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Italian Pages [225] Year 2020
ANDREA CIAMPANI
Giulio Pastore (1902-1969) Rappresentanza sociale e democrazia politica
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium “Cultura” ed “Universale” sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Copyright © 2020 by Ed izioni Stud ium - Roma ISSN d ell a col l ana Cul tura 2612-2774 ISBN 978-88-382-4937-2 www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838249372 Questo l ibro è stato real izzato con StreetLib Write http://write.streetl ib.com
Indice dei contenuti INTRODUZIONE I. AZIONE CATTOLICA, SOCIALE E POLITICA (1902-1949): L’IMPEGNO CIVILE DALLA FINE DELL’ITALIA LIBERALE ALLA COSTRUZIONE DI UN REGIME DEMOCRATICO II. L’INNOVAZIONE (1950-1958): IL SINDACATO DEI LAVORATORI COME CLASSE DIRIGENTE III. UN PROBLEMA APERTO (1959-1969): LA RAPPRESENTANZA SOCIALE NELLA REPUBBLICA DEI PARTITI BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE ARTICOLI E INTERVENTI DI GIULIO PASTORE AVVERTENZA Farisei Per una nostra cultura Cinque mesi d’unità sindacale Dello sciopero politico La CGIL unitaria e la politica dei comunisti La stampa e i sindacati L’esperimento unitario Il settarismo nel sindacato Sindacato e azione politica Le ACLI e l’unità sindacale Le attività ricreative Governo e CGIL Un sindacato centralizzato La formazione dei quadri
Politica sociale e sindacalismo libero Un assurdo Il sindacato nella vita del paese La nostra posizione L’unità Europea La mentalità padronale Forza della CISL Per il Paese
L’impostazione economica fatta dalla CISL è valida per la libertà e il benessere del mondo La posizione del lavoratore italiano La politica del pieno impiego Il salario dei lavoratori La congiuntura economica internazionale
Perché la CISL è contraria al progetto di legge sindacale La divisione dei lavoratori
Il diritto di sciopero
Sindacati e partiti
L’autonomia del sindacato
Un fatto e tre conferme del sindacalismo democratico No al paternalismo, sì al dibattito interno No al paternalismo Il problema dei giovani e l’incidenza sulla cultura Il solidarismo La collaborazione col PSI Per uno Stato democratico
Sul distacco dell’Iri dalla Confindustria Sul Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Classi nuove e sviluppo del Mezzogiorno I quadri meridionali I contratti di lavoro Il ruolo del sindacato e la volontà politica
Fiat: il significato di una vittoria. W i lavoratori di Torino! Il sindacato leva principale per una politica di sviluppo economico Politica di programmazione, Stato, società e democrazia Centro-sinistra, partito e pa rtecipa zione sociale Vuoti giuridici o vuoti politici? Progresso industriale, riequilibrio territoriale, impresa e persona Potere, governo e partiti Azione sindacale e intervento legislativo Far parlare gli iscritti La ripresa del discorso INDICE DEI NOMI CULTURA STUDIUM
CULTURA Studium 208. Storia
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A Fausto Fonzi e Vincenzo Saba
INTRODUZIONE UN PROTAGONISTA DEL CATTOLICESIMO SOCIALE NEL PANTHEON DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA
Sono trascorsi cinquant’anni dalla morte di Giulio Pastore, un evento che appare lontano nel tempo e quasi relegato nel secolo passato, cui appartiene la sua novecentesca vicenda personale. La stessa percezione di un’impressionante accelerazione nel mutare dei tempi sembra porre tra quella esperienza storica e le dinamiche socio-politiche attuali una distanza ulteriore. L’estraneità della figura di Pastore dal tempo presente, peraltro, viene accentuata talora dalla commemorazione retorica o dal suo recupero in vuota forma apologetica per iniziativa di classi dirigenti che l’avvertirono a lungo con fastidio. Tuttavia, non troppo paradossalmente, oggi è proprio la ricerca storica che ci riconsegna, sfrondato da letture e interessi contingenti, il profilo di Giulio Pastore come quello di un protagonista fondamentale per la società italiana all’interno della storia nazionale ed europea. Già alla sua morte nell’ottobre 1969 – nato nel 1902 Pastore aveva vissuto tutte le maggiori trasformazioni sociali, politiche ed economiche che segnarono il “secolo breve” – si potevano valutare i risultati raggiunti dalla sua azione. Se l’autunno sindacale di quell’anno si caratterizzò per il definitivo riconoscimento della dignità della persona che lavora, della centralità dell’esperienza del lavoro e dell’esigenza di rappresentanza sociale in uno Stato democratico, non è possibile ignorare il contributo decisivo che Pastore aveva dato per conseguire tali obiettivi. Nondimeno, dopo aver partecipato al percorso di edificazione politica dell’Italia repubblicana, al processo d’intensa industrializzazione e alla realizzazione di effettive relazioni industriali nel Paese, in quell’anno cruciale anch’egli aveva potuto considerare le molte ombre che ancora incombevano sull’opera da lui avviata. La prevalente cultura politica nazionale, nella sua tradizione istituzionale novecentesca e nelle componenti ideologiche che costituivano la “repubblica dei partiti”, mostrava ancora difficoltà a comprendere l’emergente esigenza di soggettività di un’ampia fascia di popolazione che, introdotta in un cammino di emancipazione economica, culturale e sociale, stava faticosamente ritrovandosi nel sindacato come attore sociale. Mentre la vasta mobilitazione popolare e l’ampio consenso alle rivendicazioni contrattuali delineavano un volto pubblico del lavoro organizzato, non più oscurabile nello sviluppo della vita socioeconomica dalle paternalistiche attitudini dell’impresa privata o dall’intervento
statale nelle dinamiche sociali, così, l’autunno 1969 ripropose nel dibattito pubblico una riflessione d’ampio respiro sui rapporti tra partecipazione sociale e rappresentanza politica [1] . Ad impostare correttamente tali dinamiche si era sempre dedicato Giulio Pastore nei diversi ambiti della sua esperienza civile. Dopo aver avvertito il problema irrisolto nel periodo della formazione giovanile a Borgosesia e Varallo e messa a fuoco la questione durante il fascismo tra Monza, Novara e Roma, egli coltivò nella riscossa delle libertà sociali e politiche la ricerca di un loro corretto equilibrio nella costruzione dell’Italia repubblicana. Poco dopo Pastore non esitò ad assumere la responsabilità di iniziative determinanti per congiungere protagonismo sociale e riformismo politico in Italia. Prima impostò l’audace opera di emancipazione del sindacato dalla tutela dei partiti, che venne, infine, avviata dando vita alla Cisl nel 1950; poi pose al centro della sua azione istituzionale e politica l’apporto positivo degli attori sociali nel laboratorio democratico italiano, continuando la sua opera come ministro per il Mezzogiorno e per le aree depresse del Paese presenti nell’Italia centrale e settentrionale. Insistentemente nel secondo dopoguerra Pastore richiese alla politica di non isolarsi dalle dinamiche trasformazioni della vita collettiva collegate al mondo del lavoro e di riconoscere la rappresentanza sociale che da quella veniva sempre più rivendicata con consapevole emergenza. Anche grazie alla sua innovativa iniziativa in molteplici campi d’azione, in Italia riuscì a radicarsi una diffusa soggettività sociale del mondo del lavoro che, a lungo misconosciuta da gran parte degli imprenditori e dei politici nell’avvio della democrazia repubblicana, alla fine degli anni Sessanta non poteva più essere negata, ormai congiunta ad una potente istanza di partecipazione di vecchie e nuove generazioni di lavoratrici e di lavoratori. Restavano presenti, al momento della morte di Pastore, le difficoltà a trasferire quella partecipata esperienza in un maturo attore sociale, capace di promuovere con responsabilità collettiva la crescita civile del Paese. A buon diritto, dunque, la personalità di Pastore ha meritato di essere inserita nel «monumento storico dell’identità civile» dell’Italia qual è il Dizionario Biografico degli Italiani [2] . In modo più nitido di ieri, la figura di Pastore può richiamare l’attenzione di giovani classi dirigenti che intendono offrire un loro contributo a processi di partecipazione sociale nel tempo presente, nel ripensare e nel realizzare la rappresentanza sociale in una democrazia politica. Per cogliere, tuttavia, il lascito di Pastore nella realtà d’oggi come «preziosa eredità per tutti» [3] – non solo dunque per il sindacato da lui fondato e per il mondo politico a lui vicino – occorre evitare di «fissare la figura di Pastore in alcuni schemi precostituiti», confinandolo in una agiografia tale da giungere «quasi a sterilizzare i rapporti reali» da lui coltivati con la continua trasformazione sociale, da cui prendeva spunto la sua iniziativa. D’altra parte, l’azione di Pastore trovava alimento nella «coscienza che animava la sua personalità»; coloro che l’avvicinarono potevano avvertire «dietro quello che diceva sul piano operativo» un’affermazione sicura di convincimenti etici «che non scendeva mai nella predica: tutti percepivano che quello era un uomo che credeva nelle cose che diceva» [4] . Libertà d’iniziativa misurata sulla conoscenza dei processi in movimento e fermezza di profondi convincimenti consentirono a Pastore un
profondo rispetto per uomini e imprese sociali e politiche coinvolte nel positivo cambiamento di un Paese sviluppatosi tra pressanti contraddizioni. Dalla sua permanente immersione nel tessuto popolare italiano, a partire dagli ambienti di lavoro e dalla vita delle comunità locali, Pastore trasse alimento per un’opera dal respiro nazionale, europeo e internazionale, grazie al consapevole maturare di una visione socio-politica dagli ampi orizzonti, perseguita con una determinazione talora considerata ingenua, precoce o illusoria. Egli riuscì a conseguirla attraverso una continua ricerca di personalità in grado di illuminare la strada e di compagni di cammino con i quali confrontarsi. Nel suo procedere tre fattori principali, tra loro strettamente connessi, emergono come caratteri decisivi della sua azione. In primo luogo, la comprensione della realtà: il riconoscimento della centralità della dimensione culturale e dei processi formativi necessari per operare riforme sociali e politiche alimentò una leadership sicura, la tensione all’ascolto, un dialogo aperto quanto serrato. In secondo luogo, il rischio innovativo: misurando i limiti derivanti dalle condizioni di difficoltà che egli affrontava, Pastore seppe indirizzare un continuo ripensamento (anche nei confronti delle scelte da lui effettuate) per delineare radicali interventi per la crescita del lavoro e della sua rappresentanza in una società democratica. Infine, la capacità realizzativa: egli intese orientare le aspettative di emancipazione personale e collettiva, grazie alle doti organizzative coltivate nel tempo, all’attuazione concreta di continui interventi di progresso civile in diversi campi d’azione sociale e politica. Per facilitare la conoscenza e la comprensione del lascito di Giulio Pastore, dunque, può essere utile ancora oggi soffermarsi a rileggere alcuni dei suoi interventi offerti in diverse occasioni e momenti, collocando in un contesto storico le considerazioni personali o quelle maturate assieme ai suoi collaboratori nei differenti campi d’azione. Le pagine che seguono, perciò, ripercorrono la biografia di Pastore, senza pretesa di esaustività, per sollecitare un’ulteriore riflessione sull’orizzonte della sfida da lui assunta, comunque centrale per il riformismo contemporaneo: assicurare la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori ai processi di formazione delle decisioni socio-economiche attraverso una rappresentanza sociale in grado di dare un apporto positivo, in un contesto di libertà associativa, allo sviluppo della democrazia.
[1] Cfr. L’autunno sindacale del 1969, a cura di A. Ciampani, G. Pellegrini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013; A. Ciampani, Profili storici e snodi socio-politici del 1969, in «Economia & Lavoro», LI, 2017, 3, pp. 39-54; A. Ciampani, L’Autunno caldo. Settembre 1969, in Istituzioni politiche e mobilitazioni di piazza, a cura di A. Ciampani, D.M. Bruni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 185-212. [2] Oltre a V. Saba, Giulio Pastore sindacalista. Dalle leghe bianche alla formazione della CISL (1918-1958), Edizioni Lavoro, Roma 1989, per un rapido profilo ora A. Ciampani, Pastore, Giulio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 81, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2014, pp. 685-689, anche http ://www.treccani.it/enciclopedia/giulio-pastore_%28Dizionario-Biografico%29/. [3] Cfr. la testimonianza di mons. F. Fasola (nel 1929 assistente diocesano di Azione cattolica e dal 1954
vescovo in Sicilia) in «Il Nuovo Osservatore», 84/85, novembre-dicembre 1969, pp. 332-336. [4] Cfr. l’intervista del 2009 a V. Saba, Giulio Pastore: le salde ragioni di un leader sindacale, ora in «Sindacalismo, Rivista di studi sull’innovazione e sulla rappresentanza del lavoro», 39, gennaio-aprile 2019, pp. 9-10.
I . A Z I O N E C AT T O L I C A , S O C I A L E E P O L I T I C A (1902-1949): L’IMPEGNO CIVILE DALLA FINE D E L L ’ I TA L I A L I B E R A L E A L L A C O S T R U Z I O N E D I U N R E G I M E D E M O C R AT I C O
La Valsesia, incastonata nel versante meridionale del Monte Rosa del Piemonte orientale, nel Novecento è stata terra di emigrazione. Anche la famiglia operaia di Pietro e Teresa Pastore conobbe questa drammatica esperienza sociale, così che il figlio Giulio nacque a Genova il 17 agosto 1902. Tuttavia già nel 1905 il nucleo familiare era dovuto tornare nella sua valle. Il padre invalido e la madre assunta per lavorare a cottimo per la fabbrica Manifattura Lane, il bambino trascorse la sua infanzia tra il greto del fiume Sesia, la scuola di Aranco e il circolo educativo cattolico di Borgosesia. Era un cattolicesimo quello della diocesi di Novara che, sotto la guida di mons. Giuseppe Gamba, perseguiva l’indirizzo di Leone XIII di restituire a Cristo la vita dei popoli e delle nazioni, sollecitando un ampio spettro di associazioni religiose e sociali, sostenute con enti economicosociali ed animate da proprie iniziative editoriali. Nel 1912 si istituì a Varallo la Federazione dei circoli cattolici valsesiani; nello stesso anno Giulio Pastore compiva la sua prima formazione religiosa ricevendo la cresima dalle mani del vescovo. Poco dopo, i continui mutamenti del mercato del lavoro e lo sviluppo dell’associazionismo operaio nel travaglio sociale dell’Italia giolittiana giunsero ad investire l’ambiente cattolico della famiglia Pastore, che si trovò a difendere nel maggio 1914 la libertà associativa accanto alle leghe socialiste: anche la mamma di Giulio venne licenziata durante la protesta sociale, per essere riassunta nell’estate seguente. Nel drammatico frangente, appena compiuti dodici anni, lo stesso ragazzo fu assunto nel reparto filatura della fabbrica. Seguirono i tempi di lavoro scanditi dall’economia di guerra dopo l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale: nello stesso periodo la vivace aspirazione di emancipazione del ragazzo iniziò a segnalarsi al clero locale. Con l’elezione di Benedetto XV il progetto del papa della Rerum novarum ebbe nella diocesi una rinnovata spinta: nella riorganizzazione del mondo cattolico dell’agosto 1917 un incontro dell’Unione popolare a Varallo ospitò l’intervento di Giuseppe Toniolo in vista dell’opera da impostare nel dopoguerra. In contatto con l’associazionismo cattolico valsesiano giungevano all’ombra del Sacro Monte di Varallo anche importanti figure del
cattolicesimo lombardo, come Guido Miglioli, Francesco Olgiati e Agostino Gemelli. È in tale contesto che Pastore iniziò a segnalarsi per la sua entusiastica partecipazione nel giugno 1918 alla fondazione del circolo Giosuè Borsi di Borgosesia con altri cinque studenti. La conclusione della guerra introdusse nuovi processi economici e tensioni sociali, nei quali il giovane Giulio si trovò ad operare scelte decisive, sulle quali incise anche la morte del padre nel 1919: dopo aver accettato di essere riassunto nella fabbrica dalla quale era stato licenziato all’inizio dell’anno, nell’aprile 1920 lasciò il posto per assumere a tempo pieno l’incarico di ‘propagandista di plaga’ della federazione giovanile cattolica, alla vigilia del primo convegno dei giovani novaresi dedicato a commemorare la Rerum novarum. Non fu quella di Pastore una scelta impulsiva, ma coerente con l’impegnativa attività svolta negli anni precedenti, nei quali aveva anche assunto la presidenza del circolo che aveva contribuito a fondare: una scelta accompagnata e sostenuta dal clero valsesiano che aveva individuato un’energica risorsa nel carattere limpido e deciso del giovane. La costituzione della Confederazione italiana dei lavoratori nel 1918 (CIL) e del Partito popolare italiano (PPI), che aveva aperto una sezione a Varallo nel febbraio 1919, costituirono anche per l’associazionismo cattolico in Valsesia un impegno organizzativo fuori dall’ordinario. La proposta di riconquista cattolica della società nel periodo post-bellico, d’altra parte, venne osteggiata dalle locali oligarchie liberali di tradizione massonica, così come dall’anticlericale mobilitazione socialista che vedeva nel cattolicesimo organizzato nella valle un pericoloso concorrente alla penetrazione nei ceti operai e contadini del conflitto di classe. Pastore ne fece dolorosa esperienza nel 1919: mentre al lago d’Orta il vescovo organizzava una settimana sociale per i giovani militanti cattolici, questi si trovavano ad affrontare la violenza socialista che non risparmiò pubbliche cerimonie religiose [1] . Contemporaneamente, la percezione dell’azione politico-sociale come riflesso nella dimensione pubblica dell’apostolato religioso, sostenuta dalla solidale cultura cattolica e confermata dalla stessa opposizione esterna, sollecitò una sempre maggiore polarizzazione nel mondo cattolico valsesiano e novarese tra personalità di formazione clerico-moderata ed esponenti del cristianesimo sociale, come presto emerse anche nelle dinamiche organizzative del locale PPI, cui aderirono nel maggio 1920 le Unioni del lavoro del novarese. La formazione sociale e civile di Pastore, che curava da autodidatta il completamento della propria istruzione, continuò all’interno di questo movimento sociale cattolico. Mentre procedeva la riorganizzazione dell’Azione cattolica del vescovo secondo le linee del pontificato, si iniziava a porre in diocesi la questione dell’autonomia della organizzazione sindacale “bianca” e dell’azione pratica del laicato, che la dirigeva, rispetto alla guida del clero. Per Pastore, peraltro, tale dibattito doveva apparire ancora lontano, impegnato com’era a percorrere in bicicletta la vallata per conferenze di propaganda nelle parrocchie e per la fondazione di nuovi circoli cattolici. L’accendersi nel 1921 in chiave anticlericale della lotta contro il «partito di sagrestia» – nella quale al mondo liberale e socialista ora si aggiungeva il movimento fascista, sorto nel 1920 anche nel novarese – mirava ad indebolire il Partito popolare ed incrinare lo stretto legame tra azione sindacale e presenza
organizzata dell’Azione cattolica (AC). I militanti cattolici risposero serrando le fila, rafforzando la stampa, moltiplicando occasioni di formazione spirituale e di devozione pubblica, sostenuti dalla lettera pastorale del vescovo Ritorniamo a Dio. Così nell’aprile 1921 Pastore aveva costituito la zona Alta Valsesia tra undici circoli cattolici, assumendone la presidenza, e seguiva come commissario l’organizzazione dell’Unione del lavoro di Borgosesia; quando in giugno partecipò attivamente al primo congresso della Gioventù cattolica (GIAC) del novarese, entrò nella nuova presidenza federale. Nei mesi seguenti, anche per tale incarico, egli promosse l’«Avanguardia cattolica» deliberata al congresso, in un clima di «spiritualità bellica», che il contesto socio-politico della “vittoria mutilata” e del “biennio rosso” aveva contribuito a mantenere viva. Si trattava di raccogliere e formare i migliori giovani cattolici, come modello di fortezza e di pratico sostegno organizzativo alle cerimonie religiose e d’apostolato pubblico. Nell’agosto 1921 il lavoro dell’ardente militante cattolico fu notato da Achille Grandi che coinvolse Pastore in un breve periodo di formazione sindacale nella sua Monza, per affidargli la segreteria della sezione valsesiana dell’Unione del lavoro della CIL nel settembre seguente. Alla fine dell’anno iniziarono a comparire i primi articoli di Pastore su «Il Monte Rosa», giornale sostenitore di un cattolicesimo sociale che, secondo l’invito di Leone XIII, doveva uscire dalle sagrestie. Alla fine dell’anno, così, Pastore si trasferì con la mamma da Borgosesia a Varallo, dove arrivava con gravi responsabilità a compimento della scelta compiuta due anni prima. Avanguardista cattolico, sindacalista bianco e giornalista diocesano, la personalità del giovane Pastore doveva rafforzarsi nella coscienza d’un apostolato che costituiva il centro unificante delle sue attività. Nei due anni seguenti egli rafforzò il suo legame col cattolicesimo sociale lombardo, perfezionando la sua preparazione di tecnica sindacale, in un ambiente particolarmente attento alla formazione educativa e culturale. Pastore lo riprodusse nel suo lavoro di animatore dei circoli della gioventù cattolica novarese che raggiunsero quota 100 nel 1923. Intanto la vita religiosa, sociale e politica della Valsesia doveva confrontarsi con l’ascesa del fascismo che, dopo gli scontri cruenti del luglio 1922 nel novarese, iniziò a collegarsi più strettamente con le classi dirigenti locali intenzionate a normalizzarlo. Pastore, schieratosi con l’ala sociale del Partito popolare che respinse l’ingresso nel governo Mussolini seguito alla marcia su Roma, si contrappose al progressivo affermarsi del fascismo in Valsesia. Al solenne e ordinato svolgimento del Congresso eucaristico a Novara, Vercelli e Biella del 1923, seguì il riaccendersi della polemica anticlericale nelle valli del Piemonte orientale, accompagnata dalle istruzioni prefettizie per ridimensionare le organizzazioni delle ‘avanguardie cattoliche’; infine, dopo un crescendo di violenze e intimidazioni contro i militanti cattolici, nel luglio 1923 gli squadristi assaltarono la tipografia de «Il Monte Rosa», nel quale Pastore stava assumendo un ruolo sempre maggiore. Si giunse, infine, nel luglio di quell’anno ad una pacificazione tra cattolici e fascisti, che si impegnarono a rispettare le iniziative dell’Azione cattolica per la diffusione della dottrina religiosa e dell’azione spirituale anche in ambito pubblico. L’azione di Pastore, così, continuò a dispiegarsi incessante nell’ambito della Federazione dei circoli cattolici e
nell’opera di rappresentanza sociale. Infatti, se la riforma degli statuti dell’AC aveva dato motivo di una ripresa della polemica sulla apoliticità dell’associazione, dopo le polemiche sull’autonomia delle organizzazioni professionali si strinsero i contatti tra militanza cattolica e la CIL, a seguito dei rinnovati attacchi del sindacalismo fascista. In tale dinamica, indebolitasi la mediazione politica del Partito popolare, la gerarchia cattolica continuò sulla strada di un rapporto diretto con le istituzioni locali, come evidenziò un accordo che sanò nel febbraio 1924 un’annosa controversia giuridico-amministrativa sul Sacro Monte di Varallo. Dopo le successive elezioni politiche e l’assassinio di Matteotti, tuttavia, nell’estate seguente la situazione tra i cattolici sociali e il fascismo novarese precipitò. Mentre nella polemica pubblica denunciava i limiti dell’interventismo repressivo dello Stato nella vita sociale e i miti dei «falsi nazionalisti», nel dicembre 1924 Pastore fu chiamato a Monza per dirigere «Il Cittadino», giornale della direzione delle Opere cattoliche, allora tornato nella sua sede dopo la distruzione della tipografia per opera della violenza fascista. Accanto ad Achille Grandi, per due anni il giovane direttore completò la sua formazione politica, popolare e antifascista, in una città centrale per lo sviluppo di un cattolicesimo sociale impegnato nella fattiva organizzazione di opere e associazioni dove far vivere l’anelito religioso e di libertà civile che l’animava. Qui Pastore continuò la ‘buona battaglia’ di una fede in grado di dare giudizi sulla vita pubblica, stigmatizzando il moralismo clericale distante dal perseguire una giustizia sociale e incline all’ipocrisia di fronte all’ordine fascista. Dalle pagine de «Il Cittadino», nel 1925 egli richiamò una visione del cattolicesimo che rispecchiava tutta la sua formazione giovanile: Il cattolicesimo è, anzi tutto, vita vissuta; religiosamente: ossequiando Dio col frequentare i suoi templi e coll’accostarsi ai S.S. Sacramenti; pubblicamente: conformando la propria vita ai dieci comandamenti della legge di Dio, nessuno escluso; socialmente rispettando i canoni di amore al prossimo, di giustizia, di carità e di libertà, sì anche di libertà [2] . Questo sovrapporsi tra dimensione religiosa, profilo sociale ed impegno civile per la libertà nell’iniziativa del laicato cattolico costituirà anche il tessuto umano dei successivi vent’anni di vita di Pastore. Vivere il cattolicesimo per lui significava essere portatori di una morale e di una cultura irriducibili ai modelli proposti dal regime fascista: nel suo operare il laicato cattolico non aveva bisogno di una qualifica o di un attributo assegnategli dalla polemica politica, spesso con l’intento di colpirlo e di isolarlo. Uno stile di vita così delineato, peraltro, necessariamente era frutto di una educazione approfondita che sembrava a Pastore trascurata dai giovani coetanei, che proprio per fragilità culturale sembravano cedere alle sirene della propaganda del regime e del disimpegno: Ecco un problema che fa sovente capolino nei dibattiti e nelle discussioni di casa nostra. La cultura, questa dea, che già in altri tempi era la chiave di volta di ogni attività, poiché nessuno osava avanzarsi sulla scena della vita pubblica, sia nel campo dell’arte, che della letteratura, che della politica, senza che possedesse metà dello scibile [...]. E la contestazione tocca specialmente i giovani; i vecchi, gli
anziani, per la verità, c’insegnano che in altri tempi, i libri, i convegni di studio, erano la fonte inesauribile a cui si ricorreva frequentemente [...]. Quanto oggi si trova di formulato in ordine ai problemi sociali, ai programmi politici, e alla stessa azione cattolica strettamente intesa, tutto si deve alle menti vissute allora; menti che ebbero il loro massimo travaglio nel discutere e nel selezionare, in confronto alla dottrina fondamentale della Chiesa, quanto da altri campi, liberalismo, socialismo e nazionalismo era portato nell’agone [3] . La sottolineatura sulla formazione culturale resterà un tratto tipico della prospettiva organizzativa e d’azione del ventenne Giulio Pastore. Egli iniziò ad avvertire la debolezza di un mondo cattolico condotto ad enfatizzare solo l’istruzione religiosa. In tale quadro si colloca la sua critica ai «neocattolicisti», ai «farisei», a coloro che facevano solo mostra d’ossequiare la gerarchia cattolica ed i suoi interventi, proponendo «la religione come qualcosa al di fuori e al di sopra di tutta la materialità della vita» [4] . D’altra parte, se la pressione del regime politico poteva facilitare la riduzione dell’azione cattolica all’intimismo dell’esperienza di fede o viceversa provocare la confusione di diversi piani d’azione, era percepibile la preoccupazione apostolica di una Chiesa attenta ad evitare che una militanza cattolica condotta nel campo socio-politico introducesse nella vita comunitaria dinamiche politiche tali da provocare divisioni interne [5] . Pastore ne aveva ben presenti gli effetti nel novarese. Proprio per sottrarre l’azione dei cattolici alla visione della vita sociale imposta da un ambiente incubatore di dinamiche totalitarie, egli tornò a insistere sulla necessaria preparazione culturale: Vi è una cultura minuta, prettamente religiosa, che forse più che cultura è opera di integrazione nella formazione spirituale delle anime; questa è data in quei semenzai miracolosi e provvidi che sono gli Oratori; riconosciamo che di qui ci sono sovente forniti i capitani per le più vaste e generali conquiste; ma questa non è bastante, gli orizzonti aperti all’Azione Cattolica, alla Chiesa stessa sul terreno sociale e politico esigono, nei militi e nei dirigenti, un possesso completo e perfetto della dottrina in rapporto a tutta la vita dell’uomo, a tutte le attività del medesimo [6] . Questo approccio di Pastore al ruolo sociale e politico della cultura costituisce un elemento essenziale per comprendere la profonda coerenza con la quale egli restò disponibile a riconsiderare nel tempo la sua opera: certezze sullo scenario di riferimento e continuo riesame critico delle prospettive d’azione. Si comprende meglio, così, anche la visione unificante della vita con la quale egli attraversò il difficile passaggio che seguì immediatamente la costituzione di una famiglia, col matrimonio con Maria Marchino nel maggio 1926: nel novembre seguente, infatti, i suoi richiami alle libertà politiche e alla difesa della legalità istituzionale contro il regime fascista provocarono la sospensione de «Il Cittadino» e Pastore fu costretto a tornare in Valsesia. Per superare la disoccupazione e trovare un sostentamento ai figli che vennero tra il 1927 e 1930 (Pierfranco, Mario e Teresa), a Novara accettò un lavoro di fattorino al Piccolo Credito Novarese, poi acquisito dall’Istituto S. Paolo, dove lavorò come impiegato [7] . Poteva riprendere, nel frattempo, la sua azione cattolica nella parrocchia di S. Andrea, presiedendo il circolo S. Giorgio,
tornando a scrivere su «Il Giovane Piemonte», foglio della federazione diocesana, organizzando convegni, congressi eucaristici e pellegrinaggi dei malati a Lourdes. Vietatagli l’azione socio-politica, dunque, Pastore non cessò l’impegno pubblico nella Federazione della Gioventù cattolica novarese: il suo presidente Luigi Gedda lo volle nel 1929 responsabile della “Buona stampa” e dal 1930 al 1931 suo vicepresidente; poco dopo il militante valsesiano passò alla direzione della locale federazione degli uomini d’AC. In questo contesto ogni occasione era buona per sottolineare l’alterità della vita cattolica rispetto allo stile di vita fascista, enfatizzata nella presentazione dei valori di una «gioventù pura» organizzativamente contrapposta ai comportamenti violenti, materialisti e immorali attribuiti al regime [8] . In tale prospettiva sollecitato da Gedda, che collegò il segretariato della cultura con quello della buona stampa, Pastore avviò e diresse un foglio umoristico cattolico «La Giraffa», che uscì dall’ottobre 1931 al luglio 1933, quando fu soppresso dall’autorità prefettizia. La posizione critica del cattolicesimo organizzato rispetto al regime fascista era espressa attraverso un ammodernato «umorismo manzoniano», con rinvii più o meno espliciti non solo al magistero pontificio, ma alla dottrina sociale per investire grandi temi che andavano ben oltre la realtà del mondo giovanile. Il giornale coltivò anche un’ambizione nazionale, unica iniziativa dei cattolici italiani che – pur senza avere una veste ufficiale – collegava l’apostolato all’umorismo, esercitando per tale via giudizi critici sugli avvenimenti della vita nazionale, partendo anche dagli eventi sportivi e cinematografici per giungere a toccare temi di costume e problemi sociali [9] . Con un vissuto affidamento all’intervento provvidenziale, sopraggiunta la morte della moglie, Pastore decise di sposare Elisa Cavigioli (negli anni seguenti la famiglia divenne più numerosa, con l’arrivo dei figli Luisa, Luciana, Paolo, Valeria, Giancarlo, Giorgio) e di accogliere l’invito di Gedda, ormai a capo della Gioventù cattolica nazionale, di andare a Roma nel 1935 per lavorare a tempo pieno nell’Azione cattolica (come dirigente dell’Ufficio tecnico della presidenza nazionale curò in particolare l’anagrafe dei giovani cattolici). Lo coinvolse nella presidenza della GIAC la percezione del ruolo pubblico della fede attraverso le organizzazioni cattoliche, sfidando l’ideologia fascista e gli stereotipi culturali della retorica anticlericale e dell’indifferentismo borghese; l’attivismo spirituale geddiano mirava a suscitare una militanza cattolica moderna per «un mondo cristianamente animato». Al momento di conoscere a Roma Giulio Pastore, un altro protagonista della gioventù cattolica nazionale, Giuseppe Lazzati fu colpito dalla sua fede schietta ma non bigotta, da «un senso pratico, di concretezza che faceva di lui quel capace organizzatore cui si dovette, in gran parte, se negli anni Trenta la GIAC seppe darsi una struttura organizzativa e una forza che costituiva motivo di invidioso livore per il regime intollerante di organizzazioni sfuggenti al suo potere» [10] . In effetti, curando un tesseramento della gioventù cattolica strutturato per diocesi, Pastore predispose visite dei responsabili nazionali laddove necessario per superare limiti e localismo che indebolivano lo sviluppo associativo dell’Azione cattolica; nel Mezzogiorno d’Italia, in particolare visitò il Beneventano, il Molise, la Lucania, la Puglia, incontrando popolazioni le cui condizioni sociali e reti comunitarie poteva associare a quelle dei lavoratori delle sue vallate piemontesi.
Nello stesso tempo Pastore non cessò di occuparsi della buona stampa e dell’impresa editoriale dell’AVE collegata alla stessa Azione cattolica. Accentuatasi dopo la metà degli anni Trenta la distanza tra cultura cattolica e regime, proprio questo editore provvide a far conoscere i messaggi natalizi di Pio XII del 1941 e del 1942 (riprodotti nel 1943 nel volumetto I messaggio sulla questione sociale), in cui il pontefice invitò i cattolici a una rinnovata azione civile. In quelle parole risuonava l’invito che Pastore aveva fatto a sé e ai suoi amici nel 1926, a mantenere viva la fiamma dell’impegno sociale e civile attraverso lo studio e la cultura, in attesa del tempo in cui riproporre gli ideali di libertà in una società democratica [11] . Intanto, egli ebbe modo di conoscere l’ambiente cattolico antifascista romano e di partecipare nel 1942 ai primi gruppi clandestini che promossero la Democrazia cristiana (DC). La fiducia di Pastore in una «democrazia salda nei suoi valori di libertà» era ancora ben visibile quando all’inizio del 1943 Giuseppe Lazzati lo ritrovò accanto a sé «una sera a casa di amici, presente De Gasperi, per intrecciare le fila di quella resistenza che avrebbe restituito l’Italia alla libertà. Anche in quella occasione le sue doti si manifestarono: non grandi discorsi ma chiarezza di impostazioni subito tradotta in direttive animate da grande fede» [12] . Ormai quarantenne Pastore poteva riallacciare alla sua formazione prefascista i nuovi compiti che allora si prospettavano, sospinto inizialmente dallo spontaneo sovrapporsi tra apostolato religioso, impegno politico e sociale. La sua partecipazione alla costituzione della Democrazia cristiana lo mise in contatto con Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Guido Gonella e Giuseppe Spataro, che riunì talora a casa sua, talora nella stessa casa editrice AVE: dopo l’8 settembre 1943 fu membro della commissione centrale della DC e del comitato d’agitazione interpartitico. Mentre Gedda proponeva l’azione cattolica come perno della ripresa civile del Paese nel periodo badogliano, Pastore piuttosto aveva ripreso a lavorare di nuovo a stretto contatto con Grandi, nominato commissario nazionale della ex Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura. Accanto a Grandi e Gronchi egli seguìle trattative, avviate d’intesa con De Gasperi, per verificare le condizioni di una possibile unità sindacale assieme ai socialisti di Buozzi e ai comunisti di Di Vittorio, negoziato presto reso più complesso dalla clandestinità in cui dovettero entrare molti leader durante l’autunno 1943. Nel marzo 1944, tuttavia, erano ancora molti i punti di contrasto nel delineare un possibile sindacato unitario, tanto opportuno nella lotta antifascista, quanto difficile da realizzare sul piano dei principi e della pratica sindacale: erano elementi di freno la tendenza socialista e comunista a considerarla principalmente un mezzo di mobilitazione politica, l’impreparazione del mondo cattolico dopo un ventennio d’inazione negli ambienti operai, le divergenze nella DC sull’ipotesi di un sindacato di diritto pubblico e sul significato politico da attribuire alla rappresentanza degli interessi. Pastore con Grandi, alla luce della sua esperienza, insisteva sull’accompagnare alle libertà politiche la libertà associativa della rappresentanza sociale. L’attivismo di Pastore per una ripresa sindacale, anche sul piano organizzativo e formativo, lo condusse tra gli esponenti del Comitato di liberazione che prepararono lo sciopero generale previsto nel maggio 1944 dalla resistenza romana: in tale frangente fu arrestato alla fine d’aprile mentre usciva dal Vaticano, con documenti e fogli del clandestino «Conquiste sindacali», di cui
fortunosamente riuscì a liberarsi prima di essere perquisito [13] . Rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, non rinunciò per quanto possibile ad animare l’attesa per il futuro democratico: l’immediatezza di scrittura nella stesura del manoscritto giornaletto satirico, «Radio Buiolo», che Pastore fece girare tra i carcerati testimoniava la permanenza delle aspirazioni di libertà coltivate nelle esperienze de «Il Cittadino» e de «La Giraffa». Il coinvolgimento di Pastore nel passaggio dalla lotta antifascista alla costruzione di un sistema democratico, tuttavia, avrebbe presto acquisito i contorni di una sofferta ricerca per conseguire una più articolata prospettiva d’azione. Uscito dal carcere dopo l’ingresso delle truppe alleate a Roma il 4 giugno, egli riprese con sempre maggiori responsabilità l’impegno politico e sindacale, trovando concluso l’accordo per una Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale tra gli esponenti sindacali socialisti, democristiani e comunisti (datata il giorno precedente la sua liberazione e più tardi nota come Patto di Roma), che diede vita alla Confederazione italiana generale del lavoro (CGIL). Pastore mostrò presto i suoi dubbi sulle modalità con cui si era giunti all’intesa, anche alla luce della morte di Buozzi e del tentativo comunista ad egemonizzare lo sciopero poi fallito, ritenendo prioritario l’obiettivo di costituire un sindacato realmente apartitico in un regime democratico. Nell’ufficio sindacale costituito dalla DC a giugno, così, egli si impegnò a creare un raccordo tra libere associazioni professionali e l’Azione cattolica, partecipando alla fondazione nell’agosto 1944 delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI), di cui fu segretario generale ancora una volta accanto al presidente Grandi. Per lui restava allora decisivo organizzare e formare una rappresentanza sindacale che consentisse l’espressione del mondo cattolico nell’Italia divisa dalla occupazione nazi-fascista: era ancora il tempo di una attiva preparazione per il futuro. Proprio in tale prospettiva Pastore rilevò sempre più chiaramente una contraddizione nel mantenimento delle tradizionali prassi organizzative sindacali prefasciste di subordinazione ai partiti all’interno del nuovo contesto democratico che si intendeva predisporre: Rimasta la prassi sono rimasti gli inconvenienti. Finanche la figura politica dell’organizzatore sindacale [...] con il sistema attuale finisce per involontariamente prevalere e di conseguenza divenire elemento di disgregazione. Nel tempo prefascista era frequentemente affermata la subordinazione morale del sindacato nei confronti del partito perché di fatto il meccanismo e i quadri del primo risentivano di un metodo più rispondente alla concezione del sindacato strumento di conquista politica [14] . La modificazione del quadro generale che realizzò la Liberazione nella primavera del 1945 in breve tempo portò in competizione i diversi centri d’indirizzo dell’azione dei cattolici nel campo religioso, sociale, e politico: tale processo si rifletté tra l’autunno 1945 e l’inizio del 1946 anche nei dissensi che iniziarono a manifestarsi tra Grandi (ancora nella segretaria generale del sindacato unitario), Gronchi (democristiano più volte ministro dell’Industria, del commercio e del lavoro) e il più giovane Pastore, eletto nel comitato direttivo della CGIL al
congresso del gennaio 1945 [15] . Quest’ultimo nei mesi seguenti evidenziò l’incrinatura nell’azione sindacale che stava provocando la sempre maggiore incidenza dei partiti (e del PCI in particolare). Pastore giunse a denunciare sulle stesse pagine del giornale della DC, nel dicembre 1945, la grave eredità storica di subordinazione del sindacalismo italiano ai partiti, che partendo dall’Italia giolittiana attraverso il Fascismo allora giungeva a minare la fase di edificazione democratica: «Del resto la concezione del sindacato estraneo alla vita politica è anche per l’Italia del tutto nuova, ché sul piano storico è da ricordare che anche da noi è largamente prevalsa in altri tempi, la tendenza a considerare la vita sindacale un’appendice della vita politica» [16] . A febbraio Pastore lasciò la segreteria generale delle ACLI, pur restando presidente del patronato: la sua posizione si era indebolita e messa ai margini delle iniziative dei «sindacalisti cristiani» della CGIL che chiesero alla DC di istituire uffici sindacali e di affidare la direzione della corrente alle ACLI. Impegnato ad imprimere un diverso orientamento rispetto al richiamo del sindacato “bianco”, Pastore accentuò il suo coinvolgimento nell’ufficio studi, propaganda e stampa della DC affidato ad Amintore Fanfani. Nell’aprile 1946 eletto nella Direzione nazionale democristiana come esponente degli amici di Giuseppe Dossetti, accompagnò il suo sforzo culturale immergendosi nell’azione: fu lui il segretario organizzativo della DC che curò la campagna elettorale del 2 giugno 1946 per l’Assemblea costituente. Eletto nel collegio Torino-Novara-Vercelli [17] , il suo profilo politico e sociale si mostrava accompagnato dalla «maturità dell’uomo che attraverso esperienze varie, lunga meditazione, sofferto impegno si era preparato ai compiti che ora lo occupavano tutto costituendolo a livelli di altissima responsabilità» [18] . Con tale portato esistenziale e politico, Pastore appariva consapevole che i nodi che avevano caratterizzato il percorso compiuto per edificare istituzioni democratiche non erano affatto sciolti. La strada per una loro coerente risoluzione avrebbe comportato ulteriori riflessioni e difficili scelte personali e collettive. Nell’azione concreta, certo, molti problemi parvero superabili con una leadership ormai riconoscibile: così nell’estate 1946 riuscì a coalizzare forze politiche e sociali della sua Valsesia per realizzare un Consiglio di Valle come esperienza di partecipazione sociale alla ricostruzione economica e sociale di un territorio che aveva scelto la via della Resistenza antifascista attraverso coraggiosi e dolorosi strappi. Il Consiglio si costituì nel settembre seguente sotto la sua presidenza, senza attendere sostegni istituzionali e puntando sul protagonismo associativo della realtà locale, restando allora «gemma più fulgida delle sue intuizioni associative» [19] . La morte di Grandi nel settembre 1946 creò un nuovo clima all’interno delle ACLI, nelle quali Pastore fu eletto nel consiglio nazionale durante il congresso dello stesso mese: poco dopo si istituì un Comitato d’intesa sindacale tra ACLI, Azione cattolica (ICAS), Coldiretti, DC e corrente cristiana. In ottobre, la direzione della DC designò Giuseppe Rapelli alla guida della corrente sindacale cristiana della CGIL. Quelle che ormai Pastore riteneva come incongruenze dell’esperienza prefascista sembravano riproporsi con tutte le loro ambiguità e sovrapposizioni di piani d’azione: egli non si sottrasse, tuttavia, alla sfida. Poco dopo le sue dimissioni
dalla direzione democristiana, in sintonia con Lazzati e Dossetti, nel marzo 1947 assunse la guida della Corrente sindacale cristiana, riconosciuta dal Consiglio nazionale della DC, alla vigilia del II Congresso che la CGIL avrebbe tenuto dal 1 al 7 giugno 1947. La preparazione dell’assise congressuale, che si svolse durante il III governo De Gasperi sostenuto da DC, PSI, PCI, fu per Pastore un periodo intenso e appassionato; il confronto con Di Vittorio fu schietto e partecipato; egli, comunque, raggiunse in particolare un compromesso che escludeva il monopolio comunista dell’assistenza ai lavoratori, a sostegno delle ACLI [20] . Davanti al congresso, del resto, Pastore non si sottrasse dal dichiarare esplicitamente la diversità del suo approccio rispetto all’idea di sindacato politico, di classe e conflittuale: La passione, anzi la faziosità politica, che si è insinuata attraverso gli uomini, rischia di compromettere i quadri e minaccia alla radice la nostra organizzazione. Vi parrà una considerazione grave, ma essa risponde ad una visione dinamica che abbiamo del sindacato. Il sindacato, lo andiamo ripetendo quotidianamente, deve condurre la classe lavoratrice alle conquiste sociali capaci di inserire profondamente il popolo lavoratore nella gestione della cosa pubblica [21] . Pastore non ignorava lo scetticismo che allora accompagnava il profilo da lui delineato di un forte sindacato distinto dai partiti politici: Qualcuno domanda: ma è possibile in Italia il determinarsi di una vera democrazia sindacale senza colorazione politica? Vi confesso che questo interrogativo è continuamente presente nel mio animo, e se in qualche momento sono stato perplesso oggi non lo sono più, poiché la vita del nostro movimento sindacale ha preso tali proporzioni e assunto tali compiti da poter costruire veramente uno strumento omogeneo e valido per la liberazione della classe lavoratrice dalle sue condizioni di ingiustizia e di debolezza. L’omogeneità è ricercabile e realizzabile nell’azione da compiere in difesa dei lavoratori. Ma l’omogeneità deve presupporre e poggiare sulla libera circolazione non delle posizioni politiche, ma delle impostazioni sindacali all’interno della nostra Confederazione [22] . Stava prendendo forma in Pastore un’articolata prospettiva d’insieme dei problemi della rappresentanza sociale: Quando avremo un sindacato forte, non soltanto avremo gettato le sicure fondamenta di quella società futura nella quale la classe lavoratrice occuperà il posto che le spetta, ma, proprio perché dirigente sarà la classe lavoratrice avremo la certezza che saranno realizzate quelle mete di giustizia e di pace a cui tutti aspiriamo, a cui tutti aneliamo [23] . In tale quadro andava collocato il rapporto del sindacato con il governo politico. Pastore anche su questo non poteva essere più diretto nel respingere corporativismo e subordinazione ai partiti, iniziando a delineare una sua precisa
prospettiva confederale: Evidentemente vi sono stati, vi sono e vi saranno contatti e incontri fra la CGIL e il governo. Ma cosa significa questo? Significa forse subordinazione o dipendenza? I nostri accusatori non sono evidentemente in grado di comprendere la funzione di un sindacato autonomo in regime di libertà politica. Ed è funzione di responsabilità, di guida delle masse operaie, di azione in difesa di interessi sezionali, sempre però nell’ambito della comprensione, della difesa e degli interessi generali del Paese [24] . Quella di Pastore non era una visione sindacale che si faceva politica: piuttosto egli esprimeva già nel 1947 la ricerca perché la rappresentanza sociale si facesse partecipe di un allargamento della democrazia. L’attenzione che tale approccio suscitò tra i leader sindacali nel contesto congressuale presto avrebbe dovuto cedere il passo al sempre più aspro confronto con l’azione conflittuale della corrente comunista, maggioritaria nella CGIL, dopo la caduta del governo tripartito alla fine di maggio con l’esclusione del PCI e del PSI, il lancio del piano Marshall in giugno e la lunga campagna elettorale che avrebbe preparato le prime elezioni politiche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. I conflitti nella lotta al carovita dell’estate 1947 e il dibattito sul piano Marshall accompagnarono il dibattito interno al sindacato, mentre si delineò sempre più netto nell’avvio della Guerra fredda non solo il confronto egemonico tra potenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma lo scontro tra alternative visioni su libertà culturali, sociali, economiche e politiche. La difficoltà del dissenso di Pastore rispetto alla maggioranza social-comunista consisteva non solo nel controbattere lo strumentale uso dello sciopero politico da quella proposto, ma nel contrastare il ritorno di posizioni conservatrici, riproposte come argine anticomunista. Lo scontro all’interno del sindacato si sviluppò sul piano della libertà d’azione della corrente sindacale cristiana, con aspri riflessi sulla sfida condotta sul piano organizzativo. Le continue tensioni trovarono così un punto di attrito all’inizio del 1948, quando Pastore rivendicò la partecipazione al primo organo consultivo sindacale a livello internazionale – il TUAC-ERP ( Trade Union Advisory Committee for the European Recovery Programme). Seguirono in aprile le prime elezioni politiche repubblicane e la recrudescenza dei conflitti sindacali a fini politici della maggioranza social-comunista della CGIL dopo la sconfitta del Fronte democratico popolare. Pastore si preparò tra giugno e luglio a definire dall’interno del sindacato unitario il disegno pensato già nel precedente inverno per ridefinire gli equilibri delle correnti con nuove regole e aggregazioni. A seguito dell’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948, tuttavia, il dissenso attivo di Pastore sullo sciopero politico generale immediatamente proclamato dalla componente comunista della CGIL, con il suo corredo di scontri e violenze, in un crinale delicato della democrazia italiana lo portò a dichiarare l’uscita dalla CGIL della corrente sindacale cristiana da lui guidata, formalmente ratificata dalle ACLI. Soltanto il 16 ottobre 1948, la scissione dei sindacalisti cristiani condusse alla costituzione della Libera confederazione generale italiana dei lavoratori (LCGIL), della quale Pastore assunse la carica di segretario generale. Le vivaci discussioni che animarono il mondo cattolico e democristiano, a testimonianza della sofferta
e non preparata decisione, ruotarono principalmente intorno a due questioni: libertà dell’associazione sindacale, a partire dal piano categoriale, ed esigenza di un sindacato confederale, del cui carattere si temeva una eccessiva centralizzazione. Si trattava di temi, peraltro, collegati al riproporsi di pressioni confessionali e partitiche, interessate a ridimensionare il protagonismo sindacale che aveva alimentato la scelta di Pastore. Si comprende in tal modo come alla sua nascita la LCGIL rinviasse la determinazione del suo profilo statutario e gli indirizzi generali ad un futuro congresso [25] . Pastore, tuttavia, in contrasto con coloro che nella DC sostenevano un sindacalismo cristiano per poterlo poi orientare, aveva ottenuto nel frattempo un decisivo risultato: se la confederazione appena fondata voleva essere una CGIL “Libera”, distinguendosi dalle influenze di partito che contraddistinguevano quella social-comunista, essa doveva cessare d’essere un’organizzazione confessionale. La reazione pubblica di Pastore al tentativo di ricomporre, nel febbraio 1949, una corrente confessionale nel sindacato unitario da parte di alcuni esponenti democristiani fu decisa, respingendo qualsiasi interferenza ideologica dei partiti: «la libera Confederazione dichiara di essere pronta a tutte le unificazioni possibili nel quadro di un sindacalismo sinceramente libero e democratico. [...] Il giorno in cui ci si vorrà incontrare noi siamo pronti, purché l’incontro avvenga tra forze sindacali e non tra forze politiche» [26] . In tale prospettiva, piuttosto, Pastore strinse tra il 1948 e il 1949 intensi rapporti con il sindacalismo statunitense ed italo-americano, in particolare con l’American Federation of Labor (AFL), trovando sostegno presso gli esperti sindacali degli ambienti diplomatici statunitensi rivolti a contrastare l’espansione comunista in Italia, nel quadro del contenimento dell’influenza sovietica e di un più generale rafforzamento del mondo occidentale nell’avvio della Guerra fredda. Il ruolo allora esercitato dai sindacati nord-americani nel loro Paese rafforzò in Pastore il convincimento sulle possibilità di realizzare la sfida di un forte sindacato democratico, capace d’influire in un ambiente di libertà sui processi decisionali socio-economici dai quali il mondo del lavoro fino allora era stato escluso. Per questo obiettivo egli assunse anche un deciso impegno personale per evidenziare il profilo sociale delle relazioni tra i Paesi europei, in corso di ricostituzione, facendo leva sull’esperienza di partecipazione al Piano ERP, e per sostenere il processo di costituzione di un nuovo sindacato internazionale. Nel novembre 1949, infatti, Pastore fu tra i fondatori a Londra della International Confederation of Free Trade Unions (ICFTU), dopo averne preparato i passaggi. Di fronte alle indecisioni della Confederazione internazionale dei sindacati cristiani (CISC) verso la «Internazionale libera», rinunciando infine a farne parte, la scelta di Pastore a favore dell’ICFTU provocò un primo rilevante mutamento nella tradizione del cattolicesimo sociale: la permanente assenza di un sindacato cristiano in Italia. La determinazione a ricercare la via per innovare la tradizione del sindacalismo prefascista non fu condivisa da una parte influente del modo cattolico che, su questo in sintonia con quello comunista, giungerà ad accusare Pastore d’introdurre in Italia un’americanizzazione del sindacato. In realtà, egli stava acquisendo sempre maggiore consapevolezza dei limiti della propria cultura sindacale prefascista nel nuovo contesto socio-politico facendo leva sulle stesse fondamenta della formazione cattolico-sociale ricevuta, assegnando con maggiore
maturità il «significato cristiano» della propria iniziativa all’esercizio della responsabilità personale che «concepisce e realizza l’azione sindacale» [27] . Restava aperta nell’autunno del 1949 l’esigenza della LCGIL di portare a compimento con un nuovo approdo sindacale il percorso iniziato dopo aver tagliato i ponti del passato: era evidente l’impraticabilità di unioni sindacali segnate da ipoteche ideologiche o frutto di una costrizione politica esterna, caratterizzate in ogni caso dall’assenza di libertà degli attori sociali. Si mirava, piuttosto, a rendere praticabile e manifesta una unione di sindacati vissuta nella dimensione associativa, con un profilo organizzativo tale da costituire un attore sociale capace di conseguire una responsabilità pubblica come in Italia non era mai accaduto. Pastore aveva preso contatti con le forze sindacali di matrice socialdemocratica e repubblicana, che nel frattempo si erano separate dalla CGIL, così come aveva attratto l’attenzione di sindacati autonomi che non erano entrati nella confederazione unitaria del 1944. Occorreva, tuttavia, portare la sfida organizzativa sul piano di un’unificazione sindacale realmente alternativa alla proposta social-comunista: bisognava dotare la confederazione che avrebbe dovuto nascere di un indirizzo positivo, che la LCGIL ancora non aveva maturato. Per tale via la sofferta riflessione di Pastore era condotta a ricercare validi collaboratori e ambienti che potessero accompagnare il nuovo soggetto sindacale lungo la strada di un mutamento profondo. In questo itinerario fu decisiva la collaborazione, da lui ricercata con insistenza tra l’ottobre del 1949 e il febbraio 1950 presso Fanfani e padre Gemelli, con un giovane studioso di storia economica dell’Università cattolica di Milano, Mario Romani, col quale sorse ben presto una comunanza d’intenti che consentì al leader sindacale d’impostare coerentemente, infine, l’innovativo indirizzo sindacale da intraprendere negli scenari socioeconomici della Ricostruzione del Paese. Il processo organizzativo e politico avviato nell’autunno 1949 per l’unificazione tra la LCGIL, la Federazione italiana del lavoro (FIL) e l’Unione federazioni autonome italiane lavoratori (UFAIL), poteva così compiersi col loro patto unitario del 30 aprile 1950 che, con lo scioglimento delle tre organizzazioni, costituì la Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (CISL), solennemente celebrata in una assemblea pubblica il 1 maggio 1950. Giulio Pastore divenne allora il primo segretario generale confederale della CISL.
[1] Per la formazione giovanile di Pastore vedi A. Ciampani, La buona battaglia. Giulio Pastore e i cattolici sociali nella crisi dell’Italia liberale, Franco Angeli, Milano 1990. [2] Farisei, in «Il Cittadino», 6 agosto 1925, infra, p. 98. [3] «Il Cittadino», 6 agosto 1925. [4] Al di fuori e al di sopra, in «Il Cittadino», 13 agosto 1925. [5] M. Casella, Azione cattolica e Partito popolare italiano (1919-1926), Congedo, Galatina 2014. Vedi anche M. Casella, Nuovi documenti sull’Azione cattolica all’inizio del pontificato di Pio XI, in A. Ciampani, C. M. Fiorentino, V. G. Pacifici (a cura di), La moralità dello storico. Indagine storica e libertà di ricerca. Saggi in onere di F. Fonzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 273-321. [6] Per una nostra cultura, in «Il Cittadino», 25 marzo 1926. [7] Racconta l’assistente diocesano di Azione cattolica che conobbe Pastore nel 1929, mons. Francesco Fasola, poi vescovo nel Mezzogiorno d’Italia: «Quando cessò il Piccolo Credito Novarese e gli impiegati si affannavano per trovare un posto, lo vedevo tranquillo [...]. Gli chiesi. “Ma che fai? Non cerchi lavoro anche tu?” Mi rispose: “Io cerco di fare in me e nella mia famiglia quello che piace al Signore; Egli sa che ci sono e cosa mi è necessario per i figlioli”. Qualche tempo dopo mi diceva: “Sono stato chiamato come cassiere al Banco S. Paolo e comincio subito il lavoro. Vedi che avevo ragione di fidarmi della Provvidenza?”»; così in «Il Nuovo Osservatore», 84/85, novembre-dicembre 1969, p. 332. [8] Cfr. Gioventù pura. La Federazione giovanile cattolica novarese nel primo decennio della sua fondazione, Novara 1930. [9] A. Ciampani, Cattolicesimo e modernizzazione durante il regime fascista: l’attivismo spirituale de « La Giraffa» , foglio umoristico d’azione cattolica (1931-1933), in «Storia contemporanea», XXIV (1993), 1, pp. 73-76. [10] Così Giuseppe Lazzati, che conobbe Pastore nel 1934 nella Gioventù cattolica di Gedda , in «Il Nuovo Osservatore», 84/85, novembre-dicembre 1969, p. 336. [11] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista. Dalle leghe bianche alla formazione della CISL (1918-1958), Edizioni Lavoro, Roma 1989, pp. 24-25. [12] Ancora Lazzati in «Il Nuovo Osservatore», 84/85, novembre-dicembre 1969, p. 336. [13] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 44-45. [14] G. Pastore, Cinque mesi di unità sindacale, in «Il Popolo», 8 novembre 1944, infra, p. 105. In tal senso cfr. anche la sua polemica sullo sciopero politico in un regime democratico del 23 dicembre 1945, infra, pp. 106107. [15] La CGIL dal patto di Roma al congresso di Genova, vol. I, Roma 1949, p. 238. [16] «Il Popolo», 23 dicembre 1945; infra, p. 106. [17] G. Astori, Giulio Pastore al tempo della Costituente, in “ Tra i costruttori dello Stato democratico”. Vercellesi, biellesi e valsesiani all’Assemblea costituente, a cura di E. Pagano, Varallo, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli 2010, pp. 105-120. [18] Così ancora Lazzati ricordando quegli anni, in «Il Nuovo Osservatore», 84/85, novembre-dicembre 1969, p. 336. [19] La commemorazione del presidente Jelmini, in «La Valsesia», organo ufficiale del Consiglio della Valle, numero speciale, a. XVII, n. 9-10, p. 4. Dopo la fondazione nel 1952 dell’Unione dei Comuni e degli Enti Montani, di cui Pastore fu tra i promotori, solo nel gennaio 1962 si costituì con decreto prefettizio il Consorzio intercomunale denominato “Consiglio della valle Valsesia”; a seguito della legge 1.102/1971, che riconobbe «il successo delle esperienze costituitesi su base volontaria», sorse la Comunità montana Valsesia – che si sviluppò tra il 1973 e il 2012 – e nel 2015 l’Unione montana dei Comuni della Valsesia; cfr. F. Bertoglio, UNCEM. Mezzo secolo di storia, UNCEM, Roma 2002, pp. 3-4, e G. Astori, Per una storia del Consiglio di Valle
Valsesia, in «L’Impegno», a. XXVI, n. 2, dicembre 2006, pp. 5-13. [20] «Sia riconosciuta la libertà di assistenza e chi saprà far meglio avrà i maggiori consensi e a guadagnare saranno i lavoratori». Così Pastore al congresso della CGIL unitaria del 1947, infra, p. 117. [21] Ibid., pp. 113-114. [22] Ibid., pp. 114-115. [23] Ibid., p. 139. [24] Ibid., p. 119. [25] Sugli esiti provvisori del congresso della LCGIL, tenutosi nel novembre 1949, A. Ciampani, Lo Statuto del sindacato nuovo (1944-1951), Edizioni Lavoro, Roma 1991, pp. 42-49. [26] A. Ciampani, Lo Statuto del sindacato nuovo, cit., p. 50. [27] V. Saba, Pastore Giulio, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, II, diretto da F. Traniello – G. Campanini, Marietti, Casale Monferrato 1982, p. 469.
I I . L ’ I N N O VA Z I O N E ( 1 9 5 0 - 1 9 5 8 ) : I L S I N D A C AT O D E I L AV O R AT O R I C O M E C L A S S E DIRIGENTE
Con la nascita della CISL si introdusse una svolta decisiva nella storia del sindacalismo italiano, oggi da tutti pienamente riconosciuta, per il sostegno dato alla libertà associativa nel movimento sindacale, per i contenuti offerti alle relazioni industriali nella democrazia repubblicana, e per quel ruolo attribuito alla rappresentanza sociale nell’indirizzo socio-politico del Paese, che le attuali confederazioni possono tutt’ora rivendicare [1] . Al momento della nascita dei «sindacati democratici» della CISL, l’innovazione consapevolmente perseguita da Pastore per la rappresentanza dei lavoratori italiani iniziò a farsi pubblicamente visibile. Nello stesso tempo, proprio per tale motivo, essa si trovò a doversi aprire la strada tra gravi resistenze, nel mondo sindacale, imprenditoriale, politico. La proposta di Pastore, leader sindacale antifascista in aperta competizione con la CGIL socialcomunista, alimentò per alcuni anni un appello all’unità con l’Unione italiana del lavoro (UIL), sorta parallelamente per opera di sindacalisti socialisti democratici e repubblicani; peraltro, programmaticamente la CISL si differenziò anche dalla CIL prefascista e dalla stessa LCGIL sorta dalla scissione. Si aprì, così, anche un forte contrasto su più fronti con parte significativa della DC e con ambienti conservatori del mondo cattolico. Tutte queste divergenze, al loro fondo, restavano collegate allo strappo che Pastore operò a favore dell’autonomia del sindacato rispetto al partito, il cui primato sulla rappresentanza sociale nella prima metà del Novecento aveva accomunato le tradizioni sindacali italiane e si stava allora riproponendo in ambiente democratico. A partire dal suo atto costitutivo, muovendo in una direzione opposta alle precedenti pratiche sindacali nazionali, la CISL perseguì «nel Paese un grande movimento sindacale unitario, organizzato nella più rigorosa indipendenza da ogni influenza esterna ed estranea e nel ripudio assoluto di qualsiasi formazione di corrente interna o discriminazione ideologica» [2] . In tal modo Pastore intendeva manifestare l’ambizioso progetto sindacale di far sorgere «un grande movimento unitario» in Italia su basi del tutto nuove dal passato [3] . Per conseguire tale obiettivo Pastore, già membro dell’Assemblea costituente e allora parlamentare democristiano, sapeva bene di avviarsi per un cammino lungo e pieno di ostacoli. Si trattava in primo luogo di rendere pienamente consapevole l’intera associazione sindacale dell’ampio progetto e d’impostare la vita
confederale su rinnovate quanto solide fondamenta culturali. Con una qualche approssimazione, che ancora evidenziava una difficoltà a comunicare concetti nuovi con espressioni comprensibili ai militanti aderenti alla CISL, Pastore pose subito l’esigenza prioritaria di elaborare e di sostenere proprie linee d’indirizzo dell’azione sindacale: Ebbene è questa l’occasione propizia per riaffermare che essere noi fuori dalla politica dei partiti, non vuol significare che manchiamo di un nostro indirizzo che può anche essere chiamato politico purché si riferisca ad una politica del lavoro, cioè a dire ad una politica che unisce i lavoratori e non ad una politica che li divida [4] . L’oratoria di Pastore, nel passo conclusivo del suo intervento alla manifestazione del 1 maggio 1950, pur nell’enfasi retorica che necessitava il momento, non esitò a trasporre i convincimenti sedimentati nella personale esperienza cattolica in un fattore propulsivo per la crescita collettiva di tutte le organizzazioni italiane della rappresentanza del lavoro: Parliamo ai lavoratori, il linguaggio dell’amore. La Confederazione italiana sindacati lavoratori vuole inaugurare questa politica dell’amore, e verso tutti, anche verso coloro che una predicazione d’odio ha posti contro di noi. Soltanto così, lavoratori e sindacalisti, adempiremo a tutto il nostro dovere; soltanto così faremo un sindacato forte. E sarà il sindacato forte, libero e democratico che realizzerà per i lavoratori la giustizia, soltanto il sindacato forte presidierà la libertà, soltanto il sindacato libero forte e democratico formerà la base di una sicura pace [5] . L’approdo ambizioso di un sindacato forte e democratico costituiva per il segretario generale della CISL la priorità per l’avvenire: in tale prospettiva si collocava la sua avversione al sindacalismo comunista come al sindacalismo confessionale e di partito, in quanto ponevano limiti alla rappresentanza sociale, alla sua libertà e alla sua crescita. Disposto a un dialogo coinvolgente, dunque, quanto fermo con le altre organizzazioni sindacali che miravano a sconfiggere ed emarginare il suo tentativo, Pastore collocava l’opera del suo sindacato in una prospettiva evolutiva del sindacalismo italiano. Fine centrale dell’azione confederale e criterio per decidere i passi da compiere, lungi dall’essere dettati da un’impronta di pragmatismo operativo, divennero per Pastore l’affermazione di un soggetto sociale forte capace di allargare l’assetto della democrazia repubblicana consentendo la partecipazione della rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori ai processi di formazione socio-economici. Per sciogliere questo nodo centrale della questione novecentesca egli dedicò gli anni successivi in cui rimase alla guida del «sindacato nuovo», riformulando profondamente alcuni passaggi della sua precedente vicenda sindacale ed affrontando con determinazione la via intrapresa: permettere alla rappresentanza sindacale di costituirsi come classe dirigente del processo di crescita civile della democrazia italiana. Di fronte alla vasta portata delle sfide che aveva di fronte, dunque, due compiti
apparvero al leader della CISL preminenti dal punto di vista operativo e strategico. Quotidianamente egli doveva sorvegliare la tenuta morale dell’organizzazione, sottoposta al peso di un’iniziativa così innovativa da doversi continuamente riorientare, vigilando «perché nell’organizzazione nascente non trovassero spazio uomini d’avventura » [6] . Anche per questo occorreva uno sforzo educativo e formativo dei suoi rappresentanti sindacali, tanto dei più giovani che intendevano dare voce all’ansia di giustizia sociale nel mondo del lavoro, quanto dei più esperti delle organizzazioni professionali. Perciò Pastore, con la forza della leadership appena conseguita e senza timore di apparire fuori luogo, non aveva esitato di sottolineare l’esigenza di studio e formazione già nel discorso pubblico che tenne in un momento politico quale fu la manifestazione del 1 maggio 1950: E permettetemi ora di dire a me ed a voi di non essere superficiali. Si è creduto dopo la Liberazione che fare il sindacalista fosse una cosa facile; l’esperienza ha dimostrato il contrario. Ricordiamoci che non si risolvono i problemi con una infarinatura di nozioni. Lo so, studiare costa, costa molto. Ma il fine per cui operiamo è così nobile che non ci deve far paura il sacrificio [7] . La principale decisione strategica di Pastore, dunque, fu quella di sostenere la cultura organizzativa della CISL nel suo complesso, affidando all’apporto di Romani la costituzione di un ufficio di studi e formazione sindacale. Solo partendo da un’adeguata comprensione della realtà, sostenuta anche dal concorso di ambienti accademici, allora complessivamente distanti dal lavoro organizzato, era possibile dotare la rappresentanza sindacale di un orientamento culturale adeguato al processo di crescita socio-economico in corso e renderla capace di esprimersi con una indipendente soggettività collettiva [8] . Dai progressi dell’iniziativa avviata in tal direzione assieme a Romani, Pastore fu ben presto confortato circa l’impatto delle proposte da lui formulate sul piano nazionale, europeo e internazionale. La coerente connessione tra questi piani d’azione – in sé rivelatrice delle risorse politiche della sua leadership – fu resa possibile proprio grazie alla riflessione culturale e alla visione strategica che l’alimentava, come emerge assai bene dall’intervento che Pastore tenne per la III Conferenza dei sindacati dei Paesi aderenti al Piano Marshall, tenutasi a Roma dal 18 al 20 aprile 1950, nell’immediata vigilia della nascita della CISL. In quella occasione, rilanciò la sua idea del sindacato come classe dirigente, anche sul piano europeo, col sostenere che «la coordinazione degli investimenti in Europa, anche se condotta inizialmente per singoli settori produttivi, o per intese regionali, non può essere lasciata alla sola competenza dei Governi o, più ancora, all’iniziativa dei gruppi industriali interessati ». Ciò in concreto significava che i sindacati, almeno per ciò che riguardava «tutti i problemi attinenti alla mano d’opera, fossero ammessi a partecipare sia pure a titolo consultivo, ma diretto, a tutti gli organismi e le trattative internazionali che si occupano di tale materia» [9] . Quest’impostazione, talora considerata irrealistica nel panorama politico e sindacale italiano, troverà accoglienza quasi testuale nel rapporto di Pierre Werner del 1970, che rilanciò il processo di unificazione economico e monetario, e più tardi nel lavoro per il dialogo sociale di Jacques Delors che sfociò nell’articolo 118b
dell’Atto unico europeo del 1986 e nell’importante processo decisionale europeo definito nel Protocollo sociale di Maastricht del 1992 [10] . Si può ben dire, dunque, che sotto questo profilo la CISL di Pastore diede il suo contributo ad impostare il percorso di un’Europa sociale dedicata alla crescita dell’occupazione, alla continuità dell’impiego, alla tutela degli emigranti (come i lavoratori italiani in Belgio), alla ricollocazione nel mercato tramite la formazione professionale. Fin dai negoziati seguiti al Piano Schuman, con l’apporto culturale di Romani e di Giuseppe Glisenti, la CISL di Pastore nel 1951 sostenne il sorgere della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), con il suo comitato consultivo delle parti sociali e lo sviluppo di adeguati fondi sociali; nel 1954 essa accompagnò la battaglia del Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli per la Comunità Europea di Difesa e nel 1957 valutò nel complesso positivamente i trattati di Roma che istituivano il Mercato Comune Europeo (MEC), invitando il governo italiano a proporre a livello comunitario una divisione degli Affari sociali e del lavoro. Il ruolo che la CISL assunse sul piano europeo, affiancata dalla UIL e contrastata dalla CGIL, è ben testimoniato dalla proposta al suo leader Giulio Pastore, membro anche del Comitato per gli Stati Uniti d’Europa, di assumere nella Comunità Economica Europea (CEE) il primo incarico di commissario agli Affari sociali nel 1957; un incarico questo che, pur auspicato da Jean Monnet, Pastore decise di declinare [11] . Non deve sorprendere, dunque, la spinta all’«unità europea» della CISL, ben evidenziata anche nella presentazione pubblica della «unificazione» che diede vita al nuovo sindacato nel maggio 1950 [12] . In effetti, nella visione di Pastore il cammino di una realtà da costruire come quella connessa all’integrazione europea, a partire dalla partecipazione all’Alta Autorità della CECA, offriva all’innovativa proposta sindacale più opportunità di penetrazione che non l’arena sociale, economica e politica della giovane democrazia nazionale; qui la tradizione statale e politica dei gruppi dirigenti procedeva a riformulare, sia pure in forme diverse dal passato, un primato direttivo dei partiti sulla vita sociale scompaginata dal conflitto e dal dopoguerra. Come del resto, dimostrerà il dibattito parlamentare per l’istituzione in Italia del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), organismo costituzionale il cui primo disegno di legge fu presentato nel marzo 1949 senza successo; Pastore non fece mancare la sua proposta in parlamento nel 1955, prima che il CNEL potesse vedere la luce con la legge istitutiva del gennaio 1957 [13] . Andrebbe, tuttavia, fuori strada chi si soffermasse solo su tale riflesso politico nazionale, senza cogliere la prospettiva di mutamento radicale di scenario che in Pastore teneva assieme le dinamiche nazionali alla proiezione internazionale del sindacato. Intervenendo nel 1951 come esponente italiano all’assemblea dell’International Labour Office (ILO/OIL), egli volle affrontare direttamente la questione che gli stava a cuore, riflettendo sul rapporto tra intervento statale e partecipazione sociale: Il problema non è dunque – come da alcune parti si vuol far credere, e magari si crede in buona fede – se una politica di intervento debba essere o non attuata secondo che l’organizzazione amministrativa dello Stato sia in grado o non di
attuarla. Il problema è invece quello di adeguare rapidamente le strutture dello Stato ai nuovi compiti che la realtà gli impone. Di questa riorganizzazione noi vediamo soprattutto un aspetto: quello della partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori alla direzione della cosa pubblica. È un problema che si pone sul piano aziendale, del settore produttivo e della politica economica. Il suo fine ultimo è realizzare la massima efficienza del sistema per l’accrescimento del benessere comune [14] . Di fronte alle ottimistiche previsioni che l’organismo internazionale prospettava per il diritto del lavoro, Pastore volle ricollocare la forza del contributo responsabile che avrebbero potuto offrire i sindacati alla crescita complessiva dell’Italia nel crudo richiamo alla secolare emarginazione della classe lavoratrice, dolorosamente conosciuta di persona fin dal tempo della sua fanciullezza: Un passato di sacrifici, un presente di sacrifici, un avvenire di sacrifici. Ecco la storia e le prospettive delle masse lavoratrici italiane. E cosa si chiede loro? Senso di responsabilità. E in contraccambio cosa chiedono esse agli altri gruppi sociali? Esse chiedono di partecipare almeno su di un piano di parità effettiva ed efficace alle scelte che decidono le sorti materiali della comunità [15] . Per sostenere questa richiesta di partecipazione nel frattempo il sindacato doveva mostrarsi come soggetto collettivo capace di confrontarsi attivamente con gli interlocutori, operando una torsione culturale che tradizionalmente lo aveva visto accettare scenari corporativi o antagonisti. Per questo Pastore investì con forza sul carattere politico dell’elaborazione culturale che avrebbe accompagnato la formazione nella CISL dei quadri sindacali come classe dirigente del Paese. In coerenza con tale intento egli prese posizione nel dibattito pubblico nazionale e all’interno della sua stessa organizzazione. Il banco di prova per imprimere una svolta all’azione sindacale in Italia, ponendo le fondamenta di un pluralistico sistema di relazioni industriali, fu l’affermazione della libertà associativa contro l’intervento legislativo per regolare l’azione contrattuale del sindacato. Il tema venne affrontato nel primo Consiglio generale della CISL, svoltosi a Roma nei giorni 20-23 giugno 1950, proponendo il documento Linee d’indirizzo dell’azione sindacale, in cui si affermava doversi «considerare con ogni attenzione e cautela qualsiasi sistemazione giuridica del movimento sindacale», per evitare che determinasse impedimenti alla sua azione e vincolasse «la possibilità di sviluppo o di potenziamento del sindacato». Il compito dello Stato, dunque, avrebbe dovuto consistere nel «favorire la spontanea evoluzione dei pubblici rapporti, e non nel cristallizzare questo mondo in svolgimento, in virtù di una errata concezione dell’ordine sociale». Infine, il documento della CISL riteneva come l’impulso vitale del movimento sindacale sarebbe cessato il giorno in cui il sindacalismo avesse perso «la sua natura di libera e spontanea associazione di lavoratori in lotta per la conquista di migliori condizioni di vita», trasformando il movimento sindacale in «istituto politico» o anche solo mediante «un imbrigliamento delle loro organizzazioni e delle loro azioni» [16] . Il dissenso proposto dalla CISL sull’attuazione dell’art. 39 della costituzione, alla luce di un approccio complessivo ad una rinnovata azione confederale, introdusse una tale rottura col sindacalismo
confessionale e democristiano (nonché con le posizioni ancora nel 1948 sostenute dallo stesso Pastore) da suscitare le perplessità di Bruno Storti e di Giuseppe Rapelli, nonché le obiezioni di Carlo Donat-Cattin, che dopo aver visto rifiutata una sua mozione sul documento, propose un separato ordine del giorno in merito alla legge sindacale che Pastore fece respingere a grande maggioranza [17] . Nonostante ciò, quando nel consiglio di Brunate dell’ottobre 1950 si trattò di far approvare un esplicito documento maturato nel convegno di studi sulla legge sindacale seguito a settembre, la proposta del leader della CISL ottenne solo una maggioranza ristretta [18] . Mentre la DC continuò fino al 1955 a proporre nei programmi di governo l’attuazione dell’articolo 39 della costituzione, Pastore mantenne ferma la barra sulla libertà della rappresentanza associativa: Una legge è buona, secondo me, quando non fa violenza alla realtà sociale cui si applica. Una legge che comprima questa realtà in un involucro legislativo insufficiente o inadatto, può forse soddisfare il gusto per le simmetrie legislative, non l’esigenza dell’ordine sociale, che è ordine dinamico. Se la realtà sociale che viene così compressa è vitale, non sarà essa a prendere la forma dell’involucro legislativo: questo si spezzerà al primo urto con la realtà, oppure, com’è il caso di moltissime leggi «nate morte», non vedrà neppure esperito un tentativo di applicazione [19] . Si comprende come, per dar conto del ruolo sindacale nell’«evoluzione spontanea della realtà sociale», Pastore intendesse puntare in primo luogo a conquistare l’opinione pubblica del Paese, come previsto nell’articolo 3 dello statuto della CISL, approvato al I Congresso nazionale confederale tenuto a Napoli (11-14 novembre 1951). In esso poteva delinearsi, infine, il profilo di una confederazione sindacale, cui le federazioni delle associazioni sindacali aderenti si riconoscevano sulla base della concezione socio-politica espressa nell’articolo 2 dello statuto confederale. In quell’articolo, ancor oggi, mentre si vede ordinare la società e lo Stato alle esigenze di sviluppo della personalità umana, si riafferma l’esigenza di partecipazione della rappresentanza sindacale sul piano nazionale e internazionale. Inoltre si sostiene come nel sistema democratico le organizzazioni sindacali debbano separare le loro responsabilità «dai raggruppamenti politici» dai quali si distinguono per «natura, finalità e metodo d’azione», ribadendo per la CISL la «piena indipendenza da qualsiasi influenza esterna, e la assoluta autonomia di fronte allo Stato, ai Governi, ai Partiti». Infine, inserendo nell’articolo dello statuto i contenuti delle Linee d’indirizzo, la CISL ritiene che la possibilità d’azione del movimento sindacale si basi «su una sola necessaria condizione: l’adesione libera e spontanea dei lavoratori alla organizzazione sindacale e la moltiplicazione della forza organizzativa di questa» [20] . L’azione della CISL, dunque, mentre s’impegnava a creare un movimento d’opinione favorevole a tale sindacalismo confederale, si rivolse a suscitare una giovane classe dirigente sindacale ispirata da quei principi attraverso una sistematica e originale formazione, sotto la direzione culturale di Romani; avviata nell’ottobre 1951 a Firenze, quest’opera proseguì dal 1953 con uno straordinario investimento di risorse umane ed economiche nella villa di Fiesole che ancora
ospita i corsi di formazione dei sindacalisti della CISL [21] . L’iniziativa, del tutto unica per quei tempi nel campo sindacale (ma niente di simile poteva vantare anche la rappresentanza datoriale), originava dalla consapevolezza di Pastore di lavorare su tempi lunghi per affermare un costume sindacale nuovo nel panorama italiano, misurandosi con le forze sociali che impedivano il riconoscimento di una piena rappresentanza sociale. Se la CISL doveva fronteggiare gli attacchi ideologici provenienti dal sindacalismo comunista, d’altra parte doveva registrare la rigida indisponibilità dell’impresa privata italiana, nella sua grande maggioranza, ad accettare come interlocutore una rappresentanza delle classi lavoratrici che aspirava ad avere voce nella progettualità economico-sociale. Su questo piano, innanzitutto, si sviluppò tra il 1952 e il 1953 l’aspra polemica con Pastore del presidente di Confindustria, Angelo Costa [22] . Il protagonismo del sindacato, del resto, per Pastore e Romani poteva essere dispiegato a diversi livelli d’azione: lanciata nel 1951 la costituzione di un comitato nazionale della produttività, la CISL intendeva coerentemente dispiegare una originale partecipazione sindacale nelle unità produttive proponendo la presenza del sindacato in azienda (sostenuta da sezioni sindacali aziendali), che introduceva alle connesse rivendicazioni dell’assemblea dei lavoratori sul posto di lavoro e della contrattazione articolata. Questioni destinate, queste, ad aprire un varco anche nella riconsiderazione dell’azione sindacale all’interno della CGIL a seguito della vittoria della CISL nelle elezioni per le Commissioni interne alla FIAT del 1955. In occasione del successivo confronto tra le organizzazioni sindacali nel più grande complesso industriale del Paese, Pastore ribadì come la CISL avesse rifiutato «il puro tecnicismo sindacale, limitato ai miglioramenti economici» nella convinzione che la personalità del lavoratore non sarà mai tutelata come lo deve se non si conseguono rapporti sociali radicalmente diversi da quelli oggi imperanti e non si realizzano per i sindacati dei lavoratori più determinanti ruoli nella vita generale del Paese. Ecco perché alla FIAT come altrove, noi affianchiamo agli obiettivi salariali altri traguardi che investono la convivenza nell’azienda. C’è un rapporto di importanza e peso bilaterale che deve essere instaurato nella vita aziendale se si crede nell’istanza delle più vere relazioni umane. La nostra formula «buone relazioni umane in nuove relazioni di lavoro» dice chiaro che ogni tentativo di instaurare regimi paternalistici ci troverà sempre e ovunque in posizioni di intransigenza e di lotta [23] . La durezza del confronto con l’arroccamento imprenditoriale di fronte alla nuova soggettività sindacale convinse Pastore tra il 1953 e il 1954 a impegnarsi in una significativa battaglia parlamentare, che non mancò di attrarre l’attenzione di UIL e CGIL. Suscitata nell’ambito di un ripensamento del ruolo dell’IRI, infatti, la sua proposta per il distacco della rappresentanza delle imprese pubbliche da quella privata, con un ordine del giorno presentato in parlamento il 2 agosto 1954 appare come strumento di un disegno strategico di relazioni di lavoro finalizzate alla crescita del Paese [24] . Nel sistema di economia mista degli anni Cinquanta
l’intervento dello Stato democratico nell’attività produttiva, evitando iniziative inutili se non dannose, poteva costituire un «elemento di guida dell’apparato produttivo del Paese» in quanto tendente «a realizzare finalità di pubblico interesse» distinte dal mero perseguimento del profitto d’impresa [25] . Ne derivava per Pastore l’opportunità che gli interessi delle imprese pubbliche fossero rappresentati da una associazione datoriale separata da Confindustria, come sarebbe più tardi avvenuto, a seguito della legge istitutiva delle Partecipazioni statali, con la nascita dopo il 1960 dell’Intersind (per il gruppo IRI) e dell’ASAP (per l’ENI), associazioni datoriali che diedero vita a un pluralismo della rappresentanza imprenditoriale (pluralismo del resto presente nelle rappresentanze a livello europeo con la costituzione del CEEP accanto ad UNICE). La posizione di Pastore, dunque, lungi dal negare la finalità economica dell’impresa pubblica, esprimeva ancora una volta le potenzialità applicative nella realtà concreta dell’esercizio di una soggettività sociale ricercata dalla CISL. Così, «l’autonomia sindacale dell’IRI» avrebbe consentito un miglioramento della sua efficienza produttiva, lontano da ogni forma di rivendicazione corporativa o conflittuale per ottenere «comode conquiste sindacali che potrebbero rendere ancor più critica la situazione delle aziende» [26] . Al contrario il conseguimento di maggiore produttività e la diminuzione dei costi dell’impresa pubblica dovevano ricercarsi tramite «mezzi nuovi e anche diversi da quelli conformi alla logica dell’impresa privata», così resistente alla realizzazione di un «nuovo tipo di rapporti di lavoro»: L’obiettivo di un costante aumento della produttività si può realizzare nell’IRI facendo più attivamente partecipare i lavoratori ai compiti tecnici e alle responsabilità della produzione, adeguando costantemente l’attività contrattuale all’andamento della produttività e dell’efficienza economica, facendo della stessa attività contrattuale un costante stimolo al progresso aziendale e alla diminuzione dei costi. Un nuovo clima di rapporti umani e sociali è indubbiamente più difficile da realizzare nelle imprese gestite secondo criteri di gestione privata, poiché l’assunzione di responsabilità e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’impresa è temuta dal privato imprenditore come se creasse la premessa ad una pretesa dei lavoratori alla rideterminazione delle prerogative imprenditoriali [27] . La lunga vertenza che portò nel 1954 alla chiusura dell’accordo interconfederale sul conglobamento dei salari nell’industria, al quale la CGIL si sottrasse dopo aver preso parte ai negoziati, oltre ad ottenere un riassetto organico del sistema retributivo con una partecipata adesione alle lotte sindacali, aveva costituito per Pastore un banco di prova di «una presenza realistica e responsabile dei lavoratori democratici nell’ambito di uno Stato che è democratico soprattutto perché e finché i lavoratori lo fanno tale» [28] . La sottolineatura di Pastore sull’esercizio responsabile del protagonismo sindacale – ora accusato di essere troppo moderato nell’azione rivendicativa, ora di cedere all’antagonismo conflittuale – intendeva evidenziare la strada da percorrere per «servire più direttamente e rapidamente i lavoratori». Egli si impegnò, dunque, a convincere tutti i soggetti politici interessati a perseguire i
miglioramenti richiesti dal mondo del lavoro che proprio un sindacato forte e democratico rappresentava la principale risorsa dell’azione riformatrice rivolta a «un più rapido conseguimento di alcuni dei maggiori e più impellenti obiettivi invocati dai lavoratori». In tal senso Pastore tornò spesso a sensibilizzare sul significato dell’iniziativa della CISL «quei partiti la cui vocazione li porta ad essere più vicini alla gente che lavora». Non si faceva, d’altronde, illusioni sulla strumentalità anche di contingenti simpatie politiche: «Lasciate infatti che si allontani il pericolo comunista e poi vedrete che anche in certi settori dei partiti democratici riprenderanno quota le velleità nostalgiche per il sindacalismo di colore» [29] . Più volte egli dovrà riconoscere come non fosse «del tutto acquisito il rispetto della autonomia del sindacato da parte dei partiti»: I politici puri o, per meglio intenderci, i «partitocrati» su questo argomento hanno già dimostrato di possedere una loro esplicita tesi. Fatti forti dal presupposto che nell’odierno ordinamento democratico a tipo parlamentare, soggetto e protagonista dell’azione politica è il partito, affermano non esserci per il sindacato via di scampo: o far comunella con uno dei partiti tradizionali, oppure trasformarsi esso stesso in partito. L’amore alla tesi non consente ad essi altra scelta, anche se una più obiettiva valutazione dei compiti e delle funzioni così profondamente dissimili del sindacato e del partito, obbligherebbero a farlo [30] . Così non sorprende se Pastore per sostenere un sindacalismo forte e unitario intorno alla posizione sindacale della CISL entrasse in polemica nella primavera 1952 anche con Sturzo, che lo aveva accusato di abbandonare la politica: Preoccupati di stabilire compiti ed obiettivi sufficientemente chiari e comunque tali da offrire alla nostra organizzazione, pur nella necessaria distinzione da ciò che è programma ed azione di partito, visioni e fini a lungo termine, non abbiamo mai mancato quali dirigenti della CISL di respingere ogni qual volta si è reso necessario, la concezione di un sindacalismo burocratico e senza anima. È pertanto nostra la tesi che il sindacato deve saper sviluppare una «sua» politica e qui conveniamo che trattasi, semmai, di individuare tale politica, quale può e quale deve essere [31] . Pastore, del resto, non coltivò mai una visione sindacale antipolitica o antiparlamentare. Piuttosto, la nascita della CISL si fondava sul maturato convincimento di una effettiva differenza per natura, finalità e metodo d’azione, tra la rappresentanza sociale del sindacato e la rappresentanza politica del partito. La conseguente distinzione di ruolo nel comune radicamento di un contesto democratico per lo sviluppo socio-economico si rifletteva anche nel limite che egli pose al gruppo dirigente della CISL, a partire da se stesso, nell’assumere responsabilità di direzione all’interno della DC. Nella vita di partito egli partecipò soltanto al Consiglio nazionale democristiano, col tentativo di costituirvi una sorta di presenza sindacale, come evidenzia l’evoluzione del gruppo di deputatisindacalisti che Pastore suscitò prima col raggruppamento di Coerenze sociali e poi con la corrente di Forze sociali, avviata nel 1952 [32] . Dal 1953, peraltro, Pastore maturò il convincimento che il sindacalismo democratico per conseguire i suoi
scopi dovesse «esercitare una influenza politica sui partiti e sui governi, secondo un proprio progetto politico» [33] . Continuò, in tale prospettiva, intervenendo dalla tribuna del Congresso della Democrazia cristiana del 1954, la polemica con Sturzo, che lo incalzava sul tema dei rapporti tra sindacalisti e sistema politico: Don Sturzo, a cui piace rivolgerci prediche piuttosto che darci una mano, ci domanda che cosa vogliamo quando chiediamo al partito un diverso comportamento. Niente di straordinario. Ho qui con me una documentazione corredata da date precise: maggio 1950, febbraio 1951, ottobre 1952, agosto 1953, febbraio 1954, aprile 1954, ecc. Sono date di atti postivi compiuti dai sindacati democratici al fine di favorire rapporti nuovi tra Stato democratico e sindacato democratico. Memorie elaboratissime, documentatissime, relative a problemi concreti, economici e sociali: proposte, idee, suggerimenti. Cosa vogliono i sindacati democratici, dunque, se non cooperare al consolidamento di questo Stato democratico, nell’ambito della propria competenza? [34] Pastore si attendeva risposte positive a tali sollecitazioni dai partiti politici, che da parte sua criticava per la loro interna organizzazione verticistica, col rischio di disattendere un’effettiva rappresentanza democratica dell’associazionismo politico che li sosteneva. Anche su questo tema non esitò a polemizzare sulla condotta della DC, rilevando la presenza di «certe imposizioni paternalistiche» [35] che non corrispondevano alla «volontà degli iscritti al partito»: Un partito moderno, ma soprattutto un partito che ha la responsabilità grandissima di guidare un Paese così complesso nella sua struttura e così sconvolto dai suoi problemi, – sostenne Pastore al Congresso democristiano del 1954 – deve consentire, deve promuovere, deve stimolare, deve potenziare ed incoraggiare la presenza effettiva dei suoi iscritti, nel dibattito dei vari problemi che interessano la vita sociale, la vita politica, la vita amministrativa del Paese. Deve far partecipare la base il più concretamente possibile alla elaborazione della soluzione dei problemi esistenti e di quelli che sorgono giorno per giorno [36] . D’altra parte, se non aveva mancato di richiedere alla DC e al governo di rimuovere approcci paternalistici, rivendicando un nuovo indirizzo governativo per le forze sociali in continua evoluzione, il segretario generale della CISL ancora nel 1956 doveva rivolgersi allo stesso sindacato, in particolare nel Mezzogiorno d’Italia, perché allontanasse da sé con determinazione «ogni residuo di clientelismo, di intrallazzo, di paternalismo» che venivano ancora promossi «sotto la spinta sia dei settori economici conservatori e reazionari, sia della volontà di dominio dei singoli partiti» [37] . Consapevole del lungo percorso che aspettava la crescita e il rafforzarsi della rappresentanza sociale del sindacato a molteplici livelli, Pastore proprio parlando ai sindacalisti meridionali della CISL sembrò tracciare un primo bilancio dell’iniziativa intrapresa sei anni prima: Questo del «sindacato nuovo» poteva apparire uno slogan all’inizio, esplicitamente e implicitamente polemico nei confronti di una imperversante tradizione del sindacalismo del nostro Paese. Questo convegno è un’altra clamorosa conferma della verità che non siamo più sul terreno degli slogan, ma
siamo sul terreno di una vera e propria rivoluzione introdotta nella concezione e nei metodi sindacali. È stata la conferma di un sindacato responsabile, capace cioè di un profondo esame critico [38] . Il cammino per modificare consolidate attitudini del mondo sindacale nella direzione di una maggiore soggettività della rappresentanza sindacale era dunque iniziato anche in Italia, dove era ormai diffusa la percezione culturale «che nessun programma o indirizzo sociale, nessuna politica economica, in sostanza nessuna politica tout court» poteva essere realizzata «ponendosi contro o volendo neutralizzare le organizzazioni sindacali» [39] . Tuttavia, le modalità con le quali venne predisposto da Antonio Tatò il questionario da sottoporre ai leader delle «maggiori correnti del pensiero sindacale» per realizzare un volume rivolto ad orientare il dibattito pubblico testimoniavano il permanente tentativo di presentare differenti prospettive del sindacalismo di colore o politico a fronte della proposta del movimento sindacale indipendente e unitario proposto da Pastore [40] . Così, che il segretario generale della CISL era costretto a ricordare le ragioni di novità del suo sindacato: per noi il problema della classe lavoratrice italiana non si pone prima di tutto come problema politico, di modificazione dello Stato, in quanto si pone come problema di acquisto di consapevolezza della propria posizione e della propria funzione da parte della classe stessa nell’ambito dell’attuale situazione storica del nostro Paese [41] . Per i lavoratori, dunque, sviluppare una formazione democratica significava «acquisire coscienza dei propri diritti e, pertanto, assunzione di intransigente posizione di forza nei confronti di altri gruppi sociali», da far valere nei processi di formazioni delle decisioni che riguardano la crescita del Paese: Negli organi di governo vi è riluttanza a riconoscere al sindacato un effettivo e autonomo ruolo nel determinare le decisioni di politica generale e nel garantire la correttezza delle relative esecuzioni; riluttanza mai disgiunta da dichiarazioni di stima e di apprezzamento, ma dietro la quale permangono talvolta prevenzioni storiche nei riguardi dell’azione sindacale in quanto tale, e, comunque, quasi sempre, una presunzione del potere politico di essere la sola forza capace di parlare ed operare in termini di interesse generale rispetto alla quale, da parte delle forze della società, non si ha da svolgere altra funzione che quella di chiedere udienza e di esporre i desiderata [42] . Ormai in Pastore vi era piena consapevolezza del ruolo sindacale che la CISL poteva svolgere nel complessivo processo d’incivilimento del Paese, come pilastro della sua convivenza democratica, sebbene il contributo fondamentale per gli equilibri socio-politici così offerto non fosse ancora pienamente riconosciuto dal sistema dei partiti democratici, riducendo il ruolo del sindacato al livello delle rappresentanze di altri gruppi d’interesse e dimostrando l’incapacità ad assumere una realistica visione dei rapporti tra società e politica. Restava così un problema aperto:
Quando questa carenza appartiene ai partiti democratici – che si ammantano ogni giorno di socialità, che vantano e chiedono ai lavoratori il consenso – è questo che ci spaventa: una valutazione puramente economica, e talvolta quasi esclusivamente tecnica, del problema dello sviluppo visto nei termini, certamente obiettivi, degli investimenti e i loro effetti, ma non mai inquadrata nei suoi termini sociologici e culturali e raramente provvista di prospettiva politica. Perché noi, che crediamo nella democrazia politica, noi che crediamo nella funzionalità dei partiti politici, siamo spaventati al pensiero di questa inadeguatezza, di questo distanziarsi dalla realtà. Ciò infatti vuol dire privare i partiti politici della capacità di tutela delle classi più povere del Paese [43] . Il problema si rifletteva anche nella ben organizzata corrente di Forze sociali che riunendosi a Gazzada preparò la sua partecipazione con una precisa impostazione politica al dibattito del congresso DC di Trento dell’ottobre 1956 [44] . Dopo essersi visto respingere la proposta di elezioni proporzionali per il Consiglio nazionale nell’assise congressuale, Forze sociali restò all’opposizione della maggioranza democristiana, legata alla corrente di Iniziativa democratica che condusse Fanfani al vertice della DC [45] . Per Pastore occorreva sviluppare coerentemente nel governo del Paese contenuti programmatici e politici che consentissero di tener conto dell’evoluzione sociale, superando gli ostacoli che si frapponevano nell’azione riformatrice, a partire dall’amministrazione pubblica. Egli iniziòa manifestare disagio anche nella sua stessa corrente, rispetto a chi ricercava equilibri di potere correntizi (affacciando una eventuale convergenza con la sinistra democristiana della Base) [46] , piuttosto che dar voce sul piano operativo a quel radicamento sociale che intendeva rappresentare nella dinamica politica; così, poco dopo aver sollecitato la nascita di un giornale della corrente intitolato «Il democratico», Pastore nel marzo 1957 dichiarò il suo ritiro dalla direzione attiva del raggruppamento di Forze sociali, senza rinunciare peraltro ad esercitare la sua leadership nella battaglia parlamentare [47] . Ancora dal febbraio all’aprile 1957, peraltro, nello scontro che come leader sindacale combatteva nel dibattito politico sui patti agrari [48] , Pastore doveva registrare le difficoltà della spinta riformatrice del governo Segni, strattonato tra prospettive opposte dagli alleati socialdemocratici di Saragat e dai liberali di Malagodi. Il dibattito tra i partiti democratici, sembrava arenarsi sulle formule politiche più che nella realizzazione di una efficace azione di riforma, tanto che intervistato su «Il Popolo» il 3 aprile 1957, il segretario generale della CISL doveva registrare che «il problema visto dai politici ha sue proprie prospettive, visto da noi sindacalisti ne assume altre»; si trattava «di due sfere di azione nettamente distinte», che non sembravano componibili [49] . Pastore avvertiva la necessità di trovare un canale per far riconoscere alla classe dirigente politica italiana il ruolo della rappresentanza sociale, ancora misconosciuto, in una necessaria azione riformista e democratica. Non bastava, dunque, poter contare sulla mediazione di Fanfani come segretario politico della DC, cui confidò in quel frangente l’angoscia a dover scegliere «tra il suo dovere di deputato DC e la sua convinzione di sindacalista» e la determinazione a perseguire
quest’ultima; rifiutò l’invito di Fanfani a votare con il Gruppo parlamentare e preferì percorrere la difficile strada di insistere con la sua pressione sindacale sul governo Segni [50] . Così, quando si trattò di incalzare, col segretario DC, una maggiore iniziativa riformista del governo quadripartito, nel giugno 1957 Pastore non esitò a sostenerlo, ricordando che occorreva «una netta qualificazione della politica dei partiti democratici sul piano della realizzazione di una politica di sviluppo del nostro Paese in grado di realizzare appieno una democrazia economica e sociale» [51] . Quando, invece, Pastore prese di nuovo posizione sulla riforma dei patti agrari nell’ottobre seguente votando in parlamento una proposta socialista, Fanfani richiese che fosse sanzionato sul piano disciplinare dal Gruppo parlamentare del partito [52] . La consapevolezza dell’opera compiuta nell’azione confederale e nel costume dell’associazione sindacale per suscitare una soggettività sociale capace di promuovere profonde trasformazioni e la netta percezione del divario ancora presente tra questa e il suo riconoscimento da parte della rappresentanza politica (e dell’indirizzo di governo dello Stato democratico), infine, costituirono un elemento determinante nel maturare in Giulio Pastore l’orientamento ad assumere responsabilità personali in quel campo dell’azione politica dove riscontrava maggiori resistenze al progetto che aveva avviato [53] . Rilevando come tardasse nella «democrazia politica» l’apprezzamento del ruolo della rappresentanza sindacale allo sviluppo socio-economico, tra il giugno e il luglio 1958 decise di partecipare al secondo governo Fanfani, come ministro senza portafoglio incaricato di presiedere il «comitato dei ministri per la Cassa per il Mezzogiorno» (nel 1957 prorogata fino al 1965). Egli lasciò la guida della CISL, che aveva fondato come «sindacato nuovo», nel pieno della sua autorevolezza di leader nazionale e internazionale, nel tentativo di ridurre la distanza che sembrava separare politica e società operando dal versante che allora gli apparve più critico. Poco dopo aver assunto il suo incarico governativo, nel portare il suo saluto al III congresso della CISL del marzo 1959, moralmente ancora partecipe della sfida socio-politica affidatole, Pastore volle apertamente richiamare rischi e insidie che potevano indebolire l’evoluzione di un potere contrattuale, fondato sulla forza associativa della rappresentanza del lavoro, che contribuisse alla crescita sociale, economica e politica del Paese: Attività difficile, perché bisogna stare attenti anche agli amici, a certi amici che fanno le fortune politiche parlando sempre di lavoratori ma che sembrano godere esprimendo non senza malizia un giudizio limitativo del nostro ruolo. Si tende cioè a metterci ai margini definendoci soltanto assertori di obiettivi settoriali. È un’accusa che respingiamo con forza consapevoli che la CISL non si batte solo per posizioni rivendicative, anche se giuste, ma da tali posizioni è passata ad altre, di impegno al servizio dell’intera collettività nazionale. È per questo che noi continuiamo ad insistere che il sindacato costituisce la leva principale per una politica di sviluppo ed è per questo che ribadiamo la necessità di adeguare la nostra azione a tale fine [54] . Operaio autodidatta diventato ministro della Repubblica, Pastore nell’esercitare
una responsabilità di governo si fece, dunque, interprete di un’impegnativa iniziativa politica dal significato paradigmatico. Dal dicembre 1956, infatti, doveva essere stata drammaticamente presente in lui la tensione ad individuare le condizioni per evitare di dover fronteggiare il cupo scenario che non aveva esitato a delineare apertamente: Nella misura in cui i pubblici poteri ed i partiti politici mostrano di volerci ad ogni costo ignorare, di non voler accogliere questa nostra volontà, cosa toccherà fare al sindacato democratico? Io pongo il quesito e non do la risposta. Può darsi che la CISL un giorno debba darla una risposta, se non vorrà autocondannarsi all’immobilismo che non potrà non riversarsi sulla capacità di attrazione, di polarizzazione dei consensi dei lavoratori [55] . Nell’assumere l’incarico ministeriale all’aprirsi di quella che si proponeva come una nuova stagione politica italiana, Pastore vide l’opportunità di contribuire in prima persona perché nel laboratorio della democrazia italiana le istituzioni politiche maturassero una positiva risposta alla domanda di partecipazione sociale avanzata con l’affermazione del movimento sindacale avviato con la CISL.
[1] A. Ciampani, Sindacati e associazionismo: natura costitutiva e realtà storica della rappresentanza sindacale, in La Costituzione italiana alla prova della politica e della storia 1948-2018, a cura della Fondazione Giacomo Matteotti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp.179-200. [2] La costituzione della Confederazione italiana Sindacati Lavoratori, in «Bollettino d’Informazione d’informazioni sindacali», III, 9, 15 maggio 1959, p. 34. [3] Cfr. gli atti dell’importante convegno del 25 gennaio 1985, Il progetto sindacale di Pastore, con interventi di G. Marongiu, S. Zaninelli, V. Saba, P. Carniti, in «Annali della Fondazione Giulio Pastore», XII, 1984, (1987), pp. 33-81. [4] Il discorso di Pastore pronunciato durante l’«assemblea pubblica» al Teatro Adriano del 1 maggio 1950 (cfr. V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 171 e 493) qui infra, pp. 149-150. [5] Ibid., p. 152. [6] V. Saba, Giulio Pastore: le salde ragioni di un leader sindacale, cit., p. 10. [7] Cfr. l’intervento di Pastore in «Conquiste del lavoro» del 7 maggio 1950, qui infra, p. 152. [8] S. Zaninelli, V. Saba, Mario Romani, La cultura al servizio del sindacato nuovo, Rusconi, Milano 1995. [9] Il problema europeo della manodopera, in «Bollettino d’Informazione d’informazioni sindacali», III, 8, 30 aprile 1950, p. 6. [10] A. Ciampani, E. Gabaglio, L’Europa sociale e la Confederazione europea dei sindacati, Il Mulino, Bologna, 2010. [11] A. Ciampani, Prospettiva nazionale e scelte per l’Europa: i sindacati italiani nel confronto internazionale sulla Comunità Europea di Difesa, in La Comunità Europea di Difesa (CED), a cura di P. L. Ballini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 251-301; A. Ciampani, L’Europa dei sindacati. La Cisl e la Cgil nel percorso europeo avviato dai Trattati di Roma, in I Trattati di Roma, Tomo I. I partiti, le associazioni di categoriale e sindacali e i Trattati di Roma, a cura di P. L. Ballini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 151-228. [12] Cfr. la prima pagina di «Conquiste del lavoro» del 7 maggio 1951. [13] L’intervento di Pastore alla Camera dei Deputati del 24 gennaio 1955 ora infra, pp. 193-197. [14] Così la relazione di Pastore riportato da «Conquiste del lavoro», 24 giugno 1951, ora infra, p. 158. [15] Ibid., p. 159. [16] Il testo delle Linee d’indirizzo sindacale, approvato con la fiducia a Pastore in «Bollettino d’Informazione d’informazioni sindacali», III, 12, 30 giugno 1950, pp. 12-16 (cui segue il testo operativo Obiettivi dell’azione sindacale, pp. 16-18). [17] «Conquiste del Lavoro», 2 luglio 1950, pp. 1 e 2. [18] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 494. [19] Così scriveva su «Il Globo» ancora il 28 febbraio 1952; qui infra, pp. 160-161. [20] A. Ciampani, Lo statuto del sindacato nuovo, cit., pp. 192-195. [21] A. Carera, Allievi sindacalisti. Formazione e organizzazione al Centro studi CISL di Firenze (1951-1952), Bibliolavoro, Milano 2007. [22] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 247-248. [23] Fiat: il significato di una vittoria. W i lavoratori di Torino!, in «Conquiste del lavoro», 7 aprile 1956; qui infra, pp. 208-209. [24] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 296-297.
[25] Intervento alla Camera dei Deputati, seduta del 2 agosto 1954; qui infra, pp. 179-192. [26] Ibid., p. 189. [27] Ibid. [28] Così su «Gioventù», foglio della Gioventù Italiana di Azione cattolica, il 27 dicembre 1953, qui infra, pp. 169-171. [29] Così Pastore, in Sindacati e partiti, in «Conquiste del lavoro», 9 marzo 1952; qui infra, p. 165. [30] Ibid., pp. 166-167. [31] Ibid., p. 166. [32] G. Bianchi, Un episodio laburista nell’Italia degli anni Cinquanta: la vicenda di Forze sociali, in Cattolici e società italiana tra tradizione e secolarizzazione, a cura di O. Bianchi, Edizioni del Sud, Bari 2004, pp. 107-168 e G. Bianchi, Giulio Pastore: un politico per il lavoro, lo sviluppo, il dialogo sociale, introduzione a Pastore. Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 2012 2, pp. XVIII-XX. Sulle correnti DC ora V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. [33] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 269. [34] Discorso al V Congresso nazionale della DC (Napoli, 26-30 giugno 1954), qui infra, p. 178. [35] Ibid., p. 173. [36] Ibid. [37] Discorso al Convegno della CISL sulla politica meridionalistica (Napoli, 14-16 dicembre 1956), qui infra, pp. 198206. [38] Ibid., p. 199. [39] Avvertenza, in I sindacati in Italia. Saggi di G. Di Vittorio, G. Pastore, I. Viglianesi, G. Rapelli, F. Santi, E. Parri, G. Canini, Laterza, Bari 1955, p. VI. [40] Nel dicembre 1955, il primo numero del quindicinale della CGIL «Rassegna sindacale», diretta proprio da Tatò, avrebbe ospitato in polemica con Pastore un intervento del sindacalista cattolico Rapelli. Tatò darà poi sarà più tardi uno dei maggiori collaboratori di Enrico Berlinguer; A. Tatò, Caro Berlinguer. Note e appunti di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Einaudi, Torino 2002. [41] Così nel testo di Pastore in I sindacati in Italia, cit., p. 137 . [42] Discorso al Convegno della CISL sulla politica meridionalistica (Napoli, 14-16 dicembre 1956), qui infra, p. 204. [43] Ibid., qui infra, pp. 204-205. [44] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 375-379. [45] V. Capperucci, Introduzione, in A. Fanfani, Diari, vol. III, 1956-1959, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 16; ivi anche pp. 111 e 112. [46] Su questa corrente DC ora M. C. Mattesini, La Base. Un laboratorio di idee per la Democrazia cristiana, Studium, Roma 2012. [47] G. Bianchi, L’esperienza di Forze sociali (1952-1958), in «Annali della Fondazione Giulio Pastore», XIV, 1985, (1987), pp. 70-73 e 93-94. [48] Sullo scontro relativo ai patti agrari vedi V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 392-395 e 518-519; cfr. ora anche A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., pp. 176-180.
[49] A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., pp. 190-191. [50] Il 7 aprile 1957 Fanfani annota: «Viene da me Pastore. È angosciato. Lo avverto che non può non votare con il Gruppo DC pur esponendo parere contrario. Dice che non potrà far ciò»; ivi, p. 192. [51] Cfr. «Conquiste del lavoro», 22 giugno 1957, cit. anche in A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., p. 226. [52] Ciò non impedì a Fanfani, il 12 ottobre seguente, di essere testimone di nozze della figlia di Pastore; A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., pp. 226-227. [53] Vedi anche le osservazioni di V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 415. [54] Dal saluto di Pastore al III Congresso della CISL (Roma, 19-22 marzo 1959), qui infra, p. 211. [55] Così ancora nel citato intervento al Convegno della CISL del 14-16 dicembre 1956, qui infra, p. 206.
III. UN PROBLEMA APERTO (1959-1969): LA R A P P R E S E N TA N Z A S O C I A L E N E L L A R E P U B B L I C A D E I PA R T I T I
Durante il 1958 parvero disegnarsi nuovi scenari per un’Italia profondamente mutata nel primo decennio d’esperienza repubblicana. Per quanto riguardava le dinamiche politiche, dopo il risultato ottenuto dalla Democrazia cristiana alle elezioni di maggio (oltre la soglia del 42% dei voti), il segretario politico della DC, Amintore Fanfani, ottenne la formazione di un governo che lo vide assumere anche la presidenza del Consiglio dei ministri, coinvolgendo il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat come vicepresidente. Fanfani si presentò con una forte impronta di riformismo politico nel campo socio-economico e con un visibile protagonismo in politica estera. Egli propose un percorso che avrebbe dovuto condurre alla formulazione di alleanze di centro-sinistra, incalzando il partito socialista a compiere il cammino di allontanamento dai comunisti iniziato dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Proprio la forza di questo attivismo politico, nel quadro delle attese per un aumento del reddito e della produzione nella crescita complessiva del Paese, suscitò insieme all’interesse sperato anche convergenti opposizioni; i partiti della destra tentarono di condizionare dall’esterno la DC sul piano delle formule governative, così come i comunisti ricercarono possibili strategie per impedire che il proprio isolamento politico si aggravasse. Del resto, mentre nuove tensioni si svilupparono con parte della Conferenza episcopale italiana sul significato delle aperture di Fanfani verso i socialisti, all’interno della DC crebbero assieme il timore di una eccessiva concentrazione di responsabilità politiche nelle mani del leader aretino e la preoccupazione del mantenimento in equilibrio del sistema politico attorno al perno democristiano [1] . Fu in questo complesso scenario che nell’estate 1958 Pastore ritenne possibile offrire il suo personale impegno a sostegno di un quadro di stabilità governativa, ottenuto col concorso dei partiti democratici, per l’attuazione di quella «coraggiosa politica di sviluppo economico e sociale» che il Comitato esecutivo della CISL aveva auspicato ancora nel giugno 1958. Di fronte alle difficoltà che da un paio d’anni impedivano di compiere un salto di qualità al riconoscimento degli attori sociali nella politica della classe dirigente dei partiti democratici – come
dimostrava anche la resistenza ad avviare le politiche di concertazione tripartite proposte dalla CISL – il leader sindacale considerò un’opportunità, così difficile quanto praticabile, l’occasione offerta dalla congiuntura politica di esercitare in prima persona un ruolo di governo. Interessato a coinvolgere ampi ceti sociali in un disegno riformistico di maturazione politica [2] , Fanfani non poteva ignorare la proposta di Pastore, cui riconosceva capacità organizzative (fin dall’inizio della sua esperienza democristiana a Roma accanto a Dossetti nel 1945 [3] ), moderna declinazione degli ideali cattolici sul piano economico-sociale (grazie al gruppo di studiosi guidati da Romani), radicata leadership dentro e fuori l’elettorato democristiano (attraverso l’attrazione che la sua figura esercitava tra i lavoratori e i sindacalisti nelle realtà locali). La corrente democristiana di Forze sociali, del resto, all’inizio della terza legislatura repubblicana aveva ottenuto l’elezione di una trentina di parlamentari DC, come esito di un impegno riformista apertamente voluto dalla CISL [4] . Tutti questi fattori, rafforzati da uno sperimentato rapporto personale, condussero il segretario della DC a resistere a coloro che, nella fase di consultazione per la formazione del Gabinetto, chiedevano fosse attribuito a un meridionale l’innovativa responsabilità ministeriale per il Mezzogiorno e le aree depresse dell’Italia [5] ; in realtà, «l’impegno per il Mezzogiorno era solo l’esempio più rilevante di un approccio politico complessivo, tipico dell’approccio di Fanfani e della classe dirigente di cui egli era espressione» [6] . In tale prospettiva, se Fanfani non poteva rinunciare a Pastore, questi non avrebbe potuto sottrarsi al nuovo compito coraggiosamente assunto. Pastore, infatti, ritenne di poter allora confidare sull’affermata leadership carismatica del presidente del Consiglio per congiungere nell’azione di governo impegno programmatico e centralità sociale dei partiti [7] . Se Fanfani appariva interessato ad ampliare la partecipazione politica, per Pastore si trattava di sviluppare la partecipazione «come espressione di una libertà che toccava tutte le esperienze della vita personale e sociale e che poteva essere portatrice di innovazioni istituzionali e strutturali al cui centro era posta la piena dignità di vita e di lavoro per tutti gli uomini» [8] . La tribuna e il campo di responsabilità ottenuti nel ministero – la responsabilità per il coordinamento dell’intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno e nelle aree depresse del Centro e del Nord dell’Italia – potevano costituire l’occasione per alimentare un ripensamento culturale in tale direzione e sperimentare un paradigmatico metodo di governo ad esso coerente. Il profilo politico di Pastore, del resto, era ormai ben riconoscibile: mantenersi sempre nel solco di una solidale presenza pubblica dei cattolici nella società italiana senza mai inclinare al confessionalismo; sostenere il riformismo sociale senza mai rinunciare all’avversione per la politica comunista come ideologia totalitaria; rivendicare la partecipazione delle forze sociali nel partito a sostegno di una democrazia partecipata senza mai accedere al disinvolto professionismo politico presente nella sinistra DC. Contemporaneamente, Pastore lasciò la leadership della CISL, allora assunta da Bruno Storti, in continuità col disegno di crescita sociale che lo aveva spinto a fondare il «sindacato nuovo» rivendicando l’autonomia sindacale dai partiti e dai governi.
Consapevole della difficile situazione politica in cui si sarebbe trovato ad operare, Pastore ancora una volta chiamò intorno a sé noti studiosi e giovani brillanti per assisterlo in diversi campi, da Mario Romani a Vittorio Bachelet, da Giovanni Marongiu a Giuseppe De Rita, da Vincenzo Scotti a Sergio Zoppi. Sollecitò anche la nascita di una rivista politico-culturale, «Il Nuovo Osservatore», con l’intento di alimentare la formazione di una cultura politica che, ragionando sulle principali dinamiche socio-politiche del tempo, elaborasse proposte d’intervento, costituisse terreno di formazione di una giovane classe dirigente, promuovesse il dialogo tra diversi indirizzi politici [9] . Alla fine del novembre 1958 cessava nella DC l’esperienza della corrente di Forze sociali per lasciar spazio a un più ampio raggruppamento di Rinnovamento democratico, in cui accanto all’autorevole presenza di Pastore come ministro della Repubblica era crescente il ruolo rivendicato nel partito da Donat-Cattin, Storti e Livio Labor. Nell’approssimarsi del successivo congresso democristiano, peraltro, si manifestò appieno la forza degli ostacoli che avrebbe dovuto affrontare la progettualità di Pastore, modificando gli scenari politici in cui era maturato il suo impegno nel governo. Per comprendere l’evoluzione e le difficoltà del suo sforzo per il riconoscimento della crescente soggettività sociale in uno Stato democratico, dunque, èopportuno soffermarsi sulle dinamiche politiche che tra il 1959 e il 1960 lo videro attivamente partecipe. La fronda interna che stava maturando contro Fanfani nella corrente DC di Iniziativa democratica si rifletteva sull’indebolimento del governo e del suo indirizzo politico; così già nel dicembre 1958 Pastore, contrario alle dimissioni del Gabinetto, giunse a suggerire al presidente del Consiglio di lasciare piuttosto la segreteria del partito [10] . Emerge fin da subito, dunque, il determinato prevalere dell’impegno governativo di Pastore rispetto alla lotta di corrente nel partito. Secondo una cultura maturata nella sua formazione politica, all’opera di governo Pastore attribuiva il possibile esercizio di un ruolo politico d’indirizzo che fosse immediatamente operativo sul piano delle trasformazioni sociali: le alleanze e gli equilibri di partito dovevano essere comunque finalizzati all’opera di sviluppo da compiere, nell’interesse delle classi lavoratrici, per l’edificazione di una società democratica. Alla caduta del secondo governo Fanfani, seguito dalle dimissioni da segretario della DC, dunque, Pastore nel marzo 1959 risolse di mantenere la propria responsabilità nel successivo governo Segni, monocolore democristiano che avrebbe dovuto mantenere un profilo riformatore pur ricercando sostegno da “linee convergenti” alla sinistra e alla destra del partito [11] . Contemporaneamente, Pastore lavorò per far respingere le dimissioni di Fanfani dal vertice del partito; inutilmente, tuttavia, la corrente Rinnovamento democratico sostenne un voto in tal senso nel Consiglio nazionale DC di marzo di fronte alla manovra della nuova corrente dorotea che aveva individuato in Aldo Moro il nuovo segretario democristiano [12] . Pastore si ritrovò così all’opposizione politica nel suo partito, accanto ai fanfaniani – presto riuniti nella corrente Nuove Cronache –, così come agli esponenti della sinistra democristiana della Base ed agli uomini, come Tambroni, vicini al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nel governo e nella Democrazia cristiana Pastore restò fedele all’impegno assunto pochi mesi prima in ben altro contesto. Insofferente della politica
centrista di Segni [13] , continuò a ricercare un ritorno al governo di Fanfani, incoraggiandolo a distinguersi dalla sinistra della Base [14] . Sollevando una polemica sull’importanza del radicamento popolare e sul rispetto dell’indirizzo degli iscritti al partito, infine, la corrente di Rinnovamento democratico seguì Pastore a fianco di Fanfani nei congressi provinciali di preparazione al Congresso nazionale della DC che si tenne nell’ottobre 1959 a Firenze, in cui la candidatura del leader aretino si sarebbe contrapposta a quella del leader pugliese. Le due progettualità politiche, diversamente modulate sulla forza programmatica del partito e sulla verifica della effettiva disponibilità ideologica dei socialisti a possibili accordi, non dovevano apparire così distanti, se alla vigilia dell’assise congressuale Moro poteva ritenere possibile la presentazione di una sola mozione, pur restando distanti le valutazioni sulla reazione della destra italiana [15] . Il confronto congressuale restò in bilico fino all’ultimo, quando grazie all’accordo trovato con Giulio Andreotti – e al metodo elettorale maggioritario voluto nel 1956 che consentiva di votare esponenti di altre liste – Moro ottenne un Consiglio nazionale a lui favorevole [16] . In effetti, il risultato del Congresso, che pose a capo del partito di maggioranza una leadership fragile, non mutò le priorità di Pastore, deciso a puntare le sue carte sulla qualificazione democratica e sociale della sua presenza al governo, intensificando la sua pressione sulla presidenza del Consiglio, il cui indirizzo apparve sempre più distante dall’azione riformatrice del precedente Gabinetto. Gli eventi successivi dimostrarono la determinazione e il carattere politico della scelta governativa di Pastore, accompagnando un nuovo mutamento di scenario che segnerà la sua iniziativa fino al 1963. Caduto il governo Segni, dopo aver sondato le diponibilità di Leone e dello stesso Moro, infine, il presidente della Repubblica Gronchi il 21 marzo 1960 diede all’esponente della sinistra democristiana a lui più vicino, Fernando Tambroni, l’incarico di formare un “governo amministrativo”, che assunse presto la forma di un ennesimo monocolore DC disposto ad accettare in una sorta di “pendolarismo” ora i voti della destra ora i voti socialisti. Le manovre interne alla Democrazia cristiana e l’iniziativa del presidente della Repubblica nella gestione della crisi indebolirono la leadership e la collegialità della DC, mentre si registravano preoccupazioni vaticane di una scissione a destra nella DC [17] . In tale contesto, Storti sollecitò il 5 aprile 1960 nel Gruppo parlamentare democristiano il voto di una pregiudiziale verso il partito neofascista del Movimento Sociale Italiano, che fu rifiutato da Tambroni così come l’ipotesi di eventuali dimissioni prima di una fiducia alla Camera dei deputati ottenuta con determinanti voti missini. Quando l’8 aprile 1960 si verificò alla Camera il sostegno decisivo dei neofascisti per la costituzione del governo, subito giunsero le ferme dimissioni da ministro di Pastore, cui seguirono il giorno dopo l’indisponibilità di Tambroni a una valutazione collegiale della situazione politica e le dimissioni dei ministri Fiorentino Sullo e di Giorgio Bo [18] . Anche alla luce dell’esperienza effettuata nel governo Segni, Pastore volle contribuire col suo gesto ad un duplice chiarimento pubblico, sul piano del rafforzamento della sua autorevolezza politica e su quello dell’indirizzo politico del governo democristiano. Nella lettera di dimissioni inviata al presidente del
Consiglio, egli dichiarò di sciogliere la riserva già avanzata il 28 marzo qualora il voto parlamentare avesse rivelato decisivo l’appoggio missino: per Pastore non era possibile ritenere «in alcun modo positivo per il Paese il perpetuarsi di incoerenti comportamenti quando si partecipa a posti di responsabilità nella guida politica del Paese» mantenendo in vita un governo che, secondo le linee programmatiche che l’avevano suscitato qualche giorno prima nella Direzione del partito, avrebbe dovuto ribadire nello stesso tempo la «vocazione antifascista e anticomunista della DC» [19] . Le dimissioni di Pastore assunsero un valore paradigmatico del suo approccio all’opera di governo nella giovane democrazia italiana: egli mostrò di non essere disponibile a conservare a qualunque costo il potere ministeriale conseguito lasciando alle spalle gli onori della sua iniziativa sindacale, accettando piuttosto l’esercizio della responsabilità politica, che poteva implicare anche sacrificio e rischio di non essere ben inteso, come servizio ad una progettualità sociale democratica [20] . Egli pose così un limite invalicabile per la sua adesione ad una compagine governativa: «Il far politica rappresentava per lui una nuova occasione per servire gli ideali in cui credeva e per impostare una concezione nuova di partecipazione attiva nella elaborazione delle grandi scelte politiche» [21] . Nell’immediato la posizione di Pastore parve indebolirsi, per tornare più forte nei mesi seguenti. Ridistribuito nel Consiglio dei ministri l’ interim dei dicasteri dei tre dimissionari, Tambroni apparve intenzionato a resistere alla tempesta politica, dopo essere stato costretto a dimettersi a sua volta. Infatti, in aprile dopo la rinuncia di Fanfani a formare un nuovo governo, alla luce degli interventi delle gerarchie ecclesiastiche e dei “casi di coscienza” di alcuni parlamentari DC, Gronchi respinse le dimissioni di Tambroni e lo invitò a presentarsi al Senato per ottenere la fiducia, come governo provvisorio in vista della legge di bilancio. Il tentativo successivo di dare prospettiva di più lunga durata al governo forzando il partito, la maldestra gestione politica della querelle sul congresso del MSI a Genova nel giugno successivo e la drammatica prova di forza nella mobilitazione di piazza in nome dell’unità antifascista, portarono all’isolamento di Tambroni [22] . Nelle convulse fasi del luglio 1960 la DC trattò per costituire un governo centrista con l’astensione di socialisti e monarchici; il 14 luglio incontrando Fanfani il leader liberale Malagodi giunse a chiedere nel governo oltre alla presenza dello statista aretino anche quella dello stesso Pastore! [23] E Pastore, che proprio nel critico mese di giugno aveva assunto in prima persona la direzione de «Il Nuovo Osservatore» per rafforzarela sua presenza nel dibattito pubblico, in effetti riprese il suo posto nel III governo Fanfani di “centro democratico”. Pastore ora si trovava nel cuore di un’evoluzione politica che poteva incontrarsi con le sue aspettative. La riaffermata capacità di mediazione di Moro dopo le elezioni amministrative dell’ottobre 1960 favorì alleanze con i socialisti nei governi cittadini di Milano, di Genova e di Firenze. Nel 1961, peraltro, i cattolici potevano festeggiare i cento anni dell’Unità d’Italia al governo del Paese e insieme celebrare l’enciclica Mater et Magistra sui «recenti sviluppi della questione sociale alla luce della dottrina sociale» del pontefice, Giovanni XXIII, che stava preparando l’apertura del Concilio Vaticano II. Moro e Fanfani si muovevano ormai verso l’attuazione della nuova formula politica del centro-sinistra, come fu evidente nella vigilia del Congresso democristiano di Napoli del gennaio 1962,
dedicato a «La responsabilità della DC per il governo del Paese e lo sviluppo democratico della società italiana». Confermato Moro alla segreteria del partito, anche col sostegno di Rinnovamento democratico, seguì nel febbraio il conferimento a Fanfani dell’incarico di formare il primo governo di centrosinistra, composto da democristiani, socialdemocratici e repubblicani con l’astensione socialista. Pastore si trovò così nel vivo nell’orizzonte politico democristiano, con una precisa identità politica: fu dunque confermato nell’incarico di presiedere il comitato dei ministri per il Mezzogiorno e le aree depresse del Paese non solo nei governi Fanfani del 1960 e del 1962, ma anche nel breve monocolore Leone del giugno 1963 e nel primo governo organico di centrosinistra del dicembre seguente, guidato da Aldo Moro, con la vice presidenza di Pietro Nenni [24] . Se questa permanenza di Pastore nella compagine governativa suggerisce il mantenimento della sua funzione cardine negli equilibri conseguiti nell’ambito del sistema dei partiti, tuttavia, le stesse vicende richiamate consentono di percepire la difficile temperie politica, dentro e fuori il partito, che egli dovette in effetti affrontare. Sul piano della gestione dell’azione di governo per il Mezzogiorno, egli cercò di sviluppare il ruolo di coordinamento assegnato all’intervento statale, coinvolgendo il parlamento nella ripresa economica del Sud e i soggetti sociali dei territori nelle politiche di sviluppo. Pastore perseguì il suo lavoro con il metodo sperimentato: al continuo confronto col gruppo di studiosi che aveva chiamato attorno a sé, egli con una grande dedizione accompagnò la sua continua presenza nei territori, per testimoniare di persona come «tutte le opere realizzate» mirassero a «perseguire gli obiettivi di crescita umana e sociale» delle popolazioni [25] . Per il ministro l’intervento dello Stato democratico nei processi di sviluppo, nel Sud Italia come nelle aree arretrate del Centro-nord, doveva tener conto di due fattori decisivi: l’associazionismo è indispensabile per coordinare le esigenze più diverse, per programmare gli interventi necessari per operare in unità d’intenti onde rendere possibile il raggiungimento di certi traguardi; i problemi amministrativi devono essere affrontati con valutazioni moderne, chiare, con l’impegno più fermo e la volontà più determinata a piegare gli ostacoli burocratici e funzionali al servizio dei risultati da conseguire [26] . In tal senso Pastore si impegnò a modificare la gestione della Cassa per il Mezzogiorno, lavorò alla realizzazione nel 1961 di un Centro di formazione e studi per il Mezzogiorno (FORMEZ), promosse la ristrutturazione dell’Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale e l’Istituto regionale per i finanziamenti industriali in Sicilia, condusse in porto la realizzazione di un articolato piano di rinascita della Sardegna. Il ministro, insomma, intervenne nel «secondo tempo» della Cassa per il Mezzogiorno, sorta nel 1950, introducendo un «terzo tempo» incentrato sul fattore umano, la cui crescita culturale e civile doveva accompagnare riforme strutturali e progresso sociale, come evidenziò nelle prime relazioni annuali al parlamento sullo stato dell’intervento straordinario nel Sud [27] . Considerando lo sviluppo del meridione come questione nazionale, egli
promosse il rinnovamento della sua classe dirigente, con competenze e approcci adeguati per connettere tutti i diversi profili che dovevano caratterizzare un processo di sviluppo dell’articolato mondo del lavoro del Sud; perciò egli sostenne l’educazione, l’istruzione e la formazione delle popolazioni, coinvolgendo amministrazioni locali e valorizzando associazioni di rappresentanza professionale. Al centro del suo impegno Pastore pose la possibilità di suscitare un rinnovato protagonismo sociale, attraverso la crescita nel Mezzogiorno di una società «realmente in grado di prendere in mano il proprio destino: è il problema della partecipazione dei cittadini alla gestione del potere, è il problema di offrire alle coscienze le premesse economiche, intellettuali, giuridiche per maturare appieno la loro dimensione civile e politica» [28] . In questa sede occorre osservare, dunque, come la sua azione quale ministro e politico continuasse a riproporre il motivo originario che l’aveva mosso ad affrontare le resistenza al compimento della sua opera nel riequilibrare il rapporto tra rappresentanza sociale e primato dell’azione politica. Una impostazione che non venne meno in seguito, nell’affrontare percepite difficoltà, errori di valutazione e ancora drammatici tornanti. Se nel movimento sindacale era riuscito a modificare la tradizionale dipendenza della rappresentanza sindacale dal sistema dei partiti, presente anche nel campo cattolico, ora attraverso l’opera di governo egli tentò di favorire un compiuto ampliamento della partecipazione sociale ai processi di formazione delle decisioni. Pastore ricordò che il potere politico doveva, certo, mantenere funzioni di coordinamento dell’indirizzo socio-politico del Paese, senza sostituirsi comunque alle forze sociali, ma anzi coinvolgendo la masse lavoratrici (con un linguaggio condiviso con la novecentesca classe dirigente italiana) a sostegno del nuovo Stato democratico in costruzione; uno Stato nel quale la giustizia sociale doveva basarsi sulla tutela della dignità e del rispetto della persona. Pastore non esitò ad intervenire nel I convegno nazionale di studio della Democrazia cristiana svoltosi a S. Pellegrino nel settembre 1961 proprio per soffermarsi sul rapporto tra classi sociali e sintesi politiche, ricordando il contrasto tra «strutture vecchie» ed «esigenze nuove», tra «Stato gerente» e «Stato operatore», «legato al problema – peraltro non risolto – dei rapporti Stato società» [29] . Pastore, infine, tornò a insistere su ciò che più gli stava a cuore: perseguire il bene comune con una «azione programmatica dello sviluppo economico sociale della comunità» significava trovare «forme di coordinamento tra le scelte individuali e quelle collettive e rendere possibile per gli operatori individuali di raggiungere un determinato obiettivo che la comunità collettivamente si pone». Richiamando Romani, egli sottolineòcome in tale percorso lo Stato dovesse rispettare «autonomie e libertà dei gruppi»: L’unica soluzione possibile va ricercata in forme di integrazione tra potere politico e gruppi sociali intorno a misure e finalità preventivamente determinate. Ne consegue la finalità per lo Stato di dare alla propria organizzazione una funzione dell’esercizio democratico del potere che si fondi sul consenso ed appoggio permanente delle forze sociali [30] . In tal modo egli evidenziò ancora una volta l’esigenza di una classe politica che,
adempiendo alle sue «funzioni di sintesi e di visione generale», non facesse «il mestiere che compete alle forze sociali nelle loro diverse articolazioni». La posizione del ministro non mancò di esprimersi, ancora dopo il Congresso di Napoli, all’interno del Consiglio nazionale della DC del 3-5 luglio 1962, proponendo alcune riflessioni che guardassero oltre il dibattito politico congiunturale sulla nazionalizzazione del settore elettrico, considerato elemento politico funzionale alla realizzazione del centro-sinistra. Schierandosi a favore dell’approccio di Moro e Fanfani, Pastore rilevò che il peso assunto nella vita economica di grandi gruppi industriali era diventato tale che non solo premeva sull’azione di governo, ma giungeva a indirizzare le aspettative sociali, rischiando di violare le libertà degli individui e comprimere la vita di un mondo del lavoro che, spesso con sacrificio, sosteneva il benessere della collettività. D’altra parte, le conclusioni finali dell’intervento di Pastore, riprese nel successivo numero de «Il Nuovo Osservatore», tornavano a riflettere sulle responsabilità dei pubblici poteri per un loro «rinnovamento democratico», quasi a richiamare il senso della corrente organizzata nel partito che a lui intendeva far riferimento. Aumentare l’intervento statale non era un fatto positivo, se ad esso non seguiva «un allargamento della base decisionale dello Stato»: In tutti questi anni, approfondendo le esperienze fatte nella vita sindacale e politica, abbiamo chiaramente capito che il vecchio problema della partecipazione dei lavoratori alla vita dello Stato non si risolve con la semplice rappresentanza politica, ma mettendo quotidianamente a confronto le decisioni pubbliche con le volontà espresse autonomamente dalle collettività minori e dai gruppi sociali organizzati. Dare sviluppo democratico al nostro Paese, secondo noi significa rendere più vivace, più continuo questo confronto e questa dialettica tra le rappresentanze politiche da una parte, le autonomie locali e le autonomie sociali dall’altra [31] . Sulle stesse tematiche Pastore tornerà, quasi a commento della relazione di Moro al congresso di Napoli, nel suo secondo intervento al convegno democristiano di San Pellegrino nell’autunno 1962 dedicato a La Società italiana. Riprendendo i temi della politica di piano e della programmazione economica egli colse ancora l’occasione per riaffermare, rispetto alla centralità dei partiti nell’azione politica, il ruolo fondamentale delle comunità intermedie per la difesa delle libertà personali e per l’educazione alla società democratica. Criticò, dunque, un intervento statale che attraverso la programmazione agisse a posteriori, per correggere «squilibri nella distribuzione del reddito fra categorie e zone territoriali» [32] . Così concepita la programmazione non risponde alla esigenza di uno sviluppo ordinato della società. La programmazione, a mio parere, deve invece garantire una crescita della società secondo valori che non siano imposti dal puro gioco economico ma rispondano invece all’interesse sociale nel significato economico e morale del termine. [...] Programmare significa pertanto sostituire alle soluzioni dettate solo dal mercato e dal profitto, una regolazione intelligente e razionale, una scelta deliberata e cosciente delle priorità economiche in funzione
dell’interesse collettivo. In altri termini, un’azione diretta dello Stato, come espressione organica della comunità, non tanto per l’equilibrio della congiuntura, quanto in funzione di obiettivi a lunga scadenza [33] . Egli rovesciava così l’idea della programmazione come un intervento tecnico e verticistico, per rinviare a dinamiche concertative, avviate con la conferenza triangolare per lo sviluppo economico del gennaio 1961 e messe subito in discussione dall’approccio seguito alla Nota aggiuntiva di La Malfa del maggio 1962 [34] . Ancora una volta Pastore, utilizzando il dibattito sull’intervento statale in economia, additava in modo sempre più chiaro l’obiettivo di un allargato processo di formazione delle decisioni, ricomponendo il rischio di una accentuata frattura fra Stato e società: «Sono allora le caratteristiche della società futura, per cui ci si batte, sono i valori reali partecipati a tutti e da tutti e nella concreta esperienza storica, a costituire le mete in funzione delle quali si deve articolare l’azione di programmazione dello Stato» [35] . Dal conseguimento di tale fine dipendeva la possibilità di edificare uno Stato democratico, grazie al rafforzamento delle forze sociali e al maggiore protagonismo della società locale: L’azione politica rinunciando ad un suo ruolo esclusivista e paternalista deve, quindi, sollecitare la crescita dei gruppi, favorire quella ricomposizione organica della società di cui parla il magistero pontificio, perché sulla base di una società ricostruita e cosciente sia possibile ristrutturare lo Stato ed allargare la base del potere politico. A questa ricostruzione della società il piano contribuirà se esso riuscirà ad interessare adeguatamente gli enti locali, visti non più come enti strumentali rispetto alle finalità statuali, ma come enti dotati di una propria originalità di potere o come tali in grado di contribuire a determinare un tipo di sviluppo delle comunità che amministrano [36] . Per Pastore «la nuova forza motrice dell’organizzazione sociale, attorno alla quale sia realizzabile una solidarietà di interessi e di posizioni», non può essere ricercata nel rafforzamento ideologico dei partiti, nei programmi politici dei governi o, tantomeno, nelle tecniche di programmazione. Piuttosto, seguendo il filo dei ragionamenti affacciati negli anni Cinquanta, essa gli appare in realtà il frutto di una elaborazione che avviene lungo il corso della vita sociale, nelle lotte condotte dai gruppi che da una posizione subalterna intendono risalire ad una funzione dirigente, nello sforzo che le comunità di interessi o di territorio fanno per ritrovare una loro unità e insieme una loro collocazione all’interno del più ampio travaglio della società [37] . È in questo problema storico di ampliamento delle classi dirigenti, ancora segnate da pregiudizi verso il contributo delle forze sociali per «la costruzione politica della società», che si poneva dunque la questione democratica. Così, avverte il ministro Pastore nel maggio 1962: «naturalmente bisogna anche guardarsi dal credere che la democrazia sia un fatto compiuto nel nostro Paese»! Il «problema di fondo, storico» per la democrazia italiana consisteva, infatti, nel
«passaggio dei lavoratori da gruppo diretto, la cui azione è intesa oggi soltanto ad ottenere concessioni marginali nell’ambito del sistema, a gruppo capace di suggerire ed imporre soluzioni globali sul piano degli interessi collettivi». Sarebbe stato, così, possibile modificare «la ristrettezza del ceto dirigente», «il dominio incontrastato di certe forze dominanti in campo economico» e «un certo deprecato isolamento della classe politica». All’interno del dibattito sulla politica di piano Pastore intravvede «il processo di democratizzazione che avanza», ponendo «tutti i gruppi sociali come uguali di fronte allo Stato» al fine di ricondurre «gli interessi particolari all’interesse generale, collettivo»: Il processo di democratizzazione non è, però, né il capitalismo di Stato che sostituisce il capitalismo privato, né un gruppo di tecnici che prendono decisioni finora lasciate agli imprenditori; esso è, esattamente, la presa di coscienza di gruppi sociali finora tenuti o in posizione subalterna o in posizione marginale rispetto alla direzione politica, che diventano classe dirigente e che concorrono con tutti gli altri gruppi alla gestione della vita sociale [38] . Se dunque la classe politica avesse rinunciato «ad essere la sola ed esclusiva depositaria del bene comune», mantenendo la sua vocazione di forza di interpretazione e mediazione, mentre la rappresentanza sociale avesse acquisito «una visione globale degli interessi della società», abbandonando il ruolo marginale di «semplici organismi di tutela di interessi ristretti di gruppo», sarebbe stato possibile dare anche «una funzione politica, reale non fittizia, alle classi nuove e al movimento operaio». Pastore era ben consapevole che il percorso era stato appena avviato e, come abbiamo visto, che numerosi ostacoli si sarebbero frapposti al cammino, tanto dall’interno quanto dall’esterno del sistema politico. Nondimeno egli non intendeva rinunciare alla sua ambiziosa finalità: Occorre, infatti, far procedere gradualmente le cose: dare inizialmente all’intervento pubblico programmato obiettivi in sé limitati, ma non privi tuttavia di collegamento con gli obiettivi più generali a cui si è accennato; obiettivi che siano oggi in buona parte accettabili dalle diverse forze in gioco; e sollecitare, intanto, non solo la partecipazione esterna dei gruppi in particolare dei lavoratori, ma una loro progressiva assunzione di responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi del piano [39] . Il linguaggio e l’argomentazione si stavano facendo sempre più articolati, con la maturazione personale e con il ruolo politico acquisto grazie alla sua posizione di governo; tuttavia, il progetto di fondo su cui insisteva Pastore era quello disegnato da tempo, portando «nella vita pubblica l’ansia di trovare i modi e le forme per far crescere l’influenza dei lavoratori: per renderli sempre più partecipi e responsabili della elaborazione delle politiche di sviluppo e di progresso» [40] . D’altra parte, egli doveva sottoporre a un continuo riequilibrio la propria iniziativa perché le decisioni connesse ai suoi compiti politici e istituzionali non deviassero nella loro implementazione dai principi che lo animavano, convinto della «validità della concezione pluralistica della vita sociale e politica che discende dalla dottrina sociale della Chiesa applicata nella piena accettazione del senso positivo della
storia» [41] . Del resto, lo stesso Romani nel giugno 1963, riconoscendo con queste espressioni l’intento di Pastore di «fare politica» come servizio alla collettività, nell’auspicio a conseguire nel campo politico i successi ottenuti in campo sindacale parve incoraggiarlo a mantenere la sua impostazione nel nuovo contesto politico-culturale che stava delineandosi. Fino allora sul piano sindacale si erano prospettate dinamiche nuove con le proposte di contrattazione articolata che prendevano piede e la maturazione di maggiori aspettative di partecipazione dei lavoratori, mentre il dibattito conciliare apertosi nell’ottobre 1962 e l’azione di Giovanni XXIII, morto proprio nel giugno 1963, avevano mitigato le resistenze dell’episcopato italiano per un’apertura a sinistra. Sul piano politico, ottenuta l’elezione di Segni nel maggio 1962 alla presidenza della Repubblica, tranquillizzando la parte conservatrice della DC, Moro aveva condotto il partito alle deludenti elezioni del 28 aprile 1963 (col PCI che superò il 25% dei voti) e all’avvio nel giugno seguente della IV legislatura repubblicana. Così mentre il mondo fucino italiano salutava l’elezione al soglio pontificio di mons. Giovanni Battista Montini, Paolo VI, nel giugno 1963 si formò con un monocolore democristiano un governo “balneare”, in attesa che ricomposte le fratture interne al PSI si potesse procedere alla realizzazione di un governo di centro-sinistra “organico”. Ceduta la segreteria del partito al doroteo Mariano Rumor [42] , infine, Moro formò in dicembre il suo primo gabinetto quadripartito, con Nenni alla vicepresidenza e ministri socialisti nella compagine governativa accanto a socialdemocratici, repubblicani e democristiani: tra questi ultimi anche Pastore. La realizzazione della formula politica del centro-sinistra con il coinvolgimento dei socialisti nelle responsabilità dell’Esecutivo avveniva con l’esclusione di Fanfani (dissenziente sul programma e sull’accordo convenuto tra i partiti) e con il primato della leadership morotea (all’interno della DC le correnti della sinistra, peraltro, erano entrate in crisi fin da giugno). Pastore si trovò, così, nella seconda metà del 1963 in un passaggio cruciale della sua esperienza proprio quando tali dinamiche avevano alterato il quadro politico complessivo in cui egli aveva inteso sviluppare la sua azione di governo, tanto che ancora alla fine di novembre dovevano sollevarsi discussioni attorno al suo ruolo ministeriale [43] . In effetti, egli aveva preparato un rilancio pubblico della sua figura politica nell’estate 1963, predisponendo un volume antologico dei suoi scritti e interventi, ripresi, ordinati e selezionati con l’aiuto dei suoi collaboratori e della redazione de «Il Nuovo Osservatore» (con Vincenzo Scotti, Giuseppe Bigazzi e Sergio Zoppi anche lo storico Renzo De Felice); per quest’opera in giugno ottenne da Romani una significativa introduzione [44] . A novembre, infine, il libro fu pubblicato presso l’importante editore Vallecchi col titolo I lavoratori nello Stato, con l’obiettivo di consentire alla classe dirigente nazionale (in particolare la più giovane) di conoscere il passato antifascista e di apprezzare l’azione sindacale democratica di Pastore all’interno di «un quarantennio di vita politica». Il titolo dell’opera, quasi uno slogan, doveva riassumere a posteriori il senso complessivo della sua presenza pubblica per riproporlo nel dibattito politico; l’espressione, così, fu inserita anche come titolo di un paragrafo per la parte conclusiva del discorso pronunciato al convegno di S. Pellegrino del 1962, in cui si era auspicato «un passaggio qualitativo di quelli che hanno finora giocato un ruolo subalterno
verso una funzione dirigente nella società e nello Stato» [45] . Peraltro, introducendo il volume, Romani non aveva mancato di sottolineare più volte come per la CISL «il problema della classe lavoratrice» non si fosse mai posto «prima di tutto come problema politico, di modificazione dello Stato», ma come consapevolezza del ruolo sociale da esercitare nei processi decisionali; perciò, convinto che Pastore avrebbe sviluppato la sua azione politica senza «semplificare ciò che per sua natura è complesso» e senza «prevaricare», egli ammonì a perseverare nel «favorire l’ampliamento continuo delle possibilità di tutti e di ciascuno di vivere la vita in posizione di responsabilità» [46] . Da parte sua, dopo aver ringraziato Romani per la veritiera ricostruzione del suo passaggio dalla CISL al governo, Pastore in una breve prefazione non esitò a definire la propria scelta come «un primo passo verso una politica mirante al concreto inserimento dei lavoratori nello Stato» [47] . La ripetuta formula del titolo del libro, in effetti, solo con qualche ambivalente semplificazione poteva rispecchiare il percorso compiuto da Pastore (certo meglio rappresentato dai tanti testi raccolti nell’opera). Essa corrispondeva piuttosto all’obiettivo di collocare il profilo politico di Pastore all’interno di un tradizionale dibattito novecentesco e, nel particolare frangente, di renderlo riconoscibile nella caotica discussione che accompagnava la competizione nel partito democristiano (il volume si conclude, del resto, con i discorsi tenuti nel luglio 1963 al Senato e al Consiglio nazionale della DC). Con questo libro Pastore, insomma, volle inviare un complessivo messaggio di maturità e di forza alla classe dirigente nazionale, mentre rinunciava a prendere la parola al terzo convegno di studi democristiano di S. Pellegrino, dedicato a Partiti e democrazia (con gli interventi di Donat-Cattin e Labor). Chiusa la crisi di governo, dunque, Pastore ritenne giunto il momento di rafforzare la sua leadership e il suo coinvolgimento governativo con un impegnativo intervento al Consiglio nazionale DC del 25 gennaio 1964. Dopo aver assicurato il sostegno al centro-sinistra, egli osservò come la corrente di Rinnovamento democratico dissentisse dall’accordo disegnato all’interno del partito non a causa di una «minore o maggiore partecipazione alle trattative», quanto per un’assenza di dibattito su «tutte le ansie» che il momento politico imponeva in vista del successivo congresso DC. A suo avviso, infatti, per dare contenuto alla «nuova linea politica» proposta da Moro, l’ampliata coalizione di governo avrebbe dovuto procedere con la programmazione e la riforma dello Stato impostando «un dialogo con la società come è venuta articolandosi in questi anni», cogliendo «l’occasione per proporre a questa società non un puro e semplice livello progressivo di benessere, ma un impegno serio, una partecipazione consapevole, una corresponsabilità, cioè, di tutti nella gestione degli interessi di tutti» [48] . Richiamata ancora una volta l’attenzione sul coinvolgimento degli iscritti e dei suoi quadri di partito in una comune mobilitazione di responsabilità nell’organizzazione politica, infine, Pastore rese più esplicita la critica ai partiti e alla DC: È necessario rivedere, aggiornare e approfondire il contenuto e il metodo della nostra azione politica. Se larghe masse di cittadini sono oggi estranee alla vita
politica, ciò è dovuto in gran parte al fatto che i partiti oltre a chiudersi in cerchi sempre più ristretti di iniziati hanno perso il contatto con la realtà sociale, propongono problemi astratti, usano un linguaggio incomprensibile, si presentano logorati da lotte di potere [49] . In questo quadro la corrente Rinnovamento democratico intendeva farsi portavoce non solo di generiche posizioni di sindacalisti e aclisti ma di «gruppi nuovi» di cittadini che dovevano essere coinvolti nella vita politica degli anni Sessanta: in ogni caso, non si tratta più tanto di un problema di operai e di contadini, come è stato all’inizio delle lotte anticapitalistiche, ma è un problema di masse vastissime di cittadini che abbracciano con gli operai, i contadini, gli impiegati, interi settori di intellettuali, tecnici, dirigenti e perfino di imprenditori di tipo nuovo. Sono tutti gruppi che rifiutando il ruolo subalterno nel quale di fatto sono stati relegati, chiedono di poter esercitare una influenza politica che sia pari almeno al peso che hanno e che avranno in misura sempre maggiore all’interno di una società in costante evoluzione, quindi di una società fortemente progredita. [...] Non si allarga l’area democratica, né si sfida il Partito comunista conservando le attuali sperequazioni nella gestione del potere reale, lasciando importanti gruppi di cittadini che si sono maturati nel corso delle trasformazioni sociali e che esprimono, quindi, la parte più moderna e più nuova della società italiana, lontani dalle decisioni pubbliche, estranei ai grandi problemi del futuro del Paese. [50] Di là della sintesi a stampa del discorso in seguito diffuso, l’intervento di Pastore doveva costituire un vero e proprio affondo politico perché la DC fornisse una strategia adeguata all’opportunità politica del centro-sinistra e, favorendo una partecipazione sociale nell’attuazione delle riforme, si proponesse come autorevole guida nella trasformazione del Paese. Una risposta che abbia l’ambizione di avviare veramente a soluzione i problemi politici che sono sul tappeto, richiede, insomma un ampio disegno, a cui concorrano ciascuno nel suo ruolo, governo, partiti, sindacati, forze sociali e culturali, con obbiettivi chiari, e chiare linee operative. [...] Sembra a noi che il punto di partenza per un discorso politico che non si limiti a fatti di vertice, sia da ritrovare in quella esigenza fatta sentire più chiaramente dall’avanzare del processo di socializzazione: l’esigenza, cioè, di una più profonda responsabile partecipazione dei cittadini al meccanismo delle decisioni pubbliche. Ed ecco allora il primo problema di cui occorre rendersi conto. Si modifica l’equilibrio sociale: gruppi tradizionalmente marginali, in posizione subalterna rispetto ad altri, non lo sono più e soprattutto non vogliono esserlo più [51] . Più in generale, evitando che la classe politica «giungesse ancora una volta con un irrecuperabile ritardo di fronte ai mutamenti degli equilibri nella società», Pastore considerò in gioco nell’effettivo impatto riformatore del centro-sinistra la sorte stessa della democrazia italiana, altrimenti esposta al rischio di «essere preda della sovversione di destra o di sinistra». All’inizio del 1964, dunque, il ministro Pastore formulò allora una valutazione di estrema durezza:
Il nostro Paese non è entrato ancora in una fase di vera e propria costruzione democratica. Gli anni di questo dopoguerra pur contrassegnati dalla profonda e convinta adesione ai valori della libertà di cui proprio la DC si è fatta assertrice e garante, sono stati anni di restaurazione di una democrazia che portava e porta ancora in sé la debolezza di una profonda sperequazione sociale e politica. Soltanto oggi entriamo in una fase di vera e propria costruzione democratica che ha al suo centro l’eliminazione della vecchia antitesi tra classi dirigenti e classi dirette, e, insieme, il superamento di quel vuoto, di quella sfasatura che si è venuta a determinare [...] fra le istanze politiche e le istanze sociali, fra lo Stato e le società, fra il gruppo dirigente politico e i cittadini organizzati nella molteplicità dei loro ideali e dei loro interessi [52] . In questo disegno egli condivise le priorità dell’impegno governativo per la programmazione e la riforma del decentramento politico-amministrativo dello Stato, posta comunque all’interno di una visione strategica sempre rivolta a collegare democrazia e partecipazione sociale: La programmazione deve essere in questa fase dello sviluppo politico del Paese lo strumento moderno, tecnicamente garantito, per sostituire alle decisioni di pochi uomini dell’economia privata e della stessa economia pubblica, decisioni assunte democraticamente, con la partecipazione, né mortificata né marginale, degli imprenditori, delle forze del lavoro, dei tecnici, mediante un confronto democratico degli interessi e delle istanze che trova nel potere politico il suo naturale sbocco conclusivo [53] . Insomma, il programma del centro-sinistra doveva essere considerato nel 1964 «non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza di un vasto disegno innovatore», tramite un’azione sociale concertata con i gruppi sociali chiamati ad esercitare un ruolo di «grave responsabilità». La DC avrebbe dovuto essere protagonista di tale movimento, illustrando il senso politico della partecipazione richiesta, «facendone percepire la novità, collocando il nuovo impegno civile in una prospettiva di costruzione sempre più avanzata della democrazia»: è il partito che deve prendere contatto con le collettività che saranno chiamate a nuove responsabilità, che dovranno gestire, al di fuori di pesanti ed anacronistiche forme di tutela statale, i loro interessi comunitari; è il partito che deve addestrare nuovi cittadini al governo della cosa pubblica, rompendo il cerchio delle clientele consolidate che si trasmettono in eredità le amministrazioni dei municipi e invitando uomini e gruppi nuovi a farsi avanti, ad iniziare il tirocinio del pubblico amministratore, a porre a verifica le capacità acquisite nelle organizzazioni sindacali, nel lavoro aziendale, nell’attività di ricerca e di studio [54] . Proprio questa sfida condotta sul piano dell’organizzazione democristiana come luogo di educazione civile, piuttosto che di convergenza del collateralismo sociale, avrebbe a breve evidenziato la difficoltà per Pastore di acquisire nelle dinamiche di partito quella leadership politica fino allora riconosciutagli nel governo. Anzi, già nel luglio 1964 egli fu costretto a richiamare Moro sulla valutazione negativa espressa sui provvedimenti del governo, in dissenso con gli altri ministri sul modo
di affrontare la congiuntura economica [55] . Nel campo stesso della pratica di governo [56] , Pastore aveva rilevato un indirizzo che metteva in discussione assieme ai contenuti da lui proposti – il riconoscimento della rappresentanza sociale nel sistema dei partiti – le stesse ragioni della scelta compiuta nell’assumere un incarico ministeriale come esercizio di leadership riformatrice. Le aspettative coltivate iniziarono a volgersi nei mesi seguenti in una drammatica difesa del progetto avviato su molteplici piani. Una forte pressione proveniva dalla riformulazione degli equilibri interni alla DC, che resero più difficile la posizione di Pastore nel partito. Tra queste certo va considerato il contrastato affacciarsi di un’alleanza tra le correnti di Rinnovamento e della Base, che al congresso democristiano dell’Eur nel settembre 1964 presentarono assieme la lista “Una forza nuova per la politica di Centrosinistra” per l’elezione dei candidati al Consiglio nazionale [57] . Seguirono nel dicembre 1964 le travagliate elezioni per il presidente della Repubblica, con le contrapposte candidature democristiane di Leone e di Fanfani e l’affermazione al ventunesimo scrutinio del socialdemocratico Giuseppe Saragat, sostenuto da un ampio schieramento che andava dai democristiani ai comunisti [58] . La presenza durante alcune votazioni di una quarantina di consensi a favore Pastore, come nome gradito alla sinistra democristiana e ai socialisti riformisti [59] , mostrò le potenzialità e i limiti dell’autorevolezza conseguita dal ministro. Il risultato finale non gli giovò a rafforzarlo all’interno del governo e del partito, dove al posto della vecchia corrente si costituì il nuovo gruppo di Forze nuove, rimasto distinto dalla Base demitiana, dal 1965 guidato di fatto dalle capacità di manovra politica di Donat-Cattin [60] . Negli stessi ambienti sindacali della CISL, come denuncerà Romani nel febbraio 1965, si era manifestato un «diffuso convincimento che fosse necessario per tutelare al meglio [...] gli interessi dei lavoratori italiani una marcata azione anche di natura politica»; così, l’iniziativa alimentata dal sindacato in una corrente della DC aveva gradualmente lasciato il posto a «una presenza nel partito sempre più vicina alla logica dello sviluppo e della conquista della maggioranza del potere in seno all’associazione partitica, allargando ovviamente i confini di questa peculiare presenza a persone e gruppi anche non di stretta estrazione sindacale» [61] . Eppure anche nel partito democristiano, non mancava chi, come Leopoldo Elia, avvertisse nel 1965 le difficoltà dei partiti italiani «di conciliare quelle funzioni di rappresentanza e di mediazione tra il pluralismo sociale e l’autorità statale che corrispondono alla loro vocazione di fondo» [62] . In tale contesto, Pastore tornò allora ad insistere sul significato della sua presenza nel governo repubblicano. Così, intervenendo nel ripreso dibattito pubblico sugli articoli 39 e 40 della costituzione, a seguito di un articolo di Nenni, sostenne dalle colonne de «Il Nuovo Osservatore» gli spazi d’autonomia del sindacato dall’intervento dei partiti come «un grande banco di prova della volontà di reale rinnovamento» del sistema politico, anche a costo di riformare la costituzione e tutta la legislazione «imperniata su una concezione dei rapporti Stato-società inaccettabile per la coscienza di un Paese moderno»: Governare è scegliere, è intuire e guidare i grandi processi di democratizzazione
dei processi sociali e politici, è capacità di giudicare con acume il passato come l’avvenire, è soprattutto coraggio di opporsi con decisione alle resistenze interne ed esterne quando queste investano i principi fondamentali di una convivenza libera [63] . Restava centrale per Pastore, dunque, la ricerca di un rinnovato equilibrio tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, come strada ancora praticabile per superare quel riformismo funzionale all’efficienza della macchina statale che parve prevalere nel centro-sinistra assecondando «un errore di prospettiva» che ormai si trascinava «da anni, con gravi conseguenze»: «Perché la questione tocca invece i delicati e complessi rapporti tra potere politico e burocrazia e tecnocrazia della ‘pubblica amministrazione’, tra esecutivo e gli altri organi costituzionali di controllo, tra gruppi di pressione e Stato democratico» [64] . L’impostazione dell’intervento dello Stato in economia – denunciò il ministro chiamato a coordinarne l’attuazione con interventi straordinari per lo sviluppo delle zone arretrate del Paese – veniva ancora diffusamente proposto «come un’azione dall’alto sulla società, come operazione di un ceto politico illuminato e generoso che pone a disposizione, ora di questo ora di quell’interesse, l’apparato coercitivo dello Stato» [65] . Era piuttosto un errore politico non prendere atto di questa realtà e non predisporre quelle riforme capaci di condurre la «pubblica amministrazione» alla sua funzione specifica di strumento di uno Stato democratico, fondato su un’ampia partecipazione dei cittadini alla gestione del potere, e cioè al servizio della collettività, all’interno di uno Stato di diritto [66] . Pastore, dunque, riaffermò con sempre maggiore forza l’importante nesso tra partecipazione sociale e democrazia politica, all’origine del suo impegno civile, proprio mentre sembrò aumentare la forbice tra la crescente richiesta di soggettività sociale e la maggiore autoreferenzialità dei partiti, suscitando sentimenti di delusione tra i cittadini che percepivano il mondo politico italiano distante dall’evoluzione della società italiana. Per «ridare al Paese il senso del valore insostituibile, anche se non esclusivo, della mediazione politica», le forze politiche avrebbero dovuto compiere «un esame di coscienza» e mettere mano a scelte fondamentali [67] . Tuttavia gli appelli di Pastore, sebbene collegati ad una vasta discussione, non trovarono adeguata udienza nel dibattito provocato dalle incerte politiche del centro-sinistra che tra il 1965 e il 1966 parve smarrire capacità riformatrice nel conflitto interpartitico, con interventi legislativi nella regolazione sociale, come nel caso della negoziazione sui licenziamenti individuali e collettivi, e la prospettiva della programmazione in Parlamento [68] . L’ambizioso ed audace disegno di Pastore continuò a perdere forza anche sul piano dell’indirizzo ministeriale, dal secondo governo Moro riconfigurato per gli «interventi straordinari» per il Mezzogiorno e per le aree depresse e costretto con la legge 717/1965 nell’ambito della programmazione nazionale, fatto che «comportò un’ulteriore centralizzazione delle decisioni politiche e rimosse ogni possibilità di coinvolgimento delle parti sociali a livello nazionale e a livello periferico» [69] . Le continue sollecitazioni di Pastore non parvero incidere sull’iniziativa della
DC (partito che avvertì distante dalle inquietudini del mondo cattolico postconciliare e dal sempre più impetuoso mutamento sociale), sulle insufficienze di un centro-sinistra ridotto a mera formula politica piuttosto che incontro di partiti popolari, sull’interventismo statale che sembrò irrigidire il confronto economico-sociale. Nondimeno, nelle occasioni che si prestarono Pastore impegnò la sua responsabilità di governo per sollevare un’ampia riflessione «sui problemi che lo sviluppo economico-sociale pone[va] al cittadino e all’organizzazione della società». In tal senso egli intervenne alla XXXVIII Settimana sociale dei cattolici d’Italia, nel settembre 1966. La dimensione delle migrazioni interne al Paese, la tentazione di rinunciare alla trasformazione industriale, i problemi derivanti dall’urbanizzazione e dal progresso tecnologico, temi di attualità politica, dovevano essere considerati con piena consapevolezza sotto il profilo istituzionale ed economico per approdare a decisioni rivolte ad ottenere «una armonica crescita dell’economia e della società» [70] . Si poneva, così, l’enfasi sulla questione della «gestione» dello sviluppo che, senza perseguire una modellistica astratta, impostasse una razionalizzazione e un ammodernamento del sistema economico commisurato ai benefici che dalla crescita poteva ricevere la vita delle persone. Egli osservò, infatti, che oltre ai problemi degli squilibri fra i Paesi ricchi e Paesi poveri e fra regioni di uno stesso Paese ricco, esistono altri effetti del progresso tecnico che condizionano più da vicino e profondamente la vita del lavoratore e dell’individuo in genere. La stessa rapidità con cui si svolgono le trasformazioni tecnologiche e i continui mutamenti delle combinazioni dei fattori, pongono in discussione la stessa stabilità di lavoro che taluni ottimisticamente ritengono un fatto acquisito e che rappresenta la base della liberazione dell’individuo dai bisogni più elementari [71] . In tale contesto Pastore inseriva l’esigenza di «pensare ad un nuovo sistema di relazioni industriali che, attraverso un ampio e sistematico processo di decisioni tra direzione di impresa e sindacato», fosse in grado di affrontare i rapporti tra rappresentanza dei lavoratori e rappresentanza datoriale, salvaguardando la libertà dell’impresa di organizzare i fattori produttivi e d’indirizzare i «fenomeni economici [...] alla soddisfazione dei bisogni della persona umana». Riemergeva la questione a lui cara del gioco di libertà e di responsabilità degli attori sociali in un sistema democratico, nei molteplici profili dei loro rapporti: Affrontarli vuol dire implicitamente piena libertà di regolarli, ovviamente bilateralmente, con immissione di manodopera all’interno dell’azienda, classificazione del personale, programmi riorganizzativi suscettibili di effetti sui livelli della manodopera e di cambiamenti nei compiti, sistemi di incentivazione e di promozione, lavorazioni nocive, etc. Del resto, abituati a riferirci, anche in questa fase di promettente crescita, agli esempi di Paesi altamente democratici e fortemente sviluppati si può dire che le esperienze di questi Paesi dimostrano che non si tratta di un disegno irrealizzato [72] . Piuttosto lo Stato poteva svolgere un ruolo di facilitatore: di fronte alla esiguità degli investimenti per consentire un «processo di sviluppo continuo e socialmente accettabile», ad esempio, i pubblici poteri potevano stimolare e coordinare
iniziative innovative che vedessero anche in questo campo protagonisti gli attori sociali. Egli citò come esempio le proposte avanzate già nel 1963 dalla CISL «in ordine alla creazione di fondi di risparmio collegati all’andamento delle remunerazioni, cioè al risparmio contrattuale», suscitando «l’opposizione radicale [...] venuta, in modo particolare, dalle posizioni politiche di estrema sinistra e anche dalle posizioni confindustriali». Si potrebbe ricordare che – e il ministro Pastore chiede al prof. Mazzocchi di correggere e integrare la sua affermazione – il risparmio italiano ha registrato ad un certo momento una grossa svolta, quando si è pervenuti al risparmio postale. È stata la strada maestra che ha consentito di accumulare i piccolissimi risparmi; non è un mistero cosa abbia voluto dire anche in quel periodo di scarse possibilità per gli investimenti il poter disporre di un cumulo di risparmi del genere; in fondo, il risparmio contrattuale può tentare una svolta nuova, che poi sarebbe analoga alla strada che nei tempi passati portò a dei risultati positivi [73] . Nel riproporre la sua visione di governo dello sviluppo nel quadro di un complessivo riequilibrio democratico col coinvolgimento delle forze sociali, Pastore avvertì il limite posto dall’ormai compiuto spostamento dei processi decisionali nella “repubblica dei partiti” alla sua scelta di promuoverla col sostegno di una prestigiosa tribuna ministeriale. Ammaestrato dalle precedenti vicende, pur tradendo disagi e incertezze, dal 1966 si trovò piuttosto a metterla in discussione nella lotta interna alla DC, dove i suoi gravi richiami vennero presto presentati come scomode lamentele di una Cassandra politica [74] . Pastore, piuttosto, attribuì ai gruppi dirigenti che si combattevano e si modellavano sugli equilibri di potere interni ai partiti, al fine di conquistarlo o di conservarlo, la crisi di credibilità del governo politico e l’impossibilità ad esprimere «una leadership sicura», che in certa misura potesse «surrogare anche quel contatto più profondo con una società civile scarsamente articolata e assai poco partecipe delle vicende politiche» [75] . Un brano dell’editoriale Potere, governo e partiti pubblicato su «Il Nuovo Osservatore» all’inizio del 1967 tratteggia l’evoluzione del contesto politico in cui Pastore dal 1958 aveva deciso di impegnarsi nella compagine di governo: Dall’epoca degasperiana in poi la leadership è stata esercitata prevalentemente dal partito DC anche se in modo più confuso e se il dualismo con il governo ha reso più precaria e instabile la situazione. Essa riacquista vigore negli anni successivi alla crisi del ’60, quando l’ipotesi di centro-sinistra divenne un obiettivo esplicito della DC e delle altre forze democratiche di sinistra. Nel ’63 l’ingresso dei socialisti al governo sembrò che dovesse spostare nuovamente sul governo la funzione preminente di guida. Ma il passaggio non avvenne [76] . Con un articolato ragionamento, in cui meditate problematiche sono ricolorate dal linguaggio del tempo, egli osserva come i partiti non fossero più «strumenti di mediazione, ma piuttosto di rivendicazione», trasformando in campo di mediazione proprio il governo, costretto a ridimensionare la sua propulsiva spinta politica pur continuando a formulare «programmi e ipotesi contrastate fra l’altro dalla congiuntura avversa». Nel centro-sinistra organico, insomma, le «riserve di
potere» del rapporto tra Esecutivo e partiti si erano prevalentemente aggrumate nei secondi, togliendo forza allo stesso attivismo legislativo del governo in tema di riforme. Nel contempo, alla critica di impoverimento ideologico, i partiti replicavano stigmatizzando l’orientamento neoqualunquistico della società. In effetti la già logorata formula del governo politico, non troppo paradossalmente, veniva identificata anche con il malessere presente nella società dei consumi: Sono per lo più critiche di ordine morale o moraleggiante; qualche volta di ordine economico. È lo stesso quadro occidentale nel quale siamo inseriti che ha prodotto queste critiche. Si critica lo sviluppo delle città caotico e soffocante; le condizioni della famiglia i cui valori morali ed educativi finiscono per essere sopraffatti dal meccanismo consumistico; si critica la suggestione egoistica che promana dalla seconda rivoluzione industriale; si lamenta che il tempo libero, lungi dallo sviluppare migliori rapporti fra gli uomini, è divenuto un incentivo all’egoismo e una manifestazione dove si accentua la competitività economica dei singoli e delle famiglie; si lamenta che lo sviluppo quantitativo della scuola, lungi dal produrre valori umanistici o scientifici, rimane sostanzialmente subordinato alla tecnica e alla produzione, ecc. ecc. [77] Inoltre – sottolineò Pastore nel 1967 – anche gli stessi sindacati (ma il giudizio riguardava in primo luogo la CISL) mostravano uno scarso ruolo propulsivo nei confronti del quadro politico. Se inizialmente essi avevano potuto avvalersi delle aperture governative per svolgere «un ruolo da protagonisti», in seguito dimostrarono una sostanziale incapacità decisionale, così che «pur negando ostinatamente la politica dei redditi» l’avevano sostanzialmente subìta nella congiuntura negativa, senza riuscire a «precostituirsi le garanzie politiche» per rilanciare la propria azione in vista della ripresa. Restava ancora nodale questione politica «il problema di fondo delle strutture portanti di una democrazia sostanziale, vale a dire di una circolazione effettiva delle idee e delle tecniche dalla società civile alle strutture politiche e viceversa». Per fronteggiare «una lenta involuzione» della proposta riformatrice, col pericolo che con essa venisse meno «il senso della comunità e dello Stato», Pastore non vedeva altra strada che collegare l’azione dei partiti alla società civile, evitando così che «le situazioni critiche denunciate» assumessero «una rilevanza intollerabile». Per questo tutte le forze consapevoli devono tendere a portare quanto più è possibile a livello di coscienza pubblica quello che appare il più probabile sbocco dell’attuale sistema, sviluppando l’esigenza di una cultura sommamente impegnata sulle questioni di fondo dello sviluppo, della sua governabilità, e quindi un quadro cosciente degli obiettivi proponibili ad una società moderna nell’ordine di rapporti civili comunitariamente più articolati e responsabili, in un quadro di libertà [78] . Di fronte alla richiesta di libertà e di soggettività delle istituzioni sociali e dell’articolarsi di un «associazionismo responsabile», quali «strutture intermedie» di una società democratica, la classe politica doveva operare uno sforzo di comprensione e di agevolazione in senso riformistico di questi movimenti: «La
crisi dei partiti, se ha possibilità di soluzione, l’ha soprattutto in uno sforzo di copertura verso il dialogo con la società civile, e non di assorbimento o di inquadramento di essa» [79] . Con questo disegno Pastore provò ad impostare un difficile confronto con Rumor, facendosi portatore dell’esigenza di evitare che il mondo del lavoro, maturato e pronto «ad assumere responsabilità nella società e nello Stato», ricercasse forme e interlocuzioni distanti dalla DC [80] . Con tale rivendicazione di ruolo politico il ministro affrontò il decimo congresso nazionale della Democrazia cristiana, che si svolse a Milano nel novembre 1967; il segretario politico del partito, tuttavia, non solo deluse le aspettative di Pastore, ma nella sua relazione respinse con forza le critiche verso la presunta distanza del sistema dei partiti dal mutamento sociale come il tentativo di liquidare i partiti popolari impegnati a radicarsi nella società. Da parte sua, Pastore ricordò al congresso le aspettative del 1962 e la delusione per l’affievolirsi della spinta del centro-sinistra espressa già nel 1964, quando lui – che aveva contribuito alla sua realizzazione – intuì la riduzione di quel governo a elemento d’equilibrio, quasi nuova espressione del centrismo, in nome della congiuntura e dell’esigenza di far accogliere all’opinione pubblica l’inedita formula politica. Critico verso le pretese egemoniche dei socialisti nella coalizione, richiamata la discriminante democratica nei confronti del PCI, Pastore sottolineò la cedevolezza del percorso riformista alla posizione dominante dei potenti gruppi imprenditoriali e lo svuotarsi d’iniziativa nei rapporti con la rappresentanza sociale. Conquistato con sacrificio dai sindacati un potere contrattuale all’interno delle aziende, i rappresentanti dei lavoratori non trovavano interlocuzione nel governo, che li consultava nella programmazione per questioni di politica economica prive di contenuto: «Lo Stato così come è, non può essere democratico; esso è inevitabilmente destinato ad essere governato da burocrati e da tecnocrati; esso non può che accrescere la distanza che lo separa dalla fiducia e dal consenso popolare» [81] . Questo approccio di Pastore, dunque, lo pose nel partito in una posizione particolarmente scomoda; di fronte al tentativo di Rumor di «emarginare e ridimensionare» nella DC le forze collegate al movimento operaio, egli ribadì che in loro assenza non poteva sostenersi il centro-sinistra. Facendo leva sull’autorevolezza che poteva ancora giocare nel rivendicare tale posizione, egli riuscì eletto nel Consiglio nazionale DC, grazie a una lista e con una mozione concordata tra «Base e sindacalisti». Si trattava, tuttavia, di un risultato politico insoddisfacente che, a differenza del passato, lo collocava lontano dal dibattito interno al partito, dove non avrebbero tardato a manifestarsi diverse reazioni. Dopo le elezioni del 19 maggio 1968 (col deludente risultato del Partito socialista unificato), peraltro, nell’avviarsi della V legislatura Pastore optò per restare fuori dal governo monocolore di transizione affidato a Leone, ritenendone insufficiente la qualificazione politico-sociale. Al Consiglio nazionale democristiano del luglio seguente, così, egli tornò a insistere per una più marcata politica di rinnovamento in grado di superare formule compromissorie che avevano alterato lo spirito iniziale del centro-sinistra. Necessitava un diverso intervento legislativo e istituzionale sia nel campo economico che in quello sociale, riprendere anche riforme proposte e mai attuate, come quelle a tutela di una effettiva libertà di
concorrenza ed a sostegno del risparmio contrattuale dei lavoratori. Il governo doveva ritrovare quell’apertura sociale che aveva perso di centralità nel logorato rapporto con i sindacati dei lavoratori, coinvolti in sterili e formali consultazioni. L’insoddisfazione di Pastore non riguardava solo il governo, ma anche l’organizzazione politica della DC, dove come in altri partiti si registrava la creazione di «centri di potere» che suscitavano polemiche tra i militanti: Già la società democratica nel suo assieme continua a dar prova di mancanza di intuizioni: i giovani, ed io aggiungo, i lavoratori, crescono non soltanto in età. Le rapide trasformazioni sociali, economiche politiche hanno in loro un pronto riflesso. Non si può, non si deve pensare che possano in eterno accettare situazioni e rapporti che li vedono costantemente in posizione subordinata: ambiscono e a buon diritto ad essere cittadini e militanti responsabili. Il passaggio doveva suonare come avvertimento della disponibilità di Pastore a una prova di forza per uscire dall’angolo del dibattito interno al partito mettendo in campo la leadership sociale che intendeva rafforzare tra i lavoratori, che – aggiunse Pastore – nel «lontano 1948» in un «altro momento estremamente delicato per il Paese» avevano trovato in se stessi la forza di liberarsi di un tipo di egemonia che non rispettava le loro libertà, scrivendo una pagina importante della storia della democrazia italiana. [...] Bisogna che il Partito sappia che quella forza è ancora intatta; anzi essa è cresciuta attraverso molte lotte e sofferenze. Ma nessuno osi sottovalutare il fatto che i lavoratori hanno assunto coscienza di questa forza e non sono disposti a farne strumento passivo di una politica qualsiasi [82] . La sua insistente e coerente critica, il suo disegno di un «nuovo» centro-sinistra e la dura presa di posizione nelle dinamiche di partito – attento alle problematiche sociali che agitavano il rapporto col mondo cattolico – non fecero breccia nelle strategie della maggioranza dorotea del partito, orientata piuttosto a trovare nuovi equilibri nella sinistra DC per depotenziare la figura politica di Pastore; questi fu così escluso dalla formazione del successivo governo composto da democristiani, socialisti e repubblicani, guidato proprio da Rumor (dicembre 1968-agosto 1969). Certamente amareggiato, comunque, Pastore parve raccogliere ancora una volta la sfida, ripercorrendo le radici del suo impegno civile nel dopoguerra e trovando conferme all’indirizzo da lui assunto. Aveva, infatti, promosso alla fine del 1966 un Istituto di cultura dei lavoratori (ISCLA), suscitando significativi convegni nel 1967 e nel 1968, nella sempre viva convinzione che solo attraverso la crescita culturale del mondo del lavoro si sarebbe vinta la «battaglia per la democrazia e per la responsabile partecipazione dei cittadini alla vita della collettività» [83] . Da poco superati i sessantacinque anni, Pastore costituiva ancora un punto di riferimento per l’articolata galassia di operatori sociali e di rappresentanti sindacali nei territori che aveva fatto crescere in un ventennio di presenza pubblica. Parve confermarlo, del resto, la richiesta nel 1968 di un suo intervento per «Dibattito sindacale», rivista della FIM-CISL lombarda guidata dal giovane leader Pierre Carniti, segno d’attenzione della classe dirigente sindacale formatasi al centro
studi CISL e allora coinvolta nella forte dialettica interna al sindacato guidato da Storti. L’invito fu occasione per ribadire l’attualità dell’impostazione che Pastore assegnava alla rappresentanza sociale, richiamando i pericoli di un intervento legislativo sul sindacato, la cui realizzazione sarebbe avvenuta «a tutto danno dell’esercizio effettivo delle libertà sindacali». La via per superare questi pericoli, – aggiunse Pastore – sempre presenti nelle prime esperienze di programmazione, non è però l’immobilismo e il disinteresse da parte delle forze politiche, ma l’impegno ad instaurare un fecondo negoziato tra sindacati e pubblici poteri in modo che sia in pratica il sindacato stesso a valutare di volta in volta tutti i provvedimenti ed in particolare le norme giuridiche che si volessero porre in essere. Sarebbe in ogni caso utile che il sindacato stesso assumesse l’iniziativa di eventuali proposte di legge [84] . Intanto nel gennaio 1969 Pastore rese noto il suo distacco da ogni posizione di corrente nella DC [85] . Privato della posizione di governo, sulla quale aveva poggiato la sua capacità di condurre un’azione incisiva a sostegno del progettato riequilibrio tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, egli era ben consapevole del difficile scontro che avrebbe dovuto affrontare all’interno del partito, facendo leva proprio sulla sua leadership sociale. Nel marzo seguente, comunque, sul settimanale democristiano «La Discussione» egli richiamò l’esigenza che, con coraggio e superando le recenti lacerazione, la DC procedesse a «rielaborare la nostra politica che è quanto dire la nostra fisionomia di forza dirigente che nella società, più che nel governo dello Stato, ritrova la sua fonte più genuina nella sua vocazione democratica e popolare» [86] . Mantenendo la sua critica alle oligarchie di partito, Pastore riaffermò che, per poter aspirare ad indirizzare lo Stato, alla Democrazia cristiana fosse quanto mai «necessario essere prima che forza politica, forza autenticamente sociale, immessa profondamente nel travaglio civile di una società che cerca nuovi sbocchi e nuovi traguardi». Egli rigettava le obiezioni di coloro che gli attribuivano una posizione moralistica; piuttosto ricordò che la base del perseguimento del potere da parte di una classe politica consisteva nel consenso ricevuto come forza dirigente capace «di analizzare, di interpretare, guidare, proporre traguardi di avanzamento», senza «essere condizionata dal ricatto, dalla minaccia, dalla discriminazione, dalla esclusione». Durante la fase precongressuale che stava vivendo la DC nella primavera 1969, perciò Pastore insisteva sulla necessità politica di affrontare la crisi di credibilità che attraversavano i partiti: Quando i partiti hanno perso la capacità di far politica, di risolvere in termini politici i bisogni e le domande della società, hanno con ciò stesso aperto un vuoto di potere, Entro questo vuoto si sono formati i movimenti di contestazione, i sussulti anarchici, le spinte eversive. Solo la maturità della società civile ci ha forse salvati dall’irreparabile. Sull’onda della contestazione si sono alimentate lotte unitarie ed autonome di studenti e di operai, cosicché stanno prendendo corpo drammatici travagli non privi di speranze [87] . Poteva dunque «un partito popolare come la DC rispondere al suo dovere di
governare senza confrontarsi con la nuova realtà che avanza nel Paese con i segni premonitori di una nuova stagione di impegno civile?» Ridare parola agli iscritti in vista dell’assise congressuale, dialogando con «le forze sociali che si ispirano agli ideali della democrazia» e con «le forze del mutamento», poteva essere l’occasione per la ricostruzione politica della DC nella società italiana. Il congresso democristiano del giugno 1969, tuttavia, non solo avrebbe disatteso le aspettative di Pastore per un esame di coscienza e di rielaborazione politica da parte della segreteria del partito, ma anche provocato un grave colpo al suo personale prestigio politico. Nell’operazione che portò all’alleanza delle correnti della sinistra DC – Amici di Moro, Forze nuove, Base e Nuova sinistra – pur con mozioni distinte (unite da una comune prefazione sul rinnovamento del centrosinistra), infatti, dopo esser stato pressato per presentare comunque una sua candidatura nelle liste per il Consiglio nazionale, Pastore non vi riuscì eletto [88] . Poco dopo fu Carlo Donat-Cattin ad essere chiamato come ministro del Lavoro nel governo monocolore DC costituito nell’agosto seguente sotto la guida di Rumor (con Moro ministro degli Esteri). La delusione politica non fu addolcita dalla successiva nomina a consigliere onorario nell’organismo democristiano. Nondimeno Pastore non parve disposto ad abbandonare la ricerca di una strada per riequilibrare rappresentanza sociale e rappresentanza politica. L’attenzione di Pastore era richiamata dalla crisi dei partiti, che considerava «l’unica forza di governo rimasta nel nostro Paese. La loro incapacità di governarsi significa l’impossibilità di governare la società italiana» [89] . L’editoriale de «Il Nuovo Osservatore» dell’estate 1969, non senza velare un’autocritica mossa dalle aspettative venute meno, disegnò in tal senso un quadro generale assai cupo: Il parlamento ha conservato di autorevole solo la facciata, il governo è diventato la longa manus delle segreterie politiche, l’amministrazione pubblica è stata ridotta in condizione senile, le forze sociali, economiche, sindacali e culturali sono state sottoposte ad una pesante tutela, blandite o minacciate a seconda delle esigenze [90] . Consapevole della possibile deriva demagogica – a lui da sempre estranea – che poteva provenire dall’enfatizzare il divario esistente tra partiti e società, Pastore ritenne doveroso insistere piuttosto nell’additare ai partiti una strada alternativa a quella percorsa negli ultimi anni, cioè quella «della diffusione delle responsabilità». In particolare, gli impressionanti ritardi della crescita di responsabilità civile e sociale derivavano dai rapporti che il sistema dei partiti aveva instaurato con quelli che per Pastore costituivano i due pilastri della rappresentanza sociale: sindacati e comunità locali. La ricerca di autonomia sociale nei sindacati si era mutata nella ricerca di «maggiore potere sociale (e quindi politico)» attraverso una logorante «ripetizione di schemi parapartitici al di fuori dei reali interessi dei lavoratori e della loro disparità civile», senza che «le forze politiche avessero loro riconosciuto potere ed effettiva rappresentatività». D’altra parte il potere locale non aveva tratto «maggior senso di autorità politica» dalla sua investitura democratica, restando debole e inefficiente, anche perché il sistema politico repubblicano non lo aveva dotato di sufficiente autonomia finanziaria e
amministrativa. Nel 1969, dunque, alla luce del movimento sociale che “la repubblica dei partiti” aveva contraddittoriamente gestito nella seconda metà degli anni Sessanta, restava aperta la questione della partecipazione della rappresentanza sociale nei processi di formazione delle decisioni del Paese: Le scelte che ci stanno di fronte, sulle quali gira la classe dirigente, non sono quindi soltanto economiche, ma di civiltà, intesa quest’ultima in senso più pieno. Ecco perché le energie politiche libere e disponibili vanno impiegate nella costruzione di un assetto più schietto e realistico nella gestione del potere sociale. Devono essere impegnate per passare dall’era della rivendicazione a quella della partecipazione [91] . Posizionando l’insuccesso personale subìto all’interno della DC in una visione di lungo periodo, Pastore poteva leggere equivoci ed opportunità in cui la transizione socio-politica, alla vigilia dell’autunno contrattuale del 1969, coinvolgeva una soggettività sociale allora assai più diffusa nel mondo del lavoro di quando egli aveva iniziato a promuoverla col «sindacato nuovo». Nel periodo estivo trascorso nella comunità valsesiana, senza trascurare di affrontare problemi e proposte per lo sviluppo del territorio nel suo collegio elettorale, Pastore si dispose ad affrontare l’aperta questione della partecipazione sociale alla crescita dello Stato democratico. Il 16 settembre partì per la capitale, dove organizzò ulteriori incontri e con fatica predispose il rilancio delle iniziative avviate; colto, tuttavia, da un malore cardiaco, egli morì il 14 ottobre 1969, all’età di sessantasette anni [92] . Molti caratteri dell’esperienza sociale e politica di Giulio Pastore furono ripresi nelle immediate commemorazioni; nello stesso tempo, non è difficile cogliere subito anche il sorgere di un serrato confronto sul significato della sua opera. Non era certo in discussione la figura del leader democratico che aveva introdotto una profonda innovazione nel sindacato; piuttosto, un latente dissenso era percepibile circa l’attualità del riconoscimento del ruolo da lui attribuito agli attori sociali e il continuo richiamo al cambiamento della cultura politica dei gruppi dirigenti, compresi quelli sindacali. Il collocamento della sua memoria in una conclusa stagione del passato è già presente nell’intento politico che accompagna la commemorazione del presidente del Consiglio Rumor. Questi, infatti, si astenne dall’evocare le problematiche poste da Pastore alla DC (la cui crisi interna espresse nel 1969 ben tre segretari politici), ai partiti politici del centro-sinistra e, più in generale, alle forze economiche e sociali del Paese. Piuttosto Rumor, con espressioni paradigmatiche degli ambienti che sostenevano l’inattualità della battaglia di Pastore, disegnò un lineare profilo della sua esperienza in cui leggere «quasi una figura del lento maturare nel movimento cattolico della coscienza sociale in coscienza sindacale e quindi in coscienza politica» [93] . In realtà, già dai tempi della militanza cattolica e della intrapresa della CISL, Pastore aveva avuto piena consapevolezza della distinzione e dell’interdipendenza tra democrazia politica e rappresentanza sociale, in un contesto storico che negava a quest’ultima una qualsiasi partecipazione all’indirizzo delle decisioni pubbliche. Proprio per questo attraverso l’organizzazione socio-politica egli introdusse nell’Italia repubblicana la questione di un necessario riequilibrio dei rapporti tra
rappresentanza sindacale e rappresentanza politica per un profondo rinnovamento della vita civile del Paese. Propose, dunque, l’orizzonte di una cultura civile di partecipazione sociale nella democrazia politica – con esiti diversi – ad attori sociali, partiti ed istituzioni pubbliche, come leader sindacale dal 1950 e come uomo di governo dal 1958. Coltivata come motore di una profonda trasformazione socio-politica nei primi anni Sessanta, Pastore sostenne questa proposta ancora dopo il 1963, quando gli parve smarrita nell’involuzione dei partiti riformisti; egli fu costretto a difenderla con una battaglia politico-culturale nella seconda metà degli anni Sessanta, posta ai margini del sistema dei partiti proprio mentre emergevano sempre più evidenti le esigenze di una matura rappresentanza sociale. La battaglia cui fu costretto nel partito democristiano tra il 1968 e il 1969 non aveva incrinato in Pastore il ritrovato convincimento della necessità di tenere aperta la questione di una responsabile partecipazione sociale di fronte alle profonde trasformazioni in corso. La sconfitta personale subìta all’interno della Democrazia cristiana, semmai, lo trovava già avvertito che il traguardo perseguito nella cultura del lavoro, non poteva essere realizzato in tempi brevi: «La stessa fatica per la formazione culturale, per far prendere coscienza o consapevolezza, richiede tempo [...]. E bisogna guardar lontano; anche se non fossimo noi a raggiungere il traguardo finale, per lasciarlo alle future generazioni» [94] . Nell’estate 1969, poco prima della sua scomparsa, riposizionando «Il Nuovo Osservatore» sulla frontiera per la quale la rivista era stata fondata, Giulio Pastore ritenne possibile impegnarsi ancora per formare una cultura politica e sociale in cui i partiti, restituiti «ai loro compiti di rappresentanza di opinioni generali, sappiano svolgere le essenziali funzioni ad essi affidate dal corpo elettorale», riconoscendo la risorsa democratica costituita dalla «chiamata in causa delle forze sociali come responsabili e protagoniste dello sviluppo civile del Paese» [95] . Nel riannodare le fila del pensiero e dell’azione di Pastore nell’attuale prospettiva storica, così, è possibile ripercorrere le sfide derivanti in Italia dall’incompiuto percorso di maturazione della soggettività sociale da lui promosso per sostenere un equilibrato sistema democratico nel primo ventennio repubblicano; al tempo stesso, è possibile favorire con maggiore consapevolezza una riflessione sulle risorse ora disponibili per affrontare l’ancora aperta questione della responsabilità sociale di un’attiva cittadinanza democratica.
[1] Oltre la voce di G. Formigoni, Fanfani, Amintore, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2017, http://www.treccani.it/enciclopedia/.amintore-fanfani_%28DizionarioBiografico%29/, cfr. anche Amintore Fanfani: formazione culturale, identità e responsabilità politica, a cura di A. Cova, C. Besana, Vita e Pensiero, Milano 2014. [2] Cfr. le osservazioni di F. Malgeri riprese da V. Capperucci, Introduzione, cit. p. 25. [3] V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano. Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi 1946-1951, Edizioni Lavoro, Roma 1996. [4] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 417. [5] Ancora il 27 giugno 1958 Leone voleva un meridionale al Mezzogiorno al posto di Pastore, già presente nella prima lista dopo l’incarico formale del 25 giugno; A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., pp. 371-372. [6] A. Giovagnoli, Introduzione, in A. Fanfani, Diari, vol. IV, 1960-1963, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 6. [7] Ricercandosi nella DC un punto di incontro e di equilibrio tra l’eredità politica di De Gasperi e di Dossetti, V. Capperucci, Introduzione, cit., p. 10; cfr. anche A. Ciampani, Amintore Fanfani e Giuseppe Dossetti: la proposta di una leadership nella vita di partito, in «Giornale di storia contemporanea», XIII, 2, dicembre 2010, pp. 41-70. Sul rapporto tra Dossetti, De Gasperi e Moro, vedi P. Acanfora, Aldo Moro politico dossettiano. Problemi storiografici e percorsi di ricerca, pp. in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 81-105. [8] A. Carera, Giulio Pastore: per la crescita civile degli “uomini del lavoro”, in «Storia economica», XV (2012), 1, p. 219. [9] F. Marcorelli, Giulio Pastore e il « Nuovo Osservatore» . Storia di un uomo e di una rivista che hanno cambiato il cattolicesimo politico italiano, Emia Edizioni, Riano 2018. [10] A. Fanfani, Diari, vol. III, cit., pp. 431e 438. [11] Ibid., pp. 493 e 497. [12] Ibid., pp. 506-512. Per una lettura complessiva degli studi su Moro, P. Acanfora, La storiografia su Aldo Moro e gli archivi dell’Istituto Sturzo, in Aldo Moro nella storia della repubblica, a cura di N. Antonetti, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 17-33. [13] Cfr. S. Mura, Antonio Segni. La politica e le istituzioni, Il Mulino, Bologna 2017. [14] Così nel maggio 1959 Fanfani descrive l’atteggiamento di Pastore: «Si è staccato da Rinnovamento, vorrebbe venire con me; e mi domanda di staccarmi con una precisa dichiarazione dalla Base. Gli dico che a quest’ultima non mi sono mai attaccato, ed ancora un mese fa ho detto a Sullo che procedano per loro conto»; A. Fanfani, Diari, vol. III, p. 541. E ancora appunta l’8 settembre 1959: «Pastore viene, sempre più scontento del governo Segni. Non vuole avvicinamenti alla Base. Dice che pur andando con Rinnovamento mi sarà vicino»; ibid., p. 582. [15] Ibid., p. 605. Cfr. P. Pombeni, Moro e il partito, in Aldo Moro nella storia della repubblica, cit., pp. 59-80. [16] M. Marchi, Aldo Moro segretario della Democrazia cristiana. Una leadership in azione, in Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana, cit., pp. 105- 137. [17] A. Fanfani, Diari, vol. IV, cit., p. 29. [18] Ibid., pp. 65-69. [19] La lettera a Tambroni è citata in M. Romani, Introduzione, a G. Pastore, I lavoratori nello Stato, Editore Vallecchi, Firenze 1963, p. XVIII. [20] Cosi sottolinea nella sua testimonianza Gianfranco Ballarani in «La Valsesia», cit., p. 19. [21] La commemorazione del presidente Jelmini, cit., p. 4.
[22] G. Parlato, Il Congresso di Genova del MSI, in Istituzioni politiche e mobilitazioni di piazza, cit., pp. 157-174. [23] A. Fanfani, Diari, vol. IV, cit., p. 119. [24] Sulla formazione cattolica di Moro P. Acanfora, Un nuovo umanesimo cristiano. Aldo Moro e Studium (19451948), Studium, Roma 2011 e R. Moro, Aldo Moro negli anni della FUCI, Studium, Roma 2016. [25] La commemorazione del presidente Jelmini, cit., p. 6. [26] Ibid., p. 4. [27] Oltre V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 430-431, cfr. S. Zoppi, La classe dirigente meridionale e il fattore umano negli anni 1958-1965 nel progetto del ministro Giulio Pastore, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», XVI (2002), 4, pp. 1391-1434; cfr. gli interventi del ministro sulle relazioni al parlamento dal 1961 al 1963 in Pastore. Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 2012 2. [28] E. Scotti, Il sindacato: la sua vera casa, in «Conquiste del lavoro», 19 ottobre 1969, p. 20. [29] Il Convegno di S. Pellegrino, Atti del primo convegno di studio della Democrazia Cristiana, Cinque Lune, Roma 1962, pp. 251-252. [30] Ibid., pp. 261-262. [31] Così nell’editoriale dedicato al Consiglio nazionale DC in «Il Nuovo Osservatore», 4/5, luglio-agosto1962, ora pubblicato col titolo Fedeltà ideologica, in G. Pastore, I lavoratori nello Stato, cit., p. 584. [32] L’intervento di Pastore al II Convegno nazionale di studio della DC del 28 settembre-2 ottobre 1962 in La Società Italiana, Atti del II convegno di studio della Democrazia Cristiana, Cinque Lune, Roma 1962, pp. 332-340; qui infra, Politica di programmazione, Stato, società e democrazia, p. 213. [33] Ibid., p. 214. [34] C. Pinto, Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze realtà (1945-1964), Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 166-174; R. Rossi, Ugo La Malfa e il riformismo difficile, in «Storia economica», XV (2012), 1, pp. 151-178. [35] Politica di programmazione, Stato, società e democrazia, qui infra, pp. 212-218; 214. [36] Ibid., p. 218. [37] Ibid., p. 215. [38] Ibid., p. 217. [39] Ibid., p. 218. [40] La commemorazione del presidente Jelmini, cit., p. 4. [41] M. Romani, Introduzione, cit., p. XIX. [42] Un rapido profilo in P. Craveri, Rumor, Mariano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 89, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2017, pp. 255-259; anche http://www.treccani.it/enciclopedia/marianorumor_%28Dizionario-Biografico%29/. Cfr anche Le “mie carte”. Inventario dell’archivio Mariano Rumor, a cura di F. Agostini, Franco Angeli, Milano 2015. [43] Cfr. l’appunto del 1 dicembre 1963 in A. Fanfani, Diari, vol. IV, cit., p. 643. [44] Vedi la nota dei quattro curatori che evidenzia il prevalere nella scelta dei testi di quelli dal «significato politico-ideologico generale» e di quelli che a loro avviso meglio documentavano «la costante azione della CISL per inserire i lavoratori nella vita dello Stato»; G. Pastore, I lavoratori nello Stato, cit., pp. 559-561. [45] Cfr. l’intervento di Pastore in La Società Italiana, cit., p. 337 e G. Pastore, I lavoratori nello Stato, cit., p. 591;
qui infra, p. 218. [46] Sottolineando la necessità di coltivare nella vita politica questa prospettiva – con un’enfasi che suonava quasi da ammonimento – Romani poteva augurare a Pastore di ottenere nella vita politica i successi ottenuti in campo sindacale; M. Romani, Introduzione, cit., pp. XII e XIX. [47] G. Pastore, I lavoratori nello Stato, cit., p. XXII. [48] L’intervento di Pastore in Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Roma, 25 gennaio 1964, Spes, Roma 1964, pp. 44-47, e la sintesi offerta da «Il Popolo» nella seconda pagina del numero del 26 gennaio 1965; qui infra, p. 221. [49] Ibid., pp. 221-222. [50] Ibid., pp. 220-221. [51] Cfr. il dattiloscritto dell’intervento preparato da Pastore al Consiglio nazionale DC del gennaio 1964, conservato presso l’Archivio della Fondazione Giulio Pastore (AFGP) di Roma, Carte Pastore, b. 25, fasc. 12, p. 4. [52] Ibid., p. 6. [53] Ibid., p. 8. [54] Ibid., p. 9. [55] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 446. [56] G. Melis, Moro e la prassi di governo, in Aldo Moro nella storia della repubblica, cit., pp. 155-174. [57] L’iniziativa doveva svilupparsi in un nuovo raggruppamento unitario tra le due correnti che poi non si realizzò, anche per le riserve di Pastore; cfr. oltre V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 447-448, anche L’Italia di Donat-Cattin, a cura di V. Mosca e A. Parola, Marsilio, Venezia 2011, p. 240. [58] R. Brizzi , Storia dell’elezione del capo dello Stato , in I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana ,vol. II, a cura di S. Cassese G. Galasso A. Melloni, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 651-669. [59] Sull’episodio delle elezioni presidenziali, peraltro, già evidenziato da G. Galli, Storia della DC, Bari, Laterza, 1979, pp. 239-241, ora anche L’Italia di Donat-Cattin, cit., pp. 18-19 e 44-45. [60] G. Bianchi, Giulio Pastore: un politico per il lavoro, cit., p. XV. [61] Cfr. M. Romani, Il Risorgimento sindacale in Italia. Scritti e discorsi (1951-1975), a cura di S. Zaninelli, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 216-217. Nell’importante relazione al convegno della CISL sull’autonomia del sindacato, tenuta nel gennaio 1965, Romani fece il punto sull’evoluzione del rapporto sindacato-partiti, tra CISL e DC, invitando a riflettere sulla differenza tra presenza partitica e presenza in parlamento. [62] Il passo di Elia è ricordato in N. Antonetti, Introduzione, in Aldo Moro nella storia della repubblica, cit., p. 14. [63] Cfr. l’editoriale Vuoti giuridici o vuoti politici?, in «Il Nuovo Osservatore», 40/41, luglio-agosto 1965, pp. 503-507; qui infra, p. 225. [64] Ibid., p. 225. [65] Circa l’orientamento di Moro sul ruolo dello Stato ora U. De Siervo, Moro e lo Stato, in Aldo Moro nella storia della repubblica, cit., pp. 195-208. [66] Vuoti giuridici o vuoti politici?, cit., pp. 223-228; 226. [67] Ibid., p. 227.
[68] A. Ciampani, La soggettività sociale del sindacato negli anni Sessanta e le prospettive politiche dell’« autunno caldo», in L’autunno sindacale del 1969, cit., pp. 73-154. [69] A. Carera, Giulio Pastore: per la crescita civile, cit., p. 230. [70] L’intervento in Sviluppo economico e ordine morale, Settimane sociali dei Cattolici d’Italia, Salerno, 24-29 settembre 1966, Scuola tipografica Don Orione, Roma 1967, pp. 309-316; cfr. qui infra, p. 231. [71] Ibid., p. 232. [72] Ibid., pp. 235-236. [73] Ibid., p. 235. [74] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 453-454. [75] Potere, governo e partiti, in «Il Nuovo Osservatore», 59/60, febbraio-marzo 1967, pp. 83-87; qui infra, p. 239. [76] Ibid., p. 239. [77] Ibid., p. 240. Cfr. S. Cavazza, Dal consumo desiderato al consumo realizzato: l’avvento della società dei consumi nell’Italia post-bellica, in La rivoluzione dei consumi. Società di massa e benessere in Europa. 1945-2000, a cura di S. Cavazza, E. Scarpellini, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 54-69. [78] Potere, governo e partiti, cit., p. 241. [79] Ibid., p. 242. [80] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 455-456, 523. [81] L’intervento di Pastore sotto il titolo Il centro-sinistra ha bisogno di nuovo slancio, in «Il Popolo», 27 novembre 1967, p. 9. [82] Cfr. il testo dattiloscritto dell’intervento di Pastore al Consiglio nazionale 29-30 luglio 1968 in AFGP, Carte Pastore, b. 11, fasc. 15. [83] Così nella lettera di Pastore a Giuseppe Jelmini del 28 settembre 1966, citata in G. Bianchi, Giulio Pastore: un politico per il lavoro, cit., p. XXXVI. Nel 1967 l’ISCLA organizzò un convegno su Lavoratori e cultura; cfr. anche V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 458. [84] L’intervento richiesto su Una legislazione di sostegno in «Dibattito sindacale», a. V, 3-4, maggio-agosto 1968, pp. 31-32; qui infra, pp. 243-244. [85] V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 460. [86] Così nell’editoriale G. Pastore, Far parlare gli iscritti, in «La Discussione», n. 7, 8 marzo 1969, p. 3; qui infra, p. 246. [87] Ibid. [88] «Il Popolo», 2 luglio 1969; cfr. V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 641. [89] L’editoriale La ripresa del discorso, in «Il Nuovo Osservatore», a. IX, 79/80, giugno-luglio 1969. pp. 3-6; qui infra, pp. 249-253; 249. [90] Ibid., p. 249. [91] Ibid., p. 252. [92] Cfr. gli interventi di Germano Ceralli e Sergio Peretti in «La Valsesia», cit., pp. 10, 19, 24-25. Tra gli articoli apparsi sulla stampa nazionale, G. Fossi, Scompare con l’on. Giulio Pastore un «leader» politico e sindacale, in «Il Mattino», 15 ottobre 1969. Vedi anche V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 462.
[93] Altissimi riconoscimenti, in «La Valsesia», cit., p. 15. [94] Così Pastore nel novembre 1967, citato in V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 462. [95] La ripresa del discorso, cit., qui infra, pp. 252-253.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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A R T I C O L I E I N T E R V E N T I D I G I U L I O PA S T O R E
AV V E R T E N Z A
Sono presentati nella seguente raccolta antologica testi e interventi di Pastore di diversa provenienza e natura. Alcuni sono articoli apparsi, con distinte finalità, in riviste o testate giornalistiche. Altri sono resoconti di interventi tenuti in occasioni pubbliche. Nel caso di testi già riprodotti in più d’una pubblicazione con qualche variazione si segnala oltre al riferimento della fonte originaria anche la versione scelta. In generale, le norme editoriali sono state comunque uniformate per consentire una più facile lettura.
FA R I S E I Articolo in «Il Cittadino», 6 agosto 1925.
Fariseo è, nel mio dizionario, definito colui che bada più alla lettera che allo spirito della propria religione. Il fariseo è l’ipocrita, è lo sfruttatore della religione della quale egli ambisce ammantarsi in quanto il far ciò gli torna comodo, ma della quale non ne vuole sopportare le limitazioni esigenti abnegazione e sacrificio; è insomma il gaudente o il ladro che si cela dietro il paravento della serietà o della onestà formale. Disse Gesù apostrofando gli scribi e i Farisei che in buon numero lo circondavano: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che lavate il di fuori del bicchiere e del piatto, mentre dentro poi siete pieni di rapina e di immondizia”. “Fariseo cieco lava prima il di dentro del bicchiere e del piatto sicché anche il di fuori diventi mondo”; e poi ancora: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anito e del cimino e avete trascurato le cose più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà”. Il Fariseismo ha i suoi tempi; è d’esso l’immancabile scoria che appiccicandosi ai più gloriosi e clamorosi ritorni del popolo a Dio, ne vorrebbe velare e mistificare la portata sino a impedirne le benefiche conseguenze. Il nostro è il tempo dei farisei. Ne troviamo in ogni angolo e per ogni dove; le loro concioni e prediche, veri monumenti di ipocrisia, ci stordiscono le orecchie e di parecchi confondono i cervelli. Superata e vinta la battaglia postbellica contro il bruto materialismo i cattolici (che la battaglia, sia detto chiaro e forte, combatterono sotto la triplice veste di popolari, sindacalisti e cattolici puri) si trovarono improvvisamente gli accampamenti invasi dai nemici… in veste di convertiti, essi pure ottimamente disposti a invocare, quale sicuro rimedio ad una inguaribile malattia, il ritorno alla religione di Cristo, ad una più sana educazione fondata sui principi evangelici. Era bastato un cambiamento… di camicia perché la situazione improvvisamente si capovolgesse. I cattolici in veste di popolari, che per anni erano stati soli a rivendicare nella politica italiana i diritti della Chiesa, della libertà e della giustizia cristiana (questi ultimi postulati compendiati nell’invocata libertà d’insegnamento, di organizzazione, ecc. ecc.) si trovarono ipso facto tra i piedi, entusiasti zelatori delle loro stesse aspirazioni, i più accaniti avversari di ieri: di più, d’innanzi a questi corsero il rischio di essere tacciati come eretici. Era indubbio che il fatto aveva del miracoloso, certo dello straordinario. Perciò
stesso il fenomeno di tanta resipiscenza spirituale insospettì e mise sull’attenti la maggioranza dei cattolici sul serio. Giustamente i neofiti furono attesi al varco. Il cattolicesimo è, anzi tutto, vita vissuta; religiosamente: ossequiando Dio col frequentare i suoi templi e coll’accostarsi ai S.S. Sacramenti; pubblicamente: conformando la propria vita ai dieci comandamenti della legge di Dio, nessuno escluso; socialmente rispettando i canoni di amore al prossimo, di giustizia, di carità e di libertà, sì anche di libertà, ecc. ecc. Se i neo-zelatori delle fortune cattoliche avessero inteso così il cattolicesimo, per essi le porte sarebbero state spalancate. Da questo lato fu invece un disastro. Cattolici sì, ma nei salamelecchi a questa o a quella autorità religiosa, nel darla addosso al Partito Popolare, nelle parole, nelle forme insomma ma non nella sostanza. Non si sentivano i signori di rinunciare a quanto fino ad allora aveva occupato il primo posto nel loro vivere, tanto meno poi abbandonare forme e sistemi che per essi costituivano ragione di vita. Religione instrumentum regni sì, religione sacrificio e rinuncia no. E al neo-fariseismo cadde la maschera. Avvenne così che gli eruditori venuti per dissertare sulle cose più sacre e sul binomio Vangelo-violenza trovarono che le loro concioni erano buttate al vento: le turbe dei buoni, usi a misurare la Fede loro e degli altri alla stregua dei fatti, avevano notato troppo bene che i nuovi venuti erano dei cattolici… a parole. Nelle opere erano quelli di prima, peggio di prima. Vi è in Monza chi pretende, da altri campi, di pontificare in tema di cattolicesimo e settimanalmente si sforza di erudire. Ma non ha capito l’illustre e ignoto fariseo che i cattolici monzesi non lo prendono sul serio? L’insinuare e infierire contro uomini e cose è men che niente, quando il far ciò non converte la gente. I cattolici monzesi son di quelli che dopo aver bevuto alle fonti del libro santo ripetono col loro Divin Maestro: “Fariseo lava prima il di dentro del bicchiere e del piatto sicché anche il di fuori diventi mondo”.
P E R U N A N O S T R A C U LT U R A Articolo in «Il Cittadino», 25 marzo 1926.
Ecco un problema che fa sovente capolino nei dibattiti e nelle discussioni di casa nostra. La cultura, questa dea, che già in altri tempi era la chiave di volta di ogni attività, poiché nessuno osava avanzarsi sulla scena della vita pubblica, sia nel campo dell’arte, che della letteratura, che della politica, senza che possedesse metà dello scibile; la cultura contro cui oggi v’è il temerario che erge il genio e l’intelligenza quasi a trovarvi un contrasto, quasi a presentarci nella prima la suocera tabaccosa che danneggia i secondi; questo prezioso appannaggio, tutto proprio di ogni corrente vittoriosa, è pur sempre tra di noi la cenerentola a cui pochi ricorrono, di cui pochi sanno far tesoro e meta di conquista. E la contestazione tocca specialmente i giovani; i vecchi, gli anziani, per la verità, c’insegnano che in altri tempi, i libri, i convegni di studio, erano la fonte inesauribile a cui si ricorreva frequentemente: basti osservare il patrimonio di idee e di programmi tramandatici dai periodi fortunosi dell’Opera dei congressi, della democrazia cristiana e, in un campo più vasto, della feconda Unione di Friburgo. Quanto oggi si trova di formulato in ordine ai problemi sociali, ai programmi politici, e alla stessa azione cattolica strettamente intesa, tutto si deve alle menti vissute allora; menti che ebbero il loro massimo travaglio nel discutere e nel selezionare, in confronto alla dottrina fondamentale della Chiesa, quanto da altri campi, liberalismo, socialismo e nazionalismo era portato nell’agone. Il nostro rilievo non tange, quindi, coloro che, anzi, e per l’età e per la esperienza di un dotto passato, sono ancora oggi i maestri preziosi in moltissime delle nostre attività. Parliamo proprio e solo ai giovani; sono essi che ci sembrano gli apatici per quel che può riguardare assimilamento di cognizioni e insegnamenti, la cui utilità va sempre più manifestandosi impellente. Vi sono ore in cui, o si è pronti a raccogliere l’attimo che passa, trasformandolo in beneficio proprio, o l’attimo diviene un’arma di più in mano ai nemici della Chiesa. Il nostro secolo ha l’aria di ripetere una ripresa di dottrine filosofiche, che già in altri tempi costituirono, sotto l’orpello dell’occhiolino di triglia, un grave pericolo per la Chiesa; sono produzioni librarie, enunciazioni teoriche, esperimenti che devono trovarci preparati alla disputa e alla confutazione prima ancora che abbiano a fare proseliti; dovremmo divenire i dominatori della cultura contemporanea, ma se ciò è ancora un bel sogno, evitiamo almeno di essere
rimorchiati. Sarebbe ed è l’assurdo che, mentre da ogni parte si inneggia al ritorno in auge dei valori morali, si grida al crucifigge delle dottrine materialiste, proprio noi, che dei valori morali fummo i soli tenaci sostenitori e del materialismo ebbimo il fiero vanto di essere necrofori, abbandonassimo i remi e il timone agli ultimi arrivati. I giovani non devono straniarsi da queste considerazioni se vogliono essere degni dell’ora che volge. Vi è una cultura minuta, prettamente religiosa, che forse più che cultura è opera di integrazione nella formazione spirituale delle anime; questa è data in quei semenzai miracolosi e provvidi che sono gli Oratori; riconosciamo che di qui ci sono sovente forniti i capitani per le più vaste e generali conquiste; ma questa non è bastante, gli orizzonti aperti all’Azione Cattolica, alla Chiesa stessa sul terreno sociale e politico esigono, nei militi e nei dirigenti, un possesso completo e perfetto della dottrina in rapporto a tutta la vita dell’uomo, a tutte le attività del medesimo. Vi sono particolari di cui l’Oratorio non può per molteplici e ovvie ragioni curarsi; vi sono studi superiori, confutazioni a novelle dottrine, elaborazione di nuovi mezzi di conquista, ai quali necessita un terreno apposito, un’applicazione apposita. Ecco perché sono sorte le Pro Culture, in cui è spezzato il pane della scienza, per chiunque abbia un minimum di buona volontà. Non v’è centro che si rispetti che non alimenti una istituzione del genere; istituzione che nel piccolo è l’Università che fornisce al resto del movimento cattolico le guide preparate, le coscienze formate. Monza ha la sua Pro Cultura. I benemeriti Padri Barnabiti col patrocinio della Direzione Cittadina hanno onorato ai cattolici monzesi una preziosa palestra che da qualche anno è cattedra di eminenti insegnanti tra cui primi, i docenti dell’Università del S. Cuore; ma bisogna riconoscere che, salvo un promettente inizio, le azioni della Pro Cultura non sono troppo elevate. Il Salone del Carrobiolo ha sempre lo stesso pubblico, non troppo numeroso e in prevalenza di elemento femminile. Bisogna che i cattolici monzesi abbiano a scuotersi, i giovani devono essere i frequentatori più assidui delle conferenze; bisogna che non solo il centro ma anche la periferia risponda. Ci è stato osservato che conferenze di cultura sono indette anche da altre Associazioni; ebbene noi chiediamo che si procuri di unificare il più che si può, e che comunque si veda di evitare dannose coincidenze di date, che frustrano il successo di reciproche iniziative. Alla Pro Cultura del Carrobiolo, le Associazioni Cattoliche facciano convergere i migliori elementi; si sappia da ognuno sfruttare una fonte di sapere che altri centri ci invidiano; avremo assicurato al nostro movimento un degno avvenire.
CINQUE MESI D’UNITÀ SINDACALE Articolo in «Il Popolo», 8 novembre 1944.
Cadono ora cinque mesi dalla firma della dichiarazione sull’unità sindacale. Cinque mesi non sono molti ma, per l’argomento in questione, sono più che sufficienti per tentare un bilancio. E per dirla subito con franchezza per noi trattasi di un bilancio che tende al passivo. È forse necessario premettere che respingiamo a priori ogni eventuale accusa di disfattismo. Amiamo troppo e sinceramente l ’effettiva unione dei lavoratori e ne misuriamo tutta l’utilità e l’efficacia per accettare senza reagire eventuali tentativi che volessero relegarci tra i negatori dell’unità. Ché anzi è proprio per questa nostra sincera fede unitaria che riteniamo doveroso dar mano al campanello d’allarme. E veniamo al bilancio. L’attivo registra innanzi tutto la dimostrata capacità di intesa dei componenti la Segreteria confederale. Non escludiamo che siano necessari sforzi quotidiani delle parti, ma quel che conta è che allo sforzo faccia seguito la fusione e l’accordo. E questa fusione e questo accordo sono fino ad ora una consolante realtà. Sempre all’attivo è da considerarsi la manifesta rispondenza del carattere unitario del patto – e non è davvero poco – con la dichiarata e confermata aspirazione della generalità dei lavoratori, sebbene accada qui uno strano fenomeno anacronistico e contraddittorio ma anche sintomatico: e cioè che a voler decisamente e sinceramente la reale, genuina unità sono i lavoratori che stazionano ai margini seppure non sono fuori dalla vita sindacale attiva. Che riscontriamo invece al passivo? È stato detto che il sindacato unitario più che apolitico è apartitico. La precisazione ha indubbiamente un suo significato ed un valore che non è soltanto di forma. Non vien certo meno alle condizioni di apoliticità fissate nella «dichiarazione», se ad un dato momento gli organi sindacali giudicano opportuno assumere una qualsiasi posizione che giochi e influisca sul terreno politico, in ordine specie alle conquiste sociali delle classi lavoratrici. In una parola nessuno può pensare di ridurre il sindacato alla semplice funzione di stipulatore di patti di lavoro. Per essere esso la sola unitaria espressione organizzata delle classi lavoratrici, ha non soltanto il diritto ma anche il dovere di sviluppare un’azione di ben più vasto respiro, ritenendo inclusi tra gli obiettivi di una tale azione eventuali riforme sociali e l’avvento delle forze del lavoro negli organi economici e politici
dello Stato. A buon diritto si può affermare che il sindacato ha una “sua” politica che d’altra parte se è contenuta entro i limiti esclusivi e rigorosi della diligente tutela dei diritti del lavoro, perde ogni esiziale funzione disgregatrice delle classi lavoratrici. Il sindacato deve invece essere apartitico; in nessuna maniera cioè deve subire la diretta e indiretta influenza delle correnti politiche organizzate. Ora è qui che il tarlo può fare capolino e, facilitato dalle particolari condizioni del momento, può arrischiare, a nostro giudizio, di minare l’ambiente unitario. In un recente convegno di cosiddetti “attivisti” sindacali, non democratici cristiani, un relatore – autentico lavoratore – pronunciava vibrate parole di protesta contro l’eccessivo “interessamento”, la parola è sua, dei partiti nei confronti delle elezioni delle commissioni interne ed avrebbe potuto dire anche delle elezioni per le cariche sindacali. Non è necessario che dichiariamo di essere pienamente d’accordo. Qui stanno per noi le ragioni che rischiano di rendere passivo il bilancio di cinque mesi di unità. La politica non ha atteso molto a mettere fuori le unghie; se non dovessimo apparire troppo severi dovremmo dire che non si è neppure atteso le seconde elezioni. La tentazione è stata tanto forte che là dove non fu possibile rifiutare l’intesa per la formazione delle liste che fossero veramente espressione di unità, ad opera dei soliti interessati – infima minoranza nella massa dei lavoratori – si è trovato modo di buttare all’aria ogni accordo mediante la predisposta e organizzata manipolazione delle schede elettorali e naturalmente ai danni degli elementi di tendenza politica non gradita. Ma non è nelle nostre intenzioni fare della casistica, anche se abbondiamo di elementi. Quel che interessa è mettere in rilievo che tra le decisamente gravi conseguenze determinatesi a seguito di queste influenze “politiche” – talvolta non pulite – è da registrare una evidente frattura tra la massa dei lavoratori, frattura che è anche più deplorevole se si pensa che – data l’origine – serve a giustificare nel loro assenteismo quanti sono tuttora fuori dei sindacati. Né si pensi di minimizzare l’inconveniente riducendolo a semplice episodica manifestazione di un necessariamente laborioso avvio nel processo di unità. Ché il malanno è insito nel congegno ed ha origini più profonde e lontane di quanto a tutta prima può sembrare. A nostro giudizio la causa va ricercata nel nessun sostanziale cambiamento operatosi nella prassi sindacale di oggi in un rapporto a quella imperante nel tempo pre-fascista. Mentre nella concezione vi è una sostanziale differenza tra i due sindacalismi, quello di allora e quello di oggi, nella pratica attuazione si è legati ad uno stesso metodo, ad una stessa procedura e finanche alla medesima struttura. Avviene così che mentre la politica, in senso partigiano, è ufficialmente ed anche sinceramente bandita, sul piano ideologico la stessa rientra e domina attraverso i quadri e la pratica organizzativa. Rimasta la prassi sono rimasti gli inconvenienti. Finanche la figura politica dell’organizzatore sindacale che in un organismo – nella struttura e nel metodo più garantito e maggiormente presidiato – risulterebbe debitamente neutralizzata, con il sistema attuale finisce per involontariamente prevalere e di conseguenza divenire elemento di disgregazione.
Nel tempo pre-fascista era frequentemente affermata la subordinazione morale del sindacato nei confronti del partito perché di fatto il meccanismo e i quadri del primo risentivano di un metodo più rispondente alla concezione del sindacato strumento di conquista politica. È ovvio: se nulla si cambia nel metodo, la più onesta concezione di un sindacalismo neutro e non soggetto a politiche, non può che essere destinata a restare lettera morta.
DELLO SCIOPERO POLITICO Articolo in «Il Popolo», 23 dicembre 1945.
Non siamo tacciati di dire una eresia, se pensando a Sorel o ai maestri di marxismo, affermiamo che è facile per chi dirige forti organizzazioni sindacali farsi prendere dalla tentazione di servirsi di queste per il conseguimento di determinati scopi politici. Del resto la concezione del sindacato estraneo alla vita politica è anche per l’Italia del tutto nuova, ché sul piano storico è da ricordare che anche da noi è largamente prevalsa in altri tempi, la tendenza a considerare la vita sindacale un’appendice della vita politica. Ciò premesso, una discussione sulla liceità o meno dello sciopero per motivi non strettamente attinenti agli interessi economici dei lavoratori, può non essere inutile. Non v’è alcun dubbio che il libero sindacato unitario, per motivi intrinseci ma anche come conseguenza della forzatura politica operata dal fascismo, si fa luce da noi in una concezione estremamente semplice, cioè a dire di strumento esclusivamente destinato a presidiare e tutelare i diritti dei lavoratori nel campo economico. Questa è almeno la tesi cara alla maggioranza dei lavoratori italiani, tanto che verificandosi qualche resistenza ed opposizione alla iscrizione al sindacato, i motivi addotti denunciano quasi sempre timori e inframmettenze d’ordine politico. Se tale è la situazione di fatto del sindacato in Italia, è da ritenersi consentibile il trasferimento della sua azione in settori che non siano quelli previsti dalla concezione dianzi esposta? Evidentemente no. È troppo semplice la tesi perché si possano dare interpretazioni diverse; senza dover scendere ad una più ampia casistica, quando ad essere in gioco sono puramente e semplicemente i rapporti dei lavoratori con gli imprenditori, il motivo di accordo nel seno della classe lavoratrice è presto identificato e l ’intesa può dirsi automatica. Se nelle agitazioni è presente la ragione economica che per i lavoratori è ragione essenziale, le distinzioni ideologiche risultano superate: se il fattore economico vien meno oppure si fa impercettibile perché in primo piano è una motivazione di ordine politico, non soltanto l’intesa diviene problematica, ma nel più dei casi si ha il manifestarsi del fenomeno, frequentissimo di questi tempi, di una minoranza attivista che si impone e di una maggioranza dissenziente che subisce. Naturalmente più gravi sono le conseguenze per la compagine dei lavoratori,
quando i dissensi o le imposizioni si hanno per le forme esasperate dell’agitazione, cioè a dire nello sciopero; inevitabilmente l’astensione dal lavoro, per tutto il disagio che porta con sé, produce nel settore dissenziente un tale stato di risentimento che quando non si traduce in proteste clamorose o forme di crumiraggio (che in sede di sciopero politico può non giudicarsi tale) provoca e alimenta un vero e proprio dannosissimo processo di debilitazione nel corpo sociale della classe lavoratrice. Nessuno crediamo vorrà negare l’obiettività di queste nostre considerazioni che peraltro non possono non farci concludere con un giudizio del tutto negativo per l’inserimento di ogni tipo di manifestazione a sapore politico nelle possibilità di azione del sindacato. E poiché potrebbe esserci obiettato che oltre alle argomentazioni qui riportate sussistono grossi motivi di principio che, soprattutto in regime di democrazia, fanno ritenere non lecito e non accettabile lo sciopero «politico», desideriamo dichiarare che abbiamo deliberatamente escluso tali motivi dalla precisazione del nostro punto di vista, perché giudicati da noi meno suscettibili di punti d’incontro.
L A C G I L U N I TA R I A E L A P O L I T I C A D E I COMUNISTI Discorso al II Congresso della CGIL, Firenze, 1-7 giugno 1947, in G. Pastore, I lavoratori nello Stato, Vallecchi editore, Firenze, 1963, pp. 54-69.
Non vi sorprenda se comincio con una serie di premesse. La prima si riferisce a tutti coloro che credono di poter speculare o trarre indebite illazioni sulle discussioni che hanno luogo in questo nostro congresso. Chi pensasse, ad esempio, che soltanto perché si critica e si discute, da questo congresso potrebbe uscirne in qualche modo incrinata l’unità sindacale, può senz’altro considerarsi deluso in partenza. Qui, noi critichiamo ma in senso costruttivo, non per distruggere, e una prova l’ha offerta il discorso di Sabatini. I lavoratori sanno che la loro forza risiede nell’unità e non intendono affatto perdere questa loro capacità di resistenza nella lotta che sono costretti a condurre per la difesa e per l’affermazione dei loro diritti. Una seconda premessa. La relazione dell’on. Di Vittorio, a mio giudizio, deve essere considerata come divisa in due parti. Una parte che definirei della Segreteria, e cioè riferita a nome di tutti noi; ed una parte che è invece l’espressione di opinioni personali, che coincidono poi con la mozione che reca il suo nome quale rappresentante della corrente che esprime. Una terza premessa. Non intendevo prendere la parola sulla relazione perché mi consideravo impegnato su di essa insieme agli altri due colleghi relatori; ma dopo l’ampio e davvero generale giro di orizzonte fatto dall’on. Di Vittorio nel suo intervento, ho creduto fosse necessario e doveroso esprimere le mie personali opinioni e quelle della corrente che rappresento. Ho detto che v’è una prima parte della relazione dell’on. Di Vittorio, quella cioè che si riferisce al bilancio costruttivo del lavoro svolto dalla CGIL, alla lotta condotta dai lavoratori italiani in difesa dei loro diritti e interessi, sulla quale mi trovo completamente d’accordo. Mi pare superfluo aggiungere che la mia adesione è anche totale nei confronti della relazione svolta dall’on. Lizzadri. Ancora una volta si è dimostrato che sul terreno di specifica competenza dell’azione sindacale, e cioè sul terreno della difesa dei diritti dei lavoratori, non vi sono e non vi possono essere dissensi: v’è, al contrario, convergenza di pensieri, di volontà, di ansie. E da questa tribuna voglio anche esprimere la mia piena solidarietà all’amico Rapelli, oggi forzatamente assente. Egli ha contribuito, con la vivacità del suo
ingegno e la fermezza del suo carattere, alla conquista di quelle mete e di quegli obiettivi dei quali vi hanno già parlato i miei due colleghi. Mete ed obiettivi che, in questi ultimi tempi, hanno assunto un aspetto davvero sintomatico e significativo: quando noi identifichiamo gli interessi della nazione con quelli più particolari dei lavoratori, non indulgiamo affatto alla retorica. E quando orientiamo la nostra azione sindacale, nella delicata situazione economica del nostro tempo, su un piano e su una direttiva che scongiurino il pericolo dell’inflazione, evidentemente noi diamo una duplice prova: una prova di maturità e consapevolezza, ed una prova di quella identità e interdipendenza che esiste tra gli interessi del paese e quelli dei lavoratori. Ho i miei dubbi che anche altre categorie di italiani, quelle che godono di determinati privilegi economici e sociali, possano dire di aver conformato le loro azioni a questi principi. Noi sentiamo di poter avere la coscienza tranquilla poiché abbiamo assolto coraggiosamente il compito di difendere l’interesse generale, poiché è ben chiaro che quando noi abbiamo invitato i lavoratori ad accettare e sottoscrivere ancora una volta la tregua salariale, abbiamo offerto una inconfutabile e altissima testimonianza di amore patrio. Gradiremmo molto che questa prova fosse offerta anche da coloro che, resistendo su posizioni di egoistica conservazione, si sono posti su di un piano che non esitiamo a classificare antinazionale.
La stampa e i sindacati In questi ultimi tempi, è stata condotta dalla grande stampa cosiddetta indipendente e neutra, una metodica e sibillina campagna rivolta a discreditare nella pubblica opinione le organizzazioni sindacali. Quando si insiste a presentare la confederazione del lavoro come uno «Stato nello Stato», quando si insiste nell’indicare i Segretari confederali – a qualunque corrente appartengano – come degli sconsiderati sobillatori di agitazioni e di scioperi si intende chiaramente provocare la rivolta della pubblica opinione contro il sindacato. Orbene, io credo che occorra difenderci da questo illegittimo tentativo di individuare nella CGIL, nei sindacati e nei loro dirigenti propositi rivoluzionari e sovversivi. Il vero sovversivismo, il vero pericolo per la stabilità economica e la vera minaccia per la ripresa produttiva, sono da ricercare e individuare in coloro che mantengono fermi e chiusi i complessi industriali, in coloro che accantonano i prodotti per fini di speculazione, in coloro che accantonano i prodotti per fini di speculazione, in coloro che preferiscono trasferire i loro capitali e i loro utili all’estero piuttosto che reinvestirli in attività produttive nel nostro paese. È opportuno che la stampa, che qui vedo largamente rappresentata, colga e diffonda questo nostro monito. Poiché è evidente che se tutta la pubblica opinione fosse opportunamente illuminata sulla verità delle cose, sarebbe con noi solidale nell ’invitare questa esigua minoranza di italiani, ad abbandonare queste posizioni antinazionali. E sotto la pressione della pubblica opinione non v’è dubbio che i risultati positivi potrebbero essere conseguiti. Un altro aspetto delle relazioni dei miei colleghi non sarà certamente sfuggito alla vostra attenzione. Ed è un aspetto che secondo me va considerato come un successo della vita unitaria del movimento sindacale. Dalle relazioni cioè si desume che siamo passati dal periodo nel quale l’organizzazione sindacale aveva assunto un tono, un carattere e una azione ristretta e circoscritta – nel senso che il sindacato riferiva la propria azione e la propria visuale unicamente agli interessi sezionali e di categoria – al periodo nel quale invece il movimento sindacale ha affermato e afferma un concetto solidaristico, nel senso di riferire la propria azione alla difesa degli interessi categoriali inquadrati nella visione degli interessi generali del paese.
L’esperimento unitario E veniamo ora al dibattito di fondo. È stato realizzato in Italia, prima della nostra unità sindacale, un altro esperimento unitario. È l’esperimento determinato da una legge dello Stato, da una legge fascista. Ritengo che nessuno possa paragonare la nostra unità di oggi con l’unità realizzata coattivamente nel periodo della dittatura. Non è assolutamente possibile mettere a confronto una unità che promani dalla libera e spontanea adesione dei lavoratori, con l’unità obbligatoria stabilita per legge. La nostra, in una parola, è una unità consapevole ed elettiva. Ma dove e come, amici, si raggiunge questa consapevolezza? In regime democratico la consapevolezza e la convinzione maturano nella libera discussione, nella circolazione e nel leale contrasto delle idee, nella dialettica dei principi, nella approfondita autocritica. Ed è per questo che nessuno di voi dovrà sorprendersi se ora da parte di uno dei Segretari confederali, da parte mia cioè, si svolgano argomentazioni e considerazioni sul piano della critica serena, leale e costruttiva. Noi pensiamo che solo con il coraggio di rimproverarci le eventuali deviazioni o gli eventuali errori sarà possibile determinare insegnamenti utili ad evitare altri errori. Diciamo subito che sul piano dell’unità va distinta l’unità formale da quella sostanziale. E credo che dobbiamo tutti essere d’accordo nell’affermare che a noi interessa realizzare la seconda e non la prima. Noi non vogliamo assolutamente che la facciata nasconda un edificio pericolante: desideriamo un edificio solido. Tanto più che l’avvenire non sembra riservare al sindacalismo in Italia una vita facile e priva di ostacoli. Sarà una vita di lotte, di dure lotte, che richiede una sostanziale coesione ed una univocità di volontà e di indirizzi. Il giorno in cui la classe lavoratrice sarà chiamata a difendere su posizioni di legittima resistenza e di lotta i propri interessi e il diritto alla vita, occorre che quel giorno nessuna frattura, nessun dissenso esista tra di essi. Se invece in quel giorno dovessero affiorare nel cuore di una parte dei lavoratori o dirigenti sindacali, vi sarebbe il rischio mortale dell’indebolimento e del crollo della capacità, poiché germoglierebbe nell’animo il dubbio che l’agitazione o lo sciopero non siano in funzione della difesa di comuni interessi economici, ma in funzione di un servizio reso ad una particolare ideologia politica. L’on. Di Vittorio ha ieri ampiamente parlato di religione. Gliene do atto volentieri. Egli ha affermato che in tema di religione vi sono motivi di dissenso. Amici, noi non possiamo in questo momento ignorare quello che di umano, di cristiano, di rinnovamento esprime la religione cattolica. Non possiamo dimenticare che nella storia il processo di liberazione delle coscienze dai concetti di schiavitù e di differenziazione sociale, ha avuto origine dalla predicazione del Cristo. E per questo, cari colleghi e fratelli delle altre correnti sindacali, state tranquilli. I cattolici, che serbano in cuore questa fede in tutta la sua integrità, saranno sempre in ogni momento al fianco e dalla parte dei lavoratori. Ma se do atto all’on. Di Vittorio che la vita confederale non ha quasi mai corso pericoli di fratture di natura ideologica, e se do atto allo sforzo compiuto dai
quadri direttivi per rinunciare ciascuno a qualcosa delle proprie convinzioni ideologiche, nell’intento di determinare una convergenza di interessi e di orientamenti, se è vero tutto questo, non posso però con altrettanta certezza sostenere che i medesimi sforzi siano stati compiuti al livello dei sindacalisti periferici e dei singoli militanti. V’è un aspetto, anzi un problema, che consideriamo assolutamente negativo ai fini dell’unità sindacale. Ed è il problema dei cosiddetti attivisti politici. E il mio dire è rivolto a tutti gli attivisti politici, qualunque sia il partito in cui essi militino. Beninteso, io non intendo affatto qui additare alla vostra disistima coloro che lavorano sul piano dell’attivismo per propagare e affermare le istanze del partito al quale appartengono. Desidero aggiungere che in un Paese che deve essere ricostruito anche e soprattutto sul piano dell’educazione politica e riabituato a riconoscere la funzione e i compiti dei diversi partiti, l’attivista politico assolve ad un nobile compito che è quello di cooperare alla ricostruzione del vivere democratico. Ma noi agli attivisti politici chiediamo una sola cosa e cioè che, in nome di quella passione che li alimenta e li ispira, essi sappiano circoscrivere la loro azione nell’ambito dei rispettivi partiti, tenendo presente che ogni volta che essi trasferiscono la loro ansia di propaganda, la loro attività al servizio di un interesse politico, in sede sindacale, da quel momento essi divengono elementi di disgregazione e di frattura nell’unità sindacale. È quindi un fraterno appello che io rivolgo agli attivisti politici. E analogo appello rivolgo ai partiti perché rispettino l’autonomia del sindacato e permettano che esso assolva per proprio conto le sue funzioni.
Il settarismo nel sindacato In più di una circostanza mi è capitato di prendere atto delle conseguenze negative e deleterie di certe manifestazioni settarie. Questa è una grave malattia dalla quale ogni buon sindacalista deve assolutamente guarire. Perché, amici, se non sapremo liberarci dai germi della faziosità politica in sede sindacale, noi ingrandiremo una situazione che per certi aspetti è già fin troppo estesa e che ha come terreno di manifestazione proprio i luoghi di lavoro. Noi siamo seriamente preoccupati dei dissensi che tra gli stessi lavoratori si manifestano nelle fabbriche, negli uffici, nei campi, in ogni posto di lavoro, in una misura che va oltre il diritto di esprimere le proprie opinioni politiche. E temiamo il giorno in cui, in tali condizioni, saremo obbligati dalla pervicacia della classe capitalista a combattere ad oltranza la nostra lotta sociale. Grave sarà la situazione in quel giorno se emergeranno esasperati i contrasti e i dissensi ideologici fra i lavoratori. E v’è ancora un altro aspetto di questo problema che desidero richiamare alla vostra considerazione. Siamo informati che anche al di fuori degli ambienti di lavoro e cioè delle sedi più propriamente sindacali si vanno qua e là verificando situazioni di dissenso, di sopraffazioni, di disagio per dirigenti che pur lavorano e si battono in difesa degli interessi della classe lavoratrice. Voglio ammettere che tutto ciò non dipenda da cattiva preordinata volontà e che sia piuttosto il frutto, la conseguenza del temperamento piuttosto passionale degli italiani. Mi riferisco ai contrasti che si verificano nell’ambito delle organizzazioni periferiche, tra i quadri delle Camere del lavoro, allorquando la passione politica, l’attivismo, la faziosità, creano gravi condizioni di disagio e profonde incrinature. Ma non siamo, amici, impegnati tutti al compimento di uno stesso dovere, di una identica missione? Non dovremmo sentirci legati da un vincolo indissolubile quando ci troviamo di fronte a lavoratori di ogni opinione politica e di ogni fede religiosa, che vengono e ricorrono a noi per la tutela dei loro diritti e dei loro interessi economici? E se questi debbono essere i sentimenti che dovrebbero presiedere ad ogni nostro atto, convenite con me che nella scelta dei dirigenti e nell’assegnare direttive non vi dovrebbero essere discriminazioni oltre quelle delle competenze e delle capacità. Ecco il terreno e il riconoscimento sui quali dobbiamo far convergere ogni sforzo e ogni volontà. Ecco l’elemento di legittima discriminazione; la capacità, la volontà, la fede nel servire la causa della classe lavoratrice. E mi addolora dovervi dire che purtroppo abbiamo avuto una serie di casi di Camere del lavoro nelle quali la faziosità politica ha condotto all’allontanamento di valorosi elementi e di valorosi organizzatori sindacali. Sono sintomi gravi e se anche non intendo drammatizzare, non possono d’altra parte inibirmi il dovere di sottolineare i pericoli di una siffatta tendenza. Occorre individuare questi casi, questi episodi, occorre rimediare e agire perché l’errore non si ripeta. La passione, anzi la faziosità politica, che si è insinuata attraverso gli uomini,
rischia di compromettere i quadri e minaccia alla radice la nostra organizzazione. Vi parrà una considerazione grave, ma essa risponde ad una visione dinamica che abbiamo del sindacato. Il sindacato, lo andiamo ripetendo quotidianamente, deve condurre la classe lavoratrice alle conquiste sociali capaci di inserire profondamente il popolo lavoratore nella gestione della cosa pubblica. Orbene, se vogliamo veramente vincere gli egoismi e gli ostacoli che si frappongono a questo obiettivo, se vogliamo infrangere le resistenze del mondo capitalistico e le incomprensioni di molti settori politici, dobbiamo prevedere una lotta dura e lunga nel corso della quale nessun dirigente dovrà mancare all’appello. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre scongiurare che nel cuore di una parte degli organizzatori sindacali faccia strada il disagio, il dolore, l’amarezza per ingiustizie e soprusi subiti da parte di dirigenti di diversa fede politica. Bisogna assolutamente evitare che sotto la spinta di questi sentimenti e di queste amarezze, questi dirigenti abbandonino il loro posto di combattimento, sia che si tratti di Camera del lavoro, di sindacato di categoria o di lega comunale. Riconosciamo ed esaltiamo il sacrificio di tutti gli organizzatori sindacali, di questi uomini che non si concedono mai un attimo di tregua e che hanno assunto il sacrificio e l’abnegazione come fattori di una vera e propria gioia interiore. Se queste sono considerazioni obiettive e giuste non vi sembra delittuoso distruggere questa gioia, questa passione, con l’infliggere umiliazioni o ingiustizie? Ricordo un insegnamento del nostro indimenticabile Achille Grandi. Egli, che pur non ebbe la gioia di aver figli, ricordava spesso ciò che avviene in una famiglia quando un figliuolo, per un motivo o per un altro, è trattato ingiustamente e viene considerato inferiore ai suoi fratelli. Si determina in quella famiglia una profonda incrinatura e la pace, la serenità vengono distrutte. Scongiuriamo, amici, una minaccia simile nella nostra famiglia sindacale, dove nessuno dovrà mai sentirsi a disagio, dove nessun componente dovrà mai essere considerato inferiore o meno degli altri. Ecco perché noi giudichiamo gravemente nociva, nella vita del sindacato, l’azione degli attivisti politici. E vi do atto che in questa minaccia che si profila forse siamo tutti egualmente responsabili e deriva certamente dalle condizioni e dal modo con il quale abbiamo dato vita alla Confederazione unitaria. Ma il nostro dovere è quello di superare queste difficoltà e di non condizionare la nostra collaborazione reciproca sul piano sindacale alle concezioni politiche che ciascuno di noi ha. Qualcuno domanda: ma è possibile in Italia il determinarsi di una vera democrazia sindacale senza colorazione politica? Vi confesso che questo interrogativo è continuamente presente nel mio animo, e se in qualche momento sono stato perplesso oggi non lo sono più, poiché la vita del nostro movimento sindacale ha preso tali proporzioni e assunto tali compiti da poter costruire veramente uno strumento omogeneo e valido per la liberazione della classe lavoratrice dalle sue condizioni di ingiustizia e di debolezza. L’omogeneità è ricercabile e realizzabile nell’azione da compiere in difesa dei lavoratori. Ma l’omogeneità deve presupporre e poggiare sulla libera circolazione non delle posizioni politiche, ma delle impostazioni sindacali all’interno della nostra Confederazione.
Ad esempio, v’è stato un momento in cui si è manifestato un dissenso fra di noi a proposito della politica salariale. Il dissenso emerse nel luglio del 1946, quando per la prima volta nel comitato direttivo si è manifestata una divergenza di pensiero sul modo di impostare la nostra battaglia salariale. Nacque allora per alcuni di noi la prima riserva su quella politica degli alti salari che veniva imposta in quel momento. Nel seno del Comitato direttivo furono posti in discussione due ordini del giorno, due mozioni. Non vi pare che sarebbe stato utile e indispensabile, per un orientamento dei lavoratori e per maggior conforto delle proprie opinioni, chiamare i lavoratori stessi a discutere nelle Camere del lavoro, nei sindacati e nelle leghe i due indirizzi salariali in modo che essi potessero esprimere la loro adesione, i loro consensi alla mozione A o alla mozione B? E questa procedura, questo metodo favorirebbe la democrazia della nostra Confederazione. Ma certo, occorre premettere che a guidare e determinare i consensi per una tattica sindacale piuttosto che un’altra, non siano mai le proprie convinzioni politiche, che hanno un finalismo particolare. Il pericolo starebbe nello spingere i lavoratori ad assumere un atteggiamento sindacale in funzione dei finalismi politici. In questo caso non si servirebbe l’interesse dei lavoratori, ma si tradirebbero le autentiche funzioni del sindacato.
Sindacato e azione politica Altro esempio. Non credete voi che sarebbe altamente educativo e soprattutto sommamente utile alla vera causa dei lavoratori, se nel momento di chiedere il suffragio dei lavoratori nelle elezioni delle commissioni interne riuscissimo a orientare le scelte non secondo la colorazione politica dei candidati ma secondo le loro capacità personali? Ed ora consentitemi di svolgere alcune considerazioni sul famoso articolo 9 del nostro statuto. L’articolo che tende ad inserire il sindacato nell’azione politica e a investirlo di responsabilità politica. Certo, è suggestiva la tesi di coloro che sostengono che l’art. 9 costituisce una garanzia di difesa contro qualsiasi tentativo di ritorno reazionario. E chi rifiuterebbe di sposare un concetto di tale natura? E credete proprio che dopo l’esperienza, fatta nel 1922-23 i lavoratori italiani abbiano proprio bisogno di un articolo di statuto confederale per ribellarsi unanimemente e insorgere, il giorno in cui si riprofilasse il pericolo di un ritorno reazionario? I lavoratori hanno ancora nelle carni i segni del regime fascista e non consentiranno mai il ripetersi di una così infamante esperienza. Anche su questo argomento, quindi, nessuno dubbio è legittimo sulla identica volontà di ciascuno di noi a combattere contro ogni minaccia reazionaria. Ma detto questo, devo riprendere il discorso dei pericoli dell’ingresso della politica, sia pure involontario, nella nostra famiglia confederale. Tutti a Napoli votammo il famoso art. 9 del nostro statuto. Ecco perché noi siamo per l’abolizione di questo articolo dalla carta statuaria della nostra Confederazione. Chi può negare che quando un qualsiasi segretario di Camera del lavoro ha fatto intervenire ed ha coinvolto il sindacato in una certa manifestazione politica, non abbia interpretato con spirito di parte e secondo le proprie concezioni politiche l’art. 9? Ché quando avviene un fatto simile, è naturale che si determini una frattura fra coloro che parteggiano per il partito che ha promosso quel fatto politico e coloro che non vi parteggiano. Questa è l’unica, profonda ragione per la quale noi abbiamo letteralmente paura dell’art. 9.
Le ACLI e l’unità sindacale Ed ora veniamo al problema delle ACLI. Ne ha parlato ieri l’on. Di Vittorio. Amici, non mi preoccupa affatto se una parte di voi mi applaude e l’altra mi interrompe come sta accadendo in questo momento. Il mio solo interesse è di trovare la via per unire i nostri punti di vista. E a me non piacciono i congressi conformisti. Se questo congresso si fosse risolto in una magnifica manifestazione esteriore, con valletti, musiche e lirismo, forse non avremmo servito la causa dei lavoratori. Non è l’unità formale che conta, ma l’unità sostanziale. E questa si raggiunge solo attraverso la discussione e non con la paura della discussione. Dicevo dunque che ieri l’on. Di Vittorio ha affrontato, sia pure fugacemente, il problema delle ACLI. Vi dirò subito che io ho il profondo desiderio che finisca il sospetto a carico dei lavoratori cattolici, che cessi questo senso di sfiducia e di riserva verso alcuni di noi. Noi qui siamo quasi in sede costituente, questo congresso è veramente il partito dei lavoratori e desidero che tutti i motivi di dissenso vengano lealmente affrontati per essere chiariti e dissipati. Quel che conta è che quando metteremo fine a questo congresso non vi sia più nessuna ombra tra di noi. Pertanto desidero che la discussione sia fatta senza veli e in piena lealtà. Il problema delle ACLI investe il problema assistenziale. Vedete: avevamo già raggiunto, tra Di Vittorio, Lizzadri ed io, un accordo su questo problema. Con tale accordo intendevamo affermare l’idea che se una preminenza nell’ambito degli enti a carattere assistenziale deve manifestarsi, la sua legittimità va ricercata nella capacità di servire i lavoratori. Mi pare che questa formula sia una genuina espressione di democrazia. Pertanto direi che su questo argomento non dovrebbe esserci più nulla da dire. Sia riconosciuta la libertà di assistenza e chi saprà far meglio avrà i maggiori consensi e a guadagnare saranno i lavoratori. Amici, non dimenticate che il vecchio patronato fascista ha tradito i fondatori della Umanitaria, dell’opera Cardinal Ferrari e del vecchio patronato libero, proprio quando ha ridotto tutto ad un unico organismo, ed è evidente che il giorno in cui è stato realizzato e imposto un unico patronato è stato eliminato lo spirito di emulazione, è scemato l’impegno dell’assistenza ed è diminuito l’interessamento verso il lavoratore. Converrete con me che l’assistenza non si sviluppa e non si manifesta sul freddo piano delle cifre, ma è assistenza vera, utile, solo se condotta con capacità, perizia, passione e cuore. Orbene, quando il fascismo ha voluto un unico patronato, ha avuto un solo risultato: quello di aver creato le premesse perché divenisse preminente la funzionalistica coscienza del «27 del mese». Soltanto con la pluralità delle organizzazioni assistenziali, si hanno le garanzie cui alludeva Di Vittorio.
Le attività ricreative Analoghe cose voglio dire per l’ENAL. Questo carrozzone deve scomparire, perché in periodo di democrazia non possiamo concepire la ricreazione dei lavoratori, amorfa, acefala e senz’anima. Voi amici marxisti concepireste una biblioteca di un circolo ricreativo di lavoratori priva delle opere del vostro maestro Marx? Eppure, in un circolo culturale forzatamente unitario questo avverrebbe fatalmente. Noi affermiamo pertanto che anche nell’attività ricreativa dei lavoratori bisogna offrire tutte le possibilità. Ma allora, si obietterà, dovrebbero cessare tutti i benefici dello Stato alle attività ricreative? Niente affatto. Noi affermiamo che lo Stato democratico repubblicano deve essere presente nella ricreazione dei lavoratori. Solo che questa presenza deve essere identica a quella che lo Stato attua nel campo assistenziale con la pluralità degli organismi. Lo Stato cioè dia il suo contributo a libere istituzioni ricreative, con senso di assoluta neutralità e imparzialità, a seconda della loro efficienza. In tal modo noi sentiamo che si concilierebbero due importanti fattori: la libertà dell’orientamento culturale dei lavoratori e la presenza dello Stato democratico in tale attività. Con analoghe considerazioni e con identici presupposti potrei parlarvi della istruzione professionale. In una parola vi dirò che in tutte queste attività noi siamo per la più completa libertà di iniziativa. Ed è sotto questo profilo che noi consideriamo le ACLI. Inoltre le ACLI hanno svolto e svolgono una utile funzione di rafforzamento del sindacato unitario. I lavoratori cattolici hanno accolto con fede l’invito a considerare morto il vecchio sindacato, anche quello di colore del pre-fascismo, e ad accorrere a costruire questa nuova casa unitaria. E credete alla sincerità del mio animo e a quella dei miei amici. Noi abbiamo considerato le ACLI come elementi che ci permettevano di recare al nostro sindacato unitario tutti i lavoratori cattolici. Se voi ritenete che i lavoratori cattolici vivono le stesse ansie, patiscono le stesse sofferenze, hanno gli stessi interessi di tutti gli altri lavoratori, se voi siete sicuri di tutto ciò non avete il diritto di sospettare di loro.
Governo e CGIL Ed eccomi ad altri tre argomenti. Vi sono due accuse che affiorano spesso sulla stampa di informazione. Una di tali accuse tende a presentare la Confederazione come espressione di un sindacalismo governativo. La calunnia è sottile ma essa si infrange contro la verità della realtà dei fatti. L’Italia ha subito per 20 anni l’esperienza del sindacato governativo e tutte le conseguenze negative sono ancora presenti alla memoria dei lavoratori. La classe lavoratrice italiana ha pagato a caro prezzo il sindacato di natura corporativistica e non intende assolutamente ripetere l’esperimento. Il sindacalismo governativo è la negazione del sindacalismo. Poiché ha come risultato la negazione della lotta sociale e l’assopimento completo delle volontà, delle aspirazioni e dello spirito combattivo del proletariato. La riconquistata libertà politica ha restituito finalmente ai lavoratori italiani la possibilità di darsi uno strumento autonomo e volontaristico per la difesa dei loro diritti, e se difficoltà stiamo incontrando esse dipendono proprio da quel diffuso senso di indifferenza e di disinteresse che il sindacalismo corporativo ha lasciato nell’animo della classe lavoratrice. Evidentemente vi sono stati, vi sono e vi saranno contatti e incontri fra la CGIL e il governo. Ma cosa significa questo? Significa forse subordinazione o dipendenza? I nostri accusatori non sono evidentemente in grado di comprendere la funzione di un sindacato autonomo in regime di libertà politica. Ed è funzione di responsabilità, di guida delle masse operaie, di azione in difesa di interessi sezionali, sempre però nell’ambito della comprensione, della difesa e degli interessi generali del paese. Un sindacato consapevole deve conoscere i programmi del governo, le iniziative, la politica perseguita per poter più agevolmente consigliare, stimolare, correggere. E poi non si tiene conto di due dati di fatto importantissimi: cioè che questo non è un governo dittatoriale, ma un governo espresso liberamente dalla volontà popolare e che il paese si trova in una delicata situazione, con una economia dissestata e con le funeste conseguenze di una guerra disastrosa.
Un sindacato centralizzato La seconda accusa che ci viene rivolta da alcuni settori è quella che dipinge la nostra Confederazione come un organismo a direzione centralizzata. Un sindacato moderno non può più, evidentemente, continuare la tradizione del vecchio e glorioso sindacalismo settoriale e sezionale. L’aspetto unitario e sempre più vivo della vita di un Paese impone anche al sindacato una visione unitaria dei problemi e un collegamento, un’armonizzazione delle esigenze e dei problemi delle varie categorie con le esigenze e i problemi dell’intera collettività nella quale il sindacato opera. Ma questo non significa fare del sindacalismo centralizzato. Questo significa fare del sindacalismo consapevole dei propri compiti. Resta naturalmente valida l’organizzazione di categoria, l’organizzazione decentrata nelle Camere del lavoro, nei sindacati provinciali, nelle leghe, etc. E noi anzi tendiamo ogni giorno a creare e sviluppare la coscienza dei lavoratori per rafforzare i sindacati categoriali e attribuire a questi compiti di guida del settore dei lavoratori che organizzano.
La formazione dei quadri E l’ultimo argomento è quello della formazione dei quadri. Vi rendete conto che è da una efficiente rete di quadri dirigenti sindacali a tutti i livelli che dipenderà l’avvenire della nostra organizzazione. Io mi auguro che fra due anni, quando ripeteremo i nostri congressi, ci sia dato di incontrare nelle assisi della nostra organizzazione di ogni ordine e grado, nuovi volti di organizzazioni sindacali. Il rinnovamento dei quadri, il perfezionamento di quelli esistenti, la maturazione e la qualificazione di essi costituiscono l’indispensabile premessa per il nostro avvenire e per il progresso della classe lavoratrice. Ed ho terminato. Voglio solo aggiungere anch’io, come ha fatto l’amico Lizzadri, un invito alla fiducia e alla speranza. Ci sono dei momenti nei quali temiamo per l’avvenire e ci pare non ci sia più posto per la speranza. Ma occorre sperare, occorre avere una immensa fede. Fede nella missione che siamo chiamati a compiere, nei sicuri destini della classe lavoratrice, fede nella volontà di lotta della gente che soffre e che ha diritto a migliori condizioni di vita. Se avremo questa fede, salda e incrollabile, supereremo i momenti di sconforto e di difficoltà, nella certezza che il premio non mancherà di coronare i nostri sforzi. Lasciate che io ricordi qui il nostro Pontefice, che talvolta anche voi amate ricordare. Dalle Sue labbra uscì un giorno un tremendo monito che era un invito ai lavoratori e un avvertimento alle classi borghesi. Il Vicario di Cristo ammonì che doveva finalmente cessare il giogo servile del proletariato. Accogliamo questo avvertimento come un vaticinio. E in nome di questo vaticinio, avanti.
POLITICA SOCIALE E SINDACALISMO LIBERO Discorso alla Camera dei Deputati, 25 ottobre 1948, in Pastore. Discorsi Parlamentari (1947-1968), Camera dei Deputati, Roma, 2012, pp. 14-29.
Pastore. Devo confessare che, nuovo ai dibattiti parlamentari, anch’io, per un momento, sono rimasto perplesso di fronte alla discussione che qui si va svolgendo. Quando si parla di bilancio e si hanno sotto occhio i capitoli di dare e di avere che il Ministero ha presentato, appare d’obbligo affrontare un problema tecnico di cifre. Invece v’è una consuetudine che consente di estendere, oltre le cifre, il giudizio a quella che è l’attività generale del dicastero di cui si parla. Affrontando l’esame del bilancio del Ministero del lavoro desidero dare innanzitutto atto al Ministro Fanfani dello sforzo che egli ha compiuto per imprimere al suo dicastero una direttiva dinamica, onde trarlo dalle more della semplice burocrazia: e sono lieto che anche il collega Lizzadri, sia pure sommessamente, forse perché espressione della opposizione politica in questa Camera, abbia voluto introdursi nella sua critica con identico riconoscimento. Attività e dinamismo che, piace a me costatarlo, sono andati a tutto favore delle classi lavoratrici, come dimostra la lunga serie di interventi diretti, appassionati e infaticabili, di questo giovane Ministro nelle vertenze sindacali. L’attivismo del Ministro Fanfani si è manifestato anche nel campo della riforma della previdenza, e qui mi è gradito rendere omaggio al nostro Presidente onorevole Gronchi [1] , al quale va il merito di avere, come primo Ministro del lavoro della Repubblica italiana, istituito quattro anni or sono la commissione per la riforma della previdenza. Di certo vi è... Di Vittorio. … che la previdenza non si realizza. Pastore. Di certo vi è che, dopo l’avvenuta costituzione della Commissione per la riforma della previdenza sociale da parte del Ministro Gronchi, è stato necessario, perché tale Commissione si mettesse al lavoro, che al Ministero andasse l’onorevole Fanfani, poiché i Ministri socialcomunisti che lo hanno preceduto in quel dicastero hanno lasciato la commissione del tutto inoperante. Osservo inoltre che, se la legge sulla democratizzazione degli istituti previdenziali è stata tradotta in atto, lo si deve alla ferma volontà di questo Ministro; e veramente è stato curioso il ripiegamento del collega comunista onorevole Cavallotti che, preso in flagranza nel tentativo di denunciare tale legge
come provvedimento che non aveva tenuto conto dei diritti dei lavoratori, avendo il Ministro Fanfani osservato che la stessa era stata predisposta dal Ministro socialista Romita, ha apertamente eluso la questione da lui medesimo posta. Anche l’ingrato campo della disoccupazione ha visto all’opera il Ministro Fanfani; a lui si deve il primo notevole aumento del sussidio ai disoccupati, ma a lui, soprattutto, è dovuta una impostazione razionale e costruttiva del grave problema mediante i provvedimenti sull’imponibile in agricoltura, le scuole di riqualificazione ed anche, o signori critici del progetto per la costruzione di case per lavoratori proposto dal Ministro Fanfani, lo spregiudicato tentativo di mettere in azione vaste forze produttive onde assicurare una continuità di lavoro a grandi masse di operai. Di Vittorio. Molto spregiudicato! ( Commenti). Pastore. Viene da osservare che di fronte all’inettitudine di coloro che il problema della disoccupazione affrontano soltanto sul terreno della critica negativa o della speculazione politica, l’opera del Ministro Fanfani appare come il solo serio tentativo capace di sbloccare la situazione. ( Applausi al centro). Datole atto dell’indirizzo positivo impresso al suo dicastero, dobbiamo dirle, signor Ministro, che non siamo molto soddisfatti del modo con cui è applicato in certe regioni l’imponibile della mano d’opera in agricoltura. Consideriamo non indovinato l’aver attribuito ai prefetti il giudizio ultimo per l’applicazione della legge. E poiché delle carenze si sono registrate, bisognerà che il governo pensi a sensibilizzare socialmente alcuni di questi prefetti. Io ritengo che il Ministero del lavoro abbia propri strumenti… Di Vittorio. Delle iniezioni. Pastore. …per realizzare e per tradurre in concreto questa legge: mi riferisco agli Ispettorati del lavoro. Non dovrebbe esser difficile affidare ad essi un’indagine sulle reali condizioni di certe zone delle Puglie, della Sicilia ed anche della Toscana, onde scoprire come vi sia una volontà deliberata da parte di molti proprietari terrieri di sfuggire agli obblighi di questa legge democratica. E se questa indagine dovesse dare, come sono certo darebbe, risultati positivi, consenta, signor Ministro del lavoro, di chiederle un pronto ed energico intervento contro questi inadempienti, con la severità che va usata contro coloro che sabotano la ricostruzione del paese. Nel campo previdenziale vorrei chiederle di tener fede all’assicurazione data, che cioè in primavera la riforma sarà tradotta in legge. Occorre tener fede alla data e mantenere fermo il principio informatore della riforma. Il collega Cavallotti ha, nel suo intervento, insinuato che non un principio di giustizia ispirerebbe la riforma, ma soltanto un principio di carità e di carità legale. L’insinuazione non ha fondamento alcuno, ed ella, signor Ministro, penserà certamente a darne la prova con i fatti. E poiché la riforma non potrà essere tradotta in legge che nella prossima primavera, io vorrei raccomandare al Ministro l’immediata attuazione di alcuni
provvedimenti per taluni settori che mi pare non possano attendere. Mi riferisco agli infortuni nell’industria, ove è necessario l’aumento delle rendite per l’invalidità permanente che oggi si liquidano, ancora, sul salario massimo annuo di lire 60.000. Si tenga conto che per gli infortuni prima del 1947 – in quanto hanno un grado di invalidità permanente del 40 per cento – si liquidano rendite ragguagliate al salario annuo di lire 24 mila. Un provvedimento che è vivamente atteso dalla classe impiegatizia italiana è quello dell’abolizione del blocco a 1.500 lire mensili di stipendio per avvantaggiarsi delle assicurazioni. Con tale blocco, la grande maggioranza degli impiegati non può usufruire dei benefici assicurativi e previdenziali. Non dico una cosa nuova se richiamo l’attenzione del Ministro sul settore dell’agricoltura. In questo settore abbiamo una sproporzione in materia di infortuni: per circa 3 milioni di assicurati nell’industria esiste una copertura annua di 20 miliardi di contributi, mentre per 8 o più milioni di assicurati in agricoltura la copertura è appena di 700 milioni. Per il settore agricolo vi è la disagiata condizione dei salariati e dei braccianti che, per non avere potuto applicare le marche quando queste vigevano, sono rimasti per quasi 20 anni scoperti dall’assicurazione. Dovremmo avere almeno 400 mila pensionati in agricoltura ed invece siamo molto al di sotto della metà di tale cifra. A mio giudizio urge estendere l’assicurazione per malattia ai piccoli proprietari, ai coltivatori diretti e con essi agli artigiani. E per ultimo, signor Ministro, richiamo la sua attenzione sulla posizione di quelle molte migliaia di lavoratori colpiti da tubercolosi che, per non poter essere ricoverati a causa del limitato numero di posti disponibili, restano completamente abbandonati senza alcuna assistenza e senza alcuna indennità. Altro argomento d’attualità è quello dei patrimoni delle ex-organizzazioni sindacali fasciste. Siamo di fronte a un decreto del 23 novembre 1944: quattro anni, onorevoli colleghi. Quante cose si liquidano in quattro anni! Eppure in questi giorni vi è in atto il tentativo di provocare una ulteriore procrastinazione del perdurare di una tale situazione; si punta ad una specie di conservatoria permanente! Bisogna intendersi: è stata disposta la scadenza di questa liquidazione per il 31 dicembre. Quali sono le intenzioni del Ministro? In questi giorni è maturata una crisi sindacale delle cui responsabilità potremo parlare più avanti. Certo è che ci troviamo di fronte a parenti ricchi e a parenti poveri. Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Stamane l’onorevole Giulietti ha consigliato la confisca dell’eredità. Giulietti. Ed ella ha accettato… Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. …con riserva! Pastore. Noi domandiamo un atto di giustizia. Vi è la Libera Confederazione generale italiana dei lavoratori che chiede una casa. Vi sono stabili in via Boncompagni, in Corso d’Italia, in via Lucullo, in via dei Mille. Ebbene noi chiediamo che anche a questa organizzazione di lavoratori sia dato modo di avere
una degna sede. ( Commenti all’estrema sinistra). Per queste liquidazioni è poi opportuno dare la più ampia pubblicità alle operazioni compiute durante l’intera gestione anche perché si riferiscono a patrimoni costituiti con il denaro di tutti i lavoratori italiani. Giulietti. Questa è un’eredità curiosa: quelli che l’hanno costituita non sono morti. È dunque uno scambio fra viventi. Pastore. Ed ora, onorevoli colleghi, permettetemi alcune considerazioni di carattere generale sulle istanze sociali del momento. Incomincerò con il rilevare uno strano fenomeno, che caratterizza tutti i periodi post-bellici: mi riferisco all’euforia di giustizia sociale che all’indomani di tutte le guerre provoca schieramenti pressoché unanimi a favore di rivendicazioni fondamentali dei lavoratori. Dopo la prima guerra mondiale tuonò il grido: «la terra ai contadini!». Tonengo. Sono passati trent’anni da quelle promesse! Pastore. Dopo il più recente conflitto a risuonare è stato il postulato: «i lavoratori devono essere inseriti nella direzione delle aziende!» Ho giudicato ciò uno strano fenomeno. Veramente si potrebbe dire, per chi crede, onorevoli colleghi, come credo io, alla preminenza e alla ineluttabilità della legge morale, che, al di là della stessa volontà degli uomini, in certi momenti è questa legge morale che si impone; infatti, accertato che le guerre sono combattute per i nove decimi dalle classi lavoratrici, la società, al ritorno della pace, è portata a riconoscersi debitrice verso tali classi e poiché è sempre aperto il problema di una giustizia distributiva più confacente con i diritti della persona umana, alla soluzione di tale problema sembrano, sotto la pressione degli eventi, voler concorrere le stesse forze che hanno le maggiori responsabilità: le stesse resistenze su posizioni arretrate e di egoismo sembrano affievolirsi, tanto da far apparire, allo spegnersi delle guerre, di imminente realizzazione il sogno di una maggiore giustizia sociale. Senonché, allontanato nel tempo il ricordo dei sacrifici e dei dolori della guerra, sulle esigenze di giustizia ritornano a prevalere gli egoismi fino a far ritornare tutto come prima e peggio di prima. Di Vittorio. Ed è questa la vostra funzione: di farci ritornare peggio di prima! Cremaschi Carlo. Calma, calma! La storia giudicherà! Pastore. La mia non è evidentemente che una constatazione, di cui non posso non rammaricarmi. Dicono i marxisti: è la ineluttabilità della lotta di classe! Né io lo nego; nego invece che, elevandosi a strumento o a metodo la lotta di classe, il conflitto si risolva. E tanto meno si risolve se – come volete voi comunisti – nell’esercizio di questa lotta si fa ricorso alla forza e alla violenza! Noi crediamo che nulla si costruisca con la forza e con la violenza! ( Applausi al centro). Di Vittorio. Domandiamo di attuare le riforme nella legalità, ma il governo non fa nulla!
Pastore. Onorevole Di Vittorio, è pericoloso legittimare in qualsiasi modo l’uso della forza e della violenza; per lo meno ciò significa inibirsi il diritto di lamentarsi della violenza quando di essa si resta vittime. ( Commenti all’estrema sinistra). Una voce al centro. Ricordatevi del 1922! ( Proteste all’estrema sinistra). Pastore. Certo che quest’argomento della lotta di classe, ad affrontarlo, ci porterebbe molto lontano. È, per esempio, ingiusto ritenere che la lotta di classe ha l’unica sua provenienza nella educazione marxista dei lavoratori; una posizione di esasperato classismo è pure di coloro che ad ogni costo vogliono conservare assurde situazioni di privilegio. A mio giudizio tale lotta è voluta anche da coloro che si ostinano a chiudere gli occhi di fronte alle esigenze della giustizia sociale. Tonengo. Ma crederanno! Pastore. Se, dunque, questo conflitto è una realtà, occorre chiedersi se deve essere lasciata la strada libera al più forte. A questa domanda noi rispondiamo no. È lo Stato moderno democratico che ha il dovere e il diritto di intervenire affinché non il concetto di forza vinca, ma vinca il concetto di giustizia. Soltanto con lo Stato liberale assenteista la soluzione dei problemi sociali era affidata unicamente al gioco delle parti interessate. Noi siamo dunque d’avviso che lo Stato moderno deve procurarsi gli strumenti adatti per efficacemente assolvere a questa sua funzione. Di Vittorio. Fate le riforme! Una voce dal centro. Le faremo! Dateci il tempo. Pastore. Sabato, nel suo discorso alla Camera, il Ministro Lombardo, così elencava le cause dell’odierna grave crisi della nostra industria: «i profitti si misurano a spanna, abbiamo impianti vecchi e superati, nelle aziende vi è troppo disordine». L’accenno ai profitti a spanna mi ha fatto ricordare una conversazione avuta a Londra con un italiano rappresentante di prodotti tessili. Rispondeva questo italiano ad una mia domanda: «stiamo perdendo i mercati inglesi, poiché l’industria tessile francese ha ridotto a circa 5 per cento il suo profitto, ciò che consente di praticare prezzi molto inferiori a quelli italiani». Onorevoli colleghi, se l’affermazione del mio interlocutore risponde al vero, non è dunque demagogia denunciare l’ingordigia del produttore, che non vuol limitare i suoi guadagni, tra le primissime cause della perdita dei mercati e quindi della chiusura degli stabilimenti. Ecco, allora, un primo campo, ove l’intervento dello Stato democratico si rende necessario. Dica il Governo una sua parola energica sui profitti e non esiti ad usare del suo potere per togliere e per ridurre. E veniamo agli impianti; è questo un problema che ha una curiosa interpretazione da parte degli attuali dirigenti della Confederazione generale italiana del lavoro. Essi impostano la loro opposizione al piano Marshall sul fatto che il piano consente l’importazione di macchinari. Ma, onorevoli colleghi, siate più obiettivi e coerenti. Abbiamo un dato tecnico che non si può contestare: o noi consentiamo che una certa aliquota di impianti nuovi venga nel nostro Paese, e allora avvieremo rapidissime le nostre industrie, daremo ad esse modo di
fronteggiare la concorrenza straniera con il conseguente beneficio di dare lavoro e pane ai nostri lavoratori; o noi, per motivi puramente teorici o peggio di faziosità politica, predichiamo l’ostracismo a tali importazioni, con il pretesto che devono essere le nostre industrie a costruire tali impianti, e allora dovremmo rassegnarci ad attendere prima l’arrivo delle materie prime, poi che si costruiscano i macchinari, cioè a dire dovremmo lasciar passare alcune decine di anni dopo di che potremo incominciare a sperare di far fronte ai bassi costi dell’industria straniera. Non vi sembra, onorevoli colleghi, che ciò significhi lasciare che la disoccupazione aumenti e imperversi e che i lavoratori muoiano di fame? ( Applausi al centro e a destra). Di Vittorio. Abbiamo chiesto che si facciano in Italia le macchine che si possono costruire in Italia. Pastore. Quel che è certo è che il problema degli impianti esiste ed è problema grave. Il Ministro Lombardo, non so se in un’intervista o in un suo discorso, avrebbe affermato che per il rinnovo degli impianti occorrono 100 miliardi, somma questa che non è certo possibile trovare interamente in Italia. Di Vittorio. Basterebbe toglierli ai Brusadelli e i 100 miliardi si troverebbero. Foresi. Stiamo facendo proprio questo. Pastore. Il riconoscere che non tutti i 100 miliardi si possono trovare nel nostro Paese non significa escludere la possibilità di rintracciarne una parte notevole. Ed io qui intendo denunciare le gravi responsabilità di coloro che per timore del domani o per incertezza di profitti preferiscono tesaurizzare i loro capitali anziché metterli a disposizione della nostra ripresa industriale. Di Vittorio. Fate delle proposte al Governo. Pastore. Abituati dal fascismo ad impiegare il loro denaro senza rischio, abituati dal fascismo a realizzare sempre i grandi guadagni, è ovvio che, nel momento in cui l’economia italiana si dibatte in una delle sue più gravi crisi, è ovvio che l’egoismo di questi signori suggerisca loro di non affrontare i rischi o, comunque, di tenere in serbo i loro capitali per tempi migliori, con la conseguenza che intanto si perdono i mercati e si creano le premesse di una sempre maggiore disoccupazione. È di fronte a tali constatazioni che viene spontaneo il giudizio di pena per la classe dirigente del nostro tempo. Vi sono alcuni episodi di questi giorni che ampiamente lo confermano. Mi riferisco agli avvenimenti di cui sono pieni i giornali e che prendono il nome dai vari Brusadelli, Bellentani, Sacchi. ( Commenti all’estrema sinistra). Questi fattacci di cronaca dicono quanto sia necessario che anche in questa direzione, verso cioè gli straricchi, si operi un energico, razionale intervento dello Stato. Sia intanto il governo implacabile nell’azione che ha intrapresa. Bisogna considerare i fatti avvenuti come bubboni che sono scoppiati a testimonianza che vi è un marcio molto più diffuso e molto più grave! ( Vivi applausi al centro).
Tonengo. Si sono condannati alla prigione i contadini per un quintale di grano non consegnato all’ammasso. Che valore ha questo reato di fronte ai miliardi non pagati allo Stato dal Brusadelli? (Commenti). Pastore. Onorevoli colleghi, un altro episodio sta ad indicare il declino della attuale classe dirigente: mi riferisco alla morte del Risorgimento Liberale. Questa classe dirigente, che nuota nell’oro, non deve avere più un barlume di ideale se lascia morire per insufficienza di mezzi il giornale del Partito più vicino alle sue tradizioni. Di Vittorio. Ma i capitalisti non sono più liberali: sono democristiani! (Proteste al centro). Pastore. Il Ministro Lombardo ha parlato di una terza causa, che sta alle origini della nostra crisi economica: ha parlato delle frequenti esercitazioni della «non collaborazione» nelle fabbriche, delle astensioni dal lavoro e del disordine aziendale. Bisogna intendersi su questo punto. Premesso che il lavoratore, il quale non sa quale sia il suo domani, che sovente al ritorno serale in famiglia trova il desco freddo e forse non ha sempre il pane per i figli, è per ciò stesso nel legittimo stato d’animo di permanente insoddisfazione e quindi facile presa delle manifestazioni di protesta e di ribellione; premesso tutto ciò, non è a lui che va rivolto il monito per le deplorevoli condizioni ambientali delle aziende; va invece rivolto a coloro che, nel legittimo esercizio della tutela e della difesa dei diritti dei lavoratori, dovrebbero recare maggiore senso di responsabilità. Siete voi, colleghi comunisti, che dovete fare l’esame di coscienza; perché siete voi che volendo fare dei bisogni della classe lavoratrice uno strumento per portare nel nostro paese realizzazioni politiche che con le tradizioni del nostro Paese non si confanno, non vi preoccupate che di aizzare le masse onde tenerle costantemente in stato di agitazione e di ribellione. ( Vivi applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra). Laconi. Faccia proposte concrete! Pastore. Nella misura in cui il Governo democratico e repubblicano saprà agire con energia nei confronti delle ingiustificate resistenze dei ceti tardigradi e conservatori cadranno le possibilità di speculazione politica sui bisogni dei lavoratori italiani. Di Vittorio. Ebbene, ma fate dunque qualche cosa, proponete qualche cosa! Pastore. Onorevole Di Vittorio, stia tranquillo che faremo e faremo molto. Intanto consenta che le dica che se dovessimo indagare su tutte le cause che fino a qui hanno operato negativamente ed hanno ritardato parecchie delle realizzazioni auspicate dai lavoratori, un posto di grave responsabilità occuperebbero i comunisti. Infatti l’aver trasformato, come voi avete fatto, molti degli obiettivi genuinamente sindacali in traguardi politici di sommo interesse per il vostro Partito ha sicuramente contribuito ad alienare i consensi e l’appoggio di vaste aliquote della pubblica opinione italiana, ivi comprese la grande maggioranza dei ceti medi e gran parte della stessa classe lavoratrice, e per ciò stesso ha gravemente indebolito la causa e le posizioni delle organizzazioni operaie.
Di Vittorio. Voi siete al Governo! Il Governo ha il dovere di realizzare, ma non ha realizzato ancora alcuna riforma! ( Proteste al centro e a destra). Presidente. Onorevole Di Vittorio, se per le interruzioni ella aveva un conto aperto con l’onorevole Pastore, io credo che ormai l’abbia saldato! ( Si ride). Pastore. Posponendo, come voi fate, al vero interesse e bene dei lavoratori, l’istanza delle vostre realizzazioni politiche, siatene certi, non servite la causa della classe lavoratrice, mentre sicuramente concorrete ad aggravare le condizioni del paese. Per esempio, onorevole Di Vittorio, crede lei che serva la causa del proletariato francese, dei minatori francesi, l’impostazione che il Partito comunista di quel paese ha dato alle agitazioni di questi giorni? ( Applausi al centro ed a destra). Voci all’estrema sinistra. Sì! Sì! Longo. Viva la lotta dei lavoratori francesi! Delle Fave. È una lotta condotta per ordine del Cominform! ( Vive proteste dall’estrema sinistra). Pastore. Concordo che occorre ristabilire una atmosfera di maggiore fiducia nelle aziende, sì da eliminare ogni causa di disordine; concorrerà a ciò il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, come vi potrà contribuire la rinuncia al ricorso alla propaganda sovvertitrice e a metodi antisindacali da parte di coloro che fino ad oggi tale propaganda e tali metodi hanno largamente usato. Onorevoli colleghi, negli interventi verificatisi in quest’Aula sul bilancio del ministero del lavoro soltanto alcuni si sono intrattenuti sulla situazione sindacale, in vista anche delle leggi di cui tanto si sente parlare. In Italia si hanno diverse opinioni sulla organizzazione sindacale. Vi è chi la diffama, cercando di indicare in essa un permanente elemento di sovvertimento. Si tratta evidentemente di persone o loro organi di stampa che hanno interesse di indebolire nel sindacato il solo strumento che i lavoratori possiedono per la tutela dei loro diritti. ( Interruzioni all’estrema sinistra). Di Vittorio. Anche la scissione è servita a questo! Pastore. Sta bene, ma chi l’ha voluta la scissione? Voi! ( Rumori all’estrema sinistra). Armosino. Voi comunisti imponete perfino la tessera per lavorare! ( Proteste all’estrema sinistra). Di Vittorio. La Confederazione del lavoro è libera e aperta a tutti! Ciò che ella afferma è assolutamente falso. ( Commenti al centro e a destra). Pastore. Vi è chi diffama l’organizzazione sindacale, e vi è chi la discredita. Il risultato è identico. E la discreditano coloro che, per motivi del tutto estranei agli interessi dei lavoratori, hanno trasformato l’organizzazione sindacale, che dovrebbe essere la casa di tutti i lavoratori, nella casa dei lavoratori di un partito.
Di Vittorio. Questo non è vero! ( Commenti al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Pastore. Onorevole Di Vittorio, se anche non vi fosse questa mia denuncia, a dimostrare quanto tutto ciò sia vero vi sono le decine centinaia di migliaia di lavoratori che, dopo aver creduto nella Confederazione del lavoro, oggi l’abbandonano delusi ed indignati. ( Applausi al centro). Di Vittorio. Non li vogliamo! Vadano alla cosiddetta libera confederazione, che non è libera ma è democristiana! (Commenti). Pastore. Eravamo partiti all’indomani della liberazione, con un grande sogno nel cuore, quello di dar vita ad una veramente forte costruzione unitaria. Ad indirizzarci e a guidarci vi erano due grandi sindacalisti. Buozzi e Grandi. E quando credevamo di avere posto le premesse per la realizzazione di questo sogno, un partito, quello comunista… Di Vittorio. Il Partito democristiano! ( Proteste al centro). Pastore. … non sapendo rinunciare alle sue mire, si è impossessato dei gangli direttivi dell’ancor giovane organismo, ne ha forzato gli scopi fino ad aggiogarlo al servizio dei propri interessi di parte. ( Applausi al centro – Proteste all’estrema sinistra). E quale è stata la conseguenza? Che nei lavoratori italiani, la cui coscienza sindacale era stata largamente indebolita dal cosiddetto sindacalismo fascista, si è fatta nuovamente strada la sfiducia, l’apatia per il sindacalismo. Nel suo intervento il collega onorevole Cavallotti ha ricordato che i lavoratori italiani devono tutto al sindacato. Onorevoli colleghi, dobbiamo concordare tutti con questa affermazione e pur nella dolorosa constatazione testé fatta… Una voce all’estrema sinistra. Lei è demagogico e fazioso. Pastore. …bisogna che nessuno perda la fede nel sindacalismo, come solo strumento che i lavoratori hanno per la difesa e per la tutela dei loro interessi. È vero, nessuna conquista del lavoro è scesa dall’alto. Basta risalire agli albori del sindacalismo italiano e rifarne la storia per constatare che tutte le realizzazioni delle classi lavoratrici sono opera soprattutto dei sindacati, sono conquista dei lavoratori organizzati. ( Commenti – Interruzioni all’estrema sinistra). Ed è partendo da questa constatazione, che cioè il sindacato è strumento essenziale per i lavoratori, che sono d’avviso che vi debba essere una legge dello Stato democratico che lo difenda e che lo potenzi. Di Vittorio. Purché non neutralizzi il sindacato. Pastore. Io sono per la realizzazione della anagrafe professionale, in quanto rende arbitri tutti i lavoratori dell’orientamento del sindacato. L’anagrafe professionale è la base su cui si inserisce e si costruisce il sindacato. Una voce all’estrema sinistra. Peggio delle corporazioni vogliono fare! (Rumori al centro).
Di Vittorio. Volete fare l’iscrizione obbligatoria? ( Proteste al centro). Pastore. Niente burocratizzazione! La dinamica di un organismo sta nella spontaneità dell’adesione da parte di coloro che intendono parteciparvi; orbene, il sindacato noi lo consideriamo fondato su questo elemento di assoluta spontaneità. Questa tribuna mi consente di esprimere una opinione sul sindacato libero. ( Proteste all’estrema sinistra). Sono in corso in questi giorni, onorevoli colleghi, curiosissime discussioni con interpretazioni non meno curiose sulla libertà e sull’autonomia del sindacato. Una tesi sembra affacciarsi: quando si è dirigenti di un organismo sindacale, non si ha diritto di avere una propria fede politica. Tesi polemica, evidentemente, tesi comoda che viene particolarmente sostenuta dai nemici dichiarati o nascosti dalla Libera Confederazione testé sorta. Si dice: tra i dirigenti della Libera Confederazione generale italiana dei lavoratori vi sono molti che già facevano parte della corrente cristiana, e ciò dimostra che la Libera Confederazione è cristiana, è di colore. Di Vittorio. Non cristiana: magari fosse cristiana! Democristiana! ( Commenti – Interruzioni). Pastore. Io non esito a dichiarare che è questa una tesi assurda! Attenti onorevoli colleghi, che, battendo questa strada, ci si mette sulle orme del fascismo. ( Rumori all’estrema sinistra). Sarebbe come dire che avere una fede politica è una colpa; sarebbe come indicare la politica come elemento deleterio da cui bisogna liberarsi. Perché, evidentemente, a questo porta l’alternativa: perché tu possa dirigere quella ottima cosa che è il sindacato libero, tu ti devi sbarazzare di quell’ingombro che è la tua personale opinione politica! Ma non vi sembra, onorevoli colleghi, che questo sia stato uno dei principali obiettivi del fascismo? Inibire ai lavoratori la facoltà di possedere una fede politica, educandoli a disprezzare i partiti, considerati solo come causa di discordie? Di Vittorio. Siete voi che lo dite! Voi! Pastore. Non è vero! Bisogna distinguere: una cosa è possedere una fede politica, e altra cosa è rendere tale fede politica operante nel senso del sindacato. La verità, onorevoli colleghi, è che la Confederazione del lavoro non è diventata comunista quando gli operai comunisti vi hanno aderito o il comunista Di Vittorio è stato eletto responsabile; non è stato questo il momento in cui è diventata una confederazione di parte: lo è invece diventata quando operai comunisti e dirigenti sindacali comunisti, nell’organizzazione sindacale, hanno operato secondo le esigenze della loro tessera politica e agli ordini dell’apparato del loro partito. ( Rumori all’estrema sinistra – Interruzioni – Applausi al centro). Di Vittorio. Questo è falso! Solo voi operate agli ordini del Governo, solo voi dipendete dal Governo! Pastore. In quanto assertori del libero gioco politico e democratico, onorevoli
colleghi di tutti i settori, dobbiamo augurarci che i lavoratori italiani abbiano tutti una libera fede politica. Ma in quanto assertori del sindacalismo libero dobbiamo anche impegnarci a far sì che questa fede od opinione politica sia fatta valere soltanto nella sua sede naturale, cioè a dire nel proprio partito e non nella sede sindacale. Di Vittorio. E questo dovete imparare voi. Pastore. Ed è soltanto battendo questa strada, onorevoli colleghi, che l’Italia potrà finalmente avere un’organizzazione sindacale veramente unitaria e quindi forte ed efficiente. Occorre che nel nuovo sindacato sia bandita ogni discriminazione politica degli iscritti. Per la storia è opportuno ricordare che i primi rintocchi funebri dell’unità sindacale… Di Vittorio. No, non è morta l’unità sindacale, malgrado le vostre manovre. Pastore. … non datano dallo sciopero del 14 luglio o da altri consimili, ma datano invece da una dichiarazione solenne fatta dal capo del comunismo italiano nel Comitato centrale del suo partito. Il 22 novembre 1946 l’ Unità pubblicava: «Richiamandosi a quanto detto precedentemente su alcune conseguenze negative del patto di unità fra le correnti sindacali, il compagno Togliatti afferma che se si vuole porre riparo alle più gravi deficienze dell’attività sindacale è necessario non fermarsi alla formula del tripartito, ma è necessario giungere ad un tripartito democratico nel quale risultino nettamente espresse le posizioni e gli orientamenti della massa degli organizzati». ( Approvazioni all’estrema sinistra). Non, dunque, la formula paritetica della direzione, formula che neutralizzava il prevalere dell’una o dell’altra corrente politica, ma avvio del meccanismo che avrebbe al più presto portato il partito comunista al timone della Confederazione. L’onorevole Togliatti, da quel capo intelligente che è, sapeva che nella Confederazione unitaria vi erano ormai in prevalenza gli iscritti al suo partito: aveva solo bisogno che questi iscritti potessero esprimere dei dirigenti ai quali l’onorevole Togliatti, potesse impartire direttive… ( Commenti all’estrema sinistra). Di Vittorio. Scusi, anche il Papa si esprime in tal senso… Presidente. Onorevole Di Vittorio, la prego. Pastore. Evitando la discriminazione politica degli iscritti noi riteniamo di porre il naturale fondamento del perdurare e del resistere di un sindacato libero e indipendente, né politico né confessionale. Di Vittorio. Il suo è politico e confessionale. (Rumori e commenti al centro). Pastore. Una tessera sola vale per iscriversi al sindacato libero: la tessera di lavoratore; un titolo solo vale per divenire elementi dirigenti: essere capaci e tecnicamente preparati. Il sindacato libero pone l’istanza di un decentramento di poteri che garantisca l’autogoverno delle categorie. Noi riteniamo che il centralismo sindacale defrauda
le categorie e introduca un inevitabile elemento politico. (Interruzione dell’onorevole Di Vittorio). E questo va detto per i lavoratori, e va anche detto per i datori di lavoro. La pubblica opinione, che solitamente dedica le sue attenzioni quasi esclusivamente alle organizzazioni operaie, veda un po’ cosa accade nei settori numericamente più ristretti, ma potenzialmente più forti, dei datori di lavoro. Quante volte gli industriali italiani, fra le categorie più intelligenti, hanno assunto posizioni di resistenza nelle controversie sindacali contro la stessa propria convinzione, solo per uniformarsi alla direttiva dell’organo centralizzato, sia che si chiamasse Confindustria sia che si chiamasse Confida! È questa la riprova del come, spesse volte, la centralizzazione rechi elementi negativi nel normale svolgersi della vita sindacale. Di Vittorio. Vi preparate a giustificare la fine delle Camere di lavoro. Abbiamo già capito. Pastore. Non siamo per la fine delle Camere del lavoro, onorevole Di Vittorio, tanto è vero che nella libera nostra organizzazione abbiamo inserito gli organi verticali, le Unioni provinciali dei liberi sindacati, ma con compiti delimitati; e qui, onorevole ministro del lavoro, mi consenta di inserire una mia opinione sulla libertà di sciopero. Essere per l’autogoverno del sindacato di categoria mi consente di dichiararmi contrario alla limitazione dello sciopero per legge. Con un ordinamento sindacale che poggia in massima parte le più gravi decisioni sull’espresso parere dei lavoratori, quando non l’organo centrale, ma i lavoratori saranno arbitri delle loro azioni, essi avranno tanto senso di responsabilità da non ricorrere allo sciopero se non quando la tutela e la difesa dei propri diritti e dei propri interessi inevitabilmente lo richiederanno. ( Applausi al centro). Di Vittorio. Voi abusate dei lavoratori! ( Rumori al centro). Pastore. E giacché sono sull’argomento dello sciopero voglia, onorevole ministro, dedicare un momento di attenzione alla lettura che io farò di alcuni articoli che, proprio, scongiurerei non fossero inclusi nel progetto di legge sindacale del nostro Paese. Una voce all’estrema sinistra. Che cosa sono? Pastore. Sono articoli nei quali io trovo espressa la reazione più violenta contro la libertà e i diritti dei lavoratori. Una voce all’estrema sinistra. Vogliamo sapere che cos’è. Di Vittorio. Di che documento si tratta? Pastore. Art. 1. «Il lavoratore che, senza validi motivi, trascuri per un giorno intero di presentarsi al lavoro, sarà congedato dall’impresa od istituzione e decadrà dal diritto di usare l’alloggio posto a sua disposizione in un edificio dell’impresa o istituzione». Art. 2. «In caso di risoluzione del contratto di lavoro per i motivi previsti dall’articolo 1, non viene pagata indennità di licenziamento». Inoltre:
Art. 3. «In caso di arresto di lavoro… per colpa del lavoratore, questi non riceve salario In caso di arresto del lavoro non imputabile al lavoratore, il salario è pagato in misura pari alla metà della tariffa» … Art. 4. «Gli operai ed impiegati sono pecuniariamente responsabili verso il datore di lavoro dei danni che gli hanno causato nel compimento dei loro obblighi di servizio per l’ammontare effettivo dei danni… se i danni sono stati causati per negligenza del lavoro o per una infrazione alla legge, al regolamento interno o alle istituzioni e agli ordini speciali del datore di lavoro». ( Interruzioni e rumori all’estrema sinistra). Art. 5. «Coloro che per malvolere disorganizzano la produzione e che avendo abbandonato il loro impiego nell’ impresa… per loro volontà e senza valido motivo, si rivolgono agli organi di lavoro per ottenere l’impiego, non potranno per la durata di sei mesi essere destinati ai lavori dell’industria e dei trasporti». Geuna. Ma dove avviene questo, in America? ( Proteste all’estrema sinistra). Pastore. Onorevole Ministro, le ho letto gli articoli del codice sovietico! ( Applausi al centro e a destra – Rumori all’estrema sinistra). Di Vittorio. È bassa demagogia! Una voce al centro. Ecco il punto a cui volete portare i lavoratori! Prima lo zuccherino e poi il bastone! ( Rumori all’estrema sinistra). Pastore. Noi siamo contrari alla centralizzazione, perché essa influisce negativamente sul terreno della preparazione tecnica dei dirigenti. Noi pensiamo che i quadri dirigenti dell’organizzazione sindacale debbano suddividersi in categorie specializzate di tecnici, i quali, pur recando dedizione e passione per la difesa degli interessi dei lavoratori, corroborino questa passione di sufficiente tecnica e di sufficiente capacità per fronteggiare la ben nota tecnica e la ben nota capacità degli organismi sindacali dei datori di lavoro! ( Applausi al centro). Questa è l’organizzazione sindacale che noi auspichiamo; entro le linee che qui ho sommariamente enunciato si vanno formando i nuovi sindacati liberi, ed è per un’organizzazione di questo tipo e di queste caratteristiche che noi domandiamo la regolamentazione giuridica. Consideriamo primo ed essenziale vantaggio di una tale regolamentazione il fatto che titolo giuridico acquisteranno di conseguenza i patti collettivi di lavoro. Signor Ministro, noi auspichiamo che la legge sindacale esprima questo riconoscimento e domandiamo anche la regolamentazione giuridica delle commissioni interne. Desidero formulare io questa richiesta, io che un giorno, in virtù di una circolare del Partito comunista, sono stato additato ai lavoratori italiani come il nemico e il denigratore delle commissioni interne. (Commenti all’estrema sinistra). Dare veste giuridica alle commissioni interne potrebbe concorrere a ristabilire nell’interno delle aziende quella atmosfera di reciproca fiduciosa comprensione che è premessa indispensabile di pacificazione e conseguentemente punto di partenza per realizzare un più alto rendimento produttivo, tanto necessario per la ripresa e la ricostruzione del nostro Paese. (Applausi al centro).
Il riconoscimento giuridico delle Commissioni interne contribuirebbe anche ad avviare i rapporti tra imprenditori e prestatori d’opera verso un patto meno iniquo dell’ormai superatissimo patto salariale: mi riferisco al patto o rapporto associativo nel quale diversa e più umana è la posizione del lavoratore. Bisognerebbe che i colleghi dei settori di estrema sinistra avessero il coraggio di dire ai lavoratori qual è la loro opinione in proposito; se, per esempio, si andasse a dire ai lavoratori di Como quante e quali sono state le manovre compiute da uomini qualificati rappresentanti del comunismo perché in un’azienda di quella città, che aveva realizzato legalmente la distribuzione degli utili e la partecipazione dell’azienda, tutto tornasse come prima con conseguente ritorno dei lavoratori al puro titolo di salariati! (Proteste all’estrema sinistra – Applausi al centro). Onorevole Di Vittorio, ella sa che io non polemizzo mai senza documenti. Se crede, sono disposto in qualunque momento a documentarle quello che dico, anzi lo potremo documentare di fronte ai lavoratori di Como! (Applausi al centro – Proteste all’estrema sinistra). Del resto è noto come al primo congresso della Confederazione del lavoro tenutosi a Napoli, allorché si volle presentare una mozione programmatica per la nuova organizzazione sindacale, è stato il collega onorevole Di Vittorio a mettere il veto perché nella stessa mozione non vi fosse il postulato della partecipazione agli utili da parte dei lavoratori… (Commenti al centro). Di Vittorio. Ho espresso la mia opinione. Quella è una turlupinatura ed un inganno e non l’avete mai realizzata. Pastore. Ma la di là di queste polemiche, onorevoli colleghi, consentitemi, chiudendo questo mio intervento, che io rivolga a voi un fraterno appello. È certamente doloroso che il sindacato sia stato posto al centro di contrasti e polemiche tanto vivaci. Dobbiamo però considerare il fatto come un prodotto della troppo lunga compressione operata dal fascismo sulle libertà del nostro paese e più particolarmente contro la libertà di opinione. Ciò premesso, consentitemi onorevoli colleghi di tutti i settori, un invito: innalziamoci per un momento al di sopra di questo conflitto e di questi dibattiti, tanto più che essi si risolveranno certamente, come si risolvono in democrazia tutti i conflitti e tutti i dibattiti, cioè a dire, a vantaggio della comunità. Portiamoci fuori dai contrasti per impegnarci tutti in una indispensabile opera di propaganda tra i lavoratori perché riprendano fiducia nel sindacato. Vi sono troppi delusi e ancora troppi assenteisti. A questi rivolgiamo tutti insieme la nostra attenzione e la nostra opera di persuasione. Quando avremo un sindacato forte, non soltanto avremo gettato le sicure fondamenta di quella società futura nella quale la classe lavoratrice occuperà il posto che le spetta, ma, proprio perché dirigente, sarà la classe lavoratrice, avremo la certezza che saranno realizzate quelle mete di giustizia e di pace a cui tutti aspiriamo, a cui tutti aneliamo. ( Vivissimi applausi al centro e a destra – Congratulazioni).
[1] L’on. Gronchi è stato Presidente della Camera dall’8 maggio 1948 al 29 aprile 1955.
UN ASSURDO Articolo in «Conquiste del lavoro», 24 aprile 1949.
Mi sono stati mossi due rimproveri per l’atteggiamento che la Libera Confederazione avrebbe assunto nei confronti della cosiddetta “Costituente Sindacale”. Mi si è detto che avrei ridotto il tutto a un attacco personale e in ciò vi è certamente riferimento alle mie dichiarazioni fatte a Washington al redattore dell’ANSA a proposito dell’ex direttore del “Lavoro Fascista”. Il secondo rimprovero è che la LCGIL avrebbe fatto male a porsi in una posizione di rigidità (?) nei confronti della iniziativa che tanto tambureggiamento ha avuto dalla grande stampa. Vi è di conseguenza la necessità di un duplice chiarimento. Sarebbe stato evidentemente puerile se un mio giudizio sulla “costituente” si fosse limitato a quanto detto al redattore dell’ANSA. A parte la circostanza occasionale e una dichiarazione fatta di passaggio che non avrebbe potuto quindi consentire la manifestazione di un più approfondito parere, devo aggiungere che gli appunti mossi ad uno dei costituenti vanno più in là della persona. I “costituenti” ripetendo quello che noi andiamo proclamando da almeno due anni, hanno assunto l’aria dei predicatori quaresimalisti contro i peccatori ostinati; e i peccatori ostinati non sarebbero soltanto i comunisti che del sindacalismo italiano hanno fatto scempio, inquinandolo di politica, ma dovremmo essere anche noi. Si dice infatti che la Libera Confederazione batte le stesse orme della Confederazione comunista e il guaio è che a dire queste cose non sono soltanto alcuni buoni amici democratici (invero tanto pochi), ma vi è anche la schiera degli ex fascisti. Ma signori, com’è possibile accettare in santa pace la predica da chi ha fatto niente altro che un sindacalismo asservito alla politica? Mi si è replicato che la Libera Confederazione ha nei suoi quadri, organizzatori provenienti dagli ex sindacati fascisti. Benissimo, questo prova come non vi è in noi grettezza di visione; i tecnici, gli organizzatori sindacali veramente tali, quelli cioè che nonostante il giogo politico hanno cercato di servire i lavoratori, non possono che trovare porte aperte. Naturalmente non ugual cosa è possibile dire per chi, dall’alto della cattedra giornalistica (e “Il Lavoro fascista” è ben presente nella nostra mente) ispirò, guidò, condusse la azione di aggiornamento dei sindacati.
La mia adunque è stata una legittima reazione ad uno dei molteplici padri Zappata, che senza alcun diritto, da mesi conduce una vera e propria campagna di insinuazioni con lo evidente proposito di pugnalare alla schiena la Libera Confederazione. Il secondo rimprovero fa cenno ad una nostra presunta rigidità di fronte ai convegni del Collegio Romano. Ma signori, diteci voi cosa avremmo dovuto fare. Ci si è tenuti volutamente lontani, anzi non si è esitato a dire che ciò lo si è fatto a bella posta perché, invitando la LCGIL si sarebbe dovuta invitare la CGIL. Ma, dunque, c’è un chiarissimo paragone; dunque noi siamo giudicati alla stregua della Confederazione comunista! E tutto ciò vi par poco? Bisogna aver lottato come abbiamo lottato noi e lungamente da soli, contro la faziosità della CGIL per comprendere quanto sia sanguinante l’ingiuria. Poiché, o signori, è tutto qui il problema: è accaduto questo assurdo, di vedere misconosciuti lo sforzo, la tenacia, e se volete anche il coraggio di un manipolo di uomini e di infinite schiere di lavoratori ai quali si deve il primo gesto di ribellione alla dittatura comunista in campo sindacale. Uomini e lavoratori, che si sono battuti proprio per le molte belle cose che i “costituenti” hanno detto, cioè dire: l’indipendenza dei sindacati dai partiti, l’autonomia delle categorie; insomma il vero, sano e libero sindacalismo. Uomini e lavoratori che non si sono accontentati di predicare queste cose, ma che le hanno tradotte in concreto. Poiché da tempo noi andiamo chiedendo che si dimostri come la Libera Confederazione è legata ai partiti, come la Libera Confederazione è un organo che accentra i poteri, come la Libera Confederazione menoma i diritti delle Federazioni di categoria. Lo abbiamo ripetutamente chiesto e mai nessuno neppure gli eleganti e dotti scrittori delle molte riviste che si sono interessate di noi, neppure i “costituenti” hanno mai saputo offrirci una prova, una piccola minima prova, che non siano soltanto cavilli o sottili induzioni. È vero che si è detto che in politica quello che conta non è tanto ciò che si è, quanto ciò che appare; ma se questo è l ’assioma, come potranno i politici della “costituente”, e che di politici al Collegio Romano ve ne fossero di alto rango credo che nessuno lo possa constatare, potranno respingere il sospetto che la “costituente” dovrebbe servire a fini politici di persone o di gruppi? E adesso che abbiamo chiarito, ripeteremo per l’ennesima volta: la Libera Confederazione è qui pronta a tutte le unificazioni possibili, nel quadro di un sindacalismo sinceramente libero e democratico. Libero naturalmente anche dai filoni ideologici: abbiamo fresca la visione dei potentissimi sindacati di oltre oceano ove non v’è bisogno di alcun sforzo e di alcuna “predica” per essere “unitari”. Ed è forse per questo che laggiù l’unità è una forte e sicura realtà. E si noti, non facciamo alcuna questione di precedenze. Il giorno in cui ci si vorrà incontrare, noi siamo pronti, purchè l’incontro avvenga con forze sindacali e non con forze politiche. L’equivoco del “patto di Roma” non si deve più ripetere. La Libera Confederazione e i Liberi Sindacati che da essa sono coordinati, non domandano che di incontrarsi con altri sindacati e con altri lavoratori.
I L S I N D A C AT O N E L L A V I TA D E L PA E S E Discorso all’Assemblea costitutiva della CISL, «Conquiste del lavoro», 7 maggio 1950.
Il lavoro condotto per alcuni mesi, dai dirigenti centrali e periferici dei tre organismi che oggi si unificano non poteva trovare per la sua felice conclusione, giorno migliore del 1° maggio, festa del lavoro. Vi è in questa coincidenza di date un auspicio; se è vero, come è vero, che il 1° maggio rappresenta l’annuale rassegna delle conquiste che la classe lavoratrice realizza, possiamo ben affermare che questa nostra Confederazione italiana sindacati lavoratori costituisce una vitale conquista. Dovrei parlarvi di un programma, ma voi avete già ascoltato dalla viva voce dei colleghi la sostanza di questo programma. È indubbio che la CISL nasce in un’ora perigliosa per il mondo. Affermare oggi in Italia che la classe lavoratrice si batte per il pane non è certamente un modo di dire. Chi nei contrasti sociali mostra di resistere alle rivendicazioni dei lavoratori indicando come slogan questa diuturna affermazione dei sindacalisti, sa di errare o comunque sa di essere fuori dalla realtà. Anche se molto cammino è stato percorso nel nostro Paese, sul piano della ripresa economica, e noi ne diamo volentieri atto, resta pur sempre come dolorosa realtà la crisi che investe oggi tutta la nostra economia. Amici lavoratori, in questo momento vada il nostro pensiero solidale ai lavoratori disoccupati che sono al centro di questa crisi, alle centinaia di migliaia di pensionati il cui reddito è risultato falcidiato dalla depressione economica e finanziaria che ha colpito il nostro paese. È sempre possibile parlare ai lavoratori che hanno la fortuna di avere una possibilità di lavoro; ma è indubbiamente difficile parlare a coloro che questa fortuna non hanno. Noi desideriamo, come primo atto della nostra Confederazione democratica, manifestare vivo il proposito di fraterna solidarietà verso i fratelli disoccupati e pensionati.
La nostra posizione La crisi permane e non è uno slogan . Coloro che si occupano di economa e di lavoro conoscono l’infinita serie di contrazioni nelle possibilità di lavoro: riduzione di orari, licenziamenti. Sindacalisti, nei vostri centri, piccoli o grandi non importa, voi siete i testimoni del perdurare di tali eventi, per resistere ai quali siete giornalmente impegnati in una dura battaglia. Del resto per rilevare la pesantezza dell’economia italiana basta scorrere i giornali e le riviste, comprese quelle che non traggono alcuna ispirazione dai lavoratori, basta avere contatti con chi dirige oggi la vita economica del Paese; è permanente la denuncia per un’economia che non sa rifarsi. Ecco perché la Confederazione italiana sindacati lavoratori non esita a schierarsi con quella parte di pubblica opinione che afferma l’esigenza di una maggiore produttività. Siamo freschi di un dibattito in ordine agli indirizzi di politica economica del governo. Sono intervenuti elementi di margine in questo dibattito e non sono valsi a distogliere l’attenzione dell’intero popolo dalla realtà di questo problema. Finanche il governo ha dovuto soggiacere ad una crisi e se anche ad un certo momento sembrò doversi dare ad essa una giustificazione di «rapporti interni» tra i partiti componenti la compagine governativa, in verità è apparsa chiaramente come il risultato della pesantezza dell’economia nel nostro paese. In questo dibattito noi prendiamo decisamente la posizione dei produttivisti. Noi chiederemo e premeremo con tutte le nostre forze perché divenga una realtà la politica di investimenti privati e pubblici che da molte parti è stata richiesta. Lotteremo contro il troppo facile trasferimento di capitali all’estero; gli organi governativi che presiedono alla politica finanziaria del Paese sanno che gli evasori sono una realtà: è pertanto loro dovere dar luogo ad energici, a fermi e preventivi interventi contro coloro che puntano ad allontanare le loro possibilità economiche dagli investimenti nell’economia del nostro paese. Noi siamo contro i tesaurizzatori e gli esportatori del denaro. Noi non esitiamo a definire costoro come traditori della Patria e degli interessi del Paese. Dalla crisi governativa è venuto fuori un programma. Ebbene noi prendiamo atto che finalmente, svincolandosi da strumenti che fino ad oggi erano preposti all’impiego dei mezzi finanziari messi a disposizione del Mezzogiorno, si è dato luogo ad una iniziativa che consideriamo come strumento di progresso e di garanzia. V’è ora da sperare che il denaro che si spende per il Mezzogiorno non andrà più al servizio di particolari interessi, ma conseguirà scopi prettamente sociali, a favore di quei nostri lavoratori. Il governo deve vigilare: se è vero che un programma c’è, seppur minimo, se è vero che tale programma ha già acquisito la forma tecnica dei provvedimenti di legge, bisogna nulla tralasciare perché sia tradotto nella realtà dei fatti. È sempre possibile in regime democratico salire le scale degli uffici governativi; il Viminale è aperto a tutti, a forze proletarie come a forze capitalistiche. Ci si consenta da questa assemblea di avvertire che occorre stare con gli occhi aperti di fronte a coloro che salgono le scale del Viminale per
porre remore alla realizzazione di questo programma. Amici, è significativo il fatto che nei recenti dibattiti in seno alla Commissione parlamentare per il Mezzogiorno, siano state sollevate dalle fonti più disparate, da deputati comunisti e da parlamentari che hanno posizioni sociali ben lontane da quelle dei lavoratori, riserve al progetto di costituzione della Cassa del Mezzogiorno, nel senso di non sottrarre a certi istituti bancari possibilità di intervento nell’attuazione dei provvedimenti annunciati. Ebbene, non ancora segretario generale di questa Confederazione, ma come deputato ho avuto la possibilità di reagire più volte contro questi tentativi perché sono convinto che potremo garantire la sostanza sociale e la conseguente realizzazione di quanto disposto, soltanto quando sottrarremo ai vari istituti bancari la possibilità di interferire nell’impiego dei mezzi dati.
L’unità Europea Lavoratori, l’ora è delicata anche sul piano internazionale; ci sono troppe frontiere politiche che si riscaldano. Abbiamo creduto per alcuni mesi, dinanzi allo spettacolo delle distruzioni della guerra ed ai lutti delle nostre case, di fronte allo sconquasso di questo paese, e dell’Europa, abbiamo creduto che veramente la guerra potesse considerarsi bandita dal consenso civile. Amici, altra delusione. Ci sono frontiere che si riscaldano, frontiere economiche che resistono. L’ultima guerra ha almeno permesso che si riaccendesse nel cuore degli uomini il sentimento di solidarietà. Si è così avuto un movimento verso l’unità europea perché i lavoratori hanno istintivamente una visione contraria a qualsiasi impostazione di sapore nazionalistico. E siamo anche per un abbassamento delle frontiere economiche, anche se non ci nascondiamo i rischi che possono derivare ai Paesi poveri da una liberalizzazione degli scambi. Tuttavia non crediamo possibile frenare il naturale orientamento dell’Europa verso un allargamento dei commerci, anche perché abbiamo la convinzione che da ciò non potrà che derivarne vantaggio per il popolo che lavora. Esca però anche da quest’assemblea costituiva il monito che noi andiamo ripetendo fin dal tempo in cui coabitavamo con i comunisti: si abbassano le frontiere soprattutto per far liberamente circolare la mano d’opera. Aderendo al piano Marshall noi abbiamo reso un servizio ai Paesi democratici di Europa e, amici sindacalisti, soprattutto abbiamo reso un tale servizio allorché nel nostro Paese inalberammo la bandiera della ribellione contro i negatori della comunità democratica. Ebbene i nostri amici democratici di Europa sono ora impegnati a risolvere il nostro grave problema della mano d’opera disoccupata. Bisogna in sostanza che quello che noi abbiamo detto a Londra, che cioè la solidarietà fra i lavoratori non deve più essere una parola vana, si concreti in provvedimenti che permettano a questo popolo geniale di continuare a portare la sua parola e la sua opera nel mondo. Lavoratori, di fronte ai cavilli politici o giuridici che ritardano l’unità europea sul piano politico vale la pena di affermare che permettere ai lavoratori di liberamente circolare nel mondo è il solo mezzo per determinare la necessaria reciproca comprensione tra Paese e Paese. Il lavoratore è sempre messaggero di fraternità, di solidarietà, di pace. Ecco adunque il nostro programma ed ecco i nostri obiettivi. In una parola noi vogliamo donare sicurezza ai lavoratori. Si parla molto di produttività, ne hanno anche parlato i rappresentanti dell’ECA e dell’OECE alla terza conferenza plenaria sindacale dell’ERP chiusasi recentemente a Roma, ribadendo che l’Europa potrà raggiungere quello di cui ha bisogno solo se si darà luogo ad un diverso livello della produttività. È una necessità di tutta l’Europa che, teatro di una immane guerra, deve riedificare la sua ricchezza. Ma noi non esitiamo ad affermare che è soprattutto una necessità per noi italiani, anzi per noi lavoratori italiani. Questa deve essere la nostra guerra: quando penso ai due milioni di disoccupati io non posso non arrivare a concludere che ciò accade perché l’industria subisce contrazioni nello sbocco dei
suoi prodotti, l’agricoltura non esporta, ecc. Sappiamo anche di produzione rimasta nei magazzini solo perché l’industriale attratto dal grande guadagno non si decide a ritoccare i prezzi. Esistono questi fenomeni e li abbiamo più volte denunciati. Ma non v’è alcun dubbio che il maggiore problema resta sempre quello di vincere i mercati internazionali. Ecco perché il comandamento di una più alta produttività deve essere anche nostro: è questa certamente una delle battaglie che portano a vincere la battaglia dei costi. Non dobbiamo perdere le poche possibilità di lavoro poiché, amici, non si tratta solo di trovare lavoro ai disoccupati, ma si tratta di difendere quel poco lavoro che ancora abbiamo. Dobbiamo dunque trovare ad ogni costo nuovi strumenti, nuove possibilità di lavoro ed è in questo senso che la nostra impostazione si differenzia dall’indirizzo sindacale comunista. Questi signori non vogliono accorgersi che, a fermare come essi fanno macchine e aziende, ad ogni piè sospinto, per un nonnulla o comunque per motivi che non interessano il lavoratore, prima di essere un danno per l’economia del Paese è un attentato al pane dei lavoratori, un tradimento per i disoccupati che aspettano ogni giorno di trovare la loro possibilità di impiego. Occorre però aggiungere che su questo argomento della produttività esiste un sostanziale dissenso tra il nostro appello e i discorsi che da tanti altri pulpiti si pronunziano e mi riferisco particolarmente agli ambienti della Confindustria e della Confagricoltura. Ad un certo momento viene infatti spontanea questa domanda: sta bene produrre, ma per chi? Ecco l’elemento che invita a considerare come la produttività non abbia solo un aspetto economico. Dall’economia liberale la produttività è stata sempre e soltanto vista per il suo aspetto economico; vogliamo invece vedere anche l’aspetto sociale. Sta bene, aumentare la produzione, dicono i lavoratori, soprattutto se ciò contribuirà a ridurre ed eliminare la disoccupazione; ma essi si pongono anche questa domanda: a chi è destinato il reddito di questa maggiore produzione? È ancora una volta, adunque, in discussione l ’ingiusta divisione del reddito. S’impone per noi una riforma del sistema e va subito detto che la CISL è contro il sistema capitalistico ed è contro perché non ha più alcuna giustificazione. Infatti, se sul piano economico può aver dato alcuni risultati, sul piano morale si è rivelato del tutto carente: nel secolo del progresso e delle alte conquiste, non si concepisce più un sistema economico che riduce l’uomo a merce o a macchina. Si dice peraltro che non c’è reddito: abbiamo ascoltato questa affermazione quotidianamente nei nostri incontri con la controparte. Ci sentiamo sovente ripetere: che cosa credete, che l’industriale abbia il gusto di licenziare, di perdere, di chiudere? È facile questa dialettica e sarebbe ancor più facile rispondere che non mancano industriali che lasciano nei magazzini il prodotto invenduto perché non dà l’utile che si vuole, mentre poi stanziano milioni per investimenti di altra natura. È una polemica inutile, forse, ma è certo che una istanza si pone: se proprio le condizioni delle imprese sono quelle che i datori di lavoro dicono, perché non si permette ai lavoratori di vedere da vicino come vanno le faccende? E, notate, nei
nostri confronti non si può certo dire che vogliamo introdurci nel processo produttivo con fini sabotatori. Quando una Confederazione con coraggio dice ai lavoratori: abbandonate coloro che vi portano al sabotaggio, si può essere certi della sua azione per il bene comune. Dunque noi siamo per un’opera di controllo, sviluppata sul piano della collaborazione. D’altra parte, basterebbe, intanto, una diversa visione e impostazione delle trattative sindacali da parte dei datori di lavoro.
La mentalità padronale Mi è capitato recentemente di dover puntualizzare un articolo della Confindustria constatando come essa non sappia più ragionare se non con la dialettica dei comunisti. È tempo che si accorgano che oltre alla impostazione dei comunisti, vi è anche una impostazione e un’azione del sindacalismo libero e democratico. In sostanza noi domandiamo che i datori di lavoro abbandonino le posizioni mentali care ai loro colleghi dell’800; il mondo ha camminato, ha avuto due guerre, i lavoratori hanno dato dimostrazione di saper rivedere le loro posizioni; è tempo che l’autocritica operi anche in chi è pure nelle condizioni di maggior vantaggio. Vediamo che cosa succede per le commissioni interne: noi affermiamo che non si ha il diritto di togliere ai lavoratori quello che hanno conquistato. Non vi è dubbio che l’accordo del 7 agosto 1947 è stato una grande conquista in quanto ha modificato il rapporto nel campo produttivo, e dal piano “padrone e servo”, ci si è finalmente e seriamente trasferiti sul piano “imprenditore e prestatore d’opera”. Questo aspetto morale dell’accordo non ci potrà consentire di cedere alle attuali richieste della Confindustria. Una parola va detta anche per gli scioperi. È ridicolo volerci sempre indicare su posizioni antisciopero. È significativo il monito rivoltoci dal delegato svizzero; lo consideriamo e lo ricorderemo: fermare il meno possibile le nostre fabbriche e le nostre aziende agricole. Ciò premesso non possiamo neppure ignorare una realtà: il datore di lavoro cede più dinanzi al pericolo di perdere un affare a causa dell’azienda chiusa che non davanti a cento mozioni di contenuto morale. Una volta riaffermata la formula che nessun sciopero è da noi accettato per motivi politici o comunque estranei ai diretti interessi dei lavoratori, noi rivendichiamo per i lavoratori il pieno diritto allo sciopero, tanto più che noi siamo fermamente convinti, che sapranno i lavoratori stessi autolimitarsi nell’uso di questo delicato strumento di lotta. E parliamo anche dello sciopero per i dipendenti pubblici. In genere si viene a dire: tu dipendente dello Stato non devi scioperare perché sei al servizio del bene pubblico: e sta bene. Ma ci facciamo una domanda: in nome di qual principio è affermato questo bene pubblico se non ponendo in primo piano i diritti dei singoli come persona e quindi della collettività. Ed è allora a questo punto che noi domandiamo: forse che il lavoratore statale non è persona umana ugualmente in possesso di diritti da tutelare e difendere? Noi affermiamo che se ai dipendenti pubblici si assicura tutto quello di cui hanno diritto e si faranno di questi dipendenti degli uomini sereni e tranquilli, saranno essi volontariamente e spontaneamente a bandire l’uso dello sciopero. E veniamo ora a parlare dello strumento che oggi i lavoratori democratici si danno per realizzare i loro obiettivi.
Forza della CISL Cerchiamo di riassumerle queste caratteristiche della nuova Confederazione. Innanzi tutti unità nella indipendenza. Entri questo fondamentale principio nel cuore di ciascuno di voi. Un giornale di Roma ha scritto che in Italia non c’è alternativa in campo sindacale sostenendo che in Italia esiste soltanto il sindacalismo comunista. La fonte è tale che non fa onore ai sindacalisti comunisti. Con tale perentoria affermazione si vorrebbe accreditare l’insinuazione che i sindacati democratici sono privi di una loro linea e di un loro indirizzo e proprio perché andiamo proclamando la nostra indipendenza dalle ideologie e dalla politica. Ebbene è questa l’occasione propizia per riaffermare che essere noi fuori dalla politica dei partiti, non vuol significare che manchiamo di un nostro indirizzo che può anche essere chiamato politico purché si riferisca ad una politica del lavoro, cioè a dire ad una politica che unisce i lavoratori e non ad una politica che li divida. E qui lasciatemi rilevare che questa nostra proclamata indipendenza ci costa non poco in quanto suscita diffidenza negli stessi Partiti democratici. Vedi il caso di Parri e Rocchi. Ma vi è di più: non v’è infatti dubbio che se ci allineassimo con questo o con quel partito, con questo o con quel movimento se non altro avremmo, nel nostro sforzo organizzativo, nel nostro lavoro di proselitismo, specifici ed anche notevoli apporti. Sotto questo aspetto il partito comunista è stato un certo movimento antiveggente. Quando si è accorto che le fila della organizzazione sindacale, da lui dipendente franavano, è corso ai ripari e abbiamo avuto il trasferimento dell’on. Novella da via delle Botteghe Oscure all’Ufficio organizzazione di Corso Italia: si è così recato alla CGIL tutto l’apporto delle forze organizzate nei vari gradi cellulari del PC. Naturalmente la nostra è una semplice constatazione; voglio dire che non lamentiamo che così sia. Quel che è sicuro è che la nostra organizzazione deve fondarsi esclusivamente sulle proprie forze: ecco perché un milione e seicentomila dei nostri organizzati valgono i tre milioni degli altri. La nostra forza non è frutto di coercizione politica: ma deriva da un accorrere spontaneo e volontario dei lavoratori che esattamente credono nella indipendenza. In questo senso è piena di significato la presenza tra noi dei rappresentanti di alcuni sindacati autonomi e preziose sono state le parole qui pronunziate da Consoni. Ciò significa che sono caduti gli ultimi dubbi sulla bontà del nostro indirizzo. Bene, ha detto il rappresentante degli autonomi quando ha affermato di non condividere l’isolazionismo. E qui è la seconda caratteristica della CISL che si afferma: mi riferisco al pieno diritto delle categorie all’autogoverno. Nessun vincolo porrà la CISL alle categorie; si chiameranno come vorranno e tratteranno i loro problemi come vorranno. Questo è il nostro metodo: le categorie debbono saper fare da sole; alla Confederazione verranno soltanto quando avvertiranno il bisogno di un consiglio, oppure necessiteranno della solidarietà operante delle altre categorie. Ecco perché diciamo ai sindacati autonomi, che sono rimasti, seppur ancora in pochi, ai margini del processo di unificazione: osservate le nostre strutture organizzative, giudicate dai fatti il nostro indirizzo e se tutto vi rassicura
circa la vostra autonomia venite con i vostri fratelli. La CISL sarà onorata e lieta di annoverarvi tra le organizzazioni a lei aderenti, senza che per questo si riduca di un palmo la vostra autonomia. Ed ancora un aspetto della nostra impostazione sindacale: non vi siete mai chiesti il perché di certe preferenze, di certi maggiori sforzi compiuti dal sindacalismo comunista a favore di determinate categorie? La risposta è semplice: vale per il sindacalismo comunista il metodo della categoria massiccia, cioè a dire della categoria che rappresenta una vera e propria forza politica: forza d’urto. La maggiore considerazione, la maggior cura dedicata a queste categorie è in considerazione dell’apporto politico che le stesse sono in grado di recare. Ora noi affermiamo che ciò è grave ingiustizia, poiché crea le posizioni di favore. Per noi, per la CISL tutti i lavoratori sono uguali, tutti hanno gli stessi diritti, tutti devono, possibilmente, mangiare la stessa quantità di pane. Noi quindi opponiamo al metodo comunista, il metodo nostro che ci impegna a dare alle categorie, comprese le piccole, le minuscole, quelle che non hanno alcun peso politico, la stessa assistenza.
Per il Paese Stamani abbiamo visto molte bandiere tricolori e soltanto bandiere tricolori. Abbiamo sentito gli inni nazionali: non è ostentazione. Nessuno pensi che si voglia fare del nazionalismo; nel tono della nostra manifestazione abbiamo voluto dimostrare che noi vogliamo recare nell’azione nostra la massima comprensione per gli interessi del paese. Del resto, amici, non è difficile innalzare questa bandiera in nome dei lavoratori: l’Italia è un paese proletario, identificare gli interessi di chi lavora con gli interessi del paese è tener fede al comandamento di ogni autentico sindacalista che vive per difendere gli interessi dei lavoratori. In un’ora in cui si tenta di schierare i lavoratori contro la stessa sicurezza del Paese a favore di possibili invasioni straniere, è necessario che i lavoratori democratici riaffermino la loro fede e la loro dedizione all’Italia. Ecco perché desidero ricordare a me e a voi il dovere di bandire ogni forma di demagogia: sicuro, niente demagogia, non ne abbiamo fatta mai e mai ne faremo. Tra l’altro in questa linea di condotta vi è un atto di credito e di fiducia nella capacità di intendere dei lavoratori. A quelli che vanno predicando la luna nel pozzo, noi diciamo che come abbiamo ripudiato il sistema dell’imbottimento dei crani caro ai fascisti, così ripudiamo lo stesso sistema oggi adottato dai comunisti. Un comizio di piazza non dà carbone alle nostre officine. Bisogna saper parlare con sincerità ai lavoratori, nulla nascondere e nulla ampliare. È questo tra l’altro il solo modo per conquistare il favore della pubblica opinione. Troppo spesso le impostazioni demagogiche dei sindacalisti comunisti allontanano dalle battaglie dei lavoratori le simpatie della pubblica opinione. Conquistare l’opinione pubblica al sindacato e ai lavoratori: ecco una preziosa meta. Amici lavoratori, tornando alle nostre sedi dimentichiamo le nostre rispettive provenienze organizzative: più nessun di noi ricordi di provenire dalla LCGIL, dalla FIL, dai Sindacati Autonomi. Su queste sigle noi oggi abbiamo posto una pietra sepolcrale. Amici, nella mozione votata vi sono dei magnifici principî. Includeremo anche questa promessa affinché nella nuova Confederazione nulla ci divida; nel suo seno siamo tutti sullo stesso piano. E permettetemi ora di dire a me ed a voi di non essere superficiali. Si è creduto dopo la liberazione che fare il sindacalista fosse una cosa facile; l’esperienza ha dimostrato il contrario. Ricordiamoci che non si risolvono i problemi con una infarinatura di nozioni. Lo so, studiare costa, costa molto. Ma il fine per cui operiamo è così nobile che non ci deve far paura il sacrificio. Ed ora una parola per i troppi lavoratori assenti dal sindacato: ci sono gli sfiduciati, gli egoisti, i traditi, soprattutto i traditi illusi. Ebbene, volgiamo il nostro occhio a loro: sviluppiamo una intensa opera di proselitismo, di conquista, di formazione. Deve finire la mortificazione di un proletariato che non vuol capire che soltanto il sindacato gli renderà giustizia. Parliamo ai lavoratori, il linguaggio dell’amore. La Confederazione italiana sindacati lavoratori vuole inaugurare questa politica dell’amore, e verso tutti, anche verso coloro che una predicazione
d’odio ha posti contro di noi. Soltanto così, lavoratori e sindacalisti, adempiremo a tutto il nostro dovere; soltanto così faremo un sindacato forte. E sarà il sindacato forte, libero e democratico che realizzerà per i lavoratori la giustizia, soltanto il sindacato forte presidierà la libertà, soltanto il sindacato libero forte e democratico, formerà la base di una sicura pace.
L ’ I M P O S TA Z I O N E E C O N O M I C A FAT TA D A L L A C I S L È VA L I D A P E R L A L I B E R T À E I L BENESSERE DEL MONDO Articolo in «Conquiste del lavoro», 24 giugno 1951.
Martedì 19 giugno, l’onorevole Giulio Pastore, rappresentante dei lavoratori per l’Italia della 34° Conferenza Internazionale dell’Ufficio del Lavoro ha pronunciato in quella assise, che è praticamente il Parlamento del Mondo del Lavoro, un discorso che tocca con rara evidenza e concretezza i problemi fondamentali della vita economico-sociale del nostro Paese. Questo intervento del delegato italiano al BIT ha avuto immediati e vasti consensi in seno alla Conferenza stessa e quindi attraverso la stampa. Per questo, data la importanza estrema che per i lavoratori italiani ha quanto l’on. Pastore è venuto affermando a Ginevra, diamo qui di seguito il testo integrale del discorso: Signor Presidente, Sono lieto di poter prendere la parola sul pregevole rapporto del Direttore generale per illustrare alcuni aspetti dei problemi del lavoro in Italia, in relazione ai temi che sono sviluppati nel rapporto stesso. Il rapporto in esame – di cui bisogna lodare la chiarezza e la efficacia nella presentazione dei complessi aspetti dei problemi considerati – manifesta un largo senso di ottimismo, che conforta specialmente noi, che stiamo oppressi – è la parola esatta – dalle più gravi preoccupazioni per la sorte del lavoro italiano. Non saremmo sinceri se dicessimo che la nostra esperienza può suffragare l’opinione espressa dal Direttore generale nell’introduzione al rapporto, che «la manifestazione più appariscente del progresso degli ultimi anni è lo sviluppo della coscienza sociale che s’espressa attraverso realizzazioni sempre più vaste» e che «ovunque essa ha messo radice, il lavoratore ha cessato di essere una unità sul mercato del lavoro…».
La posizione del lavoratore italiano 1. La lotta che dobbiamo condurre in Italia per far rispettare i contratti di lavoro da coloro stessi che li hanno firmati, 2. L’incomprensione e talvolta l’ostilità che incontriamo in taluni settori nei tentativi di ottenere che le organizzazioni dei lavoratori siano chiamate a cooperare attivamente nello stabilimento delle direttive di politica economica che interessano il mondo del lavoro, 3. La radicata diffidenza e incomprensione verso il movimento sindacale operaio che è ancora viva in molti gruppi dirigenti: Ecco le ragioni che ci permettono di affermare – senza prevenzione né ostilità, ma con profonda amarezza – che il mondo sociale italiano deve ancora compiere grandi passi prima di raggiungere quelle felici condizioni rilevate dal Direttore generale, in cui il lavoratore è realmente un cittadino con piena, ed effettiva parità di diritti, ed il lavoro – come dice la nostra Costituzione – il fondamento dello Stato. Ma questo ottimismo è nel fondamento stesso del rapporto, che considera i problemi della politica salariale in condizioni di pieno impiego della mano d’opera. Come lavoratori e sindacalisti – solidali con tutti i lavoratori del mondo – siamo lieti che il pieno impiego della mano d’opera sia una condizione così diffusa da essere ormai oggetto di indagine sui suoi possibili ulteriori sviluppi da parte di un organismo universale come il BIT. Ma come Europei e come uomini direttamente interessati all’esame dei fenomeni economici, abbiamo qualche timore che l’indagine perda alquanto del suo significato se non prende sufficientemente in considerazione gli squilibri che esistono su mercati complementari in rapporto all’occupazione della mano d’opera. Noi Italiani siamo abituati – e per questo conosciuti – ad insistere, in ogni conferenza economica o politica internazionale, perché siano migliorate le condizioni di trasferimento della mano d’opera dai mercati eccedentari ai mercati deficitari. È per me questa un’ottima occasione per parlare del problema non come «mercante di uomini», interessato alla vendita del prodotto, ma come partecipe a un libero dibattito di economia del lavoro, fra uomini che hanno in comune un eguale rispetto per i lavoratori. Se noi guardiamo quali sono i Paesi in cui si è realizzato il pieno impiego della mano d’opera, noi vediamo che essi lo hanno realizzato in condizioni economiche che non possono considerarsi né riproducibili in altri paesi, né permanenti negli stessi paesi che ne hanno fruito. Il pieno impiego è stato realizzato da Paesi con risorse abbondanti, rispetto alla mano d’opera da impiegare, oppure da Paesi che non sono stati ancora seriamente toccati dalla crisi dei mercati che ha colpito specialmente l’Europa continentale, e che è il segno di un mutamento di dimensioni tecniche dell’economia, a cui presto o tardi anche questi paesi saranno interessati.
La politica del pieno impiego Senza negare il valore e il significato d’indagini sul pieno impiego realizzato in questi Paesi, mi pare che noi dovremmo essere preoccupati dei problemi che ci si porranno in avvenire, se crediamo veramente che l’integrazione dei mercati non è un problema inventato dai teorici, ma una realtà in germe nella nostra economia. E che noi ci crediamo, sembra deducibile dal fatto che da molti anni, lavoriamo a porre le condizioni per realizzare questa integrazione delle economie nazionali. Ma, forse, mentre noi lavoriamo da una parte a sgomberare il terreno dalle difficoltà che si oppongono ad una sempre più intima cooperazione mondiale, da un’altra parte noi costruiamo faticosamente degli edifici economici che sono sufficienti per le nostre dimensioni di oggi, ma che si prevedono già inadatti a quelle di domani. L’esperienza dei Paesi che applicano una politica di pieno impiego è in questo senso esemplare. Questi Paesi hanno potuto realizzare l’obiettivo del pieno impiego, e nel medesimo tempo aumentare il benessere generale della comunità, solo attuando una rigorosa distribuzione dei fattori produttivi, in modo da realizzare la massima utilità marginale per ognuno di essi. Questo è il problema che si pone anche al futuro mercato europeo unificato. Ma ciò non può essere realizzato d’un colpo senza grave pregiudizio per i legittimi interessi costituiti in due secoli di economia di mercati nazionali. Noi pensiamo che sarebbe quindi previdente avviare una progressiva redistribuzione dei fattori produttivi – cominciando da quelli che hanno maggiore mobilità – fra i mercati da unificare. Ci troveremo senza dubbio di fronte a problemi nuovi e più difficili di quelli che abbiamo finora affrontato, ma in compenso troveremo anche soluzioni che avranno una validità più estesa di quelle che alcuni paesi esemplari hanno potuto escogitare. Se le indagini economiche sui problemi del lavoro prendessero in considerazione quello che dovrebbe essere il futuro mercato europeo, noi pensiamo che si avrebbe un altro vantaggio, oltre quello principale di considerare i problemi nella luce più duratura: non si parlerebbe più di trasferimenti della mano d’opera all’interno dell’Europa nei vecchi termini di «emigrazione» e di «immigrazione», che destano nella mente spiacevoli ricordi di questioni mai risolte e che vanno perdendo ogni giorno più di significato, ma si parlerebbe invece correttamente di «migrazioni all ’interno di un mercato». E, sul piano pratico, molti costi sostenuti oggi dai paesi che soffrono di mano d’opera (questione che è più volte accennata nel Rapporto), potrebbero forse vantaggiosamente essere devoluti per ridistribuire su basi durevoli i fattori della produzione che sono oggi male impiegati. Un ragionamento senza preconcetti e l’esperienza recente dimostrano anche che il tenore di vita dei lavoratori che godono una situazione di pieno impiego non soffre per l’immissione graduale sul mercato del lavoro di nuova mano d’opera, ma anzi gode dell’aumento di produttività derivante dalla combinazione dei fattori produttivi.
Il salario dei lavoratori Vorrei toccare ancora qualche punto del Rapporto che prende particolare luce dall’esperienza italiana. L’andamento dei salari reali mostra anche in Italia – secondo gli indici ufficiali – un andamento generale favorevole ai lavoratori, dal 1939 ad oggi. L’esperienza però ci insegna che il tenore di vita dei lavoratori ha subito – sempre in generale – un andamento opposto. Ciò è dovuto ad una serie di cause, difficilmente riducibili in termini quantitativi, ed in effetti non rilevate negli indici ufficiali, ma che sono all’origine di molte divergenze d’opinione che si manifestano fra imprenditori e lavoratori, tra Governo e organizzazioni operaie, e che tendono a creare una atmosfera di incomprensione dannosa al benessere comune. Fra queste cause, oltre quelle propriamente tecniche già rilevate nel Rapporto, mi sembra che si debbano tener presenti, per il mio paese, le seguenti: la diminuzione delle ore di lavoro (che incide sui guadagni reali), la disoccupazione (che incide sul costo reale della vita per i lavoratori) e il costo di trasferimento sopportato dai lavoratori italiani in conseguenza della guerra. Anche gli indici sul costo della vita meritano da parte nostra un piccolo commento. Dal giugno 1954 ad oggi il numero indice del costo della vita ha subito in Italia un incremento di solo il 10%. Ciò è in parte dovuto all’azione dei pubblici poteri, che hanno immesso sul mercato dei prodotti alimentari una offerta supplementare, ma in larga misura è dovuto alla mancanza di potere di acquisto eccedentario nelle masse dei compratori, che ha impedito la corsa agli acquisti. Il pur lieve aumento dei prezzi ha anzi provocato un ulteriore riduzione del commercio interno, dando luogo ad un progressivo isterilimento del mercato, che già minaccia molti settori che non possono trovare riparo in un aumento del commercio di esportazioni. È per me di grande soddisfazione constatare che le opinioni espresse nel Rapporto del Direttore Generale circa i problemi che si pongono ai Paesi europei in concessione con il riarmo, e le soluzioni prospettate concludono largamente con l’opinione e le soluzioni proposte al Governo italiano dalla Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori, che ho l’onore di rappresentare come Segretario Generale. Desidero anzitutto sottolineare il concetto espresso dal Direttore Generale, secondo il quale «un programma di riarmo non contribuirà che in debole misura a sviluppare la potenza nazionale se le forze armate devono essere sostituite a scapito degli investimenti interni». Nel nostro Paese il problema non è nemmeno quello di garantire lo sviluppo della potenza nazionale, bensì quello più modesto di garantire la coesione sociale. Ora, poiché non vi è altro mezzo efficace a breve termine per attuare nel nostro Paese uno spostamento e una intensificazione degli investimenti – senza deprimere ulteriormente il tenore di vita dei lavoratori – che di adottare una politica di orientamento degli investimenti, e una compressione dei consumi non essenziali la nostra Confederazione ha chiesto fin dal gennaio 1951 l’adozione di
un piano di priorità per l’attività produttiva, e una politica manovrata sulle imposte e sui consumi.
La congiuntura economica internazionale Ciò comporta – naturalmente – una estensione dell’intervento dello Stato, nella vita economica, ed in ciò il Rapporto del Direttore Generale ci trova ampiamente consenzienti. Non per idealismo politico, né per amore di opposizione alle tesi liberiste dei gruppi padronali, ma per obiettiva constatazione della realtà, noi sosteniamo che le mutazioni in atto nella struttura economica e sociale non possono avvenire senza che lo Stato intervenga a canalizzare le forze vitali dell’economia verso gli sbocchi utili ad un pacifico sviluppo e ad un progressivo benessere sociale. Il problema non è dunque – come da alcune parti si vuol far credere, e magari si crede in buona fede – se una politica di intervento debba essere o non attuata secondo che l’organizzazione amministrativa dello Stato sia in grado o non di attuarla. Il problema è invece quello di adeguare rapidamente le strutture dello Stato ai nuovi compiti che la realtà gli impone. Di questa riorganizzazione noi vediamo soprattutto un aspetto: quello della partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori alla direzione della cosa pubblica. È un problema che si pone sul piano aziendale, del settore produttivo e della politica economica. Il suo fine ultimo è: realizzare la massima efficienza del sistema per l’accrescimento del benessere comune. Siamo particolarmente lieti che la Conferenza Internazionale del Lavoro stia per affrontare il problema della cooperazione fra organizzazione di lavoratori, di imprenditori e organi dello stato. Nel nostro Paese questo processo ha subito prove infelici, e sta per essere riattivato – ma con grande difficoltà – per iniziativa della nostra Confederazione. Per questo noi incitiamo il BIT a far progredire rapidamente i lavori su tale argomento. Noi condividiamo senza riserve l’opinione del Direttore Generale, che «l’aumento sostanziale e permanente dei tenori di vita dipende essenzialmente dagli sforzi fatti per accrescere la produttività…». Benché il Rapporto metta l’accento sugli effetti della produttività nei mercati in cui esiste il pieno impiego della mano d’opera, noi riteniamo che l’affermazione sia sostanzialmente vera anche per gli altri Paesi, ed il nostro in particolare. È vero però che in Paesi con forte disoccupazione l’aumento della produttività incontra ostacoli che lo stesso Rapporto ha rilevato, e che la messa in opera di un’azione tendente ad un forte accrescimento della produttività comporta per i lavoratori, nel breve termine, sacrifici non indifferenti; che possono sembrare impossibili quando la condizione delle masse lavoratrici sia già largamente compromessa da un disagio cronico dell’economia nazionale. Con piena coscienza di queste difficoltà, sono stati i lavoratori aderenti alla Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori che hanno formalmente chiesto ai pubblici poteri la costituzione di un Comitato nazionale per la produttività – a somiglianza di quanto in altri paesi è già in atto – e di Comitati misti d’impresa, aventi lo scopo di ricercare in collaborazione con gli imprenditori, i mezzi idonei ad aumentare la produttività aziendale. Credo di poter citare questo fatto come prova di quella maturità dei lavoratori
che da molte parti si continua loro a negare e di quella «coscienza delle proprie responsabilità» delle organizzazioni sindacali che il Direttore Generale indica come uno dei fattori propri a permettere una pacifica e feconda evoluzione del mondo del lavoro. Un passato di sacrifici, un presente di sacrifici, un avvenire di sacrifici. Ecco la storia e le prospettive delle masse lavoratrici italiane. E cosa si chiede loro? Senso di responsabilità. E in contraccambio cosa chiedono esse agli altri gruppi sociali? Esse chiedono di partecipare almeno su di un piano di parità effettiva ed efficace alle scelte che decidono le sorti materiali della comunità. Esse chiedono che si realizzino anche nel nostro paese le condizioni che il Rapporto del Direttore Generale indica come indispensabili per un rapido progresso civile: «la riorganizzazione economica, politica e sociale dei Paesi insufficientemente sviluppati non deve solo tener conto dei fatti materiali: deve anche sforzarsi di formare il clima sociale in maniera da permettere a tutti i valori produttivi di prendere liberamente il loro slancio, e di prosperare».
PERCHÉ LA CISL È CONTRARIA AL PROGETTO DI LEGGE SINDACALE Dichiarazione a «Il Globo», 28 febbraio 1952.
La Confederazione italiana sindacati lavoratori si è dichiarata contraria all’approvazione del disegno di «legge sindacale» perché ritiene che esso sia inadatto a raggiungere lo scopo che dichiara voler perseguire. Nessuno può negare che il mondo del lavoro sia oggigiorno turbato da crisi interne e da una permanente tensione con la realtà economico-sociale che lo circonda, e che sarebbe quindi auspicabile che si trovasse la soluzione della crisi e lo scioglimento delle tensioni. Noi neghiamo che ciò si possa ottenere con una semplice «legge sindacale», per quanto buona essa sia. Su queste stesse colonne il prof. Chiarelli scriveva, il 29 dicembre, che la legge in discussione è ben lontana da recare una soluzione ai problemi per cui è stata formulata. Egli giudicava, anzi, che la legge prenderà fisionomia solo dal modo in cui sarà applicata. E tuttavia concludeva che una legge è comunque bene che non si tardi a farla. La CISL, che condivide i giudizi del prof. Chiarelli, e quelli del prof. Mazzoni (che nel Globo del 10 gennaio dimostrava addirittura l’esistenza di larghe zone di incostituzionalità nella legge in esame), non può arrivare alla conclusione che una legge sia comunque bene di farla, e che i sindacati, sulla cui pelle si dovrà applicare tale legge, possano attendere di vedere quali criteri interpretativi saranno impiegati dal potere esecutivo per giudicare della bontà del provvedimento. Una legge è buona, secondo me, quando non fa violenza alla realtà sociale cui si applica. Una legge che comprima questa realtà in un involucro legislativo insufficiente o inadatto, può forse soddisfare il gusto per le simmetrie legislative, non l’esigenza dell’ordine sociale, che è ordine dinamico. Se la realtà sociale che viene così compressa è vitale, non sarà essa a prendere la forma dell’involucro legislativo: questo si spezzerà al primo urto con la realtà, oppure, com’è il caso di moltissime leggi «nate morte», non vedrà neppure esperito un tentativo di applicazione. Nella logica del nostro sistema giuridico una legge è buona se non lascia eccessivi margini interpretativi, specie quando l’interprete debba essere il margine esecutivo, che in regime democratico è formato da uomini che hanno la principale funzione di agire secondo ideologie, principî, programmi e criteri di partito.
Se cerchiamo di scoprire per quale motivo è così difficile oggi concepire una «legge sindacale» – tantoché di tre valorosi ministri del lavoro che ci hanno pensato, Fanfani, Marazza e Rubinacci, solo l’ultimo ha osato presentarla al Paese – ci rendiamo conto che il problema non è di tecnica legislativa, ma risiede piuttosto nella difficoltà di cogliere i contorni e la dinamica di un fenomeno sociale – il movimento sindacale – che nel nostro Paese è ancora allo stato semi-fluido, sia nell’aspetto organizzativo che nella coscienza dei lavoratori.
La divisione dei lavoratori La divisione dei lavoratori in più organizzazioni, la caratterizzazione di alcune di queste secondo ideologie politiche esterne al movimento (comunismo, radical-socialismo, nazionalsocialismo), l’accentuazione degli aspetti politici rispetto a quelli di indirizzo economico nella polemica che mette troppo spesso in concorrenza fra loro le centrali sindacali democratiche: ecco alcuni dei sintomi, evidenti anche per coloro che non vivono la vita sindacale, i quali ci avvertono che il movimento sindacale operaio non è ancora pervenuto, in Italia, per circostanze storiche, ambientali e di sviluppo economico, al pieno sviluppo ideologico e organizzativo. In concreto, la situazione è la seguente: esiste un’organizzazione sindacale comunista, la quale – favorita dall’abbondanza dei mezzi finanziati, dalla preparazione di numerosi quadri che escono dalle scuole di partito, dalla disponibilità dell’apparato materiale e umano del partito comunista, e applicando questo formidabile complesso strumentale nell’organizzazione di un proletariato poverissimo, stimolato all’anarchismo da una secolare esperienza di malcostume politico e amministrativo, spaventato dall’incubo della disoccupazione, riconfermato nelle sue delusioni da una quotidiana esperienza di immortalità sociale ed economica – riesce ad inquadrare 5 milioni di lavoratori (sono cifre della CGIL). Di fronte ad essa due organizzazioni cercano di riordinare il mondo del lavoro in ranghi di «non-disperati», e di orientare questi lavoratori verso obiettivi ragionevoli di progresso e di ordine sociale: 2 milioni e poco più di lavoratori. Orbene, per inquadrare questa complessa, tormentata – possiamo dire, purtroppo senza retorica, sanguinosa – realtà sociale in evoluzione, questa realtà che costituisce il centro fisico della crisi politica del mondo contemporaneo, che cosa ci si propone? Ci si propone una legge che eleva a dignità di istituto dello Stato democratico il più importante strumento organizzativo del comunismo in Italia – la CGIL – riconoscendo il titolo di «democratica» a qualunque associazione sindacale che presenti uno statuto nel quale siano contemplate le regole della democrazia elettorale (art. 6). Ci si propone una legge che – dando praticamente alla maggioranza sindacale il potere di stipulare o non il contratto di lavoro – consolida, premia e cristallizza per sempre il potere maggioritario della CGIL, inchiodando le altre organizzazioni (come ha ben dimostrato il prof. Mazzoni nel citato articolo) in una situazione di permanente minoranza, privandole di reale potere contrattuale, privandole cioè del più formidabile strumento di proselitismo fra le masse operaie (art. 14). Bloccata in tale direzione l’azione del sindacalismo democratico, la legge prosegue togliendo ad esso anche la possibilità di organizzare quei lavoratori che per tradizione, cultura, senso di responsabilità, spontaneamente si rivolgerebbero ad esso per la tutela dei loro interessi: i pubblici dipendenti e gli iscritti agli ordini professionali. Ai primi è bensì concesso di costituire associazioni sindacali, ma
queste non possono né stipulare contratti né proclamare scioperi (artt. 10-12). Gli organizzatori di scioperi di pubblici dipendenti vengono addirittura minacciati di reclusione fino ad un anno, con patente violazione dei principî che regolano la materia penale. Ai secondi viene negato il diritto associativo sindacale, confondendo la natura e finalità dell’ordine professionale con la natura e la finalità del sindacato! Tolta così di mezzo la possibilità di sviluppo del sindacalismo democratico, sia nell’ambiente operaio che in quello degli impiegati, la legge passa a regolare i conti con il sindacalismo comunista, cercando di colpirlo in quello che il legislatore ritiene il mezzo principe della sua azione: lo sciopero.
Il diritto di sciopero Per far ciò il legislatore toglie il diritto di proclamare lo sciopero ai sindacati non registrati (art. 27), imponendo quindi un obbligo di registrazione che nell’art. 39 della costituzione è semplicemente una facoltà . Toglie quindi il diritto di sciopero ai pubblici dipendenti, in base al principio – contraddetto dalla teoria giuridica, dalla prassi giurisprudenziale e dalla storia – secondo il quale il diritto di sciopero nascerebbe dal contratto di lavoro, e non direttamente e semplicemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro. Limita lo sciopero solamente alle controversie che abbiano per oggetto la formazione o la modificazione di un contratto collettivo. Quindi niente scioperi di solidarietà (anche se gli interessi economici di due categorie sono complementari), niente scioperi per impedire l’introduzione nell’azienda di criteri organizzativi o salariali che pregiudicano il livello delle remunerazioni o la sicurezza del lavoro o incidono sullo sforzo del lavoratore, e via dicendo. Questo criterio restrittivo della natura e funzione dello sciopero, nasce da una visione ristretta dell’attività sindacale, che la vuole limitata alla pura funzione contrattualistica. Ma questa interpretazione è contraria al buon senso economico e alla realtà storica. È contraria al buon senso economico, perché è illogico che il sindacato debba limitarsi a dibattere le condizioni remunerative fra un limite massimo di richiesta e un limite minimo di offerta – essendo questi limiti predeterminati dalle condizioni obiettive del mercato – e non debba anche e maggiormente preoccuparsi di rendere espandibile il limite della richiesta, agendo direttamente sul mercato che lo condiziona. Ma perché i sindacati si batterebbero per il pieno impiego, l ’aumento di produttività, ecc.? Per pura simpatia umana per i disoccupati, per ideologismo? È contraria alla realtà storica, perché il movimento sindacale manifesta ovunque la tendenza a modificare i suoi fini e la sua strumentazione nel senso di una estensione della propria competenza a regolare il mercato, inserendosi come gruppo omogeneo di interessi fra i gruppi di interessi che agiscono sul mondo economico. E tale estensione di competenza è accompagnata da una parte dalla riduzione dell’importanza relativa dell’attività contrattualistica (demandata ai sindacati locali), e d’altra parte dall’assunzione di responsabilità di carattere pubblico. Se questa è la tendenza storica, è naturale che essa si delinei più chiaramente in certi ambienti e meno in altri. Ma il legislatore non può – conoscendo la storia – porre le premesse che ostacolano l’evoluzione spontanea della realtà sociale, si chiami essa sindacato o altrimenti. Questo si fa, invece, quando si pretende di serrare entro un argine legislativo insufficiente il corso del mondo del lavoro. Cosa si vuole: una Polesella sindacale? Tralascio di descrivere infine, come la legge condizioni l’esercizio di quel residuo di diritto di sciopero a limitazioni e procedure che il prof. Mazzoni ha definito «gravi» sotto l’aspetto della legittimità costituzionale, e che io mi permetto
di definire «assurde» sotto l’aspetto della funzionalità sindacale. Le conclusioni della CISL non differiscono, sul piano sostanziale, da quelle degli insigni giuristi che ho citati, e di moltissimi altri che hanno scritto sull’argomento. Ma mentre alcuni di essi pensano che si possa tentare di migliorare il testo legislativo, noi siamo sicuri che in questo momento, volendo portare agli uomini e alla loro storia quel rispetto che è norma del saggio legislatore, è praticamente impossibile escogitare formule che inquadrino in un medesimo ordine statuale forze democratiche e forze antidemocratiche, senza togliere alle prime la libertà che è per esse condizione di vita, o senza concedere alle seconde patenti ufficiali che offendono la dignità della legge. In attesa che la decantazione delle contrastanti esperienze che agitano il mondo operaio si compia spontaneamente, e sia quindi possibile fondare una costruzione legislativa su di una realtà sociale consistente e omogenea, non mancano allo Stato democratico – come insegna ancora una volta la storia delle nazioni progredite, e come è stato indicato anche dalla CISL con la proposta di legge sulla estensione legislativa del contenuto di un contratto collettivo – i mezzi per garantire ai lavoratori la certezza del diritto in materia contrattuale, e la tutela delle minoranze non iscritte al sindacato o sprovviste di contratto.
S I N D A C AT I E PA R T I T I Articolo in «Conquiste del lavoro», 9 marzo 1952.
L’autonomia del sindacato Devo ammettere che sono stato profeta soltanto a metà allorché nell’ottobre 1951 in una riunione di lavoratori avvertivo che non doveva considerarsi del tutto acquisito il rispetto della autonomia del sindacato da parte dei partiti. Dicevo allora pressappoco così: «Non vi è dubbio che della strada se ne è fatta sul terreno della unità dei lavoratori, mediante la formula dell’indipendenza del sindacato; occorre però restare vigili e non farsi soverchie illusioni. Lasciate infatti che si allontani il pericolo comunista e poi vedrete che anche in certi settori dei partiti democratici riprenderanno quota le velleità nostalgiche per il sindacalismo di colore». E giustificavo il discorso rifacendomi alle tradizioni del sindacalismo del nostro continente nonché alle note tendenze alla politique d’abord proprie di noi italiani. Ho detto che la profezia è valsa soltanto a metà; infatti se è vero che alle previste velleità si è arrivati, purtroppo esse non coincidono con l’allontanamento della minaccia comunista. E poiché il più autorevole tra quanti hanno preso parte al recente dibattito, don Luigi Sturzo, ha apertamente abbozzato una mia responsabilità per l’eventuale aprirsi di prospettive verso un successo elettorale del totalitarismo moscovita, sia anche a me concesso di rammentare ai novelli calorosi fautori della disunione sindacale che se i bastioni democratici del 1922 si rivelarono, nonostante l’eroismo di molti (e don Sturzo fu certamente fra questi), insufficienti a resistere al totalitarismo fascista, causa non ultima fu proprio la lotta intestina che allora, in regime di sindacati di colore, straziava il mondo sindacale italiano: e la lotta c’era perché anche allora al comun denominatore della duplice difesa del pane e della libertà, si era sostituita nel sindacato la visione ideologica che null’altro scorgeva che l’avvento di un dottrinale schema di parte. Un elemento emerge ogni qual volta si discute di sfera d’azione del sindacato in rapporto particolarmente al settore politico, ed è la necessità che ognuno avverte di tenere distinta la cosiddetta politica di partito da ciò che è «politico» in senso generale. Anche nell’attuale disputa un po’ tutti hanno toccato questo aspetto del problema e anche questa volta i competitori si sono divisi su due fronti a seconda che fossero dei politici «puri» o dei sindacalisti. I primi hanno opinato ed opinano che il «distinguo» è puramente formale, mentre i secondi parteggiano per una legittimazione sostanziale della distinzione. Io sono, è forse superfluo dichiararlo, per la seconda tesi, soprattutto quando come ora sono in discussione compiti e finalità dei sindacati nonché la loro istanza unitaria. Intesa la politica come scienza ed arte del trattare la cosa pubblica, è difficile contestare che vi è per essa uno spazio sufficientemente vasto da consentire l’incontro di opinioni diverse per la soluzione unitaria di particolari problemi; è per contro vero che se dal concetto di politica come scienza, si passa alla politica come manifestazione di vita e conseguente traduzione al concreto di un determinato principio riguardante l’ordinamento e la funzione dello Stato, e qui siamo al partito politico, i confini si restringono e ben si delimitano esigendo
da quanti vi partecipano omogeneità di pensiero e disciplina di azione. A questo riguardo don Sturzo mi muove l’accusa di voler promuovere un sindacato che abiura la politica in senso generale; ma quando mai l’illustre Amico mi ha scoperto fautore di tale tesi? Non posso né devo evidentemente pretendere di essere seguito nella mia fatica, posso tuttavia permettermi di chiedere di non vedermi addebitate posizioni che non ho mai assunto e che sono assolutamente lontane dal mio spirito. Preoccupati di stabilire compiti ed obiettivi sufficientemente chiari e comunque tali da offrire alla nostra organizzazione, pur nella necessaria distinzione da ciò che è programma ed azione di partito, visioni e fini a lungo termine, non abbiamo mai mancato quali dirigenti della CISL di respingere ogni qual volta si è reso necessario, la concezione di un sindacalismo burocratico e senza anima. È pertanto nostra la tesi che il sindacato deve saper sviluppare una «sua» politica e qui conveniamo che trattasi semmai, di individuare tale politica, quale può e quale deve essere. I politici puri o, per meglio intenderci, i «partitocrati» su questo argomento hanno già dimostrato di possedere una loro esplicita tesi. Fatti forti dal presupposto che nell’odierno ordinamento democratico a tipo parlamentare, soggetto e protagonista dell’azione politica è il partito, affermano non esserci per il sindacato via di scampo: o far comunella con uno dei partiti tradizionali, oppure trasformarsi esso stesso in partito. L’amore alla tesi non consente ad essi altra scelta, anche se una più obiettiva valutazione dei compiti e delle funzioni così profondamente dissimili del sindacato e del partito obbligherebbero a farlo. Conveniamo che ai partiti spettano compiti primari specie sul piano di attuazione dei principi e degli ordinamenti politici e quanti ci seguono nel nostro lavoro sanno di una nostra consapevole e costante professione di fede nella insostituibilità di tale funzione e di una nostra tenace predicazione tra i lavoratori perché siano essi validamente presenti nella organizzazione di partito che meglio rispecchia i loro rispettivi ideali. Ciò premesso, crediamo di poter ravvisare nel vasto mondo delle cose politiche una certa zona ove è consentito, senza che si determinino contrasti con i partiti, l’approdo ai sindacati pur evitando che gli stessi debbano soggiacere alla dinamica, per essi mortale, dei contrasti e delle divisioni ideologiche. È forse necessario esemplificare? Chi oserebbe contestare che prima di pensare all ’avvento dei cosiddetti schemi di fondo, propri di questa o di quell’altra dottrina, è oggi urgente battersi per assicurare ai lavoratori il minimo di posizione morale ed economica adeguata alla loro umana personalità? E non è forse questo il terreno di incontro, anche sul piano politico, per molti di coloro che da pulpiti diversi predicano ed invocano la giustizia sociale? E a coloro che, avvalendosi della preziosità del metodo democratico, obiettano essere ugualmente valido il fronte anche se diverse sono le trincee da cui si combatte, osserviamo che ciò sarebbe vero se la lotta per il progresso e la giustizia sociale non incontrasse la sorda ostilità di uomini e ceti i quali, anziché inchinarsi alla validità delle leggi morali, oppongono l’insormontabile barriera della loro unità tra l’altro espressa in potenti organismi sindacali. Perché questa è la realtà che molti sembrano voler ignorare. È da notare, oltre tutto, che la strada da noi indicata conduce a servire più direttamente e rapidamente i lavoratori. Questo va detto per la sensibilità di quei
partiti la cui vocazione li porta ad essere più vicini alla gente che lavora. È infatti facile dimostrare che quando noi chiediamo che il sindacato resti uno e forte non facciamo che gettare le premesse per un più rapido conseguimento di alcuni dei maggiori e più impellenti obiettivi invocati dai lavoratori. Da fugare resta la non nascosta preoccupazione dei nostri politici di vedersi sfuggire l’apporto numerico di quella gran parte dell’elettorato espresso dal mondo del lavoro. Ebbene, anche qui noi crediamo di poter rassicurare i partiti. Infatti, fermo restando che il primo e maggiore problema che i lavoratori ritengono urgente risolvere è il darsi la potenza necessaria per superare la tenace opposizione al conseguirsi delle loro istanze, essi non potranno che dimostrarsi grati verso tutti coloro che sinceramente e validamente li aiuteranno a raggiungere tale scopo. Sarà pertanto nella misura con cui i partiti coopereranno a suscitare e consolidare un sindacato forte nell’unità di tutti i lavoratori, che ciascuno di essi vedrà disperdersi il timore di essere abbandonato.
U N FAT T O E T R E C O N F E R M E D E L S I N D A C A L I S M O D E M O C R AT I C O Articolo in «Gioventù», Supplemento professionisti al Settimanale della Gioventù Italiana di Azione cattolica, 27 dicembre 1953, pp. 202-203.
La recente ponderosa vertenza per il conglobamento dei salari nell’industria, per il rinnovo dei contratti di lavoro e per l’ondata di licenziamenti, ha agitato, è il caso di dirlo, pressoché tutto il Paese. Essa ha dato occasione per tre conferme sulla natura, le qualità e l’azione del sindacalismo democratico italiano. Le reazioni al comportamento, in questa occasione, della CISL, hanno provato infatti come tali conferme fossero necessarie e salutari non alla CISL (ché prove analoghe ha dato da sempre), ma a molti settori della vita pubblica italiana dove spesso l’insufficiente informazione e la superficialità critica portano a conseguenti nebulosità di idee, ad ambiguità e confusioni. Ciò, trascurando la mala fede. Ma riandando pacatamente al susseguirsi dei fatti, risulterà chiaro come l’organizzazione democratica di lavoratori italiani abbia agito su un terreno pertinente, obbedendo al metodo democratico e non senza avere esperite tutte le vie possibili di pacifica composizione della vertenza, prima di decidere autonomamente l’azione. Per quanto riguarda il primo problema, l’azione sindacale, mi si consenta di dire che nessun sofisma e nessun equilibrismo dialettico potranno togliere a tale azione il suo carattere genuinamente sindacale. L’aver impostato il problema del conglobamento sull’istanza obiettiva e auspicata da ogni parte, da ogni ambiente, di un riassetto organico del sistema retribuito, infrange ogni tentativo di individuare motivi ed elementi che possono che possono venire dal mondo politico nell’agitazione e nell’azione sindacale. Siamo arrivati ad impostare questo problema, alla distanza di otto anni dall’inizio di una faticosa ricostruzione del sistema salariale democratico del nostro Paese dopo la fine della guerra. Del resto, più volte ci sono stati mossi dei rilievi per quello che i sindacalisti hanno fatto in questo lungo periodo in merito al problema del sistema retributivo. C’è stato fatto debito di non aver saputo impostare e realizzare un indirizzo unitario, ma va detto che obiettivamente ciò non è stato possibile, tenuto anche conto dell’eredità che il sindacato postbellico ha ricevuto dalla conclusione del conflitto. Questi rilievi mossici confermano, in ogni caso, la giustezza della nostra recente
impostazione, e costituiscono un preventivo riconoscimento di legittimità per una rivendicazione che tende appunto a determinare un indirizzo unitario nel sistema retributivo ed a recarvi una logica ed organica sistemazione. Riassetto, peraltro, invocato anche dagli stessi ambienti imprenditoriali, dal momento che su un giornale molto vicino alla Confindustria è stato scritto che «si avverte in tutti i settori, imprenditoriali, economici, tra gli studiosi di questioni sociali, l’esigenza di un riassetto organico del sistema retributivo». Il secondo elemento, confermato dalla recente vertenza, è rappresentato dalla perfetta democraticità dell’azione sindacale. Riconosciamo con vero compiacimento che l’azione ha riscosso l’unanime consenso dei lavoratori italiani, che hanno dato in questa occasione percentuali mai registrate, fin ora, di partecipazione allo sciopero. E come non riconoscere anche attraverso l’impegno e la passione delle organizzazioni periferiche del sindacato libero nella preparazione dello sciopero, come non riconoscere in questo slancio genuino e spontaneo, il crisma di una legittimità morale dell’azione e di una autentica interpretazione della volontà della classe lavoratrice? Ma v’è poi un secondo titolo di legittimazione: ed è appunto la scrupolosa osservanza e la scrupolosa fedeltà al metodo democratico che costituisce ormai sostanza e caratterizzazione del sindacalismo libero. Molti sono stati i gradi di consultazione della base attraverso cui si è passati prima di arrivare allo sciopero. Mi basterà citare le tre successive riunioni del Comitato Esecutivo della CISL, le consultazioni delle Federazioni di categoria ad essa aderenti, e le convocazioni dei Segretari delle Unioni Provinciali nelle assemblee regionali. E attraverso tutte queste forme di interrogazione della volontà dei lavoratori, è emersa la unanime determinazione di procedere ad un’azione contro l’ingiustificato ed intransigente atteggiamento della Confindustria. Ed a chi ha mosso al sindacato libero l’ingiustificato appunto di aver trascinato i lavoratori allo sciopero, va opposto che evidentemente esistono due modi di non essere democratici: quello, appunto, di portare all’azione i lavoratori quand’essi non lo vogliono o quando non via sia una giustificazione sindacale, e quello di opporsi ad ogni costo ad un’azione che i lavoratori sentono e reclamano unanimemente. Ed eccomi al terzo elemento caratteristico di questa vertenza, perfettamente coerente con il metodo del sindacalismo democratico. Tutte le vie pacifiche sono state esaurite: da un anno era in funzione una apposita commissione tecnica; era stata più volte prospettata per corrispondenza la necessità di affrontare con trattative l’argomento; non sono mancate le istanze verbali; si sono ripetutamente cercati gli approcci onde dar luogo alla trattativa; e si è infine dimostrata all’infinito la nostra aspirazione a trattare e quindi ad evitare lo sciopero. Che alto restava fare? Non v’è alcun dubbio che, anche in questa vertenza, è apparsa manifesta la nostra concezione che considera lo sciopero come arma a cui si fa ricorso come «extrema ratio». Dunque, non solo nessuna delle caratteristiche del sindacalismo libero e democratico è stata violata, ma esse hanno avuto una palmare conferma che nessuna calunnia o insinuazione contro il sindacalismo libero può smentire. E queste conferme, come è ovvio, non valgono soltanto in questa direzione negativa; esse provano positivamente una presenza realistica e responsabile dei lavoratori
democratici nell’ambito di uno Stato che è democratico soprattutto perché e finché i lavoratori lo fanno tale.
N O A L PAT E R N A L I S M O , S Ì A L D I B AT T I T O INTERNO Discorso al V Congresso nazionale della DC, Napoli, 26-30 giugno 1954, in G. Pastore, I lavoratori nello Stato, Vallecchi editore, Firenze, 1963, pp. 250-257.
È questo un congresso che avviene in un momento difficile. Difficile perché la pubblica opinione del nostro paese ha ormai manifestato molte perplessità nei nostri confronti. Difficile per la situazione interna del partito. Negare il disorientamento, la sfiducia per la insufficienza interna sarebbe come negare la luce del sole. Del resto la stessa relazione del segretario del partito – una brillante, una lucida relazione che ha tutta la nostra approvazione – ha messo in evidenza questo stato di cose. Congresso pertanto che ha delle grandissime responsabilità. Un giornalista mi diceva qualche giorno fa: «Ma avrete finalmente il coraggio di portare i problemi alla ribalta, o tutto si risolverà nelle manovre di corridoio?». È il congresso che deve respingere questo pericolo, che deve avere il coraggio di portare i problemi alla ribalta: guai, amici, che capeggiate le varie correnti, se abbassate i vostri problemi ad un sistema di picchi e ripicchi personali. I cattolici italiani domandano che finalmente sia trovata la giusta via. E la giusta via è possibile trovarla soltanto attraverso un franco dibattito. Noi per parte nostra ci sforzeremo di contribuire al raggiungimento di questo obiettivo portando qui alcuni problemi perché il congresso guardi ad essi e giudichi sulle soluzioni proposte e non scelga gli uomini che debbono dirigere il partito soltanto in virtù di un’abilissima ed efficace propaganda spesa da tempo e in virtù di autorità personale. De Gasperi ha fatto una relazione chiara. Vi è un periodo di essa che è da sottolineare: «Non è possibile operare in regime democratico, in pieno secolo ventesimo, col paternalismo di Bossuet; soprattutto non è possibile ottenere risultati concreti senza una disciplina sentita, una disciplina sincera. Ci vuole – ha detto De Gasperi – uno strumento adatto ai tempi, cioè una organizzazione politica che abbia un programma, una gestione veramente democratica».
No al paternalismo Bene, presidente De Gasperi, questa condanna del paternalismo! Bene! Perché la base della Democrazia cristiana ha sovente la sensazione dell’esistenza di cappe che si sentono ma non si vedono. Questa sensazione è il prodotto di certe imposizioni paternalistiche che finiscono per determinare la più grave contraddizione del nostro partito: che, cioè, esiste una base con un determinato indirizzo e poi c’è il vertice il cui indirizzo non è del tutto conforme alla volontà della base. In sostanza il partito agisce più con la volontà del vertice che con quella dei suoi iscritti. Ciò determina sovente sfiducia, determina accoramento. È ottima cosa parlare di disciplina volontaria, amici democristiani. Ma la disciplina scaturisce dalla consapevolezza, scaturisce dalla ferma persuasione della bontà dell’idea che si sostiene. Un partito moderno, ma soprattutto un partito che ha la responsabilità grandissima di guidare un Paese così complesso nella sua struttura e così sconvolto dai suoi problemi, deve consentire, deve promuovere, deve stimolare, deve potenziare ed incoraggiare la presenza effettiva dei suoi iscritti, nel dibattuto dei vari problemi che interessano la vita sociale, la vita politica, la vita amministrativa del Paese. Deve far partecipare la base il più concretamente possibile alla elaborazione della soluzione dei problemi esistenti e di quelli che sorgono giorno per giorno. È un partito il nostro, che ha un impegno formidabile; i nostri tempi offrono tremende alternative; i complessi problemi economici, gli svariati aspetti tattici, i rapporti sociali, i problemi della pubblica amministrazione sono altrettanto concrete quanto evidenti facce di un dramma che ha l’uomo come protagonista. Ebbene, in che modo, attraverso quali forme di partecipazione intensa ed attiva dei suoi militanti la Democrazia cristiana ha affrontato, ha approfondito questo formidabile complesso di problemi che richiede la collaborazione spirituale, intellettiva, organizzativa di ogni giorno e di ogni ora? Amico De Gasperi, bene hai fatto a mettere l’accento sulla negatività del paternalismo. Le forze sociali in continua evoluzione nella stessa nostra compagine chiedono un nuovo indirizzo. Noi plaudiamo ai molti convegni organizzativi, ultimamente disposti dalla Direzione. Ma vorremmo che finalmente la DC si ponesse sul piano dei convegni di studio non limitati al vertice. Bisogna portare un dibattito al livello delle sezioni. Chi conosce i militanti DC, soprattutto i militanti provenienti dal mondo del lavoro, sa quanto essi siano ansiosi di conoscere, di sapere, di rafforzare la fede mediante la consapevolezza.
Il problema dei giovani e l’incidenza sulla cultura Esiste nel nostro partito, come negli altri, un problema dei giovani. Non basta evidentemente offrire alle nuove generazioni maggiore ricreazione. In realtà i giovani chiedono di poter partecipare anche col dibattito alla formulazione delle nostre impostazioni programmatiche. E vi è anche un problema che interessa il mondo della cultura. Vogliamo chiederci amici il perché è scarsa la nostra incidenza in questa direzione? Io ho molto rispetto per il mondo della cultura, ne ho tanto che auspico una più ampia e diversa apertura di tale mondo verso il movimento sindacale. Vi è carenza nei rapporti tra il mondo del lavoro e quello della cultura, si è che la cultura italiana deve decidersi ad un nuovo e più positivo orientamento verso i problemi delle classi popolari se non vuole vedersi privata della possibilità di pesare nello sviluppo democratico del nostro paese. È questo un problema che deve interessare di più di quanto sia avvenuto fino ad oggi anche la Democrazia cristiana e questo maggiore interesse lo si dimostra e lo si promuove nella misura in cui si ha la vocazione degli ampi dibattiti particolarmente nel campo delle idee. Ho letto nella relazione del segretario politico il richiamo alla necessità di avere chiarezza e precisione di linguaggio. In genere affrontando questo argomento si tende a sostenere che la chiarezza non ci sarebbe perché in casa nostra si fa uso di termini marxisti. Perché insistere su questa linea? Se mai c’è una realtà in questo nostro partito, in questo particolare momento, non è che si fa uso di linguaggio marxista, ma piuttosto si fa ricorso a dottrine e non certo a quelle marxiste che la DC non ha mai avuto.
Il solidarismo De Gasperi ha coniato una parola: «solidarismo». Benissimo, meglio dell’altra: «interclassismo». Ma De Gasperi sarà certamente concorde con me sulla conseguenza di questa espressione: la formula non basta, bisogna tradurla in pratica, in una realtà politica di principî e di opere. Fermarsi alla semplice espressione è un errore di fondo; è un errore di fondo che noi andiamo a commettere. Fermarsi alla espressione vuol dire permetterne poi le più svariate interpretazioni. L’esperienza italiana, la situazione sociale, economica italiana, offrono le condizioni più adatte, per procedere all’applicazione del concetto fondamentale di «solidarismo». Non si tratta adunque di mettere in discussione il principio, ed è assurdo il supporre, come da qualche parte si mostra di voler fare, che proponendo un adeguato dibattito si hanno le premesse di irreparabili fratture interne. In realtà noi non attentiamo all’unità del partito: noi crediamo alla unità sostanziale e soltanto mediante un leale e sereno dibattito si perviene a tale traguardo. L’unità formale è una unità fittizia e non può che condurre a manifestazioni di debolezza. Noi crediamo nei principi che riteniamo salde colonne su cui il partito può proporsi di costruire una nuova società. Ciò premesso noi siamo d’avviso che occorre una politica di costante adeguamento, se non vogliamo essere superati dalla realtà in movimento. Quanto è accaduto negli ultimi decenni: la guerra, il fascismo, l’esasperarsi dei contrasti sociali, il manifestarsi di nuovi aspetti della economia privata e pubblica, impongono una nostra maggiore mobilità nel sapere interpretare le nuove realtà storiche. Noi invochiamo dunque dibattiti consapevoli, capaci di rafforzarci e di adeguarci alle nuove realtà. Un secondo problema si pone alla nostra attenzione ed è quello di recuperare un elettorato o che ci ha lasciato o che mostra una crescente diffidenza verso di noi perché ovviamente non bastano le interpretazioni contabili dei risultati delle elezioni del 7 giugno. Recuperare l’elettorato significa che non è sufficiente limitare gli incontri o le operazioni politiche al vertice.
La collaborazione col PSI Si cercano le alleanze verso il partito socialista: e sta bene. Ma non bisogna dimenticarsi che il no o la resistenza di quel partito ad un incontro con noi è anche motivato dalla visione che quel partito ha dei rapporti di classe. Nenni sa di vivere in una società dove le forze del capitale non presentano apertura alcuna. Nenni sa che cosa significa in una tale situazione l’unità delle forze popolari. Lasciatemi dire e non scandalizzatevi: di fronte a questa resistenza, a questa chiusura a doppio chiavistello del mondo del capitale anche io credo nell’esigenza dell’unità delle forze del lavoro. Nenni è manifestamente guidato da una tale convinzione e non dal desiderio di servire il partito comunista. Nenni commette tuttavia un errore in quanto non si rende conto che anche le recenti esperienze storiche stanno a dimostrare che l’unità delle classi popolari è del tutto strumentale per il Partito comunista, e se è vero che potrebbe portare alla liberazione della schiavitù capitalistica non è meno vero che sfocia in un’altra schiavitù, quella dello Stato affidato alla così detta élite e non certo al popolo. Tutto qui il problema. Ma se non è possibile una alleanza con Nenni tanto meno è ipotizzabile l’incontro con i partiti di destra. Chi ha cercato una apertura a destra al livello parlamentare mostra che non ha capito nulla del 7 giugno. Avete visto la tattica della propaganda elettorale comunista con la quale si è cercato, a torto o a ragione, (evidentemente più a torto che a ragione), di presentare la DC, la democrazia italiana, in collusione con i responsabili delle sofferenze della povera gente. Ma ve l’immaginate voi la prossima consultazione elettorale con il seguente argomento nel dossier dei propagandisti comunisti: l’alleanza governativa della DC, coi partiti che esprimono gli interessi delle peggiori forze reazionarie! Altro che 7 giugno ci aspetterebbe! Colombo nell’analisi fatta qui della situazione meridionale ci ha parlato di un anelito di riscossa che percorre quelle nostre contrade. Occorre ovviamente incoraggiare e sorreggere la viva aspirazione delle popolazioni meridionali ad un maggiore benessere, ad una crescita civile. È stato detto che questo anelito di riscossa si accompagna a manifestazioni di rancore contro quei ceti che in passato sono stati la causa delle mortificazioni del popolo meridionale. Vogliamo forse che la Democrazia cristiana diventi essa stessa oggetto di tale rancore? Vogliamo che il partito comunista penetri a bandiere spiegate nelle zone che si avviano alla bonifica materiale in virtù dei coraggiosi interventi disposti dai governi democratici di questi anni?
Per uno Stato democratico Vi sono problemi concreti la cui soluzione qualificherebbe sul piano sociale l’azione di governo. Ne ricorderò alcuni: 1) La politica fiscale. Bisogna perseguire gli obiettivi della riforma Vanoni guardandosi dalle pressioni dei gruppi interessati; 2) Occorre meno perplessità nell’attuazione della riforma agraria. Vi è un deliberato del Consiglio nazionale del 4 maggio 1948 che in materia è esplicito. Voglio dire che il partito si è allora solennemente impegnato: impegno che porta la firma del ministro Segni, di un ministro cioè che ha poi incontrato lungo la sua strada nell’applicazione della sua riforma inimmaginabili opposizioni; 3) Bisogna rendere più funzionale l’Ispettorato del lavoro dandogli la necessaria efficienza anche sul piano delle attrezzature, degli organici, delle capacità finanziarie; 4) Bisogna togliere dai cassetti le leggi che giacciono da troppo tempo: vedi a titolo di esempio la legge per il sussidio di disoccupazione in agricoltura. Sono sei anni che la chiediamo; 5) Bisogna decisamente affrontare il problema dei contratti agrari guardandosi naturalmente dal peggiorare l’attuale situazione; 6) Vi è necessità della legge che dia efficacia giuridica ai contratti di lavoro. È una legge promessa da tutti i presidenti del consiglio succedutisi. Queste sono le vie che consentono di recuperare alla base una certa parte dei lavoratori, recuperarli soprattutto allo Stato democratico. È stata anche sollecitata dalla relazione dell ’on. De Gasperi la questione dei rapporti tra sindacato e partito. Devo a questo proposito ricordare che noi non abbiamo mai inteso, in quanto sindacato, interferire nella vita del partito: sono due sfere d’azione così profondamente diverse per le quali si impone la più assoluta autonomia. Noi concordiamo con l’affermazione fatta nella relazione del segretario politico circa la necessità di mantenere i due organismi nell’ambito delle rispettive competenze. Ma questo non basta. Vi è nell’ambito del nostro partito una necessità di comprensione e, perché no, di fiducia verso i democratici cristiani impegnati nel sindacato. Don Sturzo, a cui piace rivolgerci prediche piuttosto che darci una mano, ci domanda che cosa vogliamo quando chiediamo al partito un diverso comportamento. Niente di straordinario. Ho qui con me una documentazione corredata da date precise: maggio 1950, febbraio 1951, ottobre 1952, agosto 1953, febbraio 1954, aprile 1954, ecc. Sono date di atti postivi compiuti dai sindacati democratici al fine di favorire rapporti nuovi tra Stato democratico e sindacato democratico. Memorie elaboratissime, documentatissime, relative a problemi concreti, economici e sociali: proposte, idee, suggerimenti. Cosa vogliono i
sindacati democratici, dunque, se non cooperare al consolidamento di questo Stato democratico, nell’ambito della propria competenza?
S U L D I S TA C C O D E L L ’ I R I D A L L A CONFINDUSTRIA Inter vento alla Camera dei Deputati, seduta pomeridiana, 2 agosto 1954, in Pastore. Discorsi Parlamentari (1947-1968), Camera dei Deputati, Roma, 2012, pp. 67-79.
Pastore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è forse la prima volta che attorno ad un argomento, non di esclusiva natura politica, ma di contenuto economico e politico insieme, si è acceso nel Paese un sì grande interesse. Mi sono sorbito anche io, in questi giorni, la copiosa produzione giornalistica sul problema IRI, e veramente vi è da compiacersi che circoli e organi della pubblica opinione abbiano sottolineato l’importanza dell’argomento di cui si sta occupando il Parlamento. Questo intercambio di opinioni, questa circolazione di idee contemporanea alla pubblica opinione e al Parlamento è indubbiamente di buon auspicio per l’ulteriore processo di formazione democratica del nostro paese e ritengo che ciascuno di noi debba compiacersene. Naturalmente, come sempre avviene quando le opinioni sono ispirate a particolari interessi, se non addirittura a visioni egoistiche, si notano delle sfasature, ed io, accingendomi ad illustrare la mozione che ho firmato insieme con i miei colleghi, lo devo rilevare; e devo far ciò perché non mi pare si possa sperare in un risultato comunque positivo (positivo nell’interesse del paese) quando il dibattito parte da posizioni preconcette e, come tali, non conformi alla verità. Si è detto, in buona sostanza, con l’evidente intenzione di influenzare la pubblica opinione ed anche il Parlamento, che si chiede lo sganciamento delle aziende IRI dalla Confindustria per ottenere più elevati salari, premi di licenziamento più onerosi, e addirittura un nuovo blocco dei licenziamenti; naturalmente, all’individuazione di tali presunti obiettivi fa seguito il solito colpo basso: si denunciano, cioè, soprattutto i sindacati di voler perseguire una politica che metta in difficoltà il Tesoro, sicché questi (leggo letteralmente ciò che la stampa ha pubblicato) «non avrà più la possibilità di dare sussidi ai disoccupati e, in generale, di venire in aiuto a tutti coloro che sono ancora al di sotto della striscia della miseria». È stato anche scritto che, per quanto ci riguarda, è nostro proposito cercare nel distacco delle aziende IRI un campo di manovra per la CISL, contemporaneamente utile per qualche specifico fine elettoralistico.
È veramente strano e rattristante che pulpiti che ogni giorno si affannano a denunciare la demagogia altrui si lascino andare a loro volta alla più vieta demagogia, che altro non è, onorevoli colleghi, il ridurre in questi termini la questione di cui ci stiamo occupando. Per quanto ci riguarda, gli obiettivi sostanziali che perseguiamo sono sinteticamente indicati nella mozione che abbiamo sottoscritto: cioè noi giudichiamo sia venuto il momento di assegnare un’organica funzione alla presenza dello Stato nell’attività produttiva, una funziona che non sia in contrasto con le finalità economiche, sociali, politiche di uno Stato democratico; e tale funzione è da noi così indicata: «elemento di guida dell’apparato produttivo del paese per contribuire allo sviluppo del nostro sistema economico». Portati su questo terreno di più serie considerazioni, gli obiettori vorrebbero liquidare la questione ricorrendo alla polemica dottrinale, ma non credo che un tal genere di dibattito contribuirebbe oggi ad avvicinarci alla soluzione che cerchiamo. Tuttavia, poiché nella polemica sorta si ha la chiara sensazione che si è alla ricerca dell’artificio, mi preme precisare che noi non intendiamo portare in discussione qui l’antitesi tra statalismo e iniziativa privata, tra pianificazione e libertà economica, a parte il fatto che quelle contrapposizioni hanno oggi un sapore di vecchio stile ottocentesco (la vita economica moderna ha fatto giustizia di queste antitesi!): bisogna chiaramente avvertire che il movimento sindacale democratico e il gruppo di deputati che lo rappresentano in Parlamento non hanno inteso con una mozione stimolatrice della riorganizzazione dell’IRI investire un così vasto problema. Forse non sarà male chiarire che lo statalismo, nella figurazione stereotipata che ne fanno i suoi avversari, non piace al sindacato; anzi, il sindacato, che è espressione di libera associazione di interessi particolari, ed è geloso della sua sfera di azione privatistica rispetto al pubblico potere, non può non ricercare nell’attività economica quella libera espansione che costituisce il portato della nostra moderna società. In ogni caso è evidente che l’attuale dibattito non punta a realizzare la trasformazione del nostro sistema economico quanto a prendere atto di una realtà sorta in Italia, una realtà che in queste settimane sembra essere stata ignorata: realtà sorta per porre riparo a gravi situazioni determinatesi nel tempo in alcuni dei più delicati settori produttivi del nostro paese, e ciò per una manifesta carenza della privata iniziativa. E, poiché l’intervento dello Stato, superato il primo periodo che avrebbe dovuto essere di semplice pronto soccorso, ha assunto nuove responsabilità di presenza e di promozione di attività produttive senza mai riuscire a esprimere un suo chiaro e inequivocabile indirizzo, contribuendo anzi ad accrescere il disordine già esistente, è da noi giudicato ormai indifferibile il momento di dire in materia una parola di chiarificazione. Dunque, noi non siamo tanto chiamati a fare scelte dottrinarie quanto a farla finita con una situazione di disordine che tutti riconoscono come tale. Si tratta, in sostanza, come, del resto, già disse il ministro Villabruna, di affrontare il problema di fondo sulla struttura e il funzionamento giuridico ed economico degli istituti che realizzano la presenza dello Stato nelle attività produttive. È a questo punto che può essere utile chiederci: da quali immediate esigenze
nasce questa istanza di mettere finalmente ordine dove non v ’è? Scartata l’opinione che siano preminenti i motivi dottrinari, i motivi più seri ed urgenti, restano quelli più strettamente attinenti alle precarie condizioni della nostra struttura economica, alle carenze dei nostri indirizzi produttivi, alla necessità di gettare premesse organiche per determinare, a breve termine, nuove occasioni di lavoro. In sostanza, non è lecito che, nel momento in cui si cercano tutte le vie possibili per promuovere lo sviluppo economico del paese, sviluppo economico ritenuto antidoto alle nostre deficienze strutturali e congiunturali, non è lecito, dicevo, non usare gli strumenti che lo Stato ha a sua disposizione. E allora domandiamoci: quali sono i settori in cui deve operare questo nuovo, invocato indirizzo? La CISL ha avuto più volte occasione di indicarlo agli ordini governativi in una memoria inoltrata ai Presidenti del Consiglio succedutisi nel tempo, e più recentemente illustrata prima al ministro dell’industria Malvestiti e più recentemente ancora al ministro Villabruna. Nella memoria sono contenute le seguenti indicazioni: «Ad un programma di sviluppo economico dev’essere anche rigidamente orientata la politica del Governo, e, nei riguardi dell’industria controllata, i sindacati aderenti alla CISL non fanno che richiamare i rispettivi inviti e le numerose indicazioni date al Presidente del Consiglio e ai ministri dei dicasteri tecnici in molte occasioni, e specialmente nel 1951, nel corso di diversi incontri tra i rappresentanti della CISL e i predetti ministri. Oggi, alla luce anche delle ultime esperienze, la CISL ribadisce l’invito ad applicare all’industria controllata i principi e l’orientamento formulati precedentemente sul piano generale dell’industria. L’intervento diretto su tale apparato può manifestarsi: 1°) nell’organizzazione generale definitiva dei servizi di direzione e di controllo della produzione; 2°) nella razionalizzazione degli impianti: 3°) nell’immediata applicazione aziendale dei principi produttivistici. «Allo scopo di realizzare il primo punto, occorre istituire un’attività di ricerche, presso la pubblica amministrazione, il Ministero dell’industria e gli organi massimi dell’IRI, che si avvalga della costante sollecitazione di un consiglio o comitato consultivo o di studio con la partecipazione dei gruppi interessati all’industria controllata dalla Stato e, in particolare, con la partecipazione di esperti che esprimano il punto di vista dei rappresentanti sindacali dei lavoratori. Occorre, infatti, promuovere un maggior dinamismo nell’organizzazione direttiva dell’industria controllata contro le attuali tendenze al ristagno burocratico. Tale nuovo soffio dinamico può provenire dall’incontro su un piano di discussione e di studio di elementi rappresentanti gli interessi non omogenei e non legati ad un medesimo campo di attività burocratica. Il consiglio o comitato misto di cui si parla avrebbe il compito di sovrintendere all’amministrazione delle ricerche e dei tentativi nell’ambito dell’apparato controllato, inteso ad applicare i principi produttivistici alle aziende dipendenti ed eventualmente ad allargare tale attività consultiva e di cooperazione tecnica anche ai livelli aziendali. «Con l’opera di tale consiglio o comitato misto, si dovrebbe delineare, dettagliatamente e con maggiore adesione alle reali possibilità dell’apparato, una politica industriale per il gruppo controllato dallo Stato; una provenienza, darebbe garanzia di sostanziale veridicità e di deciso impegno di perseguirla da parte dei
gruppi di interesse che hanno contribuito a formarla». Tali indicazioni, sia pure di massima, venivano ulteriormente dibattuti in un convegno di esperti, anch’esso promosso dalla nostra Confederazione. Da questo convegno uscì la seguente dichiarazione, anch’essa fatta pervenire al Governo: «Il convegno di studi dei problemi della riforma dell’IRI ha ribadito il fermo convincimento della Confederazione che l’IRI costituisce uno strumento fondamentale per lo sviluppo del nostro sistema economico e che deve operare come elemento di guida dell’apparato industriale e creditizio del paese. Alla luce di questa impostazione si pone la necessità dell’adeguamento della natura, delle funzioni e della conseguente struttura giuridica dell’istituto». La dichiarazione affermava poi: «Il convegno fissa nei seguenti punti le sue indicazioni: 1°) L’istituto deve realizzare la figura di imprenditore pubblico allo scopo di raggiungere un’equilibrata composizione dei fini sociali e dei fini economici. A questo scopo debbono far capo all’IRI tutte le aziende controllate dallo Stato che operano nei settori industriale e creditizio, ad esclusione di quelle (come le aziende autonome) che, per ragioni di funzionalità, costituiscono integrazione dei compiti dei rispettivi dicasteri. Di conseguenza occorrerà provvedere ad una netta differenziazione dei settori pubblico e privato dell’attività industriale, e concentrare la competenza dell’IRI su quei settori di base che sono essenziali ai suoi fini. 2°) Nella sua essenziale caratteristica di elemento pilota dello sviluppo dell’apparato produttivo, l’IRI deve essere lo strumento fondamentale del Governo per realizzare un’efficiente politica industriale, aperta alle innovazioni della tecnica, capaci di inserirsi validamente per modificare la struttura dei mercati, pronta ad accogliere le forme più progredite di politica del lavoro. «Sotto questo ultimo aspetto l’IRI deve contribuire a sostenere ed elevare il livello dell’occupazione; migliorare le capacità tecniche, professionali ed umane degli impiegati e delle maestranze; introdurre un sistema coordinato di relazioni umane; promuovere la partecipazione del lavoro ai vari aspetti della vita produttiva; realizzare la possibilità di una contrattazione collettiva autonoma; attuare forme di enumerazione atte a legare il guadagno dei lavoratori all’efficienza dell’azienda; costituire al livello di gruppo comitati consultivi composti da rappresentanti delle organizzazioni sindacali atte a realizzare la cooperazione necessaria in attività di questo particolare tipo. 3°) La struttura dell’istituto deve trovare il suo vertice nella responsabilità politica del ministro dell’industria, in quanto l’IRI deve rispondere alle esigenze di una politica industriale unitaria. Il parlamento deve essere investito del controllo delle risultanze della gestione amministrativa e degli indirizzi generali di politica economica dell’istituto» (a coloro che temono la presenza del Parlamento ricorderò che questo già avviene per altri enti, come ad esempio la Cassa depositi e prestiti). «L’istituto deve accentrare, allo scopo di dare unicità di indirizzo, le politiche degli investimenti sotto il profilo tecnico e finanziario, della produzione, del mercato per i rifornimenti e gli sbocchi, del lavoro. Deve inoltre assicurare snellezza nel funzionamento, prontezza nelle decisioni, chiarezza nelle responsabilità e nella delimitazione delle competenze sul piano aziendale».
Ho voluto leggervi, onorevoli colleghi, questi due documenti anche per fare giustizia delle varie insinuazioni fatte in questi giorni da più parti, secondo le quali noi saremmo arrivati buoni ultimi nel sollevare il problema, o addirittura ci saremmo fatti trascinare a rimorchio da altre posizioni politiche del Parlamento. È a questo punto che da settori evidentemente interessati insorgono strane polemiche. Sentite, onorevoli colleghi, per esempio, questo commento al testo letterale della nostra mozione: «Da questo programma parrebbe doversi dedurre che le aziende private sono più o meno delle anticaglie e che le aziende dell’IRI dovrebbero essere invece il modello della tecnica dei rapporti aziendali. Si parla di relazioni umane, quasi che nelle altre aziende esistessero relazioni inumane». È troppo evidente l’assurdo di queste deduzioni. Nessuno contesta che nel settore privato esistano aziende modello, per quanto su questo argomento è preferibile non fermarsi nel dettaglio. Ma il problema, prima che derivare da buona o cattiva volontà degli uomini, insorge dalla diversa natura del fatto produttivo in quanto promosso dall’iniziativa privata piuttosto che dallo Stato. Noi chiediamo, in sostanza, di valutare la radicale non omogeneità tra interessi propri dell’economia privata industriale, che si fonda sul profitto di impresa con tutte le sue particolari e le sue proprie implicazioni sul piano della politica economica, e gli interessi propri delle aziende, che dovrebbero tendere a realizzare finalità di pubblico interesse. Qui non si tratta di presentare l’imprenditore privato come uno schiavista o come un essere antiumano quanto di considerare come sia nella natura delle cose in una economia puramente capitalistica, ispirata cioè esclusivamente al maggior profitto privato, che l’imprenditore difenda ciò che ritiene essere suo, fino a non avere esitazione alcuna a scegliere il suo interesse di fronte all’interesse collettivo. E chi oserebbe affermare che eguale massima deve guidare l’impresa che vive ed opera con il denaro dello Stato, nell’interesse dello Stato? Le finalità e i soggetti diversi che assicurano i due tipi di impresa non dovrebbero lasciare dubbi sulle profonde, radicali, naturali possibilità di scelta diverse fra i due gruppi. E pertanto nasce qui l’incompatibilità di coesistenza degli stessi due gruppi in un unico organismo sindacale. Si dice: lo Stato imprenditore non può avere una condotta diversa dal privato imprenditore. Vi sono regole tecniche ed economiche che entrambi devono osservare se non vogliono perdere. E chi lo contesta? Nei suoi termini generali, l’affermazione è accolta anche da noi, tanto vero che la nostra mozione afferma esplicitamente che un nuovo indirizzo dovrà realizzarsi nel quadro di una sana gestione economica. Ma, ritorno a dire, il problema non è questo; è invece quello dei fini da conseguire, e spero non si vorranno identificare i fini dello Stato imprenditore con quelli del privato imprenditore. Nel quadro della organizzazione dell’IRI si pone oltretutto il problema di superare la figura dello Stato come semplice partecipante finanziario. La polemica in questi giorni si è ampiamente occupata di questo aspetto, manifestamente alla ricerca di espedienti pseudo-tecnici per influenzare la pubblica opinione. La necessità che noi sosteniamo di superare la formula del puro e semplice partecipazionismo finanziario non viene invocata allo scopo di risolvere l’astratto problema giuridico della possibilità di omogeneizzare due volontà orientate a fini
diversi. Dietro queste necessità non vi è una motivazione di stilistica giuridica. Ancora una volta noi siamo guidati più che da obiettivi teorici da motivi pratici. Di fronte alla constatata generale non soddisfazione dell’aumento dell’IRI e volendone ricercare le cause, noi ci domandiamo: la coesistenza di due volontà diverse ha giovato o non ha giovato all’IRI? Per quanto ci riguarda rispondiamo: se vi sono casi per i quali si può rispondere di sì, in assai più numerosi casi si deve rispondere di no. Lo denunciano in modo evidente le disastrose condizioni di alcuni notevoli complessi, che malgrado l’azione di ridimensionamento e di riammodernamento più volte intrapresa, non hanno raggiunto il loro invocato equilibrio. È qui che nasce nel cittadino questa spontanea domanda di fronte all’insuccesso: chi è il responsabile? Per quanto oculata sia la ricerca, è del tutto impossibile nella strutturazione attuale stabilire quale dei due soggetti, il privato od il pubblico, possa essere gravato di questa responsabilità. Ma v’è un motivo anche più valido dietro la nostra richiesta di superare il partecipazionismo: quello di determinare attraverso una chiara ed evidente attribuzione di responsabilità il ritorno quanto più sollecito delle aziende malate, che sono tuttora molte, a condizioni di efficienza produttiva e di vitalità nel mercato. Si dice che l’IRI non sempre ha partecipazione di maggioranza e di controllo e che accanto alle aziende distinte per settore produttivo, metalmeccaniche e siderurgiche, nelle quali è in maggioranza, vi sono notevoli gruppi di aziende, settore per settore, completamente in mano all’iniziativa privata. Non v’è dubbio che questo porta ai delicati problemi di sapere quale sarà la condotta dell’IRI nelle aziende a partecipazione maggioritaria e quali tipi di rapporti si verrebbero a creare tra gruppi di aziende appartenenti allo stesso settore produttivo, parte delle quali verrebbero ad essere guidate dall’iniziativa pubblica, mentre il resto rimarrebbe sotto la guida dell’iniziativa privata. Ma il problema della riorganizzazione dell’IRI va risolto, a nostro parere, in funzione dei singoli aspetti delle partecipazioni statali nelle aziende: si tratterà di sapere, una buona volta, dove è bene che si concreti la presenza e, quindi, la responsabilità della pubblica iniziativa, e dove no, vagliando le scelte nei riguardi delle aziende dove l’IRI è direttamente o indirettamente presente con controllo o senza. Gli obiettori di questi giorni, nella loro insistenza ad opporsi ad ogni forma di innovazione, sembrano siano fautori dello status quo; vale a dire essi pensano che lo Stato debba essere presente ovunque, qualunque sia la dimensione dell’azienda e qualunque sia la natura dell’intervento statale, sia esso di pronto soccorso o meno. Ecco un errore di fondo. È troppo evidente che, nel tentativo di innovazione che noi pensiamo debba farsi, va risolto anche un problema di scelta. Saranno pochi o tanti i settori dove lo Stato deve essere presente, ma è evidente che deve esservi una scelta consapevole, già disposta a lasciare le posizioni dove è perfettamente inutile, se non dannoso, che lo Stato sia presente. Ma gli obiettori tentano un’altra strada. Tenendo evidentemente conto della sensibilizzazione della pubblica opinione italiana, si chiedono che cosa accadrà
quando lo Stato abbia, attraverso un organismo proprio, la direzione delle aziende. E che cosa accadrà altresì, essi si chiedono, delle aziende in mano all’iniziativa privata? Essi dicono: sarà il sopruso statale di tutti i giorni. Per quanto ci riguarda, rispondiamo subito che, circa i rapporti che devono intercorrere tra la struttura produttiva delle aziende di Stato e quella delle aziende guidate dall’iniziativa privata, esistono già sufficienti garanzie nell’ordinamento giuridico-amministrativo attuale. Aggiungo essere ovvio che l’iniziativa privata dovrà vigilare ed eventualmente reagire se si trovasse soggetta a presunti soprusi da parte dello Stato. Né manca, in questa strana polemica, il solito appunto. È stato citato poc’anzi un quotidiano romano che ha dedicato una insolita attenzione (quattro articoli di fondo in quindici giorni) a cotesto problema, né credo che sia il solo. Si tratta di quel quotidiano che ama sovente assidersi su posizioni saccenti ed affermare, come ha affermato in questa occasione, che la politica mette sotto i piedi la tecnica e la economia. Si vorrebbe in tal modo sentenziare che l’obiettivo posto dalle nostre mozioni è puramente politico, per non dire retorico, e pertanto privo di concrete possibilità di realizzazione. Mi si consenta di smentire tale affrettato giudizio, cercando di suggerire quali sono, a nostro parere, le condizioni necessarie per realizzare un programma economico di sviluppo e di utilizzazione ai fini pubblici dell’IRI È evidente che v’è una premessa. Occorre anzitutto che lo Stato abbia una sua chiara politica economica. Lo Stato è oggi impegnato in uno sforzo di applicazione di una politica di sviluppo economico e, in particolare, delle aree depresse meridionali, sforzo che – mi si consenta – deve essere intensificato, ma più decisamente programmato. Le produzioni, specialmente di beni strumentali di base, non devono essere soltanto affidate all’iniziativa privata, che può talvolta non trovare immediata remuneratività, soprattutto di fronte alle ristrette condizioni di mercato, ma devono poter essere, in determinate circostanze, programmate in una più ampia visione dell’interesse sociale del paese. L’IRI costituisce, in tali circostanze, un prezioso strumento adatto per realizzare da parte dello Stato investimenti produttivi in senso sociale. Così in casi opposti. Può cioè presentarsi la necessità di intensificare la produzione in settori di largo interesse sociale e a costi possibili. E non dirò certo una novità, se nel nostro clima va considerata a fine sociale ogni iniziativa destinata ad avviare produzioni che consentano il più largo impiego di mano d’opera. Anche in simili circostanze, deve lo Stato poter intervenire per un adeguato avvio di attività produttive. Mi si consenta, a questo proposito, a puro titolo di esempio, di ricordare che cosa è avvenuto nel settore cementiero. Nel dopoguerra il gruppo cementiero si è largamente preoccupato di realizzare il massimo profitto, senza tener conto né della situazione sociale né dell’estrema necessità di favorire coi più bassi prezzi la costruzione e l’incremento di nuove abitazioni con conseguente più vasto impiego di mano d’opera. Questo poteva evidentemente essere un settore dove sarebbe stato possibile perseguire ad iniziativa dello Stato finalità sociali. Naturalmente, riconosciamo, ha da essere affrontato il coordinamento tecnico-finanziario in funzione delle
necessità collettive, il che vuol dire che debbono essere poste in modo unitario, onorevole ministro dell’industria, le politiche aziendali sul piano finanziario degli approvvigionamenti, della produzione, degli sbocchi di mercato, del lavoro. Non so se i dirigenti dell’IRI, che hanno ricevuto in questi giorni un autorevole elogio, possono assicurarci di aver uniformato la loro azione a questo minimo di unicità di direzione che noi invochiamo. Questo significa che, oltre il piano istituzionale, che risolve il problema dell’attribuzione di responsabilità, e che consente allo Stato, che è chiamato a dirigere, un’azione operativa completa e unitaria, v’è il piano funzionale, nel cui quadro trova posto tutta l’azione da svolgere per incrementare l’efficienza delle aziende del gruppo, per incrementare i consumi e soprattutto per affiancare l’azione di sviluppo in corso nelle aree depresse. È di tutta evidenza come una politica accentrata settore per settore degli approvvigionamenti possa consentire riduzioni di costo; come una politica coordinata di ricerche di mercato possa consentire l’apprezzamento corretto del volume della domanda stessa. Per questo ordine di considerazioni, appare logico concludere che l’unitarietà di indirizzo e di coordinamento di tutte le politiche aziendali è il mezzo indispensabile sia a determinare la ripresa delle aziende, sia ad assolvere le esigenze dei programmi di sviluppo predisposti a favore della collettività. E, infine, vi è l’urgenza di indicare all’apparato produttivo del paese, che resta l’obiettivo di fondo, ivi compreso quello privato, quali sono le strade moderne da percorrere se si vogliono veramente conseguire gli auspicati obiettivi di sviluppo. Noi auspichiamo vivamente che l’IRI si organizzi su nuove basi, che, pur non corrispondendo sul piano economico in tutto ai criteri della gestione privata, favoriscano un costante aumento della produttività. È questa la sede ove l’aumento della produttività e la diminuzione dei costi devono essere conseguiti, non perché producono privati profitti, ma perché producono un vantaggio collettivo economico e sociale. Qui ci si ricongiunge al problema di fondo che regge la nostra mozione. Come realizzare l’aumento della produttività nelle aziende IRI, dove non si mira al profitto, che è per le imprese private il massimo incentivo alla diminuzione dei costi, dove non è il proprietario e l’interesse privato a badare ai propri affari, dove non è, come si dice, l’occhio del padrone che ingrassa il cavallo? Questo è indubbiamente un problema da affrontare e da studiare profondamente. Noi crediamo che l’aumento della produttività e la diminuzione dei costi in questa sede debbano essere ricercati con mezzi nuovi e anche diversi da quelli conformi alla logica dell’impresa privata. Ebbene, noi crediamo che un positivo e importantissimo contributo alla efficienza delle aziende IRI possa esser dato da un nuovo tipo di rapporti di lavoro. Questo è il punto. I lavoratori vogliono l’autonomia sindacale dell’IRI per migliorare l’efficienza produttiva dell’IRI e non per realizzare comode conquiste sindacali che potrebbero rendere ancor più critica la situazione delle aziende IRI. L’obiettivo di un costante aumento della produttività si può realizzare nell’IRI facendo più attivamente partecipare i lavoratori ai compiti tecnici e alle responsabilità della produzione, adeguando costantemente l’attività contrattuale
all’andamento della produttività e dell’efficienza economica, facendo della stessa attività contrattuale un costante stimolo al progresso aziendale e alla diminuzione dei costi. Un nuovo clima di rapporti umani e sociali è indubbiamente più difficile da realizzare nelle imprese gestite secondo criteri di gestione privata, poiché l’assunzione di responsabilità e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’impresa è temuta dal privato imprenditore come se creasse la premessa ad una pretesa dei lavoratori alla rideterminazione delle prerogative imprenditoriali. La cecità di certi nostri imprenditori li porta a sacrificare il vantaggio che potrebbe recare alla produttività delle loro aziende una partecipazione dei lavoratori dipendenti alla gestione, per tema dello svantaggio derivante da una presunta limitazione dei loro poteri tradizionali. Ma questi timori non devono avere più consistenza per l’industria di Stato. Qui non vi è un qualsiasi interesse privato più o meno tradizionalmente concepito da salvaguardare; qui si possono chiamare i lavoratori a partecipare alle responsabilità della gestione a condizione – ben si intende e ci troviamo d’accordo – che questo non si traduca in un peggioramento, bensì in un miglioramento dell’efficienza produttiva. Ebbene, per realizzare tutto questo, per porre l’IRI alla logica condizione di operare a vantaggio della collettività come valido strumento della politica economica dello Stato, sembra necessario che l’IRI si modifichi strutturalmente e che in primo luogo attui in tutte le aziende che controlla una nuova politica del lavoro, e affinché questa nuova politica del lavoro si attui, i presentatori della mozione ritengono che il primo elemento sia l’autonomia sindacale dell’IRI, dare cioè all’IRI la possibilità di autonomia contrattuale, svincolata dalle scelte del settore privato, che, come ho detto è ispirato a motivi e a preoccupazioni proprie dell’interesse pubblico. All’inizio di questa mia illustrazione ho fatto riferimento (e come si poteva non farlo?) all’abbondate letteratura giornalistica fiorita in queste settimane attorno all’argomento. Devo rilevare il fatto curioso che, nella maggior parte dei casi, è prevalsa chiaramente la preoccupazione non tanto di sapere come si può e si deve fare per dare un po’ d’ordine in un delicato e vasto settore dell’apparato produttivo, quanto quella di presentare a tinte fosche le conseguenze del distacco delle aziende IRI dalla Confindustria. Si è veramente e scioccamente drammatizzato mostrando di volere ignorare che, dopo tutto, le aziende IRI nella vasta famiglia della Confindustria occupano una alquanto piccola porzione: presso a poco il 4 per cento. Si è voluto artatamente far credere che l’operazione è proposta esclusivamente non soltanto come atto di ostilità verso la Confindustria e l’iniziativa privata, ma addirittura per gettare nelle fauci rapaci dei sindacati le aziende IRI. Mi si consenta di fare giustizia di questo strano e troppo interessato modo di esaminare i problemi che pure sono di un certo rilievo nella vita del paese. È stato scritto da un ben noto giornale economico milanese: «Mentre i sindacalisti democristiani si trastullano con ingenue trovate per quello che riguarda l’attività futura dell’IRI e lo sganciamento delle aziende raggruppate nel suddetto istituto della Confindustria, il comitato centrale del partito comunista italiano ha preso in discussione lo stesso problema con una relazione di Roveda. Consigliamo –
continua il quotidiano economico milanese – quelli che in questi giorni hanno beatamente dissertato sul problema dello sganciamento di leggersi il testo pubblicato dal quotidiano comunista, ne trarranno probabilmente qualche illuminazione per cambiare idea, se proprio non sono accecati da sentimenti di parte». È vero, onorevole Lizzadri, che pochi giorni dopo lo stesso quotidiano economico milanese superava ogni onesto limite di coerenza e giungeva ad invitare i deputati a votare, la mozione Lizzadri. Lizzadri. Dovreste farlo. Pastore. Sentite, infatti, questo brano comparso su 24 Ore del 25 luglio: «Sarebbe perciò infinitamente più serio per la democrazia cristiana votare su questo argomento la mozione Lizzadri, la quale sobriamente (sono le parole del quotidiano milanese) si limita a postulare il famoso sganciamento». È troppo evidente, onorevoli colleghi, in ogni caso il ridicolo tentativo di ripresentare i sindacalisti democratici, e magari tutto un settore della democrazia cristiana, in funzione di mosche cocchiere del comunismo. La verità è che per certi ambienti la democrazia vale solo in quanto si limita ad essere un puro e semplice movimento anticomunista; quando non si giunge a far discendere il titolo di validità democratica esclusivamente dal modo e la natura con cui si tutelano egoistici privilegi e assurde posizioni economiche. Non appena la democrazia si esprime per quella che è e deve essere, spirito di rinnovamento, riscossa contro mentalità, bardature, sistemi non conformi all ’ansia di giustizia e di equilibrio sociale del nostro tempo, allora, senza più alcun ritegno, si getta la maschera, si pesta nel mucchio, sperando di ottenere qualche risultato. È veramente uno strano modo di essere presenti nella battaglia per la difesa della libertà e della democrazia. Non sarà fuori luogo ricordare al citato editorialista che è bensì vero che il partito comunista trova facili compiacenze alla sua opera di penetrazione, ma ciò non avviene certo per la complicità dei militanti democratici, siano essi del settore sindacale che di quello politico; ciò avviene, invece, più spesso per l’attitudine di ambienti molto più vicini al giornale milanese che a noi. Sono note le statistiche di certi finanziamenti di attività eversive che, se anche sono state fatte a titolo di comoda polizza di assicurazione per il domani, non mancano, per questo di essere dei veri e propri atti di viltà e di tradimento degli interessi del Paese. ( Applausi al centro - Interruzione del deputato Sala). Senza dire che, se si dovessero soppesare i rapporti che corrono tra i successi conseguiti dal partito comunista in questi anni, rapporti di causa ad effetto, e le attitudini spesso cieche, testarde, conservatrici se non reazionarie di certi gruppi economici del nostro Paese, se tale valutazione dovrebbe essere obiettivamente fatta, il partito comunista potrebbe riservare a quei ceti una sezione onoraria della propria organizzazione. Ma un’altra curiosa e strabiliante teoria è apparsa su certa stampa. In buona sostanza, si spargono anticipate lacrime perché il proposto distacco obbligherebbe il mondo imprenditoriale a creare doppioni nei loro servizi sindacali. Proprio così è stato scritto. In sostanza, è chiara una preoccupazione, che prima di essere
rivolta al Paese, di natura economico-finanziaria, è di natura politico-sindacale. Si vuole ad ogni costo tenere unito il mondo imprenditoriale. È la classe che, per un verso o per un altro, si fa sentire e cerca di imporre i suoi interessi particolari. E fin qui niente da dire, se l’azione è condotta dagli interessati. Ma onorevoli colleghi, può il Parlamento far sue preoccupazioni del genere? Del resto, quale è la situazione organizzativa-sindacale tra i lavoratori? Quando mai è stata portata all’onore del pubblico dibattito e divenuta oggetto di preoccupazione fin da interessare il Parlamento, l’esistente pluralità di organismi sindacali fra i lavoratori? Mi si vorrà dare atto che è molto più difficile ai lavoratori fronteggiare i doppioni dei servizi sindacali. Devo, d’altra parte, ricordare che sono di questi tempi certi orientamenti di alcune grandi aziende tendenti ad indebolire ulteriormente il campo dei lavoratori col promuovere, favorire, aiutare il sorgere di sindacati cosiddetti aziendali, ma che potrebbero essere chiamati ben diversamente. Evidentemente qui non si temono i doppioni sindacali, ma si cercano. Concludendo, fatta giustizia delle polemiche per gran parte non pertinenti ai veri obiettivi che la nostra mozione si propone, riconfermato che i presentatori e, tra essi, chi vi parla intendono con le loro osservazioni e proposte recare un serio contributo alla soluzione di un problema che da anni è sul tappeto, onorevoli colleghi, vi invito ad esprimere il vostro voto favorevole alla nostra mozione ed invito il Governo a farne proprie le conclusioni ( vivi applausi al centro – Congratulazioni).
SUL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ECONOMIA E D E L L AV O R O Inter vento alla Camera dei Deputati, seduta del 24 gennaio 1955, in Pastore. Discorsi Parlamentari (1947-1968), Camera dei Deputati, Roma, 2012, pp. 92-96.
Presidente. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione generale. Passiamo agli ordini del giorno non ancora svolti. Il primo è quello dell’onorevole Pastore, firmato anche dai deputati Scalia, Buttè, Biaggi, Martoni, Calvi, Driussi, Colleoni, Cavallari Nerino, Galli, Zanibelli e Pavan: «La Camera, considerato che la legge sulla istruzione del Consiglio nazionale dell ’economia e del lavoro deriva da una esplicita norma della Costituzione; rilevato che la Costituzione su cui si fonda la Repubblica e nella lettera e nello spirito chiaramente ispirata ai principi di una consapevole democrazia politica e sociale (vedi articolo 1 della Costituzione); affermato che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, riconoscendo alle forze del lavoro un esplicito diritto di presenza nella formulazione degli indirizzi economici e sociali che devono guidare il paese, è da ritenersi uno dei fondamentali pilastri su cui ci fonda la nuova democrazia italiana: afferma essere indispensabile assegnare al costituendo Consiglio titoli di più marcato prestigio, primo tra i quali il diritto di essere obbligatoriamente consultato su tutti i provvedimenti legislativi che investono la materia cui fa esplicitamente riferimento la Costituzione». L’onorevole Pastore ha facoltà di svolgerlo. Pastore. Il dibattito svolto su questo disegno di legge mi pare possa annoverarsi fra quelli più elevati che si siano avuti in quest’aula. Mi piace rilevare, come sintomo positivo, che ciò è avvenuto su un argomento di stretto interesse per le forze del lavoro e soprattutto è avvenuto per merito di gran parte dei sindacalisti membri del Parlamento. Avendo largamente partecipato ai dibattiti avutisi in sede di Commissione, non ho preso in aula la parola durante la discussione generale; mi sono invece riservato di presentare, con altri colleghi, l’ordine del giorno che è dinanzi a voi, convinto della essenzialità della questione trattata: mi riferisco alla obbligatorietà della consultazione del Consiglio da parte del Governo e delle Camere.
Dinanzi al testo della legge così come è stato approvato dalla Commissione, mi sono chiesto se la Camera intende limitarsi a compiere un fatto formale o se invece vuole soddisfare il desiderio delle categorie produttrici e in primo piano dei lavoratori, desiderosi di partecipare in forma degna allo sforzo ricostruttore del paese. Mi si consenta di rilevare come questa legge sia in dipendenza di una esplicita norma della Costituzione, l’articolo 99; e vorrei aggiungere che approvandola la Camera confermerà lo sforzo rinnovatore promosso dalla giovane democrazia del nostro paese. Questa nostra democrazia non ha avuto ancora la possibilità di dare prove concrete della sua sensibilità sociale, della sua ferma volontà di realizzare dei traguardi sociali. Credo che questa legge debba vedersi come una manifestazione di questa volontà. Ora mi chiedo: senza sancire l’obbligo per il Governo e le Camere di consultare il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro sulle materie previste dalla stessa Costituzione, possiamo considerare come raggiunti gli obiettivi sostanziali che la Costituzione stessa si è proposta? La mia risposta e quella dei miei colleghi è in proposito del tutto negativa. Vorrei dire che con l’aver ridotto la possibilità della consultazione alla discrezione delle Camere e del Governo si è praticamente annullato ogni serio contenuto dell’istituto che andiamo a deliberare. Mi si consenta di riferirmi a un caso limite: così come previsto dall’attuale testo, il rapporto fra le Camere e il Governo, da una parte, e il Consiglio, dall’altra, potrebbe darsi che il Consiglio non fosse mai chiamato a dare pareri, o fosse chiamato raramente, o fosse chiamato per questioni di nessuna importanza. Mi domando pertanto se, nel momento in cui stiamo per dare attuazione a un precetto costituzionale, sia serio svuotare in tal modo di ogni reale contenuto il Consiglio. Senza drammatizzare, mi domando se per caso noi andiamo a compiere un atto di non rispetto della Costituzione. L’onorevole relatore, illustrandoci il testo approvato dalla Commissione, ha fatto largo ricorso alla sua squisita competenza ed io ho il piacere di trarre dalla sua stessa relazione qualche elemento a confronto della mia tesi. Il relatore nell’esaltare il promuovendo istituto, lo colloca fra gli organi ausiliari (queste sono parole del relatore) accanto ai tradizionali istituti come la Corte dei Conti e il Consiglio di Stato. Nulla da eccepire sull’affermazione. Ma io devo domandare all’onorevole Bucciarelli Ducci se, riferendosi a due istituti come la Corte dei Conti e il Consiglio di Stato, il cui peso nell’ordinamento dello Stato è noto a tutti, non riveli, proprio sul piano della comparazione, l’assoluta pochezza o lo scarso prestigio che avrebbe il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro se venisse costituito secondo il testo presentato. La costituzione del Consiglio dell’economia e del lavoro, non vi è dubbio, è un atto che secondo la Costituzione riconosce alle forze del lavoro il diritto di presenza nella formulazione degli indirizzi di politica economica e sociale. Ma mi consenta collega Bucciarelli di chiedere: senza la consultazione obbligatoria è possibile ritenere raggiunto questo fondamentale traguardo? Onorevoli colleghi, occorre tener presente che l’articolo 99 della Costituzione,
non ancora tradotto in legge, costituisce sempre una vivida speranza per quanti sognano una operante democrazia sociale nel nostro paese; il che non sarebbe più se venisse approvata una legge che svuota di contenuto il precetto costituzionale. In tal caso i più delusi sarebbero certamente i lavoratori. I lavoratori italiano avvertono l’ansia di inserirsi tra le forze cui è affidata la direzione dello Stato. Aggiungerò che questa è un’ansia non soltanto del tempo nostro, ma di tutti i tempi: è storia ricca di vicende gloriose e dolorose insieme. I lavoratori di ogni tempo e mediante le loro lotte sindacali e mediante una attiva loro presenza nelle competizioni politiche, hanno sempre chiaramente puntato ad un luminoso obiettivo: superare essi stessi, e far superare alla società nella quale operano, la convinzione che la classe operaia è classe minore, in ogni caso con titoli inferiori ad altre classi. Essi, i lavoratori, sono stati in ogni tempo protagonisti di questa volontà di ascesa, di rivoluzionamento di termini; e non è esagerato dire che il loro è da decenni il dramma in attesa di concludersi. È dramma in quanto alle loro aspirazioni si oppone tutto un sistema economico, un sistema che contrasta ogni forma di rinnovamento con tutti i mezzi, leciti ed illeciti. Ed è dramma quello che da decenni vivono i lavoratori, anche perché, accanto alle forze economiche del capitale che si sforzano di fermare il cammino della giustizia, si sono erette altre forze che mostrano chiaramente di voler deviare gli sforzi delle classi del lavoro dall’obiettivo giusto del loro riscatto morale ed economico, verso fini che non sono affatto di liberazione, ma che tendono soltanto a sostituire al dominio dei più forti settori economici il predominio di oligarchie politiche. In queste condizioni chi se non la democrazia deve sinceramente affiancare nella loro impari lotta le classi del lavoro? Io sono scettico sulle possibilità di successo della democrazia se essa non sa assumere posizioni nette e qualificate in questo conflitto. Vorrei dire: come è certo il crollo delle forze economiche che oggi resistono all’affermazione di questo diritto delle classi operaie, così sarebbe inevitabile nel tempo il crollo della democrazia se essa non avesse la capacità, la forza di porsi a fianco dei lavoratori. Orbene, onorevoli colleghi, questa legge offre un modo concreto per dimostrare la sensibilità e la modernità del mondo democratico. Non credo che noi siamo qui per fare una delle molte leggi: questa è una legge che ha tutto un suo significato, tutto un suo valore; ma il valore e il significato vi saranno se la legge non verrà meno ai fini che la stessa Costituzione si è proposti. Oltre tutto, ridurre l’atto odierno ad una pura manifestazione formale, ad una pura manifestazione burocratica sarebbe un errore formidabile. I colleghi conoscono più di me la sensibilità dei lavoratori. I lavoratori possono sembrare assenti, possono anche, assillati dai loro quotidiani problemi, apparire estranei alla soluzione di problemi di fondo come quello di cui parliamo, ma è soltanto apparenza; i lavoratori di fatto osservano e giudicano, e non si renderebbero conto del perché il Parlamento democratico e repubblicano si sia fatto sfuggire l’occasione per dare la chiara testimonianza della sua sensibilità sociale. E allora, onorevoli colleghi, occorre che noi diamo a questa legge il necessario prestigio, e a mio parere il sostituire alla consultazione facoltativa la consultazione obbligatoria è un mezzo per dare un
prestigio e un più serio contenuto alla legge stessa. Onorevoli colleghi, consentitemi di richiamare alla vostra attenzione ciò che di fatto già ebbe a deliberare la Commissione del Senato. Io ho sott’occhio l’articolo 6 del primitivo progetto presentato dal Governo nel 1949 all’altro ramo del Parlamento. Il primo comma dice: «il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro nell’ambito delle materie economiche e sociali dà (imperativo) parere…». Non credo che vi siano state delle modifiche nella caratterizzazione del Governo tali da sostituire a quell’indirizzo un altro indirizzo. Ma la Commissione del Senato che esaminò il progetto governativo fu ancora più esplicita. L’articolo 8 approvato dalla Commissione dice infatti: «Le Camere e il Governo hanno l’obbligo di chiedere il parere del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro sui progetti di legge e sui decreti che implichino direttive di politica economica e sociale di carattere generale e permanente e sui relativi regolamenti di esecuzione». Esplicito, dunque, è il parere espresso dalla Commissione del Senato, ed è noto che relatore, in quella circostanza, fu un collega la cui autorevolezza è fuori discussione; mi riferisco al senatore Paratore. Il senatore Paratore nel presentare la relazione scrisse: «La Commissione ha ritenuto opportuno di introdurre all’articolo 8 una disposizione che sancisce l’obbligo della consultazione del Consiglio per i progetti di legge e per i decreti che implichino direttive di politica economica e sociale di carattere generale e permanente, giudicando che senza di essa il Consiglio verrebbe ad essere svuotato di una delle sue fondamentali attribuzioni istituzionali». Io non voglio aggiungere altro; mi pare che il parere del senatore Paratore in questo campo possa tranquillizzare molti dei nostri colleghi. Va, dunque, affermato sulla scorta di questo nostro ordine del giorno che noi consideriamo essenziale per il raggiungimento dei fini che la legge si propone di introdurre tutte le modifiche che contribuiscono a rendere obbligatoria la consultazione da parte del Governo e del Parlamento del costituendo Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. ( Applausi al centro).
CLASSI NUOVE E SVILUPPO DEL MEZZOGIORNO Discorso al Convegno della CISL sulla politica meridionalistica, Napoli, 14-16 dicembre 1956, in G. Pastore, I lavoratori nello Stato, Vallecchi editore, Firenze, 1963, pp. 362-372.
Ci sono dei compiti ai quali è difficile sfuggire, anche quando, com’è il caso attuale, la persona alla quale incombe il dovere di parlare potrebbe benissimo rinunciare, per due ragioni: la prima è che non è mai una cosa molto gradita quella di dover parlare, la seconda è che questo convegno ha veramente assolto a tutti i suoi compiti, e si può dire che sembra del tutto superfluo aggiungere altre parole a quelle dette. D’altra parte ci sono delle parti, dei ruoli obbligati, a cui, dicevo, è difficile sfuggire. Comincerò con il ritenere di trovare il vostro consenso se affermo che le relazioni dei nostri tre relatori possono considerarsi senz’altro acquisite sul piano delle decisioni. Io non ho potuto ascoltare tutti gli interventi, ma in quelli ascoltati ho riscontrato larghi consensi per ciò che i relatori hanno detto. Ciò premesso, mi limiterò personalmente ad esporre alcune considerazioni di carattere generale e cercherò di dare qualche risposta alle richieste di chiarimento. Proprio per un compito che mi spetta, la risposta è soltanto per alcune questioni di carattere così generale che, forse, meritano anche una puntualizzazione.
I quadri meridionali Vorrei dirvi subito che se qualche dubbio esistesse sulla validità dell’azione intrapresa dalla Confederazione a favore del Mezzogiorno d’Italia, la riuscita di questo convegno è più che sufficiente per eliminare questi dubbi. La qualificazione quantitativa e qualitativa del convegno offre questa testimonianza; vi sono stati parecchi dei nostri ospiti, di settori non sindacali, che hanno voluto esprimerci questa loro sorpresa, questa manifesta soddisfazione per avere assistito ad un convegno sindacale così ricco di fermenti e così chiara dimostrazione di una maturità in atto e in parte raggiunta, nei quadri dirigenti della CISL nel Mezzogiorno d’Italia. Questo convegno è testimonianza della maturità, non soltanto dei quadri dirigenti della CISL nel Mezzogiorno, ma, direi, è la conferma di una maturità raggiunta da tutta la nostra organizzazione. E questa non è una affermazione ambiziosa, dopo il dibattito, dopo cioè che si è misurata la qualità, la capacità, dei dirigenti della CISL ad affrontare i problemi più delicati concernenti esattamente il processo di sviluppo. A me pare, che da questo nostro convegno, escano confermati tutti gli indirizzi essenziali del sindacato nuovo. Questo del «sindacato nuovo» poteva apparire uno slogan all’inizio, esplicitamente e implicitamente polemico nei confronti di una imperversante tradizione del sindacalismo del nostro paese. Questo convegno è un’altra clamorosa conferma della verità che non siamo più sul terreno degli slogan, ma siamo sul terreno di una vera e propria rivoluzione introdotta nella concezione e nei metodi sindacali. È stata la conferma di un sindacato responsabile, capace cioè di un profondo esame critico. Io, vi confesso, seguivo tra il sorpreso e il commosso le analisi che sono state portate qui, con tanta conoscenza di causa. Questo convegno ha effettuato un profondo esame critico, un vaglio severo delle istituzioni, dei provvedimenti, che sono apparsi in questi anni come la soluzione radicale di problemi secolari, quali la Cassa per il Mezzogiorno e la riforma agraria. E ciò è stato fatto con una severità di giudizi e nello stesso tempo con il limite posto dal vostro senso di responsabilità, e dalla vostra consapevolezza che critica e vaglio severo costituiscono sempre un apporto di elementi positivi. Nella relazione dell’amico Coppo, ulteriormente esplicitata nell’intervento di Scotti e di altri, si è denunciata la politica frammentaria e invocata l’istanza di unità degli elementi di sviluppo. Ciò sta a testimoniare, non solo della serietà, ma della convinzione che soltanto attraverso l’abbandono di una politica frammentaria, noi si riuscirà a raggiungere tutti gli obiettivi che questi provvedimenti tendono a realizzare. Ho sentito, ho avvertito, qualche leggero cedimento. No, nulla giustifica l’adozione di una linea di pressione che trasferisca, che faccia dei lavoratori degli strumenti eversivi, sia pure attraverso ad una facciata, che può presentarsi come facciata di natura sindacale! Nulla di positivo viene dalla disordinata manifestazione di piazza, nulla di positivo viene ai lavoratori da quelle forme cosiddette nuove di pressione, escogitate sul piano degli scioperi alla rovescia. Bisogna essere espliciti su questa materia; guai se, dinanzi ad
una realtà vera, quale di quella tracotanza, perversità, resistenza, di questo mondo padronale del Mezzogiorno d’Italia; guai se da ciò derivassimo una legittimità di un metodo e di un sindacato che noi abbiamo messo al bando soprattutto perché piuttosto che puntare alla soluzione dei problemi del Mezzogiorno, ha sempre puntato all’esasperazione del malcontento. Su questo punto non c’è da cedere in nessun modo. Se non vi crediamo mettiamo in gioco tutte le scelte che abbiamo fatto in ordine ai nostri metodi sindacali. Pomini ha posto un problema di costume sindacale; come ci comportiamo dinnanzi agli enti pubblici, statali e parastatali, ai quali praticamente lo Stato ha delegato certi ruoli e certe funzioni. La nostra presenza negli organismi e nelle attività per lo sviluppo economico, deve essere diretta o indiretta? Dobbiamo noi entrarvi ed agire dall’interno o rimanervi fuori, e agire magari con maggiore efficacia? Non c’è il pericolo, con tutta la buona volontà, di essere imbrigliati ed assumere anche formalmente responsabilità che non possiamo condividere? Penso che sia difficile, potersi esprimere in termini assoluti dinnanzi a questo quesito. Penso che mai come di fronte a posizioni di responsabilità di questa natura, deve valere la preparazione del sindacalista. Nella misura in cui abbiamo il dirigente sindacale conscio dei suoi doveri, consapevole del suo ruolo, il più spesso determinante, evidentemente noi possiamo partecipare, e con una posizione critica di pressione dal di fuori e con un’azione diretta e responsabile dal di dentro. Certo, quando si parla di ciò si ha dinanzi il non bello spettacolo di troppe nostre rappresentanze che una volta inserite nell’ambito di enti responsabili, dimenticano il loro ruolo e la loro funzione. È ovvio che la mia risposta vale nella misura in cui c ’è consapevolezza, senso di responsabilità e capacità di non tradire il mandato che si riceve dai lavoratori. Non dimenticate che laddove noi eleviamo critiche severe nei confronti dei pubblici poteri o degli enti che li rappresentano localmente, molto spesso le involuzioni sono determinate da una manifesta complicità degli stessi rappresentanti sindacali, che hanno dimenticato quella che era la loro funzione e quello che era il loro ruolo. Questo nostro convegno ha confermato inoltre che la caratteristica di sindacato autentico è strettamente collegata al titolo di sindacato nuovo, per il Mezzogiorno d’Italia. Questa qualificazione di sindacalismo autentico insorge dopo questa nostra prima presenza nel Mezzogiorno d’Italia, dalla manifesta volontà espressa dai lavoratori e dai primi dirigenti, di non voler più invocare poteri estranei nella soluzione dei loro problemi. Questo nostro convegno ha confermato queste esplicite volontà; apparse attraverso gli interventi di quasi tutti voi. Pensate, un convegno di sindacalisti del Mezzogiorno, nel quale non è risuonata una parola a favore di qualsiasi tipo di intervento dello Stato nel sindacato! Noi abbiamo sempre dovuto fronteggiare, tutte le volte che si realizzavano degli approcci o degli accostamenti con i nostri amici del Mezzogiorno, questa unanime invocazione alla legge sindacale. Non una parola, ieri ed oggi, in questa direzione; prova di manifesta coscienza sindacale, di manifesta maturità, che sta a darci delle grandi garanzie per il futuro della nostra azione in queste provincie. Un altro aspetto di questa autenticità del sindacato: la invocazione ai capi naturali. Il capo naturale ha da intendersi, a mio modesto parere, almeno sotto due
aspetti: è il mondo operaio, è il mondo contadino, che si elegge i suoi capi; visto geograficamente è il Mezzogiorno d’Italia, che trae da sé stesso i suoi capi. Questo è stato l’orientamento fondamentale della nostra politica organizzativa anche laddove abbiamo fatto ricorso a una utilizzazione di amici del Nord nell’ambio delle provincie del Sud. È chiarissima la volontà, questi amici del Nord devono considerarsi imprestati fino al momento in cui avremo risolto radicalmente il problema di una classe sindacale dirigente del Mezzogiorno. Del resto la scuola di Firenze ha due istituzioni tradizionali: la scuola superiore o annuale, e la scuola riservata ai sindacalisti del Mezzogiorno. Voi conoscete, perché gran parte di voi vi hanno partecipato, i metodi ivi adottati per portare al livello della scuola il contadino del più sperduto paesello delle province meridionali. La tesi dei capi naturali è già data per risolta da parte nostra in quanto è il cardine della politica sindacale che noi perseguiamo nel Mezzogiorno d’Italia. Inoltre il convegno ha dimostrato la nostra ferma volontà di fare del sindacato uno strumento valido nella difesa degli interessi dei lavoratori. È estremamente significativo che noi riaffermiamo questa nostra volontà, proprio perché abbiamo abbandonato a tempo debito chi dava chiare prove di incapacità sul terreno della validità sindacale. Ciò è apparso manifesto vorrei dire in ogni intervento, sia che costituisse un apporto di elementi statistici ed economici, sia che affrontasse i problemi di lotta sindacale. In nessuno degli interventi è mancata questa ansia. Nessuno è venuto qui a fare sfoggio di semplici conoscenze tecniche o statistiche, tutti hanno dato la chiara dimostrazione che semmai la conoscenza tecnicostatistica ed economica non era che un apporto per la realizzazione di quest’ansia che si esprime in questa intransigente sensibilità di natura sindacale. È stata posta l’istanza di una lotta senza quartiere alle cause della arretratezza del Mezzogiorno. Oggi i partiti democratici non sono secondi a nessuno nel denunciare tra le cause della arretratezza sociale del Mezzogiorno, il clientelismo, il paternalismo; tuttavia non solo nessuno di questi partiti provvede a riscattare completamente il proletariato da questa soggezione, ma il più spesso, contro la stessa volontà dei dirigenti centrali, gli stessi partiti diventano appannaggio di coloro che han costituito il dominio fino a ieri della situazione sociale ed economica del Mezzogiorno. Il sindacato punti decisamente ad allontanare da sé ogni residuo di clientelismo, di intrallazzo, di paternalismo. Non basta limitarsi ad invocare che siano combattuti questi tre aspetti negativi della vita meridionale, ma lo stesso sindacato deve avere la forza di respingerli, proprio perché tra le vecchie armi assunte dalle classi dirigenti del Mezzogiorno, c’è quella del circuimento del sindacato prima per ostacolarne lo sviluppo e poi farne addirittura uno strumento di dominio, a danno dei lavoratori. Chiara dunque la volontà di questo convegno, e vorrei dirvi, che queste sottolineature hanno evidentemente scopi espliciti: bisogna tirarne fuori per ciascuno le conseguenze nell’ambito delle proprie province. E quando la Confederazione è portata controvoglia, a intervenire con provvedimenti radicali, nove volte su dieci la ragione sta qui, che il sindacato, che l’Unione, che il dirigente, è scivolato su questo terreno di accettazione, di formule clientelistiche, di intrallazzo, di paternalismo, sotto la spinta sia dei settori economici conservatori e reazionari, sia della volontà di dominio dei singoli partiti.
Non faremo la CISL nel Mezzogiorno se non avremo questa forza, questa capacità di carattere, di essere cioè conseguenti e coerenti coi principî statuari della nostra Confederazione. Naturalmente questo non significa affatto che è necessario andare in provincia con la durlindana, puntata contro tutti i vari poteri costituiti. Noi riconosciamo che ci sono motivi di opportunità, noi riconosciamo che soltanto nella misura in cui ci manteniamo una certa possibilità d’azione riusciamo a penetrare nel mondo dei lavoratori, e pertanto, quando invochiamo questa capacità autonoma, ci riferiamo soprattutto ad una capacità autonoma sostanziale più che formale. Molte volte, troppe volte, si crede di salvaguardare l’autonomia del sindacato limitandoci a fare il muso duro a questi vari poteri, quando poi presentandosi l’occasione si cede sul piano sostanziale. È stata posta l’istanza di una più rapida formazione democratica dei lavoratori, e dall’amico Cruciani, con una leggera sfumatura di ingenuità, di formazione degli altri gruppi sociali. Tuttavia una distinzione è necessaria. Corre troppo sulla bocca degli uomini che hanno compiti di vita pubblica di qualunque natura, questo discorso: formazione democratica del paese. La formazione democratica dei lavoratori è qualcosa di diverso dalla formazione democratica dei gruppi sociali dirigenti. Per questi la democrazia deve essere soprattutto metodo di rispetto dei diritti della persona, mentre per i lavoratori la formazione democratica è la strada per acquisire coscienza dei propri diritti e, pertanto, assunzione di intransigente posizione di forza nei confronti di altri gruppi sociali.
I contratti di lavoro Inoltre al convegno è stata posta una scelta molto seria: intervento legislativo, in forma alternativa, per i contratti, per l’obbligatorietà dei contratti o per stabilire i minimi salariali? Mi permetterò di dire che penso debba essere fuori discussione l’opportunità e la necessità della legge sull’obbligatorietà dei contratti di lavoro. Quindi, non porrei l’alternativa fra l’uno e l’altro, porrei questo nuovo problema: intervento legislativo anche per i minimi salariali. Sorge qui un problema strettamente collegato con la nostra politica salariale, che tiene conto della realtà economica di azienda o di settore e implicitamente accetta una distinzione di salari, una scala di salari. Proprio per questo, bisogna porre il limite al di sotto del quale non si va; però bisogna riconoscere che per una politica di questo genere, in una situazione tuttora di squilibrio economico del nostro Paese, ci vuole una verifica. Lasciate che la Confederazione affronti il problema e lo veda in tutti i suoi aspetti e questa istanza non sarà lasciata cadere nella misura che si presenterà possibile in coerenza con la propria politica salariale. E qui, ho finito le mie considerazioni. Ho già premesso che il convegno ha esercitato il suo diritto di critica in omaggio al metodo democratico. Le conclusioni di questo convegno registrano che l’azione governativa dà luogo ai seguenti rilievi: incertezza continua nella definizione delle finalità proprie di una politica di sviluppo economico nel nostro paese, tranne che in termini necessariamente ambigui e duplici, e adozione continua di decisioni singole non sempre collegabili ad un divisamento generale; evidente riluttanza, comunque, a definire delle finalità per quanto attiene alla eventuale gestione in proprio da parte dello Stato, di attività produttive, da esso, in quanto detentore delle proprietà, controllate. Questo punto mi fa ricordare una dichiarazione di un nostro uomo di governo di molti anni addietro che, dinnanzi al continuo prospettarsi del problema dell’IRI, per il quale domandavamo che fossero almeno definiti gli scopi e i ruoli, confessava che a molti anni dalla ripresa della vita democratica questa definizione non apparteneva ancora alla conoscenza degli stessi organi di governo.
Il ruolo del sindacato e la volontà politica Negli organi di governo vi è riluttanza a riconoscere al sindacato un effettivo e autonomo ruolo nel determinare le decisioni di politica generale e nel garantire la correttezza delle relative esecuzioni; riluttanza mai disgiunta da dichiarazioni di stima e di apprezzamento, ma dietro la quale permangono talvolta prevenzioni storiche nei riguardi dell’azione sindacale in quanto tale, e, comunque, quasi sempre, una presunzione del potere politico di essere la sola forza capace di parlare ed operare in termini di interesse generale rispetto alla quale, da parte delle forze della società, non si ha da svolgere altra funzione che quella di chiedere udienza e di esporre i desiderata. Questo è il ripetersi, amici, di una nostra denuncia fatta ormai in tutte le sedi, dalle sedi ufficiali a quelle dei convegni, e costituisce veramente motivo di amarezza, prima ancora che di sorpresa, questo tardo rendersi conto della democrazia italiana del ruolo che appartiene al sindacato. In questo voler confondere il sindacato e porlo al livello delle rappresentanze di altri gruppi sociali sta la incapacità, la carenza di una visione sociale realistica da parte del pubblico potere. Quando questa carenza appartiene ai partiti democratici – che si ammantano ogni giorno di socialità, che vantano e chiedono ai lavoratori il consenso – è questo che ci spaventa: una valutazione puramente economica, e talvolta quasi esclusivamente tecnica, del problema dello sviluppo visto nei termini, certamente obiettivi, degli investimenti e i loro effetti, ma non mai inquadrata nei suoi termini sociologici e culturali e raramente provvista di prospettiva politica. Perché noi, che crediamo nella democrazia politica, noi che crediamo nella funzionalità dei partiti politici, siamo spaventati al pensiero di questa inadeguatezza, di questo distanziarsi dalla realtà. Ciò infatti vuol dire privare i partiti politici della capacità di tutela delle classi più povere del paese. Bisogna qui denunciare quest’altro inspiegabile fenomeno: il tardare di una volontà politica in ordine allo «schema di sviluppo Vanoni». Quante volte ci chiediamo se si vuole scherzare col fuoco. Per molti anni è stata manifestata la generale insoddisfazione per la non soluzione di problemi strutturali, di malattie congenite nel nostro sistema economico. Ad un certo momento è apparso lo schema Vanoni, e s’è n’è fatto uno strumento di propaganda per arrestare la penetrazione estremista. Ma quale responsabilità farne soltanto uno strumento di propaganda, rifiutandosi poi di passare all’attuazione per il raggiungimento di quei fini che rendevano valida la propaganda! Il sindacato, dall’esame dei risultati fino a questo momento raggiunti al suo interno per il rafforzamento delle sue strutture organizzative nelle provincie meridionali e dall’approfondito esame della linea generale della sua azione per lo sviluppo economico e sociale del nostro paese, non può non trarne impegni per la continuazione di una tale politica, per una sua strumentazione tecnica, per un suo più costante legame con le decisioni di carattere generale di tutta l’organizzazione,
per una sua più curata volgarizzazione e diffusione all’interno del sindacati fra tutti i lavoratori, e, all’esterno, su un piano di relazioni pubbliche, fra tutti i gruppi sociali e presso tutti gli organi di opinione. In particolare il sindacato dovrà, ora che la volontà politica è chiarita e che alcune sperimentazioni sono state fatte, definire meglio, nelle sue strutture, il rapporto tra gli strumenti della politica generale e gli strumenti della politica sindacale specifica per il Mezzogiorno; dovrà specializzare meglio, nella unitarietà della politica dei quadri, il particolare tipo di informazione generale e tecnica dei quadri del Mezzogiorno, escludendo ogni criterio meccanico di intercambiabilità automatica; dovrà stabilire meglio il rapporto tra la politica salariale generale e i problemi derivanti da quella politica del Mezzogiorno, tenendo specialmente presenti i pericoli di un aggravarsi congiunturale, nella fase di transizione, di taluni squilibri e tensioni esistenti. Quanta ricchezza di responsabilità e quanta volontà di essere strumento di cooperazione! La politica di riforma, le istanze poste dalla necessità di elevare questo Mezzogiorno d’Italia pongono problemi di squilibrio, di natura tecnicoeconomica. Il sindacato dice: tenete conto di questo istituto, che nel momento in cui si fa portatore di determinate istanze, si crea elemento di distensione, ed elemento di superamento delle fasi congiunturali. Quale prova di volontà di cooperazione hanno mai trovata i pubblici poteri nell’ambito degli altri gruppi sociali? Non è forse vero che gli altri gruppi sociali hanno sempre condizionato dal punto di vista dell’interesse di parte, di gruppo, di classe, i pubblici poteri? Solo il sindacato democratico, la CISL, pone il problema con pieno disinteresse nell’ambito del suo gruppo per cooperare a far sì che si determini il superamento di questi pericolosissimi momenti congiunturali. Per quanto dipende dalla CISL niente sarà lasciato di intentato per un continuo miglioramento e rafforzamento dell’azione sindacale nel Mezzogiorno. Ma se grave è la responsabilità del sindacato, responsabilità alla quale esso non si sottrae, ma che esso anzi, nella fase di espansione della vita sindacale assume in pieno e senza riserve, non meno grandi sono le responsabilità presenti e imminenti del potere pubblico. Troppe delusioni abbiamo ricevuto fino a questo momento da parte dei pubblici poteri. Abbiamo costantemente invocato un giorno di cooperazione. È stata fatta richiesta soprattutto di buona fede. Troppa indifferenza nei confronti del sindacato è nascosta dietro certe manifestazioni di cortesia e di apprezzamento! Sono oramai troppi gli anni durante i quali ci siamo dibattuti in tale insoddisfacente situazione. Abbiamo pertanto il diritto di chiedere fino a quando possiamo condannare alla improduttività questa nostra volontà di cooperazione per colpa della indifferenza dei pubblici poteri. Questa cooperazione nei confronti dei pubblici poteri, la domandiamo in nome di quel contenuto che abbiamo dato al sindacato come istituto che si inserisce nel processo di sviluppo del nostro Paese. Nei confronti dei partiti politici, la invochiamo perché convinti che il sindacato è il pilastro della convivenza democratica. Nella misura in cui i pubblici poteri ed i partiti politici mostrano di volerci ad ogni costo ignorare, di non voler accogliere questa nostra volontà, cosa toccherà fare al sindacato democratico? Io pongo il quesito e non do la risposta.
Può darsi che la CISL un giorno debba darla una risposta, se non vorrà autocondannarsi all’immobilismo che non potrà non riversarsi sulla capacità di attrazione, di polarizzazione dei consensi dei lavoratori.
F I AT : I L S I G N I F I C AT O D I U N A V I T T O R I A . W I L AV O R AT O R I D I T O R I N O ! Articolo in «Conquiste del lavoro», 7 aprile 1956.
Da più parti, prima fra tutte quella socialcomunista, si attendevano i risultati della nuova consultazione elettorale FIAT, per trarne valutazioni e giudizi sul definitivo orientamento sindacale delle maestranze del più grande complesso industriale del nostro Paese. La più interessata in questa attesa era certamente la CGIL la quale, per aver lo scorso anno tentato di minimizzare con il solito banale ricorso alla calunnia, la grave sconfitta subita, disperatamente cercava in un auspicato diverso e miglior risultato di quest’anno, la convalida alle sue giustificazioni di allora. Ed anche per noi la nuova consultazione non sarebbe stata priva di significato, soprattutto perché coronava un anno di lavoro della Commissione Interna con maggioranza, per la prima volta dopo un decennio, affidata al sindacato democratico. E i risultati sono venuti, espliciti ed eloquenti ed anche se nel volume non si eguagliano ai precedenti, il che non poteva essere, nel valore, nel peso e quindi nel significato non sono da meno. Non sono da meno come riprova della sicuramente perduta fiducia nella CGIL, sol che si misurino la vastità, la profondità e la drasticità dei provvedimenti, rimasti evidentemente senza risultato, attuali negli ultimi dodici mesi a carico dell’apparato FIOM nazionale e locale e della stessa Camera del Lavoro di Torino, e per poco che si rifletta alla massiccia quanto inutile offensiva propagandistica sviluppata dal Partito Comunista in prossimità della scadenza elettorale in Torino e provincia e con notevole dispendio di mezzi e di energie. Né meno indicativo è da considerarsi il nuovo rilevante aumento di voti conseguito dai sindacati democratici. La vigilia elettorale dello scorso anno fu caratterizzata, per quanto ci riguardava, quasi esclusivamente dall’alternativa che il sindacato democratico rappresentava, sul piano delle prospettive future, nei confronti del sindacato social-comunista. Alla luce dell’evidente immobilismo in cui stagnavano FIOM e Camera del Lavoro e dei molti danni recati agli interessi dei lavoratori dalla mania di avventure politiche propria della CGIL, soprattutto la CISL indicava strade nuove all’azione sindacale, che nel caso particolare si concretizzavano, più che altrove, in una possibile attuazione dei nostri indirizzi di politica salariale a livello aziendale. Alla fin fine i nostri valorosi colleghi e amici torinesi non potevano, nelle condizioni di allora, fare altro che chiedere la fiducia
sulla parola il che voleva dire che il definitivo giudizio sulla validità della impostazione CISL avrebbe dovuto essere dato alla prova dei fatti. E i fatti sono venuti: una serie di realizzazioni salariali che la stessa sofisticazione comunista non ha potuto alterare, hanno rappresentato la più solida base alla campagna elettorale di quest’anno. In buona sostanza, le maestranze FIAT hanno avuto conferma che la strada indicata dal sindacato democratico è strada di sicuro rendimento e noi possiamo dire di aver battuto il sindacato comunista, sul terreno, tutto sindacale, del metodo degli indirizzi, il che evidentemente è importante dal momento che si è fin qui tentato di far risalire il merito delle vittorie nostre a motivi e interventi esterni. Ma sarebbe errore che rimpicciolirebbe gli avvenimenti torinesi se si pensasse di circoscrivere la portata ed il significato al puro terreno della politica salariale. La vigorosa e nuova avanzata del libero sindacato nella grande azienda torinese, supera il problema sindacale per investire i più vasti orizzonti sociali e politici del nostro Paese. Vogliamo dire che la vittoria del sindacalismo democratico a Torino, ha un contenuto e un significato meritevoli di essere considerati e valutati anche all’infuori della stretta orbita sindacale. Sciocca è l’accusa, che da qualche parte viene ancora tentata ai danni della CISL, secondo cui il nostro sarebbe un sindacato puramente tecnicistico e che sulla base di tale tecnicismo noi tendiamo a ricostruire l’integrale unità dei lavoratori. Forse, a questo momento, nessun altro sindacato ha formulato maggior copia, di quanto non l’abbiano fatto gli organi della CISL, di documenti con esplicite indicazioni e scelte a coraggioso contenuto sociale e politico. Si è che noi rifiutiamo il puro tecnicismo sindacale, limitato ai miglioramenti economici, convinti come siamo che la personalità del lavoratore non sarà mai tutelata come lo deve se non si conseguono rapporti sociali radicalmente diversi da quelli oggi imperanti e non si realizzano per i sindacati dei lavoratori più determinanti ruoli nella vita generale del Paese. Ecco perché alla FIAT come altrove, noi affianchiamo agli obiettivi salariali altri traguardi che investono la convivenza nell’azienda. C’è un rapporto di importanza e peso bilaterale che deve essere instaurato nella vita aziendale se si crede nell’istanza delle più vere relazioni umane. La nostra formula «buone relazioni umane in nuove relazioni di lavoro» dice chiaro che ogni tentativo di instaurare regimi paternalistici, ci troverà sempre e ovunque in posizioni di intransigenza e di lotta. Il più vero apprezzamento della nuova prova di maturità sindacale e democratica data dai lavoratori FIAT, non può non comportare la presa d’atto che esistono per il mondo del lavoro nuove attese che sarebbe grave errore eludere.
I L S I N D A C AT O L E VA P R I N C I PA L E P E R U N A POLITICA DI SVILUPPO ECONOMICO Dal saluto al III Congresso della CISL, Roma, 19-22 marzo 1959, in G. Pastore, I lavoratori nello Stato, Vallecchi editore, Firenze, 1963, pp. 433-434.
Due debbono essere le idee-cardine del presente e dell’avvenire del sindacato democratico. Anzitutto, la insostituibilità del sindacato: giustamente Storti ha sottolineato il momento pericoloso che attraversa il sindacato al quale oggi si vorrebbe mettere il paraocchi: mi riferisco al vecchio tema della legge sindacale. Nessuno trovi in queste mie parole un accenno meno che rispettoso per la legge! Noi abbiamo rivendicato il rispetto della legge quando altri la calpestava in ogni modo. Tuttavia consideriamo innaturale che il sindacato debba sottoporsi a bardature che non gli appartengono. Teoria e pratica ci portano ad insistere su questo principio fondamentale, al quale le altre tesi e le altre scelte, per quanto possano essere importanti, sono solamente complementari. E questo sia detto soprattutto alle giovani generazioni, perché guai se i giovani non presteranno fede a questa affermazione, che deve avere un valore perentorio. La seconda idea, maturata nella CISL dopo un lungo esordio e sulla quale dobbiamo concentrarci, è il principio del potere contrattuale dei lavoratori. Dopo che noi abbiamo elaborato questa idea, anche altri ne parlano, ma quale differenza! Noi sviluppiamo un indirizzo e una politica sindacale che portano ad accrescere il potere contrattuale dei lavoratori, mentre gli altri operano per sminuirlo e per distruggerlo. Si ha potere contrattuale aumentando tra i lavoratori la genuina coscienza sindacale, e vi si contribuisce mantenendo intatta la nostra fedeltà ai principî del sindacalismo democratico. Amici che lottate tutti i giorni e che da un lato avete l’aspirazione suprema all’affermazione dei diritti dei vostri associati e dall’altra la preoccupazione di dover rispettare certi limiti che deliberatamente vi siete imposti, a voi soprattutto chiedo di non venir meno a questi principî! La crescita del potere contrattuale vuol dire altresì espansione numerica del sindacato: il 13% di aumento nel numero degli iscritti è molto, ma non basta, bisogna che questa espansione continui anche come contributo all’accrescimento del potere contrattuale dei lavoratori. Attività difficile, perché bisogna stare attenti anche agli
amici, a certi amici che fanno le fortune politiche parlando sempre di lavoratori ma che sembrano godere esprimendo non senza malizia un giudizio limitativo del nostro ruolo. Si tende cioè a metterci ai margini definendoci soltanto assertori di obiettivi settoriali. È un’accusa che respingiamo con forza consapevoli che la CISL non si batte solo per posizioni rivendicative, anche se giuste, ma da tali posizioni è passata ad altre, di impegno al servizio dell’intera collettività nazionale. È per questo che noi continuiamo ad insistere che il sindacato costituisce la leva principale per una politica di sviluppo ed è per questo che ribadiamo la necessità di adeguare la nostra azione a tale fine. Solo in tal modo si spiega il mio passaggio dal sindacato ad incarichi di governo. Ho visto nella mia andata al governo sul piano di una necessaria politica di sviluppo, una linea di continuità, perché credo in quello che diceva Vanoni e non potevo non accettare la possibilità che mi veniva offerta di contribuire all’attuazione di ciò che egli auspicava. Questo non significa che sia meno valida l’azione di pressione del sindacato: è utile anche al pubblico potere la pressione che scaturisce dai lavoratori e dai sindacati.
P O L I T I C A D I P R O G R A M M A Z I O N E , S TAT O , SOCIETÀ E DEMOCRAZIA Inter vento al II Convegno nazionale di studio della DC, S. Pellegrino, 1 ottobre 1962, in La Società italiana, Atti del II Convegno di San Pellegrino, Casa editrice 5 Lune, Roma, 1963, pp. 332-340.
È convincimento di alcuni di noi che questo nostro II Convegno «ideologico», svolgendosi in un momento caratterizzato dall ’avvio alla politica di programmazione debba fra l’altro proporsi di stabilire le vie più giuste per raggiungere due obiettivi: 1) come la programmazione può contribuire al superamento dei vecchi e nuovi squilibri; 2) come la programmazione può favorire il superamento della frattura fra Stato e società nazionale. Già dai primi anni della Ricostruzione fu manifesto che gli squilibri e gli stenti nella struttura economica italiana si sarebbero potuti risolvere solo attraverso un intervento dello Stato che correggesse e integrasse il meccanismo spontaneo di mercato. Il discorso della programmazione trovò inizialmente, nello schema Vanoni, una sua prima acquisizione teorica a cui seguì tuttavia una presa di coscienza politica estremamente lenta e fortemente condizionata da notevoli resistenze di varia natura. In questo ultimo biennio l’esigenza della programmazione si è fatta sempre più viva, e in ciò ha avuto certamente il suo peso tanto la necessità di meglio riequilibrare la nostra economia con particolare riferimento al Mezzogiorno, quanto la conseguente necessità di un sempre più ampio intervento pubblico. La programmazione è stata così concepita soprattutto in funzione del superamento degli squilibri nella distribuzione territoriale della ricchezza. L’approfondimento successivo del discorso, ha portato a considerare, sempre in tema di squilibri quelli esistenti nella ripartizione del reddito fra imprenditori e lavoratori e, soprattutto, quelli relativi all’attuale struttura dei consumi, in gran parte determinata più dagli interessi egoistici della produzione che dalle esigenze della crescita civile della società, squilibri rilevabili dalla scarsa incidenza che hanno sul complesso della domanda i cosiddetti consumi pubblici dei servizi
pubblici. Ora è giusto chiedersi, come mai dopo quasi quindici anni di sempre più diffuso ed incisivo intervento dello Stato, i vecchi squilibri anche se attenuati, perdurino mentre vanno manifestandosene di nuovi e più complessi. Io credo che la risposta si possa trovare nel fatto che l’intervento dello Stato, anche in questo ultimo decennio, ha sempre agito a posteriori senza mai porsi il problema di un diverso meccanismo di crescita del sistema economico, di un modo cioè per affrontare alla radice le cause degli squilibri. Si è tutti d’accordo ormai nel chiedere che l’intervento dello Stato nell’economia non si fermi più all’azione di integrazione marginale dei meccanismi spontanei, ma entri decisamente in una fase di coordinamento e di programmazione. Esiste, tuttavia, la tendenza a porre come unico obiettivo della programmazione la semplice correzione di squilibri nella distribuzione del reddito fra categorie e zone territoriali. Secondo questa tendenza, l’intervento pubblico non avrebbe altro compito che favorire l’adeguamento del livello di reddito delle categorie e delle zone attualmente depresse a quello delle categorie e zone più progredite. E per ottenere ciò in questa fase di sviluppo dell’economia del nostro Paese, da alcune parti si afferma che basterebbe correggere ed integrare il meccanismo spontaneo di mercato, senza pensare ad alcuna modificazione delle caratteristiche fondamentali del sistema economico. Possiamo noi ritenere valida questa tendenza? A mio parere, no. È vero che per la sua dinamicità, il meccanismo di mercato accompagnato dall’intervento pubblico, può di per sé ridurre l’area di arretratezza del nostro Paese, potendosi raggiungere questo obiettivo, per esempio, attraverso gli spostamenti di popolazione (dal Sud al Nord, dall’agricoltura agli altri settori produttivi) e attraverso l’espansione di capitale industriale verso il Mezzogiorno. Ma quale è il rischio che ne consegue? Il rischio è che la programmazione, accettando le tendenze spontanee del meccanismo, per quanto capace di ridurre gli squilibri attuali non sarebbe in grado di prevenirne ulteriori. D’altra parte se gli squilibri dovessero essere eliminati nel modo sopra ricordato, l’unificazione economica del Paese risulterebbe come il sottoprodotto di una espansione quanto mai vigorosa dell’area più sviluppata della nostra economia, espansione che continua a svolgersi secondo proprie leggi e che, per continuare ha ora bisogno di utilizzare la grande riserva di lavoro disponibile nell’area arretrata. L’introduzione di semplici correttivi al meccanismo di mercato, potrebbe quindi attenuare ma non eliminare la naturale tendenza alla creazione di squilibri che è propria del «sistema»: concentrazione industriale, ritmi diversi di sviluppo produttivo, investimenti e consumi condizionati all’interesse dei ceti produttori, anziché dalle esigenze obiettive dello sviluppo. Così concepita la programmazione non risponde alla esigenza di uno sviluppo ordinato della società. La programmazione, a mio parere, deve invece garantire una crescita della società secondo valori che non siano imposti dal puro gioco economico ma rispondano invece all’interesse sociale nel significato economico e morale del termine.
Programmare significa pertanto sostituire alle soluzioni dettate solo dal mercato e dal profitto, una regolazione intelligente e razionale, una scelta deliberata e cosciente delle priorità economiche in funzione dell’interesse collettivo. In altri termini, un’azione diretta dello Stato, come espressione organica della comunità, non tanto per l’equilibrio della congiuntura, quanto in funzione di obiettivi a lunga scadenza. Se nel nostro Paese è opportuno e necessario che la programmazione prenda le mosse dagli squilibri nella distribuzione del reddito, bisogna procedere oltre coll’affrontare il discorso sui fini ultimi e storici della società italiana. Poiché, infatti, se il superamento degli squilibri costituisce il punto di partenza di un Paese sottosviluppato, non potrà costituire da solo il parametro per una politica di sviluppo civile, in un Paese moderno, dal momento che non bisogna attendere che gli squilibri si determinino per correggerli. Sono allora le caratteristiche della società futura, per cui ci si batte, sono i valori reali partecipati a tutti e da tutti e nella concreta esperienza storica, a costituire le mete in funzione delle quali si deve articolare l’azione di programmazione dello Stato. Ci si pone a questo punto il problema di chi si debba assumere la fondamentale responsabilità di indicare alle forze economiche e sociali le finalità che devono essere perseguite per uno sviluppo armonico delle società. Al proposito, bisogna dire che c’è oggi una attesa miracolistica e quindi eccessiva del piano come un puro fatto tecnico. È inutile ribadire, tanto è ovvio, che nessuna pianificazione può essere opera e responsabilità esclusiva di tecnici, sia pure sorretti ed integrati dalla burocrazia e dai politici. Per la funzione che il piano deve avere nella società italiana occorre che siano chiari, nella fase della sua formulazione i valori fondamentali attorno ai quali si intende costruire il nuovo tipo di società. Non basta infatti, volere, come si vuole, una società svincolata dalla subordinazione al potere economico; occorre anche dire quale deve essere la nuova forza motrice dell’organizzazione sociale, attorno alla quale sia realizzabile una solidarietà di interessi e di posizioni. Ora, invano, tale forza motrice la cercheremmo nella scienza economica e nelle tecniche, anche più elaborate e raffinate, della programmazione. Bisogna dire di più: invano tale forza la si può cercare anche nelle ideologie politiche e nei programmi politici di governo e di partiti. Essa è in realtà il frutto di una elaborazione che avviene lungo il corso della vita sociale, nelle lotte condotte dai gruppi che da una posizione subalterna intendono risalire ad una funzione dirigente, nello sforzo che le comunità di interessi o di territorio fanno per ritrovare una loro unità e insieme una loro collocazione all’interno del più ampio travaglio della società. Non ci si può nascondere che la ricerca a livello delle forze sociali degli obiettivi a cui si deve ispirare la costruzione politica della società urta contro una serie di pregiudizi, ancora vivi, anche nelle classi dirigenti democratiche. Non si dimentichi tra l’altro che è ancora operante il mito dello Stato etico – lo abbiamo anche ascoltato qui nel convegno dello scorso anno – la cui volontà, totalmente avulsa da quella della società, è considerata sempre valida in sé, sempre
giusta in sé: tanto più valida e giusta quanto meno realizza compromessi con le spinte che vengono dalla società. È da questa concezione che nascono in gran parte le accuse di corporativismo che si lanciano non appena si tenta di collegare la volontà dello Stato a quella delle forze sociali, sia pure in una attività di semplice consultazione, come è avvenuta per la formazione della commissione per il piano. D’altra parte la lunga esperienza fatta con lo Stato interventista se ha tolto molto mordente alla concezione dello Stato etico, non l’ha tuttavia superato in radice, perché lo Stato interventista ha operato sì, sulla società, seguendo in gran parte impulsi che gli venivano dalla società stessa, ma ciò ha fatto venendo incontro a richieste settoriali, a rivendicazioni, talvolta, disordinate e, perfino, eversive. È d’altra parte da affermare che se la classe politica deve rinunciare ad essere la sola ed esclusiva depositaria del bene comune, le forze sociali devono a loro volta rinunciare a essere semplici organismi di tutela di interessi ristretti di gruppo e devono elevarsi ad una visione globale degli interessi della società. Come è stato detto le nuove forze della società, nate e cresciute nel nuovo contesto della industrializzazione, a mano a mano che l’asse della vita economicosociale viene a spostarsi dall’agricoltura all’industria, si vedono investite di nuove responsabilità in ordine all’interesse collettivo. Di pari passo si manifesta in loro, con l’uscita dalla fase protestataria, una nuova attitudine a concepire l’auto-tutela o il criterio settoriale in termini che devono sforzarsi di far coincidere con l’interesse generale. Questo passaggio dei lavoratori da gruppo diretto, la cui azione è intesa oggi soltanto ad ottenere concessioni marginali nell’ambito del sistema, a gruppo capace di suggerire ed imporre soluzioni globali sul piano degli interessi collettivi, appare necessario per rompere da una parte il dominio incontrastato di certe forze dominanti in campo economico e dall’altra parte un certo deprecato isolamento della classe politica. Questo è del resto il problema di fondo, storico, della nostra democrazia. A ben pensarci qual è la ragione che spinge i comunisti a credere che alla fine della evoluzione democratica in corso ci sarà la loro vittoria e il conseguente salto qualitativo verso una società prima socialista e poi comunista? Secondo me, essa sta proprio nell’assoluto scetticismo comunista sulla possibilità che una società democratica sia capace di generare uno Stato che non sia di parte, che sia in grado di dare, non solo formalmente, una funzione dirigente a ceti che non siano detentori di capitale. Per questo essi combattono da una parte «l’ideologia da loro definita mistificatrice di una possibile collaborazione fra le classi nella determinazione degli obiettivi di sviluppo economico», dall’altra l’errore – attribuito ai socialisti – di accettare «lo Stato almeno come neutrale, dal cui normale gioco ci si può attendere l’attuazione di una politica conforme agli interessi della collettività». I comunisti mostrano così di credere che per quante riforme si facciano, per quanto possa andare avanti la democratizzazione dello Stato, la classe operaia non potrà mai esercitare in questo ordinamento una funzione politica dirigente, per cui alla fine dell’evoluzione democratica, essendo cresciuta la coscienza politica e la vocazione dirigente della classe operaia, i limiti del sistema salteranno per lasciar
luogo ad un ordinamento in cui vi sia la totale proprietà pubblica dei mezzi di produzione e il controllo politico totalitario del partito comunista. A questo punto il problema, più che teorico, politico, è di verificare la fondatezza della premessa: se debbano cioè continuare ad esistere nella società e nello Stato, delle classi dominanti e delle classi subalterne e se, una volta esclusa la totale appropriazione pubblica dei mezzi di produzione, debba considerarsi inevitabile il condizionamento dei pubblici poteri da parte dei detentori del capitale, sia pure sotto forme ammodernate (neo-capitalismo o capitalismo popolare), con la conseguente imposizione alla società di tipi di crescita conformi ai soli interessi dei produttori. Questa verifica è necessaria perché in effetti la questione come la pongono i comunisti è intelligentemente posta. Che oggi l’esigenza non sia tanto quella di portare in alto il livello di vita delle classi popolari (cui rispondono perfettamente il neo-capitalismo e la società di benessere) ma quella di rompere la ristrettezza del ceto dirigente e di dare una funzione politica, reale non fittizia, alle classi nuove e al movimento operaio, nessuno può contestarlo. Se, quindi, risultasse vero che la democrazia è, in sé, insufficiente a raggiungere questo scopo si dovrebbe temere per il risultato finale dell’attuale fase della lotta politica in Italia. Ma l’errore strategico dei comunisti, e la forza dei democratici sta proprio nel fatto che una tale tesi è manifestamente infondata. Naturalmente bisogna anche guardarsi dal credere che la democrazia sia un fatto compiuto nel nostro Paese. Sostenere, come è stato sostenuto, che il centrosinistra segna il definitivo passaggio da un «periodo liberale-democratico a quello di una democrazia incondizionata» attraverso la destituzione degli operatori economici dominanti da gruppo dirigente e la loro riduzione ad una semplice corporazione di interessi è certamente più una posizione teorica che il risultato di una rigorosa osservazione della realtà. Ma non c’è dubbio, tuttavia, che il processo di democratizzazione che avanza e, al centro di esso, la politica di piano che si vuole intraprendere, deve tendere a porre tutti i gruppi sociali come uguali di fronte allo Stato, deve tendere a ridurre gli interessi particolari all’interesse generale, collettivo. Il processo di democratizzazione non è, però, né il capitalismo di Stato che sostituisce il capitalismo privato, né un gruppo di tecnici che prendono decisioni finora lasciate agli imprenditori; esso è, esattamente, la presa di coscienza di gruppi sociali finora tenuti o in posizione subalterna o in posizione marginale rispetto alla direzione politica, che diventano classe dirigente e che concorrono con tutti gli altri gruppi alla gestione della vita sociale. A questo punto il problema potrebbe apparire di difficile soluzione. Se il piano deve cercare fuori di sé i valori in base ai quali condurre l’azione pubblica e privata e se, d’altra parte, i gruppi sociali possono dare questi valori solo nel momento in cui realizzano il passaggio da classe diretta a classe dirigente, si potrebbe determinare un circolo vizioso che non presenta via d’uscita. Mi pare però che si inserisca qui, il ruolo positivo che possono esercitare le forze politiche che per loro vocazione sono forze di interpretazione e mediazione. Occorre, infatti, far procedere gradualmente le cose: dare inizialmente all’intervento pubblico programmato obiettivi in sé limitati, ma non privi tuttavia
di collegamento con gli obiettivi più generali a cui si è accennato; obiettivi che siano oggi in buona parte accettabili dalle diverse forze in gioco; e sollecitare, intanto, non solo la partecipazione esterna dei gruppi in particolare dei lavoratori, ma una loro progressiva assunzione di responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi del piano. L’azione politica rinunciando ad un suo ruolo esclusivista e paternalista deve, quindi, sollecitare la crescita dei gruppi, favorire quella ricomposizione organica della società di cui parla il magistero pontificio, perché sulla base di una società ricostruita e cosciente sia possibile ristrutturare lo Stato ed allargare la base del potere politico. A questa ricostruzione della società il piano contribuirà se esso riuscirà ad interessare adeguatamente gli enti locali, visti non più come enti strumentali rispetto alle finalità statuali, ma come enti dotati di una propria originalità di potere o come tali in grado di contribuire a determinare un tipo di sviluppo delle comunità che amministrano. In altre parole il piano pur restando almeno nella fase attuale più un risultato di incontro di forze politiche che uno sforzo solidale di una società che ha chiari i suoi obiettivi di sviluppo potrà contribuire a favorire un più giusto ordinamento sociale, mediante la sconfitta del privilegio economico e insieme una presa di coscienza dei gruppi, per un passaggio qualitativo di quelli che hanno finora giocato un ruolo subalterno verso una funzione dirigente nella società e nello Stato.
C E N T R O - S I N I S T R A , PA R T I T O E PA R T E C I PA ZIONE SOCIALE Sintesi dell’inter vento al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Roma, 25 gennaio 1964, in Consiglio nazionale DC del 24-27 gennaio 1964, Spes centrale DC, Roma 1964, pp. 44-48.
Pastore. Va registrata con viva soddisfazione la esistenza di una larga convergenza di consensi attorno al governo di centro-sinistra e al suo programma. Ciò non è poco se si pensa alle contrastanti opinioni che erano emerse in precedenti sessioni del Consiglio nazionale. Noi soprattutto ci felicitiamo con gli amici che in questa direzione hanno fatto molta strada ed è certo che qualunque altro tipo di dissenso dovesse emergere fra noi alla conclusione dei nostri lavori, il Governo Moro avrà dal partito nel suo assieme un incondizionato ed impegnato sostegno. Occupandosi quindi del modo con il quale si tende a pervenire alla formazione della nuova guida politica del partito (tema del quale altri amici di Rinnovamento si occuperanno nel corso del dibattito) Pastore ha detto: “Noi dissentiamo da un certo accordo raggiunto tra due dei maggiori gruppi che operano nell’ambito della DC e non certamente per una questione di nostra minore o maggiore partecipazione alle trattative. Quanto perché con quell’accordo ci si sottrae, nelle scelte da fare, al dovere di interessare l’intero partito”. Siamo d’accordo con Colombo circa il ruolo del partito in questo momento, ma osserviamo che non basta riconoscere tale ruolo e tanto meno vale assegnarlo dall’alto, ma occorre, perché esso venga effettivamente svolto, un’ampia e profonda consapevolezza che soltanto un vasto dibattito può dare. Per questo pensiamo che la scadenza statutaria del congresso rappresenta una preziosa occasione per rinverdire e suscitare nel partito tutte le ansie che l’ora politica impone. Giustamente l’on. Moro ha detto che il compito del partito è di approfondire, arricchire, dare un deciso contributo alla nuova linea politica concorrendo a formare nuove grandi correnti di pubblica opinione. La DC deve preoccuparsi di instaurare giusti e fecondi rapporti con il Governo da una parte e con la società dall’altra, rendendosi garante che gli obbiettivi di fondo dell’operazione di centro-sinistra – che non sono soltanto parlamentari o governativi – siamo portati avanti con costanza, con forza, con la necessaria tensione ideale.
Non dimentichiamoci che l’Italia è forse l’unico Paese della Europa progredita che non ha ancora risolto in modo compiuto il problema di integrare realmente, organicamente, nella gestione del potere i gruppi che nel lavoro e solo nel lavoro riconoscono e ritrovano la ragione della loro dignità sociale e politica. A questo punto è forse necessario definitivamente chiarire che il nostro discorso concernente i “gruppi nuovi”, non è un fatto settoriale e quindi sono fuori strada coloro che continuano a qualificare “Rinnovamento Democratico” come espressione sindacale o aclista. Le ACLI e il sindaco nel rispetto dei loro compiti istituzionali sono, nella loro autonomia, più che capaci di portare avanti i loro problemi. Per noi, in ogni caso, non si tratta più tanto di un problema di operai e di contadini, come è stato all’inizio delle lotte anticapitalistiche, ma è un problema di masse vastissime di cittadini che abbracciano con gli operai, i contadini, gli impiegati, interi settori di intellettuali, tecnici, dirigenti e perfino di imprenditori di tipo nuovo. Sono tutti gruppi che rifiutando il ruolo subalterno nel quale di fatto sono stati relegati, chiedono di poter esercitare una influenza politica che sia pari almeno al peso che hanno e che avranno in misura sempre maggiore all’interno di una società in costante evoluzione, quindi di una società fortemente progredita. In questo quadro, l’operazione politica, l’operazione di centro-sinistra con il conseguente allargamento dell’area democratica, non può avere né un significato difensivo, né un significato conservatore e neppure un contenuto puramente stabilizzatore; essa, considerando fondamentalmente positiva l’adesione di un nuovo partito popolare come è quello socialista allo sforzo costruttivo dei tradizionali partiti democratici, deve essere considerata non come punto di arrivo ma come il punto di partenza di un vasto disegno innovatore. Naturalmente sono in malafede coloro che, per questo nostro proposito di procedere in avanti, ci addebitano intenzioni di aprire verso PC. Il disegno innovatore di cui parliamo ha come presupposto anche una radicale contrapposizione al PC. L’operazione di centro-sinistra è per noi un punto di partenza in quanto consente ciò che i ristretti margini del centrismo o delle occasionali alleanze non consentiva; è un punto di partenza nel senso che una vasta parte dell’elettorato di sinistra si dichiara disponibile nei confronti di un impegno di costruzione democratica; un punto di partenza per lo sviluppo di una nuova strategia di azione politica cha non eluda i chiari obiettivi impliciti negli impegni già assunti ma che anzi affronti risolutivamente il problema di alcune scadenze. Non si allarga l’area democratica, né si sfida il Partito comunista conservando le attuali sperequazioni nella gestione del potere reale, lasciando importanti gruppi di cittadini che si sono maturati nel corso delle trasformazioni sociali e che esprimono, quindi, la parte più moderna e più nuova della società italiana, lontani dalle decisioni pubbliche, estranei ai grandi problemi del futuro del Paese. È su questo punto che il centro-sinistra è chiamato ad essere l’elemento di svolta storica; l’apertura di una nuova fase nella storia dello Stato italiano. La programmazione e la riforma dello Stato debbono costituire le due grandi occasioni che questo governo ci offre per impostare anche come partito un dialogo con la società come è venuta articolandosi in questi anni; l’occasione per proporre a questa società non un puro e semplice livello progressivo di benessere,
ma un impegno serio, una partecipazione consapevole, una corresponsabilità, cioè, di tutti nella gestione degli interessi di tutti. Il passaggio da una democrazia formale a una democrazia sostanziale, dallo Stato liberale allo Stato democratico non può avvenire senza o contro la DC. Ma proprio per questo su di noi incombe la massima responsabilità di rendere possibile nel più breve tempo questo passaggio, se non si vuole, lasciando irrisolto questo nodo storico, preparare nuove e più dolorose avventure al nostro Paese. Qualunque sia la soluzione che il Consiglio nazionale darà al problema della segreteria è opportuno che tutto il partito rifletta su alcuni punti. 1. In quale misura la DC ha seguito nella composizione della sua base e dei suoi quadri l’evoluzione che si è verificata nella società? 2. Sarebbe ben difficile proporre un nuovo modo di gestire lo Stato se il partito non riuscisse a realizzare nel suo ambito, esemplarmente quella effettiva chiamata alla responsabilità di tutti i suoi iscritti, che appare come punto di partenza di una più moderna articolazione dell’organizzazione politica. 3. È necessario rivedere, aggiornare e approfondire il contenuto e il metodo della nostra azione politica. Se larghe masse di cittadini sono oggi estranee alla vita politica, ciò è dovuto in gran parte al fatto che i partiti oltre a chiudersi in cerchi sempre più ristretti di iniziati hanno perso il contatto con la realtà sociale, propongono problemi astratti, usano un linguaggio incomprensibile, si presentano logorati da lotte di potere. Se si rinnova la base del partito e si rinnovano i suoi quadri stabilendo giusti rapporti con i nuovi ceti, tutto il discorso polittico può rinnovarsi e può quindi rinvigorirsi la capacità di presa anche delle strutture organizzative della Democrazia cristiana.
VUOTI GIURIDICI O VUOTI POLITICI? Editoriale, «Il Nuovo Osser vatore», a. VI, 40/41, luglio – agosto 1965, pp. 503-507.
In queste ultime settimane si è tornati a parlare con insistenza della necessità di dare attuazione legislativa al dettato costituzionale in materia di rapporti sindacali. Leggendo con la dovuta attenzione quanto è stato scritto, se si eccettua un articolo di Nenni – e diremo più avanti il motivo –, abbiamo ritrovato tutti i luoghi comuni di vecchi progetti di legge sindacali, quasi che le polemiche e la esperienza di quegli anni non avessero insegnato nulla. A nostro avviso questo è un elemento negativo della vita politica e della cultura del nostro Paese. Uno dei più attenti giuristi della nuova generazione ha scritto con grande acume che, nella costituzione italiana, quando si affrontano i problemi sindacali, emerge una concezione autoritaria e corporativa dei rapporti Statosocietà. A rilevare la sopravvivenza di questa concezione è la costruzione giuridica che il costituente ha tentato negli ultimi tre commi dell’art. 39. “C’è nella sorte dell’art. 39 una innegabile ironia se si pensa che il costituente credeva sinceramente, pervenendo alla disciplina erga omnes per forza originaria del contrato collettivo, di aver difeso più di ogni altro legislatore, o, anzi, di aver addirittura esaltata l’autonomia sindacale. Ma sono proprio questi gli equivoci a cui conducono una discutibile cultura e l’orgoglio malinteso. Sì: perché il nostro fu in primo luogo un caso di fedeltà ai logori assiomi di un’altra stagione morale e politica”. Anche in queste settimane la maggioranza degli scritti, che chiedono l’applicazione degli artt. 39 e 40, fanno grandi professioni di fede sulla necessaria autonomia di sindacati. Ma se gli attuali interlocutori in buona fede avessero la pazienza di rileggere gli atti della Costituente, e di prendere qualche contatto con la moderna esperienza sindacale dei Paesi democratici (in nessuno dei maggiori Stati democratici vige una legislazione sindacale tipo quella prevista dalla nostra Costituzione), non dovrebbe tardare a cogliere la paurosa contraddizione tra la necessaria autonomia dei sindacati e le soluzioni previste dell’art. 39. In particolare i politici e gli uomini di cultura, che si ispirano alla tradizione liberale, dovrebbero rileggere il discorso di Luigi Einaudi con il quale egli motivò il suo voto contrario all’art. 39. Su questa materia non ci sono molti politici, che hanno mostrato “l’intelligenza dei tempi” nuovi adeguando di conseguenza schemi culturali e comportamenti pratici.
A nostro avviso non c’è oggi da applicare l’art. 39, ma occorre modificare la norma costituzionale. È questo il minimo che si possa chiedere a dei politici che dichiarano di non volere rimanere negativamente legati al passato. Questo dei rapporti sindacali è un grande banco di prova della volontà di reale rinnovamento. Siamo d’altra parte giunti a un nodo politico, che occorre tagliare con tempestività e senza equivoci. Nenni è pervenuto ad intuire la pericolosità di mantenere in piedi una situazione così ricca di tensioni per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. “Può valere di orientamento per tutti – ha scritto Nenni – l’osservazione che nella vita costituzionale, giuridica e politica dello Stato, non ci sono, non ci possono essere vuoti i quali non vengano colmati da qualcuno ed in qualche maniera”. “Nella materia di cui stiamo parlando, come in altre, la magistratura ha colmato i vuoti lasciati dal potere legislativo e da quello esecutivo”. La scelta è semplice: o applichiamo gli artt. 39 e 40, o bisogna avere il coraggio subito di riformare la costituzione e tutta quella vecchia legislazione (codice penale e di procedura penale, ecc.) imperniata su una concezione dei rapporti Stato-società inaccettabile per la coscienza di un Paese moderno. Prevenendo una sciocca obiezione diciamo subito che nessuno nega, anche perché lo abbiamo sostenuto in campo sindacale, in tempi non sospetti nei contatti con le autorità di governo, che per quanto attiene ai dipendenti di pubblici servizi essenziali possono essere stabiliti, con il contributo degli stessi sindacati, alcuni limiti oggettivi per l’esercizio del diritto di sciopero, al limite non giudicandosi sufficienti quelli che si fondano sulla valutazione degli interessati. È questa una questione di opportunità che va valutata in un ampio contesto politico, e che gli stessi sindacati dovrebbero fare oggetto di immediato approfondimento. E registriamo con favore l’iniziativa del SAUFI – Sindacato ferrovieri CISL – per una tavola rotonda che ha iniziato l’approfondimento del tema. Ma quello che qui ci preme sottolineare è la paradossale situazione nella quale ci si è cacciati in questi ultimi tempi. Governare è scegliere, è intuire e guidare i grandi processi di democratizzazione dei processi sociali e politici, è capacità di giudicare con acume il passato come l’avvenire, è soprattutto coraggio di opporsi con decisione alle resistenze interne ed esterne quando queste investano i principi fondamentali di una convivenza libera. Quando queste qualità vengono meno e i governanti abdicano alle loro responsabilità, lasciando ad altri organi dello Stato la guida anche politica del Paese, allora si mette in forse quel precario equilibrio di poteri e di garanzie che è ancora presente nel nostro ordinamento. Che nel nostro Paese si stia attraversando una simile crisi, lo si può facilmente rilevare dal fatto che il vuoto di potere politico non è solo relativo alla materia sindacale ma interessa anche questioni che toccano direttamente il funzionamento degli organi statuali. È da tempo che siamo di fronte a esigenze indilazionabili di riforma dell ’apparato della “pubblica amministrazione”, incluse tutte le forme di intervento dello Stato nella vita economica.
Non è questo solo un problema di riforma che attiene a fatti funzionali e puramente organizzativi della macchina statuale. È un errore di prospettiva che ci trasciniamo da anni, con gravi conseguenze. Perché la questione tocca invece i delicati e complessi rapporti tra potere politico e burocrazia e tecnocrazia della “pubblica amministrazione”, tra esecutivo e gli altri organi costituzionali di controllo, tra gruppi di pressione e Stato democratico. È la grande tematica di una democrazia moderna, e l’esperienza americana degli anni Trenta ci offre l’esempio più cospicuo di come sia possibile ricondurre in un ordinato sviluppo democratico le pericolose tendenze autoritarie che nascono dai grandi gruppi privati e dagli stessi poteri che si sviluppano all’interno dello Stato. Nel nostro Paese questa situazione è aggravata da quelle forme di interferenze dell’apparato burocratico che, nate nel quadro degli interventi di uno Stato protezionista, si sono sviluppate e consolidate poi nell’esperienza corporativa. Su questo tema «Il Nuovo Osservatore» dedicò il suo primo quaderno ed è più volte tornato in argomento. Le nostre conclusioni ci portano a considerare che quelle forme di intervento dello Stato hanno creato pericolosi attentati alla libertà e alle tradizionali garanzie per il suo esercizio. Parlando di tale tipo di interventismo uno degli equivoci più correnti, che rivelano l’immobilismo intellettuale in cui siamo immersi – così paradossalmente contraddittorio con il rapido svolgersi delle vicende umane – è dato dal rapporto che in genere istituiamo tra forme di intervento e Stato democratico. Diamo un giudizio, cioè, sullo Stato, basato non sui meccanismi decisionali che ad esso presiedono, sul sistema di forze che ne costituiscono la base politica, ma sull’attività, come se questa fosse qualificante e decisiva per una collocazione storica nei vari tipi di Stato possibili. L’intervento dello Stato nella vita economica, che rappresenta in sé un fatto positivo e necessario, può esplicarsi in modi e forme diversi. Nel nostro Paese tale interventismo si configura ancora come un’azione dall’alto sulla società, come operazione di un ceto politico illuminato e generoso che pone a disposizione, ora di questo ora di quell’interesse, l’apparato coercitivo dello Stato. Questo tipo di intervento finisce per esaltare le caratteristiche paternalistiche e tendenzialmente di parte che ogni costruzione statale riproduce totalmente e finisce per dare armi pericolose per generare situazioni di privilegio o di oppressione. Come tale questa forma di interventismo è – ancora una volta – paradossalmente, e sembra infatti strano, frutto e assieme corruzione e degenerazione dello Stato liberale. È frutto dello Stato liberale perché questo, col dichiararsi neutrale rispetto al gioco economico, consente all’interno della società lo scatenarsi delle latenti capacità sopraffattrici delle forze economicamente più agguerrite e fa sì che si producano squilibri e ingiustizie che richiamano l’intervento pubblico. Ma è anche degenerazione dello Stato liberale perché questo interventismo pone in crisi, con una gravità insospettata, gli istituti di garanzia che sono stati la grande conquista della rivoluzione liberale. È stato un errore politico non prendere atto di questa realtà e non predisporre quelle riforme capaci di condurre la “pubblica amministrazione” alla sua funzione specifica di strumento di uno Stato democratico, fondato su un’ampia
partecipazione dei cittadini alla gestione del potere, e cioè al servizio della collettività, all’interno di uno Stato di diritto. Analogamente si è sbagliato nel non affrontare il problema delle pressioni sul “governo del Paese” da parte di coloro che puntano a subordinare gli interessi generali a quelli particolari. Qualcuno ci ha accusato nel passato di condurre una battaglia falsa quando abbiamo denunciato più volte questo stato di cose e in particolare le gravi ingerenze dei gruppi di pressione. La nostra non era una battaglia moralistica priva di contenuto politico: lo possiamo quotidianamente constatare. La mancata iniziativa politica ha creato, anche in questa materia, un vuoto che la magistratura ha coperto nelle forme che le sono proprie, quando si è trovata di fronte a comportamenti penalmente rilevanti. Ed è qui nato un assurdo: per carenza degli organi costituzionali a ciò preposti – parlamento e governo – la magistratura ha di fatto e paradossalmente assunto una funzione di guida politica in uno dei settori più delicati. Diciamo paradossalmente perché la magistratura intervenendo quando interessi privati si sono frammisti a pur necessarie esigenze di funzionalità, lo ha fatto sulla base delle leggi vigenti e della loro logica formale, certamente inadeguate di fronte ai fenomeni nuovi della vita dello Stato. Sta ai politici eliminare questo stato di cose assumendo essi le necessarie iniziative. L’esperienza del centro-sinistra dovrebbe averci del tutto disincantati dalla possibilità di immettere vino nuovo in otri vecchi. Le esigenze dello Stato in Italia non sono riconducibili a quelle di una macchina lenta da attivare, ma a quelle di radicali riforme, pena il rapido decadimento di ogni contenuto innovativo dell’azione politica. Ma invece di guardare avanti, dibattiti scarsamente pertinenti si svolgono in questi tempi e un metodo troppo semplificatore dei mali esistenti nel Paese si preoccupa di dividere le forze politiche del Paese in buone e cattive. Alcuni giornali ci hanno attaccato perché nell’ultimo numero de «Il Nuovo Osservatore» abbiamo denunciato questo metodo, quasi che volessimo in tal modo operare una classica fuga in avanti rispetto ai problemi del Paese. Non è per spirito polemico che dobbiamo far notare ai nostri censori che essi sono fuori strada. La nostra non è una fuga ma è un richiamo responsabile a considerare che la crisi politica non si riduce alle colpe dei cattolici o ai meriti laici. In autunno tutte le forze politiche saranno chiamate ad un esame di coscienza per scelte importanti. A nostro avviso ce n’è una fondamentale: ridare al paese il senso del valore insostituibile, anche se non esclusivo, della mediazione politica. Per questo non è sufficiente un attivismo organizzativo ma è necessaria una coraggiosa iniziativa politica che elimini i vuoti oggi esistenti. A nessuno sfugge la stanchezza e la delusione con cui i cittadini guardano al mondo politico, giudicato sovente vecchio ed incerto di fronte al nuovo che si sviluppa nella società. In particolare se i partiti del centro-sinistra riusciranno ad imboccare questa strada, essi potranno uscire dall’incertezza nella quale oggi si trovano e aprire un dialogo fecondo con il paese sui temi veri della costruzione della democrazia.
PROGRESSO INDUSTRIALE, RIEQUILIBRIO TERRITORIALE, IMPRESA E PERSONA Inter vento alla XXXVIII Settimana sociale dei cattolici d’Italia, 26 settembre 1966, in Sviluppo economico e ordine morale, Settimane sociali dei Cattolici d’Italia, Salerno, 24-29 settembre 1966, Scuola tipograf ica Don Orione, Roma, 1967, pp. 309-316.
L’on Giulio Pastore giustifica il suo intervento per il fatto che ritiene utile, ad un’ampia e serena riflessione sui problemi che lo sviluppo economico-sociale pone al cittadino e all’organizzazione della società, l’apporto anche di chi ha responsabilità politiche. Dal lontano 1950 in Italia, anche per la lungimirante visione di uno statista cattolico, Alcide De Gasperi, i governi democratici, affrontando i problemi del Mezzogiorno, hanno avuto una precisa consapevolezza della necessità di intervenire in forme e in misure adeguate per consentire che il progresso generale della economia non fosse disordinato e contradittorio, ma raggiungesse il massimo di partecipazione delle diverse regioni alla crescita generale. I risultati conseguiti da tale azione confermano, anche tra inevitabili deficienze, che la strada intrapresa è valida e risponde non solo ad una profonda esigenza di giustizia, ma, nel lungo periodo, ha effetti positivi sullo stesso ritmo di crescita generale e sulla stessa stabilità del sistema economico e sociale. I problemi che il progresso economico pone possono essere risolti dall’uomo; tuttavia dall’esperienza di lavoro nel nostro Mezzogiorno emerge chiaro l’ammonimento che non è possibile lasciare alle cosiddette forze spontanee di operare a favore di un equilibrio economico accettabile dalla coscienza civile. L’on. Pastore nota inoltre che anche una riflessione culturale, quale è quella propria della “38 a Settimana Sociale” può trovare adeguati stimoli da esperienze che andiamo quotidianamente e positivamente accumulandosi. Riferendosi al tema della “Settimana”, e in particolare alle relazioni precedenti, osserva che il fatto unificante e determinante dell’economia moderna è l’applicazione del progresso tecnico e delle modificazioni che tale progresso determina, sulle strutture produttive e nei rapporti del cittadino e della comunità, rispetto al sistema economico. Il progresso tecnico, infatti, nella misura in cui viene introdotto, contribuisce a superare condizioni di miseria, fasi di carestia, lunghi periodi di ristagno; determina un miglioramento qualitativo o una riduzione del prezzo dei beni;
riduce la penosità del lavoro, permette l’innalzamento delle condizioni generali di vita della popolazione. Solo gli organismi internazionali, e in questo si dice d’accordo anche con quanto affermato dall’on. Greggi, potranno impostare iniziative organiche per estendere ai paesi arretrati i frutti delle acquisizioni della scienza umana, per rimuovere le più cospicue ineguaglianze fra i popoli nel mondo e per porre su basi moralmente e cristianamente più accettabili lo stesso sviluppo dei Paesi già progrediti. Il ministro ha poi osservato che l’ambivalenza del progresso tecnico ed i diversi sviluppi che esso può determinare possono essere riscontrati anche nel caso delle differenze di sviluppo all’interno dei paesi progrediti. Sotto alcuni aspetti il progresso tecnico consentirebbe di adottare uno schema di ripartizione dell’industria sul territorio, tale da permettere una riduzione o una eliminazione di molti degli attuali squilibri fra le regioni degli stessi Paesi progrediti. L’esistenza di risorse naturali in un certo territorio può non rappresentare più un determinante fattore di localizzazione; la riduzione dei costi di trasporto delle merci e dell’energia può permettere una moltiplicazione dei centri di produzione; le sempre più fitte complementarietà tecnologiche ed economiche non escludono la possibilità di una distribuzione dell’industria per centri, anche distanti fra di loro, purché tali centri raggiungano una dimensione minima. Ma sotto altri aspetti, il progresso tecnologico in quanto tende ad esaltare l’economicità dei servizi comuni alle imprese, nonché degli scambi intersettoriali, e in quanto consente produzioni di massa che si rivolgono naturalmente a mercati ad alta capacità di acquisto, può essere favorevole al mantenimento della distribuzione territoriale (che i Paesi industrializzati hanno ereditato dal secolo scorso) e cioè una distribuzione accentrata nelle aree in cui, sorta una prima serie di industrie, si sono cumulati gli effetti dello sviluppo economico e dell’urbanizzazione. Tuttavia, l’ampia serie di alternative aperte dal progresso tecnico ed i vincoli che esso, d’altra parte, determina, richiedono una consapevole azione volta a scegliere fra le varie soluzioni, quelle che sono già capaci di massimizzare i risultati sotto il profilo dell’utilità generale e ad evitare sviluppi negativi per una armonica crescita dell’economia e della società. Il progresso tecnico, in sostanza, produce risultati differenti a seconda che si inserisca o no in un quadro economico ed istituzionale, capace di dominare o meno le diverse tendenze che si pongono nel mercato. Se oggi vediamo accrescersi le distanze tra le nazioni ricche e le nazioni povere, se si assiste al determinare e all’aumentare, all’interno di un Paese, degli opposti fenomeni di decadimento economico e di congestione, se la posizione dell’individuo appare sempre più condizionata dall’andamento dei fenomeni economici, tutto ciò non è una conseguenza inevitabile del progresso tecnico, ma del modo con cui tale progresso avviene e del fatto che, fra le varie alternative offerte dal progresso stesso, vengono utilizzate solo quelle più congeniali a quelle forze che prevalgono nel sistema. Se si prede in esame – sul piano internazionale – il caso dei Paesi sottosviluppati si osserva che nell’ultimo quindicennio sono state raggiunte, in parecchi di questi Paesi, trasformazioni impensabili nel precedente quadro tecnologico, ma ben più rilevante è stata senza dubbio la crescita delle economie
già progredite, per cui oggi i divari possono dirsi aumentati e non diminuiti. Si hanno problemi di contrasti, qualche volta inavvertiti, anche tra Continenti. Ma si può veramente dire – si chiede il Ministro – che il progresso tecnico sia stato posto anche a servizio dei paesi che devono uscire dalla fase di sviluppo precapitalistico? La risposta può essere largamente negativa. Se si esaminano infatti le caratteristiche che sono stata via via assunte dalle nuove tecnologie ed i settori a cui esse si riferiscono, si potrebbe sostenere che la ricerca e la sperimentazione che si svolgono nel mondo, in quanto sono effettuate come iniziativa autonoma dei vari Paesi industrializzati, tendono a riflettere piuttosto le esigenze delle economia già progredite e sono scarsamente correlate ai più modesti bisogni dei Paesi che non sono entrati o non sono entrati pienamente in una fase di meccanizzazione; in altre parole, le tecnologie attuali tendono a sostituire nuovi sistemi di produzione ai beni capitali già esistenti, e non si preoccupano del più elementare problema di dare mezzi meccanici di produzione a chi non ne ha mai avuti. Questa ambivalenza esige una scelta pubblica, in funzione del riequilibrio territoriale. Lo si è sperimentato in Italia, quando abbiamo impostato a favore delle regioni del Mezzogiorno un organico intervento pubblico indirizzato a promuovere direttamente, attraverso l’impresa pubblica, o indirettamente, mediante gli incentivi, l’industrializzazione di tali regioni. L’on. Pastore precisa che è questa politica che porta a non considerare come un elemento inevitabile del nostro futuro sviluppo, del nostro Paese, una ulteriore concentrazione di attività economiche e di popolazione nelle regioni già sviluppate. Potrebbe divenire un fatto inevitabile soltanto se, anziché valorizzare le possibilità offerte dal progresso tecnico di una distribuzione più diffusa dell’industria e delle attività connesse, si fornissero elementi di sostegno ai fattori che di per sé spingono verso una maggiore concentrazione territoriale. Si pone in sostanza un problema di “gestione”, dello sviluppo, problema che potrebbe essere reso oggi più difficile della fase di razionalizzazione e di ammodernamento che preme sull’economia italiana e dalle pressioni esercitate dagli interessi delle zone più sviluppate per mantenere il ritmo di crescita raggiunto in passato. La gestione del processo di sviluppo, anche nei suoi aspetti territoriali, non può essere fatta con riferimento ad ipotesi astratte di assetti ottimali, ma deve essere commisurata a quella che è – e deve essere – la principale beneficiaria della crescita dell’economia: la Persona. Proseguendo il ministro Pastore ha poi osservato che oltre ai problemi degli squilibri fra i Paesi ricchi e Paesi poveri e fra regioni di uno stesso Paese ricco, esistono altri effetti del progresso tecnico che condizionano più da vicino e profondamente la vita del lavoratore e dell’individuo in genere. La stessa rapidità con cui si svolgono le trasformazioni tecnologiche e i continui mutamenti delle combinazioni dei fattori, pongono in discussione la stessa stabilità di lavoro che taluni ottimisticamente ritengono un fatto acquisito e che rappresenta la base della liberazione dell’individuo dai bisogni più elementari. Nel nostro Paese si assiste da vari anni ad una continua caduta del numero delle
forze di lavoro, che non vuol dire forze occupate, non deriva da fenomeni demografici, ma è sostanzialmente il risultato dell’incapacità del mercato di reimpiegare la manodopera che, più o meno spontaneamente, ha lasciato l’agricoltura o le industrie marginali e le industrie in crisi strutturale, nonché la manodopera in possesso di una qualificazione industriale non adeguata alle nuove tecnologie. Il fenomeno ha assunto entità macroscopiche, secondo i dati dell’indagine campionaria ISTAT: le forze di lavoro italiane sono diminuite a quasi 21 milioni di unità nel 1960 a quasi 20 milioni di unità nel 1965, mentre la popolazione del Paese aumentava da 40 milioni di unità a 51 milioni e 500 mila unità; quindi si è avuta una riduzione di oltre 1 milioni di persone nelle forze di lavoro, contro un aumento di quasi 2 milioni e mezzo di persone nella popolazione. La riduzione, tra l’altro, ha riguardato, sia pure in misura diversa, tanto il Sud che il Nord, cioè tanto le zone di emigrazione che le regioni di immigrazione; nel Centro Nord la riduzione ha interessato nella quasi totalità le forze di lavoro femminili, che tradizionalmente sono le prime ad essere colpite da un ammodernamento e da una riorganizzazione delle attività produttive. Non si può, perciò, fare a meno di chiedersi se il problema di trovare un posto di lavoro non costituisca ancora, per la manodopera, anche nelle zone più progredite del Paese, un problema di rilievo. Ma questo non è che uno dei problemi che si presentano nel campo dell’impiego della manodopera. I mutamenti delle tecniche produttive (si pensi ad esempio alla incalzante automazione e alle ristrutturazioni organizzative) pongono in causa, quasi giorno per giorno, i compiti, le mansioni e le stesse capacità di lavoro della manodopera già inserita nell’industria e nelle altre attività. Spostamenti all’intero della fabbrica, cambiamenti di ruolo, richiesta di maggiori prestazioni, inadeguatezza dei lavoratori di fronte alle nuove tecnologie sono fatti non più trascurabili. L’on. Pastore osserva ancora che è certamente vero che è importante controllare se le remunerazioni si adeguano, in valori monetari e in termini reali, alla crescita della produzione; ed è anche opportuno accertare il comportamento del lavoratore quale consumatore dei frutti addizionali del suo lavoro, ma che – a suo parere – il problema di base è vedere in quali condizioni tale lavoro si svolga. Tale problema presenta anche due delicati aspetti. Il primo consiste nel fatto che il mercato, in tutte le sue istituzioni private e pubbliche, non è, o non è sempre, capace di creare risparmio e di effettuare investimenti tali, come entità e come destinazione, da eliminare il problema della creazione di posti di lavoro adeguati come numero e come produttività. Il secondo aspetto, che riguarda innanzi tutto l’organizzazione produttiva in genere e l’azienda in particolare, consiste nel fatto che è ormai necessario giungere a forme di negoziazione di quei mutamenti tecnico-organizzativi e di quei fenomeni produttivi che incidono o possono incidere sulle condizioni lavorative. Si comprendono così i più recenti orientamenti assunti dal Sindacato. L’on. Pastore ritiene si possa affermare che si è lontani dalla obiettività quando se ne tentano delle interpretazioni negative. Il primo problema comporta infatti un riesame dei rapporti. Riferendosi al rapporto tra proprietà e processo produttivo, il ministro Pastore ha rilevato che la
separazione fra proprietà ed impresa e la formazione all’intero dell’azienda di rilevanti fonti di finanziamento hanno fatto sì che la proprietà non appaia più un elemento “condizionante” i processi produttivi. Ma resta il fatto che l’impresa ha sempre bisogno, anche nel caso di elevati autofinanziamenti, di rivolgersi al mercato per coprire una quota del proprio fabbisogno di fondi investibili. Ora l’esperienza sembra dimostrare che, soprattutto in Italia, le condizioni di remunerazione, di liquidità e di rischio a cui i possessori di capitali sono propensi a cedere i propri fondi, possono essere superiori a quelle che sarebbero necessarie. Si tratta di un problema che in passato ha certo formato oggetto di considerazione e che rappresenta il punto di riferimento di moderne teorie; tuttavia esso oggi appare più condizionante che in passato, sia che lo si consideri negli aspetti congiunturali, sia che lo si veda nelle prospettive di fondo. Noi non possiamo dimenticare che, in Italia, nella fase di instabilità degli anni 1963-1964, proprio nel momento in cui sarebbe stata necessaria una intensificazione del processo di investimenti per superare le carenze strutturali del nostro sistema, i possessori di capitali hanno chiesto agli investitori condizioni di remunerazione superiori a quelle che gli investitori potevano offrire. Ed inoltre, e la nota è quanto mai dolorosa, hanno dimostrato di non voler sostenere (basta pensare a deplorevoli episodi quali la fuga di capitali all’estero) presunte incertezze politiche, che i fatti andavano rapidamente ridimensionando. La verità è che vi è più che mai la necessità di eliminare quelle posizioni di rendita che, alimentando forme di risparmio non produttivo, si ripercuotono sulle disponibilità di fondi per il processo di investimenti e vi è, inoltre, l’esigenza di far sì che il lavoratore abbia consapevolezza della necessità di investimenti che sono necessari, fra l’altro, anche per aumentare e mantenere l’impiego di manodopera. Se non si riuscirà a far fronte a queste necessità non sarà possibile contare su un processo di sviluppo continuo e socialmente accettabile. Ed è qui che il ruolo dello Stato, e dei pubblici poteri in genere, diventa un ruolo essenziale. Il ministro Pastore ha poi osservato che non solo sarà necessario attuare quei provvedimenti di riforma, strutturale che consentano una riduzione delle posizioni di rendita, ma è opportuno studiare forme di coordinamento e di controllo nei vari tipi risparmio pubblico ed istituzionale per compensare eventuale cadute del risparmio individuale. Anche quest’ultimo, però, va stimolato e coordinato; il Ministro ricorda ancora una volta le proposte che sono state avanzate in ordine alla creazione di fondi di risparmio collegati all’andamento delle remunerazioni, cioè al risparmio contrattuale. E l’oratore a questo punto chiede ai suoi cortesi uditori se non si siano mai chiesti perché l’opposizione radicale a questa sostanziale modifica del sistema del risparmio sia venuta, in modo particolare, dalle posizioni politiche di estrema sinistra e anche dalle posizioni confindustriali. Si potrebbe ricordare che – e il ministro Pastore chiede al prof. Mazzocchi di correggere e integrare la sua affermazione – il risparmio italiano ha registrato ad un certo momento una grossa svolta, quando si è pervenuti al risparmio postale. È stata la strada maestra che ha consentito di accumulare i piccolissimi risparmi; non è un mistero cosa abbia voluto dire anche in quel periodo di scarse possibilità per gli investimenti il poter disporre di un cumulo di risparmi del genere; in fondo, il risparmio contrattuale
può tentare una svolta nuova, che poi sarebbe analoga alla strada che nei tempi passati portò a dei risultati positivi. Per quanto riguarda il “problema della negoziazione dei principali fenomeni” aziendali, il ministro ritiene che sia un problema di attualità, che presenta aspetti molto delicati. Da una parte vi è la necessità di salvaguardare una delle caratteristiche dell’impresa, cioè la libertà di organizzare i fattori produttivi e di assumere i rischi; d’altra parte bisogna tenere conto che i fenomeni economici devono essere in ultima analisi finalizzati, come anche l’attuale Settimana va sempre più riaffermando, alla soddisfazione dei bisogni della persona umana. Il ministro ha rilevato inoltre che per conciliare i due aspetti è necessario pensare ad un nuovo sistema di relazioni industriali che, attraverso un ampio e sistematico processo di decisioni tra direzione di impresa e sindacato, affrontino i molteplici problemi del rapporto tra manodopera e produzione. Affrontarli vuol dire implicitamente piena libertà di regolarli, ovviamente bilateralmente, con immissione di manodopera all’interno dell’azienda, classificazione del personale, programmi riorganizzativi suscettibili di effetti sui livelli della manodopera e di cambiamenti nei compiti, sistemi di incentivazione e di promozione, lavorazioni nocive, etc. Del resto, abituati a riferirci , anche in questa fase, di promettente crescita, agli esempi di Paesi altamente democratici e fortemente sviluppati si può dire che le esperienze di questi Paesi dimostrano che non si tratta di un disegno irrealizzato. Nel nostro Paese, perciò, è necessario compiere questo salto di qualità della dialettica tra sindacati e impresa (ovviamente il sindacato che vorrebbe utilizzare questa nuova strada a fini reversivi verrà dai lavoratori stessi emarginato, come del resto la storia di questi anni ha dimostrato). Occorre fornire al lavoratore garanzie non solo sulla futura evoluzione dei salari, ma anche sulle condizioni di lavoro e sugli altri elementi della prestazione. È questo un discorso cioè che va considerato a monte (questa è la novità) di quello sui livelli e sulla dinamica dei salari; tale esigenza è ormai condivisa da molti ed ha trovato riscontro in recenti episodi della contrattazione collettiva. L’on. Pastore si scusa di aver tenuto forse un intervento un po’ lungo e conclude dicendo che le riflessioni fatte portano ad affermare che punto di riferimento di tutto l’insieme non può non essere la persona nei suoi rapporti con la produzione. È del tutto ozioso pensare che basti porre attenzione alla fase successiva a quella di produzione del reddito. L’analisi teorica e l’esperienza pratica possono fornire validi argomenti per affermare che la logica della produzione non può non influenzare la soluzione degli altri problemi. I cattolici devono porre attenzione a tale logica per non trovarsi scavalcati da avvenimenti e da tendenze che essi rifiutano.
P O T E R E , G O V E R N O E PA R T I T I Editoriale, «Il Nuovo Osser vatore», a. VIII, 59/60, febbraiomarzo 1967, pp. 83-87.
Mentre faticosamente la legislatura volge al termine, un termine psicologicamente già attuale anche se la sua normale scadenza non sarebbe poi così prossima, si accennano i primi bilanci. Non si tratta, tanto, delle cose fatte, poiché permane la speranza che, come nella caduta dei gravi, il modo si acceleri nel finire, per presentare all’elettorato e al Paese, un risultato soddisfacente; quanto piuttosto di un bilancio più generale che guarda al funzionamento stesso della macchina politica, al sistema nel suo dinamismo. La situazione appare caratterizzata da una serie di elementi contrastanti. L’economia del Paese, nel suo complesso, appare restaurata per quanto riguarda i moduli di sviluppo ritenuti necessari non solo per superare la congiuntura di tre anni addietro, ma per una ripresa che ormai viene data per certa. Eppure, al di là della preoccupazione suscitata dalla occupazione ancora stagnante, si ha la sensazione che il sistema economico sfugga tuttora ad un reale controllo politico, ma determini anzi in più casi la politica stessa. Se con l’apparire del centro-sinistra si creò una situazione di tensione tra mondo politico e mondo economico, dannosa per più aspetti, ora la situazione appare restaurata, nel senso che la stabilità del sistema dipende in misura rilevante dal tasso di sviluppo, ed il raggiungimento di questo tasso che dovrebbe garantire la governabilità del sistema attraverso il piano, risulta peraltro se non l’unico, certo il principale e assorbente obiettivo che tuttora è condizionato in larga misura dallo stesso mondo economico. In pratica è possibile impostare una certa politica di riforma ma non si realizza una reale saldatura degli squilibri, primi fra tutti quelli territoriali, in modo particolare quelli fra Nord e Sud, nonché quelli fra agricoltura e industria. Sul piano strettamente politico, il quadro è ancora più contraddittorio. L’inserimento dei socialisti nel governo risulta assai più un successo come operazione di stabilizzazione in senso tradizionale, che come operazione di movimento. La garanzia del sistema democratico, nel senso in cui se ne parlava all’epoca centrista, è indubbiamente più salda. Anche l’opinione pubblica più pavida e timorosa, che vedeva un tempo nei socialisti un pericoloso strumento di sovversione inserito nei gangli dello Stato, si è fatta sicura, anzi altezzosa, e come l’asino della favola deride il leone fiaccato oltre ogni previsione dalla esperienza governativa. Ora nel complesso, non sono certo aumentate le possibilità di un
ricambio, di una articolazione del potere governativo. E la fragilità dei partiti, di tutti i partiti, ha fatto fallire quello che doveva essere uno degli obiettivi principali della nuova formula, cioè la creazione di un esecutivo robusto per la sua stessa maggioranza, quindi capace di sostenere gli eventuali urti dell’opinione nel momento in cui le riforme avrebbero dovuto fare i conti con il consenso. Così, si verifica un’altra contraddizione: che questa legislatura ci ha dato in fondo un governo il cui attivismo sul piano della produzione delle leggi segnerà forse un record nella vita politica italiana, mentre la disfunzione del parlamento e la fragilità della maggioranza ne avranno per gran parte reso vani gli sforzi. Alla solerzia nell’approntamento tecnico dei disegni di legge, non ha corrisposto la forza per condurli all’approvazione, e neppure la sensazione che nelle difficoltà esisteva una guida precisa, una direzione di marcia, verso la quale siamo incamminati, anche se nei tempi lunghi. Questi rilievi possono sembrare eccessivamente severi. E indubbiamente appaiono tali a chi dall’esterno guardi allo sviluppo delle cose nostre, a chi, secondo un modulo empirico, quale ormai prevale nettamente nella frenesia dello sviluppo, osservi appunto la restaurazione della nostra economia, la relativa stabilità politica, l’ampia libertà di cui gode la nostra società nel suo complesso. Il nostro è pertanto un pessimismo relativo, funzionale, oseremmo dire, perché nonostante le apparenze, si avverte che la struttura nel suo complesso subisce un logorio progressivo. Il pericolo, in senso proprio, non è più costituito dal comunismo, cioè dalla prospettiva di una sovversione, quanto di una lenta involuzione che attraverso un successivo abbandono dei propositi e dello sforzo di immaginare e perseguire modelli migliori, lentamente disgreghi il senso della comunità e dello Stato con essa. Certamente uno degli elementi rilevanti di questa situazione è la crisi generale dei partiti, sui quali tutta la nostra struttura politica si è retta in questi anni del dopo-guerra, e i quali hanno perso contatti con il Paese (si discute se lo abbiano mai avuto, anche nei tempi di più accesa e appassionata lotta politica), e non hanno espresso più nella loro crisi una leadership sicura, che in certa misura poteva surrogare anche quel contatto più profondo con una società civile scarsamente articolata e assai poco partecipe delle vicende politiche, quale è la nostra. In parole povere, il potere è prevalentemente rimasto nei partiti, ma essi non sono più in grado di esercitarlo se non in una funzione prevalentemente conservativa delle rispettive riserve di potere. Sino all’epoca degasperiana due elementi caratterizzavano la situazione: la netta supremazia della Democrazia cristiana, nelle coalizioni governative, e una fondamentale unità di leadership fra maggior partito e governo. Realizzato l’obiettivo dell’ingresso dei socialisti al governo, è sembrato che dalla posizione governativa si potesse esercitare questa funzione di guida. In realtà le cose sono andate diversamente. Dall’epoca degasperiana in poi la leadership è stata esercitata prevalentemente dal partito DC anche se in modo più confuso e se il dualismo con il governo ha reso più precaria e instabile la situazione. Essa riacquista vigore negli anni successivi alla crisi del ’60, quando l’ipotesi di centro-sinistra divenne un obiettivo
esplicito della DC e delle altre forze democratiche di sinistra. Nel ’63 l’ingresso dei socialisti al governo sembrò che dovesse spostare nuovamente sul governo la funzione preminente di guida. Ma il passaggio non avvenne. I partiti non furono più strumenti di mediazione, ma piuttosto di rivendicazione e il governo pur formulando programmi e ipotesi contrastate fra l’altro dalla congiuntura avversa, fu costretto a svolgere più un ruolo di mediazione che di spinta e di tiraggio politico. In questa situazione il logorio della formula è proceduto costantemente, anche se il suo ripiegare progressivo specie in politica economica su schemi non reazionari, come si dice, ma piuttosto conservatori, apriva alla formula la strada di un consenso più largo nello spazio dell’opinione pubblica. D’altra parte i sindacati, che in un primo tempo parvero poter assumere, anche per esplicite “aperture” governative, un ruolo di protagonisti nel nuovo quadro politico, rimasero invischiati in una sostanziale incapacità di scelta. Infatti essi, pur negando ostinatamente la politica dei redditi, l’hanno dovuta sostanzialmente subire, per quanto riguarda le rivendicazioni salariali, nel tempo della breve congiuntura e non hanno saputo precostituirsi le garanzie politiche per poterla accogliere una volta in vista della ripresa. Il governo si è dunque orientato prevalentemente (anche se non esclusivamente) sulle manovre economiche tradizionali. I partiti di maggioranza, salvo le proteste dei repubblicani, non hanno presentato schemi alternativi, mentre l’opposizione di sinistra si è sempre baloccata tra un massimalismo parolaio e lo sfruttamento di qualunque rivendicazione settoriale, senza dimostrare anch’essa una autentica forza politica e una prospettiva che fosse realmente praticabile. La crisi attuale dunque, sulla quale il giudizio severo appare giustificato più in ragione delle potenzialità disperse che non da un paragone oggettivo tra l’Italia del ’48 e l’Italia del ’67, rispecchia una certa impotenza ad uscire dal quadro di una società sviluppata che cresce tuttavia in presenza di notevoli squilibri, in una situazione di doppia carenza: quella di modelli consolidati di sviluppo che superino i moduli della pura società dei consumi, nella quale oltretutto risulta impossibile realizzare una realizzazione effettiva della spesa pubblica e dell’intervento assistenziale; e la carenza di una forza politica capace di porre in atto quanto meno degli esperimenti efficaci in questo senso. Una certa inquietudine ideologica o ideale che dir si voglia, che si manifesta più fuori che dentro l’ambito dei partiti, avverte l’insufficienza della situazione e avanza una serie di critiche alla ipotesi che sembra ormai esser incarnata nel centro-sinistra, di una acquiescenza al modulo dei consumi. Sono per lo più critiche di ordine morale o moraleggiante; qualche volta di ordine economico. È lo stesso quadro occidentale nel quale siamo inseriti che ha prodotto queste critiche. Si critica lo sviluppo delle città caotico e soffocante; le condizioni della famiglia i cui valori morali ed educativi finiscono per essere sopraffatti dal meccanismo consumistico; si critica la suggestione egoistica che promana dalla seconda rivoluzione industriale; si lamenta che il tempo libero, lungi dallo sviluppare migliori rapporti fra gli uomini, è divenuto un incentivo all ’egoismo e una manifestazione dove si accentua la competitività economica dei singoli e delle
famiglie; si lamenta che lo sviluppo quantitativo della scuola, lungi dal produrre valori umanistici o scientifici, rimane sostanzialmente subordinato alla tecnica e alla produzione, ecc. ecc. Nessuno tuttavia osa affermare che per interrompere questa direzione di marcia che appare quasi necessaria, si possa consapevolmente prospettare una sosta dello sviluppo economico, al quale siamo del resto inesorabilmente sollecitati dalla durissima competizione internazionale. E mentre isole di protesta imputano ai partiti, per il loro impoverimento ideologico e per la loro preoccupazione di potere, una tale stagnazione delle cose, i partiti lamentano di essere abbandonati dalla società civile, denunciano il disimpegno, e una sorta di neoqualunquismo più criticamente impegnato. Se un quadro siffatto della situazione appare anche parzialmente giustificato, e, ripetiamo, il pessimismo ha ragion di essere in virtù di ipotesi più che di fatti (dai quali siamo peraltro sempre più dominati), veramente difficile si presenta la via di uscita; e ogni proposta, essendo impensabile uno sbocco rivoluzionario di tipo tradizionale né volendo prendere in considerazione l’ipotesi funesta di una tensione mondiale che provochi una rottura sconvolgente attraverso la guerra, rischia sempre di restare sul terreno estremamente vago e vacuo delle esigenze o degli auspici. A noi sembra tuttavia che, proprio per un certo carattere di circolo vizioso che la situazione viene assumendo, il punto nodale della situazione resti di ordine politico. In che senso? Diremmo che, uscendo dall’ottimismo strumentale in cui si consuma ogni rapporto di credibilità tra le tesi della politica ufficiale e l’opinione pubblica, occorra in qualche modo porsi il problema di fondo delle strutture portanti di una democrazia sostanziale, vale a dire di una circolazione effettiva delle idee e delle tecniche dalla società civile alle strutture politiche e viceversa. Questa operazione non ha un punto esclusivo di applicazione perché né i partiti sono in grado di realizzarla da soli per semplice auspicio, né la società civile nello stato di prevalente sordità in cui si trova, in ragione stessa dell’economicismo prevalente nel sistema, è attualmente in grado di imporla per forza propria, almeno sino a quando le situazioni critiche denunciate non assumano una rilevanza intollerabile. Da parte di quest’ultima, dunque, tutte le forze consapevoli devono tendere a portare quanto più è possibile a livello di coscienza pubblica quello che appare il più probabile sbocco dell’attuale sistema, sviluppando l’esigenza di una cultura sommamente impegnata sulle questioni di fondo dello sviluppo, della sua governabilità, e quindi un quadro cosciente degli obiettivi proponibili ad una società moderna nell’ordine di rapporti civili comunitariamente più articolati e responsabili, in un quadro di libertà. Per questo noi consideriamo positive, in ordine delle esigenze espresse, tutte le battaglie per l’autonomia delle università, per un’organizzazione effettivamente libera degli strumenti dell’opinione pubblica, per una organizzazione della cultura non strumentalizzata agli interessi economici o partitici, ma vitalizzata dall’interno, come luogo di produzione di modelli e di valori; per un associazionismo responsabile, per una valorizzazione di queste che sono le autentiche strutture intermedie di una società democratica. Da parte della classe politica, si impone invece, nel quadro del sistema esistente
uno sforzo di comprensione, non solo, ma di realizzazione di quelle riforme che si muovono nel senso di tale articolazione, e che possono in qualche modo agevolarla. La crisi dei partiti, se ha possibilità di soluzione, l’ha soprattutto in uno sforzo di copertura verso il dialogo con la società civile, e non di assorbimento o di inquadramento di essa. Per questo la riforma della scuola assume un valore prioritario e decisivo, purché realizzi ai giusti livelli la necessaria autonomia che dia alla cultura un potere proprio e non ne faccia il campo sussidiario di competizioni pratiche. Per questo, sul piano istituzionale, per quanto impopolare possa essere oggi, può essere importante l’istituzione delle regioni in quanto però non solo determini un effettivo decentramento di poteri politici, ma dia modo di realizzare un autentico rinnovo della classe politica (di qui l’importanza di scegliere bene la legge elettorale regionale). Per cui in sede regionale si possono rompere più facilmente schemi e incrostazioni tradizionali con un graduale passaggio alla politica nazionale. L’ordine economico, proprio perché dominante, rimane in fondo il più difficile da affrontare. E come il centro-sinistra ha dimostrato, non basta prefigurare sulla carta topografica parlamentare una coalizione sufficientemente robusta per dominarlo. L’assenza di una ipotesi accettata senza riserve dalle parti e una carente strumentazione, si rivelano ostacoli insormontabili per qualsiasi governo poggi sul consenso. Ma parimenti astratta sarebbe la speranza che si possano preparare gli strumenti in assenza di una ipotesi ragionata. È difficile riformare lo Stato, l’amministrazione e la burocrazia. Ma è assurdo pensare di riformarli senza in fondo esser convinti della funzione in ordine alla quale devono essere riformati. Quindi la precisazione degli obiettivi e il loro accreditamento nel Paese sono operazioni indispensabili alla stessa riforma dello Stato. Per questo riteniamo che il nodo fondamentale resti un nodo politico e abbia tuttora nei partiti, come attuali depositari del maggior potere, il suo epicentro.
AZIONE SINDACALE E INTERVENTO L E G I S L AT I V O Inter vento richiesto su Una legislazione di sostegno, da «Dibattito sindacale», a. V, 3-4, maggio-agosto 1968, pp. 31-32.
Rispondo volentieri alle domande rivoltemi per «Dibattito sindacale» circa i temi che dovranno caratterizzare la politica del lavoro per la prossima legislatura ed il ruolo che relativamente a questi temi sono chiamati a svolgere il sindacato e le forze politiche, augurandomi che questa occasione possa costituire l’inizio di un aperto ed intenso colloquio sull’argomento. Sono innanzitutto consapevole della necessità di dar vita ad una organica politica del lavoro che da una parte si fondi su un sostegno all’azione sindacale e su un largo autogoverno dei sindacati in materia di collocamento, addestramento e sicurezza sociale, e dall’altra parte a un sostegno della mobilità delle forze di lavoro in stretta aderenza alla evoluzione della struttura produttiva che realizzi il pieno impiego di tutte le forze di lavoro disponibili. Ritengo, d’altra parte, che vada evitato il pericolo di una formalizzazione giuridica che potrebbe tradursi in pratica a vantaggio di tendenze accentratrici e burocratizzanti, e quindi a tutto danno dell’esercizio effettivo delle libertà sindacali. La via per superare questi pericoli, sempre presenti nelle prime esperienze di programmazione, non è però l’immobilismo e il disinteresse da parte delle forze politiche, ma l’impegno ad instaurare un fecondo negoziato tra sindacati e pubblici poteri in modo che sia in pratica il sindacato stesso a valutare di volta in volta tutti i provvedimenti ed in particolare le norme giuridiche che si volessero porre in essere. Sarebbe in ogni caso utile che il sindacato stesso assumesse l’iniziativa di eventuali proposte di legge. In particolare per quanto attiene alle misure di politica del lavoro tesa a creare le “condizioni di sostegno all’attività del sindacato”, vorrei accennare solo alcuni problemi che mi sembrano più maturi per una soluzione a medio termine. In primo luogo vorrei ricordare l’esigenza di eliminare un insieme di norme, che in modo diverso costituiscono un limite di fatto alla azione sindacale o una preclusione per l’estensione della contrattazione collettiva. Si tratta di norme del codice penale e del codice civile che mal si adattano con il clima delle nuove relazioni sindacali e con le esigenze di estendere i contenuti della disciplina collettiva.
Tale azione di “pulizia” legislativa dovrebbe poi dar modo di realizzare positivamente l’allargamento della gestione sindacale al controllo sul mercato del lavoro. La trasformazione della società e dell’economia italiana fanno sì che questo tema possa essere oggi affrontato in un contesto di riforme democratiche dello Stato. Come ho già sottolineato in una mia lettera a Rumor che è stata seguita da un ampio dibattito, nella realtà del nostro Paese si riscontra che mentre gli imprenditori amministrano totalmente il loro potere sull’uso del capitale e nella direzione dell’impresa, e non raramente nelle scelte economiche che superano la dimensione dell’impresa, ai lavoratori non è concesso il benché minimo controllo sul mercato del lavoro e quindi sul collocamento, sulla formazione professionale e sulla gestione dei sistemi previdenziali ed assicurativi. L’attuale situazione amministrativa costituisce una grave discriminazione nella gestione del potere sociale, che per di più non porta alcun vantaggio all’apparato statale e parastatale che diventa sempre di più un pachiderma lento a muoversi ed incontrollabile nei suoi movimenti. Un altro problema, infine, che ha raggiunto un notevole grado di maturazione per una soluzione di carattere legislativo mi sembra quello del miglioramento delle relazioni industriali che può ottenersi sia attraverso la qualificazione della funzione pubblica di “conciliazione” delle controversie, sia attraverso l’introduzione dell’ “arbitrato” volontario delle controversie individuali e collettive, sia infine dando maggiore spazio alla contrattazione ed efficacia giuridica ad alcune clausole contrattuali che conferiscono ai sindacati maggiori poteri.
FA R PA R L A R E G L I I S C R I T T I Editoriale in «La Discussione», a. XVII, ns., n. 7, 8 marzo 1969, pp. 3-4.
I vivaci dibattiti svoltisi nelle ultime sedute del Consiglio Nazionale, nel luglio e novembre del 1968 e nel gennaio del 1969, possono considerarsi contributi importanti e validi per l’imminente fase precongressuale. Poche volte, come questa, vi è stata una così intima fusione tra i problemi del Partito e quelli del Paese e una così profonda sincerità di accenti. Bisogna, quindi, farne tesoro ed evitare che cadano, come spesso avviene, in un rapido oblio. Il Paese ha registrato le nostre discussioni, ne ha colto le punte drammatiche, ne ha apprezzato le aperture verso le cose nuove, ha giudicato severamente i permanenti tatticismi. Occorre non ricominciare da capo, bisogna avere l’umiltà di continuare l’esame di coscienza che abbiamo iniziato, per concluderlo con decisioni, anche personali, coraggiose e capaci di superare le vecchie e nuove lacerazioni. Della responsabilità di non lasciar cadere nel nulla gli ultimi dibattiti è investita, in primo luogo, la nuova Segreteria, da cui è certo lecito attendersi tutte le garanzie necessarie perché questo esame di coscienza sia portato avanti di fronte agli iscritti, nelle Sezioni, senza fughe in avanti, con un dibattito libero ed aperto, fuori da ogni preclusione e da ogni timore. Bisogna stare attenti. Se il Congresso verrà celebrato nel solito modo, come mezzo plateale di investitura di gruppi precostituiti, esso non solo non ci aiuterà ad uscire dalla presente situazione, ma renderà ancora più aspri i nostri contrasti, e meno forte la nostra capacità di iniziativa politica. Bisogna certo, sotto questo riguardo, considerare attentamente le norme organizzative che presiedono alla preparazione della massima assise, cercando di piegarle, per quanto possibile, all’obiettivo politico che è di fronte al Congresso. Non si tratta soltanto, almeno per questa volta, di eleggere il nuovo Consiglio Nazionale per avere il Segretario e la Direzione, ma si tratta di ricostruire il Partito, non già in termini organizzativi, ma in termini politici; di rielaborare la nostra politica che è quanto dire la nostra fisionomia di forza dirigente che nella società più che nel governo dello Stato, ritrova la sua fonte più genuina nella sua vocazione democratica e popolare. Se dobbiamo usare ancora la proporzionale, facciamo in modo che essa non serva per congelare le attuali contrapposizioni, per cristallizzare fra di noi artificiosi motivi di differenziazione, ma usiamola ai fini che oggi realmente
contano: la alimentazione del dibattito, il confronto delle opinioni, la immissione di nuove forze nella vita del partito. Senza mai essere stato un sostenitore del panachage, non ho ora difficoltà, date le circostanze, di suggerire la sua introduzione nel sistema elettorale; ritengo potrebbe rappresentare un valido correttivo per ridurre i dannosi irrigidimenti propri delle liste bloccate. Certo, l’assise nazionale, anche in virtù dei precongressi sezionali e provinciali è la sede autenticamente democratica ove il Partito può articolarsi in maggioranze e minoranze. Bisogna però che maggioranza e minoranza si costituiscano e si caratterizzino su motivi ideali e politici di strategia e di metodo. Ma occorre il coraggio della verità: perché il Congresso possa essere strumento risolutore della crisi che tormenta il Partito, è indispensabile che vi sia da parte di tutti l’impegno a rompere i gruppi di vertice, nella misura in cui essi non sono gruppi autenticamente dirigenti, originati da chiare ispirazioni ideali ma legati alla sola esigenza di mantenere o conquistare posizioni di potere. Nessun grande partito, come nessuna organizzazione sociale può vivere senza articolazioni interne, ma se queste si trasformano in oligarchie chiuse, il Partito si trasforma in uno strumento per sopravvivere e finisce come forza di iniziativa e di movimento. Neanche le dure esigenze di governo possono costringere uno schieramento politico all’immobilismo e alla pura conservazione; ché anzi oggi per governare lo Stato è necessario essere prima che forza politica, forza autenticamente sociale, immessa profondamente nel travaglio civile di una società che cerca nuovi sbocchi e nuovi traguardi. Le oligarchie non servono il Partito, servono se stesse; è una legge della loro natura. Per questo inevitabilmente si chiudono agli apporti esterni, soffocano il dibattito, scoraggiano le nuove assunzioni di responsabilità. Si parla oggi di una grossa domanda politica che sale dal Paese. Ma soddisfare questa domanda, almeno quella parte di domanda che si rivolge verso gli ideali democratici cristiani, non è possibile se ogni gruppo operante nel Partito ritiene, in cattiva o in buona fede, che il suo solo dovere sia quello di autoperpetuare la sua forza e la sua capacità di dominio. È una vera e propria malattia che corrode lentamente ma inesorabilmente il nostro come altri organismi politici, cosicché sarebbe ingiusto muovere accuse a questa o quella corrente: siamo ormai tutti coinvolti entro un clima, un modo di essere, in cui i metodi e le tecniche per conservare ed ampliare quella parte di potere che bene o male possediamo, sono al vertice del nostro pensiero e del nostro impegno. Naturalmente può sembrare che vi sia in tutto questo un vago accento moralistico, o anche il più nobile sapore di una esortazione morale. Come si può, infatti, mettere in guardia chi fa politica dal buttare tutte le sue energie in un disegno di conquista di posizioni, sempre più alte, di comando? Non è questo alla fin fine lo scopo reale dell’azione politica? Ma è qui, è proprio qui il segno distintivo della nostra ispirazione. Certo si fa politica per essere scelti come forza dirigente entro una certa realtà, ma questa scelta passa, deve passare, attraverso la capacità di analizzare, di interpretare, guidare, proporre traguardi di avanzamento; non può essere condizionata dal ricatto, dalla minaccia, dalla discriminazione, dalla esclusione.
È la forza del consenso la base del nostro potere, e il consenso si legittima nella misura in cui si organizza attorno ad una politica, non su un puro apparato oppressivo e intimidatorio. Se le tecniche del tesseramento e le organizzazioni personalistiche ci allontanano dalla politica e dal confronto delle opinioni, i gruppi potranno sopravvivere ma il Partito è destinato a morire. Quando la discriminante si sposterà definitivamente alle etichette e alle formazioni precostituite, chi ci salverà più dall’opportunismo e dal trasformismo? E se l’opportunismo e il trasformismo alligneranno tra di noi, chi ci darà più credito? E, invece, più di ogni altra cosa il Partito ha bisogno di essere creduto: creduto dai giovani, dai lavoratori, dai tecnici, dai nuovi imprenditori, dalle forze, cioè, del rinnovamento e del progresso. Quando i partiti hanno perso la capacità di far politica, di risolvere in termini politici i bisogni e le domande della società, hanno con ciò stesso aperto un vuoto di potere. Entro questo vuoto si sono formati i movimenti di contestazione, i sussulti anarchici, le spinte eversive. Solo la maturità della società civile ci ha forse salvati dall’irreparabile. Sull’onda della costituzione si sono alimentate lotte unitarie ed autonome di studenti e di operai, cosicché stanno prendendo corpo drammatici travagli non privi di speranze. Certo occorre governare, difendere la moneta, mantenere l’ordine, assicurare un graduale progresso delle istituzioni. Ma può un partito popolare come la DC rispondere al suo dovere di governare senza confrontarsi con la nuova realtà che avanza nel Paese con i segni premonitori di una nuova stagione di impegno civile? Se il mantenere le posizioni raggiunte può apparire ad alcuni soddisfacente, allora l’attuale assetto del Partito è il migliore possibile; ma se non è così, è necessario un Partito radicalmente rinnovato, un Partito facitore di politica, non amministratore del potere conquistato. Restituiamo, finalmente, la parola agli iscritti – e l’imminente Congresso ce ne offre l’occasione – torniamo alle Sezioni, apriamo il dialogo con le forze sociali che si ispirano agli ideali della democrazia, teniamo i contatti con le forze del mutamento e prepariamoci così ad un Congresso politico, di ricostruzione politica del nostro ruolo nella società italiana. Gli iscritti devono esigere da coloro che chiedono funzioni di guida, a quelli stessi che in questo momento chiedono di rappresentarli al Congresso, di essere chiari nella manifestazione delle loro tesi sulle scelte di fondo, di essere coerenti e fedeli al mandato che riceveranno. Evitiamo fin dove è possibile i mandati imperativi ai delegati, soprattutto se derivanti da blocchi precostituiti dalle manovre verticistiche; è anche questo un modo per ridare finalmente credito e libertà agli iscritti. Soltanto se gli iscritti sapranno portare avanti con serietà questo tipo di impegno, questo sforzo selezionatore portato fino allo spasimo, il processo del Partito sarà concretamente avviato e potrà trovare sbocchi risolutori anche nel breve termine. Le profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche, pongono esse stesse l’esigenza di scelte di fondo; perdersi in formule ed alchimie di scarsa incidenza ideologica e programmatica, mentre facilita gli opportunismi deteriori, getta le premesse per il peggiore frazionismo. Certo non sono compiti ed impegni facili a realizzarsi. Tuttavia occorre sollecitare in tutti noi il massimo di volontà. Tutti i comportamenti anche individuali che richiedono coraggio, hanno in sé il potere di determinare
all’intorno profondi processi di rinnovamento, capaci a loro volta di ottenere i più insperati consensi. La maggiore tentazione che occorre rifiutare quando si assumono posizioni scomode è la paura di essere tacciati di moralismo: è una barriera morale, non moralistica, che occorre costruire, per evitare che lo sfacelo della DC, da qualche amico autorevole evocato, si traduca veramente in dolorosa realtà.
LA RIPRESA DEL DISCORSO Editoriale, «Il Nuovo Osser vatore», a. IX, 79/80, giugno-luglio 1969. pp. 3-6.
Nel panorama inquietante della situazione italiana un fenomeno oggi è il più preoccupante di tutti: il processo di dissoluzione che investe i partiti politici, il loro frantumarsi in gruppi e sottogruppi, il loro consumarsi in incomprensibili giochi di potere. É giocoforza preoccuparsi della loro sorte perché essi rappresentano, da vent’anni a questa parte, l’unica forza di governo rimasta nel nostro Paese. La loro incapacità di governarsi significa l’impossibilità di governare la società italiana. Gli stessi partiti si sono creati attorno il vuoto. Nell’assumere in sé, nell’immediato dopo guerra, tutto il potere, hanno trasformato una necessità contingente in un sistema politico diventato ormai tradizione. Con la rinuncia al dialogo e sottratti al controllo dialettico delle forze presenti in ogni società che vengono, così, sempre più indebolite e snaturate, con un mandato fiduciario che si rinnova di quinquennio in quinquennio senza trovare un freno in una tradizione politico-parlamentare in grado di autolimitarsi nell’esercizio del potere, i partiti hanno portato al progressivo sfaldamento di ogni altra componente legittima di governo dello Stato e della società. Il parlamento ha conservato di autorevole solo la facciata, il governo è diventato la longa manus delle segreterie politiche, l’amministrazione pubblica è stata ridotta in condizione senile, le forze sociali, economiche, sindacali e culturali sono state sottoposte ad una pesante tutela, blandite o minacciate a seconda delle esigenze. Si sono incentivate, anche se spesso involontariamente, l’intimidazione, il ricatto, la paura, la pigrizia morale e mentale. Per essere stati i protagonisti della liberazione del Paese e della sua ricostruzione i partiti hanno ritenuto di essere chiamati, per sempre, ad un’azione di supplenza nei confronti della società civile, illudendosi – forse senza neppur troppo approfondire la questione – di poter all’infinito ridurre, entro i propri schemi di interpretazione e di gestione, ogni fenomeno sociale. Oggi il risultato di questa esperienza è di fronte a noi tutti. L’esplosione di malessere che ha contrassegnato il 1968 ha colto di sorpresa i partiti ed, in qualche misura, tutti, cloroformizzati dal tradizionale gioco politico. La società, con l’effervescenza delle iniziative dello scorso anno, ha rivelato di essere viva, ha mostrato una energia insospettata. Il risveglio c’è stato sì, in alcune élites intellettuali, ma l’apporto combattivo di larghe masse di lavoratori,
impegnati in lotte sociali di ampio respiro, ha dato la misura di una unità d’azione non prevista. In un corpo che sembrava avviato ad un lento ma inesorabile processo di esaurimento si è avuto un sussulto di vitalità, quasi il risveglio da un lungo sonno. Un risveglio che ha gettato lo scompiglio nelle formazioni politiche, subito pronte, peraltro, causa l’incertezza del momento, a riprendere il ruolo di sempre. Ma una presa di coscienza e anche una repentina ribellione non bastano per trasformare, da un giorno all’altro, forze governate in forze governanti. Chi riempirà dunque il vuoto di potere che si registra nel nostro Paese? Si è, almeno pare, in un vicolo cieco. Una situazione incerta e senza prospettive, sorretta soltanto da un benessere economico crescente anche se disuguale; così si esprimono gli stessi politici, interrogati sul futuro. Da una parte la crisi dei partiti, l’immobilismo delle istituzioni statali, dall’altra il tumultuoso avanzare delle forze sociali. Se la diagnosi sulle forze politiche non può essere facilmente computata, se il risveglio delle forze sociali è manifesto, non può tuttavia dirsi, per non cadere in una semplicistica valutazione, che il male è ben individuato e sta da una parte sola: quella dei partiti. Sì, certamente i partiti sono malati, ma il malessere italiano è più complesso. Perciò già difficile è la diagnosi e ancor più problematica la terapia. Negli stessi grovigli vitali della società vi sono debolezze e insufficienze a cui far risalire la distorsione funzionale del nostro apparato politico e di potere. Le trasformazioni, alle quali abbiamo assistito e di cui siamo stati attori in questi vent’anni, sono certamente una realtà. Ma se è vero che ciò che si trasforma genera movimento, non è detto che il movimento debba sempre procedere entro una linea piana di stabilità e di progresso. Al contrario sottoposta ad una crescita accelerata, e per molti versi indotta da fattori esterni, non può non presentare segni di insofferenza, squilibri, logoramenti. Bisogna accettare questa realtà. Viviamo in una società malata dei suoi mali storici e dei mali del suo tempo. In una società, peraltro, che sembra non essere più disposta ad accettare il suo stato debilitante e che adesso si ribella in uno sforzo creativo che apre molte speranze, pur tra le contraddizioni vecchie e nuove. Un male nazionale è quello di procedere per balzi avanti o indietro. Niente si sedimenta, neppure il trasformismo. Stiamo per entrare nella terza rivoluzione economica, senza aver ancora acquisito, e quindi conservato nel valido, la rivoluzione precedente. La classe politica sta annaspando con l’Istituto Regionale per instaurare un efficiente rapporto tra potere politico e forze sociali. Con un problema certamente da risolvere, ma che ha fatto parte del patrimonio politico e culturale italiano di oltre mezzo secolo fa. Ma conviene percorrere fino in fondo la strada del divario tra partiti e società, così ricca di facili frasi ad effetto? Ma è anche essa una falsa prospettiva? Non serve, in un Paese in cui l’autoritarismo ha tanta presa, rafforzare le forze negatrici della libertà? E d’altra parte questa paurosa prospettiva può impedirci di indicarci i mali e di tentare di scoprire una strada giusta? Il cammino da percorrere non è quello – ne siamo sicuri – che molta stampa si ingegna, con il linguaggio suadente e reiterato, a proporre. Al di là della simpatia che non può esserci da parte nostra
per una “soluzione forte”, falsa e frettolosa immagine di nazioni democratiche incentrate sull’esecutivo e consentita da circostanze eccezionali e temporanee e da uomini irripetibili. Ci mancano le tradizioni e la struttura nazionale. La strada, quasi un sentiero erto e buio che tuttavia invita a salire, è un’altra. É quella per assicurare libertà e continuare a nuove competizioni, della diffusione delle responsabilità: i partiti devono prenderne coscienza accogliendo prontamente le necessità vere che provengono dalla società. La scuola non sarebbe nell’odierna situazione se docenti e studenti avessero vissuto in proprio l’impegno di fare la nuova scuola con l’attenzione da parte delle forze politiche a risolvere alcuni specifici problemi già maturi 15 anni fa. I sindacati sarebbero dotati di maggiore potere sociale (e quindi politico) se non si fossero defaticati in una ripetizione di schemi parapartitici al di fuori dei reali interessi dei lavoratori e della loro disparità civile, e se le forze politiche avessero loro riconosciuto potere ed effettiva rappresentatività. Lo stesso potere locale – per aggiungere un altro tra i molti possibili esempi – non sarebbe oggi così debole e inefficiente se dalla sua investitura democratica avesse tratto maggior senso di autorità politica e se le forze politiche gli avessero, fin dai primi governi repubblicani, assicurato una sufficiente autonomia finanziaria e amministrativa. Si potrà obiettare che è difficile agitare la bandiera del pluralismo, mentre si assiste, in altri Paesi, alla sua degenerazione. Lo sappiamo: non c’è una ricetta univoca. Sappiamo anche che il nostro ritardo storico è impressionante come è impressionante la nostra mancanza sostanziale di libertà e quindi di educazione alle responsabilità civili e politiche. Ma da questa strada dobbiamo frenare, prima che sia troppo tardi, Hic Rhodus, hic salta. Di fronte ad un futuro mai così veloce che tende a reggersi nella creatività e nell’apporto intelligente dell’uomo, singolo e associato, come potrà reagire il nostro Paese? Vorrà essere soltanto un grande serbatoio di manodopera e museo di favolose civiltà irripetibili? Le scelte che ci stanno di fronte, sulle quali gira la classe dirigente, non sono quindi soltanto economiche, ma di civiltà, intesa quest’ultima in senso più pieno. Ecco perché le energie politiche libere e disponibili vanno impiegate nella costruzione di un assetto più schietto e realistico nella gestione del potere sociale. Devono essere impegnate per passare dall’era della rivendicazione a quella della partecipazione. Come è stato scritto, la canalizzazione dei poteri di fatto resta un fine da perseguire, tanto più importante quanto più si voglia sfuggire alla ferocia alternativa fra le crisi di una democrazia politica, non importa se più o meno pluralistica, e la monocrazia. Su questa strada, ripetiamo difficile, occorre avviarci, realizzando gradualmente una società articolata, addestrata alle questioni del potere, sensibile ai problemi di equilibrio, aperta alle innovazioni; una società, dunque, finalmente reale in Italia, capace di costruirsi la sua grande data: una classe dirigente ampia e preparata che solo in questa prospettiva potrà nascere e crescere. Una società, in fine, in cui anche i partiti, restituiti ai loro compiti di rappresentanza di opinioni generali,
sappiano svolgere le essenziali funzioni ad essi affidate dal corpo elettorale. Vi è una costante nel discorso culturale politico che «Il Nuovo Osservatore» va conducendo, ormai da quasi un decennio, sui problemi della società italiana: è la chiamata in causa delle forze sociali come responsabili e protagoniste dello sviluppo civile del Paese. Con le analisi, le polemiche, i contributi monografici, la rivista ha sempre rifiutato di accettare che il gioco fosse giocato, interamente ed esclusivamente, nelle sedi rarefatte e misteriose della mediazione partitica. Accanto ai partiti, c’è il governo e vi è il parlamento. Ed anche altri giocatori sono scesi sullo stesso campo e tutti insieme devono segnare le scadenze della nostra storia. Nell’interesse del Paese, e di tutti noi. La battaglia della rivista non è stata facile; non sempre è stata coronata dal successo. Dopo i molti anni di impegno i suoi redattori hanno voluto riflettere sulle cose, valutare se la linea tenuta era ancora quella giusta, se meritava continuare la battaglia, impiegare energie, mantenere un dialogo difficile. Sono passati, nelle riflessioni, nei dibattiti interni, nella ricerca, sei mesi. Poi tutti assieme e con maggiori energie, abbiamo ripreso il cammino con la speranza, se i lettori ci diranno di sì, di portare avanti ancora un discorso franco, libero, creduto, valido per tutti noi.
INDICE DEI NOMI
Acanfora P., Agostini F., Andreotti G., Antonetti N., Armosino G., Astori G., Bachelet V., Ballarani G., Ballini P.L., Benedetto XV, papa, Berlinguer E., Biaggi N., Bianchi G., Bianchi O., Bigazzi G., Bo G., Bossuet J.-B., Brizzi R., Bruni D.M., Bucciarelli-Ducci B., Buozzi B., Buttè A., Calvi E., Capperucci V., Carera A., Carniti P., Casella M., Cassese S., Cavallari N., Cavallotti A.M., Cavazza S., Cavigioli E., Ceralli G., Chiarelli G.,
Ciampani A., Colleoni A. A., Colombo E., Consoni P., Coppo D., Costa A., Craveri P., Cremaschi C., Cruciani C., De Felice R., De Gasperi A., De Rita G., De Siervo U., Delle Fave U., Delors J., Di Vittorio G., Donat-Cattin C., Dossetti G., Driussi G., Einaudi L., Elia L., Fanfani A., Fasola F., monsignore, Fiorentino C.M., Foresi P., Formigoni G., Fossi G., Gabaglio E., Galasso G., Galli G., Galli L. M., Gamba G., Gedda L., Gemelli A., Geuna S., Giovagnoli A., Giovanni XXIII, papa, Giulietti G., Glisenti G., Gonella G., Grandi A., Greggi A., Gronchi G.,
Jelmini G., La Malfa U., Labor L., Laconi R., Lazzati G., Leone G., Leone XIII, papa, Lizzadri O., Lombardo I. M., Longo P., Malagodi G., Malgeri F., Malvestiti P., Marazza A., Marchi M., Marchino M., Marcorelli F., Marongiu G., Martoni A., Matteotti G., Mattesini M. C., Mazzocchi G., Mazzoni G., Melis G., Melloni A., Mezzana D, Miglioli G., Monnet J., Montini G. B., monsignore, Moro A., Moro R., Mosca V., Mura S., Mussolini B., Nenni P., Novella A., Olgiati F., Pacifici V. G., Pagano E., Paolo VI, papa, Paratore G., Parlato G.,
Parola A., Parri E., Pastore Giulio, Pastore Giancarlo, Pastore Giorgio, Pastore Luciana, Pastore Luisa, Pastore Mario, Pastore Paolo, Pastore Pierfranco, Pastore Pietro, Pastore Teresa (madre di Giulio), Pastore Teresa (figlia di Giulio), Pastore Valeria, Pavan A., Pellegrini G., Peretti S., Pinto C., Pio XII, papa, Pombeni P., Pomini R., Rapelli G., Rocchi A.C., Romani M., Romita G., Rossi R., Roveda G., Rubinacci L., Rumor M., Saba V., Sala M., Saragat G., Scalia V., Scarpellini E., Scelba M., Scotti V., Segni A., Sorel G., Spataro G., Spinelli A., Storti B., Sturzo L., Sullo F., Tambroni F.,
Tatò A., Togliatti P., Tonengo M., Toniolo G., Vanoni E., Villabruna B., Werner P., Zanibelli A., Zaninelli S., Zoppi S.,
C U LT U R A S T U D I U M Nuova Serie
ultimi volumi pubblicati 200. Massimo Merlini (ed.), Trasparenza. Una sfida per la Chiesa 201. Massimo Borghesi, La terza età del mondo. L’utopia della seconda modernità 202. Maria Bocci - Marta Busani (edd.), Towards 1968. Studenti cattolici nell’Europa occidentale degli anni Sessanta 203. Paolo Valvo, La libertà religiosa in Messico. Dalla rivoluzione alle sfide dell’attualità 204. Maurizio Fabbri – Tiziana Pironi (edd.), Educare alla ricerca. Giovanni Maria Bertin precursore del pensiero della complessità 205. Giuseppe Fidelibus - Lelio Paolo Panzone (edd.), La relazione umana oggi. Tra rischio educativo e fondazione filosofica 206. Evelina Scaglia, La scoperta della prima infanzia. Per una storia della pedagogia 0-3. Vol. 2 – Da Locke alla contemporaneità 207. Giuseppe Dalla Torre, Società secolare e diritto. Percorsi 208. Andrea Ciampani, Giulio Pastore (1902-1969). Rappresentanza sociale e democrazia politica