito pericoloso. 103 Capitolo quinto La Caduta che ci rende simili a Dio La nostra conclusione è quindi che la Singolarità non possa mantenere la sua promessa teologica di redimerci dalla Caduta: potrebbe succedere che nella postumanità ci sposteremo in un’altra dimensione in cui non saremo più «caduti», vincolati alla nostra finitezza, ma ciò non significa che saremo redenti nel senso di ricongiunti a una dimensione vissuta come divina. E tantomeno vuol dire che il tema della teologia debba essere in secondo piano: la nozione di Caduta merita un esame più approfondito. Abbiamo già visto come su questo punto il Platonov maturo si sia dato per vinto, e la sua nozione di toská può essere riassunta come la consapevolezza della Caduta nel senso biblico del duro lavoro, della gravidanza... In breve, ciò che Platonov chiama vita laboriosa: conosciamo tutti la descrizione del terzo capitolo della Genesi: Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete

toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vo-104 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo stri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?» Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?» Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Dopo aver maledetto il serpente, dio si rivolge alla donna: Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gra-vidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» 105

Hegel e il cervello postumano È stato scritto abbastanza sui paradossi contenuti in queste righe, specialmente su quello più ovvio: perché dio ha sottomesso Adamo ed Eva a quella che è effettivamente una scelta forzata? Ecco la versione di questo paradosso di Stephen Greenblatt, che menziona persino Musk: Gli antichi commentatori si sono ripetutamente chiesti come mai il Dio nella storia – dopo aver comandato ad Adamo ed Eva di non mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male – non abbia fatto di più per impedire loro il disastroso atto di disobbedienza. A dire il vero, il Crea tore li aveva avvertiti che la morte avrebbe seguito qualsiasi violazione del suo divieto, ma come avrebbero potuto i primi umani capire cosa significava morire? Perché l’albero si trovava in mezzo al giardino e non era stato nascosto, come facciamo con il veleno (o le scorie nucleari)? E come avrebbero potuto mai gli umani – nella loro innocenza edenica – comprendere il significato morale di ciò che stavano facendo prima di aver acquisito la conoscenza del bene e del male? Adamo ed Eva avevano una conoscenza evidentemente insufficiente delle conseguenze a lungo termine delle loro azioni, e Dio, che avrebbe potuto impiantare in loro questa conoscenza molto più facilmente del chip proposto da Elon Musk, scelse evidentemente di non farlo.1 Più importante per il nostro scopo è il paradosso della conoscenza: il serpente dice a Eva che dopo aver mangiato la mela dall’albero proibito «diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» e, come nota Hegel, il serpente non mente: dio lo conferma immediatamente commentando che Adamo ed Eva sono ora «come uno di noi» (tralasciamo qui questo misterioso plurale). Quindi come può, il mangiare la mela che 106 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo porta conoscenza e divinità, gettare i primi umani nella miseria della vita mortale e dell’ignoranza? La spiegazione standard è ovviamente che, imponendo loro una scelta difficile, così a senso unico, dio stia concedendo ai primi umani la loro libertà col renderli consapevoli della loro responsabilità di

scelta tra il bene e il male. Anche la limitazione della conoscenza serve a questo scopo: se la nostra conoscenza è perfetta, se tutti i dettagli della situazione sono chiaramente presenti nella nostra mente, la scelta è facile; ma ciò che rende una scelta morale difficile è proprio che dobbiamo decidere in una situazione confusa in cui l’intero peso della decisione grava su di noi... Nel seguito del passaggio citato, Greenblatt dà una versione sintetica di questo argomento: Praticamente tutti i primi interpreti concordarono sul fatto che il Creatore non volesse compromettere la natura essenziale degli umani togliendo loro la libertà di scegliere, anche se quella libertà era la fonte di così tanti problemi e miserie. Se Adamo ed Eva fossero stati a conoscenza di tutto ciò che sarebbe seguito dalle loro azioni, se avessero potuto fare calcoli inconcepibilmente vasti che avrebbero dato loro, nelle parole di Shakespeare, «il futuro nell’istante», avrebbero potuto evitare il loro catastrofico errore, ma il prezzo – suggerisce la storia della Genesi – sarebbe stato la loro umanità... Non è una celebrazione dell’ignoranza o della inettitudine. C’era, in ogni caso, un avvertimento esplicito, per quanto difficile avrebbe potuto essere per i primi umani interpretarlo correttamente, e le conseguenze della scelta fatale erano manifestamente terri-bili. Ma la Bibbia non rappresenta gli umani né come automi – gli schiavi di Dio – né come saggi miracolosi, dotati di tutta la conoscenza di cui hanno bisogno per prendere decisioni inevitabilmente corrette. 2 107 Hegel e il cervello postumano Tuttavia, l’enigma centrale resta: in che modo preciso la moralità (conoscere la differenza tra il bene e il male e agire in base a essa) comporta l’ignoranza (o, almeno, una limitazione radicale della nostra conoscenza)? Il filosofo che ha affrontato questo problema e fornito l’unica risposta conseguente è stato Kant.

Quando Kant afferma di aver ridotto la sfera della conoscenza per fare spazio alla fede religiosa, deve essere preso letteralmente, in modo radicalmente anti-spinoziano: dal punto di vista kantiano, la posizione di Spinoza appare come una visione da incubo di soggetti ridotti allo stato di marionette. Cosa significa esattamente una marionetta come posizione soggettiva? In Kant, troviamo il termine «marionetta» in un misterioso sottocapitolo della sua Critica della ragione pratica intitolato «Del saggio adattamento delle facoltà cognitive dell’uomo alla sua vocazione pratica», in cui tenta di rispondere alla domanda su cosa ci succederebbe se do-vessimo accedere alla sfera del noumenico, al Ding an sich: Ma, in luogo della lotta che ora l’intenzione morale deve condurre con le inclinazioni – nella quale, dopo alcune sconfitte, può pure trovare incremento la forza morale dell’anima –, Dio e l’eternità ci starebbero incessantemente davanti agli occhi, nella loro imponente maestà [...] ne verrebbe che la maggior parte delle azioni conformi alla legge verrebbero compiute per paura, poche per speranza, e assolutamente nessuna per dovere: sicché non esisterebbe punto un valore morale delle azioni, al quale pure si riduce, agli occhi della suprema saggezza, il valore della persona e del mondo stesso. Il comportamento dell’uomo, finché la sua natura rimanesse quella che attualmente è, si trasformerebbe, dunque, in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutti i gesti sarebbero compiuti bene, ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna.3 108 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo Quindi, per Kant, l’accesso diretto alla sfera del noumenico ci priverebbe della stessa «spontaneità» che costituisce il noc-ciolo della libertà trascendentale: ci trasformerebbe in automi senza vita o, per dirla in termini odierni, in «macchine pensanti». E non è forse questo a essere, in fin dei conti, offerto come realizzabile nella prospettiva della Singolarità? La prospettiva del Neuralink non va rifiutata come l’ennesimo progetto di ricerca scientifica «ontica», senza alcun interesse filosofico autentico,

poiché offre qualcosa di effettivamente nuovo e senza precedenti che sfida il nostro status di essere-umani: la prospettiva di un superamento fattuale (empirico) della nostra finitezza/sessualità/integrazione nel simbolico. L’ingresso in quest’altra dimensione della Singolarità diventa un semplice fatto positivo, non una questione di sublime esperienza interiore. Che cosa significa per la condizione della nostra soggettività e per la nostra esperienza di noi stessi? Possiamo immaginare nello spazio della Singolarità una forma di autocoscienza che sia al livello di un non-ego fluttuante nello spazio della Singolarità? Nella misura in cui non esisto più nella Singolarità come un io singolo, una possibilità è quella di tracciare un parallelo tra il destino dell’io nella Singolarità e l’illuminazione buddista in cui l’io assume direttamente il proprio non-essere da un punto di vista esperienziale. Una simile consapevolezza illuminata non è più autocoscienza: non sono più io che sperimento me stesso come agente dei miei pensieri, la «mia» consapevolezza è la consapevolezza diretta di un sistema privo di ego, una conoscenza senza ego. Tuttavia, c’è una differenza tra l’illuminazione buddista e la Singolarità: nella Singolarità, non acquisisco una distanza verso i miei sentimenti e altre esperienze, non mi identifico con il Vuoto che è la verità delle ap-parenze; al contrario, mi immergo completamente nello spazio condiviso di sentimenti e altre esperienze. 109 Hegel e il cervello postumano C’è una preoccupazione più fondamentale riguardo alla questione del destino della soggettività nella Singolarità. Il nucleo più interiore della soggettività è insito in un atto unico di ciò che Fichte ha battezzato «autoponentesi»: ogni soggetto è un punto di assoluta autonomia, il che significa che non può essere ridotto a un momento nella rete di cause ed effetti. In un atto di autorelazione che Hegel ha descritto come «contraccolpo assoluto», deve «porre» retroattivamente le cause stesse della sua esistenza. Questo circolo chiuso autoreferenziale del contraccolpo assoluto, in cui la causa è un effetto retroattivo dei suoi effetti, è quindi effettivamente una sorta di realizzazione della nota battuta, già

citata nel primo capitolo, sul ca-varsela da soli della storia del barone di Münchhausen, che si estrasse con tutto il cavallo fuori dalla palude in cui stava annegando tirandosi su per i propri capelli. Nella realtà naturale una cosa simile è ovviamente impossibile, un paradosso senza senso, uno scherzo; tuttavia, nel dominio dello spirito non solo può accadere, è anche la caratteristica che lo definisce. La base materiale di questo ciclo che si autopone rimane, ovviamente: «Non c’è spirito senza materia», se distruggiamo il corpo, lo spirito svanisce. Tuttavia, l’autoporsi dello spirito non è solo una sorta di «illusione dell’utente»; ha una sua propria attualità, con effetti reali. È in questo senso che Lacan afferma che, al termine del trattamento analitico, il soggetto è pronto a concepirsi come causa sui, la sua stessa causa: la causa di un soggetto non è, ovviamente, un oggetto nella realtà ma un objet a, l’oggetto-causa del desiderio che non ha una realtà sostanziale: è una X puramente virtuale che dà semplicemente corpo al vuoto del desiderio. Nella nostra vita quotidiana di desiderio, feti-cizziamo/reifichiamo l’ objet a, cioè lo trattiamo come una vera causa preesistente del nostro desiderio; alla fine della terapia, 110 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo il soggetto si rende conto che la sua causa è il suo (presup) porsi, retroattivamente posto dal soggetto stesso come suo effetto: qui si attualizza il paradosso del contraccolpo assoluto, il cerchio si chiude, l’effetto si pone da solo come causa. Per un propugnatore della cosiddetta «teoria materialistica della soggettività» (che insiste sul soggetto come effetto di un processo materiale presoggettivo, un processo che non può essere ridotto all’automediazione del soggetto), questa chiusura del cerchio è l’illusione idealistica di base dell’autocausalità, l’illusione che confonde il processo decentralizzato da cui emerge un soggetto. Tuttavia, da un rigido punto di vista lacaniano-hegeliano, quest’autocausazione non è solo un’illusione speculativo-idealistica; indica un taglio, un’interruzione, nel reale stesso. L’autoporsi del soggetto è «idealistico» solo se defi-niamo la realtà come una trama

completa di cause ed effetti, senza lacune o tagli. È per questo che Nietzsche sbagliava due volte nel suo riferimento sprezzante a Münchhausen in Al di là del bene e del male: Il desiderio del «libero volere», [...] il desiderio di portare in sé stessi l’intera e ultima responsabilità per le proprie azioni [...] equivale infatti a [...] tirare per i capelli sé stessi dalla palude del nulla all’esistenza ( aus dem Sumpf des Nichts).4 Ciò che qui Nietzsche rifiuta è l’autoporsi che nell’idealismo tedesco definisce il soggetto, e siamo convinti che si possa interpretare quest’atto di autoporsi anche in modo materialistico, benché ciò abbia delle conseguenze piuttosto pa-radossali. Facciamo un esempio recente: la notizia sui media che Raphael Samuel, un cittadino indiano, ha dichiarato che avrebbe fatto causa ai suoi genitori per averlo fatto nascere. In una magnifica dimostrazione di ciò che Anders «chiama 111 Hegel e il cervello postumano vergogna prometeica» – la vergogna di essere nati, gettati nel mondo e non autoprodotti – Samuel sta dicendo a tutti, specialmente ai bambini indiani, che ai loro genitori non devono nulla; e sostiene, inoltre, che è sbagliato mettere un bambino in istituti come scuola e mercato del lavoro senza il suo consenso.5 Non dovremmo rifiutare come ridicola la denuncia di Samuel: contiene una profonda intuizione, bisogna solo evitare la confusione tra i livelli empirico e trascendentale. Empiricamente, sono senz’altro «gettato nel mondo»: non scelgo il mio corpo, la cultura in cui sono educato da bambino ecc. Nondimeno, perché diventi un io, dev’esserci un atto trascendente di autoporsi, cioè devo assumere la mia soggettività in modo minimamente attivo e la domanda è: può quest’atto «assoluto» sopravvivere all’immersione nella Singolarità? Di recente ho letto una notizia sugli individui transgender in un quotidiano sloveno, il cui titolo

riproduce esattamente lo stesso paradosso: Finalmente vivo in un corpo in cui volevo nascere: come se, prima della mia nascita, avessi già scelto la mia identità di genere e il destino biologico non avesse rispettato la mia scelta... Questa nozione di riflessività inconscia risolve anche il problema del regresso senza fine nel fondare un ordine normativo (a quali regole obbediamo per fondare il nostro obbedire alle regole?) o autocoscienza (quando sono consapevole della mia coscienza, sono anche consapevole del mio essere consapevole della mia coscienza ecc., all’infinito). La soluzione non è quella fichtiana (nell’Io assoluto, il porsi e l’essere-posti coincidono, io mi pongo come ponente), benché a essa strettamente omologa. La soluzione è che questo atto di autoporsi – l’atto attraverso il quale, come afferma Lacan, il soggetto agisce come causa propria – è sempre inconscio: già presupposto dall’ego cosciente. Hegel definì questo cerchio autoponentesi come «contraccolpo assoluto»: gli effetti di una causa producono re-112 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo troattivamente la propria causa. Ciò che caratterizza quest’autoporsi «materialistico» è che, contrariamente all’autoporsi «idealistico» di Fichte, ha la struttura di un insuccesso che può essere meglio illustrato dal circuito della rappresentazione simbolica: un soggetto si sforza di rappresentare adeguatamente sé stesso, questa rappresentazione naufraga e il soggetto è il risultato di questo insuccesso. Si ricordi il già citato «paradosso-di-Hugh Grant»: il protagonista cerca di articolare il suo amore per l’amata, s’impappina in ripetizioni stentate e confuse, ed è proprio questo non riuscire a trasmettere il suo messaggio d’amore in un modo perfetto che ne attesta l’autenticità... Il soggetto non è quindi solo ghermito dalla riflessività del contraccolpo assoluto, non è altro che questa riflessività.

La nozione di un tale atto d’inconscio autoporsi non è solo una riflessione astratta: può aiutarci a risolvere una tensione nella forma dominante dell’ideologia LGBT +. Molti osservatori hanno notato una tensione nell’ideologia LGBT + tra co-struttivismo sociale e (qualche tipo di biologico) determinismo: se un individuo identificato biologicamente/percepito come uomo esperisce sé stesso nella sua economia psichica in quanto uomo, è considerato un costrutto sociale; ma se un individuo identificato biologicamente/percepito come un uomo sperimenta sé stesso come una donna, questo viene letto come un impulso, non un semplice costrutto arbitrario ma un’identità più profonda non negoziabile, che deve essere soddisfatta da un intervento di cambio del sesso se l’individuo lo richiede. I media sloveni hanno riferito che in una scuola superiore di Lubiana, un insegnante «progressista» ha organizzato una gita per portare gli alunni in una grande piscina e ha chiesto loro di travestirsi (ragazzi con reggiseni ecc.) Il punto ovvio di questo esperimento era di dimostrare ai ragazzi come l’identità di genere non sia un fatto biologico, bensì un costrutto di abitudini 113 Hegel e il cervello postumano sociali: ebbene, stento a pensare a un esperimento più stupido e spietato! S’immagini esserci tra gli alunni un ragazzo (biologico) che si identifica psichicamente come una ragazza: dubito che lui/lei proverebbe sollievo per il fatto di potersi vestire per un momento nel modo che sente più appropriato per la sua vera identità. Come se l’esperimento non gli ricordasse piuttosto che questa identità non è semplicemente il risultato di come si veste ecc., ma che la sua vita quotidiana è un traumatico tra-vestimento (una «ragazza» obbligata a vestirsi da ragazzo)! Allo stesso modo, agli asili nido in Norvegia è stato disposto che se un bambino viene visto giocare con le ragazze, questo orientamento debba essere incoraggiato, dovrebbe essere sti-molato a giocare con le bambole ecc., cosicché la sua eventuale identità psichica femminile possa articolarsi. La soluzione qui è piuttosto semplice: sì, l’identità sessuale psichica è una scelta, non un fatto biologico, ma

non è una scelta consapevole che il soggetto può ripetere e trasformare alla leggera. È una scelta inconscia che precede la costituzione soggettiva e che è, come tale, formativa della soggettività, il che significa che il cambiamento di questa scelta comporta la trasformazione radicale del portatore della scelta. In breve, questa scelta è un caso dell’atto inconscio di autoporsi. «Caduta» è il nome teologico per una scelta così inconscia, e «Caduta» designa la ferita (della separazione, della perdita costitutiva) che caratterizza il nostro essere umano come finito e sessuato. Musk (e altri fautori del Neuralink) vuole guarire letteralmente questa ferita: vuole colmare il divario, far sì che l’uomo si unisca a dio per renderlo simile a dio, cioè per fornirgli proprietà e capacità che noi (fino a ora) abbiamo esperito come «divine». A rendere questa possibilità propriamente traumatica è il suo girare attorno allo scarto che separa la nostra ordinaria esperienza quotidiana dalle sublimi speculazioni 114 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo sulla nostra vicinanza a dio. Quando qualcuno parla di esperire un’unità con dio, un realista gli dice di placarsi: «Non perderti nei tuoi sogni, ricorda che sei ancora radicato in questa miserabile realtà terrena!» Nella prospettiva della Singolarità invece, la risposta a questa visione «realista» è facile: «Siamo noi i veri realisti, possiamo fornire l’immortalità divina nella nostra realtà empirica, e sei tu in realtà a sognare, tu che ancora credi che la nostra mortalità materiale sia il massimo orizzonte del nostro essere e ti aggrappi alla vecchia nozione di realtà ignorando la grande svolta!» La nostra scommessa è che proprio a questo punto in cui Fichte e Hegel sembrano così fuori moda e non in sintonia con la nostra contemporaneità che dobbiamo farvi ritorno; e più precisamente all’interpretazione della Caduta di Hegel, se vogliamo andare oltre il semplice fascino per la prospettiva della Singolarità e pensare davvero a cosa stia succedendo. Come abbiamo già visto, (alcuni) sostenitori della Singolarità la leggono in modo hegeliano, come la

riconciliazione finale tra Mente e Realtà, come la guarigione della ferita della Caduta. Eppure, una tale lettura è, con l’interpretazione hegeliana della Caduta, del tutto incompatibile. Secondo la lettura tradizionale di Paolo, dio ha dato la Legge agli uomini per renderli consapevoli del loro peccato, per farli peccare addirittura di più, e renderli quindi consapevoli del loro bisogno di salvezza, che può avvenire solo attraverso la grazia divina; ebbene, non comporta una strana nozione perversa di dio questa lettura? L’unico modo per evitarla è insistere sull’identità assoluta dei due gesti: dio non ci spinge prima nel Peccato per creare il bisogno di Salvezza, e poi offrirsi come redentore dal travaglio in cui ci aveva cacciati all’inizio; non è che la Caduta è seguita dalla redenzione: la Caduta è identica alla redenzione, è «in sé» già redenzione. Ovverosia, che cos’ è la «redenzione»? L’esplosione 115 Hegel e il cervello postumano di libertà, lo spezzarsi dell’incatenamento naturale; ed è questo, precisamente, ciò che accade nella Caduta. Qui andrebbe ricordata la tensione centrale della nozione cristiana di Caduta: la Caduta («regressione» allo stato naturale, schiavitù delle passioni) è identica in senso stretto alla dimensione da cui cadiamo, ossia è il movimento stesso della caduta che crea, apre, ciò che in esso si perde. Conosciamo tutti il motivo di Wagner « Die Wunde schliesst der Speer nur der sie schlug» («chiude la ferita soltanto la lancia che l’ha aperta»), dal finale del suo Parsifal. Hegel dice la stessa cosa, sebbene con l’enfasi nella direzione opposta: lo Spirito è esso stesso la ferita che cerca di guarire, cioè la ferita è autoinflitta. Vale a dire, che cos’è lo «Spirito» nella sua forma più elementare? È la «ferita» della natura: il soggetto è l’im-menso – assoluto – potere della negatività d’introdurre uno scarto/taglio nell’unità sostanziale dataimmediata, il potere di differenziarsi, di «astrarre», di lacerare e trattare come a sé stante ciò che in realtà fa parte di un’unità organica. È per questo che la nozione di «autoalienazione» dello Spirito (dello Spirito che si perde nella sua alterità, nella sua oggettivizzazione, nel suo risultato) è più paradossale di quanto

possa apparire: dovrebbe essere letta insieme all’affermazione di Hegel del carattere del tutto non sostanziale dello Spirito: non esiste res cogitans, nessuna cosa che (come sua proprietà) pensi anche, lo spirito non è altro che il processo di superamento dell’immediatezza naturale, della coltura di questa immediatezza, del ritiro-in-sé-stesso o del «decollo» da essa, dell’alienarsi – perché no – da essa. Il paradosso è quindi che non esiste un io che preceda l’«autoalienazione» dello Spirito: il processo stesso di alienazione crea/genera l’«io» da cui lo Spirito è alienato e al quale poi ritorna (qui Hegel gira intorno alla nozione standard secondo cui una versione non riuscita di X presuppone que-116 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo sta X come norma (la misura): X viene creata – il suo spazio è delineato – solo attraverso i ripetuti insuccessi nel raggiun-gerla). L’autoalienazione dello spirito è la stessa di/coincide pienamente con la sua alienazione dal suo Altro (la natura), perché si costituisce attraverso il suo «ritorno a sé stessa» dalla sua immersione nell’Alterità naturale. In altre parole, il ritorno-asé-stesso dello Spirito crea la dimensione stessa alla quale ritorna. (Ciò vale per tutti i «ritorni alle origini»: quando, a partire dal XIX secolo, i nuovi Stati-nazione si stavano costi-tuendo nell’Europa centrale e orientale, erano la loro scoperta e il ritorno alle «vecchie radici etniche» a generare queste stesse radici). Ciò significa che la «negazione della negazione», il «ritorno-a-sé-stessi» dall’alienazione, non si verifica dove sembra: nella «negazione della negazione» la negatività dello Spirito non è relativizzata, sussunta in una positività omnicompren-siva; è, al contrario, la «semplice negazione» a rimanere attac-cata alla presunta positività che ha negata, alla supposta alterità dalla quale si aliena, e la «negazione della negazione» non è altro che la negazione del carattere sostanziale di questa Alterità stessa, la piena accettazione dell’abisso dello Spirito riflesso che pone retroattivamente tutti i suoi presupposti. In altre parole, una volta che siamo nella negatività, non la abbandoniamo mai e mai riguadagniamo la perduta innocenza delle Origini; è, al contrario, solo nella «negazione della negazione» che le Origini sono

veramente perse, che si perde la loro stessa perdita, che sono private del sostanziale status di ciò che è stato perso. Lo Spirito non guarisce la sua ferita curandola direttamente, ma liberandosi del Corpo stesso, pieno e sano in cui è stata incisa la ferita. È in questo preciso senso che, secondo Hegel, «le ferite dello spirito guariscono senza lasciar cicatrici»:6 il punto di Hegel non è che lo Spirito guarisca le sue ferite sì perfettamente che, in un gesto magico di superamento retroattivo, anche le 117 Hegel e il cervello postumano cicatrici scompaiano; è piuttosto che, nel corso di un processo dialettico, si verifica uno spostamento di prospettiva che fa apparire la ferita stessa come il suo opposto; percepita da un altro punto di vista, la stessa ferita è la propria guarigione. Nella sua forma più acuta, questa coincidenza degli opposti appare a proposito dell’autocoscienza, cioè del soggetto come pensiero: Essere cattivo significa astrattamente individualizzarmi; è l’individualizzazione che si separa dall’universale che è il razionale, le leggi, le determinazioni dello spirito. Ma solo con quella scissione inizia l’essere-per-sé e solo così inizia l’universale, lo spirituale, le leggi, ciò che deve essere. Non si tratta dunque di un rapporto esteriore con il male, ma la riflessione, la conoscenza stessa è il male. 7 E questo ci porta alla Genesi: la storia della Caduta non dice infatti esattamente la stessa cosa? Il serpente promette ad Adamo ed Eva che, mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, loro diventeranno come dio; una volta che i due l’hanno fatto, dio dice: «Guarda Adamo è divenuto come uno di noi» (Genesi 3,22). Il commento di Hegel è: «Le parole del serpente non erano dunque menzognere». Poi continua, rifiutando l’affermazione secondo cui ciò che dio dice è inteso con ironia: «La conoscenza è il principio della spiritualità, la quale però

[...] è anche il principio della guarigione dal danno della separazione. In questo principio della conoscenza è posto anche il principio della divinità». 8 È fondamentale seguire qui l’intera linea di argomentazione di Hegel e, senza lasciarsi sfuggire l’audacia del suo ragionamento, leggere questo passaggio insieme a quello in cui afferma che la conoscenza soggettiva non è solo la possibilità di scegliere il male o il bene: «Nell’atto della conoscenza, della coscienza, viene posto il male [...] il male sta 118 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo nel conoscere; la conoscenza è sorgente del male».9 In breve, a renderci divini è proprio la nostra caduta (nel Male) giacché pensare è allo stesso tempo male e riconciliazione. Qui Hegel è chiaro: pensare non solo spalanca la scelta tra Bene e Male, pensare è male in quanto tale poiché la riflessività che comporta lo fa operare a una distanza dall’unità sostanziale immediata: quando pensiamo, astraiamo, laceriamo l’unità dell’oggetto del pensiero. Allo stesso tempo, questa distanza riflessiva implicita nel pensiero comporta la libertà (nei nostri pensieri siamo liberi, almeno formalmente). È così che si dovrebbe comprendere il detto della Fenomenologia di Hegel secondo cui il Male è lo sguardo stesso che percepisce il Male ovunque intorno a sé: lo sguardo che vede il Male si esclude dall’Intero sociale che critica e questa esclusione è la caratteristica formale del Male. E la posizione di Hegel è che il Bene emerge come una possibilità e un dovere solo attraverso questa scelta primordiale/costitutiva del Male: sperimentiamo il Bene quando, dopo aver scelto il Male, diventiamo consapevoli della totale inadeguatezza della nostra situazione. Per quanto innovativa, bisogna dire che la lettura della Genesi di Hegel è insufficiente in rapporto a due argomenti (collegati), e la ragione non è che Hegel fosse troppo prigioniero della sua epoca per vedere la dimensione che non coglieva: assai più paradossalmente, in entrambi i casi, qui Hegel non è abbastanza hegeliano, non riesce a

dare un taglio propriamente hegeliano. In primo luogo, quando caratterizza una persona malvagia, Hegel riduce il male al momento della particola-rità nella sua opposizione all’universalità (egotismo naturale, comportamento egoistico...) Questo è il motivo per cui, come sottolinea Hegel, ogni figura coerente del Male deve mostrare alcune caratteristiche di Bontà. Come ci si aspetterebbe, Hegel menziona il Diavolo nel Paradiso perduto di Milton, che è 119 Hegel e il cervello postumano ovviamente una figura dal grande potere personale, impegnata in un progetto che vive come profondamente etico... Ma su questo punto non era molto più profondo Schelling (nelle sue Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana) quando decodificava nel Male una posizione di principio («non patologica» in senso kantiano) che, in quanto tale, è radicalmente spirituale? Il vero Male non ha nulla a che fare con un particolare egoismo e interessi egoistici, ma è un progetto spirituale positivo per il quale le persone sono pronte anche a sacrificare la propria vita (come fecero i nazisti per sterminare gli ebrei o i comunisti stalinisti devoti per schiacciare la resistenza trockista o dei kulaki). Se Hegel fosse pienamente coerente con il nucleo del suo stesso pensiero, dovrebbe anche dire che il Bene in sé non è altro che il Male universalizzato, un Male che conquista altri e acquisisce la posizione di universalità. E qui sta anche la critica di Hegel all’universalità astratta: per lui, i rivoluzionari francesi erano malvagi nel loro terrore proprio perché mette-vano i principi sopra ogni cosa e perseguivano spietatamente un’universalità che, alla fine, escludeva ogni contenuto particolare. Quando un determinato contenuto non si concilia con l’universalità, dunque, è ancora di più colpa dell’universalità «astratta». Per la maggior parte di noi è difficile ammettere pienamente perfino la possibilità di una carenza etica radicale, vale a dire l’accettare che ci siano delle persone davvero malvagie. Diceva Greta Thunberg ai leader mondiali riuniti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, nel

settembre 2019: «Ma non importa quanto sia triste e arrabbiata: non voglio crederci perché se davvero avete capito la situazione, pur continuando a non agire, sareste cattivi, cosa che mi rifiuto di credere». 10 Forse dovrebbe smettere di rifiutarsi di credere e semplicemente accettare che sono cattivi. 11 A volte viene il momento in cui si do120 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo vrebbe abbandonare la convinzione che i nostri avversari, per quanto sviati, rimangano pienamente umani perseguendo gli stessi obiettivi di tutti noi: e se avessimo invece a che fare con dei nemici veri, dei nemici veramente cattivi? Questo ci porta al secondo limite di Hegel, che per la nostra questione è ancora più importante. Quando Hegel caratterizza il Male come Entzweiung, separazione, autodivisione dell’Assoluto, ignora tranquillamente (nella sua lettura della Caduta) il fatto fondamentale che, quando l’Assoluto si oppone alla par-ticolarità «caduta», la vera colpa e responsabilità sono dell’Assoluto stesso. Per tornare alla storia della Caduta: ciò che Hegel avrebbe dovuto dire (poiché deriva chiaramente dalla logica interna del suo pensiero) è che in tutta questa faccenda il personaggio veramente malvagio è dio stesso che spinge i primi umani alla Caduta, e a peggiorare le cose ulteriormente è che – anziché farlo apertamente – se ne lavi per così dire le mani e presenti la Caduta come conseguenza di una «libera» decisione umana... Ecco perché il cristianesimo culmina nella crocifis-sione, una scena in cui la Entzweiung (che per Hegel definisce formalmente il Male) viene trasposta direttamente ed esplicitamente dalla divisione tra dio e gli esseri umani in dio stesso che (con la terrificante espressione di «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?») è diviso da sé stesso. La categoria da utilizzare a proposito di questo

spostamento del divario che ci separa da dio in un divario che separa dio da sé stesso è la disparità, un termine che occorre tre volte in un passaggio chiave della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove fornisce la spiegazione più concisa di cosa significhi concepire la Sostanza anche come Soggetto: La diseguaglianza, che ha luogo nella coscienza, tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è propriamente la loro diffe-121 Hegel e il cervello postumano renza, il negativo in generale. Il negativo può essere considerato come l’insufficienza di tutt’e due, ma è comunque la loro anima, ciò che li muove entrambi. Per questa ragione alcuni antichi concepirono il vuoto come motore, inten-dendo con ciò appunto il negativo, anche se non giunsero a determinare il negativo stesso come il Sé. Ora, se questo negativo appare in primo luogo come diseguaglianza dell’io e dell’oggetto, esso è altrettanto disuguaglianza della sostanza con sé stessa. Ciò che sembra accadere fuori di essa, ed essere persino un’attività diretta contro di essa, è infatti il suo proprio agire, ed è in tal modo che la sostanza mostrami di essere essenzialmente soggetto.12 Fondamentale è qui l’inversione finale: la disparità tra soggetto e sostanza è contemporaneamente la disparità della sostanza con sé stessa; o, per dirla nei termini di Lacan, la disparità significa che la mancanza del soggetto è contemporaneamente mancanza nell’Altro: la soggettività emerge quando la sostanza non può raggiungere la piena identità con sé stessa, quando la sostanza è in sé «barrata», attraversata da un’immanente impossibilità o antagonismo. In breve, l’ignoranza epistemologica del soggetto, la sua incapacità di cogliere appieno l’opposto contenuto sostanziale, indica simultaneamente una limitazione/insuccesso/mancanza del contenuto sostanziale stesso. E in ciò sta anche la dimensione chiave della rivoluzione teologica del cristianesimo: l’alienazione dell’uomo da dio deve essere riproiettata/ri-trasferita in dio stesso, come l’alienazione di dio da sé

stesso (in essa sta il contenuto speculativo della nozione di kenosi divina): questa è la versione cristiana dell’intuizione di Hegel su come la disparità tra soggetto e sostanza comporti la disparità della sostanza rispetto a sé stessa. È per questo che l’unità dell’uomo e di dio è operata nel cri-122 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo stianesimo in un modo che differisce sostanzialmente da quello delle religioni pagane, in cui l’uomo deve sforzarsi di superare la sua caduta da dio attraverso lo sforzo di purificare il suo essere dalla sporcizia materiale ed elevarsi per ricongiungersi al dio. Nel cristianesimo, al contrario, dio in un certo senso ripete su sé stesso la caduta di Adamo ed Eva: cade da sé stesso, diventa un uomo mortale finito, abbandonato da dio (nella figura di Cristo e il suo lamento sulla croce «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?»), e l’uomo può raggiungere l’unità con dio solo identificandosi con questo dio, un dio abbandonato da sé stesso. Ancora una volta, nella sua lettura della Genesi, Hegel ignora questo aspetto: parla solo della separazione dell’uomo da dio, e trascura di menzionare che la riconciliazione tra Dio e l’uomo è anche (addirittura principalmente) la riconciliazione di dio con sé stesso: è solo attraverso la riconciliazione con gli esseri umani che dio diventa veramente dio (nella vera concreta universalità di questa nozione), quindi la riconciliazione tra dio e umanità è un evento chiave in e per dio stesso... Ciononostante, l’intuizione principale di Hegel rimane pienamente valida e pertinente: per Hegel, noi umani raggiungiamo l’immortalità e l’infinito non annullando la Caduta – per sbarazzarci in qualche modo dell’ostacolo della nostra esistenza corporea finita e spostarci nell’altra dimensione di qualche realtà superiore –, bensì per riconciliarci con (quello che è apparso come) l’ostacolo e accettando che questo «ostacolo» svolga il ruolo positivo di sostenere lo spazio di ciò cui fa da ostacolo. La riconciliazione non è superare l’ostacolo, ma affermarlo nel suo ruolo positivo.

Ciò significa, a livello di cambiamento politico e sociale, che dovremmo abbandonare qualsiasi estrapolazione di un futuro non alienato dalle tendenze attuali; un tale modo di pensare (la 123 Hegel e il cervello postumano logica dell’«ora siamo in un momento critico di totale alienazione, e per noi si apre la possibilità di operare come agenti del superamento dell’alienazione») è del tutto estraneo a Hegel, che sottolinea ripetutamente la natura retroattiva del superamento dell’alienazione: superiamo l’alienazione rendendoci conto di averla già superata. In altre parole, nulla «cambia davvero» nel superare l’alienazione, semplicemente spostiamo la nostra prospettiva e otteniamo la comprensione di come ciò che appare come alienazione sia la condizione immanente della disalienazione, già disalienazione in sé. È in questo senso che, nella sua «piccola» Logica ( Enciclopedia), Hegel propone la propria versione di la vérité surgit de la méprise, affermando ambiguamente che «solo da questo errore si fa avanti la verità»: Nella sfera del finito non possiamo né sperimentare né vedere che lo scopo è veramente raggiunto. Il raggiungimento dello scopo infinito consiste quindi solo nel superare l’illusione che non è stato ancora raggiunto. Il bene, il bene assoluto, si compie eternamente nel mondo, e il risultato è che è già adempiuto in sé e per sé, e non abbiamo bisogno di aspettare che ciò accada. Questa è l’illusione in cui viviamo e allo stesso tempo è solo questa illusione l’elemento attivante su cui poggia il nostro interesse per il mondo. È all’interno del proprio processo che l’Idea produce quell’illusione per sé; pone un altro che si confronta, e la sua azione consiste nel superare quell’illusione. Solo da questo errore si fa avanti la verità, e qui sta la nostra riconciliazione con l’errore e la finitezza. L’alterità o l’errore, come superato, è esso stesso un momento necessario della verità, che può essere solo in quanto si trasforma nel proprio risultato. 13 124

5. La caduta che cI rende sImILI a dIo In breve, l’inganno ultimo non è vedere che si ha già quello che si sta cercando, come i discepoli di Cristo che stavano aspettando la sua «vera» reincarnazione, ciechi al fatto che il loro collettivo fosse già lo Spirito Santo, il ritorno del Cristo vivente. Per comprendere questo processo di necessaria illusione, dobbiamo dare un’occhiata più da vicino alla struttura della temporalità quivi implicita. Traiamo un esempio (forse) sorprendente dall’universo operistico. Verso la fine del primo atto del capolavoro di Donizetti L’elisir d’amore, c’è un passaggio che musicalmente esemplifica la spinta di base dell’ Aufhebung («superamento» o riposizionamento retroattivo) hegeliano. È fondamentalmente un trio sostenuto da un coro; il triangolo amoroso è composto da Adina, una bella e ricca pro-prietaria terriera, Nemorino, un sempliciotto che la ama profondamente, e Belcore, un arrogante e orgoglioso sergente che vuole anche sposarla. Appresa la notizia che Adina è pronta a sposare Belcore la sera stessa, Nemorino la esorta a rimandare il matrimonio, e Belcore brutalmente lo manda a quel paese: «Il ciel ringrazia, o babbuino, / ché matto, o preso tu sei dal vino. / Ti avrei strozzato, ridotto in brani / se in questo istante tu fossi in te. / In fin ch’io tengo a fren le mani, / va’ via, buffone, ti ascondi a me». La magia, ovviamente, sta nel modo in cui questo semplice scambio viene messo in musica: la frase più marcata – «va’ via, buffone, ti ascondi a me» – viene prima cantata in modo aggressivo ma in seguito riposizionata come sfondo del duetto d’amore principale. Di conseguenza, benché nessuno dei partecipanti lo sappia, alla fine di questo trio sono già state raggiunte la pace e la riconciliazione. A interessarci qui è questo strano periodo intermedio in cui (come suggerisce la forma) le cose sono già state decise, anche se i partecipanti sono ancora impegnati nelle loro lotte... Non sono questi i momenti di pura beatitudine? Non nel senso che non ci sia con-125 Hegel e il cervello postumano flitto, ma che il conflitto in atto stia già avvenendo nello spazio della riconciliazione?

Incontriamo anche un simile periodo intermedio in epoche di turbolenza politica. Quando, in Venezuela, Guaidó si è pro-clamato l’unico legittimo presidente con largo supporto inter-nazionale e il suo gesto ha innescato una rinnovata ondata di proteste pubbliche a suo sostegno, il 7 febbraio 2019 dichia-rava: «Loro (il regime di Maduro) sono già sconfitti. Oggi, il nostro unico nemico è la disperazione. Oggi, il nostro unico nemico è il dubbio. Oggi, il nostro unico nemico è la paura». Tuttavia, sebbene Guaidó presenti la situazione come già decisa, le cose sono più complesse e più incerta è la situazione: Maduro era stato dato in precedenza più volte come «già spacciato», ma finora è stato in grado di superare ogni crisi. L’unico modo per descrivere correttamente la situazione è quindi: se, alla fine, Guaidó vincesse e crollasse il regime di Maduro, allora (retroattivamente) saremo in grado di dire che il gioco era finito molto prima. Una volta che il collasso (contingentemente) avviene, possiamo affermare che era già avvenuto e che era necessario avvenisse. Il periodo intermedio si estende così tra i due tagli: le cose stanno gradualmente cambiando nella realtà; l’attuale regime è compromesso, perché agiamo con la premessa che – sostanzialmente – sia già perduto, che abbia fatto il suo tempo. Poi, a un certo punto, questa premessa viene pienamente affermata nella realtà e l’ordine esistente di fatto crolla. La logica di «le cose cambiano perché sono già cambiate e hanno perso la loro sostanziale verità» deve quindi essere integrata dal suo apparente opposto: le cose cambiano gradualmente a livello materiale, e questo cambiamento è sotterraneo, come la diffusione occulta di un’infezione mortale; quando la lotta esplode allo scoperto, la talpa ha già terminato il suo lavoro e la battaglia è, in sostanza, finita. Ecco la classica descrizione di Hegel di 126 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo questo processo a proposito della lotta dell’illuminismo contro lo spirito religioso tradizionale: l’estensione graduale della pura intellezione dell’illuminismo

va paragonata a una quieta espansione, alla diffusione di un vapore, di un miasma, in un’atmosfera che non oppone alcuna resistenza. È un contagio sottile e penetrante che, non essendosi manifestato inizialmente come opposto all’elemento indifferente nel quale si insinua, non può perciò essere combattuto. Solo quando la sua diffusione è avvenuta, il contagio è tale per la coscienza che gli si era concessa senza riserve [...]. Pertanto, quando l’intellezione pura è tale per la coscienza, la sua diffusione è già avvenuta, E proprio la battaglia contro l’intellezione pura è l’indice degli effetti del contagio. La battaglia giunge troppo tardi, E qualsiasi cura non fa che peggiorare la malattia, in quanto questa ha staccato il midollo della vita spirituale [...]. Ma adesso, spirito invisibile e impercettibile, la malattia per-vade le parti nobili e s’impadronisce fino in fondo di ogni viscere e di ogni membro dell’idolo inconsapevole, e «un bel mattino dà un colpetto al gomito del camerata e – pata-trac! – l’idolo è a terra». 14 Conosciamo tutti la classica scena da cartone animato:15 il gatto ha superato il precipizio ma continua a camminare, ignaro di non avere più la terra sotto le zampe; inizia a cadere solo quando guarda in basso e nota l’abisso. Quando perde la sua autorità, il regime è come un gatto oltre il precipizio: per cadere, bisogna solo ricordargli di guardare in basso... Ma vale anche il contrario: quando un regime autoritario si avvicina alla sua crisi finale, di norma la sua dissoluzione segue due passaggi. Prima del suo effettivo crollo, si verifica una misteriosa rottura: 127 Hegel e il cervello postumano all’improvviso le persone sanno che il gioco è finito, semplicemente non hanno più paura. Non solo il regime perde la sua le-gittimità, il suo stesso esercizio del potere viene percepito come un’impotente reazione di panico. In Shah-in-shah, un classico resoconto della rivoluzione khomeinista, Ryszard Kapuściński ha individuato il momento preciso di questa rottura: a un in-crocio di Teheran, un singolo manifestante si era rifiutato di obbedire a un

poliziotto che gli aveva urlato di sgombrare, solo per ritirarsi imbarazzato subito dopo; in un paio d’ore tutta Teheran aveva saputo di questo incidente, e sebbene ci fossero in corso da settimane scontri di strada, in qualche modo tutti avevano capito che i giochi erano fatti.16 L’innamoramento è caratterizzato dallo stesso gap temporale. In uno dei racconti di Henry James, il protagonista parla di una donna vicino a lui: «Lo ama già, non lo sa ancora». Ciò che troviamo qui è una sorta di controparte freudiana del famoso esperimento di Benjamin Libet sul libero arbitrio: ancor prima di decidere consapevolmente (diciamo, di muovere un dito), sono già in corso i processi neuronali appropriati, il che significa che la nostra decisione consapevole prende semplicemente nota di ciò che sta già accadendo (aggiungendo la sua superflua autorizzazione a un fatto compiuto). Anche in Freud la decisione precede la coscienza: tuttavia, non è un processo puramente oggettivo, bensì una decisione inconscia. Qui Freud si unisce a Schelling, per il quale a sua volta una decisione veramente libera è ugualmente inconscia, motivo per cui non ci innamoriamo mai nel (tempo) presente: dopo un (solitamente lungo) processo di gestazione sotterranea, all’improvviso ci rendiamo conto che siamo (già) innamorati. L’innamoramento non accade mai: a un certo momento è sempre-già successo. Per dirla ancora diversamente, la libertà non sta nella capacità di resistere quando si soffre: quel tipo di resistenza viene 128 5. La caduta che cI rende sImILI a dIo dalla natura. La libertà è iniziare a godere quando si soffre. Nel giugno 2019, la polizia del distretto della Greater Manche-ster ha arrestato la novantatreenne Josie Birds nonostante non avesse commesso alcun crimine, come suo «ultimo desiderio». La salute stava venendo meno e lei, prima che fosse troppo tardi, voleva essere arrestata per qualcosa ed essere portata in una

stazione di polizia, così da provare com’era trovarsi dalla parte sbagliata della legge.17 Semmai vi fu atto di libertà, lo è stato questa richiesta. Ed è a tale livello che possiamo delineare la differenza tra Sartre e Lacan. Per Sartre, l’atto libero di base per mezzo del quale un soggetto «si sceglie» – che formula il progetto esistenziale che definisce la sua identità – è un atto di autocoscienza. Per Sartre, l’inconscio è un’entità sostanziale e reificata, qualcosa che mi determina oggettivamente. Per Lacan, al contrario, la scelta primordiale è inconscia poiché l’inconscio non è una determinazione sostanziale del soggetto ma il livello più elementare di riflessività. Nel Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, l’unica figura della verità è Joker, l’avversario di Bat-man e il cattivo principale del film. L’obiettivo dei suoi attacchi terroristici a Gotham City è chiaro: si fermeranno quando Bat-man si toglierà la maschera e rivelerà la sua vera identità. Cos’è dunque Joker, che vuole rivelare la verità dietro la maschera convinto che questa rivelazione distruggerà l’ordine sociale? Non un uomo senza maschera, anzi – al contrario – pienamente identificato con la sua maschera, un uomo che è la sua maschera: non c’è niente, nessun «ragazzo normale» dietro la sua maschera. È per questo che Joker non ha retroscena e manca di qualsiasi motivazione chiara: a persone diverse racconta dif-ferenti storie sulle sue cicatrici, beffandosi dell’idea per cui a guidarlo debba esserci un suo trauma profondo. È per questo che trovo problematico Joker (2019) di Todd Phillips: proprio 129 Hegel e il cervello postumano perché punta a fornire una sorta di genesi socio-psicologica di Joker, descrivendo gli eventi traumatici che ne hanno fatto la figura che è. Il problema è che migliaia di ragazzi cresciuti in fa-miglie in rovina e vittime di bullismo da parte dei

loro coetanei hanno subito lo stesso destino, ma solo uno ha «sintetizzato» queste circostanze nella figura unica di Joker. 18 In altre parole, sì, Joker è il risultato di una serie di circostanze patogene, ma tali circostanze possono essere descritte come le cause di questa figura unica solo retroattivamente, una volta che Joker c’è già. In uno dei primi romanzi su Hannibal Lecter, c’è il rifiuto dell’affermazione che la sua mostruosità sia il risultato di sfor-tunate circostanze: «Non gli è successo niente. Lui è successo». E, ancora una volta, la differenza tra Sartre e Lacan è che Sartre legge questa scelta primordiale della propria esistenza come atto supremo di autocoscienza, mentre per Lacan è un atto dell’inconscio per eccellenza. Questa riflessività inconscia dovrebbe essere esplorata in modo più dettagliato, giacché è nostra ipotesi che designi proprio la struttura stessa che potrebbe sfuggire alla cognizione della Singolarità. Siamo quindi tornati alla domanda filosofica di base: esiste dunque una dimensione dell’essere umano che in linea di principio sfugga alla Singolarità, anche se vi siamo del tutto immersi? Quale potrebbe essere questa dimensione se accettiamo che la nostra autocoscienza risulti trasparente alla Singolarità? Per un freudiano, la soluzione è spostare la messa a fuoco dalla coscienza, o consapevolezza, all’inconscio. 130 Capitolo sesto Riflessività dell’inconscio Che cosa succede al nostro inconscio nell’immergerci nella Singolarità? Per affrontare correttamente questa domanda, andrebbe prima chiarita la nozione di inconscio. Come ha chiaramente

osservato Lacan, l’inconscio freudiano non è il dominio sostanziale degli archetipi junghiani come la realtà psichica ultima dell’essere del soggetto. Non appartiene né all’ordine dell’essere, né a quello del non-essere, ma allo spazio virtuale di pura potenzialità che si attualizza, che acquisisce la realtà (sociale), nel fenomeno del transfert nella terapia psicoanalitica. Il transfert in cui l’inconscio è attualizzato non è la proiezione del/la paziente sulla sua relazione effettiva con l’analista della realtà «più profonda» delle sue fissazioni traumatiche (tratto l’analista come se fosse mio padre ecc.), non è l’illusorio allesti-mento di una scena il cui giusto posto è altrove, nei ricordi repressi del suo passato; è la realtà in cui l’inconscio il cui stato è puramente virtuale viene attualizzato: mi permetto qui di citare per esteso la precisa descrizione di Gabriel Tupinambá dello stato paradossale dell’inconscio: Lacan ha notoriamente condensato la definizione di transfert di Freud nell’affermazione che è «la messa in atto [ mise en 131 Hegel e il cervello postumano acte] della realtà dell’inconscio»: quest’affermazione, tuttavia, non può essere adeguatamente compresa senza un’altra osservazione, che qualifica ulteriormente la «potenza» che viene attualizzata in ambito clinico: «l’inconscio non è né essere né non-essere, ma qualcosa di non realizzato [ non-realisé]». Vale a dire, sì, il transfert è il «rendere veri e mani-festi gli impulsi d’amore nascosti e dimenticati del paziente», come afferma Freud, ma Lacan aggiunge anche che questa realtà artificiale non è il precario sostituto di una realtà più coerente, sebbene nascosta, una profonda tipizzazione psicologica della nostra soddisfazione. L’attualizzazione dell’inconscio sta piuttosto sostituendo qualcosa che non ha mai avuto una realtà pienamente coerente dall’inizio: qualcosa che esiste nella dimensione clinica, nelle sue condizioni artificiali, ma che non può essere generalizzato al di fuori da quello spazio come se avesse un

essere indipendente. Sarebbe sbagliato dire che l’inconscio non ha alcun essere – poiché il suo essere è attualizzato nel transfert – e sarebbe sbagliato affermare che lo ha, giacché non può essere direttamente ontologizzato, trasposto al di fuori di certi limiti. Un altro modo di affrontare l’osservazione di Lacan sarebbe quello di affermare che lo stato ontologico della forma inconscia non è quello di un altro essere – qualcosa che si sta veri-ficando a distanza dall’ambiente clinico – è piuttosto un altro essere, qualcosa che funziona come un «supplemento negativo» di ciò che viene detto: il discorso all’interno del contesto clinico rivela alcune invarianti intrinseche, una sorta di supplemento virtuale che, seppur leggibile all’interno di quei vincoli artificiali, non attesta una determinazione causale sottostante, indipendente dallo spazio in cui si attualizza... Piuttosto che presentarlo come causa di quelle formazioni in cui il mio discorso eccede ciò che intendo dire, l’incon-132 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo scio è «costituito dagli effetti del discorso sul soggetto», da quello che le associazioni contingenti hanno creato all’interno dei confini artificiali della libera associazione. È proprio perché le formazioni inconsce sono prima di tutto effetti senza cause indipendenti che Lacan definisce lo stato dell’inconscio come «irreale»: non l’irrealtà dei suoi effetti – le sue manifestazioni sono insistentemente leggibili – ma l’irrealtà della causa di questi effetti, la cui assenza in ambito clinico non andrebbe confusa con un principio causale esterno.1 Riecco la nostra domanda: può il Neuralink cogliere questa modalità dell’inconscio, non l’inconscio come base sostanziale dell’essere del soggetto, bensì l’inconscio come punto di riferimento virtuale che esiste (o, piuttosto, insiste) solo come punto di riferimento assente dei suoi effetti, l’inconscio come la causa che non precede i suoi

effetti ma è soltanto attualizzata nei suoi effetti e dunque retroattivamente da essi causata? Così l’inconscio non è, diciamo, né la realtà originale della mia relazione traumatica con mio padre, né l’attuale realtà della mia relazione con l’analista, ma è una terza entità puramente virtuale nello spazio tra due entità reali che fanno parte della mia realtà. Ho esperito qualcosa di simile quando ho consumato le due versioni di Billy Bathgate di Doctorow, il romanzo e la versione cinematografica. Il film è fondamentalmente non riuscito ma interessante: un insuccesso che comunque evoca nello spettatore lo spettro di un romanzo assai migliore. Tuttavia, quando si continua a leggere il romanzo su cui si basa il film, si resta delusi: non è il romanzo che il film ha evocato come standard rispetto al quale non è riuscito. La ripetizione (di un romanzo non riuscito nel film non riuscito) dà quindi origine a un terzo elemento, puramente virtuale: il romanzo migliore. Questo è 133 Hegel e il cervello postumano un caso esemplare di ciò che Deleuze descrive in un passaggio cruciale di Differenza e Ripetizione: Ma se è vero che i due presenti sono successivi, a una distanza variabile dalla serie dei reali, essi formano piuttosto due serie reali coesistenti in rapporto all’oggetto virtuale di un’altra natura, che non cessa di circolare e di spostarsi in esse [...] La ripetizione non si costituisce da un presente a un altro, ma tra le due serie coesistenti formate da questi presenti in funzione dell’oggetto virtuale (oggetto = x). 2 Per quanto riguarda Billy Bathgate, il film non «ripete» il romanzo su cui si basa; piuttosto, entrambi «ripetono» l’irri-petibile X virtuale, il «vero» romanzo il cui spettro è generato nel passaggio dal romanzo reale al film. Questo punto di riferimento virtuale, sebbene «irreale», è in un certo senso più reale della realtà: è il punto di riferimento assoluto dei tentativi reali falliti. L’inesistente «libro migliore» è ciò che entrambe le opere esistenti ripetono (e che falliscono nel tentativo di ripetere), quello che mantiene una distanza tra le due, l’interruzione tra esse che è il loro inconscio. E, tornando al nostro argomento, può

la macchina a cui è collegato il nostro cervello catturare questo momento virtuale che non appartiene né all’ordine dell’essere, né all’ordine del non-essere? Nella Humoreske di Schumann abbiamo, nello spartito, la famosa «voce interiore» ( innere Stimme), un terzo pen-tagramma tra i due di piano, superiore e inferiore. Il penta-gramma assente deve essere ricostruito sulla base del fatto che il primo e il terzo livello (quello della mano destra e quello della sinistra) non si relazionano direttamente tra loro, vale a dire la loro relazione non è quella di un riflesso immediato: per rendere conto della loro interconnessione, si è quindi costretti a 134 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo (ri)costruire un terzo livello intermedio «virtuale» (un penta-gramma melodico) che, per motivi strutturali, non può essere riprodotto. Schumann porta questa procedura di melodia assente a un’autoreferenzialità apparentemente assurda quando, più tardi nello stesso frammento di Humoreske, ripete le stesse due linee melodiche effettivamente suonate, ma questa volta la partitura non contiene una terza linea melodica assente, nessuna voce interiore: a essere assente qui è la melodia assente, cioè l’assenza stessa. Come possiamo suonare queste note quando, a livello di ciò che va effettivamente suonato, ripetono esattamente le note precedenti? Le note effettivamente suonate sono prive solo di ciò che non c’è, della loro mancanza costitutiva o – per fare riferimento alla Bibbia – perdono anche ciò che non hanno mai avuto. Un vero pianista dovrebbe quindi avere la capacità di suonare le note esistenti, positive, in modo tale da permettere di discernere l’eco delle note di accompagnamento virtuali, «silenziose» non suonate o la loro assenza... che si adatta esattamente al linguaggio conscio in cui riecheggia l’inconscia catena virtuale. Si ricordi il fantasma di Freud ( Un bambino viene picchiato): questa frase musicale mediana non pensata per essere suonata non si adatta esattamente alla forma mediana del fantasma («mio padre mi sta picchiando»), che a sua

volta non è pensata per essere vissuta ma opera soltanto come costrutto puramente virtuale? Prendiamo un altro esempio da queste serie televisive: Captive State (2019, diretta da Rupert Wyatt e co-scritta da Wyatt ed Erica Beeney), un eccellente thriller di fantascienza che inizia nel 2019, quando gli extraterrestri invadono il globo e Chicago è sotto la legge marziale. Nove anni dopo, il mondo si è arreso agli invasori e sottomesso alla loro autorità gover-nativa; sono chiamati «I legislatori» perché da loro dipendono tutte le successive leggi e regole di governance. Negli anni suc-135 Hegel e il cervello postumano cessivi alla resa della Terra, gli alieni hanno reclutato gli umani per costruire nel profondo sottosuolo degli habitat adatti a sé chiamati Zone Chiuse, separati dal resto della città da una cinta muraria con accesso consentito solo agli alti funzionari del governo. «Mentre i nuovi ‘legislatori’ rimangono nelle loro tane sotterranee, alcuni obbedienti quisling nel governo e nelle forze dell’ordine mantengono un controllo tirannico sulla popolazione. La maggior parte degli umani ha accettato i numerosi, apparenti benefici (economia forte, riduzione della disoccupazione ecc.) del dominio extraterrestre. Un sontuoso pep rally, con tanto di nuova versione dell’«Inno di battaglia della repubblica» adulatoria nei confronti degli invasori, ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere sulla facilità con cui le pecore sono state condotte all’ovile».3 Qui siamo costretti a sorvolare molte caratteristiche interessanti di questa eccezionale serie (l’azione si svolge principalmente nella degradata periferia di Chicago tra ragazzi neri poveri; anche se gli eventi si svolgono nel prossimo futuro, la realtà è stranamente spostata indietro nel tempo, dato che i legislatori hanno proibito la tecnologia digitale) per concentrarci sui due livelli impliciti nella narrazione: l’universo immaginario della serie (l’ennesima storia sulla resistenza contro un’invasione aliena) si riferisce ovviamente alla nostra realtà d’impersonale dominio aziendale. È tuttavia sbagliato vedere l’elemento di finzione come un

mero riflesso della nostra realtà: c’è un terzo livello tra i due. La dimensione alieni-che-ci-gover-nano non è solo una versione di finzione della nostra realtà, ne è componente immanente: noi, gli individui coinvolti nel dominio aziendale, non la sperimentiamo forse come una sorta di forza aliena che dimora nelle Zone Chiuse e che tratta con noi solo attraverso i loro «quisling» tra di noi? Tra la realtà e la fantascienza c’è quindi la componente di finzione che costituisce la nostra stessa realtà. 136 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo Incontriamo la stessa struttura triadica nel Lago in pericolo (William Cameron Menzies, 1951), un capolavoro noir in cui un violento temporale inzuppa un pescatore in vacanza nel nord del Minnesota, vicino al confine canadese. Trovato ri-paro in una cittadina locale, questi chiede di essere soccorso per una ferita alla testa procuratasi cadendo su una roccia. I cittadini si rifiutano di essere più che sommariamente amiche-voli (eccezione fatta per un albergatore superficialmente estro-verso e scherzoso, superbamente interpretato da Raymond Burr), e si contraddicono reciprocamente in continuazione. Strani eventi sembrano accadere in una casetta dall’altra parte del lago, dove un medico riceve visite notturne di cui non vuole parlare. Viene fuori che i comunisti hanno già conqui-stato la città e l’hanno trasformata in un centro per lo studio della guerra batteriologica... L’interesse di questa produzione di Howard Hughes, piuttosto ridicola, è che andrebbe letta come un’inversione riflessiva della tesi standard secondo cui la formula «invasione degli alieni» dei primi anni Cinquanta (l’americano qualunque che, per caso, si ritrova in una piccola città americana e a poco a poco scopre che la città è già controllata dagli alieni) è allegoria della conquista comunista («alieni» sta per comunisti): qui l’allegoria viene ri-tradotta nel suo «vero significato», con il risultato facilmente prevedibile che i cospiratori comunisti stessi sono perseguitati dall’aura di

«alieni». È per questo che il significato di una metafora non può essere ridotto al suo riferimento «vero»: non è sufficiente indicare la realtà cui una metafora si riferisce; una volta com-piuta la sostituzione metaforica, questa realtà stessa è perse-guitata per sempre dal fantasmatico reale del contenuto meta-forico. In entrambi i casi, il terzo elemento (la finzione immanente alla realtà stessa) è il luogo dell’inconscio. 137 Hegel e il cervello postumano Per chiarire ulteriormente questo stato dell’inconscio, ricor-diamo la famosa battuta in Ninotchka di Ernst Lubitsch: «‘Cameriere! Una tazza di caffè senza panna per favore!’ ‘Spiacente signore, non abbiamo panna, solo latte, possiamo fare un caffè senza latte?’» A livello fattuale il caffè rimane lo stesso caffè, ma quello che si può cambiare è trasformare il caffè senza panna in un caffè senza latte; o, più semplicemente, aggiungere la negazione implicita e trasformare il caffè nero in un caffè senza latte. La differenza tra «caffè nero» e «caffè senza latte» è puramente virtuale, non c’è differenza nella vera tazza di caffè, e lo stesso vale per l’inconscio freudiano: anche il suo stato è puramente virtuale, non è una realtà psichica «più profonda»; in breve, l’inconscio è come «latte» in un «caffè senza latte». E qui sta il tranello: può il grande Altro digitale – che ci conosce meglio di quanto conosciamo noi stessi – discernere anche la differenza tra «caffè normale» e «caffè senza latte»? Oppure la sfera controfattuale è al di fuori dell’ambito del grande Altro digitale, che è limitato ai fatti nel nostro cervello e a contesti sociali di cui non siamo a conoscenza? Il conflitto primario non è quindi tra la mia esperienza interiore e il grande Altro digitale, ma tra due grandi Altri: quello simbolico-virtuale e il grande Altro meccanico-reale. Ciò che una macchina digitale può fare è simile al seguente esempio immaginato: Diciamo che abbiamo una macchina da caffè con tre pulsanti: «caffè normale», «caffè con latte», «caffè con panna».

La macchina registra tutte le attività degli utenti e le loro più frequenti. Diciamo che ho ordinato regolarmente un «caffè con latte» ogni giorno per un mese e la macchina ha registrato «caffè con latte» come mia scelta più frequente. Un giorno, mi capita di volere un «caffè senza latte» e di premere il pulsante «caffè normale». È opportuno chiamare 138 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo questa eccezionale scelta «caffè senza latte» perché è definita dalla sua extra-ordinaria differenza dalla mia scelta ordinaria «caffè con latte». Dato che la macchina ha un archivio della mia scelta più frequente, «sa» che questo «caffè normale» è in realtà un «caffè senza latte» e può persino mostrarmi un messaggio: «Interessante, stai prendendo il tuo caffè senza latte oggi!» Dunque una macchina può (almeno) discernere i tempi in cui un evento molto frequente non si ripresenta e può registrarlo come negatività virtuale. 4 Questo esempio, tuttavia, non si adatta alle condizioni precise della battuta di Ninotchka; per rendere questa battuta adatta al nostro esempio, il cameriere avrebbe dovuto rispondere al cliente qualcosa del tipo: «Tanto per esser sicuri, signore, prende il suo caffè senza panna oggi, non con panna come al solito? In breve, ciò che una macchina digitale può fare è includere un orizzonte di aspettativa: se si prevede che un soggetto faccia qualcosa (e questa aspettativa si basa sui suoi ripetitivi atti passati), allora il suo non farlo può essere registrato come un «senza». Ciò che una macchina digitale non sembra essere in grado di fare è registrare un errore originale, un originale non-farlo: un caso in cui un non fare qualcosa accompagna fin dall’inizio ciò che un soggetto fa. Ma la caratteristica-chiave mancante in questo esempio è il raddoppio del «senza», che dà origine a una strana negazione della negazione: nella battuta, non c’è solo l’opposizione tra latte e senza latte, ma la concatenazione di due senza, senza panna e senza latte.

(La mia fonte dell’esempio menziona anche il caso del «caffè senza panna», ma semplicemente come un altro caso, senza alcun collegamento con il primo, proprio come un caso parallelo della stessa struttura). È quindi una caratteristica cruciale della battuta il fatto che, non essendoci la panna nel bar, il «senza 139 Hegel e il cervello postumano panna» sia sostituito da «senza latte»; il caffè (semplice) che il cliente ottiene dà così corpo a una doppia negazione, vale a dire, la prima negazione (il «senza panna») è essa stessa negata (poiché non c’è panna da negare), sicché il «caffè senza latte» ricevuto dal cliente è il caffè «senza-senza panna»: e questo è ciò che – presumibilmente – lo spazio digitale non può evocare. Riguardo l’inconscio, in esso abbiamo a che fare con un’omologa doppia negazione: quando fantastico su qualcosa che non esiste, fantastico su qualcosa la cui inesistenza sostituisce l’inesistenza più radicale dell’(incestuosa) Cosa stessa. Per parafrasare il famoso esempio di Freud, il messaggio di un sogno incestuoso è qualcosa del tipo: «Spiacenti, ma nello spazio di un sogno, la Madre non c’è nemmeno come assente, quindi non possiamo darti un sogno senza madre – quello che possiamo darti è un sogno senza un’altra donna che non sia tua madre...» Tutte le sfumature delle esperienze potrebbero sì essere re-gistrate dalla macchina digitale, ma a non esserlo sarà l’impossibile stesso, qualcosa che non esiste in sé ma persiste solo in un oscuro ambito di né-essere-né-non-essere come punto di riferimento virtuale. Non è il reale in quanto costrutto qualcosa che non esiste, che insiste solo come un punto in una struttura formale? Quando, ad esempio, il soggetto esperisce effettivamente una serie di formazioni fantasmatiche correlate tra loro in così tante permutazioni l’una dell’altra, questa serie non è mai completa: è sempre come se la serie effettivamente esperita presentasse così tante variazioni di qualche fantasma «fondamentale» sottostante da non essere mai

realmente esperita dal soggetto. Tornando al fantasma «Un bambino viene picchiato» di Freud, i due fantasmi vissuti coscientemente presuppon-gono – e quindi si riferiscono – a un terzo, «Mio padre mi sta picchiando», che non è mai stato realmente vissuto e può essere ricostruito retroattivamente solo come riferimento presup-140 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo posto di – o, in questo caso, termine intermedio tra – gli altri due fantasmi. Ma continuiamo a fare l’avvocato del diavolo: se la macchina digitale è in grado di riprodurre la molteplicità incoerente della mia esperienza, compresi i fallimenti e i limiti in essa inscritti, perché mai non potrebbe in tal modo anche evocare (o generare nella mente del destinatario, cioè, nella mente dell’altro individuo con cui condivido la mia esperienza) gli «assenziali», i punti di riferimento virtuali che sostengono il flusso della mia esperienza? Tornando alla battuta di Ninotchka: diciamo pure che immagini nella mia mente di raccontare questa battuta e che la macchina digitale riproduca il mio modo di pensare nella mente di un altro: non otterrebbe anch’egli la nozione di «caffè senza latte» come distinta da «caffè senza panna» e «caffè normale»? La risposta è no: la trasmissione di assenziali virtuali funzionerebbe solo se presumiamo che, anche se il mio cervello è connesso, i processi mentali della mia mente rimarrebbero quelli che si svolgono in un singolo soggetto isolato dagli altri, separati da loro da ciò che il primo Lacan aveva definito «il muro del linguaggio». Nel momento in cui questo muro si sgre-tola, nel momento in cui gli effetti di ciò che la Bibbia chiama la Caduta sono annullati, anche la dimensione virtuale scompare. S’immagini una scena di seduzione tra due soggetti il cui cervello è connesso in modo tale che il flusso di pensieri dell’altro mi sia accessibile: se il mio potenziale partner può esperire direttamente le mie intenzioni, cosa rimane della complessità dei giochi di seduzione? Non reagirà, l’altro/a, con qualcosa del tipo: «Ok, so che vuoi

disperatamente scoparmi, ma perché mi stai chiedendo tutte quelle stupidaggini sui film che mi piac-ciono e cosa mi piacerebbe mangiare a cena? Non lo senti che non ci verrei mai a letto con te?» 141 Hegel e il cervello postumano La differenza che stiamo qui affrontando è quella tra i fatti «inconsci» (neuronali, sociali...) che ci determinano e l’«inconscio» freudiano, il cui status è puramente controfattuale. Nei nostri sogni sessuali, fantastichiamo sul miglior sesso che non abbiamo mai fatto, non sul migliore già fatto. E questo gioco con gli assenziali virtuali non è portato all’estremo nella già menzionata figura dell’amore cortese? Quando i due amanti rimandano all’infinito il completamento dell’atto sessuale, non si limitano semplicemente a parlare e quindi a forme preliminari di interazione. La loro intera attività è definita positivamente come la versione sessuale del «caffè senza panna»: un’attività sessuale senza atto sessuale. Qui a rendere le cose ancora più complesse è che, nell’amore cortese, lo stato del plus-godere cambia in rapporto al suo normale funzionamento. In un aneddoto del suo lavoro analitico, Darian Leader5 racconta di quando un paziente gli riferì un lapsus che lo aveva messo in imbarazzo: stava portando una signora al ristorante di un hotel di lusso, con in serbo l’idea di portarla in camera per fare sesso dopo pranzo; a un cameriere che gli si era avvicinato, il paziente disse «Un letto per due, per favore!», anziché «Un tavolo per due, per favore!» Leader rifiuta l’ovvia lettura «freudiana» (cioè che fosse l’eruzione diretta del suo vero desiderio di sesso) e propone il contrario: il lapsus andrebbe letto come un avvertimento a non godersi troppo il cibo, come promemoria che il pranzo condiviso è solo un pretesto, un Vorwand, e che il vero obiettivo è il sesso. Il lapsus sarebbe stato quindi un disperato tentativo di reprimere il tarlo del sospetto che persino il sesso non sia «la cosa reale», che anche in esso manchi qualcosa.

Qui abbiamo la relazione standard tra il piacere «base» (l’atto sessuale) e le deviazioni e i preliminari che aggiungono plus-godere. Nell’amore cortese, tuttavia, l’attività sessuale «di 142 6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo base» si riduce alle deviazioni e ai preliminari, dimodoché lo stesso atto sessuale «pieno» acquisisca lo status di un eccesso impossibile e infinitamente procrastinato. Quest’ambito di controfattualità può qui operare solo se c’è soggettività: per rilevare la differenza tra «caffè normale» e «caffè senza latte» deve operare un soggetto. La soggettività equivale qui alla riflessività: quando il caffè normale viene vissuto come «caffè senza latte» (e non «caffè senza panna»), lo stato controfattuale del latte o della panna è la determinazione puramente riflessiva di questo caffè, non la sua effettiva determinazione. Ciò che tale stato virtuale/riflessivo dell’inconscio sta a significare è che quest’ultimo non è un primitivo contenuto sostanziale pre-riflessivo che debba essere appropriatamente riflesso dal soggetto in un atto di autocoscienza (di diventare consapevole del proprio contenuto psichico «rimosso»). «Inconscia» è la struttura immanente dell’autocoscienza stessa: ciò che sfugge alla coscienza del soggetto è il livello basilare della sua autocoscienza. Per arrivare a questo livello, la struttura dell’autocoscienza dovrebbe essere fatta esplodere dall’interno e, in questo modo, radicalmente divaricata dall’autoconsapevolezza cosciente. Ciò significa che, nella sua forma più radicale, l’autocoscienza è un termine improprio: non si tratta di autocoscienza, bensì della riflessività inconscia rispetto ad alcuni contenuti coscienti. È in questo senso che Lacan sottolinea come il desiderio sia sempre anche un desiderio di desiderare; ogni desiderio è per definizione riflessivo, include una posizione riflessiva verso sé stesso: quando dico «lo desidero», non è mai un’informazione esterna della mia propensione immediata, dal momento che include sempre il suo raddoppio riflessivo (desidero desiderarlo?) Non è il contenuto del mio desiderio a essere

«inconscio», bensì la mia posizione riflessiva nei suoi confronti. 143 Hegel e il cervello postumano L’autocoscienza non è solo una coscienza raddoppiata, la consapevolezza del fatto che sono consapevole delle cose, così da includere un altro oggetto – me stesso – nel raggio degli oggetti di cui sono consapevole. L’autocoscienza implica sempre quella che viene tradizionalmente definita la dimensione normativa, la dimensione dell’impegno soggettivo: «La forma soggettiva di giudizio, l’‘io penso’ che Kant dice può accompa-gnare tutte le nostre rappresentazioni – e che dunque è la più vuota di tutte –, contraddistingue chi si assume la responsabilità del giudizio». 6 L’autocoscienza significa che anche nel caso della semplice affermazione di un fatto come «di fronte a casa mia c’è un albero», mi presuppongo capace di rispondere di questa affermazione. 7 E il punto di Lacan è che lo stesso vale per il nostro desiderio: il desiderio non è mai solo un fatto della mia vita interiore, non mi ci posso mai riferire come a un fatto, gli sono del tutto implicito in quanto soggetto. Proprio in questo senso perfino il desiderio più inconscio è sempre «autocosciente»: non desidero solo qualcosa come un fatto, desidero (o meno) desiderarlo. Nella sua rivoluzione etica, Kant affermò che il dovere stesso non può servire come una scusa per fare il proprio dovere; non si può mai dire: «So che è pesante e può essere doloroso, ma cosa posso farci, è il mio dovere...» L’etica di Kant sul dovere incondizionato viene presa come giustifica-tiva di tale atteggiamento: non c’è da meravigliarsi che lo stesso Adolf Eichmann abbia fatto riferimento all’etica di Kant cercando di giustificare il suo ruolo nella pianificazione e nell’esecuzione dell’Olocausto: stava solo facendo il suo dovere e obbedendo agli ordini del Führer. Tuttavia, l’obiettivo dell’enfasi di Kant sulla piena autonomia e responsabilità morale del soggetto è proprio quello di impedire simili manovre di addossare la colpa a qualche figura del grande Altro. Il motto tradizionale del rigore etico è: «Non c’è scusa per non compiere il proprio 144

6. rIfLessIvItà deLL’InconscIo dovere». Anche se la nota massima di Kant Du kannst, denn du sollst! («Puoi, perché devi!») pare offrire una nuova versione di questo motto, la integra implicitamente con la sua assai più inquietante inversione: «Non c’è scusa per compiere il proprio dovere!» Il riferimento stesso al dovere come scusa per fare il mio dovere dovrebbe essere respinto come ipocrita. È per questo che, per Lacan, Kant è all’origine dello sviluppo spirituale che ha dato i natali alla psicoanalisi: anche in psicoanalisi, al paziente non è mai permesso di dire «Che posso farci, è il mio inconscio che determina i miei atti, non ne sono io responsabile!» Sono pienamente implicito nei miei desideri inconsci. Ma cosa c’entra tutto questo con il Neuralink e la Singolarità? Abbiamo dovuto descrivere l’intricata struttura riflessiva dell’autocoscienza per affrontare la domanda-chiave: se immaginiamo l’immersione del soggetto nella Singolarità, il grande Altro digitale sarà in grado di catturare questa dimensione riflessiva oppure no? E se no, ciò significa che la dimensione riflessiva della soggettività scomparirà semplicemente, o persisterà come qualcosa che resisterà alla sua immersione nella Singolarità? Sorprendentemente (o meno, per chi ne conosce l’opera), a indicarci qui la via è L’innominabile di Beckett. 145 Capitolo settimo Una fantasia letteraria: l’innominabile soggetto della Singolarità E qui si dovrebbe rischiare un’audace ipotesi: che la Singolarità non sia (o, piuttosto, non sarà) l’immersione in uno spazio collettivo, bensì uno stato estremamente solipsistico in cui ogni io (ridotto alla sua assenza, non più un io rispetto agli altri in uno spazio intersoggettivo) funzionerà in modo simile a ciò che Beckett rende nell’ Innominabile.

Leggiamo qui Beckett con Jacques-Alain Miller, che nel suo seminario del 2006-2007 descrive lo sforzo degli ultimi anni di Lacan di delineare i contorni dell’Uno-tutto-solo davanti all’Altro, di un’allucinazione davanti alla realtà simbolica, dei vuoti insignificanti che precedo-no ogni articolazione significante. Lacan contrappone qui due assi. Uno è quello dell’inconscio simbolico in cui, nel transfert, il soggetto si riferisce a un Altro, dove i sintomi hanno un (pre-sunto) significato e, come tali, aspettano di essere storicizzati, integrati in una narrazione simbolica. L’altro è l’asse del vero inconscio in cui il soggetto (o, piuttosto, l’Io senza soggetto) è tutto solo: Chi è questo Io? – questo Io che sa di non avere né coda né testa, né significato né interpretazione. Abbiamo qui un esso che non è – come aveva potuto giocarci Lacan – quello 146 7. una fantasIa LetterarIa dell’inconscio, ma un esso che è un Io. 1 Il punto fondamentale è che qui si considera l’Uno-tutto-solo. Sono almeno due le allusioni lacaniane che trovano un modo per essere ordinate da questo tutto-solo in questo testo. Dice Lacan: «Lì, in quello spazio che sostiene questo inconscio, non c’è amicizia». Nessun’amicizia che possa far da supporto all’inconscio. 2 «Amicizia» sta qui per il collegamento dall’uno all’altro, tra soggetti ma anche tra significanti: il significato nasce solo attraverso tale «amicizia», in cui un significante interpreta l’altro. 3 Con l’Io senza soggetto che è tutto solo, c’è anche linguaggio, ma questo linguaggio funziona come un’erratica allucinazione pre-simbolica, un’allucinazione senza legge: «L’allucinazione non obbedisce alle leggi del linguaggio, che siano quelle della connessione o della sostituzione, e appare come

indipendente dal gioco intersoggettivo».4 Quindi, ancora una volta, da un lato abbiamo il gioco intersoggettivo di transfert attraverso il quale i sintomi sono decodificati nel loro significato e quindi storicizzati, integrati nella storia della vita del soggetto e dall’altro lato abbiamo una vera interruzione del linguaggio, un reale che «dal linguaggio non si aspetta nulla» e che «chiacchiera da solo» ( cause tout seul). Ora sappiamo dare a questo tutto solo il suo valore, il che indica che non siamo nella storia, nell’isteria, nell’uno e nell’altro, ma, al contrario, dalla parte del solitario. Lacan aggiunge persino che il reale appare come un «rumore in cui si può sentire qualsiasi cosa».5 Questa differenza tra il linguaggio come sintomo che punta al significato e il linguaggio come «chiacchiera da tutto 147 Hegel e il cervello postumano solo», composto da sintomi che condensano solo la jouissance, non si sovrappone all’opposizione tra isteria e psicosi; divide lo spazio della psicosi stessa nella paranoia (in cui sono ancora operativi meccanismi significanti di retroazione) e nella schizofrenia in cui «il simbolico cessa di avere senso, facendo la storia, dove il simbolico è al livello del rumore in cui si può sentire qualsiasi e qualunque cosa. È un collasso delle due dimensioni: il simbolico collassa sul reale». 6 Per questo stesso motivo ci troviamo qui nell’ambito delle allucinazioni: quando il simbolico «collassa sul reale», la realtà (per definizione sostenuta da uno scarto che separa il simbolico dal reale) si disintegra, il soggetto subisce una «perdita di realtà» ( Realitätsverlust). Possiamo immaginare l’aspetto di tale «chiacchiera»? Qui dovremmo passare all’ Innominabile come meditazione cartesiana di Beckett. 7 Il contrasto con Cartesio salta immediatamente all’occhio: in Cartesio,

la riduzione all’«Io penso», al puro flusso di pensieri immanenti, è un punto di partenza di intuizione razionale che ci porta immediatamente a dio e alla struttura ben ordinata della realtà; ma è come se Beckett rimanesse bloccato nel cogito come Uno, al suo grado zero, e persistesse in esso senza l’Altro che garantirebbe l’ordine razionale dell’universo. È per questo che, nell’ Innominabile, non passiamo mai alla realtà (pienamente costituita), l’universo in cui dimora il narratore è proprio quello delle allucinazioni er-ratiche. Andrew Cutrofello8 ha sostenuto che la posizione di procrastinazione di Amleto può anche essere formulata nei termini di Bartleby: «Preferirei non... vendicare mio padre». Non potrebbe essere posta negli stessi termini anche la presa di posizione nell’ Innominabile? «Preferirei non... essere o pensare». Questo collegamento a Cartesio non è solo un’interpretazione esterna: la conoscenza di Cartesio da parte di Beckett è 148 7. una fantasIa LetterarIa ben nota e alcuni critici hanno già rilevato che L’innominabile è un cogito cartesiano, anche se molto insolito e instabile, un essere senziente che si trova nella scatola nera della sua stessa coscienza, e il suo problema è: «come fa l’innominabile a fuggire l’essere, il dolore commisurato all’essere, come esce dal labirinto del linguaggio in cui si trova?» Qui le cose si compli-cano, perché Beckett non si limita a mettere in scena il cogito; attraverso questa messa in scena, simultaneamente (da buon hegeliano) mette in evidenza le sue distinzioni e tensioni interiori, che potremmo usare come astute indicazioni di ciò che ci aspetta nella Singolarità. Tanto per cominciare, Beckett nota immediatamente come questo innegabile cogito non fluttui spensierato nelle sue allucinazioni ma sia radicalmente diviso: non sta parlando, il linguaggio stesso gli è imposto dall’esterno, è parlato (come avrebbe detto Lacan), dominato da un Altro esterno, la versione di Beckett del malin génie

di Cartesio, che manipola le mie allucinazioni; oppure, come diceva Deleuze a proposito di Beckett e il suo uso del linguaggio: «È sempre un Altro che parla, poiché le parole non mi aspettavano, non si aspettavano me, e non c’è altra lingua tranne quella straniera».9 In breve, l’innominabile «presume che la lingua gli arrivi puramente dall’altro, che gli passi attraverso e non gli appartenga».10 Come fa dunque l’innominabile a cercare un varco in questo casino? Qui Beckett propone la sua dialettica del linguaggio e del silenzio: non c’è possibilità per l’innominabile di appropriarsi del linguaggio, di farlo proprio ed esprimervisi pienamente. Tutto ciò che può sperare è di «poter sfuggire al tormento di parlare inter-minabilmente dicendo (per puro caso) qualcosa che deve esser detto per porre fine a quel tormento». 11 Ma questo momento non arriva mai e finisce sempre con l’affermazione che deve continuare. Quindi «la domanda resta in sospeso, non siamo 149 Hegel e il cervello postumano in grado di pensare al linguaggio come finito o infinito», e la realtà rimane quella di un’infinita allucinazione erratica di voci (esterne, non mie): Non bisogna dimenticare, e a volte lo dimentico, che è tutta una questione di voci. [...] Dico quello che mi si dice di dire, nella speranza che un giorno ci si stancherà di parlarmi [...] Credono ch’io creda di essere io a parlare? È ancora roba loro. Per farmi credere che ho un io tutto mio, e che posso parlarne, come loro del loro.12 Ancora una volta, la nostra ipotesi è che una tensione simile possa caratterizzare la nostra immersione in una Singolarità. Se lasciamo da parte l’ulteriore raddoppio dell’innominabile in Mahood e Worm (un raddoppio che riecheggia il divario che separa il parlato dal silenzio),

il dilemma che sorge qui è: il parlato è un atto violento che disturba la pace della violenza, o la pace stessa è la violenza peggiore? Il silenzio dei desideri innegabili non è solo un qualsiasi silenzio: «E in verità mantenere il silenzio non è tutto, ma bisogna anche vedere che genere di silenzio si mantiene».13 Il silenzio che l’innominabile desidera è quello apparentemente irrecupera-bile che viene prima del parlato, il silenzio prima della possibilità della violenza: «il silenzio, una volta rotto, non sarà mai più intero».14 Qui tuttavia è Beckett stesso, nella sua frase assai citata, a mancare il bersaglio: «Ogni parola è come una macchia inutile sul silenzio e sul nulla». Ciò che Beckett non coglie tuttavia, è che quando una macchia appare così ridon-dante, superflua, rimane inevitabile: crea in modo retroattivo il silenzio che macchia/disturba. Sì, le parole sono per definizione inadeguate, ma creano in modo retroattivo lo standard stesso rispetto al quale appaiono inadeguate. 150 7. una fantasIa LetterarIa L’innominabile è stato tradizionalmente letto come una narrazione da oltre la morte: per quanto i tre romanzi di Beckett Molloy, Malone muore e L’innominabile comprendano una tri-logia, L’innominabile segue Malone muore. Ma è importante notare come l’aldilà qui non sia aldilà, che coinvolge il linguaggio, la coscienza, è legato all’essere e all’esperienza vissuta; sarebbe quindi più adeguato collocare l’innominabile nel dominio tra le due morti, quello dei morti viventi o dei non-morti. Proprio come tra silenzio e linguaggio, lo stesso e l’altro, l’interno e l’esterno, l’innominabile è dato tra la vita e la morte: Forse è questo che sento, che c’è un fuori e un dentro e nel mezzo ci sono io, forse è

questo che io sono, la cosa che divide in due il mondo, da una parte il difuori, dall’altra il di-dentro, potrebbe essere sottile come una lama, io non sono né da una parte né dall’altra, io sono nel mezzo, sono il dia-framma, ho due facce e niente spessore, forse è questo che sento, mi sento vibrare, sono il timpano, da una parte c’è il cranio, dall’altra il mondo, io non faccio parte né dell’uno, né dell’altro.15 Il blocco finale è quindi quello ontologico: Beckett «ci conduce attraverso un labirinto di linguaggio e allude a una soglia, ma non può essere attraversata perché non c’è nulla con cui attraversare, niente da attraversare». Siamo portati «al limite dell’universo ma non c’è lancia da lanciare, nessuna mano da allungare attraverso la superficie del cielo che racchiude l’innominabile come un muro, nessuna possibilità di dire se siamo di fronte a un vuoto o al suo contrario»; oppure, per citare Beckett stesso: Ma in realtà questo schermo contro il quale il mio sguardo urta, insistendo a vedervi dell’aria, non sarà piuttosto il re-151 Hegel e il cervello postumano cinto, d’una densità di grafite? Per chiarire questa faccenda avrei bisogno di un bastone e dei mezzi per servirmene [...] lo scaglierei, come un giavellotto, dritto davanti a me e sa-prei se ciò che mi accerchia tanto da vicino, e mi impedisce di vedere, è sempre un vuoto, oppure è un pieno [...].16 Questo ci riporta ancora una volta alla domanda che perseguita questo libro: perché Hegel? Perché il riferimento a Hegel per comprendere un fenomeno singolarmente così non hegeliano come la Singolarità? Prendiamo l’esempio del passaggio dal film muto al sonoro: chi ha resistito a questo passaggio ne ha colto assai più chiaramente le implicazioni. Vale a dire, qual è stato l’effetto dell’aggiungere il sonoro al film muto? L’esatto contrario della «naturalizzazione» che ci si aspettava, cioè di un’imitazione della realtà ancora più «realistica». L’inizio del sonoro segnò l’avvento di una voce inquietante battezzata da Michel Chion « acousmatique»:17

una voce non collegata a un oggetto (una persona) all’interno della realtà diegetica, e non semplicemente di un commentatore esterno, bensì una voce spettrale, che fluttua liberamente in un misterioso ambito intermedio e acquisisce così l’orribile dimensione di onnipresenza e onnipotenza, la voce di un Padrone invisibile: dal Testamento del Dottor Mabuse di Fritz Lang alla «voce della madre» in Psyco di Hitchcock. Chi era contrario ai film parlati – dall’avanguardia russa fino a Charlie Chaplin – aveva compreso assai più chiaramente le dimensioni inquietanti di ciò che stava succedendo. Per quasi dieci anni Chaplin resistette alla realizzazione di un completo film sonoro. In Luci della città, il suo primo film sonoro, ci sono solo musica e alcuni rumori di oggetti, nessun parlato. In Tempi moderni il parlato c’è, ma solo quando viene riprodotto da una macchina (radio, altoparlante) mostrata sullo schermo. Solo nel Grande dittatore abbiamo de-152 7. una fantasIa LetterarIa gli attori che parlano: ma chi sono? Il principale agente del parlato è Hynkel (Hitler) con le sue urla violente e selvagge, udite per la prima volta attraverso gli altoparlanti... Dunque Chaplin percepiva chiaramente la dimensione minacciosa e destabilizzante della voce che funziona come una specie di spettrale morto vivente, mentre gli sciocchi propugnatori del cinema sonoro percepivano la situazione in termini realistici semplici («Bene, ora che abbiamo anche il suono possiamo riprodurre la realtà in modo più realisticamente convincente»), ignorando la frattura che era apparsa con il suono. E qualcosa di simile sta succedendo con la prospettiva della Singolarità: contro Kurzweil e altri fautori della Singolarità come armonioso fluttuare in una divina beatitudine dovremmo discernere in essa una scissione radicale: quale? Un breve ritorno a Beckett potrebbe esserci di qualche aiuto: L’innominabile è scisso in due (probabilmente virtuali, allucinate) entità, Mahood e Worm:

Si potrebbe dire che le storie di Mahood e Worm descrivano vagamente due poli filosofici: idealismo e materialismo. La storia di Mahood nel suo barattolo potrebbe essere letta come una parabola secondo le idee del connazionale di Beckett, George Berkeley. In seguito Beckett usò il famoso assunto di Berkeley esse est percipi come punto di partenza per la sceneggiatura di Film. Essere è essere percepiti: una volta che Mahood non si sente più percepito, scompare (uno stato della materia si riduce a uno stato mentale). Ma questa scomparsa suggerisce che Mahood non ha percezione di sé, che il suo stato mentale non gli appartiene ma è quello di altri; Mahood smette di esistere perché «loro» non credono più in lui, non perché non creda più in sé stesso. A questo punto è come Worm: «Worm è, poiché lo concepiamo, 153 Hegel e il cervello postumano come se non potesse esserci altro essere che l’essere conce-pito». Né l’idealismo né il materialismo sono puri, quindi, ma l’opposizione sembra abbastanza chiara. Al polo opposto di Mahood, Worm è un essere materialista. Il suo è uno stato d’animo ridotto a uno stato della materia, è un essere precosciente, una cosa, una creatura che dorme, pura materia senza mente, pura materia che ha la mente brutalmente impressa su di essa. Worm inizia la vita come «allievo Mahood», una tabula rasa che «loro» tentano di incidere con il linguaggio.18 Per cui, ancora: perché il soggetto non scomparirà nella Singolarità? Perché una volta che c’è la differenzialità, una volta che siamo nel suo spazio, la stessa scomparsa continua a per-sistere: non come un fatto positivo, bensì come un assenziale. Se quindi accettiamo che una forma minima di soggettività sopravviva all’immersione nella Singolarità, possiamo supporre che un soggetto nella Singolarità sia anche diviso in «Mahood»

(il solipsista che fluttua nello spazio comune dei pensieri condivisi) e «Worm» (la realtà senza pensiero). Non vi galleggerà mai soltanto: nella misura in cui sopravvive come soggetto, rimarrà consapevole di sé stesso come (anche) di un oggetto inerte simile a un verme (parte del macchinario neuronale digitale). Questo radicale divario tra pura immanenza (sono Mahood, un flusso di pensieri senza sé) e piena oggettivizzazione (sono Worm, parte della macchina neuronale) non è solo «oggettivo», è immanente al soggetto: attraverso questa oggettivizzazione (ed essendone consapevole), il soggetto come un «vuoto» $ persiste nella sua minima distanza dalla Singolarità. Qui dovremmo tornare al tecnognosticismo sovietico che, esattamente in parallelo alla dualità di Mahood e Worm, guardò alla nuova entità postumana come la combinazione di consapevolezza 154 7. una fantasIa LetterarIa trans-personale e distanza «oggettiva» verso il proprio corpo: alla trans-unità personale si accompagna lo scarto radicale tra me e la mia esistenza incarnata; potrei far parte della stessa consapevolezza transpersonale, ma il prezzo che pago è che perdo la mia unità personale e mi relaziono al mio corpo come un oggetto nel mondo. A questo punto, possiamo persino risalire da Beckett agli inizi della tradizione occidentale, a un testo unico in cui i contorni della soggettività postumana sono per la prima volta chiaramente delineati: l’ Edipo a Colono di Sofocle. E se il passaggio dall’umanità alla postumanità fosse quello dall’ Edipo Re all’ Edipo a Colono? Se il soggetto umano è edipico (con tutto ciò che questo implica: costituzione attraverso la castrazione simbolica, regolazione del desiderio attraverso la Legge simbolica ecc.), il soggetto postumano è come Edipo a Colono,

«anti-Edipo» o, come dice Lacan, al di là di Edipo, ridotto a un residuo escrementale della catena significante, 19 la catena ora incarnata nello spazio collettivo della Singolarità. Le cose sono più complesse di quanto sembrino già con Edipo prima di Colono. Molti osservatori avvertiti hanno notato che rispetto alla classica struttura tragica, la storia di Edipo fa eccezione. Nella struttura classica, l’eroe commette inconsapevolmente un crimine ma poi soggettivizza il suo atto, si assume eroicamente il senso di colpa e muore una morte tragica. La psicoanalisi può facilmente spiegare la colpa dell’eroe per aver compiuto un atto che non era una sua libera decisione ma il suo destino predeterminato dagli dei (o necessità storica, come piaceva dire agli stalinisti): il soggetto è colpevole a causa del godimento che trova nel fare ciò che gli è imposto, dal momento che ottiene questo godimento come surplus, senza esserne responsabile. Si prenda il carnefice stalinista che personalmente non ama la crudeltà, ma deve compiere le elimi-155 Hegel e il cervello postumano nazioni perché la Storia lo richiede: la «necessità storica oggettiva» cui si riferisce è costituita dal suo riconoscerla. Lo stesso vale per un insegnante che si sente obbligato a punire crudel-mente e disciplinare i suoi allievi «per il loro bene», anche se (sostiene di farlo) controvoglia: «È il desiderio che sostiene la necessità oggettiva, il destino: è desiderio del soggetto a dare coerenza al Grande Altro e alla sua Volontà».20 Quindi non è che «soffrirai il tuo destino che tu lo voglia o no», è il tuo desiderio a essere costitutivo dell’«oggettività» stessa del tuo destino: lo desideri proprio come un fatto «oggettivo» della cui responsabilità ti assolve. Può sembrare che lo stesso valga per Edipo: ha ottenuto ciò che desiderava (uccidere suo padre e andare a letto con sua madre) senza sapere che erano suo padre e sua madre: tuttavia – a uno sguardo più attento – vediamo rapidamente che questo non è ciò che

Edipo fa. Come afferma Hegel, per l’eroe tragico l’onore più alto è la colpa – privandolo della sua colpa, lo sottoponiamo a una completa umiliazione – ed Edipo è privato anche di questo onore della colpa, il che significa che «nemmeno gli è permesso di partecipare al suo destino con il suo desiderio. 21 «Non c’era in lui un ‘desiderio inconscio’ che lo spingesse alle sue azioni, motivo per cui, dopo aver appreso ciò che faceva, si è rifiutato di agire come un eroe tragico e di assumere la sua colpa. Come afferma ripetutamente Lacan, a differenza di tutti noi, Edipo è l’unico senza un complesso di Edipo. Nel solito scenario edipico, compromettiamo il nostro desiderio sottomettendoci alla Legge simbolica, rinunciando al vero (incestuoso) oggetto del desiderio. A Colono, al contrario, Edipo rimane testardo fino alla fine, pienamente fedele al suo desiderio, il n’a pas cédé sur son désir. A Colono, non è un vecchio saggio che impara la vanità del desiderio, è soltanto qui che vi accede pienamente. 156 7. una fantasIa LetterarIa Come ha sottolineato Lacan, Edipo non ha il complesso di Edipo, ma ce l’ha Amleto, e pienamente (lo attesta il suo lungo confronto con la madre a metà della commedia). Entrambe le storie, Edipo e Amleto, sono miti universali che si trovano dall’Africa e la Polinesia ai paesi nordici, ma in Sofocle e in Shakespeare prendono una piega diversa. Nella versione di Sofocle, Edipo risponde all’enigma della Sfinge e quindi la spinge ad autodistruggersi; una svolta «filosofica» unica del mito. 22 (Inoltre, la risposta di Edipo è assolutamente sbagliata nel senso della falsa universalità filosofica che oscura la singolarità della verità: la risposta corretta non è «uomo» (in generale) ma lo stesso Edipo che da bambino gattonava perché zoppo e che, da vecchio cieco, doveva appoggiarsi ad Antigone per poter

camminare). Anche il mito di Amleto è universale, ci sono persino delle interpretazioni secondo cui originariamente si ri-feriva alla precessione nel movimento circolare dei pianeti, cioè a un glitch, uno squilibrio, nel movimento circolare del nostro cosmo stesso. 23 Ma nelle versioni premoderne, la vendetta di Amleto ristabilisce semplicemente l’armonia disturbata dall’omicidio del padre da parte dello zio: come nel Re Leone, il figlio uccide lo zio e s’impossessa del trono, e da quel momento il mondo ritorna di nuovo a posto: siamo fermamente nella cir-colarità di un disturbo e nella sua correzione. In Shakespeare, tuttavia, la situazione di stallo rimane, non c’è ritorno all’equilibrio perduto. Omologamente alla risposta errata di Edipo all’enigma della Sfinge, Amleto non vede che l’elemento «fuori posto» nel suo mondo è in definitiva lui stesso, la negatività che definisce il suo status come soggetto. È così che dovremmo leggere la sua famosa frase «essere o non essere, questo è il dilemma»: echeggiando il cogito ergo sum di Cartesio, dovrebbe essere integrato come «pensare o non pensare, questo è il dilemma». In quanto soggetto, Amleto non è (come un determi-157 Hegel e il cervello postumano nato oggetto nel mondo), né pensa (pensieri determinati): tutto il suo essere alberga nel momento fugace e sfuggente dell’«Io penso», e tutto il suo pensiero è ridotto al minimo indispen-sabile di «Io sono». Entrambe le facili scelte – «essere e non pensare» (come il Worm di Beckett) e «pensare e non essere» (come Mahood) – gli sfuggono, è una pura entità spettrale inse-diata nel dominio intermedio né del vivo né del morto. E qui la nostra domanda è: noi – in quanto soggetti puri desideranti, né vivi né morti – come siamo colti nel passaggio alla Singolarità? Per Lacan, in contrasto con la verità neutra e oggettiva, l’interpretazione analitica è come un oracolo che diventa reale solo in rapporto ai suoi effetti: per dire, il destino predetto al padre di Edipo diventa realtà attraverso i suoi sforzi per evitarlo. L’evitare faceva quindi parte del piano, il che significa che – quando il destino è annunciato a un

soggetto in un oracolo profetico – se questi non vuole compromettere il suo desiderio non cerca di sfuggirgli, ma piuttosto di persi-stervi: se il padre di Edipo avesse evitato i tentativi di sfuggire al destino e lo avesse accettato eroicamente, esso non si sarebbe verificato. Vale anche per le prospettive catastrofiche della Singolarità? Potrebbero anch’esse attualizzarsi attraverso i nostri stessi tentativi di evitarle? Una cosa è certa: se la Singolarità è il nostro destino, dovremmo accettarla eroicamente, ma senza in-vestirvi il nostro desiderio. Forse, nella misura in cui la Singolarità è in un certo senso incestuosa (in essa perdiamo la distanza dalla realtà e da altri), e nella misura in cui l’incesto non è solo proibito ma impossibile (anche se andassi a letto effettivamente con mia madre, scoprirei che non è la Madre, l’oggetto ultimo del desiderio), ciò che sperimenteremo immergendoci nella Singolarità è questo divario ultimo, quello tra la madre empirica e la Madre-Cosa. Per di più, laddove la nostra comparsa («nascita») come soggetti simbolici avviene attraverso l’acqui-158 7. una fantasIa LetterarIa sizione della distanza dalla realtà, la nostra immersione nella Singolarità equivarrà all’annullamento della nostra nascita. Realizzeremo dunque quello che, secondo il Coro nell’ Edipo a Colono, è il nostro miglior destino: Non nascere è per l’uom ventura massima; e poi, venuto al giorno, colà d’onde ebbe origine, subito far ritorno. Ché quando Gioventú sparve, recando le sue lievi follie, quale su noi travaglio non preme, quale mai colpo si schiva? Discordie, gelosie,

risse, battaglie, stragi; e infine, retaggio ultimo esecrabile, è la vecchiaia, priva di vigore, di piacevoli conversari, d’amicizia, che in sé d’ogni tristizia ha la tristizia. 24 (Per inciso, qui non ci si dovrebbe astenere dal prodursi in un po’ di umorismo di cattivo gusto: questi famosi versi corali sul non nascere come la fortuna più grande, non potrebbero essere attualizzati oggi come il miglior argomento per l’aborto? «Preoccupati per il mondo in cui vivrà vostro figlio? Possiamo assicurargli il massimo della fortuna con un aborto...)25 Se la cosa migliore che può accaderci è di non nascere affatto, la nostra nascita è già una sorta d’insuccesso, l’insuccesso della nascita, il non riuscire a raggiungere lo stato ottimale del non essere mai nati: non è la mancanza dell’essere che è un essere mancato, è il nostro stesso essere l’incapacità nostra di raggiungere il non-essere. 26 In altre parole, il nostro essere è immanentemente misurato dall’ipotesi controfattuale del non-essere. Non si abbia timore di trarre delle conseguenze ontologiche radicali da questa inversione. Secondo la configurazione onto-159 Hegel e il cervello postumano logica standard, le entità cercano la perfezione, il loro obiettivo è attualizzare il loro potenziale, diventare pienamente ciò che sono e la mancanza di essere segnala l’incapacità di una cosa di realizzare pienamente il suo potenziale. La configurazione deve essere invertita: l’essere come tale (nel senso di essere un’entità determinata) segnala un insuccesso, tutto ciò che è (come entità particolare) è contrassegnato da un insuccesso e l’unico modo per raggiungere la perfezione è immergere sé stessi nel vuoto del non-essere. Ciò che dobbiamo considerare qui è il fatto (oltre che uno dei grandi argomenti di Beckett) che per diventare ciò che si è effettivamente si

può anche vivere come non-ancora-pienamente-nati o, per dirla in termini più filosofici, non riuscendo a raggiungere la propria piena identità. L’alternativa che qui ci si pone di fronte è: in che modo la diade nato/non nato si collega alla diade umano e postumano? Noi umani siamo, in un certo senso, non ancora completamente nati, uno stato intermedio sfocato e incoerente tra l’animalità e la postumanità (come presume l’ideologia predominante della Singolarità), oppure in quanto umani, in un certo senso, lo siamo pienamente e il passaggio alla Singolarità postumana comporterà un qualche tipo di regressione a uno stato di non-essere-pienamente-nati come individui umani? Il nostro riferimento all’ Innominabile di Beckett punta in questa direzione: la soggettività immersa nella Singolarità non funzionerà come una versione del cogito cartesiano che rimane bloccato nelle allucinazioni solipsiste e non riesce a transire a un io che si riferisca a una realtà oggettiva costituita? Tuttavia, vale anche il contrario: come esseri umani, integrati nella nostra realtà, noi esistiamo proprio come non nati, ontologicamente incompleti, vale a dire proprio nella misura in cui la nostra esistenza umana è contrassegnata da un insuccesso costitutivo; e nella postumanità restiamo bloccati in 160 7. una fantasIa LetterarIa un limbo di non-essere-pienamente-nati proprio nella misura in cui otteniamo la nostra identità nell’essere immersi nello spazio condiviso della Singolarità. Per orientarci in questo caos, dovremmo cambiare radicalmente il terreno e rischiare una svolta nella dimensione politico-economica: questa riduzione/ritirata verso l’Uno, intrappolata nelle sue allucinazioni irregolari teorizzate da Miller e messe in scena nella scrittura di Beckett, non è strettamente correlata a un sistema anonimo di dominio (capitalistico) sociale incorporato nella macchina del controllo digitale e neuronale, non ne è forse la controparte soggettiva? Lo stesso Miller fa degli accenni in questa direzione quando varia ripetutamente il motivo del capitalismo di oggi come un processo dinamico che si svolge in un reale senza legge, minando

costantemente tutte le normative simboliche; e cita la famosa descrizione delle dinamiche capitalistiche del Manifesto del partito comunista come la descrizione appropriata del reale capitalistico al di fuori della legge: La migliore descrizione di ciò che con evidenza sperimentiamo oggi è in accordo con ciò che Karl Marx ha detto nel suo Manifesto del partito comunista a proposito degli effetti rivoluzionari del discorso del capitalismo sulla civiltà. Mi piacerebbe leggere alcune frasi di Marx che aiutino ad una riflessione sul reale: «La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali; […] questo costante scuotimento di tutto il sistema sociale […]. Tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi, si dissolvono; e quelli che li sostituiscono diventano antiquati ancor prima di cristallizzarsi. Tutto ciò 161 Hegel e il cervello postumano che era solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato». [...] Dirò che il capitalismo e la scienza si sono combinati per fare sparire la natura e ciò che rimane dalla sparizione della natura è quello che chiamiamo il reale, cioè un resto, e per struttura disordinato. Si tocca il reale da tutte le parti, secondo il progredire del binario capitalismoscienza, in modo disordinato, casuale, senza che si possa recuperare un’idea di armonia.27 È in questo contesto che si dovrebbe comprendere la tesi di Jacques-Alain Miller: « Il y’a un grand désordre dans le réel».28 È così che Miller caratterizza il modo in cui la realtà ci appare nella nostra epoca, in cui sperimentiamo il pieno impatto di due agenti fondamentali, la scienza moderna e il capitalismo.

La natura come il reale in cui tutto, dalle stelle al sole, ritorna sempre al suo posto, come il regno di grandi cicli affidabili e di leggi stabili che li regolano, viene sostituita da un reale completamente contingente, al di fuori della Legge, un reale che sta rivoluzionando in modo permanente le proprie regole e che resiste a qualsiasi inclusione in un Mondo (universo di significato) totalizzato, motivo per cui Badiou ha caratterizzato il capitalismo come la prima civiltà senza mondo. Qui, tuttavia, sorgono dei problemi. Miller afferma che il puro reale senza legge resiste alla comprensione simbolica, sicché dovremmo sempre essere consapevoli del fatto che i nostri tentativi di concettualizzarlo sono semplici parvenze, elucubrazioni difensive; ma se ci fosse ancora un ordine sottostante che genera questo disordine, una matrice che ne fornisce le coordinate? Questo è anche ciò che spiega l’identità ri-petitiva delle dinamiche capitalistiche: più le cose cambiano, più rimangono le stesse. In breve, ciò che Miller ignora è che 162 7. una fantasIa LetterarIa il fronte delle frenetiche dinamiche capitalistiche è un ordine chiaramente riconoscibile di dominio gerarchico. Questo vale anche per la nostra sessualità: è caotica, permissiva, senza legge, ma più che mai amministrata attraverso le regole del politicamente corretto... E non cercava Marx proprio le regole, le leggi di questo reale capitalistico? L’antagonismo di classe non è un’elucubra-zione simbolica sul reale anomico della vita sociale, ma il nome dell’antagonismo oscurato da formazioni ideologico-politiche. Nell’equiparare il capitalismo con il Reale al di fuori della Legge, Miller ne considera il capitalismo come l’ideologia, ignorando Lacan che coglieva chiaramente l’antagonismo ma-scherato dalla perversione capitalistica. La visione della società odierna come un Reale capitalistico al di fuori della legge simbolica è un disconoscimento

dell’antagonismo, proprio come la nozione del Reale sessuale al di fuori della Legge lo è dell’antagonismo sessuale. L’ossessione di Miller per il Reale al di fuori della Legge lo porta anche ad approvare troppo rapidamente la tesi secondo cui, nella nostra realtà sociale, il Grande Altro virtuale sia pro-gressivamente sostituito dalla realtà digitale. Ma il grande Altro digitale colma semplicemente il vuoto del grande Altro virtuale che scompare? Alcuni lacaniani (incluso Miller) sostengono l’idea che oggi, nell’era delle fake news, il grande Altro non esista più; ma è vero? E se esistesse più che mai, solo in una nuova forma? Il nostro grande Altro non è più lo spazio pubblico chiaramente distinto dalle oscenità degli scambi privati, ma lo stesso pubblico dominio in cui circolano le fake news, in cui scambiamo voci e teorie della cospirazione.29 Non si dovrebbe trascurare quanto c’è di così sorprendente nell’avvento dell’oscenità spudorata dell’Alt-Right fatto notare e analizzato così bene da Angela Nagle. 30 Tradizionalmente (o perlomeno nella 163 Hegel e il cervello postumano nostra visione retroattiva della tradizione), l’oscenità spudorata funzionava come sovversiva, come un indebolimento del dominio tradizionale, come privare il Padrone della sua falsa dignità. Ciò che abbiamo oggi, con l’oscenità pubblica che esplode, non è la scomparsa del dominio, delle figure del Padrone, ma la loro potente ricomparsa. Donald Trump31 è la figura emblematica di questo nuovo tipo di maestro populista osceno e la solita argomentazione contro di lui – che il suo populismo (la preoccupazione per il benessere della povera gente comune) sia falso, che la sua politica effettiva protegge gli interessi dei ricchi – è fin troppo miope. I seguaci di Trump non agiscono «irrazionalmente», non sono vittime di rudimentali

manipolazioni ideologiche che li fanno votare contro i loro interessi, secondo i loro criteri sono abbastanza razionali: votano per Trump perché nella visione «patriottica» che spaccia, affronta anche i loro normali problemi quotidiani: sicurezza, impiego a tempo indeterminato ecc. 32 Trump non sta vincendo solo bombardandoci spudoratamente con messaggi che generano osceno godimento per il modo in cui osa violare le elementari norme della decenza. Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e con-torto, nondimeno un senso –, che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni («vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle»), e questa solidarietà segnala anche il punto in cui l’oscenità di Trump raggiunge il suo limite. Trump non è completamente osceno: quando parla della grandezza dell’America, quando respinge i suoi avversari come nemici del popolo ecc., intende essere preso sul serio e le sue oscenità hanno lo scopo preciso di enfatizzare per contrasto il suo livello di serietà: devono fun-164 7. una fantasIa LetterarIa zionare come un’esibizione oscena della sua fiducia nella grandezza dell’America. Ralph Peters è persino giunto a caratterizzare questo aspetto dell’appello di Trump agli elettori ordinari nei termini hegeliani della dialettica del riconoscimento: il messaggio di Trump all’elettorato ignorato dall’ establishment politico è un riconoscimento: Donald Trump ha avuto il genio di cogliere la bramosia di riconoscimento in una vasta fascia dell’elettorato ignorato o positivamente insultato dai partiti politici (precedentemente) al potere. Respinti dai custodi della ricchezza; infa-stiditi dal politicamente corretto; e dati per scontato da coloro che fanno le nostre leggi: in milioni di dimenticati erano pronti per il messaggio di Trump, che ammonta abilmente a un «Tu conti!»33

L’ironia non può sfuggire: da che Fukuyama aveva presentato Hegel come il filosofo della «fine della storia» raggiunta nel capitalismo liberaldemocratico come la migliore forma sociale e politica possibile, ci ritroviamo ora con Trump, che questa visione della fine della storia ha turbato e della storia (nel senso di violente lotte populiste e come minimo anche di guerra civile ideologica) ha innescato un qualche risveglio, ancora una volta come una sorta di hegeliano... È per questo che, per indebolire Trump, si dovrebbe iniziare spostando la sede della sua oscenità e trattare come veramente oscene proprio le sue affermazioni «serie». Trump non è veramente osceno quando usa termini volgari, sessisti ecc., lo è quando parla dell’America come il più grande paese del mondo, quando impone le sue misure economiche, ecc. L’oscenità del suo linguaggio maschera quest’oscenità più elementare. Ancora una volta, potremmo parafrasare qui il noto detto dei fratelli Marx: Trump agisce e 165 Hegel e il cervello postumano sembra un politico spudoratamente osceno, ma non lasciamoci ingannare: è davvero un politico spudoratamente osceno. Un tale, osceno grande Altro costituisce quindi un terzo dominio tra lo spazio privato e quello pubblico: lo spazio privato elevato alla sfera pubblica. Sembra essere la forma che meglio si confà alla nostra immersione nel cyberspazio, alla nostra partecipazione a tutte le possibili chat room, i tweet, i post su In-stagram e su Facebook... Non c’è da stupirsi che Trump renda pubblica la maggior parte delle sue decisioni via twitter. Tuttavia, non è qui che arriviamo al «vero Trump»: il dominio delle oscenità pubbliche non è quello della condivisione di esperienze intime, è un dominio pubblico pieno di bugie, ipocrisie e pura maldicenza, con il quale interagiamo come indossando una maschera disgustosa. La relazione standard tra la mia in-timità e il grande Altro della pubblica dignità viene così invertita: le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplo-dono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffer-marmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente, nella mia intima purezza.

Ma cosa succede a questo osceno grande Altro (ancora uno spazio virtuale-simbolico) quando ci immergiamo in una Singolarità in cui le fantasie intime sono direttamente co-esperite? Una cosa è certa: l’impatto della (futura) ascesa della Singolarità sarà apocalittico; la domanda è soltanto: che tipo di apocalisse scatenerà? 166 Un trattato sull’apocalisse digitale L’apocalisse («rivelazione», in greco antico) è un disvelamento, o rivelazione di conoscenza; nel linguaggio religioso, ciò che l’apocalisse rivela è qualcosa di nascosto, la verità ultima a cui siamo ciechi nella nostra vita di tutti i giorni. L’Apocalisse di Giovanni la descrive come la distruzione completa e finale del mondo; analogamente, ci riferiamo oggi di solito a qualsiasi evento catastrofico su larga scala – o catena di eventi danno-si per l’umanità o la natura – come «apocalittico». Benché sia facile immaginare l’apocalisse-disvelamento senza l’apocalissecatastrofe (per dire, una rivelazione religiosa) e l’apocalissecatastrofe senza l’apocalisse-disvelamento (un terremoto che distrugge un intero continente), tra le due dimensioni c’è un legame interno: quando affrontiamo (o pensiamo di affrontare) una verità superiore e finora nascosta, questa è talmente diversa dalle nostre opinioni comuni da mandare il nostro mondo in frantumi e viceversa, ogni evento catastrofico – anche se puramente naturale – rivela qualcosa di ignorato nella nostra esistenza normale, ci mette faccia a faccia con una verità rimos-sa. Non siamo pronti a confrontarci con la verità ultima nella nostra consueta quotidianità e preferiamo soffermarci sulle illusioni; sicché, quando siamo costretti ad affrontare la verità, 167 Hegel e il cervello postumano la sperimentiamo come «apocalittica», come la fine del nostro mondo. S’immagini d’imbatterci nella prova inconfutabile di essere osservati dagli alieni: non una grande catastrofe, solo una piccola cosa scoperta per caso. L’impatto di una

simile scoperta, pur senza conseguenze materiali per le nostre vite quotidia-ne, apparirebbe tuttavia apocalittico, schiantando le premesse di base del nostro sentimento di sovranità e libertà, facendosi beffe della maggior parte dei nostri presupposti spirituali. Apocalisse con o senza regno? Nel suo saggio Apocalisse senza regno, Günther Anders ha introdotto il concetto di nuda apocalisse: «L’apocalisse che consiste nella semplice Caduta, che non rappresenta l’aprirsi di un nuovo positivo stato di cose (del ‘regno’)». 1 L’idea di Anders era che una catastrofe nucleare sarebbe stata proprio una tale nuda apocalisse: da essa non sarebbe emerso un nuovo regno, ma so-lo l’annientamento di noi stessi e del nostro mondo. La nostra domanda qui è: quale sarà il nostro ingresso nella Singolarità? L’ingresso in un nuovo regno superiore (postumano), soltanto la scomparsa dell’umanità come la conosciamo, o in un certo senso (ma quale?) entrambi simultaneamente? È chiaro che l’eventuale ascesa della Singolarità sarà apocalittica nel complesso significato del termine: implicherà l’incontro con una verità nascosta nella nostra ordinaria esistenza umana, ossia l’ingresso in una nuova dimensione postumana che non può non essere vissuto come catastrofico, come la fine del nostro mondo. Ma sperimenteremo la nostra immersione nella Singolarità in un qualunque senso umano del termine? Qui ci vuole una panoramica più generale di come funziona un’apocalisse; la migliore versione dei paradossi della ragione 168 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe apocalittica è quella fornita da Jean-Pierre Dupuy.2 A proposito della minaccia di autodistruzione nucleare dell’umanità, Dupuy evidenzia il suo paradosso: è «un evento che, se dovesse accadere, farebbe sì che questa storia non solo non abbia più alcun senso ma

che non ne abbia mai avuto, poiché non ci sarebbe nessuno a ricordarla». 3 Non si potrebbe dire lo stesso della Singolarità (se facessimo nostra la sua lettura «pessimistica»)? Non sarebbe come se – in un’epoca effettivamente postumana, in cui si perde la nostra distanza dalla realtà esterna – la nostra eredità spirituale diventasse insignificante come se non esistesse e, di conseguenza, come se non fosse mai esistita? La domanda su cui dovremmo concentrarci è: la Singolarità postumana sarà uno «stadio superiore» della perfezione in cui noi postumani ricorderemo (con affetto) i capricci dello «stadio inferiore» dell’umanità, oppure l’umanità perderà retroattivamente di senso? Nulla rende più chiaro il paradosso della guerra nucleare dell’idea del cosiddetto «attacco preventivo», un attacco nucleare sferrato al nemico per impedirgli di attaccarci. Come una punizione inflitta in anticipo, prima che il criminale com-metta il suo crimine cosicché – anche se colpiamo per primi – il nostro atto conta come secondo, come una reazione, un «colpire per ‘vice-’primi».4 Il paradosso di base della logica di dissuasione denominata mad ( Mutually Assured Destruction), 5 secondo cui – laddove entrambe le parti abbiano abbastanza armi nucleari per distruggere l’avversario anche se questo attacca per primo – nessuno lo farà ben sapendo che l’attaccare per primi porterebbe alla propria autodistruzione, è che se funziona perfettamente si annulla da solo, dimodoché è la stessa sua imperfezione (la minaccia che non funzionerà, che una delle parti scatenerà comunque l’attacco nucleare) a renderlo valido. Dupuy dimostra così nel dettaglio come l’argomenta-169 Hegel e il cervello postumano zione sulla dissuasione nucleare s’impigli necessariamente in un’antinomia della ragione morale:

Non esiste una risposta unanime alla domanda: «È efficace la dissuasione nucleare?»; non c’è argomento che non fornisca ragioni all’argomento contrario; non c’è ragionamento che non assuma la forma di un paradosso. Ci ritroviamo con una situazione frustrante, quasi un’umiliazione della ragione. 6 Gli echi kantiani di questa formulazione non possono sfuggire: a proposito delle sue antinomie della ragion pura, lo stesso Kant parla dell’«eutanasia della ragione». Ma se questi limita tali antinomie al campo epistemologico, quanto alle antinomie della pura ragion pratica (etica) dovremmo essere più kantiani dello stesso Kant. I paradossi impliciti nel ragionamento mad non sono tracce di irrazionalità, le prove che restiamo intrappolati nel dominio delle passioni irrazionali di vendetta, risentimento ecc., sì da non rendere questo stesso ragionamento davvero puramente razionale. Al contrario, questi sono paradossi – «irrazionalità» – della pura logica e del ragionamento strategico stesso, paradossi che affiorano necessariamente quando la posta in gioco (la scomparsa dell’umanità) è così elevata. Nei termini lacaniani della logica del non-tutto, dobbiamo passare dall’«irrazionalità» nel senso dell’eccezione alla ragione (le passioni «patologiche» che continuano a di-storcere il suo puro esercizio) all’«irrazionalità» del puro ragionamento stesso. La radice di questi paradossi consiste nel fatto che non abbiamo a che fare con il tempo ordinario del progresso storico, ma con quello che Dupuy chiama il «tempo del progetto», il cui caso esemplare è la grande tradizione dei profeti di sventura, che dipingono il futuro oscuro della catastrofe totale 170 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe come nostro destino proprio per spingerci a evitarlo, o perlomeno a rimandarlo. Non fanno esattamente lo stesso i cupi profeti della catastrofe ecologica di oggi? Proiettano il futuro punto fisso della crisi ecologica per mobilitarci ad agire in modo rapido e deciso. Anche i comunisti «deterministi»

del XX secolo agivano in modo simile, sebbene il loro punto fisso (la società comunista) fosse positivo, non una catastrofe da evitare: il comunismo è necessario ma dobbiamo lottare per esso di continuo, siamo fondamentalmente responsabili poiché i nostri errori o comportamenti opportunistici possono impedire la realizzazione della necessità storica. In alcune versioni del marxismo occidentale, il «punto fisso» diventa negativo, un telos catastrofico della storia da evitare; Adorno e Horkheimer lo chiamano il «mondo amministrato» ( verwaltete Welt) e Mar-cuse la «società a una dimensione». Il bello di questa visione è che il «punto fisso» negativo non è una svolta catastrofica delle nostre società, ma qualcosa in cui scivoliamo proprio se non ci sarà una svolta catastrofica e le cose andranno avanti (più o meno) senza intoppi. Il nostro destino è il tecnocratico punto terminale verso cui tende la storia, la stazione finale del famoso (o famigerato) «treno della storia» e ciò che dovremmo fare, come diceva Benjamin, non è favorire il progresso storico ma tirarne il freno di emergenza. Per gli anticomunisti, il progetto comunista è, ovviamente, un punto terminale catastrofico e la sua evocazione un modo per mobilitare le persone a combat-terlo. Negli ultimi decenni della Guerra fredda c’erano egregia-mente riusciti: i molti annunci di panico – che la Guerra fredda era finita, che il comunismo aveva già vinto, l’evocazione del comunismo come nostro destino – avevano funzionato perfettamente, come la sua sconfitta dimostra. Ecco perché – pur trovandomi in linea con la spinta fondamentale della lettura di McGowan sulla relazione tra Hegel e Freud – non posso essere 171 Hegel e il cervello postumano d’accordo quando bolla una fondamentale frase di Hegel come «fuorviante»: Se Hegel avesse avuto modo di conoscere la concezione di Freud dell’inconscio e delle pulsioni, sarebbe stato in grado di formulare l’appello della contraddizione in modo più diretto sia a sé stesso che ai suoi lettori. Non avrebbe usato i termini fuorvianti del bene e

dell’unità per descrivere le azioni del soggetto. Non avrebbe detto, verso la fine dell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche, «il bene, il bene assoluto, si porta a compimento nel mondo in eterno, e il risultato è che è già portato a compimento in sé e per sé, senza prima aver bisogno di aspettarci». Hegel non ha un apparato concettuale per formulare il modo in cui cerchiamo i turbamenti sotto le spoglie del successo.7 Hegel sa bene come «cercare i turbamenti sotto le spoglie del successo», il problema è che è ambiguo nel modo in cui lo formula. Può essere letto come se affermasse che l’Assoluto sta giocando con sé stesso: crea un disturbo (si aliena da sé stesso, viene coinvolto in una lotta con sé stesso) e gode a giocare con sé stesso. 8 L’intera vita dell’Assoluto è di «cercare turbamenti», ed Hegel sa perfettamente che ogni successo crea una nuova (auto)divisione: quando il nemico è sconfitto, il vincitore deve confrontarsi con la propria contraddizione... In questa lettura è la presupposizione del soggetto stesso del processo a essere sbagliata: l’«Assoluto» autoidentico che gioca con sé stesso. A perdersi qui è il fatto fondamentale che nelle divisioni non esiste un soggetto autoidentico che giochi con sé stesso: la divisione viene prima, precede ciò che è diviso, e l’autoidentità che emerge nel corso del processo è una forma di (auto)divisione. Senza questo fatto, non possiamo comprendere corret-172 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe tamente il passaggio citato da Hegel che McGowan considera problematico. Per dirla nei termini di McGowan, se la riconciliazione è riconciliazione con la contraddizione, ciò significa precisamente che – in un certo senso – la riconciliazione è sempre già avvenuta; l’illusione è che non lo sia. Questo dice Hegel nel citato passaggio «problematico» ma è qui che iniziano i problemi interpretativi. Se leggiamo questo passaggio in modo semplice e diretto, esso equivale alla più forte affermazione possibile dell’Assoluto come Sostanza autosufficiente e non anche come

soggetto. Contrariamente a questa lettura, bisognerebbe insistere sul fatto che il passaggio «problematico» è l’unico modo per formulare coerentemente l’idea dell’Assoluto non solo come sostanza, ma anche come soggetto. La soluzione non è concepire il processo storico come aperto, con tutto che dipende da noi soggetti liberi e ogni determinazione oggettiva una oggettivizzazione reificata della nostra creatività; non è nemmeno la combinazione «equilibrata» di un destino sostanziale con lo spazio limitato della libera creatività soggettiva, nel senso del famoso passo dell’inizio del 18 brumaio di Marx: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione».9 Non è che la necessità storica abbia fornito il quadro di base entro cui possiamo agire liberamente (nel senso della nozione di necessità storica di Engels che si realizza attraverso una complessa rete di contingenze individuali). Esiste il Fato, il nostro futuro è predeterminato, l’Assoluto «è già portato a compimento in sé e per sé, senza prima aver bisogno di attenderci», ma questo stesso compimento è un nostro atto contingente. In breve, il paradosso è che l’unico modo per affermare la possibilità di un cambiamento radicale attraverso un intervento 173 Hegel e il cervello postumano soggettivo è quello di accettare la predestinazione e il destino. Il processo storico è quindi caratterizzato dalla sovrapposizione di necessità e contingenza, la sovrapposizione che è stata inizialmente formulata esplicitamente nell’idea protestante di predestinazione. Non è che una necessità più profonda si realizzi attraverso una serie complessa di circostanze contingenti, è che le circostanze contingenti decidono il destino della necessità stessa: una volta che una cosa

accade (contingentemente), la sua oc-correnza diventa retroattivamente necessaria. Il nostro destino non è ancora deciso: non nel semplice senso che abbiamo una scelta, ma in un senso più radicale di scelta del destino stesso. È anche facile capire perché, anche se accetto che i miei atti siano completamente predeterminati – e quindi il mio libero arbitrio un’illusione –, sia ancora razionale lottare con me stesso per fare quella che ritengo la cosa giusta: i miei atti potrebbero essere totalmente predeterminati, ma non so in che modo. E se quindi fossi anch’io predeterminato a ingaggiare appassionatamente delle lotte etiche con me stesso? Questo, ovviamente, apre alla paradossale possibilità che, forse, l’unico modo per uscire dal destino predeterminato sia di non fare attivamente nulla, di aste-nersi da ogni lotta e di arrendersi totalmente al destino.10 Secondo la visione tradizionale, il passato è fisso, ciò che è accaduto è accaduto, non può essere annullato e il futuro è aperto, dipende da contingenze imprevedibili. Di questa visione tradizionale andrebbe proposto il capovolgimento: il passato è aperto a reinterpretazioni retroattive, mentre il futuro è chiuso poiché viviamo in un universo determinista. Ciò non significa che non possiamo cambiare il futuro; solo che, per cambiare il nostro futuro, dovremmo prima (non «capire», bensì) cambiare il nostro passato, reinterpretarlo in modo tale da aprirlo verso un futuro diverso da quello implicito nella visione predominante del passato. Ci sarà un’altra guerra mondiale? La risposta 174 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe può essere solo paradossale: se ci sarà un’altra guerra, sarà necessaria. È così che funziona la storia, attraverso gli strambi ca-povolgimenti descritti da Dupuy: «Se si verifica un evento eccezionale – una catastrofe per esempio – non avrebbe potuto non verificarsi; ciononostante, nella misura in cui non si è verificata, non era inevitabile. È quindi l’attualizzazione dell’evento – il fatto che si verifichi – a crearne retroattivamente la necessità». 11

Quanto a una nuova guerra globale: una volta scoppiato il conflitto (tra Stati Uniti e Iran, tra Cina e Taiwan...), sembrerà necessario, ovverosia leggeremo automaticamente il passato che lo ha prodotto come una serie di cause che hanno necessariamente causato lo scoppio. Se questo non si verifica, lo interpreteremo nel modo in cui leggiamo oggi la Guerra fredda: come una serie di momenti pericolosi in cui la catastrofe è stata evitata perché entrambe le parti erano consapevoli delle mortali conseguenze di un conflitto globale (difatti, oggi abbiamo molti interpreti che sostengono che non vi sia mai stato alcun pericolo reale di una terza guerra mondiale durante la Guerra fredda, e che entrambe le parti giocassero solo con il fuoco). Al momento del progetto, la controfattualità gioca quindi un ruolo chiave: Il futuro è considerato controfattualmente indipendente dal passato (sebbene allo stesso tempo dipenda o possa dipendere dal passato in modo causale); il passato è considerato controfattualmente dipendente dal futuro (sebbene non dipenda necessariamente da esso in modo causale). Il futuro è fisso, il passato è aperto. 12 Come si fa, precisamente, a modificare il passato in modo controfattuale? Qui ritorna la differenzialità. Si ricordi il nostro esempio di Ninotchka: non possiamo cambiare il contenuto di una tazza di caffè normale appartenente al passato, ma 175 Hegel e il cervello postumano possiamo cambiare il suo stato differenziale da «caffè senza panna» a «caffè senza latte». Lo «spirito» è fatto di questa mediazione di ogni positiva esistenza, della sua negatività minacciata dalla prospettiva della Singolarità. Quindi, allo stesso modo, l’umanità diventa immanentemente una «nonancora Singolarità» con l’avvento della postumanità? Qui bisogna essere precisi: «Ciò che si prevede come punto fisso nel futuro è il futuro che si realizzerà se non lo si avesse previsto o se non si avesse reagito alla sua previsione nel modo in cui si è reagito cercando di impedirlo».13 Qui il contrasto con il caso di Edipo – in cui il futuro (il destino predetto al padre di Edipo) si realizza attraverso il fatto stesso di essere stato previsto (raccontato al

padre) e mediante la reazione del padre per evitarlo (abbandonando il giovane Edipo in una foresta, aspettandosi che vi morisse) – è chiaramente evidente; senza la sua anticipa-zione, il destino non si attualizzerebbe. Ricapitolando: se, come da visione tradizionale, il passato è determinato e il futuro aperto (a seconda della nostra scelta), ciò che caratterizza il futuro è una disgiunzione: il futuro sarà A o B, a seconda della nostra (libera, non predeterminata) scelta. Nel «tempo del progetto» non ci sono futuri alternativi perché il futuro è necessario; tuttavia, cambiando il passato possiamo comunque costituire una necessità diversa e determinare quindi un futuro differente, con le due (o più) opzioni che non sono qui biforcate ma sovrapposte come i diversi stati della meccanica quantistica. Questa temporalità ci consente quindi di affermare «l’indeterminatezza del futuro in una concezione del tempo che rende il futuro necessario»:14 Nella misura in cui il futuro non è reso presente, lo si deve pensare come simultaneamente comprensivo dell’evento catastrofico e del suo non accadere; non come possibilità di-176 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe sgiunte ma come una congiunzione di stati l’uno o l’altro dei quali si rivelerà a posteriori come necessario a seconda delle necessità, nel momento in cui il presente lo sceglierà. 15 Mentre, negli anni della Guerra fredda, la prospettiva di un’apocalisse era focalizzata quasi esclusivamente sulla possibilità di una guerra nucleare globale, oggi le versioni di un evento apocalittico che ci angosciano sono molte: nuovamente una guerra nucleare (come quella che vedrebbe gli usa contro l’Iran o la Corea del Nord), ma anche la prospettiva di una catastrofe ecologica globale e quella del passaggio dell’umanità a una Singolarità postumana. (Ci sono almeno altri due eventi apocalittici facilmente immaginabili: un crollo

economico-fi-nanziario o un’apocalisse digitale, cioè il crollo della rete digitale che regola e sostiene la nostra vita). Stando alle memorie di Oriani-Ambrosini, Cyril Ramaphosa – presidente del Sudafrica nei primi anni Novanta – paragonò il modo in cui il nuovo governo dell’anc avrebbe trattato la mi-noranza bianca alla bollitura di una rana: Nella sua brutale onestà, Ramaphosa mi disse della strategia dell’anc per trattare con i bianchi nell’arco di un venticin-quennio: sarebbe stato come far bollire una rana viva, ossia aumentando la temperatura molto lentamente. Inizialmente, la rana non nota il lento aumento della temperatura essendo a sangue freddo; ma se questa aumenta improvvisamente, sal-terà fuori dall’acqua. Intendeva dire che la maggioranza nera avrebbe approvato leggi che trasferivano ricchezza, terra e potere economico dai bianchi ai neri lentamente e gradualmente finché i bianchi non avessero perduto tutto ciò che avevano in Sudafrica, ma senza togliergli troppo in un singolo dato momento così da causarne la ribellione o la lotta.16 177 Hegel e il cervello postumano Autentica o meno che sia questa metafora (piuttosto infelice), non rende perfettamente la nostra esperienza di essere letteralmente bolliti nel corso del riscaldamento globale? Inoltre, c’è un chiaro parallelismo tra come (finora e nei paesi sviluppati) sperimentiamo la minaccia ecologica e quella del controllo digitale totale: in entrambi i casi, i cambiamenti sono graduali, dimodoché – tranne che per delle brevi emergenze – siamo in grado di ignorarne gli effetti nella nostra vita quotidiana... fino a quando, all’improvviso, ci accorgeremo che è troppo tardi e che avremo perduto tutto.17

Il «punto fisso» nel futuro attorno al quale il tempo del progetto compie il suo movimento circolare (cambiando controfattualmente il passato e quindi la causalità che genererà – oppure no – l’apocalisse) può assumere diverse forme di (in)desi-derabilità. Nella logica della mad e delle profezie di sventura, così come nel discorso di dannazione ecologica, è negativo (ci fissiamo su di esso per rimandarlo/evitarlo);18 nel comunismo è positivo (lo evochiamo per lottare per esso), mentre la Singolarità come punto fisso è aperta, indeterminata, divisa: può essere positiva o negativa in molti modi. È per questo che la sovrapposizione di stati alternati del futuro necessario giunge qui al suo estremo: l’avvento di un qualche tipo di postumanità è generalmente accettato come un fatto, nessuno (con la rara eccezione di coloro che invocano una decisione collettiva simile a quella del film Dune per distruggere le macchine della mente) lo avverte come qualcosa cui dovremmo essere totalmente contrari. Di conseguenza, qui a sovrapporsi non sono i due stati dell’apocalisse che arrivano o non arrivano, ma una moltitudine di versioni di come apparirà l’apocalisse stessa: sotto forma di beatitudine religiosa collettiva, di un’ascesa dell’ homo deus (un individuo dalle capacità superiori), la scomparsa della spiritualità umana, oppure... Insistiamo sulla nostra domanda 178 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe cruciale: in che modo l’avvento (putativo) del Neuralink influenzerà questa paradossale struttura temporale dell’ Aufhebung hegeliana? O, più precisamente, come appare l’avvento del Neuralink dal punto di vista hegeliano? Che cos’è, se non è (chiaramente) l’ Aufhebung della nostra umanità, la sua elevazione a un livello superiore? Per di più, non solo il Neuralink non funziona come Aufhebung della nostra umanità, come la sua elevazione a un livello divino superiore; la sua novità sta nel fatto che elimina lo spazio (simbolico) in cui l’ Aufhebung può operare... La logica hegeliana della contraddizione è qui ancora operativa dunque, e se sì, in quale forma? Come funziona la contraddizione hegeliana?

Nell’atto di cogliere assolutamente la struttura simbolica come orizzonte ultimo del pensiero, possiamo illuminare la contraddizione che segna il punto della vulnerabilità interna della struttura. Ciò crea allo stesso tempo la possibilità di un cambiamento e indica che nessun cambiamento, per quanto rivoluzionario, potrà mai curare la ferita dell’ordine sociale. Una società può andare oltre una specifica contraddizione, ma ne incontrerà necessariamente un’altra. Questa non è una ricetta per il quietismo, bensì una chiamata all’azione. Il punto della contestazione politica è muoversi in direzione di una contraddizione sempre più resistente, e in questo movimento la filosofia gioca un ruolo cruciale. È questa la definizione di progresso di Hegel: il passaggio da contraddizioni sociali più facilmente risolvibili ad altre più intrattabili.19 Come rispondere qui all’ovvia reazione: perché quando superiamo una contraddizione ne incontriamo necessariamente un’altra che non è «una ricetta per il quietismo ma una chiamata all’azione»? Detto in vulgari eloquentia, se per sbarazzarsi 179 Hegel e il cervello postumano di una contraddizione scaricandola al gabinetto ottieni la stessa merda (o, Bulgari eloquentia, ottieni sŭshtoto laĭno)20 in forma ancora più intrattabile, perché lottare? Perché non restare nella vecchia contraddizione (per dire, il capitalismo), solo cercando di renderla un po’ più sopportabile? Per dirla appena diversamente, è troppo facile affermare che riconciliazione significa riconciliarsi con la contraddizione, e che tutto il male deriva dall’evitare contraddizioni, ovverosia capovolgere la prospettiva standard e affermare che il totalitarismo proviene dal tentativo di lasciarsi alle spalle le contraddizioni.21 Qui bisognerebbe essere più specifici: il «progresso» è il passaggio da un antagonismo (esterno, noi contro il nemico) alla contraddizione (auto)immanente. Non si tratta quindi di una celebrazione maoista dell’eterna lotta con il nemico, ma di un’ammissione del fatto che, anche dopo aver (infine) sgominato il nemico, la nuova situazione continuerà a essere contraddittoria.

Ma è anche troppo dire che la negazione dell’autocontraddi-zione genera la figura del Nemico: Hitler era un vero nemico, doveva essere combattuto ed eliminato, ma sarebbe ridicolo affermare che le forze progressiste che lo combattevano sba-gliassero a esteriorizzare la loro contraddizione interiore nella figura esterna di un Nemico. Caduta dalla Caduta E questo ci porta alla nostra tesi finale: ciò che sfugge alla Singolarità è un’altra singolarità – potremmo anche dire la singolarità stessa nella sua determinazione oppositiva – ossia quella di un puro soggetto cartesiano. Nulla sfugge alla Singolarità; eccetto questo «nulla» stesso, il vuoto del soggetto cartesiano. Un soggetto, appunto, e non una persona umana con tutta la 180 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe ricchezza della sua vita interiore; dovremmo sbarazzarci dell’illusione (nella quale cadiamo quasi automaticamente) che nella Singolarità rimarremo sostanzialmente gli stessi umani che siamo ora, comunicando con gli altri, condividendo sentimenti ecc., solo a un qualche livello «più elevato». Quest’illusione è chiaramente rilevabile nella maggior parte dei teorici della Singolarità: Kurzweil, ad esempio, nemmeno si accorge di come automaticamente supponga che anche da immersi nella Singolarità continueremo ad agire come dei «liberi» individui responsabili. In breve, il problema con l’idea di Singolarità non è che sia troppo «radicale» o «utopistica», bensì che non lo sia abbastanza: continua a situare l’avvento della Singolarità nel nostro universo comune di intersoggettività, cioè ignora co-me l’eventuale avvento della Singolarità minerà i presupposti fondamentali stessi del nostro universo intersoggettivo. Ma se vogliamo prendere sul serio l’idea che l’umanità sia il mancato passaggio a un livello superiore, un progresso ostacolato – e che ciò che di solito percepiamo come indicazioni della grandezza umana o della creatività siano proprio delle reazioni a questo insuccesso fondamentale –, possiamo immaginare uno stadio come quello di un’umanità che abbia in

qualche modo superato il suo insuccesso costitutivo, un’umanità senza sesso e mortalità? Quando il collegamento diretto del nostro cervello con la rete digitale supera una certa soglia (una prospettiva abbastanza realistica), verrà meno il divario che separa la nostra autocoscienza dalla realtà esterna (poiché i nostri pensieri saranno in grado di influenzare direttamente la realtà esterna e viceversa, inoltre saranno in contatto diretto con altre menti). Qui non c’è bisogno di seguire le congetture di Kurzweil o fantasie new age come l’ultima scena di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick per vedere che qualcosa di nuovo sta effettivamente emergendo. Per noi è impossibile prevederne la forma esatta, 181 Hegel e il cervello postumano ma una cosa è chiara: non saremo più soggetti singolari, mortali e sessuati. Perderemo dunque la nostra singolarità (e con essa la nostra soggettività) così come la nostra distanza dalla realtà «esterna»? Questo ci riporta al tema del ruolo costitutivo della limitazione nell’essere-umani. Dal momento che i nostri – dell’umanità – risultati «più elevati» sono radicati nelle nostre limitazioni supreme (l’insuccesso, la mortalità e la concomitante sessualità) – ossia in ciò che non possiamo che esperire come ostacolo alla nostra esistenza spirituale «superiore» –, l’idea che questo livello «superiore» possa sopravvivere senza l’ostacolo, senza ciò che ne impedisce la piena realizzazione è un’illusione che può essere spiegata nei termini del paradosso dell’ objet a: un inquietante ostacolo alla perfezione che genera la stessa idea di perfezione cui funge da ostacolo, cosicché se aboliamo l’ostacolo allo stesso tempo perdiamo ciò che esso ostacola. Questo paradosso funziona a più livelli, finanche in relazione alla bellezza femminile. Una volta, una voluttuosa signora porto-ghese mi ha raccontato un magnifico aneddoto: quando il suo ultimo amante la vide per la prima volta completamente nuda, le disse che se avesse perso solo uno o due chili il suo corpo sarebbe stato perfetto.

La verità era, naturalmente, che se avesse perso quei chili avrebbe avuto probabilmente un aspetto più ordinario: l’elemento stesso che sembra turbare la perfezione stessa crea l’illusione della perfezione che turba, e una volta eliminato quell’elemento in eccesso la perfezione stessa si perde. L’esempio politico cruciale di questo paradosso è fornito da Marx, il cui errore fondamentale è stato concludere, da queste intuizioni, che sarebbe stato possibile un nuovo, più elevato ordine sociale (il comunismo): che non solo avrebbe mante-nuto, ma addirittura portato a un livello più elevato e liberato del tutto il potenziale della spirale di produttività che si auto-182 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe alimenta, la quale nel capitalismo – per via del suo intrinseco ostacolo/contraddizione – è continuamente frustrata da crisi economiche socialmente distruttive. In breve, ciò che Marx ha trascurato è che – per dirla nei termini tipici di Derrida – quest’ostacolo/antagonismo intrinseco come «condizione di impossibilità» del pieno dispiegamento delle forze produttive ne è contemporaneamente «condizione di possibilità»: se aboliamo l’ostacolo – la contraddizione intrinseca del capitalismo – non otteniamo la spinta pienamente liberata verso la produttività alla fine sottratta al suo impedimento, ma perdiamo proprio questa produttività che sembrava essere generata e contemporaneamente contrastata dal capitalismo: se eliminiamo l’ostacolo, il vero potenziale contrastato da questo ostacolo si dissolve. (E qui si potrebbe muovere una possibile critica lacaniana a Marx, che si concentra sull’ambigua sovrapposizione tra plusvalore e plus-godere). I critici del comunismo avevano quindi in qualche modo ragione quando affermavano che il comunismo marxiano è una fantasia impossibile; ciò che non co-glievano è che il comunismo marxiano – questa nozione di una società di pura produttività a briglia sciolta e al di fuori della cornice del capitale – fosse una fantasia inerente al

capitalismo stesso, la trasgressione intrinseca capitalistica nella sua forma più pura, la fantasia strettamente ideologica di mantenere la spinta alla produttività generata dal capitalismo, eliminando nel contempo gli «ostacoli» e gli antagonismi che erano – come dimostra la triste esperienza del «capitalismo reale» – l’unico quadro possibile dell’esistenza materiale effettiva di una società di permanente, autopotenziante produttività. E ancora, non è lo stesso paradosso altrettanto applicabile alla visione della Singolarità postumana? L’avvento futuro della postumanità non solo ci costringerà a comprendere una nuova forma di vita, ma anche a ridefinire ciò che costituisce 183 Hegel e il cervello postumano l’umanità stessa; a questo proposito va ricordata la tesi di T.S. Eliot secondo cui ogni nuova opera d’arte cambia l’intera storia dell’arte passata. Questa ridefinizione riguarderà soprattutto il ruolo degli ostacoli: saremo costretti ad accettare che, nella vita umana, la finitezza sia costitutiva della stessa trascendenza che emerge e le fa da sfondo. Nella misura in cui la postumanità è – dal nostro punto di vista umano finito/mortale – in un certo senso il punto dell’Assoluto verso cui tendiamo, il punto zero in cui scompare il divario tra il pensare e l’agire, il punto in cui sono diventato homo deus, riecco di nuovo il paradosso del nostro sfiorare l’Assoluto: l’Assoluto persiste come punto virtuale di perfezione nella nostra finitezza, come quella X che non riusciamo mai a raggiungere, ma quando superiamo il limite costitutivo della nostra finitezza perdiamo anche l’Assoluto stesso. Qualcosa di nuovo emergerà, ma non sarà la spiritualità creativa liberata dalla mortalità e dalla sessualità: in questo passaggio al Nuovo perderemo sicuramente ambedue. (E qui il sesso non è soltanto un esempio: lo spazio involuto dell’ Aufhebung è immanentemente sessualizzato).22

E, per inciso, il futuro arretramento del sesso che si verifi-cherà con il nostro ingresso nella Singolarità non farà che san-cire il processo già in atto con la progressiva digitalizzazione delle nostre vite: secondo le statistiche, gli adolescenti di oggi impiegano molto meno tempo nella sessualità che nella navigazione sul web e con le droghe. E quand’anche si dedicassero al sesso, non sarebbe molto più semplice e istantaneamente gratificante farlo nello spazio virtuale (con la pornografia)? Per questo la nuova serie tv americana Euphoria (pubblicizzata come avente per soggetto «un gruppo di studenti delle scuole superiori che attraversano droga, sesso, identità, traumi, social media, amore e amicizia») è quasi l’opposto della rappresen-184 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe tazione della vita dissoluta della popolazione delle scuole superiori di oggi: non aggiornata sulla gioventù odierna, bizzar-ramente anacronistica, è più che altro un esercizio nostalgico di mezza età su quanto dissolute fossero un tempo le giovani generazioni. La prima lezione è quindi che dovremmo rifiutare la celebrazione della Singolarità come l’arrivo dell’ homo deus così come il suo opposto (quasi) speculare, l’affermazione disperata che la Singolarità equivalga alla fine dell’umanità. (Un heideggeriano insisterebbe di certo sul fatto che siamo già perduti: non ci aspetta la catastrofe, è già accaduta, abbiamo rinunciato all’umanità nel momento in cui abbiamo anche solo considerato di porre la Singolarità in atto; ancora un altro esempio della temporalità in cui, quando qualcosa di nuovo va empiricamente comparendo nella sua dimensione essenziale, a livello trascendentale è già accaduto. È così che Heidegger intende la tecnologia moderna: il vero pericolo non è nella possibilità della nostra autodistruzione nucleare ecc.: è già qui quando ci relazioniamo alla realtà come oggetto di sfruttamento tecnologico). La seconda lezione è che dobbiamo anche respingere la premessa che sta alla base dell’opposizione tra le due letture dell’impatto della

Singolarità, quella celebrativa e la catastro-fista. Entrambe presumono che, nella Singolarità, ci lasceremo effettivamente il campo simbolico di finitezza/mortalità/sessualità alle spalle; differiscono nella misura in cui per la prima il nuovo campo è un nuotare beati nella consapevolezza trans-individuale, mentre l’altra, per la stessa ragione, lo vede come una fine catastrofica dell’umanità. Se accettiamo questa premessa, l’unico modo per mantenere la dimensione etica è, come abbiamo già visto, quello kantiano: limitare la nostra conoscenza. Questo è il punto (succitato) sollevato con forza da Greenblatt: l’urgenza della scelta morale funziona solo se siamo imperfetti, 185 Hegel e il cervello postumano se la nostra conoscenza è limitata. Kant lo facilita perché l’In-sé ci è inaccessibile per definizione: qui non c’è scelta per noi, non scegliamo la limitazione della nostra conoscenza, cioè non siamo mai nella posizione di dire: «Ora posso scegliere tra conoscenza transumana (divina) e conoscenza limitata che mantiene lo spazio aperto alla moralità». La scelta è già stata fatta dal nostro Creatore. Se, tuttavia, con la prospettiva della Singolarità, noi (l’umanità) abbiamo una scelta – almeno formalmente potremmo decidere di non svilupparla – vuol dire forse che se scegliessimo la Singolarità proprio per questo perderemmo necessariamente la dimensione etica, la perderemmo cioè perché acquisiamo troppa conoscenza? Qui bisogna essere più precisi: la ragione per cui la Singolarità sembra costituire una minaccia alla dimensione etica non è la crescita esplosiva della nostra conoscenza in quanto tale ma, assai di più, la plausibilità che l’immersione nella Singolarità ci priverà del nostro status di singoli individui che agiscono da soli (nel senso dell’autonomia). Affrontiamo innanzitutto la questione della limitazione: può sembrare che da immersi nella Singolarità ci libereremo dell’ostacolo costituito dalla nostra mortalità e finitezza e perderemo l’eccesso generato da

questo ostacolo. In altre parole, ciò che è minacciato dalla Singolarità è la forza, la funzione positiva dell’imperfezione stessa, persino della semplice ignoranza. Hegel era pienamente consapevole della funzione positiva dell’oblio: per lui, dimenticare non è una debolezza ma l’espressione del più alto, «assoluto» potere dello Spirito: l’assenza di questa capacità di dimenticare (che è effettivamente un aspetto specifico della negatività) provoca un’indecisione debilitante, come chiarito nel classico di Aleksandr Romanovič Lurija Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, il breve e brillante caso di studio di un individuo incapace di dimenticare 186 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe le cose. Benché si guadagnasse da vivere come fenomeno da baraccone rispondendo a domande enciclopediche, la sua vita soggettiva fu uno sfacelo, dato che non era in grado di prendere una qualsiasi decisione (che implica una brutale semplificazione di una complessa rete di pro e contro). Di conseguenza, tutta la sua vita era organizzata come un’attesa: l’attesa di qualche grande atto o evento che sarebbe accaduto nel prossimo futuro (ma che effettivamente non accadde mai).23 Quest’idea del dimenticare non come debolezza ma forza suprema spiega anche il passaggio dall’Idea assoluta alla Natura, che è precisamente il punto estremo dell’oblio, dell’autonegazione. Come abbiamo già visto, di regola, quando cercano di descrivere come sarà la nostra vita nella Singolarità, i suoi propugnatori dimostrano un’ingenuità impressionante: descrivono un soggetto che discute e comunica come noi, con le stesse nostre preoccupazioni e desideri, soltanto con le sue facoltà e cognizioni moltiplicate: in sostanza, rimarremo gli stessi individui, soltanto saremo molto più forti e con un assai più ampio ambito di esperienze. La domanda che non si pongono mai è: ma se la nostra vita interiore, comprendente le nostre più alte conquiste spirituali, fosse radicata nella nostra esistenza corporea finita e nei suoi limiti in modo tale che, con il passaggio alla Singolarità, saremo privati delle caratteristiche di base

della nostra vita interiore? Konrad Lorenz ha fatto da qualche parte l’ambigua osservazione che noi stessi (l’umanità «reale») siamo il ricercato «anello mancante» tra animale e uomo; come possiamo leggerla? La prima analogia che qui si impone è naturalmente l’idea che l’umanità «reale» si trovi ancora in ciò che Marx ha designato come «preistoria», e che la vera storia umana inizierà con l’avvento della società comunista; o anche, nei termini di Nietzsche, che l’uomo è solo un ponte, un passaggio tra l’animale e il superuomo (per tacere della versione 187 Hegel e il cervello postumano new age, secondo cui staremmo per entrare in una nuova era in cui l’umanità si trasformerà in una Mente Globale, lascian-dosi alle spalle il bieco individualismo). Lorenz «intendeva» senza dubbio qualcosa di simile, sebbene con un accento più umanistico: l’umanità è ancora immatura e barbara, non ha ancora raggiunto la piena saggezza. Tuttavia s’impone anche una lettura opposta: questo stato intermedio dell’uomo è la sua grandezza poiché l’essere umano è, nella sua stessa essenza, un «passaggio», l’apertura finita su un abisso.24 L’idea di uno stato di cose più perfetto che supererebbe i limiti della nostra situazione attuale è quindi, di norma, la proiezione nel futuro che resta in essa radicata: ogni immagine di «superuomo» è una proiezione illusoria che ha senso soltanto dall’orizzonte della nostra finitezza umana. Ciò non significa che non possiamo spezzare i vincoli della nostra finitezza; solo che, se e quando lo faremo (diciamo con la nostra immersione nella Singolarità), ciò che otterremo non sarà un effettivo ritorno alla vita prima della Caduta – che annullerebbe effettivamente l’intero interregno della Caduta – ma un ritorno dalla Caduta in cui ne persisterà la traccia. Con la Singolarità, avremo una nuova Caduta, una specie di Caduta dalla Caduta: una Caduta molto più profonda

che mostrerà la struttura della perdita di una perdita. In hegelese, supponiamo che la Singolarità funzioni come una negazione della negazione: una negazione che viene negata non tornando a una nuova positività superiore, ma mettendoci di fronte a una negazione pura. Possiamo leggere la «negazione della negazione» di Hegel come negatività autoreferenziale anche nel senso di una posizione di assoluta disperazione, quando il soggetto non solo assume una perdita radicale ma viene poi privato di questa perdita stessa; non nel senso di riguadagnare ciò che era perso, ma in quello molto più drastico di ritrovarsi nel vuoto radicale dopo aver 188 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe perso proprio quelle coordinate che rendevano significativa la perdita. In La donna che visse due volte di Hitchcock, Scottie esperisce prima la perdita di Madeleine, il suo amore fatale; quando ricrea Madeleine in Judy e poi scopre che la Madeleine che conosceva era Judy che fingeva di essere Madeleine, non soltanto scopre che Judy era un falso (sapeva che non era la vera Madeleine, dal momento che aveva ricreato una copia di Madeleine da lei), ma che, poiché non è un falso – lei è Madeleine –, la stessa Madeleine era già un falso: l’ objet a si disintegra, la perdita è persa, abbiamo una «negazione della negazione». È importante ricordare qui che l’ultima inquadratura di La donna che visse due volte – con Judy caduta dalla torre e Scottie che si sporge dal bordo guardando in basso – ha dato origine a letture radicalmente opposte: secondo alcuni interpreti indica che Scottie sopravvive come un uomo totalmente distrutto, mentre per altri è una specie di lieto fine (ormai guarito dalla sua malattia, Scottie può guardare in fondo all’abisso), l’ambivalenza che riproduce perfettamente l’ambiguità del risultato dell’hegeliana negazione della negazione (l’assoluta disperazione o la riconciliazione). Scottie sul bordo del campanile della chiesa, dopo aver sperimentato la perdita di una perdita:

l’immagine del soggetto catturato nella Singolarità, privato della sua sostanza, sospeso tra speranza e totale disperazione... La nostra ipotesi è quindi questa: la Singolarità sarà una tale perdita della perdita da rendere la perdita assoluta, non una semplice scomparsa di una perdita, un ritorno a una nuova immediatezza. In altre parole, e se la soggettività non potesse semplicemente essere annullata, ma persistesse nella sua negazione in una forma ancora più pura? È questo il punto cruciale della nostra argomentazione per la sopravvivenza del soggetto nel caso della sua immersione nella Singolarità: la perdita di una 189 Hegel e il cervello postumano perdita non è il ripristino della pienezza prima della perdita, ma la perdita assoluta, e lo stato del soggetto (come opposto alla persona) è quello di una tale perdita. Ritorniamo breve-mente al tema dell’ostacolo o della limitazione produttiva: nella Singolarità (così ci dicono) la comunicazione sarà diretta, senza i détours che generano ricchezza spirituale supplementare; ma se, in tale situazione, la mancanza ritornasse in una forma ancora più forte, come una mancanza assoluta, come la mancanza del détour stesso? In altre parole, cosa succede se ottenere direttamente ciò che vogliamo lo desublima e quindi lo rende inutile? La prospettiva aperta da Neuralink non è solo quella delle esperienze sessuali direttamente condivise. Le nostre esperienze «normali» sono radicate nel corpo e nel linguaggio; ma supponiamo di immaginare un’eccitazione diretta dei neuroni del piacere nel nostro cervello, tale da esperire un orgasmo «puro» più forte di quelli raggiunti attraverso l’interazione corporea e il linguaggio della seduzione: a cosa ammonterebbe questo orgasmo «puro»? E se – lungi dal vedersi offrire l’impossibile/reale piena soddisfazione – il soggetto sperimentasse qui ciò che, a voler prendere in prestito il termine di Platonov, si è tentati di chiamare assoluto toská, l’esperienza dell’insopportabile perdita di mediazione/ détour, otterremmo la cosa bramata stessa pur senza la rete di

mediazioni che la rendono desiderabile? Una tale lettura punta nella direzione di toská come malinconia; si ricordi che, per Freud, la malinconia è definita dal divario tra l’oggetto del nostro desiderio e la causa-oggetto che ci fa desiderare: nella malinconia abbiamo ciò che desideravamo, ma non lo desideriamo più. Una tale struttura della malinconia comporta chiaramente un soggetto diviso, un soggetto che (consciamente) desidera un oggetto, ma è inconsapevole della causa-oggetto (inconscia) che gli fa deside-190 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe rare questo oggetto, in modo tale che quando la causa-oggetto del desiderio fallisce nella sua funzione, questo soggetto vede la propria situazione come incoerente non desiderando veramente ciò che desidera. Questo ci riporta alla nostra grande domanda: in che modo il cervello connesso influenzerà la dimensione di ciò che Freud chiamava inconscio? In qualche modo si può effettivamente dire che il grande Altro digitale che registra i miei atti e le mie decisioni mi «conosce meglio di me stesso»: nell’esempio citato da Harari (nel decidere di sposarmi), 25 l’Altro digitale ignora i miei sentimenti e le mie intenzioni interiori e può così identificare meglio di me stesso come io la pensi davvero. S’immagini un soggetto sottomesso al feticismo delle merci: solo osservando e registrando la mia attività quando sono impegnato in uno scambio di merci il grande Altro vedrà che, contrariamente al mio professato razionalismo laico, credo davvero nel feticismo delle merci, mi comporto come se queste fossero oggetti magici ecc. Con la bcI, la posizione viene (quasi) capo-volta: rilevando i miei sentimenti ed esperienze interiori, l’Altro digitale mi identificherà come un pragmatico razionalista; sarà in grado di registrare il mio feticismo inconscio (che determina il mio agire)? In altre parole, cosa succede qui con il soggetto diviso freudo-lacaniano, un soggetto diviso tra la sua esperienza di io cosciente e le sue credenze e posizioni inconsce? L’intera idea di Neuralink, per dirla brutalmente, non ignora forse l’inconscio e ci riduce alla tradizionale soggettività

autocosciente? Ritorniamo all’esempio della mia posizione ambigua nei confronti di mio padre: coscientemente lo odio, voglio liberarmene, ma questo odio nasconde l’amore inconscio e l’attaccamento che provo per lui. E, come abbiamo già visto, quest’altra dimensione non è presente nella profondità della mia psiche già pronta come la mia vera realtà; è una vaga spinta 191 Hegel e il cervello postumano psichica che insiste e giunge-aessere-pienamente solo in fenomeni come il transfert. Nel caso di un soggetto così diviso, non abbiamo a che fare con due realtà, quella conscia e quella inconscia: l’inconscio non è la mia realtà più profonda ma – come insiste Lacan – la sfera del non-realizzato, di una potenzialità puramente virtuale. L’odio inconscio per mio padre non significa che, nel profondo di me stesso, «lo odi davvero». Significa che il mio discorso pubblico (amoroso) è disturbato da lapsus e altri atti sintomatici che indicano un’altra dimensione che resiste al messaggio del discorso pubblico. Quale sarà, quindi, la posizione rilevata dal grande Altro digitale? E ancora, ciò non indica che il cervello connesso come condivisione diretta di esperienze e pensieri coscienti ignori l’inconscio? Questo ci porta all’ambigua condizione di una maschera: a ogni ulteriore livello di mediazione della mia comunicazione con gli altri, sono sempre più in grado di interporre tra me e i miei partner la maschera che indosso. Per dire, quando comu-nico con un potenziale partner sessuale sul web, ovviamente gli presento un’immagine costruita di me stesso che non si adatta alla mia realtà. Ma questo non significa che stia semplicemente mentendo, mascherando la verità su me stesso. E se ci fossero dimensioni di me stesso con cui non sono pronto a confrontarmi e fossi in grado di assumerle solo in veste di finzione, dicendomi «stiamo solo facendo un gioco, questo non sono davvero io»? Un bel caso di «verità che ha la struttura di una finzione» (come ha detto Lacan) è la serie di romanzi (o film) in cui un dramma interpretato da personaggi (come parte della trama) rispecchia la realtà degli intrecci amorosi della vita dei personaggi, come il film sulla messa in scena di Otello in cui l’attore che interpreta

Otello è davvero geloso e quando viene rappresentata la scena finale della commedia strangola veramente a morte l’attrice che interpreta Desde-192 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe mona. Mansfield Park di Jane Austen (il suo romanzo meno noto) fornisce un primo esempio di questa procedura. Fanny Price, una bambina di una famiglia povera allevata a Mansfield Park da sir Thomas, cresce lì con i suoi quattro cugini, Tom, Edmund, Maria e Julia, ma viene trattata come loro inferiore; solo Edmund le dimostra vera gentilezza e, nel tempo, tra i due cresce un tenero amore. Cresciuti i figli, il severo patriarca sir Thomas parte per un anno. In questo periodo, giungono nel villaggio l’elegante e mondano Henry Crawford e sua sorella Mary e il loro arrivo suscita una serie di romantici intrecci. I giovani decidono di allestire uno spettacolo teatrale, I voti degli innamorati; Edmund e Fanny inizialmente si oppon-gono al piano, convinti che sir Thomas non approverebbe. Alla fine, Edmund viene persuaso e accetta con riluttanza di recitare la parte di Anhalt, l’amante del personaggio interpretato da Mary Crawford, per impedire agli altri di coinvol-gere un estraneo nel ruolo. Oltre a dare a Mary e Edmund un mezzo per parlare di amore e matrimonio, la commedia dà ad Henry e Maria un pretesto per flirtare in pubblico... Immaginiamo adesso un esempio più brutale: nella mia realtà sociale sono un debole codardo, ma nelle mie interazioni online mi presento come un crudele sadico e seduttore seriale. Non basta dire che in questo modo nasconda la mia vera debolezza: e se nelle mie interazioni reali con gli altri rimuovessi delle tendenze brutali che emergono solo nell’universo delle finzioni digitali? In questo caso, la mia persona sul monitor sarebbe più vicina al nucleo del mio essere di quanto non lo sia la mia persona nella vita reale... La rilevazione dei miei pensieri in un cervello connesso sarà in grado di distinguere tra una maschera che rende la mia vera posizione soggettiva, e una che è effettivamente solo una maschera che nasconde la mia vera disposizione soggettiva?

193 Hegel e il cervello postumano Ed è qui l’ambiguità della differenza (piuttosto ovvia) tra il controllo digitale e la rilevazione del nostro linguaggio e attività e il cablaggio del nostro cervello, in cui il nostro flusso interiore di coscienza stesso sarà condiviso con gli altri e/o una macchina. Potrebbe sembrare che un cervello connesso ci esponga molto di più: se viene registrato tutto quello che facciamo e diciamo, possiamo ancora continuare a farlo e a dirlo incrociando le dita, mantenendo così l’illusione che la nostra vita interiore sfugga al controllo digitale. Tuttavia, se siamo soggetti divisi (come afferma la psicoanalisi) – cioè se il nucleo più intimo del nostro essere non è accessibile al flusso della nostra coscienza, e se questa parte repressa si esprime comunque in ciò che facciamo o diciamo senza volerlo (lapsus ecc.) – la registrazione dei nostri atti esterni può paradossalmente rivelare più informazioni sul nucleo del nostro essere che una visione diretta nella nostra mente: quando (pensiamo di indossare) una maschera e semplicemente interpretiamo un ruolo, ci può essere più verità nella maschera di quanta ve ne sia dietro. Qui è fondamentale tener presente che lo scarto tra la registrazione digitale, il controllo della nostra attività e la lettura Neuralink diretta dei nostri pensieri, non può mai essere abolito, le due parti non possono mai essere unite nel senso di fornire un quadro completo del soggetto sotto controllo attraverso la combinazione di dati interni ed esterni in un Intero. I dati esterni dovrebbero essere interpretati in relazione a ciò che esprimono e al modo in cui esprimono la vita interiore del soggetto, ma anche la vita interiore disponibile attraverso Neuralink dovrebbe essere interpretata in vista dell’attività «esterna» del soggetto (il soggetto intendeva davvero quello che stava pensando?) È impossibile far quadrare questo cerchio perché manca un terzo elemento: la presenza virtuale di assenziali implicita in entrambi gli altri livelli, assenziali che non si trovano 194

un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe né nella realtà esterna né nella nostra vita interiore di autocoscienza. Qui torniamo allo stato paradossale dell’inconscio come terzo dominio virtuale, che non è né il flusso interno della mia autocoscienza (colto dal Neuralink), né la realtà dei miei atti (colta dal controllo digitale esterno della mia attività). Per tornare alla Genesi, la voce della Singolarità è un altro parlare del serpente; promette l’annullamento della Caduta e il raggiungimento dell’immortalità e della conoscenza superiore se mangiamo i suoi frutti, cioè se ci immergiamo in esso. Come nella Genesi, dovremmo essere consapevoli che qui la scelta è forzata: non possiamo che farlo, nessuna marcia indietro è possibile. Quindi cosa accadrà? Di certo non quello che si aspettano i propugnatori della Singolarità. Come il serpente, non mentono e la minaccia sta proprio nel loro non mentire. Si può solo dire che prima ci sarà una sorta di catastrofe e poi, attraverso una ripetizione, potrebbe apparire qualcosa di nuovo. Per quanto riguarda la catastrofe, abbiamo già menzionato la prospettiva di un’eccitazione diretta dei neuroni del piacere nel nostro cervello, in modo da sperimentare un orgasmo «puro» più forte di quelli raggiunti attraverso l’interazione corporea e il linguaggio della seduzione. Ma che dire dell’opzione opposta: nuove forme di «puro» dolore e sofferenza? Metzinger aveva fatto la stessa considerazione già a proposito della coscienza umana «ordinaria»: «Non è affatto chiaro se la forma biologica della coscienza, come finora prodotta dall’evoluzione sul nostro pianeta, sia una forma desiderabile di esperienza, un bene reale in sé».26 Questa caratteristica problematica riguarda il dolore e la sofferenza coscienti: l’evoluzione «ha creato un oceano in espansione di sofferenza e confusione che prima non c’era. Poiché non solo il semplice numero di singoli soggetti coscienti, ma anche

l’aspetto dimensionale dei loro spazi di stato fenomenico è in costante aumento, quest’oceano sta anche 195 Hegel e il cervello postumano diventando più profondo». 27 Ed è ragionevole aspettarsi che nuove forme di consapevolezza generate artificialmente cree-ranno delle nuove, «più profonde», forme di sofferenza... Per tutte queste ragioni, come abbiamo già visto, per tutti coloro che vedono nel Neuralink una minaccia al nostro essere-umani l’unica via d’uscita sarebbe optare per la soluzione Dune. Nel classico romanzo di fantascienza di Herbert, l’umanità viene dominata da computer avanzati e decide collettivamente di distruggere tutte le «macchine pensanti», adattando le proprie menti a svolgere compiti estremamente complessi. (Questo sviluppo mentale è tuttavia reso possibile dall’uso di un mélange, o spezia, che migliora la salute, allunga la vita, consente il viaggio nello spazio oltre la velocità della luce e può persino con-ferire una limitata prescienza). Ma, come abbiamo già visto, è troppo tardi per questa opzione: chissà quanto saranno già andati avanti i servizi segreti e le aziende nella realizzazione di diverse versioni di Neuralink e controllo diretto delle nostre menti? L’economia libidica della Singolarità Qui dovremmo tornare al riferimento di Miller a Mao: sì, l’osceno grande Altro segnala che «c’è un grande disordine nel reale» – ma, come tutti sappiamo, la frase di Mao continua con un «...quindi la situazione è eccellente». Quindi dov’è quest’altra dimensione che manca nella lettura di Miller del reale capitalistico? Dov’è l’apertura (la «speranza») per una trasformazione radicale? Tornando a Beckett: per iniziare a discernere questa apertura, dovremmo situare il modo dell’esperienza erratico-allucinatoria come uno dei due lati di una totalità sociale fratturata, come l’aspetto soggettivo (io senza ego) la cui 196

un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe controparte oggettiva è la struttura del capitalismo globale. E lo stesso vale per la Singolarità: come indica lo stesso Miller quando scrive che «il capitalismo e la scienza si combinano per far scomparire la natura», l’eventuale nascita della Singolarità (l’ultima «scomparsa della natura» che possiamo immaginare oggi) non sarà solo un fenomeno soggettivo-cosmico, ma anche un fenomeno fondato su una combinazione di scienza e capitalismo: la scienza e la tecnologia che la produrranno non sono neutrali, si basano sulle relazioni capitalistiche. In altre parole, l’eventuale ascesa della Singolarità sarà un caso di ciò che non possiamo non chiamare «capitalismo postumano». Di solito si ritiene che il capitalismo sia qualcosa di (più) storico e che la nostra umanità – comprese le differenze sessuali – sia più semplice, persino astorica; tuttavia, ciò a cui assistiamo oggi non è altro che un tentativo di integrare il passaggio alla postumanità nel capitalismo: è questo lo scopo degli sforzi dei nuovi guru miliardari come Elon Musk. La loro previsione che il capitalismo «come lo conosciamo» stia per finire si riferisce al capitalismo «umano», e il passaggio di cui parlano è quello dal capitalismo «umano» a quello postumano. La Singolarità ci pone quindi un problema: come funzionerà l’emergente capitalismo «postumano»? E laddove il capitalismo implicasse lo sfruttamento dei lavoratori, come continuerà a sfruttarci? Per sbrogliare questo problema, è necessario introdurre la dimensione del godimento nella nostra considerazione della Singolarità. Dal punto di vista libidico, non è la Singolarità lo spazio di una trance estatica di intenso godimento, uno spazio in cui possiamo godere appieno, non più ostacolati dai vincoli della nostra finitezza? E dove dunque entra in gioco qui lo sfruttamento della libido? Per semplificare al massimo, avviene quando l’Altro (il sistema che ci sfrutta) si appropria del nostro godimento (di noi, suoi soggetti), quando stiamo 197

Hegel e il cervello postumano servendo e alimentando il «godimento del sistema (che è sostanzialmente ciò che lo sfruttamento rappresenta secondo la prospettiva freudo-lacaniana)». 28 Per comprendere correttamente questa affermazione, è fondamentale andare oltre il semplice parallelismo tra il lavoro del godimento e quello della produzione di merci, tra produrre plusgodere e produrre plusvalore: la relazione tra i due non è solo quella di un’omologia formale, i due sono momenti della stessa totalità, il che significa che la loro relazione è quella di un’implicazione reciproca: ognuno è a suo modo un momento dell’altro. Abbiamo quindi il godimento del lavoro (godimento nel duro lavoro stesso che implica la rinuncia al godimento) e il lavoro del godimento (il godimento di per sé non è solo un’esperienza passiva, è il risultato del lavoro). La prima cosa da notare è che lo sfruttamento economico (la produzione di plusvalore) funziona solo se è sostenuto dal godimento di chi viene sfruttato: «Il discorso del padrone non nasconde ciò che è o ciò che vuole. A rimanere celato è il legame tra sfruttamento e godimento, la riproduzione delle relazioni di dominio mediante la produzione di godimento».29 In breve, un padrone può esercitare il suo dominio solo se «corrompe» il servo lanciandogli delle briciole di godimento. Questo godimento ha due forme principali contrapposte: godo direttamente della stessa subordinazione al Padrone che servo, e questa dà una sorta di sicurezza e significato alla mia vita; oppure, il Padrone che mi controlla mi permette discretamente di violare i suoi divieti quando sono lontano dal suo sguardo, sapendo che tali piccole trasgressioni mi terranno soddisfatto (e in questo consisteva il ruolo delle barzellette politiche nei regimi comunisti). Questo ci riporta alla

lettura critica di Lacan della dialettica servo-padrone di Hegel, in cui Lacan sottolinea che è il servo, non il padrone, a godere: 198 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe Il lavoro, [Hegel] dice, cui il servo si è sottomesso rinunciando al godimento per timore della morte, sarà appunto la via attraverso cui realizzerà la libertà. Non v’è illusione più manifesta politicamente e a un tempo psicologicamente. Il godimento è facile per il servo, e lascerà servo il lavoro.30 Forse, da questo punto di vista, dovremmo rileggere il famoso passo della Fenomenologia di Hegel sull’interrelazione tra desiderio, Begierde, godimento, Genuss e lavoro, Arbeit: Il desiderio si è riservato la pura negazione dell’oggetto e, quindi l’integrità del sentimento di sé. Tuttavia, mancan-dogli il lato oggettivo, cioè la sussistenza, questo appagamento è anch’esso soltanto un dileguare. Il lavoro, invece, è desiderio tenuto a freno, è un dileguare trattenuto, e ciò significa: il lavoro forma, coltiva. ( Die Arbeit hingegen is gehemmte Begierde, aufgehaltenes Verschwinden, oder sie bildet) . Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene adesso forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora. Questo termine medio negativo, cioè l’attività for-matrice, costituisce nello stesso tempo la singolarità, il puro esser-per-sé della coscienza: con il lavoro, la coscienza esce fuori di sé per passare nell’elemento della permanenza. In tal modo, dunque, la coscienza che lavora giunge a intuire l’essere autonomo come sé stessa. 31 Bisognerebbe dare all’affermazione «il lavoro è desiderio tenuto a freno» un taglio lacaniano: gehemmt significa anche «inibito, impedito, ostruito» e dovremmo dare a questi termini tutto il loro peso freudiano, in particolare riguardo all’inversione della rimozione del desiderio nel desiderio di rimozione: 199

Hegel e il cervello postumano e se questo impedimento/rinvio del godimento di per sé gene-rasse un plus-godere? La «teoria del valore-lavoro» di Marx mostra un’omologia inaspettata con l’ingrediente principale della «teoria del lavoro dell’inconscio» di Freud:32 il «valore» inconscio di un sogno sta esclusivamente nel suo essere il prodotto del «lavoro onirico», non del contenuto latente del sogno sul quale il lavoro onirico esercita la sua attività trasformativa, così come il valore di una merce è il prodotto del lavoro in essa impiegato. Qui il paradosso è che è proprio la cifratura (l’offuscamento) del contenuto latente, la sua traduzione nella trama di un sogno, a generarne il contenuto propriamente inconscio. Freud sottolinea che il vero segreto del sogno non è il suo contenuto (il «contenuto latente»), ma la forma stessa: il lavoro onirico non è semplicemente un processo di mascheramento del «vero messaggio» del sogno; il vero nucleo del sogno, il suo desiderio inconscio, si iscrive solo attraverso questo processo di mascheramento, in modo tale che nel momento in cui ritra-smettiamo il contenuto del sogno nel contenuto latente in esso espresso, perdiamo la sua «vera forza motrice»; in breve, è il processo di mascherare sé stesso a inscrivere nel sogno il suo vero segreto. Questo è il meccanismo centrale della «teoria del lavoro del godimento»: il plus-godere è prodotto dalla rimozione stessa, dalla codificazione del contenuto latente nel contenuto manifesto; oppure, più direttamente, la rinuncia al piacere si trasforma in (plusvalore-)piacere della rinuncia. Anche quando detestiamo indulgere nei piaceri, cadiamo nella trappola del provare piacere nell’attività dello stesso detestare. Non è così per quei severi moralisti che quando esprimono il proprio orrore per i nostri piaceri decadenti provano un piacere palpabile? Ci sono tre passaggi in questo processo: in primo luogo, c’è una qualche forma di piacere diretto; poi siamo costretti a rinunciare a questo piacere diretto; infine, proprio 200

un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe questo lavoro di rinuncia, di rimozione, genera un surplus di piacere (plus-piacere) a sé stante: la formula condensata di questo processo è pLp, ovverosia piacere – lavoro di rimozione – plus-piacere (una formula che, naturalmente, fa eco a quella della circolazione del capitale di Marx: dmd, denaro, merce, plusvaloredenaro). S’immagini il semplice esempio di rituali compulsivi: trovando inaccettabili alcuni suoi desideri, un ne-vrotico (ossessivo)compulsivo li combatte, stabilendo così dei rituali di autopunizione per mezzo dei quali cerca di tenerli a bada; ma poi inizia a godere di questi stessi rituali... Lotto con i miei peccaminosi desideri sessuali flagellandomi dolorosa-mente, ma poi inizio a godermi l’autoflagellazione stessa perché, in una forma negativa, mi ricorda che tali desideri proibiti sono in me ancora attivi. E dunque, ancora una volta, dove subentra qui lo sfruttamento? In termini di economia libidica, lo si comprende ricor-rendo alla distinzione tra pulsione e desiderio. Il desiderio (o, piuttosto, la pulsione) del capitalismo stesso non è il desiderio del capitalista. Quest’ultimo può variare in tutte le sue declina-zioni patologiche – può essere il desiderio di vendicarsi, accu-mulare ricchezza, espandere la costruzione e produrre di più o altro – mentre il desiderio del capitalismo stesso è una pulsione monotona verso una riproduzione allargata. (E perché non aggiungere anche il comunismo, ossia la distinzione tra il desiderio del comunista e il desiderio dello stesso comunismo?) Onde evitare un nuovo tipo di animismo (quello di desideri che hanno sede in processi sociali oggettivi), si dovrebbe comunque indagare la più precisa condizione di questo desiderio non soggettivato. Per quanto non soggettivo, esso funziona ancora come qualcosa che presuppone la soggettività (poiché funziona solo come da essa presupposto). È per questo che non basta concentrarsi sui vizi privati dei singoli capitalisti: i migliori ser-201 Hegel e il cervello postumano vitori del capitale potrebbero benissimo essere quelli che ignorano i propri vizi privati e sono

totalmente dediti alla «lealtà superiore» dell’indisturbata circolazione del capitale. Omologa a questa distinzione è quella tra i desideri privati dei singoli funzionari statali e il «desiderio» incarnato nel funzionamento degli apparati statali. La campagna contro Trump e per il suo impeachment la dice lunga sulla nostra situazione politicoideologica. Trump è rappresentato come uno che persegue i propri interessi privati, non come il rappresentante di uno Stato e dei suoi apparati. Edward Snowden ha immediatamente capito questo punto, commentando che la denuncia di un informatore, che ha scatenato l’indagine sull’ impeachment del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è strategicamente «abbastanza saggia» nel suo focus sul presidente contro un’istituzione... Il Congresso non vede l’ora di sacrificare un individuo che abusa della propria carica, salvo non essere altrettanto motivati quando sono loro stessi a essere implicati nelle stesse accuse... Questo informatore sta facendo qualcosa [di] un po’ insolito. Sostiene che un individuo sta infrangendo la legge il quale, ovviamente, è il Presidente, [che] in questo momento gode di storica impopolarità. 33 È quindi accettabile criticare un individuo che viola la legge mentre persegue i suoi interessi o le sue private inclinazioni patologiche (vendetta, brama di potere e gloria...), mentre è assai più difficile discernere un crimine nell’attività di un’istituzione statale, un’attività criminale svolta da individui personalmente onesti, dediti al loro lavoro; qui il male e il crimine non sono individualizzati, bensì inscritti nel funzionamento stesso dell’istituzione. 202 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe L’assai celebrato Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck, cade nella stessa trappola: come nel caso di molte rappresentazioni della durezza dei regimi comunisti, al film sfugge il vero orrore della situazione proprio mentre cerca di raffigurarlo. Come? A mettere in moto la trama del

film è il corrotto ministro della cultura che vuole sbarazzarsi del drammaturgo di punta della ddr Georg Dreyman, così da poter perseguire senza ostacoli la sua relazione con la partner di Dreyman, l’attrice Christa-Maria. In questo modo, l’orrore insito nella stessa struttura formale del sistema è relegato all’effetto di un capriccio personale: il punto non colto è che, pur senza la corruzione personale del ministro – soltanto con dediti e devoti burocrati –, il sistema non sarebbe stato meno terrificante. Nella Repubblica Democratica Tedesca vera e propria, uno scrittore come Dreyman, famoso e pubblicato anche in Occidente, sarebbe stato costantemente sorvegliato (come nel caso di tutti gli autori famosi della ddr, da Bertolt Brecht a Heiner Müller), quand’anche nessun quadro del partito ne avesse desiderata la moglie. E lo stesso vale per l’ impeachment di Trump. Si può sostenere che Trump sia un individuo repellente, privo di bussola morale; tuttavia, che dire delle violazioni sistematiche dei diritti umani nelle continue attività delle agenzie di intelligence statunitensi? I veri nemici non sono le figure idiosincratiche che fun-gono da disturbo per l’ establishment stesso; i veri nemici sono gli onesti, patriottici burocrati che perseguono spietatamente gli obiettivi statunitensi. Per fare dei nomi, il modello di un tale patriottico burocrate è James Comey, il direttore dell’fbI desti-tuito da Trump. Per quanto Comey sia stato, probabilmente, in gran parte sincero nelle sue critiche a Trump a livello fattuale (si veda il suo libro di memorie A Higher Loyalty), bisogna ammettere che la sua «lealtà superiore» ai principi e ai valori degli 203 Hegel e il cervello postumano Stati Uniti lascia intatte quelle che non si possono altro che definire come tendenze criminali insite nelle istituzioni statali statunitensi, ovverosia tutto quanto rivelato da Assange, Snowden e Manning. Non va altresì dimenticato che il movimento per l’ impeachment di Trump è principalmente motivato dal desiderio di dimostrare che la Russia ha influenzato le ultime elezioni presidenziali, consentendogli di

vincere. Benché sia probabile che un’ingerenza russa ci sia stata (parimenti a come gli Stati Uniti cercano d’influenzare le elezioni in tutto il mondo, con la differenza che chiamano i loro interventi «difesa della democrazia»), l’attenzione su questo aspetto offusca la vera ragione della sconfitta di Clinton, la sua spietata lotta contro Bernie Sanders e l’ala sinistra del Partito Democratico. Sanders aveva ragione ad ammonire che se per il prossimo anno, anno e mezzo, con l’entrare nel vivo delle elezioni, tutto ciò di cui il Congresso continuerà a parlare è l’ impeachment di Trump e Trump, Trump, Trump e Mueller, Mueller, Mueller, e non si parla di assistenza sanitaria, non si parla di aumentare il salario a un minimo sufficiente per vivere, non si parla di lotta ai cambiamenti clima-tici, di sessismo, razzismo, omofobia e di tutte le questioni che riguardano l’americano medio, temo proprio che vada a vantaggio di Trump.34 L’ impeachment di Trump non è un progetto di sinistra, è un progetto liberal-centrista il cui obiettivo segreto è anche quello di indebolire la svolta a sinistra del Partito Democratico. Questo ci riporta a Marx: alcune delle migliori letture recenti del Capitale di Marx spostano l’enfasi dal primo al secondo vo-lume che si occupa della circolazione del capitale, cioè il ciclo 204 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe della sua autoriproduzione allargata; inoltre, per chiarire questa struttura circolare, si riferiscono alla categoria della vita così come è dispiegata nella seconda parte della logica soggettiva di Hegel (non la vita dell’hegeliana filosofia della natura, ma la vita nella sua struttura puramente logica, la vita come «seconda natura», come movimento oggettivo autoriproduttivo della nozione che segue la triade soggettiva di idea-giudiziosillogismo). La tesi alla base di questa lettura è che l’autoriproduzione del capitale, la sua «vita», sia la base effettiva della nozione di Assoluto,

dell’idea assoluta di Hegel: il capitale nella sua autoriproduzione è l’attualità del soggetto assoluto hegeliano. Per quanto perspicace, trovo questa lettura problematica, in quanto deve concepire la rivoluzione proletaria, la rottura del sistema capitalistico, come una mossa al di fuori della dialettica, in una qualche radicale Alterità non mediata. Inoltre, per dirla in termini lacaniani in qualche modo semplificati, la premessa problematica di quest’interpretazione è che il capitale sia un grande Altro che esiste, non un Altro che persiste solo come punto di riferimento virtuale di soggetti che agiscono come se esistesse. Nel funzionamento del capitalismo pre-digitale come descritto da Marx, la tensione tra pulsione e desiderio resta pienamente operativa: la pulsione del capitale non è la stessa del desiderio di un singolo capitalista che serve l’autoriproduzione del capitale. A questo livello libidico lo sfruttamento equivale a servire il godimento dell’Altro, il desiderio del soggetto è subordinato alla pulsione dell’Altro in modo tale che, anche se patissi dolore, lo accetterei purché serva il godimento dell’Altro, ossia l’impulso infinito del capitale all’autoriproduzione allargata: l’infinita autocircolazione del capitale (come «soggetto automatico») funge da parassita del mio desiderio finito. Questo godimento non è ovviamente psicologico bensì impersonale, un momento della struttura sociale oggettiva del capitale, 205 Hegel e il cervello postumano ma non è ancora semplicemente oggettivo: è presupposto dai singoli soggetti come punto di riferimento virtuale (nello stesso senso in cui è virtuale il grande Altro simbolico: un’entità non psicologica che esiste solo come punto di riferimento virtuale dei soggetti e della loro attività). Ma ciò che accade con la Singolarità, con la mia immersione diretta nello spazio collettivo dell’Altro, è che il divario che separa il desiderio del soggetto dalla pulsione dell’Altro viene meno: quando sono in una Singolarità i miei pensieri non sono più i miei, sono direttamente quelli della Singolarità che pensa sé stessa, partecipo direttamente della pulsione dell’Altro.

Questo è il motivo per cui la prospettiva della Singolarità apre un varco per uscire dal capitalismo. Perché il capitalismo esercita un tale fascino ideologico? Perché a molti sembra l’ordine sociale che meglio si adatta alla natura umana? In tanti, anche a sinistra, ammettono privatamente che è l’unica cosa che funziona davvero e si rassegnano a un capitalismo più orien-tato al welfare e ai diritti umani, abbandonando il socialismo «pieno» come un’utopia impraticabile... Todd McGowan35 ha fornito una spiegazione lacaniana della resilienza del capitalismo, ammettendo audacemente che in un certo senso (molto definito) il capitalismo si adatta efficacemente alla «natura umana». Contrariamente agli ordini sociali premoderni che of-fuscano il paradosso del desiderio umano e presumono che il desiderio sia strutturato teleologicamente in modo diretto (noi umani ci impegniamo per raggiungere un obiettivo ultimo, sia esso la felicità o un altro tipo di realizzazione materiale o spirituale, e miriamo alla pace e alla soddisfazione nella sua realizzazione), il capitalismo è il primo e unico ordine sociale a incor-porare nel proprio funzionamento il paradosso fondamentale del desiderio umano. Questo paradosso riguarda il funzionamento del surplus nella nostra economia libidica: qualunque 206 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe cosa raggiungiamo non è mai «quella», vogliamo sempre qualcos’altro e di più, e l’obiettivo finale del nostro desiderio non è quello di raggiungere un obiettivo ultimo, ma di riprodurre la sua infinita autoriproduzione in forma sempre più allargata. È per questo che lo squilibrio del sistema definisce il capitalismo: esso può prosperare solo attraverso il suo costante autoindebo-lirsi e rivoluzionarsi. Il paradosso è che, giacché desideriamo il surplus che sfugge a ogni oggetto, il nostro stesso orientamento verso il piacere e la soddisfazione ci costringe a sacrificare costantemente le

soddisfazioni disponibili per conto di quelle venture – nel capitalismo, l’edonismo e l’ascetismo coincidono – o, per citare la concisa ricapitolazione dalla copertina del libro di McGowan: Il capitalismo nasconde il sacrificio e quindi ci consente di trovare la nostra soddisfazione in esso senza mai riconoscere il legame tra sacrificio e soddisfazione. Tutta la soddisfazione dipende da una qualche forma di sacrificio – di tempo, di risorse, di utilità e così via – ma il capitalismo nasconde il sacrificio come interesse personale, il che consente ai soggetti capitalisti di impegnarsi in sacrifici soddisfacenti credendo di perseguire il proprio interesse. Ciò che il capitalismo attiva e contemporaneamente oscura è che la fonte ultima del piacere è il sacrificio stesso: il capitalismo offusca questo paradosso facendo pencolare permanentemente davanti ai nostri occhi (di produttori e consumatori) la promessa ingannevole di una soddisfazione futura. In breve, anziché ammettere che la promessa di soddisfazione futura è solo uno stratagemma illusorio per giustificare il sacrificio e le rinunce attuali, il capitalismo capovolge le cose e presenta sacrifici e rinunce come mezzo per raggiungere la soddisfazione 207 Hegel e il cervello postumano futura. Una volta direttamente attivata questa diabolica logica del surplus, un ritorno all’equilibrio precapitalistico non è più praticabile: come Marx vide già chiaramente, la liberazione è possibile solo attraverso il capitalismo. Ma che tipo di liberazione? Il sogno di una nuova economia libidica al di fuori dei paradossi del sacrificio e del surplus, questo sogno segreto della maggior parte delle utopie socialiste e radicali, va rifiutato. La struttura paradossale del desiderio umano è una sorta di a priori: non possiamo uscirne e (ri)stabilire un nuovo universo equilibrato in cui non avremo la fissazione del surplus, ma solo lavorare per le nostre soddisfazioni.

Come possiamo quindi uscire dal capitalismo senza cadere nella visione premoderna di un universo equilibrato? Come ammettere la struttura di base del desiderio umano senza concludere che, poiché il capitalismo attiva questa struttura, è in un certo senso insuperabile, «eterno» e naturale? Come abbiamo appena visto, il capitalismo attiva questa struttura e contemporaneamente ne offusca il paradosso. Di conseguenza, l’unica soluzione è (non dire di no al sacrificio e alla rinuncia, ma) ammettere apertamente e farsi carico del sacrificio e della rinuncia in quanto tali, senza giustificazioni teleologiche di future soddisfazioni. È una mossa difficile questa, poiché comporta l’ammissione di un fatto molto traumatico: si ricordino le epurazioni staliniane in cui a milioni furono sacrificati in funzione di una futura società felice, nascondendo il fatto che la visione della felicità futura serviva da maschera per offuscare il piacere osceno del sacrificio in quanto tale. È quello a cui allude Lacan nelle ultime pagine del suo Seminario XI, quando dice che L’offerta a dèi oscuri di un oggetto di sacrificio è qualcosa a cui pochi soggetti possono non soccombere, in una mostruosa cattura. L’ignoranza, l’indifferenza, un distogliere lo 208 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe sguardo possono spiegare sotto quale velo questo mistero resti ancora nascosto. Ma per chiunque sia capace di volgere verso questo fenomeno uno sguardo coraggioso – ancora una volta pochi sono quelli capaci di non soccombere al fascino del sacrificio in sé stesso – il sacrificio significa che, nell’oggetto dei nostri desideri, noi tentiamo di trovare la te-stimonianza della presenza del desiderio di quell’Altro che qui chiamo il Dio oscuro.36 L’alternativa a questo «mostruoso incantesimo» non è una vita felice senza sacrifici, ma un «sacrificio» (una spesa) che non è un’«offerta agli oscuri Dei», che non mira, cioè, a fare quello che fa per il godimento del divino Altro. Possiamo farlo? Forse la prospettiva della Singolarità apre qui una nuova visuale. Da immersi nella Singolarità, il normale gioco capitalistico di lavorare per il godimento dell’Altro (il Capitale) mentre si crede, sotto incantesimo, di perseguire il proprio

interesse personale non può più funzionare. Questo può funzionare solo nella misura in cui viene mantenuta la distanza tra la pulsione (del Capitale infinito) e il desiderio (del soggetto finito), ma nella Singolarità questa distanza viene confusa: il desiderio viene annegato nella pulsione, l’alienazione è piena e direttamente palpabile, dandoci una possibilità di sbarazzarcene. Da qui ritorniamo ancora a Matrix, che mette in scena proprio una simile, piena alienazione. La premessa di Matrix37 è che la realtà stessa in cui viviamo, la falsa realtà messa in scena da Matrix, esiste così da poterci effettivamente ridurre a uno stato passivo di batterie viventi che forniscono energia alla Matrice. L’impatto eccezionale del film è insito quindi non tanto nella sua tesi centrale (che ciò che sperimentiamo come realtà sia una realtà virtuale artificiale generata da «Matrix», il super-computer connesso direttamente a tutte le nostre menti), ma 209 Hegel e il cervello postumano nella sua immagine centrale di milioni di esseri umani che con-ducono una vita claustrofobica in culle piene d’acqua, mante-nuti in vita per generare l’energia (elettricità) per Matrix. Per cui, quando (alcuni) «si risvegliano» dalla loro immersione nella realtà virtuale controllata da Matrix, questo risveglio non consiste nell’aprirsi dell’ampio spazio della realtà esterna, ma prima di tutto nell’orribile presa di coscienza di questa chiusura, dove ognuno di noi è effettivamente solo un organismo simile a un feto, immerso nel fluido prenatale... Questa passività assoluta è il fantasma perverso definitivo, l’idea che alla fine siamo strumenti della jouissance dell’Altro (la Matrice), prosciugati della nostra vitasostanza come delle batterie. E qui sta il vero enigma libidico di questo dispositivo: perché Matrix ha bisogno dell’energia umana? Una soluzione puramente energetica è, ovviamente, insensata: Matrix avrebbe potuto facilmente trovare un’altra, più affidabile, fonte di energia che non richiedesse l’organizzazione estremamente complessa di una realtà virtuale coordinata per milioni di unità umane. L’unica risposta coerente è:

Matrix si nutre dell’umana jouissance; rieccoci quindi alla fondamentale tesi lacaniana secondo cui il grande Altro stesso, lungi dall’essere una macchina anonima, ha bisogno di un costante afflusso di jouissance. È così che dovremmo capovolgere lo stato di cose presentato dal film: ciò che il film rende come la scena del nostro risveglio rispetto alla nostra situazione reale è effettivamente il suo esatto opposto, lo stesso fondamentale fantasma che sostiene il nostro essere. Quindi non è che noi (gli sfruttati) non godiamo non facendo altro che lavorare per il godimento dell’Altro: godiamo eccome (come reso chiaramente dall’immagine centrale del film, con gli umani in una posizione passiva quasi fetale che godono silenziosamente), ed è proprio questo godimento di cui si appropria l’Altro, che sia il Capitale nello sfruttamento consumistico, la 210 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe burocrazia statale che sfrutta i suoi soggetti... e, in maniera analoga, la Singolarità che ci sfrutta quando godiamo della nostra immersione in essa. E questo ci porta al paradosso dello sfruttamento all’opera in Matrix: il godimento che Matrix succhia dagli individui non li libera, ciò che ottengono da Matrix per vedersi fornire continuo godimento è uno stato di indebitamento crescente: maggiore è il godimento succhiato da Matrix agli individui, maggiore è il loro debito. Per questo motivo, l’alienazione del soggetto può anche essere formulata in termini di debito infinito: nell’alienazione il soggetto è costitutivamente indebitato, perseguitato da un debito che non può mai ripagare, il cui risana-mento è un compito infinito. E con gli Stati stessi la situazione è analoga: dall’avvento del capitalismo questi si sono riprodotti indebitandosi. Qui abbiamo un bell’esempio di vera e propria dialettica storica in cui qualcosa che emerge come tale solo oggi (l’indebitamento universale) è inteso come operativo fin dall’inizio del capitalismo. Marx scrive che «[...] con la nascita dell’indebitamento dello Stato, la mancanza di fede nel debito pubblico prende il posto del peccato contro lo spirito santo, per il quale non esiste perdono».

38 Queste righe non sono oggi più che mai attuali? Si ricordi la crisi greca, tutta giocata sul debito e che è stata ovviamente «risolta» con un debito ancora maggiore. Questo passaggio dal lavoratore sfruttato all’individuo indebitato ha conseguenze politiche radicali: rende l’avvento della coscienza di classe – cioè la trasformazione dei lavoratori sfruttati in proletari consapevoli del loro ruolo storico rivoluzionario – quasi impossibile, giacché sono individualizzati dal loro indebitamento: Il capitalismo neoliberista ha instaurato e governa una lotta di classe asimmetrica. Perché esiste solo una classe: ricom-211 Hegel e il cervello postumano posta intorno alla finanza, intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale. La classe operaia non è più una classe. Dagli anni Settanta il numero complessivo di operai nel mondo è enormemente aumentato, ma gli operai non rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai più. Gli operai hanno [...] un’esistenza so-ciologica, economica, 39 non più come classe proletaria ma da individui indebitati, responsabili in quanto tali: la formula dell’ideologia di Althus-ser come interpellazione degli individui in soggetti viene qui ribaltata, è l’ideologia che interpella i soggetti in individui (indebitati). Anche la Singolarità funzionerà dunque come Matrix, come la Sostanza che si nutre del nostro godimento? Ci sono dei buoni argomenti a favore di questa tesi. Tutte le descrizioni della Singolarità puntano di fatto verso una struttura di radicale alienazione, verso la nascita di una nuova forma del grande Altro divino in cui il soggetto è completamente immerso in modo che la sua attività coincida con quella della Singolarità stessa (si ricordi la definizione di Lacan del misticismo maschile come struttura perversa in cui la mia visione di dio coincide con la visione di dio di sé stesso). Marx ha scritto che con la grande industria meccanica, la forma del processo produttivo nella sua realtà materiale si adatta alla struttura capitalistica: il

lavoratore non è più un artigiano che usa individualmente i suoi strumenti per lavorare la materia, ma l’appendice di una macchina che si prende cura del suo funzionamento senza intoppi. Allo stesso modo, il lavoratore è un’appendice del capitale. In maniera analoga, non è la forma stessa della Singolarità una struttura di alienazione radicale in cui il soggetto è privato di ogni contenuto, compresa la sua vita interiore? Questo parallelismo tra 212 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe Singolarità e capitale va spinto oltre. Gérard Lebrun parla dell’«immagine suggestiva» del capitale presentata da Marx (specialmente nei suoi Grundrisse, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica): «Una mostruosa mescolanza di infinito buono e cattivo infinito, l’infinito buono che crea i suoi presupposti e le condizioni della sua crescita, il cattivo infinito che non smette mai di superare le sue crisi e che trova il proprio limite nella sua stessa natura». 40 In effetti, è proprio nel Capitale che troviamo questa descrizione hegeliana della circolazione del capitale: Nella circolazione d-m-d, tanto la merce quanto il denaro funzionano unicamente come modi diversi di esistere del valore stesso: il denaro, come il suo modo di esistere generale; la merce, come il suo modo di esistere particolare, per così dire soltanto travestito. Il valore passa costantemente da una forma all’altra senza perdersi in questo movimento, e così si trasforma in un soggetto automatico [...] Come soggetto pre-potente di un simile processo, nel quale ora riveste forma denaro e forma merce, ora se ne spoglia, ma in questo tramutarsi si conserva e si accresce, il valore ha bisogno in primo luogo di una forma autonoma mediante la quale venga contrastata la sua identità con sé stesso. E possiede questa forma soltanto nel denaro. Questo costituisce perciò il punto di partenza e il punto di arrivo di ogni processo di valorizzazione [...].41 Si noti come qui abbondino i riferimenti hegeliani: nel capitalismo il valore non è una mera universalità «muta» astratta, un legame

sostanziale tra la molteplicità delle merci; da mezzo passivo di scambio si trasforma nel «fattore attivo» dell’intero processo. Anziché assumere solo passivamente le due diverse forme della sua esistenza effettiva (denaro – merce), ap-213 Hegel e il cervello postumano pare come il soggetto «dotat[o] di un movimento proprio»: si differenzia da sé stesso, ponendo la propria alterità, e poi di nuovo supera questa differenza; l’intero movimento è il suo stesso movimento. In questo senso preciso, «invece di rappresentare semplicemente rapporti fra merci, ora esso entra [...] in rapporto privato con sé stesso»: la «verità» del suo relazionarsi alla propria alterità è la sua relazione con sé stesso, vale a dire, nel suo autoriprodursi, il capitale «supera» retroattivamente le proprie condizioni materiali, trasformandole in momenti subordinati della propria «espansione spontanea»: in puro hegelese, pone i propri presupposti. Fondamentale nel passaggio citato è l’espressione «soggetto automatico», l’os-simoro che unisce soggettività vivente e morto automatismo. Questo è il capitale: un soggetto, ma automatico, non vivente; e può Hegel, ancora una volta, concepire questa «mostruosa mescolanza», un processo di automediazione soggettiva e di retroattivo porre presupposti che, per così dire, sono preda di una sostanziale «infinità spuria», di un soggetto che a sua volta diventa sostanza alienata? E ancora, non vale esattamente lo stesso anche per la Singolarità in cui prima o poi saremo immersi? Non sarà, la Singolarità, la nuova versione di un tale «soggetto automatico»? Per portare questo parallelismo alla sua conclusione: così come la figura del capitale come soggetto automatico è un fantasma ideologico (seppure un fantasma con effetti sociali reali, immanente al movimento del capitale), la figura della Singolarità come un divino mega-Soggetto a cui partecipiamo è un altro fantasma ideologico. La Singolarità non implica la nostra alienazione nel grande Altro

(simbolico/virtuale): la Singolarità avrà luogo nel Reale. Tuttavia, giacché il soggetto non sarà solo immerso nella Singolarità ma anche in essa radicalmente alienato (poiché, come abbiamo ipotizzato, il soggetto sopravvivrà 214 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe in esso come il punto evanescente del vuoto puro), non è qui la «separazione» l’inconscio stesso come correlativo del soggetto puro ($)? In breve, non ci consente il grande Altro virtuale stesso di acquisire un minimo di separazione dal grande Altro digitale? Il Simbolico in quanto tale non è una forma minima di separazione? Il problema è, ovviamente, che nel nostro avere a che fare con la rete digitale, queste due dimensioni (il Grande Altro virtuale/simbolico e il Grande Altro digitale attuale) tendono a confondersi, così da proiettare sulla macchina digitale, che è parte della realtà materiale, la dimensione del grande Altro simbolico per trattarlo come un «soggetto che si suppone sappia» (o che non sappia, cioè l’entità a cui riusciamo a nascondere i nostri intimi segreti). Si può affermare che questa confusione sia ciò che definisce l’idea di Singolarità: un grande Altro materialmente esistente che è contemporaneamente un Altro divino. Questa confusione ci avvicina alla paranoia: nella paranoia, l’Altro virtuale – che, come dice Lacan, non esiste – viene percepito come esistente nella realtà (in veste di nostro persecutore). Per evitare questa confusione, le due dimensioni devono essere tenute separate, il che significa che l’Altro digitale (la rete digitale) deve essere trattato per quello che è: una grande, stupida macchina che funziona alla cieca. Per riassumere, gli umani che partecipano della Singolarità finiscono per fondere automaticamente (in un effetto di ideologia spontanea) l’Altro digitale reale (la macchina digitale che supporta il contatto tra i cervelli connessi e quindi la nostra immersione nella Singolarità) con il simbolico «grande Altro»; i due surrettiziamente coincidono, l’Altro

reale (la macchina digitale che fa da supporto alla nostra immersione nella Singolarità) è elevato al grande Altro simbolico, è percepito come una figura di autorità simbolica, come un partner divino o lo spazio 215 Hegel e il cervello postumano in cui dimoro. Qui il primo compito della critica dell’ideologia è quindi quello di desublimare la Singolarità, di ristabilire la distanza tra le due dimensioni, di ridurre l’Altro digitale all’ottu-sità di una macchina cieca, di privarla dell’aura di un Padrone segreto. 42 In breve, la figura della Singolarità dovrebbe essere desublimata, privata della dignità di Cosa. Come possiamo, tuttavia, combinare quest’urgente necessità di desublimare la Singolarità, di privarla del suo status semi-divino, con la proposta di Tomšič di determinare il passaggio dalla rimozione (che sostiene lo sfruttamento) a una nuova economia libidica senza sfruttamento repressivo come un movimento dalla rimozione alla sublimazione? «Nel regime della rimozione l’unico cambiamento possibile è quello degli oggetti, ma non ‘il cambiamento dell’oggetto in sé’». Bisogna dare a queste righe la loro piena dignità hegeliana, ricordando l’affermazione di Hegel secondo cui nell’esperienza ( Erfahrung) non è solo la nostra percezione dell’oggetto a cambiare, ma l’oggetto stesso. Quindi come funziona questo cambiamento? Cosa fa il soggetto con l’oggetto? Invece della rimozione, cioè dello spostamento repressivo del nostro investimento libidico da un oggetto a un altro (come nel nostro esempio di comportamento compulsivo, in cui il nostro investimento libidico è spostato dall’attività illecita al rituale punitivo di questa attività), il soggetto mette in atto la sublimazione: lo stesso oggetto (in questo caso l’attività sessuale illecita) è «elevato alla dignità della Cosa», l’impossibile-reale oggetto di desiderio. Per capire come lo sfruttamento sia superato dalla sublimazione, non basta fermarsi a questa definizione standard di sublimazione come elevazione di un oggetto ordinario alla dignità di una Cosa. Come

Lacan ha adeguatamente dimostrato a proposito dell’amore cortese, un oggetto ordinario (donna) è elevato alla dignità della Cosa, diventa un «partner disumano», 216 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe al quale avvicinarsi troppo è pericoloso, sempre al di là della portata, evocando un misto di orrore e rispetto. Il paradosso del desiderio è qui portato all’estremo, trasformando l’esperienza dell’amore in una tragedia perennemente rimandata. Nel vero amore, tuttavia, c’è la commedia: mentre l’amata rimane una Cosa, è allo stesso tempo «desublimata», accettata in tutte le sue ridicole imperfezioni corporee. Si ottiene così un vero miracolo: posso ottenere la Cosa- jouissance, prendermene gioco e giocarci, godendone senza ritegno – il vero amore non idealizza – o, come dice Lacan nel suo seminario sull’angoscia: «Solo l’amore-sublimazione rende possibile alla jouissance la condiscendenza al desiderio».43 Questa enigmatica affermazione è stata perspicacemente interpretata da Alenka Zupančič, che ha dimostrato come, nella commedia dell’amore, la sublimazione paradossalmente comprenda il suo opposto, la desublimazione: tu rimani la Cosa, ma allo stesso tempo posso usarti per la mia jouissance: «Amare l’altro e desiderare la mia jouissance. ‘Desiderare la propria jouissance’ è probabilmente ciò che è più difficile da ottenere e far funzionare, poiché il godimento ha difficoltà ad apparire come oggetto».44 Non ci si dovrebbe sottrarre a una descrizione abbastanza concreta e grafica dell’equivalente di ciò: ti amo, e lo mostro scopandoti solo per piacere, rendendoti spietatamente un oggetto: è così che non sono più sfruttato dall’essere al servizio del godimento dell’Altro. Quando mi preoccupo sempre che piaccia anche a te, non è amore: «Ti amo» significa: voglio essere usato come oggetto per il tuo godimento. Tutte le sciocchezze cattoliche sul

preferire la posizione missionaria nell’amplesso perché gli amanti possano sussurrarsi parole tenere e comunicare spiritualmente andrebbero qui rifiutate; e nemmeno Kant ci era arrivato quando ha ridotto l’atto sessuale al fare del mio partner lo strumento del mio piacere: l’ogget-217 Hegel e il cervello postumano tivizzazione di sé è la prova dell’amore, l’essere usati sarà vissuto come degradante solo se non c’è amore. Questo mio godimento non dovrebbe essere limitato nemmeno dalla tendenza a consentire al mio partner di raggiungere l’orgasmo contemporaneamente a me; Brecht aveva ragione quando, nella sua poesia Orges Wunschliste,45 inserisce nella lista dei desideri delle sue preferenze gli orgasmi non simultanei: « Von den Mädchen, die neuen. / Von den Weibern, die ungetreuen. / Von den Orga-smen, die ungleichzeitigen. / Von den Feindschaften, die beider-seitigen». (Delle ragazze, quelle recenti. / Delle donne, quelle infedeli. / Degli orgasmi, quelli asincroni. / Degli odi, quelli reciproci). Ma sembrerebbero esserci due sublimazioni in un altro senso: quella «buona» (sublimare l’oggetto anziché sottoporlo al lavoro di rimozione), e quella «cattiva», dove si sublima (ele-vandolo alla dignità di una Cosa) il capitale (o la Singolarità) in una Cosa divina, un mostro transumano che si riproduce automaticamente attraverso di noi, la nostra attività. C’è una sottile differenza tra le due: ciò che è sublimato nella sublimazione «cattiva» non è un oggetto o una pratica libidica concreta, bensì lo spazio globale della forza alienata che controlla le nostre vite e ci sfrutta da un punto di vista libidico e/o economico. Per chiarire questa distinzione tra i due modi di sublimazione, dobbiamo esplicitare ulteriormente il passaggio dalla rimozione alla sublimazione connotato da Tomšič come lo spostamento dall’infinito (in quanto sostanza) che parassita il finito (individui/soggetti) all’infinito come l’inflessione del (soggetto) finito: «Se la rimozione rappresenta un parassitismo dell’infinito sul finito e lo sfruttamento dell’alienazione del soggetto, allora la sublimazione si basa su un parassitismo inverso, quello del finito sull’infinito»; questo

parassitismo significa che un oggetto ordinario finito agisce parassitariamente sulla Cosa 218 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe infinita. Quindi, ancora una volta, nella «cattiva» sublimazione i singoli oggetti non sono elevati alla dignità di una Cosa, bensì semplicemente ridotti a un momento evanescente nel movimento circolare eterno della Cosa che passa da una forma di apparenza all’altra; laddove nella «buona» sublimazione un oggetto singolo, nella sua stessa finitezza, rappresenta la Cosa, parassita cioè l’infinito. È come in amore, dove un’ordinaria, singola persona, con tutti i suoi difetti, si trasforma nel punto fermo irremovibile del mio investimento libidico. Queste due forme di sublimazione sono tradizionalmente ben note: la «cattiva» è quella della saggezza convenzionale – tutti i fenomeni sono transitori, l’unica Cosa reale è l’Abisso in cui tutto ciò che è scompare – mentre quella autentica è meglio sintetizzata dalla nozione cristiana dell’amore che violentemente privilegia un soggetto singolo, un amore esclusivo, che introduce uno squilibrio estremo nell’universo. Nondimeno, la formula del parassitismo inverso è di per sé insufficiente. La produzione capitalistica fine a sé stessa funziona solo se è vissuta dai lavoratori in quanto soddisfa i loro bisogni, esternamente teleologica. È quindi lo stesso parassitismo capitalistico dell’infinito (il capitale) sul finito (il lavoratore) che «rende finito» il lavoratore. Nel comunismo, non sarà semplicemente il finito a parassitare l’infinito, ma un infinito diverso: l’infinito è il soggetto stesso, il circuito della sua produttività autopotenziante, e non dimentichiamo che il soggetto è di per sé un’entità singolare, un Uno che esclude il molteplice della realtà. È per questo che «la produzione fine a sé stessa» e non per soddisfare i bisogni del lavoratore non è solo una forma di alienazione capitalistica: definisce anche il comunismo, in cui la produzione è altrettanto per sé stessa, per soddisfare le nostre potenzialità creative. In altre parole, il problema con la sublimazione «cattiva» è che l’Infinito che parassita i 219

Hegel e il cervello postumano finiti transitori è un caso di ciò che Hegel chiamava «cattivo (spurio) infinito». Quando andiamo oltre l’alienazione, la soggettività (la sua singolare potenza negativa) è, ovviamente, del tutto affermata, ma non nel solito senso «hegeliano» preso a modello da Marx (il soggetto si riappropria della sostanza alienata riconoscen-dola come proprio lavoro); ciò che accade nella disalienazione è solo il raddoppio dell’alienazione, che Lacan definiva separazione. Cosa si separa da cosa qui, se l’alienazione rappresenta già la separazione dell’Altro dal soggetto (che è anche in questo modo decentralizzato, separato da sé stesso, con il suo centro di gravità fuori di sé)? Il grande Altro si separa da sé stesso, diventa de-sostanzializzato, incoerente, privo di fondamenta, in moto circolare, trafitto da antagonismi. Rieccoci al tema hegeliano della disparità: raddoppiare l’alienazione significa che la disparità del soggetto dalla sostanza si riflette nella Sostanza stessa, come sua disparità con sé stessa. Questa distinzione tra alienazione e separazione ci obbliga anche ad affrontare in modo nuovo il nostro impegno contro la minaccia di una catastrofe ecologica. Si sente spesso dire che ai fini di affrontare adeguatamente la minaccia di una catastrofe ecologica, dovremmo rinunciare all’«antropocentrismo» e concepire noi stessi (l’umanità) come un elemento subordinato nella grande catena dell’Essere: non siamo che una specie sul nostro pianeta, ma attraverso il nostro spietato sfruttamento delle sue risorse, noi (l’umanità) rappresentiamo una minaccia per la nostra madre Terra, ed essa ci punisce mediante il riscaldamento globale e altre minacce ecologiche... Non si può far altro che ridere di questa lettura: non è la Terra a essere nei guai, siamo noi; la Terra è indifferente, è sopravvissuta a catastrofi molto peggiori della possibile autodistruzione di una delle sue specie. Ciò che è minacciato è il nostro ambiente, il 220 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe nostro habitat, l’unico in cui possiamo vivere. Dal punto di vista immaginario della Terra sarebbe

molto meglio per il suo ecosistema globale se fossimo noi (l’umanità) a scomparire; a essere dunque minacciata nella «crisi ecologica» è la nostra sopravvivenza, quella della nostra società. E proprio qui sta l’antropocentrismo nascosto di tali visioni anti-antropocentriche: nonostante tutte le chiacchiere sul privilegiare la Terra rispetto ai nostri interessi, quello che cerchiamo è (un ambiente che si adatti al-) la nostra sopravvivenza e al nostro benessere. È anche per questo che la vera posta in gioco dell’ecologia è socio-politica: l’ecologia non riguarda la cura della Natura, riguarda una riorganizzazione sociale per massimizzare le condizioni del nostro benessere. Greta Thunberg ne è pienamente consapevole: quando si riferisce alla scienza (ammonendo i politici perché ascoltino la scienza) si rivolge ai politici, non agli scienziati: il suo obiettivo non è l’abbandono della politica, non è depoli-ticizzazione, ma contribuire alla nascita di una nuova politica, che sia effettivamente universale, che si rivolga a noi tutti seppure (come si addice a qualsiasi politica) ancora dividendoci (ossia lottando contro coloro che negano la minaccia di una catastrofe ecologica). La lotta ecologica è politica nella sua forma più radicale.46 Un’altra versione di politica universale è quella associata ai nomi Assange-Snowden-Manning, quella di «spio-naggio per il popolo», che rivela al pubblico oscuri segreti di Stato. Per quanto riguarda il proprio Stato sovrano, tale attività è «traditrice», motivo per cui è universale per definizione, vale a dire «tradisce» la propria fedeltà al proprio Stato. Greta è cambiata negli ultimi mesi: la ragazza ingenua e innocente che diceva che l’imperatore è nudo è diventata un de-mone dalla lingua tagliente, aggressivo e sorridente; ma il suo messaggio rimane lo stesso, semplice e reiterato. Qui andrebbe ricordato il meraviglioso breve testo di Kierkegaard Rivelazione 221 Hegel e il cervello postumano divina e genialità. Sulla differenza tra un genio e un apostolo, in cui definisce il genio come l’individuo che è in grado di esprimere/articolare «ciò che è in lui più di sé stesso», la sua sostanza spirituale, in contrasto con l’apostolo che «in sé stesso» non ha alcuna importanza: l’apostolo è la funzione puramente formale

di colui che ha dedicato la sua vita a testimoniare una Verità impersonale che lo trascende. È un messaggero che è stato scelto (dalla grazia): non possiede alcuna caratteristica interiore che lo qualifichi per questo ruolo. Qui Lacan fa riferimento a un di-plomatico che funge da rappresentante del proprio paese: le sue idiosincrasie sono irrilevanti, qualunque cosa faccia viene letta come un messaggio dal suo paese a quello in cui è inviato: se, in una grande conferenza diplomatica, tossicchia, l’atto viene interpretato come una discreta segnalazione delle riserve del suo Stato in merito alle misure discusse alla conferenza ecc. E la paradossale conclusione di Lacan è che il «soggetto dell’inconscio» freudiano (o quello che Lacan chiama «soggetto del significante») ha la struttura dell’apostolo kierkegaardiano: è te-stimone di una Verità «impersonale». Non è proprio un «corpo di verità» quello che troviamo nell’isteria? Nei sintomi fisici che derivano dalla «conversione» isterica, il corpo organico immediato viene invaso, sequestrato, da una Verità, trasformato in un portatore di verità, in uno spazio/superficie su cui sono incise le Verità (dell’inconscio). L’isteria è il caso estremo del c’est moi, la vérité, qui parle di Lacan. In breve, la struttura è qui quella di un apostolo kierkegaardiano: il corpo è cancellato/sospeso come indifferente nella sua realtà immediata; è requisito come mezzo di verità. E Greta stessa non è un genio creativo, bensì l’apostolo di una verità: non porta avanti delle nuove, ingegnose intuizioni; ripete di continuo lo stesso semplice messaggio. Parlando dei politici, ha detto: «Non stiamo manifestando perché si facciano dei selfie con noi e ci ricoprano di ammirazione per 222 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe quello che facciamo. Noi bambini lo stiamo facendo per svegliare gli adulti».47 È così che parla un vero apostolo, togliendosi ripetutamente dall’inquadratura, pienamente consapevole che l’attenzione su di lui, anche se celebrativa, funziona come una

distrazione dal suo messaggio. Potrebbe sembrare che tale posizione dell’apostolo sia il caso più evidente di alienazione: l’apostolo è un soggetto che, in un atto di kenosi radicale, si svuota di tutto il proprio contenuto espressivo per fungere da latore impassibile del messaggio del grande Altro. Bisogna tuttavia attraversare questo punto zero per discernere la contraddizione e il blocco di sé di questo grande Altro stesso, ossia per mettere in evidenza come la Verità stessa che parla attraverso di me sia non-tutta, attraversata da un’impossibilità immanente. Quando Greta ci rivolge il suo appello perché diamo ascolto alla scienza e la si prenda sul serio, non significa che la scienza fornisca anche le risposte politiche a ciò che dobbiamo fare. La scienza ci consente di discernere i contorni della situazione di stallo in cui ci troviamo (le catastrofiche implicazioni ecologiche del nostro sviluppo economico ecc.), ma non esiste una «politica scientifica»: quando sentiamo questo slogan, abbiamo ragione di sospettare il peggio della manipolazione e della dominazione. La politica è soggettiva nel senso più radicale del termine, mentre la scienza – come dice Lacan – preclude la dimensione del soggetto. La scienza che dovremmo ascoltare non è uno strumento neutrale di salvezza ma qualcosa che dovremmo superare, oltre il cui orizzonte dovremmo imparare a pensare. Greta non è una totalitaria che agisce come strumento del grande Altro scientifico, sta propo-nendo dati scientifici come la base che dovrebbe costringerci a elaborare un nuovo progetto di emancipazione e agire su di esso. Ciò significa inoltre che abbiamo bisogno di un concetto di alienazione capace di spingersi oltre la sua versione marxista. 223 Hegel e il cervello postumano Quindi, per concludere, il parallelismo tra l’alienazione nel significante e l’alienazione capitalistica di cui parla Marx – l’alienazione che riguarda il feticismo delle merci e l’appropriazione di plusvalore – è fuorviante: per semplificare al

massimo, l’alienazione del soggetto nel significante è costitutiva del soggetto, mentre l’alienazione capitalistica caratterizza un certo modo di produzione storicamente limitato. (Sebbene per Marx il capitalismo non sia solo uno dei modi di produzione ma un’eccezione che funge da punto sintomatico dell’intera storia e, come tale, universale nel suo significato). L’alienazione nel significante e nell’inconscio non sarà mai abolita fintantoché abbiamo a che fare con la soggettività, mentre il capitalismo può essere abolito, motivo per cui il parallelismo tra Wo Es war soll Ich werden (il soggetto che si appropria della sua sostanza inconscia) e la lotta proletaria contro il capitale (e per l’appropriazione della sostanza sociale) non coglie il punto fondamentale. Il comunismo non è un processo senza fine di superamento del capitalismo, proprio come la psicoanalisi non abolisce mai l’inconscio: il comunismo, ovviamente, non sarà un perfetto stato di realizzazione umana, darà vita ai suoi antagonismi, ma saranno qualitativamente diversi dagli antagonismi capitalistici. Inoltre non vorranno dire che il comunismo è un progetto infinito e incompiuto, un obiettivo che non raggiungeremo mai: il comunismo sarà definito da questi nuovi antagonismi esattamente allo stesso modo in cui il capitalismo lo è dagli antagonismi specifici propri.48 Lo schema «hegeliano» di Marx di un soggetto collettivo che si appropria della sostanza storica alienata fallisce perché ignora la dimensione del grande Altro simbolico: la visione di Marx di una società trasparente a sé stessa è la visione di una società senza un grande Altro. Marx determina il proletariato come substanzlose Subjektivität; ma nel suo schema, la soggettività senza sostanza (un lavoratore ridotto alla pura capacità-224 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe di-lavorare dal momento che tutto il contenuto sostanziale gli è portato via dal capitale) è ridotta a un momento di estrema alienazione che annuncia il capovolgimento rivoluzionario per mezzo del quale il soggetto collettivo si riapproprierà della sua sostanza alienata. In Hegel e Lacan, al contrario, il soggetto senza sostanza è soggetto in quanto tale, la sua negatività costitutiva, e l’unico modo in cui può «superare» la sua

alienazione dalla propria sostanza è passare dall’alienazione alla separazione, vale a dire percepirsi come un effetto della crepa, della disparità nella sostanza stessa: soggetto significa che la sostanza è già alienata da sé stessa. Si può facilmente capire perché i tecnognostici sovietici vagheggiassero qualcosa come la Singolarità: essa può sembrare una realizzazione caricaturale del comunismo: tutti gli umani annegati in un’unica grande mente, nessuna individualità, tutto condiviso e trasparente... Qui torna alla mente la visione del comunismo codificata dalle paranoie fantascientifiche dei primi anni Cinquanta sull’invasione degli ultracorpi, dove gli alieni invasori che prendono il controllo dei nostri corpi sono rappresentati come formiche senza individualità, totalmente controllati da una Mente centrale. La Singolarità quindi sta per totale alienazione del Soggetto nella Sostanza, dove questa Sostanza perde il suo misterioso carattere trascendente e diventa un campo di trasparenza, un dio niente affatto nascosto. La Singolarità promette quindi qualcosa che nel classico universo marxista è impensabile: uno spazio sociale trasparente, del tutto immanente, non più perseguitato da un grande Altro alienato. In breve, nella Singolarità, l’estrema alienazione (del soggetto nella sostanza) coincide con l’autoabolizione dell’alienazione. La prospettiva della Singolarità apre una possibilità unica di riaffermare l’alienazione significante senza l’alienazione capitalistica. Il paradosso è che – una volta che avremo a che fare con la prospet-225 Hegel e il cervello postumano tiva della Singolarità – il compito della liberazione non sarà più quello di abolire l’alienazione – in modo perverso ciò sarà già raggiunto nella Singolarità – ma, al contrario, di ristabilire l’alienazione nel grande Altro come costitutiva della soggettività. Non è più quello di impegnarsi nel compito di Wo Es war soll Ich werden, di abolire/appropriarsi dell’inconscio, ma di aprire proprio lo spazio dell’inconscio minacciato dalla Singolarità. A un livello più generale, si dovrebbe tenere presente che la prospettiva del cervello connesso si adatta perfettamente alla

tendenza crescente dell’indiscrezione. Tyi Starr, una pornodiva australiana, ha annunciato che avrebbe messo in vendita un video del suo parto, affermando di non avvertire il proprio gesto come «sbagliato» e di non avere bisogno di difenderlo. 49 Se il cervello connesso sarà sviluppato su base individuale (decido io con chi mi collego), il passo successivo diventa facilmente prevedibile: la condivisione della mia esperienza del parto... Alcune cis-femministe «radicali» probabilmente celebreranno questo gesto come un passo verso la «demistificazione» della vagina, che ci rende consapevoli di quanto non soltanto sia l’oggetto ultimo del desiderio sessuale, ma abbia anche altre funzioni; tuttavia, si può anche sostenere che il gesto di Starr faccia esattamente l’opposto, sessualizzi cioè l’atto del parto. Ha ragione Starr sul fatto che non ci sia nulla di «sbagliato» in ciò che sta progettando di fare; basterebbe solo aggiungere che la rappresentazione hardcore standard dell’atto sessuale a cui siamo tutti abituati è molto più spudoratamente intrusiva che raffigurare l’atto del parto. Comunque la si pensi, la cosa principale è tenere presente la tendenza crescente verso una radicale indiscrezione su cui poggia l’atto di Starr e le potenzialità esplosive di questa tendenza. Come afferma Sloterdijk: «Più comunicazione significa all’inizio innanzitutto più conflitto».50 Ecco perché Sloterdijk ha ra-226 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe gione a sostenere che l’atteggiamento del «capirsi-l’un-l’altro» deve essere integrato dall’attitudine di «allontanarsi-gli-uni-dagli-altri», dal mantenere una distanza adeguata, dall’impiegare un nuovo «codice di discrezione». La civiltà europea trova più facile tollerare diversi modi di vivere proprio per via di ciò che i suoi critici di solito denunciano come sua debolezza e suo fallimento, vale a dire

l’alienazione della vita sociale. Alienazione significa, tra le altre cose, che la distanza è inclusa nella trama sociale della vita quotidiana: pur vivendo accanto agli altri, nel mio stato normale li ignoro. Mi è permesso di non avvicinarmi loro troppo. Mi muovo in uno spazio sociale in cui interagisco con gli altri obbedendo a determinate regole «meccaniche» esterne, senza condividere il loro mondo interiore. Forse la lezione da imparare è che, a volte, una dose di alienazione è indi-spensabile per la coesistenza pacifica di diversi modi di vivere. A volte l’ alienazione non è un problema ma una soluzione, soprattutto quando, nella Singolarità, ci troviamo di fronte alla prospettiva di una totale indiscrezione. Per di più, c’è qui in atto un ulteriore paradosso: poiché, nella Singolarità, l’alienazione portata all’estremo coincide con la sua stessa abolizione, l’unico modo per riportare l’alienazione è attraverso la separazione come l’operazione che logicamente segue e contrasta l’alienazione, ossia con il trasporre l’alienazione del soggetto dal grande Altro nel grande Altro stesso. La fine della storia L’avvento futuro della Singolarità sarà quindi la fine della storia? E se sì, in che senso? Prima di affrontare questa domanda bisogna innanzitutto distinguere tra storicità vera e propria e storicismo. La differenza appena delineata tra i due modi di an-227 Hegel e il cervello postumano dare oltre l’alienazione – la separazione e la semplice nozione umanistica di disalienazione come ritorno a una sorta di unità ripristinata – in questo caso può esserci di aiuto poiché consente di discernere il pericolo della storicizzazione frettolosa.

La differenza che separa la propria storicità dal mero storicismo può anche essere colta dalle «formule della sessuazione» di Lacan. Lo storicismo è chiaramente maschile: tutta la realtà sociale è in definitiva contingente, costruita in circostanze storicamente specifiche, non ci sono essenzialità trans-storiche, la forma basilare di ideologia è l’eternizzazione di qualche contenuto storicamente specifico... Tuttavia, un tale approccio stori-cistico esenta dalla sfera del relativismo storico la propria posizione, che è silenziosamente universalizzata, ossia lo storicismo applica la stessa nozione di storia a tutte le epoche storiche. Possiamo discernere quest’eccezione quando poniamo una semplice domanda a proposito della tesi anti-essenzialista secondo cui tutte le forme di identità sociale sono costrutti contingenti: quando, per dire, i propugnatori della teoria di genere affermano che ogni identità di genere è un costrutto storico contingente, è un’affermazione ugualmente valida per le nostre società del tardo capitalismo come per le società tribali o di cacciatori preistoriche? Se la risposta è sì, allora dobbiamo supporre di vivere in un’epoca privilegiata in cui la contingenza storica di ogni identità è diventata ovvia, ossia siamo colti a privilegiare la nostra epoca. Contrariamente allo storicismo, la caratteristica fondamentale dell’autentica storicità è che è femminile nel senso delle formule della sessuazione di Lacan: abolisce questa eccezione, relativizza cioè la propria posizione e storicizza così la propria nozione di storicità. È in questo senso che Hegel è uno storicista radicale: per lui, con ogni epoca storica, cambia anche la nozione universale di storia. Un tale approccio non consente quindi alcuna eccezione alla storicità, che per 228 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe questo è «non-tutto»: non esiste un’unica nozione universale di storicità, giacché questa nozione è essa stessa intrappolata nel processo di cambiamento storico. Come applicare, quindi, questa distinzione al tema della storicizzazione della nostra nozione elementare di essere-umani?

Quando Tupinambá adotta le implicazioni della storicizzazione radicale dell’analisi clinica, si riferisce propriamente alla distinzione kantiana tra giudizi negativi (giudizi che negano un predicato: «Egli non è morto») e giudizi infiniti (giudizi che affermano un non-predicato come «egli è non-morto»). Sulla stessa linea, Tupinambá propone la distinzione tra la negazione di universali positivi e l’affermazione di universali negativi: Considerata soltanto nel suo aspetto strutturale, l’indagine di Freud potrebbe semplicemente sembrare una negazione di universali positivi – un movimento che lega senza problemi la pratica clinica e la teoria metapsicologica – e quindi appare come un processo piuttosto statico, riguardante solo l’analista e la sua posizione sovversiva. Ma ciò che manca a questo quadro è il dinamismo essenziale attraverso cui la contraddizione delle affermazioni universali precedentemente so-stenute arricchisce la nostra comprensione di come ascoltare nuovi pazienti: una trasformazione di ciò che è considerato invariante nello spazio del possibile, e quindi un’affermazione di universali negativi. Nello spazio delle soluzioni soggettive alla sessuazione potrebbero variare più elementi di quanto non avessimo precedentemente immaginato. 51 Questa linea di pensiero va del tutto condivisa, bisognerebbe soltanto darle una lettura diversa. Per Tupinambá, affermare universali negativi significa semplicemente che si dovrebbe portare all’estremo la relativizzazione storicista, allar-229 Hegel e il cervello postumano gando lo spazio delle variazioni, mentre nella mia lettura tale relativizzazione è già attuata nella «negazione degli universali positivi» che rimane intrappolata in ciò che Hegel chiamava «cattivo infinito»: è «statica» nella sua stessa sovra-dinamizza-zione, un processo che ha raggiunto il suo apice nel relativismo storicista «postmoderno». Ogni universalità positiva viene «de-costruita», si dimostra la faziosità della sua universalità, come segretamente privilegi ed eternizzi un contenuto che è una variabile storica contingente. Ma dovremmo sempre tenere presente che la

storicizzazione può anche essere ideologia, non solo perché impiega una procedura di storicizzazione (chiaramente fondata nei nostri tempi) a tutte le epoche, ma – fatto più importante – quando riduce a una variabile storica la caratteristica basilare di un campo determinato. È in questo senso che Fredric Jameson respinse la nozione (un tempo alla moda) di «modernità alternative», vale a dire l’affermazione che la nostra modernità liberal-capitalistica occidentale sia solo una delle strade verso la modernizzazione e che siano possibili altre strade che potrebbero evitare i punti morti e gli antagonismi della nostra modernità: una volta che ci rendiamo conto che «modernità» è in definitiva un nome in codice per il capitalismo, è facile vedere che tale relativizzazione storicista della nostra modernità è sostenuta dal sogno ideologico di un capitalismo che eviti i propri antagonismi co-stitutivi: non era il fascismo un caso esemplare di «modernità alternativa»? In maniera strettamente omologa, la riduzione delle impasse della sessualità a una specifica costellazione storica (del patriarcato occidentale, per dire) sgombra il campo all’utopia di una sessualità piena, priva delle sue difficoltà e perversioni che – come dimostrato da Freud – sono insite nella sua stessa nozione. La via d’uscita da questo stallo ideologico è quella d’integrare la negazione di universali positivi con l’affer-230 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe mazione di universali negativi, ossia con un’impossibilità costitutiva dell’intero dominio: sì, tutti gli universali positivi sono relativi, instabili; possono essere trasformati, ma non semplicemente a causa della forma dinamica e mutevole della realtà. Le formazioni positive sono gli assai numerosi tentativi di affrontare lo stesso antagonismo di base, e ciò che innesca il cambiamento è il fallimento ultimo di ogni tentativo di risolvere questo antagonismo. Uno degli universali negativi di Lacan è «non esiste alcun rapporto sessuale», il che significa che non è sufficiente evidenziare l’instabilità immanente e il carattere storico del tradizionale binarismo di genere; bisognerebbe aggiungere inoltre che nessuna determinata forma di relazione di genere –

per quanto aperta e flessibile – sarà in grado superare l’impossibilità costitutiva della sessualità umana. È dunque di capitale importanza tener presente come la limitazione ideologica funzioni in ambo le opposte direzioni. L’ideologia non è solo l’eternizzazione di una specifica situazione storica; è anche la riduzione a una specifica proprietà contingente di qualcosa che è costitutivo dell’intero campo. L’ideologia non è solo l’elevazione del capitalismo a ordine economico più appropriato e razionale; è anche il rifiuto di crisi e antagonismi che caratterizzano il capitalismo come una deviazione dovuta a particolari circostanze contingenti, e dell’idea correlata che un altro capitalismo che eviterebbe crisi e antagonismi sia possibile. E questa distinzione ha anche importanti implicazioni per qualsiasi tentativo di comprendere come saremo condizionati da un cervello connesso: non solo ci costringerà a storicizzare la nostra forma di soggettività, ma anche a resistere alla tentazione d’immaginare semplicemente una diversa forma di consapevolezza affine al sogno di una modernità alternativa: come se con un cervello connesso ottenessimo la stessa consapevolezza che abbiamo ora, soltanto liberata dalle costrizioni 231 Hegel e il cervello postumano della finitezza, ovverosia come se la postumanità fosse solo un’umanità espansa e portata a un livello superiore. Adesso possiamo capire perché la prospettiva della Singolarità è la principale candidata odierna a «fine della storia»: dopo che avrà avuto luogo, il resto non sarà storia, almeno non la storia che abbiamo conosciuto e sperimentato. Questo ci riporta ancora una volta in territorio hegeliano, dal momento che Hegel è il filosofo della fine della storia, sebbene la fine della storia nella Singolarità non possa che apparire totalmente diversa dall’idea che di questa fine aveva Hegel. Possiamo dunque imparare qualcosa da lui al riguardo? Forse dovremmo iniziare con un’aporia proprio nel nucleo concettuale hegeliano di fine della storia.

Per Hegel, storicizzare la propria posizione resta un problema: è come se non avesse i termini giusti per formularla. Pur insistendo sulla chiusura del Sapere Assoluto (sa), aggiunge una bizzarra connotazione temporale: «per il momento» o qualcosa di simile. Come viene dunque storicizzato sa? È in grado, Hegel, di pensare il limite storico della propria posizione? In un certo senso la risposta è ovviamente no: la storicizzazione della propria posizione dà per scontato che si possa in qualche modo montare sulle proprie spalle e vedersi dall’esterno, in modo da poter vedere la propria relatività, quindi SA è la conseguenza necessaria della radicale storicizzazione di sé. Tuttavia, per dirla in modo grossolanamente ingenuo: la logica di Hegel fornisce davvero la matrice definitiva (e in questo senso astorica) di tutti i possibili modi della razionalità? La meccanica quantistica non richiede un insieme di categorie che in Hegel non si trovano? Cosa dovremmo dunque fare oggi, continuare a fare affidamento sulla struttura della logica di Hegel oppure riscriverla, introducendo delle nuove categorie? In un affondo critico alla mia posizione su questo argomento, McGowan scrive che l’affermazione di Hegel sulla fine della storia 232 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe è più forte dell’ammissione che la fine della storia ci si impone costantemente come soggetti storici. Hegel ritiene invece che non andremo mai oltre il riconoscimento che tutti sono liberi, che è il riconoscimento che si verifica nell’Europa moderna (così come nel Nord America e a Haiti). Ciò non significa la fine degli eventi storici significativi, o che non saranno scoperte nuove strade per l’articolazione della libertà, come una qualche nuova forma di comunismo per esempio. Ma per Hegel, la storia come campo di sviluppo di nuove comprensioni dell’esistenza si conclude con il riconoscimento della libertà universale, che si dà con lo sviluppo della modernità e della Rivoluzione francese. 52

Ma davvero l’affermazione della libertà universale nella modernità è una rottura che «nessun evento successivo potrà mai superare»? 53 Si potrebbe sostenere che sia piuttosto il medio termine nella triade di cristianesimo, moderna libertà politica e di ciò che il comunismo immagina come libertà sociale. Ini-ziamo con la liberazione spirituale interiore (siamo tutti uguali in Cristo), passiamo a quella politica (la libertà nello spazio politico pubblico) e dopo questa si apre la prospettiva di una liberazione sociale. Nonostante tutto quel che c’è di problematico nel rapporto di Marx con la libertà, questi ha validamente sostenuto che l’economia di mercato combina in modo unico la libertà politica e personale con l’illibertà sociale: la libertà personale (mi vendo liberamente sul mercato) è la forma stessa della mia illibertà. Ciò non significa che la libertà politica sia solo un’illusione borghese che maschera la realtà dello sfruttamento e della servitù: il problema è molto più grave. All’indomani della Rivoluzione francese, comparvero nuove forme di padronanza e dominio per le quali all’interno delle coordinate stabilite del pensiero politico di Hegel semplicemente 233 Hegel e il cervello postumano non c’è posto: mentre in Hegel c’è posto per sanguinosi tiranni che perseguono i propri interessi privati, non ce n’è per il male integrato nella stessa macchina statale e svolto da fidi ammi-nistratori, né per carismatici leader populisti eletti democrati-camente che prendono voti mostrando apertamente la propria oscenità. Seppure, in un’economia di mercato, io rimanga di fatto dipendente, questa dipendenza sarebbe tuttavia «civilizzata», attuata sotto forma di uno scambio di «libero» mercato tra me e altre persone, anziché in forma di servitù diretta o persino di coercizione fisica. È facile prendersi gioco di Ayn Rand, ma c’è un granello di verità nel famoso «inno al denaro» del suo La ri-volta di Atlante: «Finché e a meno che non scoprirete che il denaro è alla radice di ogni bene, sarete voi stessi gli artefici della vostra rovina. Quando il denaro finirà di essere

il mezzo di scambio fra gli uomini, allora gli uomini diverranno gli schiavi degli uomini. Sangue, fruste e fucili... o dollari. Fate la vostra scelta... non ce n’è altra... è giunto il momento».54 Marx non ha detto qualcosa di simile nella sua ben nota formula di come, nell’universo delle merci, «i rapporti tra le persone assumono le sembianze di rapporti tra le cose»? Nell’economia di mercato, i rapporti tra le persone possono apparire come di libertà e uguaglianza reciprocamente riconosciute: la dominazione non è più direttamente praticata e visibile come tale. Il socialismo reale nel XX secolo ha dimostrato che il superamento dell’alienazione del mercato abolisce la libertà «alienata» e con essa la libertà tout court, riportandoci a rapporti «non alienati» di dominio diretto. Come immaginare uno spazio comune senza un’agenzia regolatrice che controlli il mezzo stesso di collaborazione e quindi eserciti una dominazione diretta? È dunque chiaro che una società «comunista» comporterebbe delle nuove «contraddizioni»: possiamo supporre quali sarebbero? 234 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe Fredric Jameson ha coraggiosamente proposto l’invidia come candidato principale. E dovremmo applicare l’assioma di Marx, secondo cui una formazione sociale è fondamentalmente definita dalla sua «contraddizione» fondante (e da come cerca di affrontarla), anche a una società postcapitalista; e anche alla prospettiva di una società in cui i cervelli connessi giochino un ruolo importante. Anziché cercare di immaginare delle possibilità alternative distinte (una società priva degli individui umani; una società di felici esperienze condivise), dovremmo concentrarci sulla nuova «contraddizione» che emergerà. Se entriamo dunque nella Singolarità, saranno ancora lì l’universo del significato e la dimensione simbolica o scompariranno come se non

fossero mai esistiti? Nessuno dei due: scompariranno, ma la loro scomparsa continuerà a essere percepita come un’assenza. In breve, funzionerà come un assenziale della Singolarità. L’ironia è che il soggetto sopravvivrà come assenziale, incarnando la dimensione stessa (della differenzialità) che, come possiamo presumere, sfuggirà alla Singolarità. Ecco come dovremmo qui affrontare l’alternativa fondamentale: quand’anche, in linea di principio, l’inconscio del soggetto evitasse la presa della Singolarità, non potrebbe ciò significare non che ci sarà una dimensione che eluda la Singolarità, bensì qualcosa di molto più semplice e radicale, ossia che il soggetto pagherà il proprio ingresso nella Singolarità semplicemente perdendo la dimensione dell’inconscio? Insomma, e se la sua immersione nella Singolarità precludesse la dimensione dell’inconscio, senza lasciargli spazio? E se questa immersione significasse che la portata della soggettività sarà limitata a ciò che è rilevato dalla Singolarità? Ciò non sarà, perché la stessa scomparsa della perdita simbolica («la Caduta») continuerà a risuonare nello spazio della Singolarità. 235 Hegel e il cervello postumano Per di più, non sarà lo spazio stesso della dialettica hegeliana del riconoscimento a scomparire con il nostro ingresso nella Singolarità? Lo sperimentarsi reciproco di due soggetti nel momento del confronto diventa inutile quando l’intima esperienza di sé di ciascuno di essi è direttamente accessibile all’altro/gli altri... Si può tuttavia azzardare l’ipotesi che – nella misura in cui il soggetto dell’inconscio sopravvive a distanza dallo spazio condiviso della Singolarità – si apra un nuovo spazio di riconoscimento in cui è in gioco questo stesso status di soggetto: in una nuova «lotta all’ultimo sangue» devo dimostrare di non poter essere ridotto al mio posto nella Singolarità...

La distanza tra la nostra vita interiore, la linea dei nostri pensieri e la realtà esterna è la base della percezione di noi stessi come liberi: siamo liberi nei nostri pensieri proprio nella misura in cui essi sono a distanza dalla realtà, così da poterci giocare, fare degli esperimenti mentali, metterci a sognare senza conseguenze dirette nella realtà; lì nessuno può con-trollarci. Una volta che la nostra vita interiore è direttamente collegata alla realtà in modo tale che i nostri pensieri abbiano conseguenze dirette nella realtà (o possano essere regolati direttamente da una macchina che di questa fa parte) e in questo senso non sono più «nostri», entriamo di fatto in uno stato postumano. Il soggetto che sopravvivrà non sarà quindi portatore della ricchezza dell’esperienza interiore: tutta quella ricchezza di sentimenti, passioni, paure, sogni e speranze ecc., potrebbe benissimo essere annullata nello spazio collettivo della Singolarità. Il soggetto sopravvivrà come un puro $, il punto evanescente di negatività separato da tutto il vissuto che contiene. In breve, il soggetto sarà diviso più che mai, non diviso tra sé stesso e il suo altro/altri, ma diviso in sé stesso, tra il suo contenuto (separato da esso) e l’essere punto di $ (il punto zero barrato della soggettività). 236 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe Questo stato «puntuale» del cogito diventa chiaro solo più tardi, con la sua riformulazione kantiana. L’autocoscienza kantiana è una funzione puramente logica che segnala solo che ogni contenuto della mia coscienza è già minimamente mediato/riflesso: quando desidero X, non posso mai dire «Sono fatto così, non posso fare a meno di desiderare X, fa parte della mia natura», poiché desidero sempre desiderare X, accetto cioè in modo riflessivo il mio desiderio per X: tutte le ragioni che mi motivano ad agire esercitano il loro potere causale solo nella misura in cui le «pongo» o le accetto come ragioni... Si potrebbe pensare che una tale riflessività implicita sia limitata all’attività cosciente ed è, in quanto tale, proprio ciò che manca ai nostri atti inconsci: quando agisco inconsciamente, agisco come se seguissi una coazione cieca, come se fossi sottoposto a una causalità

pseudo-naturale. Tuttavia, come abbiamo già visto a proposito del ruolo degli assenziali, per Lacan la riflessività implicita non solo è riconoscibile nell’inconscio ma è proprio ciò che – nella sua forma più radicale – è l’inconscio. Si ricordi l’atteggiamento tipico di un soggetto isterico che si lamenta di come viene sfruttato, manipolato, vittimizzato da altri, ridotto a oggetto di scambio: la risposta di Lacan a tutto questo è che tale posizione soggettiva di una vittima passiva delle circostanze non è mai semplicemente imposta dall’esterno al soggetto, ma deve essere almeno un minimo da questo approvata. Il soggetto, ovviamente, non è consapevole della propria partecipazione attiva alla sua vittimizzazione: è appunto questa la verità «inconscia» dell’esperienza cosciente del soggetto di essere una semplice vittima passiva delle circostanze. Ora si vede su quale preciso contesto psicoanalitico si fondi la tesi apparentemente priva di senso di Lacan secondo la quale il cogito cartesiano (o, piuttosto, l’autocoscienza kantiana) è il soggetto stesso dell’inconscio: per Lacan, il «soggetto dell’in-237 Hegel e il cervello postumano conscio», il soggetto da attribuire all’inconscio freudiano, è proprio questo vuoto punto di autorelazione, non un soggetto ricco fino a scoppiare di forze e fantasie libidiche. Quest’identità paradossale dell’autocoscienza (nel senso preciso che questo termine acquisisce nell’idealismo tedesco) con il soggetto dell’inconscio diventa chiara nella problematica del Male radicale, da Kant a Schelling: di fronte all’enigma di com’è che riteniamo una persona malvagia responsabile delle sue azioni (sebbene ci sia chiaro che la propensione al Male fa parte della «natura» di questa persona, cioè che non possa non «seguire la sua natura» e compiere le sue azioni con una necessità assoluta), Kant e Schelling postulano un atto atemporale, trascendentale e non fenomenico di scelta primordiale, per mezzo del quale ognuno di noi, anteriormente alla sua esistenza corpo-rale temporale, sceglie il suo carattere eterno. All’interno della nostra esistenza fenomenica

temporale, quest’atto di scelta è esperito come una necessità imposta, il che significa che il soggetto, nella sua autocoscienza fenomenica, è inconsapevole della libera scelta che fonda il suo carattere (la sua «natura» etica): il che significa che quest’atto è radicalmente inconscio (la conclusione esplicitamente tratta da Schelling). Siamo di nuovo qui in presenza del soggetto come vuoto della pura riflessività, come quella X a cui si può attribuire (come sua libera decisione) ciò che, nella nostra autocoscienza fenomenica, si esperisce come parte della nostra natura ereditata o altrimenti imposta. La conclusione da trarre è quindi, ancora una volta, che l’autocoscienza stessa è radicalmente inconscia. Il tema standard dell’anti-filosofia contemporanea è l’anticartesianesimo: il cogito cartesiano è un’entità razionale astratta, strappata artificialmente al concreto mondo vitale degli individui reali. In questo contesto, l’inconscio freudiano è inteso come parte della reazione anti-cartesiana, come 238 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe l’ennesima prova – in linea con Feuerbach, Marx ecc. – che noi umani non siamo degli esseri pensanti isolati ma, come avrebbe detto Heidegger, sempre-giàgettati-nel-mondo, coinvolti nella realtà. La tesi di Lacan secondo cui il cogito è il soggetto freudiano acquisisce qui tutto il suo peso: per lui, al contrario, l’inconscio non fa parte del denso, opaco sfondo del Le-benswelt. Per quanto riguarda l’opposizione tra strutture razionali (decontestualizzate) astratte e denso, concreto mondo della vita, l’inconscio è dalla parte delle prime: l’inconscio è l’intrusione di un corpo estraneo nel nostro mondo della vita, è come una macchina invadente che scombina il buon funzionamento del nostro mondo della vita, subordinandolo alle sue strambe leggi. Si pensi solo a quello che fa l’inconscio delle pulsioni alla nostra innata sessualità istintuale: la perverte del tutto, subordinandone la funzione riproduttiva a un meccanismo quasi suicida di coazione-a-ripetere in cui il godimento è posto come suo stesso obiettivo. Quindi, per concludere, ri-cordiamo

come McGowan riassume la lezione politica di base della dialettica di Hegel: Il punto della contestazione politica è muoversi in direzione di una contraddizione sempre più resistente, e in questo movimento la filosofia gioca un ruolo cruciale. È questa la definizione di progresso di Hegel: il passaggio da contraddizioni sociali più facilmente risolte ad altre più intrattabili. 55 In breve, in una riconciliazione hegeliana, le forze opposte di un conflitto non si ricongiungono in un Tutto superiore non antagonistico; una riconciliazione hegeliana è, nella sua forma più radicale, la riconciliazione con la «contraddizione» stessa. Nel momento conclusivo di una mossa circolare dialettica, la contraddizione che ha motivato questa mossa non è abolita; ri-239 Hegel e il cervello postumano emerge nella sua forma più pura e radicale. Oppure – per dirla nei termini standard mai usati dallo stesso Hegel – nella «sin-tesi» finale l’antitesi viene portata all’estremo, completamente interiorizzata come costitutiva dell’entità in questione. (E non si dovrebbe temere di applicare questa ragionamento alla nozione di comunismo di Marx: se l’intera storia fino a ora è stata la storia della lotta di classe, nel comunismo la «lotta» scop-pierà in forma più radicale). E non fornisce, la prospettiva della Singolarità, l’esempio massimo di questo processo? Non sarà l’immersione in un Pensiero collettivo senza ego, bensì l’esperienza di uno scarto radicale o, piuttosto, di una scissione: il soggetto manterrà un minimo di distanza dal pensiero collettivo, e questa distanza sarà la fonte di una sofferenza i cui contorni oggi non possiamo immaginare, ma anche fonte di una nuova speranza. La risposta alla domanda: «Sopravvivrà un soggetto all’ingresso nella Singolarità?» dipende dalla nostra idea di soggetto.

Se identifichiamo come il nucleo della soggettività la sua «vita interiore» – ciò che di solito chiamiamo la ricchezza interiore di una personalità, i suoi sogni segreti, le sue ansie e le sue speranze – allora naturalmente nella Singolarità, dove tutto questo contenuto è «collettivizzato», il soggetto scompare. Se, tuttavia, identifichiamo il soggetto come il vuoto riempito da ciò che Lacan chiama la fantasmatica «materia dell’io», ma non identico a essa, è solo nel passaggio attraverso la Singolarità che un soggetto appare ridotto al suo minimo, come il vuoto del cogito cartesiano. La perdita della perdita stessa, l’apparenza della perdita nella sua forma più pura è quindi qualcosa di simile a una versione pensante del famoso quadrato nero di Malevič su una superficie bianca: il grado zero, la marcatura delle coordinate di base del nostro spazio simbolico. Qui è importante notare che, per Malevič, questa forma-zero non è un tipo di abisso 240 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe autodistruttivo da cui dovremmo fare attenzione a non essere ingoiati, bensì un punto attraverso cui passare per ottenere un nuovo inizio. È il momento della pulsione di morte che apre lo spazio a un nuovo inizio. È per questo che i successivi dipinti più figurativi di Malevič (come il suo famoso autoritratto) non sono un tradimento del suo radicalismo giovanile, ma dei modi di esplorare il varco da esso aperto. (Nell’autoritratto, questa fedeltà è segnalata dalle mani di Malevič che formano un quadrato, dicendo allo spettatore che il quadrato è ancora qui). E lo stesso vale per il nostro ingresso nella Singolarità: la perdita di una perdita da essa provocata potrebbe essere il nuovo inizio di qualcosa che non possiamo ancora immaginare. Cosa sopravvivrà quindi nella Singolarità, cosa sfuggirà al suo spazio di esperienza collettiva condivisa? Due (non-)entità interdipendenti: il soggetto vuoto, un soggetto privo della ricchezza della sua vita interiore e il suo corrispettivo, l’inconscio virtuale. (Con in più, se seguiamo la nostra congettura be-ckettiana, la divisione tra soggetto vuoto e contenuto-pensiero estraniato della sua vita interiore – il

pensiero collettivo senza io che il soggetto non sperimenterà più come «suo» – che andrà a incidere questo stesso pensiero come la divisione tra trance collettiva allucinatoria e fredda conoscenza oggettiva). La per-sistenza dell’inconscio virtuale significa che il soggetto vuoto non sarà solo un singolare punto muto a una certa distanza dalla sostanza collettiva della Singolarità: lo spazio collettivo della Singolarità sarà vissuto come fratturato, incoerente, con un’altra voce, la voce di controfattualità inconsce che appare nelle sue crepe.56 In altre parole, ciò che sopravvive all’ingresso nella Singolarità non è il nucleo dell’essere-umani, ma precisamente la parte o l’aspetto disumano dell’umanità, il soggetto cartesiano e l’inconscio. Cartesio fu il primo pensatore antiumanista: il 241 Hegel e il cervello postumano suo cogito dovrebbe essere rigorosamente distinto da ciò che chiamiamo «personalità umana», tutta la ricchezza della vita interiore. L’epoca alta dell’umanesimo fu il Rinascimento57 che celebra l’essere umano come la più alta tra tutte le creature, una creatura espressiva che esalta creativamente la sua profondità interiore, che dispiega le sue interiori potenzialità. Il soggetto cartesiano è ben altra cosa: un vuoto disumano, un punto vuoto di negatività riflessa. Ciò che è effettivamente minacciato dal cervello connesso è la nostra ordinaria auto-esperienza di individui umani liberi con accesso diretto alla nostra vita interiore, ma questa minaccia, questa espropriazione di ciò che noi, nella nostra vita quotidiana, consideriamo la base della nostra personalità, delinea i contorni della nostra soggettività disumana. Quindi ora dovremmo, come nella battuta finale di una barzelletta, capovolgere la nostra reiterata domanda: il futuro avvento di un cervello connesso minaccerà il nucleo del nostro essere-umani? Dovremmo sostituirla con la domanda opposta: questo avvento futuro produrrà una nuova forma di soggettività? Renderà palpabile una

dimensione cruciale della soggettività che, fino a ora, è stata offuscata nella nostra esperienza di noi stessi? La nostra risposta è un sì prudente: a diventare visibile è il divario che separa il vuoto della soggettività dal cosiddetto «mondo interiore» della nostra personalità, lo scarto che è invisibile nella nostra esperienza quotidiana in cui ci identifichiamo con la nostra «vita interiore». Quest’interrelazione tra il soggetto cartesiano e l’inconscio ha altre due implicazioni fondamentali. In primo luogo, anche questo soggetto «puro» (che sopravvive all’ingresso nella Singolarità) non è privo di oggetto, è costitutivamente correlato con un oggetto «impossibile», ciò che Lacan chiama « petit object a». In secondo luogo, anche questo soggetto «puro» 242 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe non è neutro rispetto alla differenza sessuale, ma è costitutivamente sessuato, attraversato dal reale dell’impossibilità della relazione sessuale: il soggetto è tale soltanto nella misura in cui è accorciato (troncato, inibito) da questa impossibilità, non neutrale ma sempre «parziale» rispetto alla scelta imposta dalla differenza sessuale. Sì, il soggetto non è oggetto, persiste solo fintantoché elude qualsiasi identificazione con qualche oggetto; tuttavia, proprio come c’è differenza tra un caffè-senza-latte e un caffè normale inteso come «caffè-senza», un soggetto può essere un soggetto senza un determinato oggetto fallico (la castrazione maschile) o un soggetto che è semplicemente senza (il femminile). Oppure, per dirla in modo diverso, mentre gli uomini si sacrificano per qualcosa (una causa superiore: patria, libertà, onore), le donne soltanto sono capaci di sacrificarsi per il nulla. A questo paradosso si deve il gesto del ritiro femminile proprio nel momento in cui «poteva ottenere tutto (il partner desiderato)» in una serie di romanzi, dalla Principessa di Clèves di Madame de La Fayette alle Affinità Elettive di Goethe (o il caso opposto/complementare, il non-ritiro della donna, la sua inspiegabile

perseveranza in un matrimonio infelice, o con un partner non più amato, anche quando si presenta la possibilità di uscirne, come in Ritratto di signora di James). Benché in questo gesto di rinuncia sia chiamata in causa l’ideologia, il gesto stesso non è ideologico. La lettura da respingere qui è quella psicoanalitica standard secondo cui abbiamo a che fare con la logica isterica dell’oggetto amoroso (l’amante) che è desiderato solo nella misura in cui è proibito, in cui c’è un ostacolo nella forma di un marito: nel momento in cui l’ostacolo scompare, la donna perde l’interesse in tale oggetto amoroso. Oltre all’economia isterica di poter godere dell’oggetto solo nella misura in cui resta illecito/proibito, in cui mantiene uno status potenziale 243 Hegel e il cervello postumano – cioè a guisa di fantasie su ciò che «potrebbe essere successo» – questo ritiro (o insistenza) può anche essere interpretato in una moltitudine di altri modi: come espressione del cosiddetto «masochismo femminile» (che può essere ulteriormente letto come espressione dell’eterna natura femminile, o come inte-riorizzazione della pressione patriarcale) che impedisce a una donna di «cogliere pienamente l’attimo»; come gesto proto-femminista di travalicare i confini dell’economia fallica che pone come obiettivo finale della donna la sua felicità in una relazione con un uomo, ecc. ecc. Tuttavia, tutte queste interpretazioni sembrano non cogliere il punto che consiste nella natura assolutamente fondamentale del gesto di ritiro come costitutivo del soggetto stesso. Se, seguendo i grandi idealisti tedeschi, equipariamo il soggetto alla libertà e all’autonomia, non è forse un tale gesto di ritiro – non come gesto sacrificale indirizzato a qualche versione del grande Altro, ma come un gesto che fornisce la sua stessa soddisfazione, come un gesto che trova la jouissance proprio nello spazio che mi separa dall’oggetto – la forma suprema di autonomia?

Per tornare al nostro esempio di «caffè senza latte»: se gli uomini sono come il caffè con latte/pene, le donne non sono uomini senza latte/pene, ma sono anche non soltanto pienamente donne. A questo mira Lacan con la sua affermazione che la femme n’existe pas: sebbene una donna non sia definita dalla negazione dell’essere-uomo, non esiste una sostanziale identità femminile. Nel suo seminario sulla sessualità femminile, Lacan afferma che, mentre l’uomo può essere definito differenzialmente, come non-donna, il contrario non sussiste: la donna non può essere definita come non-uomo. Ciò non significa che le donne possiedano un’identità sostanziale al di fuori della relazione con l’uomo: a caratterizzare una donna anteriormente alla relazione con l’uomo è piuttosto 244 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe un no in quanto tale, una negatività riflessa, e l’uomo come non-donna significa che l’uomo, proprio nel suo essere, nega lo stesso no che definisce la soggettività femminile, non che nega una qualche sostanziale essenza femminile. Analogamente, lo stato di «caffè senza latte» comporta che non esiste un semplice, positivo «caffè normale» privo di nulla: il «caffè normale» senza un senza è già di per sé contrassegnato dalla negazione, è solo che questa negazione non è ancora una negazione determinata. Per quanto riguarda la triade di uomo, donna e umano, bisogna tenere presente che in lingua inglese sia la «donna» ( woman) che l’«umano» ( human) combinano «uomo» ( man) con un prefisso: « woman» unisce « wife» (moglie, donna) a « man», in modo da significare qualcosa come «moglie-uomo» e « human» significa «di o che appartiene all’uomo».58 L’idea comune secondo cui il genere degli umani è diviso in specie di uomini e donne andrebbe dunque rifiutata: la logica che sta alla base è più quella del genere «uomini» diviso in specie «umani» e «donne», poiché « hu (di)» e « wo (moglie)» sono le due specificazioni di « man» (uomo). Ci sono uomini che sono completamente

umani, « human, of man», e ci sono uomini che ovviamente non sono completamente « of man», e il prefisso « wo» indica questa privazione. Quale dovrebbe essere quindi la risposta femminista a questa distorsione? Non, come potrebbe sembrare, di essenzializzare la femminilità come termine generico e ridurre «uomo» alla sua specie carente, bensì piuttosto di elevare la stessa carenza a caratteristica costitutiva di base dell’essere umano, e di concepire la posizione maschile come un offuscamento di questa costitutiva carenza. È questa stessa carenza costitutiva a essere minacciata dal cervello connesso: quando il mio cervello è connesso, non ho più bisogno di fare movimenti corporei esterni (digitare, par-245 Hegel e il cervello postumano lare) per interagire con la macchina. Questo fatto cambia radicalmente lo stato dell’interfaccia definita come «confine condiviso attraverso cui due o più componenti separati di un sistema informatico si scambiano informazioni. Lo scambio può avvenire tra software, hardware, periferiche, esseri umani e loro combinazioni».59 Con progetti come il già citato AlterEgo, l’interfaccia che mi consente di comunicare con la macchina non è più uno schermo fuori di me: la mia mente funziona direttamente come interfaccia tra me e la macchina. In linea di principio non ho alcun posto dove nascondermi dunque, nessuna distanza dalla macchina: le sono completamente esposto.60 Per chiarire questo punto, facciamo una digressione ed ele-viamo a concetto la nozione di « glory hole» (un buco in un muro, o altra partizione, tra un gabinetto pubblico o cabine e salotti per video per adulti, dove ci si può produrre in attività sessuali). Sebbene i buchi della gloria siano per lo più associati alla cultura gay e al sesso anale o orale, sono anche usati da persone bisessuali o eterosessuali: dei grandi buchi in cui una donna può porre la metà inferiore del suo

corpo per essere anonimamente penetrata. La funzione del glory hole è duplice: mantiene l’anonimato dei partner dello scambio sessuale, e in più depersonalizza il mio partner, riducendolo a un oggetto parziale (partecipo solo con il pene con testicoli, apertura anale o vagina). Alcuni teorici queer sottolineano l’aspetto liberatorio di tale spersonalizzazione; tuttavia, si dovrebbe insistere qui sulla distinzione tra persona e soggetto: mentre tale anonima pratica sessuale depersonalizza (priva il/ la mio/a partner del suo status di personalità), non lo/a priva di soggettività: riduce esattamente l’altro a un soggetto puro privato della sua personalità. Quando pratico un’attività sessuale attraverso un buco della gloria, acquisisco una sorta di distanza da ciò che accade dall’altra parte del buco, non ci 246 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe sono completamente, sono ridotto a vuoto osservatore di ciò che accade là fuori, e questa distanza mi libera dalla mia personalità e mi riduce a un soggetto. Per un lacaniano, è facile vedere il legame tra questa spersonalizzazione e la riduzione del corpo a un organo parziale che gode attraverso il buco: una persona è correlata a tutto il corpo, è come l’anima, la ricchezza interiore di un corpo, mentre il soggetto è correlato a un oggetto parziale: ovvero, come ha scritto Lacan nella sua formula del fantasma, $- a. Il muro in cui si apre il glory hole è quindi quello che separa la persona dal soggetto: diciamo pure che sono io a spingere pene e testicoli attraverso il foro in modo che chi è dall’altra parte possa giocarci; su questo (il mio) lato del muro sono una persona con un corpo, dall’altro lato sono un soggetto aggiunto a un organo parziale con il quale il mio/la mia partner anonimo/a sta giocando (ma-sturbandolo o succhiandolo, spingendolo nell’ano o nella vagina...) Il paradosso qui è che il mio «vero io» non è da questa parte del buco, mentre dall’altra parte faccio solo un gioco: al contrario, il nucleo fantasmatico della mia soggettività è là fuori, dall’altra parte, così che in un certo senso sono più «veramente me stesso» nell’interazione sessuale che si svolge là fuori (e dove sono ridotto a un oggetto parziale) di quanto lo sia come persona da

questo lato del muro. In questo senso preciso possiamo anche affermare che il buco è un’interfaccia tra le due diverse dimensioni, la mia realtà da questa parte e il fantasmatico reale dall’altra. La caratteristica-chiave dei glory holes è il muro che funge da confine che separa due spazi diversi, la mia realtà personale e dall’altra parte il reale in cui interpreto le mie fantasie. Qui i buchi della gloria forniscono solo un caso particolare della divisione all’opera in ogni forma di realtà: la realtà non è mai «tutta», è sempre accorciata da una qualche forma di muro che ne esclude il reale. Per quanto 247 Hegel e il cervello postumano riguarda il nostro argomento – il cervello connesso in cui la mia stessa mente funge direttamente da interfaccia – la domanda è, ovviamente: cosa succederà, in questo caso, in assenza di un muro che separi la mia realtà dal fantasmatico reale? C’è solo una risposta: una specie di cortocircuito psico-tico in cui realtà e fantasia coincidono direttamente. Un’altra visione distopica di una catastrofe... Tuttavia, come abbiamo già visto, la storia non finisce qui. Per tornare all’idea di Musk che, se non ci uniremo alla super-mente della nuova Intelligenza Artificiale, noi – gli umani – di-venteremo presto come i gorilla in uno zoo: e se questa prospettiva di rimanereall’esterno avesse in qualche modo i suoi vantaggi? Non nel senso che godremo di una nuova, stupida, rozza esistenza nel nostro zoo, con la benevola Ia che si prende cura di noi, ma in un senso molto più drastico: se ipotizziamo che il futuro spazio della Singolarità non sia un singolo onnipotente spazio che controlla tutto, bensì una contraddittoria mescolanza, la nostra (parziale) esclusione da esso non fornirà un minimo di libertà di giocare con diversi aspetti della sfac-cettata Singolarità? In una barzelletta su Auschwitz che circola tra gli ebrei, un gruppo di loro, morti in campo di concentra-mento, siede su una panchina in Paradiso e parla della propria sofferenza, prendendosene gioco. Uno dice: «David, ti ricordi di come sei scivolato mentre andavi verso la camera a gas e sei morto prima ancora respirare il gas?», ecc. Passeggiando in Paradiso, passa dio

stesso, li ascolta e si lamenta di non capire la storiella; uno degli ebrei gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla e lo conforta: «Non essere triste. Non c’eri, credo bene che non puoi capirla!» La bellezza di questa risposta sta nel suo riferirsi alla nota affermazione che dio è morto ad Auschwitz, che lì non c’era: «Nessun dio ad Auschwitz» non dà per implicito che dio non possa capire l’orrore di ciò che vi è accaduto 248 un trattato suLL’apocaLIsse dIgItaLe (dio può farlo facilmente, è il suo lavoro), ma che non riesca a capire l’umorismo generato dall’esperienza di Auschwitz. Ciò che dio non capisce e non può capire è l’oscena sovranità dello spirito umano, che reagisce con una risata proprio allo spazio in cui lui (dio) è assente. Si sostituisca «dio» con «Singolarità»: forse, la nostra posizione nella Singolarità è questa. 249 Note Introduzione. «Un jour, peut-être, le siècle sera hégélien» 1. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pp. 14-17. 2. Qui di seguito riassumo il mio approccio a Hegel sviluppato nel dettaglio in una serie di miei libri più recenti, in particolare in Sex and the Failed Absolute, Bloomsbury Press, Londra, 2019. 3. Si veda Paul M. Livingston, The Politics of Logic: Badiou, Wittgenstein, and the Consequences of Formalism, Routledge, New York, 2012. 4. Non c’è niente di «anti-sinistra» in una tale posizione di dannazione finale: si può persino sostenere che vi si rifacciano quelli veramente di sinistra. Nella musica rock, la massima espressione di questa posizione la fornisce The Weaver’s Answer, una canzone della band

trockista inglese Family. Il brano, pubblicato come singolo nel 1969, descrive la visione della vita di un soggetto dal punto di vista del «tessitore» (destino, morte), dove persino una felice vita familiare finisce nella solitudine e nella disperazione. Il vero genio dei Family diventa evidente quando confrontiamo The Weaver’s Answer con Good News Bad News, la prima canzone del loro album successivo, Anyway (1970). Questa canzone prende il primo motivo melodico di The Weaver’s Answer, ma lo abbrevia mentre le parole si impegnano in una disperata messa in discussione dell’ordine politico esistente, come «perché cambiare le regole / dicono quelli in alto / a quelli in basso / sorpresi mentre guardano in alto». Questo tagliare la linea melodica 251 note aLLe pagIne 15-27 rende bene l’interruzione, lo scoppio violento che impedisce la formulazione di una piena dichiarazione di saggezza (sull’ultima vanità della vita). Ciò, ovviamente, non implica in alcun modo che nelle canzoni dei Family ci sia spazio solo per l’amarezza e la rabbia: il loro più grande successo No Mule’s Fool è un magnifico ritratto della felice convivenza di un ragazzo con il suo pigro mulo. Le tre canzoni insieme forniscono così una triade coerente di momenti di ordinaria felicità, l’universalizzazione di questi particolari momenti di felicità in un destino di condanna della vita e, infine, singolari momenti di disperata resistenza al destino e all’oppressione. 5. Si può notare qui un paradosso nella descrizione di Livingston dell’edificio teorico di Badiou: sebbene, secondo Livinsgton, Badiou scelga la coerenza anziché la totalità, la sua visione non è quella di un universo come caos incoerente in cui emergono solo spazi coerenti locali: in quanto concepiamo l’Essere come «tutto ciò che esiste» (e

in questo senso una totalità), questa totalità è coerente (come descritto nell’ontologia di Badiou): la contraddizione emerge solo attraverso rare ed eventuali eccezioni. 6. In «Le Monde», 29 gennaio 2015. 7. Rilasciata il 23 settembre 1966 ma pubblicata solo nel settembre 1976, dopo la morte di Heidegger [ N.d.T. ]. 8. Si veda www.pressenza.com/2019/08/pia-klemp-refuses-thegrand-vermeil-medal-awarded-to-her-by-the-city-of-paris/. 9. Si veda https://en.wikipedia.org/wiki/AlterEgo. 10. Si veda www.fastcompany.com/90350006/watch-this-devicetransla-te-silent-thoughts-into-speech. 11. In una conversazione privata. 12. Si veda il contributo di Jean-Pierre Dupuy in «Le Débat», n. 129 (marzo-aprile 2004), citato da Jean-Michel Besnier, Demain les posthumains, Fayard, Parigi, 2012, p. 195. 13. Gunther Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. 14. Facebook sta ora costruendo il proprio dispositivo di lettura della mente, e alla domanda circa le implicazioni sulla privacy della tecnologia Mark Zuckerberg ha dichiarato: «Presumibilmente sarà qualcosa che qualcuno sceglierà di utilizzare». (Citato da https:// 252 note aLLe pagIne 28-41

www.theguardian.com/commentisfree/2019/aug/01/future-imperfectrobots-mind-reading-apps). Davvero? E chi lo presume? Le agenzie segrete che mi leggono la mente? Quindi se esamineranno la mia mente senza chiedermelo e la lettura mentale dirà loro che non voglio che accada, si disconnetteranno educatamente? Sebbene gli esperimenti sui cervelli connessi siano ancora piuttosto rudimentali e richiedano effettivamente la partecipazione volontaria del soggetto, stanno già emergendo dilemmi etici: si veda www.theguardian.com/ science/2019/sep/22/ brain-computer-interface-implants-neuralinkbraingate-elon-musk. 15. Mi affido qui a Jan de Vos, che pone questa domanda nel suo pionie-ristico lavoro sulla pulsione di morte digitale (manoscritto). 16. Citato da https://www.theguardian.com/usnews/2019/sep/07/pen-tagon-military-artificial-intelligence-ethicist. 17. Questa triplice struttura è elaborata nel dettaglio da Gabriel Tupinambá in The Desire of Psychoanalysis, Northwestern University Press, Evanston (Ill.), 2021. 18 Mondadori, Milano, 1985 [ N.d.T. ]. 1. Lo stato di polizia digitale: la vendetta di Fichte su Hegel 1. Si veda Yuval Noah Harari, Homo deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2018. 2. Ivi, p. 514. 3. Ivi, p. 603. 4. Ivi, p. 461. 5. Ibidem.

6. Ivi, pp. 461-462 7. Ivi, p. 470. 8. Ivi, p. 604. 9. Ivi, p. 416. 10. Ivi, p. 526. 11. Citato da https://english.elpais.com/elpais/2019/07/31/inenglish/1564561365_256842.html. 12 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 262. 13. Citato da Zdravko Kobe, The Interface of the Universal: On Hegel’s 253 note aLLe pagIne 41-63 Concept of the Police, cfr. http://journal.instifdt.bg.ac.rs/index.php? journal=fid&page=article&op=view&path%5B%5D=728&path% 5B%5D=624. 14. G.W.F. Hegel, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di Remo Bodei, Mursia, Milano, 2014, pp. 68-69. 15. G.W.F. Hegel, Scritti politici, Einaudi, Torino, 1972, pp. 30-31. 16. Kobe, The Interface of the Universal, cit. 17. Hegel, Scritti politici, cit., p. 24.

18. Ivi, pp. 31-32. 19. Kobe, The Interface of the Universal, cit. 20. Citato da www.theguardian.com/technology/2019/jan/20/shoshana-zuboff-ageof-surveillance-capitalism-google-facebook. 2. L’idea di un cervello connesso e i suoi limiti 1. Le citazioni non attribuite che seguono provengono da https:// waitbutwhy.com/2017/04/neuralink.html. 2 Citato da https://www.nybooks.com/daily/2012/04/10/mind-outside-head-consciousness. Si veda la presentazione sistematica della posizione di Manzotti in Tim Parks, Out of my Head: On the Trail of Consciousness, London, Harvill Secker, 2018. 3. Ho sviluppato questo modello nel terzo teorema del mio Sex and the Failed Absolute, Londra, Bloomsbury 2019. 4. In modo limitato, questo già è fattibile: «I medici hanno trasformato i segnali del cervello per la parola in frasi scritte in un progetto di ricerca che punta a trasformare il modo in cui i pazienti con disabilità gravi comunicheranno in futuro. Tale scoperta è la prima a dimostrare come l’intenzione di dire parole specifiche possa essere estratta dall’attività cerebrale e convertita in testo abbastanza rapidamente da tenere il passo con la conversazione naturale».(Citato da www. theguardian.com/science/2019/jul/30/neuroscientists-decode-brainspeech-signals-into-actual-sentences). 5. Riassunto da https://en.wikipedia.org/wiki/Bezhin_Meadow. 6. Citato da www.esquire.com/entertainment/tv/a29472259/succession-season-2-

finale-ending-logan-smile-explained/. 7. Non succede qualcosa di simile alla fine del trattamento psicoana254 note aLLe pagIne 64-79 litico? L’analista non deve anche organizzare un modo in cui il suo paziente lo «ucciderà», cioè evadere dal transfert verso l’analista, sba-razzarsene senza sentirsi in debito con lui? Un simile sacrificio è qualcosa che lo stalinismo, con tutta la sua ossessione per il sacrificarsi per il Partito, non può permettersi. 8. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2001, p. 431. 9. Si veda http://www.theguardian.com/world/2019/oct/04/paralysed-man-walks-using-mind-controlled-exoskeleton?CMP=_ gu&utm_%20medium=Social&utm_source=Facebook#Echob ox=1570182539. 10. Michael E. Zimmerman, The Singularity: A Crucial Phase in Divine Self-Actualization? , disponibile presso https://www.researchgate.net/ publication/26593763_The_Singularity_A_Crucial_Phase_in_Divine_Self-Actualization. 3. L’impasse della tecnognosi sovietica 1. Citato da Orlando Figes, Natasha’s Dance, Allen Lane, Londra, 2001, p. 447; trad. it. La danza di Natasha. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo), Einaudi, Torino, 2008. 2. Ivi, p. 464.

3. Si veda Jacques Lacan, Television, «New York Journal», ottobre, 40, 1987. 4. L’opera principale di Nicolas Malebranche è De la Recherche de la vérité (1674-75, l’edizione più disponibile Vrin, Parigi, 1975; trad. it. La ricerca della verità, Laterza, Roma-Bari, 2007). 5. Citato da Maria Chehonadskih, Soviet Epistemologies and the Materialist Ontology of Poor Life: Andrei Platonov, Alexander Bogdanov and Lev Vygotsky (tesi di dottorato: https://core.ac.uk/download/ pdf/96693666.pdf). Questo capitolo deve molto al lavoro di Chehonadskih: ne provengono tutte le citazioni non accreditate che seguono. 6. Sorprendentemente (o forse no), troviamo una lontana eco di questa visione cosmica del comunismo, comprensiva della «costruzione di dio», in Huey Newton, fondatore e teorico principale del Black Pan-ther Party: «Mi piace pensare che passeremo infine a una fase chiamata ‘pietà’ dove l’uomo conoscerà i segreti dell’inizio e della fine e 255 note aLLe pagIne 80-89 avrà il pieno controllo dell’universo, e quando dico universo, intendo tutto il movimento e la materia». (Si veda Huey P. Newton Reader, Seven Stories Press, New York-Oakland, 2002, p. 189). 7. 1935; trad. it. 1968, in Ricerca di una terra felice, Einaudi, Torino. 8. Il Saggiatore, Milano, 1969. 4. Singolarità: la svolta gnostica

1. Il fatto che un evento ne influenzi un altro «direttamente», a distanza, in qualche modo aggirando le coordinate spazio-temporali, ci porta quasi spontaneamente a supporre che la realtà materiale discreta non sia tutta, che ci debba essere un livello più alto di diretto contatto spirituale. Per un materialista rigoroso, questa tentazione spiritualista si evita relativizzando lo spazio stesso: i fenomeni di «sincronicità» dimostrano che le nostre coordinate spazio-temporali non sono una sorta di cornice kantiana a priori della realtà, che le distanze spaziali possono essere «accorciate» in una diversa costellazione delle onde quantistiche che costituiscono la nostra realtà ultima. .2 Zimmerman, The Singularity, cit. (http://cosmosandhistory.org/index. php/journal/article/viewFile/107/213). Le seguenti citazioni non attribuite provengono da questo saggio. 3. Ibidem. 4. Gli hegeliani di oggi dove dovrebbero dunque trovare l’ultimo momento della storia? C’è un appendice comica all’idea di Hegel secondo cui il progresso storico si sposta da est a ovest, culminando nella modernità dell’Europa occidentale. Non si potrebbe dire che, nel XX secolo, il centro della storia si è spostato ancora più a ovest, negli Stati Uniti, dove anche si è spostato da est a ovest, da New York alla Cali-fornia? (Lasciamo da parte qui gli «Hegeliani di St. Louis», la prima scuola hegeliana degli Stati Uniti dalla seconda metà del XIX secolo: percepirono lo sviluppo degli Stati Uniti come il passaggio dalla East Coast al centro che – speravano – sarebbe stato St. Louis, e se ne può solo immaginare la delusione quando videro Chicago superare rapidamente St. Louis...) E che negli ultimi decenni i progressi sembrano essersi spostati ancora più a ovest, attraversando il Pacifico, culminando prima in Giappone e ora in Cina.

Ma giacché la Cina è dove, per Hegel, inizia la storia, il cerchio è così chiuso, la fine si unisce 256 un tratt n ato ote su a LL LLe ’ apoca pagI LI ne sse dI 91-127gItaLe all’inizio in ciò che non può che apparire come un gigantesco nastro di Moebius storico. 5. Cadell Last, comunicazione personale. 6. Si veda Adrian Johnston, Divine Ignorance: Jacques Lacan and Christian Atheism (manoscritto inedito). Le seguenti citazioni non attribuite provengono da questo saggio. 7. Si veda Jacques Lacan, On Feminine Sexuality, Norton, New York, 1999, p. 74; trad. it. in Id., Ancora, Einaudi, Torino, 2011. 8. Adrian Johnston, Lacan’s Endgame: Philosophy, Science, and Religion in the Final Seminars, in «Crisis and Critique », numero speciale «Lacan», 2019.

9. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Ru-sconi, Milano, 1991, p. 941. 5. La Caduta che ci rende simili a Dio 1. Citato da www.theguardian.com/commentisfree/2018/dec/23/elonmusk-neuralink-chip-brain-implants-humanity. 2. Ibidem. 3. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Bompiani, Milano, p. 293. 4. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 1968 e 1977, pp. 25-26. 5. Si veda https://in.mashable.com/culture/2054/indian-man-whowants-to-sue-his-parents-for-giving-birth-to. 6. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 889. 7. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, II, Zanichelli, Bologna, p. 317. 8. Ivi, p. 332. 9. Ivi, p. 333. 10. Citato da https://news.yahoo.com/dare-greta-thunberg-asksworld-leaders-un-152546818.html. 11. Devo questa formulazione a Dave Harvilicz, Los Angeles. 12. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 91. 13. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, con le Aggiunte, utet, Torino, 1981-2002, § 212,

Aggiunta. 14. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 731-33. 257 note aLLe pagIne 127-144 15. Non c’è forse mio libro nel quale non faccia riferimento a quest’immagine almeno una volta. 16. Si veda Ryszard Kapuściński, Shah-in-shah, Feltrinelli, Milano, 2001. 17. Si veda www.theguardian.com/uk-news/2019/jun/25/woman-93arrested-as-a-dying-wish-after-being-good-all-her-life. 18. Naturalmente, si può anche leggere Joker in senso opposto e affermare che l’atto che costituisce la figura principale come «Joker» sia un atto autonomo per mezzo del quale questi supera le circostanze oggettive della propria situazione. S’identifica con il suo destino, ma questa identificazione è un libero atto, cioè in esso si pone come una figura unica di soggettività... Nondimeno, una lettura del genere va contro lo spirito del film. 6. Riflessività dell’inconscio 1. Citato da Tupinambá, The Desire of Psychoanalysis, cit. 2. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna, 1971, p. 171. 3. Citato da https://variety.com/2019/film/reviews/captive-statereview-1203164121/. 4. Işık Barış Fidaner, comunicazione personale.

5. In una comunicazione privata. 6. Robert Brandom, The Spirit of Trust, Harvard University Press, Cambridge, 2019, p. 20. 7. Quando Hegel afferma che l’autocoscienza è la verità della coscienza, non dà come implicito che la normatività sia il fondamento nascosto della fattualità e non il – riduzionista – suo contrario? Non è quindi sufficiente opporre il mondo non normativo della realtà oggettiva all’universo deontico soggettivo di valori e impegni: a un certo livello di base, la distinzione fra essi scompare. Per un materialista volgare, questa scompare quando teniamo conto dell’emergere della dimensione normativa da un processo complesso che si svolge nella realtà oggettiva (quando deduciamo il dover essere dall’essere), mentre da veri dialettici dobbiamo supporre che ogni (visione della) realtà oggettiva rimanga irriducibilmente normativa: la realtà non è un semplice fatto, ma qualcosa che deve fare affidamento sulla normatività simbolica. È così che Lacan legge l’ontologia aristotelica, più preci-258 un tratt n ato ote asu LLLL e’ papoca agIne LIsse dIg 147-149 ItaLe

samente, la sua definizione di essenza, to ti ēn einai: la sua traduzione letterale «ciò-che-doveva-essere» implica il gesto di un Padrone, è il «ciò-che-deve-essere». E non punta Hegel nella stessa direzione, quando si oppone al concetto standard di verità come adaequatio in-tellectus ad rem al concetto superiore di verità come l’adeguatezza della cosa stessa al suo concetto? Questo concetto superiore di verità non implica una dimensione deontica nella cosa stessa che non è solo ciò che è, ma deve essere misurata da uno standard normativo immanente? Un tavolo non è solo un tavolo, può anche essere in una misura diversa «un autentico tavolo», un tavolo adeguato al suo concetto: un tavolo instabile e sbilenco non è un vero tavolo. 7. Una fantasia letteraria: l’innominabile soggetto della Singolarità 1. Jacques-Alain Miller, citato da «lacanian ink», 50, p. 29 (www.lacan. com/cover50.html). 2. Ivi, p. 31. 3. Per inciso, Miller sbaglia del tutto quando afferma che questa ricerca del puro reale «ha portato Lacan nella stessa zona di Edipo a Colono, dove si trova l’assenza assoluta di carità, di fraternità, di qualsiasi sentimento umano: è qui che la ricerca del vero spogliato dal significato ci conduce»: ma davvero l’ Edipo a Colono rappresenta un tale «reale spoglio di significato»? L’Edipo morente non è sicuramente caratterizzato dall’«assenza assoluta di alcun sentimento umano»: al contrario, persegue un obiettivo assai «umano» calcolando attentamente a chi nuocerà la sua morte incombente e chi aiuterà. Sceglie di morire vicino ad Atene in modo che la sua Tebe sia privata dei benefici che derivano dall’essere il luogo della sua morte. 4. Ivi, p. 120.

5. Ivi, p. 121. 6. Ivi, p. 125. 7. Qui mi affido a Anthony Uhlmann, The Same and the Other: Beckett’s The Unnameable , Derrida and Levinas, «Law Text Culture» 3/1997, pp. 127-147. Disponibile online presso http://ro.uow.edu.au/ltc/ vol3/iss1/9. 8. Conversazione privata. 9. Gilles Deleuze, The Exhausted, in «Substance: A Review of Theory 259 note aLLe pagIne 149-159 and Literary Criticism», 78, vol. 24, n. 3, 1995, p. 7; trad. it. L’esausto, a cura di Ginevra Bompiani, Cronopio, Napoli, 1999. 10. Uhlmann, The Same and the Other, cit. 11. Ibidem. 12. Trilogia. Molloy, Malone muore, L’innominabile, Einaudi, Torino, 1996, p. 385. 13. Ivi, p. 343. 14. Ivi, p. 409. 15. Ivi, p. 428. 16. Ivi, p. 333. 17. Si veda Michel Chion, La voix au cinéma, Cahiers du cinéma, Parigi, 1982; trad. it. La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991.

18. Uhlmann, The Same and the Other, cit. 19. Si veda Alenka Zupančič, Oedipus or the Excrement of the Signifier, in Ojdip v Kolonu (in sloveno), Lubiana, Analecta, 2018. 20. Ivi, p. 154. 21. Ivi, p. 171. 22. Si veda Jean-Joseph Goux, Oedipus, Philosopher, Stanford University Press, Stanford, 1993. 23. Si veda Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Hamlet’s Mill, Nonpareil Books, Boston, 2014; trad. it. Il mulino di Amleto: saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi, Milano, 1983. 24. Sofocle, Edipo a Colono, traduzione di Gabriele Romagnoli, consulta-bile presso http://www.filosofico.net/edipcolonsofocle42.htm. 25. Una simile clip di propaganda di cattivo gusto sarebbe facilmente immaginabile a partire dal fatto che, nelle lingue slave meridionali, il termine volgare per la fellatio è «fumare il cazzo». Per cui, al posto dei soliti pacchetti di sigarette con foto raffiguranti gli orrori delle malattie causate dal fumo potrebbe esserci la foto del volto di una donna attraente con le labbra che succhiano un pene, con l’iscrizione a grandi caratteri: «Fumati un cazzo, non una sigaretta! È molto più sano!» Le clip televisive di accompagnamento dovrebbero mostrare un medico «serio» che spieghi mediante grafici perché la fellatio è meglio del fumo: lo sperma ingerito non è in alcun modo pericoloso per la nostra salute ma contiene molte buone vitamine... 260 un tratt n ato

ote asu LLLL e’ papoca agIne LIsse dIg 159-169 ItaLe 26. Si veda Mladen Dolar, Oedipus at Colonus, in Ojdip v Kolonu (in sloveno), Analecta, Lubiana, 2018. 27. Jaques-Alain Miller, Un reel pour le XXIe siecle, in «Un reel pour le XXIe siecle», Scilicet, Parigi, 2013 (http://www.congresamp2014. com/it/template.php?file=Textos/Presentation-du-theme_JacquesAlain-Miller.html). 28. Ibidem. 29. Qui mi affido ad Alenka Zupančič, Why Psychoanaysis? , NSU Press, Uppsala, 2008. 30. Si veda Angela Nagle, Kill All Normies, Zero Books, New York, 2017; trad. it. Angela Nagle, Contro la vostra realtà: come l’estremismo del web è diventato mainstream, Luiss University Press,Roma, 2018. 31 Questo testo è stato scritto prima della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti [ N.d.T. ]. 32. Quando Trump è stato eletto presidente, un paio di editori mi chie-sero di scrivere un libro che sottoponesse il fenomeno Trump a

una critica psicoanalitica, e la mia risposta fu che non abbiamo bisogno della psicoanalisi per esplorare la «patologia» del successo di Trump; l’unica cosa da psicoanalizzare è la stupidità irrazionale delle reazioni della sinistra liberale, la stessa che rende sempre più probabile la rie-lezione di Trump. Per usare quello che è forse il punto più basso delle volgarità di Trump, la sinistra ancora non ha imparato come afferrare Trump per le p... [gioco di parole relativo a un’espressione usata da Trump in riferimento alle donne]. 33. Citato da www.nationalreview.com/2016/03/donald-trump-hegelsartre-explain-trump-rise/. Un trattato sull’apocalisse digitale 1. Citato da www.e-flux.com/journal/97/251199/apocalypse-withoutkingdom/. 2. Jean-Pierre Dupuy, La guerre qui ne peut pas avoir lieu: Essai de métaphysique nucléaire, Desclée de Brouwer, Parigi, 2019. 3. Ivi, p. 79. 4. Ivi, p. 61. 5. Distruzione reciproca assicurata (l’acronimo significa anche, naturalmente, «pazzo») [ N.d.T. ]. 261 note aLLe pagIne 170-178 6. Ivi, p. 139. 7. Todd McGowan, Emancipation After Hegel, Columbia University Press, New York, 2019, p. 53. 8. « Playing with oneself» significa anche masturbarsi [ N.d.T. ].

9. Citato da https://www.marxists.org/italiano/marxengels/1852/brumaio/cap1.htm. 10. Questa possibilità è stata esplorata da Frank Ruda, Abolishing Free-dom: A Plea for a Contemporary Use of Fatalism, University of Nebra-ska Press, Lincoln, 2016. 11. Jean-Pierre Dupuy, Petite métaphysique des tsunamis, Éditions du Seuil, Parigi, 2005, p. 19; trad. it. Piccola metafisica degli tsunami: ma-le e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, Donzelli, Roma, 2006. 12. Dupuy, La guerre qui ne peut pas avoir lieu, cit., p. 205. 13. Ivi, pp. 207-208. 14. Ivi, p. 177. 15. Ivi, p. 199. 16. Citato da www.politicsweb.co.za/opinion/ramaphosa-mustexplain-comment-of-white-people-and. C’è poi un altro problema: Ramaphosa è uno degli uomini d’affari più ricchi del Sudafrica, possiede oltre mezzo miliardo di dollari. Se stiamo dunque parlando di ridistribu-ire la ricchezza, non dovrebbe essere gettato in pentola per bollire lentamente anche lui? (O miriamo solo a sostituire la vecchia classe dirigente bianca con la nuova nera, dove la maggioranza nera resta bloccata nella stessa povertà?). 17. Naturalmente si può assumere una visione a distanza, concentrandosi su grandi epoche della nostra Terra e affermare che, anche se l’umanità provoca la distruzione della maggior parte della vita sul pianeta, questo sarà, per qualcuno che esplorerà la Terra fra milioni di anni nel futuro, una piccola catastrofe paragonabile a quella che ha causato l’estinzione dei dinosauri. L’idea dell’antropocene come nuova epoca geologica non è quindi un caso di arroganza

umana, di soprav-valutazione della nostra importanza? Si veda www.theatlantic.com/ science/archive/2019/08/arrogance-anthropocene/595795/. 18. Ovviamente, possiamo anche immaginare una posizione fondamen-talista religiosa positiva verso un’apocalisse nucleare: non dobbiamo 262 un tratt n ato ote asu LLLL e’ papoca agIne LIsse dIg 179-199 ItaLe temerla perché per noi, veri credenti, non sarà la fine ma un nuovo inizio: dio ci porterà nel suo regno. 19. McGowan, Emancipation After Hegel, cit., p. 212. 20. «La stessa merda» in bulgaro [ N.d.T. ]. 21. Per inciso, Mao insiste con enfasi sul fatto che le contraddizioni sono eterne, che saranno presenti anche nel comunismo: ma questo migliora le cose?

22. È facile notare come questa opposizione riecheggi i due modi opposti di concepire la nozione di castrazione (simbolica): quello negativo, in cui la castrazione designa un ostacolo opprimente che dovremmo abolire per liberare la produttività creativa del soggetto; e quello positivo, in cui la castrazione designa l’ostacolo (o la perdita) che apre e sostiene lo stesso dominio cui impedisce l’accesso dimodoché, abo-lendo la castrazione, perdiamo ciò che volevamo salvare. Il paradosso della castrazione è questa scelta forzata: la cosa desiderata può essere avvicinata solo in forma ridotta; se la vuoi tutta, tutta la perdi. 23. Si veda Aleksandr Romanovič Lurija, The Mind of a Mnemonist: A Little Book about a Vast Memory, Harvard University Press, Cambridge, 1987; trad. it. Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Armando, Roma, 1979. 24. E non si dà una cosa simile con Hegel? Nei manuali di storia della filosofia appare come una sorta di anello mancante, un mediatore, un punto di passaggio tra la metafisica pre-trascendentale che esplora la struttura razionale dell’universo e lo storicismo evoluzionista antimetafisico del XIX secolo; tuttavia, a uno sguardo più attento diventa chiaro che il suo pensiero eccede ciò che viene prima e dopo; nel pensiero di Hegel diventa visibile qualcosa che viene immediatamente occluso nel pensiero posthegeliano. 25. Si veda Harari, Homo deus, cit., p. 396. 26. Thomas Metzinger, Being No One. The Self-Model Theory of Subjecti-vity, mIt, 2004, Cambridge, p. 620. 27. Ivi, p. 621. 28. Samo Tomšič, The Labour of Enjoyment, August Verlag, Berlino, 2019, p. 247. 29. Ivi, p. 15.

30. Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, vol. II, p. 813. 263 note aLLe pagIne 199-221 31. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 289. 32. Il termine è stato elaborato da Samo Tomšič, The Capitalist Unconscious: Marx and Lacan, Verso Books, Londra, 2015. 33. Citato da www.cbc.ca/radio/thecurrent/the-current-for-sept-%20 26-2019-1.5297326/a-simple-clear-case-why-edward-snowdenthinks-u-s-congress-will-support-the-trump-ukraine-whistleblower1.5297327. 34. Citato da https://edition.cnn.com/2019/04/23/politics/bernie-sanders-impeachment-cnn-town-hall/index.html. 35. Si veda Todd McGowan, Capitalism and Desire, Cambridge University Press, Cambridge, 2016. 36. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI, Einaudi, Torino, 2003, p. 270. 37. Riassumo qui la mia lettura dettagliata del film. Si veda «The Matrix, or the Two Sides of Perversion», in www.lacan.com/zizekmatrix. htm. 38. Karl Marx, Il Capitale, utet, Torino, 2009, pp. 942-943. 39. Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma, 2013, p. XYZ.

40. Gérard Lebrun, L’envers de la dialectique. Hegel à la lumière de Nietzsche, Éditions du Seuil, Parigi, 2004, p. 311. 41. Marx, Il Capitale, cit., pp. 245-246. 42. Freud ha affermato che alla fine dell’analisi, l’autosabotaggio patologico del soggetto (in cui troviamo godimento) è sostituito dalla (nostra accettazione della) miseria comune che dobbiamo affrontare come un fatto indifferente da un punto di vista libidico, cioè come nostra sorte. La richiesta di una distanza tra l’Altro digitale nella sua stupidità di una macchina cieca e l’aura di un Padrone segreto che vi si aggrappa è quindi un altro esempio di come dovremmo interrompere il cortocircuito tra la struttura della realtà esterna (e le sue limitazioni) e il reale-impossibile che pertiene alla nostra vita psichica. 43. Jacques Lacan, L’angoisse, seminario inedito, conferenza del 13 maggio 1963. 44. Alenka Zupančič, The Shortest Shadow, mIt Press, Cambridge, 2003, p. 192. 45. La Lista dei desideri di Orge [ N.d.T. ]. 46. Qui mi rifaccio ad Alenka Zupančič, «Greta», Delo, Lubiana, 28 settembre, 2019, p. 7 (in sloveno). 264 un tratt n ato ote asu LLLL

e’ papoca agIne LIsse dIg 223-246 ItaLe 47. Citato da www.thelocal.it/20190419/were-not-here-for-selfiesgreta-thunberg-takes-on-the-italian-government. 48. Fredric Jameson dà un suggerimento in questa direzione quando sottolinea che in una società comunista l’invidia riemergerà come una questione centrale. 49. Si veda www.dailymail.co.uk/news/article-7418059/Australianporn-star-Tyi-Starr-sell-video-showing-GIVING-BIRTH.html. 50. Peter Sloterdijk, Warten auf den Islam, in «Focus», 10, 2006, p. 84. 199. 51. Tupinambá, The Desire of Psychoanalysis, cit. 52. McGowan, Emancipation After Hegel, cit., p. 138. 53. Ibidem. 54. Ayn Rand, L’uomo che apparteneva alla terra, Il Corbaccio, Milano, 2016, p. 93. 55. McGowan, Emancipation After Hegel, cit., p. 212 56. Tuttavia, laddove l’inconscio sfugge allo spazio della Singolarità emerge la domanda: questo inconscio è solo quello di un soggetto singolare che sfugge anche alla Singolarità, oppure possiamo parlare di un inconscio «collettivo», non nel senso junghiano ma nel senso di

una trama virtuale che dimora nello spazio tra l’essere e il nonessere, ivi persistendo e lasciando le sue tracce nella realtà anche se presente da nessuna parte in esso? La risposta a questa domanda si basa sulla risposta a un’altra: quale forma del «grande Altro» (simbolico-virtuale) sopravvive al nostro ingresso nella Singolarità? 57. Qui da non confondersi con l’Umanesimo con cui talvolta s’intendono i prodromi del Rinascimento italiano [ N.d.T. ]. 58. Si veda www.etymonline.com. 59. Si veda https://en.wikipedia.org/wiki/Interface_(computing). 60. Per informazioni circa il progetto del Neuralink, si veda «Elon Musk svela i piani di Neuralink per i ‘fili’ di lettura del cervello e un robot per inserirli» in www.theverge.com/2019/7/16/20697123/elonmusk-neuralink-brain-reading-thread-robot. Si vedano inoltre, tra le molte notizie, A Direct Brain-to-Brain Interface in Humans; ecco un estratto: «Descriviamo la prima interfaccia cervello-cervello diretta nell’uomo e presentiamo i risultati di esperimenti che coinvolgono sei soggetti diversi. La nostra interfaccia non invasiva, presentata 265 nota aLLa pagIna 246 originariamente nell’agosto 2013, combina l’elettroencefalografia (eeg) per la registrazione dei segnali cerebrali con la stimolazione magnetica transcranica (smt) per trasferire informazioni al cervello. Illustriamo il nostro metodo usando un compito visuomotorio in cui due umani devono cooperare attraverso la comunicazione diretta cervellocervello per raggiungere l’obiettivo desiderato in un videogioco. L’interfaccia cervello-cervello rileva le immagini motorie nei segnali eeg registrati da un soggetto (il «mittente») e trasmette queste informazioni su Internet alla regione della corteccia motoria di un secondo soggetto (il «destinatario»). Questo consente al mittente di causare la risposta motoria desiderata nel destinatario (una

pressione su un touchpad) tramite smt. Quantifichiamo le prestazioni dell’interfaccia cervello-cervello in termini di quantità di informazioni trasmes-se e accuratezza raggiunte in (1) decodifica dei segnali del mittente, (2) generazione di una risposta motoria nel destinatario al momento della stimolazione e (3) raggiungimento dell’obiettivo generale nel compito visuomotorio cooperativo. I nostri risultati forniscono prove di una forma rudimentale di trasmissione diretta di informazioni da un cervello umano a un altro usando mezzi non invasivi» (https://in-terestingengineering.com/brainnet-is-the-worldsfirst-non-invasive-brain-to-Brain-interface). 266 Indice Introduzione. «Un jour, peut-être, le siècle sera hégélien» 15 Un approccio hegeliano... 9 ...a un cervello connesso 21 Paratassi 30 1. Lo stato di polizia digitale: la vendetta di Fichte su Hegel 27 2. L’idea di un cervello connesso e i suoi limiti 49 3. L’impasse della tecnognosi sovietica 70

4. Singolarità: la svolta gnostica 85 5. La Caduta che ci rende simili a Dio 104 6. Riflessività dell’inconscio 131 7. Una fantasia letteraria: l’innominabile soggetto della Singolarità 146 Un trattato sull’apocalisse digitale 167 Apocalisse con o senza regno? 168 Caduta dalla Caduta 180 L’economia libidica della Singolarità 196 La fine della storia 227 Note 251

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Document Outline Copertina Frontespizio Pagina del Copyright Introduzione. «Un jour, peut-être, le siècle sera hégélien» Un approccio hegeliano... ...a un cervello connesso Paratassi 1. Lo stato di polizia digitale: la vendetta di Fichte su Hegel 2. L’idea di un cervello connesso e i suoi limiti 3. L’impasse della tecnognosi sovietica 4. Singolarità: la svolta gnostica 5. La Caduta che ci rende simili a Dio 6. Riflessività dell’inconscio 7. Una fantasia letteraria: l’innominabile soggetto della Singolarità Un trattato sull’apocalisse digitale Apocalisse con o senza regno? Caduta dalla Caduta L’economia libidica della Singolarità La fine della storia Note Indice Seguici su ilLibraio