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Italian Pages 368/369 [369] Year 2011
»STORICA « VOLUME
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La collana è diretta da Sergio Romano
GLI ULTIMI GIORNI DI MUSSO LINI di PIERRE MILZA Traduzione di MARCELLA UBERTI-BONA
(g)
LONGANESI
PROPRIETÀ Longanesi
LETTERARIA & C. © 2011
RISERVATA -
Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.longanesi.ù ISBN 978-88-304-3080-8
Titolo originale Les derniers jours de Mussolini
Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it
www .infìnirestorie.it
© Librairie Arthème Fayard, 2010
GLI ULTIMI GIORNI DI MUSSOLINI
Prefazione
Mussolini morì due volte. La prima il 25 luglio 1 943, in quanto « guida » a lungo onnipotente dell'Italia fa scista. La seconda il 28 aprile 1 945 , quando cadde sot to i colpi dei partigiani che applicarono la « sentenza » emessa dai dirigenti del movimento d'insurrezione mi lanese. Oggetto di questo libro sono i giorni immediata mente precedenti l'esecuzione del Duce, della sua compagna Clara Petacci e di una quindicina di gerar chi della Repubblica di Salò. Ma i colpi di armi auto matiche che crepitarono negli ultimi secondi della vita di Mussolini e di Claretta furono solo il coronamento di una tragedia che coinvolse tutto il popolo italiano e che si chiama « guerra civile » . La tragedia proseguì, dopo la morte dei due personaggi principali, con la macabra esposizione delle loro spoglie in piazzale Lo reto a Milano, mentre l'atto iniziale era stato, una ven tina di mesi prima, l'ordine trasmesso da Hitler al suo « migliore amico » di rimettersi alla testa di uno Stato italiano fascista, uno Stato alleato della Germania, il cui capo, Mussolini, nel 1937 a Berlino aveva promes so di accompagnare il Fi.ihrer « fino in fondo » . Quando Mussolini muore, a Hitler restano solo
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Gli ultimi giorni di Mussolini
quarantott' ore di vita, dopo una decina di giorni tra scorsi da sovrano di una corte di morti viventi, rinta nato nel suo bunker berlinese in un'atmosfera da fine del mondo. Da storico del fascismo, e non solo del fascismo ita liano, ho avuto la forte tentazione di prendere spunto dall'opera dello storico tedesco Joachim Fest, La disfat ta: gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich, e di seguire passo passo, ora dopo ora, l'ultimo viaggio del dittatore lungo le rive del lago di Como . Nel perio do di cui si occupa il nostro racconto Mussolini era di venuto ormai la posta in gioco di uno scontro senza pietà tra le milizie in camicia nera di Alessandro Pavo lini e i militanti comunisti, appartenenti soprattutto alle brigate Garibaldi. Il rischio sarebbe stato quello di raccontare una storia che non è accaduta. Di mette re in bocca a Mussolini parole mai pronunciate, di at tribuirgli gesti che non arrivò mai neppure ad abboz zare e sentimenti dei quali non resta alcuna traccia. Il mio proposito non è quello di aggiungere ulteriori versioni più o meno rocambolesche a quelle già propo ste da dozzin� di opere, con i l risultato di rendere an cora più indecifrabile il « giallo » sulle ultime ore di vita del dirigente fascista. In questo libro il lettore troverà invece, se non una risposta definitiva a tutti gli inter rogativi posti dall'esecuzione del Duce, almeno l' espo sizione degli elementi principali del caso . Starà poi al lettore stesso decidere, co1ne anch'io ho cercato di fare, quali gli sembrano più verosimili. Il mistero resta comunque fitto, perché in esso si
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agitano passioni vive ancora oggi. La morte di Musso lini si inserisse in realtà in un contesto che non era solo quello della guerra tra gli alleati occidentali e ciò che rimaneva della coalizione hitleriana. Essa fu anche og getto della contesa tra i dirigenti occidentali e quelli sovietici, e tra britannici e americani. Quella morte contrapponeva ancora troppo, e divideva, gli italiani: fascisti contro antifascisti, oltre ai comunisti, in posi zione di forza ma in concorrenza con altri rappresen tanti della Resistenza, divisi al loro interno. Da una parte c'erano quelli che, obbedendo alle consegne di Togliatti, e quindi di Stalin, predicavano la modera zione e un riavvicinamento alla monarchia, dall'altra quelli, come Longa e compagni, che facevano appello alla rivoluzione immediata. Nel corso degli anni e dei decenni i rapporti di forza tra i diversi attori sono mutati. La guerra mondiale è finita subito dopo i fatti di Mezzegra e di Dongo, pre sto sostituita dalla guerra fredda. Anche questa a sua volta è terminata, in contemporanea con la dissoluzio ne dell'Unione Sovietica e il naufragio del comunismo, almeno in Occidente. Rimane, e non è poco, la classica opposizione sinistra! destra, la guerra civile verbale che soprattutto in Italia, culla del fascismo, continua a contrapporre due punti di vista: da una parte quello di chi resta incondizionatamente attaccato ai « valori della Resistenza » e al patto di fondazione della demo crazia italiana; dall'altra quello di coloro che propu gnano il riconoscimento dei « valori patriottici » accre-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
ditati, pur tra le critiche, agli ultimi difensori della Re pubblica sociale. La sterminata letteratura sulla fine di Mussolini ri sente in diverso grado di tali presupposti ideologici. E per lo storico in cerca di certezze la difficoltà risiede
nel districare un groviglio di contraddizioni, di proces si differiti, di controverità evidenti, ma anche a volte di testimonianze ricche di una tale apparente sincerità da non poter essere scartate a priori per la sola ragione che intaccano la solita vulgata. Mi si rimprovererà forse di aver troppe volte tentato di riabilitare tesi giudicate «inverosimili)) da un gran numero di autori accredita'
ti . E un peccato mortale, e a maggior ragione se chi se ne macchia sembra infischiarsene del «politicamente corretto)), Me ne assumo tutti i rischi. «La morte non è stata la cosa più impo rtante nella vita di Mussolini)) , scrive Renw De F elice. E aggiun ge: «Sapere come è successo
[ . . ] mi sembra un' aspet .
tativa sbagliata: scoprire se il grilletto l'ha tirato Tizio o Sempronio [ . . . ] a me importa poco )),1 De Felice avreb be ragione se si trattasse solo della morte di un uomo, per quanto importante possa essere stato il suo ruolo nella storia del XX secolo . L' affermazione mi sembra invece meno pertinente se si rico rda che, in parallelo con l'esecuzione, si svolse un braccio di ferro tra gli at tori della Resistenza italiana. E soprattutto , il fatto che la morte non sia«la cosa più impo rtante)) della vita di Mussolini non esclude affatto che il linciaggio del suo cadavere e di quello della co mpagna, il29 aprile a M i lano, sia stato uno d�gli avvenimenti che più turbaro-
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no gli italiani. Al punto che l'immagine della coppia appesa a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina richiama, nella memoria collettiva, il ricor do di quelle migliaia di militanti fascisti o presunti tali cui la folla fece subire la stessa sorte all'indomani della Liberazione. Il lettore che mi seguirà lungo la strada che costeggia la riva occidentale del lago di Como sino a Do ngo, do ve avvenne l'arresto del D uce, e poi nei diversi luoghi della sua brevissima prigionia, si chiederà se il dramma potesse avere esiti diversi. In effetti, Mussolini quasi riuscì a sfuggire ai suoi «protettori» tedeschi, e in se guito ai suoi inseguitori, partiti da Milano all' annun cio dell'arresto per eliminarlo . Fu fermato due volte dal tenente delle ss Birzer mentre tentava di passare in Svizzera con molti dei suoi compagni . A Dongo, in vece di fingersi ubriaco in fondo al camion, avrebbe potuto chiedere alla sua scorta pesantemente armata di aprire il fuoco sugli uomini della 52a brigata Gari baldi . Ancora, nella notte tra il 27 e il 28 aprile intra vide per un attimo la possibilità di essere trasportato con l'amante sull'altra riva del lago, dove era stata pre parata un'evasione con l'aiuto dei servizi segreti ameri cani. Ma soprattutto, come lo implorarono di fare i membri del suo entourage nei pochi giorni trascorsi a Milano , avrebbe potuto raggiungere clandestinamen te un aeroporto locale e, da lì, la Svizzera, la Baviera o la Spagna. Quest'ultima possibilità fu scartata dalla te starda volontà del dirigente fascista che voleva seguire la via più rischiosa, quella lungo la riva occidentale del
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lago, invece di quella orientale, più corta, meno diret tamente minacciata dai partigiani e, soprattutto , p ro tetta da consistenti forze fasciste. Perché fece tali scélte suicide? Mussolini aveva piena consapevolezza dei rischi che correva? O àveva ancora una tale fiducia nella sua «stella>> da immaginare di poter raggiungere senza ostacoli la Valtellina o la Sviz zera? Si trattava di un'ultima sfida lanciata ai suoi av versari? O di una sottomissione più o meno deliberata alle forze del destino? Un po' di tutto questo , forse . . O .
forse entrarono in gioco gli stessi impulsi che l'avevano condotto a tentare la sorte alla vigilia della riunione del Gran consiglio fascista del 25 luglio 1 943, preludio della sua destituzio ne e del suo arresto per ordine del re? Sono queste le domande che compaio no in filigra na nel corso del libro .
Prologo
D opo la liberazione da parte di un commando di pa racadutisti tedeschi avvenuta il12 settembre 1 943 , e la «visita» forzata al quartier generale del Fiihrer a Ra stenburg, M ussolini, dietro espressa ingiunzione di Hi tler e sotto la minaccia che questi per rappresaglia con tro il « tradimento » fascista realizzasse il progetto di di struggere un gran numero di città italiane, tra le quali Milano, Torino e Genova, dovette risolversi a ripren dere la lotta al fianco del Reich. Detto in altro modo, il D uce rinunciava a ogni autonomia per divenire il do cile satellite del dirigente nazista e aiutarlo in partico lare nella rep ressione della resistenza armata, costituita dopo l'autunno del 1 943 dagli avversari clandestini del regime caduto . La Repubblica s ociale italiana, replica radicalizzata del regime fascista, vide dunque la luce sotto la stretta sorveglianza dell'ambasciatore tedesco· Rudolf Rahn e del generale delle ss Karl Wolff, responsabile della si curezza delle truppe tedesche in Italia. Mussolini aveva i nsistito affinché il termine « fascista» scomparisse dal nome ufficiale del nuovo regime e il nuovo partito si chiamasse invece «Partito fascista repubblicano». Fu necessario innanzitutto creare un gruppo di governo
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e insediarlo in un luogo relativamente protetto e ap provato dai tedeschi. Questi ultimi avevano vivamente sconsigliato Roma, troppo vicina alla linea del fronte e oggetto di numerosi bombardamenti alleati. Sempre i tedeschi avevano respinto la proposta del Duce di sta bilire la capitale a Bolzano, nell'Altò Adige, o nella cit tà di Venezia, perché ciò avrebbe significato ostacolare le ambizioni hitleriane su quelle due regioni. Infine, il capo della RSI dovette accettare di trasferirsi a G argna no, una piccola città rivierasca sul lago di Garda, dove arrivò con il suo seguito il l O ottobre 1 943.
IL MANIFESTO DI VERONA Sopprimendo la monarchia e annunciando la convoca zione di un'Assemblea costituente, M ussolini pareva voler rompere radicalmente con il passato e tornare ai principi rivoluzionari che avevano caratterizzato il fascismo originale. Il Partito fascista repubblicano, de sideroso di guadagnare alla sua causa tutti gli strati po polari che non si erano ancora rivolti alle o rganizzazio ni marxiste, tenne un congresso a Verona nel novem bre del 1 943 e pubblicò un manifesto in diciotto punti che poneva in termini abbastanza vaghi le basi della «Repubblica sociale » . Chiamato a essere l a carta fondamentale del nuovo regime, quel testo, cui M ussolini aveva messo mano, rappresentava una sorta di compromesso . Gli altri due redattori erano Pavolini, un duro , ex ministro del-
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Prologo
la Cultura popolare (altrimenti detto ministero della P ropaganda) , scelto da Mussolini come segretario del partito , e Nicola Bombacci, un vecchio comunista pentito. L'esecuzione di questo programma, definito dai suoi autori «antiborghese », fu affidata al partito , un« o rdine di combattenti e di credenti». In esso si ri trova il vecchio assortimento ideologico che aveva nu trito il primo fascismo : un miscuglio di nazionalismo, populismo, socialismo libenario e mazzinianesimo . Ma il manifesto non andrà mai oltre lo stadio delle in tenzioni, e avrà un peso ancora minore sulle masse se si tiene conto che la sua pubblicazione coincise con mi sure impopolari quali la ricostituzione delle milizie e di un esercito destinato alla lotta contro gli Alleati e i par ngtam. Nell 'autunno del 1943 il principale nemico del fa scismo non è più, per Mussolini, il socialismo, ma il capitalismo, o piuttosto la borghesia, cui addebita la responsabilità del naufragio dell'Italia. Dimenticando che il fascismo aveva potuto prendere il potere e man tenerlo solo grazie al compromesso raggiunto co n le classi dirigenti, prima terriere e poi dei circoli affari stici, no nché con la co rte e con la gerarchia militare, egli credeva ora di potersi ap �oggiare alle class i popo lari per rigenerare il regime. E questo il senso del di ciottesimo e ultimo punto del manifesto di Verona: il partito non deve solo «andare verso il popolo », esso deve stare « co l popolo
».
Pura illusione, questa, di tornare alle fonti dell'i deologia dei fasci . M ussolini si sforzò anche di dare
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un contenuto concreto al progetto sociale presentato a Verona, creando un ministero dell'Economia corpo rativa con la missione di « realizzare a qualsiasi prezzo la soci alizzazione dell'industria italiana », ma non riu scì a convincere il mondo operaio di stare finalmente applicando un programma che aveva sempre avuto in mente.
SoTTO LA SFERZA DEI TEDESCHI
A Gargnano il Duce vive in una sorta di bolla. Tagliato fuori dal mondo, privato del potere esercitato in tutta la sua pienezza per vent'anni, continuamente sorveglia to e accompagnato in ogni suo spostamento da un re parto di ss, tende a ripiegarsi su se stesso, a sfuggire le responsabilità, lamentandosi con gli intimi di non es sere altro che un giocattolo tra le mani del Fiihrer e di chi esegue i su òi ordini. « I tedeschi mi conservano co me una palena », confida al suo segretario DolfiQ., « ma la nave non ha più equipaggio . » O anche: « Sono tutti lì, come le macchie sulla pelle di un leopardo». Eppure, non fu forse grazie al generale delle ss Karl Wolff che Claretta Petacci, prigioniera da varie setti mane a Novara, poté essere liberata il 17 settembre e sistemarsi a Gardone, sulle rive del Garda? Tuttavia il capo della polizia tedesca non ordinò tale liberazione in seguito alla richiesta del Duce, ma solo in risposta a un intervento personale di Hidér. D'altro canto, non si sa bene se a questi fosse dispiaciuto che l'alleato abban-
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Prologo
donasse l'amante dopo che lei aveva trascorso a causa sua tanto tempo in prigione, o se non volesse piuttosto munirsi di· un ulteriore mezzo di pressione sul capo della RSI. Precauzione inutile se si pensa allo stato di sfacelo fisico e morale in cui si trovava Mussolini. Dolfin, che lo vedeva tutti i giorni, lo descrive sedute:;> dietro una modesta scrivania, che legge lettere prese da un sottomano: « Sembra per qualche minuto », scrive, « non accorgersi della mia presenza. [ .. ] Immobile, at tendo i suoi ordini; osservo che la sua giubba è aperta, la cinghia dei pantaloni allentata. Deve soffrire molto . La sua mano sinistra non abbandona lo stomaco, che comprime. E inquieto e nervoso. Inforca gli occhiali di una montatura nera, rotonda, con le lunghe stanghet te. Lo invecchiano e gli danno un'aria ancora più stan ca ».1 Il suo mento re tedesco non è certo in migliori condizioni, su questo non ci sono dubbi, però i suoi motivi di disperazione riguardo alla situazione militare non sono uguali a quelli dell'omologo fascista. Il terri torio del Reich è intatto. L'Europa centrale e occiden tale rimangono sotto dominio tedesco e l'offensiva al leata in Italia meridionale resterà bloccata sulla linea Gustav, tra Napoli e Roma, sino alla primavera del 1 944. Hitler pensa dunque di poter resistere alla coa lizione russo-angloamericana sino al momento in cui le armi « terrificanti » che ingegneri e scienziati stanno preparando gli permetteranno di rovesciare le sorti del la guerra. Più i giorni passano e più si affermano, agli occhi .
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dei tedeschi, la dipendenza della Repubblica sociale e della s ua «guida virtuale » . Alla fine del 1 943 M usso lini deve riconoscere l'annessione al Reich della Vene zia Tridentina e della Venezia Giulia� Nel gennaio
1 944, sottoposto alla pressione congiunta degli ele menti più estremisti del Partito fascista repubblicano e di numerosi dirigenti nazisti, tra i quali il Fiihrer in perso na, Mussolini permette a un tribunale speciale riunito a Verona di condannare a morte suo genero Ciano, oltre a quattro congiurati del Gran consiglio : De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi, fucilati alla schiena. Questa condanna a morte che fece seguito a una parodia di processo sco nvolgerà ancora di più il Duce, che dentro se stesso ha persino perdonato a Cia no l'alleanza con i veri colpe�oli del 25 luglio, i Gran di, i Bottai e gli altri. Avrebbe voluto che un avveni mento esterno permettesse al marito di sua figlia Edda di salvare la pelle. Ma teme a tal punto di deludere Hi tler che non farà nulla per modificare la sentenza. Nel marzo 1 944 l'ambasciatore Rahn i nforma Hi tler del desiderio di Mussolini di i nco ntrarlo per otte nere una maggio re autonomia nei rapporti con l'allea to tedesco. L' incontro si svolge il 22 ap rile a Salisbur go , e per una volta il Flihrer permette al suo interlocu tore di esporre le proprie richieste in una lunga arri nga in tedesco che il Duce ha preparato con un impegno da bravo scolaro . Tuttavia si deve accontentare di va ghe promesse riguardo alla creazione di un esercito ita liano di cui valuta il potenziale effettivo in otto o dieci divisioni . I n realtà, Hitler non ha la minima intenzio-
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n e d i equipaggiare da cima a fondo una forza di tali dimensioni, tanto più che egli nutre un assoluto di sprezzo per le virtù guerriere dei suoi alleati latini. Le consegne dirette a Rahn non danno adito a dubbi su questo punto: «il Fiihrer riteneva che l'ambasciatore Rahn non dovesse farsi assolutamente imbrogliare
dal cuore ital � ano e cadere negli stessi errori dei suoi predecessori . E già stabilito da tempo che le truppe ita liane non siano più utilizzabili [ . . . ] Il meglio che pos sano fare sono tumultuose dimostrazioni nelle quali la gente si inebria. Una formazione veramente affidabile, pronta a combattere, non siamo in grado di costituirla
né noi né i nostri alleati ». Fa eco a tali parole questa affermazione attribuita al feldmaresciallo Keitel: «il so lo esercito italiano che non ci potrà tradire è un eser cito che non esiste ». Le quattro divisioni che i tedesc4i accettano infine di mettere in piedi e di addestrare nel territorio del Reich sono per questo mantenute nella più completa inattività, al punto che i soldati, demoralizzati e poco desiderosi di essere impiegati per compiti di manteni mento dell'ordine, cominciano a disertare. All a fine del 1 944 le divisioni avevano ormai perduto un quarto dei loro effettivi, senza che il Fiihrer si mostrasse par ticolarmente scosso per la massiccia defezione. I tede schi, in realtà, preferiscono di gran lunga arruolare gli italiani come operai nelle fabbriche del Reich che co me soldati. Intanto, in Italia, l 'esercito regolare era considerato talmente poco affidabile che non fu utilizzato affatto
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nella lotta contro i partigiani. S i preferì affidare questa missione a due entità: la milizia, le cui file si erano in grossate con ciò che restava del corpo dei carabinieri ed erano state trasformate in Guardia nazionale repubbli cana, e le Brigate nere, nelle quali dovevano confluire in linea di principio «gli iscritti al
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di età compresa
fra i 1 8 e i 60 anni e non appartenenti alle altre Forze Armate della Repubblica», cioè poco più di centomila uomini posti sotto il comando diretto di Pavolini.
LA
GUERRA CIVILE
Sino agli ultimissimi anni del XX secolo, la versione ufficiale ha ampiamente diffuso il mito di un'Italia prevalentemente ostile agli o ccupanti e di un pugno di fascisti irriducibili al soldo dei nazisti . Mito che, a ben guardare, è servito come fondamento per la demo crazia italiana. In realtà, il paese fu teatro per quasi due anni di una «guerra civile » che opponeva due mino ranze ferocemente determinate a distruggersi. 2 Da un lato i partigiani, in lotta non solo per liberare il paese dai tedeschi e dal fascismo, ma anche per promuovere una trasformazione radicale della società italiana. D al l' altro i combattenti che avevano scelto il campo della Repubblica sociale per fedeltà al regime caduto e al suo capo. Tra i due bandi, la gran massa degli italiani in attesa, smarriti e ossessionati dai problemi della vita quotidiana. S arà quindi principalmente contro il «nemico inter-
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no » che verranno impiegati i soldati e le forze di poli zia della Repubblica sociale. Mobilitati dal partito, gli uomini di Ricci, capo della G uardia nazionale repub blicana, e di Pavolini, si dedicheranno così a dare la caccia a partigiani ed ebrei, a seminare il terrore nelle z�ne disputate alla Resistenza, a rivaleggiare in atrocità con le ss nelle operazioni di rappresaglia rivolte contro le popolazioni civili, e di quando in quando a dare una mano alla G estapo. Quali furono, in questo sc�tenarsi di violenze, le re sponsa,bilità di Mussolini? Pressoché inesistenti per quanto riguarda le rappresaglie dell'esercito tedesco , che si tratti del massacro delle Fosse Ardeatine a Roma, nel marzo del 1 944, o degli altri eccidi perpetrati pochi mesi dopo a Sant'Anna di Stazzema e M arzabotto . L'unico istigatore di quelle atroci tà fu Kesselring, in obbedienza alle consegne di Hitler. Il D uce, tuttavia, ne ebbe conoscenza e non fece nulla per trattenere i suoi alleati . Così come a Roma l'ss Kappler poté stilare la lista degli ostaggi grazie all'aiuto della polizia fasci sta. Più importante fu invece il ruolo svolto dal ditta tore nell'azione intrapresa contro i partigiani dalle mi lizie e polizie parallele. Queste dipendevano per la maggior parte da Pavolini e da Ricci,3 due uomini che M ussolini vedeva ogni giorno e che, pur dotati di ampia autonomia, potevano agire solo con il suo pieno acco rdo. Il Duce, infatti, non aveva forse chiesto a G raziani, nel giugno 1944, di associare forze regolari alle azioni condotte contro i «fuorilegge »? « L' organiz zazio ne del movimento contro il banditismo » , dichia-
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rò in quell'occasione, « deve avere un carattere che col pisca la psicologia delle popolazioni e sollevi l' entusia smo delle nostre file unificate. Deve essere la marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea. »
ULTIMO TESTA A TESTA CON IL FOHRER
Nel l 944 Mussolini sembra superare lo sfacelo fisico e morale cui era stato soggetto fin dall'inizio della guer ra. Le notizie provenienti dai diversi fronti non sono tuttavia tali da poterlo rallegrare. Roma è caduta il 4 giugno, due giorni prima dello sbarco alleato in Nor mandia. Tre mesi più tardi Firenze è liberata, mentre a est i russi hanno praticamente ricondotto i tedeschi alla loro linea di partenza, avviando poi la conquista dei Balcani e della Polonia. Tuttavia, il Duce si sente me glio. Ha recuperato peso. Le sue crisi di coliche gastri che sono meno frequenti e meno dolorose grazie, pare, alle cure che gli prodiga il dottor Zachariae, un medico tedesco inviatogli da Hitler. Mussolini ha più bisogno di parlare che di medicine. In luglio il dittatore si reca in Germania per un nuo vo incontro con il Ftihrer. Quando Mussolini arriva il giorno 20 a Rastenburg, Hitler è appena sfuggito a un attentato dinamitardo organizzato dal colonnello von Stauffenberg, e si presenta all'incontro accompagnato da Ribbentrop, Himmler, Donitz, Keitel e Bormann, spiegando che gli hanno fatto esplodere vicino un « or digno infernale » . Mussolini, che spesso si è sentito in
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posizione di inferiorità risRetto al suo ospite, prova per lui una compassione accresciuta dal timore che gli ispi ra l'improvvisa rivelazione della vulnerabilità del pote re hideriano; ma nel contempo sente anche un certo giubilo interiore. Come confiderà più tardi a Barracu, sottosegretario alla presidenza, non gli dispiace consta tare di non essere l'unico dittatore « circondato da tra ditori » . 4 Ha inoltre la soddisfazione di rivolgersi a un interlocutore attento alle domande del suo alleato ri guardo al rimpatrio delle divisioni fasciste stazionanti in Germania e alla situazione dei militari italiani inter nati dopo l'armistizio dell' 8 settembre nelle zone occu pate dalla Wehrmach t. Di ritorno a Gargnano, Mussolini constata subito che Kesselring non ha la minima intenzione di esaudi re tutte le sue richieste, in particolare quelle che riguar dano il trasferimento e l'impiego delle quattro divisio ni italiane trattenute nel territorio del Reich. Di esse, solo due ottengono di essere rimpatriate nell'Italia set tentrionale per dar vita, con tre divisioni tedesche, a un'armata il cui comando è affidato a Graziani. Tutta via, non si prende neppure in considerazione l'idea di inviare quelle truppe a combattere contro gli Alleati sulla « linea gotica ». L'armata Liguria, anzi, avrà per unica missione la caccia ai partigiani nelle valli alpine e la realizzazione di azioni di controguerriglia urbana. Mussolini ha un bel protestare presso l'alto coman do tedesco: non ottiene soddisfazione, né riesce a con vincere i capi della Wehrmacht e delle ss a non proce dere a sanguinòse rappresaglie il cui effetto principale,
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spiegava a Rahn, sarebbe stato quello di fomentare l'o dio della popolazione civile contro l'antico alleato, di venuto ormai forza di occupazione e di tortura. E in fatti scrive: «È necessario dare ai ventidue milioni di italiani della valle Padana l'impressione che esiste una repubblica; esiste un governo ; che questo governo è considerato un alleato e che [ . ] il suo territorio non è più considerato come 'preda di guerra' ».5 La prossimità di un esito della guerra che appare ogni giorno meno favorevole a Hitler spinge il Duce a prendere le distanze dai tedeschi . Egli pensa di poter così addolcire la sorte che gli Alleati riserveranno ai dirigenti della RSI e a lui stesso . Mentre non ha quasi reagito ai tempi del massacro delle Fosse Ardeatine, . . . ora com1nc1a a protestare con sempre maggwre violenza presso le autorità tedesche dopo ogni esecuzione di ostaggi, per esempio quando quindici detenuti po litici sono fucilati nell'agosto 1 944 a Milano per con to delle ss da ùn distaccamento della legio ne Ettore Muti, e poi esposti in piazzale Loreto, nello stesso luogo dove dei partigiani comunisti ayevano fatto sal tare un camion della Wehrmacht con i suoi passegge ri. Si tratta però di pura agitazione verbale, che avrà l' unico effetto di disturbare i tedeschi, senza per que sto riavvicinare la popolazione civile alla Repubblica sociale e al suo capo. .
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Addio, Milano!
Dopo aver liberato Firenze, a fine agosto del 1944 gli Alleati si trovavano lungo la linea Pisa-Pesaro, a circa duecento chilometri da Milano. Avrebbero certo potu to fare avanzare ulteriormente l'offensiva, ma il mare sciallo Alexander decise per una pausa prima dell'in verno e fermò le truppe nelle vicinanze di Bologna. Nel corso di tali operazioni Forlì fu occupata e la resi denza estiva di Mussolini, La Rocca delle Caminate, venne saccheggiata dalla popolazione locale.
IL PROGETTO DEL «RIDOTTO ALPINO»
Per i dirigenti fascisti, così come per i loro alleati, era ormai giunta l'ora di trasferire il governo della RSI in un luogo più sicuro di Salò e di pensare alla realizza zione di un « ridotto alpino » per l'ultima resistenza. L'idea riasceva dal progetto, spesso accarezzato da Mussolini, di una fine del fascismo eroica, che offrisse alla posterità l'immagine di una mitica impresa schiac ciata dal numero e dalla potenza dei mercenari e dei « plutocrati ». Si sarebbe così assicurato il passaggio del testimone alle generazioni future, e si sarebbe co-
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struita la certezza di poter perpetuare la speranza m una nuova rivoluzione fascista. Di concerto con le aut� rità tedesche, si presero in considerazione tre zone. Pavolini, ascoltato sia da Mussolini sia da Kesselring, propendeva per la Valtel lina, a nord di Como. Già 1' 8 settembre così scriveva al capo della RSI: Duce, il progetto - nella deprecabile eventualità di una ul teriore e pressoché completa invasione del territorio repub blicano -di arroccarci con le Camicie Nere, con le nostre armi e con il nostro governo in una zona difendibile quale la provincia di Sondrio e parte di quella di Como, appare, mi sembra, la soluzione più logica e degna. [ . . ] D'altra parte, una nostra resistenza nella Valtellina e in torno all'Adamello proteggerebbe il fianco germanico nel l'Alto Adige. Da ogni punto di vista mi sembra che la con venienza politica e ideale dell'Alleato coincida con la no stra.1 .
Rahn però non la vedeva allo stesso modo. L'ambascia tore tedesco preferiva in realtà il Friuli o la Carniola, temendo che la vicinanza della frontiera svizzera potes se spingere i soldati a scegliere l'internamento in un paese neutrale piuttosto che un combattimento senza speranza. Alcuni dirigenti fascisti parlavano della Val d'Aosta o di Trieste, la cui difesa non avrebbe potuto non risvegliare il ricordo della spedizione di Fiume, . preludio dell'ascesa al potere del movimento fascis ta. Altri ancora, infine, proponevano l'Alto Adige, ma Pa-
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volini non voleva inviare i suoi uomini in una regione che obbediva a un gauleiter, cioè a un'autorità civile te desca. « Apprendo [ . . . ] », scrive a Musso lini, « che il progetto ·tedesco accorda la preferenza a Merano o a una zona vicina. Inutile dirvi, Duce, che una tale solu zione priverebbe di ogni valore la nostra proposta di una resistenza finale del fascismo mussoliniano in una fortezza naturale italiana. A Merano non si avreb be che un governo fantasma, ospitato di malagrazia dal gauleiter di Hitler. >>2 La scelta di Mussolini cadde alla fine sul progetto sostenuto dal segretario del partito e dal commissario federale di Milano, Vincenzo Costa. Quest'ultimo ave va convinto il Duce che la Valtellina offriva considere voli vantaggi. Essa formava infatti, a nord del lago di Como, un ridotto difficilmente accessibile costituito dalla valle dell'Adda. Quest'ultirna era ancora costella ta di fortini risalenti alla prima guerra mondiale, pro duceva la propria elettricità e albergava vari sanatori dove si sarebbero potuti curare i feriti. Infine, si colle gava comodamente alla Svizzera e alla Germania attra verso i passi del Bernina e dello Stelvio. Non tutti i membri del governo condividevano l'en tusiasmo di Pavolini per una soluzione la cui messa in opera sarebbe stata affidata al partito . I sostenitori del l' estremo combattimento per l'onore facevano gruppo intorno al segretario dell'organizzazione fascista repub blicana, a Barracu e a Mezzasoma, il quale era a capo del Minculpop, il ministero della Cultura popolare. Gli altri ministri invece insistevano per un negoziato
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con i capi della Resistenza e con gli Alleati, al fine di assicurare un esito pacifico della guerra civile e un pas saggio di poteri indolore. Lo stesso Graziani, che nes suno poteva sospettare di connivenza con il gruppo dei moderati, respingeva il piano di Pavolini giudicandolo uomo troppo legato al partito, cosa che ai suoi occhi era incompatibile con la tradizione « apolitica » dell'e sercito. Egli fece chiaramente intendere che nel caso si fosse realizzato il progetto della Valtellina lui e i suoi ufficiali se ne sarebbero tenuti a distanza. Constatato che il più alto rappresentante delle gerar chie militari italiane rifiutava di mescolare le sue trup pe ai combattenti della Guardia nazionale repubblica na e ad altri brigatisti in camicia nera, Mussolini decise di andare avanti comunque e incaricò ufficialmente Pavolini di avviare il progetto del ridotto alpino così come l'aveva concepito . La decisione fu presa a metà settembre nel corso della visita del Duce a Milano, nel lo stesso momento in cui veniva bocciata l'idea di un governo in esilio con rifugio in Germania. Si creò un comitato che doveva dare contenuto concreto al piano di riunire in Valtellina un nucleo di combattenti il cui primo compito sarebbe stato quello di ripulire la zona mol�iplicando le azioni contro i partigiani. Si è sostenuto che il progetto del ridotto alpino non andò mai oltre lo stadio della propaganda e dell'illusio ne. Abbondano invece i documenti che provano il contrario, sia di fonte fascista, per la maggior parte no te e dispacci indirizzati al Duce da Pavolini, sia prove nienti dal campo opposto, in particolare dal « gruppo
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Montezemolo», il serviZIO informazioni della lotta clandestina. A partire dalla fine di febbraio le informa zioni dirette agli Alleati e ai dirigenti della Resistenza in Italia del Nord danno notizia di una concentrazione di unità appartenenti alle Brigate nere nelle zone di Como, Varese e Sondrio, e dell'awio della costruzione di una linea difensiva che incorpora opere esistenti sin dalla guerra del 1915-1 918 . Un rapporto del gruppo clandestino datato 1 1 aprile indicava che le forze fasci ste concentrate in Valtellina ammontavano già a otto mila uomini e che erano destinate ad « aumentare con l'afflusso di tutte le forze fasciste del Piemonte, Ligu ria, Emilia, Romagna, Lombardia a comprendere 40.000 uomini».3 L'esistenza di una forza militare del tutto dipenden te dal Partito fascista repubblicano e pronta, come si assicurava, a sostenere un' ultima esemplare battaglia, è tanto poco una chimera che l'annuncio della sua creazione scavalca presto le Alpi e si diffonde in Fran cia nei circoli collaborazionisti. Fu così che nell'inver no 1 944-1 945 si videro affluire nella provincia di Son drio circa 600 uomini, per la maggior parte giovani appartenenti alla milizia francese desiderosi, a un tem po, di sfuggire alla giustizia sommaria degli « epurato ri » e di partecipare all'ultima battaglia del fascismo. Joseph Darnand, che dopo la fuga in Germania era stato inviato dai nazisti nell'Italia settentrionale per combattere i partigiani, sarà in aprile al fianco dei mi liziani fascisti prima di riunirsi ai tedeschi a Bolzano, in Alto Adige, e di tornare quindi in Valtellina, a Ti-
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rano. Sarà in questo piccolo centro della provincia di Sondrio che parteciperà al s uo ultimo combattimento, alla testa di un battaglione della milizia e di qualche decina di ss. Mussolini aveva lasciato a Pavolini carta bianca nel l' organizzazione della faccenda. Tuttavia incaricò an che Giorgio Pini, suo fedele ed ex direttore del
d'Italia
Popolo
divenuto a S alò sottosegretario del ministero
degli Interni, di recarsi in Valtellina nel marzo 1 945 per valutare l'entità delle forze partigiane. Il rapporto
che Pini gli in�iò rende conto di un equilibrio molto precario tra le truppe fasciste e quelle della Resistenza;
ma il D uce non prestò fede a tale giudizio . Pavolini gli aveva promesso di riunire tutti gli uomini e il materiale necessari per affrontare un lungo combattimento con tro gli
«
invasori » angloamericani e i loro alleati comu
nisti, e M ussolini non aveva alcun motivo per dubitare della parola dell'ex ministro del M inculpop. In aprile Asvero Gravelli effettuò un secondo sopral luogo . Gravelli era un altro vecchio compagno d'armi del D uce, squadrista della prima o ra e membro del pri mo fascio milanese, divenuto negli anni Trenta uno dei principali dirigenti dell'organizzazione giovanile fascista e a Salò sottocapo di stato maggio re della Guardia nazionale repubblicana. Il rapporto redatto da Gravelli non era più ottimista di quello del collega. L' autore constatava in particolare che la strada Como Menaggio, scelta per permettere a M ussolini di rag giungere la Valtellina seguendo la sponda occidentale del lago, era gravemente minacciata da formazioni par-
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tigiane, mentre p resentava mi nori rischi di intercetta zione la strada Lecco-Colico-Sondrio, che correva lun go la riva orientale del lago ed era controllata dalla le gione della Guardia e dal gruppo corazzato Leonessa. Anche G ravelli non fu ascoltato. Se lo fosse stato, il di ttatore avrebbe certo conosciuto una fine diversa. Nel frattempo , era necessario ottenere il benestare dei tedeschi al progetto di ripiegamento in Valtellina. Dalla fine di febbraio questi ultimi avevano avviato ne goziati con gli angloamericani per una resa incondizio nata, e si erano ben guardati dall' informare gli italiani delle trattative. Il 1 4 aprile, ci nque giorni dopo l'inizio dell'offensiva alleata contro la linea gotica, si tenne a Gargnano una riunione cui parteciparono in rappre sentanza degli italiani M ussolini, Pavolini, Graziani e Anfuso , con Wolff, Dollmann, Rahn e Vietinghoff (il successore di Kesselring) per la parte tedesca. In ca po a due o re la seduta fu sciolta senza aver raggiunto alcuna decisione. Pavolini si credette autorizzato a pro seguire i preparativi per la difesa del ridotto alpino, sempre assai criticato da Graziani e da altri ministri del governo rep ubblicano, ma approvato dal Duce e tacitamente accettato dal Reich. In gennaio, saputo del piano elaborato dal numero uno del Partito fascista repubblicano, Wolff si era re cato da Mussolini per comunicargli che, come da im pegni presi, l'impiego della Guardia nazionale era di competenza esclusiva dei tedeschi e che non poteva es sere ammessa alcuna diversa disposizione al riguardo . Ciò equivaleva a dire che vietava una concentrazione
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di truppe italiane in Valtellina, passibile di ostacolare il ripiegamento della Wehrmacht e di costringerla ad af frontare combattimenti poco desiderati dall'alto co mando contro i partigiani e le avanguardie alleate. Du rante la riunione del 1 4 aprile Wolff si mostrò molto meno intransigente, al pari dei suoi colleghi, con ogni probabilità perché a quella data i tedeschi erano ormai prossimi alla decisione di firmare un accordo di resa. l vari protagonisti erano dunque a questo punto delle trattative quando, il 1 6 aprile, Mussolini riunì il suo gabinetto a Gargnano per annunciare il trasferimento immediato del governo a Milano.
ScHIARITA MILANESE
Non era la prima volta che il capo della Repubblica so ciale pensava al ritorno nella capitale lombarda. Dietro pressioni tedesche aveva accettato di essere relegato lontano dalla sua cara Milano, in un sito considerato « incantevole », e certo meno esposto ai bombardamen ti alleati, ma dove si sentiva isolato e dove sapeva bene di essere sorvegliato . Inoltre, detestava tutti i laghi, i cui climi e paesaggi lo rendevano malinconico . Il lago di Garda non faceva eccezione. Mussolini poteva a ri gore comprendere che un esteta come Gabriele D'An nunzio godesse dello scenario di cartapesta del Vitto riale, a Gardone Riviera, ma lui non era uomo da ac contentarsi di un esilio dorato . Sperava dunque di po tersi insediare con il governo nella città degli Sforza,
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magari grazie a un evento inatteso e favorevole nel campo degli Stati totalitari, come per esempio l'impie go di quelle armi«terrificanti » di cui Hitler continua va a vantargli i meriti. Milano era per Mussolini la città della seconda na scita. Renzo De Felice ha ragione quando scrive che, contrariamente a quanto affermato da molti suoi bio grafi, la personalità del Duce, il suo carattere, la sua vi sione del mondo, dipendevano più dai dieci anni pas sati a Milano che dai tratti considerati generalmente caratteristici delle popolazioni della Romagna, definiti dagli italiani romagnolità. Gli anni milanesi, afferma De Felice, « nel momento decisivo della sua formazio ne morale e politica, ebbero ben più importanza dei circa venticinque trascorsi nella natia Romagna ». 4 E a rinforzo di questa idea cita un altro biografo del dit tatore, Giuseppe Prezzolini, per il quale Mussolini «non ha la mentalità agraria » . «Egli non è >>, scrive Prezzolini, « il prodotto della società agricola roma gnola », ma « nasce dal ferro di una fucina di fabbro e cresce fra le armature e i camini delle grandi industrie milanesi. »5 A Milano Mussolini aveva conosciuto la consacra zione come dirigente socialista e direttore dell'Avanti! Sempre a Milano era nata la relazione sentimentale che sarebbe durata più di vent'anni con Margherita Sarfat ti, una giovane borghese veneziana di religione ebraica di cui lui fece la sua compagna e collaboratrice e che fu, tra tutte le donne che conobbe e a volte amò, la più importante. Infine, all'indomani della guerra, nella
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capitale lombarda era nata l' avvent�ra fascista che ave va portato l ' ex socialista rivoluzionario nei primi ran ghi della contestazione antimarxista e antiliberale come preludio all'instaurazione di una dittatura che avrebbe conquistato milioni di adepti nell'Europa tra le due guerre. Come non provare una certa nostalgia al ricor do di quei dieci anni? Quando, con l'evoluzione della geografia di guerra, si pose il problema del trasferimento del governo in una località più sicura della riva del lago di Garda, Mussolini ebbe nondiméno qualche esitazione nel pro spettare un insediamento a Milano. Sino ad allora ave va evitato di recarsi in quella città che, si diceva, gli era ormai nemica. Anche in occasione della commemora-_ zio ne dell'anniversario della marcia su Roma, il 28 ot tobre, il Duce aveva declinato l'invito a parlare ai mi lanesi. Perché dunque cambiò opinione dopo sei setti mane? Fu forse a causa dell'insistenza di Ribbentrop e Rahn, che lo esortavano a mostrarsi più spesso e a ri volgersi al popolo? Mussolini, cui non piaceva ·ricevere lezioni da nessuno, in particolare sul tema delle sue re lazioni con gli italiani, colse al volo l'occasione per ten tare di affermare la propria autonomia nel momento in cui i tedeschi progettavano di trasferire il governo repubblicano secondo il loro interesse. Volevano che parlasse ai suoi compatrioti? Ebbene, non avrebbe cer to rinunciato a farlo! E per di più nella città stessa che si riteneva passata in massa all'antifascismo. Fu così che il 9 dicembre Mussolini annunciò ai membri del suo gabinetto che aveva deciso di fare un discorso pub-
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blico a Milano, e di trasferire il governo nella metropo li lombarda. Il 1 6 dicembre 1 944, quando fece il suo ingresso al Teatro Lirico, nel quale lo attendeva un pubblico nu meroso ed elettrizzato, il Duce fu accolto da un'im mensa acclamazione. Era la prima volta che ricompa �iva in pubblico a Milano dal 1 936, e quello fu l'ulti mo discorso che pronunciò davanti a un vasto audito rio composto, a dire il vero, solo da militanti selezio nati con cura. Che cosa fu a stimolarlo? Forse l' annun cio, quello stesso giorno, dell'offensiva lanciata da Rundstedt nelle Ardenne? O il desiderio di sfidare i te deschi? Fatto sta che, come nei più bei giorni del fasci smo, la sua interpretazione fu brillante, interrotta dalle grida e dagli applausi dei fedeli. Come un vecchio at tore che ritrova il suo pubblico dopo un lungo periodo di oscurità, Mussolini seppe ricreare per qualche mi nuto quella magia di gesto e parola che aveva così spes so infiammato le folle. Dopo aver inveito ancora una volta contro il tradi mento che aveva provocato la rovina dell'Italia, e dopo aver esaltato l'immenso « sforzo » compiuto dalla Re pubblica sociale nella lotta contro « forze reazionarie, plutocratiche » a fianco del Reich hitleriano, promette va di non deporre le armi prima della vittoria finale e di difendere la valle del P o« con le unghie e coi denti ». Evocò le armi segrete che, secondo Hitler, avrebbero modificato radicalmente il corso delle operazioni di gu�rra. Ma soprattutto parlò dell'avvenire della Re pubblica sociale, della volontà di applicare il manifesto
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di Verona e di dare al regime un orientamento confor me agli ideali rivoluzionari del fascismo originario. Di chiarò inoltre che, sebbene il partito unico dovesse ri manere il « responsabile della direzione globale dello Stato », sarebbe stato possibile e utile, « a un dato mo mento della evoluzione storica italiana », permettere l'esistenza « di altri gruppi, che [ . . ] esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica ». Esaltato da questo primo successo Mussolini vuole verificare un campione più vasto di popolazione mila nese. Per due giorni, il 1 7 e il 1 8 dicembre, percorre la città su una vettura scoperta, sostando di quando in quando per un bagno di folla più o meno improvvisa to. Approfittò anche della congiuntura favorevole per recarsi in pellegrinaggio in alcuni dei luoghi più im portanti dell'epopea fascista, in particolare in piazza San Sepolcro, dove un quarto di secolo prima era nato il movimento e dove Pavolini preparò un'infiammata manifestazione a favore del D uce. Ad ogni sosta que st'ultimo arringava i suoi seguaci, provvisoriamente re suscitati . Lui stesso sembrava ringagliardito dalle di mostrazioni di fedeltà di quei milanesi che si diceva fossero ormai del tutto votati alla causa dell ' antifasci smo e che invece, numerosi, non avevano esitato a in dossare la camicia nera per acclamare il loro idolo ca duto . Di ritorno a Gargnano , dove nessuno parlava più di trasferire il governo nella capitale lombarda, Mussolini ricade presto in un ' amara malinconia, e a un amico che si felicita con lui per la prestazione milanese e .
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per il breve ritorno di fiamma seguito al discorso del Teatro Lirico risponde: «Cosa è mai la vita? Polvere e altari, altari e polvere».
TRATTATIVE TEDESCHE
E
ILLUSIONI FASCISTE
I negoziati segreti condotti dai tedeschi per tentare di ottenere l ' interruzione delle ostilità sul fronte italiano iniziarono nell'autunno del 1 944 ed ebbero quale atto re p rincipale il
Reichs.fohrer Himmler.
Nelle alte sfere
naziste si sperava che una pace separata o un semplice armistizio per questa sola zona di operazioni avrebbero permesso di trasferire sul fronte orientale, di gran lun ga il più minacciato, le divisioni impegnate in Italia settentrionale. Infatti sin dalla primavera del 1 944, quando Roma non era ancora stata liberata, si erano già stabiliti dei contatti a titolo personale tra importanti personaggi romani, vicini alla corte e alla santa sede, e i due p rin cipali rappresentanti del Reich in Italia settentrionale: l'ambasciatore Rahn e il generale delle ss Karl Wolff, responsabile supremo della polizia tedesca. Il collega mento fu assicurato dal colonnello delle ss Dollmann, grande co noscito re dell'Italia, della sua lingua e della sua cultura, molto introdotto nei circoli dell'aristocra zia « nera » e indirettamente negli ambienti capaci di favorire un incontro con il sommo pontefice. Wolff fu il primo a essere ricevuto, il l O maggio, da papa Pio XII. A dire del generale ss il colloquio fu cor-
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diale e permise di stabilire una prima « testa di ponte » tra gli occupanti della Città eterna e il capo spirituale della cattolicità. Nulla di più, se non un incoraggia mento del santo padre a organizzare un nuovo incon tro destinato a « definire meglio le prospettive e le mo dalità di una soluzione di pace » . Non si andò oltre per due ragioni: la caduta di Roma, dopo tre settimane cir ca, e la sconfessione formale dell'iniziativa ad opera di Ribbentrop, che Wolff aveva ritenuto di informare della visita in Vaticano. Secondo Ribbentrop, infatti, la visita era stata un'ingerenza inammissibile in un campo di sua competenza. Anche Rahn, ricevuto a sua volta dal papa solo pochi giorni prima della libera zione della città, si mostrò « impressionato » dalla sua lucidità e dalla sua volontà di pace. Ma gli Alleati si trovavano ormai alle porte della capitale e dovette quindi ammettere che la chiave per una pace separata o per un armistizio parziale non si trovava ormai più a Roma, ma a Milano o in Svizzera. Fu dunque Himmler, il cui ruolo e il cui potere era no considerevolmente aumentati dopo l'attentato di Stauffenberg, a riprendere in autunno le trattative se grete con gli Alleati. Il suo obiettivo era chiaro. Con siderando che la partita fosse perduta in Italia, come lo era stata in Francia dopo lo sbarco in Normandia, e che il nemico principale dell'Occidente fosse ormai il comunismo, perché non proporre agli Alleati di scam biare un cessate il fuoco in Italia con la promessa di utilizzare le forze rese in questo modo disponibili, cioè venticinque divisioni, per fermare l'avanzata sovietica e
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« salvare la civiltà » ? Il destino della Repubblica soçiale e del suo capo, in caso di riuscita del progetto, non sembrano aver minimamente preoccupato il Reichsfoh rer. Egli aveva addirittura evitato di riferirne al Fiihrer, i cui sentimenti di amicizia verso il Duce avrebbero ri schiato di mandare a monte il piano. Non vi fu comunque bisogno di tale intervento perché tutto finisse in nulla. Le trattative che ebbero luogo in Svizzera e poi a Cernobbio, in provincia di Como, tra l'emissario tedesco, il generale Harster, e un rappresentante del padronato italiano, Marinotti,6 si scontrarono con il rifiuto alleato di qualsiasi formu la si discostasse dal principio concordato a Casablan ca, cioè quello della resa incondizionata. Anche le trattative che si svolsero tra l'autunno del 1 944 e l'a prile del 1 945 tra il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, e i tedeschi Wolff, Rahn e Dollmann, assistiti dal colonnello Rauff, fallirono a causa della doppiezza delle autorità del Reich; o meglio, servirono da coper tura ad altri negoziati di estrema importanza condotti in territorio elvetico nel corso delle ultime settimane di guerra. Le trattative che dovevano portare alla capitolazione delle forze tedesche in Italia settentrionale furono av viate da un nobile napoletano, il barone Luigi Parrilli . Quest'ultimo, in contatto sin dalla fine del 1 943 con Guido Zimmer, capo del controspionaggio nazista a Milano, aveva come principale preoccupazione il sal vataggio dell'industria italiana da una distruzione mas siccia nel caso che i tedeschi e i loro alleati fascisti aves-
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sera deciso di intraprendere 1a politica della terra bru ciata. Fu davvero questa l'unica ragione che spinse il rappresentante della vecchia classe dirigente italiana a prendere contatto con gli agenti dell'oss (Offìce of Strategie Services) , i servizi segreti americani, e con il loro capo, Allen Dulles, per avviare in Svizzera tratta tive segrete in vista di un cessate il fuoco onorevole per entrambe le parti? O non si trattava piuttosto di salvare l'industria italiana da una « socializzazione » di cui Mussolini aveva annunciato l'imminenza nel discorso del 1 6 dicembre a Milano? Dal gennaio 1 944 il capo della Repubblica sociale aveva creato un ministero dell'Economia corporativa, incaricato di promuovere la trasformazione delle strut ture prevista nel programma di Verona, e l'aveva affi dato al chimico Angelo Tarchi, suscitando una viva re sistenza. Quella degli industriali minacciati di naziona lizzazione, naturalmente, e quella dei gruppi svizzeri che detenevano un quarto del capitale investito nelle industrie dell' Italia settentrionale, in particolare nel settore idroelettrico, cioè quello più minacciato. Ma la resistenza alle nazionalizzazioni proveniva anche dal ministero tedesco della Produzio � e industriale, preoccupato che si potesse giungere alla paralisi di in dustrie essenziali per la produzione bellica. Di conse guenza, la realizzazione del processo fu continuamente ritardata. I primi decreti di nazionalizzazione compar vero solo nel febbraio del 1 945, seguiti in marzo da una seconda ondata: la maggior parte delle grandi im prese siderurgiche, meccaniche, chimiche e giornalisti-
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che fu colpita da quelle misure, e tra esse Fiat, Monte catini, Acciaierie e Ferriere Lombarde (Falck) , Alfa Romeo, Dalmine ecc. La riforma, decisa da un governo senza più scampo, distante dalla popolazione e posto sotto tutela tedesca, arrivava troppo tardi per raggiungere l'obiettivo di riavvicinare al regime le masse operaie. Prova ne furo no le elezioni organizzate per insediare i comitati inca ricati della cogesti Ò ne delle future imprese nazionaliz zate: nelle fabbriche Fiat si recarono alle urne dal tren ta al quaranta per cento degli impiegati, ma tra gli ope rai si registrò solo un dieci per cento di votanti . Se Mussolini fallì nel progetto di mobilitare una clientela popolare che ormai da tempo aveva preso le distanze dal fascismo, vi furono tuttavia alcune persone che presero in parola il capo del governo e tentarono di gettare insieme a lui le basi di un « ponte » tra sociali smo e fascismo. Loro capofila era Edmondo Ciane, un giovane filosofo napoletano discepolo di Benedetto Croce, convertito al socialismo e dotato di amici in en trambi i campi. Grazie alla mediazione di Carlo Alber to Bigini, ministro dell'Educazione nazionale della RSI , il Duce fece la conoscenza di questo personaggio, che gli fu descritto come un antifascista idealista e poco pe ricoloso che sognava di riconciliare il rosso e il nero. Convocato a Gargnano, Ciane espose i suoi piani a un Mussolini tanto più interessato quanto più vedeva avvicinarsi l'ora della capitolazione. Piuttosto che ar rendersi agli Alleati, dei quali poteva facilmente imma ginare quale sorte gli avrebbero riservato, perché non
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negoziare una trasmissione indolore del potere con i rappresentanti della Resistenza, che erano certo nemi ci, ma anche suoi compatrioti? Non aveva già preso contatto con vecchi socialisti, in particolare con Carlo Silvestri? Ex giornalista del Corriere della Sera di Luigi Albertini, questi era stato tra i più virulenti accusatori di Mussolini all'epoca dell'assassinio di Matteotti. Il suo coraggio gli era valso la persecuzione dei fascisti, che lo avevano arrestato, picchiato e inviato al confino nella « galera di fuoco » del Mezzogiorno prima che fosse liberato per intervento personale del Duce. Nel dicembre del 1 943 aveva ottenuto di essere ricevuto dal capo del governo . Aveva da poco creato un'orga nizzazione, la Croce rossa socialista, destinata ad assi stere gli antifascisti imprigionati. Mussolini non si era opposto all'iniziativa e anzi aveva confidato al suo segretario Dolfin: « Silvestri è un uomo interessante, con il quale avremo dei contatti. E un vecchio socialista che non mi è sempre stato amico, ma ama il paese e ciò basterà per intenderei )> . Fu l' inizio di una serie di incontri da cui nacque una raccolta di articoli a firma Giramondo pubblicati dal Corriere della Sera tra il marw e il maggio del 1 944. In essi Silvestri esponeva le sue idee, tendenti a una riconciliazione tra le frazioni più moderate del neofascismo e della Resistenza. L'incontro con Edmondo Cione faceva parte della stessa strategia e doveva portare alla costituzione di un nuovo movimento, il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista: un effimero gruppuscolo che riuniva intorno a Cione alcuni idealisti sino ad allora '
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poco implicati negli affari politici, qualche fascista a caccia di riabilitazioni future e un piccolo numero di vecchi socialisti o presunti tali. I veri socialisti, impe gnati per la maggior parte nei ranghi della Resistenza, resteranno invece sordi agli appelli del filosofo napole tano. Il Raggruppamento, dotato a fine marzo di un organo di stampa, L'Italia del popolo, riceve solo indif ferenza dalle masse italiane e scompare con la Repub blica sociale, non prima di essere stato violentemente attaccato dai fascisti più intransigenti.
RITORNO A M ILANO Mentre Mussolini si affannava . a trovare un terreno d'intesa con i socialisti impegnati nella Resistenza, i te deschi proseguivano i negoziati avviati con i servizi se greti inglesi e americani. Il direttore dell'oss , Allen Dulles, aveva inizialmente inviato in Svizzera Paul Blum, uno dei suoi migliori collaboratori, per discute re con Wolff, Rahn e Dollmann le condizioni di un'e ventuale resa nazista. Ai primi di marzo decise invece di recarsi personalmente a Zurigo, presto seguito da due delegati del comando alleato: un britannico, Airey, e un americano, il generale Lemnitzer. I tre attesero ad Ascona che la situazione decantasse in vista dell' apertu ra dei negoziati ufficiali. Il capo della Repubblica sociale fu come al solito te nuto completamente all'oscuro di quelle trattative se grete, che sembrò dovessero risolversi con un cessate
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il fuoco sul fronte italiano prima che una serie di osta coli le facessero naufragare. In primo luogo, il feldma resciallo Kesselring, che aveva finito per autorizzare i negoziati, fu trasferito sul fronte del Reno e sostituito da Vietinghoff. Inoltre, Himmler sconfessò il suo vec chio braccio destro Wolff, cui rinfacciava di aver agito da solo e di aver incontrato D ulles e il segretario Gae vernitz a sua insaputa. A Berlino, dove fu convocato dal
Reichsfohrer e da Kaltenbrunner,
capo dell'so (ser
vizio di sicurezza) e dell'RSHA (polizia di sicurezza) , il generale ss fu invitato a starsene tranquillo mediante discrete minacce di rappresaglie ai danni della famiglia.
I due dirigenti nazisti non erano affatto contrari alla firma di una pace separata, ma intendevano essere i soli a prendere l 'iniziativa. Il terzo ostacolo, e non certo il più semplice da su perare, veniva dal Fiihrer in persona. Nuovamente convocato da Himmler e da lui accusato di tradimen to, Wolff dovette recarsi fin nel bunker di H itler accom p agnato da Kaltenbrunner, che lo sorvegliava da alcuni mesi e si era ripromesso di sbarazzarsi di lui.
A metà aprile la disfatta militare del Reich era divenuta ineluttabile. I combattimenti proseguivano su tutti i fronti, ma nessuno , a parte il dittatore allucinato della «Grande Germania » , aveva dubbi sull'esito delle ulti me battaglie. Wolff tentò di difendere la propria causa di fronte a un fantoccio disarticolato , curvo , dal volto devastato e gli occhi iniettati di sangue. S tranamente, e al contrario di quanto si aspettava Kaltenbrunner, il Fiihrer finì per calmarsi e si accontentò di rimp rovera-
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re a Wolff l'« incredibile iniziativa di trattare a mia in saputa », intimando gli di rientrare in Italia per comu nicare alle autorità tedesche una serie di ordini formali: « Torni in Italia e dica a von Vietinghoff di difendersi fino all'ultima goccia di sangue. Ha capito? Questo è il mio ordine! Resa incondizionata. . . Che sciocchezza! [ . . ] E per le sue trattative, aspetti che gli alleati si ri mettano loro in contatto con lei . Lo faranno, lo faran no . Resa incondizionata . . . Ridicolo » .l Al suo ritorno Wolff dovette constatare che i nego ziati tra angloamericani e tedeschi erano molto progre diti dopo la sua partenza. Il 22 aprile i capi nazisti de signarono i plenipotenziari militari incaricati di recarsi in Svizzera per firmare la resa. Il 23 mattina, dopo aver dato istruzioni per il trasferimento del quartier genera le a Bolzano, lui stesso prese la strada della Svizzera, certo che più nulla avrebbe potuto impedire ai due bel ligeranti di mettere fine ai combattimenti in Italia set tentrionale. Si sbagliava. Un ostacolo dell'ultima ora - e di quale peso! - ritardò ancora una volta la firma dell'accordo. Informato l' 1 1 marzo dal maresciallo Alexander sullo svolgimento dei colloqui tenuti in territorio elvetico, Stalin aveva manifestato la sua opposizione all'idea dell'armistizio, che sarebbe divenuto l'inevitabile pre ludio a una pace separata, e al trasferimento delle divi sioni tedesche sul fronte orientale. Roosevelt, cui pre meva molto mantenere la « grande alleanza », si era mostrato conciliante, accettando se necessario la pre senza dei sovietici ai negoziati. Ma dopo la sua morte, .
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avvenuta il 1 2 aprile, il nuovo presidente americano Truman, privo di qualsiasi esperienza in materia, pre ferì temporeggiare e sospese il processo già avviato pro prio mentre i plenipotenziari tedeschi varcavano la frontiera svizzera. La situazione era dunque apparente mente inestricabile, e sul terreno i combattimenti con tinuavano. Quando poi sembrò che le trattative tra belligeranti dovessero sbloccarsi per l'accettazione da parte russa di un cessate il fuoco che portasse alla capitolazione del l' esercito tedesco, tutto fu rimesso in forse da una nuo va complicazione, dovuta questa volta alla presenza di divisioni in seno allo stato maggiore nazista. Che cosa fu a seminare confusione? L'arrivo di un plenipoten ziario tedesco a Caserta, dove era prevista la firma del testo della resa, o l'intersecarsi di una serie di riva lità personali? Il ritorno di Kesselring sul fronte meri dionale ebbe in ogni caso l'effetto di avvelenare la si tuazione e di provocare una vera e propria scissione tra fautori e avversari della capitolazione incondiziona ta. Il cessate il fuoco fu infine dichiarato solo il 2 mag gio, quando si delineò il pericolo di un conflitto arma to tra la Wehrmacht e le ss, che contro ogni pronosti co erano favorevoli alla resa. In ogni caso, fin dalla metà di aprile Mussolini fu tenuto fuori dalle trattative in corso, cosa che servì ad aumentare il vivo rancore che nutriva verso i suoi ex alleati. A eccezione del Fi.ihrer, che gli conservava tutta la sua simpatia, o almeno così diceva, i dirigenti nazisti non nascondevano la loro diffidenza verso il ca-
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po del governo di Salò. Al disprezzo che la maggior parte di essi sfoggiava per il Duce, e alla scarsa consi derazione che tutti avevano del suo esercito, si aggiun geva anche la preoccupazione per l'orientamento di ispirazione vagamente socialista che quest' ultimo stava imprimendo alla Repubblica. Nel corso dei due incon tri del 20 e 23 marzo che Anfuso, ambasciatore a Ber lino divenuto sottosegretario agli Esteri dopo il decesso di Mazzolini, ebbe con Ribbentrop, il ministro nazista si era mostrato particolarmente critico riguardo alle nazionalizzazioni previste dal potere fascista, ottenen do peraltro dal suo interlocutore solo la conferma del progetto. Non è facile dire con precisione in quale momento il Duce cominciò a riconoscere che il suo complice nazista era sul punto di perdere la guerra. In ogni ca so , secondo lo storico italiano Duilio Susmel, egli ap prese verso la metà di aprile che nel migliore dei casi le famose armi segrete di cui H i der gli aveva numero se volte vantato i meriti non sarebbero state disponi bili prima dell'estate o, secondo l'ipotesi più pessimi sta, in autunno . 8 Si sarebbero dimostrate, queste armi segrete, più ef ficaci di quelle impiegate nella campagna di Francia? In ogni caso, e per quanto potessero essere solo una chimera, sarebbero comunque arrivate troppo tardi. Il 9 aprile le armate alleate avevano ripreso l'offensiva a sud di Bologna. Il 1 4 realizzarono un primo sfonda mento, obbligando i tedeschi a iniziare il ripiegamento verso nord. Il 23 fu attraversato il Po. Più nulla sem-
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brava potesse arrestare la marcia degli Alleati verso le valli alpine e i laghi. Il 1 6 aprile, malgrado la promessa a \Volff di non negoziare con gli angloamericani servendosi della me diazione del cardinale Schuster, come invece afferma:va una persistente diceria, Mussolini riunì a Gargnano i suoi ministri per informarli del trasferimento del go verno a Milano. Rahn tentò un ultimo sforzo per dis suaderlo dal fare il cavaliere solitario e gli suggerì di re carsi invece a Merano, dove l'ambasciata tedesca si tro vava a una settantina di chilometri dal Brennero . Ma Mussolini ora aveva deciso di giocare le sue carte e di morire, se questa avesse dovuto essere la sua sorte, « su suolo italiano ». Il 1 8 aprile il capo della RSI lascia il suo luogo di ritiro per la capitale lombarda, ben deciso a non ri mettere più piede sulle rive del lago di Garda. Crede va forse ancora in un possibile soprassalto dei suoi so stenitori e alleati? Non aveva mai dubitato della sua buona stella, ed ecco che essa pareva sul punto di spe gnersi. D opo aver radunato Je carte personali e aver dato l' ordine che gli altri documenti fossero immersi nel lago, salutò i collaboratori e qualche amico, tra cui don Pacino e padre Eusebio, cappellano militare, di chiarando al prefetto Gioacchino Nicoletti, che soste neva la sua politica di riconciliazione nazionale: « Non c'è più nulla da fare. E finita! » E a Ottavi o Dinale, che gli diceva « Arrivederci »: « No. Non ho più illusioni. E un addio » . Si ritrova quel gusto del gesto teatrale, della risposta '
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patetica, poi subito smentito da un'altra frase che indi cava al contrario quanto Mussolini credesse ancora in un qualche miracolo: il dissenso tra alleati occidentali e russi, il .« risveglio » del popolo italiano che era sembra tq manifestarsi in quelle ore milanesi del 16 dicembre, la conclusione di un accordo con i capi della Resisten za, preludio al passaggio di testimone tra fascisti moderati e socialisti. Il Duce fece anche venire la sorella Edvige, consi gliandole di lasciare Milano con la famiglia e di rifu giarsi se possibile in Svizzera. La fine della guerra era ormai prossima; in avvenire, se avesse avuto bisogno di protezione, avrebbe dovuto rivolgersi a Churchill. Si congedò citando Amleto: « Il resto è silenzio », e ag giunse: « Sono da tempo pronto a entrare in un grande silenzio » . Con Rachele si svolse una scena identica nel giardino di villa Feltrinelli, dove i coniugi Mussolini passeggiarono brevemente prima di abbracciarsi per l'ultima volta. Quindi il Duce informò le guardie ss che avrebbe lasciato Gargnano per Milano verso la fine del pomeriggio, ma che sarebbe tornato dopo due o tre giorni. La colonna nella quale pr�se posto la sua vettu ra iniziò a muoversi verso le sette di sera, sotto il co mando del tenente Birzer, e arrivò due ore dopo alla prefettura di Milano , in corso Monforte, dove Musso lini aveva deciso di stabilirsi e che sarebbe stata la sua ultima residenza ufficiale. ·
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LA FUGA Il soggiorno del dittatore a Milano dura appena una settimana, nel corso della quale egli si sforza di attizza re il fuoco in due direzioni: la realizzazione del ridotto alpino nel senso voluto da Pavolini, dopo che il gover no aveva scartato gli altri siti e in particolare quello proposto dai tedeschi, e le trattative condotte personal mente insieme a qualche ministro · per arrivare a un'in tesa con le due principali organizzazioni della Resisten za, il CLNAI (Comitato di liberazione nazionale dell'Al ta Italia) e il CVL (Corpo volontari della libertà) . Aveva intorno a sé un piccolo gruppo di fedeli che compone vano l'ultimo manipolo del fascismo italiano: Pavolini, Zerbino, Tarchi, Ricci, Barracu, Farinacci, Mezzaso ma, Pisenti, Liverani, ministro delle Comunicazioni, Buffarini Guidi, Ugo Bassi, prefetto di Milano, e Co sta, segretario federale del partito per la regione mila nese, ai quali si erano uniti vari militari di alto rango, i generali Montagna, Nicchiarelli, Diamanti, il mare sciallo Graziani e alcuni parenti del Duce tra i quali il figlio Vittorio, oltre al suo nuovo segretario partico lare, Luigi Gatti, all'ex comunista Bombacci e a Carlo Silvestri . All'interno di questo disorientato stato mag giore regnava un clima avvelenato. Ognuno alzava la voce per farsi ascoltare dal capo del governo. Ognuno aveva la sua idea sulla condott� da tenere con i tede schi, gli Alleati e i capi della Resistenza. Ognuno pos sedeva il segreto per passare attraverso le maglie della rete. L'ex ministro degli Interni della RSI , Buffarini
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Guidi, che Mussolini aveva silurato nel febbraio del 1 94 5 , propendeva per una fuga in Svizzera. Altri con sigliavano di raggiungere la Spagna o il Portogallo, ma come? Graziani preconizzava una resa negoziata diret tamente con gli angloamericani. Il Duce mise tutti d'accordo dichiarando che rifiutava di cercare asilo . m un paese stramero. Presenta un certo interesse il confronto tra quanto dicevano e pensavano, quasi nello stesso momento, i due promotori dell'asse Roma-Berlino: Hitler, sepolto nel suo bunker berlinese, nel corso delle riunioni del 22 e 23 aprile con i suoi principali collaboratori; M us solini in un incontro del 20 con il giornalista Gian Gaetano Cabella. Il Fiihrer, nel bel mezzo di una tem pesta d'invettive e di minacce contro i suoi generali, avrebbe chiaramente ammesso di non essere più in gra do di dirigere il paese, visto che i suoi ordini non erano ascoltati: « La guerra è perduta! » urlava. « Però se lor signori credono che io lascerò Berlino si sbagliano di grosso! Piuttosto mi caccio una pallottola in testa! »9 E più avanti nella notte, dopo aver ritrovato in parte la calma, precisò che avrebbe atteso la morte nella ca pitale del Reich, e che rifiutava di farsi trascinare da un luogo all'altro: .
Respinse tutte le obiezioni, compreso un tentativo telefoni co di fargli cambiare idea intrapreso da Himmlcr. Anche Ribbentrop chiamò per chiedere di essere ascoltato, ma Hi tler se ne sbarazzò seccamente senza neppure discutere la ri chiesta. Contrariamente alla su:i precedente intenzione, di-
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chiarò, non avrebbe affrontato i russi con le armi in pugno, se non altro per sottrarsi al pericolo di finire ferito nelle ma ni del nemico. Inoltre, spiegò, non era fisicamente nelle condizioni di poter combattere. Poi però, travolto dal pa thos del momento, gli scappò detto anche che sarebbe ca duto sui gradini della Cancelleria del Reich. 1 0
Per parte sua M ussolini, come Goebbels, sperava solo che il suo paese potesse vedere la dissoluzione della « grande alleanza >> in una rivalità armata tra russi e an gloamericani. Non ci si deve aspettare più nulla da Hi tler, spiegava a Cabella: l'uomo è finito e la guerra è perduta. Ci sarebbe forse stata una possibilità di rove sciare la situazione se le « famose bombe distruttrici » fossero state operative qualche settimana prima. Ma era troppo tardi per sperare qualcosa da quel lato . Al capo della Repubblica sociale non restava che trovare un rifugio, inevitabilmente provvisorio, e lavorare af finché « il mondo sappia la verità assoluta e non smen tibile di come si sono svolti gli avvenimenti di questi cinque anni » . Aggiungendo : « Ve l'ho detto . Scoppierà una terza guerra mondiale. Democrazie capitalistiche contro Bolscevismo capitalistico. Solo la nostra vittoria avrebbe dato al mondo la pace con la giustizia » . 1 1 L'idea del ridotto alpino si era dunque imposta al Duce. « Bisogna battersi » , dichiarò il 23 aprile a un gruppo di ufficiali della Guardia nazionale repubblica na, « come gli eroici fascisti di Firenze, Forlì e Bologna, che contesero il passo al nemico . [ . ] Noi raggiungere mo la Valtellina per fare quadrato per l' ultima e dispe. .
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rata difesa. » Tra gli ultimi gerarchi e i secondi ranghi riuniti intorno all'ex dittatore vi era chi non approvava il progetto di ritirata nell'alta valle dell'Adda. Graziani continuava a opporvisi con decisione, ritenendo che Pavolini avesse imbrogliato deliberatamente M ussolini convincendolo che il rido tto alpino fosse in grado di resistere a un attacco nemico , quando invece vi si tro vavano, nel migliore dei casi, poche centinaia di poten ziali difensori. Il fanatismo di quegli illuminati tagliati fuori da qualsiasi realtà, spiegava Graziani , non sareb be mai bastato a tener testa per più di qualche ora alle forze congiunte di Alleati e partigiani. Al che il nume ro uno del partito girò sui tacchi e dichiarò al mare sciallo:
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Il rispetto alla vostra persona e alla vostra
età è una cosa, subire un insulto è un'altra » . Mentre i dirigenti della Repubblica sociale s i esauri vano in vane discussioni, gli Alleati proseguivano l' of fensiva verso nord. Bologna è liberata il 2 1 aprile e gli
angloamericani la occupano subito dopo, Modena è occupata il 22, Reggio Emilia il 24, Parma il 2 5 ; intan to i partigiani liberano Genova tra il 24 e il 26 e infine Tito s'impadronisce di Fiume il 3 maggio. A Milano, dove gli antifascisti già tenevano una parte della città, le voci più allarmistiche parlavano di un incalzare di epurazioni non sempre precedute da processi sommari, di cui la vittima più eminente fu Leandro Arpinati, l'ex ras di Bologna che aveva tuttavia rifiutato di unirsi alla Rep ubblica di Salò . Vi era insomma, per il D uce e i suoi ultimi fedeli, il serio rischio di finire davanti a un plotone d' esecuzione.
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Musso lini, tenuto all'oscuro delle intenzioni tede sche, aveva ulteriori motivi per temere il peggio. Indi screzione sui negoziati in corso con gli Alleati erano di certo filtrate già da qualche settimana, ma se ne igno rava l'esatto tenore. Inoltre, la situazione nella capitale lombarda diveniva di giorno in giorno sempre più in sostenibile. I cacciabombardieri alleati mitragliavano le strade, causando numerose vittime. I partigiani realiz zavano attacchi a sorpresa e si apprestavano a lanciare l'ordine di sciopero generale. A Musso lini restavano così due sole soluzioni: un accordo con i capi della Re sistenza, in vista della trasmissione del poter,e, o la fuga pura e semplice in direzione del lago di Como e della Valtellina. Dal dicembre 1 944 i responsabili fascisti avevano tentato più volte di trovare un accordo con i dirigenti del CLNAI, dietro autorizzazione di Mussolini o con il solo scopo di tastare il terreno. Tutti questi sforzi si erano infranti contro l'intransigenza dei resistenti. I principali intermediari della nuova trattativa furono il cardinale Schuster, Carlo Silvestri, il ministro Zerbi no e l'industriale Gian Riccardo Cella, acquirente degli uffici e dei macchinari del Popolo d'Italia, il giornale che il Duce aveva fondato nel novembre del 1 9 1 4 e al quale era rimasto profondamente affezionato. Il 24 aprile Cella contatta l'avvocato Achille Marazza, un membro democristiano del Comitato di liberazione favorevole quanto lui a una soluzione che evitasse spar gimenti di sangue « fratricida » . I due uomini si incon trano in una piccola sala del Monte di pietà a Milano e
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l'industriale fa sapere al suo interlocutore che il Duce è disposto a trattare. Su quali basi? Quelle che Silvestri era stato incarica to di formalizzare e di trasmettere ai dirigenti socialisti. Ecco un esempio del loro tenore: Poiché la successione è aperta in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la Repub blica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione. [ . ] Come contropar tita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquil lamente. A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che come contropartita Mussolini chiede: a) garanzia per l'incolumità dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti; b) indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne; c) le for mazioni volontarie fasciste potrebbero impegnarsi a non as sumere iniziative operative contro formazioni italiane di pendenti dal Clnai . 1 2 . .
Era chiedere molto, visto i l clima insurrezionale che re gnava nell'Italia settentrionale e l'entità dei conti da re golare. E infatti i socialisti rifiutarono categoricamente le proposte avanzate da Silvestri. Non erano ostili all'i dea di un incontro con i dirigenti fascisti, a condizione però che si arrivasse a una resa incondizionata e che i
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negoziati avessero luogo presso l'arcivescovado. Mus solini esitava, fidandosi solo in parte della lealtà del cardinale Schuster e sperando ancora nel ridotto in Valtellina propugnato da Pavolini. Finì comunque per arrendersi agli argomenti del prefetto Bassi, che di chiarò: Qualunque cosa accada, Duce, che vi rechiate o meno dal cardinale, gli italiani si chiederanno sempre se avete fatto l'impossibile per salvare ciò che può essere salvato. Si pone dunque una questione: credete che, se andrete a negoziare per la salvaguardia della popolazione, gli italiani potranno rimproverarvi di non aver tentato tutto? Non lo potranno mai fare. Sarà il vostro gesto estremo di grande nobiltà nel governo del paese. 13
L'incontro decisivo ebbe luogo nel pomeriggio del 2 5 aprile presso l a sede arcivescovile. La delegazione fasci sta arrivò per prima: era composta da Mussolini, Bar racu, Cella, Bassi e Zerbino, raggiunti poco dopo da Graziani. Attendendo l'arrivo dei rappresentanti della Resistenza, il cardinale Schuster ricevette il Duce in udienza privata. Il prelato rimase molto colpito dallo stato pietoso in cui si trovav� il suo ospite: « Quando entrò nella sala di ricevimento », scriverà più tardi, « aveva un'aria così abbattuta, che mi fece l'impressio ne di un uomo inebetito da un'immane catastrofe ». N eli' anticamera, monsignor Bicchierai, segretario del cardinale, esortava gli altri membri della delegazione alla pazienza.
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La conversazione durò un'ora, durante la quale Schuster sondò il Duce sulle sue intenzioni, e lo inco raggiò a proseguire sulla via della riconciliazione pren dendo di sua propria iniziativa, come Nap9leone, il cammino di Sant'Elena. Apprezzava il « suo sacrificio personale, di iniziare cioè con la capitolazione una vita di espiazione in prigionia o in esilio, pur di salvare il resto dell'Italia dalla estrema rovina ». In quella scena vi fu un momento quasi comico: quando Mussolini evocò le tremila camicie nere che si supponeva avrebbero difeso la Valtellina, i due uo mini si misero a cavillare sui numeri: « arrivano tutt'al più a trecento », corresse il cardinale; « forse saranno un po' di più, ma non di molto », concesse l'interlocutore. Nel frattempo, accettò « almeno qualcosa »: un bic chierino di rosolio con un biscotto. Quando infine arrivò al palazzo la delegazione del CLNAI formata dal generale Cadorna, da Marazza e da Riccardo Lombardi, quest'ultimo in rappresentanza del Partito d'azione, tutti rimasero colpiti dal pallore del Duce e dal senso di sfinimento che emanava dalla sua persona. « Aveva la brutta cera di chi non dorme qa tempo o nasconde un male segreto », scriverà poi Ma razza. « Aveva gli occhi stanchi, spenti, gesti lenti. L'ab bigliamento era molto trasandato, i pantaloni logori, le scarpe scalcagnate, un abito logoro e stinto, senza inse gne di grado né decorazioni. » Dopo essersi squadrati, da entrambe le parti, in un clima di estrema tensione, Mussolini fu il primo a parlare, per chiedere a Marazza cosa aveva da proporre. « Il nostro mandato è semplice.
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Chiederle una resa senza condizioni » , rispose il delega to del CLNAI . Bisognava far presto, perché stava per es sere dato l'ordine dell'insurrezione generale. Mussolini esigeva garanzie per i fascisti e le loro famiglie. Marazza lo rassicurò su questo punto, con l'approvazione degli altri due delegati. Se ne sarebbe potuto parlare, ma « l'importante ora è la resa >>. L'accordo sembrava dunque possibile, quando Gra ziani si lanciò in una tirata oltranzista, dichiarando che lui era il comandante supremo dell'esercito e che pri ma di firmare qualsiasi cosa intendeva riferirne agli al leati dell'Italia. Allora fu fatto entrare il prefetto Bassi, da poco informato grazie a voci di corridoio che le trattative intavolate dai tedeschi con il CLNAI ormai da giorni erano sul punto di giungere a conclusione. Messi all'angolo dai membri della delegazione fascista, Marazza e Schuster poterono solo confermare i fatti. Il cardinale esibì addirittura qualche documento e lo les se agli interlocutori, scatenando così la furia di Musso lini, che si riscosse d'un tratto dal torpore come per l'effetto di una doccia gelata: « Ci hanno sempre trattati come servi e alla fine mi hanno tradito! Sin da questo momento, dichiaro di riprendere nei confronti della Germania la mia libenà di azione. Ora tor nerò in prefettura [ ] . » Il Duce alla fine domanda al Co mitato un'ora per deliberare. 1 4 . . .
La delegazione fascista si appresta dunque a riprendere la strada per palazzo Monforte. Sulla scala incrociano
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Sandro Perrini, uno dei principali dirigenti della Resi stenza. Arrivato molto in ritardo alla riunione, mentre saliva a due a due i gradini del palazzo episcopale, il futuro presidente della Repubblica non riconobbe il Duce. « Se lo avessi riconosciuto lo avrei abbattuto lì », dirà in seguito, « a colpi di rivoltella. » In prefettu ra, dove l'attività era febbrile, Mussolini finì di sfogare la rabbia. Percorreva a grandi passi l'ufficio, i pugni sui fianchi, come all'epoca in cui arringava le folle roma ne, proferendo insulti alla volta dei suoi vecchi alleati, accusando Cella e Zerbino di averlo menato per il naso e di averlo fatto cadere in un'imboscata. Se la prese so prattutto con il generale Wening, comandante tedesco della piazza, che non sapeva nulla delle trattative in corso e che tuttavia fece da capro espiatorio e si vide rinfacciare tutti i peccati della Germania. Recuperata la calma, senza però ricadere nell'apatia che aveva così impressionato il suo entourage e gli in terlocutori in arcivescovado, Mussolini chiese il pare re di Graziani, Pavolini, Pisenti, Bassi e anche Co lombo. Si doveva forse resistere in prefettura, come suggeriva Bassi, e attendere l'arrivo degli Alleati? Al Duce ripugnava mettere così a ferro e fuoco Milano, senza garanzie che gli angloamericani sarebbero arri vati in tempo per impedire il peggio . Era allora me glio la resa senza condizioni pretesa dal CLNAI ? Ma il prefetto Tiengo spiegò che in arcivescovado i capi della Resistenza attendevano il ritorno del dittatore per farlo arrestare e tradurlo davanti a un « tribunale del popolo » di cui era facile immaginare le intenzio-
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ni. Non ci sarebbe stato « un secondo 25 luglio » , di chiarò Mussolini. E così decise di dirigersi verso la
Valtellina. Erano le otto di sera quando, caricati su
un camion i fascicoli confidenziali della segreteria e un'importante somma di denaro, e dopo aver abbrac ciato un' ultima vol ta il figlio Vittorio , M ussolini die de l' ordine di partenza. Addio Milano!
II
Como, prima tappa
Una volta ordinata la partenza per Como i compagni del Duce, radunati nel cortile della prefettura, esitaro no sulla condotta da tenere: bisognava seguire la « gui da >> sino al « ridotto alpino », attendere gli Alleati con la prospettiva di una resa con la promessa di aver salva la vita, o combattere con gli irriducibili sino all'ultima cartuccia con la certezza di essere condannati in caso di cattura? Alcuni si proponevano di perdersi nella folla milanese e di cercare rifugio presso amici sicuri, in Ita lia o altrove. Quelli che scelsero infine di accompagnare Musso lini in Valtellina furono poco numerosi. Bisogna dire che il Duce no n fece nulla per trattenere gli altri, pre occupato come era dall'assicurarsi la salvezza e dal de siderio, del tutto utopico al punto cui si era arrivati, di trasmettere un frammento di legalità ai vincitori. Or dinò così al ministro della Giustizia Pisenti di restare al suo posto in rappresentanza della Repubblica sociale. Rimasero in prefettura anche Bassi, Silvestri, il mini stro delle Finanze Pellegrini, il ministro dell'Agricoltu ra Moroni e il generale Montagna. Nonostante i timori espressi da Asvero Gravelli do po il sopralluogo eseguito, l'ex dittatore aveva deciso di
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prendere la strada che, attraverso Como e Menaggio, conduce in Val tellina seguendo la riva occidentale del lago. Tale via era una sorta di corridoio naturale addossato alla montagna, senza sbocchi laterali. La car reggiata era così stretta che le vetture blindate non po tevano effettuare inversioni prima di Menaggio . Infi ne, i partigiani controllavano una parte della zona montagnosa che separa il lago dal confine con la Sviz zera. Gravelli aveva dunque vivamente consigliato di scegliere un altro itinerario, che passava per Lecco e se guiva la riva orientale del lago di Como, sino a Colico e Sondrio. I rilievi da quel lato erano meno aspri, le possibilità di fuga a est maggiori, e le forze della Resi stenza più disperse. In ol tre, a poca distanza dalla strada di Lecco si tro vavano importanti distaccamenti della divisione fasci sta Tagliamento, agguerriti e perfettamente armati e addestrati, pronti dunque ad assicurare il passaggio dei fuggitivi. La scelta della strada Como-Menaggio ri mane quindi sorprendente, soprattutto pensando che Mussolini non era certo un neofìta nella lettura delle carte geografiche e che aveva esaminato a lungo tutte quelle relative alla zona compresa tra Milano e l'alta valle dell'Adda. Sembra quindi che d'improvviso egli abbia scelto di privilegiare la fuga verso la Svizzera ri nunciando all'intenzione, più volte proclamata, di vo ler tentare per l'ultima volta la sorte in terra italiana, e da nessun'altra parte, conducendo l'ultima battaglia per salvare l'onore contro le forze della Resistenza e le truppe del generale Alexander. E pur vero che, il '
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1 2 aprile, il CLNAI aveva ordinato la cattura dell'ex dit
tatore e degli altri membri della direzione fascista, de nunciati come « traditori della patria e criminali di guerra >>. Mussolini sapeva quale sorte gli avrebbero ri servato i partigiani in caso di cattura.
« ..
.
S ONO SOLO . . . TUTTO È FINITO
»
Il Duce prese dunque la strada di Como mentre i capi della Resistenza davano l'ordine d'insurrezione genera le dopo aver atteso più di un'ora, nel palazzo arcivesco vile, la risposta al loro ultimatum, apprendendo infine per bocca di Bassi, interrogato al telefono, che esso era stato rifiutato. Il conv0glio dei suoi ultimi fedeli com prendeva Graziani, Mezzasoma, Zerbino, Liverani, Barracu, T archi, Gatti, il giornalista Ernesto Daquan no, direttore dell'agenzia di stampa Stefani, oltre al maggiore dei due figli viventi del Duce, Vittorio, il ni pote Vito, figlio di suo fratello Arnaldo, e un altro ni pote, Vanni Teodorani. Il Duce aveva preso posto nel la sua Alfa Romeo in compagnia di Bombacci, che era stato anche lui maestro di scuola in Romagna. A Vit torio, che si stupiva di vedere l'antico amico di Lenin con un bagaglio così ridotto, Bombacci replicò che non era nuovo a quel genere di situazioni: « Sono esperto di queste cose, ero nello studio di Lenin a Pie troburgo quando le truppe bianche di Yudenich avan zavano sulla città e ci preparavamo ad abbandonarla, come stiamo facendo ora », dichiarò.
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Tutti costoro si erano distribuiti in numerosi veicoli ai quali si aggiunsero due autocarri dell'esercito tede sco (uno dei quali trasportava elementi appartenenti a un battaglione contraereo) , le vetture di svariati uffi ciali della Wehrmacht e delle ss, e un gruppo di mili tari italiani che costituivano la scorta del maresciallo Graziani. Facevano parte del convoglio anche Claretta Petacci, suo fratello Marcello e la compagna di que st'ultimo, Zita Ritossa. Chiudeva infine la colonna un camioncino Balilla che conteneva importanti docu menti segreti e nel quale avevano preso posto Maria Righini, la cameriera privata del Duce, un agente di polizia e l'autista. A Garbagnate, poco tempo dopo aver lasciato Milano, il camioncino si guasta. L'autista e l'agente tentano di ripararlo con gli attrezzi a portata di mano, senza risultato. Devono quindi spingere il veicolo sino a una piccola cascina dei dintorni in attesa di aiuto, mentre Maria Righini riesce a farsi portare da una vettura di passaggio alla prefettura di Como, dove Mussolini era appena arrivato. Si fecero subito partire tre automobili di scorta, nella speranza di recuperare almeno i documenti, ma quando queste arrivarono a Garbagnate la città era ormai in mano ai partigiani. Nel momento in cui la colonna in partenza da Mi lano si immise in corso Sempione il comandante par tigiano Marozin ( Vero durante la Resistenza) telefonò a Pertini, ancora in attesa della risposta di Mussolini al l'ultimatum del CLNAI . Gli fu risposto di lasciar passa re il convoglio: non erano ancora le 20 . 1 O e il rifiuto del Duce di arrendersi senza condizioni non era ancora
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pervenuto in arcivescovado. La città era tranquilla. I teatri restavano aperti. All'Odeon si dava Christian, in terpretato da Renzo Ricci, Eva Magni e Vittorio Gas sman, all'Arti lo spettacolo di rivista Bo-Bi-Bo, mentre la sola lotteria ancora in funzione, quella di T orino, comunicava ai milanesi per via radiofonica i numeri vincenti del giorno. Fu sempre nella serata del 25 che i lettori della stam pa fascista ebbero conoscenza del telegramma indiriz zato da Hitler al suo « solo amico » dal bunker berline se dove viveva i suoi ultimi giorni. Il testo fu pubblica to nell'edizione serale dei giornali milanesi: La lotta per l'essere o il non essere ha raggiunto il punto culminante. Impiegando grandi masse e materiali il bolsce vismo e il giudaismo si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze distruttive al fine di pre cipitare nel caos il nostro continente. Tuttavia, nel suo spi rito di tenace sprezzo della morte, il popolo tedesco e quan ti altri sono animati dai medesimi sentimenti si scaglieran no alla riscossa, per quanto dura sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno mutare il corso della guerra in questo storico momento in cui si decidono le sorti del l'Europa per i secoli a venire.
Pavolini rimane a Milano il tempo necessario a riunire un effettivo sufficiente per costituire la forza militare di cui parla a iosa, da settimane, ai colleghi, e il cui obiet tivo, almeno teoricamente, è sempre la difesa del ridot to alpino . Per tutta la notte il segretario del partito, al
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volante della sua decappottabile e in tenuta da militan te fascista, scorrazza per le vie della capitale lombarda, nella quale cominciano a essere erette le prime barrica te. Gruppi di fascisti percorrono la città, alcuni con l'unica preoccupazione di trovare un rifugio sicuro o una via di fuga non ancora bloccata dai partigiani; al tri, svariate centinaia o forse, secondo il federale di Mi lano Costa, svariate migliaia, con l'intenzione di scate nare un estremo scontro per l'onore intorno a piazza San Sepolcro. Da una delle finestre del palazzo che ospita la federazione del partito, Pavolini e Costa ar ringano senza sosta la folla: « Un combattimento suici da non servirà a nulla. Mussolini è ormai a Como, do ve ci attende: bisogna andare a Como! Cosa facciamo noi? » E i militanti in coro: « Tutti a Como! » Passato questo breve momento di euforia i dirigenti fascisti si affrettano a radunare gli uomini. All'alba la colonna Pavolini è pronta a partire. Dovrebbe essere composta, secondo Costa, che s �nza dubbio tende a gonfiare le cifre, da 1 78 veicoli e tre o quattro carri leg geri della Brigata nera Leonessa, che trasportano oltre 4600 camicie nere e 350 ausiliari . Avviatasi alle 6.20 da via Dante, la colonna composta da elementi assai eterogenei attraversa la città lombarda senza il minimo intoppo. Ma usciti da Milano le cose si guastano. Una squadriglia di cacciabombardieri inglesi attacca il con voglio a bassa quota, facendo esplodere un camion di munizioni e un altro veicolo carico di fusti di benzina. Pavolini è in testa alla colonna, e si ferma talvolta per
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incoraggiare gli uomini o per minacciarli, senza esitare a estrarre la pistola per farsi obbedire. Appena entrati a Como, Costa incontra un gruppo di ciclisti in abiti civili tra i quali riconosce il prefetto Bassi. Li interroga: cosa succede? E dove va lui, in di rezione contraria rispetto al flusso di coloro che arriva no? La risposta di Bassi non consente equivoci. Inten de « tornare a casa ». Pavolini, che si è riunito al fede rale di Milano, ottiene la stessa risposta, seguita da una breve spiegazione: « Io il mio dovere, l'ho compiuto . Il Duce è partito . Se n'è andato nella notte, senza dir nulla. Che ci stavo a fare a Como? » Il numero uno del partito non crede alle sue orecchie: « Partito? Non è possibile! » Tuttavia, non cerca di trattenere Bassi. Basta che questi eviti di diffondere la notizia tra gli uomini della colonna: tutti devono credere che il Duce li stia aspettando. 1 Mussolini non aveva trascorso a Como più di sei ore. Era arrivato alla prefettura poco dopo le 2 1 .00 ed era stato accolto da Guido Buffarini Guidi, ex mi nistro degli Interni della RSI che il Duce aveva silurato nel febbraio 1 945 in seguito al suo rifiuto di avallare un progetto di legge antisemita promosso da Giovanni Preziosi, « ispettore generale per la razza » . Ancora una volta, Buffarini aveva supplicato il capo del governo di abbandonare il progetto del ridotto alpino, del quale aveva misurato tutta l'inconsistenza, e di prendere al più presto la strada per la Svizzera. Anche il prefetto Celio si era pronunciato nello stesso senso, ma il Duce rifiutò di ascoltarli, non più per le ragioni sino allora
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invocate, quanto perché era stato informato che la Confederazione non intendeva concedergli il diritto d'asilo. Celio aveva cercato in tutti i modi di convin cerlo che avrebbero po tuto tentare di ammorbidire le autorità di Berna con l'aiuto del console americano a Lugano , ma Mussolini non aveva vol uto proseguire in un'azione che considerava umiliante. I n realtà, in tendeva procrastinare la decisione sino all'arrivo della colonna di Pavolini, i cui primi distaccamenti erano attesi da un minuto all'altro.
Quella notte l' intera città di Como era in preda al
l' agitazione. Vi circolavano piccoli gruppi armati e nu merosi soldati isolati, tutti alla ricerca delle loro unità di appartenenza, o già decisi a scambiare la camicia ne ra per abiti meno compromettenti . In prefettura la ce na fu l ugubre. M ussolini partecipò poi ad alcune riu nioni con i suoi ministri dalle quali risultò che tutti, o
quasi, si preoccupavano ormai solo della propria sal vezza. Poco dopo mezzanotte comparve Barracu e in
formò il dittatore che tutte le ricerche intraprese per ritrovare il camioncino Balilla erano state vane. Mus solini fu preso da un nuovo accesso di collera: rimpro verava a Barracu e ai suoi collegh i di non aver preso alcuna misura per sorvegliare il veicolo e il suo prezioso
contenuto e per garantire la sicurezza di Maria Righini . Ciò che Mussolini, arrivando a Como, ignorava, era che no n solo la popolazione attendeva l'arrivo degli an gloamericani come una liberazione, come la fine di un incubo che per i meno entusiasti del fascismo durava ormai da vent'anni e per tutti gli altri dal
1 943, ma
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Gli ultimi giorni di Mussolini
che le stesse autorità cittadine, a cominciare dal prefet to Celio e dal questore Pozzoli, avèvano da giorni pre so contatto con il CLNAI per arrivare a un trasferimento di pot�re indolore. L'arrivo inopinato del Duce e dei suoi principali collaboratori metteva a rischio l'intero piano. Bisognava dunque convincere il padrone, fino a ieri onnipotente, dell'Italia fascista, che tutto era fini to. Interrogato sul rapporto di forze tra resistenti e ca micie nere, Pozzoli non esitò a usare tinte fosche, di chiarando che se la popolazione poteva sembrare tran quilla, vi erano nondimeno 1 1 .000 partigiani pronti a entrare in città. Ciò significava moltiplicare almeno per quattro gli effettivi che la Resistenza poteva con trapporre ai circa 5000 fascisti radunati da Pavolini e a quelli che, giunti da altre province, ne attendevano l'arrivo per unirsi a loro. La menzogna era grossa, ma Mussolini prese per oro colato le parole del questore. Non bisognava quindi at tendere che Pavolini arrivasse a Como e si sarebbe in vece presa subito la strada per Menaggio, la piccola lo calità tu,ristica situata a trentacinque chilometri a nord, cioè più o meno a metà della distanza complessiva che li separava dal punto in cui l'Adda si getta nel lago e inizia la Valtellina. Lì si sarebbe /fatta una sosta per il tempo necessario all'arrivo delle truppe che Pavolini aveva dichiarato di poter radunare. Prima di lasciare Como per Menaggio, Mussolini scrisse alla moglie un messaggio d'addio. Il 23 Rachele si trovava ancora a Gargnano, dove attendeva il ritorno del Duce, quando aveva ricevuto la consegna di recarsi
Como, p rima tappa
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a Monza, dove questi si sarebbe riunito a lei e alla fa miglia: il figlio più giovane Romano (nato nel 1 927) e la piccola Anna Maria. Appena giunti alla villa reale una telefonata di Mussolini le aveva ingiunto di ripar tire per Como, dove lui stesso stava per recarsi. Il Duce aveva incaricato il segretario Gatti di partire subito in automobile per Monza e di condurre moglie e figli a Como, dove fu messa a loro disposizione villa Mante ro , descritta da Rachele come una « grande casa triste e isolata ».2 Così scriverà in seguito: Mio marito desiderava che mi rifugiassi in Svizzera e mi aveva assicurato che a Como, in prefettura, mi avrebbero procurato la benzina necessaria per proseguire il viaggio. Quando mi informai mi fu risposto che non era stato tra smesso nessun ordine al riguardo . Preoccupata, perché co noscevo sin troppo bene tutti gli intrighi e le trappole, chia mai subito Milano . Una voce sconosciuta mi disse che il Duce era in conversazione con Schuster, ma che avrei po tuto parlare a Vittorio. Raccontai tutto a mio figlio, che mi consigliò di recarmi da Ola, sua moglie, che si era sistemata da poco a Como, e di chiedere a lei la benzina.3
Fare il pieno di carburante a Como, in piena disfatta, non era cosa facile. Una volta sistemata la faccenda, re stava nondimeno da compiere l'impresa più difficile: raggiungere la frontiera lungo strade controllate in par te dai partigiani, sfuggire ai mitragliamenti degli aerei alleati e, soprattutto, aggirare le minuziose attenzioni della polizia elvetica. Arrivata a Ponte Chiasso verso
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Gli ultimi giorni di Mussolini
le tre del mattino del 26 aprile, la moglie del dittatore constatò che la frontiera era chiusa. Una lunga fila di vetture attendeva sicuramente da ore che le autorità svizzere si degnassero di alzare le barriere, e tra esse vi era quella di Buffarini, che secondo Rachele aveva seguito sin da Como la grossa Lancia nera su cui lei viaggiava con i figli. Rachele scese dall'auto m o b ile per chiedere di passare, facendo valere il diritto d'asilo . Uno dei poliziotti si recò al posto di guardia per tele fonare a Berna, e la risposta no n si fece attendere: nien te rifugio svizzero per i Mussolini. Messi alla porta dal le autorità della Confederazione, ai passeggeri della Lancia non restò che fare dietrofront e tornare a Co mo . Scrive Rachele:
Ci recammo alla sede della federazione fascista. Ci illudeva mo di poter raccogliere notizie, o almeno di ottenere una scorta che ci accompagnasse in Valtellina. Ma in tutti gli uffici regnava la confusione più assoluta. Nessuno aveva la minima idea di cosa fare e tutti facevano a gara nel sug gerire le soluzioni più strampalate per sfuggire alla catastro fe; tutti parlavano e discutevano a voce alta, in toni alterati dal nervosismo. Nessuno aveva il tempo di occuparsi di me e dei miei figli, nessuno desiderava prendersi la responsabi lità di scortarci lungo la strada del lago senza aver ricevuto ordini precisi.4 Prima di partire per la Svizzera Rachele aveva ricevuto da Benito una lettera che le aveva procurato un' im mensa tristezza. Dopo l'arrivo a Como il D uce non
Como, prima tappa
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aveva più potuto, o voluto, incontrare la moglie, forse per evitare una straziante scena d'addio. Nella notte, il miliziano di guardia a villa Mantero aveva svegliato donna Rachele. Portava un plico contenente un breve messaggio scarabocchiato in matita blu, il cui tenore non lasciava dubbi sull' idea che Mussolini si faceva del proprio futuro :
Cara Rachele, eccomi giunto all'ultima fase della mia vita, all'ultima pagina del mio libro. Forse noi due non ci rivedremo più, perciò ti scrivo e ti mando questa lettera. Ti chiedo perdono di tutto il male che involontariamente ti ho fatto. Ma tu sai che sei stata per me l'unica donna che ho vera mente amato . Te lo giuro davanti a Dio e al nostro Bruno in questo momento supremo . Tu sai che noi dobbiamo an dare in Valtellina. Tu, coi ragazzi, cerca di raggiungere la frontiera svizzera. Laggiù vi farete una nuova vita. Credo che non ti rifiuteranno il passaggio, perché li ho aiutati in tutte le circostanze e perché voi siete estranei alla politica. Se questo non fosse, dovete presentarvi agli alleati che forse saranno più generosi degli italiani. Ti raccomando l'Anna e Romano, specialmente l'Anna che ne ha tanto bisogno. Tu sai quanto li amo . Bruno dal cielo ci assisterà. Ti bacio e ti abbraccio assieme ai ragazzi. Tuo Benito. Ricevuta la lettera Rachele tentò di telefonare al mari to. Quando ci riuscì, dopo svariati tentativi, lo sentì ri spondere con una voce stanca e rassegnata « di sentirsi ormai solo, che perfino l'autista Cesarotti si è allonta nato » . Mentre lei gli evocava tutti coloro che erano an-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
cora pronti a battersi per lui e per l'Italia, Mussolini le disse: « Ma se non c'è più nessuno, io sono solo, Ra chele, e vedo che tutto è finito ». Epilogo tragico, ma fortemente sospetto: nessuno ha mai visto la famosa lettera, che donna Rachele disse di aver distrutto in un momento di sconforto, ricor dandone però fino all'ultima virgola. . .
l L RITORNO D I C LARETTA
Si ricorderà che dopo l'arresto di Musso lini Claretta era stata a sua volta imprigionata nel carcere di Nova ra. Liberata il 1 7 settembre su ordine del generale Wolff, si era affrettata a riunirsi all'amante sisteman dosi nelle vicinanze di Gargnano. Finché l'aveva cre duta in prigione Mussolini non si era troppo preoccu pato della sorte della sua giovane compagna. Forse ave va persino pensato che fosse giunto il momento di chiudere una relazione che durava da oltre dieci anni. Ma, in ogni caso, non gli ci volle molto per precipitarsi a villa Fiordaliso, affittata da Claretta a Gardone. La coppia riprese presto le vecchie abitudini romane. Tuttavia la cosa non era facile. In primo luogo per ché Mussolini doveva informare di ogni spostamento il tenente tedesco che comandava il distaccamento ss destinato a vegliare sulla sua sicurezza. E soprattutto perché Rachele sorvegliava da vicino il suo volubile marito. La moglie del Duce era stata l'ultima, dopo il 25 luglio 1 943 e la caduta di Mussolini, a scoprire
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Como, p rima tappa
la sua relazione con la bella romana; ora però che sape va come regolarsi, non aveva alcuna intenzione di mol lare la presa. Intorno alla « guida » della Repubblica sociale si creò dunque un clima da operetta. Con la complicità delle guardie del corpo M ussolini prese l'abitudine di lascia re in gran segreto villa Orsoline, dove si trovavano gli « uffici governativi » , per recarsi in automobile a Gar
done, mentre il veicolo utilizzato per i normali sposta menti restava bene in vista davanti alla porta principa le. A Gardone, dove giungeva di solito a fine serata, il D uce faceva montare in automobile l'amante e la cop pia partiva per una breve passeggiata, o per qualche ri fugio discreto che conoscevano solo loro e l'autista. Ma Rachele aveva i suoi informatori . Interrogava i domestici , incalzava il segretario particolare del marito , e al minimo sospetto d'infedeltà era colta da collere spaventose. Benito si affannava a fornire spiegazioni tortuose e alla fine esplodeva anche lui, quando invece non capitolava miseramente davanti alla focosa roma
gnola. Quest'ultima si recò un giorno a villa Fiordali so . Si era fatta accompagnare da B uffarini Guidi, che conosceva bene Claretta e dovette parlamentare a lun
go con l'ufficiale di guardia prima che aprissero loro il cancello . L'inco ntro tra le due donne durò quasi tre ore, e fu punteggiato da crisi di pianto e minacce. Se
condo il racconto fatto da Rachele, Claretta sarebbe svenuta più volte, sempre rianimata dal povero B uffa nm.
Nella notte del
25 aprile 1 945 ritroviamo a Como i
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Gli ultimi giorni di Musso lini
tre protagonisti, ma dalla farsa si è passati al dramma: Rachele è respinta dalla polizia alla frontiera svizzera e ignora quale sorte attenda lei e i figli; Mussolini sta per partire per una destinazione incerta, convinto di essere abbandonato da tutti; Clara Petacci, infine, ha deciso di seguire l'amante qualunque sia il suo destino . Il fra tello di Claretta, Marcello, è un medico mediocre che grazie alle sue relazioni è riuscito ad arricchirsi con af fari discutibili e a ottenere una cattedra universitaria. Tenta ora di convincere Clara che per lei sarebbe faci lissimo fuggire in Spagna, ma non riesce a scalfirne la determinazione. Prima di lasciare Milano , Claretta aveva confidato all'avvocato Asvero Gravelli di essere pronta a morire al fianco dell'uomo che amava. Aveva anche scritto alla sorella Myriam (Miria di San Servolo sulle scene e sullo schermo) proprio quando questa si apprestava a salire sull'ultimo aereo per Madrid, co municandole le sue intenzioni: Non penarti per me. Io seguo il mio destino che è .il Suo . Non l o abbandonerò mai qualunque cosa avvenga. Non dì struggerò con un gesto vile la suprema bellezza della mia offerta e non rinuncerò ad aiutarlo , ad essere con Lui finché potrò . . . Tutte le mie carte tu sai dove sono. Conservale e rispettale. Tienile tu. E a tua volta le affiderai a tuo figlio, se Iddio te ne darà.
Anche Marcello aveva infine deciso, per tutt'altre ra gioni, di seguire la colonna dei gerarchi, e fu dunque sulla sua vettura, in sua compagnia, che Claretta prese
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Como, prima tappa la strada di Como la sera del
25 aprile e quella per Me
naggio nel cuore della notte. Fu così solo all' alba del
26 che M ussolini apprese della sua presenza nel convo glio. Ai due amanti restavano sessanta ore di vita.
III
S ulla strada per Menaggio
Erano da poco passate le tre del mattino quando M us solini e il piccolo gruppo di gerarchi che l'accompagna vano lasciò precipitosamente Como alla volta di Me naggio . In quell'occasione vi fu un primo scontro tra il capo della RSI e il tenente delle ss Birzer, la cui mis sione era quella di scortare i fuggitivi forse sino a Mera no, dove la Wehrmacht occupava posizioni ancora soli de. Alcuni degli italiani presenti nel convoglio non si fa cevano più la minima illusione riguardo alla volontà dei tedeschi di proteggerli. E Mussolini meno di tutti. Bir
zer e il suo distaccamento si trovavano lì per sorvegliare ogni suo gesto e per impedire qualsia�i tentativo di fuga in Svizzera. L'ufficiale non aveva mai allentato la sorve glianza, sin da Gargnano . A Milano, quando la piccola delegazione fascista si era recata in arcivescovado per di scutere con i dirigenti della Resistenza, Birzer era addi rittura riuscito a intrufolarsi nella vecchia limousine in viata in prefettura dal cardinale Schuster. Alla partenza da Como, visto che l 'ufficiale tedesco esigeva che le automobili della. scorta fossero aggregate al co nvoglio , Mussolini si decise a tentare di seminare i suoi « protet tori » . Il tenente ss racconta la fuga mancata:
Sulla strada per Menaggio
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Giunti a Como compresi che Mussolini probabilmente avrebbe tentato di passare in Svizzera, forse da solo e forse quella stessa notte. [ . ] Gli assegnai quattro sentinelle e av vertii i miei uomini di dormire vestiti, pronti a qualsiasi eventualità. Alle quattro e mezzo del mattino del 26 aprile una delle sentinelle si mise a gridare: « Karl Heinz scappa! » Karl Heinz era il nome con il quale i comandi tedeschi de signavano Mussolini. Balzai dal letto. Lui era già montato in vettura. Con la mia bloccai l'uscita della prefettura. Dissi con fermezza: « Duce, non può andarsene senza avvisare la scorta » . Rispose bruscamente: « Si levi. Posso fa re quello che voglio e andare dove mi pare. Sgombri l'uscita ». Allora chiamai le ss : « A terra. Caricate le armi e prepa rate le bombe a mano. Cinque uomini con me » . Puntai il mitra e avanzai. [ . . ] Poi dissi a Mussolini: « Ora può par tire, Duce ». 1 . .
.
Sorvoliamo sulle inesattezze della cronologia. Birzer si tua la scena alle 4.30 del mattino mentre la maggior parte dei testimoni afferma che il D uce a quell'ora era già partito con una parte dei suoi collaboratori, avendo ordinato a svariati ministri di attendere l'arrivo di Pavolini. I n cambio, la natura dei rapporti che inter correvano tra i tedeschi e il capo del governo fascista è precisata senza alcuna ambiguità. Birzer ha ricevuto or
dini formali dai suoi superiori ed è ben deciso a ese guirli. Il Duce è suo prigioniero . Se necessario , utiliz zerà le armi contro di lui e i suoi fedeli.
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Gli ultimi giorni di Mussolini
RI COMPARE PAVOLINI Dopo quel breve scontro, il tenente Birzer si mise alla testa del convoglio, seguito dall'Alfa Romeo di M usso lini dove Bombacci aveva ripreso il suo posto . G ravelli aveva avuto ragione di sconsigliare al D uce la rotta oc cidentale. La strada era stretta e le numerose curve ren
devano disagevole l'utilizzo dei mezzi blindati armati
di mitragliatrici e pezzi leggeri. Il piccolo gruppo arri
vò senza problemi a Menaggio verso le cinque del mat tino e Mussolini, che non dormiva da quarantotto ore, fu accolto per breve tempo nella villa di Emilio Castel li, membro del consiglio federale fascista per la provin cia di Como. Poco dopo arrivò un' altra colonna, con Graziani e i notabili che erano rimasti a Como, e infi ne, dietro a tutti, Claretta e Marcello Petacci . Le ville e gli alberghi di lusso frequentati in passato
dai rappresentanti della vecchia classe dirigente e del
l' establishment fascista accoglievano da qualche tempo nuovi inquilini, tutti cacciati dalle rive del lago di Gar da o della capitale lombarda dall'offensiva alleata e dai bombardamenti. Tra gli sfollati si contavano ministri e quadri dell'amministrazione, dirigenti del partito, per sonale di diverse imprese pubbliche e private. Angelo Tarchi, ministro dell' Economia corporativa, risiedeva a Cadenabbia, vicino alle ville del capo della polizia
T ullio Tamburini e di Edoardo Moroni, ministro del l' Agricoltura. Zerbino si era sistemato a Griante, e Buffarini G uidi a Lenno, dove l' hotel Bellevue ospita va un dipartimento del ministero degli Interni e la di-
Sulla strada per Menaggio
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rezione generale della grande azienda chimica S N I A Vi scosa. Ciò significa che alloggiare il Duce e i suoi compa gni pose gravi problemi alle autorità del luogo. Dopo la breve sosta nella villa di Castelli, giusto il tempo di bere un caffè e di scambiare qualche informazione, Mussolini fu condotto in una stanzetta situata al primo piano della scuola elementare di Menaggio. La scuola stessa per l'occasione fu trasformata in caserma e vi si alloggiò alla meno peggio il resto del gruppo; impresa non facile, visto che con l'arrivo della seconda colonna il numero dei fuggitivi era cresciuto di almeno una trentina di unità. Mussolini diede a Gatti ordini precisi. Per sfinito che fosse, era necessario che lo chiamassero prima del l' arrivo di Pavolini e delle camicie nere. Fu così che po co prima delle nove fu svegliato per poter elaborare nuovi piani d'azione sulla base delle notizie raccolte da Porta e Castelli. Quest'ultimo aveva capito che il capo della RSI aveva bisogno di rassicurazioni, in par ticolare riguardo al rapporto di forze tra le unità su cui si poteva contare e quelle della Resistenza. Ansioso di veder partire quanto prima i fuggiaschi per la Valtelli na, non esitò dunque a presentare la situazione sotto una luce favorevole ai fascisti. « La zona », dichiarò al Duce, « è tranquilla. Tutta la regione della Val Menag. ' gw e sotto contro Il o. » 2 Aggiunse che le operazioni condotte alla fine dell'in verno contro le rare formazioni partigiane dei dintorni avevano ottenuto di costringerle a restare sulla difènsi-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
va. Esisteva in effetti una piccola unità operante nella zona di Dongo, ma era dotata di un armamento assai sommario : nulla da temere da quella parte, ossia nella direzione che doveva prendere il convoglio . Queste balsamiche parole, dette con la mano sul cuore dal vicecommissario federale della provincia, ras sicurarono un po' il Duce. Per di più, Castelli dichiarò al suo ospite che in quanto capo del fascismo locale avrebbe assunto lui stesso il comando di una compa gnia appartenente all'XI Brigata nera. Tale unità, com posta da militanti di provata fedeltà, avrebbe potuto correre in soccorso dei gerarchi in fuga « in qualunque momento » . Vi erano poi coloro il cui arrivo si atten deva febbrilmente a Menaggio: le circa cinquemila ca micie nere che Pavolini aveva promesso di radunare a Milano e di condurre sino al ridotto alpino . Esse avrebbero fatto da apristrada garantendo la sicurezza del D uce e dei suoi compagni. Ma il numero uno del partito si faceva attendere. L'abbiamo visto arrivare a Como il 26 aprile alla testa di una colonna di duecento veicoli e scoprire che i fug giaschi avevano già ripreso la strada in direzione di Menaggio. A questo p unto la prudenza avrebbe consi gliato di dedicare qualche ora a passare in rivista gli ef fettivi, al controllo rigo roso del loro inquadramento e a un serio esame delle loro motivazioni. Ma la pruden za
non era nelle corde, e meno ancora nella cultura po
litica, di Alessandro Pavolini. Senza preoccuparsi del morale della truppa, questi saltò nell' automobile per sonale della giovane Elena Curti per correre a render
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Sulla strada per Menaggio
conto a Mussolini. I due uomini ebbero una breve co nversazione nel corso della quale il segretario del partito assicurò ancora una volta al suo interlocutore che cinquemila uomini ben armati erano pronti a se guido per raggiungere a Menaggio la colonna dei ge rarchi e accompagnarla in Valtellina. Poi Pavolini ri prese la via di Como, non senza aver comunicato al Duce che Rachele e i figli si erano visti rifiutare l 'entra ta in Svizzera ed erano quindi rientrati a villa Mantero . Mussolini non fece co mmenti . Il capo delle Brigate nere aveva mostrato una bella dose d'incoscienza nel pensare che durante la sua as senza gli uomini avrebbero pazientemente atteso che tornasse. Ciò che scoprì rientrando a Como era invece assai lontano dal confermare le notizie rassicuranti che aveva portato al capo della
RSI . Gli uomini erano rima
sti abbandonati a se stessi, senza direttive e privi di no tizie, tranne quelle confuse e contraddittorie che i co mandanti di ogni unità pensarono di poter dare loro , peggiorando così l a situazione. Le camicie nere non tardarono dunque a mostrare lo scarso entusiasmo che suscitava in loro l'idea di proseguire la lotta. Quelli che a Milano erano sembrati i più combattivi, ora era no tra i primi a proclamare il desiderio di
«
tornare a
casa » . Alcuni avevano addirittura iniziato a contattare i partigiani, non esitando a scan1biare le loro insegne fasciste con i bracciali del
CVL .
Tutto ciò accadeva sot
to gli occhi di una popolazione che già distruggeva im magini e simboli del regime caduto e che contemplava
stupefatta le centinaia di fascisti tranquillamente ac-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
campati nei giardini pubblici, sulle piazze e lungo i via li della città. Lo scatenamento della vendetta popolare sarebbe giunto più tardi. Quando Pavolini arrivò a Como verso mezzogior no, la dissoluzione del piccolo esercito che aveva avuto l'ingenuità di credere fedele a oltranza al regime era or mai in fase assai avanzata. Un certo numero di fascisti aveva semplicemente disertato. Gli altri attendevano che i loro ufficiali concludessero le trattative di resa con i capi della Resistenza e gli agenti alleati, numerosi nella regione o rmai da alcune settimane. L'ex ministro del Minculpop non poté far altro che m_isurare i difetti di forgiatura dell' « uomo nuovo
»
di fronte alla realtà
della disfatta. Ebbe un bel correre da un gruppo all'al tro per tentare, con accorati appelli, di risvegliarne il fervore patriottico e la fede mussoliniana: nulla riuscì a impedire che questi si sbandassero e che gettassero le armi o le consegnassero agli avversari del giorno pri ma.
A Pavolini non restava che tornare quasi da solo a Menaggio, dove peraltro le cose si � rano notevolmente evolute nel corso della giornata del 26 aprile. Poco do po le nove, il Duce e Clara Petacci avevano potuto scambiare qualche parola sotto lo sguardo discreto, ma vigile, di due ss . Mezz'ora dopo il segretario G atti aveva tentato di proteggere l'identità del D uce organiz zando un ripiegamento dei ministri e degli ufficiali a Cadenabbia, il villaggio a bordo lago situato pochi chi lometri a sud di Menaggio. M ussolini, sempre in attesa di Pavolini e sempre più inquieto, dichiarò di non vo-
Gandrla
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Pri ncipali tappe del l ' u ltimo viaggio di M u ssol i n i
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N
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Gli ultimi gzorni di Mussolini
lersi muovere finché il numero uno del partito non avesse dato notizie. Dopo qualche ora di aspre discussioni su cosa si sa rebbe· dovuto fare nel caso sempre più probabile che
Pavolini non tornasse, o che ricomparisse senza i famo
si rinforzi, i gerarchi si trovarono tutti d'accordo su un unico punto: a Cadenabbia si moriva di noia. Decisero quindi di recarsi a Menaggio, con l ' eccezione di Gra ziani che preferì riprendere il posto di comando per dare le ultime istruzioni alle forze armate rep ubblicane.
Al ritorno, nel primo pomeriggio, i gerarchi appre sero che per il Duce era stato adottato un nuovo piano . Per non attirare la curiosità, o peggio la nascente osti lità della popolazione del luogo, era meglio attendere i rinforzi di Pavolini a Grandola, una localit� situata al l'interno rispetto al lago, ma distante solo una quindi cina di chilometri dalla frontiera svizzera. I gerarchi e la loro « guida », che peraltro non aveva mai così mal meritato tale titolo, furono alloggiati all'albergo Mira valle e vi trascorsero il resto del pomeriggio. Il tempo era pessimo. La radio dell' albergo diffon
deva, tra brani musicali, notizie sull' insurrezione e l'a vanzata degli Alleati. A Milano il Comitato di libera zione aveva abrogato le leggi sulla socializzazione della RSI . Il decreto che istituiva i tribunali di guerra e le
Corti d'assise popolari enunciava nell' articolo
5 quan
to segue: « I membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo colpevoli di aver soppresso le garanzie co stituzionali, d' aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, comp romesso e tradito le sorti del
Sulla strada per Menaggio
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Paese e di averlo condotto all' attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l'ergastolo » . Tutti capi d i accusa applicabili a M ussolini e a i suoi più stretti collaboratori. Già da tempo il D uce covava il timore di essere eliminato fisicamente dopo un pro cesso sommario o , peggio, di essere esibito in una gab bia e fatto sfilare di città in città come una bestia da circo . Secondo la testimonianza dei suoi carcerieri di Campo Imperatore, non aveva forse tentato di dars i l a morte nella notte tra l' 1 1 e i l 1 2 settembre del 1 943 tagliandosi le vene con una lama di rasoio? Ma questa volta non .si trattava p iù solo di una vaga minac cia. Il decreto del
CLNAI equivaleva a una condanna a
morte se Mussolini e i gerarchi fossero caduti in mano . . ai parng1an1. S arà facile immaginare in quali condizioni di spirito si trovassero i fuggiaschi dopo aver ascoltato tali notizie diffuse dalla radio milanese, occupata da poco dagli in sorti. Mussolini non era però il più sconvolto. Egli in fatti aveva avuto più occasioni rispetto ai suoi compa gni di riflettere sull'approssimarsi della m orte e di pre pararsi a una fine che avrebbe certo preferito più glo riosa. Per ingannare l' attesa volle passeggiare sotto la pioggia con la giovane Elena Curti, sua presunta figlia naturale (cosa che nessuno dei partecipanti alla fuga ignorava) . Ma lo spettacolo dell'amante che conversava nel giardino dell'albergo con la bella ragazza dai capelli rossi che lei era riuscita ad allontanare da Gargnano ebbe per effetto di scatenare le ire della Petacci. Seguì
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Gli ultimi giorni di Mussolini
una scenata nel corso della quale Claretta inciampò in un tappeto e si ferì al ginocchio . Tragedia, commedia: anche questa volta la storia mescolava tutti i generi e i ruoli.
I L PIÙ FASCISTA DEI FASCISTI A Como Pavolini aveva tentato sino alla sera del 26 di rimettere in moto le truppe. Ma era troppo tardi. In assenza del loro capo i membri delle Brigate nere desi deravano ormai solo una cosa: concludere con i capi della Resistenza un accordo che permettesse loro di de porre le armi con la garanzia di aver salva la vita e, se possibile, la libertà. Il testo di questa capitolazione condizionale fu firmato nel corso della notte. Vi si sti pulava che le forze fasciste dov�ssero essere evacuate dalla città prima delle sette del mattino seguente per poi prendere la strada in colonna singola, precedute da una vettura del CLNAI con la bandiera bianca. Il convoglio avrebbe , quindi potuto raggiungere senza problemi la val d'Intelvi, dove i fascisti avrebbero atte so l'arrivo degli Alleati per formalizzare la resa secondo le regole militari . Da lì, si sarebbero inviate delle auto mobili alla ricerca di Mussolini per ricondurlo nella zona neutra della val d'Intelvi. Il mattino del 27 la colonna fascista si avviò in dire zione nord costeggiando la riva occidentale del lago, la stessa che avrebbe dovuto seguire sino a Menaggio sot to il comando di Pavolini . Arrivati a Cernobbio , a me-
Sulla strada per Menaggio
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no di dieci chilometri da Como, i fascisti furono bloc cati da una folla minacciosa che, rifiutando di ricono scere l'accordo firmato nella notte, impedì loro di pro seguire. Le proteste dei capi Romualdi e Costa, tornati a Como per tentare di convincere i partigiani a rispet tare gli impegni presi, e l' intervento dei rappresentanti del CLNAI e degli agenti alleati che si erano associati al le promesse fatte ai fascisti, non riuscirono a vincere le resistenze della popolazione ammassata nella piazza di Cernobbio . I fascisti furono catturati senza combatte re, saldamente legati con mezzi di fortuna e gettati sen za troppi complimenti dentro alcuni camion che ven nero poi parcheggiati in campi imp rovvisati. Pavoliui, dal canto suo, era partito per Menaggio. Quando vi arrivò , il 27 verso le quattro del mattino, anche Mussolini e i suoi avevano raggiunto la località dopo lunghe ore di attesa a Grandola. Tirato giù dal letto nel bel mezzo del sonno, il D uce dovette consta tare che il segretario del partito, arrivato a bordo di un grosso veicolo blindato, non aveva portato con sé più di una dozzina di uomini. Tra i due ci fu un alterco . Mussolini rimproverava a Pavolini di averlo ingannato facendogli credere di poter facilmente riunire cinque mila camicie nere o più. Pavolini replicava di non es sere responsabile della mancanza di spirito combattivo delle sue truppe. Se qualcuno doveva essere criticato era proprio chi, conoscendo la debolezza dei propri collaboratori, li aveva mantenuti al loro p osto, a co minciare dal segretario del partito, cioè lui stesso . Non era però più tempo di soppesare le responsabi-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
lità di chicchessia. La defezione delle unità radunate a Como rendeva ormai chimerico il progetto del ridotto alpino. Su quali forze si p oteva ancora contare per as sicurare almeno in parte, almeno per qualche giorno, per qualche ora, la difesa della Valtellina? Quanto al l'altra soluzione, quella dell' evasione in Svizzera, essa si era rivelata altrettanto illusoria nel pomeriggio del 26, quando un nuovo tentativo era fall ito. A Grandola in fatti gli uomini di Birzer avevano impedito ai fuggia schi di lasciare l ' albergo M iravalle attraverso un'uscita di sicurezza che si apriva verso le montagne e di guada gnare la frontiera elvetica seguendo i sentieri dei con trabbandieri. Al tenente ss era bastato disporre nume rose sentinelle intorno all'albergo per scoraggiare i can didati all'espatrio dal cominciare a mettere in pratica il loro progetto. Un terzo tentativo ebbe luogo verso le quattro del pomeriggio, ma i protagonisti non furono più il Duce e la sua compagna, bensì i gerarchi B uffarini Guidi e Tarchi, oltre a un ex capo della polizia di Bologna, Fa biani. M ussolini era ormai troppo strettamente sorve gliato dagli uomini di B irzer per unirsi ai candidati al l' evasione, ma non fece alcuna difficoltà nell'autorizza re' i tre uomini a tentare il passaggio clandestino in Svizzera. L'impresa era comunque rischiosa e si risolse in un fallimento . Lungo il cammino i fuggiaschi furo no infatti arrestati dai partigiani. Fabiani riuscì a scap pare e a portare la notizia a Grandola, dove M ussolini tentò invano di convincere Birzer ad andare a liberare i due gerarchi arrestati. Anche T archi riuscì in seguito a
SuLla strada per Menaggio
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fuggire. Buffarini ebbe meno fortuna: evaso e poi ri p reso, fu infine condannato a morte da un tribunale speciale e fucilato a Milano il 10 luglio 1 945 . In quella situazione di stallo Mussolini decise, d'ac
co rdo con il suo mentore tedesco, di cercare rifugio a Merano, nell 'Alto Adige. Questa soluzione era stata spesso evocata nel corso delle trattative di metà aprile e godeva dell'approvazione dell ' alto comando tedesco . A Merano la Wehrmacht dispo neva infatti di forze im portanti, addossate alla barriera alpina e facilmente ri piegabili in Baviera attraverso il passo dello Stelvio. Bi sognava però che prima i gerarchi fascisti e il loro se guito arrivassero sin là. Se la Valtellina era vicina, solo una trentina di chilo � etri separava infatti Menaggio dallo sbocco dell 'Adda nel lago di Como, Merano ap
pariva al contrario lontana e difficile da raggiungere. Per arrivarci il convoglio avrebbe dovuto percorrere ol tre duecento chilometri lungo strade accidentate ed esposte alla minaccia permanente di un attacco dell ' a viazione alleata. Nel tardo pomeriggio del 26 il Duce apprese che poteva ancora tentare la fuga per via aerea. Doveva so lo ordinare alla truppa di levare i mmediatamente il campo in direzione di Chiavenna, una ventina di chi
lometri oltre l'estremità settentrionale del lago, dove un aereo da trasporto era pronto al decollo e a portarlo in Baviera. La parti ta si poteva giocare, a patto di co
gliere di sorpresa gli uomini della 52a brigata Garibal di , che intendevano arrivare sul posto per p rimi e im padronirsi del dittatore in fuga. Invece si perse tempo.
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Gli ultimi giorni di Mussolini
Birzer tardò nel dare l'autorizzazione. Lo stesso Musso lini faceva resistenza, persuaso che all'ultimo momento si sarebbero visti arrivare sulla piazza principale di Me naggio i primi elementi della colonna Pavolini. Quan do infine fu deciso nel cuore della notte di dare l' o rdi ne di partenza per il mattino seguente, l'aereo era or mai già decollato, vuoto, dal p iccolo aerodromo di Chiavenna.
IV
L'arresto di M ussoli ni
Co ntemporaneamente a
P avolini era arrivato a Menag
gio un reparto motorizzato di 200 soldati tedeschi ap partenenti a un'unità contraerea e comandati dal tenen te Fallmeyer. Mussolini e la sua scorta di ss decisero di unirsi a questo rinforzo la cui destinazione era per l' ap punto la città di Merano , in Alto Adige. Nessuno igno rava che l'impresa sarebbe stata diffi cile. La montagna era disseminata di gruppi armati che in ogni momento potevano sbucare da una valle e tagliare la strada ai fug gitivi . Ma, dopo tutto, se gli i taliani erano ormai fuo ri dal gioco, gli uomini di Fallmeyer e quelli di Birzer avrebbero invece rappresentato una forza molto signifi cativa al momento di respingere o annientare i partigia ni che avessero incontrato . E poi, c'erano forse alterna tive per il D uce e i suoi compagni ? Rinunciando alla fuga verso nord non sarebbe restato altro che il timore, e in fin dei conti la certezza, di essere presi e fucilati .
PAV O LINI SI IMPROVVISA « CAPOCARRO » La colonna lasciò infine M enaggio poco dopo le cin que del mattino . In essa erano raccolti gli ultimi uomi-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
ni rimasti del governo della
RSI,
qualche membro delle
Brigate nere recuperato a Como da Pavolini, e le ss di B irzer e i soldati di F allmeyer. La fila dei veicoli si al lungava per più di un chilometro . In testa avanzava un curioso mezzo blindato in cui Pavolini aveva preso po sto all'uscita da Como e di cui ass icurava il comando . Seguivano i sei camion della Flak (la contraerea tede sca) , tre altri camion con gli uomini di Birzer e i super stiti dello sbandamento di Como, due automobili Alfa Romeo 2800, tra le quali quella del D uce, e due vettu re di scorta del servizio di s icurezza del Reich. Birzer era a bordo di un 4 x 4 che cambiò più volte posizione, senza dubbio per permettere al tenente ss di localizzare in ogni momento i s uoi « protetti » . D ietro l a vettura del D uce presto disertata dal pro prietario s i sgranava una teoria di veicoli occupati da ufficiali, ministri e alti funzionari del partito, accom pagnati dalle loro famiglie e dai loro cari. A tutti loro l'atmosfera di quello spostamento sembrava uno sban damento generale. A Menaggio la moglie del ministro Ruggero Romano, al quarto rr1ese di gravidanza, aveva dovuto trovare un letto di fortuna in una casa privata, dove era stata accolta insieme al figlio più piccolo di quattro anni, mentre il ministro e il figlio maggiore avevano passato la notte nella loro vettura, una vecchia
1 5 00 Farina. Così, all'alba, si mossero anche gli ultimi rappresen tanti dell'Italia repubblicana, per la maggior parte già presenti nel convoglio partito da Milano : i ministri Zerbino, Mezzasoma, Romano , Liverani, il sottosegre-
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L'arresto di Mussolini tario Barracu, il filologo Goffredo Coppola,
«
magnifi
co rettore » dell' università di Bologna e presidente del l ' Istituto di cultura fascista. L' automobile di M arcello Petacci, sempre accompagnato dalla sorella Clara, dalla compagna e dai figli , chiudeva la fila. Su di essa vi era no le insegne del corpo diplomatico che nelle speranze del conducente avrebbero dovuto assicurargli una mi gliore possibilità di sfuggire ai partigiani . Alla colonna fu necessaria più di un'ora per percor rere metà della s trada che portava al paesino di Musso , situato a soli quattordici chilometri da Menaggio . In fatti a ogni curva un po' stretta la strada diveniva dif ficile per il conducente dell'autoblinda, costringendolo a effettuare numerose ed estenuanti manovre. Dietro , l'intero convoglio doveva segnare il passo. A questa ve locità per raggiungere l'estremità settentrionale del la go ci sarebbe voluta p i ù di una giornata. Fu nel corso di una di ques te soste che Pavolini , la sciando bruscamente il suo veicolo corazzato , si diresse a passo vivace verso l'Alfa Romeo del Duce, gli fece il saluto romano sotto lo sguardo perplesso dell'inevita bile Birzer e dichiarò :
«
D uce, ho il dovere di garantire
personalmente della vostra sicurezza. Vi prego di tra sferirvi con me sull'autoblinda » . Birzer avrebbe potuto resistere, far p resente al segretario del Partito fascista rep ubblicano che aveva in tasca un ordine scritto del F iihrer che gli ingi ungeva di proteggere il suo amico e di co ndurlo sano e salvo in Germania. Invece non ne fece nulla. La parti ta era ormai troppo avanzata, la conclusione troppo prossima, perché il tedesco vo-
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lesse arrivare a una prova di forza con Pavolini. Quan to a Mussolini, sembrava attraversare una nuova fase di abulia. Dopo aver ascoltato senza replicare l'invito del l'ex ministro della Propaganda lanciò uno sguardo in terrogativo verso l'ufficiale s s . Interpretando il suo si lenzio come un tacito accordo scese dalla vettura per raggiungere il veicolo di testa, seguito dall'attendente Pietro Carradori, fedele tra i fedeli, che portava le due grosse borse di -cuoio piene di quei documenti da cui il Duce non si era mai voluto separare dopo la partenza da Milano. Nel blindato avevano preso po sto dietro a loro Nicola Bombacci, il commissario fe derale di Como Paolo Porta e la giovane Elena Curti.
S coNTRO A M usso
Quando il > ripartì tra rumore di ferraglia e gas bruciato Mussolini si trovava seduto tra il conducente Chiavacci e il mitragliere. Pavolini gli aveva ceduto il posto e stava in. piedi dietro di lui, un po' discosto, ab bozzando a ogni sobbalzo del veicolo un gesto protet tivo. Il dittatore aveva rinunciato a opporre qualsiasi resistenza, se non con un moto di fastidio per ciò che un tempo avrebbe considerato come un attentato intollerabile alla propria dignità. Ormai accettava la sua sorte. Aveva riconosciuto questo suo stato d'animo già qualche settimana prima in una conversazione con la giornalista Maddalena Mollier, moglie dell'addetto stampa tedesco, che aveva ricevuto a Gargnano e alla
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L'arresto di Mussolini
quale aveva letteralmente confessato un miscuglio di pena e denigrazione per la propria persona: La morte mi è diventata amica, non mi spaventa più. [ . . . ] Per me non si apriranno le porte se non per la morte. Ed è anche giusto. Ho sbagliato e pagherò, se questa mia povera vita può servire da paga. Non ho mai sbagliato seguendo il mio istinto, ma sempre quando ho obbedito alla ragione. [ . . ] Non incolpo nessuno, non rimprovero nessuno all'in fuori di me stesso . Io sono responsabile, tanto per le cose ben fatte, che il mondo non mi potrà mai negare, quanto per le mie debolezze e la mia decadenza. [ . . ] Sì, signora. Sono finito . La mia stella è tramontata. Lavoro e faccio sforzi, pur sapendo che tutto non è che una farsa. Aspetto la fine della tragedia e, stranamente distaccato da tutto, non mi sento più attore; mi sento come l'ultimo spettatore. 1 .
.
Gli altri passeggeri dell'autoblinda e i membri dell'e quipaggio si erano sistemati alla bell'e meglio, anche se� duti sul pianale del veicolo, e sobbalzavano per le aspe rità del terreno e i cambi di velocità. Per circa un'ora e mezzo il viaggio proseguì, ostacolato solo dalla strettez za della carreggiata rispetto alle dimensioni del mezzo blindato. Erano circa le sette del mattino quando il vei colo dovette fermarsi del tutto a qualche centinaio di metri dalle prime case del paesino di Musso. Un grosso tronco d'albero e alcuni massi ostruivano la strada. Par tÌ subito uno scambio a fuoco tra il blindato e una ven tina di partigiani raccolti intorno al luogo dell'imbosca ta. Alle raffiche irregolari della mitragliatrice posta in
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batteria dietro la corazza di metallo rispondevano quel le degli assalitori, armati di semplici fucili, di pistole mitragliatrici e di granate. Lo scambio non durò più di tre o quattro minuti e fece un'unica vittima: uno sfortunato operaio, un certo Antonio Apolloni, dipen dente di una cava di marmo della zona, che stava sem plicemente recandosi al lavoro. I tedeschi della Flak furono i primi a sventolare ban diera bianca. Forti della loro superiorità numerica e della loro potenza di fuoco, come si era chiaramente visto nel corso della sparatoria, non avevano la minima intenzione di arrendersi: intendevano anzi approfittare di tale evidente sproporzione tra le due parti per nego ziare da una posizione di forza un passaggio pacifico del loro convoglio. Mentre i rappresentanti del gruppo partigiano si av vicinavano anch'essi sventolando bandiera bianca per avviare la discussione con le ss, Pavolini aveva intro dotto un nuovo caricatore nel suo mitra e aveva aperto uno sportello per vedere all'esterno e analizzare la si tuazione. Nel punto in cui si era fermata l'autoblinda la strada era particolarmente stretta, chiusa tra la ripida parete della montagna e un muretto che, sulla destra, correva a strapiombo sul lago . Il veicolo si trovava dunque incastrato tra la barriera costruita dai partigia ni e gli altri mezzi della colonna. Non era possibile rea lizzare alcuna manovra per liberarsi. Che fare? Alcuni propendevano per l'idea di forzare un passaggio, che per gli altri era invece un assalto in evidente posizione d'inferiorità. Lo scontro che ne sarebbe seguito sarebbe
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stato sanguinoso da entrambe le parti , e nessuno sem brava particolarmente desideroso di riprendere il com battimento . La situazione era insomma a un punto morto . Le p resentazioni ebbero luogo quando i due mes saggeri con le bandi ere bianche si incontrarono a metà strada tra l'autoblinda e la barricata. Davanti al tenente Fallmeyer si trovava il comandante della 52a brigata Garibaldi , il conte Pier Luigi Belli ni delle S telle (nome di battaglia
Pedro) ,Z
un awocato fiorenti no coinvolto
da tempo nella lotta partigiana. I due uomini, ognuno accompagnato da due consiglieri, discussero a lungo su co me evitare un inutile eccidio . Pedro si rese subito conto che i tedeschi volevano solo tornare in Germa nia, e il suo scopo non era quello' di catturare qualche dozzina di ss, ma l' istinto gli diceva che nel convoglio bloccato a M usso dovevano trovarsi numerosi rappre sentanti i mportanti delle gerarchie fasciste. Non dispo nendo di mezzi sufficienti per separare costo ro dalla loro scorta, decise dunque di guadagnare tempo e di attendere rinforzi : quando la situazione fosse divenuta più favorevole ai partigiani avrebbe potuto esigere la consegna dei fascisti . Sotto lo sguardo sospettoso di Pavolini e dei passeg geri dell 'autoblinda, Fallmeyer e Pedro si presero dun que tutto il tempo necessari o per addivenire a una de cisione condivisa, passeggiando in lungo e in largo nel la minuscola terra di nessuno che separava i due grup pi, scambiandosi sigarette o conversando con i rispet tivi consiglieri . Mussolini , silenzioso , non lasciava tra-
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sparire alcuna emozione, come se osservasse la scena da un pianeta lontano . Quasi non reagì quando vide una vettura con a bordo sei negoziatori allontanarsi in di rezione di Dongo. Pedro era infatti riuscito a convin cere il suo interlocutore di non potersi prendere da so lo la respo nsabilità di lasciar passare il convoglio: era necessario riferire ai superiori. Se però Fallmeyer avesse voluto accompagnarlo al quartier generale della b rigata Garibaldi, situato a Morbegno, circa quindici chilome tri più a nord, era certo di poter convincere il coman dante in capo delle unità partigiane. La colonna attese quasi sei ore, all'entrata di Musso, il ritorno dei due rappresentanti. Per ingannare il tem po e sgranchirsi le gambe la maggior parte dei soldati tedeschi era scesa dai veicoli, formando piccoli gruppi animati che si scambiavano ricordi di guerra e valuta zioni ottimistiche sull' esito del negoziato con i parti giani. Gli italiani erano più tesi, molto meno fiduciosi riguardo al risultato finale delle trattative in corso. Sa pevano che la loro vita era appesa a un filo e che le pos sibilità di cavarsi dai guai diminuivano di o ra in ora. Vi furono anche coloro che tentarono di approfittare della sosta forzata a Musso per fuggire, portandosi via almeno una parte del bottino di cui si erano impos sessati lasciando Milano. Questo bottino era frutto di una distribuzione ordinata da M ussolini o di iniziative personali: prima di partire ogni gerarca si era preoccu pato di vuotare le casse dello Stato, raccogliendo tutti i valori e gli oggetti p reziosi ammassati nell'esercizio del le proprie funzioni.
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Alcuni riuscirono a prendere il largo . Altri si rifugia rono presso i paesani, offrendo fortune a chi avesse lo ro procurato abiti civili, o supplicando chi li ospitava di proteggerli da furti e perquisizion i « sino alla fine della guerra », naturalmente in cambio di denaro . Più audace, o forse meno ingenua, la moglie del mini stro Romano , Rose Marie M ittag, riuscì a raggiungere la frontiera svizzera in un camion della Flak portandosi dietro un numero impressionante di valigie piene sino a scoppiare di ogni genere di beni preziosi, che la po lizia -svizzera si affrettò a confiscare. L'inventario del bottino è eloquente: 300 chili di argenteria, 700 gram mi d'oro , 1 3 50 monete d' oro , 1 60.000 lire, 63.700 dollari,
4 anelli con brillanti, 2700 sterline, 1 7. 000
franchi svizzeri , 1 5 milioni di franchi francesi e altri oggetti preziosi non catalogabil i destinati, senza dub bio, ad attenuare i rigori dell' esilio . .
.
3
La lunga sosta a Musso offrì a Claretta l'occasione di raggiungere l'amante nell 'autoblinda, cosa che si af frettò a fare visto che in essa si trovava, come abbiamo visto , colei che la Petacci considerava una rivale: non aveva certo l'intenzione di lasciarsi scavalcare da una ragazzina. D 'altro canto non voleva neppure rivendica re davanti agli altri passeggeri il suo ruolo di favorita. Sin dall' in izio della loro relazione, infatti, M ussolini aveva preteso da lei su questo punto un certo riserbo, benché la sua condizione di compagna preferita del Duce
fosse
nota alla maggioranza degli
italiani.
« Non vuoi giocare anche tu a fare la p residentessa, ve ro? » le aveva detto lui senza mezzi termini. « C 'è già
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stata una donna che mi ha fatto fare delle coglionerie, e non intendo sopportarne una seconda. » Clara Petacci non aveva l'intenzione di fare la presi dentessa, né coltivava l'ambizione di sostituire la Sar fatti nel ruolo di consigliera politica e culturale che la veneziana aveva svolto per quasi quindici anni al fianco del dittatore. Desiderava una cosa sola: stare con l'uomo che amava. Prima di montare sull'auto blinda che ostruiva la strada, Claretta aveva indossato sopra il tailleur una tuta da operaio e una cuffia da aviatore. Pensava certo così travestita di poter sfuggire alla curiosità degli altri passeggeri, a cominciare da Pa volini ed Elena Curti. Non servì a nulla, ma comun que le fu permesso di entrare nel veicolo. Giunta all'al tezza di Mussolini disse semplicemente: « Come state, eccellenza? » Aveva parlato sussurrando, e il dittatore le rispose con un « Bene, grazie, signora )) appena udibile. Da ore non pronunciava parola, limitandosi a osserva re la montagna da un'apertura del veicolo, con gli oc chi spenti. e il corpo ripiegato, in una postura che ricor dava la morte. Un solo dettaglio smentiva la sua com pleta trascuratezza: era rasato di fresco. Ma non si trat tava di vanità; era semplicemente accaduto che il suo barbiere personale, il soldato Otello Montermini, aves se voluto approfittare della sosta per esercitare il suo ufficio, e il Duce non si era sentito di rifiutargli quel l' onore. Avendo compreso che non avrebbe ricevuto altre ri sposte, Claretta trascorse il resto della mattinata ai pie di del suo amante, acciambellata come un cane sgrida-
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to senza motivo, silenziosa, immobile, senza mai ab bandonarlo con lo sguardo, se non per lanciare occhia te omicide alla giovane rivale.
D oNGO
Poco dopo l'una Fallmeyer rientrò a Musso portando ordini redatti dallo stesso Pedro. Nel frattempo, come quest'ultimo aveva previsto, il piccolo gruppo di parti giani si era ingrossato e contava ormai più di un cen tinaio di combattenti . Prima di parti re per Morbegno Pedro aveva ordinato a uno dei suoi principali collabo ratori, il vicecommissario politico Bill (Urbano Lazza ro) , di mettere in atto il dispositivo tattico della brigata e di far minare il ponte detto della Vallorba, situato una quindicina di chilometri più a nord. La distruzio ne del passaggio sopra il fìume Mera avrebbe tagliato ai fuggitivi la via per Chiavenna e la Svizzera, nel caso fosse questa l'intenzione di Fallmeyer e dei suoi uomi ni, come credevano i capi della Resistenza. Le condizioni stabilite dal capo della 52a brigata Ga ribaldi erano assai severe per gli italiani . Si accordava invece il passaggio ai tedeschi, con l'unico impegno di fermarsi a Dongo per far controllare e perquisire i veicoli . Gli italiani e le vetture civili dovevano essere consegnati ai partigiani . Si trattava dunque di un ulti matum, al quale Fallmeyer si piegò con ripugnanza. Il suo onore di ufficiale gli vietava in teoria di cedere pri gionieri al nemico, in particolare se tale nemico non
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apparteneva ad alcun esercito regolare. Ma la missione di cui era stato incaricato consisteva nel condurre i suoi uomini sino a Merano, e non vi era altro modo di compierla che accettare le imposizioni dei partigiani. Il problema di coscienza fu ancora peggiore per Birzer, cui Hitler aveva personalmente affidato la sicurezza del collega fascista e del suo seguito . Ma se gli uomini del la Flak fossero partiti verso nord, al tenente ss sarebbe rimasta solo una trentina di effettivi. I due ufficiali si rassegnarono quindi ad accettare le condizioni stabilite da Pedro, fingendo di credere davvero che si chiedesse loro « solo » di consegnare degli italiani a degli altri ita liani. Coloro che abbandonavano erano fascisti, senza dubbio, cioè degli alleati, ma la loro adesione alla RSI non era bastata a far dimenticare ai tedeschi il tradi mento del 25 luglio. L'annuncio dell'accordo raggiunto tra partigiani e tedeschi si diffuse rapidamente per tutto il convoglio, provocando la collera di Pavolini e Utimpergher, com missario federale di Lucca e principale collaboratore del capo del partito. Questi non aveva certo atteso l'ul timo momento per interrogarsi sulle possibilità che aveva l'autoblinda di resistere a un attacco partigiano. Il veicolo, lungo otto metri, largo due e alto quattro, era certo in grado di impressionare gli avversari. Equi paggiato con un cannone da venti millimetri sistemato all'interno di una torretta mobile, e con tre mitraglia trici da otto millimetri, da lontano poteva sembrare quasi inespugnabile. Ma da vicino, in cambio, si nota va presto che il formidabile mezzo, consegnato a Pavo-
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lini dai fascisti lucchesi, aveva un valore più che altro dissuasivo . Si trattava in realtà di un semplice autocar ro Lancia 3RO che un abile artigiano di Piacenza aveva corazzato con piastre metalliche da nove millimetri . Così appesantito e rallentato , e vista l a scarsa manegge volezza, il mezzo diventava un bersaglio perfetto per lanciatori di granate e o rdigni incendiari . I passeggeri dell 'autoblinda videro presto avanzare verso di loro Birzer, affiancato da due ss. Il tenente ci teneva ad annunciare lui stesso a Mussolini che Fall meyer aveva ceduto alle richieste dei partigiani e che l'unità della Flak sotto il suo comando stava per ri prendere la strada senza gli italiani. Birzer, la cui mis sione non aveva più ragio ne di esistere, visto che i suoi « pro tetti » sarebbero divenuti p rigionieri di Pedro e della sua brigata, doveva quindi risolversi a seguire i compatrioti nella ritirata. Mussolini non comprese subito tutta la gravità della situazione. Credette di capire che Birzer gli annunciava la p rossima partenza del convoglio e il tedesco dovette ripetersi due volte per riportarlo alla realtà, esponendo gli lo stratagemma che aveva ideato per tentare di sal vario . Il dittatore caduto doveva rassegnarsi ad abban donare i suoi compagni di strada e montare su un ca mion della Flak dopo aver indossato un'unifo rme tede sca. Sarebbe riuscito con questo travestimento militare a sfuggire alle perquisizioni che dovevano avere luogo a Dongo ? Le speranze di successo erano poche e a Mus solini ripugnava indossare un'unifo rme straniera, ben ché di un paese amico. Pavolini lo incoraggiava a op-
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porsi: « Meglio restare tutti insieme, D uce » , insisteva il segretario del Partito fascista repubblicano. Birzer lo fe ce tacere con un gesto della mano prima di proseguire: «
Fra poco i partigiani perquisiranno la colonna. Certa
mente vi riconosceranno. Dovete decidervi » . Mentre gli uomini della 5 2a brigata Garibaldi ini ziavano effettivamente a fare perquisizioni senza atten dere l'arrivo a Dongo, Claretta ed Elena si alternarono nel tentare di convincere Mussolini ad accettare la fuga poco onorevole che gli era stata proposta. Claretta ave va seguito la scena con molta attenzione, seduta sul predellino del blindato. Approfittando di un breve momento di silenzio, e vedendo che l'amante si era voltato nella sua direzione, pronunciò con la voce più ferma che riuscì � trovare queste parole:
«
Duce, fa
te come vi dice. S alvatevi. Dovete salvarvi » .
Al suono d i quella voce, tenera e imperiosa a un tempo, Mussolini si riscosse bruscamente dal torpore. Si alzò, rivolse a Claretta uno sguardo che voleva essere rassicurante, poi, girandosi verso Birzer, dichiarò che accettava di fare quanto gli era richiesto , ricordando al tenente tedesco che aveva il dovere di difenderlo .
« È quanto sto facendo, Duce » , rispose B irzer.
«
Inten
do portarvi sano e salvo nel Reich. » La scena che seguì fu particolarmente penosa. M us solini dovette ricorrere all'aiuto di Claretta e di Birzer per indossare il pesante pastrano di un sergente della Luftwaffe. Il corpo smagrito si perdeva nello _spesso in dumento che lo copriva dalla testa ai piedi. Anche l'el metto che gli procurarono non era della sua taglia. Ma
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soprattutto, per l'emozione o per semplice goffaggine, M ussolini commise il grossolano errore di indossarlo alla rovescia. Il dramma si tram utava in farsa? Tutti trattennero il respiro . Pavolini non lasciò ai passeggeri del blindato il tempo di reagire. Con uno sguardo gla ciale raggiunse il dittatore ridotto a possibile oggetto di scherno e con un gesto nervoso gli sistemò l'elmetto sulla testa. S ino a quel momento sembra che M ussolini non avesse ancora davvero compreso che stava per abban donare i suoi compagni. Fu dunque il travestimento che gli fecero indossare, completatO da un paio di oc chiali da sole, che provocò infine la sua ribellione? Di chiarò a Birzer che non avrebbe fatto un passo di più se i suoi ministri non fossero stati autorizzati a seguirlo. E se i capi partigiani si fossero mostrati intrattabili insi steva: « almeno la mia amica. Almeno la signora potrà rimanere con me . » , disse. Nessuna delle due richieste fu giudicata accettabile: a che mai poteva servire trave stirlo da tedesco per vederlo arrivare a Dongo accom pagnato dai gerarchi e dalla favorita? Mussolini fu pre so da una delle sue violente collere e gettando rabbio samente a terra r elmetto che aveva indossato con tanta difficoltà dichiarò di non voler proseguire oltre. Da quando era stato incaricato di proteggere e sor vegliare il D uce, Birzer aveva anche imparato a gestirne le esplosioni di collera. Bastava lasciar passare la bufera e la cosa, diversamente da quanto accadeva con il Fiih rer, richiedeva solo qualche minuto. L'ufficiale attese quindi che r ex capo dell'Italia fascista si calmasse, si ri.
.
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mettesse l'elmetto e dichiarasse di essere pronto a se guido. Nel momento in cui uscivano dall'autoblinda Pavolini tentò un'ultima volta di trattenerlo, ma Mus solini lo respinse con un gesto sprezzante: « Voi e le vo stre fantomatiche Brigate nere. Dove sono finiti tutti gli uomini che mi avevate promesso? » Poi, rivolto agli altri fascisti che attendevano dall'uomo che avevano tanto ammirato e adulato un segno di riconoscenza e di compassione, pronunciò una frase che fece venire le lacrime agli occhi dei più fedeli, a cominciare dal se gretario del partito: « Vado con i camerati germanici perché non posso più fidarmi degli italiani ». 4 Al momento di montare sull'autocarro della Flak targato WH 529527, si voltò in direzione di Birzer e di chiarò: « Accetto a malincuore la vostra idea. Non vo glio cadere in mano ai partigiani. Qui ci sono dei do cumenti di estrema importanza. Ho qui delle tali pro ve di aver cercato con tutte le mie forze di impedire la guerra che mi permettono di essere perfettamente tran quillo e sereno sul giudizio dei posteri » . Più avanti esa mineremo meglio il tenore dei « documenti di estrema importanza » di cui numerosi testimoni dichiararono di aver preso visione dopo l'arresto del Duce, il quale, fin da Milano, aveva tentato di non perdere di vista le tre borse in cui li aveva raccolti. Prima di separarsi dai compagni ne affidò una a Vito Casalinuovo, suo uffi ciale d'ordinanza, e un' altra a Clara Petacci, tenendosi la terza. Sospinto in mezzo agli uomini di Fallmeyer, si teneva stretto quel bagaglio, così preoccupato di non
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farselo rubare da non rendersi conto di quanto stava accadendo nella strada. Claretta, in lacrime, aveva seguito l' amante sino al camion della Flak e tentò di salire a bordo facendosi aiutare dai soldati . A un gesto di Birzer due 55 si pre cipitarono a prendere la donna per le braccia e a so spingerla senza troppi complimenti nel fosso, dove la Petacci rotolò nella polvere . Dopo averla rimessa in piedi e aver verificato che non avesse nulla di rotto, la riaccompagnarono sino alla vettura del fratello, in coda alla colonna. Da Musso a Dongo, il paese in cui doveva aver luo go la perquisizione dei camion, vi sono meno di quat tro chilometri. Ciò significa che, liberata la strada, il convoglio tedesco raggiunse in pochi minuti la piazza centrale. Erano precisamente le 1 5 .30 quando i parti giani iniziarono a sollevare il telone del primo veicolo. Non trovarono nulla che meritasse di essere segnalato, così come nei camion seguenti. Fu solo alla perquisi zione del quinto automezzo che scoprirono il capo del la R5 1 , rannicchiato nel pastrano grigioverde, coperto dall'elmetto e con lo sguardo nascosto dalle spesse lenti scure degli occhiali. Mussolini, su consiglio dei
«
came
rati », si era rialzato il bavero e fingeva di dormire ubriaco . Lo si sarebbe senza dubbio lasciato fuggire se uno dei partigiani, Giuseppe Negri (nome di batta glia
Zocolin) ,
non avesse creduto di riconoscere sotto il
travestimento l'uomo che aveva guidato l'Italia per più di vent'anni. Negri comunicò i suoi sospetti a Bill, co-
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mandante in seconda della 5 2a brigata Garibaldi, e questi andò subito a verificare. Avendo riconosciuto il dittatore, Bill si arrampicò sul camion e gli toccò la spalla chiamandolo « Camera ta! ». Il sospetto non reagì. Bill insistette: Eccellen za! ». Di nuovo nessuna risposta. Il terzo tentativo fu quello buono: « Cavalier Benito M ussolini » . Non po tendo più negare l'evidenza il Duce si alzò, si levò l'el metto di cui l'avevano agghindato, abbassò il colletto e si lasciò togliere senza protestare il mitra messogli in mano dai tedeschi prima della partenza da M usso . Bill non riusciva a credere di aver avuto la fortuna di mettere le mani così facilmente sull'uomo più ricercato d'Italia. La sua prima reazione fu di ordinare ai parti giani che circondavano il camion di puntare le armi sull'equipaggio. Come immaginare che i tedeschi po tessero permettere l'arresto del capo della Repubblica sociale senza reagire? Trascorsero due o tre minuti pri ma che Bill si sentisse più sicurÒ . Non si era trattato di una trappola. I tedeschi a bordo dei camion della Flak non avevano la minima voglia di combattere. Erano certo più numerosi e meglio armati dei partigiani, ma nessuno di loro intendeva rimettere in discussione l'accordo raggiunto da Fallmeyer e Pedro . E nessuno si sognò di· alzare un dito per difendere l'amico di Hitler, se non altro perché quelli erano stati gli ordini ricevuti dal tenente Birzer. Anzi, furono proprio i tedeschi ad abbassare il predellino posteriore del camion per faci litare la discesa del prigioniero. Bill attese che questi fosse ben piantato a terra prima di comunicargli l'arre«
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sto « in nome del popolo italiano secondo la formula consueta. Si condusse subito il prigioniero nel municipio del paese, divenuto per alcune ore il quartier generale della Resistenza locale. Nel corso del breve spostamento Mussolini ebbe modo di misurare l'impopolarità, o meglio l'odio, che avevano suscitato nella popolazione la sua complicità con Hitler e le atrocità commesse in suo nome dai miliziani e dalle brigate in camicia nera di Pavolini. Molti abitanti di Dongo portavano il faz zoletto rosso della Resistenza comunista. Si reclamava a gran voce l'immediata messa a morte del tiranno. Mussolini dovette molto - ma per quanto tempo? al sangue freddo di Bill e alla disciplina che sapeva im porre ai suoi uomini: « Finché sarete sotto la mia sor veglianza, Duce, la vostra sicurezza personale è garan tita ». In municipio Mussolini fu presto raggiunto dalla maggior parte dei componenti del primo convoglio. Non appena l' ultimo camion della Flak si era allonta nato dalla barriera costruita dai partigiani, gli uomini della 52a brigata avevano cominciato a fermare le vet ture che cercavano di fuggire in direzione di Como prendendo ne in consegna gli occupanti. Solo l'auto blinda di Pavolini restava sul posto, immobilizzata. Per far passare i camion di Fallmeyer aveva infatti do vuto portarsi sulla sinistra della strada sino a sfiorare la parete rocciosa. Non era la posizione migliore per ef fettuare una retromarcia e cercare di ripercorrere il cammino in senso inverso a quello d' arrivo, soprattut»,
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to dovendo effettuare � gni manovra sotto la minaccia della mitraglia. Vista la situazione, perché non tentare l'impossibile? Un tentativo aveva già avuto luogo ancora prima che Mussolini finisse di travestirsi da sergente dell' aviazio ne tedesca. Alcuni giovani miliziani fascisti avevano prelevato due soldati della scorta minacciando di trat tenerli come prigionieri se non si fosse autorizzato il passaggio dell'autoblinda. Un altro ufficiale tedesco avrebbe forse potuto cedere, ma Birzer non era di quel li che abbandonano facilmente la preda. Si impossessò di un lanciarazzi anticarro e li costrinse, sotto la minac cia dell'arma, a liberare gli ostaggi. Nel frattempo Barracu, Casalinuovo e Utimpergher erano riusciti a prendere contatto con Pedro. Il coman dante della 52a brigata Garibaldi, che aveva servito co me ufficiale nell'esercito italiano, considerava disono revole per un militare l'abbandono dei compagni alla loro sorte, e sapeva che non avrebbe potuto evitare il plotone d'esecuzione alla maggioranza dei prigionieri. Era dunque incline a trovare un compromesso, anche perché il vecchio Barracu era riuscito a suscitare in lui una certa simpatia, con la benda di cuoio che copriva l'occhio perduto in Etiopia e la medaglia al val or mi litare fieramente appuntata sul petto. Si decise quindi che i fascisti non si sarebbero opposti alla partenza dei camion tedeschi per Dongo e che in cambio gli occu panti dell'autoblinda e il loro seguito sarebbero stati autorizzati a fare dietrofront in direzione di Como. Da entrambe le parti si diffidava dell'avversario.
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Non tutti gli uomini della 52a brigata provavano la stessa compassione manifestata dal loro capo per il pic colo gruppo dei gerarchi. Pedro e Bill sapevano di es sere nettamente in minoranza in un' unità composta principalmente da comunisti . Così l'avvocato fiorenti no aveva annunciato le sue condizioni : « Non azzarda tevi ad avanzare di un metro. I miei uomini saranno pronti ad aprire il fuoco » . Anche all 'interno del blindato erano i più i ntransi genti a dettar legge. Pavolini aveva sempre in mente il ridotto alpino, ma capiva bene che la sua fortezza me tallica aveva poche possibilità di sfondare il blocco. Bi sognava dunque accettare le condizioni fissate da Pe dro. «
« L'importante è toglierei da qui » , affermò .
Poi si vedrà. » S ignificava fare dietrofront i n direzione
sud e, alla prima occasione, prendere la via della mon tagna. Erano passati solo tre quarti d'ora da quando a Dongo era iniziata la perquisizione dei camion della Flak. Nell'autoblinda il silenzio era pesante. I volti era no tesi. I fascisti, con il dito sul grilletto dei fucili o del le pistole mitragliatrici, attendevano quasi come una li berazione che i partigiani si manifestassero. Erano esat tamente le 1 6. 1 5 quando, come previsto dagli accordi presi con Pedro, Pavolini ordinò al conducente di av viare il mezzo . Il motore rombava a pieno regime, ma il veicolo non avanzava di un centimetro. Le ruote po steriori erano infatti bloccate dal canaletto che costeg giava la strada e per liberarle il conducente non poteva far altro che accelerare al massimo. Merano Chiavacci,
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ai comandi, era un asso della guida, ma non riuscì a impedire che uscendo dal solco il veicolo fosse catapul tato in mezzo alla carreggiata. Il balzo in avanti, subito bloccato con un energico colpo di freno, non superò i due metri, ma bastò per far gridare al tradimento i ran ghi nemici. Subito i partigiani risposero con tiri di ar mi automatiche e lancio di granate, cui replicarono i colpi dei passeggeri del blindato. In seguito a questo primo scontro i fascisti dovettero constatare la propria inferiorità rispetto agli avversari, in vantaggio per numero e per posizione sul terreno . Una granata aveva danneggiato la ruota anteriore de stra dell'autoblinda, impedendo a Chiavacci di effet tuare retromarcia. Il veicolo era quindi definitivamente immobilizzato . A bordo c'erano due uomini feriti a morte: il maresciallo Taiti, detto « Nonno », e l'auti sta di Claretta, il brigadiere Gasperini. Quando il fuoco riprese, dopo una pausa di due o tre minuti, i fuggitivi si consultarono. Dovevano ar rendersi, sperando in chissà quale miracolo, per esem pio l'arrivo degli Alleati, o sferrare un attacco perso in partenza per salvare almeno l'onore e la fedeltà alla causa? Barracu, favorevole alla resa, fu bruscamente ri chiamato all'ordine da P avo lini: « Dobbiamo morire da fascisti », gridò il numero uno del partito, « non da vigliacchi! » E aprendo la porta del blindato si lanciò con il mitra a bandoliera contro i partigiani. Lo segui rono alcuni altri che saranno tutti catturati prima del pomeriggio: De Benedictis, Porta, Casalinuovo . Pavolini, dopo aver dato filo da torcere ai suoi inse-
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guitori, fu l' ultimo ad arrendersi. Nascosto dietro le rocce o tra i cespugli che bord�ggiavano il lago, ferito da un colpo di fucile da caccia, mezzo annegato nel l' acqua gelida dove aveva trascorso alcune ore, il co mandante delle Brigate nere si arrese solo dopo aver vuotato l'ultimo caricatore della sua arma. Fu subito condotto a Dongo, dove sfuggì a fatica al linciaggio e ritrovò la maggior parte dei suoi compagni di sven tura. Inzuppato di cognac, l'unica cosa che si era tro vata per disinfettargli le ferite e attutire il dolore, Pavo lini fu chiuso in una sala del municipio vicino a quella occupata da Mussolini. I due uomini non si sarebbero . . . pm flVlStl. '
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Il primo annuncio dell'arresto di Mussolini da parte degli uomini della 52a brigata Garibaldi pervenne ai rappresentanti del CLN,AI di Milano il 27 aprile alle
1 7.30, cioè un'ora e venti minuti dopo il riconoscimen to del Duce travestito da sergente di aviazione tedesco .
A tale annuncio fece seguito una pioggia di fonogram mi, telefonate e messaggi portati da staffette, tutti re datti al fine di informare dell'avvenimento le varie or ganizzazioni della Resistenza, e cioè il CVL, la Guardia di finanza e il comando delle brigate Garibaldi .
CHI VUOLE LA TESTA D I B ENITO M US S O LI N I ?
Per chi intende valutare i l rapporto d i fo rze d a cui di penderà in ultima analisi la sorte del dittatore e dei suoi ministri, sarà utile ricordare quali fossero allora le componenti della Resistenza italiana nell'Italia set tentrionale e centrale . Intanto precisiamo che la Resi stenza stessa era nata dalla trasformazione in movi mento clandestino dei dopo il 25 luglio .
«
co mitati antifascisti » fo ndati
A partire dall' autunno del 1 943, al
l' indomani dunque della creazione della Repubblica
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sociale, nelle regioni ancora non liberate dagli Alleati si costituirono gruppi partigiani. In essi confluirono nu merosi ufficiali e soldati che desideravano sfuggire alla nuova mobilitazione decretata da Mussolini dei mili tanti fascisti, cui si aggiunsero tutti coloro che non vo levano essere arruolati nella milizia del Partito fascista repubblicano o nel Servizio di lavoro obbligatorio in Germania. In collegamento con gli angloamericani, questi gruppi avrebbero presto svolto un ruolo di ausi liari attivi degli Alleati nella liberazione dell'lt�lia cen trale durante l'estate del 1 944, e in seguito dell'Italia settentrionale. Per iniziativa del Partito comunista, nelle città si formarono i Gruppi d'azione patriottica (GAP) , orga nizzazioni formate da nuclei isolati l'uno dall'altro che praticavano azioni di guerriglia urbana contro i te deschi e i fascisti: attentati dinamitardi, uccisione di militanti fascisti, attacchi a miliziani e soldati della Wehrmacht ecc. Dopo la liberazione di Roma (giugno 1 944) il Comitato di liberazione nazionale (CLN ) , creato il 9 settembre del 1 943 , si installò nella capitale e affidò al Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia (CLNAI ) , sviluppatosi autonomament.e con sede a Milano, l� missione di coordinare l'insieme delle forze di resistenza nel territorio occupato . Nello stesso tem po fu fondato il Corpo dei volontari della libertà (cvL) , composto da cinque capi dei partigiani rappre sentanti le diverse tendenze della Resistenza. L' organiz zazione si era dotata anche di un consigliere militare che ne divenne comandante, il generale Raffaele Ca-
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dorna, nipote del generale che nel 1 870 aveva concluso la presa di Roma e figlio del capo di stato maggiore della prima guerra mondiale, e di due vicecomandanti, il comunista Luigi Lo ngo e il dirigente del Partito d'a zione Ferruccio P arri. Alla fine del 1 944 la Resistenza dell'Italia settentrio nale e centrale ottenne la consacrazione ufficiale con la firma di un accordo secondo i cui termini lo stato maggiore alleato accettava di collaborare con il CLNAI , di fornirgli armi, materiali e denaro . In cambio i rap presentanti della Resistenza si impegnavano ad accetta re le direttive dell'alto comando alleato, a proteggere le risors � economiche delle zone in cui operavano contro i tentativi di distruzione da parte del nemico e ad assi curare legge e ordine, dopo la ritirata di quest'ultimo, sino all'arrivo delle truppe angloamericane. Qualche giorno dopo il governo italiano (allora presieduto da Ivanoe Bonomi) delegava al CLNAI i propri poteri nella zona occupata. L'organizzazione poté dunque scatena re l'insurrezione generale in Italia settentrionale dell'a prile 1 945 in qualità di rappresentanza universalmente riconosciuta dell'Italia che resisteva. Il pluralismo che caratterizza in questo momento l a composizione degli organi dirigenti della Resistenza non deve comunque nascondere quali fossero i reali rapporti di forza tra i diversi partiti, sia dal punto di vista dell'adesione di massa alla tale o tal altra forma zione, sia dal punto di vista del peso militare. Proprio su quest'ultimo punto è innegabile la schiacciante su periorità del PCI in termini di effettivi e di direzione.
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Le brigate Garibaldi , che da sole rappresentavano l' ot tanta per cento circa del po'tenziale di combattimento della Resistenza, erano emanazione diretta del Partito comunista. E tuttavia al loro interno contavano un cer to numero di responsabili di unità appartenenti ad al tre tendenze, che si distingueranno per coraggio, auto rità e talento militare, quali il monarchico Aldo Ca staldi, l'anarchico Emilio Canzi, o ancora Pier Luigi Bellini del le Stelle, comandante della 52a brigata.
Ricordiamo che dal 1 2 aprile Mussolini era oggetto
di una decisione del
CLNAI
che ordinava l ' arresto del
l ' ex di ttatore denunciato, con gli al tri membri del go verno di Salò, come « traditore della patria e criminale di guerra » . Tale dichiarazione, pur omettendo di pre cisare chi avrebbe dovuto emettere la condanna, stabi liva implicitamente la sorte degli accusati . I l 25 aprile, nel co rso della sua ultima riunione clandestina, il co mitato milanese aveva precisato senza alcuna ambigui tà che i membri del governo repubblicano e i gerarchi della RSI sarebbero incorsi nella pena di morte quando si fosse stabilita la loro colpevolezza in materia di sop
pressione delle garanzie costituzionali e delle lib e rtà popolari, di creazione di un regime dittatoriale e di re sponsabili tà diretta negli avvenimenti che avevano condotto il paese alla catastrofe. Solo i vi » , non meglio precisati, avrebbero
«
«
casi meno gra
beneficiato » del
l' ergastolo. Il CLNAI , detentore delle funzioni di governo nei territori occupati dall 'esercito tedesco e dai suoi ausi liari fascisti, era composto dai rappresentanti di cinque
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partiti antifascisti : Emilio Sereni e Luigi Longa per il Partito comunista, Sandra Pettini e Rodolfo Moranti per il Partito socialista, Leo Valiani e Ferruccio Parri per il Partito d'azione (erede del movimento Giustizia e libertà) , Giustino Arpesani e Stefano }acini per il Partito liberale e infine Achille Marazza e Augusto De Gasperi (fratello di Alcide) per la Democrazia cri stiana. In questa costellazione di formazioni politiche il cui tratto comune era di aver partecipato alla lotta con tro il fascismo, i comunisti non erano dunque in mag gioranza. Però erano i soli a poter rivendicare un ap poggio popolare e una forza insurrezionale importanti, ed erano quindi in grado di esercitare forti pressioni sui decisori milanesi. Inoltre con i socialisti e gli « azio nisti », peraltro assai meno numerosi e influenti, essi costituivano una coalizione nettamente orientata a si nistra. Bisognava che Mussolini fosse molto ingenuo, o assai mal consigliato, per immaginare che nel mo mento di un secondo disfacimento del fascismo avreb be potuto ottenere dalla direzione socialista una presa di distanza dai suoi alleati e ricevere dalle mani dell'ex direttore dell'Avanti! le ultime briciole di un potere che era ormai sul punto di essere conquistato nelle strade proprio dagli amici di Pertini e Valiani, gomito a gomito con le altre formazioni di sinistra. In ogni caso, nel momento in cui la notizia dell' ar resto del Duce da parte degli uomini di Pedro e Bill raggiunge Milano, il potere è già saldamente in mano a un piccolo gruppo di sei o sette persone che compo neva un Comitato insurrezionale delle tre formazioni
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di sinistra: PCI , PSI e Partito d'azione. Il gruppo non era un'emanazione del CLNAI né del CVL e di esso fa cevano parte nelle prime posizioni Luigi Longo, Emi lio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani. Fu questo Co mitato insurrezionale che, di sua iniziativa, ordinò l'uccisione di Mussolini e dei gerarchi in totale con traddizione con la missione che il Comitato di libera zione nazionale aveva poco prima affidato al colonnello Valerio e che consisteva nel prendere in consegna l'ex dittatore e portarlo vivo a Milano. Solo in sP.guito, a cose fatte, si fece approvare la decisione dall'insieme dei membri del CLN . E chiaro che i comunisti svolsero in questa faccenda un ruolo primario, a cominciare dal numero uno del partito, Palmiro Togliatti, che in seguito rivendicò di aver ordinato anche lui, in qualità di segretario del PCI e di vicepresidente del governo, l'esecuzione di Musso lini e degli altri membri del governo repubblicano. Ma forse non furono i comunisti i più accaniti nel recla mare la testa del dittatore. Ne danno testimonianza al cune dichiarazioni di Sandro Pertini. E in effetti fu il numero uno del Partito socialista, il 27 aprile alle nove di sera, a pronunciare queste parole dalla stazione ra dio di corso Sempione: '
Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la fron tiera svizzera, è stato arrestato . Egl i dovrà essere consegnato al tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. Questo noi vogliamo, nonostante che noi pensiamo che per
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quest'uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso. 1
Secondo l'avvocato Achille Marazza, la cui testimo nianza pubblicata in Oggi illustrato risale al 1 965, la decisione di uccidere il Duce dopo la cattura da parte dei partigiani della 52a brigata Garibaldi non fu prece duta da alcuna deliberazione collettiva in seno al CLNAI . Inoltre aggiunge: ·
Nel pomeriggio del 29 aprile 1 945 ci fu una riunione del CLNAI in prefettura [ . . ] In quella riunione Pertini sostenne la necessità che il CLN emettesse un comunicato ufficiale, nel quale fosse detto che esso aveva ordinato la cattura e la fucilazione di Mussolini, assumendosi così la responsabi lità dell'accaduto.2 .
Sembra oggi assodato che, sin dalla mattina del 27 aprile, Pettini, Longa, Sereni e Valiani avessero costi tuito il loro Comitato insurrezionale e che questo or ganismo, il cui scopo era inquadrare e orientare politi camente la sollevazione milanese, avesse già deciso che Mussolini dovesse essere fucilato senza processo non appena fosse caduto nelle mani dei partigiani. Si do vette poi legittimare la morte del capo della Repubbli ca sociale e dei suoi compagni, e per far questo era ne cessario esibire l' approvazione del Comitato di libera zione nazionale. F u questo il tema della riunione del 29 aprile, che provocò vivaci discussioni tra i rappre sentanti dei tre partiti di sinistra e quelli delle forma-
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zioni moderate, i liberali e i democristiani. Pertini li mise di fronte al fatto compiuto chiedendo con foga ai colleghi più esitanti di associarsi ai dirigenti del Co mitato insurrezionale e di offrire così un'immagine di unanimità a tutti coloro che avrebbero in seguito po tuto rimproverare al CLNAI la sua collusione di fatto con gli autori del macabro spettacolo di piazzale Lore to . Fu dunque a seguito di un voto unanime che venne adottata la seguente risoluzione: Il CLNAI dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase sto rica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie ma teriali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ri costruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale - che il fascismo per venti anni gli ha negato - se il C LNAI non avesse tempestivamente dimo strato la sua ferrea decisione di saper fare suo un giudizio già pronunciato dalla storia. Solo a prezzo di questo taglio netto con un passato di vergogna e di delitti, il popolo ita liano poteva avere l'assicurazione che il CLNAI è deciso a proseguire con fermezza il rinnovamento democratico del Paese. Solo a questo prezzo la necessaria epurazione dei re sidui fascisti può e deve avvenire, con la conclusione della fase insurrezionale, nelle forme della più stretta legalità. Dell'esplosione di odio popolare che è trascesa in que st'unica occasione a eccessi comprensibili soltanto nel clima voluto e creato da Mussolini, il fascismo stesso è l'unico re sponsabile. Il C LNAI, come ha saputo condurre l'insurrezione, mira-
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bile per disciplina democratica, trasfondendo in tutti gli in sorti il senso della responsabilità di questa grande ora stori ca, e come ha saputo fare, senza esitazioni, giustizia dei re sponsabili della rovina della Patria, intende che nella nuova epoca che si apre al libero popolo italiano, tali eccessi non abbiano più a ripetersi. Nulla potrebbe giustificarli nel nuovo clima di libertà e di stretta legalità democratica, che il CLNAI è deciso a rista-: bilire, conclusa ormai la lotta insurrezionale. 3
Tale dichiarazione non era destinata solo a legittimare davanti al « tribunale della storia » l'eliminazione fìsica del Duce. La fucilazione di Mussolini doveva an.che trasmettere l'immagine che i dirigenti del Comitato insurrezionale intendevano . forgiare nel fuoco stesso dell'azione liberatrice, cioè quella di un popolo insorto e desideroso di porre un termine simbolico alla tiran nia del regime mussoliniano. Nello stesso tempo la di chiarazione era un messaggio indiretto rivolto agli Al leati, e più precisamente agli americani. Non rientrava infatti nei piani di Roosevelt, né in quelli del suo successore alla Casa Bianca, di favorire l'uccisione del Duce. Quali che fossero le loro motiva zioni, sulle quali torneremo più avanti, per gli ameri cani il capo della RSI doveva essere catturato e portato davanti a un tribunale internazionale, come sarebbe accaduto ai dirigenti nazisti e giapponesi, ma di certo non andava fucilato senza processo. Churchill non condivideva l'opinione dei suoi omo loghi d' oltreadantico: « Qualcuno potrebbe preferire
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una esecuzione immediata e senza processo, salvo che per scopi di identificazione. Altri preferirebbero che fossero segregati [Mussolini e i gerarchi fascisti] fino alla fine del conflitto in Europa [ . ] . Personalmente sono abbastanza indifferente su questo punto [ . . ] ». Ciò che il vecchio leone non aveva detto al suo inter locutore è che, portato davanti a un tribunale costitui to sotto l'egida dei vincitori e rispettoso dei diritti della difesa, il Duce avrebbe provato la forte tentazione di chiamare in causa uomini di Stato e di governo che avevano intrattenuto con lui e il suo regime rapporti di più o meno forte complicità. L'abile ed eloquente dittatore aveva infatti conservato una corrispondenza segreta con Churchill che si diceva fosse molto com promettente per quest'ultimo. Il primo ministro bri tannico non era dunque così « indifferente » alla que stione come aveva dichiarato al presidente Roosevelt e, su questo punto come su molti altri, i due grandi al leati occidentali non avevano le stesse vedute. La posizione americana era, in ogni caso, del tutto chiara. E per evitare che l'ex dittatore fosse eliminato in fretta e furia dai partigiani si dispiegò sul terreno un nutrito gruppo di ufficiali e di agenti appartenenti ai servizi segreti, in particolare all'oss (Office of Stra tegie Services) con la missione di procedere essi stessi all'arresto e al trasporto del Duce dietro le linee alleate, o in alternativa di collaborare per questo stesso risulta to con i capi delle brigate Garibaldi. Affinché Mussolini si salvasse la vita era però neces sario che gli uomini dell' oss convincessero i rappre.
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sentanti del CLNAI e del CVL, o che almeno riuscissero in qualche modo a infiltrarsi nelle formazioni combat tenti. Tra i vari tentativi che ebbero luogo prima e do po l'arresto del Duce, quello che meglio rappresenta il contrasto tra le vedute dei decisori milanesi e i desideri chiaramente ed energicamente espressi dall'alto co mando alleato ha per attore principale il generale Raf faele Cadorna, comandante in capo delle forze della Resistenza. La · storia comincia il 27 aprile 1 94 5 alle 2 1 . 30, quando il colonnello e barone Sardagna, incaricato del comando dei partigiani della zona di Como e uo mo di fiducia di Cadorna, comunica al generale l'arre sto del Duce. Cadorna sulle prime non ha alcuna rea zione, e un'ora dopo Sardagna gli ritrasmette un fono gramma proveniente dalle autorità alleate. Il messaggio è anonimo, ma il tono è imperioso: « Tradurre Musso lini e gerarchi a Milano il più presto possibile. Evitare di sparare in caso di fuga ». Altri due fonogrammi in viati nel corso della serata chiedono precisazioni su « esatta situazione Mussolini » e annunCiano l'invio di un « aereo per rilevarlo » se c'è l'intenzione di conse gnarlo. L'operazione era stata organizzata dall'agente John G. Mac Donough, membro dei Counter Intelligence Corps (cic) : si trattava di trasportare il Duce sino a Blevio, dove l'industriale Cademartori aveva messo a disposizione la propria villa, situata sull'altra riva del lago. Da Moltrasio una barca avrebbe dovuto condurlo a Blevio, e da lì si sarebbe poi raggiunto l'aeroporto di
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Bresso , dove il fondatore del fascismo sarebbe stato consegnato agli Allea�i . Non è chiaro cosa fece fallire il piano, se non forse la fretta con la quale fu improvvisato. Resta il fatto che il
2 8 , all' una del mattino, Cadorna telefonò a Sardagna per informar! o che l'operazione era sospesa, pregando lo di trovare un rifugio per il prigioniero nelle vicinan ze di Como . Il generale era tanto più motivato a tra smettere il contrordine in quanto era personalmente ostile alla consegna di Mussolini nelle mani degli an gloamericani, come spiegò in un'opera di ricordi pub blicata nel 1 948:
Nella necessità di prowedere immediatamente e nella im possibilità di prendere diretto contatto con il C.L.N.A. I . che non sedeva i n permanenza, mi regolai come i n ogni at to della mia vita di soldato, domandandomi unicamente quale sarebbe stata l'eventualità più dannosa per l'Italia a prescindere da ogni mia personale preoccupazione. Avreb be forse giovato all'Italia la cattura di Mussolini da parte degli Alleati e il conseguente spettacolare processo che sa rebbe diventato fatalmente il processo alla politica italiana di oltre un ventennio, nel momento in cui era necessario si facesse il silenzio su fatti e circostanze nei quali sarebbe sta to estremamente difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle di un capo ? Chi po teva presumere che do po tanto discredito, la soprawivenza di Mussolini potesse essere ancora utile al paese? In nessun caso poi avrei volontariamente proceduto a ef fettuare la consegna di Mussolini in mano alleata perché egli fosse giudicato e giustiziato dallo straniero. [ . ] .
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Davanti a un ordine la cui esecuzione non poteva co munque sfuggire alle mie competenze e neppure al mio ap prezzamento, quale atto imposto da una ineluuabilità di forze e di eventi di cui è possibile farsi un' idea solo ripor tandosi a quei giorni e mettendosi al posto di chi si trovò in mezzo a quella situazione di estrema incertezza e di esaspe rata eccitazione, io agii nei limiti di una precisa responsabi lità a cui non intesi né intendo sottrarmi. 4
ENT RA IN S CENA IL COLONNELLO
VALERIO
Decisa dal piccolo gruppo dei dirigenti politici che hanno preso le redini dell'insurrezione milanese, ap provata dal capo della Resistenza combattente, incon testabilmente desiderata da un popolo che dopo averlo idolatrato si ritiene tradito e vittima della sua megalo mania, la messa a morte dell'uomo che per più di ven t'anni ha deciso i destini dell'Italia appariva ormai ine luttabile. Anche i dirigenti americani, che pure deside ravano sottrarlo a una giustizia sommaria, non prova vano alcuna ripugnanza a immaginare un processo il cui esito sarebbe stato una condanna alla pena capitale. Per chi reclama l'applicazione immediata della decisio ne presa su richiesta dei dirigenti del movimento insur rezionale restano solo da trovare uno o più esecutori materiali. Non dovranno cercare a lungo. L'inseguimento dei fuggiaschi in direzione del lago di Como, poi della Valtellina o della Svizzera, era in realtà iniziato sin da quando il Comitato insurreziona-
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le aveva deciso di procedere all'esecuzione di Mussoli ni. Tra i rappresentanti del comitato figurava un per sonaggio che occuperà d'ora in poi un posto di primis simo piano in tutta l'operazione. Walter Audisio, que sto il suo vero nome, si fece conoscere nella Resistenza con lo pseudonimo di colonnello Valeria . Ragioniere di professione, negli anni della Grande depressione aveva lavorato per la fabbrica di cappelli Borsalino. Tutto un programma! Intanto si era impegnato nella lotta clandestina contro il regime mussoliniano, era stato arrestato dall'ovRA, la polizia politica fascista, ed era stato condannato a cinque anni di confino nel l'isola di Ponza. Liberato nel 1 939, lo si ritrova dopo l'armistizio del settembre 1 943 alla testa di gruppi par tigiani operanti nella provincia di Mantova e nella zo na di Alessandria. Audisio- Valerio non è dunque un comunista della prima ora. Dopo l'adesione, grazie alle sue doti di tattico e di comandante, Audisio-Valerio ha sap uto raggiungere i primi ranghi della gerarchia par tigiana. I legami di amicizia e di clientelismo che lo av vicinano a Luigi Longo hanno anch'essi un peso nella sua ascesa in seno all'organizzazione comunista. Nel 1 945 fa parte della direzione del CVL e svolge la funzio ne di ispettore generale delle brigate Garibaldi. Valeria è presente alla riunio ne del Comitato insur rezionale che deciderà la sorte del dittatore, svoltasi il 27 aprile alle undici di sera nella sede del comando ge nerale. Ufficialmente si finge ancora di andare a cerca re Mussolini a Dongo e di riportarlo a Milano con il suo seguito. Viene quindi proposto ai due capi parti-
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giani che assistono alla riunione, Italo Pietra e Luchino Del Verme, di farsi carico della faccenda. Essi rifiuta no, temendo di dover in seguito ubbidire a un ordine che non sembra loro legittimo. Valerio, al contrario, dichiara che « la cosa lo interessa » e finisce per offrirsi volontario. Se la cosa sembra così interessante all'ispettore delle brigate Garibaldi è perché conosce tutti i retroscena. Poco tempo prima, nel corso di una riunione del CVL nella quale era stato chiesto a Luigi Longo cosa convenisse fare nel caso Mussolini fosse stato catturato, il dirigente comunista aveva chiaramente annunciato quali fossero le intenzioni: « Lo si deve accoppare subi to, in malo modo, senza teatralità, senza frasi stori che » . Valerio impara la lezione. Sa ciò che dovrà fare se gli verrà affidata la missione. Una volta assegnati i compiti si poteva passare alla fase esecutiva. Ma il tutto doveva avere le sembianze della legalità, e ancora non era stata emessa alcuna sen tenza esplicita di morte. Questa verrà dopo , addirittura post mortem, con la riunione del C LNAI del 29 aprile. Intanto, Valerio riuscì con vari stratagemmi a procu rarsi dei lasciapassare formalmente impeccabili. Ac compagnato da un altro alto responsabile della Resi stenza, l'operaio Aldo Lampredi (nome di battaglia Guido) , si recò dal generale Cadorna e dichiarò di es sere stato delegato dal Comitato di liberazione nazio nale per procedere all'eliminazione di Musso lini per evitare che finisse nelle mani degli Alleati. Il generale si fece convincere facilmente, perché proprio questa
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eventualità, che Mussolini cadesse in mano agli an gloamericani, era la sua maggiore preoccupazione. Fir mò dunque le carte necessarie senza fare commenti. Ai due uomini fu anche fornito un ulteriore documento firmato da un ufficiale di collegamento tra oss e C LNA I . In esso era contenuto il permesso permanente di circolare nella zona del lago di Como con una scorta armata. Muniti di questi due lasciapassare ottenuti con l'astuzia, e di un terzo ricevuto dal comando del CVL, Valerio e Guido partirono verso le sette del mattino . La loro vettura è seguita da un camion su cui hanno preso posto una dozzina di partigiani agli ordini di un brigatista della guerra di Spagna, Alfredo Mordini (nome di battaglia Riccardo) . Per i fascisti catturati a Dongo e per il loro capo è iniziato il conto alla rove. SCia.
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Interrogatori
Prima di proseguire nell'esposizione degli eventi che hanno portato all'esecuzione di Mussolini e di Clara Petacci, soffermiamoci per un momento sugli attori che, proprio nei luoghi dove il D uce visse le sue ultime ore, ebbero un ruolo nello svolgimento dei fatti. Tra essi, alcuni di coloro che sono sopravvissuti ai grandi regolamenti di conti dell'immediato dopoguerra hanno lasciato testimonianze che mettono in discussione la parte sostenuta da Walter Audisio. Avremo occasione di esaminare questi racconti più avanti, ricordando che se per molti decenni quello fornito dal colonnello. Vaie rio e più volte ritoccato ha costituito la versione ufficiale, oggi proprio tale versione ufficiale è ormai ampiamente smentita dagli storici. Si deve infatti ancora rispondere alla seguente fondamentale domanda: dove, come e da chi sono stati uccisi l'ex dittatore e la sua compagna?
UNA « B RIGATA INTERNAZIO NALE » NEL CUORE DELLA RESISTENZA COMBATTENTE
Nella gerarchia delle formazioni con1battenti control late dal PCI, la 52 a brigata d'assalto, collegata alla 5 6a
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Interroga tori
divisione Garibaldi che operava nella zona situata a nord-ovest del lago di Como , aveva la particolarità di essere composta in buona parte da militanti stranie ri, in maggioranza polacchi. S i trattava di sopravvissuti all' invasione della Polonia del 1 93 9 che erano fuggiti in Inghilterra ed erano stati arruolati nell'esercito bri tannico , poi catturati dai tedeschi nel corso della bat taglia d'Italia e infine evasi. Altri erano invece militanti politici, soprattutto comunisti, sfuggiti alla repressione nazista in Germania, Russia o Polonia, che erano riu sciti a raggiungere Londra. Il vero nome di Urbano Lazzaro, il vicecomandante della brigata che arrestò Mussolini, era di origine po lacca o ceca, Karol U rbaniec, ma egli era nato in Italia, a Quinto Vicentino, nel 1 924 . All'inizio era stato mo bilitato nella Guardia di finanza, la polizia di dogana e finanziaria ma, dopo aver rifiutato di servire nell' eser cito della
RS I ,
era stato arrestato dalle ss e aggregato a
un convoglio di deportati per il lavoro obbligato rio in Germania. Riuscito a evadere aveva raggiunto la Sviz zera e la zona del lago di Como, dove presto si era uni to alle prime formazioni partigiane. Nel 1 944, con lo pseudonimo di
Bill,
era ormai divenuto commissario
politico della 52a brigata Garibaldi, benché le sue idee politiche fossero più monarchiche che comuniste. D el tutto diverso da quello abituale fu anche il per corso del capo della brigata. Pier Luigi Bellini delle S telle apparteneva infatti a una famiglia dell'aristocra zia fiorentina registrata nell'Elenco ufficiale nobiliare. Fece studi classici al liceo Forreguerri di Pistoia, dove
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la famiglia si era trasferita, che proseguì poi a Firenze. Era un giovane serio e ordinato, bravo studente, poco incline a vantarsi delle sue origini e apparentemente poco attratto dalla militanza politica. Quando in se guito al colpo di palazzo del 25 luglio il regime mus soliniano crolla, lui ha appena ventitré anni . Come per molti altri giovani italiani che si unirono alle formazio ni partigiane, ciò che lo spinse all'azione clandestina non fu tanto una convinzione ideologica, quanto lo spettacolo delle atrocità commesse dagli occupanti te deschi e dai loro aiutanti repubblichini. Così si spiegò in un libro pubblicato nel 1 962:
[ .. ] Mussolini e i suoi erano solo degli usurpato ri che si .
reggevano al potere solo in virtù dell'appoggio tedesco e di spietati metodi di repressione. [ .. ] il mio sdegno co ntro gli uni e contro gli altri ingigantiva di giorno in giorno. [ . . ] Mi convinsi così che mi sarebbe stato impossibile rimaner mene con le mani in mano ad attendere la salvezza e la li berazione d� altri [ . . . ] che era una questione di dignità umana prendere parte attiva. [ . . . ] l'acquiescenza, specie in simili eventi in cui è in giuoco il destino dell'umanità stes sa, diventa complicità. 1 .
.
Ma il giovane fiorentino non si arruolò nella Resisten za solo in seguito a una scelta frutto di matura riflessio ne. Ebbe il suo peso anche uno di quei casi della vita che portano gli uomini a sposare una causa più grande di loro. Il destino di Bellini delle Stelle prese forma con una visita alla sorella Eleopora, insegnante a Gra-
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Interrogatori
vedona sul lago di Como . Grazie alla sua mediazione, il futuro Pedro entrò nei ranghi del
CVL
per combatte
re a fianco dei comunisti, senza per questo condividere le loro idee e i loro fini . Dopo aver comandato uno dei distaccamenti che componevano la
52a brigata Gari
baldi, il Giancarlo Puecher Passavalle, e aver condotto in condizioni assai difficili numerose operazioni con tro i tedeschi e i fascisti nella zona del monte B erlin
1 945 alla testa dell' intera unità. Gli effettivi non superavano i cin
ghera, si ritrovò nella primavera del
quanta uo.m ini, e l' armamento era dei più sommari, ma Pedro si rivelò, cmne il suo vice B ill, un abile ma nipolatore. Riuscì, come abbiamo visto, a b loccare la colonna itala-tedesca in entrata a Musso il
27 aprile, a
immobilizzarla per svariate ore e a mantenere l' illusio ne di una forza che era ben lontano dal p oter effetti vamente dispiegare.
A questi due nomi aggiungiamo quelli di Luigi Ca nali (il
capitano Neri) , capo di stato maggiore della bri
gata e vicecomandante dell' insieme delle divisioni d'as salto Garibaldi per le zone del Lario e della Valtellina, e della sua compagna, Giuseppina Tuissi (detta Gian na) . L'uno e l'altra furono eliminati nel corso dei rego lamenti di conti tra partigiani comunisti che ebbero
luogo nel maggio e nel giugno del 1 945 . Infine ricor diamo il commissario politico Pietro Gatti, vero nome Michele Moretti, uno dei pochi sopravvissuti a quelle ep uraziOni Interne.
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Gli ultimi giorni di Mussolini
M uss ouNr A G ERMASINO
La presenza del Duce a Dongo preoccupava il coman dante della 52a brigata. Pedro era stato infatti informa to dei progetti miranti a mettere le mani sul dittatore grazie alle numerose personalità fasciste, a cominciare da Bombacci, che avevano scelto di confidarsi con il parroco di Musso . Tali progetti prevedevano quali ese cutori rappresentanti delle Brigate nere, membri delle ss, agenti dei servizi segreti alleati o, peggio, individui inviati dalla direzione del CVL , cioè del Partito comu nista. Invece Pedro, che aveva una formazione giuridi ca, si era dato la missione di consegnare il suo prigio niero a un'autorità costituita quale il CLNAI affinché fosse giudicato dagli italiani con tutte le garanzie di legge e di procedura. Fu così che durante l'assenza di Bill, che era andato a Domaso, il comandante della 52a brigata decise di ac cettare la proposta del brigadiere della Guardia di fi nanza Buffelli con l'avallo di Neri e di Pietro, quest'ul timo appena giunto da Musso dove si era impegnato a recuperare i valori e gli oggetti preziosi sequestrati ai prigionieri. Il brigadiere suggeriva di trasferire l'ex capo del governo fascista e altri prigionieri a Germasino, di stante pochi chilometri da Dongo, dove si trovava per l'appunto una caserma della Guardia di finanza. Lì sa rebbe stato più facile assicurare la sorveglianza e la pro tezione dei prigionieri che non nel municipio di Don go. Anche perché bisognava tenere in conto che la voce dell'arresto del Duce si era rapidamente diffusa nei din-
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torni attirando una folla di curiosi delle frazioni e dei paesi vicini, sempre più numerosi ed eccitati. Erano quasi le sette di sera quando si fece salire Mus solini su una vettura in cui presero posto anche Pedro, Porta e Buffelli. Tutte le testimonianze concordano nel sottolineare l'apparente serenità dell'uomo che, al mo mento dell'arresto, era invece sembrato ormai privo di energie. La relazione fatta sul suo interrogatorio nel municipio di Dongo dall'avvocato Giuseppe Rubini, che il CLN aveva da poco nominato sindaco, offre infat ti il ritratto di un uomo che sembra sicuro di se stesso e che nutre fiducia nel giudizio della storia: Ho confutato a Mussolini tutta la sua vita. Quando è stato introdotto in municipio già non era quello di un minuto p rima: era calmo, riflessivo, contava di difendersi abilmente sperando d'essere processato. Parlava a bassa voce, ponde rando bene e reggendo bene la polemica. A volte mi dava ragione. Parlava calmo e senza enfasi . Gli chiesi s e ricordava i l nome d i Spallicci, Aldo Spallic ci, garibaldino, professore romagnolo, autore di poesie e scritti di notevole valore, libero docente in pediatria, amico d'infanzia di Mussolini, che era geloso della popolarità di Spallicci. Questi era antifascista ed ebbe poi delle noie. « Il poeta? » rispose Mussolini. « Non si tratta del poeta ma del patriota » gli risposi. « Perché? » chiese lui. (( Perché poco mancò che lo uccidessero gli squadristi [. . ] . » Mussolini non contestò. Io parlai allora della guerra. Gli dissi: .
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« Dichiarando guerra all'Inghilterra e all'America avete tradito milioni e milioni di connazionali residenti all'este ro, che si sono improvvisamente trovati tra l'incudine e il martello. [ . . . ] « Perché dichiaraste la guerra? Era forse un male così gra ve il Trattato di Versailles da giustificare una dichiarazione di guerra e un disastro? » « lo non volevo la guerra. La vollero i rappresentanti del popolo. » « Non erano rappresentanti del popolo » obiettai, « ma figuri che non rappresentavano chicchessia, perché i veri rappresentanti sono eletti in libere elezioni. » « Ho sempre governato con il consenso del popolo italia no. Ho riportato una grande maggioranza in due successive elezioni! » « Quali elezioni? Voi le chiamate così, ma le elezioni so no libere quando c'è libertà di stampa, di riunione, di scel ta! » [ . ] « Ho sempre governato in piena legalità! » ribatté vivace mente Mussolini. « Già: nel 1 922 voi, rimasto prudentemente a Milano, dirigeste la cosiddetta 'marcia su Roma', che io quàlificai la 'marcia dei marci su Roma' perché fu un assalto di gente illegalmente armata ai poteri costituiti; voi avreste dovuto essere processato con tutti i vostri. Invece il re vi nominò suo primo ministro. Giungeste al potere per l'arbitrio di un re. Quando poi la pubblica opinione insorse contro di voi per il delitto Matteotti, quello stesso re vi concesse di sopprimere la libertà di stampa e di pensiero . Questa è la vostra legalità. » Mussolini non fece obiezioni. Ricalcai allora l'argomen. .
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to della guerra. Mussolini mi replicò che non solo i mini stri, ma altresì il popolo volle la guerra. [ . . ] 2 .
Strana testimonianza, questa, che deve certo essere ac colta con qualche prudenza, trattandosi della ritrascri zione fatta da Bill di una conversazione che non ha la sciato altre tracce. D'altronde anche Rubini ha dato di questo dialogo alcune versioni che, pur senza contrad dirsi, differiscono l'una dall'altra. Ciò che comunque salta all'occhio è la relativa moderazione dell'accusato re e il sangue freddo dell'accusato, così come l'interesse quasi esclusivo accordato dai due interlocutori al pe riodo tra le due guerre. Siamo invece molto meno informati su quanto si dissero i passeggeri della vettura che trasferì M ussolini alla caserma di Germasino. Solo Pedro, tra coloro che accompagnarono i prigionieri, ha lasciato filtrare qual che vaga informazione che nell'insieme conferma il racconto del sindaco di Dongo. Sembra che Mussolini parlasse molto, sempre con grande calma, cercando di giustificarsi e di spiegare le proprie scelte politiche nel loro contesto. Il comandante della 52a brigata Garibal di gli rimproverò di aver permesso a suoi collaboratori quali Farinacci, Pavolini e altri fanatici di trattare con la stessa ferocia delle ss i patrioti che cadevano in ma no alle camicie nere. Mussolini rispose che aveva fatto tutto quanto era in suo potere per impedire tali prati che disumane. Nel racconto in terza persona scritto da Bellini delle Stelle sugli avvenimenti di Dongo, racconto pubblica-
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to da Bill nel 1 948 in appendice alle pr�prie memorie, emerge uno strano sentimento di compassione per l'ex capo dell'Italia fascista: Pedro ammira il paesaggio di quei luoghi nuovi per lui, le belle montagne dell'alto Lario, ancora ammantate di neve [ . . . ] Pedro, immerso nella contemplazione del magnifico scenario, non presta soverchia attenzione al dialogo che si svolge tra i tre viaggiatori seduti alle sue spalle. Guarda i monti lontani e tra essi, a tratti, il Berlinghera e pensa al lungo anno che vi ha trascorso, ai disagi affrontati, ai peri coli corsi, alla vita durissima, eppur serena che vi ha con dotto . E tutto quello che ha sofferto lo deve all'uomo che siede dietro di lui e che il Destino ha voluto cadesse nelle sue ma ni. Tenta di analizzare i sentimenti che prova verso il pri gioniero. Non ci riesce. Non prova nulla di ben definito verso di lui. Capisce che dovrebbe odiarlo, che sarebbe in diritto d'inveire con acerbe parole contro di lui, di gridargli sul viso tutto il disprezzo che nutrono per lui tutti gli ita liani o perlomeno tutti gli italiani che hanno avuto i suoi stessi ideali e con i quali ha sofferto e combattuto . Invece ora che lo ha in suo potere, indifeso, ora che po trebbe approfittare della situazione e fargli provare, dopo tanti anni di potere, cosa voglia dire sentirsi impotente di fronte ad altri uomini, prova quasi un sentimento di pietà. ' E lì, l'uomo potente, l'uomo che per tanto tempo ha avuto ai suoi piedi l'Italia, che ha governato e do fi! inato un'intera nazione e intimorito il mondo, ridotto alle semplici pro porzioni di un misero uomo qualunque, che deve sottostare passivamente alla volontà altrui, soggetto alle stesse ansie e
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agli stessi timori di uno qualsiasi dei tanti individui che componevano il gregge che aveva guidato . 3
Restavano ancora da percorrere due o tre chilometri quando Pedro , strappato bruscamente alle sue riflessio ni, sentÌ il bisogno di accendersi una sigaretta. Da vero gentiluomo si voltò per offrirne una al prigioniero. Mussolini lo ringraziò ma disse che non fumava. Seguì un breve dialogo: «
Come, non fuma mai? » « Molto raramente, solo qualche sigaretta ogni tanto e di qualità leggerissima. >> « È una bella fortuna non avere questo vizio; ho sempre \ invidiato quelli che non lo hanno. E brutto aver voglia di fumare e non aver nemmeno una stgaretta. » « Io veramente non ne ho mai provato un gran desiderio. Quelle poche volte che fumo, lo faccio così, più per passare il tempo che per bisogno. »
Il tono è quasi amichevole, e anche l'accoglienza che fanno al dittatore i partigiani a guardia della caserma non denota da parte loro alcuna particolare animosità. Gli ufficiali gli offrono una cena a base di risotto, ca pretto al forno, insalata, e si intrattengono con lui sin quasi alle undici di sera. Disponiamo di qualche testi monianza riportata dalla stampa poco dopo l'uccisione di Mussolini sulla conversazione intercorsa tra il Duce e i suoi interlocutori mentre Pedro, con Buffelli e il brigadiere al comando della piazza, procedeva a un'ac-
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curata ispezione della caserma e degli immediati din torm. Di cosa parlarono? Mussolini si rifiutò di affrontare il tema della situazione interna italiana, ma non perse occasione di esprimere la propria opinione sugli avve nimenti e sui principali attori della vita internazionale, distribuendo pagelle senza troppo preoccuparsi di chi fosse in linea di principio suo alleato o suo avversario. Non nascose una profonda ammirazione per il popolo russo, di cui· Hitler aveva dovuto verificare la tenacia e il coraggio, chiedendosi però perché mai una tale na zione avesse aderito al regime stalinista. Interpellato su ciò che pensava degli Stati Uniti e del loro ruolo nello svolgimento del conflitto, Mussolini rispose che era innegabile il valore assunto per gli Alleati dalla for midabile potenza industriale americana, ma che il vero vincitore della guerra era Stalin. Prima di andarsene, il capo della 5 2a brigata diede consegna ai suoi e ai carabinieri di vigilare con partico lare attenzione. Ciò che Pedro temeva sopra ogni cosa era un possibile attacco da parte dei gruppi fascisti della val Cavargna. Se il timore si fosse trasformato in realtà, l'ordine era di resistere sino all'arrivo di rinforzi. M us solini doveva restare in mano a loro, a qualunque costo.
C LARETTA
SMASCHERATA
L'ultima raccomandazione Pedro la rivolse al Duce in persona. Poteva assicurargli che lo avrebbero trattato
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con ogni riguardo, a condizione che non tentasse la fu ga. Aggiunse che se il prigioniero aveva qualche richie sta era pronto a fare il possibile per rendergli meno pe noso quel soggiorno . Mussolini lo ringraziò calorosa mente, aggiungendo che non aveva nulla di particolare da domandare al suo ospite. Ma non appena Pedro fe ce per allontanarsi cambiò idea: per sé non chiedeva al cun favore, ma sarebbe stato riconoscente a chi avesse salutato da parte sua una certa signora che gli uomini della 52a brigata Garibaldi avevano catturato a Dongo e che viaggiava « con il console spagnolo ». Delle parole scambiate a Germasino tra Mussolini e il giovane partigiano fiorentino noi sappiamo solo quanto ha voluto raccontare quest'ultimo nella relazio ne indirizzata in seguito a Urbano Lazzaro (Bill) e nel libro da lui stesso pubblicato nel 1 962. 4 Non erano in fatti presenti altre persone, e lo stesso avvenne per il lungo interrogatorio di Pedro alla Petacci. Questo si gnifica che dobbiamo avvicinarci alla lettura di tali te stimonianze con prudenza, soprattutto per quanto ri guarda il racconto del modo in cui Bellini delle Stelle arrivò a scoprire l'identità della prigioniera. Secondo il suo rendiconto, Mussollni tergiversò a lungo prima di rivelargli il nome dell'amica e il motivo per cui chiedeva aiuto all'interlocutore. Voleva che Pe dro le riferisse solo che: « la mando a salutare e che non si dia pensiero per me » . Naturalmente tali parole, pro nunciate con imbarazzo e accompagnate da uno sguar do che smentiva l'indifferenza apparente del Duce, mi sero sull'avviso il comandante della 52a brigata e lo
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spinsero a mettere alle strette Mussolini. O il prigio niero rivelava il nome di questa sua « buona amica )) oppure la persona in questione sarebbe stata interroga ta a Dongo sino a che non avesse rivelato la propria identità. Così, « dopo aver dato un rapido sguardo al gruppetto che sta parlando vicino alla porta )>, scrive Pedro, « come per sincerarsi che non pos �ono udire le sue parole, quasi in un soffio, mormorò: 'E . . . è la P etacc1.. l ' ». In cambio di questa confidenza, desiderava che il ca po dei partigiani si impegnasse a non dire nulla a nes suno. Pedro gli assicurò che avrebbe fatto l'uso più di screto possibile dell'informazione, ma che non poteva promettergli di mantenere il segreto. Dopodiché prese congedo per la seconda volta dall'ex dittatore: « Stia pur tranquillo. Spero che abbia già capito . che non è caduto in mano a dei delinquenti » . Questa versione dei fatti è stata oggetto di molte contestazioni da parte di altri membri della brigata, in particolare da parte del comandante in seconda, Bill. Mussolini non poteva certo ignorare che rivelan do il nome dell'amante al capo di un'unità partigiana composta per la maggioranza di comunisti avrebbe messo in pericolo la vita della giovane donna. Inoltre qualche ora prima, quando era montato sul camion della Flak, egli aveva affidato a Claretta una delle tre borse piene di quei documenti d'archivio che sperava di far arrivare in Svizzera proprio attraverso l'amante. In questo scenario chi si ritaglia la parte da protagoni� sta è Bellini, che sarebbe riuscito a far ammettere al
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Duce il nome della misteriosa « borghese » prigioniera a Dongo. Sembra però, o almeno così sostiene Bill, che in realtà il comandante della 52a brigata abbia avuto sentore dell'identità della signora al ritorno da Germa sino, o addirittura prima, all'arrivo dei prigionieri a Dongo. Sia come sia, tornato da Germasino Pedro interroga anche l'amante di Mussolini. Per farlo, trasferisce la prigioniera dalla sala del municipio dove era trattenuta insieme agli altri fuggiaschi in un locale più piccolo, chiuso a chiave e con un partigiano sempre di guardia « onde evitare eventuali indiscrezioni ». Quando Pedro e la prigioniera prendono posto nella saletta sono le 1 9. 1 O; ne usciranno alle 2 1 .30. Bill ha ragione nel dirsi sorpreso che in un tale momento, quando gli scontri con le Brigate nere erano ben lontani dall'essersi del tutto conclusi, il comandante di un'unità combattente abbia potuto dedicare quasi due ore e mezzo del suo tempo per intrattenere con la Petacci una conversazio ne che difficilmente poteva cambiare il corso degli av. . vemmenn. Il fatto è che Bellini delle Stelle, nel corso di questo « interrogatorio » , passò dall'atteggiamento brusco e quasi minaccioso di chi vuole strappare una confessio ne a un sentimento di benevolenza nei riguardi di una donna che chiedeva una cosa sola, non potendo salvare l'uomo amato : di morire con lui. Sulle prime Pedro non aveva una grande opinione dell'amante del Duce. La considerava un'avventuriera che si era legata a un uomo potente per interesse e che quindi non meritava
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troppi riguardi. L'interrogatorio iniziò così come un breve dialogo tra sordi nel quale la giovane donna fin geva di non sapere nulla di Clara Petacci e dei suoi rap porti con il Duce, mentre il capo partigiano, irritato per la reticenza dell'ex favorita, finì per ricorrere alle minacce: « E ora, signora, dovrà rispondere con la ve rità, e solo con la verità », le disse, « per evitare che sia costretto a ricorrere a pratiche che mi ripugnano per attenerla, pratiche che gli impietosi camerati del vostro amante hanno usato abitualmente con i miei compa gni di lotta, e di cui farò uso se continuerà a mentir mi ».5 Dopo che la prigioniera ebbe infine ammesso di es sere proprio Clara Petacci, negando comunque di aver ispirato per lunghi anni la politica mussoliniana, i due giunsero a parlare della sorte che i partigiani avrebbero riservato all'ex dittatore: '
(( E un prigioniero; ormai non può più nuocere a nessuno. Ma fino a quando sarà in mano sua? Cosa ne vuoi fare? A chi lo consegnerà? >> (( Non so ancora cosa risponderle. Ho già provveduto a comunicare al comando di Milano che Mussolini è stato catturato con quasi tutti i rappresentanti del suo governo e attendo le decisioni che verranno prese. » (( Ma lei dovrebbe consegnarlo agli Alleati. Sarebbe più sicuro con loro! » (( Gli Alleati?! Ma io sono italiano, io sono un soldato ap partenente all'esercito italiano. Solo al mio comando e al mio governo io debbo rendere conto . Gli Alleati non c' en-
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trano per niente; eviterò anzi con tutti i mezzi che Musso lini cada in mano loro. »6
E alla sua interlocutrice, che dichiarava quanto sarebbe stata migliore una morte immediata invece di un pro cesso in cui il fondatore del fascismo avrebbe avuto molte possibilità di ritrovarsi alla mercé di un pubblico ostile ed esposto al ludibrio, Pedro replicò con disprez zo. Ecco il racconto che fa lui stesso del dialogo: Avrebbe potuto morire subito, signora, anzi avrebbe dovu to . Quando è stato scoperto e arrestato, era armato in mez zo ai suoi uomini assai più numerosi di noi. Perché non si è sparato? O non ha cercato di difendersi ingaggiando com battimento , dal quale avrebbe potuto uscire vincitore, riu scendo così a fuggire o, nel peggiore dei casi, sarebbe stato ucciso , sì, ma almeno ucciso combattendo, una morte da uomo di coraggio, invece di lasciarsi prendere così come un topo spaurito . Non si è comportato da uomo, e ha perso l'ultima occasione che gli rimaneva di salvare, in parte, la sua reputazione agli occhi del mondo e della storia. 7
Proseguendo l'interrogatorio Pedro diviene incalzante nell'accusare Clara di essere stata la consigliera di Mus solini, e la giovane donna finisce per scoppiare in sin ghiozzi, supplicando il capo partigiano di credere che non ha mai avuto altro scopo, altra ragione per seguire Mussolini nelle sue imprese, dell'amore che port� al capo della Repubblica sociale. Questo è il punto di svolta del colloquio:
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Pedro comincia a sentirsi commosso : non ha mai potuto sopportare la vista di una donna piangente, e comincia a sentire pietà per quella. Ha avuto dapprima un fugace pen siero: « Stai attento! Può recitare una parte. Certo, se è così, lei recita molto bene! » Ma poi, dal modo con cui la signora ha parlato, il vedere il bel viso trasfigurato quasi da un do lore che è indubbiamente sincero, da tutto un complesso di circostanze, dalle sfumature della voce, e da tutto il suo comportamento, si è rapidamente convinto che la signora soffre veramente e con intensità; le si avvicina quindi e, mettendole una mano sulla spalla, gentilmente le dice: « Suvvia, signora, si calmi, la prego! Smetta di far così! Mi fa male e mi turba il vederla piangere in tal modo. Cre do a tutto quello che mi ha detto . Le assicuro che le credo proprio. Non veda in me un nemico, anche se purtroppo le circostanze ci hanno messo nelle condizioni di considerarci tali. Farò tutto quello che potrò per lei, per renderle meno angoscioso il suo stato. Ho cambiato completamente parere sul suo conto e ora la credo più una sventurata che un' av venturiera come prima. S inceramente. [ . . ] Si calmi dunque e mi dica piuttosto se posso fare qualcosa per lei ». 8 .
Claretta si afferra alla boa di salvataggio lanciatagli dal partigiano fiorentino. N o n per tentare di salvarsi la vi ta, e meno ancora per salvare quella del dittatore cadu to . Ha capito che, nel m igliore dei casi, Mussolini ver rà portato davanti a un tribunale popolare, con conse guenze facilmente immaginabili. A Bellini delle S telle non può nepp ure chiedere che si opponga con la forza a un'esecuzione sommaria realizzata da un gruppo di partigiani comunisti. Ma lui potrà permetterle di riu-
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nirsi all'uomo che ama e di cui si è ripromessa di con dividere la sorte. Per questo deve convincere il suo car ceriere della forza dei propri sentimenti. E vi si impe gna con foga, in un lungo monologo che Pedro ascolta senza praticamente intervenire, ormai conquistato da questa donna che gli apre il cuore: Lei certo si domanderà come mai si possa amare tanto un uomo, seguirlo anche a costo di esporsi a gravi pericoli. Il mio amore per Mussolini è stato ed è immenso. Lei forse è troppo giovane per potermi comprendere, ma q:.1ando le capiterà, si ricorderà delle mie parole.
La Petacci prosegue con la rievocazione delle circostan ze nelle quali ha conosciuto il Duce, divenendo la sua amante e poi la sua confidente, quella a cui si può dire tutto, persino confessare i tradimenti, senza smorzarne l 'adorazione per colui che considera il suo eroe. Parole da sartina, si potrà dire, che però, visto il momento in cui sono pronunciate, esprimono una carica affettiva cui Bellini non è insensibile. No, prosegue Clara, lei non ha mai desiderato, né avuto l'occasione, di svolge re un qualsiasi ruolo politico. La sua eventuale influen za è stata di natura ben diversa: Non mi fu difficile conquistarlo fisicamente. Molto più difficile mi fu rendermi padrona della sua anima e dei suoi sentimenti. Ma poco a poco, irrimediabilmente, la sempli cità del mio affetto e la sincerità del mio amore modifica rono il suo carattere sentimentalmente chiuso e geloso di
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sé. [ . . . ] Solo questo avevo desiderato, e ora l'avevo . La gioia intima di sentirmi necessaria a qualcuno, io, povera piccola cosa, che solo in questo trovava la sua ragione di essere e il suo unico scopo della vita. Non cercavo potenza, gloria, ric chezza [ . . . ] ho sempre desiderato di non mettermi in vista, fare una vita ritirata e semplice.9
All'avvicinarsi della fine Claretta aveva temuto la sepa razione e non aveva potuto risolversi ad abbandona re il proprio idolo. N elle sue parole già si intuisce la richiesta che sta per formulare: Per questo amore gli sono stata vicina sempre, quando ho potuto: nei momenti di fortuna e in questi ultimi tempi di disgrazia. Quando il crollo è stato vicino, non ho mai neanche fuggevolmente pensato di abbandonarlo: sentivo di essergli necessaria, tanto più necessaria quanto più nume rose erano le defezioni dei suoi fedeli. L'ho seguito a Milano, a Como, a Menaggio e lo avrei seguito in tutto il suo triste viaggio di fuggiasco, esponendomi a tutti i pericoli, quando mi sarebbe stato così facile, se non lo avessi amato, di passare da sola, inosservata, e fuggire all'estero al sicuro con la mia famiglia. Non le pare che questa sia la miglior prova che era amore vero il mio, e non basso calcolo o interesse?10 '
Sono ormai le nove di sera. E ora che la prigioniera dica ciò che desidera da questo giovane comandante che ha ascoltato senza manifestare la minima impazienza la sua lunga confessione. Così ha inizio il dialogo che se gna la fine dell'interrogatorio e che pone al fiorentino un dilemma imprevisto:
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« La ringrazio per avermi ascoltata con tanta pazienza. Spe ro però che ciò le sia servito a farle capire quanto sia grande il mio amore per M ussolini e quanto sia ora doloroso per me essere separata da lui. E la speranza di essere stata com presa, mi dà ora il coraggio di chiederle quel favore che può farmi e che è l' unica cosa che ora può rendermi felice. » « Mi dica, signora, e le prometto che, se mi è possibile, farò quanto potrò per accontentarla » dice Pedro . La Petacci lo guarda con una luce di speranza negli oc chi; tace ancora un istante, poi di slancio si piega legger mente in avanti e poggia una delle sue mani su quelle di Pedro e, · guardandolo, implora con voce rotta « Mi metta con lui! » Pedro sussulta. Non si aspettava una simile richiesta; ri mane un poco interdetto e tarda un momento a rispondere; e la Petacci, stringendogli ancora le mani, con voce affan nosa contin ua: « Mi metta con lui, mi metta con lui! Cosa c'è di male? Non dica che non può! [ . . . ] » « No s�gnora, non è che non voglia [ ... ] . Lei mi chiede una cosa che non mi aspettavo e che comporta una certa responsabilità; non vorrei che succedesse qualcosa . . [ . . ] la situazione è ancora talmente incerta . . . non si sa cosa possa ancora succedere . . . ; potrebbe darsi che i fascisti tentassero di liberarlo . . . [ . . ] lei potrebbe trovarsi in pericolo e io non vorrei avere una tale responsabilità . . . » « Non è vero! » interrompe violentemente la Petacci con uno sguardo quasi cattivo . « Non è vero! Ora capisco! Lei vuole fucilarlo! È questo! È questo! Lo so! Lo so! Mio Dio! Lei vuole fucilarlo! » « Ma, signora, le dico . . . » « No, non mi dica niente, ché non le crederei [ . . . ] . Lei vuole fucilarlo, lo so, lo sento; forse avrà avuto ordine di .
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farlo, non so . . . Ma questo ora le chiedo, e questo lei non potrà rifìutarmi [ . . . ] Voglio morire con lui. La mia vita non avrebbe più nessuno scopo dopo la sua morte. » [ ] « Si calmi, signora; le giuro che non ho alcuna intenzio ne di fucilare Mussolini [ . . . ] Finché io avrò il potere di di sporre di lui, non gli accadrà nulla di male. Stia tranquilla, può credermi. » [ . ] « Davvero? » « Le do la mia parola. )) [ . . ] « Ma perché allora non vuole mettermi con lui? )) « Non ho detto che non voglio metterla con Mussolini; stavo solo pensando se avrei potuto farlo. )) • • .
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La conversazione si conclude. Pedro si alza. Claretta si avvicina e gli riprende la mano . Lui si scioglie con dol cezza.
« Allora mi promette? » « Spero di poterle dire di sì. Ma ora debbo andare, per ché ho parecchio da fare. Mi attenda qui. Stia calma e abbia fiducia. >) 1 1
VII
Ricongiungimenti
Di ritorno nel salone del municipio di Dongo, dove i prigionieri erano stati accomodati alla bell'e meglio, Pedro si informò dello stato di salute di Pavolini e di Barracu. Il primo era stato seriamente ferito nel cor so del combattimento del pomeriggio, ma non era in pericolo di vita. Riposava su una barella in una sala vi cina, un po' in disparte dalla confusione. Barracu era stato colpito meno gravemente al braccio . Quando comparve il capo della 52a brigata, stava fumando tranquillamente e accolse senza il minimo segno evi dente di sofferenza o di inquietudine il suo carceriere. I due uomini scambiarono qualche parola cortese pri ma di essere interrotti dall'arrivo di Michele M o retti (detto Pietro Gatti) , commissario politico della briga ta, e di Luigi Canali (il capitano Neri) , vicecoman dante del raggruppamento delle divisioni d'assalto Garibaldi di tutta la zona del Lario-bassa Valtellina: due personaggi importanti, dai quali Bellini sperava di ottenere l'approvazione riguardo alla promessa che aveva fatto a Clara Petacci. Quando il fiorentino ebbe loro spiegato in che mo do aveva scoperto l'identità della giovane donna che viaggiava in compagnia del sedicente « console spagna-
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lo », nessuno dei due si oppose alla riuni�ne dei due amanti. Pedro ne prese atto, ringraziò i due compagni d'armi e li pregò di non divulgare la notizia, né la de cisione di trasferire il Duce da Germasino, dove ormai più nessuno ignorava la sua presenza, in un luogo te nuto rigorosamente segreto. Ma quale? Fu Neri a trovare la soluzione apparentemente più convincente. Disse che conosceva una casa isolata si tuata in una zona relativamente· deserta e ben control lata dai partigiani. Il problema era che questo luogo si trovava a più di un'ora e mezw di distanza in automo bile da Dongo, e che per raggiungerlo era necessario passare per Como, dove i combattimenti non erano ancora del tutto cessati. La strada percorsa due giorni prima dalla colonna dei fuggiaschi era ormai tagliata in diversi punti da posti di blocco garibaldini. Ci si sareb be quindi dovuti far riconoscere a ogni sosta, . con il ri schio di · subire pericolose ispezioni. Tuttavia, non avendo soluzioni migliori, fu deciso di adottare quella proposta dal capitano Neri e si stabilì la partenza per mezzanotte circa. La prima cosa che Pedro fece, dopo aver lasciato i suoi due principali luogotenenti, fu di tornare da Clara Petacci per annunciarle che la sua richiesta non aveva sollevato obiezioni La giovane donna sulle prime si mostrò incredula. Il comandante della 52a brigata si era certo mostrato benevolo e comprensivo nei suoi ri guardi, ma non si era impegnato a esaudire il suo de siderio. Come era dunque riuscito, in così poco tem po, a convincere i militanti comunisti che formavano
Ricongiungimenti
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l a spina dorsale della sua brigata? S i trattava forse di un'astuzia per farla crollare, magari per ottenere mag giori i nformazioni sui documenti che Mussolini le ave va affidato ? Bellini riuscì presto a rassicurarla, come racconta:
Poi una gioia quasi indescrivibile le trasfigura il viso: una gioia più che umana, mista a gratitudine commossa e sin cera riconoscenza. Per un attimo guarda Pedro con gli oc chi lucenti, mentre gli angoli della bocca le tremano. Riesce solo a dire: « Oh! Mio Dio! Mio Dio! » Poi si china con im pulso, afferra le mani di Pedro e se le porta alle labbra, ri petendo con una voce rotta dalla commozione e dall' affan. . '. . . . no: « ohl. G razte..' . . G razte..' . . L et. e' b uono. Oh '. G razte . G razte . .' . . . G razte .' . . » . l ·
.
Fu p o i necessario spiegare alla prigioniera che la sicu rezza di Mussolini, e di conseguenza la sua, imponeva il trasferimento in un luogo di cui solo poche persone fidate conoscessero l' ubicazione. Lo spostamento si sa rebbe fatto di notte. D ato che ci voleva almeno un'ora e mezzo di strada, non era certo che i due amanti avrebbero viaggiato sulla stessa vettura. Inoltre, c'era il rischio che al passaggio di un posto di blocco qual che sentinella più perspicace delle altre riconoscesse il capo della RSI, o che il piccolo convoglio fosse mitra gliato da un distaccamento isolato di miliziani fascisti . Nessuno di questi avverti menti riuscì comunque a guastare la gioia di Clara Petacci .
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RITORNO D I
M ussouNI
A
D oNGO
Prima di riprendere la strada per Germasino, Pedro si recò flll' albergo dove Marcello Petacci si era comoda mente installato. In realtà nessuno aveva ancora rico nosciuto sotto l'identità del « console spagnolo » il fra tello della compagna di Mussolini. Credendosi protet to dalla carica di cui si fregiava e dai documenti falsi che si era procurato, il « professore » accolse il coman dante della 52a brigata con una tracotanza che non piacque affatto all'interlocutore. Con tono autoritario pretendeva che fosse contattato il consolato di Spagna di Milano, per ottenere « informazioni sul conto di Don Juan Muiiez y Castillo ». Disse di avere « un inca rico ufficiale e segreto » da svolgere in Svizzera. Pedro si guardò bene dal cedere a questo tentativo d'intimi dazione e dal soddisfare la richiesta di colui che ancora non era suo prigioniero ma che, almeno ai suoi occhi, era già un sospetto. Rispose che avrebbero fatto tutto il necessario, ma che non era possibile permettergli di partire prima di aver accertato esattamente chi fosse. Erano quasi le undici di sera quando Pedro lasciò Dongo per recarsi alla caserma di Germasino. Pioveva a catinelle. La notte era scura, solcata da lampi che il luminavano per pochi istanti un paesaggio tanto sini stro a quell'ora quanto appariva incantevole in pieno giorno. L'autista non conosceva bene la strada. Nessun paese, nessuna abitazione isolata permetteva ai due oc cupanti della vettura di orientarsi. Dopo molte esita zioni erano sul punto di tornare indietro quando scor-
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sero infine un gruppo di case rurali dalle quali non si diffondeva alcuna luce. Per una mezz'ora i due vaga bondarono da una casa all'altra, bussando invano a ogni porta, finché una di esse si aprì, lasciando appa rire un personaggio irsuto, con la barba e in testa un berretto bisunto. Pedro si fece riconoscere dal brav'uo mo, che in un primo momento nel vederli ebbe un moto di spavento, ma che presto si rassicurò grazie alle parole amichevoli dell'interlocutore e al fazzoletto ros so che entrambi portavano al collo, segno della loro appartenenza alla Resistenza armata. Si offrì anche di accompagnarli sino alla strada che portava a Germasi no, proposta che i due accettarono con riconoscenza, finalmente certi di riuscire a raggiungere il luogo in cui era detenuto Mussolini. Secondo la relazione che Bill fa di questo episodio, Pedro fu accompagnato a Germasino da un terzo uo mo, il capitano Neri, a prova della diffidenza che l'ari stocratico fiorentino suscitava nei ranghi dei dirigenti comunisti. Tale versione non è però suffragata da pro ve certe e io tendo a considerare più credibile il raccon to del comandante della 52a brigata Garibaldi. Resta comunque il dubbio su quanto sia davvero accaduto a Dongo e a Germasino nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Pedro arrivò alla caserma della Guardia di finanza poco dopo mezzanotte, cioè con un'ora buona di ritar do rispetto all 'orario previsto . Verificò che le sue con segne fossero state scrupolosamente eseguite. Numero se sentinelle facevano la guardia nella corte e alle uscite
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dell'edificio, altre guardie erano state inviate a pattu gliare i dintorni per verificare che non vi fossero attac chi in preparazione. Al primo piano il brigadiere B uf
felli era anch'egli al posto assegnatogli. Pedro si com
plimentò con lui e gli comunicò subito il motivo della sua venuta. Buffelli non poté che rallegrarsi di essere così liberato da una responsabilità che superava di gran lunga le sue competenze militari e i magri effettivi del- ' la sua guarnigione. Accompagnò subito Bellini al se condo piano, dove si trovava la stanza nella quale ripo sava l'ex dittatore: una sorta di guardaroba svuotato per l'occasione dal mucchio di coperte, cappotti e altri effetti militari che solitamente custodiva. Prima di aprire la porta chiusa da un semplice catenaccio , Buf felli riassunse in poche frasi lo svolgimento della serata. Mussolini aveva mangiato con appetito la cena che gli era stata servita, poi aveva conversato con i suoi guar diani, prima di raggiungere la sua cella intorno alle un dici. Il Duce era disteso sul dorso, con le coperte tirate sino agli occhi . Buffelli si avvicinò al letto e gli chiese se dormiva. Il prigioniero rispose che no, si era assopi to solo un istante. Cosa volevano? Pedro, tenendosi un po' in disparte, lasciò al brigadiere il compito di spie gare che il comandante della
52a brigata era arrivato da
Dongo per condurlo in un altro rifugio. Per un attimo il volto di Mussolini tradì un lieve sgomento . « D i già? Me l'aspettavo » , disse, voltandosi verso Pedro che era avanzato di qualche passo. « Mi alzo subito . » Gli bastarono pochi minuti per prepararsi. Quando
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uscì dalla stanza i suoi tratti avevano recuperato un' ap parente serenità. Tremava appena, ma di freddo. Così Buffelli gli propose di rimettersi il pastrano da cui non si era più separato dopo l'arresto. Mussolini rifiutò con decisione: « No, no! » esclamò. « Non vorrei più mettere quel cappotto tedesco. » Gli furono dunque procurati una coperta e un pastrano della Guardia di finanza, che indossò senza esitare con l'aiuto di un brigadiere. Al momento di andarsene Pedro spiegò al Duce che si era deciso di coprirgli il viso con delle bende, in mo do da renderlo irriconoscibile per le sentinelle che fa cevano la guardia ai posti di blocco, numerosi lungo la strada per Como. Il prigioniero acconsentÌ con un cen no del capo, e Pedro e Buffelli si misero ad arrotolare intorno al suo cranio e al volto delle lunghe bende di tela. Conclusa l'operazione, del prigioniero rimasero visibili solo gli occhi, il naso e la bocca. Ci sarebbe vo luto del bello e del buono, in caso di ispezione nottur na a un posto di blocco, per riconoscere sotto questo travestimento da ferito grave i lineamenti dell'ex capo dell'Italia fascista! Il ritorno a Dongo fu facile e rapido quanto l'andata era stata laboriosa. La pioggia cadeva con minore in tensità e l'autista, che guidava ormai su terreno cono sciuto, poteva dare briglia sciolta alla sua destrezza e abilità. Pedro e il prigioniero, seduti uno di fianco al l' altro sul sedile posteriore dell'automobile, ebbero ap pena il tempo di scambiare qualche frase. Sequenze brevi e strane, di cui si può immaginare l'atmosfera surreale: il giovane partigiano fiorentino, con il fazzo-
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letto rosso intorno al collo e la pistola mitragliatrice sulle ginocchia, che dialoga con l'uomo invisibile. Lo scambio merita di essere riportato perché ci permette di cogliere, nella versione di Bellini, le ambiguità del rapporto tra Mussolini e la sua amante. M ussolini rivolse la testa bendata verso Pedro, chiedendo con voce un po' esitante: « Mi dica, per favore: è riuscito a parlare con quella signora? » « Sì, le ho parlato ed è stata contenta di sapere che lei è trattato bene. » « E come sta la signora? » « Oh, non sta male; l'abbiamo tr�ttata con tutti i riguar di. Solo naturalmente è assai abbattuta e impensierita per il futuro . » Mussolini rimase in silenzio. Poco dopo Pedro continuò: « Anzi, le darò ora una notizia, che credo le farà piacere. La signora mi ha molto pregato perché la riunissi a lei e abbiamo creduto di poterla accontentare . . . » . « Come?! >> esclamò Mussolini stupito. « Quindi ora a Dongo la troveremo ad attenderci e poi proseguiremo il viaggio insieme fino alla nuova destinazio ne. » « Ma perché ha voluto? » « Oh! Questo dovrebbe saperlo meglio lei di me . . . »2
Come interpretare la freddezza apparente del Duce nell'apprendere che la donna con cui intratteneva da dodici anni un rapporto sentimentale aveva scelto di condividere la sua sorte? Era un'indifferenza studiata, destinata a ingannare Bellini sulla vera natura dei suoi sentimenti e a salvare Clara? O era vero disinteresse?
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L'ex dittatore non era al suo primo tentativo di rottura con un'amante il cui evidente attaccamento aveva fini to per tediarlo . Dopo la liberazione e il ritorno al po tere, nel settembre del 1 943, aveva altezzosamente ignorato l'esistenza della giovane donna, prigioniera per alcune settimane a Novara e poi liberata su ordine del generale Wolff, senza che il suo amante si fosse pre cipitato a rivederla. E abbiamo visto che non fu certo per sua richiesta che il capo della polizia tedesca aveva fatto liberare e poi condurre Claretta a Gardone, ma solo in seguito a un intervento personale del Fiihrer. Questa reticenza non aveva comunque impedito al ca po della RSI di correre subito a villa Fiordaliso dove si era stabilita la Petacci. A Gargnano, mentre prendeva corpo lo spettro della disfatta, Mussolini non aveva mostrato grande preoc cupazione per il destino di Clara quando Alleati e par tigiani fossero divenuti padroni della penisola. Pensava senza dubbio che la sua amante avesse mezzi adeguati per sfuggire all'inevitabile « epurazione ». A Milano, dove si svolse l'ultimo atto della storia della Repubbli ca sociale, il Duce non aveva praticamente avuto alcun contatto con la giovane donna, se si eccettuano alcune telefonate. Quando, il 25 aprile, si era messo in marcia con la carovana dei dignitari fascisti e con la scorta te desca, la Petacci non aveva cercato di prendere posto in uno dei veicoli occupati dai funzionari e dai collabora tori più vicini al Duce. Era montata sull'automobile del fratello Marcello e lo aveva pregato di tenersi in co-
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da al convoglio. Con M ussolini aveva potuto scambia re a malapena qualche parola. Forse lo scarso entusiasmo mostrato da M ussolini all ' annuncio di Pedro si spiega con un desiderio di di screzione, ridicolo se si pensa che la maggior parte de gli italiani era da tempo al corrente delle scappatelle sentimentali della (< guida » . Ma egli forse, come era ac caduto con i suoi ministri, con Birzer o Fallmeyer, norì desiderava fare la figura del collegiale innamorato che ritrova l'amichetta dopo un lungo periodo di vacanze.
È
però possibile che vi siano altri motivi per tale comportamento, legati ai supposti rapporti che l ' a mante del D uce avrebbe intrattenuto con alcuni servizi segreti stranieri, in particolare tedeschi e britannici . Dei diari redatti quotidianamente da Clara Petacci conosciamo oggi solo la parte emersa, quella apparsa in scritti diversi, nel più frequente dei casi giornalistici, e in particolare in un'opera recentemente pubblicata
da Rizzoli che però riguarda solo il periodo anteriore
alla guerra. 3 Accompagnati da numerosi documenti personali (corrispondenza scambiata tra Clara e il Du ce, trascrizione di conversazioni telefoniche ecc.) , que sti « diari » costituiscono un fondo di interesse eccezio nale, e non solo perché ci permettono · di entrare nel l' intimità dei due amanti. Tuttavia, in seguito a una decisione della Corte di cassazione del 1 956, questa miniera d' oro è ancora oggi preclusa alla ricerca per
tutto ciò che tratta il periodo immediatamente prece dente la guerra e gli anni 1 940- 1 94 5 . Conservati e re pertoriati presso l'Archivio centrale dello Stato, i docu-
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menti saranno consultabili solo nel 20 1 5 . Sono nume rosi gli storici che, come l'autore di queste righe, han no tentato di ottenere deroghe e autorizzazioni, anche limitate a temi o sequenze precise, senza riuscire in al cun modo ad aggirare il Moloch amministrativo e po litico . Dovremo dunque attendere la data stabilita dal la co rte per scoprire forse qualcosa di più sulle relazioni di Claretta con il mondo dei servizi segreti. Eppure, nonostante gli ostacoli frapposti per più di sessant'anni alla consultazione di questa fonte, sono filtrate numerose informazioni ottenibili solo per mez zo di visite discrete negli archivi romani. Tali dati sono venuti di volta in volta a confermare o smentire le ipo tesi avanzate da altre fonti, o sulla base di testimonian ze dirette o indirette, di cui il minimo che si possa dire è che risultano spesso diverse fra loro, quando non contraddittorie. E pur vero che un tema simile non poteva che attirare la brama degli editori. Si presentava infatti la possibilità di smontare l'immagine general mente accettata di una donna innamorata, che la pas sione spinge al sacrificio supremo, sostituendola con quella di una spia reintrodotta nell'entourage di Mus solini nell'autunno del 1 943 dai servizi segreti nazisti. Cosa che tra l'altro non avrebbe impedito all'ex favo rita, rientrata nelle grazie del Duce per l'appoggio per sonale del Fiihrer, di avere rapporti con gli « agenti di Churchill )) utilizzando la rete costituita dal fratello Marcello negli ultimi mesi di guerra per preparare l'e silio in Svizzera del clan Petacci. In un prossimo capitolo esamineremo la questione '
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del ruolo attribuito ai servizi segreti stranieri nella mes sa a morte di Mussolini, e contestualmente ci interro gheremo sul credito che è il caso di accordare alla tesi che fa di Claretta una spia incaricata dai suoi superiori di carpire informazioni confidenziali e documenti compromettenti. Per il momento accontentiamoci di supporre che con ogni probabilità il Duce ebbe cono scenza delle indiscrezioni, vere o supposte, della sua compagna, e che la fiducia accordata alla giovane ne risultò temporaneamente incrinata. Ciò che sappiamo dei rapporti epistolari o telefonici tra i due amanti nel corso degli ultimi mesi di guerra, ci fanno immaginare una relazione fatta di litigi e riconciliazioni, in cui svol sero probabilmente un ruolo anche le imprudenze di Clara. E non è impossibile che tutto ciò abbia finito per seminare il dubbio nell'animo del dittatore, ma nulla è meno certo. Non si deve infatti dimenticare che proprio a Claretta affidò una parte dei documenti che dovevano servirgli, in caso di processo, a difender lo dalle accuse del nemico e davanti alla storia. Infine, l'apparente indifferenza alla rivelazione di Pedro fu forse solo il frutto dell'angoscia che, sin dalla partenza da Milano, si era impadronita di questo morto vivente che era stato il padrone dell'Italia fascista.
DA D oNGo A B oNZANIGo Prima di partire per Germasino, Pedro (secondo la sua versione ' dei fatti, che diverge da quella di Bill) aveva
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dato appuntamento ai suoi due luogotenenti al ponte della ferriera, poco distante da Dongo, così da garan tire un minimo di segretezza all' operazione. 4 Giunto in prossimità del ponte vide da lontano Pietro che, per ingannare l'attesa, si sgranchiva le gambe camminando sulla strada. Un'altra vettura era di lato, con tutte le lu ci spente; vi avevano preso posto Clara Petacci, Neri e la sua compagna, la partigiana Gianna, e altri due ga ribaldini che si era pensato di lasciare poi a Brunate, a guardia dei prigionieri. Uno dei due era Guglielmo Cantoni, detto Sandrino o Menefrego, 5 l'altro era G iu seppe Frangi, alias Lino. B ill non partecipava al viag gio: Pietro aveva lasciato un ordine scritto a Dongo pregandolo di prendere il comando della brigata. Credendo di dover cambiare veicolo, Clara Petacci scese dalla vettura e si avviò verso quella in cui si tro vavano Pedro e Mussolini. Alla vista di quest ' ultimo, completamente fa� ciato dalle bende, la giovane donna si spaventò. Credeva che avessero attentato alla vita del Duce e che questi fosse gravemente ferito. Pedro le spiegò in poche parole il motivo della messinscena e indicò con un gesto ai compagni di permettere ai due amanti qualche istante di solitudine. Un breve ri trovarsi, punteggiato appena da qualche frase formale: « Buona sera, signora. » « Buona sera, Eccellenza. » [ ] « Perché avete voluto seguirmi? » « Preferisco così. Vi è successo qualcosa? Siete fasciato! » « State tranquilla: non mi è successo nulla. » . . .
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Pedro fece montare sulla prima vettura, di fianco al conducente, il garibaldino Lino e sul sedile posteriore, tra Neri e Pietro, la Petacci. Mussolini prese posto nel la seconda vettura, tra Pedro e Gianna, mentre Mene frego occupava il sedile accanto al guidatore. Intorno alle due e mezzo del mattino, dopo essersi accertato che tutto fosse in ordine, il fiorentino diede il segnale di partenza in direzione di Como. La presenza di una giovane donna in questo gruppo di agguerriti partigiani può sembrare sorprendente. Giuseppina Tuissi, di ventidue anni di età e dotata di un bel fisico - i testimoni hanno spesso parlato dei suoi occhi azzurri e della sua figura slanciata era detta Gianna e proveniva dal proletariato rurale. Suo padre era fabbro, la madre contadina. Arruolatasi nei ranghi dei garibaldini, la giovane era rimasta pro fondamente sconvolta dalla morte del fidanzato , Gian ni Alippi, fucilato sotto i suoi occhi dai fascisti della legione mobile Ettore Muti. Nel settembre del 1 944 era stata affiancata a Luigi Canali (Neri) , allora co mandante della 52a brigata Garibaldi. Da quell' incon tro e dall'azione comune nella lotta era nata una forte passione che non aveva mancato di risvegliare la gelo sia nutrita da qualche pretendente della bella Gianna. La partigiana era poi stata arrestata nel gennaio del 1 945 in compagnia di Neri e sottoposta alle peggiori torture. Liberata in marzo, aveva raggiunto il compa gno. Questa vicinanza affettiva e militare a un tempo spiega perché Neri avesse voluto al suo fianco l'assi stente, ormai promossa alle funzioni di agente di col-
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legamento , in un'operazione che richiedeva la più grande discrezione. Quando era stato deciso di trasferire Mussolini e la Petacci in un luogo sconosciuto ai di rigenti del movi mento insurrezionale, Pedro aveva manifestato qual che perplessità all'idea di associare una donna all'im presa. Neri era tuttavia riuscito a convincerlo che si trattava di una militante ormai collaudata nella quale riponeva la massima fiducia. Il comandante della 52a brigata, a conoscenza dei tanti conti in sospeso tra la ragazza e il fascismo, aveva comunque deciso di tenerla d'occhio. Per questo la fece sedere sul sedile posteriore della seconda vettura, dove lui stesso prese posto di fianco a Mussolini. « Se si muove gli sparo », minaccia va Gianna, con la pistola puntata sull'ex dittatore. Ave va infatti molto di cui chiedere conto ai fascisti e ai te deschi. « Vedi prima se non c'è meglio da fare », ordinò Pedro . « Sta' calma, se dovesse succedere qualcosa per via allora spara pure, ma solo nel caso, ricorda, che tu veda tutto perduto. » Le due Fiat 1 1 00 nere, scelte perché poco appari scenti, correvano a una certa velocità sotto la pioggia battente che rendeva scivolosa la carreggiata e pericolo se le curve, quando nei pressi di Menaggio la vettura di testa subì il fuoco di un gruppo di partigiani scesi dalla montagna. Pedro, che seguiva nel secondo veicolo, or dinò subito all'autista di fermarsi e rimproverò con du rezza il comandante del gruppo. A Cadenabbia nuova sosta a un posto di blocco . Una delle sentinelle, che aveva fatto parte della stessa unità combattente di Pe-
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dro, si sporse per vedere chi occupava il sedile posterio re della 1 1 00. Avendo riconosciuto il vecchio compa gno d'armi gli chiese, indicando con il dito il perso naggio avvolto nelle bende: di Neri e di Lino mentre circo lava in bicicletta, la giovane fu denunciata al capo lo cale della « polizia del popolo », un certo Cassinelli, prelevata da due individui in motocicletta e condotta in riva al lago, dove fu abbattuta e gettata in acqua il giorno stesso del suo ventiduesimq compleanno. La morte di Gianna e poi quella della sua amica e confidente Annamaria Bianchi, liquidata il 4 luglio e gettata ancora viva nel lago, diedero il via a una serie di uccisioni della stessa natura e dello stesso tipo, due pallottole nella nuca e un tuffo definitivo nelle ac que del lago, le cui vittime furono partigiani che sape-
Controversie e regolamenti di conti
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vano troppo sugli avvenimenti del 2 8 aprile a Mezze gra o sulle morti di Neri e della sua compagna o, an cora, su come si era svolto il saccheggio del « tesoro di Dongo » .
XI I I
Sulle tracce del « tesoro di Dongo »
Tra i numerosi misteri che accompagnano le ultime ore della vita di Mussolini, quello dell'oro di Dongo ha alimentato un gran numero di dicerie. Si tratta di un tesoro di considerevole valore che il Duce e i suoi contavano di mettere al sicuro se fossero riusciti a rag giungere la Svizzera o la Germania. Il fallimento del progetto fece sì che il denaro, i valori e gli oggetti pre ziosi che si portarono dietro lasciando Milano passas sero dal loro bagaglio alle bisacce dei loro carcerieri, o di « salvatori )) interessati, quando non finirono sempli cemente nelle casse del Partito comunista italiano . Cercheremo ora di seguire alcuni degli itinerari percor si da questa manna inaspettata in un'Italia ridotta alla fame.
UN
RACKET
DI
STATO
Mussolini non aveva certo atteso di prendere la strada dell'esilio per appropriarsi dei « fondi riservati )) della Repubblica di Salò, costituiti da un portafogli di valori stranieri comprendenti 2 1 50 lire sterline in oro e 2765 in banconote, 278 .000 franchi svizzeri, 1 49.000 dalla-
Sulle tracce del « tesoro di Dongo ))
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ri, 1 8 milioni di franchi francesi, 1 0. 000 pesetas,
1 5 . 000 scudi portoghesi, oltre a lingotti d'oro e oggetti
preziosi. Il 23 aprile egli pigiò il tutto in cinque o sei valigie che furono caricate su un camion a Gargnano e trasportate alla prefettura di Milano dove il dittatore aveva p reso residenza. La sera del 2 5 esse furono trasfe rite in alcuni veicoli della colonna in partenza per Co mo, sotto la supervisione del p refetto Luigi Gatti, se gretario particolare . del D uce. Mussolini disponeva, ol tre alla cassa del mi nistero degli Interni, di 82 milioni in valuta incassati da poco presso la direzione della
Banca d'Italia, e di circa 66 chili d'oro in braccialetti,
anelli e fedi nuziali, confiscati tutti a privati negli Abruzzi e nelle Marche quando le due regioni ancora si trovavano sotto controllo fascista. Anche i gerarchi che accompagnavano il Duce si erano dati da fare. Il ministro degli Interni Zerbino si era portato via 1 8 milioni di lire, 1 5 milioni ognuno il ministro della Cultura popolare (Mezzasoma) e quello delle Comunicazioni (Liverani) , e 1 2 milioni il ministro dei Lavori · pubblici (Ruggero Romano) . I fondi prelevati da quest'ultimo nelle casse della Re pubblica sociale seguirono un percorso perlomeno sin golare. Infatti insieme al ministro si trovavano ne�la ca rovana dei fuggitivi anche la moglie, Rose Marie Mit tag e i due figli di tre e quattordici anni. Approfittando dell'origine tedesca e del fatto che era incinta di quat tro mesi, la signora riuscì a unirsi al convoglio dei sol dati tedeschi che i partigiani avevano autorizzato a p ro seguire oltre Musso. La donna si portava dietro il più
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piccolo dei figli, mentre il maggiore doveva restare con il padre. Aveva inoltre voluto rendere più visibile il suo stato avvolgendosi di fasce per ingrossare l'addome, ma il sotterfugio fu scoperto da un doganiere svizzero al posto di frontiera di Chiavenna, che fece scendere la signora dal veicolo su cui aveva preso posto e fece apri re il bagaglio che trasportava. Si trovarono 1 3 50 ma renghi e altre monete d'oro, 2700 lire sterline in ban conote, 1 5 milioni di franchi francesi, 63 .700 dollari e 1 7. 000 franchi svizzeri; in virtù di questa cospicua somma le autorità elvetiche rifiutarono alla moglie del ministro l'ingresso nel territorio della Confedera zione e la consegnarono, con il contenuto delle sue va ligie, ai partigiani della 90 a brigata Garibaldi. Ci si potrebbe interrogare sull'origine dei beni pre levati dalle valigie dei gerarchi. Denaro pubblico, tolto di tasca ai contribuenti? Certo, ma anche frutto di re quisizioni abusive, cui gli ebrei furono particolarmente esposti, o di ricatti, operazioni fraudolente ecc. A que sto bottino si devono poi aggiungere i beni e i valo ri personali, cominciando dalla famiglia Petacci. Marcel lo possedeva un orologio d'oro da polso , e nelle tasche teneva un portasigarette e una penna, entrambi d'oro, oltre a 2000 franchi svizzeri nascosti nelle scarpe. La sua convivente, Zita Ritossa, aveva con sé 20.000 lirè , portava alle dita tre anelli con diamante e al polso un orologio d'oro tempestato da svariate decine di piccoli brillanti. Quanto a Claretta, possedeva anche lei un orologio e un portacipria d'oro, e tre grossi diamanti, di cui uno cucito nei vestiti.
Sulle tracce del « tesoro di Dongo 11
P R I M E SOTTRAZIONI,
PRIM I
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BILANCI
Solo una parte dei fondi e degli oggetti che abbiamo citato giunse al municipio di Dongo, dove la sera del 28 aprile fu stilato un inventario dei beni sequestrati dalla 5 2a brigata. I primi prelievi dai valori detenuti dagli ex dignitari della RS I ebbero luogo nella mattina del 27, quando il convoglio restò fermo a Musso in at tesa dell'accordo tra gli uomini di Bellini delle Stelle e i tedeschi. Molti testimoni convocati al processo di Pa dova dichiararono che alcuni dei passeggeri dell'auto blinda, cui si aggiunsero civili del luogo, avevano pro ceduto a un vero e proprio saccheggio del veicolo. Nel corso delle ore in cui questo rimase immobilizzato si videro sfilare sotto gli occhi indifferenti dei « protetto ri » tedeschi sacchi di banconote e casse o valigie nelle quali i fascisti avevano stipato di fretta tutto ciò che poteva avere un qualche valore. Tra i gerarchi, funzionari e altri accompagnatori dell'ex dittatore che parteciparono alla razzia, solo po chi, prima di riprendere la strada per Dongo, furono costretti a restituire il bottino. Altri approfittarono in vece della sosta obbligata in prossimità del paese di Musso per affidare il prodotto delle loro rapine agli abitanti del luogo, dopo lunghe trattative. Si trattava infatti di ottenere dagli interlocutori che prendessero in consegna i beni rubati o di proprietà con la promes sa di renderli alla fine della guerra in cambio di laute ricompense. Che illusione! Neppure i tedeschi furono estranei alla dispersione
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del « tesoro di Dongo ». Sembra che siano stati proprio loro ad alleggerire i loro « protetti _>> italiani di oltre 36 chili di oggetti d'oro che furono trovati in seguito nel fiume Mera in prossimità della confluenza nel lago. Inoltre, prima di capitolare, nella notte del 27 aprile, i tedeschi bruciarono anche numerosi fasci di banco note da l 000 lire che ammontavano a varie centinaia di milioni. Un pacco di sterline fu rubato anche a Garbagnate nella notte tra il 25 e il 26 aprile, insieme a documenti ultraconfidenziali provenienti dall'archivio della segre teria particolare del Duce. Il camioncino Balilla che li trasportava, rimasto in panne subito fuori Milano, era stato svuotato di gran parte del suo contenuto. Il resto del bottino fu poi recuperato dal prefetto Grassi e rein tegrato al convoglio. Quanto agli uomini della 52a brigata Garibaldi, an ch' essi si abbandonarono a operazioni di saccheggio delle vetture rimaste incustodite nella colonna ormai giunta a Dongo. E fu proprio per evitare che le sottra zioni prendessero proporzioni ancora più inquietanti che Neri ordinò alla sua compagna Gianna di stilare un primo inventario dei beni raccolti in una sala del municipio di Dongo. La giovane trascorse così tutta la serata del 28 aprile, quindi dopo la morte del Duce e dei suoi ultimi compagni di strada, a redigere la lista. Questa si compone di cinque fogli dattiloscritti e porta le firme di Pier Luigi Bellini delle Stelle, Urbano Laz zaro, Michele Moretti, Neri (l'unico ad aver firmato con il nome di battaglia) e Pietro Terzi, tutti membri
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Sulle tracce deL « tesoro di Dongo »
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dello stato maggiore della brigata, oltre a quella di Gianna. Il computo dei valori repertoriati registrò cir ca un milione e mezzo di lire italiane, 76.000 franchi svizzeri, 92 lire sterline in banconote, l 0 . 000 pesetas, una penna stilografica in oro cesellato, un pezzo di ca tena d'oro e una medaglietta d'oro: come dire che le sottrazioni effettuate a partire dalla sosta del giorno in nanzi a M usso avevano notevolmente alleggerito il malloppo accumulato dai fascisti. E importante anche notare che, a partire da quel momento, i firmatari dell'inventario dovettero porsi il pro blema della destinazione dei valori sequestrati, cui si fa riferimento nella parte finale del documento stesso: '
Il Comando della Brigata, riunitosi nelle persone del co mandante « Pedro », del commissario « Pietro », del capo di Stato Maggiore « Neri », del vicecommissario « Bill », con l'approvazione del Commissario di Guerra della wna di Como « Francesco », considerato che, durante tutta la durata della guerra partigiana il solo Ente che si interessò, aiutò, valorizzò gli sforzi, sempre grandi e spesso eroici dei « garibaldini », fu la Federazione Comunista Comasca nella sua funzione periferica del P C I , interp retando sicuramente il pensiero di tutti i garibaldini e della popolazione della zo . na che più da vicino assistette alla loro lotta, decide di « af fidare » i valori anzidetti alla Federazione Comunista Co masca stessa. 1
Si trattava insomma di decidere a chi sarebbe toccato il prodotto delle ruberie mussoliniane. Ma su questo
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punto di importanza fondamentale gli stessi membri del comando garibaldino avevano opinioni divergenti . Pedro e Bill, che non erano comunisti, desideravano che i valori usurpati dai rappresentanti dello Stato fa scista fossero rimessi al giovanissimo potere democra tico italiano. Gli altri, con Moretti, propendevano in vece per la consegna dei fondi alla federazione comu nista di Como. Quanto a Neri, cui l'appartenenza al Partito comunista non aveva tolto una grande autono mia di giudizio, egli non attribuiva alla parola « affida re » presente nell'inventario lo stesso significato dei suoi compagni di partito. Considerava cioè il deposito del bottino alla federazione di Como come un segno di riconoscimento dei partigiani verso quell' organizzazio ne, il cui ruolo era stato essenziale nella lotta contro i fascisti e i loro alleati, ma riteneva che il deposito do vesse essere provvisorio e che il destinatario finale dei fondi non potesse essere altri che lo Stato italiano, li bero ed epurato. Si capisce dunque come N �ri abbia potuto divenire proprio in quell'occasione, ancora più che in relazione agli avvenimenti precedenti il 2 8 aprile, l a pecora nera della federazione d i Como, cosa che non mancherà di avere conseguenze nel conflitto che lo opporrà a Dante Gorreri. Lui e Gianna, come abbiamo visto, pagarono poi con la vita il non allinea mento alle posizioni della minoranza rivoluzionaria del P CI . Gli Alleati non potevano certo restare indifferenti all' intera faccenda, e in particolare gli americani, cui gli agenti dell' oss avevano sottolineato il rischio costi-
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tuito da un cospicuo trasferimento di fondi nelle casse del Partito comunista. Non era certo stato senza remo re che avevano fornito armi leggere ai partigiani dell'I talia settentrionale. Permettere ai comunisti di mante nere le loro unità combattenti e di rifornirsi di armi clandestine, in un momento in cui ignoravano l'insi stenza con cui Stalin aveva dissuaso Togliatti dallo sca tenare una seconda guerra civile, rappresentava un ri schio che lo stato maggiore americano non aveva alcu na intenzione di correre. Vi era poi una grande diffi denza, nonostante i buoni rapporti tra gli agenti del l'oss e alcuni responsabili delle brigate garibaldine, su ogni questione nella quale fosse possibile attendersi qualche tipo di dissimulazione. Chi poteva garantire che l'inventario redatto dalla partigiana Gianna e fir mato dai capi della 52a brigata fosse privo di omissio ni? I sospetti sarebbero ancora aumentati dopo aver ve rificato la considerevole differenza tra le cifre fornite dai partigiani e la valutazione che in seguito fecero gli americani sui beni detenuti dai fascisti alla partenza da Como. Tale valutazione fu opera di un ex ufficiale della commissione alleata di stanza in Italia, Edmund Pal mieri, e di un funzionario amministrativo dell'oss , John Kobler.2 La cifra calcolata superava i 6 6 milioni di dollari, dei quali oltre 60 milioni erano costituiti da valori prelevati dal « fondo riservato » della Repubblica sociale (valute, lingotti d'oro e oggetti preziosi) , quat tro milioni provenivano dai fondi dell'esercito e del l'aeronautica tedeschi, 1 .2 1 0.000 dollari in valute stra-
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niere appartenevano al « fondo personale }} del Duce e una cinquantina di migliaia di dollari erano costituiti dalle fedi che le donne italiane avevano offerto al dit tatore nel periodo delle sanzioni all'Italia votate dalla Società delle Nazioni in relazione alla guerra d'Etiopia.
CHE
NE
È STATO DEL « FAVO LO S O TES O RO }} DI
M ussouNI ?
Seguire la pista del « tesoro » non è stato facile. Furono infatti numerose le sottrazioni effettuate, da Milano a Dongo e poi nel luogo stesso in cui si redasse l'inven tario dei beni restanti. T ali sottrazioni furono opera degli stessi proprietari dei valori o dei militari fascisti che li accompagnavano, così come di perfetti scono sciuti, di partigiani o di abitanti del luogo , i cui prelie vi furono però in generale modesti . Nel clima di disor dine generale che regnava in Lombardia nell'aprile e maggio del 1 945 era quasi impossibile ritrovare quei beni, e rintracciare gli autori dei furti che si verificaro no dopo la stesura dell'inventario a opera di Gianna firmato dai membri dello stato maggiore della 5 2a bri gata Garibaldi. Ciò che sappiamo della sorte dei valori inventariati a ' Dongo lo dobbiamo alle dichiarazioni pubblicate da alcuni dei protagonisti e dei testimoni degli avveni menti del 28 aprile e delle settimane che seguirono l'e secuzione del Duce. Altre informazioni provengono dai verbali d' udienza d�ll'interminabile processo, detto
Sulle tracce del >
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fondi associati ai documenti segreti di cui parleremo nel prossimo capitolo? Ferruccio Parri, capo del gover no di unione nazionale da giugno a dicembre del 1 94 5 , ne era convinto, come scrisse in un articolo pub blicato dalla Stampa nel 1 9 5 7 . Nel suo scritto Parri proponeva un'interpretazione che raccolse un vasto consenso: La sparizione del cosiddetto tesoro di Dongo, io la conside ro un episodio che può avere aspetti spiacevoli, ma che re sta esattamente ciò che fu, cioè un semplice episodio nel quadro complesso e infinitamente più vasto della liquida zione della guerra partigiana. Bisogna tenere in conto due circostanze: la prima è lo stato indescrivibile di confusione e disordine nel quale il crollo del fascismo e la ritirata disor dinata dei tedeschi lasciarono l'intera valle del Po, una si tuazione di per se stessa favorevole alle appropriazioni e ai furti di ogni genere, dai combattenti improvvisati alla popolazione. D'altra parte, un giudizio equo dovrebbe te ner conto dell'enorme quantità di beni e valori, di ricchezze materiali e di somme di denaro recuperati, salvati e regolar mente consegnati alle autorità. 4
Sembra dunque che la ricerca dei veri beneficiari della corsa al « tesoro di Dongo » debba essere svolta nel Par tito comunista, in un contesto prerivoluzionario e allo stesso tempo di opposizione violenta tra fautori della lotta armata e militanti obbedienti alle consegne di Togliatti. Questa è per esempio la conclusione cui giunge un rapporto segreto indirizzato alla fine del 1 945 dall'avvocato Davide Grassi, questore di Como,
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al successore di Parri nella guida del governo italiano, Alcide De Gasperi: Da tutto il complesso delle informazioni e delle confidenze avute; dai fatti che si sono svolti e che vanno tuttora svolgen dosi; dalle conversazioni confidenziali con alcuni capi del Partito comunista, da certe loro reticenze, da certe loro sor prese, dalle loro contraddizioni è da ritenersi che la questione relativa all'oro del duce non possa essere isolata in se stessa, ma che si ricolleghi a ben più vasta e importante situazione, di carattere strettamente politico e di natura estremamente ri servata, tanto più che col permanere al governo, nei posti più delicati, di esponenti di quel partito che, ove si facesse piena luce non soltanto sull'oro del duce, ma su tutta l'attività so t terranea a esso connessa, verrebbe irrimediabilmente colpito , con conseguenti reazioni che è oggi assai difficile prevedere. È invece certo che nel Partito comunista, o meglio, a lato dello stesso, per semplice tattica politica e per avere sempre pronto un comodo alibi, esiste una organizzazione militare segreta, in strettissima relazione con la Missione russa di Milano, corso Matteotti l O. ' E a questa organizzazione che indubbiamente è affluito il cosiddetto oro del duce, così come vi affluì r oro seque strato a Chiavenna da formazioni partigiane della 90a bri gata Garibaldi.5
IL P ROCESSO DELL ' « ORO DI D ONGO
»
Ci vollero dunque dodici anni prima che, davanti alla Corte d'assise di Padova e sullo sfondo della guerra
Sulle tracce del « tesoro di Dongo »
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fredda e del « miracolo » economico, avesse inizio il processo ai presunti colpevoli di dirottamento di fon di, furto, ricettazione, danni a persone, omicidio e complicità in omicidio: insomma tutto ciò che è cono sciuto come il caso del « tesoro di Dongo ». Come spie gare una tale paralisi dell'apparato giudiziario italiano sapendo che già all'indomani della guerra si erano al zate numerose voci, sostenute da una vigorosa campa gna di stampa, che reclamavano con forza verità e giu stizia per i protagonisti degli avvenimenti del 28 aprile e dell'ondata di assassinii nei ranghi della Re.1
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Stelle, cui venivano richiesti 1 30 e l 00 milioni di lire, la prima somma per danni materiali e morali causati dalla morte di Claretta e per profanazione di cadavere, la seconda per la responsabilità nella morte di Marcello Petacci. Dopo un primo e poi un secondo rinvio, la vicenda fu infine rievocata nel settembre del 1 964 da vanti al tribunale di Como, ma ci vollero altri tre anni perché il giudice istruttore mettesse fine al processo con un non luogo a procedere nei riguardi dei due pre sunti colpevoli. Audisio fu assolto dalla giustizia italia na perché i fatti che gli venivano imputati eran o avve nuti « nel corso di una azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel pe riodo della occupazione nemica » . Il giudice osservava inoltre che le uccisioni di Claretta e di Marcello Petac ci andavano valutate « nel quadro della vasta operazio ne dell'esecuzione di M ussolini e dei suoi seguaci, di cui rappresentarono un episodio costitutivo ;>. Anche Pedro fu assolto dal giudice, per il motivo che non po teva essere considerato responsabile della morte di Marcello. Infatti l'arrivo a Dongo del colonnello Vale rio, il cui grado era superiore al suo e che era stato il vero istigato re dell'esecuzione, lo metteva al riparo da qualsiasi condanna per i fatti che gli venivano im putati. Insomma, l'azione giudiziaria in tentata dalla fa miglia Petacci si concluse con una piena assoluzione. Il processo che si apre davanti alla Corte d'assise di Padova il 29 aprile del 1 957, anniversario dell'esposi zione dei cadaveri in piazzale Loreto, è invece di tut t' altra portata: sono presenti trentasette accusati, quasi
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trecento testimoni, cinquanta parti offese, decine di giornalisti italiani e stranieri. Tra i testimoni figurano alcuni dei più alti dirigenti della Resistenza italiana: il generale Cadorna e i suoi due principali collaboratori alla testa del CVL dell'Alta Italia, Ferruccio Parri e Lui gi Longo, oltre al comandante delle formazioni catto liche Enrico Mattei e al dirigente comunista Giancarlo Pajetta. I capi d'accusa sono i seguenti: peculato, estor sione, malversazione, furto e furto aggravato, ricetta zione, omicidio aggravato e non, complicità in omici dio. L'istruttoria aveva considerato giudicabili una de cina degli assassinii riportati inizialmente, tra i quali quelli di Neri e della compagna Gianna, quello di At tilio Cetti e della moglie (eliminati per motivi esclusi vamente personali) , quello di Anna Maria Bianchi e del padre Michele, e ancora quello di Lino-Frangi, ca pofila delle vittime. Gli ingredienti del processo, sempre che non venisse nuovamente soffocato sotto il peso della procedura e dei segreti politici, promettevano di coinvolgere l'opi nione pubblica: non solo a causa del tesoro scomparso e dei testimoni assassinati, ma anche perché non si po teva impedire alla stampa di rievocare l'esecuzione del Duce e il tema della supposta corrispondenza tra Mus solini e Churchill. Inoltre, al banco dei testimoni do vevano presentarsi varie personalità assai vicine al dit tatore, come Edda Ciano, donna Rachele, Vittorio e Romano Mussolini, o gli eredi di Pavolini. Chi ricordava più, nel momento di inizio del pro cesso, l'interminabile passaggio di « patata bollente »
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cui si erano dedicati per dodici anni i trib unali civili e militari di Milano, Padova, Venezia e Como , nonché i magistrati della Corte di cassazio ne e i membri del Par lamento (alcuni tra i convenuti erano infatti deputati o senatori) ? Ora che l' incartamento era infine giunto sul la scrivania di Augusto Zen, presidente della Corte d'assise di Padova, la giustizia sarebbe riuscita a trion fare sull' omert� e le pressioni politiche? Per raggiunge re questo obiettivo il processo sarebbe dovuto durare molto tempo affinché ognuna delle due parti potesse produrre prove e testimoni per avvalorare le proprie argomentazioni: per gli uni si trattava di denunciare i crimini e i furti commessi dai comunisti, per gli altri di negare i fatti che gli venivano imputati e di legitti mare quelli che non potevano essere nascosti con il ri ferimento alla lotta patrio ttica e alle sofferenze inflitte ai resistenti . I comunisti non p rendevano neppure in
considerazione l' idea di ammettere pubblicamente che i regolamenti di conti dell'immediato dopoguerra avevano avuto come causa principale le loro divisioni interne. Preferivano attribuirli a ragioni locali legate in sostanza alla faccenda del « tesoro di Mussolini » , mettendo così gli omicidi del 1 945 s u l conto delle ri valità personali e del
«
tradimento » .
Le tesi dell'accusa sembravano ormai sul punto di sfociare nella condanna di una parte degli accusati, in particolare di coloro che avevano ordinato gli omi cidi del 1 945 ai danni dei partigiani troppo « loquaci » ,
o che avevano prestato aiuto a i loro autori, i vari Gor reri, Bernasconi, Vergani , Negri , Gambaruto e colle-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
ghi, quando un evento inatteso e giudicato sospetto da alcuni rimise in discussione il lungo cammino della ve rità. La mattina del 24 luglio 1 957, nel corso di una visita della Corte sui luoghi dei delitti, uno dei giudici popolari, Silvio Andrighetti, si accasciò vittima di un infarto. Il giurato fu trasportato a Como, nel poliam bulatorio della Croce rossa, e le sue condizioni rimase ro a lungo critiche, costringendo il giudice Zen ad ag giornare le udienze prima al 5 e poi al 1 9 agosto . In quella data la Corte avrebbe dovuto visitare le località di Pizzo di Cernobbio , dove era stata uccisa Gianna, e Acquaseria, dove era stato ritrovato il corpo della sua amica Annamaria Bianchi, per poi recarsi alla caserma di Como che era stata teatro dell'esecuzione di N eri . L'udienza però non ebbe mai luogo, e neanche quelle che avrebbero dovuto seguire. La mattina del 1 3 ago sto, infatti, Silvio Andrighetti mise fine ai suoi giorni in preda alla depressione. Il processo non poteva proseguire perché alla scelta dei giurati il giudice Zen aveva omesso di designare un numero adeguato di supplenti, e quello di Andrighetti, inoltre, non aveva assistito a tutte le udienze. S i dovette dunque rinviare l'intero processo a data da stabilire, cioè ripartire da zero con una nuova giuria. Ormai , do po così tanto tempo, la cosa avrebbe perso di significa to. Restava però da formulare in maniera esplicita l'ab bandono di tutte le indagini svolte contro gli auto ri dei crimini e dei delitti commessi nella primavera del
1 945, cosa che avvenne senza eccessiva fretta da parte
SuLle tracce deL 11 tesoro di Dongo ))
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dei magistrati di Padova tra il 1 970 e il 1 973, in osser
vanza di un decreto di amnistia del 4 giugno 1 966.
La fuga e l'arresto di M usso lini danno così il via, alla
vigilia della cessazione delle ostilità, a un processo di saccheggio e di appropriazione di beni di notevole en tità, la cui parte maggiore consisteva in fondi pubblici a lo ro volta sottratti alle casse dello S tato dagli ultimi dirigenti della Repubblica sociale. Sul destino di que
sto
«
tesoro >> bisogna accontentarsi di ipo tesi plausibili.
E ancora prima ci si chiede: a quanto ammontavano le ricchezze che cambiarono di mano in seguito agli avve nimenti del 1 945 nella regione del Lario? S i è parlato
di un valore pari a 600 miliardi di lire dell'epoca, som ma enorme e mai dimostrata. Rispetto
a
questo am
montare vertiginoso , l'oro scoperto dai partigiani nei veicoli fermati a M usso avrebbe rappresentato la quasi totalità delle riserve dello Stato fascista repubblicano . S upponendo che le cifre siano queste, ritnane comun que rischioso azzardare ipo tesi su come fu ripartita questa parte del bottino . Secondo gli investigatori americani essa valeva approssimativamente 1 90 miliar
di di lire, di cui 400 milioni sarebbero finiti nelle casse
dell'alto comando alleato e un centinaio di milioni sa rebbero stati versati al
CVL .
Il resto si disperse in mille
rivoli tra altrettanti autori di piccoli furti, o in cambio di promesse di restituzione e ricompensa, senza che nulla di tutto questo possa essere in realtà verificato . In ultima analisi sembra che i due principali benefi ciari della distribuzione del tesoro siano stati da una parte il giovane Stato italiano e dall'altra il Partito co-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
munista. Ne dobbiamo la co nferma a Massimo Capra ra, che fu per vent'a�ni il segretario di Palmiro To gliatti e che spiegò , dopo l' espulsione dal partito nel
1 969, come i fondi incassati illegalmente dall'organiz
zazione comunista fossero largamente bastati all'acqui sto della sede nazionale del partito in via delle Botte ghe Oscure a Roma, della tipografia dell' Unità e di un hotel destinato ad alloggiare i quadri del partito di passaggio a Roma, oltre che a coprire le _ spese di
smobilitazione delle brigate garibaldine e a finanziare le campagne elettorali del 1 946 e del 1 94 8 .
XIV
La pista dei servizi segreti
Il dibattito sulle circostanze in cui Mussolini e Claretta Petacci trovarono la morte il 28 aprile 1 945 si riaccese nel 1 995 in seguito alla pubblicazione di un saggio di Renzo De Felice che fece molto rumore in Italia: Rosso e nero. 1 La polemica suscitata dal libro non riguardava tanto eventuali nuove rivelazioni sulla lotta tra fascisti e antifascisti negli ultimi due anni di guerra, quanto le allusioni fatte da De Felice agli ultimi momenti di vita del dittatore. 2 La sua uccisione, infatti, non sarebbe stata una questione tutta italiana e decisa esclusiva mente dai capi della Resistenza interna, un tirannicidio assunto collettivamente e che in qualche modo legitti mò la costruzione del nuovo ordinamento sulle mace rie del fascismo e sulla base malcerta della monarchia Savoia.
ROO S EVELT CONTRO CHURCH ILL : LA PICCOLA G UERRA DEI SERVIZI S E G RETI
L'armistizio dell' 8 settembre 1 943 stipulava che il ca po caduto dell'Italia fascista, allora detenuto a Campo Imperatore, un nido d'aquila situato nel cuore dell'Ap-
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pennino abruzzese, dovesse essere consegnato agli Al leati non appena fosse stato possibile disporre della sua persona. Roosevelt teneva molto a questa parte del l' accordo. Già pensava di applicare lo stesso trattamen to che intendeva riservare a Hitler anche ai criminali di guerra italiani, e in primo luogo al D uce in quanto pa dre del fascismo e quindi uno dei principali responsa bili della guerra. Tale progetto si sarebbe poi concretiz zato con il processo di Norimberga. Tuttavia non sem bra che allora il presidente americano avesse una visio ne già chiara e definitiva della pena che si sarebbe do vuta infliggere al numero due dell'Asse. Roosevelt de siderava innanzitutto che il dittatore, che aveva in pre cedenza ammirato e coperto di elogi, fosse infine èhiamato al banco degli imputati, a rispondere dei suoi atti. Non era forse previsto, come fu scritto nella clau sola 29 dell'armistizio firmato da Eisenhower e dal ma resciallo Badoglio, che il Duce sarebbe stato consegna to proprio a questo scopo alle Nazioni unite, cioè ai rappresentanti dei sedici Stati vittoriosi? Quando aveva saputo dalla radio dell'armistizio, e prevedendo che il governo di Badoglio avrebbe dovuto consegnarlo agli Alleati, Mussolini si era mostrato su bito assai preoccupato, dichiarando ai suoi guardiani che non aveva nessuna intenzione di cadere vivo nelle mani dei vincitori. Ciò che soprattutto temeva, in caso di cattura da parte degli americani, era di essere « mo strato » alle popolazioni come « una marionetta da cir co ». Secondo le testimonianze di numerosi tra i suoi carcerieri, nella notte tra l' 1 1 e il 1 2 settembre egli
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La pista dei servizi segreti
avrebbe addirittura tentato il suicidio tagliandosi le ve ne con una lama di rasoio . L'azione condotta il 1 2 set tembre dal maggiore Mors e dal capitano Otto Skorze ny pose termine a tali intenzioni .
Nel 1 94 5 il capo della
RSI
aveva ulteriormente in
fangato la propria immagine presso i dirigenti america ni ubbidendo alle ingiunzioni del Fiihrer e tollerando le atrocità commesse dalle Brigate nere e dalle altre mi lizie fasciste. Inoltre, i rapporti tra americani e sovietici erano in ùna fase di deterioramento. Che fare se Stalin si fosse rivelato più avido dì quanto aveva mostrato
nell'ottobre 1 944, a Mosca, di fronte a un Churchill
convinto dell'idea di una « spartizione » dell'Europa, o nel febbraio del 1 94 5 , a Jalta? Come si sarebbe po tuta arginare, in questo caso, un'insurrezione diretta dalle decine di migliaia di partigiani delle brigate Ga ribaldi? Bisognava forse pensare, come già faceva Churchill, di riarmare le milizie in camicia nera in no me della difesa della civiltà minacciata dal pericolo ros so ? E in una tale configurazione, quale sarebbe dovuto
essere il ruolo dell'ex' dittato re? A metà aprile il gover no di Washington esitava sul partito da prendere, ma ancora p rivilegiava la cattura. Churchill aveva altri motivi, rispetto ai suoi alleati di oltreatlantico, per voler p roteggere, almeno tempo raneamente, l' uomo con il quale aveva intrattenuto ot timi rapporti sino alla rottura, nel 1 93 5 , del « fronte di Stresa » e all'aggressione italiana in Etiopia. Le ripetute minacce contro l' Impero britannico nel Mediterraneo orientale, nell'Africa dell'Est e in Medio Oriente non
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Gli ultimi giorni di Mussolini
erano in realtà riuscite a incrinare del tutto la « vecchia amicizia » che legava il leone britannico al fondatore del fascismo . Ci era voluta la guerra perché Churchill , cui era stata affidata la sopravvivenza del Regno Unito
in una gue rra solitaria contro l'Asse, cambiasse radical mente il suo atteggiamento verso colui che sino a quel momento aveva assai apprezzato. Tra il giugno del 1 9 40 e il giugno del 1 94 1, la Gran Bretagna si e'ra i n effetti opposta d a sola alla coalizione hitleriana. L'Ita
lia, benché sconfitta sulla maggior parte dei fronti nei quali aveva sfidato il Regno Unito, aveva in ogni caso provocato danni agli eserciti imperiali , e più ancora al la sua flotta. D anni che Churchill si era ripromesso di far pagare assai cari .
Tutto ciò spiega in modo solo parziale il desiderio
di rivalsa che il primo ministro britannico nutriva ri
guardo al popolo italiano e alla sua « guida » , della qua le non mancava di stigmatizzare il « tradimento » . Churchill propendeva per l'eliminazione pura e sem plice di Mussolini , preferibilmente a opera delle briga te Garibaldi, perché sapeva che a G argnano il Duce, in previsione di un processo, aveva radunato una grande quantità di documenti confidenziali tra i quali vi erano quelli relativi alla sua relazione con lo statista inglese. Raccolti in cinque o sei grosse valigie, quei documenti seguirono Mussolini fi no a Milano, dove quelli giudi cati di maggiore utilità per la sicurezza del Duce furo no trasferiti in alcune borse di cui più avanti ricorde
remo il contenuto, o perlomeno quanto crediamo di
saperne.
La pista dei servizi segreti
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La soluzione americana presupponeva la presenza sul campo di un importante contingente di agenti se greti capaci di trovare e sottrarre alla « giustizia del po polo » il capo del fascismo, approfittando della compli cità di qualche notabile locale ostile alla sovversione comunista quanto al regime fascista. I servizi di infor mazione di oltreadantico non avevano certo atteso la primavera del 1 945 per lanciarsi in una caccia all'ex dittatore, e anzi lo cercavano già all'indomani della ri voluzione di palazzo del 25 luglio. Quando Mussolini si trovava sotto il controllo dell'esercito italiano rego lare, nelle isole di Ponza e poi della Maddalena, era sta to anche organizzato l'intervento di un commando. L'operazione era stata poi annullata all'ultimo mo mento perché Eisenhower l'aveva giudicata troppo pe ricolosa, e così i tedeschi lo avevano battuto sul tempo. Rientrato nell'area di influenza hitleriana e posto per ordine del Fiihrer alla testa del governo satellite di Salò, nel corso di quei venti mesi Mussolini non aveva più rischiato che un gruppo d'assalto alleato po tesse prelevarlo in una zona così controllata da abbon danti contingenti della Wehrmacht e della Waffen-ss. Il Duce stesso era stato posto sotto la sorveglianza per manente di un distaccamento di ss , che lo seguiva an che nelle serate trascorse a Gardone presso l'amante. In quel periodo i servizi segreti americani avevano invece avuto modo di organizzarsi nelle zone già liberate della penisola, in previsione del momento in cui si sarebbe svolta, a nord della linea gotica, la partita decisiva. All'inizio del secondo semestre del 1 944 si instaurò
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un vero e proprio va a vieni tra rappresentanti delle brigate Garibaldi e delle missioni oss nell'Italia del Nord: agenti americani infìltrati nelle unità partigiane, militanti antifascisti arruolati più o meno ufficialmen te nei ranghi dell'Offìce, e così via. Questa collabora zione era orchestrata sul terreno dal maggiore Robert J . Koch, dal comunista Eugenio Reale e dal socialista Pietro Nenni, mentre da Berna se ne occupava il futu
ro direttore generale della CIA, Allen D ulles . Nella maggior parte dei casi entrambe le parti trassero van taggio dalla collaborazione, come testimonia il pranzo di ringraziamento offerto da Luigi Longo e da vari pez zi grossi del Partito comunista a Milano il 5 maggio
1 945, una settimana dopo le esecuzioni di Mezzegra
e Dongo, nel quartier generale delle brigate Garibaldi.
A metà aprile circa venticinque squadre di agenti spe
ciali si dichiaravano pronte a entrare in azione avendo per principale missione la cattura del fondatore del fasci smo vìvo, e la sua consegna ai rappresentanti delle Na zioni unite affinché fosse giudicato secondo la legge. Ta le missione godeva dell'approvazione del presidente, trasmessa dal generale McNerney al collega Mark Clark. Rispetto a questo dispiegamento di professionisti della guerra segreta, gli agenti dei servizi d'informazio ne di Sua Maestà, cioè l'Intelligence Service o lo Spe cial Air Service (sAs) , si mostravano assai più discreti. Ma la scarsità o l'assenza di mezzi degli inglesi rispetto alla potenza dell'esercito americano era dovuta a una manifestazione di finta indifferenza, come quella di Churchill, rispetto alla divisione di compiti e missioni
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tra i due alleati occidentali o, invece, proveniva dalla certezza che il modo migliore per sbarazzarsi del Duce, come appunto desiderava il primo ministro britanni co, fosse di lasciar svolgere il « lavoro sporco al Partito comunista? »
CIÒ
' CHE RIVELANO G LI ARCH IVI DELL OSS
La precedente immagine delle reti d'inform2zione e delle azioni condotte in Europa, e quindi in Italia, da gli uomini di Allen Dulles e del maggiore Koch è stata del tutto rivoluzionata dalla recente declassifìcazione e dalla successiva pubblicazione, da parte del governo americano, di circa 3 5 .000 documenti e schede segna letiche redatti nel corso della seconda guerra mondiale da quasi 24.000 tra agenti e impiegati dell'Offìce of Strategie Services. Quelle operazioni erano quasi sempre destinate a preparare il terreno nel caso di una caduta del nazismo e del suo ausiliare fascista, lasciando agli Alleati ·il con fronto con il potente movimento insurrezionale dell'I talia del Nord. Tali operazioni non furono tutte coro nate da successo. Certo, la collaborazione con i parti giani comunisti che godevano di una posizione quasi egemonica in materia militare aveva funzionato piut tosto bene. Ma avrebbe continuato a funzionare anche nel clima di euforia rivoluzionari a che stava per diffon dersi in una parte del popolo della sinistra e dell' orga nizzazione marxista? I dubbi riguardo alle intenzioni di
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Gli ultimi giorni di Mussolini
Stalin erano fortissimi. Tra le operazioni fallite il recu pero di Mussolini non era stata la meno importante, e così per chiarire ciò che era accaduto tra il 26 e il 2 8
ap-rile fu inviato sul posto uno dei migliori agenti del l' oss con la missione · di stendere un rapporto detta gliato sulle circostanze del fallimento. L'agente cui fu affidata la missione, Val eri an Lada Mocarski, non era italoamericano e non conosceva be ne il paese, né la lingua. Era figlio di un ufficiale zarista emigrato negli Stati Uniti all'indomani della rivoluzio ne bolscevica e aveva dalla sua, oltre a una buona espe rienza militare come maggiore dell'esercito americano, quella acquisita nei ranghi dello stesso oss . Reclutato
da Donovan nel 1 94 1, aveva infatti svolto missioni in Medio Oriente, in Egitto, in Francia e in Svizzera, do
ve aveva partecipato alla caccia ai diari di Ciano. Allen Dulles in persona incaricò Lada-Mocarski, agente oss 44 1, di recarsi nella zona del Lario, di en
trare in contatto con i capi delle brigate garibaldine lo cali e di redigere un rapporto sulle circostanze dell' uc cisione dell'ex dittatore. L'operazione non era priva di rischi. Depositato in qualche modo in una zona infe stata da brigatisti in camicia nera, l'agente avrebbe do
vuto dare prova di notevoli capacità di persuasione per convincere i partigiani dal fazzoletto rosso che non era un agente nemico . Poi avrebbe dovuto riuscire a farsi accettare dai dirigenti di un' unità garibaldina sino a portarli a rivelare ciò che avevano vissuto personal mente o sentito dire : insomma una bella prova di abi lità per il maggiore Lada-Mocarski.
La pista dei servizi segreti
313
Le due relazioni segrete che l'agente inviò ad Allen Dulles sono del maggio 1 945 e si basano su due fonti di diversa natura. Il primo rapporto fu scritto a partire dai racconti di numerosi testimoni oculari appartenenti alla 52a briga ta. Lada-Mocarski, infatti, nel corso della missione, aveva stretto presto rapporti cordiali con i membri di questa unità i cui due capi, Bellini delle Stelle e Urba no Lazzaro, come sappiamo, non erano comunisti. Ci si può dunque ragionevolmente interrogare sl!lla veri dicità di quanto fu detto all'agente oss 44 1, sapendo tuttavia che l'americano effettuò tutti i confronti e i controlli che si impongono nei casi in cui la fonte uti lizzata sia una testimonianza orale. La stessa osservazione può essere fatta a proposito del secondo memorandum, che comunque ha il gran de merito di integrare il racconto con la relazione scrit ta consegnata da Neri-Canali all'agente oss 44 1 . Que st'ultimo testo non era firmato, ma Lada-Mocarski ne identificò rapidamente l'autore dallo stile e dagli indizi presenti riguardo alla sua personalità e alla natura assai particolare del suo coinvolgimento nei ranghi del Par tito comunista. Il fatto che si trattasse di Neri si desu me ancora più facilmente quando l'americano parla del suo informatore come di un capo partigiano scom parso « senza lasciare tracce ». Per queste ragioni, e con trariamente a quanto afferma Mario Cereghino, che ha riesumato gli archivi, i documenti dell'oss non metto no il punto finale alle controversie sulla morte di Mus solini.
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Gli ultimi giorni di Mussolini
Vi sono infatti un certo numero di affermazioni che risultano da un lato perfettamente credibili, ma che tuttavia contraddicono altre testimonianze giudicate attendibili. La divergenza principale riguarda la p re senza o meno di Neri sul luogo dell'esecuzione. Alcuni racconti la negano, mentre l'autore del memorandum attribuisce a Canali un ruolo importante negli ultimi secondi di vita di Mussolini . Tuttavia, questo ruolo non è a ben vedere quello di un esecutore docile delle consegne di Valeria, quanto quello di un oppositore delle decisioni del Comitato insurrezionale milanese, che si reca sul posto per controllare la regolarità di un'esecuzione che disapprova. La sua unica azione sa rebbe dunque stata quella di dare il colpo di grazia a un Mussolini agonizzante. Ecco come l' agente oss 44 1 riscrive le frasi di Neri :
Mussolini non era ancora morto: un occhio era aperto e guardava in alto. In quel preciso momento dal lato più bas so della strada, arrivò un ufficiale dell'unità partigiana loca le [il capitano Neri] . Voleva capire cosa fossero i colpi di arma da fuoco che aveva udito da sotto. Il capo partigiano [Lampredi] che si trovava tra i fucilatori lo riconobbe e gli fece il gesto di avvicinarsi. Osservando che Mussolini era ancora vivo, il nuovo arrivato lo finì con due colpi del suo revolver.3 Non sembra dunque che il compagno di Gianna sia stato ucciso per impedirgli di rivelare il ruolo svolto dai compagni di partito nella sparizione del
«
tesoro
La pista dei servizi segreti
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di Dongo ». Né fu ucciso perché i responsabili del PCI di Como credevano che avesse parlato sotto tortura o tradito i compagni per salvarsi la vita. Le ragioni di quella morte furono essenzialmente politiche, come già scriveva Urbano Lazzaro nel 1 993: Il Capitano Neri non aveva tradito i compagni di lotta quando fu catturato dai fascisti nel gennaio 1 945; aveva in vece tradito i compagni comunisti quando aveva accettato di collaborare alla realizzazione del piano Cadorna-Sarda gna-Cademartori per sottrarre Mussolini alla giustizia som maria dei compagni e consegnarlo alle autorità alleate. Sa peva troppe cose e non ci si poteva più fidare di lui: doveva essere eliminato subito.4 '
E vero che Luigi Canali non era più in sintonia con i compagni, in particolare con coloro che, numerosi nel la regione del Lario , sposavano la tendenza più intran sigente incarnata tra gli altri da Longo. La barbarie di cui alcuni tra essi diedero prova nell'eliminazione dei presunti « traditori » riassumeva la regola cui si attene va tra gli altri Lince (Leopoldo Cassinelli) , un partigia no di Bellano che dalla Resistenza armata passò al ban ditismo in grande stile: « Un colpo alla testa, uno alla pancia, così il cadavere beve e affonda ». Questi metodi avevano finito per scoraggiare il capo di stato maggiore della 52a brigata. Sembra che subito dopo le esecuzioni di MussoJ ini e di Clara Petacci avesse deciso di uscire dall'organizzazione comunista. In ogni caso questo era quanto aveva annunciato alla madre la sera del 6 mag-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
.
gio, alla vigilia della sparizione, spiegandole nel con
tempo di aver finito il D uce con due colpi alla testa « per compassione ». Si comprende meglio, in tale con testo, che alla domanda su come fosse morto il dittato re la sua unica risposta fosse stata « Male )), formula certo ambigua ma che sembra doversi applicare più al la goffaggine degli esecutori che alla viltà del condan nato. L'unica « debolezza )) manifestata da quest' ultimo sarebbe stata quella di mormorare un « Fate presto, fate presto )) ,
D OVE SONO FINITI GLI ARCHIVI DI M USSOLINI ?
P rima di lasciare G argnano per Milano , Mussolini aveva ordinato che dalla massa dei documenti di ogni genere che costituivano originariamente il suo archivio segreto , costituito da circa mezzo milione di fascicoli classificati come
Segreteria particolare del Duce,
fossero
selezionati e prelevati tutti quelli che avrebbero potuto contribuire alla sua difesa nel caso fosse stato catturato dagli Alleati o dai dirigenti del CLNAI . Con essi inten deva giustificare le p roprie decisioni e condotte in qua lità di capo della R�pubblica sociale italiana. Un p rimo stralcio di documenti era stato sottratto all'archivio in seguito alla rivoluzione di palazzo del 25 luglio 1 943
sotto il controllo del generale Castellano, il firmatario italiano dell'armistizio di Cassibile. In quell'occasione una decina di casse contenenti centinaia di fascicoli personali erano state trasportate alla segreteria del ma-
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resciallo Badoglio prima di volatilizzarsi . In seguito, nel febbraio del 1 944, quei documenti erano stati mi
racolosamente recuperati alla stazione di Milano , forse mentre erano sul punto di partire per la Svizzera. Riuniti a Gardone con altri fondi recuperati a Roma prima della liberazione della città da parte degli Alleati , i documenti subirono nuove sottrazioni e riorganizza zioni . Infatti nel febbraio 1 945 Mussolini aveva inca ricato il giornalista Nino D 'Aroma, direttore dell' Isti tuto Luce, di fotocopiare le carte più importanti, qua lificate come « riservatissime » : un centinaio circa di documenti , riprodotti in tre esemplari, che furono uniti ad altri materiali utili al dittatore in previsione di un sempre più probabile trasloco . L a decisione di trasportare a Milano questa massa ancora considerevole di documenti ultraconfidenziali
fu presa il 23 aprile, quando Mussolini inviò a Gargna no il segretario Gatti con l 'incarico di realizzare un 'ul tima cernita e di organizzare il trasferimento delle car te. Prima di chiudere definitivamente il deposito di
Gardo ne, nel quale erano rimasti, nonostante le distru zioni subite, 1 5 0. 000 fascicoli, si procedette all'immer
sione nel lago di Garda di numerose casse riempite di archivi di interesse relativamente secondario.
A Milano, tutto il possibile fu stipato in tre borse di pelle e in due piccole casse di zinco. Una delle borse, quella che conteneva i fascicoli ai suoi occhi più im portan ti , Mussolini la conservò sino a Dongo, senza mai allontanarsene né abbandonarla con lo sguardo. Al suo ufficiale d'ordinanza, Vito Casalinuovo, affidò
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Gli ultimi giorni di Mussolini
invece le altre due borse, salvo po i recuperarne una a
Musso per affidarla a Claretta al momento di salire sul camion tedesco. Il resto era stato invece caricato sul camioncino Balilla che, come abbiamo visto , rima
se in panne a Garbagnate, dunque prima di arrivare a Como . La cassa piena di documenti che vi era conte nuta fu recuperata poco dopo dai partigiani. Consegnando alla sua compagna una delle preziose borse, Mussolini non immaginava certo che Clara, po che ore dopo, avrebbe subito la sua stessa sorte. Egli era anzi persuaso che la giovane donna avrebbe potuto raggiungere senza difficoltà la frontiera svizzera ed es sere accolta nel territorio della Confederazione grazie ai documenti ottenuti dal consolato spagnolo di M ila no . In questo modo avrebbe potuto occuparsi perso nalmente della consegna dei documenti all'ambascia tore del Regno Unito a Berna. Nel momento in cui fu arrestato da Bill, dunque, il Duce non cercò di fare intervenire la scorta perché era certo di essere liberato nelle ore seguenti grazie all' intervento delle autorità svizzere.
Condotto al municipio di Dongo Mussolini, come gli altri prigionieri, dovette consegnare le sue carte a Bill. Non si sa se fu a quest' ultimo , o a Pedro (su que1 sto punto le fonti divergono) , che confessò di poter mostrare solo i documenti tedeschi che lo identificava no come sottufficiale della Luftwaffe: « Avevo una bor sa [
. . .
] che è lì dietro a voi. Fate attenzione, contiene
documenti che hanno una grandissima importanza
storica » . B ill aprì la borsa. In essa, oltre a una parte
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importante del « tesoro di Dongo » trovò quattro fasci coli sui quali era scritto in rosso « segreto ». Gli uomini della 52a brigata avevano così messo le mani sugli ar: chivi ultraconfidenziali del capo del fascismo. Impressionato dalla scoperta, Bill ordinò che si redi gesse un breve inventario dei documenti trovati nella borsa di Mussolini, divisi in quattro fascicoli. Il primo riguardava varie faccende (documenti sulla situazione politica di Trieste, carte relative a un possibile passag gio in Svizzera, sciopero del 1 944, dossier sulle respon sabilità di alcuni gerarchi nella cattiva gestione degli af fari pubblici, un dossier su Pietro Nenni ecc.) ; il secon do conteneva documenti riguardanti il processo di Ve rona e l'uccisione dei quattro condannati a morte, tra i quali figurava il genero del Duce, il conte Ciano; nel terzo era contenuta la corrispondenza con Hitler, e nel quarto alcuni rapporti di polizia sulla vita privata di Un1berto di Savoia, erede al trono. Poco dopo Bill depositò sul tavolo di una sala del municipio un'altra borsa: quella che Claretta aveva ri cevuto dalle mani dell'amante e che Zita Ritossa aveva dovuto consegnare al comandante in seconda della 52a brigata Garibaldi . Per quest'ultimo, la « signora in tur bante e pelliccia » che aveva preso posto nella vettura del sedicente console spagnolo non poteva essere la proprietaria di quella grossa borsa di cuoio. In breve tempo la menzogna fu scoperta, anche perché Pedro, a sua volta, dopo il lungo interrogatorio alla Petacci, aveva verificato che la donna era l'amante del Duce. Come ha scritto Urbano Lazzaro: « Era invece ovvio
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Gli ultimi giorni di Mussolini
che se la borsa non apparteneva a Claretta, era di qual cuno che gliel'aveva affidata. Questo qualcuno poteva soltanto essere Mussolini, il quale, prima di trasferirsi dall'autoblinda al camion dei tedeschi, aveva conse gnato la preziosissima borsa alla persona più fedele a lui, una persona che certamente non l'avrebbe mai ab bandonato né tradito ».5 Conosciamo i l seguito della storia. Inventariati da vanti a testimoni e posti sotto chiave alla Cassa di ri sparmio delle provincie lombarde di Domaso, i docu menti finirono per essere consegnati, dopo Innumere voli peregrinazioni, all'Archivio centrale dello S tato, a Roma.
LE STRANE VACANZE DI WINSTON CHURCHILL S i trattò dunque di un semplice ritorno al punto di partenza? Niente affatto: nel cot:so delle numerose ma nipolazioni cui furono soggette, le borse di Mussolini furono private di parte del loro contenuto. Anche altri documenti, non sempre direttamente collegati alla fu ga del D uce e dei gerarchi, furono definitivamente smarriti. Ciò accadde, per esempio , alla cassa di zinco abbandonata la sera del 25 aprile nella prefettura di Milano, o alla cassa caricata sul camioncino Balilla, o ai documenti personali affidati a una famiglia amica da Rachele Mussolini dopo il tentativo di fuga in Svizze ra. E lo stesso accadde a due dei quattro fascicoli in-
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ventariati a Dongo , tra i quali quello relativo alla vita privata del principe Umberto . Queste sparizioni dimostravano che gli archivi se greti di M ussolini dovevano essere passati di mano in mano per numerosi giorni, se non per mesi. Tutti coloro che erano stati ammessi a condividere la scoper ta di Bill avevano visto o creduto di vedere il tale o ta laltro dettaglio che permettesse di sostenere ciò che presto divenne una diffusa diceria, poi trasformatasi in mito, cioè che tra quei documenti si trovass� la cor rispondenza segreta tra il primo ministro britannico e il dittato re fascista. Questa corrispondenza, che per lungo tempo fu di tenore amichevole, non si era inter rotta con la guerra e conteneva degli scritti che, se p ub blicati , avrebbero potuto nuocere gravemente all'im magine dell'uomo che amava i sigari . La dichiarazione firmata su richiesta di Bill nell'a prile del 1 947 da Lorenzo Bianchi, un ex garibaldino della 52a brigata, illustra assai bene co me possano esse re andate le cose:
Il giorno 28 aprile 1 945, verso le 1 5 ,50 del pomeriggio, il signor Lazzaro Urbano (Bill) depose sopra un tavolo presso il quale io stavo seduto, nella sala degli specchi del munici pio di Dongo, due borse dicendomi testualmente di: « Non consegnarle a nessuno all'infuori di me » . Si allontanò dalla sala essendo stato chiamato. Nel frattempo io apersi una delle borse e trassi una pa peletta rosa legata con un nastro. Su detta papeletra erano scritte varie parole in lingua italiana, forse sei o sette, tra le
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Gli ultimi giorni di Mussolini
quali risaltava il nome Churchill. Le parole tra le quali era il nome Churchill non le ricordo. Potevano essere: carteggi, documenti, annotazioni, promemorie, giudizi espressi, frasi pronunciate, discorsi letti o scritti dell'ex premier britanni co. Tutto questo io ho fatto presente anche al giornalista Rem Picci. È falso quanto è stato pubblicato da « Milano Sera » che io ho dichiarato che sulla predetta papeletta stesse scritto: « Carteggio o documenti Churchill, ovvero corrispondenza con Churchill » . 6 Sulla dichiarazione è scritto : « Letto e firmato senza minaccia alcuna » , ed essa fu presumibilmente suggeri ta al suo autore da Bill-Lazzaro. La sua esistenza dimo stra che nel momento in cui fu resa pubblica era in corso un acceso dibattito sui rapporti epistolari che il vecchio leone britannico avrebbe intrattenuto con il Duce. Ora Churchill, che aveva dovuto lasciare il po tere nel luglio del l 94 5 , dalla fine della guerra non ave va fatto nulla per chiarire i dubbi sulla questione e su ciò che polarizzava l'attenzione di numerosi italiani:
l'ex primo ministro britannico aveva forse ordinato l'e secuzione di Mussolini dopo aver tentato invano di ot
tenere che gli agenti dell' Intelligence Service si impa dronissero dei documenti, per lui molto compromet
tenti, contenuti nella famosa borsa sequestrata dai capi della 5 2a brigata Garibaldi? D'altronde, non vi era nul la che dimostrasse anche solo l' esistenza di quei docu menti.
Cosa era venuto a fare Churchill a Moltrasio, una
La pista dei servizi segreti
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località situata sulla riva occidentale del lago di Como, dove era sbarcato il l 0 settembre del 1 945, dopo solo
due mesi dalla sconfitta elettorale? Lo statista inglese
era accompagnato dalla figlia Sarah, dal cameriere per sonale e dal sergente Thompson, di Scotland Yard. Al l'invito del generale Eisenhower, che pare gli avesse proposto un soggiorno sulla riviera francese, aveva dunque preferito quello del compatriota maresciallo Alexander, e l'ospitalità dei coniugi Donegani, pro prietari della villa Apraxin. Come sempre quando viag giava all'estero, Churchill si servì anche in quell' occa sione dello pseudonimo di
«
colonnello Warden », ma
la sua figura, il volto e l'eterno sigaro erano ormai troppo conosciuti perché potesse sperare di restare anonimo per più di qualche ora. Anche perché, per fa re le cose con tutti i crismi e per garantirgli la più as soluta sicurezza, si erano fatti arrivare da Vienna , occu pata dagli Alleati, una ventina di soldati del 4° reggi
mento Ussari della regina, che lo seguivano in ogni uscita. La sua visita non fu infatti oziosa. Ogni giorno, o quasi, si recava in riva al lago o in altri luoghi pitto reschi, per dipingere paesaggi con una mano non del tutto dilettantesca. Non ci fu bisogno d'altro perché le voci prendessero lo slancio, alimentate da qualche articolo della stampa meno interessata alla verosimi glianza, la stessa che sosteneva che l'ex primo ministro si fosse recato al cimitero di M usocco a Milano per raccogliersi sulla tomba del D uce. E così l'opinione
pubblica mise in relazione le sedute di pittura del gran
d' uomo con l'attività svolta sulle s ue orme dai servizi
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Gli ultimi giorni di Mussolini
segreti britannici, soprattutto dopo che Churchill, nel corso delle sue vacanze italiane a Moltrasio e in altre località dei laghi di Como e di Garda, commise l'im prudenza di fare delle mosse decisamente « sospette » . Egli infatti visitò i l direttore della Cassa di risparmio di Domaso, dove Bill e Pedro avevano depositato le borse di Mussolini. Poi i ncontrò il colonnello Luigi Villani, comandante della caserma della Guardia di fi
nanza di Germasino, dove il Duce era stato imprigio
nato per qualche ora e si era intrattenuto con i suoi guardiani. A Gardone contattò il falegname che su or dine del Duce aveva fabbricato le casse destinate a es sere immerse nel lago con il loro contenuto . Nulla di davvero convincente o dimostrato , e tuttavia su questi indizi prese fo rma la leggenda di un Churchill impe gnato nella caccia ai documenti sottratti, che sembra vano la prova di una sua complicità con il dittatore fa scista. Le dicerie divennero delle tali enormità da costrin gere l'ambasciata del Regno Unito a Roma e il presi dente del Consiglio italiano a smentire le panzane che ormai circolavano , ·jn particolare quando si diffuse la· notizia di un incontro a villa Apraxin tra l'ex primo ministro britannico e il principe Umberto di Savoia.
Ma ormai aveva preso slancio una campagna che sa rebbe durata anni e si sarebbe trasformata in una vera e propria caccia agli archivi . Ci si chiedeva perché Churchill fosse venuto a trascorrere le vacanze proprio dove M ussolini aveva vissuto gli ultimi momenti di vi ta. Era davvero per dedicarsi alla pittura? O si trattava
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La p ista dei servizi segreti
di una scusa e il mo tivo reale del viaggio si collegava alla tragica fine del capo della RSI ? I primi a porsi l a questione furono i giornali svizzeri .
Nel numero del 28 ottobre 1 945 il settimanale gine vrino
Voix ouvriére
pubblicò un'illustrazione a tutta
pagina che rappresentava Churchill, seduto davanti a un camino, impegnato a gettare carte nel fuoco. L'ar ticolo che accompagnava la caricatura non usava gi ri di parole : il vecchio leone era venuto a Moltrasio per re cuperare personalmente dei documenti compromet tenti che aveva poi dato alle fiamme p rima che fossero nuovamente sottratti . La storia delle borse di Mussolini ri uscì così a dar vita a un mercato infinito su cui gravi tava un numero sempre maggiore di cacciatori di archivi, falsari, mito mani e giornalisti in cerca di scoop. I rari documenti autentici che non erano stati rubati in qualche deposi to p ubblico, o ri trovati in un granaio di campagna, si mescolavano alla massa di carte apocrife nelle mani di trafficanti capaci di trarre da quel commercio conside revoli p rofi tti. Alla fine degli anni Ottanta una qualsia si lettera autografa di Mussolini valeva intorno alle 500.000 lire, e se era corredata di risposta la trattativa partiva dal milione. Ci si può immaginare il prezzo di un intero fascicolo di un centinaio di pagine! Ma ciò che dava valore di m'ercato ai pezzi che si riteneva pro venissero dalle borse i nventari ate a Dongo il 27 aprile non era semplicemente la scrittura e la firma del ditta tore, bensì il contenuto dei documenti, cioè l' interesse
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Gli ultimi giorni di Mussolini
dell'acquirente per il possesso di una parte del puzzle che teneva l'Italia con il fiato sospeso .
LA
« P I STA I N G LESE >>
Strettamente collegata al caso del « tesoro di D ongo » , visto che documenti e valori avevano seguito l o stesso cammino, la ricerca di un' ipotetica corrispondenza se greta tra Churchill e Mussolini è durata oltre mezzo se colo, e non è certo finita nel momento in cui queste righe vengono scritte. Tra gli storici, i giornalisti o i semplici curiosi che si sono interessati alla questione degli archivi di Mussolini possiamo distinguere tre po sizioni: coloro che non credono all'esistenza di un « dossier Churchill » compromettente per l'ex primo ministro britannico; coloro i quali ritengono che la fa mosa corrispondenza, benché possa essere esistita, sia andata definitivamente perduta; e infine coloro che non pensano si tratti di un mito, perché lo stesso Churchill ha fornito troppe prove di colpevolezza per meritarsi un' assoluzione postuma. Costoro sono dunque convinti che le carte in questione siano gelosa mente custodite dal 1 945 in un nascondiglio segreto, e che la « verità » finirà prima o poi p er venire alla luce . L' esistenza della corrispondenza M ussolini-Chur chill è stata a lungo negata dalla maggior parte degli osservatori, sia italiani sia britannici. E gli esperti, qua si sempre di ambito accademico, chiamati a pronun ciarsi sull' autenticità di documenti sottoposti al loro
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esame hanno emesso quasi sempre un verdetto negati vo. Così si è espresso, per esempio, il professor Mario Toscano, consulente storico del ministero italiano de gli Mfari esteri? Altrettanto ha fatto Renzo De Felice, che dopo essere stato pregato di- autenticare i mano scritti dei supposti diari del D uce, venduti a peso d'oro a un grande editore italiano, ha saputo svelare le falsi ficazioni nascoste in un prodotto apparentemente im peccabile. Ma torniamo alla questione principale, la morte di Mussolini e di Claretta Petacci, per chiederci se in essa vi sono aspetti imputabili ai servizi segreti di S ua Mae stà, mobilitati da Churchill nell'intento di far sparire dei documenti che avrebbero potuto nuocere alla sua immagine di implacabile avversario della coalizione hi tleriana. E ancora, è possibile che l'esistenza di un car teggio segreto tra M ussolini e il primo ministro britan nico abbia giustificato un tale atto ? Il dibattito, come abbiamo visto, non è iniziato da poco, ma è stato pro fondamente rinnovato dalla pubblicazione del libro di De Felice, Rosso e nero, nel 1 9 9 5 . Per l'autore l'esecu zione fu il risultato di un'azione clandestina condotta dai servizi segreti britannici in collegamento con la Re sistenza locale. Nel corso di quelle ultime settimane di guerra gli uomini dell'Intelligence Service si sarebbero lanciati in un vero e proprio inseguimento inteso a far prevalere la posizione di Churchill su quella di Roose velt riguardo alla sorte cui destinare M ussolini. Batten do in velocità i colleghi dell' oss, che in caso di cattura avevano preparato l'evacuazione aerea del Duce, gli
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Gli ultimi giorni di Mussolini
agenti dell'Is sarebbero invece riusciti a infiltrarsi nel gruppo partigiano cui era stato affidato il compito di liquidare il capo della Repubblica sociale. Molto criticato dalla sinistra, come accadeva da ol tre vent'anni, l'autore di Rosso e nero ricevette in occa sione della pubblicazione del libro nel 1 9 9 5 l'inatteso sostegno di un articolo pubblicato sull' Unità e firmato da Giorgio Amendola, uno dei più prestigiosi dirigenti dell'ex PCI . Nello scritto si citavano documenti conser vati nell'archivio di via delle Botteghe Oscure che con traddicevano le diverse versioni degli eventi fornite a partire dal 1 945 da Valerio-Audisio. Ne emergeva un'immagine del Duce nel momento della morte me no negativa di quella tratteggiata da quest'ultimo . D i ciò De Felice prese atto, benché l a faccenda gli sem brasse del tutto secondaria rispetto al problema di far luce sul luogo e sulle circostanze precise dell' esecuzio ne. Ciò che invece gli sembrava fondamentale era sco prire il movente che aveva spinto l'istigatore, o gli isti gatori, della missione britannica nell'Italia del Nord nella primavera del 1 94 5 . E su questo punto De Felice aveva delle teorie molto ardite, ·p er le quali si riservava di portare delle prove nell'ultimo volume della sua b io grafia di Mussolini. Tali prove, sempre che siano esistite, non furono pe rò mai esibite da De Felice, che morì prima di aver completato la sua opera maggiore. Ci limiteremo quindi a esporre gli indizi su cui si fondava il suo ra gionamento, cioè una serie di testimonianze riguardo al contenuto della borsa che Mussolini aveva con sé
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al momento del' arresto. Secondo De Felice, oltre ai documenti sull'omosess ualità del principe ereditario, Umberto, il dittatore aveva avuto cura di portare con sé una parte della corrispondenza con Churchill, in particolare due lettere del 1 93 9 molto compromettenti per l'uomo di Stato britannico. Nella prima, Churchill
incitava il D uce a entrare in guerra al fianco di Hitler, con l'idea che avrebbe poi potuto contare sulla sua mo
derazione al momento di discutere eventuali trattati di pace. Nella seconda avrebbe invece proposto a M usso lini di allearsi al Regno Unito in una crociata contro l'uRSS da lanciare dopo la conclusione del conflitto m corso. La morte di De Felice ha impedito agli italiani di sapere se le rivelazioni che intendeva fare il più celebre dei loro storici erano fondate su basi affidabili. Le ri cerche effettuate da alcuni suoi allievi non hanno per messo di svelare un mistero che resta dunque tale, sem pre che lo specialista del fascismo non si fosse lasciato abbagliare da illusorie promesse di accesso ad archivi ancora gelosamente custoditi. In ogni caso, ritenere che il vecchio leone britannico avesse buoni motivi per non desiderare che fossero rese p ubbliche le sue re lazioni passate con Mussolini, e l'ammirazione che qu.est'ultimo gli tributava, è una cosa, peraltro già co nosciuta. Altra cosa è affermare che per questo motivo
avesse dato incarico agli agenti dell'Intelligence Service di compiere i passi necessari a evitare il processo p ub blico desiderato dagli americani . Vorrei aggiungere che mi sembra poco verosimile
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che un servitore appassionato del suo paese e dell'im pero, quale fu Churchill, abbia potuto approvare l' en trata in guerra dell'Italia al fianco dell'alleato nazista. E ciò per l'unico vantaggio di poter contare nei negoziati di pace, cioè dopo un'eventuale sconfitta, sulla mode razione di un uomo che aveva realizzato una politica estera basata sulla revisione dei trattati e sulla redistri buzione dei possedimenti coloniali.
E
TUTTAVIA . . .
Saremmo dunque tentati di assolvere Sir Winston Churchill seguendo l'opinione dello storico Frederick William Deakin, amico personale dello statista: La sua presenza sul lago di Como fu un puro caso della sto ria. Nei suoi documenti privati non vi è alcuna traccia né di accenni né di allusioni al fatto che durante quel soggiorno egli abbia manifestato il benché minimo interesse alla sorte subita da Mussolini cinque mesi prima in quella zona, né tantomeno ebbe sentore della frenetica caccia, in corso in tutta l'Italia, di documenti di qualsiasi tipo relativi a Mus solini e al regime fascista. 8
Resta che il fatto che alcune testimonianze meritereb bero a mio avviso qualcosa di più di una semplice al zata di spalle. Cerchiamo di essere chiari: non si tratta, come per esempio nella versione proposta da Pisanò, di privilegiare interpretazioni paradossali. Le mie riser-
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ve si appuntano solo sul fatto che a tali interpretazioni è imputato di non basarsi su alcuna « prova•», senza tè nere in conto che non si basano su alcuna prova nep pure molte delle altre ipotesi. Una di queste testimo
nianze presenta tali accenti di sincerità da meritare di essere messa in rilievo, anche perché il contenuto del racconto non è affatto inverosimile . Il fatto in questio ne è l'azione di un reparto d'assalto formato da tre uo
mini, due partigiani sino ad allora ignoti agli altri at
tori e un agente dei servizi d'informazione bri tannici . Nel 1 994, cioè un anno prima della pubblicazione di Rosso e nero, Bruno Giovanni Lonati (Giacomo nella Resistenza) decise di dare alle stampe una breve opera nella quale esponeva la propria versione della morte del D uce e della sua compagna. Nell'aprile 1 945 Lo
nati, che aveva ventiquattro anni e si era formato nei
ranghi del Fronte della gioventù, l'organizzazione ar mata dei giovani antifascisti, svolgeva mansioni di commissario politico nella l O l a brigata Garibaldi. Per sfuggire agli uomini delle Brigate nere aveva dovu to lasciare la zona di Legnano nell'autunno del 1 944 e rifugiarsi a Milano. 11 27 aprile il giovane partigiano fu
contattato da un certo fohn del quale scoprirà in segui to l'appartenenza ai servizi segreti britannici con il gra
do di capitano . John era un vero professionista. Aveva ricevuto dal CLNAI l' incarico di recarsi a Giulino di Mezzegra e di prendere M ussolini, prigioniero in quel momento nella casa dei De Maria. John chiese a Lona ti di accompagnarlo « fuori Milano » con altri due ga ribaldini,
Bruno e Gino, per un'operazione segreta del-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
la quale non rivelò lo scopo finale, né che avrebbe coinvolto anche l'amante di M�ssolini; e c'è da chie dersi se lui stesso lo conoscesse o se gli fu rivelato lungo il cammino. Lonati apprenderà quest'ultimo « detta glio » , la condanna, solo varcando la soglia della stanza in cui erano reclusi i due prigionieri, sempre a casa dei De Maria. Nella serata del 27 i quattro uomini lasciarono Mi lano per Como, recandosi poi in un paese vicino a Brunate dove passarono la notte. Il 28 mattina presero la strada per Bonzanigo dopo che un militante locale del PCI ebbe loro indicato il luogo in cui Mussolini era stato condotto da Pedro, Neri e colleghi. Per arri varci dovettero neutralizzare un piccolo gruppo di par tigiani che li avevano presi per dei fascisti, e quindi im mobilizzare i guardiani della coppia. Ecco come Gia como-Lonati rievoca il primo incontro con il Duce e la sua amante: Mi fermai stupito. Mussolini non era solo, c'era anche una donna. Era la Petacci, lo capii subito. Del suo rapporto con Mussolini seppi solo come la mag gioranza degli italiani dopo 1'8 settembre 1 943 . Della sua nefasta influenza sul capo del fascismo molto s'era detto, e poi era l'amante dell'uomo più odiato d'Italia: questo era sufficiente per metterla sul suo stesso piano . Ora l'avevo davanti. [ . . ] Mussolini l'avevo visto una volta molto da vicino, alcuni anni prima, quando ero un giovane avanguardista a Milano. Ricordavo il suo aspetto marziale, posatore, quasi inso.
La pista dei servizi segreti
333
lente, burbanzoso, il suo mento che quasi parlava, il suo vi so abbronzato, i suoi occhi penetranti . Forse, se l'avessi visto per strada in borghese non l'avrei riconosci uto, anche se in alcune fotografie apparse sui gior nali dell'epoca già lo si vedeva precocemente invecchiato, un cascame d' uomo, con la faccia molto scavata e con una sfumatura sgradevole. Era un uomo finito, almeno fi sicamente. 9 S egue una lunga relazione sulle frasi scambiate tra John, Lonati e i due prigionieri. L'agente britannico dichiara di essere lì per recuperare le carte in possesso dell'ex dit tatore. Sorpresa di M ussolini. Non sa di cosa parli. John si innervosisce, esce a prendere una boccata d'aria, men tre il giovane capo partigiano, rivolgendosi a Claretta, fatica a trovare parole che non siano troppo cariche d'o dio o di compassione. Si sente, leggendo il resoconto, che anche Lonati, come era accaduto a Bellini delle Stel le la sera prima, prova pietà, forse qualcosa di più, per quella donna bella e appassionata che rinunciando alla propria vita ha scelto di seguire l'uomo che si accanisce ad ammirare e amare. Quando J ohn gli annuncia infine lo scopo del loro viaggio a Mezzegra, Lonati rifiuta ca tegoricamente di partecipare all' uccisione di Claretta. Sarà quindi Giacomo, sempre secondo la sua versio ne dell'esecuzione, a far partire la prima raffica, ucci dendo M ussolini sul colpo, mentre John ne abbatterà la compagna. Il piccolo gruppo, poi, abbandona subito il luogo lasciando i due cadaveri a terra nel loro san gue. Sono passate da poco le undici del mattino .
334
Gli ultimi giorni di Mussolini
SARANNO SEMPRE GLI INGLESI AD AVERE L'ULTIMA PAROLA?
Le ultime ipotesi di De Felice si ispiravano alla versio ne di Lonati, pur senza farne il nome. L'autore di Rosso e nero è morto troppo presto per permetterei di sapere se le testimonianze e i documenti che diceva di poter produrre a sostegno delle sue con clusioni esistono davvero, e se lui era realmente in con dizione di utilizzarli. Finché De Felice era in vita i pos sibili avversari delle sue tesi si sono ben guardati dal l' entrare in polemica su uri tema di cui il biografo del Duce conosceva ogni risvolto, mentre con la sua morte si sono fatti avanti tutti coloro che attendevano questa uscita di scena per far valere i propri argomenti. Gli storici inglesi, per esempio, hanno approfittato dell'occasione. Nel 1 997 uno di loro, Richard Lamb, che aveva partecipato alla campagna d'Italia come ufficiale del l'Sa armata, pubblicò un'opera di grande qualità, Mus solini and the British, le cui ultime pagine trattano della presunta corrispondenza segreta tra il premier britan nico e il suo omologo italiano. 1 0 Lamb ebbe la possibi lità di consultare i fondi relativi agli avvenimenti del l'aprile 1 945 in Italia del Nord presso la biblioteca del Foreign Office e al Public Record Office. Cionono stante, le conclusioni cui giunge con le sue ricerche non mi convincono del tutto. Egli spiega infatti di non aver trovato traccia degli archivi, né della famosa e sempre fantomatica corrispondenza Mussolini-Chur-
La pista dei servizi segreti
335
chili, e neppure d i una qualsiasi iniziativa d i Churchill che mirasse a far elim inare il dittatore fascista dagli agenti dell' Intelligence Service. Per ribadire i risultati delle sue ricerche Lam b fa anche riferimento agli archi vi pubblici e p rivati dell' ex primo ministro e alle affer mazioni della vedova di Renzo De Felice, che dichiara di non aver trovato nulle tra le carte del marito a soste
gno delle ultime ipotesi da lui formulate. Infine, Lamb riporta anche le « confidenze » avute da alcuni dei col
leghi di De Felice all' università La Sapienza d� Roma,
secondo le quali lo storico avrebbe sofferto negli ultim i mesi di vita di una certa confusione mentale. Tutto insomma corrisponde. Eppure io resto per plesso dinnanzi a qualsiasi verdetto inappellabile pro nunciato sulla base della consultazione degli archivi. Capisco bene che Lamb abbia delle ottime ragioni per fidarsene ciecamente, ed essi costituiscono senza al
cun dubbio la fonte p rincipale del sapere storico . Ma
sono io stesso un frequentatore abbastanza assiduo di tali templi della memoria collettiva da aver sviluppato una certa diffidenza riguardo a ciò che dicono , e so p rattutto a ciò che non dicono, i documenti conservati negli archivi . Diffidenza ancora più accresciuta quando
le fonti sono i servizi segreti, i cui atti sono per defini zione destinati a non uscire dall'ombra. Il mio vuole dunque essere un semplice appello alla prudenza su una ques none che non mi sembra ancora del tutto chiara.
Conclusioni
La vicenda della messa a morte di Benito M ussolini e della sua compagna cela probabilmente altri segreti. Per esempio un nipote del Duce, Guido Mussolini, fi glio di Vittorio, è ricorso nel 2008 contro la decisione di un giudice di Como che ha dichiarato non riesuma
bili i resti del dittatore fascista. A sostegno della richie
sta indirizzata ai magistrati della Corte di cassazione dall'ex candidato a senatore e a sindaco di Roma, l' av vocato di Guido Mussolini ha tentato di sostenere che il procedimento per la morte del Duce non possa esse re prescritto perché non si trattò di un omicidio ordi nario, « ma dell'uccisione di un capo di Stato in viola zione delle leggi sui prigionieri di guerra >> . La Corte di cassazione, però, non ha voluto scrivere un nuovo epi sodio del romanzo sugli ultimi giorni di Mussolini, e anche Alessandra Musso lini, nipote dell'ex dittatore e figura di rilievo dell'estrema destra neo fascista, ha sconfessato l ' iniziativa del cugino . Tutta la faccenda non ha sollevato il polverone che anche solo dieci o quindici anni fa ci si sarebbe potuti attendere, ma è tuttavia un segnale di come gli irridu cibili nostalgici del fascismo continuino a rifiutare le tesi condivise dalla maggioranza degli storici, accade-
Conclusioni
337
miei o di altra estrazione. Questi ultimi, dal canto loro, hanno a volte la tendenza a rigettare categoricamente, senza neppure esaminarle, delle testimonianze che non provengono sempre e solo dal movimento dell'estrema destra e che meriterebbero, credo, di essere analizzate con maggiore accuratezza. 1 Dato che il suicidio del Flihrer avvenne dopo solo due giorni dall'eliminazione del suo omologo fascista, quest'ultimo avvenimento sembra poter simboleggiare la maggiore svolta della storia del XX secolo in quanto rappresenta la caduta dell'« asse Roma-Berlino )) che fe ce tremare l'Europa e il mondo per oltre un lustro. Non sapremo mai se Mussolini, nel corso delle lunghe ore di fuga e poi di prigionia che precedettero l' esecu zione, rivolse il pensiero alla Germania hitleriana e alla sua « guida » . Né potremo mai sapere come giudicasse i propri atti alla luce di una guerra che, voluta perché credeva che sarebbe stata breve e che fosse praticamen te già vinta, si risolse invece in una catastrofe: per l'I talia, per il fascismo di cui si considerava a ragione l'in ventore, e per lui stesso. Le relazioni di Mussolini con Hitler non erano ini ziate bene. Nel corso del primo incontro tra i due dit tatori, a Stra, vicino a Venezia, nel 1 934, il Duce do vette dissin1ulare l'antipatia che gli ispirava il suo ospi te, anche perché questi si era mostrato visibilmente commosso nello stringere la mano di un uomo che ammirava da anni. « Questo Hitler, che Pulcinella! » aveva dichiarato il dirigente fascista quando l'aereo del Fiihrer era ripartito. « Un pazzo, un maniaco ses-
33 8
Gli ultimi giorni di Mussolini
suale! » Nel 1 934 vari eventi avevano ulteriormente ali mentato questa diffidenza. Il colpo di mano nazista del 25 l uglio 1 934 a Vienna, seguito dall'invio da parte di Musso lini di alcune divisioni al Brennero, l'attentato a Marsiglia contro il re di Jugoslavia, nel quale aveva perso la vita anche il ministro' francese Louis Bartho u, per mano degli ustascia croati finanziati da Roma e, in fine, la decisione unilaterale della Germania di ristabi-' lire la coscrizione obbligatoria non poterono per il Du
ce che acuire le tensioni e portare alla costituzione, per quanto illusoria, del « fronte di Stresa » , un'intesa an glo-franco-italiana intesa ad arginare le ambizioni revi sioniste di Berlino . Il riavvicinamento ai paesi democratici , tuttavia, du rò solo pochi mesi. L'aggressione fascista in Etiopia, le sanzioni votate dalla Società delle Nazioni e ben presto il coinvolgimento dell'Italia nella guerra civile spagno la modificarono radicalmente la mappa delle relazioni tra gli Stati e i loro capi. In meno di due anni il F iihrer divenne l'amico del dittatore italiano e quest' ultimo si impegnò a seguirlo « fino in fondo » . Nel maggio 1 9 39 il patto d'Acciaio fece di Hitler l'alleato ufficiale, e pre sto il mentore, di Mussolini, perché i rapporti di forza impongono sempre un dominante e un dominato . Il Duce dipese sempre di più dalle decisioni prese dal più forte, e il seguito è noto : per Mussolini fu una lun ga discesa all' inferno nel corso della quale andò per dendo la propria autonomia sino al momento in cui, cacciato dal potere dai suoi stessi seguaci, fu i nviato a Campo Imperatore da Badoglio e liberato dai para-
Conclusioni
339
cadutisti d i Skorzeny e Mors . D a quel momento, sotto la minaccia di rappresaglie terrificanti per l'Italia, do vette cedere alle istanze hitleriane e accettare che la Re p ubblica di Salò divenisse un puro e semplice satellite. D urante il suo calvario politico e militare Mussolini dovette subire, in occasione degli incontri con il Fi.ih rer, una serie di umiliazioni che non era uomo da accet
tare facilmente. Esse furono senza dubbio in parte ad
dolcite dalle manifestazioni di amicizia apparentemen
te sincera che il dittatore nazista lasciava a volte trape lare. Così, dopo l'ultima visita del Duce presso il suo quarrier generale di Rastenburg, nel luglio del 1 944,
al momento di congedarsi sul binario della stazione
di Gorlitz, Hitler strinse affettuosamente la mano al
suo complice lasciandosi sfuggire questa confidenza:
« Vi prego di credermi quando dico che vi considero il mio migliore amico, e forse l'unico al mondo » . Quando si trovarono prigionieri, l'uno degli uomini della 5 2a brigata Garibaldi e l'altro dalle divisioni russe che accerchiavano una Berlino gi à schiacciata e distrut ta al novanta p er cento dai bombardamenti aerei e dal l'artiglieria, i due uomini si dimostrarono per una vol ta uguali, o quasi . Entrambi ebbero, forse, l'o p portuni
tà di sfuggire alla sorte che avrebbe riservato loro il ne mico . Senza dimenticare che gli americani entrarono a Como solo poche ore dopo che Mussolini e la sua scorta avevano lasciato la città. E Hitler, nonostante le preghiere dei suoi fedeli, rifiutò categoricamente di abbandonare le rovine della cancelleria. Già da tem po, infatti, in caso di sconfitta, il dittatore nazista aveva
34 0
Gli ultimi giorni di Mussolini
'
progettato la distruzione totale della Germania. E certo, come scrive Joachim Fest, che « ogni ponderata va lutazione induce ad affermare che fu proprio questa volontà di sfacelo, perseguita con tenacia, a tenere in piedi Hitler fino alla fine )) . Z E, aggiungerei, a fare della sua morte il momento culminante di una storia che fu quella del ritorno alla barbarie. Mussolini non condivideva questi moventi neronia ni . E anzi desiderava così poco la distruzione dell' Italia da rassegnarsi a prendere la guida dello Stato fascista repubblicano, radicalizzato e satellite- del nazismo, pur di impedire a Hitler di porre in atto i progetti di rappresaglia di massa sulle città del Nord. La preoc cupazione del D uce di risparmiare agli italiani una sor te paragonabile a quella che riservava loro il Fiihrer nel 1 943 ebbe il suo peso, così come più tardi ebbe un pe so la sua convinzione, peraltro illusoria, di poter tra smettere il potere ai rappresentanti della Resistenza, in particolare ai socialisti . Altra speranza, altrettanto vana, fu quella nutrita e trasmessagli da Pavolini di po ter mobilitare in Valtellina una forza sufficiente a tener testa agli Alleati e ai partigiani, così da negoziare con loro un' uscita di scena onorevole. Infine, ed è un'inter
pretazione che personalmente trovo credibile, vi era in Mussolini una componente di fatalismo, un' irraziona le fiducia nella sua « stella )) che gli fece sfidare la sorte ' e attendere l' ultimo minuto prima di decidersi alla fu ga e a cercare rifugio all'estero. Per lo storico che si è proposto di riesaminare gli ul timi giorni di Mussolini è assai difficile avvicinarsi al-
Conclusioni
34 1
l'universo mentale dell' ex dittatore, almeno per quanto riguarda le sue ultime ventiquattro ore. A differenza
del Fiihrer, che non smise mai di parlare, di arrabbiar
si, di lanciare ordini e contrordini, di minacciare di morte i generali e i gerarchi a lui più fedeli, di cavillare su ogni frase, M ussolini in quelle ultime ore non parlò quasi più. Di ciò che si disse con Claretta non sappia mo nulla. L' unica conversazione di una certa consi stenza di cui abbiamo traccia è quella che ebbe con gli ufficiali della caserma della Guardia di finanza di Germasino la sera del 27 aprile. Il Duce, ritrovato in
quell'occasione il gusto di parlare, si lanciò in una de scrizione della situazione internazionale nel momento del crollo tedesco, distribuendo note di merito e deme rito ai protagonisti della guerra. Nel panoran1a politico
e militare così evocato, Hitler non figurava per nulla,
mentre S talin acquistava rilievo e Roosevelt (morto da poco) era valutato come un dirigente di scarsa levatura. La simmetria dei percorsi dei due principali attori della coalizione hitleriana finì dunque per rovesciarsi, almeno a livello simbolico. Il 29 aprile, nel corso della serata, un aiutante di campo riferì al Fiihrer e ai suoi compagni quanto aveva ascoltato da un'emissione ra
dio sulle onde corte: Mussolini e Clara Petacci erano
stati uccisi il giorno prima in una località vicina al lago di Como e le loro spoglie, esposte sin dal mattino su una piazza milanese, avevano subito le peggiori sevizie. Per Hitler, che più volte aveva manifestato il timore di essere esibito davanti ai moscoviti in una « gabbia da scimmia » , la notizia fu come una bomba esplosa in
3 42
Gli ultimi giorni di Mussolini
mezzo al bunker. Non aveva forse ordinato al suo ad destratore di cani di uccidere Biondi, la sua lupa, affin ché l'animale non cadesse nelle mani dei russi? N o n si può escludere che l'annuncio della morte del suo
«
mi
gliore amico » abbia fortemente contribuito al suo de siderio di farla finita. E infatti, non appena l'emozione generale si placò, Hitler invitò i suoi più stretti colla boratori ad accompagnarlo nella sala conferenze per metterli a parte dell'intenzione di porre fine ai propri gwrm. Poche ore dopo, con Eva Braun ormai divenuta uf ficialmente sua moglie, mise in p ratica la decisione per mezzo di una fial� di cianuro e di una pallottola alla tempia (o in bocca) .3 Hitler, dunque, si scelse la morte. Musso lini, che l'aveva preceduto, dovette subire la propria. Entrambi riuscirono così a evitare un processo che, a N orimberga o altrove, avrebbe potuto riunire per l'ultima volta l'istigatore e il complice, più o meno consapevole, di un genocidio senza uguali e del più grande massacro della storia.
Note
Prefazione l
Renw De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano, 1 9 9 5 , p. 1 46 . Prologo
l
Giovanni Dolfì n, Con Mussolini nella tragedia: diario del ca po della segreteria particolare del duce, 1943-1944, Garzanti, Milano, 1 949, pp. 34-3 5 .
2
Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla mora
3
D ue sole unità evitarono la sottomissione al comando di
lità nella Resistenza, Bollati Boringhieri , Torino, 1 99 1 . Ricci e Pavolini: la Decima
MAS
del principe Junio Valerio
Borghese e la legione autonoma mobile Ettore Muti , èon base a Milano. 4
Ivone Kirkpatrick, Mussolini: Study of a demagogue, Od hams, London, 1 964 (trad. i t. Storia di Mussolini, Longane si, Milano, 1 970, p. 5 9 4 ) .
5
Citato in lvone Kirkpatrick, trad. cit. , p. 596. I Addio, Milano!
l
T. 5 86, 8 settembre 1 944, National Archives of Washington, citato in S imonetta Tombaccini, Les centjours de Mussolini, France Empire, Paris, 1 98 1, pp. 76-77.
2
Ibid.
344 3
Gli ultimi giorni di Mussolini Vincenzo Fornaro, Il servizio informazioni nella lotta clande stina: Gruppo Montezemolo, Domus, Milano, 1 946, p. 2 5 3 .
4
Renzo De Felice, Mussolini. Il rivoluzionario, .l 883-1920, Einaudi, Torino, 1 965 , p . 4 .
5
Giuseppe Prezzoli ni, Benito Mussolini, Formiggini, Roma, 1 924, p. 1 67 .
SNIA
6
Marinotti era presidente della
7
Silvio Bertoldi, I tedeschi in Italia, Rizzoli, M ilano, 1 964,
Viscosa.
pp . 1 5 9 e 1 6 1 . 8
Edoardo e D uilio S usmel (a cura di) , Dalla liberazione di Mussolini all'epilogo: la Repubblica sociale italiana: 13 settem bre 1943-28 aprile 1945, in B enito Mussolini, Opera om
nia, La Fenice, Firenze, 1 960, t. 32. 9
Joachìm Fest, Der Untergang. Hitler und das Ende des Drit ten Reiches, Alexander Fest Verlag, Berlin, 2002 (trad. it. La disfatta: gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich, Garzanti , Milano, 2003, p. 64) .
IO
11
Ibid. , pp. 65-66. Benito Mussolini, Testamento politico di Mussolini: dettato,
corretto, siglato da lui il 22 aprile 1945, a cura di Gian Gae tano CabeUa, Tosi, Milano, 1 948, pp. 44-4 6 .
12
Carlo Silvestri, Nessuno poteva salvare Mussolini condannato a morte da Mosca, in Settimo Giorno, ottobre 1 9 5 1 .
13
Citato in Simonetta Tombaccini, Les Cent jours de Musso
14
Ildefonso Schuster, Gli ultimi tempi di u n regime ( 1 94 6) ,
lini, cit., p. 1 49. Nuove Edizioni D uomo, M ilano, 1 99 5 , pp. 1 7 1 - 1 72 . II Como, prima tappa l
Arrigo Petacco, Il superfascista. Vita e morte di Alessandro Pavolini, Mondadori, Milano, 1 998, p. 1 97.
2
Rachele Mussolini, La mia vita con Benito, Mondadori, M i lano, 1 94 8 ; si veda anche Le Duce mon mari, Fasquelle, P a ris, 1 947, pp. 2 5 0-25 1 .
345
Nou 3 4
Ibid. , Jbid. ,
p. 2 5 1 . pp. 25 8-25 9 .
III Sulla strada per Menaggio l
Si veda Simonetta To mbaccini,
Les Cent]ours de Mussolini,
che cita l'articolo di Lazzero Ricciotti, « Un passo verso la verità sulla morte di Benito Mussolini p untate su
Epoca,
n,
pubblicato in tre
1 1, 1 8 e 2 5 agosto 1 9 68. Il racconto della
fuga è riportato nella II p untata del 1 8 agosto 1 968, p. 4 8 . 2
Giorgio Cavalieri, Franco G iannanroni e Mario J. Cereghi no, La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei docu menti dei servizi segreti americani, Garzanti, Milàno, 2009 , pp. 33-34 . IV L'arresto
l
Così era Mussolini alla vigilia dell'ulti La Nazione, 3 1 agosto-3 settembre 1 947 .
Maddalena Mollier,
mo tracollo, 2
di Mussolini
in
I nomi di battaglia dei partigiani appaiono la prima volta in corsivo . A loro è dedicata la sezione « I protagonisti » posta a fine volume.
3
Arrigo Petacco ,
4
Ibid. ,
Il superfascista,
p. 1 6 . V Intrighi
l
cit. , pp. 1 2- 1 3 .
e manipolazioni
Citato in Urbano Lazzaro,
Dongo, mezzo secolo di menzogne,
Mondadori, Milano , 1 993, p. 4 5 . 2
Jbid. ,
3
op. cit. , pp . 222-223. Raffaele Cadorna, La riscossa. La testimonianza del generale dei partigiani con documenti inediti, a cura di Maurizio Bri
4
p . 44.
Ci tato in Simonetta Tombaccini,
gnoli, presentazione di Sandro Perrini, Bietti, Milano, 1 976, pp. 3 1 5-3 1 6.
34 6
Gli ultimi giorni di Mussolini VI Interrogatori
l
Pier Luigi Bellini delle S telle (Pedro) e Urbano Lazzaro (Bill) , Dongo, ultima azione, Milano, 1 962, pp. 1 5 - 1 6; rie dito nel 1 975 con il titolo Dongo, la fine di Mussolini.
2
Citato in Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit., pp . 50-5 1 .
3
Il testo è tratto dalla relazione indirizzata da Bellini delle Stelle nel 1 948 al suo ex comandante in seconda. Quest'ul timo l'ha pubblicata in appendice alle sue memorie; cfr. Ur bano Lazzaro , Relazione originale di Pedro, in Dongo, mezzo
secolo di menzogne, cit. , pp. 1 93- 1 94 . 4
Pier Luigi Bellini delle Stelle e Urbano Lazzaro, Dongo, ul
tima azione, cit. 5
Si veda Urbano Lazzaro , Relazione originale di Pedro,
m
Dongo, mezzo secolo di menzogne, ci t. 6
Ibid. , p. 203 .
7
Ibid. , p. 204.
8
Ibid. , p. 206.
9
Ibid. , pp . 209-2 1 0 .
10
Ibid. , pp. 2 1 1 -2 1 2 .
11
Ibid. , pp. 2 1 2-2 1 5 .
VII Ricongiungimenti l
Urbano Lazzaro, Relazione originale di Pedro,
m
Dqngo,
mezzo secolo di menzogne, cit., p. 2 1 7. 2
Ibid. , p. 226.
3
Claretta Petacci, Mussolini segreto. Diari 1932-1938, Rizzo
4
Bill, invece, situa l' incontro delle due vetture nella piazza
li, Milano, 20 09. del municipio di Dongo .
5
« Me ne frego » era uno dei motti militari degli Arditi, i re parti d' assalto della prima guerra mondiale, ed era stato adottato in seguito dagli squadristi.
347
Note VIII La missione del colonnello Valerio l
Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Teti, Milano,
2
Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit., p.
1 97 5 . 1 47. 3
Oggi illustrato, 28 maggio 1 962.
4
Urbano Lazzaro , Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit. , p .
83. 5
Giorgio Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, il S aggiatore, M ilano , 1 996, pp. 68-69.
6
Questa ci tazione è tratta da un'intervista a Michele Moretti, pubblicata in un libretto a tiratura limitata: Michele Moret ti, Un giorno nella storia. 28 aprile 1945. Giorgio Cavalieri e
Anna Giamminola intervistano Michele Moretti, Nodo Libri Editori, Como, 1 990. Cfr. Giorgio Pisanò, Gli ultimi cin
que secondi di Mussolini, cit. , pp. 72-73. 7
Relazione originale di Pedro, in Dongo, mezzo secolo di men zogne, cit., pp. 234-23 8 . IX Ultima notte, ultimo mattino
l
Quinto Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini, Lon ganesi, Milano, 1 946, p. 235.
2
M arilù Cantelli, Concou1� d'architecture et répresentation:
Giuseppe Terragni et /es projets pour la Maison du Parti, in Art et foscisme. Totalitarisme et resistance au totalitarisme dans les arts en Italie Allemagne et France des années 30 à la defoite de l'Axe, a cura di Pierre Milza e F anette Roche Pezard, Complexe, Bruxelles, 1 989, pp . 1 27- 1 28.
X L 'esecuzione l
Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit., pp .
98-99. 2
L 'Unità, 2 novembre 1 945 .
Gli ultimi giorn i di Mussolini
348 3 4
Ibid. , 1 1 dicembre 1 945 . Citato in Urbano Lazzaro , L'oro di Dongo: il mistero del te soro del duce, A. Mondadori, Milano, 1 99 5 , pp. 1 2 9- 1 3 0 .
5
Relazione originale di Pedro, in Dongo, mezzo secolo di men zogne, cit., p. 242 . Xl Post mortem
l
Sergio Luzzatto, IL corpo del Duce. Un cadavere tra immagi nazione, storia e mémoria, Einaudi, Torino , 1 998, p. 64 .
2
Citato in Anita Pensotti, Rachele e Benito: biografia di Ra-
3
Avanti!, 30 aprile 1 94 5 .
4
Sergio Luzzatto, op. cit. , p . 65 .
5
Curzio Malaparte, Una partita di ping-pong, in Due anni di
chele Mussolini, A. Mondadori , Milano, 1 993, p . 1 2 1 .
battibecco, 1953-1955, Garzanti, Milano, 1 9 5 5 , p. 2 8 . 6
Mario Cattabeni, Rendiconto di una necroscopia d'eccezione, in Clinica nuova, 1 5 luglio- l agosto 1 94 5 , l, 4- 5 , pp. XVII XIX.
7
Paolo Monelli deve l'informazione al dottor Riccardo Pasco li, veterinario di San Leonardo di Passiria, del quale l' avvo cato Marpillero era zio materno . Cfr. Paolo Monelli, Musso lini piccolo borghese ( 1 9 5 0) , Vallardi, Milano, 1 983, p . 3 8 .
8
Corriere della Sera, 1 4 agosto 1 946. XII Controversie e regolamenti di conti
l
L'Unità, 23 gennaio 1 996, cit. in Pierluigi Baima Bolla ne, Le ultime ore di Mussolini, Mo ndadori, Milano , 2005, pp. 1 62- 1 63 .
2
Urbano Lazzaro , Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit. , p. 1 4 5 e, più avanti, pp. 1 5 3, 1 54 , 1 5 6.
3
Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Sugar, Mila no, 1 9 53; e Vita e morte segreta di Mussolini, Mondado ri, Milano , 1 978 .
Note 4
349 Pisanò negoziò con Sandrino e il direttore di Oggi il com penso per l'ex partigiano, definito infine in 1 20. 000 lire dell' epoca.
5
Ci tato in Giorgio Pisanò,
6
Ibid , p. 1 1 5 .
7
Ibid , pp . 1 3 0- 1 3 1 .
8
Ibid. , p . 1 37 .
9
Ibid , pp . 1 40- 1 4 1 .
òp. cit. , p .
1 6.
IO
Ibid , p . I 7 1 .
Il
Alberto Bertotto, La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere,
12
PDC
Editori, Ascoli Piceno, 2008.
Rinascita, 1 4 ottobre 2007.
13
Giorgio Pisanò, op. cit. , pp. 1 65 - 1 66.
14
Giorgio Cavalieri, Ombre sul lago, Piemme, Casale Monfer rato, 1 99 5 , pp . 8 0-8 1 .
15
Ibid , pp . 1 08- 1 09 . XIII Sulle tracce del « tesoro di Dongo >>
l
Citato in Giorgio Cavalieri, Franco G iannantoni e Mario J. Cereghino,
op. cit. , p .
98.
2
Ibid. , pp . 9 8-99 .
3
Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit., pp. 1 3 8 - 1 39 .
4
La Stampa, 29 maggio 1 9 57, citato in Pierluigi Baima Bol lone,
5
op. cit. , p.
1 2 9.
Citato in Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, ci t., pp. 1 43- 1 44 . XI V L a pista dei servizi segreti
l
Renzo De Felice, Rosso e nero, cit.
op. cit.
2
Claudio Pavone,
3
Giorgio Cavalieri , Franco Giannanton i e Mario J . Cereghi no,
op. cit. , p.
209.
3 50 4
Gli ultimi giorni di Mussolini Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, cit., p .
1 64 . 5
Jbid. , p. 1 3 0
6 7
Ibid. , p. 1 29 . Arrigo Petacco, Dear Benito, Caro Winston, Mondadori,
.
Milano, 1 98 5 , pp. 73-74 .
8
F rederick William Deakin,
È tutto falso, parola di
Winston!,
in Storia illustrata, Milano, giugno 1 9 86, pp. 8- 1 8 : p. 1 0 .
9
Bruno Giovanni Lonati, Quel 28 aprile. Mussolini e Claret
ta: la verità, Mursia, Milano 1 994, p. 84. 10
Richard Lamb, Mussolini and the British, John Murray, London, 1 997 (trad. it. Mussolini e gli inglesi, Corbaccio, Milano, 1 998) .
Conclusioni l
Penso soprattutto al libro pubblicato nel 2009 da Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario
J.
Cereghino, op.
cit. , che si basa in particolare sui rapporti dell'agente del l'oss Lada-Mocarski e nel quale si può leggere a p. 1 1 : « I documenti dell'oss contribuiscono inoltre a demolire le nu merose versioni, più o meno fantasiose, che si sono succe dute in questi decenni, frutto il più delle volte di velenose campagne propagandistiche e di mera speculazione politica,
senza alcun serio riscontro sul terreno storiografìco » .
2 3
Joachim Fest, op. cit. , p. 1 2 1 .
Secondo le dichiarazioni di alcuni suoi fedeli, Hi tler avreb
be prima spezzato tra i denti una capsula di cianuro, poi si sarebbe sparato alla tempia, o in bocca . Secondo altre voci il Fi.ihrer si sarebbe limitato ad assumere il veleno, lasciando
a
un terzo il compito di finirlo con una pallottola alla tempia. Eva Braun si era invece accontentata del veleno . Si sa che non fu mai eseguita alc i.m a autopsia, perché i corpi fu rono bruciati su richiesta del dittatore nazista. Cfr. J oachim F est,
op. cit. , pp. 1 09- 1 1 0 .
I protagonisti
Una parte importante dei personaggi citati in questo libro è costituita da combattenti coinvolti nei ranghi della Resistenza italiana. Tutti, oltre al proprio nome, assunsero un nome di battaglia che si limitava di solito a un nome di battesimo. Per aiutare il /ettore a identificarli rapidamente, ho scelto di elencarli con questi soprannomi. Il glossario li registra in ordi ne alfabetico, facendo seguire a ogni nome di battaglia i veri nomi delle persone citate e, quando possibile, una breve nota con la descrizione dell'attività svolta nella Resistenza.
ALBERO - Alberto Mario Cavallotti, 1 907- 1 994, medico, partigiano nella zona dell'Oltrepò pavese, deputato del PCI nel 1 946. BILL - Urbano Lazzaro, 1 924-2006, vicecommissario po litico della 52a brigata Garibaldi. Fu lui ad arrestare Mussolini a Dongo il 27 aprile 1 94 5 . CARLO - Antonio Scappin, vicebrigadiere della Guardia di finanza di Gera Lario. ERCOLE ERCOLI - Palmiro Togliatti, 1 893- 1 964, segre tario generale del PCI dopo il ritorno dall'Unione Sovie tica nel 1 944 . Membro dei governi di unione nazionale sino al 1 94 7. Autore dell'amnistia del 22 giugno 1 946. FRANCESCO - Pietro Terzi, 1 9 1 8- 1 996, membro della 52a brigata Garibaldi, ispettore della Delegazione Lom-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
bardia brigate d'assalto Garibaldi, commissario di guerra della piazza di Dongo nell'aprile 1 945. GALLO - Luigi Longo, 1 900- 1 980, ispettore delle brigate internazionali nella guerra di Spagna, vicecomandante del CVL, membro della Consulta e della Costituente e de putato, segretario generale del PCI dal 1 964 al 1 972 . GIANNA - Giuseppina Tuissi, 1 923- 1 945, staffetta della 52a brigata Garibaldi, responsabile dei collegamenti per il comando delle divisioni Garibaldi del Lario e della bassa Valtellina, assassinata dai partigiani il 23 giugno 1 945. GUGLIELMO - Dante Gorreri, 1 900- 1 987, segretario del PCI di Como nell'aprile 1 945, deputato comunista dopo la guerra. , GUIDO - Aldo Lampredi, 1 899- 1 974, ex esule politico in Francia, collaboratore di Luigi Longo durante la guerra ci vile spagnola, inviato a Dongo dal CLNAI e dal CVL, mem bro del comitato centrale del PCI dopo la Liberazione. LINO - Giuseppe Frangi, 1 9 1 1 - 1 945, membro della 52a brigata Garibaldi, guardiano di Mussolini a Bonzanigo , assassinato da alcuni partigiani nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1 94 5 . MAURIZIO - Ferruccio Parri, 1 890- 1 98 1, militante del movimento Giustizia e libertà, dal 1 94 5 segretario del Partito d'azione fondato nel 1 942, vicecomandante del CVL, capo del governo antifascista da giugno a dicembre 1 945 . ' MENEFREGO (detto anche SANDRINO) - Guglielmo Cantoni, 1 924- 1 972, partigiano della 52a brigata Gari baldi, guardiano di M ussolini a Bonzanigo . NERI (CAPITANO) - Luigi Canali, 1 9 1 2- 1 94 5 , capitano di riserva del Genio, animatore della Resistenza nella re-
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l protagonisti
gione lariana, membro del PCI , vicecomandante del rag gruppamento delle divisioni d'assalto Garibaldi della zo na Lario-bassa Valtellina, capo di stato maggiore della 5 2a brigata Garibaldi, rapito e ucciso da partigiani la not te tra il 7 e 1'8 maggio 1 945. PEDRO - conte Pierluigi Bellini delle Stelle, 1 920- 1 984, comandante del distaccamento Puecher, poi dell'intera 52a brigata Garibaldi. PIETRO GATTI - Michele Moretti, 1 908- 1 99 5 , commis sario politico della 52a brigata Garibaldi. RI C CARDO Alfredo M ordini, 1 902- 1 969, combattente nei ranghi della brigata Garibaldi durante la guerra civile spagnola, ispettore delle brigate Garibaldi dell'Oltrepò pavese, inviato a Dongo per l'esecuzione di Mussolini. VALERIO (COLONNELLO) - Walter Audisio, 1 9091 973, ispettore delle brigate Garibaldi e dal gennaio 1 945 ufficiale addetto al comando generale del CVL, in viato a Dongo per l'esecuzione di Mussolini, deputato del PCI , poi senatore, dal 1 948 al 1 968 . -
Nella lista che segue figurano altri personaggi citati nel testo, elencati però secondo il cognome anche quando appartenenti alla Resistenza.
BADOGLIO Pietro, 1 87 1 - 1 956: militare e uomo politico; maresciallo d'Italia; viceré d'Etiopia nel 1 936; capo del governo dal 25 luglio 1 943 al giugno 1 944 . BARRACU Francesco, 1 89 5- 1 945 : colonnello; sottosegre tario alla presidenza del Consiglio della Repubblica so ciale; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 94 5 . BOM BACCI Nicola, 1 879- 1 94 5 : giornalista; ex membro dell'ala rivoluzionaria del Partito socialista italiano; de-
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Gli ultimi giorni di Mussolini
putato nel 1 9 1 9; tra i fondatori del Partito comunista nel 1 92 1 ; ispiratore, con Mussolini e Pavolini, del manifesto di Verona del Partito fascista repubblicano; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945. BUFFARINI GUIDI Guido, 1 895- 1 94 5 : sottosegretario agli Interni dal 1 933 al 1 943; ministro degli Interni della RS I sino al febbraio 1 945; fucilato a Milano il l O luglio 1 945 . CADORNA Raffaele, 1 889-1 973: generale; ex comandan te della divisione corazzata Ariete preposta alla difesa di Roma nel settembre 1 943; comandante in capo del CVL; capo di stato maggiore dell'esercito italiano dal maggio 1 945 al gennaio 1 947. CALISTRI Pietro, 1 9 1 4- 1 94 5 : pilota; combattente in Spa gna con le forze del generale Franco; capitano d'aviazio ne nelle forze della RS I ; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945 . CASALINUOVO Vito, 1 898- 1 945: colonnello della Guar dia nazionale repubblicana; membro del tribunale specia le di Verona che condannò a morte il conte Ciano; genero di Mussolini; ufficiale di ordinanza del Duce; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945 . CASTELLI Emilio, 1 9 1 3- 1 992: vicecommissario federale di Como; comandante di una compagnia della XI Brigata nera Cesare Rodini. CIANO Gian Galeazzo, 1 903- 1 944: genero di Mussolini; conte di Cortellazzo e di Buccari; ministro della Cultura popolare nel 1 93 5 , poi ministro degli Affari esteri dal 1 936 al 1 943; votò l'ordine del giorno Grandi contro il Duce il 25 luglio 1 943; fucilato a Verona l' 1 1 gennaio . 1 944. COPPOLA Goffredo, 1 898- 1 945 : rettore dell' università di
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Bologna; presidente dell'Istituto d i cultura fascista; fuci' lato a Dongo il 28 aprile 1 94 5 . DADDARIO Emilio Quincy, 1 9 1 8-20 1 0: avvocato; agente dell'oss dal 1 942 al 1 945 attivo a Lugano. DAQUANNO Ernesto, 1 897- 1 945: direttore dell'agenzia di stampa Stefani; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945. DE MARIA Giacomo, 1 900- 1 976: agricoltore; proprieta rio della casa di Bonzanigo dove Mussolini e Claretta Pe tacci trascorsero la notte precedente l'esecuzione. DE MARIA Lia, 1 902- 1 984: moglie di Giacomo De Maria. DONOVAN William Joseph, 1 883- 1 95 9 : generale; ispira tore e direttore dell 'oss sino al suo dissolvimento nel 1 945; ispiratore della creazione della CIA nel 1 947. DULLES Allen, 1 8 93- 1 969: direttore dell'oss in Europa dal 1 942 al 1 945 con sede a Berna; direttore della CIA dal 1 9 53 al 1 96 1 . FARINACCI Roberto, 1 892- 1 945 : ras di Cremona; segre tario generale del Partito nazionale fascista dal febbraio 1 925 al marzo 1 926; ministro e membro del Gran con siglio fascista nel 1 9 34; catturato dai partigiani mentre tentava la fuga in Svizzera, fu fucilato a Vimercate il 28 aprile 1 94 5 . GATTI Luigi, 1 9 1 3- 1 94 5 : volontario nei ranghi fascisti durante la guerra di Spagna; ex prefetto di Milano; segre tario particolare di Mussolini nel periodo della RS I ; fuci lato a Dongo il 28 aprile 1 94 5 . GENINAZZA Giovanni Battista, 1 9 1 9-2009: autista del colonnello Valerio. GRAZIANI Rodolfo, 1 88 2- 1 9 5 5 : generale e maresciallo d'Italia; viceré d'Etiopia negli anni 1 936- 1 937; ministro della Difesa nella RSI ; condannato dopo la Liberazione a
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Gli ultimi giorni di Mussolini
diciannove anni di detenzione, fu però scarcerato nel 1 950. JONES Donald Pryce: viceconsole americano a Lugano; di rettore della base operativa dell'oss nel Canton Ticino . LADA-MOCARSKI Valerian, 1 898- 1 97 1 : avvocato; co lonnello d�ll'esercito degli Stati Uniti e agente 44 1 del l'oss. LIVERANI Augusto, 1 895- 1 94 5 : ministro delle Comuni cazioni nella RS I ; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945. MATTEI Enrico, 1 906- 1 962: comandante delle « brigate del popolo » e rappresentante dei partigiani cattolici nel CVL; fondatore dell'ENI (Ente nazionale idrocarburi) . MEZZASOMA Ferdinando, 1 907- 1 94 5 : eJE vicesegrettario generale del Partito nazionale fascista; vicedirettore della Scuola di mistica fascista; ministro della Cultura popola re nella RSI; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945. MUSSOLINI Edda, 1 9 1 0- 1 99 5 : figlia maggiore di Musso lini; moglie di Gian Galeazzo Ciano. MUSSOLINI Rachele, 1 890- 1 979: moglie di Mussolini. MUSSOLINI Romano, 1 927-2006: terzo e ultimo figlio maschio di Mussolini. MUSSOLINI Vittorio, 1 9 1 6- 1 997: secondo figlio maschio di Mussolini. NUDI Mario, 1 9 1 2- 1 94 5: responsabile della polizia repub blicana a Gargnano; fucilato a Dongo il 2 8 aprile 1 94 5 . PAVOLINI Alessandro, 1 903- 1 945: giornalista e scrittore; squadrista della marcia su Roma; ministro della Cultura popolare dal 1 939 al 1 943; segretario nazionale del Par tito fascista nella RS I ; fondatore delle Brigate nere; fuci lato a Dongo il 28 aprile 1 945 . PETACCI Clara, 1 9 1 2- 1 945 : compagna di Mussolini; fuci lata con lui il 28 aprile 1 945 a Giulino di Mezzegra.
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PETACCI Marcello, 1 9 1 0- 1 94 5 : medico; fratello d i Clara Petacci; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945 . PORTA Paolo, 1 90 1 - 1 945 : avvocato; commissario federale di Como del Partito fascista repubblicano; comandante della XI Brigata nera Cesare Rodini; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 945 . POZZOL! Lorenzo, 1 898- 1 94 5 : colonnello e console della milizia; questore di Como; fucilato il 23 maggio 1 94 5 . ROMANO Ruggero, 1 89 5- 1 94 5 : avvocato; segretario ge nerale dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra; ministro dei La�ori pubblici nella RS I ; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 94 5 . ROMANO MITTAG Rose Marie, 1 909- 1 957: moglie del ministro Ruggero Romano. ROMUALDI Pino, 1 9 1 3- 1 98 8 : triumviro della federazio ne fascista di Forlì; vicesegretario del Partito fascista re pubblicano; cofondatore dopo la guerra del Movimento sociale italiano . SARDAGNA Giovanni ( Giovannino nella Resistenza) , 1 902-? : barone di Hohenstein; colonnello di cavalleria; aiutante di campo del generale Cadorna; membro del CVL. SCHUSTER Ildefonso, 1 8 80- 1 954: cardinale; arcivescovo di Milano dal 1 929 al 1 954. SERENI Emilio, 1 907- 1 977: storico e uomo politico; diri gente della Resistenza. SFORNI Oscar, 1 903- 1 978: segretario del CLN di Como e rappresentante 'del Partito repubblicano italiano. TARCHI Angelo, 1 897- 1 974 : ministro dell'Economia cor porativa nella RS I ; arrestato il 26 aprile 1 94 5 mentre ten ta la fuga in Svizzera con Buffarini Guidi, è consegnato agli Alleati; condannato per l'adesione al regime fascista, poi amnistiato.
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Gli ultimi giorni di Mufsolini
UTIMPERGHER !dreno, 1 905 - 1 94 5 : commissario fede rale di Lucca; comandante della XXVI Brigata nera Natale Piacentini; fucilato a Dongo il 2 8 aprile 1 945. VALIANI Leo, 1 909- 1 999: esule in Francia; partecipa alla guerra civile spagnola come giornalista e come militante; rompe con il P c o ' r dopo il patto Ribbentrop-Molotov; rientrato da un nuovo esilio in Messico nel 1 943 aderisce al Partito d'azione diventando con Ferruccio P arri uno dei principali dirigenti della Resistenza. WOLFF Karl, 1 900- 1 984: generale della Waffen-ss ; co mandante in capo delle ss e della polizia nel Nord Italia dal 1 943' al 1 945 . ZERBINO Paolo, 1 905- 1 945: agronomo; firmatario del Manifesto della razza; prefetto di Spalato dal 1 94 1 al 1 943; prefetto della provincia di Torino sino al maggio 1 944, poi ministro degli Interni nella RS I ; fucilato a Dongo il 28 aprile 1 94 5 .
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