Giuseppe De Santis e il cinema italiano del dopoguerra 8861560644, 9788861560642


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Italian Pages 306 [308] Year 2011

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Giuseppe De Santis e il cinema italiano del dopoguerra
 8861560644, 9788861560642

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© 2011 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy) http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-064-2

È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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antonio c. vitti

giuseppe de santis e il cinema italiano del dopoguerra

prefazione di carlo lizzani

Metauro

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Indice

Prefazione di Carlo Lizzani Giuseppe De Santis. Una introduzione

9

Avvertenza

13

Ringraziamenti

17

parte prima.

19

Un profilo biografico

1

I primi anni di De Santis. Da Fondi a Roma

21

2

Un membro del circolo di «Cinema»

25

3

Un sogno che si avvera. Da «Cinema» a Ossessione

33

parte seconda.

Il regista e i suoi film

45

4

De Santis dietro la macchina da presa

47

5

E poi venne Silvana: Riso amaro (1949)

57

6

Mito e realtà tra i pastori della Ciociaria: Non c’è pace tra gli ulivi (1950)

77

7

La scala dei sogni e delle illusioni: Roma ore 11 (1952)

89

8

Può un maschio italiano sposare una donna di tutti? Un marito per Anna Zaccheo (1953)

99

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9

Matrimonio alla ciociara: Giorni d’amore (1954)

10 Una favola sui "lupari", una razza estinta: Uomini e lupi (1957)

109

119

11 De Santis e la concezione di realismo cinematografico: Cesta Duga Godinu Dana/ La strada lunga un anno (1958) 129 12 Fine della famiglia borghese o repulsione per una società trasformata? La Garçonnière (1960)

144

13 Marciare o morire: Italiani brava gente (1964)

155

14 L’impotenza come metafora della sconcertante realtà degli anni settanta: Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972)

171

parte terza.

181

Il declassamento della classe operaia

15 Ai margini. Alcune ragioni per un lungo e ininterrotto silenzio

183

16 Dal particolare al generale. Alcune considerazioni conclusive

197

17 Inediti e testimonianze come appendice storica

203

18 Fotografie

233

Bibliografia

273

Filmografia

289

Indice dei nomi

297

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Prefazione Giuseppe De Santis. Una introduzione

È il ritratto esemplare di un cineasta e di tutta una stagione del cinema italiano, la stagione Neorealista, quello che Antonio Vitti ci propone con il suo Giuseppe De Santis e il cinema italiano del dopoguerra. La lunga dimestichezza con il cinema italiano, vissuta oltreoceano dall’autore (come docente di cinema ad Indiana University) ce lo rende già benemerito per tutti noi che da sempre operiamo nel nostro cinema col fine di portare sullo schermo eventi e personaggi della realtà italiana. Ma per chi, come me ha vissuto e lavorato tanti anni con Giuseppe De Santis, questo scritto, così ampio e articolato ha un significato particolare (il che, però, non provocherà parzialità di giudizio). L’atteggiamento della critica italiana, e spesso anche di quella straniera – come il libro testimonia, con puntualità e ricchezza di citazioni – ha avuto sempre, verso De Santis, un atteggiamento controverso, e spesso negativo. La domanda che tanti, comunque, si sono posta è questa: come collocare il cinema di De Santis in quel movimento neorealista di cui proprio lui, tra i primi, con i suoi scritti su «Cinema» e la sua collaborazione con Visconti da sceneggiatore e aiuto-regista – e poi con i suoi film – delineò il profilo e l’identità? Insomma, quale sintonia possibile tra la sua prosa filmica così ricca di momenti oratori e di immagini “costruite” o addirittura Hollywoodiane, con l’asciuttezza di Rossellini, la discrezione umbratile di De Sica o l’epica di sapore verghiano del Visconti de La terra trema? Come storico del cinema italiano e studioso (oltre che discepolo) del movimento neorealista, la risposta credo di averla data da tempo. Perché da tempo ho combattuto contro quelle posizioni che hanno voluto identificare il movimento, da una parte come territorio

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di battaglie contenutistiche (dove magari De Santis poteva rientrare per gli accenti “sociali” e predicatori della sua opera) e dall’altra come laboratorio austero dove far rientrare un numero sempre più ristretto di opere, o addirittura di brani di opere, giudicati di rigore assoluto (non so: l’ultimo episodio di Paisà, il finale di Germania anno zero o di Umberto D). Ricorrendo insomma a un paradigma formale tanto rigoroso quanta miope, e inteso, alla fine, a legittimare pochi minuti di quell’ondata innovatrice che secondo André Bazin avrebbe fatto nascere il “cinema moderno”. Antonio Vitti non nasconde affatto le contaminazioni da cui nasce il cinema di De Santis, cito: A cominciare da Caccia tragica la filmografia di De Santis comprende molti esempi in cui si ricorda al pubblico che il cinema è uno spettacolo e una finzione costruita per mezzo di convenzioni artistiche. De Santis è sempre consapevole della messinscena e i suoi film sono carichi di riferimenti ad una tradizione cinematografica che è molto più di una mera rappresentazione fotografica della realtà. Per il regista l’iperbole e la finzione non sono in disaccordo con il concetto di cinema impegnato ... De Santis introdusse forme di cultura più alta in contesti popolari e utilizzò forme di espressione artistica popolare, affidandogli un nuovo significato grazie al rovesciamento del messaggio conservatore e tradizionale che comunicavano in precedenza. Riferendosi a questa argomento nel 1953 De Santis affermò che nei suoi film le danze, le canzoni, le cerimonie e i riti servono a caratterizzare un personaggio, a sviluppare una situazione, a creare un’atmosfera, a rivelare le caratteristiche distintive di una regione e i vizi e le virtù della sua popolazione.

Eccoci dunque al centro del dibattito. Un autore con questo profilo può essere, alla fine, legittimato come protagonista autorevole del movimento neorealista? E non soltanto per l’eco suscitato in tutto il mondo dal suo Riso amaro, ma, addirittura malgrado la insanabile profonda contraddizione della sua sintassi con quella di Rossellini di De Sica, di Zavattini? La risposta di Antonio Vitti è sì. E il libro offre materiale in abbondanza per motivarla.

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È una risposta che mi piace e mi coinvolge, perché io stesso ho faticato non poco a darmela. Proprio di recente – riproponendo per l’editore Bulzoni, su invito di Orio Caldiron la pubblicazione della sceneggiatura di Riso amaro con un mio commento – ho avuto l’occasione di delineare ancora una volta quelli che per me restano i tratti essenziali del movimento neorealista, e che legittimano a pieno titolo il posizionamento indiscutibile – in esso – del cinema di De Santis. Mi permetto a questo punto un’autocitazione forse un pò lunga, ma che spiega le ragioni della mia sintonia con le argomentazioni così puntualmente documentate da Vitti nel suo libro. A me parve che accettando come preziosa l’intuizione della compresenza di tanti generi nel neorealismo e accertando quindi proprio come ipotesi di formazione del neorealismo quella di una presenza che è vera, in tutti i film, di filoni di ascendenze diverse (e quante volte non l’ho confermato nel corso di questo saggio?) si dovesse fare un passo avanti. E si potesse farlo, postulando l’ipotesi che in un certo momento storico quell’aggregazione e confusione non fosse stata soltanto una somma aritmetica, ma avesse prodotto come avviene in tanti processi chimici, fisici e biologici una nuova miscela. Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro mi si proponeva come il più alto. E oggi ho provato a correrlo con ancora più convinzione, perché mi domando ancora: avrebbe avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse stato soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? E se questa aggregazione non avesse, in esso, provocato una qualche reazione nuova tale da arrivare come “messaggio” diverso da quegli altri emessi prima dai pezzi singoli del gioco? In conclusione la mia risposta è sì. Anche visto a maggior distanza, il film con la sua enfasi evidenzia a massimo grado i due caratteri identitari del movimento (e che ripetutamente in questo mio scritto di oggi ho indicato). Primo: la miscela di generi, in una nuova struttura armonica; secondo: l’adozione di una nuova traduzione in immagini, dello spazio e del tempo. Lo “sfondamento” del fotogramma, dell’inquadratura (azioni in primo piano e contrappunto di altre azioni su fondi anche estremamente estesi) e l’estensione della sua durata (attraverso il piano-sequenza). Pilastri di una nuova sintassi, e fondamento di una vera e propria

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rivoluzione formale. Tratti comuni a una parte predominante dei film nati nella stagione neorealista. Per questa furono neorealisti – indipendentemente da certe predilezioni tematiche e stilistiche – Visconti come De Sica, Rossellini come De Santis, Fellini come Germi o Lattuada. Visto dall’esterno – come suggerisce Bachtin per ogni fenomeno culturale –, il cinema italiano è neorealista anche nella stagione di La strada. Su questo concordano André Bazin come Georges Sadoul. E il film di De Santis, quindi, come suggestiva metafora di tutto quel movimento ...

Scusandomi per la lunga citazione, voglio infine ricordare che il “Ritratto” di Vitti, non si ferma alla stagione neorealista. È anche ricco di dati inediti riguardanti tutta l’opera di De Santis fino a Un apprezzato professionista di sicuro avvenire del 1972. Prezioso anche il ricordo di quelli che De Santis scherzosamente definiva come i suoi migliori: i film rimasti nel cassetto.

Carlo Lizzani

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Avvertenza

Il neorealismo, come lo concepivo io, era un modo di dare espressione alle classi subalterne: operai, contadini, piccoli impiegati... Dedicarsi al mondo degli emarginati, dei poveri, delle vittime della società: ecco qual era, per me, il vero obiettivo del cinema neorealista. Giuseppe De Santis

Nella versione inglese rispondevo al perché scrivere un libro su Giuseppe De Santis. Molti miei colleghi, studenti, amici mi hanno ripetutamente posto questa domanda negli anni. Negli States va molto di moda scrivere oppure parlare di Fellini. A molti il nome De Santis non dice granché, se non addirittura nulla. Eppure quando ho iniziato la mia ricerca il suo nome mi ha suscitato pensieri e sensazioni contrastanti, oltre che ricordi confusi di quel vivido, arido e a volte lirico immaginario che caratterizza molte delle sue scene girate in Ciociaria. Ero animato, inoltre, da una profonda ammirazione per il regista, che da giovane critico nell’Italia fascista aveva combattuto molte battaglie contro la burocrazia e la censura del governo per spianare la strada alla rinascita del cinema italiano, e da una curiosità nei confronti di quell’uomo che avevo visto per la prima volta di sfuggita da lontano al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. Il mio intento nell’intraprendere questo studio non è mai stato quello di ridestare l’interesse nei confronti di un regista che non ha più diretto film dopo il 1972, o di provare che De Santis è stato un regista neorealista, sebbene sia di certo stato uno dei padri fondatori1 del movimento assieme a Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica. Ho iniziato piuttosto con il desiderio di scoprire perché il nome di De Santis non era, e non è, di moda e perché i suoi film non erano, e non sono tuttora, parte del canone tradizionale negli insegnamenti accademici sul cinema2. Speravo inoltre di scoprire che cosa fosse accaduto alla produ1 Definizione che De Santis rifiutava categoricamente affermando che il Neorealismo non aveva padri, ma solo una grande madre, ovvero la Resistenza. Da un’intervista di De Santis condotta il 21.10.1989 alla Wake Forest University in North Carolina. 2 Si veda, per esempio, Pierre Leprohon, The Italian Cinema, Londra, Secker and Warburg, 1972, p. 106; Mira Liehm, Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the

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zione cinematografica di De Santis in quanto, nonostante il grande successo internazionale di Riso amaro, che solo in Italia incassò oltre 400 milioni di lire, di Non c’è pace tra gli ulivi, che sfiorò i 500 milioni di lire e di un film come La strada lunga un anno, girato nel 1958 nell’ex Jugoslavia e premiato con il Golden Globe negli Stati Uniti, ricevette scarsa attenzione di pubblico e di critica in Italia. Il mio desiderio di studiare la carriera di De Santis non aveva nulla a che vedere con la rinnovata attenzione e le recensioni favorevoli ai suoi film durante la decima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema a Pesaro nel 19743, seguite nel 1978 dalla pubblicazione della prima monografia sul regista4. Piuttosto la mia ricerca era motivata dal forte antagonismo che provavo nei riguardi del linguaggio spesso utilizzato dalla sinistra politica nel denunciare i film di De Santis per il loro presunto “erotismo”, “formalismo” e il loro “debito” a Hollywood. L’evidente applicazione di metri di valutazione differenti mi lasciava allibito. Le stesse analisi che in un modo o nell’altro inquadravano sempre le opere dei contemporanei di De Santis, come Visconti, all’interno di una cornice estetica puramente neorealista stroncavano i film di De Santis definendoli tentativi ben intenzionati ma fallimentari di tradurre delle ideologie politiche preconcette in discorso artistico. Negli anni cinquanta, durante il periodo della restaurazione politica, i critici cinematografici italiani si dimostrarono impreparati nell’affrontare apertamente e oggettivamente un giovane regista di talento che dimostrava una notevole abilità nell’uso della macchina da presa, una passione per la bellezza e la sensualità formalizzate e, come se non bastasse, una tessera del Partito Comunista. Ciò che rese De Santis una figura complessa e problematica fu il fatto che non esitò mai nel trasgredire alle rigide regole dettate dall’ex Unione Sovietica in merito alla rappresentazione socio-realistica, all’esemplificazione, alla caratterizzazione e al pudore marxisti. Tutte queste linee guida per il cinePresent, Los Angeles, University of California Press, 1984, p. 96; Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 141-146. 3 Si veda Andrea Martini e Marco Melani, De Santis, in Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di Lino Micciché, Venezia, Marsilio Editori, 1975, pp. 307-317. A partire dalla conferenza di Pesaro sul neorealismo nel 1974, si è verificata una rivalutazione del lavoro di De Santis. La nuova generazione di critici cinematografici ha visto nel discorso cinematografico di De Santis una riflessione critica sulla mediologia. Si veda, per esempio, Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, Milano, Moizzi, 1978, e «Cinema e cinema» 9/30 (1982), un numero speciale su De Santis. 4 Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit.

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ma erano seguite alla lettera nella sfera intellettuale italiana dai critici Carlo Salinari con Emilio Sereni e Guido Aristarco i quali, con l’aiuto dell’appena fondato Fronte Nuovo delle Arti, si assicuravano che lo zdanovismo fosse osservato e messo in pratica dagli artisti italiani di sinistra. A De Santis non interessò mai aderire a dottrine politiche. Si vedeva come un regista impegnato devoto alla libertà di espressione e all’uso del cinema come strumento sia per intrattenere il pubblico che per promuovere riforme sociali e politiche. De Santis è stato spesso descritto come una persona scomoda. Al contrario la mia ricerca mi ha condotto a scoprire un uomo pacifico, ispirato da una forte e sincera compassione democratica per i non privilegiati e per la cultura contadina e da una forte dedizione verso l’arte cinematografica. Oltre ad anticipare una riflessione critica sul cinema come mezzo, De Santis fu uno dei primi registi italiani ad analizzare il cinema da un punto di vista teoretico in quanto mezzo di comunicazione di massa e come depositario dell’immaginario collettivo. Per il regista il cinema diventò, grazie al suo potere di seduzione e alla tendenza degli spettatori ad identificarsi con gli eventi e i personaggi sullo schermo, un veicolo attraverso cui il gusto popolare incontrava i prodotti simbolo della società industriale, nonché un circuito di scambio tra la nuova società di consumatori e i produttori di artefatti culturali. In ambito cinematografico De Santis ha sempre ricoperto un ruolo determinante, a partire dai suoi articoli e dalle sue prime recensioni cinematografiche scritte per «Cinema», alla sua collaborazione come scrittore e sceneggiatore, fino alla partecipazione in film pre-neorealisti e neorealisti. Dopo tutti questi anni sono fermamente convinto che la storia del cinema italiano non potrebbe essere scritta senza includere il suo nome e che la sua carriera oltre a far capire il cinema italiano insegna molto sul ruolo della politica nelle vicende culturali. La decisione di riscrivere e aggiornare il testo in italiano è nata da una promessa fatta al regista e che ho voluto mantenere.

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Ringraziamenti

De Santis diceva sempre che tutti i film, e i suoi in particolare, erano sforzi collettivi e collaborativi. Con il suo modo di fare candido e umile, il regista ha ricordato il ruolo importante e inestimabile ricoperto da coloro che collaborarono con lui ai suoi film, tra cui Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Otello Martelli, Anna Gobbi, Goffredo Petrassi, Piero Portalupi ed Elio Petri. Allo stesso modo porgo la mia gratitudine a coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto. In primo luogo devo ringraziare De Santis che mi ha messo a disposizione il suo archivio e dato le fotografie. Per la traduzione vorrei ringraziare Elisa Piovesana che ha fatto la prima stesura poi da me rivista ed ampliata. Nella redazione del manoscritto ho ricevuto assistenza dall’insostituibile Corrado Donati, che mi ha aiutato nella revisione del testo. Un grazie particolare va anche a Carlo Lizzani che ha riletto e commentato il testo e per aver scritto la prefazione. Sono inoltre grato ai miei amici italiani che hanno espresso commenti costruttivi. I miei ultimi ringraziamenti e tutta la mia gratitudine vanno a Giuseppe De Santis e Gordana Miletic, il cui grande aiuto, ospitalità e cordialità, sono stati incommensurabili. A. V. Bloomington, Indiana

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parte prima

Un profilo biografico

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Capitolo 1 I primi anni di De Santis. Da Fondi a Roma Figlio di quei ciociari della costa i cui antenati tempo addietro avevano abbandonato le loro donne in pasto alle voglie dei predoni turchi, arabi e saraceni. Giuseppe De Santis

Giuseppe De Santis, figlio di Oreste De Santis e Teresa Goduti, nacque a Fondi, un piccolo paese a dieci chilometri dal Tirreno, l’11 febbraio 1917. Come ricordò in un articolo del 1969, il futuro regista trascorse la sua adolescenza crogiolandosi indolentemente al sole come una lucertola, mangiando i fichi d’india che crescevano a grappoli lungo i fossi e innamorandosi delle figlie di contadini e operai1. All’epoca dell’adolescenza di De Santis, Fondi contava circa diecimila abitanti ma rappresentava un importante punto di passaggio sulla strada tra Roma e Napoli. A tredici anni De Santis venne mandato in un collegio cattolico, il San Leone Magno, gestito da un’ordine mariano francese. Ogni fine settimana e durante le vacanze estive De Santis tornava alla sua Fondi, abitudine che continuò perfino dopo che l’intera famiglia si trasferì a Roma, affinché il padre potesse trovare un impiego migliore come ingegnere civile. Nella giovane mente di De Santis, la lontananza da Fondi e da quelle spensierate estati aveva conferito alla sua terra natale un’atmosfera mitica, che il regista ha sempre cercato di ricreare attraverso varie forme di espressione artistica. Nei suoi anni da studente universitario a Roma, dove contemplava spesso i dipinti di Renato Guttuso, De Santis scrisse che in quelle opere, che parlavano della Sicilia, riecheggiavano immagini del suo paese in Ciociaria. I ricordi d’infanzia e della sua adolescenza erano popolati da pianure abitate da contadini e pescatori in cui crescevano ulivi, fichi d’india, aranci e limoni, attraversate da vecchie strade polverose e canali2. Durante le lunghe vacanze 1 Si veda Giuseppe De Santis, Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, in Callisto Cosulich (a cura di), Verso il neorealismo: Un critico cinematografico degli anni quranta, Roma, Bulzoni, 1982, p. 36. 2 Giuseppe De Santis, lettera inedita a Giovanni Grazzini, Le gouaches di Guttuso per Riso amaro.

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estive De Santis entrò in contatto con alcuni intellettuali di Fondi e di altre parti della Ciociaria, fra cui il poeta Libero De Libero3. Quest’ultimo, come De Santis, viveva a Roma e trascorreva i suoi mesi estivi a Fondi. Fu De Libero a spingere il giovane De Santis ad avvicinarsi alla poesia dialettale ciociara. Terminato il collegio, De Santis si iscrisse al Liceo Giulio Cesare dove conobbe Massimo Serato e Massimo Girotti, entrambi futuri attori famosi. Nel 1937 De Santis si iscrisse alla Facoltà di Lettere all’Università di Roma, dopo aver superato l’esame di maturità da privatista. Non raggiunse mai la laurea dal momento che traeva maggiore soddisfazione personale nello scrivere poesie, racconti e romanzi piuttosto che nel portare a termine i suoi studi formali. I suoi primi racconti si aggiudicarono il primo e il secondo premio, rispettivamente nel 1938 e nel 1939, agli annuali Littoriali organizzati dal regime fascista4. Da studente universitario preferiva le letture di celebri scrittori come Francesco Mastriani, Jack London, Émile Zola e Victor Hugo, piuttosto che i testi richiesti dai suoi programmi universitari. Fu durante questo periodo che De Santis entrò in contatto con diversi giovani intellettuali che avrebbero influenzato la sua vita e che avebbero ricoperto un ruolo determinante nelle sue attività future. Fra questi ci fu il critico Gianni Puccini5, il più vecchio dei fratelli Puccini, il quale offrì a De Santis l’opportunità di scrivere per la rivista «Cinema»6, che a fine anni trenta era la pubblicazione più letta sul tema. Con l’aiuto delle sue nuove conoscenze De Santis si guadagnò l’entrata nel circolo associato alla rivista «Meridiano di Roma»7 e poté così conoscere alcuni dei più importanti scrittori e artisti del tempo. De Santis era anche un habitué di Cometa, la 3 De Libero scrisse un articolo descrivendo il loro incontro. Si veda Libero De Libero, Ciociaro come la Ciociaria, «Milano sera», 18 ottobre 1950, pp. 19-20. 4 Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 19622. 5 Gianni Puccini, (Milano, 1914 – Roma, 1968) fu uno dei più grandi critici e sceneggiatori del periodo neorealista. Studiò all’Università di Roma e al Centro Sperimentale e tra il 1940 e il 1943 scrisse per la rivista «Cinema». Puccini scrisse inoltre delle sceneggiature per Visconti, De Santis, Lizzani e Nanni Loy. Girò diversi film nello stile neorealista, quali Il carro armato dell’8 settembre e I sette fratelli Cervi. Dopo la morte di Gianni, suo fratello minore, Massimo Mida Puccini realizzò un film, Il fratello, basato sulla loro relazione. 6 Sull’offerta di Puccini: Giuseppe De Santis, Ripensando ai tempi di «Cinema prima serie», in Verso il neorealismo, cit., p. 33. 7 In «Meridiano di Roma» De Santis pubblicò il suo primo racconto, Paese, un ritratto immaginario di suo nonno.

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galleria d’arte di Libero De Libero, situata in un’ala del palazzo Pecci Blunt vicino al Campidoglio. Lì molti giovani pittori promettenti quali Cagli, Mirko, Mafai e Purificato, in seguito conosciuti come “Scuola Romana”, tenevano le loro prime mostre. De Santis scrisse che fu quello il momento in cui si rese conto che la scrittura non era il mezzo di espressione adatto a dare forma al suo mondo. Nessuna forma artistica in sé era sufficiente ad esprimere ciò che sentiva. Per questa ragione si avvicinò al cinema, il mezzo che, racchiudendo le caratteristiche della musica, della recitazione e della pittura, gli dava l’opportunità di raccontare le storie a cui era più legato8. De Santis decise di frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, fondato da Mussolini nel 1935, con l’obiettivo di insegnare la teoria e la pratica della cinematografia. Al Centro Sperimentale De Santis si avvicinò alle opere di Pudovkin tradotte da Umberto Barbaro. Barbaro, assieme a Luigi Chiarini, gli insegnò ad apprezzare i film della scuola formalista russa, di Eisenstein, del regista americano King Vidor, degli espressionisti tedeschi e dei francesi Marcel Carné e Jean Renoir9. Questa ricca esperienza culturale, assieme all’amicizia con Gianni Puccini, lo aiutò nel suo lavoro di critico per la rivista «Cinema». Il giovane De Santis si era già fatto conoscere come scrittore promettente in seguito alla pubblicazione di alcuni racconti in 8 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, in «La rivista del cinema italiano» I/2, (gennaio-febbraio 1953), p. 20. 9 Su questo tema si veda Massimo Mida, Cinema e antifascismo: Testimonianza su un genesi, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 275-285. Gli anni tra il 1925 e il 1939 videro un crescente interesse nei confronti dell’America, che si riflesse in un certo numero di libri, quali America primo amore (1935) di Mario Soldati e America amara (1939) di Emilio Cecchi, che ebbero una grossa influenza sulla generazione di De Santis. L’America che De Santis vide e amò era quella descritta nei film hollywoodiani. Nel 1920 furono prodotti 220 film italiani. Il numerò crollò a 12 nel 1928 e quando il giovane De Santis iniziò ad andare al cinema, gli oltre 3000 cinema italiani proiettavano quasi esclusivamente film importati. Il cinema americano vecchio stile ebbe un enorme impatto. Come dichiarato in una nostra intervista il 22 ottobre 1989 alla Wake Forest University, anche De Santis ne fu profondamente influenzato e, come egli stesso affermò, tutto cominciò con una grande ammirazione per la democrazia americana tra il 1934 e il 1936. De Santis proseguì asserendo che la democrazia era la più alta forma di libertà ed i film americani rinforzarono il suo ideale e modello di democrazia. Fra i film che più apprezzava c’erano quelli di King Vidor, specialmente Alleluja!, che si svolge in una piantagione di cotone ed evolve attraverso i vari drammi personali che danno forma alla struttura. Come affermò De Santis, questo film fu di grande ispirazione per Riso amaro.

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famose riviste del tempo, fra cui «L’Italia letteraria», «Il selvaggio» e «La ruota»10. Tuttavia fu l’esperienza come critico cinematografico per «Cinema» a forgiare le sue aspirazioni artistiche e a fargli conoscere le complessità della politica e della cultura europea. Nonostante De Santis sia conosciuto prevalentemente per la sua carriera di regista, i suoi scritti come critico cinematografico sono altrettanto importanti e sono di fatto essenziali per lo studio e la comprensione della rinascita del cinema italiano prima del neorealismo. In qualità di responsabile della rubrica Film di questi giorni, a cui diede vita a partire dal 1942, De Santis diventò la forza motrice nella promozione e nello sviluppo di un nuovo tipo di cinema, che all’epoca definì come un cinema alla ricerca di cose e fatti all’interno di un tempo e uno spazio realistici con il fine di redimersi dalle convenzioni semplicistiche del gusto borghese11. L’esperienza come scrittore per «Cinema» cambiò completamente lo stile di vita di De Santis. L’incontro con Gianni Puccini e con il suo circolo, composto da giovani quali Mario Alicata e Pietro Ingrao, attirò lentamente l’aspirante artista nel mondo della politica e nel pericoloso movimento clandestino contro lo stato fascista. Come De Santis ammise durante una delle nostre conversazioni, furono il coraggioso esempio e la dedizione dei suoi amici che lavoravano per «Cinema» a spronarlo a diventare un anti-fascista.

10 In collaborazione con Gianni Puccini De Santis scrisse una sceneggiatura per il film di Camillo Mastrocinque Don Pasquale e una sceneggiatura per un film che non fu mai realizzato, I figli di Zorro. 11 Mario Alicata e Giuseppe De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema» 127 (10 ottobre 1941), p. 217.

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Capitolo 2

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Un membro del circolo di «Cinema» Tutto quanto io venivo scrivendo con le mie critiche era prima ancora che dentro di me, al di fuori di me: era nell’aria, nel clima che a mano a mano, come una macchia d’olio, aveva cominciato ad allargarsi conquistando l’animo e la coscienza del cinema italiano più insofferente. Giuseppe De Santis

Nei primi anni quaranta il circolo di «Cinema» comprendeva Michelangelo Antonioni, Domenico Purificato, Dario, Gianni e Massimo Puccini, Carlo Lizzani, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti, Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis, Mario Alicata e Luchino Visconti. Quest’ultimo nel 1941 pubblicò il famoso articolo Cadaveri, che diventò immediatamente una sorta di manifesto per i membri più giovani del gruppo. Quello stesso anno Luchino Visconti aveva scritto altresì, per un’altra rivista, «Tradizione ed invenzione», un articolo accompagnato da splendide illustrazioni del pittore Renato Guttuso in cui esprimeva il suo desiderio di dirigere un film basato su I malavoglia di Giovanni Verga, aspirazione che vide realizzata sette anni dopo con il film La terra trema (1948). Fu durante quegli anni che Giuseppe De Santis intraprese un’intensa collaborazione intellettuale con Mario Alicata, dalla quale scaturirono i saggi più celebri ed importanti sullo sviluppo del realismo nel cinema italiano, fra cui Verità e poesia: Verga e il cinema italiano e Ancora di Verga e del cinema italiano1. Un’analisi della collaborazione fra De Santis e Alicata rivela molto sulle origini della battaglia per il realismo nella cinematografia. In uno studio di Sebastiano Martelli, Il crepuscolo dell’identità, Mario Alicata è identificato come il principale architetto della politica del Partito Comunista nei confronti del Mezzogiorno durante gli anni cinquanta, una politica che condusse alla nascita della narrativa e della cinematografia realista appartenenti alla cultura del Sud, sviluppati in seguito come modelli. Martelli spiega che il ruolo di Alicata nello sviluppo della politica culturale del Partito Comunista nel Sud durante gli anni cin1 L’ultimo articolo fu scritto in risposta alla critica di Fausto Montesanti nei confronti del primo. Si veda Fausto Montesanti, Della ispirazione cinematografica, «Cinema» 129 (10 novembre 1941), pp. 280-281.

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quanta era autoritaria ed egemonica e prosegue affermando che Alicata aveva influenzato fortemente il PCI, fornendo addirittura i parametri critici per l’interpretazione e l’analisi di tale cultura e delle sue tradizioni2. Le affermazioni di Martelli riguardo l’influenza di Alicata negli anni cinquanta sono corrette, ma il suo peso sulla politica culturale del PCI può essere retrodatato agli anni quaranta, e più precisamente agli anni in cui il circolo di «Cinema» comprendeva i nomi menzionati all’inizio di questo capitolo3. Da questa posizione Alicata, armato di un formidabile arsenale culturale e intellettuale, era in grado di imporre i suoi giudizi e il suo orientamento politico. Gli altri membri del circolo riconoscevano la sua incisività e la sua abilità nel calcolare l’impatto delle sue proposte culturali. Questa osservazione non è di poco conto se si considera che nel giugno del 1940 Alicata diventò assistente del professor Natalino Sapegno nel Dipartimento di Letteratura Italiana dell’Università di Roma ed aveva già iniziato a scrivere per «Primato», la rivista diretta dall’allora Ministro dell’Istruzione Pubblica, Giuseppe Bottai. «Primato» rappresentava uno dei tentativi più inusuali messi in atto dal regime fascista per reclutare nuovi collaboratori fra i migliori intellettuali del tempo. «Primato» era nota per aver pubblicato poesie di scrittori quali Cesare Pavese, Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. Già nei primi anni quaranta la creazione di un cinema più “realistico” era un interesse condiviso da molti esponenti dell’industria cinematografica, nonostante il termine “realismo” rimandasse a vari significati e solo pochi dei giovani che scrivevano per «Cinema» lo recepissero come una velata ideologia politica contro la censura fascista4. Uno degli articoli di Alicata pubblicato nel numero di «Cinema» del 10 febbraio 1942 lamenta il fatto che quasi tutti i personaggi dei loro film mancavano di una storia, erano animati da cliché e da rimasugli sentimentali e vivevano in luoghi anonimi e stantii. Alicata prosegue affermando che per chi, come loro, aveva una propensione a girovagare per le strade alla ricerca della poesia delle cose reali, risultava incomprensibile 2 Sebastiano Martelli, Il crepuscolo dell’identità, Salerno, La Veglia Editore, 1988, p. 14. 3 Dopo il 1926 il movimento antifascista in Italia ebbe vita breve. Tutti i partiti politici erano stati banditi da Mussolini, ma un’organizzazione comunista fantasma continuava ad operare in segreto, forse come unico partito esistente oltre al fascismo stesso. Negli anni ‘40, durante la collaborazione con «Cinema», Alicata, Ingrao, Puccini e altri erano tutti membri del partito comunista clandestino che operava a Roma. 4 Su come il gruppo di «Cinema» utilizzasse un linguaggio in codice per esprimere le proprie idee politiche, si veda Pietro Ingrao, Luchino Visconti: L’antifascismo e il cinema, in «Rinascita», 26 marzo 1976, p. 6.

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l’incapacità degli sceneggiatori di adattarsi alla realtà umana di quegli ambienti impersonali5. In un altro articolo scritto a quattro mani da Alicata e De Santis, i due affermano di aspettarsi dal cinema italiano maggior fiducia nella poesia della verità e nell’uomo. Il loro augurio è di riuscire a creare un cinema moderno che si discosti dal modello retorico del dannunzianesimo di «Cabiria» da un lato e dai paradisi borghesi inesistenti dei night club di Via Nazionale dall’altro6. In un altro articolo ancora, De Santis e Alicata sostengono che non sia possibile comprendere e interpretare l’uomo se questo è isolato dal contesto in cui vive ogni giorno e dagli elementi con cui comunica quotidianamente7. Questi passaggi sono l’evidenza di come «Cinema» avesse un duplice scopo: in primo luogo la promozione del cinema come forma d’arte e, in secondo luogo, l’espressione di un’insoddisfazione generale nei confronti dello stato dell’arte dell’epoca. Gli scritti di Alicata erano di natura dialettica e teoretica, mentre quelli di De Santis, nei quali si identificava il gruppo nella sua totalità, erano più aggressivi, profondi e personali. Nel 1969 De Santis raccontò come a poco a poco il circolo di «Cinema» iniziò a sviluppare una consapevolezza politica che andava via via conquistando la coscienza di quella parte del cinema italiano che viveva con impazienza quel periodo, per quanto insidioso questo fosse durante il regime fascista. La motivazione di De Santis era così forte che nessuno, nemmeno la censura, lo avrebbe fatto desistere dal raggiungimento del suo scopo8. Per comprendere appieno l’affermazione di De Santis, è necessario ricordare cosa fosse la rivista e cosa rappresentasse per gli intellettuali del gruppo. «Cinema» nacque il 10 luglio 1936 ed era concepita sullo stile di «Sapere», la rivista più venduta dei primi anni quaranta. La rivista cinematografica era stata fondata dall’editore Ulrico Hoepli per dare spazio agli aspetti tecnici e artistici del lavoro di regia. La redazione comprendeva il famoso teorico tedesco Rudolf Arnheim e Corrado Pavolini, assistiti da Domenico Meccoli, Francesco 5 Mario Alicata, Ambiente e società nel racconto cinematografico, «Cinema» 135 (10 ottobre 1942), pp. 279-281. 6 Mario Alicata e Giuseppe De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, cit., p. 217. 7 Mario Alicata e Giuseppe De Santis, Ancora di Verga e del cinema italiano, in «Cinema» 130 (25 novembre 1941), p. 315. 8 Giuseppe De Santis, Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie in Verso il neorelismo, cit., pp. 35-36.

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Pasinetti e Gianni Puccini. Un anno dopo Luciano De Feo lasciò la casa editrice Hoepli per la Rizzoli e la direzione della rivista passò nelle mani dell’appassionato di cinema Vittorio Mussolini, figlio del duce9. Questa si rivelò una sequenza fortunata di eventi in quanto garantì i fondi e la pubblicità necessari a mantenere clandestina un’operazione politica. Al cambio della redazione corrispose un mutamento nell’approccio. La rivista intraprese un percorso nuovo e più aggressivo, tendenza che diventò tanto più marcata quando Giuseppe De Santis divenne responsabile della rubrica dedicata alle recensioni cinematografiche. La prima rubrica firmata dal regista ciociaro, L’ispirazione sensibile, fu pubblicata nel numero di Natale del 1940. Con tono cauto De Santis esamina i meriti del cinema sonoro e muto, un tema piuttosto fuori moda per i primi anni quaranta. Questo articolo era piuttosto diverso da quelli che avrebbero in seguito reso De Santis la personalità più in vista del gruppo. Nei suoi scritti più maturi dimostrò il suo acume nel giudicare lo spettacolo e lo scultoreo linguaggio figurato e offrì altresì i primi spunti e suggerimenti per una cinematografia nazionale più realistica. Al fine di comprendere maggiormente l’importanza e l’impresa dell’intero gruppo, e di De Santis in particolare, è necessario innanzitutto comprendere come e perché il regime permise a questi giovani, tutti dichiaratamente antifascisti10, di dirigere l’unica rivista di cinema in Italia con una tiratura significativa (De Santis affermò che Cinema raggiunse una tiratura di 12.000 copie). La sola altra rivista di cinema di quegli anni, «Bianco e nero», curata dal professor Luigi Chiarini, era uno strumento del Centro Sperimentale ed aveva pertanto una struttura tecnica e specializzata. «Cinema», al contrario, aspirava a portare svariate questioni cinematografiche all’attenzione del pubblico comune. Sotto la direzione di Vittorio Mussolini la rivista beneficiò di un certo grado di tolleranza politica, che permise agli scrittori di prendere le distanze dalle direttive del regime e di adottare un punto di vista imparziale e più critico. Il controllo relativamente limitato aprì le porte ad opportunità e concessioni che venivano sempre più negate ad altri campi dell’attività artistica e culturale e permise al movimento cinematografico di quegli anni di diventare un vero e proprio movimento d’avanguardia. 9 Su come iniziò «Cinema» e come fu in seguito assegnata a Vittorio Mussolini si veda Gianni Puccini, I tempi di «Cinema», in «Filmcritica» 5 (maggio 1951), pp. 151-155. 10 Vittorio Mussolini ha sempre sostenuto di non essere mai stato consapevole delle idee antifasciste dei suoi subalterni. Si veda Jean A. Gili, Le Cinéma italien à l’ombre des faisceaux (1922-1945), Parigi, Institut Jean Vigo, pp. 209-244.

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Secondo De Santis questo margine di tolleranza era attribuibile a vari fattori, uno dei quali era la disorganizzazione e l’inefficienza del regime. Altri fattori erano l’alto tasso di analfabetismo nell’Italia fascista ed il fallimento del governo nel riconoscere il potenziale del mezzo cinematografico come strumento per forgiare la coscienza politica delle masse. Le opinioni di De Santis su questo tema sono in accordo con quelle del critico Gian Piero Brunetta, il quale attribuiva al fascismo il merito di aver riconosciuto l’evidente natura popolare e sociale dell’arte cinematografica, pur avendone allo stesso tempo sottovalutato il potenziale impatto sulle strutture sociali. Tale impatto, secondo Brunetta, fu eccessivamente enfatizzato dai neorealisti e dagli intellettuali di sinistra negli anni del dopoguerra. De Santis sosteneva inoltre che il grande merito (o colpa) del regime era precisamente quello di aver anticipato le tecniche della “tolleranza repressiva”. Inoltre, affermava De Santis, fu proprio questa politica che condusse il regime a focalizzare l’attenzione sui “film dei telefoni bianchi”11 piuttosto che sulle grosse produzioni propagandistiche. La sua spiegazione è condivisa da Brunetta, il quale scrisse che le produzioni fasciste puntavano a una propaganda indiretta piuttosto che a un approccio esplicito, evitando soggetti eroici e temendo la “retorica”. Secondo Brunetta questo atteggiamento si spiega con una sorta di complesso d’inferiorità che nasce dalla paura del giudizio degli intellettuali, i quali erano ancora considerati in qualche modo slegati dalle direttive di partito12. Le concessioni e le opportunità accordate a «Cinema» permisero a De Santis di dare voce alla sua insoddisfazione artistica nelle recensioni dei film di quel periodo e di stimolare la ricerca di qualcosa di nuovo, che fosse più rappresentativo della realtà storica italiana. Un’analisi generale su un campione di tali recensioni, suddivise per genere, confermerebbe l’importanza del contributo di De Santis nella diffusione di un cinema realista e artistico. Nel 1942 il mercato italiano era dominato da produzioni nazionali protette da leggi contro la concorrenza internazionale. L’allora Ministro della Cultura Popolare, Alessandro Pavolini, aveva stabilito la quota di produzione annuale a 140 film, cifra che non sarebbe mai stata raggiunta13. Sebbene l’inizia11 Per una definizione esauriente di questo termine si veda Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo. 12 Gian Piero Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre: Fascismo e politica cinematografica, Milano, Mursia, 1975, p. 75. 13 Alessandro Pavolini, Il rapporto della cinematografia italiana, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo, cit., p. 37.

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tiva di produzione del governo avesse dato spazio a molti nuovi registi e il livello medio di competenza tecnica e artistica fosse aumentato, in linea generale, con poche eccezioni, i film italiani rimasero di mediocre qualità, con la tendenza a seguire tecniche e schemi narrativi obsoleti. Ciononostante il pubblico li approvava in assenza di alternative. Inoltre questi film soddisfacevano il crescente bisogno di svago da parte della popolazione in vista dell’imminente sconfitta militare. De Santis sosteneva che il cinema italiano potesse essere diviso in generi unici: commedia sentimentale, commedia di spirito, commedia “tout-court”, musical, racconto di avventura storica, rari film di propaganda esplicita14 e quelli di tendenza formalista. Di quelli che rientravano nell’ultimo gruppo, Mario Soldati e Renato Castellani erano i registi più rappresentativi. Secondo De Santis i loro film non erano niente più che tradizionali film in costume all’italiana che intendevano riaffermare l’immagine della nazione come culla della cultura medievale e rinascimentale15. Il “comico-sentimentale” era sinonimo di cinema dei “telefoni bianchi”, cui attribuiva un linguaggio artificioso e la mancanza di un reale nodo drammatico, paragonandolo allo stile di René Clair. I film italiani, affermava, mancavano da una parte, della verità sociale per dimostrare le problematiche dell’epoca e dall’altra dell’ideologia necessaria a sostenere un punto di vista. Dal momento che l’energia creativa e l’immaginazione erano assenti, la componente comica derivava da situazioni meccaniche. Si può riconoscere a De Santis il merito di aver salvato dalla disapprovazione dei critici due film di questo genere: Un garibaldino al convento (1942) di De Sica e Quattro passi fra le nuvole (1943) di Alessandro Blasetti. Del primo scrisse che si trattava del solo esempio in Italia fino a quel momento di cinema “corale”, in contrasto con la tendenza a privilegiare l’egocentrismo astratto di pochi attori chiusi fra quattro mura o in salotti lussuosi16. Del secondo, basato sul soggetto 14 Sull’uso della propaganda nei film durante il periodo fascista si veda Gian Piero Brunetta, Cinema italiano fra le due guerre, cit., pp. 74-81. 15 Peter Bondanella sostiene che la critica ai registi che tra il 1940 e il 1943 si dedicarono ad adattamenti della finzione naturalistica di fine ottocento o primi del novecento è ingiustificata. Pur ammettendo che tali registi evadevano le problematiche contemporanee, Bondanella sostiene che avevano acquisito delle valide competenze che sarebbero tornate utili nei loro contributi al cinema italiano del dopoguerra. Si veda Peter Bondanella, Italian Cinema from Neorealism to the Present, New York, Ungar, 1990, pp. 21-22. 16 Giuseppe De Santis, Un garibaldino al convento, in «Cinema» 139 (10 aprile 1943), p. 118.

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e sulla sceneggiatura di Cesare Zavattini e Piero Tellini, apprezzava lo sviluppo di temi ricchi di significati occulti e autenticità. In questo caso ammirava del protagonista la perfetta sottigliezza psicologica che conferiva coerenza e consistenza ai suoi comportamenti grazie alla linearità e alla semplicità nel racconto della storia, esattamente come accade nella vita reale: era un aspetto dell’ideologia estetica che De Santis e il suo gruppo avevano a lungo cercato17. Il giovane critico colse ogni opportunità per promuovere le sue idee a favore di un nuovo cinema radicato nelle realtà sociali. Per esempio nella sua recensione negativa18 di Harlem (1943) di Carmine Gallone, film sui gangster americani, De Santis deplora il modo in cui l’industria cinematografica italiana scelse l’America per ottenere guadagni economici, affidandosi a degli stereotipi per catturare l’immaginazione del pubblico. Il mito americano era parte della vita italiana. Tuttavia De Santis sosteneva che i registi italiani avrebbero dovuto guardare indietro ai romanzi di Faulkner, che rivelavano le molteplici realtà americane, anziché utilizzare sceneggiature banali e stereotipate, come quella scritta da Emilio Cecchi e Sergio Amidei per Harlem. Il regista inoltre obiettò la descrizione poco realistica delle sale da ballo e le descrizioni convenzionali dei personaggi di colore. Questa osservazione, forse relativa all’articolo Il jazz e le sue danze19 anch’esso scritto nel 1943, conferma il ruolo di De Santis nella promozione di un tipo di cinema più realistico. In quest’ultimo articolo il futuro regista lodò King Vidor per aver compreso la profonda importanza del jazz e degli spiritual per i neri. De Santis cita la sequenza di danza in Alleluja! (1929) di Vidor in cui il fratello minore di Zebe (il protagonista nero) balla il tip tap durante uno spiritual. Nel commento di De Santis King Vidor, più di ogni altro regista, comprese che il ballo alleviava la miseria, la frustrazione ed il senso di oppressione dei neri, un fattore importante completamente ignorato dai registi italiani degli anni quaranta. Le critiche di De Santis mirano dunque a stimolare la ricerca di un cinema sempre più rappresentativo delle realtà sociali e culturali. Per ciò che riguarda i film sulla propaganda De Santis elogiò Vecchia guardia (1935), ancora di Alessandro Blasetti, riconoscendo il forte slancio emozionale di questo regista e la sua spudorata sincerità 17 Giuseppe De Santis, Quattro passi fra le nuvole, in «Cinema» 157 (10 gennaio 1943), p. 152. 18 Idem, Harlem in Verso il neorealismo, cit., pp. 195-198. 19 Idem, Il jazz e le sue danze in Verso il neorealismo, cit., pp. 65-68.

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nel rappresentare le imprese delle squadre fasciste, che il regime stesso non aveva intenzione di esaltare20. La critica più dura di De Santis rivolta alla scuola formalista21 appare nella recensione ad Un colpo di pistola (1942) di Renato Castellani, in cui riconosceva nelle colonne d’avorio e nei candelabri bianchi una proiezione in scala ingrandita dei telefoni bianchi con i quali la cinematografia aveva a lungo simpatizzato22. De Santis, così come l’intero gruppo di «Cinema», attaccava la tendenza al formalismo perché la considerava il principale ostacolo al raggiungimento di un cinema realistico in cui la campagna italiana comparisse come parte integrante, assieme ai suoi abitanti e ai suoi lavoratori. Questa nuova visione della cinematografia spinse De Santis ad esprimere nero su bianco il desiderio di portare le macchine da presa in mezzo alle strade, nei i campi e nelle fattorie, per realizzare un cinema che seguisse il ritmo lento e affaticato dei lavoratori che rientravano a casa dopo una lunga giornata di lavoro23. Attraverso i suoi articoli settimanali su «Cinema» De Santis sviluppò un dialogo coerente e continuativo i cui obiettivi erano la promozione di un nuovo tipo di cinema che rimpiazzasse l’estetica dominante e restrittiva dell’Italia degli anni quaranta, un cinema con un obiettivo politico e sociale ben definito. In quegli anni De Santis e l’intero circolo di Cinema rappresentavano l’avanguardia in tale ricerca. Il periodo del dopoguerra, così come l’incontro con un momento storico diverso, ed il ruolo del nuovo governo nel marginalizzare certi tipi di produzioni cinematografiche avrebbero dissipato il coeso impulso creativo, ma gli sforzi di questi giovani anti-fascisti lasciarono un’impronta duratura nella cinematografia nazionale italiana.

20 De Santis non ha mai recensito questo film del 1935, ma durante le nostre conversazioni lo ha sempre elogiato per queste caratteristiche. 21 A questo gruppo appartenevano anche i “Calligrafi”, termine coniato da De Santis per descrivere coloro che combinavano una preoccupazione formalistica a una ritrattazione del passato, ricostruendolo con decoro e bellezza. 22 Giuseppe De Santis, Un colpo di pistola in Verso il neorealismo, cit., p. 144. 23 Ibidem.

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Capitolo 3 Un sogno che si avvera. Da «Cinema» a Ossessione Scrivevo e avevo voglia di dipingere quadri; immaginavo un dialogo di personaggi sulla carta e mi veniva voglia di recitarlo o di realizzarlo mimicamente. E fu per questa ragione, io credo, che scoprii il cinema: quel mezzo cioè che, assommando in sé i modi e gli atteggiamenti della pittura, della musica, della rappresentazione mimica e insieme della parola avrebbe potuto darmi la possibilità, qualunque essa fosse, di narrare le storie che mi stavano a cuore. Giuseppe De Santis

De Santis aspirava a diventare uno scrittore. Senza arrivare a sostenere, come fa Alberto Farassino, che i primi scritti del futuro regista servivano da preparazione alla regia, si può riconoscere un’attrazione per la componente visiva nei suoi saggi e nelle sue recensioni pubblicate su «Cinema». In Sogni del cineasta, del 1941, De Santis scrive riguardo al suo desiderio di realizzare film1. In un altro dei suoi primi articoli, Stampe,2 lo sforzo di comunicare attraverso immagini è evidente. L’articolo utilizza riproduzioni di stampe del diciottesimo secolo per parlare della moda e dei costumi dei bambini, con didascalie di poche parole. Questi due articoli sono solo piccoli passi nel lungo percorso che condurrà De Santis alla regia. Al Centro Sperimentale De Santis girò un breve film, intitolato La gatta, con Vittorio Duse. La copia è stata persa o presa dalle truppe tedesche in ritirata, assieme a molte altre opere mancanti dalla cineteca. Tuttavia De Santis ha raccontato3 che si trattava di una storia verghiana di passione e vendetta4. Un contadino molto geloso ritorna a casa e, sopraffatto dalla rabbia, uccide la moglie che ha colto in atto di adulterio. La sceneggiatura era basata su un soggetto scritto da De Santis, circostanza che mette in luce una sua caratteristica distintiva rispetto al resto dei registi del dopoguerra, i quali di rado scrivevano le proprie sceneggiature. 1 Giuseppe De Santis, Sogni del cineasta, in «Cinema» 118 (16 giugno 1941). 2 Idem, Stampe, in «Cinema» 123 (10 agosto 1941). 3 Intervista con De Santis condotta da Antonio Vitti nell’aprile 1991 nella casa di De Santis a Fiano Romano. 4 Giovanni Verga (1840-1926) seguì la tradizione realista nell’arte italiana, concentrandosi prevalentemente, nei suoi racconti, sulle passioni umane. La terra trema di Luchino Visconti è basato sul romanzo di Verga I malavoglia.

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La strada che conduceva alla carriera di regista negli anni quaranta era molto lunga ed estremamente difficoltosa. Giovani aspiranti registi dovevano sottoporsi a lunghi apprendistati che consistevano in piccoli lavori o posti da aiuto regista, assistenti della prima o della seconda unità e altri incarichi. Tutti i giovani intellettuali del tempo che aspiravano a diventare registi cercavano di guadagnarsi l’entrata in uno dei vari gruppi che lavoravano a Cinecittà. Dal momento che uno dei prerequisiti per diventare regista era quello di aver girato un documentario, l’Istituto LUCE (l’Unione Cinematografica Educativa che produceva documentari e cinegiornali, visionava e censurava cinegiornali stranieri) era la scuola per coloro che volevano farsi strada5. Lo stesso De Santis aveva proposto a LUCE due documentari che, a giudicare dal titolo, erano indicativi della dicotomia tra campagna e città che avrebbe caratterizzato i suoi successivi lavori. Il primo, intitolato Fiera di paese, descriveva la fiera nella sua nativa Fondi. L’altro, Cortile, descriveva un cortile realizzato con vecchie scale francesi nel quartiere romano di San Lorenzo6. Nessuna di queste sceneggiature fu mai girata, destino comune a molte altre nel corso della sua carriera. Girare e promuovere documentari era una pratica comune del tempo, come conferma anche un rapido sguardo agli articoli e recensioni pubblicati nelle riviste di cinema. Tuttavia gli scritti di De Santis promuovono nello specifico la forma del documentario per il rinnovamento del cinema nazionale. Nella recensione a Portofino (1942) di Guido Paolucci, De Santis identificò il documentario come il modello che il cinema italiano degli anni quaranta doveva imitare al fine di creare uno stile più autentico e innovativo, e scrisse che la forma del documentario era l’unica opportunità offerta alla nuova generazione per fare esperienza ed acquisire fiducia nella cinematografia7. Un concetto simile è espresso in un articolo più conosciuto, Per un paesaggio italiano8, in cui De Santis affermava che solo attraverso una fusione tra il documentario ed il film era possibile trovare la formula per un autentico cinema nazionale italiano. Il giovane criticò 5 Sul ruolo giocato dall’Istituto LUCE durante il regime fascista si veda James Hay, Popular Film Culture in Fascist Italy: The passing of the Rex, Bloomington, Indiana University Press, 1987, pp. 201-232. 6 Intervista con De Santis, cit. 7 Giuseppe De Santis, Portofino, in Verso il neorealismo, cit., p. 76. 8 Idem, Per un paesaggio italiano, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo, cit., pp. 198-201.

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i registi italiani contemporanei perché non includevano il paesaggio nazionale nelle loro rappresentazioni. Invocando l’esempio dei grandi pittori italiani che riproducevano il paesaggio, sia per enfatizzare l’aspetto sentimentale di un ritratto che per conferire maggiore drammaticità alla composizione, De Santis caldeggiava un cinema in cui i protagonisti dei film riflettessero gli elementi del paesaggio e concludeva affermando che il paesaggio senza l’uomo non ha significato, e viceversa. Questo saggio era accompagnato da quattro illustrazioni: la prima tratta da I cavalieri del Texas di King Vidor, la seconda da Piccolo mondo antico di Mario Soldati, la terza da Tabù di Friedrich Wilhelm Murnau e Robert Flaherty e la quarta da Ganja, un documentario lettone. Come afferma Stefano Masi9, questa selezione eterogenea di film e documentari era rappresentativa dei gusti cinematografici dei giovani intellettuali che lavoravano per «Cinema», i quali dimostravano ammirazione per King Vidor, per il ricorso al paesaggio reale da parte di Soldati e per lo stile documentaristico e naturalistico di Robert Flaherty. Le preferenze cinematografiche del gruppo sono confermate da De Santis in due articoli scritti in collaborazione con Mario Alicata, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano e Ancora di Verga e del cinema italiano. Questi due saggi esprimono il nodo cruciale di alcune componenti essenziali dei futuri film di De Santis e dei suoi progetti culturali, ovvero un ritorno ai modelli letterari realisti come fonte di ispirazione cinematografica, supportato dalla consapevolezza che il realismo non è una riproduzione passiva di una verità statica ed oggettiva, ma una forza creativa. Come ha affermato Millicent Marcus, questa concezione del realismo può essere letta come il rifiuto di una trascrizione passiva del mondo fenomenico in favore di una interpretazione dinamica delle forze che ne stanno alla base10. De Santis confermò questa concezione di realismo nel 1981 in Cinema, sud e memoria, in cui scrive che i paesaggi inquadrati dalle cineprese, gli attori non professionisti e le scene di realtà quotidiane sono solo elementi secondari del neorealismo. Il regista deve essere in grado di catturare la sostanza più complessa della vita e di scegliere una prospettiva attraverso cui mostrare le problematiche ed i momenti più significativi della condizione umana, compresi quelli più umili e 9 Stafano Masi, Giuseppe De Santis, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 24. 10 Millicent Marcus, Italian Film in the Light of Neorealism, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1986, p. 15.

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apparentemente meno significativi. In questa prospettiva, la banalità e l’ovvietà smettono di essere tali per diventare poesia11. Questa affermazione sembra essere in contraddizione con ciò che Alicata e De Santis avevano scritto nel 1941 in Ancora di Verga e del cinema italiano, in cui affermavano di voler portare la loro cinepresa nelle strade, nei campi e nelle fattorie, seguendo i passi stanchi e lenti del lavoratore che ritorna a casa per creare il loro film più bello.12 Tale dichiarazione a favore di un racconto naturalistico senza mediazioni era parte di un programma più ampio dell’intero gruppo di «Cinema». Questa affermazione in qualche modo contraddittoria può essere legata alla loro ammirazione per l’approccio lirico di King Vidor e per i documentari basati sui fatti di Robert Flaherty. I vari membri del gruppo, incluso De Santis, hanno affermato in diverse occasioni che nonostante nei primi anni quaranta non avessero una precisa consapevolezza critica di quali sarebbero stati gli sviluppi futuri, erano tuttavia ben consapevoli della rottura stilistica che volevano raggiungere e, a questo scopo, stavano studiando vari modelli e alternative senza essere sicuri di come metterle in accordo. Nel 1942 dopo la recensione di Un pilota ritorna13 di Rossellini, un film che De Santis aveva trovato mediocre a causa della sua evidente demagogia e retorica14, il giovane regista lasciò la rivista «Cinema» per sei mesi per seguire Visconti come aiuto regista nella realizzazione del mitico Ossessione. Il film era il risultato di un lungo e faticoso progetto e, come riportano alcuni critici15, di un incontro casuale sul traghetto 11 Giuseppe De Santis, Cinema, sud e memoria: Il regista Giuseppe De Santis racconta, in «Paese sera»,18, 22 e 29 luglio; 1 e 5 agosto 1981. 12 Mario Alicata e Giuseppe De Santis, Ancora di Verga e del cinema italiano, cit., p. 315. 13 Giuseppe De Santis, Un pilota ritorna, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di) Dai telefoni bianchi al neorealismo, cit., pp. 257-260. 14 Il giovane critico non aveva colto alcuni aspetti già anomali rispetto alla retorica dominante dell'epoca, come poi gran parte della critica recente ha riconosciuto al film di Rossellini a partire dalle osservazioni di Carlo Lizzani nel suo testo sulla storia del cinema italiano che per primo ne aveva colto accenti nuovi e antiretorici. 15 In merito all’incontro sul traghetto per Capri il giorno di Pasqua del 1940 si veda Mira Liehm, Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, cit.Questo famoso incontro è citato anche in Giuseppe De Santis di Alberto Farassino, cit., p. 10. Gianni Puccini fu il primo a raccontare dell’incontro in Il venticinque luglio del cinema italiano, «Filmcritica» 24 (dicembre 1953), p. 340-41. De Santis mi ha raccontato che, durante il viaggio a Capri, cercò di persuadere Visconti a realizzare il film Palude/Ossessione tra Sperlonga e Fondi, luogo in cui, nel 1950, avrebbe girato Non c’è pace tra gli ulivi.

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per Capri. De Santis aveva incontrato per la prima volta Visconti durante una visita con Karl Koch, che si trovava a Roma come assistente di Jean Renoir per la produzione della Tosca di Puccini. De Santis e Puccini avevano già lavorato assieme alla sceneggiatura ispirata a L’amante di Gramigna di Verga16. La sceneggiatura, scritta da Puccini e De Santis, fu in seguito presentata all’allora Ministro della Cultura Popolare, Pavolini, il quale rifiutò il progetto perché non voleva approvare un film sul banditismo. Visconti e De Santis avevano lavorato anche al trattamento cinematografico di Le Grand Meaulnes di Alain Fournier prima di dedicarsi a Ossessione17. La sceneggiatura di Ossessione, intitolata in un primo momento Palude, fu scritta da Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Luchino Visconti. Il film, che porta l’indelebile stile di Visconti, incarna gli ideali del gruppo di «Cinema». Lino Micciché, che ha studiato a lungo Ossessione, afferma che il film esibisce i segni del discorso cinematografico di Visconti, ma rappresenta allo stesso tempo il momento culminante di una battaglia di gruppo, nata in maniera confusa e contraddittoria alla fine degli anni trenta e divenuta più definita tra la fine della guerra civile spagnola e l’inizio della seconda guerra mondiale, momento in cui un’intera generazione era chiamata a riconsiderare il passato per proporre un nuovo futuro. Micciché prosegue affermando che tale percorso aveva acquisito dei contorni definiti nel 1941, quando la polemica promossa da «Cinema» aveva raggiunto un’unità e uno scopo comune18. Il film era considerato il compimento dei loro sforzi ed il loro manifesto artistico. L’incipit di Ossessione è ricordato dal gruppo anche come l’inizio delle azioni repressive da parte della polizia sull’intero circolo. Il gruppo di «Cinema» finì sotto il minuzioso esame dell’organizzazione segreta della polizia, l’OVRA. Il “Cineguf” a Roma (un’organizzazione cinematografica per studenti universitari durante il regime fascista), dove il gruppo era solito incontrarsi, venne chiuso. Durante le riprese del film nel 1942 Dario e Gianni Puccini furono arrestati assie16 Mario Puccini, padre di Gianni, Massimo e Dario, era un critico letterario molto conosciuto e uno studioso che aveva conosciuto Giovanni Verga di persona e aveva lavorato ai dialoghi di Gramigna. 17 Carlo Lizzani, Tra due età, in Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 81. 18 Lino Micciché, Visconti e il neorealismo, Venezia, Marsilio Editori, 1990, pp. 29-30.

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me a Marco Cesarini Sforza. Una settimana più tardi anche Mario Alicata venne arrestato e Pietro Ingrao sfuggì per poco alla cattura, grazie ad una telefonata di De Santis, il quale, seguendo un piano concordato, lo avvisò non appena seppe dell’arresto di Alicata19. De Santis, come quasi tutti nel circolo di «Cinema», ha scritto o parlato in pubblico in merito alla genesi e alla realizzazione di Ossessione20. Il regista di Caccia tragica, in un articolo pubblicato nel 1984 da «Cinema Nuovo»21, rivisse l’esperienza come assistente della prima unità incaricato dei dettagli dello sfondo. In una relazione molto personale pronunciata alla Conferenza di Lingue Romanze, Letterature e Film alla Purdue University il 7 ottobre 1989, De Santis parlando del film disse che Ossessione non era un film neorealista, ma era il più estremo atto di trasgressione contro il fascismo possibile a quel tempo. In quella occasione ricordò inoltre di come aveva provato più volte a spingersi oltre, suggerendo a Visconti di aggiungere storie e dettagli sullo sfondo, come i mutilati di guerra, ma che quest’ultimo lo aveva dissuaso, non senza ragione, a causa del contesto politico e affermò di aver inserito per reazione fin troppi dettagli nel suo primo film, Caccia tragica. Durante la collaborazione per Ossessione, De Santis incontrò Giovanna Valeri, sua futura moglie, che lavorava come segretaria di produzione. In quel periodo stava lavorando anche ad un libro sul cinema francese prima della guerra, con uno sguardo speciale a Renoir, Clair e Duvivier22. Il libro era parte di una serie di dodici volumi che dovevano essere pubblicati da «Cinema», progetto che non venne mai realizzato a causa degli eventi storici che precipitarono con la caduta del fascismo e la resa dell’Italia. Nella primavera del 1943 De Santis lasciò il suo lavoro come critico cinematografico per seguire come aiuto regista Roberto Rossellini, il quale era rimasto molto colpito da Ossessione, in un film che doveva intitolarsi Scalo merci. Il luogo delle riprese sarebbe dovuto essere la Stazione Tiburtina di Roma, tra i ferrovieri. Secondo 19 Sulla formazione di “Cineguf” e sul suo ruolo nella promozione di giovani talenti per il cinema italiano, si veda Philip V. Cannistrato, La fabbrica del consenso fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 301. 20 Anche Alberto Moravia aveva lavorato alla sceneggiatura, ma il suo nome non venne incluso nei crediti a causa delle leggi razziali contro gli ebrei promulgate nel 1938. 21 Giuseppe De Santis, E con Ossessione osai il primo giro di manovella, in «Cinema nuovo» 3 (giugno 1984), e 4/5 (agosto/ottobre 1984). 22 Giuseppe De Santis mi ha fornito questa informazione durante una delle nostre conversazioni nella sua casa di Fiano Romano nel 1991.

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De Santis, Rossellini gli concesse molta più libertà di quella che gli aveva accordato Visconti durante le riprese di Ossessione. De Santis è inoltre l’artefice dei quindici minuti di riprese girati prima che il bombardamento del luglio 1943 nel distretto di San Lorenzo a Roma interrompesse la lavorazione del film23. Dopo i raid aerei Rossellini spostò il cast nelle montagne di Tagliacozzo, in Abruzzo. De Santis, che era impegnato nella resistenza urbana contro i tedeschi, decise di rimanere a Roma. Il titolo del film fu tramutato quindi in Rinuncia, ma Rossellini non lo portò a termine, abbandonando il progetto quando l’8 settembre del 1943 fu annunciata la resa da parte del nuovo governo di Badoglio. Due anni dopo Marcello Pagliero terminò il film, utilizzando ciò che Rossellini aveva già girato, e lo intitolò Desiderio. Più che una risposta a Ossessione, come hanno affermato molti critici, il film è uno specchio del clima culturale e del temperamento di coloro che hanno lavorato alla sceneggiatura. Scalo merci è la storia di una donna che ritorna al suo paese natale alla ricerca di pace dopo un profonda delusione d’amore. Anziché trovarvi la tranquillità, si scopre costantemente vittima della propria sensualità. L’incontenibile sessualità del film richiama l’atmosfera fortemente erotica di Ossessione. Il 10 settembre 1943 Roma fu occupata dai tedeschi. Prima della sua liberazione, De Santis, Gianni Puccini, Mario Socrate, Aldo Scagnetti, Franco Calamandrei e Antonello Trombadori scrissero una sceneggiatura sulle attività del Gruppo d’Azione Partigiana (GAP), partigiani urbani della capitale, lavorando segretamente nello studio del produttore Alfredo Guarini in Via del Traforo a Roma24. Il progetto era stato promosso da Trombadori, il quale aveva esperienza diretta della guerriglia urbana. Il progetto deve essere registrato come uno dei primi tentativi di riprendere le attività dei partigiani a Roma, anticipando Roma città aperta di Rossellini. All’interno della sceneggiatura compariva una notizia del tempo, ovvero l’incidente di una donna colpita a morte da dei proiettili tedeschi in Viale Giulio Cesare. La ricostruzione dell’evento fu in seguito inserita in Roma città aperta e la scena fu interpretata da Anna Magnani. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, non era più possibile impedire la produzione cinematografica e coloro che erano coinvolti nella cine23 Questa informazione trova conferma anche in una lettera inedita scritta a De Santis da Elio Parvo, di Tagliacozzo, datata 14 settembre 1945, in cui menziona il lavoro svolto da De Santis a Roma. 24 Jean A. Gili, Le cinéma italien à l’ombre des faisceaux (1922-1945), cit., p. 156.

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matografia, appartenenti a qualsiasi movimento politico clandestino, si unirono nel nuovo Sindacato Lavoratori del Cinema, per dare vita ad una nuova industria cinematografica italiana. Tuttavia gli alleati la pensavano in maniera diversa. In una direttiva consegnata dall’ammiraglio di divisione americano Emery W. Stone, dichiararono che la nuova Italia non necessitava di una nuova industria cinematografica. Affermarono inoltre che l’industria cinematografica esistente, una creazione del fascismo, doveva essere smantellata. Nonostante i piani degli alleati, quasi tutti coloro che avevano avuto esperienza di regia o di stesura di sceneggiature erano ansiosi di realizzare film o di scrivere sceneggiature sugli eventi drammatici di cui erano stati testimoni. Come De Sica scrisse nel ricordare quei giorni, l’esperienza della guerra fu di cruciale importanza. Chiunque stava bruciando dal desiderio incombente di gettare le vecchie storie del cinema fuori dalla finestra per rimpiazzarle con le immagini orribili che erano impresse nei loro occhi25. Giorni di gloria e La nostra guerra sono i primi film documentaristici sulla resistenza e sulla lotta antifascista. Il primo è il risultato della collaborazione fra Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Luchino Visconti e Mario Serandrei, che si occupò del montaggio e della supervisione generale. Questo film a episodi è la celebrazione della fine del fascismo, di una ritrovata libertà ed un invito aperto ad unirsi nell’obiettivo comune di creare un futuro migliore. Il film combina spezzoni di cinegiornale, materiale documentaristico girato durante la guerra ed episodi ricostruiti della lotta partigiana. I commenti furono scritti da Umberto Barbaro, il quale è anche il narratore di uno degli episodi del film. Il materiale documentaristico e le sequenze ricostruite delle lotte partigiane utilizzano un linguaggio cinematografico molto simile a quello impiegato dai registi durante il fascismo. Le somiglianze sono evidenti nel ritmo, negli approcci iniziali, nei tagli e nelle soluzioni stilistiche. I partigiani in azione o mentre prendono posizione sono rappresentati in atteggiamenti eroici, mentre il loro valore e il loro impegno sono sottolineati dalle affermazioni retoriche del narratore. Le sequenze che celebrano la liberazione delle città settentrionali sono anch’esse girate nello stile dei documentari di LUCE. I partigiani che marciano sono ripresi da sotto, in riprese ad angolo basso, mentre la cinepresa stacca spesso sulla folla 25 Vittorio De Sica, Roma città aperta, in L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1939, cit., p. 90.

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esultante, ripresa con un’angolazione leggermente rialzata per dare l’impressione di un maggior numero di persone e per enfatizzarne la solidarietà. Alfonso Canziani, riferendosi a Giorni di gloria26, scrisse che probabilmente questo segnava l’inizio della celebrazione retorica della Resistenza. Canziani aggiunse che alcune sezioni degli episodi di Visconti, Pagliero e De Santis ostentavano una rottura con il linguaggio cinematografico dei precedenti film sulla guerra. Visconti ebbe la fortuna di registrare il processo di Pietro Caruso, capo della polizia fascista di Roma durante l’occupazione tedesca, e la sua successiva esecuzione assieme al suo collaboratore Pietro Koch27. Le riprese del procedimento penale dimostrano l’estrema abilità di Visconti nell’elaborare una notizia di cronaca in un episodio narrativo in grado di catturare l’attenzione del pubblico. La tensione del momento è comunicata attraverso un’alternanza di primi piani degli accusati e dei loro avvocati con campi lunghi che rivelano le reazioni della folla, dei testimoni e dei parenti delle vittime. Al fine di utilizzare al massimo le possibilità drammatiche del momento, Visconti utilizza due macchine da presa. Questo gli permette di immortalare anche il più piccolo dettaglio, come il gesto irato di una mano o le rughe sul volto di una donna disperata. De Santis, incaricato in un primo momento di filmare le sequenze sull’esumazione dei corpi, fu sopraffatto dalla nausea nell’entrare nelle catacombe. Il compito fu pertanto affidato a Marcello Serandrei e a De Santis toccò il terzo episodio, che racconta la ricostruzione della nazione. Il tono di questa sezione è molto ottimista e mostra ciò che le nuove forze stanno facendo per ricostruire l’Italia dalle rovine della guerra. L’influenza del cinema realista russo è molto evidente. L’approccio utilizzato nel descrivere la ricostruzione urbana e le tecniche con cui sono presentati i lavoratori coinvolti richiamano alla memoria Sergei Eisenstein e Dziga Vertov. Il treno che attraversa il ponte appena ricostruito nella scena conclusiva anticipa lo spezzone del treno in Caccia tragica, primo film di De Santis, che attraverserà le pianure dell’Emilia Romagna trasportando i veterani di guerra. 26 Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, cit., p. 270. 27 Luchino Visconti fu arrestato durante il rastrellamento che seguì la fucilazione di 335 ostaggi alla Fosse Ardeatine nel marzo del ‘44, massacro compiuto dai tedeschi come rappresaglia per gli attacchi subiti dalle loro truppe. Visconti, condannato a morte, evase con l’aiuto delle guardie e, nel ‘45, tornò a lavorare a teatro finchè un gruppo americano di guerra psicologica gli chiese di riprendere processi ed esecuzioni di Pietro Koch e Pietro Caruso.

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Un altro dei primi film sulla Resistenza realizzato immediatamente dopo la fine della guerra e la liberazione nazionale è Il sole sorge ancora. Come attesta il titolo, il film continua il discorso sulla lotta antifascista e sulla ricostruzione nazionale intrapreso con Giorni di Gloria dall’ex circolo di «Cinema». Sia la trama che la sceneggiatura furono scritte da De Santis, Guido Aristarco, che fornì informazioni di prima mano sulla Resistenza milanese, e Carlo Lizzani, che recita anche il ruolo principale di Don Camillo, il prete. Prima dell’inizio delle riprese De Santis, assieme a Lizzani e a Massimo Mida Puccini, si era trasferito a Milano per rilevare la rivista «Film» da Mino Doletti. Sotto la nuova gestione la rivista, ribattezzata «Film d’oggi», fu completamente rivoluzionata. Il primo numero, pubblicato l’1 giugno 1945, era ricco di fotografie, inchieste cinematografiche e interviste, un genere ancora nuovo a quel tempo28. De Santis, il cui ruolo era prevalentemente consultivo, continuò a pubblicare occasionalmente degli articoli, uno dei quali, La giusta via, annunciò Il sole sorge ancora, che considerava un punto di riferimento. Secondo il regista questo film indicava al cinema italiano la via da seguire, ovvero quella del realismo29. Il progetto iniziò fra una miriade di problemi e ritardi, ma fu alla fine portato a termine grazie alle abilità organizzative e alla mediazione di Libero Salaroli, che era stato coinvolto dal regista. Il film fu finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) e prodotto dall’ex comandante dei partigiani Giorgio Agliani, che fungeva da consulente ad Aldo Vergano, il regista. Vergano era stato preferito a Goffredo Alessandrini perché il primo era stato un antifascista mentre il secondo aveva avuto a che fare con l’industria cinematografica fascista30. De Santis aveva collaborato come aiuto regista della prima unità e, secondo Lizzani, giocò un ruolo determinante nella definizione dei modelli stilistici del film. Il futuro regista di Riso amaro ha spesso minimizzato il suo ruolo, ma, come scrisse Alberto Farassino, se il film 28 Giuseppe De Santis, L’ANPI presenta, in Franca Faldini e Goffredo Fofi, (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1935-1959, cit., pp. 118-119. 29 Giuseppe De Santis, citato da Mira Liehm in Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, p. 61. 30 Giuseppe De Santis, L’ANPI presenta, in Franca Faldini e Goffredo Fofi, (a cura di) L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 19351959, cit., p. 119.

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mostra il marchio di un maestro nella sua eterogeneità tecnica, questo deve essere attribuito a De Santis31. Alla sua uscita, il film venne criticato per il suo eccesso stilistico, per l’uso di elementi eterodossi nel lessico del film e per la riduzione del mondo ad una lotta manichea tra classi sociali rigide. Queste obiezioni furono simili a quelle dirette a film successivi che portano la firma di De Santis. Con questo non si intende affermare che De Santis sia il responsabile sia dei meriti artistici che dei difetti di quest’opera. Tuttavia, lo stile e l’attenzione alla composizione evidenti nel film, sono tipici del regista. L’attenzione è incentrata su alcuni dettagli in particolare, come la radio, nuovo simbolo dei mezzi di comunicazione emergenti. Questo elemento assieme alla supremazia accordata alla partitura musicale e alla colonna sonora distingueranno in seguito il suo discorso cinematografico sui mass media da quello dei registi suoi contemporanei. Molte sequenze anticipano lo stile generale di De Santis. L’influenza dei western americani, ad esempio, è evidente nelle scene finali del film. Qui, sulle pianure lombarde, i partigiani organizzano l’ultima carica contro i tedeschi. Scendendo dalle colline in groppa a un cavallo o nascosti come indiani in mezzo a branchi galoppanti, gli antifascisti aiutano eroicamente i contadini nella rivolta. Lo stile delle riprese ricorda anche quello utilizzato in molti western, con una serie di stacchi veloci fra primi piani di contadini che sparano dalle finestre e soldati tedeschi nei cortili sottostanti. Un’altra scena che porta il suo marchio è l’esecuzione di Don Camillo. Qui il sacerdote sprona tutti a recitare litanie mentre viene condotto di fronte al plotone d’esecuzione. La risposta corale della folla crea un crescendo di tensione drammatica. L’effetto è avvincente, sia per la sua suspense che per il suo messaggio ispiratore. Espedienti drammatici simili appariranno nei successivi film di De Santis, così come l’amore per la modalità narrativa che è evidente in questa prima prova. Qui il triangolo d’amore tra i protagonisti è concepito come la fonte dei conflitti che serve ad unificare la trama.

31 Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit., p. 17.

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parte seconda

Il regista e i suoi film

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Capitolo 4 De Santis dietro la macchina da presa Che significa opporsi a ogni forma di violenza se non combattiamo con il nostro linguaggio di uomini del cinema quelle strutture sociali, quegli ambienti, quei caratteri che rendono possibile il perpetuarsi della violenza ... No, è troppo facile, e tanto più disonesto, suscitare miti, quando questi miti non ci costano che qualche centinaio di inquadrature montate in un certo modo. Ma è anche necessario, indispensabile, che ciascuno si renda conto, sottraendosi alla passività cui soggiace nel buio della sala cinematografica, di quale è questo “certo modo” ... Giuseppe De Santis

All’epoca del suo debutto cinematografico nel 1947, De Santis non aveva ancora formulato completamente la definizione di neorealismo teorico, che avrebbe redatto negli anni cinquanta1, ma dal suo primo film è evidente che si stava dirigendo verso un realismo dei contenuti piuttosto che verso una nozione rigida di forme o uno stile documentaristico romanzato. Nel realizzare Caccia tragica De Santis era consapevole della difformità del suo approccio cinematografico rispetto ai primi film di Rossellini e De Sica2. Il suo bagaglio personale e culturale era diverso dal loro e il suo impegno politico lo spinse a collocare le classi meno agiate al centro del suo mondo. La sua carriera iniziò come un progetto che si spingeva oltre la mera rappresentazione di eventi. Il suo obiettivo era quello di addentrarsi nelle radici dei problemi sociali per rivelarne le cause e per smascherarne i responsabili. Nel perseguire un approccio interpretativo, De Santis sperava di ampliare l’investigazione naturalistica della realtà. Caccia tragica guarda non solo ai dilemmi personali degli individui, ma anche alla capacità della gente di agire congiuntamente come membri di una classe sociale. De Santis si proponeva di ritrarre le caratteristiche psicologiche di un gruppo sociale che deve affrontare le 1 Mi riferisco a È in crisi il neorealismo? in «Filmcritica» 4 (marzo/aprile 1951), pp. 109-112, e Confessioni di un regista, cit., pp. 18-41. 2 Andrea Martini, Conversazione con Giuseppe De Santis: La ricerca realistica come impegno civile, in Vincenzo Camerino (a cura di), «Cinema e Mezzogiorno», Lecce, Specimen Edizioni, 1987.

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avversità di uno specifico momento storico. Nel suo insaziabile desiderio di svelare ed esporre i problemi e le loro cause, ha spesso rivestito i suoi film di un eccesso di dettagli, riaffermando e riformulando premesse in modo ossessivo, con lo scopo di promuovere un cinema che fosse accessibile a tutti e che potesse essere apprezzato a vari livelli. La sua preoccupazione principale era infatti quella di comunicare con le masse. Il pubblico a cui si rivolgeva aveva bisogno di essere coinvolto, stimolato e sfidato. Una delle vie attraverso cui cercò di raggiungere questo obiettivo fu la mediazione tra il melodramma e il documentario, che sfociava in una riflessione sulla partecipazione sociale, elaborata attraverso quei classici generi cinematografici. Il regista era altresì impegnato continuamente in una meditazione personale sulla natura stessa del cinema. A cominciare da Caccia tragica la filmografia di De Santis comprende molti esempi in cui si ricorda al pubblico che il cinema è uno spettacolo e una finzione costruita per mezzo di convenzioni artistiche. De Santis è sempre consapevole della messinscena e i suoi film sono carichi di riferimenti ad una tradizione cinematografica che è molto più di una mera rappresentazione fotografica della realtà. Per il regista l’iperbole e la finzione non sono in disaccordo con il concetto di cinema impegnato. Egli sapeva inoltre che, nell’immaginazione collettiva della gente, il fantastico e lo straordinario prevalgono sull’ordinario e il quotidiano. Ai suoi esordi il cinema affascinava le masse in virtù delle sue nuove e misteriose tecniche, sfruttando con successo gli archetipi del melodramma e del romanzo d’appendice, da cui traeva le sue storie. Il mistero, l’amore e l’avventura sono formule magiche molto ben codificate dal cinema tradizionale americano ed hanno permesso alla gente da tutto il mondo di sognare, piangere ed evadere dalla propria realtà quotidiana. De Santis è sempre stato conscio del fatto che il cinema era in grado di rappresentare solo un’approssimazione della realtà e che, per sua stessa natura, crea una propria forma di verità. Per questa ragione optò per il classico linguaggio convenzionale del cinema e per i suoi generi codificati con l’obiettivo di raccontare storie di realtà sociale che la burocrazia voleva sopprimere. La sua originalità risiede nelle soluzioni stilistiche adottate per creare un cinema popolare che fosse anche in grado di stimolare la consapevolezza critica del pubblico. De Santis osservò da vicino gli effetti del progresso, della meccanizzazione, della proliferazione di mezzi di comunicazione e della nuova era dell’elettronica, che introdusse telefoni, registratori e televisioni nell’uso comune. La sua analisi dei mezzi di comunica-

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zione di massa come depositari dell’immaginario collettivo è evidente nel suo frequente richiamo a questi fenomeni nelle sue pellicole. I suoi primi due film (in modo particolare il secondo, Riso amaro) apparvero in un periodo in cui, per la prima volta in Italia, si facevano sentire gli effetti della cultura di massa e del consumismo, nonostante fossero ancora assenti dalla discussione teoretica da parte dell’élite intellettuale e promuovono questa analisi facendo costante riferimento ai mass media. La medesima riflessione sarà presente in tutte le sue pellicole, ad eccezione di Non c’è pace tra gli ulivi3. Nelle analisi che seguono di tutti i suoi film, una particolare attenzione è riservata al ruolo dei mass media, all’influenza dei generi cinematografici classici, alle soluzioni stilistiche adottate e al ruolo giocato dai modelli e dalle strutture narrative. Si dovrebbe sottolineare che tutti questi elementi vi sono presenti in vari livelli. Nonostante le varianti in questi elementi strutturali e modali possano essere attribuite, in parte, ai discorsi teoretici, critici e storici in voga durante le varie riprese, sono per lo più il risultato della sensibilità artistica del regista nei confronti del suo mezzo. Nel 1946, dopo il suo lungo apprendistato, De Santis era ansioso di girare un suo film. Durante la collaborazione alle riprese di Il sole sorge ancora, aveva dato prova (ai produttori) della sua maturità artistica e delle sue abilità organizzative4. Nella primavera del 1946, all’età di trent’anni, assieme ad un gruppo di collaboratori composto per la maggior parte da vecchi amici, ex membri del circolo di «Cinema», compagni di scuola di vecchia data e compagni di partito, De Santis intraprese dunque la sua avventura come regista. Le riprese del suo primo film, Caccia tragica, iniziarono nella Bassa Padana, vicino a Ravenna e non lontano dal luogo in cui, quattro anni prima, aveva assistito Visconti nelle riprese di Ossessione. La scelta di questi luoghi era dettata da ragioni di natura politica, artistica, nonché sentimentale. La sinistra italiana aveva attribuito a quest’area un significato politico particolare, definendola la terra da cui il “Vento del Nord” soffia i suoi ideali rigeneratori di solidarietà, uguaglianza e democrazia a tutta l’Italia5. 3 In Non c’è pace tra gli ulivi De Santis lasciò da parte l’erotismo, l’influenza culturale americana e le influenze del fotoromanzo, scegliendo invece di aderire fedelmente all’originario palcoscenico culturale della sua regione natale. 4 Oltre al contributo artistico di De Santis al film, giocò altresì un ruolo centrale nel far sì che ANPI lo finanziasse. 5 Pier Giuseppe Murgia, Il vento del nord, Milano, SugarCo Edizioni, 1978.

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Da un punto di vista artistico e sentimentale la bellezza della valle del Po, con la sua ricca vegetazione, i canali e la sua tipica vita contadina, gli ricordava la pianura attorno alla sua nativa Fondi. Fondi, un paese agricolo di mercanti e piccoli proprietari terrieri, non era stata ritenuta un luogo adatto. Non aveva mai sviluppato cooperative di contadini e, nel periodo del dopoguerra, non aveva sperimentato un movimento per le riforme agrarie. De Santis e i suoi collaboratori trovarono nella popolazione ad alta densità e nei vasti campi dell’Emilia Romagna uno sfondo ideale per conferire autenticità alla loro produzione. Qui, in una campagna che portava ancora i segni delle atrocità del conflitto, gli eventi drammatici del movimento contadino nel dopoguerra stavano veramente avendo luogo. Caccia tragica6, basato su una notizia di cronaca riportata dal giornalista Lamberto Rem-Picci, racconta di una cooperativa di contadini che viene derubata da una banda di malviventi mascherati dei fondi risparmiati per affittare terra e bestiame. De Santis, con l’aiuto di Carlo Lizzani, Corrado Alvaro, Michelangelo Antonioni, Ennio De Concini, Umberto Barbaro e Cesare Zavattini, trasse un’elaborata sceneggiatura da tale notizia, creando in tal modo un precedente per la collaborazione del gruppo su sceneggiature ispirate a una storia di interesse umano, che diventerà una caratteristica tipica della filmografia di De Santis. In Caccia tragica si possono rintracciare influenze stilistiche dei film francesi, dei western americani, dei musical e del genere gangster, oltre ad allusioni ai film di Eisenstein e Dovzenko. Nella sua brillante monografia su De Santis, Farassino7 nota come il giovane regista, dopo aver aperto il film con una scena di stampo puramente viscontiano, esplicita in fretta il suo stile eterogeneo, in cui i vari modelli e i riferimenti cinematografici che facevano parte del suo bagaglio artistico sono tutti ben integrati. La macchina da presa, mossa da una gru, si sofferma brevemente sull’abbraccio di due amanti sul retro di un camion e poi si solleva per mostrare l’ambiente circostante. Oltre alla bellezza artistica, questo movimento della cinepresa è anche uno strumento narrativo utilizzato per passare dal personale al sociale, integrando entram6 Il titolo del film viene da un racconto di Chekhov, ma la trama si ispira a M di Fritz Lang (1931, Il mostro di Düsseldorf). In questo film ha luogo una caccia all’uomo per arrestare l’omicida di un bambino, che viene alla fine catturato da dei malavitosi e condannato a morte dal loro capo. Come per la storia di De Santis, la trama del film di Lang è tratta da una notizia. 7 Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit., p. 20.

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bi i livelli in un unico ambiente fisico. In uno dei suoi articoli redatti nel 1941 il regista parla dell’importanza del paesaggio come parte della messinscena, definendolo un elemento imprescindibile all’interno del quale i personaggi devono vivere, quasi riflettendone le caratteristiche, proprio come facevano i grandi pittori8. Il film fu accolto favorevolmente dai critici. All’ottava edizione del Festival del Cinema di Venezia vinse a pari merito un Nastro d’Argento come miglior regia e come miglior attore protagonista (Vivi Gioi). Durante la stessa edizione del festival, ricevette inoltre il primo premio come miglior film italiano. Nonostante i riconoscimenti in Italia, l’uscita del film fu preceduta da lunghe e aspre polemiche tra le due fazioni politiche che si contendevano le imminenti elezioni nazionali: il fronte Nazional-Popolare, che supportava il film, e i Democristiani, che, coalizzati con il clero, lo ostracizzavano. Di conseguenza, per ragioni politiche e propagandistiche, Caccia tragica uscì al pubblico solo tre giorni prima delle elezioni nazionali del 18 aprile 19489. In seguito alla sconfitta del fronte Nazional-Popolare, il film fu proiettato solo nelle città di provincia e nei teatri di terza categoria. Il clima ostile che fu responsabile della sua uscita ritardata e il pessimismo della sconfitta della sinistra contrastano drammaticamente con la trama ottimista e con il messaggio politico del film, in cui la solidarietà e la collaborazione dei contadini sono ricompensate e il loro successo nel recuperare i fondi rubati impedisce il tentativo del proprietario terriero di smantellare la loro cooperativa. Dopo le elezioni la pellicola fu in un primo momento interpretata come una dichiarazione delle tesi politiche e della strategia nazionale di sinistra ed etichettata come un minestrone 8 Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti (a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo, cit., pp. 198-201. 9 Caccia tragica uscì a Milano la settimana prima delle elezioni nei sei cinema più grandi e si contese gli incassi con Ninochka di Ernst Lubitsch. Il film di Lubitsch del 1939 è una commedia che tratta di una donna russa che sceglie lo stile di vita occidentale rispetto a quello del comunismo sovietico. Lo storico Giuliano Procacci, ricordando le elezioni, scrive che alla vigilia del voto il 18 aprile 1948 assieme ai pacchi di cibo e vestiti da parte degli americani arrivava anche una lettera in cui si chiedeva di votare per il partito sostenuto dall’America, ovvero la Democrazia Cristiana. Procacci prosegue affermando che, essendo il clero coinvolto nella battaglia elettorale, i voti arrivarono anche dalle monache di clausura, dai pazienti ricoverati negli ospedali e da coloro rinchiusi nei manicomi. Seguendo infatti un suggerimento giunto dai democristiani, il voto era diventato obbligatorio. Giuliano Procacci, History of the italian people, trad. Anthony Paul, New York, Harper and Row, 1970, p. 378.

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tutt’altro che artistico di dogmi ideologici preconcetti10. Tuttavia Caccia tragica non si proponeva come manifesto propagandistico. Si tratta di un capolavoro cinematografico in cui De Santis dimostra la sua abilità nell’inserire nuovi elementi cinematografici e narrativi all’interno di modelli, generi e stili di regia codificati. Grazie a questo suo primo film, il regista ampliò il linguaggio cinematografico italiano e rinnovò inoltre la tendenza neorealista che, dopo soli pochi anni di attività, attraversava già un momento di stasi. Caccia tragica è più di una glorificazione della solidarietà di classe e del raggiungimento del socialismo: è anche un’appassionante racconto drammatico su come la gente cerchi di superare il trauma della guerra, su come guarisca le proprie ferite e su come cerchi di conciliare le proprie differenze. La seconda guerra mondiale è appena finita e dei braccianti della Bassa Padana, che lavorano in cooperative, stanno rimuovendo le mine dai campi abbandonati e devastati per preparare il terreno alla coltivazione. Giovanna (Carla Del Poggio) e Michele (Massimo Girotti), da poco sposi, stanno tornando alla cascina della cooperativa a bordo di un camion che sta trasportando anche i tanto attesi sussidi governativi per affittare terre e bestiame. Alla fattoria l’euforia è alle stelle in vista di questa doppia occasione di festeggiamento. Il denaro, tuttavia, non arriva a destinazione. Una banda di malviventi alla guida di un’ambulanza ferma il camion e fugge con i soldi, prendendo i due sposi come ostaggi. Nel corso del furto Michele riconosce fra i banditi Alberto (Andrea Checchi), un ex compagno detenuto in un campo di concentramento tedesco. Il resto del gruppo è formato da Daniela/Lilì Marlene (Vivi Gioi), un ex soldato tedesco e un autista. I banditi trovano rifugio in una villa di campagna dove incontrano i loro complici, ovvero la fazione conservatrice dei proprietari terrieri. Nella via verso la cooperativa, Michele scopre che gli stessi proprietari terrieri si sono già rimpossessati della terra e degli attrezzi e stanno sfrattando i contadini. Tuttavia è reticente con i suoi compagni nel rivelare i dettagli del furto e il nome del suo compagno detenuto nel campo di concentramento. Gli altri contadini sono determinati a mobilitarsi e a raggiungere i banditi in fretta. Il rifugio della villa viene presto scoperto e circondato da braccianti armati, ma i banditi fuggono facendosi scudo con Giovanna. 10 Si veda Angelo Solmi, Caccia tragica non ha portato voti al fronte, il film di De Santis doveva essere l’antidoto di Ninotchka, «Oggi», maggio 1948, p. 21. Il titolo dell’articolo parla da solo.

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Lilì Marlene porta Giovanna all’ex quartier generale tedesco, protetto da delle mine, collegate elettronicamente ad un detonatore a distanza che si trova all’interno della villa dei proprietari terrieri. La banda decide di separarsi: Alberto e i suoi complici maschi devono prendere un treno, di solito zeppo di contrabbandieri, per scambiare i soldi con banconote straniere, mentre Daniela/Lilì Marlene rimarrà nascosta nella palude con Giovanna. I banditi cercano di confondersi in un treno pieno di reduci di guerra che attraversa la Valle del Po come parte di una campagna propagandistica per il fronte Nazional-Popolare. Il treno viene fermato. Michele individua Alberto e lo insegue, obbligandolo infine a rivelare il nascondiglio di Lilì Marlene. Due uomini giungono all’ex quartier generale, dove Alberto, ormai nauseato da tanti crimini, uccide Lilì Marlene prima che possa far saltare le mine. La sera, alla fattoria, i contadini organizzano un tribunale popolare per processare Alberto11. Dopo lunghe discussioni, concordano sul fatto che non sia colpevole, essendo stato il burattino dei proprietari terrieri, i quali hanno approfittato della sua povertà, disoccupazione, disperazione e alienazione. I contadini dicono ad Alberto dove può trovare lavoro e, mentre se ne va, gli lanciano piccole zolle di terra come augurio di buona fortuna e in segno di perdono12. Nel suo primo film De Santis dimostra la sua abilità nel combinare spettacolo e commento sociale, laddove considera il cinema un mezzo in grado di intrattenere ed istruire allo stesso tempo. De Santis non registra gli eventi come un racconto statico ma illustra le dinamiche delle forze in conflitto impegnate nella meticolosa metamorfosi del progresso. Le forze in opposizione di Caccia tragica sono i contadini e la componente conservatrice fra la classe dei proprietari terrieri, coadiuvata da alcuni individui strumentalizzati durante il regime fascista. Il reduce di guerra Alberto, che ha ceduto al fascino di Lilì Marlene, è la figura chiave del dramma13. Sono il suo cambiamento d’opinione e il suo atto di auto11 L’assoluzione di Alberto da parte dei contadini simbolizza ideologicamente il futuro di una realtà socialista, dove la giustizia verrà amministrata da processi proletari e non secondo il codice legale della borghesia. Nel 1975 Novecento di Bertolucci mette in scena un processo simile, quando Olmo chiede ai contadini di giudicare Alfredo Berlinghieri, il padrone. 12 Il gesto dei contadini assume anche un’altra valenza. Alberto ha salvato le terre dalla detonazione, pertanto il lancio delle zolle diventa simbolicamente un atto di riconciliazione tra l’uomo e la natura dopo gli orrori commessi durante la guerra. 13 Per un’interpretazione di Lilì Marlene in quanto inizio dell’aspirazione collettiva al piacere che, assieme al consumismo, culla e livella le barriere nazionali e sociopolitiche si veda Stefano Masi, Giuseppe De Santis, cit., p. 39.

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liberazione, rappresentati dall’omicidio di Lilì Marlene, a risolvere la pericolosa situazione. In particolar modo le sue azioni simboleggiano il trionfo della ricostruzione e della riconciliazione nazionale nei confronti del fascismo e del neofascismo. Le mine da terra oltre che le ferite di guerra dei veterani sono simboli tangibili delle cicatrici che devono essere rimarginate prima che la vita possa riprendere il suo normale corso. La ricostruzione per De Santis rappresentava il desiderio di forgiare una nuova identità nazionale basata su alcuni ideali della Resistenza14. Tipica dei western americani che influenzarono De Santis è la riduzione semplicistica del conflitto a una lotta tra bene e male. Dai western deriva anche l’immagine del treno, simbolo di progresso, di conquista territoriale e del legame tra le due coste. Il treno carico di reduci che attraversa la Valle del Po ha anche un altro significato. In Caccia tragica diventa, come nella tradizione cinematografica russa, un mezzo per diffondere nuove ideologie politiche. Alcune caratteristiche, come le riprese con la gru che inquadrano la folla di braccianti per poi discendere isolando in fotogrammi individuali i veterani di guerra che attraversano i campi in blocco, sono simili alle tecniche utilizzate per mostrare configurazioni di gruppo nelle produzioni dei musical americani. È proprio dai grandi musical americani che il regista apprese a seguire le masse e a isolare gli individui al loro interno in singole inquadrature. Nell’attenzione riservata ai veterani, sia individualmente che come elementi dello sfondo che diventano parte integrante del paesaggio, De Santis esprime una condanna esplicita, seppur non verbale, nei confronti della guerra fascista. Come ha scritto Guglielmo Monetti: «Caccia tragica ripensa il cinema americano secondo la struttura degli ideali socialisti, rifacendosi soprattutto al motivo della consapevolezza che segue l’errore, caratteristico dei personaggi di Pudovkin»15. Un’altra scena significativa è la disputa tra Alberto e Michele, messa in scena in una piazza pubblica piena di biciclette lasciate dai contadini che stanno assistendo ad un raduno politico. Il litigio, di cui sono testimoni solo oggetti inanimati, le biciclette, e a cui fanno da contorno le voci e i suoni fuori campo del raduno, si svolge nello stile delle rese dei conti nei film western. Qui ancora una volta il regista è abile nell’aggiungere un tocco personale. L’utilizzo delle biciclette abbandonate anziché di 14 Mario Cannella, Ideology and Aesthetic Hypothesis in the Criticism of Neorealism, «Screen» 14/4 (inverno 1973/74). 15 Guglielmo Monetti, Studio su Caccia tragica, Siena, Nuova Immagine, 2004, pp. 16-17.

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comparse crea una simbiosi tra gli uomini e le proprie biciclette. L’effetto visivo crea un forte impatto emozionale: le file di biciclette riportano alla memoria in modo suggestivo la devastazione della guerra, impossibile da ottenere altrimenti attraverso una panoramica sulla folla urlante. Sicuramente, come De Santis suggerisce nel suo articolo Per un paesaggio italiano del 1941, le biciclette sono elementi descrittivi ed essenziali che raccontano la quotidianità di questi uomini. Nel 1946, mentre gli altri registi neorealisti discutevano riguardo ad un cinema basato sulla vita quotidiana e alla rappresentazione oggettiva della realtà nell’illusione che quest’ultima potesse descrivere da sé una data situazione attuale, De Santis era ben consapevole che un film è, al massimo, una rappresentazione possibile della realtà, una sua “immagine”. Come ha scritto Giacomo Gambetti: Il racconto, con tutti i suoi significati "allargati", con tutti i suoi riferimenti e le sue allusioni, è per altro assolutamente credibile e verosimile, soltanto che si faccia riferimento alla realtà di quegli anni, di cui il film è nello stesso tempo documento, testimonianza, prova, memoria, senza alcun elemento decorativo. Soltanto chi volesse cancellare i fatti e la storia potrebbe mettere in dubbio tali valori16.

Per il regista, le notizie e i documentari erano solo materiale grezzo per creare trame da trasformare in una nuova realtà cinematografica. De Santis commenta la natura dualistica del cinema, reale e illusoria, in una sequenza simbolica di Caccia tragica: Michele e Giuseppe entrano in casa di Alberto e si trovano di fronte dei bambini mascherati che festeggiano il carnevale17. Ignorando la sorpresa sul volto degli intrusi, i bambini li invitano ad unirsi ai festeggiamenti. Quando i due rifiutano, il più grande dei bambini si toglie immediatamente la maschera e una bambina sposta di lato una tenda che nasconde un foro in uno dei muri. Attraverso il foro i due adulti possono osservare Il Camoscio, uno dei complici di Alberto, il quale è appena sceso dalla macchina e, ignaro di essere spiato, si sta lucidando le scarpe. Michele allora interroga la 16 Giacomo Gambetti in Caccia tragica. Un inizio strepitoso. Marco Grossi e Virgilio Palazzo (a cura di), Fondi, «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», 2000, p. 12. 17 I critici italiani che recensirono Caccia tragica trovarono la sequenza dei bambini in maschera troppo intellettuale e non necessaria. Si veda, per esempio, Lorenzo Quaglietti, Situazione del cinema realistico, «Rassegne» (autunno 1954).

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bambina riguardo a Lilì Marlene e Alberto, ma prima che possa rivelare ciò che sa interviene il bambino più grande, Eugenio. Frustrato e arrabbiato, Michele spinge a terra Eugenio. Segue una piccola lotta ed Eugene, aiutato dagli altri bambini, si rialza in piedi, si rimette la maschera e riprende a giocare. Qui, il gioco tra realtà e illusione è espresso dall’atto di mettere e togliere la maschera. L’intenzione di De Santis è quella di dimostrare che la realtà artistica è costruita su convenzioni, ma che la convenzione è come la realtà. Giuseppe e Michele, rifiutando di indossare le maschere, sono incapaci di prendere parte alla finzione dei bambini. Al fine di entrare per un momento nel mondo degli adulti, Eugenio si toglie la maschera, simbolo del mondo dei giochi e della fantasia. Quando la bambina sposta la tenda che copre il foro, i protagonisti intravvedono un’altra realtà. In queste scene De Santis sta rivelando alcuni presupposti nascosti del mezzo cinematografico. Ci sta dicendo che la realtà non necessariamente parla da sé in modo intellegibile a tutti, ma ha bisogno di uno scenario, di un’esposizione e di una forma. Come le maschere rappresentano il mondo dei giochi e la fantasia dei bambini, la macchina da presa diventa, per De Santis, uno strumento divertente con il quale esplorare e giocare. Caccia tragica mostra tutta l’esuberanza di un giovane regista impegnato nel suo primo film. È certamente una storia che parla del periodo del dopoguerra, della ricostruzione, dei problemi che devono affrontare i soldati che tornano alle loro case e della riforma agraria, ma è anche un film sul mestiere del regista. Qui De Santis mette in pratica le tecniche di grande spettacolo, gli ideali dell’impegno sociale e una riflessione autocosciente sulla natura del cinema. Il film ha un approccio ottimista. È l’unica pellicola di De Santis in cui la realtà esaminata non è in contrasto con la realtà storica del tempo. Il film ricostruisce, in una traiettoria ascendente, le immagini di solidarietà e rinascita sociale che la Resistenza ha generato per la sinistra italiana, aspettative dissolte dalla sconfitta politica del fronte Nazional-Popolare nel 1948. Il messaggio centrale dei film successivi di De Santis, a cominciare da Riso amaro, non è più una riflessione sul dibattito ideologico principale del tempo. In questi film la distanza tra il messaggio cinematografico e il momento storico e socio-politico si amplia e non è mai colmata.

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Capitolo 5 E poi venne Silvana: Riso amaro (1949) La critica cinematografica di sinistra si mostrò veramente moralista. A proposito di Riso amaro la stampa di sinistra si produsse in manifestazioni di moralismo zdanovista, veramente aberrante. Qualcuno scrisse addirittura che il mio film costituiva un attentato alla moralità delle mondine. Giuseppe De Santis

A fine ottobre del 1949 nelle pagine de «L’Unità» Davide Lajolo diede il via al primo dibattito nazionale sul film. La maggior parte dei critici italiani coinvolti dimostrò la propria impreparazione nell’affrontare un film esuberante come Riso amaro, che sarebbe presto diventato un successo commerciale mondiale. Le critiche si limitavano a commentare la credibilità della storia e l’improbabile fusione fra una storia d’amore melodrammatica e una tematica socialmente impegnata. La causa principale della perplessità dei critici era l’ostentata sensualità delle protagoniste, che motivava le loro azioni, e l’esplicito erotismo manifestato dall’allora sconosciuta diciottenne Silvana Mangano (Silvana Melega nel film)1. Tali distrazioni, lamentavano i critici socialmente impegnati, distoglievano l’attenzione del pubblico e oscuravano il messaggio politico dell’unione di classe e della solidarietà. Le dure parole del pudico critico Guido Aristarco risuonarono a lungo nella mente di De Santis. Il critico scrisse, infatti, che le gambe nude di Silvana non potevano istruire gli operai2. Alcuni leader sindacalisti di sinistra difesero3 l’innocenza e la moralità delle mondine ribattendo che era loro abitudine e desiderio danzare al ritmo confortante dei tradizionali canti popolari piuttosto che al suono del fuorviante boogie-woogie americano, come mostrato nel film. Il regista si risentì a tal punto degli attacchi, che attese quasi due anni prima di replicare. 1 Su come venne scelta Silvana Mangano per il ruolo si veda Giuseppe De Santis, Cinema, sud e memoria: Il regista Giuseppe De Santis racconta, cit., p. 19. 2 Guido Aristarco, Riso amaro, «Cinema» 24 (15 ottobre 1949). 3 Giuseppe De Santis, citato in Antonio Costa, Conversazione con Giuseppe De Santis, «Cinema e cinema» 9/30 (1982), p. 70.

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Gli attacchi moralistici provenienti dalla sinistra4 furono seguiti a breve dai giudizi intransigenti dei censori del Vaticano, i quali, per preservare il pubblico dalle tentazioni della sensualità di Silvana, inclusero il film nella lista delle opere proibite. Fra le recensioni negative provenienti da destra, le osservazioni tendenziose5 di Ennio Flaiano rimangono la prova più rappresentativa della distanza tra il film di De Santis e la sensibilità di alcuni dei suoi colleghi. Oggigiorno, nel canone della critica cinematografica americana, Riso amaro è ricordato come il film che ha segnato l’inizio del ritorno del cinema italiano del dopoguerra allo star system, al kolossal, all’impiego di attori professionisti e, più di ogni altra cosa, come il film che, con uno stile ibrido che si rifaceva palesemente a Hollywood, tradì il giovanissimo neorealismo italiano. Tali accuse apparivano ancora più gravi se si considera il fatto che il film era opera di Giuseppe De Santis (in collaborazione con ex membri della rivista «Cinema»), il comunista più impegnato dal punto di vista politico e ideologico fra tutti i registi italiani del tempo. Un critico americano descrisse il paradosso in questi termini: se da un lato Riso amaro rifiutava la relazione ottimistica tra Italia e America presente in Paisà di Rossellini e si spingeva ben oltre la critica dello stile di vita americano di Senza pietà di Lattuada, d’altro canto era, paradossalmente, il film neorealista che più di ogni altro era debitore al cinema americano e alla sua ricca tradizione di generi6. Il fatto che De Santis e i suoi principali collaboratori, Gianni Puccini e Carlo Lizzani, fossero marxisti e che una delle intenzioni del film nell’utilizzare le convenzioni cinematografiche di Hollywood era quella di minare e denunciare gli effetti deleteri dello stile di vita americano non può essere considerato paradossale7. 4 Tra i numerosi articoli su Riso amaro scritti dai critici di sinistra pubblicati subito dopo l’uscita del film, i più importanti sono: Anna Gobbi, Come abbiamo lavorato per Riso amaro, «Cinema nuova serie» 8, 15 febbrao 1949), Renzo Reni, Riso amaro, «Cinema» 24 (15 dicembre 1949), e Pio Baldelli Riso amaro, «Cinema» 32 (30 gennaio 1950). 5 Le informazioni su Flaiano vengono da Antonio Costa, Conversazione con Giuseppe De Santis, cit., p. 70. 6 Peter Bondanella, Italian Cinema from Neorealism to the Present, cit., p. 85. 7 Per un rilettura del rapporto tra De Santis, PCI e cultura americana suggerisco il saggio di Giuseppe Faustino, Riso amaro di Giuseppe De Santis: ovvero tra bandiera rossa e boogie-woogie, in Antonio Vitti (a cura di), Ripensare il neorealismo, Cinema, Letteratura, Mondo, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 133-148.

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Puccini, De Santis e Lizzani, da buoni cineasti, avevano visto ed apprezzato i grandi film americani degli anni trenta. Come per molti altri intellettuali di quel periodo che si opposero al fascismo, la cultura e la letteratura americana significavano libertà e cosmopolitismo. Il gusto per tutto ciò che era americano era una sorta di ribellione intellettuale contro il provincialismo del regime. Per avere un assaggio delle loro visioni personali su questo tema è necessario rifarsi ad alcune delle loro recensioni cinematografiche e ai principali articoli scritti per «Cinema». Tali fonti rivelano che i film americani erano spesso un punto di riferimento per ricercare idee su come rendere il cinema nazionale più autentico. Per esempio, nell’articolo di De Santis del 1945, ampiamente trascurato, dal titolo Cinema e narrativa, la pratica americana di utilizzare narrativa popolare ed eroi tradizionali nel genere western è citata come un modello stimolante per la promozione di un nuovo tipo di cinema nazionale, un cinema che, traendo spunto dalla narrativa popolare e dai racconti locali, riusciva a parlare la lingua delle masse e a suscitare emozioni8. Dopo la guerra, Puccini, De Santis e Lizzani ribadirono in varie occasioni le loro posizioni in merito alla cultura americana. Per esempio, durante una conferenza a Pisa il 18 febbraio 1989 De Santis affermò che la sua posizione nei confronti della cultura americana rifletteva quella di intellettuali quali Cesare Pavese ed Elio Vittorini, i quali miravano a ricostruire l’immagine dell’Italia attraverso tale cultura. Il regista proseguì definendo l’America un grande mito, un punto di riferimento e il grande sistema democratico del New Deal, che in molti desideravano assimilare e riadattare al sistema italiano. Il fatto che le mondine in Riso amaro cantino anziché parlare per comunicare, è un chiaro riferimento ai musical americani e alla cultura nera e la topografia della Pianura Padana ricordava le grandi pianure americane. Tuttavia il regista spiegò che il personaggio di Silvana Mangano non si ispirava alla letteratura americana, quanto piuttosto a Padron ‘Ntoni de I Malavoglia e raccontò anche che quando Riso amaro ricevette una nomination all’Oscar nel 1949, gli Stati Uniti gli negarono la possibilità di ottenere un visto a causa della sua appartenenza al PCI9. Alla fine degli anni quaranta la situazione politica era cambiata. Il mondo era diviso in due blocchi politici controllati dai sovietici (i pae8 Giuseppe De Santis, Cinema e narrativa in «Film d'oggi» 21 (giugno 1945). 9 Giuseppe De Santis, conferenza tenutasi a Pisa il 18 febbraio 1988.

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si del Patto di Varsavia) e dall’alleanza NATO. Questa polarizzazione determinò il clima che sfociò nel triste confronto della guerra fredda. A livello personale l’amore e l’ammirazione che De Santis provava per i film di John Ford, King Vidor, Howard Hawks, Charlie Chaplin e Frank Capra erano una parte indelebile della sua stessa visione del cinema ed avevano influenzato la sua concezione della cinematografia al punto che non poteva essere scalfita dalla nuova atmosfera politica. La nozione di regia per De Santis è legata al suo impegno politico e intellettuale nel realizzare film che potessero comunicare a tutti, con la preoccupazione principale di intrattenere e al contempo denunciare. I suoi film, infatti, non sono mai testimoni passivi delle ingiustizie sociali. De Santis non ricorre mai ad allegorie eccessive ma fa piuttosto uso di semplici metafore, come quella della collana in Riso amaro, e allo stesso modo nel suo sforzo per mettere in luce le problematiche sociali e individuarne le cause non si preoccupa di riprodurre con accuratezza apparenza e autenticità del reale. Se uno degli interessi principali di De Santis era quello di promuovere un cinema nazionale che potesse rivolgersi e comunicare a qualsiasi pubblico, è chiara la necessità di utilizzare le generiche forme cinematografiche americane con cui i frequentatori dei cinema avevano familiarità e per le quali dimostravano un certo apprezzamento. I film esoterici che piacevano solo ai critici non rientravano nei suoi interessi. I suoi lavori erano tutte opere spettacolari e metaforiche i cui obiettivi andavano oltre il mero aspetto estetico. Le suddette considerazioni sono fondamentali per comprendere la sua idea di regia e il suo ruolo all’interno del movimento neorealista. Queste osservazioni spiegano inoltre l’adattamento da parte del regista agli schemi del cinema melodrammatico in Riso amaro e la raffigurazione di Silvana Mangano come la controparte della bomba sexy americana Rita Hayworth10. Tornerò di nuovo su questo punto quando analizzerò l’ascesa di Silvana Mangano alla celebrità. In primo luogo, tuttavia, un’analisi del periodo turbolento che accompagnò la realizzazione del film più conosciuto e di successo di De Santis fornirà delucidazioni sulla relazione amore-odio nei confronti della cultura americana. 10 I soldati americani avevano attaccato un poster della pin-up Rita Hayworth sulla bomba atomica esplosa nell’atollo di Bikini. I soldati avevano chiamato la bomba Gilda in riferimento al suo personaggio più conosciuto.

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Il soggetto di Riso amaro fu scritto nel 1947 e il trattamento durante l’inverno del 1947-48. La sceneggiatura definitiva fu completata nell’aprile del 1948. Il film fu girato durante un momento storico cruciale per la sinistra italiana. Il PCI, guidato dal suo segretario generale Palmiro Togliatti, aveva rotto col governo di De Gasperi ed era finito all’opposizione. La situazione politica era talmente drammatica che la produzione del film venne posticipata di due mesi dopo la grande sconfitta elettorale del fronte Nazional-Popolare il 18 apile 194811. La sconfitta segnò, da una prospettiva di sinistra condivisa da De Santis, l’inizio del tramonto del sogno della Resistenza di una ricostruzione progressista/di sinistra. Dopo il 1948 le forze conservatrici, supportate dal governo americano attraverso il Piano Marshall, diedero il via ad un periodo di ricostruzione/restaurazione segnata dalla semi-democratizzazione della legislatura fascista. Per il regista le forze reazionarie avevano sconfitto quelle a favore del cambiamento. In questi anni turbolenti l’Italia stava anche attraversando una trasformazione culturale. Alla fine degli anni quaranta i costumi stavano cambiando. Gli italiani nutrivano il grande desiderio di lasciarsi la guerra alle spalle, di godersi la vita e di adottare nuove abitudini e mode straniere in seguito alle restrizioni economiche autarchiche imposte dal regime. La circolazione a livello nazionale dei primi fotoromanzi, Bolero Film, Grand Hôtel e Confidenze di Liala (Grand Hôtel uscì inizialmente nel 1946 come fumetto) tra gli strati di popolazione poco istruiti può essere considerato come uno dei molti segnali della transizione culturale che stava interessando la nazione. Queste nuove forme di comunicazione di massa ebbero un impatto diretto anche sull’industria cinematografica, generando un periodo di transizione nella storia del cinema italiano. Commentando questo nuovo fenomeno, il critico Callisto Cosulich affermò che il punto di svolta del cinema italiano era da ricercarsi non tanto nei dieci o quindici film dei maestri del neorealismo, ma nei film popolari in dialetto o in quelli di Matarazzo, Brignone e Mario Costa12. A conferma di tale tesi si consideri che nel 1949 il film Catene di Raffaello Matarazzo fu il film più visto con un incasso di 735 milioni di lire. La terra trema, realizzato due anni prima, incassò 38 milioni 11 Sul ritardo della produzione del film si veda Carlo Lizzani, Riso amaro: un film diretto da Giuseppe De Santis, Roma, Officina Edizioni 1978, p. 32. 12 Callisto Cosulich, citato in Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano: Dal neorealismo al miracolo economico, vol. 3: 1945-1959, Roma, Editori Riuniti, 1998.

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di lire13. I film di Matarazzo, quali Catene, Tormento e I figli di nessuno, reidentificarono tabù sociali e attrassero il gusto e l’immaginazione popolare raccontando alcuni cambiamenti sociali. Grazie all’attenzione posta a temi quali l’amore, la morte, la violenza e le paure legate ai peccati ancestrali dell’aborto, della violenza sessuale, dell’adulterio e dell’incesto, questa nuova forma cinematografica diventò, già nei primi anni cinquanta, un genere codificato. Al centro di questi drammi vi erano i legami di sangue, costantemente presentati con sfumature di fobia sessuale e un rigido moralismo cattolico combinati con un forte senso dell’onore, che di fatto resero la famiglia un’istituzione che reprimeva qualsiasi forma di individualismo, indipendenza e soddisfazione personale. Generalmente in questi film le donne sono vittime di pregiudizi maschili e di un fittizio senso dell’onore. Spesso sono anche vittime di alcune incomprensioni che sono funzionali al proseguimento della trama, tuttavia nel finale il disordine si risolve e l’onore viene ristabilito e salvaguardato. Anziché utilizzare lo stile melodrammatico, come fa Raffaello Matarazzo nei suoi film di conformismo sociale, De Santis in Riso amaro svilisce i messaggi dei fotoromanzi e sfida le convenzioni sociali. Quando venne girato Riso amaro il fotoromanzo era il più importante mezzo di comunicazione e lo strumento più diretto per raggiungere il pubblico femminile, nonostante tale genere fosse snobbato dagli intellettuali, che lo relegavano al regno della sottocultura14. Parlando di questo nuovo mezzo di intrattenimento, Damiano Damiani, uno dei suoi creatori, affermò che il loro obiettivo era quello di accrescere il numero di lettori e la loro acculturazione utilizzando storie riconoscibili e comprensibili in virtù della loro corrispondenza con i valori e i sentimenti allora diffusi. Damiani non concordava inoltre con l’opinione degli intellettuali secondo cui un prodotto che piace alle masse è necessariamente di scarso valore culturale15. I lettori dei fotoromanzi appartenevano per lo più ad una particolare classe sociale. Le donne di bassa estrazione sociale e della classe operaia fra i quindici e i venticinque anni erano i lettori più avidi di que13 Gli incassi dei due film sono stati tratti da Roberto Chinti e Roberto Poppi (a cura di), Dizionario del cinema italiano, Roma, Gremese Editore, 1991, p. 87 e p. 358. 14 Le informazioni sul fotoromanzo sono tratte da Carlo Bordoni e Franco Frassati, Dal feuilleton al fumetto, Roma, Editori Riuniti, 1985. 15 Damiano Damiani, citato in Ivi., p. 128.

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ste nuove pubblicazioni, di conseguenza la lettrice tipo non possedeva competenze professionali e con molta probabilità non aveva neppure terminato le scuole elementari. In queste storie «riconoscibili e comprensibili» l’azione si concentra attorno ad un personaggio maschile che rinnova il mito del principe azzurro. La protagonista femminile spesso funge da modello di riferimento culturale di valori condivisi e le sue più grandi aspirazioni sono quelle di sposarsi e di avere un famiglia. Al fine di accrescere il processo di identificazione tra il lettore e i protagonisti, non viene mai specificato un luogo preciso. L’amore è il tema predominante che supera ogni ostacolo, tranne le divisioni di classe. Il conformismo è la chiave per risolvere qualsiasi problema esistenziale e psicologico, e qualora emergano realtà sociopolitiche, come il lavoro e i conflitti di classe, queste vengono sempre affrontate in maniera superficiale o minimizzate. De Santis vedeva in questo nuovo mezzo la promozione dell’americanizzazione delle classi subalterne e non condivideva i messaggi o i valori raffigurati, considerandoli una minaccia alla vita semplice e genuina dell’Italia rurale, a quella stessa cultura che accomunava i suoi personaggi cinematografici, che politicamente erano la maggioranza dei sostenitori del suo partito. L’intenzione, in Riso amaro, era quella di minare la dipendenza da alcuni ideali individualistici americani, considerati antisociali e deleteri per la solidarietà di classe e dimostra come la dipendenza dai desideri indotti, esemplificata dalla pulsione di Silvana di possedere la collana e frequentare alberghi lussuosi, condurrà al tradimento e al furto. Il successo del film non è attribuibile alla schematizzazione moralistica e propagandistica che opera sul duro lavoro e sulla solidarietà di classe contro l’egoismo e il furto, ma risiede nella capacità di catturare l’atmosfera culturale del tempo. La sua modernità consiste nel tentativo di affrontare quello che potrebbe essere definito “l’inizio dell’imperialismo culturale” o, in un’accezione marxista, l’opprimente potere della sovrastruttura. Il film affronta i cambiamenti sociali all’interno di una cultura in lotta per una nuova identità: la nuova libertà sessuale dei giovani, l’influenza del nuovo mezzo cinematografico e l’impatto di idee più liberali importate dall’altra sponda dell’oceano sono manifestazioni del nuovo stile di vita.

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Più di ogni altro film italiano del dopoguerra, Riso amaro mette in scena una società in transizione e prosegue, ampliandola, la riflessione del regista sull’influenza dei mezzi di comunicazione sulla cultura e sul loro potere di determinare i desideri e le aspirazioni del pubblico, nel tentativo innovativo di raccontare i primi effetti dei desideri indotti sulla classe operaia. La perspicacia di Riso amaro restituì al cinema italiano una visibilità internazionale. Negli Stati Uniti il film ricevette una nomination agli Academy Awards come miglior soggetto e al di fuori dei confini nazionali superò addirittura la fama di Paisà di Rossellini. L’uscita del film fu preceduta da molta pubblicità e curiosità. La Lux Film lo annunciò come un kolossal e Robert Capa si recò a Veneria di Lignana, dove De Santis e il suo cast stavano effettuando le riprese, per realizzare un servizio speciale per la rivista Life16. Il clamore proseguì per i successivi settantadue giorni di riprese e raggiunse il culmine con i bei disegni realizzati da Renato Guttuso, uno dei maggiori pittori realisti del tempo, in vista dell’uscita del film. Il film segnò inoltre la nascita di una nuova stella. Tuttora molti critici cinematografici si stupiscono di come una sceneggiatura tanto rigida e strutturata, che aveva come obiettivo quello di denunciare i bisogni indotti, possa aver ottenuto un tale successo. Dal momento che svariati studi si sono concentrati sullo stile dualistico di Riso amaro, che combina documentario e melodramma, in questa analisi desidero soffermarmi su come la forma si connetta cinematograficamente al messaggio, condannando le fantasie di Silvana e riscattando Francesca. Questa indagine sulla condanna dei desideri indotti di Silvana documenta altresì come le immagini e la presenza di questa principiante dello schermo non solo offuscarono l’ideologia del regista, ma determinarono la clamorosa ascesa dell’attrice verso la celebrità. Silvana era assolutamente adatta a raggiungere la fama attraverso questo film perché incarnava tutte le contraddizioni inerenti alla transizione culturale che stava avendo luogo in Italia. I suoi comportamenti ambigui rappresentano la lotta esistenziale per una vita migliore senza garanzie di ciò che verrà. Il conflitto esistenziale di Silvana è lo stesso che affronta un adolescente durante la sua crescita. 16 Il reportage di Robert Capa appare ora anche nel numero 3 dei «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis» curato da Marco Grossi e Virginio Palazzo. Questo numero contiene anche una importante conversazione con Miriam Mafai e tutte le polemiche che seguirono l’uscita del film, inoltre contiene anche l’articolo di Sebastiano Vassalli, Silvana Mangano, addio mondo contadino.

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Secondo un racconto dello stesso De Santis17, l’idea di un film sulle mondine gli fu suggerita da Libero Solaroli, il quale, conoscendo la predilezione del regista per i temi rurali e corali, propose un film sulla migrazione annuale di migliaia di ragazze verso le risaie per mondare il riso. Il suggerimento diventò realtà solo molto tempo dopo. Un giorno di settembre di prima mattina a Milano, mentre ritornava dalla Francia dove aveva partecipato ad una prima di Caccia tragica, De Santis rimase sbalordito nel vedere in stazione una folla di mondine di ogni età e da ogni parte dell’Italia settentrionale che tornavano a casa dopo aver trascorso più di un mese nelle risaie. L’esperienza ebbe un forte impatto su De Santis, il quale si mise subito a lavorare ad un storia assieme al suo miglior amico, Gianni Puccini, e a Carlo Lizzani. Una volta terminato di scrivere il soggetto i tre partirono alla volta di Torino alla ricerca del luogo adatto alle riprese. Avendo bisogno di un aiuto, si rivolsero a Cesare Pavese e a Davide Lajolo, l’editore dell’edizione di Torino de «L’Unità», che li mise in contatto con uno dei suoi dipendenti, Raf Vallone. Questo giovane giornalista relativamente sconosciuto, editore della terza pagina de «L’Unità», li aiutò a contattare i proprietari locali di risaie18. Dopo una lunga e difficile ricerca, la famiglia Agnelli acconsentì a girare il film nei propri terreni19. Trascorsero tre anni da quel fortuito incontro di De Santis con le mondine prima che i tre giovani registi portassero a termine la sceneggiatura. Per volere della Lux Film, Carlo Musso e Ivo Perilli furono ingaggiati come co-autori. In seguito Corrado Alvaro, noto scrittore realista, fu coinvolto per riscrivere i dialoghi e le canzoni20. Le proposte dei tre amici, che avevano lavorato anche al primo film di De Santis, erano svariate. L’idea era di realizzare un film che includesse tutti i concetti a lungo dibattuti, un film spettacolare, popolare, realistico, sociale e politico, in grado di parlare a chiunque e non solo agli spettatori di film d’arte. Il dilemma che dovettero affrontare riguardava il modo in cui conciliare il programma documentaristico, realistico, politico e sociale 17 Giuseppe De Santis, Cinema, sud e memoria, cit., p. 19. 18 Carlo Lizzani, Riso amaro, cit., p. 24. 19 Giuseppe De Santis, citato in Antonio Costa, Conversazione con Giuseppe De Santis, cit., p. 70. 20 La Lux Film chiese perfino a Fellini di collaborare, ma, secondo De Santis, rifiutò dopo aver letto il trattamento: De Santis, citato in Carlo Lizzani, Riso amaro, p. 19.

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con l’aspetto dell’intrattenimento spettacolare e melodrammatico. Questi impulsi contrastanti sono evidenti nei titoli di testa del film che annunciano il racconto di due storie, una che parla del duro lavoro e l’altra che descrive il flusso di emozioni generato da migliaia di donne che mondano il riso per quaranta giorni. I due percorsi antitetici che il film si propone di seguire sono rappresentati dallo sfruttamento capitalistico delle mondine di giorno e dalle pulsioni sessuali che prendono il sopravvento la notte, ovvero pubblico e privato. Come fa il film a mostrare ciò che i suoi autori hanno armonizzato con successo in una sceneggiatura rigida e ben strutturata? Possono le immagini seguire e riflettere queste due tensioni opposte al fine di dimostrare i teoremi ideologici che stanno alla base della storia? Come Carlo Lizzani ha descritto nella sua meticolosa analisi sulla realizzazione di Riso amaro, gli sceneggiatori dovettero adattare la storia alla strategia già ben definita e sperimentata da De Santis per conciliare il personale con il sociale. Tale schema consiste in un crescendo sintattico in cui individui, voci e segnali sonori vengono messi in relazione fino a prorompere, in un momento specifico, in una nuova immagine, che non è più la somma delle precedenti, ma un nuovo evento di dimensione corale21. Questa strategia visiva e strutturale permette al regista di conciliare le varie tensioni nel film, ma più di ogni altra cosa gli consente di connettere l’aspetto melodrammatico al comportamento di Silvana, che causerà la sua espulsione dal gruppo, e alla redenzione di Francesca grazie alla sua assimilazione al duro lavoro delle mondine. Nel film la forma rappresenta ed opera brillantemente come una funzione del contenuto. Il richiamo perverso degli ideali e delle attrattive del fotoromanzo (americanizzazione) è in opposizione al duro lavoro e ai sani principi della classe operaia e questi due elementi sono altresì in contrasto in virtù della loro associazione ai protagonisti: Francesca (Doris Dowling) e Walter (Vittorio Gassman) da un lato e Silvana e il sergente Marco Galli (Raf Vallone) dall’altro. In questo modo la corruzione è in antitesi con i valori tradizionali e il furto è in opposizione al lavoro. Nel corso della storia poi, i ruoli dei personaggi femminili si capovolgono e la transizione da un ruolo all’altro avviene in maniera graduale all’interno di uno schema che racchiude i destini incrociati di 21 Ibidem.

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vari individui. A mano a mano che Francesca entra a far parte del gruppo, Silvana viene espulsa. L’ascesa e la caduta delle due protagoniste sono ben delineate nel corso della storia. Il passaggio dei ruoli guida la narrazione e si fa portatrice dell’ideologia del regista, infatti l’obiettivo ultimo di De Santis è quello di spingersi oltre il discredito del sogno di Silvana per attaccarne la fonte, l’America, la terra dove ogni cosa è elettrica, incluso la sedia, come Marco, eroe positivo, dice a Silvana. Nel preambolo introduttivo Francesca è presentata come complice di Walter. I due hanno appena derubato una gioielleria e stanno scappando dalla polizia. All’imbarco delle mondine per le risaie Walter scorge Silvana Melega mentre balla il boogie-woogie e mastica gomma americana. Il ragazzo si unisce a lei per evitare di essere riconosciuto e in seguito, per scappare, si farà scudo di Francesca per evitare le pallottole della polizia. Lo scenario è stabilito. Il fotoromanzo (il tono melodrammatico associato al sogno di Silvana) e tutte le sue componenti distintive, avventura, storia d’amore, azione, suspense, evasione, conflitto e bei protagonisti, sono ben presenti. I personaggi saranno definiti dalle loro azioni, dal loro aspetto e dai loro vestiti. Silvana non è solo un’avida lettrice di Grand Hôtel ma anche una povera contadina alla ricerca di una vita più piacevole e interessante rispetto a mondare e piantare le risaie. Nella sua fantasia Walter appare come il principe azzurro del suo Grand Hôtel. Tuttavia il triangolo amoroso tipico di molti fotoromanzi diventa un quadrilatero quando il sergente Marco Galli si presenta all’arrivo alle risaie. Marco sarà l’antagonista positivo di Walter, il ladruncolo. Nel corso dell’azione le due donne aspirano ad essere ciò che non sono. Ognuna vorrebbe vestire i panni dell’altra. I loro desideri sono intensificati e posti in relazione grazie alle tecniche di regia utilizzate: una struttura ritmica creata dal movimento alternato della transizione dei ruoli accompagnata da un montaggio meticoloso e da un contrasto di sfondi alla Griffith. Le scene realistiche che ritraggono le lavoratrici sono spesso utilizzate in contrasto a quelle melodrammatiche. Durante tutto il film si assiste ad un’alternanza di questi diversi tipi di inquadrature, che conferiscono al film vari livelli visivi di lettura. L’obiettivo di queste diverse riprese non è solo quello di raccontare la storia di alcune donne schiavizzate nelle risaie, ma anche quello di sottolineare la transizione di Francesca all’interno della forza lavoro e la conseguente auto-esclusione di Silvana. In questa meticolosa struttura la

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neo-attrice è anche in grado di delineare la personalità complessa e multi sfaccettata del personaggio. La contraddittorietà e la personalità composita di Silvana la differenziano in maniera chiara fin dall’inizio dalle altre mondine senza spessore. La diversità di Silvana non si palesa solo dal punto di vista visivo ma anche da quello comportamentale. Quando la protagonista vede Walter per la prima volta rimane affascinata dal suo bell’aspetto da cinema/ fotoromanzo. Walter cerca di attirare verso di sé maggiori attenzioni indossando un cappello di paglia e dimostrando di saper ballare il boogie-woogie. La polizia lo insegue e i colpi sparati contro Walter non fanno altro che accrescere l’interesse di Silvana nei suoi confronti. La sua curiosità si fa ancora più intensa quando vede Francesca nello sforzo di raggiungerlo. In seguito, nel caso in cui il messaggio non fosse chiaro, il film accentua questa lettura con uno stacco su un uomo che vende copie di Grand Hôtel. Come se tutto questo non fosse abbastanza, subito dopo la ripresa della collana rubata, si sente bussare alla porta e si vede una ragazza in piedi con una copia di Grand Hôtel fra le mani. La ragazza in questione è Silvana. La sua percezione di Francesca e Walter come personaggi del suo mondo immaginario è completa. Ad una breve conversazione tra le due donne fanno seguito delle inquadrature di sfondo completamente diverse. Mentre Francesca percorre il corridoio del treno, la cinepresa effettua una panoramica su alcune “vere mondine”. Queste donne sono semplici. Alcune stanno dormendo, una donna è sconvolta e mangia ansiosamente un pezzo di pane, mentre un’altra sta bevendo. La successiva inquadratura crea un impressionante contrasto: seduta in fondo alla carrozza una donna sta cercando di mettersi del rossetto per coprire la sua bruttezza. L’antitesi con il mondo fantastico del fotoromanzo raggiunge il culmine quando Amalia dice a Francesca che qualcuno ha vomitato lì vicino. Francesca è presentata in analogia al mondo di cui entrerà a far parte. La strategia di cambiare stile e contesto in relazione alle due protagoniste prosegue durante tutto il film e raggiunge l’apice all’arrivo alle risaie, dove ha luogo la metamorfosi di Silvana e Francesca. Il giorno successivo molte donne vengono lasciate senza lavoro perché in assenza di un contratto regolare. Capeggiate da Francesca queste cercano di ottenerne uno lavorando il doppio rispetto alle mondine regolarmente assunte. Francesca sfodera la sua forza interiore e il suo carisma. Questa trasformazione è manifestata visivamente nella sequenza ben coreografata della distribuzione dei cappelli.

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Le clandestine stanno assieme in gruppo. Francesca è centrale in posizione frontale e fissa intensamente una nervosa Silvana. Poi Francesca si avvicina alla macchina da presa, dominando l’inquadratura. Silvana è invece inquadrata mentre indossa il cappello in una posizione defilata rispetto alle altre mondine. Mentre Francesca sta fra le lavoratrici, Silvana è in disparte, come a sottolineare i suoi impulsi individualistici. Il suo atteggiamento è un rimando visivo all’ambiguità del suo ruolo e alla sua personalità; il linguaggio del corpo, le espressioni facciali e il comportamento rispecchiano la sua natura incerta e complessa, che fa di lei un personaggio attraente. Poi, mentre le clandestine cercano di lavorare più in fretta delle altre, Silvana sale su una barca e, distribuendo le piante di riso, canta la sua disapprovazione nei confronti delle clandestine. Francesca e le altre lavoratrici illegali rispondono chiedendo maggiore comprensione per la loro situazione disperata. L’appello alla solidarietà di classe si scontra con gli attacchi delle lavoratrici regolarmente assunte. Silvana cerca di aizzare la rabbia delle mondine contro Francesca, la quale evita un linciaggio grazie all’arrivo dell’eroe positivo, il sergente Marco Galli, che esorta le donne a lavorare assieme anziché a fronteggiarsi l’un l’altra22. 22 La finzione è uno dei temi di maggior interesse nel film che si apre con la voce fuori campo di un annunciatore radiofonico che descrive la partenza di una moltitudine di donne di ogni età e classe sociale per la stagione della monda del riso. L’inquadratura successiva vede l’annunciatore che guarda dritto in camera come se stesse raccontando al pubblico la storia delle mondine, ma la macchina da presa si allontana subito e il pubblico scopre che l’annunciatore è un attore che sta recitando una parte in un film e che non si sta rivolgendo a loro ma al microfono di Radio Torino. Il regista mostra così il primo elemento fittizio: un mezzo, la radio, all’interno di un altro mezzo, ovvero il film che stanno guardando. Al fine di autenticare questo resoconto, l’annunciatore intervista varie donne scelte a caso chiedendogli le loro impressioni, i loro bisogni e i loro ideali. Poi la macchina da presa mostra due uomini che, a giudicare dai loro vestiti, sembrano due poliziotti. La voce dell’annunciatore svanisce e il dubbio del pubblico sull’identità dei due uomini viene confermata. Ancora una volta gli spettatori vedono l’elemento fittizio prevalere sull’approccio documentaristico. Queste scene riportano alla memoria la concezione di regia di De Santis: il realismo non deve escludere l’elemento fittizio né i classici mezzi cinematografici. La riflessione di De Santis sulla natura fittizia del cinema è presente lungo tutto il film. Come hanno affermato Andrea Martini e Marco Melani (si veda De Santis), egli fa un ottimo uso delle nuove possibilità semantiche, portando in primo piano tutto ciò che in passato veniva lasciato sullo sfondo. Martini e Melani si riferiscono al ruolo del coro e dell’ambientazione. Nel fare questo il regista focalizza l’attenzione sulle qualità teatrali e fittizie delle apparenze fenomenologiche. In Riso amaro la lista di cose che non sono ciò che sembrano è lunga ed include il falso abbraccio tra Walter e Francesca, utilizzato per

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Come segno visivo dell’estraniamento di Silvana dalle “vere mondine”, questa, fomentatrice degli attacchi, non prende parte alla lotta nel fango. Al contrario viene inquadrata mentre urla, in disparte ed incolume. L’inversione di ruoli tra le due protagoniste continua. La scena all’interno della vecchia caserma di notte rappresenta un ulteriore passo verso il completamento della trasformazione. La splendida interazione contrastante tra la sottoveste nera di Silvana e quella bianca di Francesca trasmette visivamente lo schema dei loro destini incrociati. La scena si apre con un’inquadratura di Francesca che racconta a Silvana la storia della sua relazione con Walter. Per Silvana il racconto rappresenta la realizzazione del suo mondo fantastico e non coglie minimamente l’elemento tragico. Per Francesca è la confessione di un peccato di cui si vuole liberare. Dal punto di vista visivo sembra che le due donne siano all’interno di un confessionale. Silvana ascolta con ansia senza fornire nessun conforto. La loro conversazione è interrotta dal lamento di una mondina ammalata. Francesca corre immediatamente in suo soccorso, lasciandosi alle spalle, assieme a Silvana, il passato. La vita da cui Francesca sta scappando è quella che Silvana vorrebbe per sé. Francesca è inquadrata accanto alle sue compagne di lavoro mentre cerca di aiutare la donna malata. Silvana è da sola, distesa sul suo letto, con un’espressione seccata per l’interruzione. Il suo atteggiamento individualista è ancora più evidente nel momento in cui fa suonare un vinile e tamburella nervosamente le dita in attesa che Francesca riprenda il suo racconto. Lo scambio tra loro si spinge ancora oltre. Una scena cruciale che segna il totale abbandono di Silvana alle sue fantasie è il suo ballo con Walter. Rispecchiando uno schema di danza tratto da uno dei registi preferiti di De Santis, King Vidor23, Marco si avvicina per salvare Silvana quando la vede, raggiante per la musica e per il suo stesso coraggio, mentre balla con la collana rubata al collo. Walter interviene e si scatena la famosa lite tra lui e Marco24. nascondersi dalla polizia, la collana falsa che hanno rubato e che Walter utilizza in seguito per convincere Silvana a passare dalla sua parte, spacciandolo per un regalo di fidanzamento. Più che gli oggetti ripresi al di fuori delle loro rispettive sembianze fenomenologiche, la scena in cui i soldati si nascondono dietro a giganti maschere di cartone conferma la concezione di De Santis in merito alla finzione. 23 Durante la sequenza del ballo con Silvana e Walter, Marco si intromette, come nei film di Vidor in cui i neri suonano “Breakaway”, formando un cerchio attorno ai due ballerini e interrompendo il loro ballo entrando nel mezzo. 24 La prima lite tra Walter e Marco fu ripetuta svariate volte. Secondo quanto riportato da Italo Calvino, in Tra i pioppi della risaia la "cinecittà" delle mondine, «L'Unità»,

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Nel comportamento di Marco si nota il tentativo di screditare il fascino del materialismo, come dimostra il suo gesto di strappare la collana dal collo di Silvana. Marco colpisce Walter durante la lite con gran piacere delle “vere mondine” e di Francesca, ma non di Silvana. Quest’ultima non ha alcuna intenzione di rinunciare alla ricerca di una vita agiata e al suo “principe azzurro” Walter. Lo scambio di ruoli raggiunge il suo culmine e il suo compimento durante le scene parallele della violenza su Silvana e dell’aborto di Gabriella (Maria Grazia Francia). In queste scene molto discusse De Santis è molto abile nel mostrare, con immagini drammaticamente belle, la completa estromissione di Silvana dalla classe operaia. Sono diversi giorni che piove. Le mondine più vecchie decidono di lavorare nonostante il maltempo. Francesca esita un istante, poi le segue. In uno splendido scenario frutto della passione di De Santis per gli effetti spettacolari e plastici, le mondine escono dalla fattoria con dei sacchi sulle loro teste. Le donne sembrano delle vestali pronte per il rito che verrà compiuto a breve attorno al corpo desolato di Gabriella. Nel frattempo Silvana, bella come non mai, si addentra nel bosco adiacente alle risaie seguita da Walter. In mano tiene una bastoncino per stuzzicare Walter e tenerlo a distanza. Sotto la pioggia scrosciante Walter la sottomette con la violenza, facendola così passare dalla sua parte. L’identificazione con i personaggi femminili delle sue storie è ora completa. Silvana viene inquadrata nuovamente, da sola e disperata, incapace di soccorrere la sua amica Gabriella in preda al dolore. Nei campi vicini le mondine stanno lavorando per non perdere un altro giorno di paga quando Gabriella, in agonia, perde il bambino. Le altre mondine cercano di coprire le sue grida con dei canti. La sequenza è una forte rappresentazione del lutto, ritratto in maniera altamente simbolica e spirituale: le mondine con le teste coperte dai sacchi fanno cerchio attorno al corpo agonizzante di Gabriella per supportarla e per evitare di farle perdere il lavoro. La scena è la dimostrazione della solidarietà di classe e della partecipazione corale contadina al dolore. Quando il cerchio si apre per Gabriella non c’è più nulla da fare e si leva un lamento funebre. La composizione della scena richiama un dipinto della Lamentazione25. Una delle mondine più vecchie al centro dell’inquadratura assume 14 luglio 1948, p. 3, De Santis fece litigare gli attori sul serio. 25 La Pietà di Sandro Botticelli, che si tratta precisamente di una lamentazione, si trova ora a Monaco, all’Alte Pinakothek.

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una postura simile a quella della Vergine Maria: guarda in basso verso Gabriella e poi alza gli occhi al cielo unendo la mani quasi ad invocare aiuto e protezione dall’alto. Il suo movimento ritmico è ripreso dal resto delle mondine. Attraverso questa immagine De Santis sta mettendo in pratica le sue idee riguardo alla possibilità da parte dei registi di trarre ispirazione dal ricco patrimonio pittorico italiano. Le mondine ritornano alla cascina. Francesca porta fra le braccia il corpo di Gabriella mentre Silvana scappa disperata. La sua esclusione è rinforzata visivamente dal canale della risaia che la separa dal resto del gruppo. L’inversione dei ruoli è ora giunta a compimento. Francesca è diventata una leader nelle risaie mentre Silvana ha abbandonato la sua classe sociale per schierarsi al fianco di Walter. Alternando inquadrature di Silvana da sola e delle mondine attorno a Gabriella, De Santis ha visivamente rappresentato in forma cinematografica il sistema contadino che ostracizza i membri della comunità che hanno abbandonato il gruppo. Carlo Lizzani, nel suo studio sulla realizzazione di Riso amaro, paragona la sentenza visiva dell’espulsione di Silvana agli studi che l’antropologo De Martino stava conducendo sui metodi contadini adottati nei confronti dei comportamenti traviati26. La violenza su Silvana segna la sua iniziazione all’interno di quel mondo che immaginava semplice e affascinante. Nonostante sia stata tradita, non ne è ancora consapevole. Silvana è infatti al tempo stesso traditrice e tradita, ma prima della catastrofe finale le viene concessa un’ultima occasione per aprire gli occhi e comprendere la ragione del suo tradimento. All’interno dei magazzini Walter organizza il suo piano per rubare il riso. Allo scopo di convincere Silvana ad allagare i campi durante i festeggiamenti per la fine della monda, le dà la collana rubata come regalo di fidanzamento. Subito dopo arriva Francesca e affronta Walter. Mentre i due discutono, Silvana sta nel mezzo guardando nervosamente l’uno e l’altra. In questa scena si inverte il ruolo che il destino gioca nei fotoromanzi e nei melodrammi del cinema. Walter dice a Francesca che il suo posto è stato occupato da Silvana, ma, allo stesso tempo, l’avverte che i loro destini sono legati indissolubilmente: «Mondina o cameriera tu sei sempre legata a me, fino alla galera». Francesca fa la sua scelta: si ribella a Walter e al mondo dei 26 Carlo Lizzani, Riso amaro, cit., p. 166.

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fotoromanzi scegliendo di custodire il suo nuovo ruolo dalla parte della classe operaia. Anche Silvana fa la sua scelta e decide di rimanere con Walter, nonostante sia un ladro. La sua avidità materialista e il suo desiderio di una vita più agiata sono più forti della solidarietà verso le mondine, che verranno private del frutto del loro lavoro. Il motivo ricorrente del tradimento giunge a conclusione nell’ultima sequenza quando il mondo fantastico di Silvana le crolla addosso. La catastrofe finale inizia con Silvana che esegue gli ordini di Walter: aprire i canali d’irrigazione e allagare le risaie, in modo da distrarre i lavoratori mentre i suoi complici scappano a bordo dei camion con il riso. I lavoratori si accorgono dell’allagamento nel momento in cui Silvana viene proclamata Miss Mondina 1948. Mentre tutti corrono per salvare le risaie, Silvana è emblematicamente inquadrata da sola con la corona in testa. Il messaggio è chiaro: non esiste felicità per nessuno al di fuori della propria classe sociale, specialmente per i traditori. L’isolamento di Silvana è in contrasto con il coinvolgimento di Francesca, che lotta assieme agli altri contro l’acqua, al fianco di Marco, l’eroe positivo. La resa dei conti finale tra le due coppie avviene in un macello. In questa scena molto criticata, definita l’emblema del cattivo gusto e dello stile da sceneggiato, Walter incontra la morte. Walter accoltella Marco, il quale a sua volta gli spara. In questo drammatico duello Francesca si colloca al di sopra di tutti, sfoderando tutta la sua forza e la sua freddezza. Mentre si avvicina a Silvana e Walter, Francesca colpisce con un calcio la collana facendola cadere all’interno di uno scarico e fa sapere a Silvana che si tratta di un falso. Delusa e arrabbiata Silvana uccide Walter e corre fuori stordita. In un drammatico primo piano, il suo volto bagnato dalle lacrime e la sua espressione delusa sono un ulteriore segno del suo ruolo da traditrice/ tradita. Silvana si uccide gettandosi dalla piattaforma su cui era stata incoronata Miss Mondina. Anche il suo ultimo gesto è in accordo con il ruolo che ha assunto nel mondo fantastico dei fotoromanzi. Silvana però, è molto più di un semplice personaggio da fotoromanzo. Uccide Walter e poi se stessa non solo perché ha scoperto la futilità e la falsità delle sue fantasie, ma perché comprende di non poter mai più riconquistare la solidarietà delle mondine e di aver intrapreso il percorso sbagliato nel tentativo di fuggire da una vita di duro lavoro con l’acqua delle risaie fino alle ginocchia.

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Il film si conclude con una reintegrazione simbolica di Silvana nel gruppo delle mondine, rappresentata dal loro gesto di gettare sul suo corpo esanime dei pugni di riso. Ogni chicco di riso è il simbolo di una vita mai sprecata. De Santis utilizza ancora una volta la sua strategia stilistica preferita nell’uso di un’inquadratura dall’alto dell’intero gruppo. L’effetto è ottenuto attraverso una concatenazione sintattica di una serie di singole inquadrature che riprendono un numero sempre maggiore di persone. Ad un certo punto una nuova immagine, che non è la somma delle precedenti ma un nuovo evento di dimensione corale, conclude il movimento della cinepresa: questa inquadra prima Silvana, poi, in un crescendo, si sposta per inglobare il resto del gruppo, per poi tornare infine al corpo senza vita circondato da un numero ancora maggiore di mondine. Il significato della nuova inquadratura è completamente differente: sigilla la vittoria dell’impulso sociale contro quello personale che ha condotto al tradimento e alla morte di Silvana. Il film termina con un’inquadratura di Marco e Francesca mentre camminano assieme. Il lieto fine non è il tradizionale finale generico e aperto offerto dagli altri film del tempo, ma vuole rappresentare il culmine dell’operato delle forze dialettiche che operano nella storia e riflette il modo in cui De Santis interpreta i conflitti culturali. Riso amaro è un film dalla trama serrata in cui la forma è esplicativa del contenuto e, come ha dimostrato quest’analisi, questo gioco tra contenuti e struttura porta a compimento il messaggio del regista. Il desiderio di Silvana di abbandonare la sua vita da operaia per raggiungere i falsi ideali della sua fantasia è in opposizione al desiderio di Francesca di redimere la sua tragica vita. Tali impulsi contrastanti sono accompagnati da sfondi altrettanto diversi. Francesca nel suo avvicinamento alla classe operaia è associata al duro lavoro e alla vita semplice. Silvana nella sua lotta per uscire dalla sua condizione si ritrova isolata o divorata da falsi valori e da uno stile di vita frivolo. Uno schema rigido, dunque, funzionale all’intenzione del regista di condannare i nuovi valori legati appunto ai fotoromanzi e al processo di americanizzazione. Ed è così che l’individualismo di Silvana perde contro la collettività. Tuttavia, per il pubblico di tutto il mondo, è lei la vincitrice, e per due ragioni. Da critico cinematografico De Santis ha teorizzato la rinascita del cinema italiano attraverso due componenti: un paesaggio autentico, che riflette e si fa portavoce dei suoi abitanti, e dei personaggi che rivelano il proprio bagaglio culturale nel loro

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aspetto fisico27. Questa concezione spiega la predilezione del regista per i tipi nei suoi film. Attori ed attrici si fondono perfettamente con i propri personaggi, non per merito delle proprie abilità recitative di stile naturalistico, ma nella misura in cui rispecchiano la tipologia fisica richiesta dalla storia. De Santis vede nell’attore le possibilità che una certa tipologia facciale o fisica offre nel richiamare il suo passato e la sua classe sociale. In quest’idea generale c’è già la base di ciò che sarà il suo futuro approccio nello scegliere gli attori per i suoi film e nell’utilizzarli a suo vantaggio. Il regista d’altronde non fu mai d’accordo con l’idea di Zavattini di utilizzare attori non professionisti per conferire uno stile più realistico. De Santis scelse Silvana Mangano per la sua bellezza e per la sua personalità. Nella mente del regista era la controparte italiana di Rita Hayworth. L’attrice doveva rappresentare una ragazza con la testa piena di fantasie ma anche un personaggio molto complicato alla ricerca di qualcosa di nuovo. Silvana è una delle figure femminili più complesse del cinema del dopoguerra. Come afferma Giovanna Grignaffini, è generosa, solidale, ladra, traditrice, tradita, amica, confidente, rivale, complice, seduttrice, sedotta, colpevole, innocente, oggetto di desiderio, vittima sacrificale, eccetera, eccetera28. Silvana Melega doveva essere, al contempo, la leader delle mondine, un’ammiratrice dello stile di vita “elettrico” all’americana, e la potenziale moglie attenta di Marco nonché madre dei suoi figli, ma era, in realtà e più di ogni altra cosa, un’instancabile individualista. Senza sapere ciò che l’aspettava, ha cercato di rifuggire il vecchio per abbracciare una cultura straniera che prometteva una vita migliore a ritmo di boogie-woogie. Nella confusione delle sue aspirazioni Silvana diventa la dimostrazione della forza persuasiva dei desideri indotti. De Santis richiese ai suoi attori che i loro corpi fossero uno strumento e una forma di comunicazione. Silvana, con le sue forme perfette e giunoniche e una personalità scissa, è la personificazione visiva di una modernità che gli schemi della struttura del film non potevano sopprimere.

27 Si veda Giuseppe De Santis, Il linguaggio dei rapporti, in Massimo Mida e Lorenzo Quaglietti(a cura di), Dai telefoni bianchi al neorealismo, cit., pp. 149-151. 28 Giovanna Grignaffini, Verità e poesia: Ancora di Silvana e del cinema italiano, «Cinema e cinema» 9/30 (1982), pp. 41-46.

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Capitolo 6 Mito e realtà tra i pastori della Ciociaria: Non c’è pace tra gli ulivi (1950) In realtà accadde questo: volevo esaltare con intenzione questo contesto tanto semplice, popolaresco, elementare, nobilitando con una forma raffinata che potesse dare una connotazione di livello culturale rispetto a una storia un po’ da fumetto. Giuseppe De Santis

Nel 1949 De Santis portò a compimento il suo terzo film, Non c’è pace tra gli ulivi, prodotto da Domenico Davanzati e distribuito dalla Lux. La storia era basata su una notizia uscita nel quotidiano locale romano «Il tempo», riportata dal giornalista Galluppi. Come nei suoi film precedenti, De Santis scrisse il trattamento in collaborazione con il suo amico Gianni Puccini. Alla stesura della sceneggiatura partecipò anche Carlo Lizzani. Il famoso poeta Libero de Libero scrisse le parole delle canzoni popolari e i dialoghi. Non c’è pace tra gli ulivi, un film degno di nota anche per il suo aspetto visivo, è basato su conflitti primordiali, descritti attraverso esperimenti formali e narrativi. La storia riguarda un pastore ciociaro, Francesco Dominici, che dopo tre anni di guerra e altri tre da prigioniero, ritorna al suo villaggio di montagna e scopre che il suo gregge è stato rubato dal "signorotto" locale, Agostino Bonfiglio, il quale ha anche intenzione di sposare la sua fidanzata, Lucia. Rimasto senza gregge e nell’impossibilità di trovare lavoro, Francesco decide di riappropriarsi delle proprie pecore con l’aiuto dei suoi anziani genitori e della sorella diciassettenne, Maria Grazia. La notte del furto, mentre la famiglia Dominici cerca di fuggire con le pecore, Bonfiglio li insegue, raggiunge Maria Grazia e abusa di lei. Il giorno successivo fa arrestare Francesco. Durante il processo i pastori locali, corrotti da Bonfiglio, testimoniano contro Francesco, il quale viene condannato a quattro anni di prigione. Quando la madre lo informa dello stupro inflitto alla sorella, Francesco evade per portare a termine la sua vendetta. Nel frattempo Bonfiglio sta sfruttando i pastori al limite delle loro possibilità, così che questi, animati dalla rabbia e dal bisogno collettivo di vendetta, si schierano questa volta dalla parte di Francesco. Bonfiglio fugge con Maria Grazia, ma quando questa cerca di abbandonarlo, la strangola. Il

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"signorotto" viene comunque scovato da Francesco e incontra la morte cadendo da un dirupo. Francesco viene arrestato nuovamente e processato, ma questa volta può contare sulla testimonianza e il supporto dell’intero villaggio. Unione e solidarietà hanno prevalso su corruzione, usura e fatalismo. Le critiche che seguirono l’uscita del film1 in Italia si concentrarono sul messaggio politico e sul formalismo e misero in dubbio la verosimiglianza della trama. A conferma dell’autenticità del film Massimo Mida Puccini, fratello di Gianni, scrisse un articolo intitolato Le querce2, in cui descriveva la sua esperienza tra i contadini durante le riprese delle scene finali. In questo clima di polemiche Anna Gobbi3, la costumista del film, protestò contro il distributore della pellicola per averne modificato il titolo. Secondo la Gobbi, il titolo, Non c’è pace tra gli ulivi, era stato scelto con un referendum democratico dagli stessi pastori locali. Pertanto era più autentico rispetto al sensazionale e commerciale Pasqua di sangue che la Lux voleva imporre. Fra le numerose recensioni e gli articoli sulla pellicola, alcuni si distinguono per il modo in cui indirizzano le loro critiche. Ennio Flaiano, che scriveva per Il mondo4, classificò il film all’interno della tradizione retorica della narrativa del ventesimo secolo, momento in cui, secondo il critico, i primi artisti socialisti scoprirono la vita contadina e rurale e andavano in giro a trasformare i gesti spontanei e sinceri della gente in meccanismi intellettuali vuoti e ben poco poetici. In un altro articolo, di Alberto Moravia5, elogiava i movimenti della macchina da presa e la ricchezza della composizione, che trovava, tuttavia, incongruente alla semplicità della storia. De Santis intervenne inoltre personalmente in difesa dell’autenti1 Prima che il film fosse presentato a Milano il 28 ottobre 1950, De Santis volle che il suo nome venisse rimosso dai crediti perché la Lux, che lo distribuiva, aveva ceduto alla richiesta della censura che voleva cambiare il commento fuori campo del regista da «Lo avete visto lottare per i suoi diritti anche contro la legge perché si sentiva nel giusto» a «Lo avete visto lottare per i suoi diritti perché si sentiva nel giusto». I censori ritenevano che quelle parole fossero un’istigazione alla ribellione contro le forze dello Stato: la Lux e la censura vinsero la disputa e fu scelta la seconda versione nonostante le sue obiezioni. Per i commenti di De Santis sulla disputa si veda Ugo Casiraghi, Intervista con il regista Giuseppe De Santis, «L'Unità», 4 ottobre 1950, p. 8. 2 Gianni Puccini, Le querce, «L'Unità», 1 dicembre 1949, p. 6. 3 Anna Gobbi, Fra i pastori in Ciociaria, «L'Unità», 12 dicembre 1959, p. 8. 4 Ennio Flaiano, La sinistra e d’Annunzio, «Il mondo», 1 luglio 1950, p. 10. 5 Alberto Moravia, Neodannunzianesimo tra i Ciociari, «Vie nuove», 8 ottobre 1950, p. 12.

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cità dei suoi personaggi dagli attacchi del critico Adriano Baracco6. Quest’ultimo accusò il film di dannunzianesimo, paragonandolo a Novelle della Pescara di Gabriele D’Annunzio. A sostegno del suo film De Santis scrisse che il suo intento era quello di mostrare la Ciociaria, una terra così remota che molti critici confondevano con l’Abruzzo e affermò di aver voluto descrivere non solo la regione, ma il manierismo della sua gente e dei suoi pastori. In risposta all’accusa di dannunzianesimo, ribatteva che questo tipo di critica fa del dannunzianesimo un problema formale piuttosto che uno stile di vita e un modo di intendere il mondo, cosa che non trova in alcun modo riscontro nel contenuto naturalistico del suo film7. Dopo essersi occupato delle lusinghe dello stile di vita americano in Riso amaro, con Non c’è pace tra gli ulivi De Santis si dedica nuovamente ai problemi dei veterani di guerra al rientro alle loro terre e del banditismo, temi che aveva già affrontato in Caccia tragica, sebbene in una situazione sociopolitica completamente diversa. A differenza di Alberto e Michele di Caccia tragica, Fancesco Dominici vive in una società remota, immune ai fermenti sociali e alle contraddizioni politiche dell’Italia del dopoguerra. I pastori della Ciociaria hanno a che fare con le continue lotte contro lo sfruttamento, la povertà e l’usura e agiscono spinti dalla paura o dall’interesse personale. La povertà e la disoccupazione spesso obbligano alcuni di loro al banditismo. A differenza dei gangster in Caccia tragica, o di Walter in Riso amaro, Francesco nel commettere il suo “crimine” si sente moralmente innocente. Non c’è pace tra gli ulivi segna l’inizio di quello che potrebbe essere definito il "cinema meridionale" di De Santis, visto che, da questo momento in poi, tutti i suoi film affrontano le questioni del Sud, ad eccezione di quelli girati all’estero. De Santis8 ha sempre aspirato a girare film sulla sua parte di mondo. Pertanto questa storia sui pastori della Ciociaria non può essere considerata una semplice reazione o una risposta a certi critici, che vedevano nei contadini di Caccia tragica e nelle mondine di Riso amaro una dubbia autenticità non degna del neo6 Adriano Baracco, Non c’è pace tra gli ulivi, «Cinema nuova serie» 48 (1950). 7 Giuseppe De Santis, Non c’è pace, (lettera ad Adriano Baracco), «Cinema nuova serie» 50 (novembre 1950), pp. 261-262. 8 Durante una delle nostre conversazioni, De Santis affermò: «Se fosse stato possibile avrei realizzato solo film riguardanti il Sud». Sulla relazione fra De Santis e il Sud si veda Giuseppe De Santis, Cinema, sud e memoria: Il regista Giuseppe De Santis racconta, cit.

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realismo. La decisione di tornare a luoghi ben conosciuti deve anche essere interpretata nel contesto del dibattito sociopolitico e culturale in corso sulla cultura populista e in quello dell’influenza dei dipinti realistici di stampo socialista, del cinema e della narrativa. Alla fine degli anni quaranta il neo-fondato Fronte Nuovo delle Arti stava promuovendo in tutte le attività artistiche una rappresentazione socio-realista, nonché una tipizzazione, una caratterizzazione all’insegna di un moralismo d’impronta marxista. Come testimonia il film, a De Santis non interessava conformarsi ai dettami e non esitò mai a trasgredire le regole. Tuttavia era una persona legata idealmente e ideologicamente alla discussione su queste problematiche, un regista mosso da un grande amore per la libertà d’espressione, che vedeva nella cinematografia uno strumento per intrattenere le masse e allo stesso tempo promuovere riforme sociali e politiche. A questo proposito affermava che tutti gli intellettuali comunisti del tempo erano condizionati dal realismo socialista, ma che pochi erano in grado di comprendere che ciò che gli si chiedeva era parte di un progetto dittatoriale, tirannico e oppressivo9. Al fine di conciliare il realismo socialista con il suo progetto cinematografico, De Santis abbandonò i suoi precedenti modelli narrativi ed intraprese una sperimentazione con racconti basati su storie folcloristiche contadine. Il regista combinò componenti della sacra rappresentazione, utilizzata dai grandi pittori italiani del passato, con quelli di la rivista, ispirandosi alla prima per la resa visiva del film e alla seconda per alleviare la tensione della trama. I critici hanno sottolineato l’estrema stilizzazione di Non c’è pace tra gli ulivi. I suoi personaggi positivi sono inquadrati in posizioni monumentali, enfatizzate da riprese ad angolo basso per accentuare la loro superiorità morale e la loro forza fisica. I personaggi negativi, secondo i canoni del realismo socialista, sono spesso inquadrati dall’alto per sottolineare la loro bassezza morale. Senza sminuire queste valide tecniche stilistiche, si può ancora leggere Non c’è pace tra gli ulivi come una storia folcloristica contadina sul banditismo, arricchita da una stilizzazione visiva cinematografica e raccontata da un narratore impegnato. Le interpretazioni di questo film erano e restano divergenti. Nel 2002 Vito Zagarrio ne ha proposto una lettura postmoderna che traspare anche in questa breve citazione: 9 Giuseppe De Santis, citato in Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis: Tra passione e ideologia, Roma, Cadmo Editore, 1983, p. 73.

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È un film di denuncia sociale, sulla terra e sul paese di De Santis, Fondi, che però vengono riletti attraverso codici e stereotipi del western (la donna contesa, la vendetta, il duello, etc.); ma a sua volta il western, genere popolare e di profondità, viene appesantito di allegorie e simboli che prefigurano i prodotti del genere più atipici e moderni (alla Johnny Guitar) e sublimato con l’uso di una recitazione di tipo brechtiano10.

Il film comincia e si conclude con la voce fuori campo del regista che narra le disavventure di Francesco Dominici. Il suo intento è anche quello di raccontare una storia moralistica sui privilegiati e sui non privilegiati, in cui i pastori alla fine si affrancano da quel circolo vizioso di fatalismo e rassegnazione. I suoi commenti sono rivolti agli spettatori per ricordare loro che il film descrive le generali condizioni socio-politiche della sua remota regione e che ritrae le ragioni della sua antica condizione di povertà e di sfruttamento umano, in un tentativo di concedere una vittoria ai contadini. Nonostante i commenti del regista, il contenuto del film rimane una tipica storia del Sud sui conflitti primordiali. A differenza di Riso amaro che si propone di raccontare due storie, una sul lavoro nelle risaie e l’altra d’amore, attraverso due distinte modalità narrative, ovvero il resoconto documentaristico e il melodramma, Non c’è pace tra gli ulivi utilizza una sola modalità narrativa: il racconto folcloristico. Come nella tradizione folcloristica orale, i personaggi sono divisi schematicamente in buoni e cattivi e sono stilizzati per renderli maggiormente riconoscibili in quanto tipi. Bonfiglio esemplifica il male, la codardia, la lussuria e la perversione. Francesco rappresenta la bontà, il coraggio, la purezza e la semplicità. Francesco è genuino, impulsivo, onesto e coraggioso. Come è tipico degli uomini buoni e semplici, non si fida delle autorità ma agisce spinto dalla vendetta e nell’atto di riappropriazione del gregge si attiene all’antica credenza secondo cui riprendersi ciò che è stato rubato non è un furto. Anche Bonfiglio è un prodotto di questa terra. Un tempo anch’egli povero, si è arricchito durante la guerra senza scrupoli, con ambizione e malizia. Ora rappresenta l’elemento antisociale della comunità. Lucia è appassionata e onesta, ma è vittima della povertà dei suoi genitori e delle condizioni repressive in cui le donne sono costrette a vivere nelle società primitive, che le tratta come merci. Maria Grazia è ingenua, giovane e spontanea. Come tutte 10 Vito Zagarrio (a cura di), Non c’è pace tra gli ulivi. Un neorealismo postmoderno, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2002, p. 41.

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le giovani ragazze in una società repressiva, si considera di proprietà di Bonfiglio in seguito allo stupro, si sente sottomessa dalla violenza dell’uomo ed obbedisce senza fare questioni, semplicemente accettando di fare la serva a casa sua. Ella segue passivamente Bonfiglio, come fa il suo gregge, e alla fine quando viene uccisa diventa l’agnello sacrificale. Salvatore è un personaggio della rivista e il suo ruolo è quello di portare un sollievo comico alla scena colma di tensione della caccia all’uomo nelle montagne. In queste sequenze i pastori e i loro greggi sono al centro del dramma. A volte assumono il ruolo di coro. Il gregge è l’oggetto del contendere e, come si vedrà, diventa simbolo del destino. Tutti i personaggi conducono le loro vite senza introspezione o sviluppo psicologico. Tutti si muovono e agiscono come se controllati da una forza esterna ineluttabile, paragonabile al fatalismo contadino. Perfino durante le false dichiarazioni dei testimoni, Francesco appare sottomesso. Come nei racconti folcloristici le intenzioni dei personaggi sono rivelate da semplici dialoghi o monologhi, seguiti immediatamente dall’azione. Il processo di Francesco è un esempio di tale fatalismo. Un’inquadratura dall’alto suggerisce il suo stato di rassegnazione. Il suo volto lascia trapelare impercettibili emozioni fino al momento in cui viene tradito dalla testimonianza della sua fidanzata, Lucia. Nonostante dalla sua espressione facciale trapeli il dolore che prova nell’ascoltare la sua falsa deposizione, si comporta come se fosse controllato e messo a tacere da una forza esterna. Questo drammatico confronto tra i due amanti ha luogo di fronte ad un tribunale pieno di spettatori, molti dei quali pastori. Anche loro si sottomettono passivamente allo sfruttamento e ai complotti di Bonfiglio in un analogo atteggiamento fatalista. Il paesaggio diventa il palcoscenico su cui i conflitti in fermento hanno luogo. La tensione del film è mantenuta alta da un serie di affronti. In primo luogo c’è la disputa tra Francesco e Bonfiglio in merito alle pecore. Il loro conflitto è aggravato dall’intenzione di Bonfiglio di sposare Lucia, la fidanzata di Francesco. Lo stupro di Maria Grazia genera un ulteriore motivo di conflitto fra i due. La continua tensione crescente è scandita da momenti di sollievo comico, come le canzoni popolari cantate durante la cerimonia di fidanzamento fra Bonfiglio e Lucia. Con l’arresto di Francesco il confronto sembra risolversi a favore di Bonfiglio. Durante la fase di transizione che segue emergono nuovi conflitti, questa volta tra Bonfiglio e gli altri pastori, che pongono le basi per la loro ribellione, simbolicamente legata all’arrivo della primavera. Quando Francesco evade di prigione il conflitto tra lui e Bonfiglio esplode.

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Ora Francesco ha dalla sua parte i pastori e Lucia, mentre Bonfiglio è isolato. La tensione del film è mantenuta viva da una serie di azioni ed eventi legati a questo scontro e cresce fino alla morte di Bonfiglio alla fine del film. La risoluzione del conflitto è preceduta da una sequenza di transizione che descrive la processione del venerdì santo. Nel corso degli eventi il paesaggio grezzo, affascinante e travolgente, sembra popolato di esseri primordiali. Sia l’eroe che il furfante sono immersi in un’atmosfera mitica e le forze della natura giungono in aiuto dell’eroe. Per esempio quando i carabinieri cercano di catturare Francesco, i pastori riescono ad ostacolarli lasciando le proprie pecore libere di pascolare sulle colline. A questo punto le montagne rocciose della Ciociaria diventano uno scenario fantastico in cui si avvicendano conflitti primordiali. Come in un racconto folcloristico, Francesco, la forza del bene, si fa giustizia da solo e ottiene vendetta alle proprie condizioni. Bonfiglio, la forza del male, è sconfitto dallo sforzo collettivo delle sue stesse vittime, che si mobilitano per aiutare Francesco. Il ritmo lento e a volte greve delle sequenze rinforza l’atemporalità dell’atmosfera del racconto. Perfino la processione religiosa che avanza lungo una strada tortuosa di montagna contribuisce a creare questa situazione mitica. La processione trasuda un’atmosfera di intensa devozione che fonde elementi pagani e cattolici. La scena in cui compare la statua della Vergine, rivestita di banconote e seguita da un gruppo di disabili e zoppi, rivela una quieta disperazione e una religiosità intrisa di superstizione. Il contrasto tra il bianco della strada sabbiosa e i vestiti neri delle donne crea un effetto di forte impatto visivo. Questo aspro contrasto è ripreso con un’efficacia ancor più drammatica in altre sequenze. Lucia, elegante nel suo bianco velo da sposa, cammina lungo gli stretti vicoli del paese gremiti di gente vestita di nero addossata alle case imbiancate. Prima di arrivare alla chiesa Lucia deve affrontare la giovane Maria Grazia incinta, la quale sbuca inaspettatamente dalla folla per denunciare Bonfiglio. Nella scena della fuga di Bonfiglio da Francesco che lo sta inseguendo, la contrapposizione tra nero e bianco assume un significato emblematico. Vestito prevalentemente di nero, Bonfiglio viene ostacolato dal movimento circolare del gregge bianco che avanza verso di lui. La polvere che si alza dal calpestio degli zoccoli gli impedisce di fuggire da Francesco e suggerisce una maledizione che pende sulla sua testa. Come nella tradizione dei racconti popolari, il suo destino è segnato da ciò che ha rubato e tanto desiderato. Dal punto di vista simbolico la sequenza offre un’altra

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interpretazione: è stato il furto del gregge a generare un sopruso. Ora il gregge diventa parte di un tacito atto di giustizia per punirlo. In tutti i momenti di immobilismo, i personaggi assumono pose teatrali ed elaborate. Le singole inquadrature consistono frequentemente di due o tre composizioni minori e ben equilibrate, organizzate all’interno di un insieme più grande con una simmetria spettacolare. Alcuni critici hanno definito questa particolare sperimentazione della composizione formale come statuaria e monumentale11. Non è mia intenzione giudicare in questa sede gli esperimenti del regista, né tanto meno i dubbi critici espressi da altri, ma vorrei sottolineare che le posizioni assunte dagli attori nelle inquadrature in questione li fanno apparire come simboliche incarnazioni viventi del presepio della tradizione meridionale. Un esempio di questo tipo di composizione è l’arrivo dei pastori alla grotta in cui Francesco si sta nascondendo. Quest’ultimo esce e viene affrontato dal gruppo, i cui membri sono sapientemente disposti lungo la pendenza della collina in maniera sfalsata, in modo simile alla scena pastorale in cui i pastori circondano Gesù bambino. Un’altra scena che richiama la rappresentazione religiosa popolare si ha quando i genitori di Lucia vengono a conoscenza dell’evasione di Francesco. Temendo la sua vendetta, decidono di andarsene dal loro paese e la loro partenza frettolosa con poche cose e un asino è inscenata in maniera tale da ricordare la fuga di Giuseppe e Maria da Erode nei dipinti italiani. Le sperimentazioni stilistiche e formali del film sono parte integrante della storia e non entrano in conflitto con la semplicità del contenuto. I complicati movimenti della macchina da presa, come i rapidi passaggi da un primo piano a un piano medio, seguiti da un campo lungo per poi tornare ad un primo piano, sono utilizzati abilmente dal regista per mostrare come il destino di un individuo sia legato ai valori della comunità. Tecnicamente le varie inquadrature sono utili altresì per riempire lo schermo con elementi legati all’azione. Il film comincia con un campo lungo, utilizzato per stabilire una descrizione generale dell’ambiente, seguito da una pausa per introdurre la famiglia Dominici. De Santis impiega anche combinazioni di panoramiche e di inquadrature in movimento per seguire gli spostamenti dei protagonisti. Non è insolito che la macchina da presa sposti l’attenzione su un nuovo individuo incontrato da un personaggio che era inquadrato in precedenza. Per esempio durante il processo di Francesco, la macchina da presa inizia a seguire 11 Per esempio si veda Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis, cit., p. 102.

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l’entrata di Lucia nel tribunale. Quando passa davanti a Francesco, la cinepresa si sofferma sul suo volto per mostrarci la sua reazione. In maniera similare, durante i momenti di conflitto o di azione intensa, i movimenti della macchina da presa riflettono la drammatica frenesia della scena per accrescere l’effetto sugli spettatori. La suspense è creata attraverso il gioco tra azione e montaggio. Alla fine del film, prima della resa dei conti tra Francesco e Bonfiglio12, la tensione è costruita inframmezzando scene dell’inseguimento di Francesco con inquadrature delle espressioni facciali della madre di Bonfiglio e di Maria Grazia. Come nella maggior parte dei film di De Santis, le scene contengono una profusione di dettagli basati sulla composizione sfondo-primo piano. Non c’è pace tra gli ulivi utilizza due tecniche nuove per il cinema italiano: la pellicola infrarosso è impiegata per le scene buie e la modalità di messa a fuoco panoramica è utilizzata sistematicamente per permettere al regista di sfruttare al massimo lo sfondo. La modalità di messa a fuoco panoramica combinata ad inquadrature ad angolo basso permettono a De Santis di legare Francesco e tutti gli altri personaggi al paesaggio in un modo che suggerisce un destino comune per tutti loro. Grazie all’abilità di Piero Portalupi, il direttore della fotografia, questo film presenta una qualità della luce peculiare e una dislocazione di piani visivi inusuale per quel tempo in Italia. In Non c’è pace tra gli ulivi De Santis sembra più consapevole delle difficoltà che comportava il mantenere l’autenticità del linguaggio dei suoi personaggi rispetto ai suoi film precedenti. Infatti in questo film è evidente lo sforzo di conferire al linguaggio un colore locale e di riprodurre il dialetto della Ciociaria realmente parlato dai pastori del luogo. Il dialogo fra i personaggi minori avviene spesso in dialetto, così come le canzoni e i ritornelli che accompagnano l’azione. Per esempio, quando Francesco, in cerca di lavoro, chiede ad un altro pastore se può scendere a valle con il suo gregge come aiutante, l’altro risponde: «Non può essè. N’te dispiacè. E poi tu ssì n’àta vocca da sfamà, qualche soldo pure te lo dovrei dare. Tu mica ci puoi venì per niente»13 (Non è possibile. Non prendertela. Dopotutto sei un’altra bocca da sfamare, ti dovrei pure dare qualche soldo. Non puoi venire per niente). Il dialogo tra i protagonisti 12 Per una lettura della resa finale dei conti tra Francesco e Bonfiglio come un western americano si veda Ibidem. 13 Tutte le citazioni del film sono tratte dalla sceneggiatura personale di De Santis, che mi permise di consultare durante la mia visita alla sua casa di Fiano Romano nell’aprile del 1991.

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o ha una sintassi vicina a quella del dialetto, o mescola parole italiane e parole in dialetto ed è spesso introdotto da interiezioni quali «Eh!» o «Oh!», che sono tipicamente utilizzate per rivolgersi a qualcuno. Durante il primo incontro tra Francesco e Lucia, Francesco dice: «Domattina me ne parto». «Me ne parto» è la trascrizione italiane della forma dialettale «m’n’part». Quando la sorella di Francesco, Maria Grazia, interrompe la loro conversazione, Francesco risponde «Mo vengo», dove «Mo» è la forma dialettale e antica di «adesso» o «ora». Le canzoni sono tutte tratte dal folclore regionale e sono cantate in dialetto. Spesso sono utilizzate come controparte o contrappunto all’azione o al dialogo. Tra i vari esempi del film vi è la sequenza all’interno della casa di Bonfiglio nella notte del suo fidanzamento ufficiale con Lucia, che è la stessa notte in cui la famiglia Dominici si riappropria del gregge rubato. Lucia è accanto alla finestra intenta ad evitare le carezze di Bonfiglio. Allo stesso tempo sta guardando disperatamente attraverso il vetro, cercando di intravvedere Francesco nel buio. Due suonatori folcloristici stanno cantando la storia di un uomo ricco che è l’unico in grado di comprare con i suoi soldi la cavalla migliore. Il ritornello chiede in maniera retorica di chi mai potrà essere la cavalla: «E chi la po’ comprà questa cavalla / di tutta la montagna è la più bella». L’allusione a Lucia è ancora più evidente dal momento che in dialetto una giovane donna non sposata è spesso chiamata cavalla. Non c’è pace tra gli ulivi è un ritratto delle condizioni socio-politiche e culturali di una remota parte d’Italia, che mostra anche alcune delle cause responsabili dell’ancestrale povertà della regione. La maggior parte della vita di un pastore è caratterizzata da povertà, sfruttamento e usura. I principali stimoli per questa gente sono la paura e l’interesse personale. Al fine di essere più fedele al contenuto della situazione in questo film, De Santis ha tralasciato la riflessione sui mezzi di comunicazione e sugli effetti della modernità sulla cultura contadina italiana. Al contrario il regista ha scelto di prendere in considerazione i fattori antropologici che modellano quella parte d’Italia. A questo proposito il film mostra la superstizione, il fatalismo, il manierismo e i costumi dei pastori della Ciociaria. La scena in cui Francesco e Lucia si incontrano e conversano senza guardarsi negli occhi è stata etichettata dai critici come un esempio di estetismo. Tuttavia l’intenzione di De Santis era quella di mostrare una realtà e un costume del tempo che prevedeva tale comportamento per i giovani non sposati. Questo film è una storia di contadini, narrata in forma cinematografica, che si conclude con

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una lezione politica e morale. Così come gli sguardi dei protagonisti diretti all’obiettivo rompevano il codice cinematografico del tempo14, la vittoria dei pastori sulla loro condizione rompe con la tradizione, alterando il ciclo fatalista della rassegnazione contadina. Il film è unico nel suo tempo per la composizione stilizzata e per i mezzi tecnici e visivi avanzati di cui il regista fa uso. Si tratta inoltre della prima opera cinematografica neorealista che ha come protagonisti dei pastori. Dovettero passare vent’anni prima che questo elemento apparisse nuovamente sugli schermi italiani con Novecento di Bertolucci, Padre padrone dei fratelli Taviani, Ligabue di Zavattini e L’albero degli zoccoli di Olmi, tutti realizzati negli anni settanta15.

14 Per i commenti di De Santis sugli sguardi di Raf Vallone (Francesco nel film) diretti all’obiettivo si veda Andrea Martini, Conversazione con Giuseppe De Santis: La ricerca realistica come impegno civile, cit., p. 130, e Fernaldo Di Gianmatteo, Non c’è pace tra gli ulivi, «Bianco e nero» 50 (dicembre 1950). L’articolo di Di Gianmatteo utilizza il saggio di Eisenstein sulla recitazione per criticare l’interpretazione di Franco Lulli, Raf Vallone e Lucia Bosé, che il critico trovò eccessive e troppo basate sulle espressioni facciali. 15 Prima di questo grande ritorno cinematografico alla cultura contadina, De Seta realizzò Banditi a Orgosolo, che racconta del banditismo e del furto di pecore in Sardegna.

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Capitolo 7 La scala dei sogni e delle illusioni: Roma ore 11 (1952) Un significato particolare assume la larga partecipazione di attori di cui Roma ore 11 si vale. Ciò dimostra che gli attori hanno compreso quale sia il loro vero posto in un cinema realistico. E posso testimoniare che ognuno di questi attori ha sostenuto, per partecipare al mio film, più di un sacrificio. Di questo li ringrazio vivamente. Giuseppe De Santis

Nel 1952, nell’impossibilità di trovare un produttore1 per Noi che facciamo crescere il pane, una saga sullo sfruttamento dei contadini meridionali, De Santis girò Roma ore 11, subito acclamato2 come il suo miglior film fino a quel momento in termini di contenuto ed equilibrio. Come con gli altri film la stampa di destra con un articolo essenzialmente di parte attaccò il governo colpevole di averne consentito la realizzazione. Come ricorda De Santis da quel momento iniziò una dura campagna contro il film che portò al suo ritiro dalle prime visioni e ad un insabbiamento nelle seconde e terze visioni, fino ad arrivare all’esclusione dalla selezione italiana per il Festival di Cannes di quell’anno3. La storia si basa su un tragico evento che sbalordì l’opinione pubblica nazionale, accaduto in Via Savoia 31 a Roma, il 15 gennaio 1951. In quel freddo giorno d’inverno la scala di un edificio crollò sotto il peso di circa duecento donne che si erano recate lì da ogni parte della città per sostenere un colloquio di lavoro mal pagato come dattilografa. L’incidente riportò un morto e oltre ses1 Su come De Santis non fu in grado di trovare un produttore per questo film si veda Vice, Pro e contro De Santis, «Mondo operaio», 5 gennaio 1954, p. 23. 2 Ad esempio, Tullio Cicciarelli in «Lavoro-Nuovo», 29 febbraio 1952, ritiene Roma ore 11 migliore di Umberto D di De Sica. Per altri critici il film segna lo sviluppo artistico di De Santis: si veda Guido Aristarco, Roma ore 11, «Cinema» 82 (15 marzo 1952) e Corrado Alvaro Più che neorealismo, «Il mondo» (15 marzo 1952). Non tutti i critici concordano sui meriti artistici del film; si veda per esempio Mira Liehm, Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, cit., p. 96 e Nino Ghelli, Roma ore 11, «Bianco e nero» 1 (aprile 1954). 3 Giuseppe De Santis in Elio Petri, Roma ore 11, Milano-Roma, Edizioni Avanti, 1956, pp. 17-18.

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santa feriti4. L’evento catturò immediatamente l’attenzione dei registi italiani degli anni cinquanta, sempre a caccia di notizie sensazionali. Alcune voci giravano in merito a due possibili film in uscita basati sulla tragica storia di quelle donne schiacciate sotto le macerie. Due comunicati ANSA5 nel 1951 riportarono notizie contrastanti, affermazioni rilasciate da Giuseppe De Santis e Augusto Genina riguardo ai loro rispettivi progetti. Mentre il film di Genina (Tre storie proibite)6, è incentrato sulle storie d’amore private di tre donne che si trovavano per caso in via Savoia 31 il 15 gennaio, Roma ore 11 di De Santis è un’indagine scrupolosa sulle ragioni e le motivazioni che hanno spinto così tante donne a cercare lavoro. Nonostante tragga ispirazione da quell’evento, quest’ultimo si spinge oltre il semplice resoconto dell’accaduto, ed esplorando le motivazioni personali di ogni donna, incolpa il governo e il partito al potere dell’incidente accusandoli di inefficienza nel risolvere il grave problema della disoccupazione7. De Santis afferma8 che dopo essere venuto a conoscenza dell’incidente assunse l’allora giovane reporter Elio Petri9, che stava lavorando per l’edizione romana de «L’Unità», per investigare sull’accaduto. Dopo sei mesi di ricerche, Petri consegnò un lungo e dettagliato resoconto, includendo informazioni sulle donne coinvolte nell’incidente, integrato da interviste personali con passanti, poliziotti e vigili del fuoco che era4 Elio Petri racconta che quattro mesi dopo la sciagura si era sparsa la voce che i morti erano sei. Elio Petri. Roma ore 11, cit., p. 25. 5 Su un bollettino ANSA datato 4 luglio 1951, da Parigi, De Santis, in risposta alle insinuazioni di plagio mosse da Genina, spiega come il suo film sia fedelmente basato sui materiali raccolti durante una lunga indagine sull’incidente. 6 Il film di Genina parte dal fatto di cronaca per raccontare in tre episodi diversi tre casi femminili. Nel primo è centrata su una donna che a undici anni ha subito una violenza. Il secondo episodio tratta di una donna in fuga dal proprio matrimonio. Il Terzo racconta la storia di una borghese tossicodipendente. Tra gli sceneggiatori ci sono anche gli scrittori Brancati e Batti. 7 Negli anni cinquanta c’erano milioni di disoccupati o sottoccupati e per molta gente del Sud le condizioni di vita erano disperate. Tra il 1955 e il 1971, oltre 9 milioni di italiani erano coinvolti in migrazioni interregionali. Per maggiori dettagli si veda Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989, p. 291. 8 Giuseppe De Santis, Ricordo di Elio Petri, in Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984: Raccontato dai suoi protagonisti, Milano, Mondadori, 1984, pp. 291-293. 9 Elio Petri (Roma, 1929-1982), regista, giornalista e sceneggiatore, iniziò la sua carriera come sceneggiatore per De Santis. È conosciuto principalmente per i suoi film dedicati all’analisi della struttura della società. Forse il suo film più conosciuto è Indagine su un cittadino sopra ogni sospetto (1969).

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no accorsi nel luogo. Con queste utili informazioni alla mano, De Santis, Gianni Puccini, Cesare Zavattini, Basilio Franchina e Rodolfo Sonego si chiusero per tre mesi in una villa di Fregene per lavorare al trattamento del film e alla sceneggiatura finale. Prima che Petri effettuasse l’inchiesta, De Santis, Puccini, Franchina e Sonego avevano scritto un’idea di soggetto che partiva da una concezione corale dell’accaduto che si sarebbe sviluppato intorno a quattro oppure cinque ragazze. Fu Zavattini a suggerire la necessità dell’inchiesta che De Santis, come menzionato, affidò al giovane Petri, romano, figlio di popolani che secondo il regista ciociaro aveva la personalità adatta per portare a buon frutto l’indagine. Il film fu prodotto da Paul Graetz per la Transcontinental Film e Titanus ed è ricordato come uno dei film più costosi degli anni cinquanta. De Santis ingaggiò alcuni degli attori più conosciuti del tempo, quali Massimo Girotti, Raf Vallone, Paolo Stoppa, Armando Francioli, Checco Durante e Alberto Farnese, assieme ad alcune delle più popolari controparti femminili: Lucia Bosè, Carla Del Poggio, Maria Grazia Francia, Lea Padovani, Delia Scala, Elena Varzi e Paola Borboni. Il noto direttore artistico francese, Léon Barsacq, fu incaricato della ricostruzione dell’intero distretto e delle strade in cui ebbe luogo l’incidente all’interno degli studi della Titanus. Il risultato è un film che combina la fiducia zavattiniana nella realtà con quella di De Santis nella ricostruzione di fatti realmente accaduti attraverso l’immaginazione ed un fondamento di comprensione generale dell’evento e della situazione. Prima della realizzazione del film gli sceneggiatori decisero di ripetere l’esperimento dell’annuncio economico convocando in un ufficio, allestito per l’occasione, per scegliere la dattilografa durante tutto il lavoro di sceneggiatura. Si presentarono una sessantina di donne e il provino servì per cogliere le ansie, le paure e i discorsi che le ragazze facevano nell’attesa. De Santis ha dichiarato che nelle aspiranti dattilografe si sentiva un profondo senso di tristezza dovuta alla miseria materiale o morale10. Roma ore 11 è un’analisi delle condizioni sociali ed economiche inumane che costrinsero tutte quelle donne a radunarsi su quella scala. Il messaggio del film è racchiuso nel breve dialogo finale tra un giornalista deluso alla ricerca di un articolo sensazionale per l’edizione del mattino e il commissario di polizia che investigava sul crollo. In risposta alla domanda del giornalista «Di chi è la colpa?», il poliziotto lo invita a riflettere indicando una delle ragazze che è ancora davanti all’entrata dell’edificio, con la speranza di ottenere il posto di lavoro. 10 Giuseppe De Santis in Elio Petri. Roma ore 11, cit., p. 14.

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Roma ore 11 presenta una solida unità di tempo e di azione e uno svolgimento circolare: inizia e finisce di fronte al cancello che conduce alla scalinata e si svolge nell’arco di una giornata, dalle 8 di mattina alle 8 di sera. È diviso in due parti, ognuna ambientata in un luogo diverso, ma la storia è unificata dalle indagini. La prima parte si apre sulla scalinata e termina con il suo crollo. La seconda parte inizia all’ospedale e si conclude con il ritorno a casa delle donne. I personaggi vengono presentati durante la lunga attesa sulla scalinata. Queste introduzioni sono precedute da una sorta di parentesi all’esterno dell’edificio in cui sono accalcate le donne, accompagnate dai loro amici, amanti o parenti, che rivedremo di nuovo in ospedale dopo l’incidente. L’attesa sulla scalinata è seguita dal test di battitura, a sottolineare la pratica perversa che obbliga le donne in cerca di lavoro ad essere non solo qualificate ma anche attraenti e affascinanti. Infatti nella scena in cui un’anonima donna avanti con l’età e poco attraente sta facendo il suo test di battitura, l’angolo della cinepresa si inclina per porla in contrasto con un grande poster pubblicitario dello spumante Riccadonna appeso al muro dietro di lei, che mostra una ragazza seducente. Il contrasto sottolineato commenta in silenzio lo sfruttamento delle donne sul posto di lavoro. Nonostante le sue abilità di battitura, la donna non verrà assunta per il suo aspetto poco attraente. Il fatto che il suo nome non venga mai rivelato rappresenta un’ulteriore accusa delle condizioni che le donne non più giovanissime dovevano affrontare nel mercato del lavoro italiano durante gli anni cinquanta, in cui la bellezza e la giovane età sono prerequisiti per l’assunzione. L’annuncio di lavoro nel giornale non menzionava la velocità di battitura, ma si limitava a citare “Bellissima presenza” come requisito, sottolineando il superlativo “bellissima”. Al test di battitura si alternano commenti vivaci e colorati e brevi scambi di battute tra le donne che attendono il loro turno. Le brevi conversazioni permettono al pubblico di saperne di più sul contesto sociale del gruppo. La macchina da presa si sposta verticalmente seguendo i vari gradini della scala. Metaforicamente la scalinata rimanda ai sogni e alle aspirazioni delle donne, immagine rinforzata dagli sguardi delle aspiranti dattilografe rivolti in alto verso la porta dell’ufficio. Non appena una di loro entra, le altre cercano di sbirciare dentro la stanza, ma la porta viene sempre richiusa velocemente in faccia ai loro sogni e alla loro curiosità. Una macchina da presa posizionata sulla porta dell’ufficio si sofferma sulle espressioni del volto di coloro che sono in attesa sulle scale mentre ascoltano con trepidazione il ticchettio della macchina da scrivere

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per accertare le abilità della rivale. I pochi secondi di silenzio immobile sono seguiti da eloquenti espressioni del volto che lasciano trasparire sicurezza o sconforto. L’improvviso crollo della scala conclude la prima parte del film. L’avventatezza di una delle donne che sgomita per passare davanti alle altre provoca un tumulto ancora maggiore e la lite che ne scaturisce causa il crollo della scala. In un primo momento sembra che sia Luciana (Carla Del Poggio) ad aver causato il crollo, ma nel corso del film diventa chiaro che il suo comportamento è solo la causa apparente e che lei diventa, se non il capro espiatorio, l’emblema di un problema più ampio e più profondo: la disoccupazione e la mancanza di misure di assistenza sociale per i bisognosi, com’è ribadito dal marito disoccupato, Nando (Massimo Girotti), che cerca di confortarla. L’incidente pone fine ai sogni e alle illusioni delle aspiranti dattilografe e la sua rappresentazione è un’ulteriore prova dell’abilità di De Santis nell’uso della macchina da presa. Il regista non lo spettacolarizza, ma mantiene il tono del resoconto giornalistico, mostrandone il rilievo senza ricorrere a sensazionalismi. L’arrivo delle ambulanze, dei vigili del fuoco e dei soccorritori è descritto con un movimento della macchina da presa simile a quello utilizzato nei documentari. Uno spostamento discendente della cinepresa inquadra donne coperte di macerie e pezzi di cemento che erano parte di quella scala che conduceva ai loro sogni e alla loro felicità. La scala è diventata una lapide, la terra promessa un inferno. Queste immagini sono preannunciate nei titoli e nei crediti di apertura, quando le note di un organo che suona una melodia grave si fondono minacciosamente con il suono dei tasti di una macchina da scrivere. L’immagine funerea è rinforzata dal movimento discendente della cinepresa che si sofferma sulle vittime per accrescere l’atmosfera infernale. La scena finale della sequenza è girata dal lato opposto del cancello d’entrata. Quello che si sente sono urla e grida fino a quando una donna con gli abiti stracciati si trascina barcollando fuori dall’edificio avvolto nella polvere e poi collassa a terra. Vi sono molti esempi in questo film che testimoniano lo stile caratteristico ed espressivo di De Santis. L’inquadratura d’apertura è un primo piano di una ragazza addormentata che viene svegliata bruscamente dal rombo di una macchina. La macchina da presa si allontana per mostrare la figura intera della ragazza in piedi, poi la segue fino ad un bancarella e successivamente dal giornalaio. I movimenti della cinepresa servono da inquadratura di ambientazione. Mentre la macchina da presa segue i movimenti della ragazza, si vede un’altra giovane mentre si avvicina

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al cancello. Quando quest’ultima attraversa il centro dello schermo, la cinepresa mette a fuoco la nuova arrivata. La stessa tecnica è utilizzata per presentare il resto delle donne che si accalcano di fronte all’entrata. Un’altra sequenza sapientemente girata è la scena che segue l’arrivo del ragioniere che intratterrà i colloqui. Quando uno dei dipendenti entra nell’ascensore con in mano del caffè per il capo, la macchina da presa adotta il suo punto di vista. Mentre l’ascensore sale al quinto piano, il pubblico vede le lunghe fila di aspiranti dattilografe in coda lungo la scala. Nonostante le critiche di Guido Aristarco11 in merito a questa scena (che trovava troppo estetica e cerebrale) il momento è complesso, a volte suggestivo e bello. È una scena ricca di forza drammatica, accresciuta dagli sguardi silenziosi delle ragazze. L’ascensore che sale con dentro il dipendente appare come un traguardo irraggiungibile dal punto di vista delle giovani disoccupate. La seconda parte racconta la storia di nove delle ragazze sulla scala. Le vediamo all’ospedale e poi, quando lasciano l’ospedale, ci vengono mostrate scene che gettano luce sulle loro vite private. Per esempio lo spettatore scopre che Caterina (Lea Padovani), la prostituta, è stanca del suo degradante lavoro e sta cercando di redimersi. All’inizio del film scende dall’auto di un cliente, il quale in una profezia sardonica risponde al commento sul suo desiderio di cambiare vita dicendo «Lo dubito fortemente». Sulla scalinata Caterina cerca di nascondere la sua vera identità, ma il suo tentativo di cambiar vita fallisce miseramente. Dopo essere stata dimessa dall’ospedale torna nella scena del crollo per recuperare il suo ombrello e la sua borsa, oggetti che facevano parte della professione che ora è costretta a riprendere. Subito un uomo la fa salire nella sua auto ed insieme vanno a casa di lei a Tormarancia, una delle più indigenti borgate di Roma. Una volta lì il cliente benestante, spaventato dalla povertà del posto, se ne scappa lasciando dei soldi. La sequenza causò dei problemi a De Santis con il produttore e con i censori, i quali volevano che fosse tagliato il ritorno a casa della prostituta. Ne seguì una lunga discussione che finì in tribunale. La Titanus si avvalse della testimonianza di Zavattini per provare che De Santis aveva sprecato tempo e soldi per girare l’episodio. Tuttavia, nonostante la testimonianza dello sceneggiatore, il tribunale si pronunciò a favore del diritto artistico di De Santis di esprimersi liberamente e la sequenza rimase nella versione finale del film. 11 Si veda Guido Aristarco, Roma ore 11, cit., p. 146.

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Una storia simile è descritta nell’episodio che vede come protagonista Adriana (Elena Varzi), la donna sedotta e abbandonata dal proprio datore di lavoro. Durante il test di battitura, Adriana confessa al ragioniere il motivo per cui aveva lasciato il vecchio lavoro, poi scappa via in lacrime. In ospedale, con il padre (Checco Durante) a fianco del letto, il pubblico viene a sapere che la donna è incinta e che il crollo non ha causato danni al nascituro. Durante il loro tragitto verso casa, il dramma famigliare esplode. Il padre impone alla figlia di andarsene per sempre di casa. Tuttavia quando i vicini li salutano e si rallegrano di vedere che Adriana è viva e sta bene, il padre cambia idea, comprende il significato della vita e dell’umanità e senza dire una parola accompagna la figlia dentro casa. L’episodio di Cornelia (Maria Grazia Francia), una delle ragazze più giovani di fronte al cancello, è tragico e completamente diverso dagli altri. Cornelia sembra uscita da una storia a fumetti. Durante l’attesa incontra un marinaio in partenza per Mogadiscio, un luogo lontano e misterioso per lei. I due quasi non si parlano, ma i loro sguardi e i loro sorrisi rivelano l’innocenza di Cornelia. Da uno dei piani all’interno dell’edificio, la cinepresa assume la prospettiva della ragazza mentre guarda fuori dalla finestra per vedere se il suo marinaio è ancora lì fuori. A questa scena segue un’inquadratura dalla strada, che mostra la ragazza dal punto di vista del marinaio. Dalla sua prospettiva Cornelia appare un angelo etereo circondato da ali di pietra da entrambi i lati della finestra rotonda da cui lei si sta affacciando. Il sogno d’amore di Cornelia non diventerà mai realtà. Il destino che le ha donato l’amore a prima vista, le infliggerà poco dopo la morte, come suggerito dall’immagine di lei con le ali di pietra, in un’allusione ai monumenti funebri. Nell’episodio di Luciana (Carla Del Poggio), moglie di un operaio disoccupato (Massimo Girotti), si racconta una storia disgraziata. Spinta dalla disperazione Luciana è costretta a recarsi all’ufficio nel tentativo di trovare un lavoro per mantenere la sua famiglia, inconsapevole che sarebbe diventata la causa apparente dell’incidente. Dopo essere venuta a conoscenza della morte di Cornelia, Luciana tenta il suicidio, ma viene salvata dal marito e da alcune donne che comprendono la sua innocenza. Luciana è il personaggio più drammatico del film. Il suo ruolo è studiato per far ragionare il pubblico sulle reali cause dell’incidente. Fra i vari episodi, c’è anche quello a lieto fine della giovane figlia di un impiegato statale fiero e rigido, Clara (Irene Galter), la quale nasconde il suo sogno segreto di diventare una cantante professionista. All’ini-

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zio del film, dopo aver lasciato il padre (Paolo Stoppa), si reca dal giornalaio per comprare Il canzoniere. All’ospedale Clara si innamora del suo soccorritore. Durante il resoconto del crollo alla Radio Nazionale in diretta dall’ospedale, Clara canta Amado mio, imitando l’esibizione di Rita Hayworth in Gilda (1947). Il padre approfitta del servizio per lamentarsi dei salari statali troppo bassi ma, con sua grande delusione, il commento viene omesso dal giornale radio della sera. Fra le storie principali vi è anche l’episodio commovente di Loretta (Loretta Paoli), la ragazza di provincia da Viterbo che è diventata lo zimbello del paese per le sue trasferte in giornata a Roma alla ricerca di un impiego, guadagnandosi il soprannome di “Andata e ritorno” Loretta non sa scrivere a macchina ma, pur di ottenere l’impiego, è disposta a concedere favori al datore di lavoro. In seguito all’incidente rifiuta le medicazioni come se si vergognasse della ciclista che indossa sotto ai vestiti della domenica. Tuttavia niente può essere nascosto al cinico reporter: un giornalista senza scrupoli scatta una fotografia della sua maglietta mentre un altro annota: «Grande storia. Ragazza in cerca di lavoro per comprarsi una maglia nuova!» Fortunatamente Loretta trova lavoro come cameriera, prendendo il posto di Angelina (Delia Scala), la quale, in seguito all’incidente, trova abbastanza coraggio da lasciare il suo lavoro e ritornare a casa dalla sua famiglia, stanca di subire molestie sessuali dal suo datore di lavoro e dal figlio. Lo scambio verbale, in due dialetti diversi, che ha luogo tra Loretta e Angelina riguardo al lavoro e ai pasti aggiunge un ulteriore elemento tragico ai loro drammi personali. L’episodio che ha per protagonista Simona (Lucia Bosè) è incentrato sull’unica donna che proviene da una famiglia benestante, distinzione che è subito evidente dal suo aspetto e dai suoi vestiti, che è alla ricerca di un lavoro che la renda indipendente dalla famiglia. I suoi famigliari la raggiungono in ospedale per riportarla a casa, ma, durante il viaggio di ritorno su di un’auto costosa e lussuosa, Simona intima al padre di fermarsi e torna a piedi dal suo amante, un artista disoccupato (Raf Vallone). La sequenza in cui Simona entra nell’appartamento e senza dire una parola si accinge a fare qualche pulizia di casa prima di sedersi su una sedia a dondolo che si muove con delicatezza al ritmo di una melodia jazz americana suonata alla radio è uno dei momenti più sentimentali, teneri e affettuosi di tutto il film. La sequenza è un montaggio di primi piani dei due protagonisti, Simona e il suo amante, che ha lo scopo di abbattere la distanza creata tra di loro in ospedale, quando i genitori di Simona chiedono al giovane di lasciarla.

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Fra queste storie principali ce ne sono altre di alcune donne anch’esse in fila sulla scala. Oltre a quella della dattilografa anonima che non viene assunta per la sua età e il suo aspetto, c’è anche il racconto della ragazza che apre e chiude il film la quale ha bisogno di essere incoraggiata dalla madre a causa della sua timidezza, e quando la madre viene ricoverata in ospedale dopo l’incidente, la ragazza trova il coraggio di correre di nuovo verso il cancello con la speranza di essere assunta. Dopo aver comprato alcune castagne arrostite si siede tristemente e la macchina da presa si allontana, utilizzando un tecnica opposta a quella della scena d’apertura del film. L’inquadratura della malinconica ragazza rimarrà impressa negli occhi dello spettatore, così come il significato del film: il pubblico è lasciato a riflettere sulla povertà e la disoccupazione. Roma ore 11 fa fare un passo avanti al cinema italiano del dopoguerra. Utilizzando la modalità narrativa dell’indagine, De Santis e i suoi collaboratori hanno dato vita a una protesta contro le scarse condizioni sociali in Italia, ma, più di ogni altra cosa, hanno realizzato un persuasivo film corale in cui i personaggi si equivalgono e non c’è un protagonista principale. L’aspetto corale del film è sempre mantenuto saldo e non si sgretola mai in una semplice serie di episodi. La tragedia principale serve a far convergere e a mantenere legati i vari contesti delle donne/aspiranti dattilografe. In questo film De Santis dimostrò che il neorealismo poteva continuare senza l’impiego di gente normale e non professionista, diede prova del fatto che eccellenti attori professionisti e ambientazioni create negli studi potevano essere utilizzati per rendere memorabili e commoventi delle notizie di cronaca12. 12 Dopo Roma ore 11, il nome di De Santis scomparve dalla lista dei principali registi. Il critico Alberto Farassino in Giuseppe De Santis, cit. p. 35, scrisse sull’argomento che De Santis agli inizi degli anni ‘50 era già considerato un autore finito, un ex protagonista divenuto di troppo. È importante ricordare ciò che è accaduto nella sfera politica durante quegli anni tumultuosi. Dopo l’uscita di Roma ore 11 De Santis fu vittima della nuova azione legislativa adottata dal governo conservatore del Primo Ministro Mario Scelba (da gennaio 1954 a giugno 1955). Il film di De Santis venne posto al centro dell’inchiesta governativa che voleva scoprire se avesse ricevuto finanziamenti dall’allora Unione Sovietica o se qualcuno dei suoi guadagni avesse finanziato attività legateal PCI. Nel gennaio del 1954 passò una delibera contro il supporto, la distribuzione o il finanziamento governativo di qualsiasi film, regista o produttore legato, o anche solo influenzato, al PCI. Il nome di De Santis apparve in cima alla lista nera del governo distribuita ai produttori. La lista fu pubblicata dall’ARI (l’agenzia di stampa ufficiale) e ne seguì una campagna stampa contro i registi di sinistra. Il 22 aprile 1954 il Ministro Giuseppe Ermini difese le nuove misure in un articolo apparso su «Il messaggero», p. 11.

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Capitolo 8 Può un maschio italiano sposare una donna di tutti? Un marito per Anna Zaccheo (1953) Provate a essere donna, per un giorno solo, provate la leggerezza, l’oltraggio, la denigrazione che si sono fatte carne della carne e nessuno ci bada più per niente affatto. Provate a cercare un posto, un lavoro che non sia di asina da soma, che non sia l’esposizione e la vendita di una pelle levigata che aggrinzisce al primo autunno. Provate a servire, quando la servitù vi è comandata come una necessità, un’antica innata tendenza del corpo femminile. Dacia Maraini

Dopo il riconoscimento critico di Roma ore 11, De Santis cercò ancora una volta di girare il film Noi che facciamo crescere il pane, la sua saga sulle ribellioni contadine per la terra e le riforme in Calabria. Purtroppo non riuscì a trovare un produttore nemmeno nel 1953, quando era all’apice della sua carriera (Goffredo Lombardo, titolare dello Studio Titanus, gli affidò la supervisione di due film minori con il solo scopo di promuoverli, nonostante De Santis non avesse lavorato alle produzioni)1. Elio Petri raccontò che mentre lavorava con Gianni Puccini e De Santis per trovare i luoghi adatti per girare un film (una storia d’amore che si svolgeva vicino a Gaeta), il produttore Domenico Forges-Davanzati sottopose al regista una breve storia scritta da Alfredo Giannetti e Salvatore Laurani intitolata Una corona per Anna Zaccheo. De Santis la trovò una storia interessante e, in collaborazione con Puccini, Petri, Zavattini e gli autori della storia, riscrisse parte della trama per la sceneggiatura di un film2. Prima dell’uscita del film, durante una delle sue visite in Unione Sovietica, De Santis diede una conferenza stampa in cui annunciava che sta1 Questa informazione proviene da una delle nostre conversazioni a Fiano Romano nella primavera del 1991. 2 Nella storia di Giannetti e Laurani, Anna Zaccheo era una bellissima ragazza di Perugia che, dopo aver fatto la prostituta per lungo tempo, sposa un ricco principe romano che gli dona una corona come regalo di nozze. Da qui il titolo della storia, Una corona per Anna Zaccheo. Dopo aver acconsentito ad utilizzare la storia, De Santis convinse gli altri suoi collaboratori a cambiare non solo il titolo ma anche il messaggio sociale del film.

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va lavorando ad un film sullo sfruttamento e la mercificazione della bellezza femminile in una società capitalista. Tuttavia la complessa storia di Anna trascende tutta questa spiegazione propagandistica che deriva dai tradizionali pregiudizi maschili3. La storia si svolge a Pignasecca, uno dei quartieri operai di Napoli. Anna Zaccheo (Silvana Pampanini) è una bella ragazza ventitreenne, figlia di un povero conduttore della funicolare. Come molte altre ragazze della sua età e del suo stato sociale, Anna sogna di trovare l’amore e la felicità. La sua umile famiglia spera che lei faccia un uso saggio della sua bellezza e della sua verginità dal momento che non ha né dote, né lavoro. Nella stessa via vive Don Antonio Percuoco (Umberto Spadaro), un uomo piuttosto brutto e vecchio che si è arricchito da sé con il commercio del pesce. La famiglia Zaccheo considera Don Antonio un buon partito e incoraggia il suo accanito corteggiamento accettando i mazzi fiori che regala ogni giorno alla loro figlia. Il sogno di Anna diventa realtà il giorno in cui incontra Andrea (Massimo Girotti), un bel marinaio di Ancona, la cui nave è approdata a Napoli per un giorno. Come i cavalieri delle favole, Andrea salva Anna che è stata scoperta a nuotare nuda in mare da un gruppo di suoi compagni marinai. Andrea si scontra con loro, recupera i vestiti di Anna e la aiuta gentilmente e timidamente a rivestirsi. Dopodiché trascorrono l’intera giornata assieme. I due pranzano su un terrazzo che dà sul mare mentre i musicisti suonano canzoni napoletane. Dopo una lunga passeggiata assistono ad uno spettacolo al teatro locale e si lasciano con un lungo abbraccio d’addio, con le inevitabili promesse di amore eterno e matrimonio. Dal momento che la famiglia della ragazza non ha sufficiente denaro per il matrimonio, Anna è costretta a cercare lavoro per comprarsi dei vestiti nuovi e, se possibile, dei mobili. Grazie alla sua bellezza riesce a trovare un lavoro come fotomodella per il dottor Illuminato, un uomo d’affari milanese trasferito al Sud per lavoro. Dopo le molestie sessuali subite nei precedenti posti di lavoro, Anna è felice di lavorare per un uomo tanto gentile e decoroso. Un giorno un forte acquazzone interrompe un servizio fotografico all’aperto, costringendo Anna oramai fradicia a cercare riparo nell’auto del dottor Illuminato. Questi le offre del liquore per scaldarsi e approfitta delle circostanze e del suo stato inebriato 3 Sull’argomento De Santis disse al giornalista Luigi Costantini che il problema che affronta il film è la posizione sbagliata che si continuava a imporre alle donne. Tale problema, proseguì De Santis, derivava dai pregiudizi maschili che imperavano in tutta l’Italia. In «Diorama» (marzo/aprile 1952), p. 15.

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per sedurla. Nella strada verso casa lui le confessa di essere sposato con figli e di non poter provvedere a lei. Quando arriva a casa e vede i mobili per il matrimonio appena consegnati, Anna tenta il suicidio. In ospedale giunge a farle visita Andrea, che quando viene a conoscenza dell’accaduto la lascia per sempre. Così la ragazza abbandona la casa dei suoi genitori e nell’impossibilità di mantenersi da sola accetta di diventare la fidanzata di Don Antonio. Presto scopre che lui la considera solamente un bell’oggetto di sua proprietà e un motivo d’orgoglio per il suo ego. Anna trova sufficiente forza per rompere il loro fidanzamento, ma, lasciata senza nessun sostegno economico, è costretta a lavorare come arciere in un parco divertimenti per uomini. Un giorno Andrea si ritrova per caso fra gli spettatori e vedendo Anna le chiede di trascorrere il resto della giornata con lui. Ancora una volta i due vanno a teatro a vedere un sceneggiata napoletana4, ma questa volta Anna lo invita a passare la notte nella sua piccola stanza in affitto. Il marinaio le promette amore, matrimonio e felicità, ma la mattina seguente è sopraffatto dal pregiudizio maschilista. Andrea non sopporta che Anna sia stata la fidanzata di Don Antonio e le rimprovera la sfrontatezza nell’averlo invitato a trascorrere la notte con lei. La sua collera scoppia alla vista di un poster pubblicitario di maglieria in cui Anna, con la gonna sollevata, mostra le sue lunghe gambe. Andrea non può sposarla perché non riesce a sopportare l’idea che Anna sia una donna di tutti. I due si separano e quando un passante cerca di consolare la ragazza in lacrime, lei lo schiaffeggia. Il film termina con Anna che ritorna a casa dei propri genitori, guardando la città dalla finestra della sua camera, nello stesso posto in cui la si vede inquadrata all’inizio del film. In un fuori campo, Anna ci racconta che ci sono molte altre donne in città che hanno dovuto subire la stessa esperienza, ma che non ci si deve arrendere perché la vita deve essere vissuta. Il titolo del film fa riferimento alla triste realtà che vedeva il matrimonio come l’unica opzione per le donne in un società sottosviluppata. La condizione di Anna Zaccheo esemplifica la situazione di molte altre giovani donne italiane, come le iniziali del suo nome e cognome vogliono suggerire. De Santis era ben consapevole delle critiche che un 4 La sceneggiata è una rappresentazione teatrale tipicamente napoletana la cui trama ruota attorno a temi tratti da canzoni popolari ben conosciute al fine di far partecipare tutto il pubblico. Sulla relazione tra la sceneggiata e il cinema si veda Stefano Masi, Il cinema regionale della sceneggiata, in «Cineforum» 184 (maggio 1979).

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film incentrato su una bella donna avrebbe potuto sollevare5, specialmente nell’Italia del 1953, un momento in cui la critica cinematografica era pesantemente influenzata dalla politica e il cinema nazionale era impegnato nel proseguire la battaglia del neorealismo. Come previsto, i critici di sinistra accusarono De Santis di essere tornato all’erotismo decadente e al sex appeal di Riso amaro. Questi attacchi puritani erano diretti prevalentemente alla scena d’apertura, in cui Anna Zaccheo (Silvana Pampanini) si sveglia e si alza dal letto con indosso una sottoveste ed inizia a vestirsi in maniera provocante davanti allo specchio. L’altra scena che generò un’ondata di lettere di protesta indirizzate a L’Unità che esprimevano indignazione è quella in cui Anna nuota nuda in mare. Fra tutte si fece notare in particolare la lettera spedita dalla scrittrice femminista Fausta Terni Cialente. Qui la scrittrice parla del film di De Santis reintitolandolo Anna Zaccheo, ovvero il trionfo delle gambe e definendolo un film realizzato con il solo scopo di far spogliare l’attrice Pampanini.6 La lettera si chiude con un appello a girare film che gettassero luce sugli aspetti più positivi della ricca vita delle donne italiane. De Santis rispose7 alla Terni Cialente con una lunga lettera polemica in cui difese le sue intenzioni e quelle dei suoi collaboratori nel realizzare il film, affermando che il loro obiettivo era quello di mostrare che i maschi del tempo dovevano iniziare a chiedere ad una donna di non essere tanto una femmina, e solo una femmina, ma piuttosto di imparare a considerarla e a valorizzarla per altre ragioni. I critici di destra aggiunsero le proprie obiezioni e le proprie riserve, citando le intenzioni politiche e morali del film. Scrivendo per «Fiera letteraria» il giornalista Feraldo Feraldi8 chiese, in tono retorico, che altro poteva avere in serbo una società borghese per una donna, oltre a dei problemi? Il giornalista sosteneva che, per un marxista come De Santis, l’arte era poca cosa paragonata al bisogno di conferire un mes5 Sulla questione De Santis affermò di aver previsto in anticipo le obiezioni che sarebbero state mosse al film e di ritenerlo, tuttavia, un film meno problematico rispetto ai suoi lavori precedenti. Il regista aggiunse di credere nel linguaggio costruttivo del cinema neorealista, nonostante la strada del neorealismo fosse diventata molto difficile da percorrere e la censura fosse difficile da eludere. «ANSA, Notiziario cinematografico» 7/825 (16 giugno 1953), p. 4. 6 Fausta Terni Cialente, Anna Zaccheo, ovvero il trionfo delle gambe, «L'Unità», 21 gennaio 1954. 7 Giuseppe De Santis, A proposito di un articolo di Fausta Cialente, «L'Unità», 16 febbraio 1954. 8 Feraldo Feraldi, Un marito per Anna Zaccheo, «Fiera Letteraria», 27 gennaio 1953.

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saggio politico ad ogni opera. Dunque l’ostracismo nei confronti del film iniziò già prima della sua uscita, tanto che il produttore ForgesDavanzati9 si vide costretto a rispondere dell’accusa di essere di sinistra. In sua difesa il produttore rispose di non essere mai stato spinto da affiliazioni politiche nella scelta dei registi e dei soggetti per i suoi film, ma dall’aspirazione di realizzare pellicole di alta qualità. Affermò inoltre che nella scelta di De Santis per Anna Zaccheo aveva basato la sua decisione sul fatto che il regista era una figura conosciuta a livello internazionale e aggiunse che non credeva che l’attività di un regista cinematografico potesse acquisire uno specifico colore politico solo perché i suoi film, anziché essere semplici passatempi della domenica, focalizzavano l’attenzione su problemi sociali o su certi costumi sociali. Un marito per Anna Zaccheo si propone di mostrare le complessità dell’essere donna, aspetto sottovalutato sia dai politici che dagli intellettuali. L’obiettivo ultimo del film è quello di condannare il caratteristico costume sociale secondo cui le donne erano ridotte a meri oggetti del desiderio maschile e a cui venivano negati gli impulsi e i desideri sessuali. Il pubblico italiano negli anni cinquanta non era sensibile al problema, come attestano le polemiche dei critici sul film. Vittorio Spinazzola aveva, per esempio, affermato: «la questione femminile non riusciva a occupare un posto adeguato nei programmi politici del movimento democratico, né gli uomini di cultura se ne facevano un assillo particolare»10. Le donne erano presenti nei film neorealisti italiani, e perfino nelle commedie, in ruoli specifici: come mogli e madri, come vittime colme di rimorso a causa di tentazioni sessuali o come tentatrici perseguitate e martiri sacrificate in nome dell’onore famigliare. Il personaggio di Anna Zaccheo conferma l’interesse di De Santis nei confronti del ruolo sociale femminile, tema che aveva già affrontato in Riso amaro, Non c’è pace tra gli ulivi e Roma ore 11. Come per gli altri film, in Anna Zaccheo il regista riafferma la sua fiducia nel potere del cinema di instillare una coscienza sociale. Ed infatti la storia di Anna Zaccheo è un commento alla cultura italiana e ai suoi costumi. Al fine di proseguire il commento sociale e di comunicare con le masse attraverso questo film, De Santis si avvale di forme di intrattenimento popolari. In Anna Zaccheo De Santis adotta i cliché narrativi 9 Sulla difesa di Forges-Davanzati si veda «ANSA, Notiziario cinematografico» 9/827 (16 settembre 1953), p. 2. 10 Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico: Lo spettacolo filmico in Italia, 1945-1965, Milano, Bompiani, 1974, p. 22.

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della sceneggiata napoletana e del melodrammatico romanzo d’appendice, ribaltando i loro messaggi sociali conservatori e conformisti. Il film si svolge a Napoli, città in cui la sceneggiata e il romanzo d’appendice sono parte dell’immaginario collettivo. Al fine di rappresentare la mercificazione della bellezza femminile, il regista aveva bisogno di una città come Napoli, dove la vita si svolge al di fuori delle mura domestiche. Nella prima parte del film, quando Anna cammina per strada e attraversa il mercato, tutte le teste si girano a guardarla e ogni venditore commenta la sua bellezza. In questo modo il pubblico si accorge di quanto l’aspetto femminile sia apprezzato ed esibito e come una donna si trasformi in un oggetto del desiderio. Il personaggio di Anna possiede la purezza e l’innocenza delle brave ragazze della sceneggiata napoletana, ma allo stesso tempo la sua avvenenza è una caratteristica associata alla sua antagonista, ovvero la femme fatale o tentatrice. Pertanto la bellezza è un ostacolo alla sua felicità in una società maschilista che venera il fascino femminile ed allo stesso tempo lo teme. Anche Andrea, il bel marinaio forestiero, possiede tutte le qualità associate al seduttore tipiche di queste forme popolari di intrattenimento. I due si incontrano quando Anna sta nuotando nuda, fluttuando fra la schiuma come la dea Venere. In questa simbiosi di acqua e corpo, Anna mostra la sua innata innocenza e purezza. Solo gli sguardi dei marinai le conferiscono un senso di vergogna e colpevolezza. Andrea la soccorre e Anna trova il suo gentile gesto rassicurante. Durante la loro passeggiata lungo la spiaggia e il loro pranzo sul terrazzo, De Santis utilizza tutti i cliché narrativi della sceneggiata, che culminano quando, su richiesta di Anna, vanno a vedere una vera sceneggiata al teatro del paese. Mentre assiste allo spettacolo, Anna rivive sulla sua pelle gli stessi sentimenti e le stesse emozioni, identificandosi con i personaggi del palcoscenico. Anna crede nel sentimentalismo delle convenzioni teatrali e le ritiene, come dice allo scettico Andrea, più vere della vita reale. Andrea, ben distante dalle convenzioni dello spettacolo, si preoccupa solo del fatto che tutti gli uomini nel teatro guardano Anna. Nei loro sguardi Andrea vede riflesso il suo stesso desiderio sessuale nei confronti della ragazza. Da questo punto in poi, attraverso i sentimenti e le azioni dei due protagonisti, il film evolve secondo i generi narrativi su cui è strutturato, ovvero la sceneggiata e il romanzo d’appendice. A partire da questo momento la vita di Anna si svilupperà come la messinscena della rappresentazione teatrale e le azioni di Andrea ricorderanno quelle dei seduttori nel romanzo d’appendice. Quando lo spettacolo si conclude,

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Anna e Andrea passeggiano attraverso gli stretti vicoli di Napoli e giù per i ripidi e tortuosi gradini11 che conducono al porto. Le loro pause per scambiarsi baci e tenere parole sono la continuazione della messinscena teatrale appena conclusa. Alla fine della loro camminata, come nei romanzi d’appendice, Andrea giura di ritornare per prenderla in moglie. Dopo il suo imbarco Anna, proprio come le povere ragazze delle sceneggiate, deve trovare un lavoro senza scendere a compromessi. Anna deve sopportare molestie sessuali e viene sedotta da un uomo che si dimostra essere l’opposto di ciò che suggerisce il suo cognome (dottor Illuminato). Fedele ai popolari cliché narrativi, Anna è sopraffatta dal rimorso e tenta il suicidio. Disprezzata dai suoi vicini, lascia la sua casa per risparmiare alla sua famiglia un ulteriore imbarazzo. Come nei romanzi, una donna abbandonata non può sperare di sposare un bel giovane, pertanto accetta l’offerta di matrimonio di Don Antonio. Anna deve ritenersi fortunata di aver trovato un uomo che la voglia sposare nonostante non sia più vergine. A questo punto le intenzioni progressiste del regista iniziano ad emergere e si comincia ad uscire dai cliché narrativi con lo scopo di sfidare il messaggio sociale conformista. Anna rompe il fidanzamento e sceglie di vivere in povertà anziché sposare un uomo il cui unico intento è quello di comprare e possedere il suo avvenente corpo. Dopo averla portata fuori a cena e averle mostrato la nuova casa che sta facendo costruire per loro, Don Antonio vuole avere dei rapporti sessuali, dal momento che sta sposando una donna non più illibata. Anna sta imparando che la vita è ben diversa dai sentimentalismi della sceneggiata, che in precedenza riteneva più veri della vita reale. Costretta dalle circostanze, Anna trova lavoro come arciere in un parco divertimenti per uomini. Ancora una volta Anna appare come una Venere ma, contrariamente alla scena del bagno in mare, ora è all’interno di una grossa gabbia circondata da uomini sbigottiti che bramano per lei. Per guadagnarsi da vivere Anna acconsente a divenire oggetto dello sguardo maschile. Per pura coincidenza Andrea si ritrova fra quegli sguardi. I due escono nuovamente insieme e ancora una volta vanno a vedere un sceneggiata. Anna ora è più emancipata rispetto al loro primo incontro ed invita Andrea a passare la notte nel suo piccolo appartamento. A differenza 11 Per De Santis le scale rappresentano gli alti e bassi dell’esistenza umana. Per un’interpretazione sui gradini in relazione ai musical americani si veda Piera Detassis, Anna Zaccheo: Questa donna è di tutti, «Cinema e cinema» 9/30 (1982).

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delle protagoniste della sceneggiata, Anna esprime i propri desideri sessuali. Le speranze della protagonista si rianimano, ma Andrea, la quintessenza del maschilismo, non si fida di lei e si chiede se lei faccia così con tutti. Andrea ammette di essere come suo padre e come qualunque altro uomo attorno a lui e di valutare la sessualità maschile e femminile con due metri di misura differenti. Nell’ultima scena che mostra Anna e Andrea assieme prima della loro separazione definitiva, quest’ultimo è dietro ad un muretto sovrastato da una rete metallica, a dimostrazione dei pregiudizi e della separazione tra i sessi. De Santis è ben attento a far intendere al pubblico che il maschilismo è un fenomeno nazionale e non solo napoletano, presentando tre diversi protagonisti maschili, Andrea, il dottor Illuminato e Don Antonio, provenienti da tre diverse parti d’Italia. La violenta reazione che ha Anna nello schiaffeggiare l’uomo che vuol consolarla dimostra un’evoluzione nell’autostima della protagonista, la quale non è più l’oggetto sessuale passivo descritto nella scena d’apertura al mercato, dove faceva sfoggio della propria bellezza. Divenuta soggetto, e non più oggetto, Anna può proseguire la sua vita senza un uomo o un marito al suo fianco. La vita di una donna merita di essere vissuta nonostante i pregiudizi maschili. Un marito per Anna Zaccheo è il film di una donna che affronta il tema dell’essere attraente in una società che mercifica la bellezza e offre alle donne unicamente il ruolo di moglie e madre, privandole di qualsiasi desiderio o volontà sessuale. Il ritmo lento del film, girato per gran parte a media distanza, con primi piani riservati esclusivamente ai momenti di forte crisi (quali gli incontri e le liti fra gli amanti), è appropriato ad una storia interessata ad osservare le reazioni degli uomini di fronte alla bellezza femminile. La staticità della messinscena che caratterizza la pellicola non è un difetto ma piuttosto, come ha affermato Farassino12, la rappresentazione dell’immobilismo che circonda la vita di Anna. De Santis ha scelto deliberatamente di non utilizzare grandiosi movimenti della macchina da presa che avevano caratterizzato Caccia tragica e Riso amaro, al fine di adattare la forma del film al suo contenuto. La modesta storia di un tema sociale femminile richiedeva una forma meno appariscente. Sfortunatamente i critici italiani degli anni cinquanta erano accecati dalle loro interpretazioni politiche e non compresero che i problemi di Anna Zaccheo erano universali e non individuali. 12 Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit.

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Il film deve essere considerato una delle prime opere ad interessarsi della mercificazione femminile in Italia. Grazie all’utilizzo dei cliché narrativi della sceneggiata e del romanzo d’appendice e al successivo allontanamento dai loro messaggi conservatori e conformisti, De Santis proseguì nel suo progetto di creare un cinema per le masse, che fosse in grado di intrattenere e allo stesso tempo di risvegliare una coscienza sociale progressista. Nel 1953 furono girati altri importanti film, quali Noi donne, Amore in città, Gelosia, Villa Borghese, Pane, amore e fantasia e La passeggiata. Queste opere sono rilevanti non solo perché furono realizzate da alcuni fra i più acclamati registi del cinema italiano, fra cui Rossellini, Antonioni, Visconti, Zampa, Germi, De Sica, Lattuada e Zavattini, o da registi emergenti quali Risi e Rascel, ma soprattutto perché affrontano alcuni temi critici legati al neorealismo. Fra questi film, per esempio, Noi donne e Amore in città si propongono di presentare semplici notizie urbane e di ricreare eventi reali utilizzando le persone realmente coinvolte come attori e ricostruendo fedelmente gli eventi. Questa fredda presentazione cronologica degli eventi mostra la vulnerabilità della teoria neorealista zavattiniana secondo cui i fatti parlano da sé. Per De Santis il solo portare la macchina da presa nelle strade non è sufficiente a svelare la storia, il passato o le origini dei problemi, o ad aiutare a modificare il conservatorismo o i costumi sociali. Le rappresentazioni oggettive possono non rivelare i problemi né presentare un quadro più approfondito dei protagonisti. Un marito per Anna Zaccheo segna lo sforzo del regista di fare un passo in avanti verso una più profonda resa psicologica dei personaggi in un tempo in cui il cinema nazionale italiano stava cercando sia di variare la sua estetica, combinando strategie comiche e realistiche come nel cosiddetto realismo rosa, che di intraprendere fedelmente la ricostruzione di fatti reali, come in Amore in città.

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Capitolo 9 Matrimonio alla ciociara: Giorni d’amore (1954) Se tutti ci battiamo per una revisione critica, dobbiamo prima di tutto, a me sembra, incominciare a distruggere dentro di noi quanto di vizioso, di volgare e di infamante cercano di compiere ogni giorno i nostri avversari nei dibattiti culturali, al di fuori di noi. ... sollecitateci nelle nostre responsabilità di artisti, ma fateci anche divertire col nostro lavoro, e abbiate fiducia che non ci saremo mai divertiti abbastanza quando saremo arrivati alla fine della nostra vita di artisti. Giuseppe De Santis

Nell’atmosfera conformista generata dal crescente potere di un governo centrista democristiano, la libertà artistica d’espressione era ristretta. Il controllo dello stato sui finanziamenti mise un freno alle attività creative e portò all’autoimposizione della censura, dato che il cinema italiano stava attraversando gli anni più difficili dalla caduta del fascismo1. In questo periodo di generale declino artistico, il cosiddetto neorealismo rosa, che istituzionalizzò l’ottimismo, la spensieratezza della povertà e l’escapismo politico, s’impose nell’immaginario collettivo del pubblico nazionale. La maggior parte delle personalità di spicco del primo neorealismo stavano pagando le conseguenze del generale stato di regressione artistica: il teorico Umberto Barbaro aveva lasciato l'Italia; De Santis, ostracizzato dal governo, era impossibilitato a girare la sua storia sulle ribellioni contadine per la riforma agraria nel Sud; il professor Luigi Chiarini era stato licenziato dalla redazione della rivista «Bianco e nero»; De Sica si era dedicato nuovamente alla recitazione e aveva interrotto la sua collaborazione con Zavattini, il quale stava scrivendo storie minori per commedie. Entro la fine degli anni cinquanta la lista si allungò ulteriormente2. Sembrava che tutti i registi dovessero inchinarsi alla richiesta di commedie leggere da parte dell’industria cinema1 Secondo il critico Goffredo Fofi l’intolleranza politica degli anni cinquanta unita alla censura più serrata di quei tempi erano il risultato diretto del trattato di Ialta tra le superpotenze. Si veda Fofi, Il cinema italiano: Servi e padroni, Milano, Feltrinelli, 1972. 2 Per un completo resoconto sul cinema italiano negli anni cinquanta si veda Giorgio Tinazzi, ed. Il cinema italiano degli anni ‘50, Venezia, Marsilio Editori, 1979.

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tografica. A questo proposito Carlo Ponti confermava che un produttore dell’epoca era costretto a sottostare a compromessi e intimidazioni e, qualora fosse stato sufficientemente coraggioso da produrre un film che andava oltre il mero intrattenimento, al massimo avrebbe affrontato il rischio una volta sola. La seconda avrebbe sicuramente investito i suoi soldi in un progetto che gli avrebbe garantito un guadagno economico3. Il neorealismo, inteso come movimento di protesta e analisi sociale, sembrava aver concluso il suo breve viaggio attraverso gli annali del cinema italiano. De Santis cercò di creare nuove possibilità d’espressione e di preservare il suo coinvolgimento nei confronti di un cinema nazionale impegnato con una pellicola meno politica, Giorni d’amore4, il cui titolo riflette ironicamente l’atmosfera del periodo5. Nonostante il titolo e il genere, questo racconto contadino degli anni cinquanta è un film programmatico, il cui contenuto e forma si discostano dalle precedenti cronache del regista che idealizzavano i personaggi delle classi povere e i loro ambienti sociali. Giorni d’amore rompe definitivamente con gli schemi passati attraverso l’impiego di modelli narrativi diversi e un approccio meno drammatico alla realtà, in difesa del quale egli scrisse che l’obiettivo suo e quello di altri registi era quello di combattere le vecchie concezioni documentaristiche di realismo che erano ancora in circolazione, al fine di ottenere un tono ed uno stile più fantastici, più poetici e liberi. La loro strategia era quella di instaurare un legame con la grande narrativa italiana per risvegliare l’ottimistico senso di realtà di Boccaccio, la gentilezza e l’apertura di Goldoni, lo spirito dei poeti dialettali, la saggia tolleranza di Manzoni e la tristezza di Verga6. 3 Carlo Ponti, citato in Pierre Leprohon, The Italian Cinema, cit., p. 127. 4 Secondo De Santis il film è una favola dedicata ai giovani che, alla fine, riescono a realizzare il proprio sogno di convolare a nozze dopo molte dolorose e stravaganti vicissitudini. 5 Nel 2004 è stato pubblicato un bellissimo e utile volume sul film con interventi di Giuseppe Bonaviri, Marina Vlady curato da Jean Gili, Mario Silvestri ed altri critici. Si veda Giovanni Spagnoletti e Marco Grossi (a cura di) Giorni d’amore. Un film di De Santis tra impegno e commedia, Torino, Lindau, 2004. 6 Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Elio Petri, La parola agli autori del film Giorni d’amore, «L'Unità», 19 dicembre 1954. De Santis scrisse anche una lunga lettera a Guido Aristarco per difendere la propria opera: De Santis, De Santis ci scrive a proposito di Giorni d'amore, «Cinema nuovo» 49, 25 dicembre 1954. La difesa del regista fu seguita da un lungo articolo scritto da Aristarco in cui criticò l’interpretazione di De Santis del concetto gramsciano di cultura popolare: Aristarco, Giorni d’amore, «Cinema nuovo» 50 (10 gennio 1955).

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La nuova estetica auspicava dunque un approccio fantastico e poetico alla realtà che non si smarrisse all’interno del regno della commedia, come fecero, per esempio, Due soldi di speranza di Renato Castellani, girato nel 1953, la serie «Pane, amore e fantasia» di Alessandro Comencini e Pane, amore, e... di Dino Risi. Questi film, tipici del neorealismo rosa, imitavano l’approccio neorealista combinandolo con la commedia. Oltre al contenuto e alla forma De Santis, nella difesa del suo film, poneva in risalto che i personaggi venivano da categorie sociali e psicologiche assolutamente opposte a quelle dei protagonisti del film di Castellani: i personaggi di Giorni d’amore, essendo contadini e non operai o artigiani, erano attaccati alla terra con il buon senso e l’ipocrisia che nascono dal concetto di «roba». Le trame forzate e l’insistenza sul lieto fine nella commedia paesana compiacevano le necessità del pubblico di trovare nel cinema una via di fuga e delle facili soluzioni ai problemi sociali che le storie esploravano. La strategia di De Santis era invece quella di esaminare le dinamiche interne e le forze in collisione degli antichi costumi sociali, senza alienare il pubblico. In Giorni d’amore vengono attaccate le antiche tradizioni sociali del Sud e i pregiudizi preservati dalla povertà e dall’ignoranza. Per realizzare il suo progetto, il regista scelse come modelli il teatro dialettale goldoniano come Le baruffe chiozzotte7, la farsa, la tradizione popolare dei cantastorie meridionali8 e il genere romantico. Ad esempio il vagabondare amoroso per la campagna dei protagonisti della pellicola, Angela e Pasquale (tipico del genere romantico), è intervallato e contrapposto a scene farsesche che avvengono in città. Durante il racconto della nomade luna di miele della giovane coppia, il film raggiunge infatti il suo esplicito scopo di esplorare a fondo la caratterizzazione dei personaggi, cosa che De Santis non aveva affrontato nell’altra sua storia contadina, Non c’è pace tra gli ulivi. Lo sviluppo dei personaggi in Giorni d’amore fa parte della strategia cui il regista si riferisce in difesa del suo film, ovvero quella di 7 Carlo Goldoni (1707-1793) è meglio conosciuto per aver riformato il teatro italiano, rimpiazzando l’improvvisazione di una trama delineata con una sceneggiatura completamente sviluppata. Molti critici affermano che Le Baruffe chiozzotte, scritta tra il 1760 e il 1762, sia la sua miglior opera teatrale. La storia ha luogo a Chioggia, vicino a Venezia, e racconta l’improvvisa lite tra le donne dei pescatori e i loro amanti e la loro successiva riconciliazione. 8 I cantastorie erano cantanti che raccontavano in musica storie contadine nelle piazze pubbliche durante le festività locali.

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stabilire un legame con la grande narrativa italiana9. Un’analisi approfondita della trama e della sua elaborazione sarà prova sufficiente del successo di tale strategia. Giorni d’amore racconta la storia delle nozze fra due giovani contadini del Sud, Angela (Marina Vlady) e Pasquale (Marcello Mastroianni). Pasquale ha appena finito il servizio militare e vuole sposare Angela, sua fidanzata già da lungo tempo, che, da parte sua, sogna un bell’abito da sposa con un lungo velo bianco e un ricevimento con tutti i parenti e gli amici, dei mobili nuovi per la camera da letto e possibilmente un viaggio in treno per la luna di miele. Come molte altre ragazze desidera che il giorno del suo matrimonio sia memorabile, ma sfortunatamente le due famiglie sono povere e, a complicare ancor più le cose, il raccolto quell’anno è stato scarso. Angela e Pasquale cercano disperatamente di risparmiare, ma i soldi sono davvero pochi. Il matrimonio così come lo hanno organizzato costerebbe 500.000 lire. Piuttosto che posticipare le nozze all’anno successivo, Pasquale ricorre ad una vecchia usanza meridionale. Per risparmiare alle famiglie le spese di un matrimonio ufficiale e pubblico, inscena un rapimento. Una volta consumato il matrimonio, Pasquale sarà "costretto" a sposare la disonorata Angela con una semplice cerimonia riparatrice. Durante il rapimento le due famiglie dovranno inscenare un finto litigio pubblico, di modo che l’intero paese creda che i famigliari non siano coinvolti nella fuga romantica dei due giovani. Sfortunatamente la controversia sfocia in un vero e proprio litigio che rischia di mandare a monte l’intero piano. Il padre di Angela, preso dalla foga, richiede l’intervento dei carabinieri e del prete della parrocchia per salvare la figlia rapita. Il paese intero viene così coinvolto nella vana ricerca della giovane coppia. Al loro ritorno i ragazzi trovano le due famiglie tristemente in faida, che disapprovano la loro unione. La famiglia di Angela sfoga la propria rabbia rapendo Pasquale, ma Angela lo libera ed insieme corrono in chiesa per una frettolosa cerimonia. Quando i novelli sposi escono dalla chiesa trovano le due famiglie riconciliate in fila su entrambi i lati dei gradini d’entrata per salutarli. Come i film del neorealismo rosa, Giorni d’amore si svolge in un piccolo paese del Sud e ha per protagonisti persone dalle umili origini. La maggior parte delle riprese è realizzata in loco, la sceneggiatura si ispira a eventi reali, i temi sono affrontati dal punto di vista della gente 9 De Santis, Puccini e Petri, La parola agli autori del film Giorni d’amore, cit.

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comune e alcuni degli attori non sono professionisti. Per De Santis, tuttavia, questi erano solo elementi di secondo piano, più tipici della poetica personale di Zavattini che di una generale teoria neorealista10. Giorni d’amore non anticipa la satira politica degli anni settanta o il genere della commedia sociale che dominò la produzione commerciale italiana tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta: si tratta di una farsa raccontata con spirito e umorismo, che esprime anche l’amore di De Santis verso la sua Fondi. Il film si compone di due storie. La prima, raccontata in un insieme di varie forme tratte dal teatro popolare, è la storia degli intrighi fra due famiglie. La seconda storia riguarda le aspirazioni e le frustrazioni di una giovane coppia e la loro conseguente fuga d’amore, che li conduce attraverso una serie di scenari naturali associati al genere romantico. Nel corso del loro girovagare sorgono diverse situazioni che sottolineano il divario tra i sogni della giovane contadina e la dura realtà della povertà. Nel presentare le difficoltà che affrontano le donne italiane nel matrimonio e nel corteggiamento, De Santis ritorna a un tema precedentemente affrontato in Un marito per Anna Zaccheo, assunto che, in Giorni d’amore, gli permette altresì di mettere a confronto la mentalità femminile e quella maschile in un ambiente sociale rurale. La prima storia è ambientata in un piccolo paese ricreato con la collaborazione del pittore Domenico Purificato11 in uno stile teatrale e pittorico. Purificato, amico d’infanzia di De Santis, lavorò a tutte le scene e ai costumi e fu anche consultato per l’applicazione dei colori. Per lo scenografo questa esperienza rappresentava la realizzazione di un sogno di lunga data e di una lunga meditazione sulla relazione tra cinema e pittura. Durante la sua collaborazione con la rivista «Cinema», Purificato aveva formulato le sue teorie sull’applicazione del colore alle singole inquadrature e sui loro principi di composizione. In termini pratici studiò i movimenti delle figure nelle singole inquadrature e cercò di applicare toni e ombre di vari colori negli spazi vuoti, al fine di trovare una correlazione tra la pittura e il linguaggio cinematografico. Dal momento che Giorni d’amore segna la prima esperienza di De Santis con un film a colori, il contributo del direttore della fotografia fu essenziale, ma fu proprio Purificato a suggerire dettagli e trucchi determinanti in fase di 10 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, cit., p. 22. 11 In merito alla collaborazione di Purificato nel film si veda Bruna D’Ettore, Domenico Purificato dalla pittura al cinema, Roma, Cadmo Editore, 1988.

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lavorazione, fra cui l’uso della gelatina sulle lenti per conferire una particolare patina. Per condurre le sue sperimentazioni Purificato trasformò un magazzino ancora da ultimare in uno studio, dove lavorò sugli effetti e sui contrasti dei colori impiegati in seguito per ricreare l’atmosfera degli interni delle case delle due famiglie. La preoccupazione principale del pittore era quella di attenuare la brillantezza del blu, che era la caratteristica principale della fornitura di pellicola Ferraniacolor utilizzata da Otello Martelli, il direttore della fotografia. Purificato ritoccò anche alberi, muri e vestiti per conferire un equilibrio cromatico alle scene. Ad esempio nella scena in cui i due in fuga d’amore giungono alla capanna in campagna, Purificato fornisce una controparte visiva al cerchietto rosso di Angela appendendo una corona di pomodori rossi al muro. La messinscena teatrale di Giorni d’amore è evidente anche nella ricostruzione, sempre ad opera di Purificato dei vicoli dove vivono le due famiglie e in cui si svolge la maggior parte delle scene del paese. Le case di Pasquale e Angela sono posizionate una di fronte all’altra al fine di accrescere la spettacolarità dello scambio verbale tra le due famiglie nel momento in cui il rapimento viene reso pubblico. In questo contesto Purificato applica la sua teoria secondo cui l’ambientazione di un film dovrebbe emulare i capolavori architettonici italiani. La facciata di una delle case fu ricostruita adottando una curvilinea concava, che richiama l’Oratorio di San Filippo del Borromini nella Chiesa Nuova di Roma. L’altra casa è costruita con una curva che è l’immagine speculare della casa nel lato opposto, per permettere un’equa visibilità da entrambe le estremità della strada. L’ambientazione del paese è abbellita ulteriormente dai colori accesi dei muri esterni delle abitazioni e dagli utensili colorati che vi sono appesi. Alle finestre delle rispettive case sono fissate delle tende avvolgibili, con la stampa di un marinaio in quella di Pasquale e una sirena in quella di Angela. Le tende vengono avvolte o abbassate per annunciare l’entrata o l’uscita dei protagonisti. Durante la lite pubblica i famigliari dei due innamorati si comportano come delle marionette. I loro corpi e il loro modo di gesticolare sono costruiti e innaturali e le frasi che pronunciano sono artificiose e per nulla spontanee. Il dialogo è inframmezzato dalle osservazioni vivaci e maliziose dei passanti per strada, che fungono da platea. In questo modo il regista riesce ad utilizzare appieno la tendenza meridionale a spettacolarizzare le liti. Le due famiglie contendenti sono felici ed entusiaste nel vedere un numero sempre crescente di passanti coinvolti: nella sceneggiatura il passaggio è strutturato come in una rappresentazione teatrale, con una

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didascalia che spiega esattamente come il venditore di palloncini, quello di lupini, il nano che si affaccia dalla sua bottega, il barbiere con il cliente con la faccia insaponata e le tre ragazze che stavano per andare in chiesa attratti dalla lite guardano in alto versi i balconi con espressione costernata e divertita. I passanti iniziano lentamente ad essere coinvolti nell’azione, fomentando le due famiglie contendenti, le quali, trasportate dal (generale) eccitamento del momento, finiscono con l’insultarsi a vicenda intenzionalmente. Questa parte della sceneggiatura è scritta sotto forma di didascalia. Mentre la folla si prepara allo spettacolo, i membri delle due famiglie come attori prima di entrare in scena si preoccupano. Nell’abitazione di Pasquale – nascosta dietro le tapparelle nonna Filomena cerca di scrutare la casa di fronte dove abitano gli avversari mentre preoccupata si chiede perché tardino ad iniziare. Nell’abitazione di Angela suo padre Francesco con Nunziata, la figlia minore, non vuole essere coinvolta nella lite, mentre il vecchio nonno Pietro esorta il figlio, Francesco, ad iniziare da buon capo famiglia, il quale per non prendersi la responsabilità vorrebbe che sua moglie iniziasse, con la scusa che il litigare sia più consone ad una donna. Alle paure di Concetta, la figlia maggiore, che teme l’arrivo dei carabinieri, Francesco risponde che la loro venuta aiuterebbe la causa rendendo la lite più credibile agli occhi dei paesani. La sceneggiatura continua descrivendo i due padri che, restii a cominciare, vengono incoraggiati dagli altri membri della famiglia. Una volta dato il via alla lite, i due non riescono a formulare delle frasi complete. Per esempio, dopo che il papà di Angela ha chiamato fuori il padre di Pasquale, il primo non riesce a spiegare di che cosa stia accusando il ragazzo. Successivamente la riluttanza dei due padri a litigare è utilizzata da De Santis come strumento per coinvolgere i passanti. Non appena la finta lite prende il via, gli attori improvvisano le loro parti e vengono fomentati dai passanti, nella tradizione della commedia dell’arte12. In conformità alle convenzioni sociali meridionali, i litiganti sono sia spettatori che parte integrante dello spettacolo e tutti assieme organizzano un gruppo di ricerca dei due amanti. Al contrario della ricerca tesa e tra12 La Commedia dell’Arte si sviluppò soprattutto tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo e coinvolgeva intrattenitori di massa che improvvisavano a partire da una trama delineata basata su temi associati a personaggi e situazioni fissi.

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gica organizzata dalla cooperativa dell’Emilia Romagna nel primo film di De Santis, i contadini di Fondi allestiscono una processione colorata e rumorosa che raggruppa tutti i personaggi più comici del paese. Al suo interno vediamo un nano, un maresciallo dei carabinieri basso e tarchiato, un seminarista panciuto in vacanza ed addirittura un reporter a caccia di uno scandalo sensazionale. Mentre l’elaborata lite di famiglia prende il via, la luna di miele di Angela e Pasquale assume risvolti che nessuno dei due aveva previsto. Lo spirito giocoso che caratterizza la prima parte del film si protrae nella seconda parte durante i "giorni d’amore" della giovane coppia. A questo punto del film le due famiglie, gli amanti e perfino gli abitanti del paese accettano e si adeguano alle condizioni della sceneggiata pubblica. Il ruolo della tradizione sociale è travolgente e stabilisce il comportamento di tutti i personaggi tanto che il pubblico sospende volontariamente la condanna o l’incredulità nei confronti del rapimento e accetta la necessità delle due famiglie di bisticciare e urlare pubblicamente per convincere i concittadini della loro estraneità alla fuga d’amore. In cambio i cittadini accettano la temporanea illegalità della situazione della giovane coppia e, al fine di preservare le apparenze, sono addirittura disposti a recitare una parte del dramma mettendosi alla ricerca degli amanti. Solo due eventi in questa farsa contadina non sono pianificati: l’incomprensione fra le due famiglie e il rifiuto di Angela di concedersi a Pasquale prima della cerimonia nuziale ufficiale. Eppure anche questo rifiuto è conforme alle convenzioni sociali, dal momento che la ragazza non può concedersi prima di avere un anello al dito e senza aver indossato una corona di fiori d’arancio. Come vedremo nella successiva spiegazione, un’usanza/convenzione è ritenuta più vera dei fatti reali. Solo il fatto di aver trascorso la notte con Pasquale autorizza il paese a considerare Angela disonorata, nonostante tra i due non si sia consumato nessun atto sessuale. Angela si vede quindi costretta a raggiungere Pasquale e a sedurlo per conformarsi ai sospetti degli altri abitanti. Ma la fuga d’amore inizia fin da subito con il piede sbagliato: quando Angela esce di casa imbocca la strada sbagliata, che la porta nella direzione opposta al luogo prestabilito per l’incontro. Per raggiungerla Pasquale deve passare attraverso un gruppo di ragazzi che come un coro beffardo lo seguono e lo scherniscono cantando un ritornello sul fare sesso di nascosto. Quando alla fine i due si incontrano, lei si sente in imbarazzo e non vuole attraversare il centro del paese con lui. Alla fine Pasquale la convince a sedersi sul bastone della bicicletta e

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i due partono per la loro luna di miele attraverso la valle di Fondi. Gli ostacoli che incontreranno rivelano lati nascosti delle loro personalità. La caratterizzazione multisfaccettata delle personalità dei due amanti è uno degli elementi della tradizione letteraria italiana che De Santis cercò di imitare nel realizzare questo film d’amore contadino. Angela mostra la sua profonda religiosità intrisa di pregiudizi contadini e di superstizione, la sua aggressività, la testardaggine, l’intelligenza, la vivacità e soprattutto la sensibilità. Pasquale, d’altro canto, è più attaccato alla terra e al suo lavoro, meno romantico, più concreto, spesso egoista e insensibile nei confronti della femminilità di Angela, della sua età e del suo pudore. Quando giungono alla capanna di famiglia, Pasquale è ansioso di consumare la propria passione sessuale mentre Angela è schiva e riluttante. Da questo momento in avanti il film distrugge sistematicamente i sogni della giovane ragazza di un matrimonio unico e memorabile. Guardando gli animali, Angela afferma: «Pasquà, questi (gli animali) vedono... Gli animali sono come i cristiani...» Il pubblico che in paese ha partecipato al litigio fra le loro famiglie è ora composto da ogni sorta di animale da cortile, che fissa e accompagna le effusioni d’amore di Pasquale con vari versi. Pasquale si lancia verso Angela che si difende e gli propone di andarsene, sostenendo che gli animali disapprovano la loro unione. Angela poi aggiunge che se fossero sposati ufficialmente potrebbero giacere nelle lenzuola di un bell’albergo come i ricchi, anziché nella paglia, e se ne va non sapendo che via imboccare. Sono due dunque gli episodi che forniscono la chiave di lettura del film: la finta lite tra le due famiglie e il penoso tentativo di Pasquale di fare l’amore. In modo farsesco ma polemico, Giorni d’amore critica una società che nega ogni più semplice aspirazione. Quando Angela afferma che gli animali disapprovano le loro azioni riferendosi a loro come «cristiani», sta inconsciamente criticando la sua famiglia che l’ha obbligata a fuggire senza un matrimonio. Gli animali da cortile, agli occhi di Angela, sono creature con più sentimenti della propria famiglia. Questa critica, ripetuta attraverso tutto il viaggio in bicicletta della coppia, è più esplicitamente espresso alla sera, quando gli amanti attraversano un aranceto. Angela afferma quasi sognante che la corona di fiori d’arancio è l’unica cosa che resta ad una povera ragazza nel giorno del suo matrimonio. Sotto un cielo stellato illuminato dalla luna, Pasquale crea una piccola corona di fiori per incoronare Angela. Quando Angela timidamente corre a raccogliere dei limoni da un albero, risuona uno sparo. Una car-

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tuccia caricata a sale sfiora il fianco della ragazza. La farsa ha preso nuovamente il sopravvento e il loro amore viene interrotto. Pasquale cerca di superare il pudore e la riluttanza di Angela, ma quest’ultima non si fida di lui. Angela desidera la fede nuziale al dito. Quando alla fine lei sembra cedere, altri imprevisti rovinano il momento: arriva una chiassosa banda di zingari che distrae la giovane, si avvertono i rumori del gruppo di ricerca che si sta avvicinando e che Pasquale scambia per il proprietario dei limoni rubati. La coppia si dà alla fuga rifugiandosi in barca sul lago e Pasquale tenta di nuovo di sedurre Angela. La serena parentesi continua fino a che Pasquale, stanco di venir rifiutato, se ne va in seguito ad uno sfogo di rabbia. Sola, Angela incontra delle donne che le consigliano di rincorrere Pasquale, dal momento che nessuno crederà mai più alla sua verginità. Ora tocca ad Angela sedurre Pasquale. Il giovane si finge morto sulla spiaggia e lei lo riporta in vita con tenere carezze. Scontrandosi con la sua testarda resistenza, Angela si toglie lentamente il vestito e con la sottoveste indosso corre verso il mare. Quando esce dall’acqua con le parvenze di Venere, Pasquale è definitivamente conquistato. In questa altalena di eventi tristi e comici narrati in stile farsesco, De Santis rappresenta usanze, superstizioni e pregiudizi del suo paese: Giorni d’amore è un film che dimostra come i modi per illustrare l’autenticità di una situazione sociale siano infiniti. Perfino un film comico e burlesco senza apparente pretesa sociopolitica fu in grado di portare avanti il progetto di De Santis di un cinema nazionale. Senza essere populista, egli riuscì a catturare la psicologia e la mentalità dei personaggi e ad entrare nel loro mondo. A differenza dei più acclamati Due soldi di speranza, della serie Pane, amore e fantasia e di molte altre commedie all’italiana, Giorni d’amore s’ispira ai fondamenti gramsciani della creazione di una letteratura popolare in Italia. Secondo l’intellettuale marxista, affinché l’arte fosse popolare avrebbe dovuto affondare le radici nella cultura popolare, con preferenze e tendenze, con la sua morale e il suo mondo intellettuale, anche se retrogradi o convenzionali13. Per mostrare l’essenza arretrata, convenzionale e moralista di questa condizione, De Santis e i suoi collaboratori applicarono le teorie gramsciane: a differenza delle altre commedie il film mostra come i problemi di fondo non siano prodotti dal destino avverso o da forze naturali ma il risultato di fattori socio-economici che generano pregiudizi preservati dalla povertà. 13 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 67.

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Capitolo 10 Una favola sui "lupari", una razza estinta: Uomini e lupi (1957) Uomini e lupi continua Riso amaro e Un marito per Anna Zaccheo. Non c’è dubbio però che in questo film l’osservazione e l’approfondimento di certi problemi siano stati sentiti maggiormente. Il mondo è quello popolare, come nei miei precedenti lavori. E popolari sono i personaggi, che affondano ancora oggi le loro radici nella fantasia di migliaia di persone. Giuseppe De Santis

Alla fine degli anni cinquanta Giuseppe De Santis non riusciva a trovare finanziamenti per il suo nuovo film sul sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio1, una delle personalità alla base degli scioperi per la riforma agraria nel Sud, e fu costretto a continuare a girare storie minori che in differenti condizioni sociali, culturali ed economiche non avrebbe mai realizzato. La situazione economica era talmente tetra che l’industria cinematografica italiana non poteva permettersi di assumersi il rischio di finanziare film politicamente controversi. Nel novembre del 1955 il produttore Renato Gualino manifestò la sua intenzione di estromettere la Lux Film dalla produzione cinematografica. Il 2 maggio 1955 la Minerva Film dichiarò bancarotta. Il 16 febbraio 1957 l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini, (ENICA), una delle agenzie parastatali più importanti che coordinava i sussidi per la produzione e la distribuzione di film, rischiò la liquidazione. Per rimanere sul mercato l’agenzia si vide costretta a firmare un accodo con la Motion Picture Association of America (MPAA) di Eric Johntston, che concedeva ad Hollywood libero accesso ai settantatré cinema di proprietà di ENICA, situati nelle maggiori città italiane2. Lo storico cinematografico Carlo Lizzani3 riporta che nel 1956 i film prodotti in Italia scesero a 104, dai 200 del 1954. La crisi era di livello globale. Lizzani4 afferma altresì che nel 1956 gli incassi al botteghi1 2 3 4

Carlo Lizzani, Il cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 19793, p. 201. Ivi, p. 200. Sulla controversia si veda Ivi, pp. 194-202. Ugo Casiraghi, Una favola moderna in Cinemascope con Uomini e lupi dei monti d’Abruzzo, «L'Unità», 17 febbraio 1957.

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no negli Stati Uniti erano scesi a 740 miliardi di dollari dai 1.050 del 1948. L’industria cinematografica italiana subì un’altra battuta d’arresto quando il 31 dicembre 1957 la legislazione riguardante la censura, i finanziamenti governativi e la produzione, che avevano l’obiettivo di arrestare il dominio del mercato cinematografico americano, venne posticipata alla fine dell’anno successivo5. Nel bel mezzo della crisi, il già difficile rapporto tra De Santis e l’industria cinematografica fu esacerbato dalle dichiarazioni del regista rilasciate appena prima dell’uscita pubblica del suo nuovo film Uomini e lupi. Il primo gennaio 1957, in un’intervista riportata su L’Unità,6 il regista prese le distanze dalla sua nuova pellicola, accusando il titolare della Titanus, Goffredo Lombardo, di aver violato il suo diritto d’espressione artistica. A riprova di tali affermazioni il produttore procedette a completare il doppiaggio finale, la sincronizzazione e il missaggio senza consultare il regista. De Santis era furioso per il taglio di oltre 500 metri di pellicola a partire dagli originali 3.300, decisione che ridusse la versione distribuita a 2.800 metri. Nonostante il processo in atto e le accuse di manomissione, la versione definitiva fu distribuita dalla Titanus-Columbia riportando il nome di De Santis come regista. In merito alla controversia De Santis affermò che a partire dal processo e dalla denuncia pubblica, non solo la Titanus ma qualsiasi produttore membro dell’ENICA rifiutò di intrattenere qualsiasi rapporto professionale con lui, perché aveva osato denunciare quelle che a giudizio dei produttori erano normali procedure di lavoro7. Secondo la testimonianza di Ugo Pirro prima ancora che si girasse l’ultima parte del film il produttore produsse una revisione della sceneggiatura che fu affidata a Cesare Zavattini, voluto da De Santis, e a Tullio Pinelli che aveva lavorato con Fellini alla sceneggiatura de La strada. Le riunioni di discussione si trasferirono dalla residenza di De Santis alla residenza di Zavattini e intrecciarono ragioni narrative con motivazioni sottaciute. Zavattini, Petri e lo stesso Pirri si schierarono contro le revisioni volute da Pinelli. De Santis non era disposto a tagliare nulla, Perri afferma che il modo di girare di De Santis organizzato su piani sequenze rendeva difficile tale operazione. Durante il montaggio, il produttore aveva ordinato al montatore, Varriale di 5 Stefano Masi, Giuseppe De Santis, cit., p. 81. 6 Ugo Casiraghi, Una favola moderna in Cinemascope, cit. 7 Stefano Masi, Giuseppe De Santis, cit., p. 79.

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effettuare i tagli senza consultare il regista. De Santis abbandonò il montaggio e tentò per per vie legali di togliere il suo nome dal film ma senza successo8. La prima del film fu infangata anche dal futile tentativo dell’ultimo momento di uno sconosciuto documentarista di Ascoli Piceno di impedire l’uscita del film, adducendo un’accusa di plagio contro gli autori del film9. Nonostante tutte le controversie che accompagnarono l’edizione finale del film e i tagli imposti dai produttori, Uomini e lupi è ancora un’opera che porta chiaramente il marchio di De Santis, in virtù del suo stile, del tema, della composizione, dello sviluppo, dell’ambientazione, del sensazionalismo e del finale melodrammatico. Il soggetto fu scritto da De Santis assieme a Tonino Guerra ed Elio Petri, che avevano trascorso vari mesi in Abruzzo a raccogliere informazioni sui lupari e sui contadini locali. La sceneggiatura fu preparata dagli stessi artisti con l’aiuto di Gianni Puccini e Ugo Pirro, amici di vecchia data di De Santis, e con la collaborazione di Ivo Perilli, il quale, secondo il regista, fu scelto dal produttore. Tutte le scene all’aperto furono girate in Abruzzo durante l’inverno del 1956. Dal momento che i lupi originari di quella regione erano quasi completamente estinti, vennero importati dei lupi dalla Siberia, ma secondo quanto riportò il regista10, questi morirono tutti dopo il primo mese. Le scene d’interno vennero realizzate a Roma negli studi della Titanus, dove fu ricreata la città di Vischio con l’aiuto di Ottavio Scotti. Il film si apre con la vista del paese di Vischio negli Appennini, a 1.200 metri di altezza sopra il livello del mare. Il piccolo paese è sepolto dalla neve e sembra deserto. Dopo questa lunga scena introduttiva d’ambientazione, la macchina da presa si sposta lentamente verso il paesino. Un camion si ferma all’entrata del paese. Un uomo scende dal mezzo e cammina verso il retro per avvisare la moglie dell’arrivo. La donna stringe in modo amorevole e protettivo fra le braccia un bambino addormentato, a dimostrazione del suo istinto materno. La scena 8 Ugo Pirro, Soltanto un nome nei titoli di testa. I felice anni Sessanta del cinema italiano, Torino, Einaudi, 1999, pp. 52-54. 9 Sul dibattito si veda Cesare Zavattini, Una grossa botta in testa al neorealismo, in Guido Aristarco ( a cura di), Antologia di «Cinema nuovo», Rimini-Firenze, Guaraldi Editori, 1975, pp. 888-892 e Guido Aristarco, Dal neorealismo al realismo: Senso di Visconti, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Letteratura e cinema, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 87-96. 10 Si veda per esempio Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis, cit.

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d’apertura porta chiaramente il marchio di De Santis, pur differendo dalle introduzioni degli altri film, in particolare da quelle di Riso amaro e Caccia tragica, in cui personaggi erano immediatamente legati (attraverso un lento movimento della macchina da presa montata su una gru) ad altri individui in situazioni simili (creando così un legame comune). In Uomini e lupi la famigliola rimane in disparte rispetto agli altri abitanti del paese. Il senso di isolamento che si evince dalla scena introduce uno dei temi principali del film: la solitudine. Questa è la storia di un mestiere solitario e obsoleto, quello del luparo, ambientata fra le suggestive e affascinanti montagne dell’Abruzzo. Il tempo e lo spazio in questo racconto sono irrilevanti. Lo sviluppo psicologico dei personaggi diventa più importante delle tematiche politiche e sociali esposte nei suoi film precedenti. Trovandosi nell’impossibilità di dirigere i film che voleva, come quello sulla ribellione contadina o quello sulla vita di Di Vittorio o un altro ancora sugli eventi accaduti ad Andria dopo la guerra, De Santis torna ad una società simile a quella presentata nel suo terzo film, Non c’è pace tra gli ulivi, ma non cerca in nessun modo di predicare unione e collaborazione sociale per vincere l’usurpazione e lo sfruttamento. Uomini e lupi è un film che racconta un mondo che non interessa più alla cultura italiana degli anni cinquanta, la quale guarda con interesse al dibattito su neorealismo e realismo e sul destino del romanzo italiano sfociato dopo Metello di Vasco Pratolini nel 1955. Nella critica cinematografica al centro delle polemiche riguardanti la rappresentazione della realtà vi era Senso di Luchino Visconti. Entrambe le opere animarono intense e pungenti discussioni che riflettevano sull’importanza dello sviluppo dei personaggi in confronto all’immediatezza e all’oggettività del resoconto di fatti reali. Cesare Zavattini, principale sostenitore dell’immediatezza del neorealismo, criticò la ritirata di Senso nel passato storico. La miglior controargomentazione venne formulata dal critico Guido Aristarco, il quale sosteneva che il film di Visconti rappresentasse un’evoluzione del neorealismo verso un realismo storico11. Fedele alla sua visione e interpretazione del realismo come genere cinematografico adatto ad un pubblico popolare, De Santis in Uomini e lupi racconta la storia di un mestiere fatto da uomini con una particolare mentalità che quasi rappresenta un gruppo a sè e quasi estinto, il luparo, 11 Eric Rhode, citato in Phillip Robert, The Altering Eye. Contemporary international cinema, USA, Oxford University Press, 1983, pp. 66-67.

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che descrive la sua lotta contro la natura nonché la sua passione, rivalità e gelosia. Il mondo di Uomini e lupi è caratterizzato da una ristrettezza mentale simile a quella del mondo del folclore contadino. I contadini di Vischio vivono al di fuori delle lusinghe del mondo consumistico, delle influenze dei nuovi mezzi di comunicazione, degli stimoli della cultura americana e delle nuove forme di intrattenimento che avevano giocato un ruolo così fondamentale nei precedenti film di De Santis. Nel suo settimo film abbandona perfino una sua caratteristica iconografica rappresentata da belle donne tentatrici e formose, spesso ritratte in pose provocatorie per mettere in risalto la loro sensualità. Nella sua nuova pellicola De Santis rinuncia alle notizie di cronaca, a cui si era precedentemente affidato per polemizzare contro le ingiustizie, optando per un mondo primordiale abitato da archetipi. Di conseguenza la sua investigazione dà vita ad un ambiente popolato da individui unici con distinte personalità e con un’umanità mai vista prima sui grandi schermi italiani. Il regista è abile nel raggiungere il suo obiettivo stabilendo i confini di questa storia elementare che mette in scena uomini contro animali selvaggi e astuti in una natura primordiale. Contrariamente a ciò che hanno scritto molti critici, Uomini e lupi non è un western all’italiana ambientato in Abruzzo, ma la versione desantisiana di un racconto contadino riscritto per il cinema. Il regista confronta le molte realtà mitologiche di un mondo antico, come il lupo, il luparo e il paese di montagna in cui i contadini trascorrono l’inverno nella paura di venir attaccati da branchi di animali affamati. Il paesaggio diventa un simbolo metaforico dello sconosciuto e dell’inaspettato, mentre le tradizioni e le usanze diventano convenzioni che accrescono e penetrano la psicologia delle persone che ci vivono. Il progetto di De Santis in questo film era quello di rappresentare, attraverso le immagini, una realtà vissuta e sentita in una dimensione mitica. Nella cultura contadina il lupo è una figura mitica che rappresenta le forze naturali del male e delle tenebre, unite alla sensualità e alla tentazione sessuale. Nella cultura italiana il lupo è presente in molti racconti e ninne nanne e risale indietro nel tempo fino alla leggenda della lupa di Roma, simbolo della città di Siena. Il luparo è una figura reale, ma nella mente dei montanari ha acquisito anche una valenza mitica grazie al suo coraggio. Nell’immaginario collettivo tiene a bada il male, proteggendo greggi e mandrie dai lupi. Nel film di De Santis l’eterna lotta contro i lupi è condotta da due lupari completamente diversi, Giovanni (Pedro Armendariz) e Ricuccio (Yves Montand).

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La scena d’apertura introduce Giovanni, cacciatore di lupi per scelta e tradizione, il cui padre era stato a suo volta un abile luparo. Quando Don Pietro lo vuole assumere per proteggere i suoi animali dai lupi, Giovanni risponde che l’indipendenza è l’unica cosa bella del suo mestiere, che gli animali, a differenza degli uomini, non deludono mai nessuno e che, come sosteneva suo padre, l’unico padrone che voleva avere era la natura stessa. Giovanni è un uomo tradizionale e all’antica, con una mentalità individualista che esalta l’indipendenza e la libertà è poco sensibile ai bisogni degli altri ed in particolare a quelli della moglie e di suo figlio. È un uomo che non dimostra mai dolcezza o affetto per la moglie, Teresa, a meno che non sia spinto da desideri sessuali. Durante una delle loro liti Teresa afferma esasperata che se lei ed il figlio fossero dei lupi, lui li avrebbe certamente più a cuore. Giovanni si fa guidare dai propri istinti e dai bisogni fisici e sotto molti punti di vista è simile ai lupi che caccia. Durante una conversazione con la moglie, Giovanni risponde al commento sulla sua inabilità di lavorare con gli altri affermando che nel mondo in cui vivono non si fida di nessuno. Il suo rivale, Ricuccio, è un ragazzo affascinante che non ha mai avuto un lavoro fisso. È un vagabondo, più interessato alle donne e a una vita facile piuttosto che a cacciare lupi. Più moderno e sensibile, Ricuccio ha una personalità più complessa. È un uomo intrappolato tra i vecchi valori prestabiliti e quelli moderni e instabili. Questa costante tensione lo fa apparire, all’inizio del film, come un bugiardo, un donnaiolo e uno sfruttatore. Tuttavia, scopre ben presto di essere più empatico di Giovanni e di possedere un sentimento di solidarietà umana che manca al suo rivale. La crescita di Ricuccio in carattere e umanità è uno degli aspetti più interessanti e riusciti del film. L’azione drammatica del film è basata sull’antagonismo tra Giovanni e il suo rivale Ricuccio. Nella prima metà dell’opera Ricuccio trova lavoro come guardiano degli animali di Don Pietro. Tutto sembra andare per il verso giusto fino a quando il giovane cerca di far passare un pastore tedesco per un lupo ammazzato, per coprire la sua negligenza durante un attacco di lupi al bestiame di Don Pietro. La frode viene subito smascherata dal severo Giovanni, il quale denuncia Ricuccio di fronte ad una folla che lo deride nel mezzo della piazza del paese. La seconda metà del film inizia con uno scambio di ruoli fra i due rivali. Il disoccupato Ricuccio ha preso il posto di Giovanni nella baracca di Nazareno (il padre di Bianca). Giovanni, invece, su iniziativa della moglie è diventato un bracciante di Don Pietro. Alla fine del film Ricuc-

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cio conquista non solo l’ammirazione del paese per aver catturato un lupo vivo, ma anche il cuore di Teresa. I diversi metodi adottati dai due lupari nel cacciare i lupi dimostrano i loro temperamenti e i loro caratteri contrastanti. Giovanni rifiuta di lavorare per Don Pietro, il più ricco proprietario terriero e di bestiame della zona. Ad un lavoro sicuro sotto padrone preferisce la sua magra indipendenza. Ricuccio accetta il lavoro ed inizia subito a corteggiare Bianca, la giovane figlia di Don Pietro. Giovanni utilizza trappole e pecore morte come esca per avvicinare i lupi. Ricuccio, al contrario, utilizza il gregge di Don Pietro per tentare gli animali e poi sparargli con il fucile. Il sogno di Giovanni è quello di catturare una lupa viva con le sue nude mani, la prova suprema del suo coraggio e della sua abilità come luparo. Giovanni è tanto sanguigno, cocciuto, introverso e autosufficiente quanto Ricuccio è scanzonato, spiritoso e divertente. Il giovane Ricuccio si diverte a cantare e ballare. L’orgoglio di Giovanni e il suo esagerato senso di autosufficienza gli fanno rifiutare il consiglio di Ricuccio di cooperare in uno sforzo comune per catturare i lupi. Sarà proprio l’indole di Giovanni a condurlo alla morte. Quando finalmente Giovanni cattura una lupa con una trappola, il luparo affronta la bestia in un combattimento faccia a faccia piuttosto che aspettare l’arrivo della moglie con degli aiuti. Giovanni sconfigge l’animale con l’aiuto di una rete, ma viene poi ucciso da un branco di lupi giunti in soccorso del loro compagno. Dopo la morte di Giovanni, il personaggio di Ricuccio affronta una lenta e complessa trasformazione che lo condurrà prima a diventare un vero luparo e poi a prendere il posto di Giovanni accanto a Teresa. Le due principali figure femminili confermano la predilezione di De Santis per le donne forti e determinate nei suoi film. Teresa (Silvana Mangano), che realizzò il suo primo film con De Santis in Riso amaro, interpreta un ruolo completamente diverso in questa pellicola. In Uomini e lupi Teresa non incarna il nuovo sex symbol del cinema italiano, ma interpreta la tradizionale moglie e madre che, per il bene della famiglia, sopporta avversità e rinunce. Il ritratto psicologico di Teresa è complesso ed intenso. In un primo momento è succube della forte personalità del marito e del suo mestiere. Teresa è trattata quasi come una bestia, costretta a seguirlo nella sua esistenza nomade. Ad un certo punto la donna afferma che la vera soddisfazione nella vita viene dal poter vivere sempre nella stessa casa. Solo dopo la morte di Giovanni, quando Teresa si imbatte nella sete di vita e nell’esuberanza

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di Ricuccio, la sua vitalità repressa inizia ad emergere. Teresa inizia pian piano ad immaginare una vita diversa, anche se la trattiene l’affetto per il defunto marito. La donna nasconde il suo amore per Ricuccio, rivelandolo solo attraverso sguardi, mezzi sorrisi e piccoli gesti. Senza pensare a se stessa suggerisce a Ricuccio di sposare la ricca Bianca. Teresa è una donna affettuosa e una madre attenta, pronta a tutto per il figlio. Gli esempi più toccanti e significativi della sua sopportazione e della sua fedeltà hanno luogo dopo la morte di Giovanni. Rimasta sola a provvedere a se stessa e al figlio Pasqualino (Giovanni Matta), Teresa accetta l’omaggio di un lupo morto da parte di Ricuccio e, con dignità e coraggio, intraprende il lungo viaggio attraverso la neve per raccogliere i doni dei contadini come da tradizione. Ricuccio assiste Teresa durante il suo viaggio e, nel corso del loro vagabondare, si affeziona a Pasqualino e si innamora di Teresa. Teresa mantiene il suo riserbo e cela i suoi veri sentimenti per Ricuccio. Il comportamento di Teresa come moglie, madre e donna affettuosa la rese una dei personaggi più completi e noti degli anni cinquanta. L’altra protagonista femminile, Bianca (Irene Cefaro), è più giovane di Teresa. Bianca è vittima dell’avaro padre che, restio a dover spartire i suoi possedimenti con i due figli, cerca di evitare che la figlia sposi un uomo più povero di lei. La sorte di Bianca è tipica di molte donne nelle tradizionali società rurali e patriarcali, in cui sono considerate gettoni da barattare. Bianca conduce un’esistenza molto limitata caratterizzata da duro lavoro, repressione e sfruttamento. Il morboso attaccamento del padre per i suoi possedimenti e il suo potere la costringono a reprimere i suoi veri sentimenti e la sua sessualità. Bianca si innamora di Ricuccio, ma quando alla fine decide di scappare con lui avendo compreso che vale la pena sacrificarsi per amore, oramai è troppo tardi. Un altro importante personaggio del film è il giovane Pasqualino. De Santis utilizza il personaggio del bambino in questo contesto in modo completamente diverso da quello impiegato dalla maggior parte dei registi neorealisti. Infatti il suo approccio tende a confutare una delle accuse mosse al neorealismo. In generale i critici hanno letto nella descrizione neorealista della realtà una propensione verso la disperazione e la sofferenza, unita ad un’insistenza nell’utilizzare i bambini come dei catalizzatori per suscitare una risposta emozionale nel pubblico. Secondo il critico Eric Rhode i bambini sono utilizzati dai registi neorealisti per evitare certe responsabilità politiche e sociali. Nel momento in cui lo spettatore si identifica con il bambino sofferente, il

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regista neorealista spinge il pubblico verso uno stato di contemplazione passiva e impotente anziché offrire una soluzione ai problemi. La critica non è rivolta a Pasqualino in Uomini e lupi. Pasqualino è usato da De Santis per mostrare quanti bambini italiani sono costretti a lasciare la scuola per seguire i propri genitori nella ricerca di un lavoro. In una sequenza Teresa fa notare tristemente al marito, dopo che il figlio si è addormentato, che il bambino ha del potenziale ma che si è fermato ad imparare l’alfabeto solo fino alla lettera "m". Questo è solo un esempio delle frequenti osservazioni di Teresa riguardo al bisogno di Pasqualino di avere una vita e un’istruzione normale. Il bambino gioca anche un ruolo fondamentale nello sviluppo della trama fungendo da mediatore tra Ricuccio e Teresa. Al fine di rendere la relazione fra Teresa e Ricuccio più armoniosa, il regista mette in luce l’affetto che il bambino nutre nei confronti del rivale del padre. Quando Ricuccio incontra per la prima volta Giovanni e la sua famiglia e viene respinto dal duro comportamento e delle parole del suo rivale, Pasqualino rimane affascinato dalle maniere gentili e affabili del ragazzo più giovane. La loro simpatia si trasforma in un rapporto consolidato nel momento in cui Ricuccio propone a Teresa e Pasqualino di dividere con loro i doni che ha ricevuto per aver ucciso il lupo e si offre di accompagnarli durante il viaggio attraverso la neve per raccogliere i doni che spettano alla vedova. Durante il tragitto, in cui i contadini si dimostrano riconoscenti per il lupo ucciso, Pasqualino aiuta Ricuccio a riconquistare la fiducia dopo essere stato rifiutato e spinto giù dal carretto da Teresa in un momento di rabbia. Il paesaggio gioca un ruolo prominente nel film. Con l’aiuto di Piero Portalupi, uno dei più abili cameraman e direttore della fotografia dell’epoca, De Santis raggiunge un’immagine che mette la natura stessa in primo piano, rendendola protagonista. Il Cinemascope, utilizzato per la prima volta in un film di De Santis, aiuta ad allargare la profondità del campo mentre la pellicola a colori della Eastman accresce il contrasto tra la neve, i vestiti scuri delle persone ed il grigio delle case e dei profili degli alberi spogli e delle ombre. In certe scene il paesaggio invernale accentua o diventa un’estensione dello stato mentale dei protagonisti. Per esempio durante la sequenza al cimitero, lo sterile paesaggio innevato sembra avvolgere Teresa e Pasqualino vestiti di nero mentre posano dei fiori sulla tomba di Giovanni, rivelando in tal modo l’angoscia nascosta e la disperazione della famigliola.

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Il paesaggio privo di gente è spesso descritto con lunghe riprese per trasmettere la sensazione di un luogo sconosciuto e inaspettato. Questo effetto è forse più evidente in una sequenza molto lenta in cui un gregge di bestiame brulica nervosamente in un campo vuoto ed emette lunghi e profondi lamenti presentendo la presenza di lupi. I lunghi momenti di silenzio sono a volte interrotti da inquietanti ululati di lupi, che ricordano agli abitanti l’imminente minaccia. Durante queste lunghe scene silenziose aleggia un senso di pericolo, paura e tragedia che esplode durante l’attacco notturno dei lupi al villaggio. Il movimento della macchina da presa in questa sequenza è da maestri. Un’inquadratura molto lunga riprende la foresta attorno al paese. Successivamente appaiono i lupi affamati e aggressivi. L’attacco è mostrato in un breve montaggio rapido e drammatico e il suo impatto si riflette sui volti degli abitanti contrapposti a quelli dei lupi all’attacco. Una lunga ripresa di spazi vuoti è impiegata anche in un’altra sequenza, con intenti e risultati molto diversi. Durante il viaggio Teresa, Pasqualino e Ricuccio si imbattono in un piccolo paese deserto, abbandonato in seguito ad un terremoto dai terrorizzati abitanti. I tre protagonisti reagiscono in maniera eloquente di fronte al paesaggio vuoto. Ricuccio assume un atteggiamento burlesco atto a prendersi gioco delle autorità politiche e pronuncia un discorso incoraggiando la popolazione a sperare in tempi migliori. Pasqualino trova un modo per divertirsi all’interno delle case vuote e si rallegra dell’illusione di possedere una casa grande come quella di Don Pietro. Teresa, dopo un momento di silenzio e smarrimento, si rassicura e gioca nella neve con il figlio e Ricuccio. In un posto disabitato, dove non esistono convenzioni sociali, Teresa può mostrare la sua vera natura, altrove repressa dalle avversità e dal dolore.

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Capitolo 11 De Santis e la concezione di realismo cinematografico: Cesta Duga Godinu Dana/La strada lunga un anno (1958) Come in tutti i miei film, anche nella pellicola che per la prima volta dirigerò in Jugoslavia, per la cinematografia iugoslava, il tema principale sarà l’illustrazione della lotta dell’uomo per il lavoro. Per lo scenario ci siamo ispirati a tipiche esperienze italiane. Ma siccome penso che esse siano generali, umane, allora sono dell’opinione che si possano adattare a tutti i paesi. La località immaginaria può andare bene per ogni Paese, che, secondo le sue condizioni, combatte per la propria esistenza. Giuseppe De Santis

Il trattamento, scritto nel 1954, era in origine intitolato Chiaravalle va in pianura e fu in seguito cambiato in La strada nella valle. La sceneggiatura fu portata a termine nello stesso anno, ma ne dovettero trascorrere altri quattro anni prima dell’inizio delle riprese. Alla fine la pellicola fu girata (in Ultrascope) in Istria, regione dell’ex Jugoslavia (ora Croazia), grazie ai finanziamenti della Jadran Film di Zagabria1 e dell’Avala Film di Belgrado. Il film, prodotto da Ivo Vrhovec, venne distribuito con il titolo serbo-croato Cesta Duga Godinu Dana (La strada lunga un anno) e fu presentato al Pula Film Festival. Sempre nel 1954 De Santis, non trovando un produttore italiano disposto a finanziare totalmente il film, che sarebbe costato 400 milioni di lire, mise assieme una co-produzione internazionale con il produttore italiano Forges Davanzati e l’austriaca Wien Film Studio come sponsor del progetto. Con sua grande incredulità e delusione, la Commissione Consigliare della Direzione Generale della Cinematografia (un’agenzia controllata dallo stato) inoltrò un resoconto negativo alla banca di credito, affermando che la proposta era economicamente poco solida e che il film in programma non era commerciale. L’ostracismo del governo nei confronti del film di De Santis fu confermato nel 1958 quando la commissione rifiutò di ammettere il film al Festival Internazionale 1 La Jadran Film di Zagabria, inizialmente impegnata nel finanziamento della pellicola, si ritirò durante le riprese perché De Santis impiegò più tempo rispetto ai tre mesi stipulati nel contratto originale.

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del Cinema di Venezia, ma l’antagonismo del governo nei confronti di pellicole e registi di sinistra non era una novità ed è tutt’ora ben nota e documentata2. Il sistema di censura della cinematografia nazionale cercava, infatti, di giustificare il rigido controllo politico e amministrativo del cinema, pur proclamando e accettando i principi democratici della libera espressione. Il sistema di censura cinematografica che emerse tra il 1948 e le elezioni nazionali del 1953 potrebbe essere definito anticomunista, o al massimo estremamente conservatore, in parte in risposta alla tremenda pressione politica di fronte al governo democristiano durante la guerra fredda negli anni cinquanta. Nel periodo dell’immediato dopoguerra, il Primo Ministro Alcide De Gasperi fece molto affidamento sul Piano Marshall per rafforzare l’economia italiana e per contrastare le pressioni della sinistra. I film americani che invasero il mercato italiano erano considerati dal governo conservatore dei veicoli di propaganda per promuovere lo stile di vita occidentale a discapito delle idee comuniste. Un fatto che non può essere ignorato è l’uso fatto dalla MPEAA (American Motion Picture Export Association) del Piano Marshall come leva nelle contrattazioni di mercato con l’industria cinematografica italiana. Molti dei film impegnati a livello politico o sociale di quel periodo erano altresì sottoposti ad una severa censura extralegale da parte del Centro Cattolico Cinematografico, dai politici locali e dai giudizi dei tribunali. A tale proposito nel suo studio sul ruolo giocato dalla censura in Italia, Maurizio Cesari3 afferma che il diritto democratico ad essere informati e ad informare fu pesantemente ridotto dalla pratica comune di incriminare gli intellettuali per vilipendio e diffamazione pubblica. L’incriminazione era utilizzata soprattuto per arginare la critica contro il governo e la trasgressione. Cesari scrive che nel 1954 le accuse di oscenità pubblica aumentarono del 10 percento e quelle per diffamazione e vilipendio del 50 percento ed aggiunge che per trovare un pre2 La censura operava su questioni politiche. Ci sono esempi eloquenti dei suoi obiettivi, fra cui la famosa lettera aperta di Andreotti dopo la visione Umberto D di De Sica, che servì da orientamento a censori, registi e produttori. L’interferenza della censura nella libertà del cinema raggiunse l’apice con il processo di Renzo Renzi e Guido Aristarco, i quali avevano scritto L’Armata Sagapò, una sceneggiatura sulla guerra italiana in Grecia. I due vennero processati in un tribunale militare e condannati ad un periodo di detenzione. 3 Maurizio Cesari, La censura in Italia oggi (1944-1948), Napoli, Liguori Editore, 1982.

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cedente caso di incriminazione per vilipendio bisogna tornare indietro nel tempo fino agli annali nazionali di legge del 1914. Questa ricerca concorda con quella dei critici George Huaco, Carlo Lizzani, Guido Aristarco, Cesare Zavattini e Georges Sadoul, i quali giungono alla conclusione che il declino e la caduta del cinema italiano, il cui scopo era quello di denunciare, o perlomeno contestare, le carenze sociopolitiche del periodo del dopoguerra, erano strettamente legati all’ascesa della censura politica durante i primi anni cinquanta. In un altro studio ben documentato di Mino Argentieri e Ivano Cipriani4, esperti di censura cinematografica nazionale, questa tesi è suffragata da ampie prove. Secondo le loro ricerche il fatto che l’istituzione di una corte costituzionale fu posticipata dal 1948 al 1956 diede ai tribunali locali e al ministero di De Gasperi la libertà di regolamentare il cinema secondo la propria interpretazione della nuova costituzione. Nonostante gli effetti di questa situazione siano di natura speculativa, lo stesso non può essere detto delle mosse decisive dell’allora Primo Ministro Alcide De Gasperi nel dare vita all’Ufficio Cinema sotto la sua protezione e nel nominare come responsabile un democristiano conservatore, Paolo Cappa. Secondo Argentieri e Cipriani, Cappa riassunse tutti gli ufficiali che avevano ricoperto cariche e onori sotto il regime fascista. All’epoca della sua nomina la carica ricoperta da Cappa era nominale. Per esempio il 7 ottobre 1946 Cappa scrisse una lettera all’allora presidente dell’Associazione degli Industriali del Cinema denunciando l’immoralità e l’antinazionalismo constatato nei film prodotti dall’associazione. L’impotente Cappa poteva solo invitare il presidente dell’associazione, Alfredo Proia, a promuovere temi più nobili rispetto a quelli immorali, sessuali e morbosi rappresentati nei film che riteneva condannabili. Il governo si assicurò di rafforzare i controlli il 29 dicembre 1949, quando una nuova legge (la n. 958) stabilì che tutte le pellicole le cui sceneggiature erano state precedentemente approvate dall’Ufficio Cinema potevano ricevere un contributo pari al 10 percento degli incassi lordi derivanti dalle proiezioni pubbliche nei quattro anni successivi alle prime nazionali dei film. Questo nuovo sistema di credito, creato per supportare e finanziare la produzione cinematografica nazionale, può essere considerato una restaurazione aggiornata del 4 Mino Argentieri e Ivano Cipriani, Fig Leaves and Politics, «Film Studies», novembre 1961.

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sistema fascista fondato nel 1923, che impediva la produzione di film politici, morali e religiosi bocciandone le sceneggiature5. Negli anni cinquanta il governo di centro raramente censurò sceneggiature. Il neo-fondato istituto di credito scoraggiava i produttori dal finanziare film considerati negativi o dannosi all’immagine dell’Italia all’estero. La Banca Nazionale del Lavoro, a cui i produttori dovevano chiedere prestiti a bassi tassi d’interesse, era un rappresentante semi-ufficiale dello Stato. Argentieri e Cipriani affermarono che il controllo di questo nuovo sistema veniva esercitato in diversi modi: valutando il soggetto prima delle riprese, concedendo o rifiutando il credito attraverso il monopolio della Banca Nazionale del Lavoro, o attraverso "consigli" durante le riprese e, solo in casi estremi, attraverso la censura. L’ultimo caso era il meno importante: i veri atti di censura avvenivano preventivamente sulla base delle relazioni personali, accrescendo la paura e la preoccupazione e di conseguenza la censura autoimposta, che diventò più rigida di quella ufficiale, attuata da un burocrate del ministero attraverso pressioni di vario genere che andavano oltre le disposizioni della legge fascista del 19236. Il già rigido controllo divenne ancora più severo con la nomina di Giulio Andreotti come sottosegretario allo spettacolo che inaugurò un sistema per controllare anche le esportazioni delle pellicole italiane all’estero. È ben nota la sua affermazione secondo cui Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica sotto la sua sorveglianza non avrebbe mai varcato i confini italiani dato che la sua carica prevedeva infatti il diritto di bandire l’esportazione dei film che avrebbero potuto suggerire un’erronea visione dell’Italia all’estero. È risaputo che Andreotti riteneva i film neorealisti dannosi all’immagine dell’Italia dando al mondo l’impressione che il Paese fosse guidato da un governo incompetente e indifferente ai problemi della popolazione in difficoltà. Il 10 dicembre 1948 lo stesso Andreotti difese la sua linea politica affermando che il cinema italiano doveva promuovere gli aspetti positivi della realtà nazionale assieme ad un salutare e costruttivo ottimismo. I tabù proscritti dal governo nei confronti dell’industria cinematografica erano numerosi, ma i più sconvenienti e inaccettabili includevano l’adulterio, il divorzio, il nucleo famigliare come istituzione, la Chiesa, la sessualità, la nudità, la sensua5 Sul nuovo sistema di credito e sui suoi effetti sull’industria cinematografica si veda Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1980. 6 Argentieri e Cipriani, Fig Leaves and Politics, cit., p. 175.

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lità e il suicidio: i temi prediletti di De Santis, fra cui spiccavano povertà, disoccupazione, scioperi, sensualità, sessualità e lotta per la riforma agraria nel Sud, erano dunque tra le tematiche più temute dai censori. Se la libertà artistica d’espressione nel cinema toccava il suo punto più basso, nell’arena politica la situazione non era migliore. Il governo di centro di Mario Scelba, supportato dal partito liberale e dal neo-istituito partito social-democratico di Giuseppe Saragat, aveva intrapreso una dura campagna politica contro l’opposizione. Il suo obiettivo principale era quello di reprimere qualsiasi iniziativa proveniente sia dal Partito Comunista che dal sindacato di sinistra. L’affiliazione di De Santis al Partito Comunista fece di lui il bersaglio dell’ostracismo, dell’antagonismo e di attacchi diretti da parte della stampa conservatrice7. Il fatto di aver fatto causa a diverse case di produzione per difendere i propri film e la propria libertà d’espressione dai tagli della censura e dalle interferenze dei produttori lo aveva reso un regista poco appetibile con cui lavorare. Ricordiamo qui che De Santis aveva provato invano a rimuovere il suo nome dalla versione finale di Uomini e lupi (1956), aveva inoltre lottato per mantenere la lunghezza originale di Giorni d’amore (1954) ed era stato coinvolto in una lunga e costosa disputa con la Excelsa Film per recuperare dalla censura la scena del ritorno a casa della prostituta in Roma ore 11 (1952). Nella sua monografia su De Santis, Stefano Masi8 afferma che durante un incontro con l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini (ENICA) uno dei membri propose la compilazione di una lista nera, con il nome di De Santis al primo posto, ma l’idea della lista ricordava la purga di McCarthy contro i registi di Hollywood di sinistra, che aveva già spinto il quotidiano conservatore Il Messaggero a denunciare pubblicamente i registi neorealisti considerati anti-italiani per i loro film poco patriottici. Riferendosi alla deplorabile situazione in cui i registi laici e di sinistra erano costretti a lavorare, De Santis affermò 7 Per esempio due articoli, pubblicati uno in «Sicilia del popolo» (28 novembre 1959) e l’altro in «Giornale di Sicilia» (29 giugno 1959), riportarono che De Santis aveva sforato i tre mesi di tempo stabiliti da contratto. Gli articoli cercarono inoltre di infangare le idee politiche del regista interrogandosi sull’alto compenso ricevuto dalla casa di produzione jugoslava per questo film. Gli autori di questi articoli o erano inconsapevoli o decisero di ignorare le affermazioni del regista pubblicate dall’«ANSA, Notiziario cinematografico» 8/285 (27 novembre 1957), p. 4, in cui De Santis parlò candidamente dei finanziamenti per il film, delle sue perdite e dei problemi relativi alla produzione. 8 Stefano Masi, Giuseppe De Santis, cit., p. 11.

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in quegli anni che la censura e la mentalità mercantilista dei produttori erano loro d’intralcio. Secondo lui la responsabilità per quella situazione non era dovuta soltanto alle politiche intransigenti del governo clericale o alla mentalità dei produttori, ma anche agli stessi registi e alle forze di sinistra, non in grado di creare i mezzi adeguati per contrastare la tendenza al cinema edulcorato. Aggiungeva che il cinema dei registi democratici doveva avere la propria produzione, la propria distribuzione e la propria catena di sale cinematografiche e che il loro potenziale pubblico era troppo spesso lasciato in preda ai veleni soporiferi del cinema standardizzato9. Un’ulteriore prova dell’ostracismo da parte del governo nei confronti di De Santis è evidente non solo nella sopracitata decisione di escludere Cesta Duga Godinu Dana dal Festival del Cinema di Venezia, ma anche nel rifiuto del governo di distribuire la versione italiana del film (La strada lunga un anno) in Italia, nonostante la pellicola avesse ricevuto recensioni favorevoli dai critici francesi e americani. Negli Stati Uniti il film ricevette una nomination all’Oscar come miglior film straniero (il Golden Globe fu assegnato alla pellicola francese Mon Oncle) e fu designato come miglior fotografia dall’Associazione della Stampa Straniera a Hollywood a Coconut Grove il 5 marzo 1959. Massimo Girotti aveva inoltre vinto il primo premio per la sua interpretazione di Chiacchiera al San Francisco Film Festival quello stesso anno. Una versione ridotta della pellicola in italiano (la versione originale è lunga oltre tre ore, mentre la versione che ho visto io in videocassetta è invece di un’ora e mezza), con lo stesso titolo dell’originale sceneggiatura italiana La strada lunga un anno, fu distribuita nel 1959 da Cino Del Duca, un produttore franco-italiano. In Italia il film fu boicottato da tutte le più grosse sale cinematografiche e fu proiettato prevalentemente con la sponsorizzazione del Partito Comunista nei cinema di seconda classe dell’Emilia Romagna, regione per la maggior parte di amministrazione comunista, e nei circoli cinematografici privati. Nel febbraio del 1960 il film non era ancor stato distribuito a Roma o al Sud; a Milano venne proiettato in una delle principali sale per solo due sere ed ancora oggi è quasi impossibile trovarne una copia in Italia. La Cineteca Nazionale di Roma ne possiede una infiammabile che non può essere presa a prestito: l’unica disponibile 9 Giuseppe De Santis citato in Enzo Muzii, La strada di De Santis, «L'Unità», 6 febbraio 1960, p. 3.

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per la visione si trova dunque alla scuola di cinema dell’Università di Padova. La non disponibilità del film è confermata dall’omissione della pellicola da parte di Antonio Parisi10 nella sua monografia su De Santis. Parlando delle difficoltà incontrate nel trovare produttori e distributori per il suo film in Italia, De Santis dichiarò di aver avuto difficoltà nel reperire produttori dopo Roma ore 11 per il fatto di voler portare sul grande schermo un certo tipo di temi e per le specifiche condizioni di lavoro. De Santis ammise anche di avere un temperamento per nulla accondiscendente, ma, personalità a parte, sostenne di avere difeso il suo onore, la sua dignità, il suo decoro professionale e si rammaricò di non aver trovato sostegno nei suoi colleghi registi, i quali non protestavano per paura di perdere lavori futuri, proprio come fece Vittorio De Sica di fronte al taglio della scena del funerale nel suo film L’oro di Napoli (1954)11. Sebbene ostracizzato ed espatriato, De Santis riuscì a girare la sua storia simbolica sulla costruzione di una strada in Jugoslavia con l’aiuto del Partito Comunista: lì poté lavorare con relativa libertà. La realizzazione del film non rappresentò solo il raggiungimento di un sogno, ma anche una vendetta personale nei confronti dell’industria cinematografica italiana e del governo centrista dei democristiani12. Tuttavia, nonostante avesse l’opportunità di dirigere la pellicola secondo il proprio punto di vista artistico e culturale, stando dall’altro lato dell’Adriatico si sentiva esiliato dall’industria cinematografica italiana. In un tentativo di rendere la pellicola più autentica, De Santis si mise alla ricerca di aree dell’Istria che ricordassero i luoghi in cui aveva originariamente scelto di girare il film e di volti la cui fisionomia ricordasse quella dei contadini del Sud. Nonostante tutte le difficoltà che ne derivarono, fra cui lavorare con l’aiuto di traduttori e in un paese in cui l’industria cinematografica era agli albori e poteva offrire pochi scenografi professionisti, La strada lunga un anno è il miglior film di De Santis per ciò che concerne le tematiche, lo sviluppo strutturale e la sua realizzazione. In questa pellicola tutti i suoi 10 Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis, cit., p. 166. 11 Giuseppe De Santis fornì questa informazione durante una delle nostre conversazioni al Middlebury College nell’estate del 1993. Le sceneggiature mai girate di De Santis verranno affrontate nell’ultimo capitolo di questo libro. 12 A Middlebury, il 4 luglio 1993, De Santis ricordò di come una volta, dal lato jugoslavo del mare Adriatico, fece un gesto scurrile rivolto ad Andreotti in segno di liberazione dalle frustrazioni passate.

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motivi cinematografici, i temi e gli elementi stilistici si riuniscono e sono legati armoniosamente, fondendo l’aspetto corale con quello personale e dando vita ad un’epica cinematografica popolare. Gli elementi metaforici del film non intaccano la forza o la morsa pungente delle osservazioni politiche di De Santis, ma al contrario la metafora abilmente sviluppata della costruzione della strada amplifica il messaggio del film. Il soggetto fu scritto da De Santis con l’aiuto di Elio Petri e del suo amico di vecchia data Gianni Puccini. Maurizio Ferrara, Tonino Guerra e Mario Socrate si unirono a loro per la stesura della sceneggiatura finale. Originariamente De Santis programmava di girare la pellicola nella sua Ciociaria, dov’era ambientato il suo terzo film, Non c’è pace tra gli ulivi. Come suggerisce il titolo della prima bozza, Chiaravalle va in pianura, la località di Querce, un paesino in cima ad una collina in Ciociaria, sarebbe stato il luogo ideale per la costruzione della strada che lo avrebbe collegato alla pianura di Fondi, città natale di De Santis. La sceneggiatura è ambientata nel 1954, periodo in cui al Sud era ampiamente adottato lo sciopero "a rovescio" che consisteva nell’occupare e coltivare la terra dei grandi proprietari terrieri (l’opposto di ciò che attualmente intendiamo come sciopero) dato che la fine del "feudalesimo", risalente ai primi anni dell’Ottocento, aveva avuto scarsissimo impatto nel sistema agrario del Sud ancora, per cui i contadini non avevano terreni da lavorare. Il sistema agrario dell’epoca aveva paralizzato la casse contadina, rendendo impossibile per i lavoratori ricevere un’adeguato compenso. Dal momento che la classe contadina non fu mai in grado di acquistare la terra, questa era ancora nelle mani di pochi grandi proprietari terrieri, per lo più assenteisti, i cui campi venivano coltivati da fittavoli o destinati al pascolo. Per contrastare questa antica usanza, le unioni sindacali di sinistra consigliarono e spronarono i contadini a coltivare la terra al fine di costringere il governo a legiferare una riforma agraria: i casi più conosciuti dell’applicazione di questa pratica riguardano la costruzione della diga di Vomano, in Abruzzo, e del canale di Cormor, nel povero Friuli. Occupando la terra i contadini avrebbero generato una situazione di fermento sociale e nel lungo periodo avrebbero potuto attirare l’attenzione dei media e ottenere il supporto pubblico auspicato, dato che il pubblico di solito si schierava in favore dei contadini disoccupati che si vedevano costretti ad abbandonare le terre che avevano coltivato.

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La sceneggiatura originale di La strada lunga un anno riflette fedelmente questa situazione nel Sud. Quando De Santis fu finalmente in grado di girare il film, nell’inverno tra il 1957 e il 1958 in Jugoslavia, la storia divenne più astratta e meno localizzata. Il tono e l’atmosfera fiabesca, meno prominente nella versione del 1954, si fecero più marcati. Questa caratteristica è anche attribuibile alla richiesta del produttore jugoslavo di mantenere l’autenticità del paese e dei suoi abitanti quanto più simbolica possibile. Il fatto che la stesura originale della sceneggiatura risalga al 1954 spiega in parte le rilevanti differenze stilistiche, tematiche, ideologiche, e politiche del film, che lo discostano dalle altre importanti pellicole italiane girate alla fine degli anni cinquanta. La strada lunga un anno, per esempio, è molto diverso da La dolce vita (1959) di Federico Fellini, da L’avventura (1959) di Michelangelo Antonioni, e perfino da Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, distribuiti lo stesso anno. La strada lunga un anno di De Santis avrebbe potuto rappresentare, assieme ai suoi film mai girati Noi che facciamo crescere il grano e La vita di Giuseppe Di Vittorio la conclusione della sua saga sulle problematiche meridionali del dopoguerra durante il periodo della ricostruzione13. Con tutta probabilità, se quei film fossero stati realizzati, la filmografia di De Santis avrebbe intrapreso una strada diversa, ma lo sviluppo del suo lavoro fu ostacolato dall’impossibilità di dirigere i film che voleva in un dato momento storico. Durante gli anni cinquanta infatti la sua ricerca artistica si orientò in due direzioni opposte: le sue sceneggiature rivelano la sua visione poetica e il suo forte impegno politico ad eccezione di Uomini e lupi e Un marito per Anna Zaccheo che riflettono il suo mondo poetico. Quando venne girato La strada lunga un anno nel 1957-1958, il film aveva oramai perso la capacità di generare un impatto a livello nazionale, sia come opera cinematografica che come opera d’arte politica. Dal punto di vista cinematografico il film rimane uno dei più riusciti di De Santis, ma si potrebbe affermare che la sua importanza nella storia del cinema nazionale sarebbe stata più rilevante nel 1954, momento in cui la tematica politica o la struttura artistica avrebbero suscitato più interesse e attenzione critica. In un’intervista rilasciata dopo l’uscita del film in Italia, il regista confessa con amarezza di provare la mortificazione di chi non può raccogliere il frutto del proprio lavoro e prosegue riconoscendo che il film aveva 13 Giuseppe De Santis citato in Enzo Muzii, La strada di De Santis, cit., p. 3.

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fallito nel suo tentativo di stimolare una coscienza democratica ed aveva assunto un valore platonico, come un manoscritto in una bottiglia lasciato in silenzio in fondo al mare14. Nei soggetti scritti negli anni cinquanta e mai girati, De Santis voleva scavare a fondo nella cultura contadina del Sud, quel mondo rurale che stava per perdere la sua identità a causa del miracolo economico e che stava sperimentando l’esodo dei contadini verso il Nord e i primi sintomi del consumismo e del progresso economico. A livello nazionale questi cambiamenti diedero luogo ad un nuovo genere cinematografico che fu definito "Commedia all’italiana". Le nuove trasformazioni demografiche, antropologiche e sociali sono analizzate, in quegli anni e con forme cinematografiche diverse anche da Visconti in Rocco e i suoi fratelli, una saga sul problema dell’integrazione e dell’assimilazione nel periodo successivo alla migrazione interna, o da Fellini ne La dolce vita, un affresco sulla decadenza spirituale e sulla ricerca di uno scopo nella vita da parte di Marcello, un reporter di provincia, o da Antonioni, i cui personaggi borghesi sono alla ricerca di un nuovo significato e di uno stimolo negli agi e nell’opulenza del recente boom economico. Nel frattempo De Santis continuava ad esplorare i temi popolari e la lotta dei lavoratori perfino in Jugoslavia, tra tutte le difficoltà e i problemi connessi al fatto di lavorare in un ambiente non familiare. La strada lunga un anno è un affresco corale, un’illustrazione simbolica della lotta umana per il lavoro e la dignità in una società che nega a molti dei suoi membri il diritto di guadagnarsi da vivere e rappresenta lo sforzo da parte del regista di ritornare al suo impegno militante, di educare le masse attraverso un’elaborata favola cinematografica, generosa sia dal punto di vista stilistico che visivo. Inoltre in questo film il regista sfida le costrizioni del neorealismo zavattiniano e sviluppa uno stile che le pressioni della critica e del regime politico stavano spingendo incessantemente verso l’interno, verso la purezza. Nel dirigere La strada lunga un anno, De Santis confermò il suo disaccordo con i critici: egli riteneva che sezionare un film in parti infinitesimali voleva dire dissolvere o ignorare quello che, secondo l’estetica desantiana, costituiva il suo significato più pregnante, ovvero il suo valore poetico e umano, rappresentato dal messaggio e dal contenuto, ma il film riafferma anche il dissenso del regista nei confronti della tendenza delle pellicole del tempo di focalizzare l’attenzione sui protagonisti della borghesia. 14 Ibidem.

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De Santis accusò i film di Fellini e Antonioni, e quelli di Rossellini girati durante il suo matrimonio con la Bergman, di affrontare una dimensione limitata della realtà italiana: per lui le nuove acclamate pellicole presentavano il mondo soltanto dalla prospettiva borghese. Sosteneva che il nuovo cinema italiano avesse perso l’ispirazione nazionale collettiva che lo aveva distinto e animato dal dopoguerra, per seguire la tendenza delle pellicole francesi e di certe commedie americane. In un’intervista del 1960, rilasciata dopo il suo rientro dalla Jugoslavia, De Santis afferma che se un artista vuole affondare lo sguardo nella realtà italiana, deve presentarne sia gli aspetti positivi che quelli negativi e constata che, con rare eccezioni, le opere dei registi sopra citati sono per lo più mono-dimensionali e mancano di quella antitesi che sta alla base dell’opera d’arte e che permette un’analisi dialettica della realtà. Egli prosegue affermando che il cinema italiano di quegli anni mette in evidenza i difetti che minano l’esperienza neorealista, senza riuscire a guardare alla realtà nella sua totalità, ma soffermandosi ad analizzare un solo aspetto alla volta15. Da tali dichiarazioni si può concludere che De Santis non stava solo dando voce al suo dissenso nei confronti del nuovo cinema emergente, ma stava altresì riaffermando il suo legame con un cinema che offriva una soluzione ai problemi messi in scena, proprio come in La strada lunga un anno. In Jugoslavia, per la prima volta nella sua carriera, De Santis poté lavorare senza preoccuparsi della commerciabilità del prodotto e finalmente riuscì a dirigere un film che si avvicinava alla sua concezione di romanzo cinematografico in cui singoli episodi si intrecciano in un insieme armonioso che spiega e chiarisce l’evento principale. La pellicola è dunque la realizzazione di una storia corale che, per ciò che riguarda la forma, la struttura narrativa e la coesione, deve essere considerata il raggiungimento della versione cinematografica del romanzo corale e impersonale di stile verghiano. Il gruppo di «Cinema» aveva adottato tali romanzi come modelli per promuovere un nuovo e più realistico genere di cinema nazionale durante gli anni di stagnazione sotto il regime fascista. A differenza degli altri film del periodo, la favola cinematografica di De Santis indica una via per uscire dalla miseria, dal pessimismo e dalla disoccupazione, ovvero il lavoro collettivo e il collaborazioni15 Giuseppe De Santis, Intervista con De Santis, «L’Unità» 3/18 (1960), p. 9.

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smo. La trama è basata sulla continua interazione tra gli atteggiamenti egoistici dei protagonisti e lo spirito di collettività simboleggiato dallo sforzo comune riposto nella costruzione della strada e la pellicola è caratterizzata da una tensione costante, mantenuta viva dalle continue problematiche personali e dai conflitti sociali. Un’analisi della struttura del film mostra come il personale ed il sociale siano intrecciati per fondere la vita della collettività con quella degli individui coinvolti: è suddiviso in quattro blocchi principali che seguono i cambi di stagione, a partire dall’autunno fino all’autunno dell’anno successivo. I quattro episodi principali sono preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo che servono ad identificare la morale della fiaba e i protagonisti, gli abitanti di un piccolo paese, sono coppie, famiglie, o singoli individui che escono brevemente dal gruppo per assumere ruoli da protagonista e vengono in seguito riassorbiti dalla comunità per lasciare posto ad altri. Questa strategia strutturale è sottolineata dal movimento della macchina da presa, che si sposta da panoramiche e inquadrature di gruppo a mezzi primi piani e primi piani, seguendo i movimenti degli individui e della collettività come in una danza folcloristica. Mentre i nomi dei protagonisti appaiono sullo schermo, due carrozze trainate da un cavallo che procedono in senso opposto si fermano perché l’angusta strada che collega il remoto paese alla valle permette il passaggio di un solo carro alla volta. I due conducenti scendono dalle rispettive carrozze e iniziano a discutere animatamente su chi di loro abbia la precedenza. Intanto uno dei passeggeri scende e si incammina verso casa con disinvoltura. Il messaggio è chiaro: la strada è troppo stretta ma gli abitanti si perdono in amare discussioni personali anziché collaborare per allagarla. I passanti non se ne curano ma le vittime dell’inefficienza del governo devono collaborare per migliorare le proprie condizioni di vita. Questo film vuole insegnare come superare l’inerzia e la rassegnazione. A metà autunno in un villaggio isolato in cima ad un’arida collina rocciosa, alcuni disoccupati attendono con ansia il ritorno della primavera per poter andare in cerca di lavoro altrove. Un giorno, mentre sono impegnati in una breve conversazione e si tengono occupati facendo del tabacco dalle foglie cadute, Guglielmo (Bert Sotlar), assieme alla moglie Agnese, alla figlia Ginetta e al figlio di dieci anni Giovanni iniziano a lavorare per allargare l’unica strada che collega l’isolato paese alla costa. La macchina da presa si sposta da una campo lungo a uno

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medio ad inquadrare degli uomini sul terrazzamento che sovrasta la vallata per poi sollevarsi su una gru e lasciare spazio ad una lunga vista panoramica, come ad indicare il loro desiderio represso di raggiungere la costa. La loro inerzia è alimentata dalla convinzione generale della mancanza di fondi per i lavori che permetterebbero al paese di aprire il mercato alla zona costiera. Guglielmo, approfittando dell’assenza del sindaco, convince tutti che è finalmente arrivato il consenso ad iniziare i lavori per la costruzione della strada. Sembra che il loro antico isolamento e la loro perenne disoccupazione siano finalmente giunti ad un termine. Così gli abitanti, seppure sorpresi e scettici, si uniscono ai lavori di ampliamento della vecchia strada. La buona novella è seguita da una serata di festeggiamenti resa possibile dal credito concesso dai negozianti locali alle famiglie. I festeggiamenti fungono da transizione per permettere alla storia di introdurre e definire i personaggi e l’ambiente. Durante questo interludio lo spettatore viene a conoscenza della condizione di povertà dei lavoratori a giornata ed entra in contatto con le vite intime e personali degli abitanti del paese. Per esempio emerge l’altro lato di Chiacchiera (Massimo Girotti), il quale durante il giorno appare come una sorta di anarchico, scapolo e spensierato e con una passione per il vino, le donne e le canzoni, ma durante i festeggiamenti la sua debolezza per il bere e il divertimento è seguita dalla solitudine e dalla frustrazione per la sua incapacità di trovare il vero amore. La pausa nell’azione è seguita dal ritorno del sindaco, che prepara il terreno per affrontare Guglielmo. Temendo che la violenza, la rappresaglia e il malcontento sociale si protraggano a lungo se non vengono messe in atto misure immediate, il primo cittadino dichiara che l’amministrazione municipale non ha autorizzato i lavori e che nessuno verrà pagato. I paesani infuriati vogliono allora abbandonare i lavori, ma Guglielmo cerca di convincerli a proseguire nel loro sforzo e a finire la strada: il suo piano è quello di mettere in atto lo sciopero al rovescio, ovvero continuare a lavorare nonostante il parere contrario delle autorità e senza una paga. Guglielmo spera che a lungo andare la loro perseveranza costringerà le autorità a riconoscere i loro sforzi e a trovare i soldi per ricompensare il loro lavoro. Il suo ragionamento convince quasi tutti, inclusa la giovane coppia di sposi, Pasquale (Niksa Stefani) e Angela (Gordana Miletic), che emigreranno in America qualora il piano di Guglielmo fallisca. Il lavoro è duro e la gente comincia a scoraggiarsi e a voler mollare, così fra gli uomini scoppia una lite nella quale rimane gravemente feri-

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to il figlio minore di Guglielmo, Giovanni, precipitato da un burrone a causa di una spinta non intenzionale da parte di Chiacchiera. Guglielmo è costretto ad andarsene per poter portare il figlio in un ospedale lontano e Chiacchiera, per espiare la sua colpa, si mette a capo della ricostruzione della strada. Il suo ritrovato vigore serve da esempio agli scoraggiati abitanti, ma ben presto i proprietari terrieri interrompono i lavori perché temono che il governo non li compensi per la costruzione della strada sulle loro terre. Chiacchiera evita il duro affronto convincendoli che la costruzione della strada giocherà anche a loro vantaggio, permettendo un ampliamento delle loro possibilità di affari. I lavori riprendono ma dopo appena un chilometro si interrompono nuovamente di fronte ad una vecchia casa, unico possedimento di una ragazza madre. Suo marito non è ritornato dall’America, né ha mai dato sue notizie. La donna, dal temperamento orgoglioso, testardo e volubile, è quasi inavvicinabile. Questa volta Chiacchiera riesce a convincerla proponendole di ospitarla a casa sua fino a che le autorità non le rimborseranno la perdita. L’esplosione della vecchia casa viene utilizzata come scusa dai ricchi per chiamare la polizia e far arrestare molti lavoratori con l’accusa di aver utilizzato della dinamite in luogo pubblico senza alcun permesso. I lavori vengono dunque di nuovo interrotti. Tuttavia il trionfo dei nobili ha vita breve. Con loro grande sorpresa le donne e i bambini prendono il posto dei loro uomini arrestati e allo stesso tempo cercano di convincere il parroco del paese affinché la denuncia venga ritirata, finchè gli uomini arrestati non vengano rilasciati, i lavori però vengono bloccati nuovamente quando il consiglio comunale si rifiuta di pagarli. In segno di protesta i lavoratori fanno lo sciopero della fame e si rinchiudono in un seminterrato. A questo punto il maestro del paese, Del Prà, che fino a quel momento si era opposto alla costruzione non autorizzata, si unisce agli scioperanti poichè è deluso dagli avidi ed egoisti nobili, i quali vogliono trarre vantaggio dalla strada senza sborsare un soldo. Del Prà, messo di fronte alle ingiustizie e rattristato dalle avversità che devono affrontare i suoi ex allievi, vede frantumarsi il suo mondo ideale basato sulla legalità e sull’ordine. Il maestro decide di schierarsi al fianco dei lavoratori e di mediare con i ricchi, utilizzando la sua autorità e la sua influenza per persuaderli a pagare le tasse arretrate per ricompensare i lavoratori. A differenza di altri film neorealisti, La strada lunga un anno descrive la borghesia, nella persona di Del Prà, come in grado di cambiare il proprio destino. L’insegnante è un uomo di settant’anni attaccato alle

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vecchie tradizioni, è un vecchio sentimentalista, romantico, egalitario che crede ancora negli antichi principi dell’onestà, dell’integrità e dell’obbedienza, ma quando la lotta tra le autorità e la vecchia classe dominante conservatrice da un lato e i lavoratori dall’altro raggiunge il culmine, egli riesce a spingersi oltre la sua istruzione e la sua cultura per schierarsi al fianco dei lavoratori. In seguito alla sua vittoria personale, il vecchio muore esausto di fatica in una scena davvero melodrammatica, nel momento in cui gli operai hanno raggiunto una coscienza collettiva e non hanno più bisogno del suo aiuto. Qui De Santis sta applicando le idee di Gramsci sul ruolo degli intellettuali16 per cui la vecchia "intellighenzia" verrà rimpiazzata da quella nuova, che sarà parte integrante della società neo-costituita. Si potrebbe dire che De Santis stesso è un esempio di nuovo intellettuale schierato dalla parte dei lavoratori, che dirige film simbolici per promuovere un nuovo ordine democratico basato sulla collaborazione sociale e di classe. In seguito alla morte di Del Prà la costruzione della strada deve superare un ultimo ostacolo, ovvero l’attraversamento di un fiume. Come per gli altri impedimenti, il ponte servirà a reintegrare gli individui con il resto della comunità. Chiacchiera fa affidamento sull’aiuto di Davide, un ex costruttore di ponti ora coinvolto nel mercato nero. Davide vuole sfruttare quest’opportunità per uccidere Lorenzo, l’amante di sua moglie, ma nel momento cruciale in cui sta per portare a compimento la sua vendetta, gli impulsi personali vengono sopraffatti dall’impegno che ha nei confronti degli altri lavoratori e della loro causa. Il completamento del ponte fa rinascere in lui la fiducia e lo aiuta a riguadagnare dignità di fronte alla sua gente e alla sua famiglia. Il ponte infonde anche un senso di realizzazione e autostima nel resto dei lavoratori. La rappacificazione tra Davide e i suoi amici giunge a compimento in seguito alla riconciliazione con la moglie, che lo seguirà nel suo nuovo lavoro in città. La "strada lunga un anno" è finalmente costruita. Ci sono volute quattro stagioni e una dura lotta per portare a termine ciò che non era mai stato realizzato con le forze dei soli lavoratori. Gli abitanti di questo paese metaforico hanno oramai raggiunto una nuova prospettiva sulla vita in generale e sulle loro vite in particolare. Ci sono molte altre strade da costruire o che hanno bisogno di essere riparate e il governo li pagherà 16 Sul ruolo dell’intellettuale si veda Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1966.

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a lavori compiuti. La loro nuova visione della vita è simboleggiata dalla nascita di un bambino che deve essere sfamato. I suoi genitori, Pasquale e Angelina, non sognano più di emigrare in America ma al contrario piantano un segnale che indica la costruzione di una nuova strada. Guglielmo, che ha dato il via alla costruzione della strada, verrà eletto sindaco per aiutare la gente e per assicurarsi che i nobili paghino le tasse. Lavorando assieme alla costruzione della strada gli abitanti hanno imparato a collaborare e a trarre vantaggio dal superamento della miseria e dal lavoro. Durante i suoi momenti di più ampio respiro la narrazione di questo film diventa un’epica intessuta di episodi individuali divertenti, drammatici e patetici, ma la tensione è mantenuta viva dalla continua interrelazione tra i conflitti sociali e di classe. Com’è tipico del mondo poetico di De Santis, le classi subalterne e i lavoratori non sono meri rappresentanti della propria classe sociale, con tutte le sue caratteristiche distintive, ma sono in primo luogo degli individui, verso i quali il regista nutre un profondo affetto. Questo amore è evidente nella meticolosa rappresentazione dei festeggiamenti e nei loro ritratti minuziosi mentre mangiano, fanno il bucato e si coricano. La classe operaia nel mondo cinematografico di De Santis è svantaggiata, vittima dei ricchi e degli oppressori ed è solo attraverso la solidarietà che i lavoratori e i contadini possono sperare di superare la loro condizione di subordinazione e privazione. Il lieto fine della storia si differenzia da quello di un ordinario film commerciale e deriva dall’approccio dialettico del regista nei confronti della realtà sociale e dalla sua ferma fiducia nella capacità dell’umanità di migliorarsi. De Santis illustra ancora una volta la sua fiducia nell’abilità dell’uomo di raggiungere una consapevolezza morale e politica e di ribellarsi superando le avversità in circostanze ostili. Nella lotta contro le ingiustizie i meno privilegiati possono trovare una loro dignità solo nella collaborazione ed è attraverso la collaborazione che possono superare gli ostacoli che li separano dall’emancipazione. È inoltre importante notare come la strada metaforica venga portata a termine con mezzi democratici. La più grande vittoria per i lavoratori del paese immaginario di Zagora risiede nell’aver costretto le altre classi sociali a collaborare e a condividere alcuni dei loro privilegi. Pertanto la strada rappresenta anche il viaggio verso la democrazia e il progresso. Questa lezione di democrazia e umanità rimase inascoltata nell’Italia divisa degli anni cinquanta, dove il film non fu mai distribuito in larga misura.

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Capitolo 12 Fine della famiglia borghese o repulsione per una società trasformata? La Garçonnière (1960)

Dalla Dolce Vita (1960) in poi, la borghesia entra nel cinema italiano. Io non ho trovato lavoro a vele spiegate perché i miei personaggi continuavano, sia pure mutando le strutture, sia pur all’interno dei boom economici, ad essere quelli che erano... Questa gente non era scomparsa come mi si diceva per rifiutarmi lavoro. Giuseppe De Santis

Il ritorno di De Santis in Italia dopo Cesta Duga Godinu Dana (1958; La strada lunga un anno) venne accolto con ostilità professionale e ostracismo. Nonostante i riconoscimenti internazionali, il suo film jugoslavo non fu mai distribuito seriamente in Italia e di conseguenza non ricevette recensioni dai critici1. A peggiorare le cose, il fatto che il nuovo progetto di De Santis non vide mai la luce. Con la collaborazione del famoso scrittore napoletano Carlo Bernari, del suo discepolo Elio Petri, di Ugo Pirro e Tonino Guerra, De Santis aveva scritto un soggetto, che in seguito divenne una sceneggiatura, su Pettotondo, la leggendaria prostituta pugliese che con la sua professione non voleva guadagnare più soldi di quelli necessari a soddisfare i suoi bisogni più immediati. Fu una celebre canzone folcloristica tipica dei contadini pugliesi a inspirare De Santis2. Il film aveva trovato come produttore Roberto Amoroso. In precedenza la famiglia Amoroso era stata impegnata nella produzione di film a basso budget per lo più per il mercato locale napoletano, ma in seguito al successo di Due soldi di felicità (1956) e Addio per sempre (1957), Roberto Amoroso era pronto a lanciarsi nel mercato nazionale. Il nome di De Santis, 1 Antonio Parisi afferma di non essere stato in grado di vedere il film in questione in Il cinema di Giuseppe De Santis, cit., p. 166. Durante le mie ricerche in Italia ho scoperto che la Cineteca Nazionale di Roma ne possiede una copia infiammabile che non è disponibile alla visione. Nella ristampa del volume pubblicata nel 2002 al film sono dedicate tre pagine e tre foto. 2 De Santis aveva sentito la storia di Pettotondo durante la sua infanzia da sua madre, Teresa Goduti, che era di origini pugliesi.

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specialmente dopo la nomination all’Oscar3 nel 1960, era visto come un notevole trampolino per il grande salto di Amoroso nel cinema di qualità. Parlando di Pettotondo, De Santis ricordò di aver addirittura girato un provino di quindici minuti con l’allora sconosciuta Claudia Cardinale, che era stata scelta per il ruolo da protagonista. A causa di forti pressioni dalla banca di credito, preoccupata di perdere futuri finanziamenti cinematografici dal governo, Amoroso fece marcia indietro e fu costretto a ricompensare la Cardinale per aver recesso dal contratto. Tuttavia riuscì a recuperare un accordo con De Santis e, anziché il film sulla prostituta pugliese, i due collaborarono a La Garçonnière, un film che manifesta il disprezzo per la nuova Italia del miracolo economico sul finire degli anni cinquanta4. La storia di La Garçonnière si svolge a Roma, dove l’ingegnere di mezza età Alberto Fiorini (Raf Vallone) vive con la famiglia in un quartiere esclusivo della città. La moglie Giulia (Eleonora Rossi Drago) si è dedicata anima e corpo ai bisogni della famiglia. Giulia è una donna molto insicura ed emotivamente dipendente dal marito, nonostante sia ricca e sia cresciuta in un ambiente benestante dell’alta borghesia. Alberto, un dongiovanni maturo, ha un pied-à-terre in un quartiere operaio della città, lontano dagli occhi della sua classe sociale e della sua famiglia. La portinaia dello stabile si occupa di pulire l’appartamento e di tanto in tanto dà le chiavi al giovane nipote di Fondi (il paese natale del regista), Vincenzino (Nino Castelnuovo) – una sorta di alter ego giovane di De Santis – perché utilizzi l’appartamento in assenza dell’ingegnere. Un giorno Giulia, che sospetta da tempo del marito, è spinta dall’amica Pupa (Marisa Merlini), una delle ex amanti di Alberto, a seguirlo fino al suo pied-à-terre. Nascosta nella sua auto, Giulia vede Alberto entrare nella palazzina, seguito poco dopo da una bella ragazza, Laura (Gordana Miletic). Giulia riconosce nella ragazza la modella di un atelier in cui si reca spesso con Alberto. Giulia scende dalla macchina e affronta Laura, la quale la insulta prima di entrare a sua volta nella palazzina. Laura non rivela ad Alberto dell’incontro con la moglie. Poco dopo Alberto riceve una telefonata dal suo amministratore, che lo informa di grane finanziarie in sospeso relative a delle cambiali in 3 Cesta Duga Godinu Dana ricevette un Golden Globe come miglior film straniero e Massimo Girotti vinse un Oscar come miglior attore in un film straniero per la sua interpretazione di Chiacchiera. 4 De Santis mi riferì questa informazione durante una delle nostre conversazioni a Fiano Romano nell’aprile del 1991.

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scadenza. Alberto chiama la moglie per ricevere assistenza finanziaria. Giulia non rivela al marito di essere a conoscenza della sua relazione sessuale con Laura ma, dopo la loro conversazione, propone ai suoi due figli di andare a fare un giro e si recano al pied-à-terre. Una volta giunta sotto l’appartamento Giulia parcheggia la macchina e innesca la sirena dell’allarme. Alberto, avvertito da Laura che ha visto tutto dalla finestra, scende in strada per vedere cosa sta accadendo. Nel frattempo Giulia e i bambini decidono di entrare al cinema del quartiere a vedere La grande guerra5. Per puro caso Alberto e Giulia si incontrano e la moglie cerca invano di impedire al marito di tornare dalla sua giovane amante. Alberto risale nell’appartamento, ma per una serie di interruzioni non riesce a consumare la sua relazione con Laura. Durante una conversazione Laura rivela di aver avuto un altro amante, il suo ex compagno di ballo, e le illusioni di Alberto di ricatturare la sua giovinezza attraverso il puro amore verginale di una giovane ragazza vengono infrante. Alberto si addormenta deluso mentre Laura lascia l’appartamento. Il mattino seguente Alberto con grande sorpresa trova Giulia seduta nella sua macchina, che ha trascorso l’intera notte insonne ad aspettarlo. I due si riconciliano e tornano verso casa, ma senza giuramenti di fedeltà. I critici hanno attaccato duramente il film. Castello6 trovò poco convincente la metafora umana di un uomo maturo che, dopo una lunga serie di relazioni extraconiugali, ricerca nell’amore un nuovo scopo di vita. Alberto è un personaggio ambivalente ed il pubblico non comprende se sia davvero innamorato di Laura o se soffra di qualche nevrosi7. Lanocita, parlando8 del tentativo del film di avanzare motivazioni per la legalizzazione del divorzio in Italia, osservò che le idee progressiste del film erano state ostacolate dalla rappresentazione di un donnaiolo con la speranza di essere il primo amante di una giovane vergine. I biografi di De Santis non furono più benevoli. Per Stefano Masi9 La Garçonnière è il trionfo della messinscena e del barocchismo artistico. Il critico vedeva il film come il culmine del gusto di De Santis 5 La grande guerra, il film del 1959 di Mario Monicelli che mescola umorismo nero ad una retorica anti-militarista, è utilizzato polemicamente da De Santis per riflettere sul genere di film che veniva apprezzato alla fine degli anni cinquanta. La pellicola condivise il Leone d’Oro con Il Generale Della Rovere di Rossellini al Festival Internazionale del Cinema di Venezia nel 1959. 6 Giulio Cesare Castello, La Garçonnière, «Il Corriere della sera», 19 aprile 1961. 7 Mi riferisco al disordine descritto da Peter Truchtenberg in The Casanova Complex. 8 Arturo Lanocita, La Garçonnière, «Corriere della sera», 19 aprile 1961. 9 Stefano Masi, Giuseppe De Santis, cit., p. 89.

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per l’accumulo di dettagli, evidente anche nella recitazione esagerata. Alberto Farassino10 ha definito il film come la sua opera più brutta. Secondo il critico, La Garçonnière è poco equilibrato, indifendibile e perfino patetico. Antonio Parisi11 ha classificato il film al di fuori della tendenza stilistica del regista e sceneggiatore e delle sue tematiche populiste, comparando la classica unità di spazio, tempo e azione del film al Kammerspiel tedesco. Più che la condanna di un singola classe sociale o il dramma psicologico di un uomo maturo e la fine della famiglia borghese, La Garçonnière segna l’inizio della presa di distanza di De Santis dalla nuova società demografica italiana di fine anni cinquanta. In quel momento storico le ben definite differenze culturali tra le varie classi sociali si stavano attenuando sotto l’influenza del consumismo e dei mass media. I rapidi cambiamenti culturali erano altresì accompagnati da un esodo dalle campagne e dal conseguente declino della cultura contadina. Riflettendo su tali cambiamenti culturali, De Santis nel 1987 affermò che questi avvennero secondo un corso naturale di eventi in cui si alternarono momenti di eroismo e altrettanti momenti di riflessione e stasi. De Santis ammise che tali trasformazioni riguardarono anche lui, ma che evidentemente si svilupparono in maniera più lenta e dolorosa rispetto agli altri registi12. La Garçonnière è ambientata in città, luogo che De Santis vedeva come portatore di disumanizzazione individualista, corruzione e degrado. In contrasto con la comunità rurale, dove il male può essere vinto, sradicato o espulso dal corpo sociale, la città è un luogo dannato dalla frammentazione della società e dalla detribalizzazione. In ambienti urbani i personaggi di De Santis sono sempre chiusi e intrappolati in spazi stretti e cupi, meticolosamente ricostruiti negli studi. I personaggi cittadini di De Santis, costretti a vivere in disarmonia con l’ambiente circostante, non possono esprimere appieno, e tanto meno vivere, una sana sessualità. La sessualità al di fuori della campagna può solo tramutarsi in perversione, degrado, infelicità o perfino criminalità. In Roma ore 11 la città era descritta come un luogo ostile. In Un marito per Anna Zaccheo il crescente consumismo aveva creato (attraverso nuovi cartelloni pubblici e pubblicità) parchi divertimento per uomini e nuove forme di sfruttamento sessuale che esistevano solamente nelle 10 Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit., p. 43. 11 Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis, cit., p. 128. 12 Giuseppe De Santis citato in Vincenzo Camerino (a cura di) Cinema e Mezzogiorno, Lecce, Specimen Edizioni, 1987, p. 127.

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città durante il periodo in cui il film fu girato. Il leitmotiv del degrado urbano è perfino più marcato in La Garçonnière perché la storia racconta un dramma psicologico esistenziale della classe borghese ambientato durante il cosiddetto boom economico italiano. La Garçonnière è un film che manifesta lo sdegno di De Santis per le conseguenze culturali del miracolo economico13. Un confronto con L’avventura e La dolce vita, entrambi usciti nello stesso periodo (1959-60), rende ancora più chiaro l’atteggiamento di De Santis. In L’avventura, come ha scritto Liehm, l’esperienza umana strettamente individuale non è contaminata da nessun fattore storico o sociale. Il fatto che Antonioni scelse un ambiente sociale dell’alta borghesia non aveva niente a che vedere con il tentativo di rendere questo particolare tipo di avventura emozionale il privilegio (o il vizio) di una classe sociale14. In La dolce vita Fellini illustra un mondo internazionale decadente. La ricerca di Marcello di un significato nella vita è sfuggente perché è di fatto introvabile nel mondo moderno cinico, senza amore e inutile in cui vive. A differenza dei due film contemporanei sopracitati, La Garçonnière evidenzia come i mali già esistenti che avevano caratterizzato i precedenti film urbani di De Santis siano peggiorati alla fine degli anni cinquanta, al punto da aver corrotto ogni singola classe sociale. La vivace vita di strada descritta nella scena d’apertura del quartiere di Largo Circense prima del tragico crollo della scala in Roma ore 11 è scomparsa in La Garçonnière. Il distretto urbano operaio dove si trova il pied-à-terre è diventato un quartiere povero sulla scia del "progresso". L’analisi sociale che ha sempre caratterizzato i film di De Santis assume sfumature diverse ne La Garçonnière. Il fatto che non venga stabilito nessun netto contrasto tra il mondo culturale della classe di Alberto e quello della gente che vive attorno al pied-à-terre, interpretato da alcuni critici15 come un difetto del film, può essere spiegato con la visione pessimistica del regista riguardo al futuro della classe operaia. Il mondo che ruota attorno all’appartamento si sta convertendo in un’estensione del mondo all’interno del pied-à-terre. La standardizzazione e il consumismo stanno generando un’omogeneizzazione culturale delle classi. La classe operaia ne La Garçonnière non funge da controparte ai con13 Sul miracolo economico italiano si veda Giuliano Procacci, History of the Italian People, cit., pp. 379-383. 14 Mira Liehm, Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, cit., p. 180. 15 Per esempio si veda Giulio Cesare Castello, Censura a macchia d’olio, «Punto d'attualità», novembre 1960.

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flitti sentimentali ed esistenziali dei protagonisti dell’alta borghesia. Le immagini del film sono meno rivelatrici dei concreti problemi finanziari dei lavoratori rispetto a quelli relativi alla contaminazione culturale. Se si considera che la classe operaia è vista attraverso le finestre del pied-à-terre o attraverso gli occhi dei protagonisti della borghesia, il messaggio che ne deriva è che il miracolo economico italiano di fine anni cinquanta era accompagnato da profonde contraddizioni radicate nelle condizioni generali della restaurazione del dopoguerra. Tuttavia nel film, così come nella sfera nazionale italiana dove le contraddizioni passano inosservate, il coro del disagio sociale dei disoccupati o dei sottoccupati non è minimamente percepito da Alberto e dal suo circolo. Nella trama principale i personaggi sono intrappolati nel tradizionale triangolo: lui, lei e l’altra. Attraverso il loro conflitto il film non solo focalizza l’attenzione sulla crisi matrimoniale della borghesia ma mostra altresì il degrado dell’istituzione famigliare e della società in generale. Per esempio Laura, l’altra, è una ragazza proveniente da una famiglia operaia che ora lavora come modella. Laura, l’arrampicatrice sociale, con il suo sguardo civettuolo, le sue calze e il baby-doll appare come la volgarizzazione della forte donna sola e indipendente presente negli altri film di De Santis. Ricordiamo Francesca in Riso amaro, che uccide Walter come vendetta personale per averla ingannata e usata; Anna Zaccheo, che lotta contro il sessismo di una società maschilista e trova abbastanza forza per rifiutare un matrimonio senza amore ma agiato con Don Antonio; Lucia in Non c’è pace tra gli ulivi, che rompe l’antica tradizione che usava le donne come merce di scambio per l’arricchimento delle famiglie fuggendo nelle montagne in cerca del suo amato e mettendo a repentaglio la propria vita; infine una delle più forti eroine di De Santis, Maria Grazia, ancora in Non c’è pace tra gli ulivi che, dopo aver subito la violenza e l’umiliazione dello stupro di Bonfiglio, a soli diciassette anni trova il coraggio di affrontare il disprezzo del paese denunciandolo pubblicamente e trova perfino la forza interiore di tentare la fuga prima che Bonfiglio la uccida alla fine del film. Il degrado è evidente anche nel comportamento di Giulia, la moglie. Nonostante abbia sempre chiuso gli occhi di fronte all’infedeltà del marito, ora, sentendosi minacciata dalla bellezza e dalla giovane età di Laura, lo vuole mettere di fronte alla realtà. Il suo caparbio desiderio di scoprire la verità si trasforma in panico. Giulia non trova il coraggio di portare avanti il suo piano di rompere con Alberto, perché la fine del loro matrimonio avrebbe rivelato l’insignificanza della sua esistenza.

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L’unica cosa che riesce a fare è ammettere che l’amore matrimoniale non può durare in eterno se non è sostenuto da una forte amicizia e da una mutua comprensione. L’alta borghesia non è il solo bersaglio degli attacchi del regista. La portinaia è una ruffiana. Clementina, una ragazza del quartiere, è un prostituta. Pupa, l’amica di Giulia, è sposata con un uomo di vent’anni più vecchio. Nonostante si sia assicurata in tal modo la tranquillità economica, è condannata a sognare uomini più giovani e a ricordare i giorni della sua giovinezza quando faceva l’amore sull’erba con dei bei ragazzi muscolosi. I ragazzini del quartiere sono bulli sui motorini che passano il tempo nei bar e a giocare a biliardo. Sono tipi violenti e senza rispetto per nessuno, come dimostra il pestaggio ingiustificato di Alberto. Nelle rare occasioni in cui i protagonisti guardano fuori dalle finestre del pied-àterre, De Santis si assicura che ciò che vedono sia solo degrado. In una scena Laura guarda verso l’esterno e vede dei ragazzini che ballano in un bar mentre due vecchiette in una casa vicina guardano la pubblicità. Il messaggio è chiaro: nell’era del consumismo i vecchi sono confinati nelle loro case davanti alle loro televisioni e sono segregati dai giovani, i quali sono disoccupati. In un’altra scena mentre Alberto guarda fuori dalla finestra una zoomata in avanti ci mostra ciò che sta osservando: una targa che commemora una vittima della resistenza. Improvvisamente Alberto si allontana dalla finestra e la chiude. In questa scena De Santis utilizza per la prima volta in un film una zoomata. Nonostante ciò che hanno affermato alcuni critici16, De Santis non stava adottando la tendenza dell’epoca, caratterizzata da un abuso di questa tecnica, ma si avvalse di questa inquadratura per suggerire, attraverso il rapido movimento dello zoom, che la resistenza era un pallido ricordo17. Gli ideali abbandonati e dimenticati della resistenza 16 Si veda Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit., p. 45. 17 Il comportamento di Alberto Fiorini esprime l’atteggiamento critico di De Santis verso gli uomini italiani di mezza età, i quali negli anni cinquanta avevano rifiutato il coinvolgimento politico e vivevano senza ideali politici. Dal punto di vista intertestuale la scelta di Raf Vallone come attore per la parte dell’ingegnere Alberto Fiorini è appropriata. L’attore aveva infatti debuttato al cinema sotto la direzione di De Santis nel ruolo di Marco, l’eroe positivo in Riso amaro. Nel 1950 venne scelto per il ruolo del pastore buono, Francesco Dominici, in Non c’è pace tra gli ulivi. Nel 1960, quando De Santis lo scelse per il ruolo di Alberto Fiorini, Raf Vallone era uno degli attori più famosi e meglio pagati in Italia e non aveva coinvolgimenti di tipo politico. Durante l’amara campagna politica del 1948, che determinò la posizione dell’Italia nell’alleanza occidentale contrapposta al blocco orientale, Vallone

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sono rievocati nuovamente nella sequenza in cui un’anziana signora, costretta a lasciare il suo quartiere, piange di fronte alla targa dedicata al figlio ucciso dai nazi-fascisti18. Il declino è evidente nel fatto che quasi nessuno nel quartiere prova il sentimento di cameratismo, solidarietà e umanità che le masse negli altri film di De Santis sentivano e condividevano. L’unico personaggio positivo è Vincenzino, lo studente di medicina di Fondi. Questo ragazzo di provincia fa l’amore con la prostituta del luogo, Clementina, in una stanza che ha ricoperto di paglia per riprodurre i campi della sua regionale natale. La sua ingenua sensibilità è scambiata per omosessualità dagli inaspriti giovani della città. Vincenzino è attratto anche da Laura e vuole salvarla dall’ingegnere, senza comprendere che anche la ragazza lo sta usando. La scena in cui Laura lascia l’appartamento e bacia Vincenzino lasciandolo incredulo prima di prendere un taxi e di salutarlo con la mano dal finestrino posteriore è un tributo all’innocenza. I più grandi meriti artistici del film risiedono nella composizione delle scene e delle sequenze, a conferma dell’abilità e della maestria di De Santis per l’aspetto visivo. Pregiabile per la sua bellezza visiva, la scena in cui Laura gioca con un hula hoop può essere interpretata anche come un’ulteriore commento sull’aspetto illusorio delle vite di Alberto e Laura. Laura sta facendo un gioco da bambina cercando allo stesso tempo di essere seducente ed erotica. Il suo volto riflesso nello specchio è l’immagine dell’innocenza e della provocazione mentre tenta di stuzzicare Alberto19. Quest’ultimo, d’altro canto, è disilluso dopo posò come il padre in un manifesto politico che mostrava il futuro della nuova famiglia socialista italiana. Gli altri membri della famiglia erano Carla Del Poggio, che interpretò Giovanna in Caccia tragica (e successivamente sposò il regista Alberto Lattuada) e la giovane Luisa De Santis, figlia del regista. 18 L’uscita di La Garçonnière fu preceduta da dissensi e aspre polemiche fra il produttore, Roberto Amoroso, e De Santis. Il produttore voleva che venisse tagliata la scena in cui la madre del partigiano ucciso chiama i nazi-fascisti assassini. Amoroso riteneva che la scena avrebbe ostacolato il successo commerciale e artistico del film. La protesta di De Santis finì in tribunale, che diede ragione al regista. La scena fu mantenuta nella versione finale dell’opera. 19 La censura giocò un ruolo fondamentale nel debutto del film a Roma. Al teatro Capranica il 22 novembre 1960, prima che i proiettori prendessero a girare due agenti della sicurezza pubblica entrarono nella sala di proiezione e tagliarono la scena in camera da letto tra Alberto e Laura. Gli agenti agivano su ordine del capo della polizia di Ferrara e in contrapposizione all’ordine della commissione del governo che aveva approvato la distribuzione del film, purché il regista tagliasse 78 delle 336 inquadrature della sequenza.

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la scoperta della non verginità di Laura e si abbandona all’indifferenza, come rivela la sua espressione tenebrosa e distante. Attraverso il coinvolgimento erotico con Laura, Alberto si è illuso di poter riconquistare la sua sfiorita virilità. Infatti nella sequenza che segue Alberto guarda fuori oltre il cortile e si immagina giovane, con indosso degli abiti da lavoro mentre accompagna col trombone l’aggraziato ballo di Laura. L’agitazione e l’insoddisfazione espresse in questa sequenza onirica riflettono il dilemma del protagonista. Alberto è diviso tra la rigida realtà della sua età e il bisogno della trasfigurazione attraverso l’illusione. Il film si conclude con quella che sembra essere la sequenza più bella del film, ricca nella forza analogica della rappresentazione. Alberto e la moglie stanno guidando verso casa di prima mattina. Mentre discutono candidamente sull’inutilità del loro matrimonio senza amore, la macchina scivola silenziosamente attraverso il grande e deserto parco di Villa Borghese, ricordando al pubblico la vuotezza della loro lunga unione e delle loro parole. In La Garçonnière De Santis si rivolge alle masse e condanna tutto ciò che è associato allo stile di vita del boom economico e al livellamento delle differenze culturali sulla scia del consumismo. La sua rappresentazione dell’omogeneizzazione delle classi e del degrado della nuova società italiana avviene in un momento storico in cui il cinema nazionale si stava imbarcando in una delle decadi più fruttuose, segno della distanza di De Santis dai nuovi approcci cinematografici emergenti e dalle nuove visioni artistiche. De Santis affermò che il 1960 rappresentava un punto di svolta per il cinema italiano20, perché a partire da quel momento, sotto l’influenza di Fellini e Antonioni, l’attenzione si spostò sui problemi e le nevrosi esistenziali delle classi borghesi e alto-borghesi. I caratteristici pescatori, i piccoli artigiani e gli impiegati scomparvero per lasciare il posto all’alta borghesia. Da quando fu distribuita La dolce vita, tutto il cinema italiano non fece altro che riflettere sulle tematiche e le problematiche relative a queste classi sociali, accantonando tutti gli altri aspetti della vita italiana. L’emigrazione del regista verso l’ex Unione Sovietica per girare la sua pellicola successiva, Italiani brava gente, la storia di alcuni contadini costretti a combattere una guerra contro la loro volontà, è un altro indizio del fatto 20 Parlando degli anni sessanta, Mira Liehm affermò che alla fine un nuovo gruppo di registi era riuscito ad emergere dalla crescente forza del cinema italiano, portando alla luce un eterogeneo fenomeno a volte definito New Italian Cinema. Passion and Defiance: Film in Italy from 1942 to the Present, cit., p. 188.

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che nel mercato italiano del tempo, saturo del nuovo genere mitologico italo-americano, di commedie all’italiana, e di nuovi registi, c’era ben poco spazio o soldi per le storie contadine di De Santis. Il mondo contadino descritto da De Santis riapparirà in vesti differenti nell’epica cinematografica di Novecento di Bertolucci e nel nostalgico L’albero degli zoccoli di Olmi alla fine degli anni settanta. Le parole di Alberto, l’ingegnere di La Garçonnière, - «voglio sbagliare, voglio passare per ingenuo ...perfino ridicolo... è possibile che oggi anche quello che è drammatico diventi ridicolo?» - possono essere lette come l’epitaffio di De Santis per descrivere la nuova situazione culturale e come il messaggio ultimo del film.

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Capitolo 13 Continuare a marciare o morire: Italiani brava gente (1964) Noi abbiamo avuto il torto di ispirarci alle memorie e testimonianze e alle decine di libri, che hanno voluto lasciarci tutti coloro che la Campagna di Russia l’hanno vissuta sul fronte di battaglia, nelle trincee, al gelo e alla fame. Quei memoriali parlano tutti, non uno escluso, sia pure ad un diverso livello, a seconda della sensibilità politica e storica dei singoli autori, degli stessi fatti e delle stesse cose da noi raccontati nei film. Giuseppe De Santis

Negli anni sessanta il cinema italiano fu testimone di un ritorno ampiamente apprezzato dei temi storici. Il successo al botteghino di due film in particolare, la controversa commedia di Mario Monicelli La grande guerra (1959) e Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, diede il via a questa nuova tendenza cinematografica. La grande guerra di Monicelli è una pellicola controversa che descrive il ruolo dell’uomo comune nella prima guerra mondiale. Anche il film di Luigi Comencini affronta un evento storico, ma l’approccio al tema assume un tono tragicomico. Questi film di guerra e tragicomici allo stesso tempo, che si occupano di eventi storici passati e recenti, piacquero al pubblico, poiché attenuavano in maniera comica gli orrori della guerra e criticavano l’inettitudine e l’inefficienza di un governo che aveva mandato a morire degli uomini per una causa che non comprendevano o in cui non credevano. Generalmente, attraverso la presentazione dei soldati della classe operaia come anti-eroi, questi film glorificano uno stile di vita esaltato dalle masse. Basti pensare a Vittorio Gassman nei panni di Giovanni Busacca e Alberto Sordi nei panni di Oreste Jacovacci in La grande guerra o in quelli del Tenente Innocenzi di Tutti a casa, questi personaggi che sono maestri nell’arte di arrangiarsi. Il pubblico si identificò con loro, uomini che tendenzialmente facevano del loro meglio per evitare situazioni pericolose, ma quando si trovavano di fronte all’inevitabile, mettevano da parte la codardia e morivano con onore. Dal momento che questi film hanno immortalato tali anti-eroi, sono riusciti ad evitare la censura per aver salvato l’onore nazionale italiano. Anche l’acclamata pellicola di Rossellini del 1959 Il Generale Della Rovere appartiene

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a questo nuovo genere di cinema. Il protagonista del film, Emanuele Bardone (Vittorio De Sica) è un piccolo criminale che si procura da vivere fingendo di adoperarsi per salvare gli italiani arrestati dalla Gestapo, sotto il falso nome di "Colonnello Grimaldi". Arrestato dai tedeschi, Emanuele viene costretto a fingersi il Generale Della Rovere per scovare il capo della resistenza, Fabrizio. Bardone, piuttosto che fornire il nome che serviva alla Gestapo, affronta il plotone d’esecuzione, lasciando gli increduli tedeschi con un messaggio per la moglie del vero Generale Della Rovere: «I miei ultimi pensieri erano per te. Lunga vita all’Italia»1, un messaggio che è simbolo della sua redenzione. Altri film, fra cui Un giorno da leone (1961) di Nanni Loy, possono essere inclusi all’interno di questa nuova tendenza cinematografica. Mentre molte delle pellicole di quel periodo demistificavano il ruolo dell’Italia nella seconda guerra mondiale, alcune si spingono oltre. Italiani brava gente di De Santis (Italiano brava gente)2 sfida la posizione conservatrice (per lo più sostenuta dalle forze militari e da quelle politiche conservatrici) che cercò di utilizzare la morte di migliaia di soldati italiani come motivo di commemorazioni retoriche e per la storiografia agiografica. Il film affronta apertamente il fatto che, alleandosi con il nazismo, l’Italia divenne complice nell’aggressione all’Europa e all’Africa durante la seconda guerra mondiale. Italiani brava gente, seppure imbevuto di convenzioni caratteristiche dei film di guerra degli anni sessanta (gag comiche, temi storici controversi, e personaggi anti-eroici) spicca non solo per i suoi meriti artistici, ma soprattutto in quanto tentativo onesto e democratico di portare sullo schermo una memorabile pagina della storia italiana precedentemente ignorata. Questa rappresentazione della campagna di 1 Il film di Rossellini divise il primo premio con La grande guerra di Monicelli. A differenza della pellicola di Monicelli, che fu criticata solo dai conservatori, il film di Rossellini ottenne l’approvazione di Gino Guermandi e del figlio del General Roboletti, un generale assassinato dai sinistroidi della Gestapo auto-dichiaratisi tale. La critica asseriva che far passare una codarda spia nazista, Della Rovere, come un eroe della resistenza era un insulto all’onore e alla memoria di coloro che erano morti durante la seconda guerra mondiale. Sulle polemiche riguardanti l’interpretazione del personaggio di Della Rovere si veda Carlo Lizzani, Il cinema italiano, cit., 250-1. 2 Italiano brava gente, il titolo originale, fu censurato dal governo. Il film fu in seguito approvato sotto il nuovo titolo di Italiani brava gente. Una versione inglese con il titolo originale è disponibile negli Stati Uniti. Ho inoltre visto, al Middlebury College, una differente versione dal titolo Attack and Retreat. Il titolo russo è Oni shli na Vostok.

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Russia condanna la guerra, senza ricorrere al vittimismo o al nazionalismo retorico, in quanto antitesi della vita e dell’umanità. Il film illustra con accuratezza storica i funesti eventi dell’aggressione di Mussolini all’Unione Sovietica, ovvero la sconfitta militare italiana più disastrosa portata avanti nelle condizioni più avverse. Questa spedizione insensata, che aveva coinvolto 250.000 soldati, fu ordinata dal Duce tra il 1941 e il 1943 in disaccordo con i consigli dei suoi generali e del suo maggior alleato, Adolf Hitler3. Nonostante altri film sulla guerra fossero critici nei confronti della guerra stessa e dell’inettitudine degli ufficiali dell’alta borghesia, il passaggio da eroe ad anti-eroe portò a conclusioni forzate, riaffermando le virtù dei semplici lavoratori italiani, i cui sacrifici innalzarono l’onore nazionale e i valori militari. Gli anti-eroi divennero figure encomiabili e degne dell’ammirazione e delle lodi nazionali. Il film di De Santis non è solo una denuncia al regime fascista, con il suo inutile sacrificio di decine di migliaia di miliari italiani in Russia per delle vuote parole e dei falsi ideali, ma è in primo luogo una glorificazione della solidarietà e dell’umanità contro la guerra, la distruzione, il militarismo e l’imperialismo4. Per anni Giuseppe De Santis ha pianificato e lavorato ad un film sull’Armir (Armata Italiana in Russia), com’è chiamato l’esercito di Mussolini sul fronte orientale. Il regista trovava stimolanti molti elementi di quel progetto. In primo luogo vi era un travolgente dramma umano causato dalla catastrofe militare che aveva lasciato un’immagine indelebile nella mente di ogni italiano. A questo si aggiungano le immagini del vasto territorio russo dove le due rivoluzioni del vente3 Sulla guerra in Russia lo storico inglese Denis Mack Smith scrisse che Mussolini aveva ricevuto solo i più vaghi avvertimenti su questa mossa fatale e che si trovava nel bel mezzo delle negoziazioni con la Russia per un trattato commerciale. Lo storico proseguì asserendo che Mussolini confidava pienamente nella fiducia di Hitler in una facile vittoria e che spedì 200.000 uomini senza consultare i suoi generali e contrariamente ai desideri di Hitler. Gli italiani inviati sul fronte orientale si ritrovarono a dover affrontare una missione impossibile ed impararono solo ad odiare la brutalità dei loro alleati tedeschi: Denis Mack Smith, Italy: A Modern History, Ann harbor, University of Michigan Press, 1959, p. 481. 4 Su questo argomento lo storico Giuliano Procacci scrisse che con l’attacco alla Russia e l’intervento degli americani nel dicembre del 1941, la guerra si fece sempre più dura per le potenze dell’Asse. Nel dicembre del 1942 l’esercito italiano composto da 110.000 uomini fu sconfitto e oltre la metà dei soldati morì sotto il fuoco nemico o di freddo. Lo storico proseguì scrivendo che i pochi sopravvissuti affermarono che i loro compagni tedeschi avevano negato loro i mezzi di trasporto per poter mettersi in salvo: Giuliano Procacci, History of the Italian People, cit., p. 367.

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simo secolo, la nazi-fascista e la bolscevica, si affrontarono per determinare il vincitore e, probabilmente, il destino dell’umanità. La guerra sul fronte orientale aveva scavato cicatrici indelebili nella sfera privata di molte famiglie i cui cari figuravano tra i dispersi. Durante la seconda battaglia difensiva sul fiume Don, tra il dicembre del 1942 e il gennaio del 1943, 229.005 soldati italiani combatterono per fermare l’avanzata dell’Armata Rossa. Di questi, 84.830 morirono e 29.690 furono fatti prigionieri: sono numeri che attestano la dimensione delle perdite e i suoi effetti sull’opinione pubblica italiana e sulla storiografia. Nel regno ideologico e in quello filosofico De Santis lesse il conflitto come la prova della vittoria del comunismo sul fascismo. In quanto documento della catastrofe militare, il film servì altresì da lezione storica per quegli italiani che seguirono gli ordini di Mussolini ciecamente e senza alcuna consapevolezza politica. Per almeno dieci anni i produttori e i registi italiani pensarono all’adattamento delle molte storie, racconti e memorie lasciate dai sopravvissuti. Nel 1964, anno di Italiani brava gente, erano già stati pubblicati quarantasette libri sulla campagna di Russia. Nel mondo del cinema si ipotizzava un adattamento del romanzo di Rigoni Stern Il sergente nella neve, di Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Badeschi, di Mai tardi di Nuto Revelli, di I morti e i vivi di Fidia Gambetti e del più commovente resoconto scritto da Don Carlo Gnocchi, Cristo fra gli alpini. De Santis utilizzò una storia originale, scritta in collaborazione con Ennio De Concini, basata sulla ricostruzione dei molti resoconti scritti da storici e militari che erano sopravvissuti alla guerra sul fronte orientale e fu alla fine in grado di portare a termine il suo progetto riunendo assieme la prima grande co-produzione italo-russa con il supporto finanziario diretto del produttore americano Joseph Levine5. La sceneggiatura finale è stata redatta da Ennio De Concini, Augusto Frassinetti, Gian Domenico Giagni, Serghei Smirnov e De Santis. Il film fu inoltre reso possibile dal nuovo spirito di collaborazione tra le due superpotenze, come conseguenza del disgelo della guerra fredda degli anni cinquanta. Italiani brava gente fu infatti girato interamente nell’allora Unione Sovietica, sul luogo, con alcune ricostruzioni negli 5 In un’intervista del 1962 De Santis disse al giornalista Franco Calderoni che Joe Levine era coinvolto nel progetto del film e che erano stati scelti gli attori Anthony Perkins e Ernest Borgnine. Si veda Franco Calderoni, Dalla coproduzione al primo ciak in gennaio, «Il Giorno», 16 novembre 1962. Prima dell’inizio delle riprese tali attori furono sostituiti da Peter Falk e Arthur Kennedy.

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studi della Mosfilm. I russi fornirono tutti gli extra e gli equipaggiamenti militari, riprodotti espressamente per il film. Le riprese richiesero otto mesi di lavoro, quattro dei quali durante il duro inverno russo, e il costo finale fu di 1,5 miliardi di lire. Prima che fosse firmato l’accordo finale, il produttore italiano dovette accettare che gli storici russi, esperti di seconda guerra mondiale, controllassero e collaborassero alla versione finale della sceneggiatura6. Secondo De Santis e i suoi collaboratori, il film doveva essere un accurato resoconto storico della campagna, basato su racconti verificabili dei soldati, i quali, dalla parte italiana, erano stati per la maggior parte sradicati dai loro lavori quotidiani e dalle loro vite per combattere una guerra d’aggressione in nome del Duce e da lui ordinata. A differenza del film del 1943 di Rossellini, L’uomo della croce, che descriveva i russi come delinquenti, barbari e incivili senza fede (come attesta la dedica in conclusione del film), Italiani brava gente mostrò l’umanità innata dei soldati italiani della classe operaia che combatterono una guerra senza comprenderne le cause7. Questi erano per la maggior parte poveri diavoli mal vestiti che adempivano ad un compito che non aveva niente a che vedere con le loro vite quotidiane. Il titolo originale riflette le intenzioni e le motivazioni del film: Italiano brava gente è la traduzione letterale dell’espressione colloquiale utilizzata dai russi per indicare i soldati italiani durante il conflitto - "Italiano Karascio". Tuttavia dal punto di vista politico e ideologico il titolo assume un altro significato, più strettamente correlato alla cultura italiana sotto il fascismo. Durante il regime i cittadini fedeli, virili e pieni di orgoglio nazionalista venivano chiamati "Bravi italiani". Uno degli obiettivi culturali del fascismo era proprio quello di forgiare un nuovo tipo di uomo. Lo storico Denis M. Smith scrive che l’educazione dei giovani era di vitale importanza per un governo che si vantava di stravolgere gli standard convenzionali della moralità, della giustizia e della civilizzazione. La politica ufficiale stabiliva che gli italiani dovevano essere più bellicosi e forti e meno artistici e gentili8. Secondo il filosofo Giovanni Gentile il fascismo era uno stile più che una dottrina, un modo d’agire più che un’azione. 6 Ibidem. 7 Denis Mack Smith scrive che gli italiani, sia fascisti che antifascisti, lottarono duramente per la difesa del Paese. Tuttavia molti sentirono fin dall’inizio che la loro causa era sbagliata e ben presto la guerra divenne molto impopolare: Denis Mack Smith, Italy, cit., p. 480. 8 Ivi, p. 423.

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Il volto ufficiale dell’Italia fascista era guerresco. Le sue guide erano individui eroici, quali i fuoriclasse dell’aviazione Italo Balbo e Francesco De Pinedo. Ispirandosi a queste figure, e al Duce, gli uomini dovevano essere forti, virili, battaglieri, atletici e fedeli allo stato e alla famiglia. Il motto prediletto dal Duce era: «meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora.» Gli autori del film volevano confutare tali ideali fascisti e dimostrare come questi fossero solo la facciata esteriore di un’ideologia che non aveva cambiato o risolto i molti problemi che gli italiani stavano ancora affrontando. La realtà sociale era più volgare e le politiche fasciste meno sensibili verso i problemi più seri che rimanevano, fra tutti, la povertà e la corruzione. Le nuove guide che il fascismo aveva portato al potere erano dei parvenu e provinciali borghesi che utilizzavano la retorica ufficiale per rinforzare la propria posizione. A questo gruppo di persone appartenevano le figure controverse del Maggiore Ferro Maria Ferri e il corpo degli Arditi9, descritti nel film di De Santis. Per gli autori della sceneggiatura i soldati della classe operaia non erano i combattenti che Mussolini si aspettava, ma persone comuni, generalmente incapaci di uccidere o di ferire il nemico10. Non erano crudeli, come lo erano i tedeschi, ma condividevano una solidarietà umana che derivava per lo più dalla loro cultura contadina11. Secondo gli autori i militari italiani avevano più cose in comune con il nemico, i russi, che con i loro alleati tedeschi. Il regista voleva creare un’epica cinematografica popolare secondo i principi dell’arte popolare realista a uso e consumo dei cinema di seconda visione che attraeva prevalentemente il pubblico della classe operaia. Gli spettatori potevano condividere gli stessi sentimenti di ostilità che avevano provato i soldati 9 Gli Arditi erano originariamente un battaglione d’assalto istituito per la prima volta nel 1917, durante la prima guerra mondiale. Sotto la guida di Mussolini divennero più strettamente legati al fascismo rispetto al resto dell’esercito. 10 Denis Mack Smith scrisse che gli italiani erano sbalorditi dalla crudeltà dei tedeschi e perfino Mussolini ne rimase sorpreso: Denis Mack Smith, Italy, cit., p. 478. Sulla disillusione di Mussolini nei riguardi del suo popolo, Smith scrisse che Mussolini fu costretto ad ammettere di avere poca fiducia nella razza italiana e che gli italiani del 1914 erano migliori di quelli del 1940: Ivi, p. 480. 11 De Santis spiegò che lui e gli altri autori erano interessati ad immortalare i momenti in cui la crudeltà era sopraffatta dal dialogo tra i russi e gli italiani. I russi facevano una chiara distinzione tra gli italiani e i loro alleati tedeschi. Il titolo Italiani brava gente, nonostante un po’ troppo patriottico, riflette una realtà storica innegabile: Franco Calderoni, Dalla coproduzione al primo ciack in gennaio, cit., p. 12.

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uccisi in guerra nei confronti del regime e l’intenzione del regista era di presentare i soldati italiani spogliati dei cliché pseudo-patriottici di cui li aveva rivestiti il governo. Per portare a termine il progetto, gli autori della sceneggiatura adottarono una struttura che intrecciava le storie individuali con gli eventi collettivi e cronologici delle principali battaglie. La storia ufficiale si mescola così con i drammi minori e personali dei soldati. I loro racconti, girati con dei primi piani, riflettono le loro ansie, i loro sogni e le loro aspettative e sono contrapposti alle scene delle battaglie, girate con campi medi e lunghi, al fine di armonizzare il contenuto con lo stile. Il messaggio finale del film, nel suo livello più intimo, è che, nonostante la guerra e i suoi orrori, i soldati della classe operaia coinvolti furono in grado di trovare e vivere momenti di umanità condivisa. Il film si apre nell’estate del 1941 mentre un treno carico di soldati italiani di varie divisioni (Torino, Tagliamento e Cuneo) viaggia attraverso i campi sconfinati dell’Ucraina diretto verso il fronte orientale. Le truppe sono felici e il morale è alto. La guerra sta procedendo in maniera favorevole, dal momento che i loro alleati tedeschi si stanno spingendo in avanti con una potente offensiva. Il pubblico inizia a conoscere i protagonisti mentre il treno procede. Grazie ai loro diversi accenti e alle loro parlate, i soldati rivelano le regioni di provenienza e i loro contesti culturali di appartenenza: Roma, Catania, Napoli, Milano, Firenze e Cerignola, per citare alcune delle loro città. Dalle loro conversazioni appare inoltre evidente che non conoscono nulla del nemico. Un soldato chiede ad un suo superiore che cosa voglia dire "Kolkhoz" (azienda collettiva agricola) e questo risponde di non esserne sicuro, ma che gli sembra che voglia dire che i russi condividono tutto, compreso le donne, e che quindi sono tutti "cornuti". Improvvisamente il treno si ferma: i partigiani russi hanno sabotato i binari della ferrovia. Nonostante l’interruzione sia breve, il panico dei soldati rivela la loro totale impreparazione alla guerra. Mentre saltano giù dal treno, confusi e disarmati, la macchina da presa si alza con una gru (stilema inconfondibile di De Santis) per delineare il luogo in cui la storia si svilupperà. Durante la sosta uno dei soldati, Loris Bazzocchi, corre attraverso i campi di girasole. La macchina da presa si avvicina e il soldato viene inquadrato a mezzo busto mentre lo sentiamo raccontare, con una voce fuori campo, di come verrà ucciso in un luogo simile senza nemmeno sapere chi ha vinto la guerra. Questa voce fuori campo è un estratto delle lettere di Bazzocchi spedite al padre in Italia.

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L’espediente artistico è una convenzione letteraria, un promemoria del contesto letterario di De Santis, e allo stesso tempo aggiunge un sentimento drammatico e surreale alla sequenza. L’effetto ottenuto è la sensazione che Bazzocchi stia ancora rimproverando i leader italiani per il suo destino. La struttura del film ha anche introdotto un meccanismo narrativo che permette al pubblico di scoprire particolari episodi passati nella vita di ognuno dei protagonisti, tutti destinati ad incontrare la morte. L'espediente delle lettere conferma il forte legame del regista con la letteratura americana, difatti nel far parlare i soldati italiani morti durante la guerra attraverso le lettere da loro scritte, è ispirato al capolavoro di Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River. Tale meccanismo è di estrema importanza nella costruzione rapsodica del film, basata sulla commistione di eventi personali e scene corali delle battaglie e della società civile sul fronte russo tra il 1941 e il 1943. Dopo la breve sosta il viaggio riprende. Nel successivo episodio principale, all’ingresso di una foresta, le truppe incontrano un consistente gruppo di civili russi scortati dai loro aguzzini tedeschi. Questo è il primo impatto con i nemici e con gli arroganti alleati. I soldati italiani si fermano e immediatamente cresce uno spontaneo sentimento di solidarietà umana nei confronti dei prigionieri. Giuseppe Sanna (Riccardo Cucciolla), un soldato di Cerignola, in Puglia, offre metà della sua pagnotta di pane ad un civile russo, provocando la violenta reazione di un soldato tedesco che cerca di strappare il pane dalle mani dell’uomo. Sanna interviene e si azzuffa con il tedesco. Mentre gli altri soldati cercano di dividerli, diversi prigionieri russi tentano la fuga. Una ragazza ed un ragazzo ferito fuggono e trovano rifugio in una chiesa sconsacrata piena di grano. I due verranno in seguito arrestati dal Sergente Manfredonia (Nino Vingeli), dopo che altri due soldati italiani, Libero Gabrielli (Raffaele Pisu) e Loris Bazzocchi (Lev Prygunov), abbandonano la chiesa lasciandoseli deliberatamente sfuggire. Il giovane russo, quando esce dalla chiesa viene ucciso dai tedeschi. Questi primi episodi servono ad introdurre non solo i protagonisti, ma anche uno dei temi principali del film: i russi sono vittime tanto quanto la maggior parte dei soldati italiani. I nemici sono persone forti, inflessibili, determinate a difendersi, come attesta il canto corale "dell’Internazionale". I tedeschi costringono i prigionieri russi a cantare l’Internazionale, con la speranza di fargli provare vergogna. In un primo momento i prigionieri si rifiutano affermando di non conoscere l’inno, ma quando uno di loro si alza in piedi e comincia a cantarlo con

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orgoglio, gli altri si uniscono a lui in un crescendo che sorprende gli invasori. Questa caratterizzazione segue la linea della retorica ufficiale della propaganda stalinista. I russi sono belli, forti e fieri, mentre i tedeschi sono crudeli, automi insensibili che obbediscono ciecamente agli ordini. Fisicamente gli alleati sono imponenti, sovrappeso e poco svegli e non nutrono un’alta considerazione nei confronti dei loro compagni italiani. Quando Gabrielli incontra per la prima volta un tedesco, questi gli dice che gli italiani non sono dei bravi combattenti, ma sono invece eccellenti nel cantare e nel suonare il mandolino. La caratterizzazione degli italiani è meno schematica e maggiormente articolata rispetto a quella dei tedeschi, e le varie personalità introdotte rappresentano un’ampia serie di persone da diverse regioni italiane. Le loro personalità illustrano altresì le varie visioni della vita e della politica nell’Italia fascista. Il romano Libero Gabrielli (Raffaele Pisu), ad esempio, è il classico uomo medio italiano, sempre pronto a rifuggire il pericolo e a mettere in salvo la propria pelle. Il Sergente Manfredonia è l’incarnazione dell’ideologia fascista, come conferma il suo atteggiamento servile nei confronti dei tedeschi: crede nella guerra come missione contro il nemico bolscevico e in una vittoria finale da condividere con gli alleati tedeschi. Il comportamento di Sanna nei confronti dei russi e la sua ostilità verso i tedeschi possono essere attribuiti ai suoi valori cristiani, associati agli ideali socialisti di fraternità e solidarietà fra gli uomini. Bazzocchi è il giovane e ingenuo contadino dell’Emilia, la regione con la più forte tradizione sindacalista e con i più forti legami con la terra. Il Colonnello Sermonti (Andrea Checchi) è contrario alla campagna e all’imperialismo fascista, ma obbedisce agli ordini da buon militare. L’episodio che segue la presentazione dei singoli protagonisti è corale e presenta la ricostruzione credibile di una battaglia per il dominio di un ponte e per il controllo di un paese. Dopo le prime schermaglie iniziali la guerra esplode. La fanteria italiana è impegnata in una dura lotta per il controllo di un piccolo paese al di là del fiume Bug, dove si trova una grande fabbrica. Gli alleati tedeschi, responsabili dell’intera operazione, radunano un certo numero di abitanti del luogo e ordinano agli italiani di giustiziarli. Fra loro c’è Katja (Gianna Prokhorenko), la giovane ragazza che Gabrielli e Bazzocchi avevano salvato dalla prigionia lasciando che si nascondesse nella chiesa. Nel momento della fucilazione il plotone d’esecuzione risparmia la ragazza, la quale scappa terrorizzata. Il giovane Bazzocchi la insegue istintivamente attraverso un campo di girasoli. Quando finalmente la raggiunge, ha solo il

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tempo di guardarla negli occhi per un attimo prima di venir ucciso da una raffica di proiettili casuale sparata da un aereo. La sequenza si chiude con una bella ed efficace scena in cui la ragazza corre verso l’Armata Rossa, che calpesta il corpo senza vita di Bazzocchi al suo passaggio. Un campo lungo introduce l’inizio dell’inverno nella sequenza successiva. Il reggimento del Colonnello Sermonti lascia la prima linea per farsi sostituire da truppe fresche. Gli Arditi sotto il comando del Maggiore Ferro Maria Ferri (Arthur Kennedy) arrivano al quartier generale. Ferri è il prototipo dell’uomo fascista. La sua testa rasata e i suoi guanti di pelle nera sono feticci del potere e della mascolinità fascista. Ferri mette in mostra la mutilazione della sua mano sinistra, persa durante la guerra civile spagnola nel 1937 a Guadalajara. Il suo manierismo, il suo modo di parlare e l’amore per la violenza satireggiano il militarismo e il nazionalismo raffigurati e promossi dalle autorità fasciste. Durante la ritirata finale, dopo la battaglia di Stalingrado, il Maggiore Ferri salterà su di un camion e, per poter guidare ad alta velocità, si toglierà il guanto di pelle nera, rivelando che la sua mutilazione è un inganno tanto quanto il suo coraggio e la sua forza. Il Maggiore Ferri imbroglia i suoi soldati nello stesso modo in cui i capi del governo italiano avevano fuorviato il Paese. Questo episodio produsse un’ondata di proteste da parte delle forze armate, che si interrogarono sulla sua veridicità e sull’accuratezza storica. Nonostante l’episodio ebbe in realtà luogo in Albania, si deve riconoscere che la trasposizione di un evento reale in un tempo e in un luogo differenti offre "un’opportunità ideologica" gradita all’attacco di De Santis nei confronti del militarismo e del maschilismo fascisti e fornisce al regista un’altra occasione per esibire il suo talento per l’umorismo grottesco. Nel successivo episodio del film il primo inverno di guerra è già trascorso. La primavera porta un gradito sollievo ai soldati italiani, i quali sono sopravvissuti a temperature sotto lo zero sprovvisti di un equipaggiamento adeguato. Lo stesso reggimento che abbiamo visto all’inizio del film è ora accampano in una città mineraria e deve costantemente guardarsi dagli attacchi dei partigiani. Una notte i soldati italiani ricevono una visita inaspettata da tre partigiani in cerca di un dottore per curare uno dei loro compagni. Il capogruppo è convinto che gli italiani li aiuteranno, dal momento che sono "brava gente". Il capo si offre come ostaggio da impiccare all’alba se il dottore non sarà tornato sano e salvo per quell’ora. Il dottore è un dandy napoletano viziato che ha trascorso una facile vita sotto l’ala protettiva dell’influente padre. Il dottor

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Mario Salvioni (Peter Falk) accetta di visitare il russo per dimostrare di non essere un codardo. Dopo aver salvato il russo ferito, il dottore viene ucciso da un’imboscata tedesca nella via di ritorno all’accampamento. All’alba all’accampamento italiano i soldati impiccano con rammarico l’ostaggio russo, con il quale avevano socializzato e fraternizzato. Queste toccanti storie personali di due vittime di guerra coraggiose sono seguite dal saccheggio del paese da parte degli Arditi. Utilizzando le idee di Pudovkin sul contrasto, i due episodi sottolineano la differenza tra i soldati regolari italiani e le Camicie Nere. Da un lato si vedono vittime innocenti, mentre dall’altro si assiste alla violenza di cruenti criminali che utilizzano la guerra per soddisfare i propri istinti animali, com’è evidente nello stupro di donne indifese. Un’altra stagione è passata e mentre l’inverno si avvicina, i russi preparano un massiccio contrattacco sul fiume Don. Barricati in fondo alle loro trincee gli italiani cominciano a sentire brani di melodie russe provenienti dall’Armata Rossa in avvicinamento. Prima della ritirata generale il film mostra un altro episodio in cui un momento di sportività tra i due eserciti si conclude in tragedia. Un coniglio selvatico attraversa il terreno vuoto tra le trincee e viene ucciso dopo una gara di corsa fra un soldato russo e uno italiano, ognuno a partire dalla propria trincea. Il Sergente Manfredonia interrompe il gioco spontaneo e amichevole sparando al soldato russo e causando inavvertitamente la morte del militare italiano. Questa breve pausa durante la battaglia è seguita dalla catastrofe finale. I tedeschi hanno perso la battaglia per i controllo di Stalingrado. Sul fronte italiano gli attriti tra le truppe regolari e le unità fasciste della Camicie Nere sono ora sfociati in affronti frequenti e brutali. Siamo a metà dell’inverno e i russi sono in fase di offensiva. Al reggimento del Colonnello Sermonti, ridotto ormai a un migliaio di uomini mal equipaggiati, viene ordinato di rallentare l’offensiva. L’ordine del comandante è di resistere fino all’ultimo uomo12. L’intero esercito italiano, lasciato senza provviste di cibo e senza l’appoggio dei tedeschi, è abbandonato al proprio destino. Quando comincia la ritirata ognuno 12 Per permettere ai suoi uomini di scappare Sermonti rimane indietro con alcuni soldati. Quando riceve il segnale dai suoi uomini che hanno superato i nemici che li accerchiavano, inizia a seppellire i soldati caduti anziché raggiungere coloro che stanno fuggendo. De Santis voleva che i soldati russi che si stavano avvicinando rendessero gli onori di guerra prima di fare prigionieri Sermonti e i suoi uomini. Il produttore russo si rifiutò, affermando che sarebbe stato davvero troppo. De Santis raccontò questo episodio alla scuola estiva del Middlebury College nel 1993.

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è da solo. Le inquadrature riprendono uomini affamati a piedi, che si trascinano senza una meta precisa, sospinti dalla debole speranza di sopravvivere al freddo mortale e al nemico. Le truppe vengono ben presto decimate, accecate dalla tormenta e congelate dal freddo. La disfatta è totale. I pochi veicoli motorizzati ancora funzionanti vengono presi dalle unità fasciste, che nel loro disperato tentativo di sopravvivere investono i loro stessi soldati. Sanna e Gabrielli si uniscono all’esercito nella ritirata. Il territorio russo che nella sequenza d’apertura del film era coltivato e ricco, ora è un immenso cimitero di ghiaccio. Sanna decide di farsi catturare e, fischiettando l’Internazionale, viene ucciso dall’Armata Rossa mentre marcia verso le linee nemiche13. Gabrielli, l’uomo medio senza ideali politici, prosegue ostinatamente. Prima si rifugia all’interno di un carro armato abbandonato, dove incontra Sonja (Tatiana Samoilova), una russa che si è prostituita con i tedeschi ed ora teme rappresaglie. Il giorno successivo i due si spostano assieme verso un paese che non riusciranno mai a raggiungere. Gabrielli lascia indietro la donna esausta e continua fino a crollare stremato in mezzo ad una tempesta di neve. A questo punto la macchina da presa si allontana, come a chiudere sul dramma dell’Armir. La struttura ad imbuto del film è condotta alla sua conclusione logica: dalla sequenza d’apertura con il treno che trasporta l’esercito al fronte siamo finiti, dopo un anno di avversità, all’ultimo uomo dell’esercito. La prima del film fu proiettata a Roma il 9 aprile 1964 al teatro Corso. I quotidiani di destra rimasero offesi dalla propaganda anti-nazionalista e anti-italiana percepita nel film e dalla presentazione positiva dei russi. Egidio Sterpa14, che scriveva per «La tribuna del Mezzogiorno», intervistò Giulio Bedeschi, Egidio Corradi e Ottobono Terzi, tre scrittori sopravvissuti alla guerra sul fronte russo, per gettare discredito sull’accuratezza della pellicola. Corradi lamentò il fatto che il film aveva tralasciato la difesa eroica intrapresa dalla divisione alpina Julia durante l’inverno del 1942, che contenne l’offensiva russa per un intero mese. Bedeschi denunciò la descrizione dei soldati italiani, ritenuta un’offesa 13 Secondo De Santis il produttore russo non voleva questo episodio nel film. Il regista riuscì a convincere i russi utilizzando il loro disaccordo nei confronti dei cinesi marxisti come prova del fatto che perfino i comunisti potevano uccidere dei loro compagni comunisti. De Santis raccontò questo episodio alla scuola estiva del Middlebury College nel 1993. 14 L’intervista con i tre scrittori apparve in «La Tribuna del Mezzogiorno», il 3 settembre 1964, p. 13.

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a tutti i caduti di guerra. Terzi era talmente offeso dalla pellicola che richiese un intervento immediato da parte di Giulio Andreotti, allora Ministro della Difesa, perché interrompesse la proiezione pubblica del film. In un altro articolo pubblicato da La voce repubblicana il 28 settembre 1964, Giovanni Calendoli chiese al governo di controllare l’accuratezza dell’episodio riguardante l’impiccagione del partigiano russo e di accertarsi se un ufficiale delle Camicie Nere avesse mai finto una mutilazione, come fa il Maggiore Ferri nel film di De Santis. Calendoli concluse il suo attacco affermando che, per il bene di coloro che erano morti in guerra e di quelli sopravvissuti, la linea tra la storia e la finzione doveva essere osservata accuratamente dall’artista e supervisionata dalle autorità15. Le pubblicazioni di sinistra apprezzarono l’onestà del film e il suo messaggio, ma criticarono la concezione di realismo del regista. Il critico Antonello Trombadori nel recensire il film per L’Unità il 28 gennaio 1965, dissentì con la concezione di realismo di De Santis, che definì un insieme di simbolismo, folclore e sentimentalismo nonché una rappresentazione idilliaca della vita. In un lettera inedita al critico francese marxista Marcel Oms, De Santis espresse tutta la sua frustrazione in merito alle critiche ricevute, affermando che la pellicola aveva richiesto cinque anni di lavoro e sofferenze: un anno per convincere i sovietici a realizzarlo e per trovare un produttore italiano disposto ad investire del denaro, un anno di preparazione e un anno per le riprese, il montaggio e le approvazioni dei censori, più altri due anni di conflitti solo perché il film portava il suo nome. De Santis era afflitto dalle critiche provenienti da destra e dall’inesistente difesa della sinistra16. Negli anni sessanta, periodo in cui tutte le opere artistiche venivano lette con occhi politici, venne ignorato il fatto che la pellicola di De Santis metteva in scena una nuova interpretazione artistica della guerra sul fronte russo. Italiani brava gente era ricco di citazioni cinematografiche tratte dai maestri russi ed era inoltre un resoconto realistico dell’incontro con l’Armata Rossa. 15 De Santis difese il suo film in una lettera aperta indirizzata a Giulio Andreotti, Ministro della Difesa, in cui riaffermò l’accuratezza storica del suo lavoro, della caratterizzazione degli italiani e della crudeltà dei tedeschi. Il regista menzionò che perfino Krusciov aveva elogiato il comportamento delle truppe italiane, aggiungendo che avevano compiuto anche delle azioni vili, che sarebbe stata una vera ingiustizia nascondere: Lettera aperta del regista De Santis al ministro della difesa Andreotti, «Paese sera», 10 ottobre 1946, p. 15. 16 Lettera inedita di De Santis a Marcel Oms, 11 aprile 1965.

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Nel 1947 Roberto Rossellini con Paisà mostrò il primo incontro tra gli alleati, soprattutto l’esercito americano, e gli italiani durante la seconda guerra mondiale. I sei episodi del film descrivono lo scontro culturale che transita da un primo momento segnato da una totale incomprensione e ostacolato dalle barriere linguistiche, ad uno stato di collaborazione e mutuo rispetto nell’ultimo episodio, quando i soldati americani nella Valle del Po scelgono di morire al fianco dei partigiani. In questo senso Paisà rappresenta la riconciliazione totale fra due popoli, gli americani e gli italiani, precedentemente impegnati in guerra. Italiani e americani si dimostrano in grado di superare la diffidenza e le differenze politiche nella lotta contro il nazismo e il fascismo. In Italiani brava gente l’incontro avviene tra russi e italiani. Qui potrebbe non esserci una riconciliazione, dal momento che i primi stanno combattendo contro i secondi per difendere la propria libertà. Tuttavia De Santis cerca di mostrare come i soldati contadini italiani spartivano con i loro nemici un amore comune per la terra e un sentimento condiviso di amore per la vita. In Paisà Rossellini era affascinato dalla reazione della gente nei confronti del mito americano incarnato dai soldati americani, che agli occhi degli italiani apparivano come creature superiori provenienti da un altro pianeta. De Santis, da parte sua, descrive il mito della grande madre Russia quando i soldati italiani mettono per la prima volta piede sul suolo nemico. Per esempio il giovane e ingenuo contadino emiliano, Loris Bazzocchi, è sopraffatto dalle vaste pianure coltivate a grano e non riesce a comprendere per quale ragione i contadini locali non abbiano ancora effettuato il raccolto. Quando cerca di domandarlo ad uno degli agricoltori viene trattato con diffidenza e rimane confuso dalle parole di una donna che lo chiama "Mussolini". Bazzocchi cerca di riderci su e di rassicurarla, ma invano. Il mito della grande madre Russia introdotto dai ricchi e fertili campi raggiunge il suo culmine durante il forte temporale che dà il benvenuto ai soldati al loro accampamento. Il temporale è ritratto in una bella e drammatica sequenza intensificata dagli effetti di chiaroscuro di colori che catturano con una forza toccante e lirica l’improvviso nubifragio. In un contrasto spettacolare creato dai movimenti della macchina da presa che si sposta tra il cielo scuro e la soggezione dei soldati, De Santis cattura brillantemente l’incontrollabile forza della natura. Questa minaccia è un presagio e un tributo a ciò che Dovzenko definiva "concezione biologica e panteistica della natura". Infatti dal punto di vista cinematografico le scene sono un omaggio alla grande

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scuola cinematografica russa, ad Arsenale di Dovzenko e al suo silenzioso capolavoro del 1930 La terra. Arsenale racconta la lotta ucraina contro l’invasione tedesca durante la prima guerra mondiale. L’azione è incentrata attorno al sabotaggio della ferrovia, lo sciopero e la sua feroce repressione. Il film si chiude con una toccante esecuzione dei capi dello sciopero che funge moralmente da monito agli oppressori: nessuna repressione può mai fermare un popolo dalla lotta per la libertà. Nella pellicola di De Santis il sabotaggio dei binari in Ucraina e l’uccisione dei partigiani russi nei primi episodi del film fungono da citazioni artistiche e ideologiche del grande capolavoro. I riferimenti a Dovzenko diventano ancor più espliciti durante le sequenze incentrate attorno al soldato emiliano, Bazzocchi. In La terra il giovane contadino Vasili ritorna a casa dopo un incontro con la fidanzata. Quando chiude gli occhi per immaginare nuovamente il suo volto, viene ferito mortalmente da una pallottola. L’assassinio si spinge oltre i confini di una singola situazione difficile e diventa parte di un visione più grande dettata dal suo sviluppo dialettico. Vasili è stato ucciso, ma la sua morte sarà d’esempio a molti altri ragazzi, come testimonia il suo gioioso funerale. In La terra il ciclo della vita e la sua continuità sono simboleggiati dalla pioggia sui raccolti, dal dissolversi delle nuvole e dalla ricomparsa del sole. In Italiani brava gente il contadino emiliano Bazzocchi viene ucciso da delle pallottole vaganti nel momento in cui riesce a guardare la ragazza russa negli occhi. È come se l’invasione avesse interrotto il ciclo annuale di rinascita, vita, amore e pace, lasciando dietro di sé una scia di morte. La guerra porterà avanti il lento processo di degrado umano e lo sconvolgimento naturale, indicato dal fatto che i contadini non hanno ancora effettuato il raccolto nei campi. Come in La terra, anche le pianure di Italiani brava gente sono ricoperte di girasoli, ma anziché luoghi piacevoli per gli incontri fra ragazzi, sono diventate il terreno dove vittime innocenti della guerra incontrano la morte. Qui la contadina Katja, sopravvissuta al plotone d’esecuzione, viene rincorsa dal giovane contadino emiliano. Dopo una corsa attraverso i campi Bazzocchi muore fra le braccia di lei, sorpreso da un ironico scherzo del destino. La guerra non ha alcun riguardo per l’amore e il sentimentalismo. Nel secondo episodio di Paisà il soldato nero si ritrova in una baraccopoli che gli ricorda la sua stessa povertà e il contesto sociale da cui proviene. La vista dei luoghi in cui vivono i poveri napoletani gli riportano alla memoria il ghetto in cui è costretta a vivere la sua gente e non trova il coraggio di arrestare il piccolo scugnizzo che gli ha rubato le

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scarpe. In questo modo due sottoculture all’interno delle loro rispettive realtà sociali sono entrate in contatto ed hanno comunicato attraverso le loro sofferenze. Italiani brava gente mostra Sanna (Riccardo Cucciolla), il testardo meridionale, mentre offre metà della sua pagnotta di pane ad un prigioniero russo ridotto in prigionia dai tedeschi in uno spontaneo atto di solidarietà umana. Quando Sanna viene ripreso dai suoi superiori, si difende affermando che il pane è suo e non di Hitler o Mussolini. Allo stesso modo l’ultimo episodio di Paisà segna una riconciliazione tra i due ex nemici, gli americani e gli italiani, i quali muoiono fianco a fianco. In Italiani brava gente un partigiano russo disarmato si reca all’accampamento italiano in cerca di un dottore per operare uno dei suoi compagni ferito. Il russo si rivolge ai suoi nemici confidando nella loro umanità. Il dottore napoletano accetta volontariamente, ma viene poi ucciso dagli alleati tedeschi in una inaspettata fatalità. Con la caduta di Stalingrado e l’esercito italiano lasciato in balia di se stesso, il territorio russo diventa il protagonista. A questo punto il film di De Santis è intriso del tema della morte imminente. I soldati italiani assumono gradualmente la consapevolezza, in seguito alla loro decimazione e al crudo freddo invernale, che la morte è l’unico loro compagno e la sconfitta il loro destino. La potenza delle condizioni climatiche russe, rappresentata metaforicamente dalla tempesta di pioggia all’inizio del film, ora esplode con tutta la forza del suo inverno sull’esercito in ritirata. La lenta e atroce marcia verso la morte fornisce un’opportunità per ritrarre realisticamente l’impresa delle truppe italiane e l’assurdità di quella spedizione e della guerra in generale. In ogni episodio il film rivela gli orrori del conflitto nei minimi dettagli. L’angoscia per le sue vittime è visibile ad ogni passo su quel terreno ghiacciato. L’arte e l’informazione si fondono in un tutt’uno. Perfino i momenti più melodrammatici del film sono, per la maggior parte, seguiti da eventi storici ricostruiti sulla base della verosimiglianza aristotelica. Nel guardare Italiani brava gente si rimane colpiti dall’equità con cui sono rappresentate le varie nazionalità. Il coraggio, la crudeltà, la stupidità e la compassione sono distribuiti quasi in egual misura, nonostante i tedeschi siano trattati con meno comprensione e la loro crudeltà appaia esagerata. Il pubblico di oggi è abituato ai film di guerra, ma a metà degli anni sessanta il film di De Santis si fece notare per il suo intransigente realismo. Tuttavia riesce a far commuovere il pubblico e a farlo riflettere sull’inutilità della guerra, capace di portare solo tragedia e morte.

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Capitolo 14 L’impotenza come metafora della sconcertante realtà degli anni settanta: Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972) Il professionista è anche il film di un uomo che non lavorava da quasi dieci anni. Quindi è probabile che al suo interno vi sia rabbia, disperazione e delusione per tante cose ... Ma è una disperazione che poi si supera. Giuseppe De Santis

Nel 1971, sette anni dopo aver diretto Italiani brava gente, De Santis fondò con l’aiuto economico del suo amico Giorgio Salvioni la cooperativa "Film Nova" per produrre un lungometraggio basato su una storia che avevano scritto assieme: La giornata di dolore dell’avvocato Arcuri. Il regista si aspettava di portare a termine il film in circa due mesi, così da potersi dedicare, nell’allora Jugoslavia, al suo progetto molto atteso sull’esilio del poeta Ovidio dall’antica Roma1. De Santis aveva trascorso un anno in Romania e altri due anni a studiare documenti storici e a leggere le opere di Ovidio al fine di scrivere il trattamento del film, che aveva cominciato con Sergio Amidei, continuato con Salvatore Laurani e portato a termine con Giorgio Salviani2. I sei anni precedenti alle riprese di Un apprezzato professionista di sicuro avvenire furono molto frustranti per De Santis. Nei suoi inutili tentativi di trovare un produttore aveva anche cercato un accordo con la Mosfilm per una coproduzione su "Dubrovsky", basata sull’adattamento di un racconto di Pushkin3. Pertanto De Santis, non riuscendo a trovare un produttore in Italia per le sue storie contadine sulla riforma agraria e prima di imbar1 Il film non fu mai realizzato. De Santis mi rivelò che il governo jugoslavo, ricevendo pressioni dalla sua controparte rumena, si pronunciò a sfavore del film. 2 De Santis affermò di voler utilizzare Tomi, sul Mar Nero, come luogo per girare Ovidio, l’arte di amare, dal momento che era il luogo in cui Ovidio era morto in esilio. Il governo rumeno trovò la storia pornografica e la descrizione della gente locale offensiva. De Santis sosteneva che l’opposizione rumena doveva derivare dalla rappresentazione di Ovidio come vittima politica dell’Imperatore Augusto. I censori temevano che tale caratterizzazione rappresentasse la libertà e l’espressione artistica contro l’oppressione politica. 3 De Santis mi ha raccontato di non essere riuscito a convincere i produttori sovietici a finanziare l’interpretazione moderna della storia di Pushkin, scritta da De Santis e Ugo Pirro, e di aver pertanto deciso di non perseguire il progetto.

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carsi nella sua seconda esperienza professionale in Jugoslavia, provò l’esperienza della produzione indipendente per raccontare una storia metaforica sull’impotenza. Date le particolari circostanze che resero possibile la sua produzione, Un apprezzato professionista di sicuro avvenire deve essere letto non tanto come un racconto ironico della carriera di De Santis, ma come lo sforzo per riguadagnare una voce ed esprimere un giudizio sulla trasformata realtà sociopolitica italiana degli anni settanta. In quello che è l’ultimo film di De Santis, emerge il tentativo deliberato di affrontare tutti i temi e i motivi dei suoi film precedenti al fine di smascherare il degrado culturale del tempo. Nella trama del film un giovane avvocato, Vincenzo Arduni (Lino Capolicchio), figlio di un capostazione, ha sposato la figlia di un ricco, volgare e corrotto imprenditore edilizio che ha fatto carriera sulle spalle della comunità e che vuole a tutti i costi un erede. Vincenzo, però, che è anche assessore all’edilizia e riceve favori dal suocero in cambio del suo sostegno politico per il progetto imprenditoriale di convertire delle zone boscose protette da un piano regolatore in aree edificabili, non può dargli nipoti perché si scopre impotente. Così, vessato dall’insistenza del suocero e preoccupato che la sua impossibilità di dargli un erede possa condurre ad un annullamento del matrimonio, il giovane escogita un piano machiavellico coinvolgendo Don Marco (Robert Hoffmann), parroco e amico d’infanzia. Nonostante Marco vesta l’abito talare, quando il suo amico gli confessa la sua impotenza e gli spiega il problema in termini evangelici, Don Marco compie un atto di compassione e fa l’amore con la moglie di Vincenzo. L’esperienza sessuale e il bambino frutto di tale incontro conducono Don Marco ad una crisi spirituale e alla volontà di lasciare il sacerdozio. La sua decisione però minaccia la sicurezza di Arduni. Scosso dalla possibilità che il suo amico riveli la vera paternità del bambino, l’avvocato uccide il parroco colpendolo con un candelabro all’interno della chiesa durante un’aspra lite e finisce per incolpare Nicola Parella (Riccardo Cucciolla), un povero disoccupato, dopo aver forzato la cassetta dell’elemosina con il candelabro e lasciato il denaro e l’arma a casa di Nicola. L’accusato si dimostra però più astuto dell’avvocato. Perché scopre chi è il vero assassino ma, anziché denunciarlo alla polizia, si assume la colpa in cambio di un accordo in cui l’avvocato deve provvedere all’istruzione del figlio di Nicola e al benessere di tutta la famiglia. Fra le recensioni che seguirono l’uscita del film spicca quella del

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critico Angelo Solmi4 che provocò la reazione di De Santis5, il quale scrisse una lettera privata piena di risentimento in cui accusava Solmi di essere una banderuola e affermava di fare volentieri a meno della sua difesa. De Santis concluse la lettera dichiarando che, come artista, non era alla fine della sua carriera e nonostante l’ostracismo che aveva subito come regista, era ancora pieno di vitalità e aspirazioni. Nella stessa De Santis accusò inoltre la maggior parte dei critici italiani di nutrire pregiudizi nei confronti dei suoi film e sostenne che le stesse vecchie critiche (fotoromanzo, sceneggiato, melodramma e barocchismo) erano state utilizzate per descrivere e denigrare Un apprezzato professionista..., ma nessuna attenzione era stata data alla forma o al contenuto del suo nuovo film. Critiche a parte, il film fu bloccato dalla censura6 e vennero sollevate accuse di decadentismo, corruzione e immoralità. Come per tutti i suoi film precedenti, il regista fu accusato di aver dato vita ad una trama improbabile ma i critici non considerarono che la pellicola affrontava in maniera emblematica tutti i temi precedenti del regista e li sviluppa all’interno della metafora più vasta dell’impotenza che nella pellicola non è solo sessuale, ma è sintomatica della condizione della società contemporanea, in cui la moralità individuale e collettiva e la solidarietà sono degenerate, in cui la corruzione, il compromesso e le tangenti minano le basi sociali ad ogni livello umano. Un apprezzato professionista... è un film difficile da guardare e da seguire. La pellicola parte come racconto poliziesco e spesso sembra sconfinare nel procedurale poliziesco. In realtà questi due generi sono tecniche narrative impiegate dal regista come pretesti per mettere in atto un’inchiesta sociopolitica sulla speculazione edilizia, sulla scalata sociale, sulla mafia politica, sulle amministrazioni corrotte, sulla disoccupazione, sui senza tetto, sul celibato clericale, sulla pornografia e sulla deviazione sessuale: al contrario, non è presente nel film nessuna delle mediazioni ideologiche o politiche che hanno distinto i precedenti film di De Santis. 4 Angelo Solmi, Non sparate sul regista, «Oggi illustrato» 28/24 (6 ottobre 1972). 5 Ringrazio De Santis per avermi fatto leggere la sua lettera del 24 giugno 1972. Solmi rispose il 30 giugno 1972 difendendo la sua integrità professionale e la sua oggettività critica. Entrambe le lettere sono riportate nella sezione Inediti e testimonianze come appendice storica di questo volume. 6 I censori richiesero il taglio di una scena in camera da letto in cui l’attrice Fermi Benussi, nel ruolo di Lucietta, è ripresa nuda mentre il marito sta per intraprendere un rapporto orale.

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La struttura narrativa, una sequenza di flashback, permette al contesto sociale e culturale dei personaggi di evolversi e al pubblico di confrontarli e giudicarli sulla base del proprio passato. L’intenzione che stava alla base della trama non consequenziale era quella di presentare una sconcertante realtà per descrivere la quale De Santis affermò che non era necessario che ci fosse un ordine cronologico negli eventi descritti, perché il passato ed il presente non erano importanti quanto la totalità del messaggio della storia7. La lenta progressione del film, fatto di piccoli pezzi, costringe il pubblico a legare assieme il presente e il passato. Si tratta di un’aggressione deliberata allo spirito sociale della nouveau riche e alla mentalità dei poveri cittadini che hanno perso qualsiasi coscienza di classe e si sono ridotti a vendere la propria libertà personale, come fa Nicola, in una società che non può garantire loro un lavoro. Nella complessa struttura del film non trapelano in alcun modo i sei anni di assenza di De Santis dal suo mestiere, come hanno sostenuto alcuni critici. Al contrario, la pellicola conferma ancora una volta la maestria del regista dietro la macchina da presa. De Santis si rifà degli anni lontano dal grande schermo assimilando stilisticamente gli ultimi sviluppi tecnici e le ultime sperimentazioni cinematografiche del cosiddetto Cinema civile8, reso famoso da una nuova generazione di registi quali Damiano Damiani, Elio Petri, Gillo Pontecorvo e Florestano Vancini. Anziché rivolgere le proprie critiche alle singole istituzioni civili, De Santis sferra un duro attacco alla nuova società, senza risparmiare alcuna classe sociale. Il film accentua la sua critica riproponendo vecchi temi, motivi e perfino personaggi, ora deformati dal nuovo ordine sociale. Per esempio la terra e la pioggia, simboli caratteristici di Caccia tragica e ripresi in quasi tutte le pellicole di De Santis, riappaiono in Un apprezzato professionista... ed in particolare nel contesto dello scontro generazionale tra Don Marco e suo padre: il giovane Marco, in licenza dal seminario, comunica al padre la sua intenzione di prendere i voti e il padre, in un impeto di rabbia, lo accusa di essere come i suoi due fratelli che vogliono abbandonare la fattoria come se la terra fosse maledetta. 7 Giuseppe De Santis citato in Piera Patat, Il cinema di Giuseppe De Santis, Tesi, Università di Trieste, 1976-7. 8 Per una definizione e un resoconto sul cinema civile si veda John Michalczyk, The Italian Political Filmmakers, Rutherford, NJ, Fairleigh Dockinson University Press, 1986.

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Anche il treno, in precedenza simbolo del progresso e della ricostruzione, ritorna per sottolineare il conflitto generazionale nella famiglia Arduni in cui il padre (Andrea Checchi) è un umile capostazione che si accontenta del suo misero stipendio piuttosto di lavorare per il suocero del figlio. In un flashback di conflitti generazionali e ideologici constatiamo la disapprovazione del padre in merito alla condotta del figlio e al suo matrimonio e il rifiuto di Vincenzo, fiero della sua ambizione e della sua cultura, per le idee socialiste del padre che, a suo dire, si accontenta di veder passare i treni. Fra questi scontri generazionali il suocero di Arduni è l’unico adulto ad essere soddisfatto e di successo e ad aver abbracciato senza scrupoli il nuovo stile di vita. Il "Commendatore" è prepotente, arrogante e invadente, così come ci si aspetta che sia un vincente. È un uomo che crede nello stile di vita americano e desidera una grande famiglia forte e potente alla stregua di quella dei Kennedy, quello dell’influenza americana è un altro tema evocato da De Santis in questa pellicola: se in Riso amaro era vista come una minaccia per l’ingenua e provinciale Silvana, il nuovo stile di vita occidentale, caratterizzato dalla gomma americana e dagli innocenti passi di boogie-woogie, rappresentava un richiamo allettante per la nuova generazione del dopoguerra. Secondo il regista negli anni settanta l’influenza americana diventa a tutti gli affetti un modello ed uno stile di vita. Grazie alla tecnica del flashback si mostra il trionfo della mentalità capitalista. Durante il matrimonio della figlia con Arduni, "Il Commendatore" come regalo di matrimonio offre una lussuosa macchina, dopo aver spinto la vecchia utilitaria di Arduni giù per un burrone. Le donne, che hanno sempre avuto un ruolo predominante nella campagna cinematografica di De Santis contro le ingiustizie sociali, come in Un marito per Anna Zaccheo, Roma ore 11, Riso amaro e perfino in Uomini e lupi, in Un apprezzato professionista... sono oggetti pornografici delle fantasie maschili (come nel caso di Lucietta, la moglie di Arduni) o completamente dominate dagli uomini (come nel caso della madre di Lucietta). Quest’ultima (interpretata da Yvonne Sanson, la femme fatale delle commedie all’italiana) ora è semplicemente una donna controllata e dominata dal marito e non è all’altezza delle due madri contadine di Non c’è pace tra gli ulivi. Lucietta è un personaggio minore, come indica il suo diminutivo, dalla personalità sottomessa, vestita in maniera volgare e molto spesso con un sorriso sciocco in volto e nulla di intelligente da dire. Il sesso, la bellezza fisica

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e l’erotismo che hanno fatto di De Santis il regista più discusso e conosciuto negli anni cinquanta (periodo in cui tali argomenti erano considerati dei tabù per il grande schermo) avevano perso la loro attrattiva e la loro esuberanza negli anni settanta. I movimenti di danza sensuali e provocanti di Silvana e Walter in Riso amaro e i lunghi passi di Anna mentre cammina tra le bancarelle del mercato o giù per le strette scalinate sono ricordi visivi di un lontano passato: Lucietta è un oggetto pornografico a cui l’impotente marito nega perfino i rapporti sessuali, vedendosi costretto a sfogliare riviste pornografiche americane prima di fare sesso orale. La penetrazione viene sostituita dalla masturbazione e l’accettazione passiva da parte di Lucietta dell’impotenza del marito rappresenta simbolicamente la sua condizione di mercificazione. La sua sottomissione è ulteriormente attestata dalla disponibilità nel permettere che una persona qualsiasi scelta dal marito (Lucietta non verrà mai a conoscenza dell’identità dell’uomo) la ingravidi mentre è in uno stato di incoscienza. L’unica volta in cui può godere di un rapporto sessuale completo, Lucietta nega totalmente la sua sessualità e la sua partecipazione. Don Marco, il parroco, è il personaggio più intrigante e complesso del film: indifeso e quasi patetico nel suo impegno per perorare la causa dei meno privilegiati. La sua devozione evangelica è destinata a fallire nella realtà quotidiana, dove le leggi della giungla dominano le relazioni umane. Don Marco è commovente nella sua innocenza. Quando la sua dedizione verso il prossimo lo spinge a fare sesso con Lucietta, intraprende quest’impresa come un atto d’amore per poter dare gioia (in questo caso un figlio) a qualcuno che non potrebbe raggiungerla altrimenti. La sua decisione più controversa dopo la nascita del bambino è quella di lasciare la Chiesa. Contrariamente a quello che hanno scritto molti critici9, la sua decisione non è dettata dall’aspetto travolgente dell’esperienza sessuale (nonostante questo possa essere letto come il commento del film in merito al celibato imposto dalla Chiesa ai preti) ma è il risultato di una presa di coscienza più vasta e profonda. La nascita di una vita apre gli occhi di Marco, che si accorge di poter dare di più agli altri solo al di fuori dell’istituzione ecclesiastica. In questo atto d’amore egli acquisisce una visione laica della vita. Questa interpretazione è avvalorata dalla musica di sottofondo che accompagna l’incontro sessuale tra Don Marco e Lucietta. La

9 Per esempio si veda Angelo Solmi, Non sparate sul regista, cit., p. 124.

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melodia dei Carmina Burana10, qui riarrangiati da Maurizio Vandelli11, è una celebrazione dell’amore e della gioia umana, con un profondo spirito anticlericale e di liberazione sessuale. Nei primi film italiani del dopoguerra i preti erano sempre i protagonisti, associati alle forze progressiste che si opponevano al nazi-fascismo. Se prendiamo in considerazione la tesi secondo cui De Santis in questo film sta rivisitando e rivedendo personaggi e temi dei suoi film precedenti e li sta mettendo a confronto con i ruoli contemporanei, Don Marco in Un apprezzato professionista..., nonostante gli sia assegnata la parte del parroco rinnegato, dovrebbe essere messo a confronto con i due preti più famosi del neorealismo, Don Camillo e Don Pietro, protagonisti in Il sole sorge ancora (1946) e Roma, città aperta (1945). Nel primo di questi due film i sentimenti religiosi si fondono con le idee politiche tanto che gli sceneggiatori12 ritenevano che la rinascita dell’Italia risiedesse nell’unione tra la Chiesa e la sinistra, un’ideologia rappresentata dalla morte del prete al fianco del giovane partigiano ucciso dal plotone d’esecuzione nazista. Nell’altro Don Pietro muore da solo per aver aiutato i partigiani e il suo personaggio è una rappresentazione simbolica di tutti i preti che hanno lavorato per la liberazione d’Italia. Tuttavia l’accordo di Don Marco con il suo amico impotente deve essere interpretato come un atto di collaborazione con la borghesia colta. Attraverso le azioni di Don Marco il film esprime un commento sul ruolo assunto dal clero negli anni settanta. Arduni, politico democristiano, verrà eletto sindaco alle successive elezioni, senza dubbio con la benedizione della Chiesa e con il supporto economico del suocero. La mancanza di un erede era il solo fattore che avrebbe potuto minacciare il suo futuro, ma grazie all’atto d’amore del prete, egli si è sottratto a tale minaccia. La storia si svolge a Latina, non lontano da Fondi, un luogo che non solo permette al regista di instaurare il caratteristico conflitto tra la città e la campagna, ma gli permette altresì di affrontare la trasformazione sociale e culturale introdotta dal progresso e dal consumismo. Parlando di tali trasformazioni De Santis affermò che il consumismo è solo una 10 Una collezione di testi poetici, essenzialmente di ispirazione profana, composti tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo, scritti principalmente in latino volgare ed occasionalmente in francese e alto tedesco. Tali collezioni raccolgono canti d’amore, canti bacchici e attacchi agli ordini ecclesiastici. 11 Maurizio Vandelli è amico della figlia di De Santis, Luisa, che interpreta il ruolo della moglie di Nicola in Un apprezzato professionista... 12 Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Aldo Vergano.

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facciata di apparente modernità che nasconde antiche ingiustizie e vecchi privilegi di classe difficili da sradicare. Lo stesso, secondo il regista, può essere detto dei sentimenti umani e delle passioni che, sebbene espressi e manifestati in termini moderni, sono antichi quanto il medioevo. De Santis ammise che in quegli anni era aumentato il potere d’acquisto delle classi meno abbienti, ma che questo era avvenuto al costo di dure lotte e sacrifici e fu proprio la fedeltà alle masse e al loro mondo poetico che gli costò sette anni di inattività nel mondo del cinema13. L’investigazione sociale in Un apprezzato professionista... è incentrata sulla bassa borghesia, che è poco al di sopra della classe operaia: Arduni e suo suocero, "Il Commendatore", esemplificano la prima generazione di immigranti trapiantati in città e i flashback utilizzati nel film rivelano il loro ambiente contadino di provenienza. Il suocero si arricchisce grazie alla speculazione edilizia e ai fondi della Cassa del Mezzogiorno14, mentre il progresso genera non solo nuovi ricchi, ma anche una nuova classe di disoccupati. Nicola è l’esempio vivente delle masse rurali che hanno lasciato la campagna in cerca di lavoro solo per trovare disperazione ed emarginazione. Come si evince dal suo accento, Nicola è un giovane pugliese a caccia del suo sogno, vive in una baracca, ha una famiglia numerosa, una moglie incinta e nessun lavoro. Al fine di far conoscere al pubblico la sua situazione di difficoltà e di attirare l’attenzione di Arduni sulla sua misera condizione, Nicola dirotta un autobus e prende come ostaggio un passante. Arriva perfino ad inscenare un’occupazione pacifica della chiesa, senza alcun risultato plausibile perché rimane disoccupato e senza casa. Le sue proteste incontrano solo l’indifferenza generale e l’ostilità della polizia. I giorni descritti nei film precedenti, in cui i lavoratori si riunivano assieme in comizi per recuperare i fondi rubati, le mondine perdonavano simbolicamente Silvana lanciandole dei pugni di riso o i pastori della Ciociaria liberavano i propri greggi sulle colline rocciose per ostacolare i carabinieri a caccia di Francesco sono finiti. In una società dove non esiste solidarietà tra classi sociali o tra compagni, i poveri diventano il sottoproletariato. Che cosa resta a Nicola se non la sua astuzia contadina ed il suo ingegno? Egli sa che Arduni deve essere intrappolato per poter aprire una trattativa ed è per questo che sale 13 Giuseppe De Santis citato in Aldo Scagnetti, De Santis sette anni dopo: «Non cambio idea», «Paese sera», 27 aprile 1971. 14 Nel 1950 la Cassa per il Mezzogiorno fu istituita con consistenti risorse finanziarie per la costruzione di strade, dighe, acquedotti e sistemi d’irrigazione.

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in cima ad un cantiere in costruzione e minaccia il suicidio se Arduni non gli concede un incontro. Arduni accoglie riluttante la sua richiesta15 e in cima al cantiere Nicola gli riferisce di avere le prove della sua colpevolezza, ma lo rassicura anche di volersi assumere la responsabilità dell’omicidio in cambio della sua difesa in tribunale e del mantenimento della sua famiglia. Arduni è esitante così, per convincerlo, Nicola afferma che in cima a quell’edificio si sta inscenando uno spettacolo che potrebbe essere utile ai fini della sua campagna elettorale: gli fa notare che tutti i quotidiani del giorno dopo avrebbero riportato la notizia di un giovane avvocato che salva la vita ad un uomo disperato e a tutta la sua famiglia tanto che Arduni si convince e accetta l’accordo. I due scendono assieme e Nicola viene portato via. In segno di trionfo Arduni solleva le braccia e rassicura la folla che applaude con gioia. I fotografi scattano e lo tempestano di domande mentre Lucietta abbraccia il marito con lacrime di gioia: lo spettacolo di un eroe del nostro tempo è andato in scena e la gente crede a ciò che vede. Ancora una volta, forse per l’ultima volta, De Santis sta affermando che il semplice fatto di mostrare una realtà fotografica non è sufficiente a descrivere uno scenario che l’artista deve mettere in luce le realtà nascoste dietro alla facciata dell’apparenza. In questo film il regista non risparmia gli attacchi ai poveri: la decisione di Nicola di lasciare che l’avvocato provveda alla sua famiglia, assieme all’accordo che il figlio più piccolo diventi avvocato per essere stimato professionalmente, sono chiari indici di uno sguardo pessimistico su ciò che promette il futuro della politica italiana. Un apprezzato professionista... è dunque un film pieno di rabbia, diretto da un artista che vuole essere riammesso a tutti i costi nel circuito della comunicazione dopo sette lunghi anni di disoccupazione. L’avventura di De Santis dietro alla macchina da presa era iniziata con la premessa di creare un cinema nazionale a beneficio di tutti, che avesse le masse per protagonista e con l’obiettivo di forgiare una nuova coscienza sociale e civile. Il regista ha ripetuto in diverse occasioni che il pubblico che più lo apprezzava era quello che andava a vedere i film al di fuori dei principali cinema, per il fatto che i protagonisti delle sue pellicole condividono con gli spettatori le stesse affinità16. 15 La salita in cima all’edificio di Vincenzo Arduni su richiesta di Nicola può essere letta come la sua sete di successo, un riferimento sarcastico al punto più alto della sua carriera. 16 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, cit., p. 22.

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Negli anni settanta De Santis ha perso il suo pubblico e i suoi protagonisti. Privo della mediazione politica che nei suoi primi film aveva presentato una realtà cinematografica in conflitto con la situazione storica e politica del tempo, il suo ultimo film racconta una storia metaforica sull’impotenza. Impotente è Vincenzo Arduni, sommerso dalla sua sete di successo, potere e benessere. Impotente è Don Marco nella sua vocazione spirituale e nei suoi compromessi con la corruzione. Impotente è il disoccupato Nicola, umiliato dalla vendita della sua libertà personale per il benessere della sua famiglia. Impotente è la bella Lucietta, ridotta ad oggetto pornografico. Impotente è anche il regista De Santis, nei suoi attacchi al nuovo ordine politico e nella rappresentazione di una realtà sconcertante, così diversa dai giorni gloriosi della resistenza e dell’Italia del dopoguerra.

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parte terza

Il declassamento della classe operaia

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Capitolo 15 Ai margini. Alcune ragioni per un lungo e ininterrotto silenzio Ho al mio attivo undici film diretti in qualità di regista: un bel magro bilancio, come si vede, per una carriera iniziata a vele spiegate nel 1947 con Caccia tragica proprio nel momento di compiere i trent’anni, in un’epoca felice segnata da grandi speranze e da radiose illusioni per chi aveva creduto in un "cinema nuovo" radicato nelle realtà degradate e struggenti del primo dopoguerra (e oltre) nel nostro paese, e per chi aveva lottato per denunciare con la macchina da presa guasti e ingiustizie antichi e nuovi al fine di contribuire allo sviluppo e al rafforzamento della democrazia cristiana.

Giuseppe De Santis Il destino di Giuseppe De Santis come regista è piuttosto insolito. In principio lodato come critico cinematografico per la rivista «Cinema» (in particolare per le sue recensioni dei film di Rossellini, Blasetti e De Sica e per gli articoli che anticipano tendenze nel cinema italiano del dopoguerra)1, poi come aiuto regista per Visconti, Vergano e Rossellini2 ed infine per il suo debutto alla regia con Caccia tragica nel 1947. Il suo primo film fu caldamente accolto dai critici italiani, i quali apprezzarono il talento e la maestria tecnica del giovane regista. Alcuni giovani intellettuali, già suoi collaboratori all’epoca di Cinema e Film d’oggi, assieme ai pittori Vedova, Turcato e Pizzinato, innalzarono striscioni al suo arrivo a Venezia per la Mostra Internazionale del Cinema del 1947. Questo accadde non molto tempo prima che il regista iniziasse ad imbattersi in ostacoli lungo il sentiero di quello che sembrava essere un futuro brillante e pieno di successo. In primo luogo il suo film d’esordio non fu distribuito per ragioni politiche. All’inizio del 1948 Caccia tragica fu escluso dalle principali sale cinematografiche e immediatamente attaccato dai critici di destra durante l’aspra campagna politica 1 Si veda Giuseppe De Santis, Verso il neorealismo, cit. 2 De Santis aveva lavorato come aiuto regista in Ossessione, Il sole sorge ancora e l’incompiuto Scalo merci.

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dell’aprile del 1948. Fra questi il critico Angelo Solmi3, confondendo la politica con l’arte, tacciò il film di De Santis di "propagandismo", architettato per portare voti ai comunisti. In seguito alla sconfitta elettorale del Fronte Popolare, il governo in un primo momento negò al film il permesso di essere ammesso al Festival di Cannes. Solamente in seguito a diverse pressioni polemiche da parte dei giornalisti di sinistra, Caccia tragica venne incluso fra i candidati e raccolse consensi e recensioni favorevoli dalla stampa francese. Questo episodio è emblematico di quello che sarebbe stato il futuro da regista di De Santis. Le sue pellicole nell’Italia del dopoguerra non furono mai accolte o recensite per i loro meriti, ma sempre alla luce dell’attivismo politico del regista. Di conseguenza il loro successo era legato alle fortune elettorali e ai vacillamenti nella politica culturale dell’allora Partito Comunista Italiano4. Com’è ben noto, il regista fu spesso biasimato per le sue scelte, fossero queste di natura politica, artistica, morale, erotica o neorealista. I critici di destra consideravano De Santis il portavoce delle politiche culturali del Partito Comunista Italiano (PCI) e si concentravano costantemente sui messaggi politici e sulle critiche sociali nei suoi film, sorvolando completamente sugli aspetti stilistici e formali delle sue opere. I critici di sinistra recriminavano la sua esuberanza stilistica e la sua ossessione formalista per i dettagli ripetitivi di sfondo, considerate entrambe degli ostacoli al messaggio politico dei film. Questi criticavano inoltre De Santis per la sua inabilità nel rappresentare la lotta di classe in uno specifico contesto storico e nella sua totalità. L’amore del regista per gli elaborati movimenti della macchina da presa, per la messinscena teatrale e raffinata e per la descrizione della sessualità dei personaggi, secondo i critici di sinistra distoglieva l’attenzione dall’intento politico. Ironicamente perfino la rivalutazione dei film di De Santis, a cui hanno dato il via Martini e Melani5 negli anni settanta, partiva da quelle che erano considerate le pecche di De Santis e furono ulteriormente 3 Angelo Solmi, Caccia tragica non ha portato i voti al fronte, il film di Giuseppe De Santis doveva essere l’antidoto di Ninotchka, cit., p. 21. 4 Nel 1991 il Partito Comunista Italiano (PCI) si sciolse e i suoi membri si divisero in due nuovi partiti, il Partito della Sinistra (PDS) e il più radicale Rifondazione Comunista (RC). 5 Andrea Martini e Marco Melani, De Santis, in Lino Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, cit., pp. 307-317.

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fraintese. Le nuove generazioni compresero che i film di De Santis erano consapevoli del fatto che il cinema poteva essere utilizzato come uno strumento di comunicazione di massa, con la capacità di incantare e creare dei bisogni. Oramai non è più necessario scavare a fondo per scoprire il significato politico e ideologico alla base del simbolismo dei film dato che il gusto è cambiato. I film di De Santis contengono idee politiche e ideologiche atte a cambiare il modo in cui la gente percepisce il proprio mondo e il proprio ruolo al suo interno. Pertanto le sue opere hanno la potenzialità non solo di riflettere la società (come nel caso di altri film neorealisti), ma di aiutare a modificarla in un modo veramente democratico. In Non c’è pace tra gli ulivi, così come in Roma ore 11, le ingiustizie sono legate a specifici fattori sociali e la solidarietà di classe, assieme alla collaborazione fra le vittime, è indicata come la soluzione ai problemi. Tuttavia tali spiegazioni non forniscono una risposta alla domanda che sorge spontanea quando si parla del regista ciociaro: perché De Santis non ha più realizzato film? Negli anni novanta durante le nostre conversazioni e leggendo le sue lettere, i suoi articoli e le sue sceneggiature, questa domanda è diventata sempre più insistente nella mia mente. Perché non riuscì più a dirigere dei film dopo i primi anni settanta? L’enfasi è importante dal momento che non smise volontariamente di girare film, visto il suo desiderio insaziato di tornare di nuovo dietro alla macchina da presa. De Santis si definiva ironicamente «un regista dimezzato» e rispondeva alla domanda affermando che era stato messo in disparte dai meccanismi commerciali e politici insiti nello show business. Il regista aggiungeva di essere stato escluso a causa di un piano conservatore contro i registi progressisti (come accadde negli anni del dopoguerra) e di essere stato contraddistinto in virtù del suo attivismo in supporto al Partito Comunista. Un’analisi accurata mostra come queste circostanze, nonostante impossibili da ignorare, sono solo in parte la causa del lungo silenzio del regista, che risale al 1972. Al fine di mettere a tacere tutti i cliché che sono emersi per giustificare l’inattività artistica di De Santis, si avanzano in questa sede alcune ipotesi. Non tutte sono analizzate separatamente qui sotto, ma sono tutte affrontate nella discussione che segue. 1. I film di De Santis successivi a Riso amaro non erano commerciali. 2. La fonte della sua ispirazione creativa si inaridì, dal momento che era legata ad un movimento artistico, il neorealismo, che si dissipò in un arco temporale di dieci anni.

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3. De Santis era così legato a delle strutture narrative e a degli stili superati che non riusciva più ad assimilare e adottare nuove tecniche. La sua personale cultura cinematografica era limitata dal momento che si ispirava ad una struttura romanzata e letteraria in cui la conflittualità, sempre semplice ed elementare, si sviluppa in una tendenza lineare e manichea. 4. Era un regista polemico, provocatorio e ostinato, sempre pronto a discutere con critici e produttori. Era determinato a difendere i propri film da qualsiasi modifica al montaggio da parte di produttori e censori e non era mai disposto a scendere a compromessi, anche se questo poteva significare mandare a monte un progetto. 5. Era un regista con un programma artistico e politico che prevedeva la realizzazione di film che riuscissero non solo a riflettere la società, ma anche ad aiutarla in un senso veramente rivoluzionario. I temi che sceglieva erano inadatti ad un’industria soggetta alle leggi del profitto in un’economia di mercato. I suoi film riuniscono in forma mitizzata svariate questioni relative alla realtà contadina e, allo stesso tempo, diffondono (in virtù del mezzo cinematografico) una nuova mitologia, popolare e socialista, che De Santis definiva progressista e democratica. 6. Era vittima di un clima di politica internazionale, la guerra fredda, le cui ripercussioni erano percepite a livello nazionale. 7. Era vittima delle politiche ambigue del suo stesso partito, a cui era stato legato fin dagli anni del Centro Sperimentale, durante i quali divenne il suo principale rappresentante. Dal momento che questa affermazione dà adito a dei dubbi, il rischio è quello di giungere a facili conclusioni sulla lunga inattività di De Santis. Per tale motivo si rende utile una distinzione tra le politiche artistiche e culturali del partito imposte a De Santis e le scelte personali del regista che coincisero con le linee di partito. Mi riferisco principalmente agli anni cinquanta e in particolare alle politiche riguardanti l’occupazione delle terre agricole nel meridione. Inoltre una chiave interpretativa è offerta dalle polemiche sollevate per un periodo tra il regista e i critici e gli intellettuali di sinistra. Sarebbe inoltre utile leggere le lettere di De Santis in cui emerge il risentimento del regista nei confronti di alcuni della sua stessa fede politica, specialmente quelle rivolte ai critici francesi Marcel Oms e Georges Sadoul6. 6 Lettere inedite consultate nello studio di De Santis a Fiano Romano: a Oms, datata 5 giugno 1966, e a Sadoul, datata 30 novembre 1955.

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Si deve inoltre ricordare che De Santis scelse di non intraprendere una propria strada autonoma, perché si sentiva istintivamente legato ai temi, ai volti e ai problemi dei suoi personaggi populisti della classe operaia, che erano impegnati, come pensava e credeva, nella sua stessa battaglia7. 8. Il proprio programma cinematografico si dimostrò inadeguato. All’inizio degli anni settanta, con l’avvento dell’industrializzazione e il fiorire di nuove problematiche, non c’era più spazio per temi riguardanti l’esistenzialismo e la disintegrazione della coscienza sociale e civile. Da questa trasformazione culturale e sociale emerge una nuova generazione di registi che daranno vita al cosiddetto "cinema civile". L’intrattenimento popolare arrivò ad essere dominato dalla commedia all’italiana e dal nuovo genere storico, mitologico ed erotico. 9. Era svanito ogni tentativo di colmare il divario che esisteva tra i film neorealisti e quelli popolari e commerciali. 10. Al fine di valutare queste ipotesi, è necessario prendere in considerazione anche i progetti mai realizzati di De Santis. La meno verificabile fra tutte le possibilità potrebbe rivelarsi quella più utile alla comprensione della lunga inattività del regista. Dopo le prime tre pellicole, la filmografia di De Santis si sarebbe evoluta in maniera diversa se fosse riuscito a dirigere Noi che facciamo crescere il grano, un progetto sui fatti di Melissa che a giudicare dalla sceneggiatura sarebbe stato uno splendido film corale con varie storie minori sul tema dell’occupazione della terra da parte dei contadini nel Sud. I film di De Santis e i soggetti per film mai realizzati si rivolgevano alle speranze popolari che erano molto vive all’epoca. Mostravano una sete per la giustizia riaccesasi dopo la caduta del fascismo. I progetti sull’occupazione della terra nel Mezzogiorno furono ostacolati dal governo che si servì della produzione per non farli realizzare. Questa tesi viene confermata anche dall’attore Raf Vallone che all’insistenza di Pasquale Iaccio che gli fece notare durante un’intervista che molti film sono stati fatti su quell’argomento rispose: «Eravamo nel 1948. C’erano tutti i migliori attori italiani disposti ad impegnarsi: Amedeo Nazzari, Massimo Girotti, ecc., ma anche attrici, come la Virzì. Il film [su i fatti di Melissa] non si fece neanche in seguito. Tuttle le voci di sinistra dovevano essere cancellate da parte della presidenza del con7 De Santis mise in relazione il suo concetto di neorealismo e di regia e le idee di Antonio Gramsci relative alla creazione di una nuova letteratura definita come politica, storica, popolare e radicata nella cultura popolare, anche se tale cultura può risultare convenzionale e superata.

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siglio dei ministri»8. L’attore aggiunse poi che a causa della situazione politica dell’epoca se ne andò all’estero a fare teatro. Pettotondo è una sceneggiatura su una prostituta pugliese che vende il suo corpo non per profitto ma per sbarcare il lunario. Il titolo e l’idea di farne un film erano venuti a De Santis dopo che aveva ascoltato all’osteria Menghi il giovane cantante pugliese, Matteo Salvatore, cantare di questo strano personaggio che ormai apparteneva alle canzoni popolari dei braccianti. Il regista ciociaro decise di scrivere un soggetto, con Elio Petri e Ugo Pirro, che il produttore Amoroso avrebbe finanziato. I tre insieme fecero un viaggio in Puglia per i sopraluoghi. Pirro racconta che la delusione causata dalla riforma agraria aveva portato un cambiamento visibile nel Tavoliere pugliese: tristi e distanti case coloniche a testimonianza di una sorta di esclusione sociale dei braccianti, lontani dai loro paesi e dalle loro abitudini. Dopo mesi di lavoro il film non si fece perché, sempre secondo Pirro: «.... il contenuto polemico, la critica della riforma agraria, espressa per di più attraverso il personaggio della prostituta, avrebbe contribuito a determinare la crisi. Urtava i benpensanti anche quella povera donna che alleviava le fatiche dei mietitori, che si concedeva sui covoni, sul grano spigolato, così generosa di cuore e di corpo»9. Un’altra sceneggiatura mai girata riguarda l’avventurosa e straordinaria vita di un contadino analfabeta di Cerignola, Giuseppe Nicassio, che finisce in galera ma, determinato a proseguire gli studi, riesce ad ottenere un diploma di scuola superiore e si dedica in seguito alla lotta sindacale sotto il nome di Giuseppe Di Vittorio. Negli anni cinquanta De Santis scrisse anche Il cavallo di lui, una storia simbolica sul destino del cavallo di Mussolini dopo la fine del suo regime. Se questi film fossero stati realizzati, è evidente che il lascito cinematografico di De Santis sarebbe stato piuttosto differente, sebbene le modalità rimangano una congettura. Sembra anche chiaro che questi progetti rappresentavano un punto di svolta per il regista. Fu il fallimento nel realizzarli che impedì a De Santis di trovare il percorso più congeniale verso la propria identità e maturità artistica. Si è detto spesso che, ad eccezione di Riso amaro, De Santis non riscosse mai un buon successo al botteghino. Tuttavia le sue opere non 8 Raf Vallone in Pasquale Iaccio (a cura di), Il Mezzogiorno tra Cinema e Storia, Napoli, Liguori Editori, 2002, p. 40. 9 Ugo Pirro. Soltanto un nome nei titoli di testa. I felici anni Sessanta del cinema italiano, Torino, Einaudi, 1999, p. 55.

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furono un fallimento commerciale ed erano più che all’altezza delle sofisticate pellicole artistiche di quel periodo: in definitiva ebbero un discreto successo commerciale, soprattutto considerando i loro costi di produzione. Caccia tragica registrò un profitto di 80 milioni di lire nel 194710, nel momento in cui il vincitore d’incassi Come persi la guerra di Carlo Borghesio incassò 293 milioni di lire. In Italia Riso amaro incassò oltre 400 milioni di lire, mentre La sepolta viva di Guido Brignone guadagnò 530 milioni di lire. Non c’è pace tra gli ulivi superò i 400 milioni di lire mentre Gli ultimi giorni di Pompei di Paolo Moffa e Marcel L'Herbier realizzò 841 milioni di lire. Roma ore 11 registrò un incasso di 270 milioni di lire nello stesso periodo in cui Anna di Alberto Lattuada, il successo più grande del 1952, guadagnò 1 miliardo e 250 milioni di lire. L’insuccesso di Umberto D di De Sica e Zavattini nello stesso anno dovrebbe essere tenuto in considerazione. Un marito per Anna Zaccheo ricavò quasi 350 milioni di lire, mentre il miglior film dell’anno, Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini superò il miliardo di lire. Perfino i criticati Giorni d’amore e Uomini e lupi insieme realizzarono oltre 721 milioni di lire, mentre Ulisse di Mario Camerini, il maggior successo del 1954, e Belli ma poveri di Dino Risi, il grande successo del 1956, riscossero rispettivamente 1 miliardo e 800 milioni di lire e 998 milioni di lire. L'ultimo film spettacolare di De Santis, Italiani brava gente, guadagnò oltre mezzo miliardo di lire solo in Italia, mentre Per un pugno di dollari di Sergio Leone e Più forte ragazzi di Giuseppe Colizzi, record d’incassi nel 1964 e nel 1972, guadagnarono rispettivamente 3 miliardi e 80 milioni di lire e 4 miliardi e 860 milioni di lire. La Garçonnière, fermo a 124 milioni, è l’unico vero disastro commerciale di De Santis. Considerando che il regista ciociaro ha diretto film con costi di produzione ben al di sotto rispetto a quelli dei film presi a paragone, realizzati da registi di primo ordine quali De Sica, Visconti e Rossellini, la produzione dei suoi film non rappresentava in nessun modo un rischio commerciale, come si è spesso sostenuto. Inoltre le cifre degli incassi non includono i ritorni economici internazionali, soprattutto dagli Stati Uniti, dal Sud America e dall’area sovietica, l’ultimo dei quali non era un mercato accessibile dalla maggior parte degli altri film menzionati, molti dei quali non furono nemmeno esportati. 10 Questi dati sono presi da Umberto Rossi, Ha dovuto o lo hanno fatto tacere?, in Vincenzo Camerino (a cura di), Il cinema di Giuseppe De Santis, Lecce, Elle Edizioni, 1982.

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Un’altra critica che circolava spesso nell’industria cinematografica italiana è che De Santis era un regista difficile, evitato dai produttori per le sue richieste assurde e per la sua estrema attenzione ad ogni dettaglio. Le ricerche e le interviste con il regista conducono a due conclusioni contrastanti. Durante la realizzazione di Caccia tragica, finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), il giovane regista rifiutò di apportare modifiche alla sceneggiatura, richiese più tempo e più soldi per realizzare la scena del raduno elettorale e cercò di assumere delle comparse. Il produttore Giorgio Agliani si rivolse al Partito Comunista per richiedere aiuto e Antonello Trombadori venne mandato a Roma per convincere De Santis a scendere a compromessi. In Riso amaro il regista impose come protagonisti alla Lux Film l’inesperta Silvana Mangano, l’attrice americana Doris Dowling e lo sconosciuto Raf Vallone. A film concluso scoppiò una lunga polemica fra De Santis e i critici per quanto riguarda il suo cosiddetto decadentismo barocco, l’erotismo e la sua scarsa documentazione sulla pratica di coltivazione del riso e sul lavoro delle mondine. Non c’è pace tra gli ulivi provocò una nuova discussione con i critici, in particolare con il direttore di «Cinema» Adriano Baracco11, il quale accusò De Santis di dannunzianesimo, di estetismo e di aver impiegato uno stile barocco. De Santis non si arrese e al contrario, ferito da queste critiche, continuò a scrivere lettere ai giornalisti di sinistra e a riviste di settore, accusando i critici di giudizi politici di parte e di scarso acume critico. Dopo il suo terzo film per De Santis diventò sempre più difficile trovare dei produttori. In seguito a rapporti tesi con la Lux Film, che aveva rifiutato di produrre alcuni dei suoi progetti, fra cui un adattamento moderno de I promessi sposi ambientato in Sicilia, un film sull’analfabetismo in Italia e un progetto su Portella della Ginetra (il massacro del primo maggio di un dozzina di contadini siciliani in protesta), De Santis recedette dal contratto. Nel 1952, nel bel mezzo della guerra fredda, con l’aiuto di Cesare Zavattini riuscì a convincere Paul Graetz a finanziare Roma ore 11 per la Transcontinental Film, ma nel lungo periodo questo film danneggiò il regista. Al suo debutto i critici lo accolsero positivamente per il suo contenuto e la sua coerenza, tuttavia l’immagine di De Santis 11 Adriano Baracco, Non c’è pace tra gli ulivi, cit.

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come regista politicamente coinvolto condusse a delle severe critiche sulla "commerciabilità" del film, sulla sovrastruttura e sull’esplorazione tematica degli intrighi politici dell’ambiente culturale italiano. All’uscita del film i critici di destra intrapresero una campagna di diffamazione contro il regista che arrivò fino in parlamento, dove un rappresentante del loro partito propose un’indagine in merito alle presunte attività rivoluzionarie di De Santis e del Partito Comunista. Il regista fu accusato di aver utilizzato finanziamenti statali per la propaganda di partito, accusa assurda dal momento che il film ricevette sovvenzioni francesi e americane. L’uscita del film fu preceduta da un’intensa battaglia legale tra De Santis e la Transcontinental Film, che voleva il taglio della scena del ritorno a casa della prostituta, interpretata da Lea Padovani12 poiché rappresentava una violazione del contratto. Pertanto la casa di produzione ricorse alla testimonianza di Cesare Zavattini, il quale espresse i suoi dubbi riguardo al valore artistico della sequenza e affermò che il regista aveva insistito ad includerla nonostante i consigli degli altri sceneggiatori, che la trovavano troppo lunga e costosa. Il regista vinse la causa, ma perse una possibile fonte di supporto finanziario. Per comprendere meglio l’atmosfera di quel periodo è necessario ricordare che gli anni fra il 1947 e il 1954 coincidevano con il culmine della guerra fredda. Negli Stati Uniti il Comitato per le attività antiamericane aveva intrapreso una caccia alle streghe nei confronti degli artisti di Hollywood sospettati di associazione comunista e di propaganda antiamericana. Una seconda ondata repressiva iniziò a partire dal 195113. Di tutti i registi italiani, De Santis era l’unico ad aver scritto un lungo articolo che biasimava la condanna a morte per tradimento di Julius e Ethel Rosenberg e propose addirittura una petizione contro la Sottocommissione Permanente del Senato sulle Indagini, presieduta dal senatore del Wisconsin Joseph R. McCarthy. L’isteria nei confronti dei registi comunisti è evidente nelle affermazioni di Ayn Rand, che considerava Mission to Moscow, la versione cinematografica di un libro 12 Il 30 novembre 1954 la Excelsa Film S.p.a. richiese il taglio della scena, in seguito ordinato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Lo studio chiese anche il rimborso dei soldi utilizzati durante i cinque giorni di riprese della scena. Una fotocopia della richiesta è in mio possesso, firmata da M. Cavalieri, avvocato della Excelsia. 13 Le informazioni sugli effetti della guerra fredda su Hollywood sono tratte da Goffredo Fofi, Morando Morandi e Gianni Volpi, Storia del cinema, vol. 2, Milano, Garzanti, 1992, pp. 19-21.

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scritto dall’ambasciatore americano a Mosca e commissionato dall’allora presidente Roosevelt, una propaganda comunista. Forse ancora più illuminante sono le dichiarazioni dell’attore Adolphe Menjou, che avvertiva i produttori di non affidare sceneggiature a registi o ad attori in grado di diffondere idee antiamericane con uno sguardo o una lieve inflessione della voce. Secondo Adrian Scott in un articolo del 1955 intitolato Hollywood Review vennero iscritte nella lista nera un totale di 214 persone, fra cui 106 sceneggiatori, 36 attori e 11 registi. In Italia le ripercussioni di questi eventi si fecero sentire e gli anni cinquanta sono ricordati come un periodo di autocensura durante il quale il nome di De Santis fu incluso nella lista assieme al meschino commento del ministro Giulio Andreotti: «il ciociaro non deve più fare film». La campagna scatenata contro il produttore Domenico ForgesDavanzati per aver affidato la regia di Un marito per Anna Zccheo a De Santis è un’ulteriore prova dell’atmosfera che regnava in quel periodo: il produttore si dovette difendere dall’accusa della stampa di destra di simpatizzare con il comunismo14. Un’altra interessante questione concomitante all’uscita di questo film è la risposta de L’Unità che ostracizzò De Santis. Il giornale ufficiale del Partito Comunista diretto da Pietro Ingrao, amico di lunga data del regista, pubblicò una serie di lettere di lettori che accusavano il film di sessismo e fra queste si faceva notare una lettera redatta dalla scrittrice di sinistra Fausta Cialente15. Come sempre il regista si difese e contrattaccò, definendo il film un’affermazione contro la mentalità del maschio italiano e una storia sulla difficoltà di essere belle e donne in una società in cui il maschilismo è dilagante e la verginità un prerequisito per il matrimonio. Le critiche non lasciarono indifferente il regista, che si sentiva tradito e abbandonato dai propri compagni della lotta antifascista, ma la situazione non migliorò con i suoi film successivi. Giorni d’amore avrebbe dovuto avere una lunghezza di 3.300 metri, ma i produttori lo ridussero a 2.999. Il film successivo, Uomini e lupi, in un primo momento immaginato dal regista come una lunga versione di 3.300 metri, fu tagliato dalla Titanus a meno di 2.800 metri. De Santis protestò per i tagli, abbandonò il progetto e lasciò che il montaggio venisse realizzato senza 14 «ANSA, Notiziario cinematografico» 6/121 (26 settembre 1953), p. 2. 15 Fausta Terni Cialente, Anna Zaccheo, ovvero il trionfo delle gambe, cit., p. 4.

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la sua collaborazione e prima dell’uscita del film il regista cercò invano di far rimuovere il suo nome dalla versione finale della pellicola. De Santis, perciò, divenne noto come un regista che faceva causa ai suoi collaboratori e che rendeva pubbliche le sue proteste. Secondo lui le sue azioni erano semplicemente atte a difendere il suo lavoro dall’interferenza dei censori e dei produttori. Rimane il fatto che dovette attendere fino al 1966 per dirigere una nuova pellicola in Italia. Il suo film successivo, Cesta Duga Godinu Dana, fu prodotto in Jugoslavia e l’ambasciatore jugoslavo dovette accettare il Golden Globe a nome di De Santis, dal momento che al regista fu di nuovo negato l’ingresso negli Stati Uniti. In un ironico scherzo del destino, la sorella, moglie del vice console italiano a Los Angeles (Mario Tedeschi), era presente alla cerimonia assieme al marito, che si era rifiutato di utilizzare la sua influenza per procurare un visto al cognato. La Garçonniére fu reso possibile da una concessione da parte del produttore Roberto Amoroso, che aveva firmato un contratto con De Santis per Pettotondo. Quando la banca rifiutò il finanziamento per quest’ultimo, allarmata dal soggetto – la strana storia di una prostituta – decise di cambiare il soggetto ed il risultato che ne derivò fu La Garçonniére. Un fatto simile era già accaduto in precedenza: il 9 agosto 1955 Arnaldo dello Spettacolo si adoperò per sospendere un altro dei progetti non realizzati di De Santis, Case aperte: il ministro lo proibì dopo aver scoperto che il regista sarebbe stato De Santis. La Garçonniére si rivelò uno dei film meno costosi, ma anche il più duramente censurato, con un totale di 5000 metri di tagli. Le riprese durarono solo sette settimane e, a causa dei fondi limitati, il regista ingaggiò Raf Vallone e sua moglie Gordana Miletic. Italiani brava gente, l’ultimo film importante del regista, fu il risultato di una produzione russa con il sostegno finanziario americano. De Santis racconta la storia dei suoi contadini in guerra, in un ricco discorso cinematografico con riferimenti ed omaggi ai grandi maestri russi Eisenstein e Dovzenko. L’uscita del film fu rallentata dai censori che ne cambiarono il titolo mentre la stampa di destra, spinta da alcuni reduci di guerra, diede il via ad un’attiva campagna contro il regista, accusandolo di diffamazione dell’esercito e richiedendo un’inchiesta da parte del Ministro della Difesa Giulio Andreotti dalla quale il regista uscì assolto. Un apprezzato professionista di sicuro avvenire non ebbe un destino più roseo: fu censurato, denigrato e attaccato perfino dal Vaticano. Così si conclude una carriera che era iniziata con grandi speranze e con una

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moltitudine di progetti, molti dei quali rimasti sulla scrivania del regista. Le leggi di mercato e gli implacabili divieti ideologici spiegano in parte il silenzio di De Santis. Tuttavia la possibilità che la responsabilità sia da ricercare in qualcosa intrinseco alla struttura e agli elementi tematici e stilistici del suo lavoro non può essere scartata. Fin dai giorni della sua collaborazione con «Cinema», De Santis aveva maturato una visione che, nel periodo del dopoguerra, si concretizzò nella necessità di creare un’arte che contenesse tutte le ambiguità e le intuizioni dei problemi e delle questioni del tempo. La sua concezione cinematografica è quella di un neorealismo adattato ad un pubblico composto dalle classi meno abbienti. Nel 1947 il regista la definì un’arte popolare nel senso che aveva scelto come protagonisti delle sue opere le classi più basse con le loro speranze, sofferenze, lotte e contraddizioni16. De Santis aspirava a creare un cinema che fosse in grado di rielaborare strutture narrative e modalità provenienti dalla tradizione popolare, rispettando allo stesso tempo il gusto della gente comune; voleva fondere questi elementi tradizionali nella forma codificata dell’intrattenimento cinematografico, creando una mitologia collettiva che avrebbe aiutato a ricostruire e a creare una nuova Italia dalle rovine del fascismo, nonché a promuovere una nuova coscienza democratica. L’idea di cinema di De Santis diventa più interessante se si considera che cercò di organizzare non solo il contenuto dei suoi film, ma anche il livello di consapevolezza e comprensione del suo pubblico. Collocando fermamente il contenuto delle sue opere nel contesto rurale della classe contadina del Sud, il mondo con il quale era più familiare, sperava di creare un cinema con una forte tensione morale e civile che avrebbe avuto un forte impatto sulla realtà nazionale. Per concludere, il lungo silenzio di De Santis dovrebbe far riflettere e aiutare a far luce su alcuni dei periodi bui della vita culturale e civile italiana, ancor più se le semplicistiche supposizioni sull’egemonia culturale del PCI, specialmente nel mondo del cinema, fossero interpretate alla luce della lunga inattività di De Santis. Se fosse realmente esistita tale egemonia culturale, perché De Santis non fu in grado di dirigere le sue storie contadine negli anni cinquanta? Chiaramente il suo progetto incompiuto di creare un cinema nazional-popolare rimane uno strumento significativo e utile per condurre una ricerca più approfondita 16 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, cit., p. 29.

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sugli intrighi politici che condizionarono la produzione cinematografica nell’Italia del dopoguerra. Il progetto di De Santis rappresentava un compromesso tra l’esperienza artistica del neorealismo e la sua commerciabilità. Il primo cinema neorealista era una raffinata esperienza artistica che si rivolgeva ad un determinato tipo di pubblico, principalmente costituito dagli intellettuali progressisti della borghesia. Era lo sviluppo di un’ipotesi umanista e liberale attraverso cui il cinema sarebbe diventato una ricerca artistica e una lotta culturale e politica per una società migliore. Questo implicava lo sconvolgimento della struttura alla base dell’industria cinematografica e sovrapponeva il concetto utopico ottocentesco di arte naturalistica, non tecnologica sui complessi problemi emergenti dello spettacolo cinematografico e dei suoi mezzi di comunicazione. Il progetto di De Santis era dunque quello di creare un cinema artistico per il divertimento e l’emancipazione delle masse, senza negare i modelli e i generi cinematografici stabiliti. A differenza degli altri registi italiani del dopoguerra, De Santis voleva che i suoi film indicassero una soluzione ai problemi sociali e di classe del tempo. A questo fine è utile menzionare la conferenza che tenne a Firenze nel 1951. In quell’occasione il regista criticò la tendenza pessimista e sentimentale dei suoi colleghi registi prendendo a esempio Ladri di biciclette di De Sica, e fece notare come il pietismo, il sentimentalismo fossero tendenze predominanti del neorealismo italiano. De Santis rimproverò inoltre a Il cammino della speranza di Pietro Germi di non aver indicato una soluzione ai problemi esposti, relativi ai minatori siciliani. Secondo lui la rassegnazione nell’accettare le ingiustizie sociali e il fallimento nell’indicare una via d’uscita erano il risultato di un atteggiamento che gli altri registi avevano verso la realtà storica. A questo proposito affermò che i suoi colleghi non si erano preoccupati di raccogliere informazioni sulle cause all’origine dei problemi e avevano finito, senza nemmeno accorgersene, per supportare la tesi di quelle organizzazioni che avevano interesse a negare una soluzione politica a tali questioni17. In tale dichiarazione emerge chiaramente l’obiettivo di De Santis di creare un tipo di cinema impegnato, che fosse in grado non solo di illustrare i problemi, ma di fornire delle soluzioni. Per questa stessa ragione voleva creare delle opere a cui chiunque potesse accostarsi e non avrebbe mai potuto concepire 17 Ivi, p. 31.

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un tipo di cinema intellettuale o esoterico, come quello di Antonioni o di Fellini. Lo sceneggiatore Pirro ha scritto che De Santis era con lui a Cannes quando fu presentato L’avventura di Antonioni e che capì subito le conseguenze che quel film avrebbe avuto sul cinema nazionale italiano, ma non negò la sconfitta del suo cinema. Pirro conclude i suoi ricordi di quel momento scrivendo che De Santis non merita solo rispetto per la sua coerenza stilistica e politica ma anche riconoscenza essendo stato una guida per una intera generazione di cineasti. Da un punto di vista critico forse quel giorno a Cannes De Santis aveva percepito che il pubblico dell’epoca era cambiato e che i protagonisti erano la nuova borghesia. Il suo cinema, anche se non in modo sistematico, ha rappresentato un primo tentativo di applicare la teoria del discorso al campo del cinema, paragonabile al discorso sull’egemonia di Gramsci; la questione intellettuale nel contesto della sua analisi della cultura popolare e del rapporto tra cultura alta e cultura di massa comprende anche il discorso sull’esercizio dell’egemonia e del consenso. Il suo cinema, espressione organica della sinistra progressista, dell’antifascismo avrebbe dovuto circolare tra i diversi ceti sociali e attraverso una sintesi dialettica integrarsi con le classi sfruttate, solo a quel punto si sarebbe potuto affermare una nuova ideologia egemone che avrebbe anche garantito il consenso del complesso organismo sociale alla struttura di potere della classi dominanti. Lui restò fedele alle sue idee e al suo cinema unico, tuttavia risulta chiaro che un tale programma non avrebbe potuto sopravvivere come un prodotto culturale all’interno dei cicli di mercato di un’industria guidata da logiche di profitto.

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Capitolo 16 Dal particolare al generale. Alcune considerazioni conclusive ... la mia ambizione artistica è di creare film con l’intento di gettare le basi, o di riallacciarmi a una tradizione che sia dentro il giusto appello di Gramsci a una visione nazionale-popolare dei contenuti, e del linguaggio con cui questi contenuti devono essere espressi. E allora, a me sembra che è proprio in base a questa ambizione che bisogna giudicarmi. E non lanciare ogni vola contro di me le accuse di "spettacolarismo", "erotismo", "dannunzianesimo", "cattivo gusto", "formalismo" ed altri "ismi" del genere, che costituiscono, appunto, il pregiudizio critico e il luogo comune sul mio lavoro. Giuseppe De Santis

Il cinema di De Santis, contrariamente a ciò che ha scritto e affermato più volte pubblicamente la nuova generazione di critici cinematografici italiani, non necessita di alcuna riabilitazione o risarcimento critico e morale1: fu un autore neorealista, a prescindere da come il termine sia utilizzato o definito2. Nonostante non abbiano sempre applaudito o compreso i suoi film, i critici di fine anni quaranta e cinquanta si sono generalmente approcciati alle sue opere con rispetto, che le approvassero o no3. I film di De Santis si inseriscono all’interno di due tendenze prin1 Per esempio Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, cit., o il numero speciale su De Santis di «Cinema e cinema» 9/30 (1982). 2 Per una definizione critica di neorealismo si veda Bert Cardullo, What Is Neorealism? A Critical English-Language Bibliography of Italian Cinematic Neorealism, New York, University Press of America, 1991. 3 Mi riferisco al dibattito nazionale generato da Riso amaro. Nell’ottobre del 1948 L’Unità protestò perché riteneva che Silvana non rappresentasse la tipica lavoratrice italiana. Il film fu anche classificato "Proibito a tutti i credenti" dal Centro Cattolico Cinematografico a causa del suo erotismo. Nel 1954 Roma ore 11 provocò un dibattito governativo e fu anch’esso classificato "Proibito a tutti i credenti". Non c’è pace tra gli ulivi fu recensito da alcuni dei più noti scrittori e critici italiani del tempo, quali Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Ennio Flaiano, Ugo Casiraghi, Guido Aristarco e Georges Sadoul. Alla fine degli anni cinquanta il nome di De Santis aveva smesso di generare notizie da prima pagina. L’interesse critico che accompagnò le sue pellicole cominciò a diminuire con l’uscita di Un marito per Anna Zaccheo (1953). Vessato da un governo che si era allontanato dagli scopi liberali del dopoguerra, De Santis si trovò presto senza produttori e supporti finanziari per le sue storie contadine. Per dirigere Cesta Duga Godinu Dana fu costretto a lavorare in Jugoslavia.

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cipali del cinema italiano del dopoguerra. In una di queste predomina il tentativo di documentare la vita quotidiana o gli eventi passati, mentre nell’altra l’intento principale è di intrattenere il pubblico attraverso la drammatizzazione della realtà. Tracce di entrambe queste tendenze si possono ritrovare in quasi tutti i film neorealisti, e sebbene più affine alla seconda tendenza, la filmografia di De Santis non abbandona mai l’idea di cinema come veicolo e come espressione di un impegno sociale e politico. Le sue opere possono essere interpretate come un continuo sforzo a riconciliare il canone tradizionale del racconto con la cinematografia, all’interno dell’indagine critica, civile e democratica del cinema italiano del dopoguerra. Il modus operandi non era il risultato di un miscuglio di vari stili, generi e influenze riarrangiate in composizioni schematiche o dogmatiche, ma una costante rielaborazione di strutture narrative, con l’obiettivo di trovare nuove forme di espressione artistica e di creare un cinema accessibile a tutti. Qualsiasi tentativo di relegare i suoi film a prodotti di un’arte populista sottoculturale, associati a termini quali "sceneggiato", "fotoromanzo" ed "erotismo", o di definirli come uno sforzo di soddisfare i gusti popolari più bassi con il solo obiettivo di trarne vantaggi economici o di sfruttare commercialmente una forma codificata più pura di neorealismo, deve essere considerato un’approssimazione critica che non prende in considerazione tutte le componenti e le complessità dei suoi film. L’ambizione artistica del regista era quella di creare degli spettacoli che stimolassero o proponessero nuove forme di comportamento collettivo attraverso la denuncia delle ingiustizie sociali del tempo. I suoi interessi artistici e sociali erano legati anche al dilemma su come accrescere la consapevolezza artistica delle masse. L’obiettivo di De Santis è chiaramente affermato in Confessioni di un regista, in cui afferma che il cinema interessa all’artista perché gli permette di comunicare con chiunque, ma questa stessa possibilità richiede la ricerca di una naturalezza, una semplicità e un’immediatezza nel racconto dei fatti. De Santis continua sostenendo di aver sempre cercato di sviluppare, spesso in maniera convenzionale, sentimenti e passioni semplici così da raggiungere un pubblico sempre crescente, con l’intento di render protagonisti e di risvegliare le emozioni sopite4. De Santis trovava la tradizione italiana priva di qualsivoglia legame con un’autentica tradizione narrativa e attraverso la creazione di un cinema nazionale che riuscisse ad introdurre elementi di una cultura 4 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, cit., p. 19.

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più alta all’interno di contesti popolari, il regista sperava di colmare il vuoto culturale lasciato dai precedenti intellettuali italiani. De Santis espresse le sue idee in merito affermando che questi ultimi ritraevano gli italiani come persone incapaci di creare il bello o il brutto, il vero o il falso e che l’Italia era priva di un’autentica narrativa popolare che toccasse i problemi basilari della gente5. Nello stesso articolo, con riferimento ai celebri film del tempo molto apprezzati dal pubblico popolare, De Santis scrisse che le pellicole di bassa lega che compiacevano il pubblico provenivano dalla cultura americana6. A differenza di registi acclamati quali Visconti, Rossellini e De Sica, o di figure internazionali meno note come Lattuada, Germi, Zampa e Castellani, De Santis espresse un profondo amore per il mondo contadino e per la sua Ciociaria e un evidente contrasto tra campagna e città. All’interno di questi motivi principali De Santis, come gli altri registi neorealisti, affronta i disagi della bassa e media borghesia, ma, contrariamente a molti dei suoi contemporanei, è maggiormente interessato ai cambiamenti contraddittori apportati dalla tecnologia, dai mass media, dal progresso economico, dall’americanizzazione della vita italiana del dopoguerra, dalla lenta democratizzazione, dall’urbanizzazione e, negli ultimi suoi due film, dalla corruzione, dal degrado e dall’omologazione culturale. Forse più di ogni altro regista italiano del dopoguerra, De Santis documenta i lenti e dolorosi assestamenti che interessarono la donna italiana all’interno di una cultura in trasformazione ancora imbevuta di antichi pregiudizi, stereotipi, tabù, consuetudini scioviniste, dogmi religiosi e superstizioni. Nelle sue pellicole le donne sono spesso protagoniste, ma non sono caratterizzate in qualità di madri e mogli scrupolose e altruiste, come avveniva in molti film del tempo, ma piuttosto come persone moderne con i propri ideali e le proprie aspirazioni e, soprattutto, con una propria sessualità e sensualità. Il mondo di De Santis è composto di avventure, azioni drammatiche, passioni e contrasti sociali ben definiti. I suoi primi film sono popolati di personaggi buoni e cattivi che muoiono o si redimono. In tutte le sue opere la passione è la forza predominante che forgia i destini dei protagonisti. L’obiettivo di De Santis di creare un cinema nazional-popolare accessibile a tutti è il risultato di una vocazione realista i cui precedenti 5 Giuseppe De Santis, Cinema e narrativa, cit., p. 20. 6 Ivi, p. 21.

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sono da ricercare negli articoli critici redatti durante la sua collaborazione con la rivista «Cinema». Come critico, egli giocò un ruolo prominente nella promozione e definizione dei percorsi che la cinematografia e i nuovi registi dovevano intraprendere al fine di rilanciare lo stagnante cinema nazionale, promuovendo altresì una reazione contro la banalità che per lungo tempo aveva dominato il cinema italiano dell’era fascista. In ciò che potrebbe essere definito un apprendistato, De Santis passò poco alla volta da schemi teorici a progetti concreti – prima come sceneggiatore, poi come aiuto regista per Visconti e Rossellini, in seguito come co-autore di Il sole sorge ancora ed infine come regista completo in Caccia tragica nel 1947. I saggi pubblicati in «Cinema» rivelano alcuni dei temi che sarebbero in seguito diventati predominanti nei suoi film. Per un paesaggio italiano, per esempio, anticipa la predilezione di De Santis per la fusione dei personaggi con il contesto e l’ambiente circostante. Il ricco scenario offrì non solo un’ambientazione drammatica agli eventi, ma diventò anche un fattore integrante nella narrazione, mostrando i personaggi nel loro contesto naturale e quotidiano. Le ambientazioni ben definite aggiungevano autenticità, umanità e calore alle sue storie e ai suoi protagonisti. In tutte le sue opere l’ambiente fisico diventa protagonista, sia che si presenti sotto forma di risaie (Riso amaro), vaste campagne (Caccia tragica), aride colline rocciose (Non c’è pace tra gli ulivi), tranquille e fertili pianure (Giorni d’amore), la scala di un edificio e strade affollate (Roma ore 11), stanze buie e tetre (La Garçonnière) o una camera da letto decadente (Un apprezzato professionista di sicuro avvenire). Spesso nel rappresentare tali idee i film sfiorano l’eccesso, con composizioni e scenografie troppo elaborate, piene di quei dettagli che raccontano l’amore di De Santis per lo spettacolo. Il regista non ha mai nascosto le sue predilezioni, al contrario, le ha sempre definite qualità. Riferendosi a questo argomento, nel 1953, De Santis affermò che nei suoi film le danze, le canzoni, le cerimonie e i riti servono a caratterizzare un personaggio, a sviluppare una situazione, a creare un’atmosfera, a rivelare le caratteristiche distintive di una regione e i vizi e le virtù della sua popolazione7. De Santis cercò di tramutare in film l’espressione delle sue idee: introdusse forme di cultura più alta in contesti popolari e utilizzò forme di espressione artistica popolare, affidandogli un nuovo significato grazie al rovesciamento del messaggio conservatore e tradizionale 7 Giuseppe De Santis, Confessioni di un regista, cit., p. 20.

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che comunicavano in precedenza. Lo stile gangster utilizzato in Caccia tragica, per esempio, il fotoromanzo in Riso amaro, l’opera buffa e il teatro popolare in Giorni d’amore, la sceneggiata napoletana utilizzata in Un marito per Anna Zaccheo, sono tutti esempi di modelli artistici popolari di intrattenimento che vengono demistificati man mano che De Santis ne smaschera il messaggio conservatore. Spesso nei suoi film si intravede un certo desiderio di emulazione del romanzo dell’ottocento. È noto che De Santis cominciò come scrittore, riuscendo a pubblicare diversi racconti prima di iscriversi al Centro Sperimentale. In qualità di critico utilizzò la struttura della narrativa del diciannovesimo secolo come base per la rinascita del cinema nazionale: gli attacchi ai film di Castellani, Poggioli, Chiarini e Soldati, che definì formalisti e stilizzati, portano tutti la firma di De Santis sulla rivista «Cinema» negli anni quaranta. Tuttavia il futuro regista mise in luce alcuni aspetti positivi in questi film, riconoscendogli il tentativo di descrivere una realtà culturale autentica, una delle principali preoccupazioni dei romanzi da cui le storie erano tratte. L’articolo Per un paesaggio italiano può essere letto, assieme agli altri due articoli scritti in collaborazione con Mario Alicata, come un manifesto che promuove la diffusione di un certo tipo di letteratura come modello per realizzare film migliori e per un nuovo cinema nazionale. Secondo la tesi di De Santis la regia era passata da un palcoscenico documentaristico ad una fase di narrazione e, di conseguenza, stava intrecciando sempre di più il suo destino con la forma artistica letteraria. Questa conclusione non deve essere fraintesa o letta come un tentativo di minare l’autonomia artistica o espressiva della settima arte, ma piuttosto come un’autentica intuizione da parte di Alicata e De Santis sulla sottile affinità tra le strutture narrative delle due forme d’arte. Ciò che è forse più importante è che i due videro nel verismo e in Verga i soli modelli letterari che potevano rendere possibile l’unione tra il cinema e la letteratura. La correttezza delle loro intuizioni è stata confermata da numerosi film che scaturirono direttamente da quel modello di letteratura e da altri film che riprodussero le stesse strutture narrative8. Le stesse pellicole di De Santis dimostrano il suo principale interesse per la seconda delle possibilità grazie ad un’istintiva vocazione al naturalismo: è autore o 8 Per il dibattito sul cinema e la letteratura durante il periodo del dopoguerra si veda Giorgio Tinazzi e Marina Zancan, a cura di, Cinema e letteratura del neorealismo, Venezia, Marsilio Editori, 1979.

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co-autore di tutte le trame e i soggetti dei suoi film. Perfino i titoli delle pellicole hanno un chiaro e riconoscibile sfondo letterario9. La principale differenza tra lui e gli altri registi del dopoguerra, quali Rossellini e De Sica, risiede nell’elaborazione della struttura narrativa nel discorso cinematografico. Nei film di De Sica-Zavattini o nei primi film di Rossellini e in La terra trema di Visconti vi è un tentativo di dissolvere l’occhio della macchina da presa nella realtà rappresentata. In ogni pellicola di De Santis, invece, è presente una marcata struttura narrativa e tali soluzioni narrative sono spesso impiegate per sviluppare le trame e per intrecciare altre storie nella storia. Per i suoi film De Santis ha attinto da varie fonti letterarie. Ha tratto spunto dal romanzo a puntate, dal fotoromanzo, dal teatro popolare e dal romanzo ottocentesco, sempre con l’obiettivo di creare un grande affresco, un’epica. De Santis ha affermato10 che i suoi film possono essere divisi in romanzi e racconti: nel primo gruppo ha incluso Riso amaro, Caccia tragica, Italiani brava gente e La strada lunga un anno, mentre nella categoria dei racconti ha incluso Un marito per Anna Zaccheo, Giorni d’amore, La Garçonnière, Uomini e lupi e Un apprezzato professionista... Come critico sostengo che le differenze strutturali tra queste due categorie di film risiedano nello sviluppo della trama. Le opere principali, come le classificò il regista, sono storie corali la cui struttura modale è più affine a quella del romanzo naturalista. Il conflitto tra i protagonisti, che spesso si estende ad un’intera classe sociale o addirittura ad una nazione, è chiaro e ben definito e segue una progressione lineare. Lo sviluppo della trama principale, e di quelle minori, sono lineari e basate su regole di opposizione elementare. I film minori mettono in scena meno personaggi, i conflitti tra gli antagonisti sono più complessi e i personaggi hanno una psicologia più sviluppata e definita. Queste distinzioni sono ancora una volta prova del fatto che, nel suo intento di aprire nuovi orizzonti al pubblico italiano con la creazione di un cinema nazionale, Giuseppe De Santis aspirava anche a diventare il narratore di tale cinema.

9 I lunghi ed elaborati titoli di De Santis hanno antecedenti letterari o cinematografici. Per esempio Caccia tragica deriva da un’opera di Chekhov, Riso amaro dal romanzo del 1939 di Emilio Cecchi America amara e la storia di De Santis Il nostro pane quotidiano, sfortunatamente mai diretto, da Nostro pane quotidiano (1934) di King Vidor. 10 L’11 maggio 1991 nella sua casa di Fiano Romano.

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Inediti e testimonianze come appendice storica

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Lettera del critico francese George Sadoul a De Santis che gli rivela di aver scritto un elogio funebre per la presunta morte di De Santis dopo aver sentito la falsa notizia della sua prematura scomparsa.

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Copia della prima pagina della sceneggiatura del western che De Santis aveva scritto firmandosi Joe Santos.

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Nota scritta da De Santis in cui spiega perché non gli fu concesso di girare il western: Noi che spariamo la colt.

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Lettera dell’autore di Tiro al piccione, Giose Rimanelli, che attesta la popolarità e la buona ricezione dei film di De Santis.

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Lettera di “una compagna” che dopo aver visto Non c’e’ pace tra gli ulivi più di una volta sente la necessità di scrivere al regista. I suoi commenti mostrano la centralità del cinema di De Santis tra gli spettatori di sinistra.

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Copia della lettera inviata a De Santis e relativa al rifiuto da parte del governo statunitense di concedergli l’ingresso negli Stati Uniti per la premiazione del film La strada lunga un anno.

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Lettera del padre di Silavana Mangano a De Santis che lo prega di aiutare sua figlia ad ottenere il massimo dal suo talento.

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Lettera di ringraziamento di De Santis all’allora Direttore della Scuola Italiana di Middlebury College che permise al regista di insegnare e girare un corto con gli studenti.

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Locandina originale di Roma ore 11.

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Lettera di De Santis al critico A. Solmi inviata dopo l'uscita del film Un professionista di sicuro avvenire.

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Risposta del critico A. Solmi alla lettera di De Santis.

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Lettera aperta di De Santis a Pietro Ingrao, all'epoca direttore de «L'Unità», che aveva chiesto ai registi di mobilitarsi in favore dei contadini che occupavano le terre nel Meridione.

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Scomunica papale ai comunisti.

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Fotografie

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I contadini fanno scoppiare le mine per riprendersi la terra in Caccia tragica.

Massimo Girotti e Vittorio Duse prima di girare in Caccia tragica.

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Daniela, soprannominata Lilì Marlene (Vivi Gioi), in Caccia tragica. La dimostrazione dei reduci in Caccia tragica.

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Silvana Mangano e le mondine durante una pausa prima di girare in Riso amaro.

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De Santis con le comparse in Caccia tragica. Silvana Mangano fotografata durante una pausa in Riso amaro.

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Silvana Mangano coccolata dalla troupe durante una pausa dopo aver girato la scena del bagno in Riso Amaro.

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Le mondine piangono l'aborto di Maria Grazia in Riso amaro, in un atteggiamento che ricorda la Vergine Maria in molti dipinti italiani della deposizione di Cristo. Marco (Raf Vallone) e Francesca (Doris Dowling) che osservano Walter e Silvano che ballano.

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Marco (Raf Vallone) e Walter (Vittorio Gassman) stanno per azzuffarsi in Riso amaro. Marco (Raf Vallone) in Riso amaro.

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De Santis balla il Saltarello con contadini che compariranno in seguito in Non c'è pace tra gli ulivi, girato nelle vicinanze di Fondi.

Francì (Raf Vallone) in Non c'è pace tra gli ulivi.

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Maria Grazia Dominici (Maria Grazia Francia) nel centro storico di Sperlonga in Non c'è pace tra gli ulivi.

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Maria Grazia Francia con le cioce in Non c'è pace tra gli ulivi.

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Lucia Bosé durante una pausa in Non c'è pace tra gli ulivi.

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Francì (Raf Vallone) che cerca di camuffarsi tra i fedeli in processione in Non c'è pace tra gli ulivi. Contadine ciociare della zona dove è stato girato Non c'è pace tra gli ulivi.

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Il terrore dopo il crollo in Roma ore 11.

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In attesa di essere chiamate le aspiranti dattilografe affollano la scalinata. La speranza per un posto di lavoro è contrastata visualmente dal cancello chiuso in Roma ore 11.

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La ragazza della provincia pronta a tutto pur di trovare un lavoro in Roma ore 11.

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Il poster denuncia lo sfruttamento della donna e mette in risalto la dura realtà della signora che malgrado le sue abilità di dattilografa non avrà il lavoro a causa della sua età. La barriera tra Andrea (Massimo Girotti) e Anna Zaccheo (Silvana Pampanini) generata dai pregiudizi maschilisti è rinforzata visivamente dalla rete metallica in Un marito per Anna Zaccheo.

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Il geloso Andrea (Massimo Girotti) strappa il manifesto che mostra le gambe di Anna Zaccheo (Silvana Pampanini) in una pubblicità per calze da donna in Un marito per Anna Zaccheo. Pasquale (Marcello Mastroianni) e Angela (Marina Vlady) in Giorni d'amore.

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La variopinta e folcloristica capanna pensata dal pittore Domenico Purificato in Giorni d'amore.

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La messa in scena della lite tra le famiglie di Pasquale e Angela con la divertita partecipazione dei compaesani. La finta lite.

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La finta lite.

La finta lite.

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De Santis e Yves Montand, che interpreta il ruolo di Ricuccio, in attesa di girare una scena di Uomini e lupi.

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Ben lontana dal suo ruolo di bomba sexy in Riso amaro, l'attrice Silvana Mangano è trasformata da De Santis in una vedova sola e affranta dal dolore in Uomini e lupi. Teresa (Silvana Mangano) e Ricuccio (Yves Montand) durante la questua (la raccolta dei doni da parte dei contadini per aver ucciso un lupo).

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La troupe di Uomini e lupi.

Teresa (Silvana Mangano) costretta a combattere i lupi in Uomini e lupi.

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Massimo Girotti, nel ruolo di Chiacchiera, durante le riprese di Cesta Duga Godinu Dana / La strada lunga un anno. Teresa (Silvana Mangano) e Giovanni (Pedro Armendàriz) in Uomini e lupi.

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Angolo di un borgo abruzzese per le riprese di Uomini e lupi.

De Santis con Silvana Mangano.

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De Santis con Massimo Girotti e Silvana Pampanini. Gordana Miletic (che in seguito sposerà De Santis) e Girotti durante le riprese di Cesta Duga Godinu Dana.

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Susanna (Eleonora Rossi Drago) in Cesta Duga Godinu Dana. Contadini che discutono durante la costruzione della strada che porrà fine al loro isolamento in Cesta Duga Godinu Dana.

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La facile vittoria di Mussolini si rivela una terribile disfatta in questa scena di Italiani brava gente. De Santis insegna ai russi come fare il saluto romano prima di girare in Italiani brava gente.

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De Santis si assicura che tutto sia a posto prima che si giri in Italiani brava gente.

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Il corpo congelato dell'ultimo sopravvissuto, dalla scena conclusiva di Italiani brava gente, simboleggia la futilità della guerra.

De Santis con la moglie Gordana a Chicago.

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De Santis prima di tenere una conferenza alla Wake Forest University.

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De Santis nello stato di Indiana prima di una conferenza.

Strade di paese in Puglia, dove si sarebbe dovuto girare Pettotondo.

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L'allora giovane e inesperta attrice Claudia Cardinale in posa durante il provino per Pettotondo.

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Usanza locale di attingere l'acqua con antiche anfore di rame, un dettaglio che il regista voleva includere in Pettotondo. Bambini e donne che aspettano il ritorno dai campi dei loro uomini in un desolato paese calabrese.

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Contadini calabresi fotografati durante i sopraluoghi per il film mai realizzato Noi che facciamo crescere il pane, che avrebbe potuto essere l'epica sulla povertà meridionale e il mondo contadino. Villaggio calabrese in cui vivevano i braccianti calabresi che sarebbero stati i protagonisti per il film mai realizzato Noi che facciamo crescere il pane.

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Abitazione in cui vivevano i braccianti calabresi per il film mai realizzato Noi che facciamo crescere il pane. Torino, estate 1989: stanza-cella di una delle terroriste della sceneggiatura de Il Permesso progetto mai realizzato su un giorno di permesso concesso a nove terroriste rinchiuse nel carcere di massima sicurezza di Torino.

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Collina abitata dalla famiglia Agnelli, da dove si leva in volo l’elicottero che reca il proprietario della Fiat in fabbrica. Avrebbe dovuto essere una scena de Il Permesso.

De Santis con la moglie Gordana a colazione negli Stati Uniti.

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De Santis con la moglie e amici nel Vermont.

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Filmografia

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Giuseppe De Santis (Nato a Fondi l’11 febbraio 1917 Morto a Roma il 16 maggio 1997)

AIUTO REGISTA 1942 Ossessione. Diretto da Luchino Visconti. 1943 Scalo merci. Iniziato da Roberto Rossellini. Portato a termine da Marcello Pagliero con il nuovo titolo di Desiderio. 1946 Il sole sorge ancora. Diretto da Aldo Vergano. REGISTA 1942

1947



La gatta. Produzione: Il Centro Sperimentale. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis da un suo soggetto originale. Il film fu realizzato durante i suoi anni di studio al Centro. Vittorio Duse interpretò la parte del protagonista. Caccia tragica. Produzione: ANPI Film. Produttore: G. Giorgio Agliani. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Umberto Barbaro, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Cesare Zavattini da un soggetto di Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Lamberto Rem-Picci. Fotografia: Otello Martelli. Operatori di ripresa: Carlo Carlini e Gianni Di Venanzo. Scenografia e ambientazioni di Carlo Egidi. Costumi di Anna Gobbi. Trucco di Guglielmo Bonotti. Musiche di Giuseppe Rosati eseguite dall’Orchestra RAI, diretta dal Maestro Ferdinando Previtali. Aiuto registi: Sergio Grieco e Carlo Lizzani. Direttore di produzione: Marcello Caccialupi. Responsabile del montaggio: Mario Serandrei. Segrataria di produzione: Anna Davini. Produzione: Giovanna Valeri. Girato nella Valle del Po. Prima proiezione a Ravenna l’11 aprile 1947. Prima del film a Milano nell’aprile 1948. Durata: 80 minuti. Con: Vivi Gioi (Daniela), Andrea Checchi (Alberto), Carla Del Poggio (Giovanna), Vittorio Duse (Giuseppe), Massimo Girotti (Michele), Checco Rissone (Mimì), Umberto Sacripante (lo Zoppo), Alfredo Salvadori e Folco Lulli (proprietari terrieri), Michele Riccardini (ispettore di polizia), Guido della Valle (il tedesco), Ermanno Randi (Andrea), Massimo Rossini (il Camoscio) ed Enrico Tachetti (il ragioniere). Distribuito dalla Libertas Film (1947-8). Il film incassò 80 milioni di lire e si posizionò al ventottesimo posto

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1948



1949

nella classifica del 1948. Al Festival del Cinema di Venezia ricevette il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri come miglior film italiano. Fu inoltre insignito del Nastro d’Argento (ex-aequo con Giovanni Episcopo di Lattuada) come miglior regia (Vivi Gioi ricevette un Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista). Il film ricevette inoltre il premio Miglior Regia al Festival Marianske Lazne nell’agosto del 1948 e una menzione speciale al Festival Karlovy Vary nel 1948. Riso amaro Produzione: Lux Film. Produttore: Dino De Laurentiis. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Corrado Alvaro, Carlo Musso e Ivo Perilli, da un soggetto di Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Gianni Puccini. Fotografia di Otello Martelli, coadiuvato da Roberto Gerardi e Luciano Trasatti. Costumi di Anna Gobbi. Trucco di Amato Garbini. Musiche di Goffredo Petrassi, dirette dal Maestro Ferdinando Previtali. La canzone “Il baion” fu composta da Roman Batrov (Armando Trovajoli). Aiuto regista: Piero Nelli, con la collaborazione di Gianni Puccini e Basilio Franchina. Direttore di produzione: Luigi De Laurentiis. Montaggio: Gabriele Varriale. Girato nelle risaie di Vercelli. Prima del film a Firenze il 21 settembre 1949. Durata: 100 minuti. Con: Vittorio Gassman (Walter), Doris Dowling (Francesca), Silvana Mangano (Silvana Melega), Raf Vallone (Sergente Marco Galli), Maria Grazia Francia (Gabriella) e Carlo Mazzarella (il venditore). Distribuito dalla Lux Film (1949). Il film incassò 445 milioni di lire e si posizionò al quinto posto in quell’anno. Nel 1950 ricevette una nomination all’Oscar come miglior soggetto. Non c’è pace tra gli ulivi Produzione: Lux Film. Produttore: Domenico Forges Davanzati. Sceneggiatura di Libero De Libero, Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis e Gianni Puccini, da un soggetto di Giuseppe De Santis e Gianni Puccini. Fotografia di Piero Portalupi. Operatore di ripresa: Marco Scarpelli in collaborazione con Idelmo Simonelli e Pasqualino De Santis. Costumi di Anna Gobbi. Trucco di Libero Politi. Musiche di Goffredo Petrassi, dirette dal Maestro Antonio Pedrotti con l’Orchestra Sinfonica DISCO. Direttore di produzione: Vittorio Glori. Montaggio: Gabriele Varriale. Girato nelle montagne della Ciociaria. Prima proiezione ad Alassi il 10 settembre 1950. Prima del film a Milano il 12 novembre 1950. Durata: 100 minuti. Con: Raf Vallone (Francesco Dominici), Lucia Bosè (Lucia Silvestri), Folco Lulli (Agostino Bonfiglio), Maria Grazia Francia (Maria Grazia Dominici), Dante Maggio (Salvatore Capuano), Michele Riccardini (ispettore di polizia),Vincenzo Talarico,

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1952



1953

Pietro Tordi, Attilio Torelli, Giacomo Sticca, Maddalena Di Trocchio, Giuseppina Corona, Angelina Chiusano, Tommaso Di Gregorio, Giovanni Paparella, Vincenzo Jannone e Vincenzo Vaticone (tutti pastori di Querce, una frazione di Fondi) Distribuito dalla Lux Film (1950). Il film incassò 405 milioni di lire e si posizionò al quindicesimo posto per quell’anno. Fu insignito di vari premi nell’Europa dell’Est e ricevette una menzione speciale al Festival Karlovy Vary nel 1950. Roma ore 11 Produzione: Transcontinental Film Roma-Parigi in associazione con la Titanus di Roma. Produttore: Paul Graetz. Sceneggiatura di Cesare Zavattini, Basilio Franchina, Giuseppe De Santis, Rodolfo Sonego, Gianni Puccini ed Elio Petri, tratta dalla notizia di cronaca sul crollo di una scala a Roma in via Savoia il 15 gennaio 1951. Fotografia di Otello Martelli. Ambientazioni di Léon Barsacq (anche direttore artistico). Costumi di Elio Costanzi. Trucco di Eligio Trani. Musiche di Mario Nascimbene. Orchestra diretta da Ugo Giacomozzi. Aiuto regista: Elio Petri. Direttore di produzione: Giorgio Adriani e Louis Wipf. Girato negli studi della Titanus in via Farnesina. Prima proiezione a Catania il 2 febbraio 1952. Durata: 105 minuti. Con: Lucia Bosè (Simona), Carla Del Poggio (Luciana), Maria Grazia Francia (Cornelia), Lea Padovani (Caterina), Delia Scala (Angelina), Elena Varzi (Adriana), Raf Vallone (Carlo), Massimo Girotti (Nando), Paolo Stoppa (il padre di una della ragazze), Armando Francioli (Romoletto), Paola Borboni (madre di Simona), Checco Durante (padre di Adriana), Alberto Farnese (Augusto), Irene Galter (Clara) e Loretta Paoli (Loretta). Distribuito dalla Titanus in Italia e dalla RKO Radio Pictures Inc. nel resto del mondo. Il film incassò 270 milioni di lire e si posizionò ventiduesimo in quell’anno. Mario Nascimbene ricevette il Nastro d’Argento come miglior musica. Il film fu insignito di vari premi in Sud America. Un marito per Anna Zaccheo Produzione: La Società di Produzione Domenico Forges Davanzati. Produttore: Domenico Forges Davanzati. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis, Alfredo Giannetti, Salvatore Laurani, Elio Petri, Gianni Puccini e Cesare Zavattini, da un soggetto di Giuseppe De Santis, Alfredo Giannetti e Salvatore Laurani. Fotografia di Otello Martelli. Operatore di ripresa: Roberto Gerardi in collaborazione con Arturo Zavattini. Costumi di Paolo Ricci. Trucco di Duilio Giustini. Parrucchiere: Gustavo Sisi. Musiche di Rino Da Positano e Alberto Continisio. Cantante: Rino Da Positano (il brano “E cummarelle” è cantata da Eduardo Caliendo). Segretario di edizione: Spartaco Conversi. Aiuto registi: Elio Petri e Cesare Aldo Trionfo. Direttore di produzione:

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1953



1955

Vittorio Glori. Montaggio di Gabriele Varriale. Prima proiezione a Cortina d’Ampezzo il 22 agosto 1953. Durata: 95 minuti. Con: Silvana Pampanini (Anna Zccheo), Amedeo Nazzari (Dottor Illuminato), Massimo Girotti (Andrea), Umberto Spadaro (Don Antonio Percuoco), Monica Clay, Anna Galasso, Dora Scarpetta, Agostino Salvietti, Edoardo Imperatrice, Franco Bologna, Giovanni Berardi, Enrico Glori, Enzo Maggio, Nando Di Claudio, Nello Ascoli, Renato Terra e Carletto Sposito. Distribuito da Diana Cinematografica. Il film incassò 349 milioni e 500 mila lire e si posizionò al ventinovesimo posto in quell’anno. Silvana Pampanini vinse una Medaglia d’Argento per la sua interpretazione dai Giornalisti Cinematografici Messicani. Giorni d’amore Produzione: Excelsa-Minerva Film. Sceneggiatura di Libero De Libero, Giuseppe De Santis, Elio Petri e Gianni Puccini. Fotografia di Otello Martelli. Operatore di ripresa: Roberto Gerardi. Costumi e direzione artistica di Domenico Purificato. Ambientazioni di Carlo Egidi. Montaggio: Gabriele Varriale. Musiche di Mario Nascimbene. Aiuto regista: Elio Petri. Aiuto regista della seconda unità: Paolo Russo. Assistenti al montaggio: Maria Sterbini e Ruggero Mastroianni. Parrucchiera: Maria Miccinilli. Trucco: Libero Politi. Direttore di produzione: Nello Meniconi. Segretaria di edizione: Giovanna Valeri. Girato a Fondi e nei dintorni. Prima proiezione a Perugia il 10 gennaio 1954. Durata: 109 minuti. Con: Marcello Mastroianni (Pasquale Trocchio), Marina Vlady (Angela Cafalla), Angelina Longobardi (Concetta), Dora Scarpetta (Nunziata), Giulio Calì (nonno Pietro), Fernando Jacovolta (Adolfo), Renato Chiantoni (Francesco), Pina Galliani (nonna Filomena), Angelina Chiusano (Loreta), Lucien Gallas (Oreste), Franco Avallone (Leopoldo), Cosimo Poerio (nonno Onorato) e Santina Tucci (Teresa). Distrubuito da Minerva Film (1954). Il film incassò 339 milioni e 600 mila lire e si piazzò al trentesimo posto in quell’anno. Marcello Mastroianni vinse il Nastro d’Argento come miglior attore. Al Festival di San Sebastian nel 1954-5 il film si aggiudicò il primo premio per il colore. Uomini e lupi Produzione: Trionfalcine e Titanus. Produttore: Giovanni Addessi. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis, Tonino Guerra, Elio Petri, Ugo Pirro e Gianni Puccini, in collaborazione con Ivo Perilli, da un soggetto di Giuseppe De Santis, Tonino Guerra ed Elio Petri. Fotografia di Piero Portalupi in Eastmancolor-cinemascope. Operatore di ripresa: Idelmo Simonelli in collaborazione con Pasqualino De Santis. Ambientazioni di Ottavio Scotti. Costumi di Graziella Ubinati. Montaggio di Gabrie-

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1958



le Varriale. Musiche di Mario Nascimbene. Suono di Guido Nardone. Aiuto registi: Paolo Russo e Franco Giraldi. Segretario di produzione: Franco Giraldi. Direttore di produzione: Alfredo De Laurentiis. Le scene esterne sono state girate al Parco Nazionale dell’Abruzzo e quelle d’interno negli studi della Titanus a Roma. Prima proiezione il 3 marzo 1957. Durata: 105 minuti. Con: Silvana Mangano (Teresa), Yves Montand (Ricuccio), Pedro Armendariz (Giovanni), Irene Cefaro (Bianca), Giulio Calì (Nazareno), Euro Teodori (Amerigo), Giovanni Matta (Pasqualino) e Guido Celano (Don Pietro). La lunghezza originale del film era di 3300 metri, la versione rilasciata è di 2800 metri. Distribuito dalla Titanus e dalla Trionfalcine. Il film incassò 382 milioni e 685 mila lire e si posizionò al ventottesimo posto per l’anno 1957. Cesta Duga Godinu Dana (La strada lunga un anno) Produzione: Jadran Film di Zagabria. Produttore: Ivo Vrhovec. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis, Maurizio Ferrara, Tonino Guerra, Elio Petri, Gianni Puccini e Mario Socrate da un soggetto di Giuseppe De Santis, Elio Petri e Gianni Puccini. Fotografia di Marco Scarpelli in Ultrascope. Operatori di ripresa: Pasquale De Santis e Branko Blazina, affiancati da Kreso Grcevic e Antun Markic. Aiuto regista: Franco Giraldi in collaborazione con Ksto Petanjek e Stipe Delic. Ambientazioni di Zrlimir Zagota. Costumi di Oto Reisinger e Jagoda Buic-Bonetti. Segretaria di produzione: Dana Loncar. Trucco di Euclide Santoli, Duje Duplancic e Lojizika Gal. Musiche di Vladimir Kraus-Rajteric, dirette dal Maestro Mladen Basic ed eseguite dall’Orchestra Filarmonica di Zagabria. Durata: 130 minuti. Con: Silvana Pampanini (Giuseppina Pancrazi), Eleonora Rossi Drago (Susanna), Massimo Girotti (Chiacchiera), Bert Sotlar (Guglielmo Cosma), Milivoje Zivanovic (Davide), Gordana Miletic (Angela), Niksa Stefani, Hermina Pipinic, Lya Rho-Barbieri, Antun Vrdoliak, Branko Tatic, Radoiko Jezic, Nada Skrinjar, Rikard Brzeska, Peter Spajic Suljo, Dragica Mezmaric, Augusto Tilic, Aca Stojkoric, Ljubo Dijan, Milan Lentic, Tihomil Polanec, Zdeavko Smovrev, Milan Ramljak, Ljudovit Galic, Marko Soljacic, Alexandar Andrijic, Zeliko Ringl, Moric Danon, Dragan Knapic e Ivo Pajer. Distribuito da Cino Del Duca. prima proiezione nell’estate del 1958 a Pula al Festival Internazionale del Cinema Jugoslavo, dove vinse un premio. La pellicola non fu mai distribuita su larga scala in Italia e fu per lo più oggetto di proiezioni private. La versione italiana fu proiettata per la prima volta a Modena il 14 maggio 1959. De Santis si aggiudicò il primo premio come Miglior Regista al Festival di Pula nel 1958. Il film ricevette una nomination all’Oscar come

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1960



1964

miglior film straniero nel 1958. Nel 1949 ricevette il Golden Globe come miglior film straniero e Massimo Girotti fu insignito del primo premio come miglior attore al San Francisco Film Festival nel 1959. La Garçonnière Produzione: Roberto Amoroso. Sceneggiatura di Giuseppe De Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra ed Elio Petri, da un soggetto di Giuseppe De Santis, Tonino Guerra ed Elio Petri. Aiuto regista: Franco Giraldi in collaborazione con Mario Tota. Fotografia di Roberto Gerardi. Operatore di ripresa: Pasqualino De Santis. Assistenti all’operatore di ripresa: Ennio Guarnieri e Luciano Graffigna. Ambientazioni di Ottavio Scotti. Coreografia di Alba Arnova. Segretaria di edizione: Rometta Pietrostefani. Montaggio di Otello Colangeli. Musiche di Mario Nascimbene, dirette da Gianni Ferrio; tromba suonata da Nino Rosso. Brani: “Notte lunga notte” composta da Migliacci-Polito, incisa da Domenico Modugno su etichetta Fonit dalla Ester Music; “Nun è peccato” composta da Calise-Rossi, incisa da Peppino di Capri su etichetta Carish; “Quando vien la sera”, composta da Testa-Rossi e incisa da Joe Sentieri su etichetta Juke-Box; “Favole”, composta da Vinci-Fange-Tassone, incisa da Marino Barreto Jr. su etichetta Philips; “Sei proprio tu”, composta da Bulzonar-Lucarelli-Tassone, incisa da Corrado Loiacono su etichetta Fontana; “Ch’aggia fa”, composta da Faiella-Cenci, incisa da Peppino di Capri su etichetta Carish; “Vivrò per sognare”, composta da Tassone-Danell, incisa da Carol Danell su etichetta Fonit; “Bamble”, un mambo composto da Tassone-De Martino su etichetta Fonit; “Eso es el amor”, composta e incisa da Iglesias su etichetta Fonit. Direttore di produzione: Giorgio Adriani. Girato negli studi della Titanus a Cinecità, Roma. Prima proiezione a Bologna il 10 ottobre 1960. Durata: 90 minuti. Con: Raf Vallone (Alberto Fiorini), Eleonora Rossi Drago (Giulia Fiorini), Marisa Merlini (Pupa), Gordana Miletic (Laura), Nino Castelnuovo (Vincenzo), Maria Fiore (Clementina), Clelia Matania (Angelina), Ennio Girolami (Alvaro), Renato Baldini (padre del bambino), Franca Marzi (madre del bambino), Nando Di Claudio, Miranda Campa, Franco Balducci, Luigi Borghese, Piero Bugli, Marrico Melchiorre, Mauro Del Vecchio, M. Antonietta Leoni, Fabio Altamura e Gabriella Pagani. Distribuito da Roberto Amoroso. Il film incassò 124 milioni e 436 mila lire. La lunghezza originale era di 3100 metri. In seguito ai tagli dei censori la pellicola uscì il 27 settembre 1960 con una lunghezza di 2598 metri. Italiani brava gente Produzione: Mosfilm e Galatea. Produttore: Lionello Santi. Sceneggiatura di Serghei Smirnov, Ennio De Concini, Giuseppre De Santis, Augusto Frassinetti e Gian Domenico Giagni da un soggetto di Ennio De Concini e Giuseppe De Santis. Fotografia di Tony Secchi.

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Operatore di ripresa: Gino Santini. Aiuto regista: Luciana Marinucci. Regista della seconda unità: Dimitri Vassiliev. Scenografia di Ermanno Manco. Costumi di Luciana Marinucci. Montaggio di Mario Serandrei e Claudia Moskvina, in collaborazione con Lina Caterini. Direttori di produzione: Alexander But e Luigi Millozza. Musiche di Armando Trovajoli. Gli episodi esterni sono stati girati sul fronte della Bessarabia sul fiume Bug-Kniepro-Petrovsk e sul fronte del Don, dove si svolse la campagna fra Russia e Italia nel 1941-3. Proiettato per la prima volta in Italia il 9 aprile 1964 a Roma. Durata: 104 minuti. Con: Arthur Kennedy (Maggiore Ferro Maria Ferri), Tatiana Samoilova (Sonia), Gianna Prokhorenko (Katja), Raffaele Pisu (Libero Gabrielli), Andrea Checchi (Colonnello Sermonti), Riccardo Cucciolla (Giuseppe Sanna), Nino Vingeli (Sergente Manfredonia), Lev Prygunov (Loris Bazzocchi), Peter Falk (Dottor Mario Salvioni), Grigorij Mikhailov (partigiano), Valerij Somov (Giuliani), Gino Pernice (Collodi), Boris Kozhukhov (Maggiore), S. Lukyanov (capo dei partigiani), Yu Kaberdaze (prigioniero russo), I. Paramanov (tedesco), E. Knausmuller (Generale tedesco), Ya. Yanakiev (dottore), Vincenzo Polizzi (il siciliano), Franco Morici, Pasqualino Ferri, Mario Annibali, Alvaro Ceccarelli, Livia Contardi. Distribuito dalla Titanus. Il film incassò 573 milioni e 351 mila lire. 1972 Un apprezzato professionista di sicuro avvenire Produzione: Film-Novoa (Giuseppe De Santis e Giorgio Salvioni). Sceneggiatura e soggetto di Giuseppe De Santis e Giorgio Salvioni. Fotografia di Carlo Carlini. Operatore di ripresa: Sergio Martinelli. Ambientazioni, scenografie e costumi di Giuseppe Selmo ed Enrico Checchi. Musiche di Maurizio Vandelli dirette da Natale Massara. “Quis, quid, Burana” è basata sull’adattamento personale di Vandelli dei Carmina Burana. Montaggio di Adriano Tagliavia. Aiuto regista: Ferruccio Castronuovo. Segretaria di edizione: Flavia Vanin. Direttore artistico: Giuseppe De Santis. Prima proiezione a Rimini il 4 luglio 1972. Durata: 100 minuti. Con: Lino Capolicchio (Vincenzo Arduni), Riccardo Cucciolla (Nicola Parella), Femi Benussi (Lucietta Arduni), Robert Hoffmann (Don Marco), Andrea Checchi (padre di di Vincenzo), Ivo Garrani (padre di Lucietta), Yvonne Sanson (madre di Lucietta), Nino Vingeli (ispettore di polizia), Massimo Serato (Monsignore), Luisa De Santis (Maria), Vittorio Duse, Annamaria Dossena, Pietro Zardini, Giulio Massimini, Ugo Carboni, Sergio Serafini, Winni Riva, Bianca Mallerini Zardini, Giovanni Sabbatini, Luigi Daniele De Simon, Cesare De Vita, Stefania Fassio, Eugenio Galadini, Claudio Gorgiutti, Letizia Lehir, Enrico Papa, Giancarlo Piacentini e Toni Ventura. Distribuito da CIDIF. Incassi non disponibili.

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SCENEGGIATORE

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1940 1942 1943 1946 1951

1953 1964

Don Pasquale, in collaborazione con Gianni Puccini. Diretto da Camillo Mastrocinque Ossessione, in collaborazione con Gianni Puccini, Mario Alicata e Luchino Visconti. Diretto da Luchino Visconti. Desiderio, in collaborazione con Roberto Rossellini. Iniziato da Roberto Rossellini e portato a termine da Marcello Pagliero nel 1945. Il sole sorge ancora, in collaborazione con Guido Aristarco, Carlo Lizzani e Aldo Vergano. Diretto da Aldo Vergano. Ultimo amore, in collaborazione con Luigi Chiarini. Diretto da Luigi Chiarini. Il capitano di Venezia, in collaborazione con Gianni Puccini. Diretto da Gianni Puccini. In Filmlexicon degli autori e delle opere, a cura di Filippo Maria De Sanctis, Giuseppe De Santis è citato come collaboratore alla scenografia, informazione smentita dal regista. Donne proibite, in collaborazione con Giuseppe Amato. Diretto da Giuseppe Amato. La visita. De Santis ne scrisse il soggetto. Diretto da Antonio Pietrangeli.

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Indice dei nomi

Abruzzese Alberto 273 Addessi Giovanni 292 Adorno Theodor Wiesengrund 273 Adriani Giorgio 291, 294 Agliani Giorgio 42, 190, 289 Ajello Nello 273 Albano Vittorio 273 Alessandrini Goffredo 42 Alicata Mario 24, 25, 26, 27, 35, 36, 37, 38, 201, 273, 296 Altamura Fabio 294 Alvaro Corrado 50, 65, 89, 197, 273, 279, 290, 294, 295 Amato Giuseppe 296 Amendola Eva Paola 273 Amidei Sergio 31, 171 Amoroso Roberto 145, 146, 152, 188, 193, 280, 294 Andreotti Giulio 130, 132, 135, 167, 192, 193, 278 Andrijic Alexandar 293 Annibali Mario 295 Antonioni Michelangelo 25, 50, 107, 137, 138, 139, 149, 153, 196, 273, 275, 289 Aprà Adriano 273 Arbasino Alberto 273 Argentieri Mino 131, 132, 274 Aristarco Guido 15, 42, 57, 89, 94, 110, 121, 122, 130, 131, 177, 197, 274, 288, 296 Armendariz Pedro 123, 293 Armes Roy 274 Arnheim Rudolf 27 Arnova Alba 294 Ascoli Nello 292 Asor Rosa Alberto 274

Avallone Franco 292 Autera Leonardo 274 Bachtin Michail Michailovič 12 Badeschi Giulio 158 Badoglio Pietro 39 Balbo Italo 160 Baldelli Pio 58, 274 Baldini Renato 294 Balducci Franco 294 Baracco Adriano 79, 190, 274, 278 Barbaro Umberto 23, 40, 50, 109, 289 Barbesi Luigi 274 Barreto Marino Jr. 294 Barsacq Léon 91, 291 Basic Mladen 293 Bavagnoli Carlo 274 Bazin Andrè 10, 12, 274 Bechelloni Giovanni 274 Bedeschi Giulio 166 Bell Daniel 274 Bello Marisa 274 Bellour Raymond 274 Benussi Femi 295 Berardi Giovanni 292 Bergman Ingrid 139 Bernari Carlo 145 Bertolucci Bernardo 53, 87, 154, 276 Bettetini Gianfranco 274 Blasetti Alessandro 30, 31, 183, 275 Blazina Branko 293 Boccaccio Giovanni 110 Bologna Franco 292 Bondanella Peter 275 Bonotti Guglielmo 289 Borboni Paola 91, 291

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298

Borde Raymonde 275 Bordoni Carlo 275 Borghese Luigi 294 Borghesio Carlo 189 Bosè Lucia 91, 96, 290, 291 Bottai Giuseppe 26 Bouissy Andrè 275 Bourget Jean-Loup 275 Brignone Guido 61, 189 Brunetta Gian Piero 29, 30, 61, 121, 274, 275 Bruno Edoardo 275 Brzeska Rikard 293 Buache Freddy 275 Bugli Piero 294 Buic-Bonetti Jagoda 293 Busacca Giovanni 155 Buss Robin 275 But Alexander 295 Caccialupi Marcello 289 Cagli Corrado 23 Calamandrei Franco 39 Calasso Robert 275 Calderoni Franco 158, 160, 275 Caldiron Orio 11, 275 Calendoli Giovanni 167 Calì Giulio 292, 293 Caliendo Eduardo 291 Calvino Italo 70, 275 Camerini Mario 189 Camerino Vincenzo 48, 148, 189, 276, 278, 283, 284, 286, 287 Campa Miranda 294 Campari Roberto 276 Cannella Mario 54, 276 Cannistrato 38, 276 Canziani Alfonso 14, 41, 276 Capa Robert 64 Capolicchio Lino 172, 295 Capra Frank 60 Carabba Claudio 273

Carboni Ugo 295 Cardullo Bert 197, 276 Carlini Carlo 289, 295 Carné Marcel 23 Carpi Fabio 276 Caruso Pietro 41 Caserta Gino 280 Casetti Francesco 276 Casiraghi Ugo 78, 119, 120, 197, 276 Castellani Renato 30, 32, 111, 199, 201, 284 Castello Giulio Cesare 147, 149, 276 Castelnuovo Nino 146, 294 Castronuovo Ferruccio 295 Caterini Lina 295 Cavicchioli Luigi 276 Ceccarelli Alvaro 295 Cecchi Emilio 23, 31, 202 Cefaro Irene 126, 293 Celano Guido 293 Cesari Maurizio 130, 277 Cesarini Sforza Marco 38 Chaplin Charlie 60 Checchi Andrea 52, 163, 175, 289, 295 Checchi Enrico 295 Chiantoni Renato 292 Chiaretti Tommaso 277 Chiarini Luigi 23, 28, 109, 201, 296 Chinti Roberto 62, 277 Chiusano Angelina 291, 292 Cipriani Ivano 131, 132, 274 Cirio Rita 277 Clair René 30, 38 Clay Monica 292 Cleopazzo Gianpietro 277 Codelli Lorenzo 277 Colangeli Otello 294 Colizzi Giuseppe 189 Comencini Luigi 111, 155, 189

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299

Contardi Livia 295 Continisio Alberto 291 Conversi Spartaco 291 Corona Giuseppina 291 Corradi Egidio 166 Costa Antonio 57, 58, 61, 65, 277 Costanzi Elio 291 Cosulich Callisto 21, 61, 277, 279 Crocenzi Luigi 277 Cucciolla Riccardo 162, 170, 172, 295 Damiani Damiano 62, 174 Danell Carol 294 Danon Moric 293 Da Positano Rino 291 Davini Anna 289 De Concini Ennio 50, 158, 294 De Feo Luciano 28 De Gasperi Alcide 61, 130, 131 De Laurentiis Dino 290, 293 Del Duca Cino 134, 293 De Libero Libero 22, 23, 277, 290, 292 Delic Stipe 293 Dell'Acqua Gianpiero 277 Dell'Orto Adriana 274 Del Poggio Carla 52, 91, 93, 95, 152, 289, 291 Del Vecchio Mauro 294 De Martino Ernesto 72, 294 De Matteis Stefano 274 De Pinedo Francesco 160 De Sanctis Filippo Maria 296 De Santis Luisa 295 De Santis Pasqualino 290, 292, 293, 294 De Sica 9, 10, 12, 13, 30, 40, 47, 89, 107, 109, 130, 132, 135, 156, 183, 189, 195, 199, 202, 279 De Simon Luigi Daniele 295 Detassis Piera 105, 279

D’Ettore Bruna 113, 279 De Vita Cesare 295 Di Capri Peppino 294 Di Claudio Nando 292, 294 Di Giammatteo Fernaldo 279 Di Gregorio Tommaso 291 Dijan Ljubo 293 Di Trocchio Maddalena 291 Di Venanzo Gianni 289 Di Vittorio Vittorio 119, 122, 137, 188 Doletti Mino 42 Dominici Francesco 290 Donaggio Adriano 279 Dorfles Gillo 279 Dossena Annamaria 295 Dovzenko Aleksandr Petrovic 50, 168, 169, 193 Dowling Doris 66, 190, 290 Duplancic Duje 293 Durante Checco 91, 95, 291 Durgnat Raymond 279 Duse Vittorio 33, 289, 295 Duvivier Julien 38 Eco Umberto 279 Egidi Carlo 289, 292 Eisenstein 23, 41, 50, 87, 193 Ercole Pierluigi 279 Escobar Roberto 279 Faldini Franca 37, 42, 90, 278, 279, 283, 287 Falk Peter 158, 165, 295 Fanara Giulia 279 Farassino Alberto 14, 33, 36, 42, 43, 50, 97, 106, 148, 151, 197, 279, 280 Farnese Alberto 91, 291 Fassati Franco 275 Fassio Stefania 295 Faulkner William 31

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300

Fellini Federico 12, 13, 65, 120, 137, 138, 139, 149, 153, 196, 275 Feraldi Feraldo 102, 280 Ferrara Maurizio 136, 152, 293 Ferrario Adelio 280 Ferraù Alessandro 280 Ferri Pasqualino 295 Ferrini Franco 280 Ferrio Gianni 294 Filippini Enrico 280 Fiorani Eleonora 285 Fiore Maria 294 Flaherty Robert 35, 36 Flaiano Ennio 58, 78, 197, 280 Fofi Goffredo 37, 42, 90, 109, 191, 278, 279, 280, 283, 287 Ford John 60 Forges Davanzati Domenico 77, 99, 103, 129, 192, 290, 291 Fortini Franco 280 Fournier Alain 37 Franchina Basilio 91, 279, 290, 291 Francia Maria Grazia 65, 71, 91, 95, 287, 290, 291 Francioli Armando 91, 291 Franco Mario 280 Frassinetti Augusto 158, 294 Furno Mariella 280 Galadini Eugenio 295 Galasso Anna 292 Galic Ljudovit 293 Gallas Lucien 292 Galliani Pina 292 Gallo Giuliano 280 Gal Lojizika 293 Gallone Carmine 31 Galluppi Pasquale 77 Galter Irene 95, 291 Gambetti Giacomo 55, 158 Gambini Antonio 280 Garbini Amato 290

Garrani Ivo 295 Gassman Vittorio 66, 155, 290 Gastaldi Sciltian 281 Genina Augusto 90 Gentile Giovanni 159 Germi Pietro 12, 107, 195, 199 Gersoni Kelly Annalisa 274 Ghelli Nino 281 Giacomozzi Ugo 291 Giagni Gian Domenico 158, 294 Giannetti Alfredo 99, 291 Gili Jean A. 28, 39, 110, 281 Ginsborg Paul 90, 281 Gioi Vivi 51, 52, 289, 290 Giraldi Franco 293, 294 Girolami Ennio 294 Girotti Massimo 22, 52, 91, 93, 95, 100, 134, 141, 146, 187, 289, 291, 292, 293, 294 Giustini Duilio 291 Glori Enrico 292 Gnocchi Carlo 158 Gobbi Anna 17, 58, 78, 281, 289, 290 Goimard Jacques 281 Goldoni Carlo 110, 111 Gorgiutti Claudio 295 Graetz Paul 91, 190, 291 Graffigna Luciano 294 Gramsci Antonio 118, 143, 187, 196, 197 Gray Hugh 274 Grcevic Kreso 293 Greaves Roger 282 Greemberg Clement 274 Grieco Sergio 289 Grignaffini Giovanna 75, 281 Grmek Germani Sergio 281 Gromo Mario 281 Grossi Marco 55, 64, 110, 281, 286 Gualino Renato 119 Guarini Alfredo 39

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301

Guarnieri Ennio 294 Guerra Tonino 121, 136, 145, 292, 293, 294 Guidi Guidarino 281 Gundle Stephen 282 Guttuso Renato 21, 25, 64 Hawks Howard 60 Hay James 34, 282 Hayworth Rita 60, 75, 96 Hitler Adolf 157, 170 Hoffmann Robert 172, 295 Huaco George 131 Hugo Victor 22 Iaccio Pasquale 187, 188, 282 Imperatrice Edoardo 292 Ingrao Pietro 24, 25, 26, 38, 192, 282 Innocenti Marco 282 Jacovacci Oreste 155 Jacovolta Fernando 292 Jannone Vincenzo 291 Jezic Radoiko 293 Kaberdaze Yu 295 Kaminsky Stuart Melvin 282 Kazev Ivan 282 Kennedy Arthur 158, 164, 175, 295 Kezich Tullio 282 Knapic Dragan 293 Knausmuller E. 295 Kolker Robert Philip 282 Koch Pietro 41 Kozhukhov Boris 295 Kraus-Rajteric Vladimir 293 Kyrou Aldo 282 Lajolo Davide 57, 65 Landy Marcia 282 Lane John Francis 282 Lanocita Arturo 147, 282

La Polla Franco 282 Lattuada Alberto 12, 58, 107, 152, 189, 199, 290 Laurani Salvatore 99, 171, 291 Lawton Ben 177, 282 Lawton Lorraine 177 Lazarsfeld Paul Felix 274 Lehir Letizia 295 Lentic Milan 293 Leone Francesco 282 Leone Sergio 189, 282 Leonetti Francesco 285 Leoni Maria Antonietta 294 Leprohon Pierre 13, 110, 282 Levi Carlo 282 Levine Joseph 158 L’Herbier Marcel 189 Liehm Mira 13, 36, 42, 89, 149, 153, 282 Livolsi Marino 283 Lizzani Carlo 12, 22, 25, 37, 42, 50, 58, 59, 61, 65, 66, 72, 77, 119, 131, 156, 177, 278, 280, 282, 283, 289, 290, 296 Loiacono Corrado 294 Lombardo Goffredo 99, 120 Loncar Dana 293 London Jack 22 Longobardi Angelina 292 Lowenthal Leo 274 Loy Nanni 22, 156 Lukyanov Sergei 295 Lulli Folco 289, 290 Luperini Romano 283 Lutzemberger Maria Grazia 283 Lyon Christopher 283 Macdonald Dwight 274 Mack Smith Denis 157, 159, 160, 283 Mafai Mario 23 Mafai Miriam 64

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302

Maggio Dante 290 Maggio Enzo 292 Magnani Anna 39 Malerba Luigi 282 Mallerini Zardini Bianca 295 Mancini Elaine 283 Manco Ermanno 295 Mangano Silvana 57, 59, 60, 64, 75, 125, 190, 211, 290, 293 Manzoni Alessandro 110 Marcus Millicent 35, 283 Marinucci Luciana 295 Markic Antun 293 Marmori Giancarlo 283 Marotta Giuseppe 283 Martelli Luigi 273 Martelli Otello 7, 114, 289, 290, 291, 292 Martelli Sebastiano 25, 26, 283 Martinelli Sergio 295 Martini Andrea 14, 47, 69, 87, 184, 283, 284 Martini Stelio 283 Marzi Franca 294 Masi Stefano 35, 53, 101, 120, 133, 147, 283 Massara Natale 295 Massimini Giulio 295 Mastriani Francesco 22 Mastrocinque Camillo 296 Mastroianni Marcello 112, 292 Mastroianni Ruggero 292 Matania Clelia 294 Matarazzo Raffaello 61, 62, 273, 284 Matta Giovanni 126, 293 Mazzarella Carlo 290 McCarthy Joseph Raymond 133, 191 McLuhan Marshall 279, 283 Meccoli Domenico 27 Melani Marco 14, 69, 184, 284 Melchiorre Marrico 294 Meniconi Nello 292

Menon Gianni 284 Menjou Adolphe 192 Merlini Marisa 146, 294 Merton Robert King 274 Metz Christian 284 Mezmaric Dragica 293 Micciché Lino 14, 37, 184, 273, 283, 284 Miccinilli Maria 292 Michalczyk John 174, 284 Mida Massimo 22, 23, 29, 34, 36, 42, 51, 75, 78, 278, 279, 284, 285, 286, 287 Mikhailov Grigorij 295 Miletic Gordana 17, 141, 146, 193, 293, 294 Millozza Luigi 295 Mirko (Basaldella Mirko) 23 Modugno Domenico 294 Moffa Paolo 189 Monetti Guglielmo 54, 284 Monicelli Mario 147, 155, 156 Montale Eugenio 26 Montand Yves 123, 293 Montesanti Fausto 25, 284 Monti Aldino 284 Moravia Alberto 38, 78, 197, 284 Morici Franco 295 Morin Edgar 284 Moskvina Claudia 295 Murgia Pier Giuseppe 49, 285 Murnau Wilhelm 35 Muscio Giuliana 285 Musso Carlo 65, 290 Mussolini Benito 23, 26, 157, 158, 160, 170, 278 Mussolini Vittorio 28 Muzii Enzo 134, 137, 285 Nardone Guido 293 Nascimbene Mario 291, 292, 293, 294

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303

Napoli Gregorio 284 Nazzari Amedeo 187, 292 Nelli Pietro 290 Nicassio Giuseppe 188 Olmi Ermanno 87, 154 Oms Marcel 167, 186, 285 Overby David 285 Padovani Lea 91, 94, 191, 291 Pagani Gabriella 294 Pagliero Marcello 39, 40, 41, 289, 296 Palazzo Virgilio 55, 281 Pajer Ivo 293 Pampanini Silvana 100, 102, 292, 293 Paoli Loretta 96, 291 Paolucci Guido 34 Papa Enrico 295 Paparella Giovanni 291 Paramanov Ivan 295 Parisi Antonio 80, 84, 121, 135, 145, 148, 285 Pasinetti Francesco 25, 28 Patat Piera 174, 285 Pavese Cesare 26, 59, 65 Pavolini Alessandro 29, 285 Pavolini Corrado 27, 37 Pedrotti Antonio 290 Pellizzari Lorenzo 285 Perilli Ivo 65, 121, 290, 292 Pernice Gino 295 Petanjek Ksto 293 Petrassi Goffredo 19, 290 Petri Elio 89, 90, 91, 99, 110, 112, 120, 121, 136, 145, 174, 188, 278, 279, 281, 285, 291, 292, 293, 294 Piacentini Giancarlo 295 Pietrangeli Antonio 25, 296 Pietrostefani Rometta 294

Pipinic Hermina 293 Pirro Ugo 120, 121, 145, 171, 188, 196, 285, 292 Pisu Raffaele 162, 163, 295 Pizzinato Armando 183 Placido Beniamino 285 Poerio Cosimo 292 Poggioli Ferdinando Maria 201 Polanec Tihomil 293 Politi Libero 290, 292 Polizzi Vincenzo 295 Ponte Luca 285 Pontecorvo Gillo 174 Ponti Carlo 110 Poppi Roberto 62, 277 Portalupi Piero 19, 85, 127, 290, 292 Pratolini Vasco 122 Premuda Eugenio 285 Previtali Ferdinando 289, 290 Procacci Giuliano 51, 149, 157, 157 Proia Alfredo 131 Prokhorenko Gianna 163, 295 Prygunov Lev 162, 295 Puccini Dario 25, 37 Puccini Gianni 19, 22, 23, 24, 25, 26, 28, 36, 37, 39, 42, 58, 59, 65, 77, 78, 91, 99, 110, 112, 121, 136, 279, 285, 286, 290, 291, 292, 293, 296 Puccini Mario 37 Puccini Massimo 25, 37 Pudovkin Vsevolod Illarionovič 23, 54, 165 Purificato Domenico 23, 25, 113, 114, 279, 286, 292 Pushkin Aleksandr 171 Quaglietti Lorenzo 23, 29, 34, 36, 51, 75, 132, 278, 279, 284, 285, 286, 287 Ramljak Milan 293

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304

Rand Ayn 191 Randi Ermanno 289 Rascel Renato 107 Recupero Nino 285 Redi Riccardo 275, 280, 283, 285 Reisinger Oto 293 Rem-Picci Lamberto 50 Renzi Renzo 130, 280, 286 Renoir Jean 23, 37, 38 Revelli Nuto 158 Rho-Barbieri Lya 293 Rhode Eric 122, 126 Riccardini Michele 289, 290 Ricci Paolo 291 Ricci Steven 286 Rigoni Stern Mario 158 Ringl Zeliko 293 Risi Dino 107, 111, 189 Rissone Checco 289 Riva Winni 295 Rondi Gian Luigi 275, 286 Rondolini Gianni 286 Roosevelt Theodore 192 Rosati Giuseppe 289 Rossellini Roberto 9, 10, 12, 13, 36, 38, 39, 47, 58, 64, 107, 139, 147, 155, 156, 159, 168, 183, 189, 199, 200, 202, 273, 289, 296 Rossi Drago Eleonora 146, 293, 294 Rossi Umberto 189, 286 Rossini Massimo 289 Rosso Nino 294 Russo Paolo 292, 293 Sabbatini Giovanni 295 Sacripante Umberto 289 Sadoul George 12, 131, 186, 197, 205, 286 Salaroli Liberto 42 Salinari Carlo 15 Salvadori Alfredo 289

Salvadori Massimo L. 286 Salvatore Matteo 188 Salvietti Agostino 292 Salvioni Giorgio 165, 171, 295 Samoilova Tatiana 166 Sanson Yvonne 295 Santi Lionello 294 Santini Gino 295 Santoli Euclide 293 Sapegno Natalino 26 Saragat Giuseppe 133 Savio Francesco 286 Scagnetti Aldo 39, 178, 286 Scala Delia 91, 96 Scarpelli Marco 290, 293 Scarpetta Dora 292 Scott Adrian 192 Scotti Ottavio 121, 292, 294 Secchi Tony 294 Seguin Louis 286 Selmo Giuseppe 295 Sentieri Joe 294 Serafini Sergio 295 Serandrei Mario 40, 41, 289, 295 Serato Massimo 22, 295 Sereni Emilio 15 Shils Edward 274 Silvestri Roberto 286 Silvestri Mario 110 Simonelli Idelmo 290, 292 Sisi Gustavo 291 Skrinjar Nada 293 Smirnov Serghei 158, 294 Smith Denis Mack 157, 159, 160, 283 Smovrev Zdeavko 293 Socrate Mario 39, 136, 293 Solaroli Libero 65 Soldati Mario 23, 30, 35, 201 Soljacic Marko 293 Solmi Angelo 52, 173, 176, 184, 286 Somov Valerij 295

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Sonego Rodolfo 91, 291 Sordi Alberto 155 Sotlar Bert 140, 293 Spadaro Umberto 100, 292 Spagnoletti Giovanni 110, 286 Spajic Suljo Peter 293 Sparti Pepa 287 Spinazzola Vittorio 103, 286 Sposito Carletto 292 Stallybrass Oliver 282 Stefani Niksa 141, 293 Sterbini Maria 292 Sterpa Egidio 166 Sticca Giacomo 291 Stojkoric Aca 293 Stone Emery 40 Stoppa Paolo 91, 96, 291 Tachetti Enrico 289 Tagliavia Adriano 295 Talarico Vincenzo 290 Tatic Branko 293 Taviani Paolo 87 Taviani Vittorio 87 Tedeschi Mario 193 Tellini Piero 31 Teodori Euro 293 Terni Cialente Fausta 102, 192, 287 Terra Renato 292 Terzi Ottobono 166 Tilic Augusto 293 Tinazzi Giorgio 109, 201, 287 Toffetti Sergio 287 Tordi Pietro 291 Torelli Attilio 291 Torri Bruno 287 Tota Mario 294 Trani Eligio 291 Trasatti Luciano 290 Trionfo Cesare Aldo 291 Trombadori Antonello 39, 167, 190, 287

Trovajoli Armando 290, 295 Truchtenberg Peter 147, 287 Tucci Santina 292 Turcato Giulio 183 Tyler Parker 287 Ubinati Graziella 292 Ungaretti Giuseppe 26 Vaccari Luigi 287 Valeri Giovanna 38, 289, 292 Vallone Raf 65, 66, 87, 91, 96, 146, 151, 187, 188, 190, 193, 290, 291, 294 Vancini Florestano 174 Vandelli Maurizio 177, 295 Vanin Flavia 295 Vargas Llosa Mario 287 Varriale Gabriele 120, 290, 292, 293 Varzi Elena 91, 95, 291 Vassiliev Dimitri 295 Vaticone Vincenzo 291 Vedova Emilio 183 Vento Giovanni 287 Ventura Toni 295 Verdone Mario 287 Verga Giovanni 24, 25, 27, 33, 35, 36, 37, 110, 201, 273 Vergano Aldo 42, 177, 183, 287, 289, 296 Vertov Dziga 41 Vice 287 Vidor King 23, 31, 35, 36, 60, 70, 202 Vingeli Nino 162, 295 Virzì Ottavia 187 Visconti Luchino 9, 12, 13, 14, 22, 25, 26, 33, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 49, 107, 121, 122, 137, 138, 183, 189, 199, 200, 202, 274, 282, 284, 287, 289, 296

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Vitti Antonio 9, 10, 11, 12, 33, 58, 287 Vittorini Elio 59, 282 Vlady Marina 110, 112, 292 Vrdoliak Antun 293 Vrhovec Ivo 293 Wagner Jean 287 Wagstaff Christopher 287 Wipf Louis 291 Wood Robin 288

Zagarrio Vito 80, 81, 288 Zagota Zrlimir 293 Zampa Luigi 107, 199 Zancan Marina 201, 287 Zangrandi Ruggero 22, 288 Zardini Pietro 295 Zavattini Cesare 10, 31, 50, 75, 87, 91, 94, 99, 107, 109, 113, 120, 121, 122, 131, 189, 190, 191, 202, 279, 288, 289, 291 Ždanov Andrei Aleksandrovič 288 Zola Émile 22

Yanakiev Ya. 295

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 presso la Digital Team – Fano (PU) Printed in Italy

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