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Italian Pages 348 Year 1998
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Alessandro Gnocchi
Giovannino Guareschi una storia italiana
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 1998 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 88-17-66088-4
Prima edizione: aprile
1998
Le fotografie pubblicate si trovano nell'Archivio Guareschi,
che ringraziamo per la cortese collaborazione.
Giovannino Guareschi una storia italiana
A Carlotta e Alberto, qualcosa di loro padre. Ad Antonia, mia moglie,
qualcosa di me,
n QUE!
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PROLOGO
SONO UN REAZIONARIO, POSTERO MIO DILETTO
Roncole Verdi, a due passi da Busseto. Una bracciata di case buttate sul confine della vera Bassa: quella del Mondo piccolo di Guareschi. Poco più in là, comincia un mare di campi che d'estate si trasforma in un deserto verde. Da queste parti, l’aria è già impastata con quella del Po. Il silenzio che invade il grande fiume e la grande pianura si fa sentire anche qui. Picchia su ogni zolla, su ogni centimetro quadrato d’asfalto, senza fermarsi. Batte forte il silenzio alla Bassa. Insediato fra cielo e terra, rovista come un padrone tra uomini e cose. Disegna svolte lungo panorami e destini che solo a un viaggiatore distratto potrebbero apparire piatti. Dentro questa fetta di mondo si sente correre senza tregua il dito di Dio. Il silenzio si fa quesito. L'uomo si ferma. Risponde: e non sarà più quello di prima. Basta osservare una creatura che lavora un campo o attraversa una piazza. Ci vuol poco per capire che a ogni passo si immerge in un mondo dove le parole, il tempo, lo spazio si riducono in un puntino. L'essenziale per vivere. Il necessario per tornare a significare ciò che realmente esiste. Per chiudere il cerchio e riprendere il gusto inaugurale del primo giorno. Per ritrovare la propria intimità. Appoggiato alla chiesa delle Roncole c’è il cimitero dove Giovannino Guareschi riposerà sino alla fine dei giorni. Sulla tomba regna un suo ritratto in bronzo. Lo fece nel 1953 lo scultore Luigi Froni. Un solo sguardo a
quella faccia fa sentire che il silenzio di questa terra vi ha lasciato il segno dei suoi colpi. C’è troppa vita in quel ri7
tratto di Guareschi. Riesce difficile immaginare che quelle pieghe le abbia viste tutte lo scultore, per conto pro-
prio. Una parte l’ha suggerita la Bassa. Froni, del resto, era uno scultore fatto a modo suo. È
lo stesso Guareschi a spiegarlo in due racconti che pubblicò su «Candido»: «La faccia di Milano» e «La faccia di bronzo», entrambi usciti nella serie del «Corrierino delle famiglie». L’attacco del primo mette subito sulla strada
giusta: . «- E venuto stamattina un contadino in motocicletta.
Dice che ti vuol fare il busto — mi informò Margherita. «Che un contadino usasse la motocicletta, niente di strano. Strano che, dopo essere arrivato in motocicletta, il contadino mi volesse fare il busto».
Non riesce a capacitarsene Giovannino. Ma poi, più avanti nel racconto, un lampo lo illumina:
«- Ho capito chi è. Anche se viaggia in moto vestito da aviatore, non è un contadino. E uno scultore: tanto è vero che vuol farmi il busto.
«- E un contadino! — affermò Margherita. — Ricordo che, una volta, ti ha scritto e sulla busta c’era l’intestazio-
ne col mestiere scritto grosso così. «In fondo Margherita non aveva torto: quello era il periodo in cui lo scultore Froni aveva la carta intestata: Froni —- Contadino — Fidenza, e parlava esclusivamente di cose attinenti all’agricoltura. «- Si vede che ha cambiato ancora mestiere e adesso sl è rimesso a fare il suo — conclusi. «Poi, siccome, oltre ad essere un mio vecchio amico, Froni era, com'è tutt'ora, uno dei pochissimi scultori ve-
ramente scultori che esistono al mondo, la mattina dopo andai a trovarlo a casa».
Ne uscirono due ritratti: uno è quello del cimitero di Roncole.
Quel lavoro poteva farlo solo un Froni: «scultore veramente scultore». Ma pure contadino, uomo della Bassa e chissà quante altre cose ancora. Anche se Guareschi faceva, a volte, un passo indietro al suo arrivo. L’ammira-
zione dell’artista e l’insistenza per cavare dal bronzo un 8
suo ritratto finivano per imbarazzarlo. Forse, lo facevano sentire letterato di città. E questo non gli piaceva. «Mi hai guardato come si può guardare un lumacone nella pastasciutta» gli scriveva Froni in una lettera del 15 gennaio 1953,
indirizzata
al: Principe
Giovannino
Guareschi,
Roncole di Busseto. Se non fosse bastato l’appellativo di «Principe», e già bastava, in quella lettera, lo scultore chiedeva a Guare-
schi persino di posare: «Scrivendo che ero disposto a lavorare anche due mesi pur di fare un bel ritratto credo di averti preoccupato. Posare due mesi! quello è scemo avrai detto. Non è così, basterebbe tu mi potessi dedicare dieci o dodici ore e per il resto mi arrangerei con una serie di fotografie. Però le poche ore che ti chiedo sono indispensabili, se si trattasse di lesinare pure su queste dovrei rinunciare. «Ho qui ficcato in testa un tuo atteggiamento e me lo vado elaborando. E una smorfia intravvista una volta a Milano quando stavi dipingendo il cancello ed io mi sono fermato un momento con la macchina; mi hai guardato come si può guardare un lumacone nella pastasciutta. Se riusciremo col busto a comunicare quello che comunicavi tu in quel momento, avremo fatto un lavoretto degno indubbiamente di considerazione. «Mannaggia li pesci, dal tuo collo mi sento di cavarci un portento! «Comincio a essere in fregola, vedi di essermi solleci-
to... Se puoi». Guareschi non poté. Lo scultore non rinunciò. Dove mancarono le ore di posa, intervenne il Froni contadino, amico, ammiratore. L'anima della Bassa, che ci mise del suo, continua a farlo.
Meglio così. Un Guareschi posato sarebbe stato persino blasfemo. Ne sarebbe uscita una faccia da letterato. Uno di quelli che si lasciano chiamare Maestro. Che, magari, la prima volta fingono di schermirsi. Ma poi si seccano se qualcuno si dimentica il titolo e non ci mette la maiuscola. Così, il 26 aprile 1953, da Fidenza, lo scultore scriveb
va «A Giovannino Guareschi, Principe della satira, Piazza Carlo Erba, 6 — Milano»:
«Caro Nino, è nato il Principe, un Principe sdegnoso e ferocissimo. Per ora è soltanto un bozzettino da rielaborare, ma ormai, vacca il sindaco, non scappa più!». Non scappò e ne uscì una faccia che inquietò non poco Margherita. Decisa a difendere l’onorabilità del marito e della casa, nel racconto «La faccia di bronzo», schiac-
ciò Froni al muro: «- C'è modo e modo di fare della scultura — precisò Margherita. — Se lei fosse una persona perbene farebbe i ritratti come li fanno gli altri scultori: somiglianti e senza tante stupidaggini di pieghe, smorfie e via discorrendo». In effetti, Froni aveva aggrovigliato rughe, spigoli, angoli e pareva non avesse voluto fermarsi mai. Ne era uscita una faccia che andava ben oltre il solito ritratto. Aveva tirato fuori i segni che il silenzio della Bassa era andato depositando su Guareschi. Quel silenzio ora continua a muoversi attorno alla scultura della tomba delle Roncole. E non lascia molti dubbi. E la cifra di quest'uomo che, per tutta la vita, è
riuscito a scrivere con una dotazione di vocaboli ridotta all’osso. Duecento parole, diceva lui. Lo stretto necessario per dar corpo a quel silenzio senza profanarlo. Per trasformarlo in cammino di purificazione del linguaggio. Per raggiungere l’altro senza ferirlo. Per costruire il tempio dell’intimità col prossimo. Con il lettore. Il cuore della vita e dell’opera di Guareschi sta qui dentro. Il lavoro di Froni lo indica senza indugi e non sbaglia. La scrittura guareschiana è tutta strutturata attorno al gusto per l’intimità. Attorno a un raro equilibrio fra interiorità ed esteriorità, su cui fiorisce un dialogo continuo e sincero. L’intimità rischia spesso di tramutarsi in individualismo. Molti la intendono come uno stare esclusivamente presso se stessi. Invece, indica anche la via per stare presso gli altri. È l’esigenza di incontrare qualcuno che attende l’uomo oltre il suo io. Non a caso l’amore e l’amicizia dicono l’intimità. 10
Guareschi ha trovato l’equilibrio lasciando che il silenzio della sua terra occupasse tutto lo spazio necessario. In tal modo ha potuto costruire dialoghi dove le persone parlano realmente. Raccontare uomini e paesaggi raccolti in un fazzoletto di terra, ma retti da un soffio
universale.
Questo scrittore, tanto amato e poco conosciuto, ha
capito che non tutto si può vedere e mostrare. Che non tutto si può dire. Ha usato il simbolo senza essere simbolista. Ha trascritto il reale senza essere realista. Ha raccontato il vero senza essere verista. Ha badato in tutta la ua vita a non iscriversi a una scuola letteraria. Il suo mestiere gli chiedeva di raccontare delle storie. Lui lo faceva e tanto gli bastava. Non serve altro a uno scrittore. E il pubblico lo ha sentito. Le duecento parole di Guareschi sono sempre vissute di memoria. Nella sua vita di tutti i giorni, nel suo mestiere di giornalista, nei suoi lavori di scrittore, quest’uo-
mo è sempre stato presente ai momenti della sua fanciullezza. Ai giorni in cui qualcuno gli consegnava le parole che poi avrebbe imparato a pronunciare. O le storie che poi avrebbe imparato a raccontare. Ha sempre sentito che la parola è un dono, prima di essere uno strumento. E un essere detti, prima di un dire. Nascono qui don Camillo, Peppone, l’universo di Mondo piccolo. Ma anche i racconti del «Corrierino delle famiglie». E le mille altre storie che hanno sempre fatto una cosa sola con i pezzi da maestro del giornalismo. La radice dell’opera guareschiana è consapevole che l’uomo, anche al vertice della sua intimità, non è mai so-
lo. E sempre vicino e contemporaneo a chi gli ha consegnato il linguaggio che usa per dire, pensare, tacere. Il suo parlare viene dal silenzio in cui ha ascoltato. Per questo la letteratura guareschiana è una sorta di liturgia. Porta il lettore al cospetto dell'Essere. Gli consegna le parole del rito e lo invita al silenzio in cui quel linguaggio maturerà. Perché l’intimità, lo stare presso se stessi e presso gli altri, il sostare davanti al mistero è anche un dire poco. Un dire niente. E questo cammino d’°a11
scesi il soldo chiesto dal silenzio della Bassa per lasciare il segno del suo battere incessante. «Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non
replicherò,
ho parlato due volte, ma
non
conti-
nuerò» si lamenta Giobbe in un intenso passo biblico. I morti sono le uniche persone veramente sagge perché non fanno mai discorsi senza senso, dice con insistenza
Guareschi. Il silenzio indicato dal gesto di Giobbe, come quello guareschiano, non è figlio del nulla. Non nasce dove si annienta la parola. Ma nel punto in cui la parola dell’uomo si ferma per lasciare posto a quella di Dio: e si purifica. Il silenzio viene a frantumare il monologo, figlio di un uomo che si crede onnipotente. Ma è ancora parola. E dialogo, in cui l’essere umano sta presso l’altro senza cessare di essere se stesso. E il tempio dell’intimità. Una piccola chiesa sempre aperta, dove può entrare chiunque. Una chiesa di campagna che non mette soggezione. Dove il silenzio si mischia al caldo dell’estate, al-
la nebbia dell’inverno e dispone chiunque alla parola. Dove Peppone può entrare senza timore di essere visto. Dove don Camillo può anche fermarsi sulla soglia e officiare e pregare in silenzio. Questo è la pagina scritta di Guareschi. Perché questo è anche la vita del suo autore. Non si possono spiegare altrimenti un successo e un affetto che da cinquant'anni fanno il giro del mondo. Non c’è intimità, con se stessi e con l’altro, senza sincerità. E
Guareschi è uno scrittore sincero. Avversario risoluto di qualsiasi artificio. Vita e letteratura hanno sempre fatto tutt'uno nella sua opera, senza barare. «Tutti possono sollevare il cofano del mio Diesel e studiare il vecchio cuore di un figlio della Bassa» dice Guareschi in un racconto del «Corrierino delle famiglie», «Al paese di don Camillo». Non è una frase di cir-
costanza. Non è la chiusa suggestiva di una pagina in cui uno scrittore incontra le sue creature più popolari e più forti. E una regola buona nella vita e nella letteratura. Decisiva, perché, una volta detta, non può essere trasgreD2.
dita. E questo i lettori lo sentono. I critici, a volte, lo capiscono e, spesso, non lo perdonano. Ma i critici, anche se possono fare danno, per fortuna, sono pochi. Nel caso di Guareschi, molto meno dei suoi lettori. Un dato nean-
che troppo diffuso nel panorama letterario italiano. La sincerità è dunque il collante di tutti gli elementi che hanno fatto di questo uomo della Bassa un caso letterario. Non risulta strano, dunque, che il suo pubblico
sia fatto della gente più diversa. Questo singolare fenomeno è stato descritto con efficacia, forse non del tutto
voluta, da Indro Montanelli nel volume / rapaci în cortile. «(...) a Busseto Guareschi è tutto: il re per i monarchici, il papa per i preti e Stalin per i comunisti. Giovannino è l’unico profeta in patria che registri la nostra storia nazionale, la quale non registra che profeti emigrati. Egli dirime i litigi fra Peppone e don Camillo, amministra la giustizia sotto l’albero di fico, cammina seguito da un codazzo di gente in cui c’è di tutto: comunisti e conservatori, ricchi e poveri, miscredenti e baciapile». Se a Busseto si sostituiscono quasi tutti i Paesi del mondo, dove Peppone e don Camillo sono arrivati nelle vesti più diverse, il fenomeno è descritto alla perfezione. Perché non bisogna scordare la quantità di comunisti che scrivevano a Guareschi dicendogli di tenere tra i libri più cari il suo Don Camillo. E lo ringraziavano di aver messo al mondo un compagno come Peppone. Ancora oggi è possibile incontrare qualche vecchio stalinista che si comporta in maniera bizzarra. Disorientato dalla caduta del Muro di Berlino, dalla fine delle ideologie, dalla cor-
sa senza freni degli estremisti del Vaticano II, vaga invocando a sproposito il nome del «santo zio Stalin». E poi cita a memoria lunghi passi della Messa in latino e dei dialoghi di don Camillo con Peppone e col Cristo crocifisso dell’altare maggiore. E troppo comodo relegare un caso letterario come questo fra i fenomeni di costume. Un fatto di costume può reggere qualche mese, forse un anno. Non di più. Cinquant'anni sono troppi. Bisogna cambiare orizzonte e parlare di cultura. Non quella dei salotti. Perché lî Gua193
reschi non vi entrò da vivo e difficilmente potrebbe trovarvi posto ora. D'altra parte i fenomeni da salotto funzionano come i numeri del circo equestre. Dopo il rullo di tamburo e gli applausi a piene mani, non hanno più nulla da dire a nessuno. La cultura in cui va cercato Guareschi è quella che forma la vita. Che muove le idee di un’intera nazione. Non si devono scordare alcuni particolari di discreto rilievo. Nato nel 1908, questo singolare personaggio arrivò a trent'anni a essere caporedattore del principale giornale umoristico italiano. A trentacinque, partì per libera scelta per i lager tedeschi dove fu uno dei personaggi di maggior spicco della resistenza bianca: un modo di concepire la vita inviso a troppa gente. A trentotto, divenne con «Candido» il portabandiera della causa monarchica, sconfitta di misura al referendum istituzionale
del 1946. A quaranta, fu uno degli artefici della sconfitta della sinistra socialcomunista alle elezioni politiche: la sua capacità di spostare centinaia di migliaia di voti fu consacrata dai maggiori giornali del mondo. A quarantasei, osò sfidare uno degli uomini più potenti del Paese finendo in galera. A sessanta, morì rimpianto da milioni di lettori che non potevano accettare la scomparsa del padre di due figure talmente vive come Peppone e don Camillo. Ma, naturalmente, schifato dalle belle penne della cultura salottiera. Poco propense a rischiare in proprio e a capire chi lo fa: specialmente quando ha successo. Una storia italiana, arcitaliana, persino nel suo tragi-
co finale. Dove la gran parte di quelli che contavano fecero a gara nel prendere le distanze da un uomo che era parte della storia del Paese. E fin troppo famoso l’articolo con cui «l'Unità» del 23 luglio 1968 diede l’annuncio della morte dello scrittore, avvenuta il giorno prima a Cervia. Il corsivo, non firmato, concludeva parlando del «Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto». Il resto del pezzo vale la pena di essere taciuto. Da segnalare, invece, alcuni passi tratti dall’articolo di Edilio Antonelli, spietata14
mente titolato «Guareschi diede voce all’italiano mediocre». Nota non trascurabile: il pezzo fu pubblicato da «Il nostro tempo», settimanale della curia torinese. Dopo aver esordito con un caritatevole: «Era un uomo finito»,
Antonelli più avanti dice che Peppone e don Camillo: «Sono due personaggi irreali, frutto di un odio antipolitico che Guareschi portava nel sangue. Con Peppone e don Camillo e con quel Cristo saccente, che è un grossolano atto di irriverenza, Guareschi
ha combattuto
so-
prattutto la politica, i partiti, le differenze ideologiche al grido tutto italiano e menefreghista di “Volemose bene”». Poi, il botto finale:
«Fu in definitiva un corruttore; ma “nel suo tempo” e alla sua maniera, un testimone scomodo.
«Da molto tempo non aveva più nulla da dire. Ed è morto per la seconda volta in questi giorni». Antonelli incappò in un gran numero di cattolici usi a porgere l’altra guancia, ma non a far passare odio e dabbenaggine messi assieme. Il giornale fu sepolto da una quantità di lettere di protesta pubblicate a furor di lettori sui numeri successivi. Su «L'Avvenire d’Italia» trovò modo di dire la sua anche don Lorenzo Bedeschi. Storico del modernismo preso dalla passione politica, negli anni 1952 e 1953, don Be-
deschi aveva accusato Guareschi di eresia. Sosteneva che dal Don Camillo emergessero tracce di irenismo: una forma di pensiero che concilia visioni del mondo irriducibili, nella fattispecie comunismo
e cristianesimo.
Con
il
pezzo «Le ragioni di un successo» cambiava registro, ma non rinunciava a tirare alcune sante randellate. Diceva per esempio: «Il suo mondo artistico combaciava perfettamente col suo mondo di vita quotidiana. La spiegazione del suo successo sta appunto nell’aver egli rispecchiato, a sua insaputa, una nota della storia universale dell'umanità nel-
le meschine vicende paesane di Roncole o Brescello. (...)
«In fondo Guareschi ha fatto uscire dalla provincia i propri personaggi, colti in un momento inquieto del dopoguerra. Essi hanno compiuto il giro del mondo finché 15
una analoga sintonia li rendeva avvicinabili ai sentimenti del cuore umano espressi sotto i diversi paralleli geografici. La sintonia è durata un istante, perché la guerra aveva unificata una certa fenomenologia sociale. Poi sono svaniti. Infatti Peppone e don Camillo sono premorti al loro autore». Più che «Le ragioni di un successo», a ben vedere,
l’articolo doveva essere titolato «Le ragioni di un insuccesso». A commento dell’aria di caritatevole stroncatura del pezzo di don Bedeschi, va segnalato un curioso colpo di genio dovuto al grafico che lo impaginò. Poiché mancavano quattordici righe per raggiungere il fondo pagina, l’intraprendente impaginatore tappò il buco dell’ultima colonna con un talloncino pubblicitario che recitava: «Calli estirpati con olio di ricino. Basta con i fastidiosi impacchi e i rasoi pericolosi. Il nuovo liquido Noxacorn dona sollievo completo dissecca duroni e calli sino alla radice» eccetera eccetera. Una sorta di effetto «Blob», si direbbe nel linguaggio televisivo degli anni Novanta. Montaggio e rimontaggio dell’espressione linguistica che diviene epigrafe di se stessa. Il funerale di Guareschi, che si celebrò il 24 luglio, fu specchio fedele di queste prese di distanza. La bara, portata a spalla, era preceduta dalla bandiera con lo stemma sabaudo. Come quella della vecchia maestra di Mondo piccolo. La portava, di sua iniziativa, il rappresentante di un gruppo monarchico giunto da Milano. Dietro, tutta la gente delle Roncole. E pochi nomi del giornalismo. Carletto Manzoni e Giovanni Mosca, compagni di avventura al «Bertoldo» e al «Candido». Nino Nutrizio, direttore de «La Notte», e Baldassarre Molossi, direttore della «Gazzetta di Parma». Poi, tra gli altri, Alessandro Minardi, Carlo De Carlo, Nino Italo Bocchi, Ferdinando Palermo, Enzo Biagi, Mimmo Carraro, direttore generale della Rizzoli, la casa editrice dello scrittore. Nel filmato, girato
da un amatore, si intravvede anche la figura di Enzo Ferrari. Tutto si svolse con estrema semplicità. Giovannino Guareschi se ne andò sottoterra portando nella bara 16
quattro oggetti che lo avevano tenuto attaccato alla vita anche nei momenti più tristi. Una scarpina di Carlotta neonata. La crosta di formaggio con la traccia dei denti di Albertino, che sua moglie gli aveva fatto avere nel lager in Germania. Il suo martello preferito e la sua matita. Una compagnia che leniva abbondantemente l’assenza dei salotti e la cattiveria degli infingardi. Il giorno dopo, sulla «Gazzetta di Parma»,
Molossi
scriveva un pezzo dal titolo inequivocabile: «Italia meschina». Senza troppi giri di parole diceva: «Molti dei nostri attuali governanti devono qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia anti-comunista del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali: ma nessuno di essi sì è mosso, nessuno si è fatto vivo: non
il ministro, non il sottosegretario, non qualcuna delle tante “eccellenze” e dei tanti direttori generali che affollano il ministero della P. I. e l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio; neppure un commesso della Camera o un usciere del Senato. «Guareschi ha avuto la disgrazia di morire in Italia. Se fosse morto in Francia, è certo che André Malraux —
uno dei più acuti e penetranti scrittori del nostro tempo e oggi ministro degli Affari culturali del governo francese — avrebbe trovato il tempo per andare al suo funerale». Un mese più tardi, sempre dalle pagine della «Gazzetta di Parma» si alzò un’altra voce isolata a ricordare lo scrittore della Bassa. Era quella di Enzo Tortora che scriveva, in un pezzo intitolato «Il capitano coraggioso»: «Per molti, Giovanni Guareschi ha “tolto il disturbo”. In realtà, è più probabile che Giovanni Guareschi si fosse
annoiato. Annoiato di questo bigio panorama d’anime, di questo univoco coro gregoriano del conformismo truccato da “impegno”. E se ne va con lui l’ultimo capitano coraggioso: in questa domestica bacinella di cacasotto, diteci, chi rimane? (...)
«Al funerale volle una bandiera che non era la mia: con lo stemma sabaudo. Ma non è mia neppure quella con la quale certi “amici” l’hanno salutato: bianco, rosso
e verme». 17
Segno di contraddizione. Segno di scandalo. Come sanno essere le esistenze dei veri interpreti del loro tempo, della vita che continua a correre e salta gli steccati. Questo, in buona sostanza, è stata la storia di Guareschi. Una storia italiana, arcitaliana, in un’Italia che non vole-
va ascoltare. O meglio: in un’Italia dove chi contava preferiva tapparsi le orecchie e oscurare la coscienza. Perché la gente, invece, seppe ascoltare. Clericali e anticlericali, fascisti e comunisti, agnostici e baciapile, anarchici e rea-
zionari spinsero questo scrittore italiano a fare il giro del mondo con i suoi personaggi e le sue storie. Che poi erano, e continuano a essere, le storie di tutti.
Si annida un forte senso di proprietà comune attorno all’opera di Guareschi. Ed è talmente deciso da non poter essere scambiato per semplice affetto. Si radica in una grande intuizione guareschiana e chiede un’adesione molto più impegnativa. Perché si pone su un livello decisivo per la vita di ogni uomo: quello della visione del mondo. Già durante la seconda guerra mondiale, lo scrittore aveva capito che ormai andava perdendo senso la divisione fra un modo di pensare di destra e uno di sinistra. E negli anni successivi andò maturando questa idea. Ma non perché immaginasse una repubblica conciliare, dove il comunismo avrebbe trovato il modo di con-
vivere con l’anticomunismo. Dove la balena bianca democristiana sarebbe andata a braccetto col ciclope socialcomunista, dividendo potere e bottino. Guareschi aveva visto che la resa dei conti si sarebbe giocata su un piano molto più alto: tra moderno e antimoderno. Tra un mondo tecnocratico senza anima e un mondo retto dalle regole eterne di Dio. Tra un uomo spezzato e deforme, da una parte, e un uomo intero e fiero di esserlo, dal-
l’altra. Su questo nuovo fronte, lo scrittore della Bassa fu, an-
cora una volta, in anticipo sui tempi. Si schierò senza mezzi termini contro il moderno e raccolse un esercito sincero e variopinto come quello dei condottieri vandeani. Decisi a tutto pur di difendere il loro mondo, il loro Dio, la loro gente dalla furia della rivoluzione atea e gia18
cobina. Anche se messi in ginocchio dal tradimento del loro re. Se Guareschi
fu un reazionario,
don Camillo,
Peppone e tutte le sfumature che si annidano tra il nero di una tonaca e il rosso di un fazzoletto non poterono essere da meno. «Postero mio diletto,
«un giorno ti diranno certamente: “Tuo padre fu un reazionario” e tu non dovrai adontartene perché questa è la sacrosanta verità» scriveva nelle «Lettere al postero», nell’aprile del 1949. E continuava, nel suo atto d’ac-
cusa contro un progresso che procede senza curarsi dell’uomo: «La vita dell’uomo delle caverne era animalesca e ci vollero migliaia di anni per complicarla e renderla degna dell’uomo, del re del creato. In trent'anni il progresso ha distrutto ogni cosa: ha distrutto la cortesia, il pudore, le favole, l’onore. Ha distrutto la fanciullezza, sta cercando il minimo comun denominatore sessuale, sta pianifican-
do i sapori. Sta distruggendo l’iniziativa privata, la distanza, la personalità, la poesia, la musica. (...)
«Sono un reazionario, postero mio diletto, perché mi oppongo al progresso e voglio far rivivere le cose del passato. Ma un reazionario molto relativo, perché il vero bieco reazionario è chi, in nome del progresso e dell’uguaglianza sociale, vuol farci retrocedere fino alla selvaggia era delle caverne e poter così dominare una massa di bruti progrediti ma incivili». Un’invettiva che si sovrappone a quella del filosofo e teologo tedesco Romano Guardini, morto nel 1968 come Guareschi. Nella settima delle Lettere dal lago di Como, «La massa», Guardini mette sulla pagina la stessa dolorosa lettura del decadere dei costumi. Bastano pochi passi per rendersene conto: «Ancora pochi anni fa la parola “nobile” significava qualcosa di prezioso. La si adoperava raramente e con riguardo. Si sapeva che serviva a designare qualcosa di eccellente, di raro, di unico, di eccezionale. Oggi, questo vocabolo è vilipeso. Si è cominciato a parlare di gas “nobili”, poi sono venuti i comunisti “nobili” e l’acciaio “n019
bile”. Per finire, adesso, con l’acquavite “nobile”! Ma mi
pare di perdere qualcosa quando un vocabolo insostituibile viene trascinato in ogni tram dalla sfacciata e appariscente pubblicità di una marca di liquore! Cosa ne è stato della parola “uomo”, delle parole “vita”, “valore”! (...)
«Ho l’impressione che il nostro patrimonio sia stato preso tra gli ingranaggi di una macchina mostruosa capace di triturare tutto. Diventiamo poveri, sempre più poveri! (...) Devastate le cose, le parole, le forme. Rovi-
nati anche gli uomini». Risale al 1926 la pubblicazionde delle «Lettere» del pensatore tedesco. Guardini aveva 41 anni, come Guareschi ai tempi delle sue «Lettere al postero». Una singolare coincidenza che carica di suggestione la vicinanza di due intelletti cattolici alle prese con l’epoca moderna. Guareschi aveva intuito che al fondo della cultura moderna vi era la soppressione di Dio e, quindi, dell’uomo. Aveva visto avanzare il tentativo di sottrarre alla persona quanto nella vita vi è di imponderabile. Aveva visto inoculare il morbo del gesto automatico per estirpare il gusto della libertà. Per rendere tutto previsto e prevedibile. Per cancellare il senso del rischio al fine di chiudere ogni falla da cui potrebbe entrare nell’uomo il pensiero di Dio. Per aggirare il pensiero di un Signore che sta oltre il destino programmato dalla tirannia privata o di Stato. La guerra guareschiana si è scatenata contro questa visione ‘malata dell’uomo e della vita. È nata in tal modo una scrittura che ha dato corpo alle trasparenze e alle geometrie dell’universo vero, reale. E poi ha recuperato
un insegnamento che era soldo comune nella visione della vita dell’epoca premoderna. Ha insegnato ad avere nuovamente fiducia nei sensi: nell’esistenza reale delle creature e, dunque, del loro Creatore. Fra facile incontrare soldati di ogni provenienza in questa battaglia. Che, nella forma e nei tempi scelti da Guareschi, si è mostrata arcitaliana e arcicattolica. Di un
cattolicesimo che ha saputo mantenere saldo il suo ca20
rattere di universalità. Scriveva Guardini nel 1923 nel volume La visione cattolica del mondo: «E se c’è un compito per il cattolico, eccolo: che egli esca da ogni posizione di antitesi verso gli altri gruppi. Che egli riconquisti l’atteggiamento essenziale che gli è proprio, il quale vive dell’ampiezza comprensiva del proprio essere ed ha per unico avversario la negazione». Da cattolico, dunque, Guareschi ha messo insieme i
Peppone e i don Camillo sparsi nel mondo. E quelli raccolti dentro ogni lettore. Senza barare e senza essere bigotto. In un Paese dove tutti giocano a nascondersi, questo non poteva che fare di lui un caso: come scrittore e come uomo. Capace di farsi interprete del suo tempo. È di quello che verrà.
1 QUEL TEPORE MI SCALDA ANCORA
Poco prima di buttarsi nel Po, il Taro si ritaglia una fetta di pianura e vi scorrazza da padrone. Si incaponisce in una fantasia di giravolte che metterebbero il sudore freddo anche al più bizzarro dei cartografi. A due passi serpeggia lo Stirone, un corso d’acqua malgarbato che va a ingrossare il Taro e di curve ne fa fin quando è stanco. Ma non bisogna stupirsi più di tanto. Qui alla Bassa stonerebbe il contrario. Da queste parti, tutto quanto si trova fra cielo e terra, e anche qualche metro sotto, è abituato a ragionare per conto suo. E quasi mai lo fa con una cascata di pensieri dritta come un filo a piombo. Se sul più bello non scarta di lato, non gli pare neppure di aver usato il cervello: il suo cervello. Fontanelle si trova nei paraggi delle fantasiose sterzate del Taro e dello Stirone. In questa frazione del comune di Roccabianca, un paesone della pianura parmense, è nato Giovannino Guareschi. Qui si annida l’anima vera della Bassa. Da queste parti, racconta lo scrittore lungo tutta la sua opera, non vive nulla che stoni col paesaggio. Ognuno trova il suo posto. Una terra simile ha sicuramente avuto in dono dal Creatore una sovrabbondanza di gusto per la vita. Non sì spiega altrimenti la sua capacità di dare casa agli esseri più diversi senza venire lacerata. Di mettere luce dentro qualsiasi sguardo senza consumarsi. Di tenere sempre aperta a chiunque la strada del suo cuore senza perdersi. Può essere solo questa la chiave del mistero che lega due foto scattate in questo spicchio di Bassa ai primi del Novecento.
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Fontanelle, Primo maggio 1911, giorno della festa rossa. Il fotografo Edelino Seletti riprende alcuni momenti della manifestazione che culmina nel comizio dei sindacalisti socialisti Ludovico D’Aragona e Giovanni Faraboli. In uno scatto, in primo piano, è schierata una fila di bambini. Molti paiono quasi degli adulti costretti in abiti troppo piccoli. Portano i segni di una povertà che per un niente riesce a essere dignitosa e a non cadere nella miseria. Altri si mettono persino in posa e si sentono già protagonisti di una stagione più grande di loro. Tutti, però, guardano in macchina. Vogliono essere lì: in quel posto, in quel momento. Fontanelle, ancora 1911. Un altro fotografo, Carlo Roggia, cattura lo sguardo di un bambino di tre anni. Due biglie nere che passano appena di fianco al fuoco dell’obiettivo. Il piccolo Giovannino Guareschi, capelli alla bebè e sottanone scuro con colletto bianco, sembra
attratto dal mondo più che dall’evento di cui in quell’attimo è protagonista. I suoi occhi sono conficcati nella pelle di un universo adagiato tra le stanze della sua casa, tra i prati e le strade del suo paese. Esattamente il contrario di quanto accade ai bambini del comizio, presi da un avvenimento eccezionale in cui cercano di sentirsi grandi. Sembra impossibile far correre sullo stesso asse lo sguardo del piccolo Guareschi e quello degli altri ragazzini. Sono porte che si aprono su vite troppo diverse. Da quella schiera di piccoli manifestanti sono usciti, probabilmente, fior di socialisti. Uomini presi dalla voglia di creare un nuovo mondo. Giovannino, invece, ha mante-
nuto la promessa trattenuta in quell’occhiata che sfuggiva al fotografo: il mondo nuovo ha pensato bene di ricrearlo. Il suo lavoro di scrittore sì è generato attorno allo sforzo di rimettere insieme i pezzi della sua Bassa e costruire il suo Mondo piccolo. Di trovare a ogni pagina la tensione necessaria a reggere un universo popolato di esseri tuffati nell’inesorabile desiderio di vivere. Ma l’anima della Bassa ha saputo tenere stretta la storia di Guareschi a quella degli altri suoi figli. Da queste 24
parti ognuno trova il suo posto. Nulla stona col paesaggio: neppure un «Ritratto di piccolo scrittore». Quel ragazzino era troppo legato alla sua terra per sentirsene fuori, anche solo un poco. A quindici anni, quando frequentava la quarta ginnasio e ormai abitava a Parma con la famiglia, lo diceva in un tema dal titolo didascalico: «Sempre mi sta nel cuore il mio paese»: «(...) Quando guardo una carta geografica, cerco cogli occhi il nome del mio luogo natîìo, che non v'è segnato causa la sua piccolezza, e, sebbene non lo trovi, lo vedo ugualmente; rimanendo cogli occhi fissi sulla carta,
mi sembra che quel punto dove ritengo che sia il mio paese si allarghi, e si allarghi tanto da prendere le vere sembianze del mio luogo natîo, e presto ne distinguo i luoghi più cari e più noti». Riesce difficile staccarsi da quegli occhi fissi su una carta geografica nello sforzo di ricreare un luogo che nessuno vi ha disegnato. Sono gli stessi occhi del bambino che con lo sguardo sfuggiva al fotografo per cercare il suo mondo. E sono gli stessi occhi dello scrittore che, molti anni più tardi, rincorreranno un puntino nella terra tra il Po e l'Appennino per collocarvi l'universo del suo Don Camillo: «(...): il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l'Appennino (...)».
Bastano questi pochi momenti per trovare l’anima dell’uomo e, dunque, dello scrittore. D'altra parte, Gua-
reschi ha sempre cercato nella sua infanzia per scovare la vena più autentica della sua scrittura. E sì è sempre guardato bene dal tradire il bambino che fu e che, per molti versi, continuò sempre a essere. Nel racconto «Tempi duri per Santa Lucia», lo spiegava alla colf che voleva razionalizzare la storia della santa dispensatrice di doni. «(...) Che tepore meraviglioso sentivo quando tornavo a infilarmi sotto le coperte e vuotavo la mia scarpetta. Quando ci penso, risento ancora quel tepore e rivedo tutti quei regalucci da pochi soldi. Gio”: la nostra riserva 25.
spirituale è composta di sensazioni confortanti legate a determinate nostre azioni. Quando la vita ci sembra più dura, amara, fredda, quale consolazione ritrovare quel morbido, dolce tepore che riscalda il nostro vecchio cuo-
re e ci ridà forza e speranza! Sono passati cinquant'anni da allora e in questo mezzo secolo ho imparato una quantità enorme di brutte cose, ma io ci credo ancora a Santa Lucia e al suo asinello». Ancora una volta lo scrittore della Bassa ricorda da vicino Romano Guardini. E vale la pena di leggere un passo da Le età della vita in cui il teologo tedesco parla del significato dell’infanzia nella vita di un uomo: «In questa fase si costituisce lo strato dell’inconscio, che in seguito sosterrà tutto. In essa le radici dell’essere si stabiliscono in una profondità dalla quale, per tutta la vita, trarranno linfa nutritiva. L'uomo non vedrà mai più il mondo come lo vede da bambino; l’unità dell’esisten-
za, egli non la sperimenterà mai più nel modo in cui la conosce adesso. (...) solo sulla base di questa unità si può
apportare al mondo quella continua correzione, quell’approfondimento e quella spiritualizzazione che lo rendono vivibile. «Detto in un modo un poco paradossale, il bambino a cui non sia stato dato di ascoltare le favole e di viverle,
in seguito non sarà in grado di dare alla scienza il suo valore pieno, ma rimarrà chiuso nei suoi limiti (...)».
Sono molte le chiavi del successo di Guareschi. Una tra le più universali dimora qui, nella sua infanzia a Fontanelle. Dove trovò sempre alimento la sua capacità di portare sulla pagina l’unità dell’esistenza. La sua forza di esibire percorsi capaci di condurre il mondo verso la sua correzione e la sua spiritualizzazione. La sua gioia di rendere vivibile un intero universo: che poi è l’universo di tutti.
La meraviglia scrupolosa scritta negli occhi del bambino fotografato da Carlo Roggia nel 1911 dissodò il terreno su cui lo scrittore della Bassa avrebbe incontrato i suoi lettori. Fece germogliare un uomo capace di dire che l’esistenza è un’eredità talmente eccentrica da svuo26
tare ogni lamentazione per i limiti entro cui si muove. Dalla pagina guareschiana emerge un mondo talmente strano e sorprendente che avrebbe potuto anche essere completamente diverso; ma, comunque, sempre buono.
Ed emergono le ragioni per cui non risulta affatto opprimente accettare le limitazioni chieste da una così singolare bontà. Un percorso decisamente paradossale che batte vie sconosciute alla cultura moderna. Che mette in crisi il principio secondo cui le cose possono essere solo così come sì vedono. L’universo di Guareschi è tessuto nella meraviglia delle cose ordinarie. Le sue creature sono felici che l’erba sia verde, per il semplice fatto che avrebbe potuto essere grigia. Che le piante crescano con la chioma in alto perché avrebbero potuto mostrare le loro storpie radici. Sono le stesse piccole gioie che tenevano vivo l’universo contadino di Fontanelle in quei primi anni del secolo. Dove magari, prima di avviarsi con la faccia truce alla festa del Primo maggio, si ringraziava il Padreterno di essere al mondo. E questa la radice più fonda del legame tra le due foto del 1911. Ma ne esiste anche una che, solo apparentemente, corre più in superficie. Guareschi venne alla luce nella casa che faceva da sfondo alla foto della festa rossa. Era il Primo maggio del 1908. I suoi genitori, Primo Augusto Teodosio e Lina Maghenzani, abitavano una parte di Casa Balocchi: una costruzione di una certa importanza che, per la zona restante, era stata affittata alla Cooperativa socialista, al prezzo di 400 lire annue, compreso il
diritto di tenere conferenze nella corte interna. L’edificio era divenuto in tal modo una sorta di centrale dei rossi della Bassa e, sull’ingresso, portava il nome di «Casa dei socialisti». Nelle feste comandate dalla liturgia laica e progressista, diveniva un brulicare di bandiere rosse, cappellacci, baffoni e cravatte a fiocco. Appena nato, Giovannino venne presentato a questo mare rosso dal capo dei manifestanti, Giovanni Faraboli. L’uomo si fece alla finestra e disse ai comizianti radunati id
nel cortile che era venuto al mondo un nuovo campione dei rossi socialisti. Si sbagliava, ma lasciò un segno indelebile sul piccolo. Molti anni più tardi, nel 1953, alla morte del vecchio sindacalista, Guareschi lo ricordò su «Can-
dido» nell’articolo «Quella chiara e onesta faccia»: «(...) E anni e anni passeranno carichi di travaglio da questo 1° maggio, ma intatto mi rimarrà nella carne il tepore delle mani forti di Giovanni Faraboli». Quest'uomo dalle mani forti, nel 1901, aveva fondato
la Lega dei contadini, di cui era stato il primo segretario. Il suo sindacalismo era cresciuto alla scuola di gente come Camillo Prampolini e Angelo Balestrieri. Educatori di masse, presi dall’ideale della redenzione sociale, più
che dalla voglia di barricate. In poco tempo, il giovane Faraboli mise in piedi una rete di attività che fece di Fontanelle un centro modello per tutta la Bassa. Attorno alla Lega dei contadini sorsero numerose cooperative e un istituto di credito. Uno dei fiori all'occhiello del paese era la Biblioteca popolare «Edmondo De Amicis»: un patrimonio di seimila volumi, riviste e giornali. Del resto la gente di questa fetta di terra era abituata a darsi da fare. Non si limitava al lavoro nei campi, come spiega Primo Taddei nei volumi Fontanelle în patria e in esilio e Cenni storici su Fontanelle. Si occupava anche della produzione e del commercio di oggetti in vimini, zolfanelli e salsa di pomodoro. Un terzo della popolazione, quindi, girava abitualmente l’Italia settentrionale per lavoro e, dai viaggi, portava idee e costumi nuovi. Quanto di meglio potessero augurarsi Faraboli e i suoi per sostenere la loro opera. Con l’avvento del fascismo, il giovane sindacalista andò in esilio in Francia. Tornò nella sua terra al termine del secondo conflitto mondiale: socialista, pulito e generoso ancora più di prima. Dimenticato da una classe dirigente che annusava l’odore del potere invece che quello del popolo. Finì in solitudine, come tutti quelli della sua generazione e della sua razza. Fontanelle gli ha dedicato un monumento sulla piazza principale, a cinquanta metri dalla casa dove è nato 28
Guareschi. È il ritratto di Peppone. Basta guardarlo un momento in faccia e ricordare le mani forti che avvolsero il Giovannino neonato per capirlo. Fu lui che ispirò allo scrittore la figura del suo sindaco comunista. Per Peppone e Faraboli, Guareschi nutriva lo stesso affetto. E pro-
prio lui, non certo campione dei rossi socialisti, diceva di provare conforto e speranza all’espressione dolcissima del viso del vecchio sindacalista. Nell’articolo del 1953 raccontava di quando, l’anno prima, era stato a trovarlo
in ospedale: «(...) La chiara e onesta faccia era quella di un tempo, l’occhio era vivo, scintillante, il sorriso era sereno.
Ma adesso Giovanni Faraboli è uscito dalla cronaca per entrare nella storia. Non nella Storia Grande, fatta di miti e di simboli, ma nella storia piccola, quella importante,
fatta di uomini veri, di onestà e di ingegno». Nella culla, dunque,
Guareschi
respirò un’aria che
gli avrebbe sempre fatto sentire un brivido d’emozione al suono dell’/nternazionale socialista, «la prima musica», scrisse ancora su «Candido», «che le mie orecchie udiro-
no, dopo quella dolcissima delle parole di mia madre». Ma trovò, soprattutto, la genialità sregolata del padre e la solidità quadrata della madre. Mescolate secondo una ricetta che diede scossoni tremendi a tutta la famiglia. Il matrimonio tra Primo Augusto Guareschi e la maestra Lina Maghenzani rappresentò un grosso interrogativo che lo scrittore riuscì a sbrogliare solo col tempo. Matrimonio d’amore, certamente, ma destinato a virare pre-
sto verso una lunga serie di conflitti e pacificazioni. Si erano conosciuti a Ragazzola, frazione di Roccabianca, dove Primo Augusto viveva con la sua famiglia. Il giovanotto non aveva avuto un passato facile ed era pure stato in prigione due anni. Però era biondo, con gli occhi azzurri, simpatico e buono. Lina Maghenzani era arrivata in quel piccolo centro come maestra di prima nomina nell’ottobre del 1900. Ebbe inizio così una corte serrata condotta secondo i canoni dei migliori romanzi popolari. Una gran quantità di visite e un fiume di lettere e cartoline. Il corteggiamento epistolare procedeva col truc29
co. Sulle cartoline, Primo Augusto redigeva in bella vista il messaggio ufficiale, adatto a tutta la famiglia. Poi, sotto il francobollo, con raro virtuosismo calligrafico, scriveva
un pensiero segreto per l’amata: «Tu vuoi che io muoia? Amami come ti amo io, penso a te al nostro avvenire, ma tu che pensi? Non scrivi... perché...». E altre frecce ardenti simili a questa. L’uomo era decisamente singolare. Per descriverlo in poche parole si può solo dire che era un romanzo. E stava racchiuso tutto nella sua firma. Lo spiegò lo stesso Guareschi nel racconto «Venivano da lontano»: «Quando vergava la sua firma, la gente si fermava a guardare trattenendo il respiro. Perché, prima, tracciava,
convenientemente distanziate — e non sbagliava mai di un decimo
di millimetro —, le iniziali dei due nomi
e
quella del cognome, indi completava nomi e cognome e, infine, racchiudeva tutto in uno svolazzo laboriosissimo,
d’intensità crescente e che non finiva mai e pareva un finale verdiano». Per tutta la vita avrebbe rincorso progetti e attività commerciali destinati a portarlo alla rovina. Persino geniale nell’intuire nuovi sentieri per le sue imprese. Onesto fino in fondo e capace di vendere tutte le sue sostanze pur di soddisfare fin dove poteva i creditori. Di giorno girava le tenute agricole della Bassa per la trebbiatura. Poi, la sera, nelle aie, attaccava una cinghia della macchina a un proiettore, tirava un telo bianco e fa-
ceva il cinema. Commerciava in svariati generi, ma si sentiva attratto da tutte le diavolerie del progresso meccanico. Una volta sposato, aprì sotto casa a Fontanelle un emporio che offriva alla gente del posto ogni genere di macchine per cucire, motociclette, biciclette e vari altri arti-
coli. Roba da città portata in mezzo al deserto. Il suo archivio, ordinato con cura maniacale, testimo-
nia un intenso scambio di corrispondenza con i fornitori. Spesso le aziende bussavano a soldi e sollecitavano i pagamenti concordati. Primo Augusto, preso dagli inesorabili meccanismi
del commercio,
non
sempre
poteva
pagare. Le cambiali andavano in protesto, ma lui dava 30
ugualmente soddisfazioni alle ditte che lo meritavano. Per esempio, l'11 novembre 1906 scrisse una lunga lettera al Premiato Stabilimento Meccanico «Bubba Pietro fu Domenico» di Sant'Imento di Piacenza. Elogiava una trebbiatrice speciale per semi minuti che aveva acquistato poco tempo prima e le cui cambiali erano già divenute un grosso problema. Poi concludeva: «Queste mie poche parole che sentivo di dovere al merito vostro, vi siano di sprone nel proseguire con coraggiosa costanza l’opera vs. di costruttore, mantenendo quel preciso e incomparabile concetto, che vi rispecchia nella vs. macchina, il quale dovunque vi attira ammirazione e lode». Il Premiato Stabilimento «Bubba Pietro fu Domenico» ne fece un manifesto pubblicitario. Meglio che niente. Questa, probabilmente, nella testa di Primo Augusto Guareschi doveva essere l’anima del commercio. Un sentire comune attorno a ciò che di meraviglioso il genio umano riusciva a creare. Al resto delle complicazioni la sua onestà non bastava a far fronte. Per tutta la vita fu la prima vittima di se stesso D'altra parte, bisogna capire il grande fascino esercitato da quegli immensi macchinari che stavano invadendo le interminabili distese della Bassa. Le stradali, le trebbiatrici, le imballatrici erano opere d’arte. Dipinte con colori vivaci, profilate in ottone
lucido,
si muovevano
spinte da una potenza che non ammetteva ostacoli. Conquistavano i cuori come solo le musiche di Giuseppe Verdi sapevano fare da quelle parti. Da passioni del genere era difficile guarire. Primo Augusto non guarì. Per trovare una persona incamminata sul versante opposto della vita non si doveva andare troppo lontano. La maestra Maghenzani era fatta apposta. La sua missione di insegnante era tutt'uno con lo stile della sua esistenza. Dovere, entusiasmo, princìpi, regolamenti e una lunga fila di bambini da far diventare uomini, senza la
possibilità di sgarrare. Nel suo diario, raccontava in modo
molto chiaro il
suo modo di intendere la scuola e la vita: SI
«Ancora mi ricordo di quella scoletta, alle mie prime armi:
studiare,
provare,
perseverare,
riuscire.
Serietà,
giustizia, lavoro indefesso, mi danno le più grandi soddisfazioni, l’amore dei bimbi e la collaborazione dei genitori». Quanto basta per un autoritratto che non lasci spazio a sfumature. Se suo marito venerò sempre una sorta di trinità laica fatta da Giuseppe Verdi, Napoleone Bonaparte e Alessandro Manzoni, lei tenne come stelle polari Dio, Patria e Famiglia: tutte con la maiuscola e guai a metterlo in dubbio. Guareschi scrisse spesso di lei e sempre con un affetto speciale. L’unica volta in cui si lasciò sfuggire la parola odio in una sua pagina, la sguinzagliò dietro a chi si era scordato di sua madre. Alle mezze maniche del Ministero della Pubblica istruzione che avevano impiegato dieci mesi per mandare un diploma di benemerenza da Roma a Milano. Il sigillo di una carriera per una donna che avrebbe voluto aspettare il timbro dello Stato anche per morire felice e sicura di aver compiuto il suo dovere. Nel racconto «Signora maestra...» non usò giri di parole e disse alle mezze maniche di odiarle: «Anche se avete rubato un solo secondo della vita di mia madre; anche se, semplicemente,
le avete tolto un
Sorriso. «Sono uno solo, ma il mio odio è immenso come l’a-
more che ho per mia madre». Fu la figura della maestra Maghenzani a dare l’anima alla signora Cristina, la maestra vecchia del Don Camillo: «Il monumento nazionale del paese era la maestra vecchia, una donnetta piccola e magra che tutti avevano sempre visto perché aveva insegnato l’abbiccì ai padri, ai figli e ai figli dei figli (...)». Nessuno fuggiva al suo appello. Persino Peppone e don Camillo facevano un passo avanti tremando quando li chiamava. La maestra Maghenzani era un tipo del genere e viene difficile immaginarla giovane, il giorno delle nozze. Ed è difficile darle un’età pensando che, per sua stessa convinzione, quel 2 settembre 1905 andava a 92
intraprendere «un’opera filantropica innanzi a Dio e agli uomini». E ne chiamava a testimone in una lettera il nonno del marito, Antonio Mora.
L'opera filantropica le costò quanto mai avrebbe immaginato. Primo Augusto si mostrò molto più coriaceo di Peppone e don Camillo messi insieme. E solo verso la fine trovò compimento un percorso che per quasi mezzo secolo aveva seguito i sentieri più complicati. Una volta sposati, i Guareschi si stabilirono in un’ala di Casa Balocchi, a Fontanelle. Lui diede definitivamen-
te fuoco alle polveri delle sue imprese tecnico-commerciali. Lei continuò a insegnare. Con loro viveva la nonna della maestra: si chiamava Filomena Gaibazzi e anche lei,
a suo tempo, sarebbe divenuta un personaggio delle storie familiari del suo pronipote col nome di «nonna Giuseppina». Una figura talmente reale da essere decisamente letteraria. E da rendere persino difficile chiamarla col suo nome vero. Aveva allevato la nipote e ora si apprestava a far lo stesso con suo figlio con gli strumenti delle donne della sua terra. Poca familiarità con la scrittura: giusto la firma. Qualcosa di più, ma non troppo, con la lettura: perché a suo tempo la nipote maestra aveva avuto bisogno di qualcuno che le provasse la lezione. Però aveva vissuto la sua vita senza stare un solo istante soprapensiero e poteva insegnare tutto. Lo faceva a modo suo, che poi era il modo della sua gente: raccontando storie. Leggende, fatti di cronaca, romanzoni d’appendice, le scene ma-
dri dell’opera, i grandi rivolgimenti del vecchio secolo travasati nel nuovo dalla gente semplice delle campagne senza andare troppo per il sottile. Tutto si mescolava nella parlata della gente come nonna Filomena. Assumeva forma, coerenza e forza sufficienti da poter vivere e viaggiare per conto proprio. Si faceva racconto. Il piccolo Guareschi ascoltava. I suoi occhi, finalmen-
te, avevano trovato un sentiero pitturato sul mondo che stava cercando. Fu questo il primo incontro col cuore della sua anima letteraria. Il grande inventore di storie DI
trovò nell’infinito parlare di nonna Filomena il calco in cui adagiarsi e prendere forma. Questo fu anche il periodo più felice della sua infanzia. Fontanelle, il Taro, i campi, il Po poco più lontano si
trasformarono in un piccolo universo da inventare e da scoprire allo stesso tempo. Nonna Filomena, con i suoi
racconti, tracciava ogni volta sentieri diversi. Era una sor-
ta di Virgilio per quel bambino destinato a diventare il Dante della sua Bassa. Una guida capace di descrivere percorsi dell’anima. Di lasciare il segno per sempre. Non è un caso se nel 1966, in un racconto scritto per «Oggi», «Il fischio di nonna Filomena», Guareschi ricor-
dava nitidamente la gioia dell’infanzia a Fontanelle: «Nei paesi era così: la mamma,
la mattina, lavata la
faccia del bambino con acqua fresca e sapone da bucato, gli infilava il sottanone, gli consegnava una mezza micca di pane e lo metteva fuori dalla porta. Allora non c'erano automobili: strada, piazza, argini, tutto era dei bambini.
CA) «Allora le strade erano coperte da almeno dieci centimetri di candida polvere e, d’estate, era una cosa mera-
vigliosa sedersi nella polvere morbida e calda. Gio’, tu non ci crederai, ma quel tepore mi scalda ancora». La forza della pagina guareschiana trova radice proprio qui. In una gioia talmente personale, compressa in ricordi così singolari da esplodere e traboccare nella dimensione contraria: l’universale. La potenza letteraria di questo Dante della Bassa affiora nella sua capacità di governare dimensioni che, per loro natura, si annientereb-
bero a vicenda. Meridiani e paralleli della letteratura di Guareschi tracciano la mappa di un universo a più piani: come solo un bambino può vivere e come solo un grande scrittore può raccontare. Questo, probabilmente, intravvedevano gli occhi del-
la foto del 1911. In ogni caso, tutto questo avrebbe trovato più tardi nel suo cuore lo scrittore. Fortunatamente,
i racconti di nonna Filomena non
lasciavano che gli occhi del pronipote si posassero sui problemi che andavano crescendo in famiglia. Nel 1910 34
Lina Maghenzani e sua sorella Guglielmina furono costrette a vendere alla Cooperativa socialista Casa Balocchi, che loro padre aveva acquistato a costo di grandi sacrifici. Primo Augusto, ormai preso nel vortice dei suoi affari sgangherati, non si diede comunque per vinto. Lo stesso giorno convinse la moglie a stipulare il contratto per l'acquisto di due edifici sulla strada provinciale, sempre a Fontanelle. Da uno fece cavare un palazzone che chiamò Villa Maghenzani e curò personalmente la ristrutturazione. Al piano terreno aprì due negozi da affittare come in provincia non se ne erano mai visti. Quando il vetraio tagliò una parte dei cristalli delle porte per mettervi le maniglie si formò una gran folla venuta dal circondario decisa a non perdersi lo spettacolo. Nel 1918 anche Villa Maghenzani sarebbe stata venduta alla Cooperativa socialista e avrebbe cambiato il nome in Villa Rossa. Nel 1914, la maestra Maghenzani fu trasferita a Marore, un paesino vicino a Parma. Per il piccolo Guareschi venne il momento di andare in città. L’epoca felice di Fontanelle era finita. Con lui, però, c'era nonna Filomena. Le sue storie, la
sua voce, la sua figura minuta avrebbero sempre intrecciato un filo capace di ritrovare la via della grande pianura e del grande fiume. Dove tutto profuma dell’incanto del primo giorno di ogni vita. Dove la scienza, il progresso e tutto quanto inocula il morbo dell’automatismo nell’uomo perde i suoi contorni minacciosi e si riduce a niente. Dove la ragione continua a camminare sulle gambe e non sulle mani come nei baracconi della cultura moderna. Quella vecchina sempre presa a raccontare aveva seminato nel cuore del nipote un sentimento molto vicino a quanto scrive Gilbert Keith Chesterton in uno dei suoi capolavori, L’ortodossia:
«Tutti i termini usati nei libri di scienza, “legge”, “ne-
cessità”, “ordine”,
“tendenza”,
e così via, sono
intellet-
tualmente errati perché presuppongono una facoltà di sintesi superiore a quella che possediamo. Le sole parole SO
che mi sono sembrate sempre soddisfacenti per descrivere la natura sono quelle usate nei libri della fate, “malîa”, “stregoneria”, “incantesimo”. Queste esprimono l’arbitrarietà del fatto e il suo mistero. Un albero dà i frutti perché è un albero magico. L'acqua scorre verso il piano perché è fatata. Il sole splende perché è fatato». Anche lo scrittore inglese, una delle intelligenze cattoliche più acute apparse a cavallo tra Ottocento e Novecento, elaborò questo sentimento fin da bambino. E sentì presto lo scontro tra le sue impressioni e quelle che chiamò «le dottrine moderne». Tutto questo lo spinge a una ulteriore elaborazione: «Io avevo sempre creduto che al mondo ci fosse della magia; ora credevo che ci fosse un mago. Il che destava in me un'impressione profonda, sempre presente: cioè che questo nostro mondo ha qualche scopo; e se c’è uno scopo c'è una persona. Avevo sempre sentito la vita, prima di tutto, come una storia: e se c’è una storia ci deve es-
sere chi la racconta». Ancora una similitudine e ancora una citazione. Scrive Guardini nelle Età della vita: «Il bambino avverte l’affinità tra tutte le cose, la vici-
nanza a dispetto di qualsiasi separazione, sente la totalità, che è orientata all’uomo e che va oltre l’uomo. Ma egli avverte anche, in tutto ciò, un fondamento misterioso dell’essere, e, se l’ambiente circostante non lo soverchia,
la voce di Dio». E questo il senso estremo dell’eredità che nonna Filomena lasciò a Guareschi. Radicale, nella sua capacità di indicare il senso di una vita. Prepotente. Dolce.
2 TO ABITAVO AL BOSCACCIO
Parma, autunno 1914: la città. Il primo ottobre di quell’anno la maestra Maghenzani aveva affittato al numero 3 di vicolo Volta Ortalli un appartamento che facesse da abitazione e da studio. La feriva lasciare Fontanelle e i bambini della sua scuola. Ma il dolore, probabilmente, era trattenuto almeno un poco dalla speranza di poter ricominciare da capo col marito. Forse, sperava che le disastrose fantasticherie di Primo Augusto non valicassero il confine della città. Non sarebbe andata così. L'impatto con il nuovo ambiente non fu facile. In quegli anni, Parma sembrava fatta apposta per mettere in soggezione chiunque venisse dalla campagna. Il nuovo secolo aveva cominciato a divorare quanto sapeva di passato. Maria Luigia e il suo Ducato erano un ricordo che molti rimpiangevano. Eppure la città si apprestava a salutarlo per sempre. Cambiava volto e non intendeva fermarsi. Scrive Ferdinando Bernini nella sua Storia di Parma: «Lo sviluppo demografico e le nuove forme di vita hanno reso necessaria una trasformazione profonda dell’urbanistica cittadina. L’incontenibile espansione della città provocò l’abbattimento, fra il 1889 e il 1907, delle
antiche mura e di quei bei passeggi alberati, detti rampari (dal francese remparts), che molti ricordano ancora non senza rimpianto; così avvenne delle due belle scali-
nate connesse ai rampari, una dalla parte occidentale, l’altra dalla parte orientale del giardino ducale. (...)
«Dopo che, sfasciato il giro delle vecchie mura, la città traboccò tutto intorno, cercando più ampio respiro; DU
si costituì, sulla destra del torrente, il bell’arco del Lungoparma, iniziato nel 1914».
Anche il mondo che avvolgeva la Bassa stava girando pagina e cominciava, come sempre, dalla città. La prima guerra mondiale, che di lì a qualche mese avrebbe chiesto all’Italia il suo tributo, diede la spallata decisiva a questo processo. Ne fece di strada Giovannino per arrivare a Parma con la sua famiglia proprio in quei frangenti. Molta di più della quarantina di chilometri che separano Fontanelle dal capoluogo. La sua Bassa non si sentiva avvezza alla grande storia e ai grandi mutamenti. La città le era molto più distante e forestiera di quanto dicessero le carte geografiche. Guareschi lo avrebbe raccontato più tardi nel prologo a Don Camillo: «(...) nella piana frastagliata dagli argini, dove non si vede oltre una siepe o al di là della svolta, ogni chilometro vale per dieci. E la città è roba di un altro mondo». Quegli occhi che qualche anno prima avevano saputo sfuggire al fotografo per andare in cerca di chissà quale visione non potevano trovare pace nell’atmosfera cittadina. L’universo esibito dalle strade e dai palazzi cresciuti attorno all’appartamento di vicolo Volta Ortalli aveva poco o nulla da raccontare a un bambino venuto dalla campagna. Non valeva la suggestione e la voglia matta di libertà nate su un viottolo o su un argine a Fontanelle. Ma bisognava sopravvivere e a questo provvedeva nonna Filomena. Riempiva le giornate del nipote con un fiume di parole senza tempo. Il correre delle date e della storia non aveva voce nella giurisdizione del suo cuore. Con il suo raccontare travasava tutta la sua vita e il suo secolo negli anni che si avvicinavano minacciosi. Regalava l’anima di un Ottocento faticoso e felice a un Novecento che non intendeva ancora mostrare la sua. Ne ripianava le asprezze. Ne colmava i vuoti. La tenacia, l’amore e l’intelligenza istintiva di nonna Filomena salvarono il piccolo Guareschi dalla sorte che segnò tanti altri bambini. La guerra, la povertà, l’incer38
tezza del nuovo ordine si affannavano a creare crepe anche nei cuori dei più piccoli. Ma non l’ebbero vinta sul paese dell’anima fondato da quella vecchina piccolissima sempre vestita di nero. Giovannino trovò sempre segnata la strada per entrare in quel villaggio abitato dagli esseri più straordinari. Nonna Filomena, per lui, era divenuta una specie di banda della via Pal al completo. Libertà, avventura, amicizia, lealtà, onore: c’era tutto nei suoi racconti. E lui,
che lo aveva capito, contraccambiava con un amore e un rispetto rari. Si sentiva moralmente impegnato a collezionare bei voti perché lei potesse vantarsi senza smentite che il nipote era il più bravo e intelligente bambino del mondo. In questo modo, per Giovannino, diveniva molto più semplice accettare la lontananza della mamma, impegnata tutto il giorno nella scuola di Marore. E pure il vagare del padre, prima preso dai suoi commerci e poi richiamato sotto le armi per la guerra. Dal canto suo, dopo l’impatto iniziale, la maestra Maghenzani si trovò a suo agio nella nuova scuola elementare. Vi andava tutti i giorni dalla città in bicicletta, anche se la salute non la reggeva troppo. Presto, come scrisse lei stessa nel suo diario, l’amore e l’entusiasmo per la scuola
furono anteposti agli affari e agli affetti familiari. Giovannino, invece, cominciò a frequentare la scuola
elementare maschile «Jacopo Sanvitale», nel centro cittadino. L’ingresso ufficiale nella società non fu entusiasmante. Non si riteneva sufficientemente presentabile. Non gli piacevano i capelli alla bebè che i suoi si ostinavano a fargli crescere. Probabilmente non gradiva troppo neppure gli abiti da marinaretto che doveva portare. Sicuramente non riusciva a mandar giù il nome che suo padre gli aveva dato: Giovannino non gli andava proprio a genio e se ne vergognava. Tanto che sulla targhetta del cestino per la scuola ottenne, dopo aver pianto a sufficienza, che suo padre facesse scrivere «Nino Guareschi».
E, in tutto quanto sapeva di burocrazia scolastica, si spacciò a lungo per Giovanni Guareschi. 39
La maestra a cui fu affidato dalla prima elementare era la signora Amelia Bocchi. Ci sapeva fare con i bambini. Adottava un metodo che molti chiamerebbero volentieri moderno, ma basta definirlo intelligente. Si perdeva poco con aste, onde e quadratini. Poche pagine di quaderno e poi subito l'alfabeto, le parole e le frasi intere. Il primo pensiero di senso compiuto, l’inizio di un breve dettato, recitava:
«Devi dire sempre la verità». Lapidario, poco incline a dar spazio a interpretazioni. Una consegna al futuro giornalista e al futuro scrittore. Una chiave per entrare nel cuore della gente che Guareschi avrebbe usato lungo tutta la sua vita e lungo tutta la sua opera. Una consegna talmente rigorosa che il Giovannino divenuto adulto non.tradì neppure stando da solo con se stesso. Neanche nei momenti più tormentati del lager o del carcere. Neanche negli ultimi anni di vita, quando sapeva di aver ragione e vedeva troppa gente scantonare davanti ai suoi discorsi. Il bambino fatto di ricordi che si portava appresso gli ripeteva senza stancarsi quella raccomandazione. Ma non era un’ossessione. La sua anima non era abbastanza complicata per lasciar campo alle tattiche di un subconscio malato. Una passeggiata sull’argine valeva cento lettini da psicanalista. Non aveva inconfessabili complessi da risolvere. Solo una norma di vita da rispettare. E per quello bastava dire la verità. In ogni caso, il piccolo Guareschi imparava bene anche le altre lezioni. Era tra i migliori della classe e veniva promosso senza problemi. Dove c’era da studiare non si tirava indietro. Anche nella scuola di catechismo dava ottima prova. Frequentava la chiesa di San Bartolomeo e i voti viaggiavano sulla media del nove. A casa, però, la situazione andava facendosi sempre
più pesante. Primo Augusto, richiamato in servizio dall’esercito, aveva scampato il fronte. Era stato destinato come militare conduttore di caldaie a vapore in una fabbrica di Casarza. Ma questo rappresentava il solo aspetto positivo della questione. La sua disastrosa attività com40
merciale si avviava verso una frana inarrestabile che l’assenza forzata stava accelerando. Ingiunzioni di pagamento e difficoltà di ogni genere assediavano la famiglia. Sua moglie cercava di farvi fronte alla meno peggio. Lo stipendio serviva a poco. I debiti si trasformarono presto in fame e povertà. Tra Lina e Primo Augusto lo scambio di lettere era fittissimo, ma ormai aveva virato al brutto. Il 6 aprile 1916, lui scriveva in una delle tante lettere da Casarza:
«(...) Penso che il tuo animo non senta nulla, nulla
del mio soffrire e ne son prova quelle belle lettere che anziché essere dirette a incoraggiare e a confortare un’anima disgraziatamente troppo buona (sino all’ignoranza) e troppo sacrificata, quelle lettere dico eccole sempre pronte ad avvilirmi vieppiù e a rendermi l’esistenza insopportabile (...)». Lei, ed è solo un esempio fra molti, il 5 novembre
dello stesso anno lo riprendeva con violenza: «(...) tu non hai più nessun sentimento, perché altre relazioni sono subentrate all’amore. Questo lo so e lo vedo dai tuoi fatti. Ma che tu avessi anche il coraggio di lasciarmi in questo turbinio d’affari unica responsabile di tutti i guai, oh, questo non l’avrei mai creduto (...)».
Una delle poche note liete, in questa drammatica situazione, fu la nascita del secondogenito, Pino Lodovico.
Un bambinone di sei chili, grosso e grasso che pareva un bambolotto. Le difficoltà familiari non aiutarono Pino a trovare la sua strada nella vita. Col fratello si creò comunque un forte legame, pur nella difficoltà di renderlo evidente. La testimonianza di quel sentimento è in una fotografia scattata a Savona nel 1925. Si vede Giovannino sulla spiaggia tenere per le spalle il fratello. Alla morte di Guareschi, nel 1968, Pino la diede alla sua famiglia e die-
tro scrisse: «Ma le sue mani sulle mie spalle le sento ancora». Le difficoltà non turbarono il rendimento scolastico di Giovannino. Le elementari furono portate a termine brillantemente.
Il passo successivo, nell’anno scolastico
1918-19, fu la Regia scuola tecnica «Pietro Giordani». Il 41
padre, patito di tutto quanto era meccanica, voleva cavarne un valoroso ingegnere navale. La scommessa di Primo Augusto valeva quanto quella di Faraboli quando presentò alla folla Guareschi neonato come un nuovo campione dei rossi socialisti: niente. Il ragazzino si fece ben presto un’idea di quella scuola e capì che con le sue inclinazioni aveva poco a che fare. Non gli andava a genio e decise di non starci. La mattina usciva di casa con la cartella, ma ci metteva poco a cambiar strada. Andava sul Lungoparma e trascorreva le giornate dividendosi fra il greto del torrente e i giardini pubblici. Entrò in confidenza con i «maridén», i mano-
vali che lavoravano in quella zona, molto più che con gli insegnanti della sua scuola: bocciato. L’anno successivo non vide grossi cambiamenti: ancora bocciato. L’unica impressione duratura che quegli anni lasciarono su Guareschi fu una repulsione viscerale per i compiti della domenica. In un articolo per «Oggi», nel 1965, quasi cinquant'anni più tardi, avrebbe scritto: «Perché nel libro segreto dei miei ricordi il sabato pomeriggio e la domenica mattina sono così lieti e assotati, mentre il pomeriggio della domenica è così cupo, uggioso e triste? E il ricordo del compito per casa a darmi quell’angoscia che mi sono portato dietro per tutta la vita. «Ho trascorso due anni in campo di concentramento e più di un anno in prigione: là tutti i giorni erano uguali e non avevano un nome. Non esistevano calendari, ma
io sentivo quando era domenica. E se ancora oggi odio il pomeriggio della domenica e lo sento pesare sulle mie spalle, la colpa è del compito per casa. Del compito che mi aspettava al varco, la sera della domenica, quando avevo terribilmente sonno». In quegli anni, la famiglia Guareschi traslocò nuovamente. Primo Augusto andava e veniva da casa a seconda dei suoi affari e delle reazioni della moglie. La maestra Maghenzani ottenne un alloggio nell’edificio della nuova scuola di Marore. Correva il 1921. Per il giovane Guareschi, oltre al cambiamento #42
di casa, era iniziata una
nuova avventura scolastica. Era entrato come convittore al collegio «Maria Luigia» di Parma e frequentava il ginnasio «Romagnosi», il meglio della città. Rapato a zero e infilato nell’uniforme da collegiale, Giovannino mostrò di marciare molto meglio che al «Pietro Giordani». Negli studi eccelleva decisamente. Tra i suoi compagni di classe c’era un ragazzino di due anni più giovane di lui, Maurizio Alpi. In seguito sarebbe divenuto uno degli animatori della cultura parmense e avrebbe studiato da medico. In quel periodo, e anche ne-
gli anni successivi, fu uno degli amici più intimi di Guareschi. A distanza di tanto tempo, Alpi ricorda che lo scrittore divenuto popolare in tutto il mondo fu ritagliato in una gran stoffa. I suoi temi incantavano studenti e professori. E poi non sgarrava in nessuna materia. A casa non avevano soldi da buttare. Per questo si vedeva quasi costretto a portare sull’uniforme il distintivo di primo della classe. Al «Maria Luigia» Guareschi ebbe a che fare con un istitutore che, più tardi, sarebbe stato importante per la sua carriera. Aveva sei anni più di lui e veniva da Luzzara, in provincia di Reggio Emilia. Era Cesare Zavattini. Pur nei panni di primo della classe, Giovannino non riuscì a celare a lungo la sua personalità. E Zavattini lo mise nero su bianco sulla pagella bimestrale alla voce «Osservazioni del Rettore». Recita quella del primo bimestre della quinta ginnasio, anno 1925: «Troppo spiritoso. La sua “verve” è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza di irrefrenabili doti umoristiche. Veramente intelligente, ottiene per lo studio, coi minimi mezzi, i massimi risultati». Stesso anno, stessa classe, terzo bimestre:
«È un caposquadra pericoloso. Per fare dello spirito cade facilmente nell’indisciplina. Crede che la sua ottima posizione di scolaro sia il salvacondotto di non rare licenze».
Tutto questo non impedì che tra i due si formasse
uno
speciale sodalizio. Anzi, ne fu il cemento.
La sera
Guareschi e Zavattini si trovavano a compilare giornalet43
ti satirici in cui mettevano alla berlina la vita del collegio, i professori, i tic e le manie di tante giornate tutte uguàli. Facevano tutto in una sola copia. Poi il giornale girava tra i compagni in forma semiclandestina o veniva proditoriamente appeso in qualche bacheca. Era difficile immaginare allora che quei due avrebbero segnato una stagione della cultura italiana. Le sortite in compagnia di Zavattini davano solo un sollievo momentaneo a Giovannino. Il collegio era come una prigione. E, per di più, doveva starci sapendo quanto male andassero gli affari e la vita di casa. Fin dai primi mesi prese a scrivere alla famiglia. Una grande quantità di messaggi, quasi tutti su cartolina e indirizzati alla madre. Si trattava di generici saluti. Un modo per sentirsi vicino alla famiglia pur da dietro le mura del «Maria Luigia»: «Tanti saluti dal tuo affezionatissimo Giovanni» scriveva il primo aprile 1921. E il nome Giovanni terminava con uno svolazzo che tracciava un profilo. Qualcosa che ricorda da vicino la firma del Guareschi celebre disegnatore. Il primo febbraio dello stesso anno era molto più struggente nella sua imperiosa semplicità: «Vieni indubbiamente a prendermi Domenica 7 febbraio alle ore 9. Saluti al babbo. Giovanni» con svolazzo. Le notizie che arrivavano da casa non erano confortanti. Papà e mamma continuavano ad andare ognuno per la sua strada. Se si volevano ancora un po’ di bene, lo mostravano a modo loro. Non certo in maniera tale che un ragazzino potesse capirlo e trarne un po’ di conforto. Nel frattempo, i conti del collegio chiedevano di essere saldati e Primo Augusto applicava all’amministrazione scolastica lo stesso metodo impiegato con l’universo genere dei creditori. Col passare degli anni, il ragazzino dalle «irrefrenabili doti umoristiche» trovò modo di applicare queste qualità anche ai rapporti con ì genitori. In una lettera del 26 gennaio 1924, chiedeva al padre di comperargli una copia dei Miserabili di Victor Hugo. E lo rimproverava an-
44
che per una serie di promesse non mantenute: Ma si complimentava per un soprabito male in arnese in dotazione a Primo Augusto: «(...) L'impermeabile al far di camaleonte vedo che cangia ogni dì di colore, così ho constatato domenica quando ti ho visto presso il cinematografo (...)». | La lettera era corredata da un disegno a tutta pagina di un uomo senza testa, ma con sotto il braccio una copia
dei Meserabili. Sul soprabito, «al far di camaleonte», scritti a mano facevano mostra i nomi di tanti colori da riempire una tavolozza da pittore. Erano solo dei tentativi di un ragazzo decisamente singolare per vincere una malinconia sempre più insistente. Di un fanciullo indurito dalla consapevolezza che, ormai, avrebbe dovuto fare tutto da solo. Nonna Filome-
na era morta dopo un ricovero in ospedale il primo gennaio 1923. Chiuso là dentro, solo, il giovane Guareschi non era
più in grado di riconoscere la sorgente del grande desiderio d’amore e di bellezza che sentiva scorrere dentro di sé. E non riusciva neppure a capire dove quei sentimenti avrebbero finito la loro corsa. In questo disagio covava il cuore della malinconia che investiva l’intero suo essere. Ne scaturiva una vulnerabilità che poco sapeva farsi velo dei buoni risultati scolastici e delle beffe feroci escogitate
con
Zavattini.
Perché,
in fondo,
Guareschi
non era disposto a stare in guardia nei confronti della vita. La voleva tutta. Nonostante i timori e i dolori che poteva suscitargli dentro. Anche se provava sofferenza per il correre senza freno delle poche cose belle. Anche se la bellezza degli anni bambini si mescolava già alla precarietà dei sentimenti e persino alla morte. Fuggire: ma non bastava calarsi da una finestra e darsi in pasto alla città, poi alla campagna, poi al grande fiume. Quel nodo andava sciolto con la testa e col cuore. Il sentiero per trovarne il capo doveva farsi ascesi, purificazione. Bisognava intraprenderlo senza correre più del necessario. La liberazione sarebbe arrivata per conto proprio. Più tardi, ma al momento giusto. Se ne trova la 15.
trascrizione in un racconto del 1951, «Triste domenica».
E la storia di Giacomino, figlio di Bia Grolini, un agricoltore arricchito smanioso di avere in casa un laureato. Per questo Giacomino viene chiuso controvoglia in un collegio di città. Ci sta per forza, ma senza studiare. E così il padre incarica don Camillo di dargli una ripassata generale. Il parroco parte armato delle intenzioni più bellicose. Ma, davanti a un fagotto di stracci che ha solo bisogno di correre nei campi e di arrampicarsi sugli alberi, prova la nostalgia della sua gioventù. Al momento di lasciare il ragazzino lo saluta davanti a una finestra che pare quella di una prigione: «Fece per allontanarsi ma dovette voltarsi subito: Giacomino era ancora là e lo si vedeva soltanto dagli occhi in su, ma quegli occhi erano.così disperatamente pieni di lacrime che don Camillo si sentì la fronte piena di sudor freddo. «Non si sa come fu: il fatto è che don Camillo si trovò a stringere con le sue mani micidiali due sbarre dell’inferriata e vide che le sbarre si piegavano lentamente. E quando l’apertura fu sufficiente, don Camillo allungò un braccio dentro la finestra, agguantò per la collottola il ragazzino e lo cavò fuori». Nel 1952, questo episodio entrò nella sceneggiatura del film /l ritorno di don Camillo. Il bambino divenne il figlio di Peppone, ma il sapore della storia non cambiò. Guareschi trovò modo di spiegarlo al regista Julien Duvivier in una lettera in cui aveva comunque molto da lamentarsi per il resto del suo lavoro: «(...) E l'episodio che amo di più e io sono sicurissimo che Lei saprà trarne qualcosa di meraviglioso. Qualcosa che mi riporterà alla mia fanciullezza, quando, ra-
gazzo, dietro le sbarre di una finestra del collegio, guardavo una strada deserta e il mio cuore era oppresso dalla infinita tristezza dello stanco pomeriggio domenicale. Una tristezza che dura ancora, perché allora mi avvelenò il sangue. Forse, quando vedrò don Camillo piegare le sbarre, assieme al figlio di Peppone uscirà anche il colle46
giale Guareschi e, forse, dopo quarant’anni, mi sentirò li-
berato».
In realtà, lo scrittore era ormai libero da molto tein-
po. Gli anni del collegio avevano formato la sua anima. L'avevano levigata dove gli spigoli erano troppo vivi per incontrare gli uomini. L’avevano affilata nei punti in cui avrebbe dovuto tagliare senza timore per correre il mondo e aprirsi la strada verso la verità. Romano Guardini scrive un passo illuminante su un itinerario umano come questo. Nel saggio «Il senso della malinconia» dice della persona che vive una simile condizione: «Prova dolore per la transitorietà delle cose, soffre perché le viene tolto ciò che ama. La bellezza vivente è sempre passeggera. E al fianco della bellezza sta la morte. «Nondimeno, quasi a difesa estrema contro tutto ciò, ecco la nostalgia di ciò che è eterno e infinito, di ciò che
è assoluto; nostalgia di ciò che è semplicemente perfetto; di ciò che è inaccessibile e riposto, profondo al massimo, e interiore; di ciò che è intangibile e aristocratico, nobile
e prezioso. «(...) La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell'uomo. Forse sarà meglio dire: in determinate persone;
determinate,
destinate
a
sperimentare
più
profondamente tale vicinanza, la pena di tale nascita». Bisognava allargare le sbarre della prigione e cacciare uno sguardo verso l’infinito. In quegli anni, quelli dell’adolescenza e della prima giovinezza, prese forma e si rafforzò il legame di Guareschi con la sua arte narrativa e con il senso di Dio. E si aprì il capitolo del ritorno a Fontanelle. Giovannino ci andava coi ricordi durante tutto l’inverno. Poi, d’estate, vi trascorreva le vacanze: un’esplosione di verde, di sole, di acqua, di cielo. Una miscela difficile da ma-
neggiare anche per un ragazzino. Il giovane Guareschi lo sentiva sulla pelle. Temeva di essere troppo cittadino per addentare il gusto della sua terra tutto insieme. I primi giorni dell’estate se ne stava in disparte. Quasi aspettando che la vita lo investisse. Con gli occhi persi dentro a 47
un mondo che andava prendendo forma. Poi l’aria del fiume spazzava ogni timore. Ritrovava gli amici. Iniziava la grande avventura. Giorni straordinari che avrebbero lasciato il segno sulla pagina guareschiana. Lo scrittore lo ricordò spesso. Ad esempio nel racconto «La casa di nonna Filomena», uscito nel 1965 su «Oggi»: «(...) fra i ricordi della mia lontanissima, felice fan-
ciullezza c’è, al primo posto, la casa di nonna Filomena. Una casa meravigliosa, fiabesca, quadrata, tozza, gialla con persiane verdi. (...)
«In quella vecchia casa sono sepolti i giorni migliori della mia vita. Infatti, finita la scuola, io andavo a passare
le vacanze da nonna Filomena e, appena arrivato, mi toglievo le scarpe che rimettevo solo quando tornavo a casa mia per riprendere la scuola». La campagna della Bassa non poteva essere segnata in alcun modo dal dolore. E Guareschi lasciava volentieri in città l'angoscia generata dall’incomprensione tra i genitori. In quel suo mondo, anzi, andava cercando una famiglia su misura per il suo bisogno di amore, di serenità, di bellezza.
Fu così che, tra memoria
e realtà, si
trovò a vagare al Boscaccio. Territorio di Ragazzola,
comune
di Roccabianca,
a
due passi da Fontanelle. La carta topografica riporta i nomi di tre fette di terra decisamente evocativi per i cultori della genealogia guareschiana: Boschetto, Bosco e Boscone. L’ultimo dei tre ha tutti i connotati necessari per essere il Boscaccio letterario, quello di Mondo piccolo. Il podere dei genitori di Primo Augusto, Antonio e Dorotea. E lì che il giovane Guareschi si spingeva in cerca della sua famiglia. Un padre e una madre inventati, perché i suoi non bastavano a colmare la sua sete di amore e di bellezza. Una teoria interminabile di fratelli, perché uno solo non esauriva la sua voglia di compagnia e di avventura. L'invenzione, però, aveva un solido aggancio con la realtà. Nelle sue incursioni al Boscaccio, il ragazzino malinconico prendeva in prestito i genitori di suo padre. E 48
li immaginava sganciati da ogni cura che gravasse sulla
loro serenità. Andava formandosi in questi anni il nucleo essenziale di Mondo piccolo. Le gesta della gente del Boscaccio diventavano racconto. E Giovannino vi prendeva parte in prima persona. Si mescolava alla banda di ragazzini capeggiata da suo padre. Ne condivideva la vita selvaggia e felice. Tutto questo lo avrebbe trascritto molti anni dopo in alcuni dei suoi pezzi più belli. Usciti nel 1942 sul «Corriere della Sera», tre di questi si trovano anche nel prologo a Don Camillo. E non è un caso che lo scrittore li abbia messi lì, a spiegare il suo universo. Era bastato un salto di
generazione per sentirsi padrone di un mondo intero. Vestiti i panni di un Primo Augusto giovane e felice, Giovannino poteva sentire sulla pelle e dentro il cuore la meraviglia di una vita che sapeva di terra, di acqua, di sole e
di cielo. Nelle sue fantastiche incursioni al Boscaccio aveva modo di incontrare un padre e una madre su misura: il nonno Antonio Guareschi, detto Tugnén Bazzìga, e sua moglie Dorotea Mora. Tugnén, buono quanto serviva a stemperare anche la severità più contadina. Fronte alta e pizzo imponente, sguardo puntato verso l’alto, sembrava
fatto apposta per dar corpo al patriarca di una famiglia felice. Dorotea, nei pensieri del nipote, era l'esatto con-
trario della maestra costretta a fronteggiare guardinga la realtà. Nelle storie del prologo a Don Camillo lui avrebbe trovato modo di perdere una giornata intera per scoprire come Chico, il più piccolo della banda, faceva fuori i paperi. Lei, con l’aria sognante e rassegnata risarciva i paperi morti dei vicini con paperi vivi e lasciava tutto alla Provvidenza. Col passare degli anni, queste fantasie avrebbero trasmesso vita ai ricordi e sarebbero divenute la cifra di Mondo piccolo. Sarebbero divenute l’architrave di un mondo salvato. Di un puntino nero vagante tra il Po e l'Appennino in cui tutto trovava giustificazione: il bene e il male, i santi e i peccatori, il cielo e la terra. Un univer49.
so tutto da amare, senza levarne un solo granello. E Guareschi lo amò fin dal principio. E lo stesso processo spirituale che descrive Chesterton nel capitolo «La morale delle favole» in L’ortodossia: «C'è chi preferisce commuoversi per l’immensità del mondo; perché non si potrebbe scegliere di commuoversi per la sua piccolezza? «A me capitò precisamente questo. Quando uno prova della tenerezza per qualche cosa, ricorre ai diminutivi,
anche se deve apostrofare un elefante o un corazziere. Ciò perché ogni cosa, per grande che sia, se può essere percepita come completa, può essere concepita come piccola. (...)
«Io l’universo lo amavo ‘appassionatamente e perciò desideravo chiamarlo col diminutivo.
(...) In verità ho
sempre sentito che questi oscuri dogmi della vita si esprimevano meglio chiamando il mondo “piccolo” che chiamandolo “grande”». La tenerezza provata da Giovannino per il suo mondo era tutta scritta negli occhi sfuggenti della fotografia del 1911. Col procedere degli anni, quegli occhi frugavano sempre più avidamente la Bassa. E, pur avendo trovato un padre e una madre al Boscaccio, sapevano di non potersi fermare. Pur nell’incomprensione, e talvolta persino nell’ostilità, quel ragazzo sapeva che, attorno a lui, doveva esserci un posto anche per i suoi veri genitori. Specialmente per suo padre, che considerava l’origine di tante disavventure. Ma che non sapeva quanto fosse, innanzi tutto, la prima vittima di se stesso. E quanto gli volesse bene. Tanto da arrivare a detestarsi. Avviato con la genesi di Mondo piccolo, questo confronto col padre avrebbe trovato in quell’universo il luogo della sua soluzione. Ma sarebbe avvenuto molti anni più tardi, dopo la morte della maestra Maghenzani e di Primo Augusto. Sarebbe fuorviante legare il mondo letterario guareschiano a un rapporto irrisolto coi genitori. Non v'è traccia di uno squilibrio simile sulla pagina e nella vita di Gua50
reschi. Vi si trova, invece, una forte nostalgia del padre sa-
pientemente dosata da un energico spirito religioso.
Le vacanze a Fontanelle, le fughe al Boscaccio, il re-
cupero dei nonni come genitori ideali testimoniano una maturità spiccata per un adolescente. Il giovane Guareschi era consapevole che essere figlio richiama alla vita un tema forte come quello dell’alleanza. Che l’esistenza di un essere umano,
prima che farsi progetto, ha la for-
ma dell’accadimento gratuito. Attraverso la meraviglia del suo primo cammino, quel ragazzo aveva capito di essere preceduto da un’intenzione promettente e, insieme, da un’attesa impegnativa. Da parte sua voleva mantenersi fedele a quella condizione. L’aria di saga patriarcale delle storie del Boscaccio richiama alla mente la maestosità del comandamento di onorare il padre e la madre, così come viene trascritto nella Bibbia al capitolo 20 del libro dell’ Esodo: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio». L’incedere melodioso e solenne di quei racconti guareschiani è frutto della fedeltà al comandamento divino costruita ogni giorno. Eretta a ogni costo. Più forte di qualsiasi dolore. Basta scorrere l’inizio di «Al Boscaccio», la «Prima storia» di Mondo piccolo: «Jo abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre,
mia madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto». Guareschi non cessò mai di sentirsi figlio, anche a fronte delle svolte più brusche imposte dalla vita. Anche a fronte di una cultura che ha impiegato alcuni secoli nella lotta alla figura del genitore. L’ostinata ricerca del padre e della madre è l’esatto contrario dello spirito moderno che vede in Cartesio uno dei suoi patriarchi. Il filosofo francese, nel Discorso sul metodo, si mostra persino 51
scandalizzato dall’idea che abitudine ed esempio, cioè la figura del padre, possano contribuire a formare l’uomo: «Sin dagli anni del collegio, appresi che non si può immaginare nulla di tanto strano e poco credibile che non sia stato detto da qualche filosofo. Poi, viaggiando, potei constatare che non tutti quelli che sentono in modo contrario da noi sono per questo barbari o selvaggi; ché, anzi, molti di essi usano la ragione quanto e più di noi. Il che mi fece comprendere come un medesimo uomo, con la stessa intelligenza, educato sin dall’infanzia
tra francesi o tedeschi, vien su diversamente da quel che sarebbe se fosse vissuto tra cinesi o cannibali. (...) Non
una conoscenza certa, dunque, è per lo più quello che ci fa persuasi, ma l’abitudine e l'esempio». Il possibile contatto dell’uomo con idee o persuasioni che non possono essere giudicate in maniera critica è ritenuto da Cartesio, e da tutta la cultura che ne discende, un male radicale. Il criterio delle idee chiare e distin-
te, secondo il filosofo francese, deve fare giustizia dell’abbrutimento arrecato dall’esempio. Dal canto suo, Guareschi ribaltò fin dalle prime battute della sua vita quel male radicale in un bene senza confini. Fece della ricerca dell'esempio la via lungo la quale incamminarsi verso il senso ultimo dell’esistenza. Tra i maestri che incontrò su quel sentiero, uno dei più incisivi fu padre Lino Maupas. Un francescano, venerato in tutta Parma e nel territorio circostante. Padre Lino era un frate molto semplice e interpretava il Vangelo secondo un metro impegnativo anche per un uomo di Chiesa. Senza troppi apparati teologici, si dava tutto per Dio e per gli uomini. Arrivò in città il 18 giugno 1893 e vi morì a 57 anni il 14 maggio 1924. Chi lo conosceva, anche solo un poco, nel suo cuore lo considerava già un santo. Convento e Chiesa dell’Annunziata, dove svolgeva
il suo ministero, erano nell’Oltretorrente, la zona più povera di Parma. In quegli anni luogo delle sofferenze più diverse, tutte generate dalla stessa madre, la miseria.
Quel francescano vi si muoveva portando sollievo come poteva. I ricchi non riuscivano mai a negargli una 52
parte del loro sovrappiù. E se incontrava resistenza non esitava a mettere sul piatto l’astuzia evangelica. I poveri prendevano ciò che dava loro senza pretendere altro. Sapevano che per portare almeno quel poco ci aveva messo di suo fame, fatica, sonno e lunghe parlate col Cristo del-
la sua chiesa. Per padre Lino, corpo e anima erano tutt’uno in qualsiasi uomo. Anche nel peggiore dei carcerati di cui era cappellano. E sapeva che, a volte, persino la bestemmia più feroce esprime una nostalgia di Dio. Fu l’unico religioso che, nelle rivolte del 1898 e del 1907-1908, af-
frontò a viso aperto gli insorti decisi a bruciare le chiese. Si offrì in ostaggio alla folla. Bruciassero lui invece che la casa di Dio. Nessuno osò mai fargli nulla. Guareschi lo conobbe. Lo vide fuori dalla sua scuola,
che stava vicino alle carceri. Ne parlò spesso. Ne fece anche un breve ritratto in una
«Lettera a don Camillo»,
uscita il 1° febbraio 1968 su «Il Borghese»: «Un frate che rubava ai ricchi per dare ai poveri, che difendeva i rivoluzionari rossi, che non esitava a entrare
nelle case di tolleranza per questuare dalle prostitute indumenti e danaro da distribuire a poveri neonati dell’Oltretorrente, un frate che (io lo ricordo bene) girava per la città con fascine sulle spalle o reggendo a fatica grosse pentole di minestra, e, quando una madre non aveva più latte, prendeva amorevolmente il povero bambinello affamato tra le braccia e girava in lungo e in largo fino a quando non trovava una donna disposta a regalare qualche poppata al piccolo infelice, rappresenta qualcosa di meraviglioso se si pensa ai tempi in cui ciò avveniva». Era impossibile vivere a Parma ignorando padre Lino. Tanto più che Primo Augusto, pur venerando la tria-
de Verdi, Napoleone, Manzoni, mostrava ai figli le figure di religiosi degne di attenzione. Il primo ottobre 1925, per esempio, scriveva una cartolina ciascuno a Giovannino e Pino per invitarli alla Messa in Duomo della domenica successiva. Scopo principale ascoltare la parola di
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padre Roberto da Nove. La cartolina indirizzata a Giovannino, che portava la fotografia del frate, diceva:
«Dal sereno sembiante di questo padre santo tutto irradiante luce e amore, voglia Iddio che in te ispiri un raggio del suo bel genio. Vorrei che venissi a sentire in Duomo la sua parola, che è delitto non sentirla. Domenica alle ore 10 verrò a prenderti al collegio, che la predica è alle 18. Tienti pronto. Saluti. A». In ogni caso, la prova del segno lasciato da padre Lino sta in due racconti della saga di Mondo piccolo, usciti nel 1952 su «Candido»: «Roba del 1922» e «Il frate cercone». Anche se non viene mai nominato, il francescano
che cammina in quelle pagine è il frate dell’Oltretorrente. Inoltre, in carcere a Parma per l’affare De Gasperi,
Guareschi pensò più volte di scrivere una sceneggiatura sulla vita di padre Lino. Uno dei suoi quaderni di appunti mostra il procedere dell’elaborazione del progetto, che però non fu mai portato a termine. Da quel frate, Guareschi imparò una verità evangeli-
ca arditissima nella sua semplicità. La creazione è un’opera d’amore. Ma l’intelligenza, se lasciata alle sue sole forze, pensa di trovare nel mondo
solo indifferenza e
crudeltà: e invece tocca con mano solo la sua stessa indifferenza e la sua stessa crudeltà. Non condanna veramente la sofferenza, ma quella che le pare una cattiva organizzazione della sofferenza. Cerca in una ambigua ribellione al soffrire la giustificazione al proprio egoismo. L’universo guareschiano, invece, fin dai primi momenti, è consapevole di essere intessuto nell’amore. E si
impegna, sempre, in ogni atto della sua vita. Pronto a salvare tutto e tutti. A non condannare alcuno all’indifferenza. Qualcosa di molto simile è descritto da Georges Bernanos in una conferenza del 1947 dal titolo quanto mai significativo: «I Santi, nostri amici»:
«Lo sapete, la maggior parte degli uomini impegnano nella vita soltanto una piccola parte, una parte ridicolmente piccola del loro essere, come quei ricchi avari che un tempo se ne morivano perché spendevano soltanto l’utile dei loro utili. Un santo non vive dell’utile dei 54
suoi utili e neanche vive soltanto dei suoi utili: vive del suo capitale, impegna tutta quanta la sua anima».
Tutto ciò rende il santo vicinissimo all'uomo comune. Anzi presuppone che l’uomo comune debba aspirare a essere santo. E questo il senso del finale del racconto «Roba del 1922», dove Guareschi spera che quel fraticello non venga messo sugli altari e, in fondo, sottratto agli uomini. Quella speranza tornerà negli appunti dal carcere, nel 1954:
«Padre Lino. Perché lo volete far Santo? Perché volete allontanarlo da noi uomini comuni, mettendolo su un
eccelso piedestallo. Non qualificatelo uomo d’eccezione. Lasciatelo nella categoria degli uomini comuni. Non parlate dei miracoli che Egli compì da morto. Parlate soltanto delle cose buone che Egli fece da vivo. Non lo portate in Cielo: il Cielo non ha bisogno di Santi. Lasciatelo qui in terra. «Il suo altare è qui in terra, nei nostri cuori». Ancora un parallelo con Bernanos che, nella conferenza sui Santi, sembra usare la carta carbone:
«La casa di Dio è una casa di uomini e non già di superuomini. I cristiani non sono dei superuomini. È neanche i Santi sono superuomini, perché sono i più umani tra gli umani. I Santi non sono sublimi, non hanno bisogno del sublime, ma piuttosto il sublime avrebbe bisogno di loro. I Santi non sono degli eroi alla maniera di Plutarco. Un eroe ci dà l’illusione di essere al di là dell’umanità, ma il Santo non sta al di là dell’umanità, ben-
sì l’assume, si sforza di realizzarla il meglio possibile». Anni dopo, padre Lino avrebbe donato il suo cuore a don Camillo. Gli occhi di Giovannino, ora, cominciavano
a intravvedere un mondo nel quale puntare lo sguardo.
olibesuna intarsi “i antes urto;
3 L'OMBRA AUGUSTA DELLA DUCHESSA
Parma,
anni Venti, Regio
ginnasio
«Romagnosi».
Nel-
l’auletta assegnatagli per le sue lezioni, il professor Ferdinando Bernini, docente di latino e greco, amava leggere le Storie di Tacito. L’allievo Giovannino Guareschi sedeva al primo banco, vicino alla porta. Maurizio Alpi, che stava in quella stessa classe, ricor-
da l’attenzione speciale del giovane Guareschi. Più per il metodo del professor Bernini che per Tacito. Più per l’amore alla materia raccolto nelle parole dell’insegnante che per i segreti del latino. Quel ragazzino con gli occhi scuri fissi sulla cattedra aveva capito ciò che molti compagni di classe non avevano neppure sfiorato. Il vecchio professore stava passando di mano il mestiere della cultura. Stava spiegando per quale strada si entra nel paese delle idee. Come ci si deve vivere per non perdere se stessi e gli altri. Rigore, onestà, amore
scendevano di catte-
dra e si potevano respirare tra i banchi. Bastava saperli cogliere. E Giovannino, racconta Alpi, fu il più bravo di
tutti. Non a caso molti anni più tardi, nel 1941, Guareschi sottopose il suo primo libro, La scoperta dî Milano, all’esa-
me del vecchio professore. Ormai giornalista affermato, attendeva con trepidazione quel giudizio, che teneva in conto più di tanti altri. E il professor Bernini gli scrisse: «Tutti quelli di casa mia che sono giunti all’età della ragione hanno letto il suo libro, e con grandissimo piacere, sorridendo e talora pensandoci su. Mi pare sia la miglior lode. Continui fervidamente la sua attività!». Ferdinando Bernini era un banco di prova fondaDA
mentale per più di una ragione. Oltre che uno degli insegnanti più stimati del «Romagnosi», era il padre di varie generazioni di intellettuali parmigiani. Con i suoi studi su Parma, con la collaborazione ai giornali cittadini,
con la frequentazione dei circoli culturali era divenuto uno dei punti di riferimento nel commercio delle idee. Nei caffè, a scuola, sui giornali lasciavano il segno le sue
posizioni, sempre attente alle ragioni degli altri. Socialista con giudizio, ricorda Alpi, non fece mai nulla per plagiare un suo allievo. Non si espose se non col ragionamento e la comprensione. In un momento storico tanto complicato, dove si faceva politica più con la stanga che col cervello, per molti giovani divenne un riferimento. Al di là delle passioni politiche e culturali professate. Perché insegnava a portare qualsiasi-questione sul terreno dell’incontro col prossimo. Per Guareschi, la scoperta del professore di latino e greco fu una delle poche esperienze positive degli anni trascorsi in collegio. Sicuramente uno dei momenti decisivi della sua vita. Se ne rese conto presto. Gli insegnamenti di Bernini lo iniziavano al mestiere di intellettuale. Non alla semplice pratica. Ma a qualcosa di molto più difficile e pericoloso. Il mestiere, appunto, che presuppone rigore, onestà e amore. Che richiede la docilità e la forza necessarie alla comprensione di una tradizione. Tra il professor Ferdinando Bernini e l’allievo Giovannino Guareschi si instaurò presto un rapporto tra maestro e allievo. Forse più voluto dal giovane Guareschi, che andava cercando qualcuno che gli permettesse di dar forma al suo mondo interiore. Al piccolo universo che i suoi occhi continuavano a inseguire. Certo è che tra loro si crearono le condizioni necessarie alla trasmissione di un mestiere, così come le spiega il filosofo Alasdair MacIntyre in Enciclopedia, genealogia e tradizione. «Per diventare esperto di un mestiere bisogna, come già abbiamo visto, saper applicare due tipi di distinzioni. La prima consiste nel saper discriminare tra ciò che in quanto attività o prodotto della mia attività sembra buo58
no a me, e ciò che è effettivamente buono in realtà. (...)
La seconda distinzione, invece, è quella tra quanto di meglio io posso fare qui e in questo preciso istante, tenuto conto dei limiti imposti dal mio livello attuale di competenza nel mestiere, e il bene senza alcuna riserva».
E facile scorgere in queste due distinzioni le linee maestre su cui si mosse Guareschi. Il rifiuto di cadere nell'egoismo scambiando il proprio bene personale col bene di tutti. Il tenace attaccamento all’umiltà come fermento del proprio lavoro e, dunque, nell’incontro con gli altri. Due strade maestre frutto di un’attenta riflessione morale. E di un’evidenza elusa da troppi intellettuali: la morale non è un’opinione da costruire lentamente, ma una sapienza che chiede di essere praticata. Fra le tracce di questo battesimo del sapere lasciate da Guareschi sulla pagina ve ne è una esplicita e commovente. E la storia di Gigino, il piccolo protagonista del racconto «Arrivi dalla città». Il ragazzino, stanco di studiare, fugge di casa e approda al paese di don Camillo. Non ne vuole sapere della scuola. Vuole fare il meccanico. E don Camillo, naturalmente, lo porta da Peppone: «Peppone grugnì, si volse, raccolse la chiave inglese e riprese a lavorare accanto al motore. «Gigino guardò don Camillo e don Camillo gli fece cenno di sì. «Allora Gigino si tolse il cappottino e, sotto, aveva la sua brava tuta di tela blu. «Peppone buttò via la chiave inglese e cominciò a lavorare con le chiavi fisse. Svitò quattro dadi del 16 poi gli serviva la chiave del 14. «E se la trovò davanti al naso. «Tremava, la chiave del 14, perché Gigino aveva una paura maledetta, ma era una chiave del 14 e Peppone l’agguantò con malgarbo».
Giorni dopo, il padre di Gigino:
«... si fece raccontare come era andata la faccenda della presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare della chiave del 14 che era proprio del 14 e ci voleva quella del 14, gli brillarono gli occhi. DI
«- Mio padre — esclamò —- era il miglior tornitore della città. Buon sangue non mente!». Non è difficile vedere il giovane Guareschi migrare nei panni di Gigino e il professor Bernini in quelli di Peppone. E il primo compito in classe o la prima interrogazione assumere la forma di quella benedetta chiave del 14, che nel racconto sembra quasi prendere vita. Un pezzo di metallo stretto da due mani fino a creare un cortocircuito su cui corrono anni di lavoro, di passione, di fatica, di impegno: il mestiere. Sicuramente anche La scoperta di Milano tremava nel le mani di Guareschi al momento di porgerla al vecchio insegnante. Ma come la chiave del 14 era proprio la chiave del 14, La scoperta di Milano era proprio La scoperta di Milano. Era nato uno scrittore. Tra i ricordi di Maurizio Alpi emerge anche un’altra ragione dell’attaccamento di Guareschi al professor Bernini. Senza che se ne parlasse esplicitamente in classe,
l’insegnante sapeva risvegliare nei ragazzi la voglia di raccontare il loro mondo, i loro affetti, i loro sogni. Ma que-
sto non bastava ancora. Dava ai suoi allievi gli strumenti per dare forma a quanto avevano nell’anima. Un compito non contemplato nei programmi ministeriali. Ma necessario a fare di quei ragazzi degli uomini. Qualcosa che nelle società tradizionali veniva chiamato iniziazione. Il primo passo di questo processo viene descritto con precisione da Mario Delpiano nell’articolo «Il giovane: crisi e iniziazione», sulla rivista «Servitium»: «Il sentimento del tempo viene elaborato attraverso l’acquisizione di una prima competenza: quella di ricucire con un filo di memoria soggettiva quel vissuto che affonda le radici nella beata incoscienza dell’infanzia». Fra quanto cercava Giovannino per dare voce al suo prepotente desiderio di mettere radici e di aprirsi alla vita. Ma era impossibile farlo senza una guida che portasse l’allievo sui sentieri della sua memoria
e, insieme,
di
quella collettiva. Che mettesse in relazione col mondo una vita che si stava formando. In questa fase del suo percorso, il giovane non può 60
essere lasciato da solo senza rischiare di chiudersi su se stesso e sulle sue fantasie. Se, invece, il processo segue tutte le sue tappe, dice Delpiano: «... presente e suo radicamento nel passato personale e nella memoria collettiva diventano allora per il giovane la piattaforma di lancio per l’apertura verso un tempo ulteriore: il futuro da realizzare, da raggiungere, da abitare trasformando i sogni e le fantasie senza tempo in progetti di futuro. (...)
«Sarà proprio l’incontro con la memoria simbolica culturale, oggi per il giovane sempre più difficile e problematico, che potrà favorire nel giovane una vera e propria bonifica dei simboli e dei miti riscattandoli dal loro significato regressivo (la loro funzione archeologica) e liberandone la loro capacità di apertura al futuro, verso finalità di senso che trascinino “oltre” (funzione teleologica): oltre se stessi, oltre il presente, oltre il posseduto e lo sperimentato, verso l’alterità e l’ulteriorità».
Che significa verso gli altri e verso l’Altro. Nel giovane Guareschi i racconti di nonna Filomena, l’infanzia a
Fontanelle, i ricordi epici di famiglia, il senso religioso andavano prendendo forma come in una cattedrale. Dove tutto, anche la figura mostruosa, ha un posto e un si-
gnificato. E redento dalla conversione verso il centro. Gli occhi che Giovannino aveva sottratto all’obiettivo del fotografo tanti anni prima ora potevano puntare sul cuore del loro universo. La forza che quel singolare figlio della Bassa mise nel farsi guidare dal professor Bernini è testimoniata, anco-
ra una volta, dai ricordi di Maurizio Alpi. Tutti i ragazzi, racconta
lui, di ritorno dalle vacanze
si affannavano
a
narrare le avventure e i viaggi dell'estate appena trascorsa. Guareschi, invece, rimaneva in un angolo. E, se intui-
va quei discorsi, spariva all'improvviso. Servivano alcune lezioni di latino e greco per dare ai suoi occhi la solita luce. Allora non temeva di raccontare la sua parte, anche se solo il minimo indispensabile. Quasi aspettasse di capire se la strada su cui aveva fatto incamminare i suoi ricordi fosse quella giusta. Per timore di sciuparli prima di 61
averli trasformati in storie vere. E per questo non c’era fretta. Non serve troppo impegno per rintracciare tutti questi segni nella scrittura di Guareschi. Dai racconti fami liari alle storie di Mondo piccolo emergono gli insegnamenti del professor Bernini. Ed è possibile ritrovare nello scrittore emiliano lo stesso raccontare chiaro, onesto e
pulito tipico del suo maestro. Rispettoso di chi legge e di coloro di cui si parla. Persino gli stessi sentimenti. Per esempio, si possono mettere a confronto due brani che parlano di Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma dal 1815 al 1847. Nella sua Storia dì Parma, il socialista
Ferdi-
nando Bernini ne parla con lo stesso rimpianto, la stessa comprensione e lo stesso rispetto che impregnano un’intervista del monarchico Giovannino Guareschi a «Der Osterreichische Schulfunk». Scrive Bernini: «Noi diremmo che Maria Luigia scompariva al momento giusto, quando i tempi si facevano tali che anche a lei sarebbe stato difficile conservarsi quale era stata. Forse unica fra i sovrani del Risorgimento, essa fu rispettata anche nelle prime scalmane del nuovo regime unitario. Il 7 settembre 1859, il dittatore Farini, aprendo a Par-
ma la Costituente, disse il governo di Maria Luigia “mite e tollerante”. (...) La tolleranza e la clemenza, caratteri-
stiche di tutto il suo governo, non posson attribuirsi solo ai suol ministri, che furono parecchi, e di carattere diverso, ma alla sua propria volontà. Essa era molto più dotata di cultura e intuito politico di quanto, ingannati dalla sua apparente frivola dolcezza, i più le hanno attribuito». Risponde Guareschi: «L'ambiente in cui i miei personaggi operano è il mio paese. È la Bassa. La piatta striscia di terra grassa, distesa lungo la riva destra del Po, fra Piacenza e Guastalla. L’antico Ducato di Parma Piacenza e Guastalla. E nelle mie storie c’è anche l’ombra augusta della Duchessa. Di Maria Luigia, Imperatrice di Francia e figlia dell’Imperatore d'Austria Francesco primo. Non ce la vedete? «C'è, invece, e spero che, un giorno, riuscirò a dare a 62
quest’ombra carne, voce e pensieri. È il mio sogno. Perché io sono spiritualmente suddito di questa straordinaria Duchessa dal sorriso dolce e malizioso. Di questa incredibile Duchessa che, scoperta una congiura di palazzo, radunò i congiurati — tutti suoi ufficiali — e disse: “Per
questa volta passi, ma cercate di non farlo più”. E tutto finì lì». La scuola, però, non era solo questo. Era, per la maggior parte del tempo, qualcosa di molto più ordinario. Guareschi vi si impegnava con la maggior diligenza possibile. Ma aveva bisogno di qualche valvola di sfogo. I lavori satirici con Zavattini non bastavano. Aveva bisogno di applicare continuamente se stesso alla critica di quelle giornate tutte uguali. Così riempiva i quaderni di caricature, disegni meccanici, illustrazioni delle lezioni di let-
teratura e di filosofia. Professori deformati dall’esasperazione dei loro difetti e dei loro tic. Torchi per la stampa, viti, bulloni. Dante Alighieri, forse l’unico sorridente mai raffigurato, che raccoglie il succo della lingua nazionale dalla spremitura delle regioni italiane. Un discreto impegno veniva messo anche nelle attività goliardiche. Negli anni Venti e Trenta le associazioni studentesche avevano un grande seguito. Universitari e liceali sfuggivano difficilmente alla febbre associativa. Anche Guareschi, ai tempi del liceo, vi si gettò a capofitto. Era una delle anime della goliardia del «Romagnosi». Allora l’impegno degli studenti aveva uno dei punti caldi nelle elezioni del consiglio di istituto. La «Gazzetta di Parma» del 23 ottobre 1927 annunciava la vittoria della lista capeggiata dal futuro scrittore: «(...) il nuovo duca sarà Nino Guareschi, il cartelloni-
sta “precoce” dalla figura di tardo romantico e dall’ingegno veramente “montmartre”. (...) Non dubitiamo che la collaborazione di gogliardi d’eccezione quali Guareschi, Bianchi, Fiaccavento,
Dalla Chiesa darà frutti sorpren-
denti. «Aspettiamo con fiducia da questi giovani l’“opus maximum”.
Le campagne
elettorali
venivano
condotte
senza 63
esclusione di colpi. Due anni prima, nel 1925, al «Roma-
gnosi» erano circolati alcuni volantini decisamente vivaci. Motivo del contendere la lotta tra due liste rivali, in
una delle quali si era candidato Guareschi. Attaccava in rima la «Lista Bardella»:
Dalla Chiesa per la lista Piano piano si conquista Una turba di birboni Di gonfiati e di mangioni E da questi messo in testa L’ora aspetta di far festa.
Ma di tutti nell’impresa Chi è il più fesso? Dalla Chiesa. Melley oca, poi coglioni Son Guareschi e più Levoni; Di Petrella e gli altri ohimè Nella testa cosa c’è? La materia tale e quale Trovi tu nell’orinale. Ma di tutti nell’impresa Chi fa il cesso? Dalla Chiesa.
Rispondevano le «Strofette economiche» di Guareschi e soci, che terminavano così:
Quando Cimmino chiese ai sommi Dei: Fate ch'a me se non a compagni miei Qualche posto in consiglio sia concesso L’eco brutale rispose: ... cesso.
Fiaccavento disse un giorno ai sommi Dei: Deh, fate ch’a qualcosa amici miei
approdi il lavoro mio indefesso L’eco verace gli rispose: ... fesso. Ma... Quando chiese uno studente ai sommi Dei: 64
Guareschi, con Levoni, con Melley e Dalla Chiesa son votati di concerto?
In coro gli studenti disser: ... certo.
Il ragazzo dalla figura di tardo romantico era decisamente in vena poetica. Non bastavano a saturare il suo estro le strofette ad uso elettorale. Portano la data 1927 due quaderni scritti a mano e illustrati con bei disegni, dalle pretese certamente superiori. Intitolato il primo «La torre» e il secondo «Il viandante», in copertina recano il nome Nino Guareschi. Ma all’interno lo spirito tardo romantico ha lasciato il segno nella firma «Giovanni da Marore». Il poeta, comunque, doveva essere il primo a non prendersi troppo sul serio. Lo si evince dall’epigrafe del componimento «La torre»: «Lo dedico alla mia futura suocera perché non la ritengo degna d’altro... «Giovanni da Marore, II febbraio 1927».
Poco più sotto, il ritratto di un uomo dallo sguardo allucinato e dai capelli ritti in testa urla: «Una suocera degna di questo? E spaventoso al solo pensarci!!!». Il 1928 fu l’anno della maturità classica. L’andamento tragico degli affari di casa non facilitò gli studi di Giovannino, che poteva mettere poca testa a scuola. Gli ultimi tre anni, quelli del liceo, fu costretto a frequentare da
esterno per mancanza di soldi. Con due lire al giorno doveva viaggiare da Marore a Parma e arrangiarsi a mettere insieme un caffè e latte e una pagnotta sperando di tirare sera senza sentire troppo i morsi della fame. Risultato, promosso alla maturità con quasi tutti sei. Il voto più alto, sette, in latino.
Cominciava la vita da uomo fatto. Il primo passo, data la miseria nera di casa, consisteva nel trovare lavoro.
L’ingegno non era affatto inferiore alla necessità e venne applicato con frutto. Dal 1929 al 1933, nei mesi di agosto, settembre e ottobre, Guareschi fece anche l’aiutante portiere allo zuccherificio di Parma della Società Ligure Lombarda. Quel lavoro gli diede probabilmente il primo 65
vero stipendio. Qualcosa di inebriante per un giovanotto che si sentiva costretto a vestire la divisa della miseria. Tanto che la prima quindicina la spese per comperarsi un abito nuovo. Da cartellonista a ufficiale supplente di censimento, Giovannino sperimentò una vasta gamma di impieghi. L’iscrizione all’università, facoltà di giurisprudenza, si mostrò presto solo una formalità. Tempo per gli esami non ce n’era. Nel dicembre del 1929 entrò anche come istitutore al collegio «Maria Luigia». Ma non era certo il massimo delle sue aspirazioni. Tenere sotto controllo una masnada di ragazzini che spesso erano tristi quanto lo era stato lui non doveva rendergli la vita facile. Vi rimase fino al novembre del 1930. L’unico aspetto positivo . di quell’anno consistette nella certezza di vitto e alloggio. Poco per un giovanotto che si sentiva fatto per essere artista. Lasciato il «Maria Luigia», prese in affitto una stanza all'ultimo piano in una vecchia casa di Borgo del Gesso. Su «Oggi», in un articolo del 1967, l'avrebbe ricordata
con un filo di nostalgia avvolto in un robusto umorismo: «La mia stanza era una soffitta di travicelli sostenuti da una enorme e contorta trave sulla quale avevo scritto a grandi caratteri: “Non perdere la calma!”. Così, ogni volta che entravo o uscivo dalla mia stanza, immancabil-
mente pestavo una zuccata nella trave, ma leggevo il saggio ammonimento
e, invece di arrabbiarmi, mi mettevo
un pezzo di carta bagnata sul bernoccolo e sorridevo. Non si trattava di un sorriso dolce come quello della Gioconda, ma, almeno intenzionalmente, era un sorriso».
Grazie agli insegnamenti del professor Bernini, Guareschi aveva comunque capito che il suo futuro era legato allo scrivere. Non esitò, in quegli anni, a trovare un suo spazio nell’ambiente giornalistico e letterario cittadino. Parma offriva molte opportunità a chi avesse veramente del talento. La vita letteraria si svolgeva dentro un perimetro limitato. Tutti conoscevano tutti, e Guareschi
non era tipo da passare inosservato. Il futuro scrittore co66
minciò così a collaborare con le testate che circolavano in città. I primi lavori uscirono su «La Voce di Parma. Settimanale fascista del lunedì», una testata su cui erano pas-
sati all’incirca tutti. Guareschi vi sfogava il suo estro gio-
vane e irruento. Xilografie, cronache, racconti e una ru-
brica di costume firmata Michelaccio. Con questo pseudonimo annotava i piccoli gesti della vita cittadina. Raccontava paesaggi dell’anima. Frustava convinzioni e mentalità che poco si addicevano a una città come Parma. Ingaggiava polemiche. Nel giugno del 1929, con la novella «Silvania, dolce
terra» vinse un concorso bandito dal settimanale. Premio in soldi e, dunque, corrispondente euforia nel petto del vincitore. Il tutto soffocato da una brillante idea del tipografo ed editore Mario Fresching, che invitò a cena tutta la redazione a spese dell’ignaro novelliere. E nel biglietto di convocazione veniva raccomandato con vigore di non mangiare a mezzogiorno. Bisogna tenere nel debito conto l’importanza di «Silvania». In quella novella è possibile rintracciare alcuni motivi che agitarono la pagina di Guareschi lungo tutta la sua carriera di scrittore e di giornalista. La ricerca di un mondo retto da una gerarchia di valori che camminasse con la testa in alto e i piedi per terra. Non alla rovescia come i saltimbanchi nel circo e, soprattutto, come nei panorami culturali offerti dal mondo moderno. Inoltre, il progresso che si insinua nella terra di Silvania e ne
stravolge la vita è tanto più pericoloso perché instilla negli uomini il morbo del ragionamento automatico. Perché sradica la voglia di libertà. E lo stesso progresso che cerca di mettere in croce il mondo del Boscaccio. È quello che Mondo piccolo respinge con tutte le sue forze, opponendogli l’uomo abbracciato al suo Dio. E facile immaginare che quelli furono anni decisivi e importanti per la formazione professionale del futuro scrittore. Fu chiamato a collaborare a «La Fiamma»,
il
giornale del Guf. Gli vennero commissionati numeri unici di riviste che uscivano una volta l’anno come «La Co67
meta» o «Bazar. Cronache umoristiche parmensi». Guareschi ci si applicava tutto solo. Disegnava, incideva, scriveva, inventava, fustigava, faceva ridere, sapeva commuo-
vere. Ci metteva tutto quanto aveva dentro. Pur tra le direttive che cercavano di inquadrare la stampa nel panorama di un’Italia sempre più fascistizzata, sapeva essere se stesso. Molto più di tanti suoi colleghi che, dopo la guerra, avrebbero cercato di rifarsi una verginità politica e intellettuale. Guareschi non badava a tornaconti di parte. Scriveva e disegnava ciò che voleva. Il graffio del tratto divenne presto la cifra con cui incideva sulla realtà. Un metodo che non avrebbe più abbandonato. Nel 1930 prese anche a collaborare con «Il Tevere». Illustrava i racconti di Cesare Zavattini, scriveva articoli
che spesso firmava Petronio. Ormai era pronto per il gran salto: la «Gazzetta di Parma». Al quotidiano cittadino era di casa come collaboratore e correttore di bozze. Nel 1931 fu promosso alla cronaca. In quel periodo, il giornale si chiamava «Corriere Emiliano»: aveva inglobato la testata della «Gazzetta di Parma», che aveva chiuso. La vecchia tradizione liberale
della «Gazzetta» non aveva retto il passo di marcia della nuova Italia fascista. Nel 1927, dopo la morte del direttore Gontrano Molossi, aveva cominciato a vacillare. Leonida Fietta, che ne aveva assunto la direzione a soli 21 an-
ni, fronteggiava come meglio poteva la situazione. Pilotava con dignità le quattro facciate del più vecchio quotidiano italiano. Ma, nel 1928, non poté evitare la fusione
col «Corriere Emiliano», decisamente più in linea con i nuovi orizzonti politici. Il giornale era frequentato dai personaggi più diversi. C'erano i vecchi amici di Gontrano Molossi, che resi-
stevano come meglio potevano ai nuovi costumi. Il critico teatrale Cesare Alcari, cantore dei fasti del Teatro Re-
gio. Don Nestore Pelicelli, nemico giurato di ogni modernismo. Antonio Boselli, glottologo di fama internazionale e studioso del dialetto parmigiano. Ma vi facevano scorribande pure i giovani adepti di un giornalismo moderno. Cesare Zavattini, che sapeva scrivere e 68
pure far di conto, era entrato come caporedattore con uno stipendio di 1.050 lire mensili: 350 in più del direttore Fietta. Oltre al suo nome, che aveva fatto scalpore per l’ingaggio assolutamente fuori mercato, ve n’erano altri destinati a diventare famosi. Attilio Bertolucci, che
già scriveva poesie. Egisto Corradi, un mastino dagli occhi dolci che avrebbe portato la macchina per scrivere sui fronti di tutte le guerre del pianeta. Pietrino Bianchi, cugino e compaesano di Guareschi, uno dei primi critici cinematografici italiani. Alessandro Minardi, che avrebbe accompagnato Giovannino in gran parte della sua carriera. In un articolo apparso su un numero celebrativo della «Gazzetta», Minardi ha raccontato il suo incontro con Guareschi, al «Corriere Emiliano». Era il 1931 e veniva assunto dal nuovo direttore Stanis Ruinas, che lo sottrae-
va alla disoccupazione dopo la chiusura della «Gazzetta»: «Entrato nella redazione di piazza della Pilotta, in un ambiente per buona parte ostile e per il resto indifferente, compresi subito che l’avventura della “Gazzetta” non poteva ripetersi. La gente era di tutt'altra pasta. Ed era difficile intendersi. C’era soltanto, appollaiato come un uccello solitario nella sua piccionaia, il correttore delle bozze, Guareschi. Poteva sembrare poco, ma io lo cono-
scevo bene. Per me ce n’era abbastanza». In breve Giovannino lasciò le bozze per diventare cronista e, poi, capocronista. Ma non bastava. La prima pagina del quotidiano ospitava spesso le sue vignette. Disegnava con inchiostro di china. Intagliava i cliché nel linoleum, come allora andava di moda. Piegata sotto il suo tratto, la realtà prendeva una fisionomia diversa. Apriva
un cuore buono, oppure mostrava angoli di un’anima troppo sporca. In ogni caso, difficilmente riusciva a nascondersi. Tanto da mettere in difficoltà chi aveva deciso,
di punto in bianco, come, quando e perché un giornalista italiano avrebbe dovuto raccontare i fatti di casa sua. I disegni di Guareschi fecero parecchia strada. Arrivarono sino a Mino Maccari. Anima geniale di un giornale geniale come «Il Selvaggio», il nano di Strapaese 69
aveva gettato la sua attenzione su quel giovanotto di Parma. Nell’agosto del 1931 gli scriveva senza lasciare dubbi: «Caro Guareschi, ricevo il “Corriere Emiliano” e vedo le sue caricature; le voglio dire che mi piacciono e in-
tanto le mando i miei saluti. Mino Maccari». Guareschi inviò un linoleum che il direttore del «Selvaggio» apprezzò, ma non giudicò all’altezza delle capacità di quel giovane disegnatore. In una lunga lettera affettuosa si affrettò a invitarlo a mandargli qualcosa che esprimesse con più decisione la sua personalità. Ma la collaborazione non ebbe seguito. Da poco cronista del quotidiano cittadino, probabilmente Guareschi non se la sentì di bruciare le tappe. «Il Selvaggio» era il cuore di un’intelligenza che animava gli intellettuali più vivaci dell’Italia tra le due guerre. E certamente metteva in soggezione un giovanotto appena giunto sulle pagine di un giornale di provincia, pur importante come quello di Parma. Ma, forse, alla radice della mancata
collaborazione
col «Selvaggio» vi fu una ragione più sottile. Come Maccari e i suoi amici, il giovane cronista di Parma si era messo sulle tracce di una civiltà chiamata Strapaese. Ne aveva fatto un luogo dell’anima costruito di ricordi, di cronaca,
di progetti. Il cuore di una visione del mondo a cui non avrebbe mai rinunciato. Paradossalmente, proprio questa affinità col gruppo di Maccari potrebbe averlo messo in guardia. Sapeva che il suo universo strapaesano non era ancora formato. Avrebbe rischiato di adagiarsi su quello di personalità già affermate e troppo desiderose di plasmarne altre. Per fare i conti con nomi come Maccari, Leo Longanesi,
Giovanni Papini, Ardengo
Soffici,
bisognava aspettare. Lo Strapaese di Guareschi, come tutti gli altri, non poteva essere frutto di una scuola. Aveva bisogno di tempo per crescere. Intanto, trovava alimento in parecchi scritti. Dopo quelli usciti su giornali minori, come «La fiamma», il gio-
vane giornalista ne pubblicò altri sul «Corriere Emiliano». Lunghi articoli in cui ricordava il tempo passato. In cui metteva alla prova i racconti di nonna Filomena e gli 70
insegnamenti del professor Bernini. Fantasia e misura, cuore e intelligenza, memoria e progetto già prendevano la strada per Mondo piccolo. La vita al giornale si mostrava dunque interessante e densa di promesse. Dura, ma anche divertente come i giornalisti oggi non immaginano neppure. In redazione e in tipografia gli scherzi erano all’ordine del giorno. E spesso si inventavano notizie per puro gusto della risata. Fra le notizie brevi del 20 agosto 1933, per esempio, il «Corriere Emiliano» portava anche questa, titolata «Una culla»: «La casa del nostro carissimo amico e compagno di lavoro dott. Nino Guareschi è stata allietata dalla nascita di un superbo maschiotto che fa onore ai suoi genitori e al quale è stato imposto il nome augurale di Primo, primo, e lo auguriamo a Nino Guareschi, di una serie lunga e felice». Nel 1967, su «Oggi», lo scrittore raccontava di quel modo fantasioso di lavorare: «Io giravo ogni giorno per caserme dei carabinieri, commissariati di polizia, posti di pronto soccorso, col bel
risultato di scoprire che una massaia s'era scalfita un dito sbucciando patate, che un ciclista era caduto ammaccandosi la testa, che un ladro di polli era stato catturato. Ro-
ba da mettersi a piangere. Tanto che, abbandonati al loro destino massaie, velocipedastri e ladri di polli, presi a inventare i fatti di cronaca. Risultarono più divertenti dei fatti veri. E anche più verosimili, ed avevo più tempo per correre dietro alle ragazze». Tirate le somme, le ragazze a cui il giovane cronista correva dietro rispondevano al nome di Ennia Pallini, commessa in un negozio di scarpe della città. Capelli rossi, carattere acceso come
la chioma, Ennia entrò allora
nella vita di Guareschi e si guardò bene dall’uscirne. A suo tempo, avrebbe fatto ingresso anche nei lavori dello scrittore col nome di «Margherita». Una sorte simile a quella della bisnonna Filomena, divenuta nei racconti guareschiani «nonna Giuseppina». Un espediente per raccontare le persone capaci di aprire nuovi orizzonti 71
nell’esistenza. Un congegno letterario rivestito di pudore per dire grazie senza infastidire nessuno: personaggi e lettori. E per non imbarazzare l’autore, certo poco adatto a navigare nella pornografia dei sentimenti che già allora cominciava a dilagare. Se fosse necessario rintracciare quello che i romanzi chiamano il segno del destino, si può trovare pure quello. Anni prima, Ennia lavorava come stiratrice e passava tra le sue mani parecchia biancheria dei convittori del «Maria Luigia». Quelli che più le davano il magone erano i panni di un ragazzino costretto dalla povertà a vestirsi di roba rattoppata. Il poveretto, naturalmente, era
Giovannino Guareschi. Anni dopo i due si riconobbero dal numero cucito sugli indumenti. La scelta di una ragazza semplice come Ennia mostra come Guareschi si collocasse tra la gente del suo ambiente.
Non
amava,
come
invece facevano
molti altri,
crearsi un alone letterario. Fin da allora, per lo scrittore era chiaro un concetto: la vita forniva tutto il materiale necessario
per
scrivere,
la letteratura,
invece,
doveva
guardarsi bene dal fornire materiale per vivere. Adesione alla realtà, non alle astrazioni.
Maurizio Alpi conferma questa decisa presa di posizione. Una norma di vita precisa dalla quale Giovannino non volle mai deflettere. Per questo frequentava, ma con una certa vena critica, la società letteraria cittadina. Fra
attirato dagli intellettuali che frequentavano i caffè. Sentiva il bisogno di misurarsi sui temi che dibattevano. Ma
non resisteva alla voglia di canzonarli per le loro pose, per quel fastidioso prendersi sul serio. Il poeta che faceva il poeta, il giornalista che faceva il giornalista, il critico che faceva il critico ventiquattr'ore su ventiquattro gli davano 1 brividi. Vi vedeva qualcosa di poco chiaro. Vi leggeva il disegno di nascondere l’anima in un abito da alta società, quasi a voler lasciare gli altri una spanna più in basso. Non riusciva ad ammettere che si contravvenisse alla legge fondamentale di un ambiente come quello: l’assoluta parità fra tutti coloro che lo frequentavano. Ricchi sfondati o poveri in canna, fascisti o antifascisti, di 72
belle speranze o sul viale del tramonto, ognuno doveva contare solo per quello che aveva nella testa. Atteggiarsi continuamente a uomo di cultura negava senza riserve l’assunto su cui si doveva fondare una cittadella della cultura. Minava il terreno su cui le persone potevano veramente incontrarsi: il cuore, oltre che il cervello. Questa visione si sovrappone a quanto Clive Staples Lewis scrive nel capitolo dedicato all’amicizia nel suo saggio / quattro amori: «In un circolo di veri amici ognuno è semplicemente se stesso: non rappresenta altri che se stesso. A nessuno interessa sapere della famiglia dell’altro, della sua professione, classe, reddito, razza e storia passata. Sono tutte cose che, prima o poi, verremo a sapere, ma incidental-
mente. Verranno fuori a poco a poco se ci sarà bisogno di fare un esempio o un’analogia, come pretesto per raccontare un aneddoto, mai per il gusto della cosa in sé. Questa è la regalità dell’amicizia: in essa ci incontriamo come sovrani di stati indipendenti, fuori dal nostro paese, su terreno neutrale, svincolati dal nostro contesto». Per questo motivo, a Guareschi, certi intellettuali di
mestiere davano fastidio almeno quanto coloro che si erano infilati la camicia nera senza pensare a cosa metterci dentro. Nei giorni in cui era più nervoso del solito, Giovannino dava un segnale molto preciso di quel fastidio. Lo scrittore, racconta Alpi, era abituato a fumare sigarette robuste. Ma portava spesso in tasca anche del tabacco trinciato forte. Quando gli scappavano i cavalli, smetteva di pescare dal pacchetto, che del resto non era
mai troppo fornito, e si arrotolava automaticamente delle micidiali sigarette di trinciato. Non era un gesto che faceva bene alla cultura. Anzi, relegava l’autore tra coloro che non potevano capire tutte le raffinatezze di certi intellettuali. Però metteva in guardia anche i pensatori più rarefatti, che temevano di finire immediatamente in una
caricatura schizzata su un tavolino del caffè. Oppure svillaneggiati su qualche giornale. Il metodo, spesso, funzionava. Pure allora l’immagine era sempre l’immagine, anche per un acrobata della filosofia o del bello scrivere. 76)
Prese formain quegli anni la scarsa attitudine di Guareschi a frequentare i salotti letterari. Una delle qualità che il baraccone della cultura italiana gli ha perdonato di meno. In ogni caso, gli anni del caffè furono importanti. Come tutta la sua generazione, ricorda Alpi, anche il giovanotto di Fontanelle si nutrì del plancton prodotto dall’ambiente culturale parmense. Frequentava il «Caffè Violi», che poi prese il nome di «San Paolo», in via Cavour. Il proprietario, Tonino Scotti, faceva da caffettiere,
da anfitrione, da compagno di bevute e di chiacchiera. E permetteva che molti avventori allungassero senza problemi la lista dei conti in sospeso. Il «Violi» era a Parma quello che il «Caffè Aragno» era a Roma o il «Giubbe Rosse» a Firenze. Negli anni Venti vi trascorrevano giornate intere personaggi come il pittore Anton Atanasio Soldati, il critico letterario Gino
Saviotti, il giudice Ugo Betti; più conosciuto come scrittore, Cesare Zavattini, allora giornalista alle prime esperienze. Poi, con la generazione di Guareschi, vi arrivarono Pietrino Bianchi, lo storico Roberto Andreotti, il pit-
tore Carlo Mattioli, il giovane poeta Attilio Bertolucci, che aveva da poco pubblicato la raccolta Sirio, Alessandro Minardi, che di quel volumetto era l’editore. Ma questi sono solo alcuni esempi di un elenco molto più lungo. E bisogna anche rilevare i continui scambi con altre società letterarie sparse in Italia, prima fra tutte quella toscana, legata a Strapaese. Dopo gli insegnameni ti del professor Bernini, Guareschi e i suoi compagni ebbero dunque la possibilità di formarsi a una scuola di altissimo livello. Il futuro scrittore, però, ebbe modo di capire anche
qualcosa di molto più importante per la sua vita. In quegli anni intuì cosa significhi veramente l’amicizia: la regalità dell’amicizia, come la chiama Lewis. Un significato decisamente estraneo al mondo moderno, spiega lo scrittore di Belfast. Un cuore anomalo per una società fondata sugli istinti di massa, comprensiva solo per ciò che ac74
comuna l’uomo all’animale, sospettosa nei confronti di
chi preferisce incontrare il suo simile e uscire dal gregge. A questo proposito non serve sapere quanti amici Guareschi ebbe in quel periodo. E quanti fossero quelli
veri. Maurizio Alpi, che lo ricorda con tanto affetto, fu si-
curamente uno di loro. Interessa piuttosto capire lo spirito che animava il giovane giornalista nel suo incontro con il prossimo. Alpi ricorda che Guareschi non stava a nascondersi in panni che non erano suoi. Come avrebbe sempre fatto per tutta la vita, si mostrava subito per ciò che era e puntava in alto. Stava con chiunque avesse la sua stessa voglia di guardare e di capire il mondo. Di trovare oltre le fatiche di tutti i giorni un senso che le portasse a compimento. Come un pellegrino, si faceva prossimo a ogni uomo avviato sulla sua stessa strada. Gli era amico per quanto avesse a cuore il desiderio di posare gli occhi sulla sua stessa meta. E ancora un parallelo con Lewis che permette di capire la profondità di questo atteggiamento. Si legge nei Quattro amori: «In questo tipo di affetto — come disse Emerson — “Mi vuoi bene?” significa: “Vedi la stessa verità?” o, per lo meno, hai a cuore la stessa verità. Chi concorda con noi sul
fatto che una certa questione, dagli altri considerata secondaria, è invece della massima importanza, potrà essere nostro amico.
Non
è necessario, invece, che egli sia
d’accordo sulla risposta da dare al problema. (...) «Ecco perché quei patetici personaggi sempre “a caccia di amici” non riescono mai a trovarne. Si può arrivare ad avere degli amici soltanto a patto che si desideri qualcos'altro, oltre agli amici. Se la risposta sincera alla domanda: “Vedi questa stessa verità?” fosse: “Non vedo niente e non mi interessa niente; voglio soltanto un amico”, allora non potrà nascere alcuna amicizia — anche se
potrà nascere affetto. Non ci sarebbe niente per cui essere amici, e l’amicizia deve avere un oggetto, fosse anche solo una passione per il domino o i topolini bianchi. Chi non possiede nulla non può dividere nulla; chi non sta 19
andando da nessuna parte non può avere compagni di viaggio».
Un passo simile suggerisce una chiave di lettura che potrebbe scavare nel profondo dell’amicizia tra don Camillo e Peppone. Un cammino comune verso la Verità che solo degli sprovveduti possono aver scambiato per un’anteprima del compromesso storico. Ma fornisce anche la spiegazione dell’amicizia sorta tra Guareschi e i suoi lettori: «Chi non possiede nulla non può dividere nulla; chi non sta andando da nessuna parte non può avere compagni di viaggio». Lo scrittore ha sempre avuto accanto milioni di compagni di viaggio. Probabilmente, anche se la critica non ha mai voluto capirlo, con le sue storie aveva fatto sapere al mondo di avere parecchio da dividere. In pochi anni, per Giovannino anche la stagione del caffè mostrò di avviarsi al tramonto. Nel novembre del 1934 partì per il servizio militare. Corpo d’Armata a Potenza come allievo ufficiale di complemento d’artiglieria. Nel maggio di due anni dopo riceveva la nomina a sottotenente al 6° Reggimento di Artiglieria di Corpo d’Armata a Modena. Parecchio tempo più tardi, nel «Corrierino delle fa-
miglie» avrebbe ricordato quanto fosse stato utile all’esercito come decoratore di caserme. Molto più che come artigliere. Ma il suo ruolino di marcia racconta un ufficiale serio, preparato e volenteroso. Un giovanotto capace di prendere seriamente qualsiasi frangente della sua vita. Il suo quaderno militare di appunti, invece, parla di un ufficiale che non temeva di mostrare cosa pensasse. Da una selva di numeri e lettere greche emerge la fauna esilarante della caserma. Come al liceo, anche qui Guareschi
metteva
sulla carta facce,
divise, espressioni
quanti gli stavano intorno. Gruppi di ufficiali mente poco simpatici. Nasi adunchi, monocoli ciosi, grinte da stupido in cui molti superiori non bero avuto difficoltà a riconoscersi. Commilitoni 76
di
decisaminacavrebritratti
al culmine dell’esasperazione prodotta da giornate monotone. E poi una gran quantità di caricature di Benito Mussolini e Adolf Hitler. Il faccione del duce era quasi sempre ricavato dal profilo di una bomba o da un fusto da cannone. In quest’ultimo caso sparava dalla testa un fascio che andava in orbita. Non si sa con quale destinazione. Hitler, invece, era decisamente meno simpatico. Una frangia, un occhio, il naso e i baffi: quanto bastava a
creare inquietudine. E in una pagina lo infilava in un water. In questo caso, invece, la destinazione non lasciava
dubbi. Sul fronte del lavoro continuava come poteva. Nel 1935 era stato licenziato dal «Corriere Emiliano» per esubero di personale. In compenso, «Cinema Illustrazione» e «Il secolo illustrato», due settimanali della Rizzoli,
pubblicavano suoi lavori. «Cinema Illustrazione» era diretto da Zavattini, che aveva parlato di Guareschi con An-
gelo Rizzoli quando gli fu proposto di mettere su un nuovo giornale umoristico. L'editore milanese voleva fare qualcosa sul genere del «Marc’Aurelio» e andava cercando talenti. Fu così che, nel luglio del 1936, spedì suo figlio Andrea a parlare col sottotenente Guareschi, di servizio al campo di Villa Minozzo. I Rizzoli andavano per le spicce e avevano già pronto il contratto. Esclusiva per il «Bertoldo», 27 pezzi al mese,
un compenso di 700 lire. Inoltre: «Ella s'impegna a trasferirsi a Milano e a partecipare a tutte le “sedute” della redazione. «Il presente accordo vale a partire dal 1° settembre 1936». Il giovanotto della Bassa si avviava alla scoperta di Milano. Lasciava a malincuore la sua città, ma aveva capito di non poter aspettare: Milano aveva già scoperto lui.
4 E I SUOI OCCHI NERI DICEVANO: GIOVANNINO, GIOVANNINO! ....
Milano, 1936: Guareschi non aveva ancora i baffi. Era un
giovanotto di ventotto anni. Appena arrivato dalla provincia, cercava una sua personale segnaletica per capire qualcosa di quella città. Non pensava ancora di usare il suo nome per esteso. Nino gli sembrava più presentabile di quello strambo Giovannino voluto da suo padre. Anche il fisico diceva la sua. La linea lasciava intendere che presto si sarebbe appesantita. I capelli tenevano l’onda grazie a una brava passata di brillantina. Nel complesso, la figura era molto diversa da quella che sarebbe divenuta popolare nel dopoguerra, tutta spigoli, baffi e riccioli. Ma la faccia da ragazzone buono ed entusiasta portava i segni di una vivacità quasi violenta. Erano gli occhi di Fontanelle, quelli che tanti anni prima il fotografo aveva cercato invano di catturare. Proprio a Milano, poco più tardi, Guareschi
li avrebbe
puntati diritti nell’obiettivo
per una foto presa con l’autoscatto. Milano invernale nello sfondo, cappotto, lobbia, qualche chilo in più e un
sorriso gettato in avanscoperta nell’avvenire. Dopo un mese trascorso in una camera ammobiliata,
il giovane cronista scoperto dal «Bertoldo» aveva trovato casa in via Ciro Menotti. Quarto piano al numero 18. Nulla di straordinario, ma abbastanza per portarci a vivere Ennia, che non aveva esitato a seguirlo nell’avventura milanese. C'era quanto bastava per cominciare a navigare. Casa, lavoro e la donna che avrebbe accudito la sua vita. Do-
po i tremendi tracolli finanziari del padre, è difficile immaginare Guareschi in preda all’improvvisazione. L’alito 79
della miseria era sempre pronto a farsi sentire, a consigliare prudenza. Tanto più in un momento simile, decisivo per un’intera esistenza. Eppure la scelta di partirè per Milano confinava, almeno in parte, con il rischio. Imponeva di lasciare uno dei più solidi quotidiani di provincia per cercare il futuro in un nuovo modo di concepire il giornalismo e, più in generale, la cultura. Un salto vitale, lo aveva chiamato Ardengo Soffici raccontando il suo viaggio a Parigi alla ricerca di nuovi panorami culturali. Tale fu anche per Guareschi e si riscontrano molte analogie fra i percorsi di questi due artisti. Già gli anni della formazione raccontano similitudini essenziali. Anche Soffici, da ragazzino, ebbe a soffrire
a causa dei dissesti finanziari della famiglia. Suo padre, che commerciava in vino, non era versato negli affari. Impegnava capitali per imprese destinate a finire male, in mano a gente senza scrupoli. Come Guareschi, l’artista toscano non ebbe modo di seguire gli studi con tranquillità. Andava vagheggiando una sua idea di arte. Cercava di conciliare il passato con un avvenire ancora da progettare. Voleva trovare un sentiero che corresse fra i suoi sentimenti e il mondo semplice della campagna che gli stava attorno. Uno Strapaese fatto di gente e di valori solidi. Per somma coincidenza, anche il giovane Ardengo cercava la vena di questo mondo tra le giornate passate in un luogo chiamato Fontanelle, come il paese di Gio-
vannino. Era un luogo della campagna toscana dove sorgeva la vecchia villa di uno zio. Per entrambi, il salto vitale, probabilmente,
era im-
posto dal desiderio di lasciarsi alle spalle gli anni tristi. Si partiva con un bagaglio ridotto all’essenziale, un piccolo mondo a cui dare forma. Scrive Soffici, e potrebbe valere anche per Guareschi, nel suo Giornale di bordo:
«Penso con avversione alla mia gioventù disagiata, dissestata, impedita e fallita. «Non ho goduto né saputo godere. Oggi vedo e rimpiango e detesto. «Dall’agiatezza, di schianto nel bisogno. Morte del 80
padre; dolori, lavoro ingrato, studi intralciati, troncati,
con tutte le miserevoli illazioni. «Brutta irritante gioventù; vivo di solo spirito e arte». Il bagaglio fatto di spirito e di arte portò questi due uomini a sfogare il loro genio lungo percorsi che non si incrociarono solo per ragioni anagrafiche. Ma le strade erano le stesse e sopra vi correvano anime molto simili. Non a caso la genialità multiforme portò Soffici e Guareschi a essere eccellenti scrittori, giornalisti, disegnatori,
pittori, incisori. Entrambi fondatori e anima di due riviste che segnarono il loro tempo: «Lacerba» e «Candido». Entrambi uomini di Strapaese: la tradizione messa alla prova dei tempi nuovi. A suggellare queste affinità venne un contatto fra i due uomini quando ormai erano divenuti famosi. Nel 1954, al tempo in cui Guareschi decise
di prendere la via del carcere senza interporre appello per la vicenda De Gasperi, ricevette una lettera dall’artista toscano. Brevissima, ma densa di affetto come poteva avvenire solo tra due uomini che sentivano di abitare lo stesso mondo: «Caro Guareschi, con affettuosa ammirazione
per la
sua bella ed italiana prova di carattere, la saluto cordialmente, Ardengo Soffici». Spirito e arte, in Guareschi erano ben nutriti. La ma-
dre maestra e il miglior liceo dell'Emilia avevano costruito una base decisamente salda. La frequentazione della Parma letteraria aveva dato vita alla giusta curiosità e alla ricerca del confronto. Le letture personali avevano aperto i varchi verso la grande sintesi di Mondo piccolo, delle opere e dell’impegno del dopoguerra. Dante, Alessandro Manzoni, Victor Hugo furono tra i classici ripresi dopo la scuola. E poi autori come Ferenc Molnàr con i Ragazzi della via Pal, Gilbert Keith Chesterton, Edmondo De Amicis, Alphonse Daudet, Alexandre Dumas, Laurence Sterne, Jules Michelet e la sua Storia di Francia, San Fran-
cesco e i suoi Fioretti. Un elenco che comprende solo alcuni degli interlocutori che Giovannino si era scelto per la sua formazione. Quelli conservati nella sua biblioteca fin dai tempi della giovinezza. 81
Equipaggiato in tal modo, il giovanotto venuto dall’Emilia poteva avventurarsi fra le strade, i palazzi e la gente di Milano. Al suo fianco camminava Ennia, che sarebbe divenuta popolare già nel 1941 come «Margherita» con il volume d’esordio del marito, La scoperta di Mi lano. Il primo libro pubblicato in coppia con l’editore Rizzoli. L'inizio di una collaborazione che ha collezionato successi come poche altre al mondo. La Milano di quegli anni non era ancora divenuta una metropoli. Metteva soggezione ma, allo stesso tempo, attraeva con le sue novità. Invitava alla scoperta chiunque avesse qualcosa di suo da portare. Vi si agitava una sorta di gioiosità contenuta, come nei film che la rac-
contavano. Come in quelle immagini in bianco e nero che, con la loro vita, non lasciavano neppure il tempo di pensare al colore. Giovannino ed Ennia, pur tra mille difficoltà, la sentivano in quel modo sulla loro pelle. Trent'anni
più tardi, nel 1965, su «Oggi», lo scrittore
avrebbe parlato di quella sua Milano. E l’avrebbe riempita con la nostalgia per le cavalcate selvagge che vi aveva corso in cerca della sua strada: «Milano è una straordinaria città ed è l’unica vera-
mente viva delle città italiane perché l’elemento dominante
è l’uomo.
L’uomo
singolo, non
la “banda”
o la
“gang”. «A Milano non c’è niente che ti opprima con la sua tracotante bellezza, con la sua storia. Nemmeno
il Duo-
mo. Fin da bambini ci siamo abituati a vederlo nei cartelloni pubblicitari e nei cataloghi, immancabilmente in funzione di sfondo per una bicicletta, una moto, un panettone
e via discorrendo.
Tanto
che, visto da solo, il
Duomo non ci pare naturale: è nudo, fuori tempo e fuori ambiente». In quegli anni, comunque, per Guareschi, Milano si-
gnificava soprattutto il «Bertoldo». Il nuovo bisettimanale umoristico, a suo modo, riproduceva in miniatura la vi-
vacità che Guareschi annusava in città. Era una specie di orchestra in cui l’uomo singolo poteva esprimere tutto se stesso. Un gran pentolone in cui cuoceva ogni genere di 82
cultura. Un luogo soggetto ad altre leggi rispetto a quelle dei soliti ambienti di lavoro. Tante personalità geniali vi si fondevano senza perdersi. Il fiuto di Angelo Rizzoli aveva portato al giornale il meglio dell’umorismo sulla piazza. Alla direzione stavano Giovanni Mosca e Vittorio Metz. Attorno a loro ruotavano personaggi come Walter Molino, Giuseppe Marotta, Angelo Frattini, Marcello Marchesi, Carlo Manzoni, Mario Bazzi, Dino Falconi, Giaci Mondaini.
Guareschi sarebbe arrivato pochi mesi dopo, appena congedato. Avrebbe incollato il sedere sulla sedia e, a forza di idee, tagli, titoli, vignette e straordinari, in breve sa-
rebbe divenuto caporedattore. In ogni caso, il primo numero, uscito il 14 luglio 1936, portava già due suoi lavori. In prima pagina una vignetta della serie «Le avventure della spia R 28». All’interno, un disegno intitolato «Istruzioni per l’uso». Un graduato piuttosto nervoso rimprovera un gruppo di soldati distratti: «E mezz'ora che sto spiegando la nuova mitragliatrice e soltanto uno prende appunti!». «Per forza» risponde il più sveglio della compagnia «quello è una spia...». La redazione del «Bertoldo» era in piazza Carlo Erba al numero 6, dove si trovava la vecchia sede della Rizzoli.
Un agglomerato di squinternati incuneato in un palazzone che, per il resto, stava a metà tra la fabbrica e il mini
stero. Per avere un’idea di quel giornale bisogna sfogliarne con grande attenzione qualche numero. Pagina dopo pagina il lettore entrava in un mondo parallelo capace di giocare in qualsiasi momento con la realtà. Di fare il verso alle cose di tutti i giorni, di sbeffeggiarne i tic, di colpirne le piccole manie. Di capovolgere le gerarchie della vita quotidiana. Oppure di entrarci e stravolgerle spostandone i punti di riferimento. In tal modo si creavano ingorghi che solo intelligenze capaci di sintetizzare i punti nevralgici del ragionamento sapevano risolvere. È si evidenziava che l’umorismo è un’arte molto più complicata del semplice far ridere. Scriveva Guareschi nel
1937 sul «Secolo illustrato»: 83
«Una buona vignetta umoristica, nel campo politico della lotta di classe, è come un’assemblea plenaria che ri-
solve una questione in quindici parole. «Una buona vignetta umoristica nel campo della guerra di popoli equivalea un colpo di 305 che cade nel centro della rosa di tiro. E un colpo che va a segno, micidiale, silenzioso».
Tutto questo era sorretto dalla gran stoffa degli artisti che al «Bertoldo» avevano trovato modo di darsi all’umorismo. La rosa dei primi tempi si arricchì di altri nomi di rilievo: Carlo Dalla Zorza, Massimo Simili, Alberto Cavaliere, Gilberto Loverso, Ferdinando Palermo, Saul
Steinberg. Quest'ultimo non poté stare a lungo con quelli del «Bertoldo» perché le leggi razziali lo costrinsero a emigrare in America. Divenne un grafico di fama internazionale, ma non scordò i tempi di piazza Carlo Erba. Nel 1950, quando il Don Camillo approdò negli Stati Uni ti con successo, scrisse una cartolina a Guareschi:
«Caro maestro, parlato molto di te con la Sheila Cudahy e vari reporters che volevano reminiscenze ed aneddoti su di te e i tempi epici del 1936. Detto un sacco di bugie. Congratulazioni per il libro. Quando verrai in America? Ciao, Steinberg». Quel «Detto un sacco di bugie» riportò sicuramente lo scrittore della Bassa al gusto di quei «tempi epici». I racconti, le battute e, soprattutto, i disegni del «Bertol-
do» celavano spesso qualcosa che, per certi versi, somigliava un po’ a una bugia. Uno stravolgimento della realtà che solo i lettori più attenti potevano cogliere. Era facile incontrare fra le pagine del giornale disegni di luoghi o persone cui venivano attribuiti nomi e sembianze dei redattori o di persone strettamente legate a loro. Alberto e Carlotta Guareschi nel volume Guareschi e il «Bertoldo» forniscono una gustosa rassegna di queste trovate. Bazzi amava ritrarre se stesso in molti dei suoi disegni, che poi firmava con anagrammi del suo nome. Ma non lesinava neppure le caricature dei suoi colleghi, che ricambiavano di gran cuore. Nello sfondo di una vignetta intitolata «Le sorelle Ciabatta», Mondaini 84
erigeva un
monumento
«A Carlo Manzoni, filosofo» con la delica-
tezza di porre la data di morte al 2577. Walter Molino, fra i volumi in esposizione da un libraio, aveva messo in bella vista una Divina Commedia attribuita a Nino Guareschi. Dal canto suo, Guareschi in una vignetta esponeva l’insegna della ditta «Loverso & C. Macchinoni». In un’altra intitolava una via all’amico di Parma Maurizio Alpi. Dalla riproduzione fedele della realtà allo stravolgimento più esasperato, c’era dunque spazio per tutto. E Guareschi non perse tempo per trovare là in mezzo la sua strada. Divenuto caporedattore, doveva occuparsi della macchina del giornale con la responsabilità che arrivasse alla tipografia in tempo utile per la stampa e senza errori. Ma questo non bastava alla sua passione per il lavoro e al dovere di farsi una posizione. Andava estendendo la sua attività di autore sul «Bertoldo». Arrivò stabilmente sulla prima pagina con una strip di taglio basso dal segno inconfondibile. Diede vita a nuove rubriche. In «Osservazioni di uno qualunque», sul filo di un buon senso spesso rovesciato, diceva la sua sui piccoli fatti di ogni giorno e sul costume. Con «Il cestino», invece, aveva instaurato un
dialogo con i lettori che intendevano sottoporre i loro lavori al vaglio della redazione. Il successo di questa iniziativa è testimoniato dalla quantità degli elaborati che giungeva al giornale e dai nomi che figuravano tra i cestinieri. Italo Calvino, che si firmava di volta in volta Jago, J, Jago di Sanremo, Italo-Sanremo. Oreste del Buono, che inve-
ce scriveva il suo cognome più grande possibile e per esteso, che si vedesse bene. E poi gente come Antonio Amurri, Dino Verde, Italo Terzoli, Romolo Siena: tutti nomi de-
stinati a divenire famosi. Però Guareschi non si distingueva solo per quei suoi disegni dal tratto nitido e fulminante. E neppure soltanto per il suo impegno che lo inchiodava alla scrivania fino a venti ore al giorno. Già allora mostrava di saper nuotare controcorrente.
Anzi, di trovare la radice del suo
estro navigando contromano nei canali in cui gli altri mostravano la corda. Nacque da questa sua inclinazione una delle invenzioni più belle del «Bertoldo»: le vedovo85
ne. Nel 1937, sul giornale cominciarono ad apparire dei donnoni immensi e opprimenti. Alti come tre uomini, col sedere e il seno che avrebbero soffocato un reggimento e un ghigno che non lasciava indovinare nulla di femminile. Solitamente erano accompagnate a omini esili sospesi su un filo tra la vita e la morte: ora di qua, ora di là dal confine e, in ogni caso, solo da compatire: «Sei
così piccino, Anacleto,» diceva una di loro al consorte sperduto nel letto «che alla tua morte dovrò accontentarmi di portare il mezzo lutto». E un’altra mostrava al marito morente una bara dicendo: «Te l’ho comprata subito perché era un’occasione». Rizzoli non le aveva viste di buon occhio. Preferiva che i suoi disegnatori si adeguassero alle esigenze del momento. Belle donne dalle linee formidabili e dalle gambe
vertiginose.
Palermo,
Dalla Zorza,
Molino,
per
esempio, deliziavano i lettori con le loro affascinanti creature. Anche Guareschi ci aveva provato con le vignette delle «Avventure della spia R 28». Ma non era la sua strada. Preferiva scagliarsi con cattiveria sulle vedovone e, come, gli accadeva spesso, i lettori gli diedero ragione. Queste orrende creature avevano preso corpo lentamente. Già nel dicembre del 1936, nella strip «Il dottor
Mabuse», Giovannino aveva messo in campo le bustone esplosive. Ciccione immense ridotte a mostri con un vitino da vespa da corsetti allacciati con speciali marchingegni. Una volta messe in opera, sulle bustone veniva appeso il cartello «Attenzione è carica». Bastava un semplice starnuto per scatenare un’esplosione capace di mandare all’aria un palazzo. A tappe meditate, l’evoluzione di questi mostri portò alle vedovone che, ben presto, occuparono stabilmente il
giornale. Una delle vignette che riassumono la filosofia delle vedovone uscì sul «Bertoldo» del 21 dicembre 1937. Si intitolava «Ultim’ora» e ritraeva un poveraccio nel letto di morte affiancato da un notaio impomatato e dalla vedovona arcigna, brutta, resa ancora più opprimente dalla sua ombra gigantesca: «Quali sono le sue ul86
time volontà?», chiedeva il notaio al poveretto che sibila-
va con un filo di voce: «Chiedetelo a mia moglie». L'altro versante della creatività guareschiana, in quel periodo, diede vita ai disegni degli «Stati piccolissimi». Tanto erano brutte, sporche e cattive le vedovone, altrettanto erano belli, puliti e sereni i sovrani e gli abitanti dei
piccoli regni inventati da Guareschi. Tutti presi da guerre inesistenti, da nemici buoni e simpatici, da popoli che non immaginavano neppure che esistessero le rivoluzioni: «Come se non lo sapessi» diceva la regina al marito in una vignetta del 1938 «che non state facendo la guerra, tu e il re di Stivonia, ma avete inventato questa faccenda per trovarvi al caffè dove giocate a carte». E, all’ufficiale che gli diceva: «Non si può dare battaglia, il nemico è assente!», il generale rispondeva: «Sta bene, domani verrà
accompagnato dai genitori». Il tratto di quei disegni era pulito e tranquillo. Avido di particolari, ma incapace di soffocare lo sguardo. Descrittivo al punto di condurre anche l’occhio più smaliziato dall’inizio alla fine del disegno, fino a cadere sulla
battuta. Più che vignette, quelle degli «Stati piccolissimi» erano raccontini. E portavano nel cuore il lato solare delle storie di Mondo piccolo. Erano il volto sereno di un universo che comunque non può ignorare il male e la stupidità. Non
si esibivano come
la meta a cui tendere,
perché non amavano l’utopia. Erano un punto di vista da cui poter guardare le vicende del mondo e capire quanto potessero andare in maniera diversa. L’enormità delle battute sganciava i protagonisti dalla responsabilità di quanto dicevano. Non stava a loro giudicare. Si rimettevano a Qualcuno sistemato molto più in alto. Qualcuno che reggeva veramente quell’universo. Il vertice verso cui, più tardi, Guareschi farà incamminare
l’intero po-
polo di Mondo piccolo. Senza la presunzione di raggiungerlo. Ma con la certezza della sua esistenza. Il Guareschi del «Bertoldo» percorse anche altre vie. Disegnò in inchiostro bianco su carta nera. Produsse collages e impiegò tecniche miste come l’interpolazione di disegni sulle fotografie. Fu Mondaini il primo a pubbli87
care una vignetta realizzata con rono in molti e il caporedattore ficaci nella realizzazione. Alcuni ti sono pubblicati in Guareschi e
quella tecnica. Lo seguidi Parma fu tra i più eftra gli esempi più riusciil «Bertoldo».
Al giornale, però, si resero conto in fretta che biso-
gnava fare i conti con altri esperimenti. L’umorismo non era tra le attività intellettuali più gradite dal regime fascista. Lo Stato era finito preda dei burocrati, una razza che, in qualsiasi camicia, non riesce a tollerare la risata. A questo si aggiungevano il grande sforzo dell’Italia impegnata a diventare potenza mondiale e gli avvenimenti politici che correvano verso la catastrofe. Nel 1935 era iniziata la campagna d'Etiopia, che aveva portato alla proclamazione dell'Impero l’anno successivo. Nel 1936, la Spagna era divenuta teatro di una guerra civile, una sorta di prova generale di quanto sarebbe avvenuto poco più tardi. L'Italia, come
la Germania
e il Portogallo, si schierò a
fianco del generale Francisco Franco ribellatosi al governo repubblicano. Dall’altra parte, con i comunisti, socia-
listi, anarchici e radicali, combattevano le truppe sovietiche e i volontari delle brigate internazionali. Nel 1938 l’Italia emanò le leggi razziali. L’anno successivo, con l’invasione tedesca della Polonia, iniziava la seconda guerra mondiale. In questa situazione, le direttive del Ministero della
Cultura popolare si facevano sempre più pressanti e precise. Anche sul «Bertoldo» cominciarono ad apparire vignette di propaganda. Fino al 1939, i danni dell’ingerenza politica furono limitati. Guareschi, per esempio, aveva
dato vita a una serie di vignette intitolate «Fame in Russia». Con il suo solito tratto metteva alla berlina i lati peggiori del socialismo reale. Aveva comunque toccato con mano quanto possa essere profonda la stupidità di un qualsiasi ometto gonfiato di retorica. Avvenne in occasione di una vignetta pubblicata nel giugno del 1937; durante l’assalto a un galeone spagnolo Sandokan dice: «- Ohé, tigrotti della Malesia, all’arrembaggio! E tu
perché non ti muovi? «L’eroico tigrotto: 88
«= Perché sono di Gallarate...». Non la passò liscia il povero umorista. Lo avrebbe ricordato in Italia provvisoria, dieci anni più tardi, per dimostrare quali radici avesse la retorica antifascista: «Questa sciagurata vignetta ebbe gravi conseguenze perché l’allora podestà di Gallarate mi scrisse una lettera rovente nella quale specificava che Gallarate aveva dato alla Patria numero tot Caduti, numero tot Volontari, numero tot Martiri eccetera, e mai un pirata!».
Poi le rampogne presero a fioccare da molto più in alto e in buona parte toccarono al caporedattore. In una lettera del 1942, Fernando Mezzasoma, diret-
tore generale per il servizio della stampa italiana del Ministero della Cultura popolare, richiamava il. direttore Giovanni Mosca. Non gli piacevano alcuni accenni allo sfollamento e la rubrica di Guareschi «Cuore — 18001900 (per adulti)», che diceva risultare non gradita a un gran numero di lettori. Mosca si affrettò a scriverlo al collega, che si trovava sotto le armi ad Alessandria, richia-
mato in servizio: «Caro Guareschi,
«ho ricevuto le “Osservazioni” e il cappello al “Cestino”. «Ti sono grato per il lavoro che fai, nonostante la fa-
tica che non sarà indifferente. Purtroppo non vedrai nel numero che uscirà venerdì il “Cuore”. Spiegazione: “Ti segnalo l’opportunità di voler disporre perché sia abolita o almeno
diradata la rubrica di Guareschi, sul Cuore di
De Amicis, che risulta non gradita da gran numero di lettori. Firmato Mezzasoma”. Al quale ho risposto dicendo che obbedisco, ma gli farò notare che, caso mai, siamo
noi a sapere se una rubrica è gradita o no ai nostri lettori. Fra giorni andrò a Roma e chiarirò la faccenda. Per ora sospendi, caro Guareschi, e spero di poterti dire di riprendere la rubrica che, invece, è gradita a un grandissimo numero di lettori. Affettuosamente e con tanti auguri tuo Mosca».
Altro richiamo al giornale nel maggio del 1943. Gli accenni a un messaggio del segretario del partito erano
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sembrati del tutto inopportuni. Nell'occasione si mosse anche l’editore Rizzoli che invitò i suoi giornalisti a evitare altre situazioni che potevano preludere alla chiusura del giornale. Certo Rizzoli non poté essere più utile poco tempo dopo quando la segretaria passò in redazione una lapidaria direttiva del Minculpop: «Attaccate gli esistenzialisti». Al «Bertoldo» si salvarono pescando il Saggio sul l’esistenzialismo di Enzo Paci. Il regime aveva confinato l’umorismo nella filosofia. Terreno fertile pure quello, a vo-
lerlo. Ma certo non quanto la politica. La corsa del lavoro, dunque, si presentava a ostacoli anche per un rullo compressore come Guareschi. E questo non facilitava la vita in famiglia. Ennia soffriva l’impegno di Giovannino, che trovava buono ogni momento per lavorare. Nel 1940, lo stesso del matrimonio, era na-
to Alberto. Il padre lo aveva-infilato subito nei suoi racconti, come aveva fatto con le persone più care. Cercava, almeno lì, di dare una vita serena alla sua famiglia. Un dono che l’impegno al giornale e le mille vie della sua genialità non gli permettevano di trovare appieno nelle sue giornate. Però il lavoro, pur costituendo un grosso problema, si presentava anche, in parte, come soluzione. O,
almeno, come un medicamento capace di tenere insieme due persone e farne una famiglia. Il Giovannino pensieroso e l’Ennia irritata che comparivano nelle vignette del «Bertoldo» non erano decifrabili dai lettori. Ma gli inquilini dell’appartamento al quarto piano di via Ciro Menotti 18 vi leggevano una sorta di giornale di bordo. Fino a quando vi si fossero riconosciuti, avrebbero sentito di essere uniti. E, probabilmente, come in molte pagi-
ne della Scoperta di Milano, i grandi occhi di Ennia avrebbero finito per dire: «Giovannino, Giovannino!...». In complesso, i primi anni di Milano non erano facili da decifrare. Successo nel lavoro, difficoltà in famiglia,
l’incombere di una situazione che non lasciava presagire nulla di buono per l’intera nazione. Come gli era abituale, Guareschi trovò rimedio dando ancora più vigore al suo impegno e rifugiandosi fra le pieghe della nostalgia. Le tracce dei suoi passi sono fin troppo evidenti. Le ve90
dute di Parma a fare da sfondo alle vignette. I riferimenti ai personaggi della sua infanzia e della sua gioventù. Tutti punti cardinali da cui partivano i diversi sentieri che si arrampicavano sulle asprezze della realtà. Tutti segni che non intendevano esorcizzare le difficoltà della vita, ma scovarne il cuore. Che volevano capirle e sentirle
giustificate, quasi redente. I sentieri della nostalgia lo portarono anche a collaborare con i giornali della sua città. «Il Corriere Emiliano» e altre pubblicazioni minori. Per «Bazar», nel 1937 scrisse un lungo pezzo, «Il romanzo di un Giovane Povero. Pagine autobiografiche di sapore nostalgico con note esplicative e citazioni varie», illustrato da una sua caricatura disegnata da Walter Molino. Come capitava spesso, avvolgeva i sentimenti nei panni ruvidi del suo umorismo: «(...) oggi è Natale e Milano non è ancora mia, anzi mi tiene prigioniero nella sua nebbia e io penso con nostalgia alla mia dolce Parma dove la nebbia c’è, ma non puzza di antracite. (...) «Cammino un po’ nella nebbia, poi un ben noto profumo mi arresta: castagne arrostite! Non resisto alla tentazione: «- Buon uomo, un soldo di castagne... «Ho tra le mani un cartoccio e comincio a mangiare lentamente, quando ho un breve sussulto: guarda chi si
vede! Ecco uno della mia terra. Le castagne sono incartate in una pagina di libro: musica di Ildebrando Pizzetti. (a) «Dolce l’incontro di compatriota, in terra straniera:
proseguo con lo stomaco più pesante, ma col cuore più leggero». Poco più avanti le parole prendevano a graffiare, come ai tempi del caffè a Parma. Bersaglio Cesare Zavattini e Pietrino Bianchi. Recitava una nota maliziosa all’articolo: «È noto infatti questo significativo aneddoto: «Un giorno Pietrino Bianchi, espressamente venuto
a Milano, si recò da Zavattini e gli chiese perentorio:
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“Za, spiegami cosa vuol dire il capitolo 6 de / poveri sono matti”. E Za, con il solito candore: “Non posso Pietrino,
non ho ancora letto le critiche dei giornali. Non lo so ancora”». Il bagno nelle atmosfere della provincia emiliana era tonificante. Guareschi figlio di un suo personale Strapaese vi trovava vita in sovrabbondanza. Tanta da poterne regalare anche a quegli angoli di Milano che, altrimenti, sarebbero rimasti oscuri. Tanta da ridurre a un grande paese persino una città avviata a divenire metropoli. Un grande borgo abitato dagli uomini e da Dio. Nelle pagine e nella vita quotidiana dello scrittore emiliano non è difficile scorgere le tracce di una Milano salvata. E può apparire strano se si pensa che Guareschi è ritenuto, a ragione, il cantore di. una civiltà contadina e
paesana testardamente legata alla propria identità. Antitesi radicale alla città. Nemica di un progresso e di una tecnica che mostrano il loro volto blasfemo. Che urlano il loro incedere come una bestemmia. Invece, questo atto d’amore per Milano era coerente col percorso che Guareschi aveva intrapreso nella vita e nell’arte. Altro era la cultura moderna che faceva della città il suo simbolo e il suo regno, altro erano gli uomini che nella città vivevano. Altro era la città che, con i suoi
sfondi lividi e senz'anima, invadeva la campagna e la soffocava, altro erano le attività con cui l’uomo portava la vita dentro le mura. Per rendersene conto vale la pena di evocare il confronto con un’opera di Simone Weil, portatrice di una visione del cristianesimo diversa dal cattolicesimo guareschiano. Nella tragedia Venezia salva, la scrittrice francese racconta la storia di Jaffier che, nel 1618, salva la città da una congiura. La Weil, col suo personaggio, insegna che ogni uomo è in grado di salvare la realtà prestandole somma attenzione, permettendole di essere se stessa in qualsiasi momento. Anche la Milano di Guareschi viene salvata in questa prospettiva. L'uomo venuto dalla Bassa praticava la massima attenzione persino al particolare più insignificante. Dava vita a tutto quanto incontrava sulla sua strada. A 92
ogni passo scorgeva qualcuno o qualcosa, lo guardava, lo riconosceva, lo raccontava, ne diceva la vita. Ma, a questo punto, il confronto con Simone Weil re-
gistra una divergenza radicale. Nei suoi Quaderni, dove abbozza il finale della sua tragedia, la scrittrice annota: «Si tratta sempre di costringersi con la violenza a riconoscere che gli altri esistono». Questo
induce
chi, come Jaffier, presta attenzione
agli altri a porsi ai margini della città e della storia. Anzi, secondo
la Weil, il buono
deve chiamarsi fuori. La vio-
lenza con cui riconosce l’esistenza degli altri lo inibisce alla costruzione della città. Al progetto del luogo dove, a suo avviso, è impossibile trovare un posto al bene e bisogna invece lasciare che il male abbia il suo compimento. La via guareschiana, fin dagli inizi, fu di segno diverso. Non era necessario costringersi con violenza all’incontro con gli altri. La strada da praticare era, invece, quella della normalità. Per un cristiano, il prossimo era quanto di più naturale corresse sulla terra. L’insegnamento di padre Lino Maupas lo aveva seguito anche a Milano. Il precetto principe di quel francescano, la carità, continuava a portare frutti. Il più evidente era la volontà di chiamarsi dentro la città. Di parteciparvi cercando di regalarle la normalità. Consapevole che l’uomo si porta dentro una ferita originale attraverso cui si insinua la malvagità. Ma convinto che l’impegno del cristiano è, in ogni momento, quello di arginare il male. E non di amarlo come compimento mistico di un insensato progetto divino. Non suona troppo lontano, a tale proposito, il richiamo che viene dalla Città di Dio di Sant'Agostino. In un celebre passo, il vescovo di Ippona si chiede in che cosa, tolta la giustizia, si differenzi un regno da una ban-
da di ladri. Quasi in nulla. Nemmeno nella presenza di
un ordine, che si riscontra in entrambi i casi. Soltanto la
scelta del livello crea la differenza. Soltanto lo sforzo teso ad agganciare l’ordine a una ragione che lo trascende. È questo che separa l’amore veggente dalla cieca li03
bidine di dominio, lo sforzo di arginare il male dalla sua
accettazione. A tale proposito è quasi didascalica la copertina del primo libro di Guareschi, La scoperta di Milano. Sullo sfondo di una piantina di Milano, lo scrittore aveva posto un uomo, una donna, un bambino e, alle loro spalle, un
angelo custode. Giovannino, Ennia e Albertino si muovevano tra le pagine e nella vita seguiti da una presenza celeste. E non a caso, lo scrittore aveva trasformato gli angeli custodi di famiglia in personaggi del suo romanzo: Giacinto per lui, Camillo per la moglie e Roberto per Albertino. Ma avevano un angelo custode anche il portiere, il direttore e altri comprimari. Erano le sentinelle poste a guardia della ferita attraverso cui la malvagità cerca in ogni modo di invadere l’uomo. Sentinelle decise a rispettare la consegna. La famiglia di Giovannino era salva. Come Milano. Per questo, al termine del racconto, lo scrittore immaginava di essere morto senza provare angoscia. Vedeva la sua anima volteggiare nel cielo della città e: «Margherita, la dolce Margherita, guardava nel cielo sorridendo
e i suoi occhi neri dicevano:
“Giovannino,
Giovannino!...”». Convinzioni molto salde che reggevano un ritmo di vita e di lavoro singolari. Nonostante le mille difficoltà, Guareschi vi trovava la serenità necessaria per essere presente a ogni impegno. Oltre che per il «Bertoldo», lavorava anche per «Tutto», un altro periodico Rizzoli che aveva per direttori Mosca e Metz. Scriveva racconti, criti-
che cinematografiche e disegnava vignette anche per molte altre pubblicazioni, tra cui «Il Guerin Meschino», «Kines», «Cine Illustrazione»,
«L’ Ambrosiano», «Ilustra-
zione Italiana» e «L’Asso». Su quest’ultimo si firmava Pallini, il cognome della moglie. Nel 1943, diede vita alle avventure della «Famiglia Brambilla». Testi di Mario Brancacci, un collega del «Bertoldo», e disegni suoi. Ne uscirono album di grande successo dedicati alle traversie di una famigliola tipica della borghesia, o aspirante tale, mi94
lanese. Stesso anno per «Ciccio Pasticcio e i due compari»: testi e disegni suoi per la serie «Ragazzi avventurosi». Di terreno da correre ve n’era fin troppo. Lo scrittore emiliano si diede anche alla radio e alla rivista. Da ricordare, tra i lavori radiofonici, «Tutti in mostra... ovvero
attenti al martellone!», «Radioallegria» trasmessa nel 1938 e scritta dalle maggiori firme del «Bertoldo», tra le quali figurava Guareschi, regia di Nunzio Filogamo. Nel 1940, in collaborazione
col collega Alberto
Cavaliere,
propose con successo la serie «Salotti nelle varie epoche». Era un appuntamento settimanale, in onda il sabato alle 13,35, sponsorizzato dal Ferro China Bisleri. Face-
va il verso alle manie della buona società attraverso i vari secoli. Del 1942 è un curioso «Radiodrammetto ottocentesco» intitolato «Il doppio fidanzato di Chiaravalle»: la storia di un principe e una principessa stanchi di portare i loro abiti regali. Con Manzoni, il collega con cui al «Bertoldo» aveva legato di più, Guareschi calcò la strada della rivista. Del loro sodalizio va ricordata «Tutto per tutti e niente per nessuno», che aveva per sottotitolo: «Stupidate di Guareschi e Manzoni in due tempi». La rivista andò in scena mutilata dalla censura che non gradì il quadro «Tandem». L’episodio è riportato da Pietro Cavallo e Pasquale Iaccio in Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italia na nelle canzoni e nelle riviste di varietà. 1935-1943. Il quadro narrava il dialogo tra due amici preoccupati che la nazione non avesse sufficiente materiale per la guerra alle mosche appena intrapresa: «(...) «1° — Pare che non abbiamo abbastanza flit per tirare avanti un mese. «2° — Ma no! «1° — Proprio così. Io ho un parente che ha un amico che è dentro quelle cose lì e che dice che quel poco flit che abbiamo è ancora quello vecchio avanzato dalla guerra contro le mosche
dell’anno scorso, e che le mo-
sche se lo mangiano come ridere. D'altra parte come si fa? L’estero non ce ne manda e le nostre fabbriche non ih)
bastano a coprire la metà, che dico, un quarto del fabbi-
sogno. Il mese scorso gli inglesi ci hanno affondato una flittiera». E poi mancavano la carta moschicida, le palette ammazzamosche, gli specialisti capaci di pigliare le mosche al volo. Abbastanza perché l’autorità competente vedesse pesanti allusioni alla guerra appena iniziata: cancellato. Sul versante giornalistico la collaborazione più importante di quel periodo fu quella col «Corriere della Sera». Il direttore Aldo Borelli aveva intuito che il talento di Guareschi poteva viaggiare ben oltre il «Bertoldo». Nel settembre del 1940 prese a farlo scrivere per l’edizione del pomeriggio. Racconti, rubriche, reportage che incontrarono presto il favore dei lettori. Borelli capì che la sapienza letteraria di quel cronista venuto dall’Emilia poteva funzionare tanto per un giornale beffardo come il «Bertoldo» quanto per un quotidiano severo come il «Corriere». Giudicò positivamente La scoperta di Milano in una lettera lusinghiera in cui scriveva: «(...) in sostanza c'è un po’ di gusto, un po' di aglio, un po’ di pepe, un po’ di noce vomica, un po’ di genziana, un po’ di tutto, compreso un po’ di ingegno». Sconsigliò invece la pubblicazione di Stefania tra i Boeri, una lunga storia ambientata in Sudafrica che Guareschi si affrettò a riporre nel cassetto. Ma, in particolare,
Borelli diede l’occasione a quel giovane scrittore di ritrovare i luoghi e le figure della sua giovinezza. All’inizio di luglio del 1941, lo spedì come inviato per un servizio singolare. Un giro ciclistico di 1.200 chilometri con partenza e arrivo a Milano. Inforcata la bicicletta, Giovannino passò per Parma, Bologna, Cesena, la riviera romagnola,
Ferrara, Verona, i laghi della Lombardia e ne cavò una serie di articoli usciti a puntate sul «Corriere» col titolo «Un giretto in bicicletta». Un’operetta che, a ogni capoverso, mostrava tutta l’anima di Guareschi. Legava passato e futuro. Pescava nell’infanzia e mostrava per quali vie Vi potesse inseguire il suo compimento. Raccoglieva lo sguardo del bambino di Fontanelle e lo dipingeva in 96
quello dell’uomo fatto. Aveva la pazienza di ascoltare lo scrittore di quegli anni ribaldi e avventurosi. Ma lasciava intendere cosa avrebbe riportato, tempo dopo, di ritorno dal lager. Aveva il cuore del Giovannino familiare e quello del Guareschi di Mondo piccolo. Tolto di peso dalla scrivania del «Bertoldo», lo scrittore aveva mostrato cosa significasse trasformarsi da caporedattore in inviato. Non era andato all’altro capo del mondo per raccontare ai lettori cose che non avevano mai visto. Aveva fatto molto di più. Gliele aveva raccontate dando un cuore a ciò che anche loro avevano tutti i giorni sotto gli occhi. Aveva corso il tempo e lo spazio in tutte le loro dimensioni. E, dove queste non bastavano,
ne aveva trovate altre, lungo geometrie che si arrampicavano tra gli spigoli della sua anima. Aveva ritrovato la Bassa. Il Po riprendeva a raccontargli le sue storie. O forse non aveva mai smesso e il giovane scrittore ricominciava a sentirle con chiarezza. Ma, soprattutto, Giovannino ca-
piva di saperle raccontare. Con tutto quello che avevano nel ventre di buono e di cattivo, di bello e di brutto, di
terra e di spirito. Tutto ingoiato, lavato e ripulito dal respiro del grande fiume. La puntata del 9 agosto 1941 mostrava con precisione le tracce di questa maturazione letteraria. Giovannino correva finalmente in riva al Po e, nei pressi di Ficarolo,
scorse un mulino galleggiante. Si fermò a guardarlo e nacque una storia: «(...) Nel mulino navigante non c’è nessuno, ma le
mole girano e macinano frumento. «Sull’argine l’erba è alta e piena di fiori rossi, gialli, bianchi, rosa: i fiori dei libri di lettura della mia fanciul-
lezza. «Lasciamo che la bicicletta vi si tuffi dentro e cominciamo a sparare fotografie. «Una voce mi sorprende: «- Bello, è vero?
«È un vecchio contadino che mi parla dall’alto dell’argine. «- Bello — convengo io. SA
«- È uno degli ultimi — spiega il vecchio. — Presto anche questo scomparirà e rimarrà soltanto il mulino fantasma. «La faccenda mi incuriosisce e mi avvicino. «Il vecchio parla con naturalezza. «- Quando il Po si gonfia, nelle notti dei temporali invernali, appare il mulino fantasma: è tutto bianco e non c’è scritto niente. Naviga un po’ lungo la corrente poi si ferma davanti a qualche paese. Chi lo vede corre a casa, prende un sacchettino di frumento e lo porta sull’argine. Allora dal mulino fantasma scende il mugnaio fantasma che prende il grano e lo macina. Poi il mulino fantasma riprende la corrente e scompare. «Chiedo al vecchio perché occorra portare il sacchettino di frumento. «— Il mulino fantasma deve macinare per forza grano del paese davanti al quale si ferma: se non trova il sacchettino, il mugnaio si inquieta, va a cavare il frumento
seminato e lo macina. Così il raccolto è cattivo. Non bisogna fare inquietare il mugnaio del mulino fantasma. «Il vecchio se ne va: risaliamo sulla bicicletta e vediamo di pedalare molto alla sveltina. Perché io penso, ogni pedalata di più, di aver incontrato il vecchio contadino fantasma che va in giro a raccontare la leggenda del suscettibile mugnaio fantasma del mulino fantasma. «Tutto è possibile, in riva a questo meraviglioso Po». Era la cifra di Mondo piccolo. Vi si poteva indovinare il profilo saettante del Guareschi destinato a girare il mondo con le sue storie. A divenire un grande della narrativa in un mondo dominato dai letterati di professione. Un caso unico nel Novecento a dispetto degli intellettuali alla moda che lo guardavano con alterigia dall’alto delle rese dei loro volumi. Lui lo aveva intuito. Non a caso sulla copertina della prima raccolta di Mondo piccolo, Don Camillo, nel 1948 avrebbe messo una foto scattata du-
rante il «Giretto in bicicletta». Era l’immagine della piazza di Castelmassa, un paesino in provincia di Rovigo. Una veduta capace di evocare il cuore del paese di don Ca98
millo. Una geometria che, però, aveva cominciato a parlare allo scrittore molto tempo prima. In pochi mesi, il «Giretto» mostrò di essere ben più di un reportage. Divenne una sorta di volano letterario capace di sospingere la scrittura guareschiana verso i temi e le cadenze che le erano pù congeniali. Tra il 1941 e il 1942, apparvero sul «Corriere» alcuni dei pezzi più belli scritti da Guareschi. Letteratura, non semplice giornali smo. Narrazione capace di presentarsi solo in forza di quello che raccontava. Letteratura che non soffriva il bisogno di alcun aggettivo. Fra l'ottobre del 1941 e il gennaio dell’anno successivo uscirono tre racconti che andarono a costituire la «Digressione» del secondo romanzo dello scrittore emiliano, Il destino si chiama Clotilde. Pubblicato nel 1942 e arrivato subito al successo, il libro aveva in corpo un’avven-
tura nell’avventura. Una storia di sapore sudamericano ripescata dal «Corriere» che da sola poteva reggere un romanzo. In quel periodo uscirono anche molti pezzi poi ripresi nel 1948 per Lo Zibaldino. E furono pubblicate anche le «Tre storie» destinate a formare l’ossatura del prologo a Don Camillo: «Al Boscaccio», «La ragazza aspetta» e «Il tranvai al Boscaccio». Tre racconti che disegnavano il paesaggio dell'anima di Mondo piccolo. Necessari, secondo Guareschi, per portare il lettore nel suo universo. Per accompagnarlo nel gran salto. Col suo «Giretto in bicicletta» lo scrittore aveva innescato una progressione letteraria inusuale. La sua storia personale si era finalmente incontrata con quella della sua terra. La sua vita si era immersa in un universo fatto di materia e di spirito e aveva ben chiara la riga di orizzonte in cui abita il divino. Tutto questo aveva impresso alla narrazione guareschiana un'accelerazione descrivibile solo con una singolare teoria matematica: quella degli «oggetti frattali». Secondo questo modello matematico, un medesimo gioco di pieghe e di salti può investire ogni segmento all’infinito. Lo riproduce su ogni scala di grandezza e genera figure, magnifiche o mostruose, ma sempre
inedite. Immagini
che, in grande, manifestano 09
l’inconseguibile profondità di ogni loro minuscolo elemento. Nell’immediato intorno di un punto, invece, riassumono l’intero loro profilo e lo esibiscono con una chiarezza sorprendente. La trama infinita dei racconti guareschiani originata dal «Giretto» riprende esattamente questo andamento. Il motivo generatore riprodotto all’infinito è, a suo modo, semplice, raccolto in immagini e in storie possedute da tutti. Ma la sorprendente complessità del disegno tracciato da Guareschi resiste, coriacea, a qualunque tentati vo di spiegazione. Dà scacco a qualsiasi progetto di ridurla a conseguenza di un principio necessitante o di una legge chiarificatrice. Quel semplice motivo che torna sempre daccapo e resiste a ogni variazione di scala è testimonianza della sconfitta della superbia umana. Mette fuori gioco la tentazione blasfema di comprendere tutto. Il ritorno del motivo generatore sconfigge l'ambizione tipicamente moderna di aver sostituito Dio e costringe l’uomo a rimettersi sulla via. A continuare la sua ricerca. E a raccontare nuove storie, se questo serve per tornare sulla strada e incamminarsi di nuovo. L’universo di Mondo piccolo era già in questo infinito turbinare di storie. Non a caso, lo scrittore, in quel periodo, progettava di scrivere i Racconti del Boscaccio — Libro
all'antica. Intendeva utilizzare alcune delle storie scritte per il «Corriere» e aveva preparato una scaletta. Aveva addirittura compilato una tabella con i nomi e le età dei protagonisti. Ma, probabilmente, mancava ancora la scintilla. L'aria non era ancora adatta alla nascita di don Camillo e Peppone. I tempi, invece, erano maturi per un nuovo richiamo
in servizio nel regio esercito, dopo quello del 1939. L’operazione fu propiziata dalle intemperanze verbali di Guareschi. La notte del 14 ottobre 1942, lo scrittore, con
qualche bicchiere di grappa in corpo, disse tutto quello che gli passava per la testa a proposito della situazione politica e bellica. La vicenda non fece troppo piacere alle autorità, che disposero l’arresto. Nonostante l’interessamento di numerosi amici, non venne evitata la disposi100
zione di tornare in armi. Partì per Alessandria, dove venne inseguito da Tullio Giordana. Questi non aveva alcun interesse per il tenente Guareschi Giovannino. Pretendeva soltanto che lo scrittore mantenesse l’impegno di consegnargli un romanzo a puntate per il giornale di cui era amministratore, l’«Illustrazione del Popolo». Guareschi cominciò a scrivere in caserma. Poi continuò a casa, do-
ve era stato spedito per guarire da un’ulcera gastrica niente affatto simpatica. Il romanzo, che si intitolava // marito in collegio, uscì a puntate fra il dicembre del 1942 e il maggio del 1943. Fu pubblicato in volume nel 1944 e fu il terzo successo della produzione guareschiana. In quei mesi, lo scrittore stava a Milano per lavorare mentre la sua famiglia era sfollata a Marore, in casa della maestra Maghenzani e di Primo Augusto. Questo evitò il peggio quando la casa fu bombardata dagli Alleati. Nel momento in cui piovvero le bombe, Guareschi stava leggendo La nuova terra di Knut Hamsun. Era arrivato a pagina 121: «“Arrivederci al Tivoli”, salutò Irgens...». Non andò oltre quella frase per il resto della sua vita. E venne il 25 luglio, la caduta di Mussolini e la carica
di capo del governo passata nelle mani di Pietro Badoglio. Momenti difficili per rivestire la divisa. Ma Giovannino, considerato guarito dalla sua ulcera, in agosto tornò in servizio ad Alessandria. Il 9 settembre, dopo la firma dell’armistizio fra l’Italia e gli Alleati, i tedeschi circondarono la caserma. Ci mi-
sero poco a far capire che non vi era altra strada che la resa. Gli ufficiali furono radunati e messi davanti a una semplice alternativa: collaborare con la Germania o prendere la via del lager. Guareschi, come molti altri uf ficiali, scelse il lager. La fedeltà al giuramento prestato al re non concedeva altre scelte. I proprietari dell’albergo Europa, dove Guareschi alloggiava, si premurarono di scrivere a sua moglie per annunciare la notizia: «(...) Siamo riusciti per un vero miracolo a vederlo al-
la stazione, prima della sua partenza. Era molto sereno e fiducioso. Ci ha pregati di scriverle e di tranquillizzarla, 101
perché la cosa non durerà molto. Lui sente di aver compiuto il suo dovere, ed è certo di tornare presto a casa sua (si)
Il 13 settembre lo scrittorè veniva caricato su un treno gonfio di prigionieri. Alle cinque e mezza del pomeriggio, il convoglio partiva da Alessandria e puntava verso nord.
5 RITORNERÒ QUANDO SARÀ TEMPO
Czestochowa,
20 settembre
1943: una città muta.
Una
città presa dalla guerra. Dopo l’invasione tedesca, come nel resto della Polonia, neanche le campane si facevano più sentire. Czestochowa, 20 settembre 1943: una città grigia. Sguardi gettati rasente ai muri. Occhi nascosti a spiare dietro
le finestre.
Il nulla padrone
delle strade, delle
piazze, delle case. Lungo i suoi viali camminavano spediti dieci prigionieri italiani. Erano da poco arrivati in Polonia come migliaia di altri militari che non avevano voluto cooperare con la Germania. Erano alla prima tappa del loro viaggio nell’arcipelago dei lager tedeschi. Stavano ancora tentando di capire cosa fosse successo, dove sarebbero finiti.
Ognuno pensava a casa e cercava di indovinare rebbe tornato. Portavano i loro pensieri e i loro santuario della Madonna Nera. Li guidava un della Gestapo e la compagnia doveva apparire singolare.
se ci satimori al capitano davvero
Tra loro c’era Guareschi, incredulo che un ufficiale
della polizia tedesca potesse portarli in un luogo lontano anni luce dai regolamenti e dalle umiliazioni del lager. Ma capì presto che l’incontro con quella Madonna avrebbe lasciato un segno nella sua anima. Un miracolo, se tale può essere definita la consegna sincera e totale della propria vita nelle mani della Provvidenza. Assieme al solenne proposito di non lasciar prevalere il male: «Non muoio neanche
se mi ammazzano»,
si sarebbe ri-
petuto per molti mesi l’uomo della Bassa. Trascrisse l’e103
mozione di quei momenti fra le pagine che poi sarebbero divenute il Diario clandestino, lette ai compagni di prigionia e poi raccolte in volume nel 1949: «Entriamo nella Basilica, e ci troviamo in mezzo a una folla di donne e bambini, davanti a un altare che è tutto un racconto fiabesco di ori e di luci, mentre un or-
gano suona. Dopo un mese di vita in ambienti dove ogni cosa trasuda sporcizia e disperazione, dove ogni parola è un urlo, ogni comando
è una minaccia,
trovarsi d’im-
provviso in quell’aria serena, in mezzo a quel barbaglio d’oro, a quella calda onda di musica!... «Mi arresto perplesso sull’entrata, poi riprendo ad avanzare,
e mi sembra d’essermi sfilato dal mio corpo co-
perto di stracci e d’averlo lasciato lì sulla porta, tanto mi sento leggero». Il prigioniero si era fermato sua soglia e aveva lasciato posto all’uomo: da quel momento non avrebbe più pensato e parlato, perché l’uomo si era ripreso il dialogo col suo Dio e, dunque, anche con se stesso e con gli altri. Il capitano della Gestapo si apprestava a riportare nel campo di concentramento un uomo che aveva capito di essere libero comunque. Deciso a contagiare i compagni con la sua libertà. E non era facile. Sembrava che tutti si fossero dimenticati di quei seicentomila soldati italiani. Ultimi tra i prigionieri di guerra, per loro fu persino adottata una sigla speciale, Imi, che stava per Internati militari italiani. Nes-
suno ne voleva sapere. Abbandonati dal governo di Pietro Badoglio, scontarono con nuovi giri di vite ogni svolta della storia. Quando Mussolini fondò la Repubblica Sociale Italiana il 23 settembre, divennero ufficialmente
traditori. Il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Badoglio la loro situazione divenne ancora peggiore e furono considerati anche nemici. I più odiosi tra i nemici, destinati a pagare il tradimento altrui. Sotto i loro occhi andavano disgregandosi il tempo e lo spazio. Lontani da casa, rinchiusi in giorni tutti uguali, sentivano cedere le ragioni dell’essere uomini. Il viag104
gio in treno che li aveva portati fino in Polonia si era trasformato in una corsa verso il buio. Più si allontanavano dall’Italia, più sentivano aria nemica fischiare sulle loro teste. La gente, dai campi, dalle strade, mostrava i pugni,
gridava «Badoglio» con la voce rattrappita dalla pronuncia e dall’odio. Il campo di concentramento si presentava come un mare grigio abbracciato a un cielo grigio. Ma bisognava sopravvivere. Guareschi capì che, per riuscirci, era necessario fare a pezzetti quell’onda immensa di odio e di repressione. Si doveva affrontarla un poco alla volta e trasformare quei frammenti in piccole scialuppe di salvataggio. A cominciare dalla baracca in cui i prigionieri venivano ammassati a decine. Lo scrisse nel Diario clandestino: «Una delle centomila costruzioni dell’architettura di guerra: una capanna di legno scuro, col fosso e il rincalzo di terra tutt’attorno. Una capanna lunga e bassa, lunghissima e bassissima sotto lo sconfinato cielo della pianura polacca. «Baracca 18. «Una piccola Arca di Noè navigante in mezzo a un Diluvio di malinconia.
E dentro, ogni specie di esseri,
dalla pulce al poeta, dal topo al parastatale». In quella piccola arca il male, la cattiveria, l’odio do-
vevano avere il minore spazio possibile. Quello, intuì Guareschi, era l’unico modo per rimanere uomini. Per non farsi trascinare nel vortice che si mostrava pronto a tritare tutto. Nel 1949, lo scrittore lo spiegò nell’introduzione al suo racconto della prigionia: «Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. «Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l’università, il teatro, i concerti, le mostre d’arte, lo sport,
l’artigianato, le assemblee regionali, i servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commercio, l’industria.
«Ognuno si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o ma105
le guadagnati. E ognuno si ritrovò solo con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. «E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo
dove ognuno
era sti-
mato per quello che valeva e dove ognuno contava per uno». Guareschi fu tra i tessitori più tenaci di quella civiltà. Non si fermò mai. E ogni volta che veniva spostato in un nuovo campo ricominciava da capo. Czestochowa e Beniaminowo in Polonia, poi Sandbostel e Wietzendorf in Germania erano altrettanti gironi infernali. Ma lui seppe trasformarli in una sorta di terra di missione. Pur affogato nella nostalgia, trovò modo di incontrare il suo prossimo. Pensò, scrisse, meditò, parlò; raccontò.
A parte gli interminabili appelli e le frequenti ispezioni, l’organizzazione del lager lasciava tempo per dare un ordine alla vita di tutti i giorni. Bisognava averne la forza. E chi aveva qualcosa da dare agli altri impiegò quei lunghi ritagli di giornata per farlo. Si distinse gente che avrebbe mostrato il suo valore anche dopo il ritorno in Italia. Con
Guareschi
c'erano, per esempio, il filosofo
Enzo Paci, lo studioso cattolico Giuseppe Lazzati, il poeta Roberto Rebora, l’attore Gianrico Tedeschi, il musici-
sta Arturo Coppola, il disegnatore Giuseppe Novello. Lui legò in particolare con Rebora, Novello, Coppola e Tedeschi. Con loro girava le baracche per raccontare ciò che tutti sentivano, ma non riuscivano a dire. Portava
le pagine del suo «Bertoldo parlato». Riflessioni, racconti, cronache, divagazioni che facevano da ponte tra il la-
ger e casa. Portava nel campo di concentramento un po’ degli anni belli del «Bertoldo» e cercava di contrabbandare verso l’Italia quanta più nostalgia fosse possibile. Prese forma in quel modo il Diario clandestino, che poi venne stampato nel 1949 da Rizzoli. Lo scrittore della Bassa sentì di poter pubblicare quel materiale perché portava la firma di tutti i compagni di prigionia. Di quelli che lo avevano aiutato a comporlo. Di quelli che lo avevano ascoltato una, due, venti volte. Lo 106
spiegò nelle «Istruzioni per l’uso» con cui, all’uscita della prima edizione, inquadrava il libro: «Io sono ancora il democratico d’allora. Senza più cimici e pidocchi e pulci; senza più topi che mi camminano sulla faccia, senza più fame, anzi, senza appetito addirittura, e con tanto tabacco, ma sono ancora il democra-
tico di allora, e sul nostro Lager non direi una parola che non fosse approvata da quelli del Lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia». Anche in questa fase della sua vita e della sua opera,
Guareschi mostrava di scegliersi parentele singolari. Non i tanti scrittori ripiegati sugli stereotipi delle storie della prigionia. Impegnati a raccogliere le lacrime e a dividere un’altra volta il mondo in buoni e cattivi. Si incamminò su un sentiero tutto suo, lontano dalla via maestra segnata, per esempio, dal dolore dell’opera di Primo Levi. Con Se questo è un uomo, lo scrittore torinese era divenuto una sorta di simbolo della tragedia di Auschwitz. Forse suo malgrado, si era visto costretto a portare il peso e i dolori del suo popolo. Troppo per reggere le esigenze della vita. Elie Wiesel, l’anno dopo il suo suicidio, scrisse in un
telegramma indirizzato agli organizzatori di un convegno sulla figura dello scrittore: «E morto ad Auschwitz, quarant’anni dopo». Il messaggio di Guareschi era di natura completamente diversa. Era orientato verso il bene che lo scrittore riusciva comunque a scorgere attorno a sé. Fosse pure un granello piccolissimo. Divenne un pensiero molto semplice e martellante che lo accompagnò lungo tutta la prigionia. E che, alla fine, tradusse come solo lui sapeva fare: io mi sento un vincitore perché da questo inferno sono uscito senza odiare nessuno. È questa la radice della serenità con cui volle «anche tener conto dei Morti». E non a caso è la stessa con cui Chesterton racconta una fase felice della sua vita. Un momento gioioso che, a prima vista, poco è apparentato con un dramma come la prigionia: il tempo nuovo in cui ha incontrato la fede cristiana. La sorgente è la stessa. Il col107
po d’ala è lo stesso. Tanto che, in un passaggio dell’ Ortodossta, lo scrittore inglese dice: «La tradizione può essere definita come una estensione del diritto politico. Tradizione significa dare il voto alla più oscura delle classi, quella dei nostri avi. E la democrazia dei morti. La tradizione si rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che, per caso, si trovano ad andare attorno.
«I democratici respingono l’idea che uno debba essere squalificato per il caso fortuito della sua nascita; la tra-
dizione rifiuta l’idea della squalifica per il fatto accidentale della morte». La tradizione, per Chesterton, era dunque la forza della vita che sorge da Dio e non si ferma. La stessa forza che Guareschi aveva trovato persino in un lager e negli anni difficili della ricostruzione. Quando risultava più facile odiare un fratello che combattere un nemico. Quando sembrava impossibile guarire le ferite della terra. La riconciliazione, capì Giovannino, doveva partire da molto lontano e doveva tenere conto anche della saggezza dei morti. Da allora non si sarebbe mai stancato di ripeterlo e ne avrebbe fatto anche l’ordito di alcuni tra i racconti più belli di Mondo piccolo. Solo il Diario clandestino, letto e approvato da tutti, poteva dunque raccontare la sua prigionia. E mantenne la parola. Non pubblicò mai una riga dell’altro diario che aveva riportato dal lager. Nella sua sacca aveva tenuto due blocchi di appunti sui suoi giorni di deportato. Un lavoro minuzioso in cui aveva annotato tutto quanto gli pareva essenziale. Ogni giornata cominciava con una barra orizzontale a forma di rettangolo. Dentro, in appositi spazi, erano riportati il giorno, le condizioni del tempo, quelle della salute, le ra-
zioni di viveri ricevute ed eventuali annotazioni di genere diverso. Sotto, seguivano pensieri, considerazioni, resoconti di avvenimenti, la vita dei compagni. Ogni mese cominciava con il relativo calendario e un’autocaricatura che inchiodava l’autore alle sue responsabilità di ufficiale italiano davvero malridotto. 108
| Ma questo era solo ad uso personale e non poteva costituire materia per un’opera organica. In primo luogo per il vincolo morale che lo scrittore si era dato. Inoltre l’espressione letteraria aveva raggiunto punte difficilmente eguagliabili nel Diario clandestino. Dai passi intessuti in un umorismo impensabile in un lager, fino a quelli in cui si arriva all’essenza della vita. Basta scorrere il paragrafo «Signora Germania»: «Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e
fai la guardia perché io non esca. «E inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi.
«E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti.(...)
«Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall’ira, farai baccano
con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s'è visto s’è visto.
«L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce
n’è un altro e lo comanda solo il Padre Eterno. «E questa è la fregatura per te, signora Germania». Dunque, Giovannino se ne andava in giro per i campi di prigionia leggendo questi suoi pensieri. E non era lo sfogo di un disperato. Ma il lavoro paziente di un uomo che cercava di mettere nelle sue parole un po’ della vita di tutti. Che limava il dolore, l’angoscia, la paura, la tristezza fino a confonderne i tratti. E, fra quanto riusci-
va a gettarsi alle spalle, c’era un po’ del dolore di tutti. Fra i ricordi dei sopravvissuti a quell'esperienza è difficile trovarne qualcuno che racconti un Guareschi diverso. Per riuscirci bisogna prendere in esame L'altra resistenza. I militari italiani internati in Germania, un volu-
metto in cui Alessandro Natta ricorda la sua prigionia nei lager tedeschi. Scritto nel 1954, il libro non uscì su 109
espressa indicazione del Partito comunista italiano. Palmiro Togliatti non ammetteva che esistesse altra resistenza che quella partigiana. E Natta, obbediente al segretario del suo partito, chinò il capo. Pubblicato nel 1997 da Einaudi, il volume cita anche lo scrittore emiliano:
«Dalla resistenza etica e politica fu necessario distinguere quelle espressioni lacrimose e qualunquistiche, tipo le favolette di Natale di Guareschi che nel “sacrificio” della prigionia incubavano i lazzi di “Candido”». Uscito a più di quarant'anni dalla sua stesura senza essere rivisto, il volumetto mostra la corda in questo e in molti altri passi. E lascia intendere la volontà di un uomo che voglia dire a tutti i costi di esserci stato. La volontà di essere ricordato un po’ più in dettaglio che nell’indice dei nomi di qualche libro sulla prigionia. Comprensibile in un segretario-del Pci che, se passerà alla storia, sarà ricordato come «uomo politico del periodo in cui Massimo D'Alema dirigeva la federazione giovanile comunista». | Tranne che per Natta, comunque, Guareschi fu uno dei punti di riferimento per i compagni di prigionia. Seppe dare un contributo essenziale nelle piccole cose di tutti i giorni e nelle grandi questioni morali. Ma seppe farsi forte di tutto quanto il genio dei suoi compagni riusciva a produrre per la sopravvivenza. Per esempio, l’organizzazione di Radio Caterina, che poi ebbe a ricordare più volte. Una radio ricevente che gli internati di Sandbostel avevano costruito con mezzi di fortuna per captare qualsiasi genere di segnale. Introvabile per i tedeschi che le davano la caccia, servì ai prigionieri per essere al corrente dell'andamento della guerra e mantenere viva la speranza. Tutto questo, però, non deve far pensare al lager come a un club dove ognuno poteva organizzarsi la permanenza a proprio piacimento. Basta scorrere il diario inedito, dove Giovannino raccontava veramente le sue con-
dizioni fisiche. Oppure guardare le poche fotografie portate a casa. I prigionieri erano preda di ogni genere di malattia. Nutriti con razioni che ne garantivano a stento 110
la sopravvivenza. In preda al gelo. Costretti a liberarsi dalla sporcizia come meglio potevano. Perennemente incerti sulla propria sorte. In contatto precario con i parenti a casa. Faccia a faccia con la morte che si infilava nelle baracche e si prendeva i più deboli. A tutto questo, ognuno aggiungeva i suoi malanni personali. Giovannino ci aveva messo l’ulcera che gli si era riaperta e lo costringeva a stare giornate intere disteso a letto, senza toccare il poco cibo a disposizione. In breve, perse tutto il peso superfluo che lo metteva in imbarazzo ai tempi del «Bertoldo». Continuò a dimagrire fino ad arrivare sotto i cinquanta chili. In una foto scattata nel campo di Sandbostel, nel maggio del 1944, un Guareschi in pantaloni corti e maglietta pulisce la gavetta nella sabbia. Pur se scattata di sorpresa, l’immagine cattura uno sguardo che corre alto, oltre il reticolato. Come la foto segnaletica in cui lo scrittore regge il cartello con il suo numero di internato: 6865. Non è difficile scorgere nei suoi occhi le parole di «Signora Germania». Poi vederle dilatarsi fino a gonfiare quell’universo e contaminarlo col desiderio bruciante di libertà. E non bisogna trascurare che, ormai, Giovannino aveva i baffi. Dalla foto segnaletica di Czestochowa, dove
erano appena accennati, a quella di Sandbostel avevano acquisito personalità. Lasciavano indovinare tutto il Guareschi del dopoguerra. Quello di Mondo piccolo e delle grandi battaglie per la libertà. Nonostante le condizioni precarie, anche nel diario
privato lo scrittore riusciva a deporre un po’ di serenità. Pur tra eventi dolorosi trovava modo di considerare la vita con lo sguardo di sempre. Il 31 luglio 1944 annotava: «Rebora ha tenuto una conferenza sull’ermetismo. Rebora parla molto difficile: ha detto che non l’ha capita neanche lui». Questa padronanza della situazione esplodeva nelle lettere a casa. Per tranquillizzare la moglie e i genitori, ma anche per un’esigenza più intima. La corrispondenza con la famiglia imponeva di rendere comprensibile la vita del lager a chi stava a casa. Richiedeva lo sforzo di 111
razionalizzare anche gli eventi più mostruosi. Di ridurli in polvere che potesse filtrare attraverso le parole ed essere capita. Tutto questo riconduceva ogni momento della giornata di un internato a quel poco di umanità che ancora covava dentro di sé. La salvava dalla disperazione. In una lettera del 22 gennaio 1944 lo scrittore portava in luce la radice di quella salvezza: «(...) Insistere! Abbiate fede come ne ho io. Non illu-
detevi mio ritorno prossimo. Ci rivedremo (se Dio lo vorrà) soltanto alla fine della guerra. Ritornano prima soltanto quelli che aderiscono nuovo governo. Qui, grazie a Dio, temperatura sopportabile. Penso ai miei bambini e a tutti voi sempre e questo mi dà la forza di resistere a ogni cosa. Se Dio vorrà che ci rivediamo, sia ringraziata la Provvidenza. Se non lo vorrà sia ugualmente ringraziata». Una fede salda e commovente in un uomo che non aveva ancora compiuto 36 anni e, a casa, lasciava genitori, moglie, un bambino e una bambina che non aveva
neppure visto. Carlotta e Albertino divennero popolari tra gli internati. Loro padre li trasformò subito in personaggi delle sue storie. Per la bambina fu persino composta una canzone. Parole di Guareschi e musica del maestro Coppola, il ritornello fu tra i motivi di maggior successo del campo: La mamma l’ha annunciato con estrema serietà il babbo tornerà ma certo tornerà
però lei deve stare buona sul balcon guardando sempre la, verso il canton. Seduta sul balcone la Carlotta se ne sta
e aspetta quel papà che visto mai non ha
e palesando invero ragguardevole apprension sospira masticando il biberon. 112
Quel papà rintanato in un lager tanto lontano trovava ogni modo per stare vicino ai suoi. Riusciva persino a occuparsi degli affari di casa e a dare disposizioni in proposito. Una lettera del 16 aprile 1944 era quasi interamente dedicata a quello: «Cara Ennia: ricevuto tre vostre lettere. Niente vendere Enciclopedia. Solo in caso estremo di fame. Se libretti già finiti chiedi prestito Rizzoli. Ho scritto direttore Banca Commerciale Parma per farti mandare £ 10.194,25 che ho là depositate. Vai a vedere e chiedi di parlare con lui. Prospetta bisogno urgentissimo. Del resto è roba mia sacrosanta». Tutto su questo tenore, lo scritto finiva con un pe-
rentorio: «Morale altissimo. La salute non conta». Ancora una volta, torna a galla il senso religioso della
vita che pervade il Diario clandestino e il diario inedito. Non solo nelle molte lettere in cui si fa esplicito riferimento a Dio e alla Provvidenza. Ma anche in quelle dense di dettagli della vita quotidiana. Perché è su quelli che spesso gli uomini rischiano di cadere. Il logorio non arriva ad attaccare i grandi princìpi. Si accontenta di rosicchiare gli aspetti più banali dell’esistenza fino a fare di una persona un essere che non sa più come e dove applicare i suoi valori. In tutte le pagine della prigionia, Guareschi ricorda da vicino la riflessione di Josef Pieper sulla virtù della fortezza. In Essere autentici. Servono le virtù?, un’opera tanto
minuta quanto importante scritta in quegli anni, Pieper scrive: «Caratteristiche della virtù della fortezza non sono tanto l’aggressività, la sicurezza di sé o la collera, quanto
la resistenza e la pazienza. Ma — non lo si ripeterà mai troppo — non perché pazienza e resistenza siano semplicemente migliori e più perfette dell’aggressività e della sicurezza di sé, ma perché il mondo reale è fatto in modo
che la suprema e più profonda forza d’animo di un essere umano possa manifestarsi soltanto in una situazione estremamente grave, da cui non sia possibile uscire senza la perseveranza nel resistere. 16)
«La pazienza è completamente diversa dall’accettazione indiscriminata di qualsiasi male. Paziente non è colui che non sfugge il male, ma colui che non permette che il male lo spinga a una tristezza disordinata». Solo questo genere di pazienza poteva suggerire a Guareschi un’opera come La Favola di Natale. Per celebrare la notte della Natività del 1944, Giovannino si mise d’
impegno con Coppola, che gli forniva le musiche. Comunicando da un piano all’altro del loro letto a castello, imbastirono l’avventura miracolosa di un prigioniero. Un Giovannino che riusciva a lasciare in sogno i reticolati e le baracche per incontrare in un bosco sua mamma e suo figlio. Il bosco, popolato da creature buone, era il luogo della resistenza al male. Era un piccolo mondo in cui i regolamenti e gli omacci sferraglianti-.non potevano mettere piede. Al termine della favola sembrava dissolversi, ma la speranza lo riprendeva per un ciuffo e scriveva: E se non v'è piaciuta — non vogliatemi male: ve ne dirò una meglio — il prossimo Natale, e che sarà una favola — senza malinconia; «C'era una volta la prigionia...».
Aveva ragione la speranza. Nel 1945 la Favola fu pubblicata. E, all’Angelicum di Milano, Guareschi la mise in scena per gli ex internati e le loro famiglie. Era l’unico modo per segnare un limite oltre il quale il male non poteva andare: e non era andato. Ma nel 1944 la situazione era ancora drammatica. A casa, la signora Ennia e i bambini non se la passavano bene. L'appartamento di Milano era stato bombardato. Non c’era altra soluzione che stare a Marore, in casa del-
la maestra Maghenzani e di Primo Augusto. Le difficoltà non dovevano mancare. In quell’anno, Rizzoli pubblicò I! marito in collegio, la
terza opera di Guareschi, e ristampò // destino si chiama Clotilde. Il successo confermò il talento dello scrittore. Ma economicamente non diede molto alla sua famiglia. Le 114
ristrettezze, come
si capisce dalla corrispondenza, si fa-
cevano sentire. Ma a casa, più che agli affari si badava a trovare il modo di convincere Giovannino a tornare in Italia. O, quanto meno,
a trovare una migliore sistema-
zione in Germania. Fin dal 1943, la moglie gli diceva che qualche amico influente avrebbe potuto suggerirgli la via giusta per lasciare il lager. In una lettera del 10 novembre scriveva: «(...) Ti spedisco l’indirizzo di un amico di Gigi Carones ora in Germania. Si interessa molto a te, ha lettere
importanti a tuo riguardo, mettiti se puoi in comunicazione: Dott. Enrico Boselli, Marelli Motoren Alexandrinen Strasse, Berlin S.W. 68».
A.G.
137,
Carones era il fidanzato di Moma La Tessa, la segretaria di redazione del «Bertoldo». Era molto affezionato a Guareschi e, a modo suo, cercava di aiutarlo. In assoluta buona fede, certo. Ma aveva sbagliato bersaglio e me-
todo. Non aveva capito che Giovannino voleva rimanere in campo di concentramento perché quello era il suo posto in quel momento. Perché da un’altra parte, senz’altro più comoda, si sarebbe sentito fuori luogo, si sarebbe
tradito. Il dottor Boselli si fece vivo da Berlino con una lettera spedita a Guareschi il 3 gennaio 1944 nel lager di Sandbostel. Una lettera lunghissima in cui suggeriva come si poteva evitare il campo di concentramento senza sentirsi traditori. Spiegava come era possibile mettere a tacere la coscienza. Una fuga peggiore della diserzione che nell’orizzonte dello scrittore non aveva cittadinanza: «(...) Se si ammette che la firma apposta da un re a un trattato ermetico può a un dato momento non avere valore, si può anche ammettere che pari “non valore” può avere un giuramento personale verso detto re. «Se si vuole argomentare che l’interesse superiore della Nazione può in un dato momento giustificare l’annullamento di un trattato, anche se impegna l’onore, si può allora anche argomentare che l’interesse superiore
della vita di un essere può in un dato momento giustificare l’annullamento di un giuramento personale. (...)
115
«Se queste sono le premesse che informano il vostro inutile “sacrificio” non vi sono altre alternative! Vi è una sola via: quella di uscire per avvicinarvi ai vostri fratelli e per preservarvi così dalla laida scomposizione fisica e morale. «E tu mi dirai: con che scopo. «Ed io ti rispondo: per vivere. «Per vivere per i tuoi, per tutti coloro che ti amano, per la tua patria, per Te. «Segui questo sano egoismo che coincide con la verità, con l’interesse vitale tuo e della nostra Patria».
Guareschi non era abituato a pensare che l'egoismo avesse qualcosa di sano. E tanto meno che potesse in qualsiasi momento della vita di un uomo coincidere con la verità. È facile immaginare lo sdegno con cui lesse questa lettera. Ma è disarmante vedere con quale serenità e con quale distacco il 14 gennaio scrisse a casa per dire che non se ne faceva nulla. Lui non aderiva alla Repubblica Sociale. E neppure accettava di lavorare in Germania per i tedeschi: «Miei cari: riceverete questa mia? Ogni settimana vi scrivo, ma da 4 mesi non ho vostre notizie. Avute oggi indirettamente da Carones. Che bravo ragazzo! Abbiate coraggio: ce n’è tanto bisogno. Resto qui non per un capriccio, ma per i miei figli e per voi. Lo capirete dopo. (...) Forza! Mancano solo pochi anni e poi finirà!». Già nel 1944 aveva chiesto che nessuno si occupasse di un suo rientro forzato. Le indicazioni date in una lettera del 28 gennaio erano chiare: «(...) Ringrazia La Tessa e Gigi: ordina desistere mie pratiche. Ritornerò quando sarà tempo! Niente illusioni: pazienza e fede. Pensate solo a mandarmi i pacchi!». Non era la testardaggine a trattenere Guareschi in quei luoghi di sofferenza. E non era neppure solo una questione di coscienza e di onore. Si trattava invece di un incontro che lo aveva sorpreso e mostrava di rivelargli qualcosa di essenziale. Aveva incontrato
tutto se stesso,
come non gli era mai accaduto prima. Si era ripulito di tutte le scorie come può accadere a chi è costretto ad ag116
grapparsi alla vita. Ma non era cambiato, e questo lo confortava. Lo rendeva felice perché aveva capito di essersi incamminato da tempo sulla strada giusta. Non a caso, per dar forza alla moglie, in una lettera del 20 febbraio 1944 le diceva: «Rileggi l’ultimo capitolo del mio primo romanzo: ti farà bene». Si trattava della conclusione della Scoperta di Milano. La parte in cui lo scrittore immagina di essere morto e di volteggiare nel cielo attorno alla gente della sua famiglia. Non una sola lettera porta il peso della morte, in quelle pagine. Eppure nessuno cerca di esorcizzarla: fa parte della vicenda umana. Fa bene pensarci: «Margherita, la dolce Margherita, guardava nel cielo sorridendo
e i suoi occhi neri dicevano:
“Giovannino,
Giovannino!...”. Nel lager si era dunque fatto strada un Guareschi sempre più vero. Con tale prepotenza da sorprendere lui stesso. Come racconta nel Diario clandestino, il ritratto che
gli fece il maestro Coppola lo mise davanti al fatto compiuto: «Coppola mi ha fatto un ritratto diligentissimo a matita. Mi vedo finalmente con gli occhi degli altri, e non sono più il Giovannino di un tempo. «Nella mia carta di riconoscimento c’è la fotografia d’un faccione senza ombre, con ogni minima ruga spianata accuratamente dal grasso e dal ritocco. Un faccione deserto, con due stupidi occhi estatici come quelli dei manichini. E i capelli sono ben pettinati, con l’“onda”.
«Una faccia deserta da “dopo la cura”. «Adesso tutto è cambiato. (...)
«Il mio volto possiede finalmente delle ombre: gli occhi sono diventati più grandi, si sono disincantati e vivonuo)
«Adesso comincio a diventarmi decisamente simpati-
co e, quando mi incontro allo specchio, mi sorrido cor-
dialmente: «“Ciao, vecchio. Chi non muore si rivede!”». A sigillo di questo incontro,
Guareschi faceva pace 1A
anche col suo nome, che per tanti anni lo aveva tormentato. Anche Giovannino andava benissimo. Lo confessava in un frammento letto fra le baracche del lager e rimasto inedito, intitolato «Sapienza del poi»: «In fondo — adesso, ripensandoci a mente serena — si
scopre che quel terribile nome che ci ha ossessionato per vent'anni
non
è meno
buffo
di Percallini,
Puntolini,
Cianchettini». «Giovannino», dunque, gli appariva solo buffo. Quanto di indesiderabile gli si agitava intorno perdeva peso nel fuoco purificatore della prigionia. La luce dell'infanzia riusciva ad arrivare fin lassù. Fontanelle, il Bo-
scaccio, i racconti di nonna Filomena si erano fatti una tana dentro il lager assieme a quel nome ritrovato. Gli occhi, disincantati e vivi, erano quelli che tanti anni prima
puntavano lontano, oltre l’obiettivo del fotografo. E ora scavalcavano senza indugio i reticolati. In quel suo sguardo bambino, Guareschi riuscì a comprendere la vita di tutti i suoi compagni. E il frammento «I miei pensieri» a raccontarlo: «C'erano una volta i miei pensieri ed erano tutti miei perché nascevano nel mio cervello, dalla mia gioia o dal
mio dolore. «Ma un giorno scomparve la gioia, e il dolore diventò di mille, diecimila, centomila persone. Diventò il dolore
di tutti e i miei pensieri diventarono i pensieri di tutti. C'erano una volta i miei pensieri, ma non mi dolgo di non averli più. Infatti tornerà la gioia, e sarà una gioia colossale, immensa, smisurata, infinita perché sarà la gioia
di tutti. «E io mi sentirò allora quaranta milioni di volte più contento, che se la gioia fosse stata soltanto mia».
La tentazione più grande nel campo di concentramento era la spinta a isolarsi. L'uomo veniva avviato sulla strada dell’egoismo e quasi costretto a vomitare il peggio di sé. Delazione, menefreghismo, opportunismo, cattive-
ria: tutto e anche di più poteva essere evocato. Ma lo scrittore emiliano, con la condivisione della sua gioia, 118
seppe salvarsi da un peccato tanto grave. Da una colpa capace di sradicare l’essenza stessa dell’uomo. In quel frammento guareschiano risuona un passo della Summa contro ìgentili di San Tommaso d’Aquino. Quello in cui il teologo spiega la natura del peccato commesso da Lucifero: «Nella volontà di una sostanza separata ha potuto esserci il peccato per il fatto che essa non ordinò all’ultimo fine il proprio bene e la propria perfezione, ma aderì al proprio bene come se si trattasse del fine. E poiché dal fine si desumono necessariamente le regole dell’agire, ne è seguito che dispose di regolare le altre cose partendo da se stessa.
(...) Così dunque va intesa l’affermazione
che il demonio desiderò l’uguaglianza con Dio». La tentazione in cui cade Lucifero non è dunque quella di credersi Dio, ma di affermare il suo Io. In quella «I» maiuscola entrano egoismo, superbia, disprezzo per gli altri. L'angelo si trasforma nel principe del male perché si astrae dalla molteplicità, che è la manifestazione della potenza divina. Come un cerchio che, nella sua
perfezione, pretendesse di separarsi dalle altre figure geometriche. Una volta solo, perderebbe tutto il buono che lo costituisce assieme a ciò che sorregge la sua differenza: il fatto di essere una figura geometrica nell’insieme delle figure geometriche. Guareschi si salvò da questa discesa agli inferi. Non si separò mai dai suoi compagni di prigionia. Sapeva di essere un prigioniero nell’insieme dei prigionieri. Evitò due rischi diametralmente opposti, ma legati dalla stessa radice: quello di sentirsi migliore e quello di sentirsi peggiore dei suoi compagni. La sua sopravvivenza passava anche attraverso loro. Diversamente non avrebbe preso forma un’opera come Diario clandestino. Lo scrittore aveva trovato la forza di scrivere questa fase della sua vita in un orizzonte radicalmente cristiano. Aveva saputo riconoscere il volto di Dio anche tra le baracche del lager. Lo aveva visto nitido e vicino come mai prima gli era accaduto. E questo gli aveva dato la forza di applicare le leggi eterne della ragione e del buon Dio an139
che a una vicenda tanto dolorosa e irrazionale. Scelse la stessa via percorsa da una delle maggiori figure della cultura cattolica del Novecento, Jean Guitton. Nei Dialoghi con Paolo VI, il filosofo francese dice che l’esempio di sua madre lo indusse a scegliere non l’assurdo o il nulla, ma
il mistero: il volto di Dio scrutato dall’uomo. Dunque non è strano che, in campo di concentramento come Guareschi, Guitton pensasse di girare il lager raccontando le storie che meglio conosceva: quelle dei Vangeli. Nacque così Il Vangelo nel Lager. Una riflessione sulla storia di Cristo scagliata contro l’invadenza del male. Una manciata di pagine che ricorda da vicino il Guareschi che, nel Diario clandestino, in un brevissimo paragrafo vi-
de la «Resurrezione delle parole»: «Egli si accorge che si ripete... Qui tutto si ripete: i giorni e i sogni sono sempre uguali, e il suo vocabolario è sempre quello. Ma ogni parola si amplifica, diventa un capitolo: Patria, libertà, costume, coscienza, amore, onestà.
«Le parole diventano concetti». E così Giovannino riuscì a tornare dal lager senza odiare nessuno. Se ne trova la splendida prova nel finale di Ritorno alla base, la cronaca di un viaggio in Germania del 1957. Lo scrittore volle tornare nei luoghi del suo calvario e ci andò col figlio Alberto. Come era sua abitudine, raccontò tutto ai suoi lettori su «Candido». Giunto a
Bergen, rivide la città che nel 1945 gli si presentò deserta. Allora, gli Alleati, dopo aver liberato gli internati, li
portarono in quel luogo per alloggiarli e sfamarli. Intanto la gente fuggiva. Dodici anni più tardi, un Giovannino libero e passato pure per le galere italiane sedeva a una festa danzante a Bergen. E suo figlio, Aibertino-Sputnik, faceva quello che farebbe ogni ragazzo di 17 anni, ballava: «La ricordo, quella lunga fila di gente silenziosa, di donne dal volto impenetrabile: ci siamo incontrati quel giorno e non lo dimenticherò più. Penso che, probabilmente, anche la giovinetta che ora sta ballando con Sputnik era annidata su qualche carrettino della lunga colonna. 120
«Qualcuno mi domanda se è la prima volta che vengo in Germania: — La prima volta — rispondo». Con questo animo lo scrittore aveva peregrinato fra i campi di Czestochowa, Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf. Con questo animo accolse i liberatori che si pre-
sentarono alle 17,30 del 16 aprile 1945 al campo di Wiet-
zendorf in modo
tutt’altro che epico. Erano in tre, un
maggiore americano, un caporale scozzese e un soldato canadese. Disarmarono i tedeschi e consegnarono le armi ai francesi. Gli italiani, merce complicata da trattare,
vennero messi da parte. Non andò tutto liscio. Si rifecero vivi i tedeschi, che
non avevano capito a quale punto fosse veramente arrivata la guerra. Poi tornarono gli Alleati, che non sapeva-
no cosa fare di quella massa di prigionieri. Fu per questo che Guareschi e gli altri, il 22 aprile, si trovarono padroni assoluti di Bergen. Uomini liberi in una città vuota. Nell’appendice al Diario clandestino, lo scrittore ricorda: «(...) mi trovai improvvisamente proprietario della drogheria Hermann Shoert di Bergen. «Era il 22 aprile del ’45 e ricordo che, giunto alla fine del terzo chilogrammo di zucchero, cominciai a sentire una fame tremenda». Poi, di nuovo tutti dentro. Il 15 maggio, Giovannino scriveva a casa: «Miei cari, sono libero per modo di dire perché gli inglesi ci hanno rimesso nel vecchio campo di concentramento che è più sporco, più lurido e più indecente di quando c'erano i tedeschi! Abbiamo cambiato padrone, ecco tutto. Però ci danno da mangiare di più di prima. Ma le pulci e le cimici ci avvelenano la vita. «Quando finirà questa maledetta vita? Adesso radunano qui un numero grandissimo di soldati che vengono da tutte le parti. Così vivo nel continuo timore che scoppi qualche malanno epidemico. Staremmo freschi, allora! Non ne posso più. Vi abbraccio. Temo che dovrà passare ancora molto tempo prima di vederci! Baci ai bimbi». Poteva solo aspettare e continuare la sua solita vita. Pensare, scrivere, parlare, raccontare. Con alcuni com121
pagni, tra cui Coppola e Tedeschi, diede vita alle trasmissioni di Radio B 90. Grazie a un impianto di amplificazione potevano farsi sentire dagli altri prigionieri. Lo scopo era sempre lo stesso del «Bertoldo parlato». Ma gli orizzonti cominciavano a mutare. Si pensava al ritorno. Si cercava di immaginare il dopoguerra. E, come spesso capitava, Guareschi intuì come sarebbe andata a finire. O a ricominciare. Nella Radiobizzarria in un atto «Cinque anni dopo», nel luglio del 1945 ipotizzava, con tragica lungimiranza, il futuro dell’Italia. Il Paese era completamente libero, ma, in seguito alle rivendicazioni delle na-
zioni più diverse, varie zone dovevano «permanere sotto il controllo alleato». A un sistematico inventario, solo la
riviera romagnola appariva libera, ma: «(...) avendo la Repubblica di.S. Marino fatto presen-
te a San Francisco il suo sacrosanto diritto a uno sbocco sul mare e a uno spazio vitale, Rimini e la intera Romagna rimangono ancora sotto il controllo alleato». Anche gli internati italiani rimasero a lungo sotto il controllo alleato. Guareschi riuscì a partire dalla Germania solo il 28 agosto. Il viaggio non fu piacevole. In molti, la felicità del ritorno si mescolava a un inespresso sen-
so di vuoto. Lungo la strada, le rovine si susseguivano alle rovine. Il timore per la sorte delle famiglie si faceva più vivo in tutti. Ai primi di settembre, lo scrittore arrivò a Pescantina,
poco lontano da Verona. Era la tappa obbligata per le tradotte che scendevano lungo la linea del Brennero. In quella zona operava la Pontificia Commissione d’Assistenza, voluta personalmente da Papa Pio XII. Era l’unica organizzazione che sapesse far fronte a tutti i problemi posti dall’ondata di internati che facevano ritorno a casa. Era divisa per competenze provinciali. Quando Guareschi arrivò, al Campo Parma prestava servizio padre Paolino Beltrame Quattrocchi. Se Giovannino ebbe modo di parlare con quel religioso, fu sicuramente cosa da poco. In ogni caso l’incontro lasciò un segno che venne alla luce durante un’altra prigionia: quella subîta in seguito all’affare De Gasperi. 122
In una lettera inviata il 25 dicembre 1954 ad Alessandro Minardi
dal carcere
di San Francesco
a Parma,
lo
scrittore diceva: «(...) In quanto a don Camillo, bisogna che te ne parli: anche perché non si chiama don Camillo bensì Padre
Paolino.
«E io lo conobbi nel settembre del 1945 a Pescantina, perché egli era là, con la Pontificia Commissione d’Assi-
stenza, ad accogliere i reduci dai Lager. «Ha celebrato lui la Messa questa mattina perché il cappellano era malato e, quando io udii la sua voce, sus-
sultai, perché era la voce del mio don Camillo. E quando iniziò il suo sermone io ancora sussultai perché, se il mio
don Camillo fosse non un povero prete di campagna, ma uno smagliante oratore come Padre Paolino, così parlerebbe ai suoi fedeli». Guareschi non immaginava che quel secondo incontro fosse stato preparato ad arte da padre Quattrocchi, uno fra i benedettini più vivaci del suo ordine. In ogni caso, il fulmineo ricordo del cappellano militare che lo accolse a Pescantina lo riportò all'anima di don Camillo. Era segno che, dalla prigionia, era tornato con quel pretone ormai deciso a venire alla luce. E che la sua creatura si sarebbe portata dentro per sempre qualcosa di quel monaco. Dopo Pescantina, lo scrittore proseguì per Marore, dove era sfollata la famiglia. E vide Carlotta. Fu un incontro speciale, perché quell’affarino non lo aveva mai
avuto tra le braccia. Doveva studiarselo e capire bene come era fatto. Così un giorno lo prese in braccio e lo portò fino a Parma al caffè del suo amico Tonino Scotti. Lo mise su un tavolo e non smetteva di rimirarlo. E più lui guardava la piccola Carlotta, più la moglie di Tonino
guardava lui: non riusciva a mettere insieme il giovanotto di un tempo, capace di rivoltare Parma con la ferocia
di una vignetta, e quel padre silenzioso e dolcissimo.
Glielo spiegò lui. L’aveva trovata, finalmente, la Carlotta.
Ora doveva conoscerla. Ma doveva anche riprendere in fretta a lavorare. La 123
casa di Milano distrutta. I risparmi mangiati dalla guerra. La miseria tornava a farsi sentire come negli anni dell’infanzia e della giovinezza. Non si poteva aspettare. Puntò ancora su Milano. Cominciò
a collaborare
con
«Tempo
perduto», un
nuovo settimanale in cui ritrovava amici e colleghi come Loverso e Mosca. Il 13 settembre del 1945, il giornale lo
salutava con un trafiletto intitolato «I baffi di Guareschi»: «Nino Guareschi è tornato dalla Germania dopo due anni giusti di concentramento. E, ancora, il nostro saldo Giovannino di un tempo, ma il nostro sguardo gira invano attorno a lui cercando quel bel grasso che lo tondeggiava. In compenso, c’è un paio di baffi: baffi da chauffeur parigino o da commissario di P. S. tipo siculo-pirandelliano. Salutando Guareschi salutiamo anche i suoi baffi. Abbracciandolo abbracciamo anche i suoi baffi di concentramento». I fili andavano riannodandosi, ma con fatica. Gaeta-
no Afeltra riuscì a farlo assumere al quotidiano «MilanoSera». Il giornale era legato alla sinistra socialcomunista e Guareschi, uomo di destra, non era ben visto. Ma Afel-
tra lo teneva nel suo ufficio e gli affidava servizi di cronaca e di costume. Fu lui a commissionargli due pezzi per raccontare la prima notte di Natale e la prima notte di Capodanno del dopoguerra. Lo ricorda in Famosi a modo loro: «Mentre scrivo queste righe, mi assale un rimorso. La sera di Natale e la sera dell’ultimo dell’anno del 1945, le
prime feste che, dopo anni di campo di concentramento, Guareschi poteva passare con la moglie e i figli, io, con una crudeltà che solo la più sfrenata passione giornalistica può giustificare, lo strappai alla famiglia mandandolo in giro per le vie deserte di Milano a vedere cosa succedeva in quelle ore. I «Guareschi obbedì e descrisse la notte di Natale e la notte di Capodanno in due articoli bellissimi». Quello per l’ultimo dell’anno si intitolava «Stanotte nel “Lager” nessuno guarderà il cielo». Terminava par124
lando di un treno che corre portando le anime di tutti i morti in prigionia: «E quando, fra cinquanta o sessant’anni, avrà carica-
to le anime di tutti i reduci, prenderà l’aereo binario che porta dove Dio vuole, e nessuno in terra lo vedrà più. «Egli sa che un giorno il treno fantasma si fermerà alla stazione del suo paese, e anche lui salirà e ritroverà così icompagni perduti. «E, nell’attesa, si consola di ogni anno che passa».
«Milano-Sera» fu una parentesi di appena qualche mese. Il 3 ottobre 1945 Guareschi ricevette una lettera di Angelo Rizzoli. Un messaggio brevissimo che avrebbe segnato il suo futuro: «Caro Guareschi, da tempo non ho sue notizie.
«Quando potremo vederci a Milano per parlare del nostro giornale?». Si videro. Sarebbe nato «Candido».
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6 CONTRORDINE COMPAGNI
Milano, Natale 1945: la convalescenza era finita. Guare-
schi aveva adottato la sola cura ricostituente che potesse permettersi, il lavoro. Con la nascita di «Candido», il suo
nuovo giornale, poteva dirsi completamente guarito. I postumi della prigionia erano andati dove dovevano andare. Tutto quanto avrebbe potuto evocare il senso del male nel dimenticatoio, il resto pronto a rivivere sulla pagina. Alla guida del settimanale Rizzoli aveva voluto Guareschi e Mosca. Giaci Mondaini faceva da vice. I due direttori compilavano quasi per intero le quattro facciate formato quotidiano del giornale: pezzi di politica, racconti umoristici, bozzetti di costume, commenti, vignette. Per
qualche tempo, le pagine di «Candido» ospitarono la rubrica «All’insegna del vecchio “Bertoldo”». Era il modo migliore per rendere esplicite le origini. E, non a caso, il gruppo dei collaboratori andò presto ingrossandosi delle firme del bisettimanale umoristico morto nel 1943 sotto i bombardamenti. Arrivarono, per esempio, Manzoni, Metz, Simili, Palermo, Molino, del Buono, Bianchi. Trai
nomi nuovi che il giornale raccolse negli anni seguenti, Leo Longanesi, Giovanni Cavallotti, Lorenzo Bocchi, Enrico Mattei, Enrico Piceni, Eugenio Gara, Ferdinando
Palmieri, Cesare Angoletta. L’infoltirsi dei collaboratori si rese necessario per due ragioni sostanziali: il ritmo sempre più veloce della lavorazione e gli argomenti ogni volta più spinosi che «Candido»
andava a scrollare. A questo, nel 1952, si ag-
giunse il cambio di formato. Le pagine divennero più 127
piccole, ma passarono a trentadue: un’impresa impossibile da affrontare a ranghi ridotti. Il primo numero di «Candido» esibì senza falsi pudori la sua anima. La parentela col «Bertoldo» si mostrò subito più formale che sostanziale. Non cambiavano gli strumenti per raccontare la realtà. Mutavano la scelta e il taglio con cui gli argomenti venivano affrontati. Se il «Bertoldo»
sferzava costume
e malcostume,
«Candido»
affondava i canini ovunque annusasse stupidità, malafede, cattiveria e vigliaccheria. La guerra aveva cambiato tutti. Specialmente Guareschi, che nei lager tedeschi aveva ritrovato tutto quanto era suo e anche qualcosa di più. L'uomo della Bassa aveva bisogno di raccontarlo. Sentiva l’urgenza di metterlo nero su bianco. Parola dopo parola. Disegno dopo disegno. Tanto da lasciare sul nuovo giornale le tracce della sua biografia. I segni di una vita incisi a ogni voltare di pagina. La vignetta che apriva il primo numero tratteggiava la tragedia di milioni di italiani in cerca di identità. Uomini e donne pronti a tutto pur di rimettersi in piedi. Santi e maledetti,
eroi e vigliacchi, onesti e mentitori.
Ognuno a fiutare la sua strada. E molti pronti a cambiarla a seconda dei venti della ricostruzione. Sotto il titolo «Italia, Italia...» Walter Molino aveva disegnato un omarino intento a scrivere su un muro «Abbasso Parri». Ma, al-
le sue spalle, un signore più informato lo ammoniva: «No, è tutto cambiato da una settimana! Adessosi deve
scrivere abbasso De Gasperi». La situazione non poteva essere fotografata con più precisione. La gente si attendeva forse troppo da una classe politica che sì stava inventando un ruolo. E che doveva affrontare una realtà più complessa e incattivita del previsto. I governi si succedevano ogni sei mesi e cercavano di imbarcare tutte le componenti del Comitato di liberazione nazionale. Ben presto emersero le divisioni più che le convergenze. Tanto da dover continuamente ricorrere al collante dell’antifascismo. Dopo Ferruccio Parri, come spiegava la vignetta di Molino, toccò dunque ad Alcide De Gasperi guidare l’e128
secutivo. Trentino, democristiano, accreditato presso gli
Alleati da un’abile attività diplomatica svolta durante la resistenza, De Gasperi guidò il Paese verso le elezioni per la Costituente e il referendum istituzionale. Ma il cammino della ricostruzione era appena cominciato. Bisognava fare i conti con l’Amministrazione militare alleata, che rilasciava a scaglioni il controllo delle regioni al governo italiano. La polizia, preposta al presidio del territorio con i carabinieri, aveva inquadrato parecchie forze partigiane rendendo difficile il lavoro dei prefetti. E i pochi che avevano cominciato a parlare di pacificazione nazionale vennero smentiti dai fatti. Subito dopo il 25 aprile era esplosa la mattanza di fascisti, presunti fa-
scisti, amici di fascisti e gente che con i fascisti non aveva nulla a che fare. La guerra civile aveva portato i suoi strascichi dentro le vendette politiche, le faide familiari, il banditismo, la borsa nera. In pochi mesi si contarono
centinaia di uccisioni sulle quali pochi volevano indagare. La maggior parte dei politicanti lo aveva messo nel conto e non ci voleva pensare. Guareschi fece del suo giornale il bollettino di questo orrore. Ma, per venirne fuori, bisognava intuire chi potesse guidare la baracca. Si trattava di prendere le misure ai nuovi politici e capire quali fossero i più affidabili. Certo non poteva essere presa per buona la strategia dell’unità antifascista. Lo scrittore capì subito che si trattava di una colla artificiosa, capace solo di tenere insieme gli interessi dei partiti e non quelli degli italiani. E capî che portava senza scampo a un nuovo conformismo e a una nuova retorica. Sul numero
17, del 27 aprile 1946, pubblicò una vi-
gnetta intitolata «Erano due, dunque!». Vi aveva ritratto due uomini che, guardando il mondo da una mongolfiera, vedono con grande stupore due Italie. E uno dice all’altro: «Ecco, guardando di quassù uno si spiega la faccenda dei 45 milioni di fascisti e dei 45 milioni di antifascisti». I tromboni del nuovo corso avevano cominciato a farsi sentire e avevano già trovato molta gente pronta a dar loro retta. In fondo, l’Italia non era cambiata. 129
Guareschi lo disse nei dettagli su «Candido». E lo fece anche nell’ Italia provvisoria, un volume uscito nel 1947.
Nel libro aveva miscelato narrazione e grafica fino a trarne un lavoro di grande suggestione. Ai racconti e alle riflessioni aveva alternato dei collages. Foto, pezzi di giornali, manifesti, poesie, testi di canzoni. Tutto quanto si po-
teva raccattare nell’Italia della guerra e del dopoguerra: dai morti di piazzale Loreto al bandito Giuliano, dai santini di Stalin alle manifestazioni dei lavoratori. Un ritratto impietoso, se non avesse avuto per filo conduttore gli scritti in cui Guareschi mostrava il suo cuore e gettava il seme del ragionamento. Un viaggio controcorrente in cui impiegava poco ad azzannare al collo il problema: «Non so se con queste mie chiacchiere riesco semplicemente ad annoiarvi. L’intento è, a parer mio, onesto.
Cercare cioè di dimostrare, toccando ogni campo, che uno dei mali maggiori che affliggono questa nostra, o meglio, questa quasi nostra terra, è il male della retorica. La retorica che ama i luoghi comuni e le frasi fatte. La retorica aggravata dalla retorica dell’antiretorica. «Gli italiani sono estremisti: o dormono avvolti nella bandiera nazionale oppure la pestano sotto i piedi. «O Roma caput mundi. O Roma kaputt». E, poche pagine più avanti: «Il laboriosissimo popolo italiano è, ohimè, affetto da una pesante pigrizia mentale: non vuol pensare, preferisce trovare tutto pensato. Alzarsi la mattina e leggere sul giornale quello che la direzione centrale ha pensato per luka) «Liberiamoci di quella parte peggiore di noi stessi che è in agguato dentro ciascuno di noi e aspetta una squilla, un inno, uno sventolar di bandiera per levarsi la giacca, rimboccarsi le maniche e fare la nuova storia del-
l’Italia. «Qualunque colore abbia questa camicia, e, Garibaldi a parte, sarebbe opportuno smettere di fare la storia d’Italia in maniche di camicia. Facciamola in giacchetta una volta tanto. Magari in redingote. «Liberiamoci della parte peggiore di noi stessi: guar130
diamoci allo specchio e ridiamo della nostra tracotanza, del nostro barocco messicanismo, della nostra retorica.
«Guardiamoci allo specchio dell’umorismo. Così come posso fare io, cittadino niente, che — quando mi specchio e vedo sul mio viso un truce cipiglio — scuoto il capo sorridendo e dico: “Giovannino, quanto sei fesso!”». A conti fatti, il dramma dell’Italia provvisoria nasceva
dagli italiani di sempre. Questo, purtroppo, non era un luogo comune, buttato lì da un umorista per strappare una risata. Era il macigno che Guareschi aveva deciso di togliere dalla strada e di frantumare. Il nemico della vera ricostruzione. Per centrare il bersaglio non c’era altra via che quella della politica. «Candido», lanciato dal suo direttore, vi
si gettò senza riguardi per nessuno. Annusava il buono e il gramo ovunque si trovassero e lo raccontava senza giri di parole. Teneva fermi alcuni caposaldi: la difesa della fede cattolica, il bene della nazione, la moralità della vita
civile. Difficile immaginare un giornale simile collocato a sinistra. Ma neanche la destra gli rese la vita facile. Guareschi se ne rese conto subito. E le difficoltà nella ricerca di uomini veramente desiderosi di dialogare lo portò a intuire il vero pericolo della politica italiana. Nel Paese si stavano formando schieramenti decisi a tutto fuor che a guardarsi in faccia e lavorare. Ognuno intento a non mollare la presa, qualunque fosse il prezzo da pagare. Ognuno convinto di poter gettare sul piatto il peso della propria purezza. Ma secondo il giornalista emiliano era proprio questo il rischio da evitare. Proclamarsi puri significava porsi su un piano diverso dagli altri e scansare la fatica della comprensione. Chiedeva la rinuncia a sporcarsi nel contatto col prossimo. Imponeva un solo atteggiamento davanti agli uomini e alla vita: la negazione. A fronte di un pericolo simile, Guareschi percorse un sentiero che ricorda da vicino quello tracciato da Jean Guitton. Tra Il puro e l’impuro, come si intitola un volume del filosofo francese, scelse anche lui l’impuro. Decise di incontrare gli uomini per quello che sono. Capì che die131
tro le facce truci dei comunisti, dei fascisti, dei democri-
stiani e del partitume minore si celava una pericolosa concezione dell’uomo. Covava un disprezzo radicale per i propri simili nascosto fra i grandi traguardi delle ideo-
logie e delle direttive di partito.
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Lo scrittore preferì l’impuro della pasta umana, convinto che solo così si può condurre l’uomo oltre se stesso, attraverso la ragione. L'impuro, mostrava Guareschi, è colui che rifiuta, come insegna il Vangelo, di separare la zizzania dal buon grano. E quello che vive la vera vita umana della mescolanza e accetta di cercare un senso nel vasto territorio fra il tutto e il nulla. E la persona che corre il rischio di incarnare il modello nella vita quotidiana. In tale prospettiva, preferire l’impuro al puro si mostra l’unica via per preservare il vero. Ma costa fatica. Impegna tutto quanto costituisce l’uomo. Chiede alla ragione di mettersi in gioco assieme al cuore e all'anima. Si muove attorno alla laboriosa costruzione del concetto e del ragionamento. Non ammette scorciatoie. Guareschi lo spiegò più volte. Fu addirittura didascalico il 7 dicembre
1946, su «Candido», nella
«Lettera a un disgustato». In tre colonne metteva a nudo la follia di chi era tentato da una nuova deriva totalitaria,
magari solo per comodità: «(...) Comunismo e qualunquismo sono da porre sullo stesso piano: due squadrismi alle prese, due dittature che tentano di affermarsi. «Ma, fortunatamente, in mezzo è rimasta la folla degli
incerti, rimasti che da hanno
e dico incerti nel miglior senso della parola; sono coloro la cui crisi politica e spirituale è tutt'altro condannarsi. Perché sono in crisi? Perché non trovato ancora la loro strada? Appunto perché si
sono rifiutati, caduto il fascismo, di infilare la più facile,
quella dell’assoggettamento a un nuovo padrone, dell’asservimento a nuove direttive, della rinuncia a pensare con la propria testa e ad assumersi tutti i pesi e tutte le responsabilità della propria dignità di uomini. «E degradante non leggere che il giornale del proprio partito, non credere che a quel ch’esso dice, inneg132
giare a Togliatti per il ritorno dei prigionieri-propaganda, stimare
Tito
dopo
aver
ucciso
Mussolini,
stimare
Nenni anche dopo la sua confessione di incapacità giuridica, prendere sul serio la fede cattolica di Giannini do-
po la scorpacciata di Sacramenti che costui ha fatto all’età di cinquantaquattr’anni per mettersi in regola con il Vaticano. «E degradante, ma comodo: domani, se le cose vanno male, si impiccano o si allontanano i capi, e la massa
rimane pura, senza peccato». Guitton esprime la stessa opinione in un passo del suo studio: «La caratteristica segreta di ogni negazione è quella d’interdire la graduazione, la partecipazione, il giudizio sul più e sul meno. L’atteggiamento della rivolta traduce sul piano dell’esistenza sociale e politica l’atteggiamento logico proprio della negazione. (...) «Noi riusciamo a sfuggire allo spirito di setta e a quello del catarismo solo nella misura in cui possiamo valutare i gradi, i livelli di certezza; distinguere tra l’opinione, la convinzione e il giudizio; notare le sfumature che ci fanno passare dal dubbio alla fede e dalla fede al dubbio; (...); evitare la tentazione della purezza di massa».
Fin dall’inizio, «Candido» portò le stigmate di questa scelta dell’impuro. Su tutte, la rubrica «Visto da Sinistra Visto da Destra». A firma Spartacus e Caesar, uno stesso avvenimento politico veniva descritto secondo le ragioni dei puri di sinistra e dei puri di destra. In mezzo, sotto
l’omino di «Candido», stava l’opinione del giornale sui fatti della settimana: non era un «Visto dal Centro», ma un «Visto dall'uomo». Fra tanti semidei, se ne sentiva il
bisogno. Sui primi numeri del settimanale, la rubrica aveva per titolo «Ieri e Oggi» e metteva a confronto la retorica fascista con quella antifascista. Smascherava la medesima matrice dei luoghi comuni dei puri del ventennio e della neonata democrazia. Dal maggio 1946 divenne «Visto da Sinistra - Visto da Destra», con Guareschi a scrivere per Spartacus e Mosca a firmare Caesar. Ma in alcuni numeri wa
mutò titolo a seconda di esigenze immediate. «Tipo e Controtipo», firmata da Ursus e Spartacus. Oppure «Nord e Sud», a nome Cisalpinus e Terronius. La flessibilità dei titoli e degli argomenti mostra una decisa volontà di affondare la lama del ragionamento in ogni angolo della società. Il disegno di arrivare dove i partiti non erano ancora riusciti a chiedere di versare i cervelli all’ammasso. Il desiderio di incontrare persone vere. Per lo scrittore della Bassa non si trattava solo di una brillante invenzione giornalistica. Rappresentava la sua visione della vita. Disegnava il suo ritratto di uomo sempre pronto a camminare di fianco al suo prossimo. Mai tentato dal peccato di fuggire altrove, di divenire solo angelo o solo bestia. Il lager lo aveva inchiodato alla terra,
steso a guardare il suo Dio. Lo aveva costretto a pregare senza nascondersi, con quello che gli era rimasto, solo se
stesso: corpo, cervello e spirito. Tornando a casa, si era portato tutto quel bagaglio e non aveva più voluto separarsene. Non avrebbe mai accettato che qualcuno, in nome di una qualsiasi idea di purezza, lo costringesse a rinunciare a una parte della sua umanità. Se si vuole scavare la radice della filosofia guareschiana bisogna cercare qui. Nella volontà di non abdicare dalla condizione di uomo: né davanti agli altri uomini, né davanti a Dio. Nulla di più lontano dalla tentazione della purezza. Guareschi scelse di vivere in quella zona intermedia dell’essere che solo l’uomo possiede. Sentì di condividire il destino di ogni suo simile: di essere quella via media, quel punto di intersezione, per molti difficile da accettare, che non è solo spirito e neppure solo corpo. Si fece auscultatore del mormorio dell'essere e del suo riproporsi miracolosamente ogni giorno, quasi di nascosto. E scrisse, senza mai stancarsi, che bellezza, bontà, verità so-
no troppo difficili da capire quando non meravigliano. Ma che proprio allora vanno cercate, con tenacia, nelle
vicende quotidiane. Anche nella politica, un mezzo co134
me un altro per essere uomo. Scriveva ancora nella «Lettera a un disgustato» di sentirsi vicino a: «Milioni di italiani, il cui smarrimento
spirituale, la
cui incertezza, la cui indecisione sono appunto il segno di un travaglio morale, d’un esame
di coscienza, d’una
difficile, ragionata ricerca della via migliore che compor-
tano, appunto, dubbi, perplessità, ed anche errori. Ma i
molti piccoli errori sono infinitamente preferibili all’unico, grande errore nel quale gli estremisti di destra e di sinistra si cacciano a capofitto, gridando ch’è la verità assoluta».
I lettori di «Candido» capirono in fretta che le quattro facciate del giornale erano ritagliate in una stoffa diversa da quella ordinariamente in commercio. E non erano necessariamente persone di destra. Tra loro vi erano anche numerosi comunisti che, spesso, scrivevano al di-
rettore per chiedere ragione delle sue scelte. E lui non si esimeva mai dalla risposta. Non lasciava cadere nel vuoto una sola lettera scritta civilmente. Sul giornale o in privato, innescava il meccanismo del ragionamento che aveva tanto in conto. Mostrava di conoscere a fondo gli argomenti di cui parlava. Aggiungeva ragioni al suo discorso, senza trascurare di pesare quelle degli interlocutori. Con lo stesso metodo e lo stesso spirito, Guareschi diede vita al «Giro d’Italia», un altro appuntamento tipico di «Candido». Pescava nel gran mare del dopoguerra e, ogni settimana, cuciva un ritratto del Paese. Il canoni-
co «Qui in Italia tutto bene» dava il via ogni volta a un vasto campionario di fatti e misfatti firmato Il Forbiciastro. Una grande prova di giornalismo che sintetizzava un oceano di informazioni. Durante la settimana, Guareschi
seguiva la vita politica, la cronaca nera e la cronaca bianca. Passava al setaccio i giornali di provicia. Spulciava le decine di lettere con cui i lettori segnalavano fatti degni di essere commentati. Fra un altro bagno nell’umanità che solo chi aveva deciso di incontrare a ogni costo il suo prossimo poteva permettersi. Non servivano solo grande tecnica e tenacia. Era necessario uno spirito speciale per dare ogni volta il 195
giusto colpo di pedale del «Giro». In quella pagina vi si trovava di tutto. Le belle storie erano per forza di cose in quantità minore delle brutture. I morti ammazzati della guerra e del dopoguerra trovarono giustizia solo su quelle colonne: erano gli italiani uccisi nelle foibe dai partigiani di Tito, erano le vittime del «triangolo della morte» di Reggio Emilia, Modena e Bologna. L’Emilia, capofila
della classifica degli orrori, venne battezzata Messico d’Italia. Sul numero 37 del 14 settembre 1946 si leggeva: «A Bologna la solita bomba sventata che inciampa nottetempo nella soglia di una sede del partito comunista. In località Madonnina di Modena il 33enne Ugo Faroni, mentre rincasa a sera tarda dall’osteria, si imbatte in
una sventagliata di mitra progressivo e ci rimane secco. Così i delitti della zona hanno raggiunto il numero di quarantatré. Anzi facciamo quarantaquattro, già che ci siamo, perché due sere dopo a Staggia di San Prospero il possidente Attilio Vecchi, mentre ritorna a casa in calessino, viene freddato da sette colpi di rivoltella progressiva. «Dai carabinieri di Cesena e Bertinoro vengono arrestati tali Umberto Fusaroli, Alberto Francia, Marcello Piraccini, Libero Rocchi e Guido Nutini, i quali avevano
tentato di far saltare con mine la casa dell’agricoltore Montanari. Uno di questi progressivi il 7 di giugno aveva ucciso a colpi di mitra i coniugi Caporali alla presenza di un loro bimbo di sei anni e di altri parenti». E via di questo passo. Un occhio di riguardo veniva gettato sulla stampa. La stupidità di molti giornali trovava felice sfogo nel «Campionato di titolismo». Nella gara del numero del 22 giugno 1946 si distinguevano: «Milano-Sera»:
«Sputatore il capo» «Coabita acrobata: addio rococò»
«Salivato un vigile». «Corriere Lombardo»: «Collaborò orizzontale per lei infamia e tisi»
«Due magnifici casi di coraggio antifurto» 136
«Un bisteccone finalmente Fleming» «Ciclochinino tentato suicidio».
L'impronta di Guareschi su «Candido» fu dunque decisiva. In seconda battuta veniva quella di Mosca che,
in ogni caso, non mostrava di aver gettato tutto se stesso in quell’avventura. C’era più accademia che umanità in molti dei suoi scritti e dei suoi disegni. Probabilmente il pubblico lo sentiva e preferì instaurare un rapporto con il giornalista della Bassa. Allora, molti addetti ai lavori, senza brillare in intelli-
genza, cominciarono a definire come sanguigno quel singolare personaggio. Non si accorsero che bastava definirlo vero. D’altra parte, poteva essere faticoso ricono-
scere il carisma dell’autenticità in un uomo capace di dire la sua su tutto e fornito di una merce rara come la coerenza. L’unico mezzo per tenerlo in disparte era quello di caratterizzarlo per eccesso. A un giornalista sanguigno si era disposti a perdonare tutto, o quasi. A uno vero molto meno. Ma questa categoria non riuscì a porre Guareschi ai margini dell’agone politico e culturale. L'efficacia del suo lavoro fu sperimentata,
soprattutto,
dai comunisti.
Un esempio per tutti, quel forellino fra le due narici che prese a disegnare sulle loro facce. Già il tratto non era dei più pietosi: fronti basse, sguardi non troppo intelligenti, corpi tendenti al deforme. Ma la terza narice fu una sentenza di condanna per manifesta stupidità.
Cominciò tutto tra il febbraio e il marzo del 1947. In quel periodo, sul numero 5 di «Candido» uscì la prima vignetta intitolata «Obbedienza cieca, pronta e assoluta». Guareschi vi aveva disegnato degli attivisti comunisti intenti a spennellarsi di olio. Da lontano giungeva un compagno che svelava l’arcano di quella stramba direttiva di partito: un errore di stampa dell’«Unità», il giornale fon-
dato da Antonio Gramsci. Il poveretto si sgolava avvertendo: «La frase “I compagni debbono essere sempre unti” va invece letta: “I compagni debbono essere sempre
uniti”».
137
Sulle facce di quei compagni si cominciava a intravvedere il segno della terza narice, che fece il suo ingresso
definitivo nel mondo della satira su «Candido» del 1° marzo. Quella volta, un gruppo di compagni era intento a raccogliere,
senza
chiedersene
la ragione,
una
gran
quantità di noci. Anche in quel caso il refuso era in agguato. L’«Unità», il giornale fondato da Antonio Gramsci, aveva sbagliato. Il solito ben informato diceva: «Contrordine compagni. La frase “I compagni devono raccogliere le noci e riportarle alla Direzione del Partito” va invece letta: “I compagni devono raccogliere le voci e riportarle alla Direzione del Partito”». Con un semplice segno grafico, Guareschi aveva scritto un trattato sulla stupidità umana.
Quella terza narice,
spiegò, serviva per far uscire il cervello e far entrare nella testa le direttive di partito. Il termine trinariciuto entrò subito nel linguaggio comune a identificare qualunque tipo di imbecillità e di rinuncia al ragionamento. Merce abbondante tanto a sinistra quanto al centro e a destra. I comunisti non gradirono la presa in giro. Lo stesso Togliatti, un bel giorno, perse le staffe. Tanto che, su «Candido» del 20 novembre 1949, si poteva leggere nel trafiletto intitolato «Ambito riconoscimento»: «La Direzione del settimanale “Candido” è lieta e orgogliosa di poter annunciare ai suoi Lettori che l’on. Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano e membro
dell’autorevole Cominform, durante il suo im-
portante discorso tenuto a La Spezia il 6 novembre corrente, ha avuto modo,
polemizzando
contro la stampa
cosiddetta indipendente, di definire “l’uomo più cretino del mondo quel giornalista milanese che ha creato il personaggio con le tre narici”. Questo apprendiamo dalla stampa. Da corrispondenti di nostra piena fiducia presenti al discorso si ha invece che “al grido di ‘idiota!’ per ben tre volte ripetuto, l’on. Togliatti si è scagliato contro colui che su un settimanale milanese chiama trinariciuti i compagni comunisti”. Comunque
sia, cretino o idiota,
il riconoscimento c’è ed è ambitissimo e il “trinariciuto” 138
entra così ufficialmente nella vita politica. Al nostro Giovannino Guareschi, creatore dell’uomo con triplice nari-
ce e dell’appellativo “trinariciuto”, le nostre più vive felicitazioni. «E al trinariciuto on. Palmiro Togliatti il nostro sincero ringraziamento, e l’augurio che la fiamma emessa dalla sua generosa terza narice di autentico figlio del popolo continui a illuminare il cammino del Glorioso Partito Comunista Italiano». L’ira del segretario aveva seguito a debita distanza quella della base comunista. Il 12 settembre 1946, quando i trinariciuti non erano ancora nati, la direzione di
«Candido» aveva ricevuto una breve ma risentita missiva: «Lettera aperta ai Sigg. Guareschi e Mosca. «La libertà di stampa è una gran conquista, ma la libertà di offendere sistematicamente è un arbitrio. Vogliamo far presente questo ai sunnominati signori: critichino come vogliono i partiti di sinistra, ma lo facciano nei limiti dell’onestà e dell’educazione se vogliono che le maestranze collaborino con loro. Firmato la cellula Comunista e Socialista e i compagni democristiani a cui si associa la maestranza» Oltre al comunismo,
nemico di sempre, nell’imme-
diato dopoguerra Guareschi affrontò un altro nodo. Su un piano diverso, ma con la stessa passione: il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che chiedeva agli italiani di scegliere tra monarchia e repubblica. L'uomo della Bassa si schierò senza tentennamenti dalla parte del re. Troppo spesso quel suo impegno è stato contrabbandato come sentimentale. Come una sorta di tributo alla venerazione che la madre serbava alla corona. Invece, come in tutte le sue scelte, anche in questa Giovannino ave-
va posto un solido ragionamento. E lo spiegò con tutte le armi a sua disposizione ai lettori di «Candido». Gli risultava difficile immaginare un presidente della repubblica come un uomo veramente sopra le parti. Lo vedeva, invece, espressione degli accordi di partito e, di conseguenza, condizionato dalle forze che lo avrebbero eletto. Dalla sua parte si schierarono molti più italiani di 139
quanto si potesse immaginare, ma non bastò: 12.717.923 per la repubblica, 10.719.284 per la monarchia. Re Umberto II si vide costretto all’esilio. E con lui partì anche un po’ del cuore di Guareschi. L’8 giugno, su «Candido» lo spiegò un articolo dal titolo quanto mai significativo, «Addio, Giovannino»:
«I numeri hanno una loro scaltra filosofia, e ad aggiungere dieci milioni di monarchici a dodici milioni di repubblicani si ottiene una repubblica composta di due milioni di repubblicani effettivi. E ciò perché 10-12 dà -2. Domani darà invece ventidue milioni di italiani equivalenti a quarantaquattro: ma oggi comandano ancora i numeri, e le statistiche sono prive di carità di Patria e di fantasia. (...)
«Uno stemma è caduto: spazio disponibile. Il bianco della nuova bandiera italiana è rimasto immacolato e ognuno cercherà di imporre il suo marchio a quel candore. (...) Potrà divenire la bandiera di una meravigliosa Italia, ma non potrà mai più essere la tua bandiera, Giovannino. (...)
«Io rimango qui, condannato al mio dovere di padre e di cittadino, fino al termine dei miei giorni, al lavoro
obbligatorio. «Ci dividiamo, Giovannino: tu nel regno delle ombre, sotto la vecchia bandiera; io nella repubblica dei sopravvissuti, sotto la nuova bandiera. «Un giorno arriverà la liberazione e ci ritroveremo nel regno dei cieli, là dove i minuti secondi sono fatti di
centomila secoli ciascuno. «Addio, Giovannino».
Dopo la battaglia per la monarchia, «Candido» fece sentire il suo peso nelle elezioni del 1948. Allo scopo di scongiurare il pericolo comunista, Guareschi e Mosca si schierarono apertamente a favore della Democrazia cristiana. Non vedevano alternative per sconfiggere una sinistra che andava organizzandosi nel Fronte popolare. L'alleanza fra comunisti e socialisti minacciava di soffocare un popolo già costretto a una libertà vigilata dalle potenze straniere. 140
Fu un periodo vulcanico, faticoso, frenetico, pericoloso. I due direttori di «Candido» pensavano, scrivevano,
disegnavano, parlavano. Non c’era aspetto della politica sul quale non riuscissero a intervenire. Una volta tanto, i politici non facevano la fila per dare ordini o passare veline a un giornale, ma per riceverne consigli. Con l’avvicinarsi della data delle elezioni la tensione arrivò allo spasimo. Fu allora che Guareschi creò vignette e manifesti che lasciarono un segno profondo sulla pelle degli avversari. Due, in particolare, divennero celebri. La prima ritraeva un potenziale elettore comunista al momento di votare e diceva: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!». Sull’altra campeggiava lo scheletro di un soldato dell’Armir dietro a un reticolato sormontato dalla scritta: «100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia». E, sotto, si leggeva: «Mamma, votagli
contro anche per me!». I comunisti capirono subito il pericolo costituito da Guareschi e intensificarono gli attacchi. Oltre a quelli politici andarono crescendo anche quelli personali, che già da tempo arrivavano in redazione. Nel giugno del 1947, un anonimo spediva una lettera che, strafalcioni compresi, non lasciava dubbi: «Sig. Guareschi,
«non so perché in regime democratico vi sia ancora permesso di stampare il vostro stupido giornale reazzionario, al servizzio dei fasisti. Ma tanto presto il nostro capo Toliatti avrà lui il comando e alora farà piaza pulita di tutto».
Dalle parole ai fatti, in un clima simile, il passo era breve. Vennero prese di mira le edicole che esponevano il settimanale guareschiano. Furono messe a soqquadro alcune tipografie che stampavano i manifesti disegnati dal giornalista della Bassa. Le gesta nefande della Volante rossa erano di monito per chiunque osasse chiamare il comunismo col suo nome. Alcuni tra gli attivisti più evoluti del Fronte popolare tentarono un’operazione più furba. Ridisegnarono il manifesto del soldato dell’Armir scrivendoci uno slogan filocomunista. Ma lo scheletro 141
uscì con una faccia da stupido che non servì certo a raccattare voti. Un gruppo di lettori di «Candido» organizzò delle ronde a difesa di Guareschi e Mosca. Squadre che pattugliavano la zona del giornale e il percorso che i due giornalisti seguivano per arrivare fino a casa. Fino a quando, all’indomani delle elezioni, fu chiaro che Guareschi ave-
va contribuito alla schiacciante vittoria democristiana: 12.741.299 voti contro gli 8.137.947 del Fronte democratico popolare e la maggioranza assoluta dei seggi nelle due Camere. I direttori di «Candido», se possibile, divennero an-
cora più popolari. La stampa, naturalmente più quella straniera che quella italiana, si diede da fare per capire il fenomeno. A Milano piombarono i reporter di mezzo mondo, quelli di «Life» in testa, per raccontare come due semplici giornalisti avessero fermato la macchina da guerra del partito comunista. Comunque, la battaglia contro il pericolo rosso non faceva dimenticare a Guareschi il risvolto umano degli avversari. La distinzione tra comunismo e comunista gli era ben presente e cercava di praticarla senza cedimenti. Così, su «Candido» del 23 febbraio 1946 trovò modo di
fare gli auguri a Giancarlo Pajetta per la nascita della figlia Luisa. Il 2 novembre del 1948, Mario Melloni, allora
direttore del «Popolo», lo ringraziava di una risposta avuta per lettera e gli chiedeva di incontrarlo: «(...) Ma perché non ci vediamo? Ne approfitteremmo, in ogni caso, per conoscerci personalmente. Io sono un “trinariciuto” che ha fiducia nei rapporti umani e, quando posso, non manco mai di sollecitarli. «Sono dunque, se crede, a sua disposizione quando e
dove vuole. Intanto la saluto cordialmente». Un'altra lettera, del gennaio 1951, correva sullo stes-
so tono. Anche una polemica con Davide Lajolo finì con Guareschi intento a spingersi un passo in più incontro all’avversario. La contesa era sorta in seguito alla stroncatura a cui il giornalista emiliano aveva sottoposto il libro di Lajolo Bocche di donne e di fucili. L'autore del volume 142
non gradì e contrattaccò inviando anche un altro suo lavoro, Classe 1912, al tignoso recensore. Guareschi chiuse
la polemica con una lunga lettera che, stranamente, tornò al mittente. Ribadiva la pessima opinione sul primo libro, ma assicurava che nel secondo aveva invece sco-
perto «ottima roba». Poi, prima di concludere dicendo a Lajolo che gli avrebbe inviato una copia della Favola di Natale per sua figlia, scriveva:
«Io non sono un ingenuo: ad ogni modo - sincera o no — la sua dedica mi ha commosso. «E — in un certo senso mi dispiace — spesso mi ha commosso anche il suo libro. Questa lettera è diretta al signor Davide Lajolo, non al compagno Ulisse: se la tenga quindi per lei. Per me la polemica è finita. Veda un po’ lei». Tutto questo mostra come Guareschi sapesse muoversi su piani diversi. Come
sapesse, in ogni momento,
aprire una nuova strada verso gli altri. Al fondo di questo atteggiamento stava la capacità di non rinunciare a una parte di se stesso per gettarsi a corpo morto in una battaglia pur importante. In lui convivevano la dimensione spirituale, quella politica, quella familiare. Si miscelavano abbastanza per corroborarsi a vicenda. Ma mai fino a confondersi e a perdersi l’una nelle altre. Perciò, anche
gli avversari comunisti, visti con gli occhi di un padre di famiglia, acquisivano una luce diversa. Una dimensione impossibile da ignorare per chi aveva scelto di incontrare comunque il suo prossimo. E questa la radice della libertà con cui lo scrittore della Bassa riusciva a pesare chiunque, senza pregiudizi. Non è troppo ardito imparentare la libertà che improntava la sua vita pubblica con quella respirata nella sua vita privata. I racconti familiari mostrano un Giovannino armato di pazienza e voglia di capire come non è difficile incontrarlo fra le sue pagine politiche più accese. Un atteggiamento che ricorda da vicino quanto scrive Chesterton in un articolo del 1935 su San Tommaso Moro: «(...) Nella sua vita privata incarna quella verità che 145
non viene colta oggigiorno: la verità che il luogo della libertà è la casa. (...)
«Se gli individui possono sperare di tutelare la propria libertà devono difendere la loro vita familiare. Sarà sempre meglio per un individuo adattarsi al clima familiare che non al campo di concentramento; troveremo sempre più monotonia in una fabbrica che non in una famiglia. In ogni famiglia sana che si rispetti, le regole sono spesso influenzate da un aspetto che non intacca le leggi stabilite: per esempio quella realtà che si chiama senso dell'umorismo». Vennero alla luce e vissero attorno a questo concetto della libertà alcune tra le rubriche più seguite di «Candido»: dalle «Osservazioni di uno qualunque» al «Corrieri no delle famiglie». Pagine apparentemente lontane dalle grandi battaglie politiche intraprese dal giornale. Racconti a prima vista surreali e incapaci di tenere il passo di un settimanale sempre in trincea. Invece, la logica squinternata di Margherita, l’intransigenza della Pasionaria, le riflessioni di Albertino erano omogenee anche alle pagine più spericolate di «Candido». Il Giovannino che distruggeva la casa nel tentativo di spiegare ad Alberto e Carlotta la forza centrifuga era lo stesso che inchiodava alle sue responsabilità un ministro degli Interni o un presidente del Consiglio. Era quello che doveva stare attento a non incappare in qualche sventagliata di mitra progressivo. Guareschi lo sapeva bene, e lo capirono in fretta anche i suoi lettori. A testimonianza sta il successo di due opere familiari come Lo Zibaldino, uscito nel 1948, e
il Cornierino delle famiglie, pubblicato nel 1954. Il cuore di quelle storie era il cuore dell’esistenza di milioni di persone. «Perché vi parlo sempre di me?», scriveva Giovannino nella premessa al Cornerino: «Perché da anni ed anni io racconto, ogni settimana,
le mie vicende personali ai miei ventitré lettori? «Chi sono io? «Son forse un uomo tanto importante da eccitare la curiosità della gente e da renderla ansiosa di conoscere anche le più minute vicende della mia vita familiare?
144
«No davvero: sono un uomo comune e quindi mi pare, parlando di me e dei miei, di fare un po’ di storia dei milioni e milioni di uomini comuni che, con la loro as-
sennata mediocrità, tengono in piedi la baracca di questo mondo. Quella baracca che gli uomini “eccezionali”,
gli uomini “fuor del comune”, tentano di scardinare con
la loro genialità». Era fin troppo logico che un uomo del genere, parlando di politica, finisse per scontrarsi col potere. Per
cozzare con gli uomini «fuor del comune» che si erano messi alla guida del vapore. Nel 1950, sul numero
25 di «Candido», uscì una vi-
gnetta di Carletto Manzoni dedicata al presidente della repubblica Luigi Einaudi. Dal fondo, il presidente si apprestava a camminare fra due ali di corazzieri molto particolari: si trattava di bottiglie di vino recanti la scritta «Nebiolo — Poderi del Senatore Luigi Einaudi». A Guareschi non piaceva che un capo dello Stato utilizzasse il suo nome per fini commerciali. Ma a qualche politico quello sdegno andò di traverso. Due deputati, il democristiano Giuseppe Bettiol e il socialista Paolo Treves, presentarono un’interrogazione alla Camera in seguito alla quale si procedette contro Manzoni e Guareschi. Naturalmente,
«Candido» fiorì di vignette sul nebiolo del presidente. Mise a nudo la costituzionale incapacità della classe politica italiana a capire la critica, specialmente quella satirica. Si arrivò al processo. Assolti in primo grado, i due giornalisti furono condannati a otto mesi con la condizionale in appello. Mostrò certo maggior spirito Clara Luce, giunta in Italia nel 1953 come ambasciatore degli Stati Uniti. «Candido» la accolse con la vignetta di prima pagina. Dal palazzo dell'ambasciata americana spuntava un'enorme bandiera a stelle e strisce contornata da un gigantesco e leggiadro pizzo. Sotto il titolo «La nuova bandiera americana» stava scritto «E arrivata l’ambasciatora». La signora Luce incassò con classe e andò tappezzando il suo studio con
i disegni di Guareschi.
Ciò, nonostante
avesse
an-
nunciato un arrivo degno del settimo cavalleria spiegan145
do che veniva a prendere le difese dei pastori protestanti americani perseguitati in Italia. In ogni caso, era ben altro che inquietava il giornalista emiliano. Dopo aver sostenuto la Dc nel 1948 contro il Fronte popolare, aveva notato il progredire di un malcostume politico che non gradiva affatto. Larghe fette del potere democristiano avevano cominciato a occupare lo Stato. La politica cedeva il passo alla partitocrazia. Guareschi aveva preso a chiamare in quel modo un malcostume che avrebbe preso sempre più piede nel Paese. Una denuncia che ricorda da vicino quella di don Luigi Sturzo. Anche il fondatore del Partito popolare italiano e padre nobile della Democrazia cristiana aveva intuito dove stava cadendo la giovane repubblica italiana. Il potere, spartito fra le varie correnti, stava già logorando chi non l’aveva: i cittadini. Nel volume Don Sturzo oggi, Giuseppe Palladino, che fu stretto collaboratore del sacerdote siciliano, lo mostra chiaramente:
«(...) la coerenza gli faceva rimproverare a De Gaspe-
ri l’inadeguato suo impegno a preparare culturalmente e politicamente la Democrazia cristiana in funzione del suo grande impegno strategico e gli rimproverava la colpa di avere lasciato prevalere nella stessa Democrazia cristiana gli uomini e le correnti più sprovveduti di una buona cultura di governo e quindi più esposti alle facili tentazioni della demagogia (...). «Jo ero convinto che anche Alcide De Gasperi si fosse reso conto di questi pericoli, ma, a differenza di don Sturzo, egli era nel pieno della lotta nel partito, nel Parlamento e nel governo e non gli era facile contrastare contemporaneamente la prevalente demagogia sia tra le correnti del suo partito sia nei partiti di sinistra. Don Sturzo si rese conto di questa difficoltà incontrata da De Gasperi, ma lo incolpava di avere anche lui contribuito a determinare le premesse politiche al prevalere della demagogia dentro e fuori il partito della Democrazia cristiana. In particolare don Sturzo rimproverava a De Gasperi di non essere riuscito a impedire il fronte popolare nelle elezioni del 1948 ed anzi di averne profittato per 146
meglio monopolizzare a favore del voto democristiano tutti i residui valori religiosi, civili e nazionali per conseguire in quelle elezioni l’obiettivo della maggioranza assoluta per la Democrazia cristiana». Il direttore di «Candido» aveva maturato le stesse convinzioni. Era dunque naturale che il credito aperto a De Gasperi cominciasse a mostrare qualche crepa. Anche lui, come don Sturzo, vedeva il politico trentino pri-
gioniero delle tresche di partito. Non lo giudicava più capace di governare in nome degli italiani invece che per conto dei democristiani. Inoltre lo vedeva prigioniero di Mario Scelba, che non godeva certo della sua stima. Il 17 maggio 1953, sul numero 20 del giornale scriveva: «Se la Dc oggi si trova in una situazione meno felice di quella del 1948 ciò è dovuto principalmente a Scelba. E se oggi tanta brava gente non affianca più la Dc, ciò è dovuto al fatto che essa brava gente non sente più De Gasperi vicino come un tempo. La posizione di De Gasperi non è cambiata: è cambiata quella di Scelba che si è frapposto fra De Gasperi e la nazione. E ciò pesa molto. (...) il politico Scelba è una sciagura nazionale e solo nel suo cervello troppo modesto per una ambizione così smodata poteva nascere l’idea della legge elettorale. Nefasta legge perché ha finito con l’invelenire gli italiani divi dendoli ancora di più. Il programma di Scelba è “Stravincere le elezioni e poi liquidare Alcide De Gasperi”. Riuscirà il progetto di Scelba? Dio non lo voglia. Meglio Beniamino Gigli Presidente del Consiglio: almeno canta meglio di Scelba». La legge elettorale a cui si riferiva Guareschi era quella comunemente chiamata legge truffa. Voluta da Scelba, attribuiva un premio al partito che avesse avuto la maggioranza assoluta dei voti. Una manovra che il politico siciliano tentava di spacciare in chiave anticomunista, ma
tesa invece a eliminare le formazioni di destra. Il giornalista emiliano lo capì benissimo e alle elezioni si schierò con i monarchici,
come
invece aveva rinunciato a fare
cinque anni prima. Il concetto di fondo era: la Dc si contenti di vincere e non cerchi di stravincere. E così fu.
147
I democristiani non ebbero la maggioranza assoluta e, quindi,
neanche
il premio
previsto.
Nonostante
il
grande impiego di mezzi di buona parte della gerarchia ecclesiastica. A quel risultato non fu estraneo il lavoro di «Candido» che non si stancò mai di spiegare che l’unione dei cattolici non significava l’unicità del partito su cui confluire. Ma era invece un’alleanza più vasta e più sincera possibile fra le forze sane della nazione. E il 14 giugno, dopo le elezioni, il settimanale guareschiano usciva con un lungo articolo dal titolo inequivocabile «La mafia è sconfitta, la democrazia continua».
In questa battaglia, Guareschi non aveva più a fianco Mosca, come era avvenuto invece nel 1946 e nel 1948. Nell’ottobre del 1950, il condirettore aveva lasciato il
giornale in maniera brusca. La stampa ci vide lo zampino di un Giulio Andreotti già capace di tessere trame e dettare condizioni. Un Andreotti deciso a far pagare al giornalista un infortunio professionale che lo riguardava da vicino. Ma fu accreditata anche la voce che voleva un Guareschi difficile da sopportare per le sue prese di posizione e il suo carattere. E fu proprio questa versione che Mosca lasciò circolare senza mai smentirla. In realtà la decisione fu presa dall’editore, che la comunicò a Guareschi con una lettera il 15 settembre 1950: «Caro Guareschi,
«poiché noto che il Condirettore di “Candido” continua a seguire una linea politica che io non posso approvare, La avverto che, non appena egli sarà di ritorno dal periodo di ferie, io lo pregherò di lasciare la condirezione del settimanale. «Se Mosca vorrà continuare a collaborare al giornale, nella linea politica che io le ho illustrato verbalmente e che Ella in massima approva, ne sarò ben lieto, ma desidero che, in un momento tanto grave per il nostro Paese,
non possano sussistere equivoci o incertezze. Mi abbia cordialmente, Angelo Rizzoli». Anche da solo, il giornalista emiliano seppe far fronte agli attacchi provenienti dalle parti più diverse. Scontati quelli delle sinistre, molto meno, 148
almeno
in appa-
renza, quelli di molti cattolici. La Democrazia cristiana,
come aveva mostrato anche don Sturzo, aveva monopolizzato qualsiasi espressione sociale della fede cattolica.
Aveva innescato una redditizia, ma pericolosa, equazio-
ne: buon democristiano uguale buon cattolico. Questo forniva un argomento formidabile per attaccare su un terreno vastissimo chiunque si indirizzasse verso altri lidi politici. Tanto più se, come Guareschi, in passato aveva contribuito alla vittoria democristiana. In tal modo si moltiplicarono gli attacchi, che dai bollettini parrocchiali arrivarono fino ai settimanali diocesani e a riviste di settore. Mai avallati dall’alta gerarchia, ma certo tollerati da chi aveva deciso di puntare senza indugio sul cavallo democristiano. Si arrivò persino a mettere in dubbio la fede di Guareschi, come fece il
settimanale torinese «Il nostro tempo». «Guareschi cattolico?», titolava il 3 aprile 1955. E l'argomento di fondo, non strettamente
teologico, era l’attacco del giornalista
a De Gasperi. Eppure, in ogni suo scritto, il direttore di «Candido» mostrava di essere legato alla più salda tradizione cattoli- . ca. Nel 1951, sul numero 9 del giornale scriveva:
«Noi non stiamo alla finestra a guardare gli altri, ma dal ’45 a oggi combattiamo a viso aperto a favore dei nostri princìpi base che sono tre e tre sono rimasti precisi e intatti: difesa dell’idea cristiana, lotta contro ogni dittatura, difesa dei valori spirituali della patria». Tutto questo veniva definito bene comune, come nel
migliore insegnamento della scuola tomista. E ricordava da vicino i tre cardini del bene comune definiti dallo stesso San Tommaso: il «bene vivere» in senso etico e religioso; il bene della «pace», cioè dell’unità, il bene politico in senso stretto; il bene della «sufficentia vitae», una certa
autonomia economica e sociale dentro la propria terra. Evidentemente non bastava. E, d’altro canto, il vasto
territorio cattolico offriva a Guareschi sin troppi spunti polemici per mostrare quale fosse la sua concezione della fede tradotta in opere. Nel 1949 suscitò le ire dell’Azione cattolica per la stroncatura di Famiglia piccola chiesa, 149
un volumetto scritto da Carlo Carretto, allora presidente della Gioventù italiana di Azione cattolica. Il libro, a cui
aveva collaborato anche Adriana Zarri, era decisamente
brutto e il giornalista lo sezionò fino a mostrarne anche gli angoli più oscuri in un articolo intitolato «La radio di Dio ha quattro valvole». Ne seguì una polemica in cui giovani e vecchi dell'Azione cattolica persero più volte le staffe e lo stile. Non tutti, però, la pensavano allo stesso modo. L'Unione uomini cattolici di Padova scriveva a «Candido» spiegando che il libro di Carretto era stato ritirato dalle librerie cattoliche della loro diocesi e concludeva:
«Il vostro ottimo signor Guareschi non ha quindi consenzienti soltanto il 20% delle molte lettere che ha ri-
cevuto, non soltanto l’intelligente sacerdote don Primo Mazzolari, ma Vescovi, ma Sacerdoti in cura d’anime, ma
Assistenti di A.C., ma Padri e Madri preoccupati dell’educazione morale dei loro figli. È in buona compagnia». Come diceva la lettera, anche don Mazzolari aveva stroncato il libro di Carretto su «Adesso!», il giornale che
dirigeva. E, scrivendo a Guareschi il 14 agosto di quell’anno, diceva:
«(...) anche stavolta ci siamo d’istinto accordati nel giudizio di un libro che non onora la religione, né A.C., né il buon senso, né il buon costume, né il bello scrivere». Don Mazzolari e Guareschi erano fatti per intendersi.
E anche quando, nel 1951, entrarono in polemica lo fecero con grande stile e con una profonda stima di fondo. Cresciuti sulle due rive del Po, come
scrisse Guareschi,
avrebbero finito per incontrarsi a metà di qualche ponte e stringersi la mano. Anche se le sbandate a sinistra del parroco di Bozzolo mettevano in apprensione il suo interlocutore. Ma, nonostante questo, lo scrittore emiliano citò affettuosamente don Primo in due racconti pubbli-
cati su «Candido»: «Disoccupazione» e «Faccetta nera». Tra coloro che invece risultavano decisamente indi-
gesti al direttore di «Candido» c’era Giorgio La Pira. Professore, deputato democristiano, sindaco di Firenze, La
Pira fu tra i profeti della via cattolica al comunismo. Il 150
peggio che si potesse trovare in circolazione secondo Guareschi. Per rendersi conto di quanto i due uomini fossero
diversi, basta vedere
come
si comportarono
a
fronte della morte di Stalin. Una tra le vignette più miti pubblicate dal giornalista emiliano mostrava la tomba del dittatore sovietico con la scritta: «Qui giace Stalin, nato troppo presto, morto troppo tardi». La Pira, invece, inviò all’ambasciatore sovietico a Roma un telegramma che diceva: «Nome città Firenze et mio personale mi inchino reverente et pensoso davanti alla salma dello statista scomparso et elevo per lui preghiera al Padre Celeste et alla Madre di Cristo tanto amata et venerata da popolo russo. La Pira sindaco di Firenze». Nulla di strano che un politico di tal fatta finisse nel mirino di «Candido» e del suo direttore, che spesso lo invitò a tornare all’insegnamento, dove avrebbe fatto meno danni. Se La Pira non si preoccupò molto della questione, lo fece per suo conto l’amico Amintore Fanfani. Il 31 dicembre 1953, l’allora ministro degli Interni scriveva una lettera a Guareschi per precisare il contenuto di una notizia uscita sul suo giornale. E, nella conclusione, chie-
deva comprensione per il sindaco di Firenze: «Le auguro buon 1954 con l’invito amichevole a interrompere la rubrica sul “Santo pazzo” che ci fa tutti tanto disperare». Per trovare uomini
che lo intendessero veramente,
un giornalista come Guareschi non aveva bisogno di fare anticamera nelle stanze del potere. Gli bastava scendere in tipografia. Era uno dei pochi direttori che conoscessero veramente la macchina del giornale. Ed era uno degli ancor meno numerosi direttori che stavano volentieri con chiunque lavorasse al suo giornale, a qualsiasi livello. E vero che gli appartenenti alla cellula comunista avevano molto da dire su ciò che trovavano da stampare. Ed è anche vero che fino all’ultimo il direttore di «Candido» doveva stare con gli occhi aperti e assicurarsi che nessuno manomettesse il suo lavoro. Ma era un aspetto marginale. 151
Lo ricorda Tancredi Caiani, un proto che ha attra-
versato tutte le trasformazioni della stampa, dalla composizione a caldo fino allo strapotere dei computer. Allora Caiani era un giovane di bottega e il direttore che ora ricorda con più affetto è proprio Guareschi. Il motivo è molto semplice. Quando era in ritardo con la consegna del materiale, e capitava spesso, il direttore di «Candido» scendeva personalmente in tipografia. Non mandava un galoppino qualsiasi per timore di qualche sfuriata. E poi sapeva spiegare e si ingegnava a trovare le soluzioni. Caiani ricorda che una volta Guareschi gli disse di non poter andare avanti col lavoro perché non gli veniva la prima parola di un racconto: gliela dicesse lui. Il tipografo sparò la prima arrivatagli sulla punta della lingua. Il giornalista cominciò a scrivere senza fermarsi un momento. Tutto a mano, senza una correzione. Ne uscì un pezzo della misura esatta per chiudere il buco della pagina. La gente come Caiani spiega in poche parole questo affetto speciale: era uno dei nostri. E in effetti non bisogna aggiungere molto a un’analisi come questa. Guareschi applicava a ogni aspetto della sua vita la volontà di incontrare le persone. E, nel lavoro, aveva capito che il
giornalista non poteva vivere da solo. Non sarebbe mai sopravvissuto se fosse fuggito dagli altri. Si sarebbe salvato solo attraverso un patto con i lettori e con la gente che lavorava alle sue dipendenze. In un giornale, specialmente a quei tempi, redazione e tipografia vivevano solo respirando insieme. A quelli come Guareschi, dice anco-
ra Caiani, si cercava di farci stare tutto in pagina per non fargli tagliare neanche una riga. E senz'altro un po’ di Guareschi è stato salvato dall’affetto dei tipografi. Chi invece gradiva molto meno i ritardi nella chiusura del giornale era l'editore. Tutto ricadeva sulla stampa degli altri giornali e costava in ore straordinarie. Angelo Rizzoli mise più volte nero su bianco le sue lamentele. E, in una lettera del 29 gennaio 1953, calava in campo anche la mozione degli affetti, chiedendo comprensione
per gli operai della tipografia: 152
«Caro Guareschi,
«da qualche settimana la chiusura di “Candido” avviene con molte ore di ritardo, e ciò sconvolge il nostro ritmo di lavoro. «In particolare gli operai addetti alle varie lavorazioni (montaggio, veline, stampa, incisione, ecc. ecc.) deb-
bono considerarsi al martedì in continuo “stato di emergenza”, perché non sanno a quale ora potranno finire il lavoro e ritornare alle loro case. Inoltre, terminato il servizio tranviario, essi incontrano notevoli difficoltà,
specie in questa stagione, per raggiungere le loro abitazioni. «Veda, caro Guareschi, se Le è possibile ultimare il giornale entro le normali ore lavorative (ore 17) così come era felicemente (e direi quasi inaspettatamente) ac-
caduto qualche settimana fa. Grazie e cordialissimi saluti. Angelo Rizzoli». Ma l’editore poteva anche chiudere un occhio su quei ritardi che, neanche troppo indirettamente, avevano giovato anche a lui. Guareschi, nell’introduzione a Don Ca-
millo e il suo gregge, raccontò che l’antivigilia di Natale del 1946 si trovava nei guai fino al collo a causa del tempo che correva come un disgraziato. Bisognava chiudere «Candido» in anticipo. Allora fece togliere da «Oggi» il racconto che aveva scritto appositamente per quel settimanale e lo fece comporre, in corpo più grande, per il suo: «Don Camillo, l’arciprete di Ponteratto, era un gran
brav'uomo. Però era uno di quei tipi che non hanno peli sulla lingua, e la volta che in paese era successo un sudicio pasticcio nel quale erano immischiati vecchi possi denti e ragazze...». Si intitolava «Don Camillo», ma, con l’attacco legger-
mente modificato, avrebbe fatto il giro del mondo come «Peccato confessato». Il primo racconto della saga di Mondo piccolo aveva rischiato di nascere e morire nel Natale del 1946 su «Oggi». Il pubblico di «Candido» gli fece compiere il primo passo di una lunga vita. I miracoli, nel mondo delle lettere, avvengono anche così.
MAI TARDI
Milano, antivigilia di Natale del 1946, tipografia Rizzoli. Una selva di occhiate teneva sotto controllo Guareschi,
intento a chiudere le ultime pagine del suo giornale. Si doveva fare in fretta, più di quanto accadesse di solito. E i tipografi, che veramente sanno quanto sia difficile tenere
dietro a simili alchimie, stavano un passo in là. I
giornalisti, quando sono persone per bene, vanno rispettati. E poi quel giorno, probabilmente, il direttore di «Candido» metteva un po’ di soggezione. Aveva negli occhi qualcosa di difficile da decifrare. Uno sguardo bambino che sapeva di Bassa: impastato di fiume e di terra, di nebbia e di sole, si perdeva a Fontanelle in una foto del 1911. Gli spilli neri che tanti anni prima il fotografo non era riuscito a imprigionare stavano osservando un piccolo miracolo. L’universo che cercavano da tempo prendeva forma. Il Giovannino del 1946 si era lasciato condurre per mano dal Giovannino del 1911. Quattro occhi vedono meglio di due e ci volle poco per trovare il posto giusto a «Don Camillo». Via da «Oggi», il racconto finì dentro «Candido». L’umiltà dell’adulto che si lascia guidare da un bambino è il genio. Milano, antivigilia di Natale del 1946, tipografia Riz-
zoli. Guareschi stava compiendo uno dei gesti più grandi della sua vita letteraria. Stava richiamando al loro posto i personaggi che avevano popolato la sua infanzia. Nonna Filomena e le storie di Fontanelle. I nonni Antonio e Dorotea con la banda del Boscone. Ricordi, storie, sogni, fantasie si apprestavano a vivere sulla pagina. Uomini, donne, bestie, piante, case, stra155
de, piazze, campi, assieme al grande fiume. Vi entravano
con la prepotenza aurorale di chi si affaccia alla vita. Figure ingigantite, come tutti i ricordi accovacciati nell’infanzia, eppure in grado di comportarsi da adulti. Personaggi capaci di caricare la severità di ogni gesto con la forza di un cuore fanciullo. Capaci di dire il mondo in una parola. Non a caso, un primo momento, Guareschi pensò di richiamare quel mondo in una dedica da mettere in capo a «Don Camillo»: «Alla memoria di mio zio materno, Oliviero Maghenzani, che doveva essere prete missionario, ma la morte lo
prese a quindici anni. Alla memoria di mio zio paterno, Umberto
Guareschi,
meccanico,
morto
a trent'anni
a
Rosario di Santa Fé, la cui formidabile figura di gigante apparve un giorno nel cielo della mia lontanissima fanciullezza e rapidamente
disparve, ma rimase il bagliore
di due occhi onesti». Alla fine, la dedica non uscì. Era della stessa pasta dei racconti che seguivano. Stessa anima, stesso cuore, stesso
cervello. Sarebbe stato come scrivere un altro racconto. E allora non ne valeva la pena. Quanto di bambino era rimasto nel suo essere adulto lo aveva già scritto nelle sue storie. Sta in questa saggia miscela di piccolo e grande il genio guareschiano.
Come
ogni momento
della sua vita,
anche l’opera di questo scrittore è radicata nella capacità di essere insieme adulto e fanciullo. Una prova dove è facile bruciarsi e dare corpo a un uomo senza anima o a un fantoccio senza senno. Invece, lo scrittore aveva cavato dalla sua Bassa un fi-
lo che ricuciva tutte le sue stagioni senza tradirne una. Riprendeva i luoghi e le figure che aveva cominciato a tratteggiare anni prima. I ricordi del Festival recuperati in una suggestiva «Esplorazione a Strapaese», su «La Fiamma» nel 1932. Il «Giretto in bicicletta» raccontato sul «Corriere» nel 1941. Il progetto dei Racconti del Boscaccio, un romanzo che avrebbe dovuto portare come sottotitolo Libro all'antica e non vide la luce. Ma nel 1942,
sempre sul «Corriere», comparvero alcune delle storie 156
che vi erano abbozzate. Tre di quelle, «Al Boscaccio», «La ragazza aspetta» e «Il tranvai al Boscaccio», nel 1948,
avrebbero fatto da prologo alla prima raccolta di Mondo piccolo. La loro anima sapeva già leggere l’universo guareschiano. Tra coloro che se ne erano accorti, Giuseppe Marotta fu quello che lo disse con maggiore lucidità. Nel 1946, Guareschi gli scrisse per chiedergli la prefazione a un libro in cui avrebbe raccontato la sua terra e il suo mondo. Ma, soprattutto, gli chiese un parere. L’amico scrittore a
più riprese lo incoraggiò, pur dicendosi inadeguato a una prefazione. Diceva in una lettera dell’agosto di quell’anno: «Tu hai cuore, Giovannino, e l’umorismo ti servirà da freno; non è stato inutile, se ci pensiamo bene, l’umo-
rismo alla tua arte. Il libro di cui mi parli devi scriverlo, ne verrà fuori un Guareschi sconcertante, da antologia ti dico. (...) «Dacci sotto, Giovannino. Una mia prefazione? Non scherziamo, so quel che valgo. Un parere fraterno sì, la
correzione delle bozze magari». E poi, a novembre:
«Metto la mano sul fuoco per quanto riguarda le belle possibilità del Giovannino. Vedrai se mi sbaglio, tu non allinei parole, ma cose, questo è importantissimo». Milano, antivigilia di Natale del 1946, tipografia Rizzoli. Giovannino cominciò ad allineare le cose della sua terra. Il buco che aveva creato nella pagina di «Oggi» fu tappato con un racconto scritto al momento, «Consiglio legale». Tra le pagine di «Candido» prese invece a vivere Mondo piccolo: «Don Camillo, l’arciprete di Ponteratto,
era un gran brav’uomo...». Già da qualche tempo lo scrittore emiliano cercava la vera forma del suo mondo.
Nell’aprile del 1946, sul suo
giornale aveva provato a raccontare le cronache del «Gazzettino di Roccapezza». Ci aveva messo il parroco arcigno e il fabbro comunista. Ma don Patirai e Lenin non
erano fatti per abitare
a Mondo piccolo. Erano dei tipi,
forse. Ma certo non erano uomini veri e vivi. Erano rin157
chiusi negli stereotipi del clericale e del comunista, incapaci di parlarsi. E, invece, il dialogo, l’amore per la parola che dice e si fa dire sono l’anima dell’universo letterario guareschiano. Senza contare che Roccapezza sorgeva in cima a un monte e il grande fiume non poteva urlare le sue storie per farle sentire sino alla gente di lassù. D'altra parte, anche i luoghi e la gente di Mondo piccolo subirono qualche ritocco. Il paese di don Camillo, per esempio, non si chiamò più Ponteratto, come nel primo racconto. Il nome venne mutato in Trepicchi e poi lasciato cadere: non era il caso di fermare sulla carta un universo che invece amava muoversi lungo il grande fiume. E anche Peppone, prima di divenire definitivamente Giuseppe Bottazzi, fu Giuseppe Bottacci e Giuseppe Bergoni. Queste messe a punto indicavano la ricerca di un equilibrio umano e artistico. Guareschi stava dando gli ultimi tocchi a una miscela difficile da trovare in letteratura. Aveva intuito lungo quali vie poteva mettere insieme il bambino di Fontanelle e l’uomo di cultura. Aveva trovato la radice del suo umorismo, tanto diverso da quello corrente: sopravvissuto e, anzi, rafforzato dai gior-
ni del lager. Non a caso, tornato dal campo di concentramento, nell’/talia provvisoria aveva dedicato molte riflessioni all’umorismo. In una di esse diceva: «L'’umorismo è semplificazione, e, costretto a ridurre
ogni cosa all’osso, riesce (più o meno bene) a fare lunghi discorsi con pochissime parole». Don Alessandro Pronzato, per il suo Breviario di don Camillo, ha scovato nella raccolta di «Candido» un pensiero che si innesta senza sbavature sul precedente: «E terribilmente difficile regalare all'umanità un sorriso sereno: uno di quei sorrisi che distendono i nervi e che arrivano diritti al cuore senza dover passare per la trafila del cervello». Questo singolare scrittore aveva trovato dentro la propria arte ciò che Soeren Kierkegaard aveva scritto in una delle sue opere più suggestive, la Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia»: 158
«L’umorista possiede il lato infantile, ma non si lascia possedere da esso; gli impedisce sempre di esprimersi in modo diretto, non lo lascia trasparire che attraverso una
cultura assoluta. Quando perciò si mettono insieme un uomo di grande cultura e un bambino, essi trovano nell’incontro il lato umoristico: il bambino lo esprime e non ne sa nulla, l’umorista sa che esso è stato espresso. Un uomo di cultura relativa invece messo insieme con un bambino non scopre nulla, perché egli trascura il bambino e le sue infantili sciocchezze. (...) «Se un uomo come Kant, che si trova sul vertice della scienza, a proposito delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio dicesse: “Sì, su di ciò io altro non so se non che mio
padre mi ha detto che le cose stanno così” — questo è umorismo,
e dice realmente
di più di un intero libro
(...)». La conclusione perentoria di questo ragionamento ricorda da vicino il cuore delle prime righe del racconto «Al Boscaccio»: «Jo abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre,
mia madre e i miei undici fratelli: 10, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di
castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto». Difficile dire quanto bambino e quanto uomo di cultura si celino in questo incedere. Probabilmente vi si trova la mistura sapiente che, secondo Kierkegaard, cammi
na molto più avanti delle speculazioni di Immanuel Kant. Vi si legge quel tenersi per mano che corre lungo le generazioni. Che afferra la vita, la sfronda del superfluo e ne fa la Tradizione. Con le storie di Mondo piccolo, Guareschi riportò in luce una forza originaria che i lettori sentirono presto. Il successo fu immediato. Dopo l’entusiasmo della gente di «Candido», nel 1948 lo scrittore raccolse nel volume Don Camillo la prima serie dei racconti di Mondo piccolo. Nel 1953, fu la 159
volta di Don Camillo e il suo gregge. Entrambe cucite secondo un filo conduttore visibile a occhio nudo. Con le storie messe in bell’ordine, fatte apposta per darsi la mano l’una con l’altra. Marotta aveva colto nel segno pronosticando un Guareschi da antologia. Se ne accorse la gente,
non lo capirono i critici. O, se lo fecero, si guardarono bene dal dirlo. Un personaggio come lo scrittore emiliano, con la sua voglia di pensare in proprio e non per conto terzi, metteva in imbarazzo troppa gente per bene. I salotti, anche allora, amavano il conformismo.
Pubblico e critica andarono più d’accordo all’estero. D'altra parte, bastava togliersi il paraocchi per avere anche il solo sentore del valore letterario di Guareschi. Le cifre, quando raggiungono certi livelli, indicano qualcosa che va oltre le mode, i gusti poco raffinati, le epidemie culturali. E le cifre del Don Camillo non lasciavano dubbi: 800.000 copie in Francia. Altrettante di opere guareschiane in Austria, di cui mezzo milione solo per le storie di Mondo piccolo. La traduzione americana ebbe uguale successo e trovò i critici pronti a discuterne e a vagliarne il valore. Anche questo non piacque ai funzionari italiani della cultura imperante. Conosciuti i dati di vendita francesi, per esempio, Franco Fortini perse le staffe e scrisse nel 1953 su «Il contemporaneo»: «Guareschi, e tutti sappiamo che cosa significa, favorito anche da una curiosa interpretazione francese del suo primo film (che ne faceva quasi un’opera di propaganda della pace), raggiunge con tre opere un milione e 181.000 esemplari». Nel seguito dell’articolo, Fortini si dava, senza voler-
lo, una risposta. Citando i dati di vendita evidenziava il successo delle opere di ispirazione religiosa. Quello e non altro erano le storie di Guareschi. Ma proprio quel. lo, e non altro, il critico non riusciva ad ammettere. A suo
parere, la superstizione religiosa non poteva funzionare nella seconda metà del secolo XX. Tanto che il sommario dell’articolo non lasciava dubbi: «Nella patria di Voltaire, la storia di don Camillo e 160
Peppone, quella della Chiesa e delle scalate sull’Everest sono penetrate in milioni di famiglie: bonjour, tristesse». Povera critica. In ogni caso, furono i librai a rendere
omaggio allo scrittore emiliano assegnandogli nel 1953 il Premio Bancarella per Don Camillo e il suo gregge. Come capitava spesso, anche in campo letterario Guareschi doveva guardarsi dalle ritorsioni dei nemici di ogni risma più che dal giudizio dei lettori. Avvenne anche nel gennaio del 1956, quando sui giornali ebbe eco l’accusa di plagio lanciata contro il Don Camillo. Prima il «Kleine Zeitung» di Graz e poi la «Neues Oesterreich» di Vienna sostennero che Guareschi aveva preso le linee essenziali della sua opera da Il parroco di Lamotte di Hélène Haluschka. L’ipotesi di plagio venne adombrata quando la scrittrice austrofrancese vide Don Camillo al cinema. Secondo alcuni le analogie con l’opera della Haluschka erano evidenti e aggravate dal fatto che Il parroco di Lamotte, uscito in Austria nel 1930, era stato tradotto in Italia nel
1942. A molti giornali italiani non parve vero. Si gettarono sulla vicenda senza considerare alcuni dettagli importanti riportati da «Il Tempo» e dal «Giornale d’Italia». Il Don Camillo era uscito a puntate in Austria nel 1949 sul «Salzburger Nachrichten», nel 1950 era stato pubblicato in volume e aveva raggiunto 65 edizioni. Inoltre, nel 1951
Guareschi era stato premiato dalla Società degli Scrittori Austriaci e, nel 1955, dalla sua opera era stato tratto un
lavoro teatrale che aveva girato con successo l’intero Paese. Alla luce di tutto questo sembrava strano che si attendesse il 1956 per accorgersi di un eventuale plagio. Dal canto suo, Guareschi non si scompose. Sapeva bene come era nato il suo mondo, che forse poteva avere qualche analogia con quello di Lamotte, ma aveva ben al-
tra anima. Ci pensò la stessa Haluschka, che forse aveva fiutato
una
macchinazione
tutt'altro
che
letteraria,
a
troncare le polemiche dalle pagine del «Kleine Zeitung»: «Fra il romanzo di Guareschi e il mio /l parroco di Lamotte non esiste alcuna correlazione. Il mio parroco è na-
to dal cuore di una donna, mentre Don Camillo è la crea-
zione di un grand’uomo. (...) 161
«Parlo con spirito di gentildonna. Don Camillo è un masso di vigore, gloria e forza e non può essere minimamente scosso dall’ombra del mio parroco». Mondo piccolo era troppo legato all’anima di Guareschi e a quella della sua Bassa per patire qualsiasi confronto. Tanto più che lo scrittore emiliano continuava ad alimentarlo coi lampi che attraversavano la sua vita, con le svolte della sua biografia. Solo lì dentro, per esempio, trovò forma definitiva il rapporto con i genitori, e in particolare quello col padre. L'infanzia e la giovinezza non certo facili avevano lasciato su Giovannino tracce impossibili da spianare. Il rifiuto di un padre che aveva portato alla rovina la famiglia lo aveva condotto a un affetto smisurato per la madre. Sprofondando nella sua miseria visionaria, Primo Augu-
sto aveva sepolto anche il bisogno di amare del figlio. Eppure, fra tutti gli impegni e i guai di cui si era caricato, lo scrittore non cessò di star dietro a tutti e due. Li portò ad abitare a Milano, nella nuova casa di via Righi, perché non riusciva a starne lontano. E loro morirono uno dopo l’altro, a distanza di quaranta giorni, nell’estate del 1950. Prima la maestra Maghenzani e poi suo marito si incamminarono per il loro viaggio senza dare fastidio. Per la mamma, morta il 13 luglio, Giovannino scrisse un necrologio che voleva essere anche un breve ritratto, l’ultimo: «Visse circa 72 anni, e 50 li passò insegnando l’abicì a bambini delle campagne parmensi. «Morì d’improvviso e in silenzio per non dar fastidio a nessuno. «Se qualche suo antico scolaro leggerà questo annuncio, pensi per un istante alla sua vecchia maestra».
Malo scrittore era più inquieto di quanto la madre lo fosse stata in vita. Due giorni dopo il funerale fece portare la salma a Marore.
Lasciata la freddezza di Milano,
avrebbe potuto riposare fra l’affetto della gente a cui aveva insegnato un po’ anche a vivere. Così, la maestra Maghenzani se ne era andata al cimitero più o meno come «La maestra vecchia» del rac162
conto di Mondo piccolo, che in fondo era il suo ritratto. I suoi scolari dietro la bara e, a portarla, non avrebbero
stonato Peppone e i suoi col fazzoletto rosso al collo. Se rispetto e amore per il prossimo erano il sale del suo universo letterario, Guareschi non capiva perché non si potesse metterne almeno un po’ nelle svolte più dolorose della vita: «Cose che succedono là, in quel paese strampalato dove il sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la stanga che col cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti». Per Guareschi fu molto più doloroso e complesso affrontare la morte del padre. Nel caso della mamma gli era bastato inseguirne le ragioni lungo le strade assolate dei suoi racconti. In due giorni, dal 15 al 17 luglio, aveva trasformato la storia della maestra vecchia in un momento della sua stessa vita. Con Primo Augusto il percorso fu esattamente il contrario. Lo scrittore si sentì costretto a portare tutto il peso nel suo cuore e poi a vincerlo. Non aveva ancora raccontato nelle sue storie una prova come quella. Negli anni aveva lavorato per trovarle un posto. Il desiderio feroce di essere figlio, di avere nonostante tutto quel padre, lo aveva costretto a inventare senza fermarsi. Gli aveva fatto scavare un nido in cui prima o poi avrebbe deposto l’anima pazza di Primo Augusto. Lo poté fare solo dopo la sua morte. Allora capì quanto il padre lo avesse amato. Quanto avesse camminato vicino alla sua vita. Quanto si fosse detestato per non avergli fatto capire quanto bene gli volesse. Fra gli incartamenti del padre scovò le tracce di un amore nascosto. Una cartella riguardante il fallimento della ditta Guareschi conteneva almeno trecento documenti sulle spese sostenute per gli studi di Giovannino. A parte, c'erano poi i quaderni di scuola, ognuno con scrit-
to sopra a cosa corrispondesse: «Quaderno di Nino dell’anno 1916. Parma, 21-4-916. P. A. Guareschi». La firma
portava l'immancabile svolazzo. Le agende mostravano la tenacia con cui, ogni giorno, Primo Augusto seguiva in 163
silenzio la vita del figlio. Il 7 gennaio 1929, per esempio, annotava: «N.B. Appreso con vivo piacere che Nino venne iscritto alla Regia Università di Parma e oggi stesso iniziò le lezioni nella Facoltà di Giurisprudenza». Il 7 maggio dello stesso anno: «Sul giornale “La Voce di Parma” d’oggi rilevai un articolo di Nino circa il viaggio degli Universitari a Roma e con grande mio piacere notai uno stile promettente». Stesso tenore in una nota del 9 giugno: «Oggi uscito supplemento de “La Voce di Parma” con macchiette e scritti umoristici di Nino che a parere mio lasciano in certo qual modo sperare non male». Cinque giorni prima, invece: «Nino giunto a casa stanotte ore tre circa. Provato,
come al solito, il più grande dispiacere». Fu una
scoperta difficile da macinare.
Ma, ormai,
una nuova strada del cuore si era aperta. Su quella via si incamminò il senso di un incontro avvenuto nell’estate del 1951. Guareschi si trovava nella Bassa per seguire la lavorazione del primo film su don Camillo. Passando da Ragazzola ebbe modo di conoscere Socrate Pizzi, un grande amico di suo padre. Pizzi, poeta contadino che firmava romanticamente Etarcos Izzip invertendo le lettere del nome
e del cognome,
aveva parecchio da rac-
contare. E lo aveva anche detto in una lettera inviata il 30 luglio di quell’anno allo scrittore: «VI tratto famigliarmente perché sento ancora fraternamente il vincolo d’intima amicizia che mi legava al vostro caro padre Augusto col quale abbiamo trascorsi i primi 20 anni nel nostro piccolo villaggio di Ragazzola di Roccabianca; con le nostre monellerie della prima età, e coi propositi dinamici dell'adolescenza perché eravamo davvero superiori ai nostri coetanei nelle iniziative... e anche nelle azioni... Egli era dinamico, audace... Intelligente... ma era vittima dell'ambiente per cui non era inteso (...)». A casa di Pizzi, Guareschi vide un’altra luce sul volto
del padre. Forse la più insospettata, perché era fatta di 164
stima e di amicizia. Anche Primo Augusto aveva trovato un suo posto a Mondo piccolo. La sua anima aveva fatto il nido nel cuore di Giovannino, che lo raccontò in «Mai
tardi», uscito su «Candido» nel 1952. Sulla pagina camminano due uomini che sembrano fatti per non intendersi mai: Giacomo Dacò e suo figlio Carlino. Fino a quando questi si trova solo la notte a vegliare il padre morto. E, in un armadio, trova gli incartamenti attraver-
so cui il vecchio ha seguito la sua vita passo a passo: «Poi c'erano delle grandi buste gonfie di carte e legate con una funicella. Su ogni busta la specifica del contenuto: «“Libri e quaderni delle scuole elementari del figlio Carlo, dall’anno... all’anno...”; “Documenti delle scuole
tecniche del figlio Carlo, dall’anno... all’anno...”. «Carlino sciolse la funicella e rovesciò il contenuto della busta sullo scrittoio: ogni cosa era ordinata e portava una annotazione con la data e il numero progressivo». Proprio come aveva fatto Primo Augusto. Con lo stesso ordine maniaco che faceva pensare a un cuore fatto di molle e ingranaggi. E, invece, era solo indifeso. A quel punto, Carlino sente delle fitte molto simili a quelle che attraversavano l’anima di chi lo aveva messo sulla pagina: «Andò a sedersi su un sasso in riva all’acqua. «E, ripensando al vecchio steso sul letto nella grande stanza muta e deserta, per la prima volta nella sua vita sentì pietà per il padre, e questo gli mise nel cuore un’angoscia sottile e penetrante. «E gli vennero alle labbra sommesse parole di preghiera: “Gesù, aiutatemi: fate che questa angoscia mai mi abbandoni e mi segua per tutta la vita. Fatemi soffrire come egli deve aver sofferto e nessuno mai lo seppe”. «Caddero le parole sull’acqua che le portò lontano: ma Dio ne aveva già preso nota. E Campolungo fu salvo, con tutto quello che c’era dentro: la mantella azzurra, le
buste coi documenti del figlio Carlo e la vita perduta di un uomo che amò uno dei suoi figli fino a dimenticare gli altri suoi figli, e fino al punto di odiare se stesso». In queste pagine, Guareschi lasciò cadere un segno 165
contraddittorio: una delle tracce più vere e più fonde della sua vita si regge su un passaggio, un rigo appena, deposto lontano dall’asse della sua scrittura. Forse parve strano anche a lui scrivere che nel cuore di Carlino entrò «un’angoscia sottile e penetrante». Il suo repertorio fatto di duecento parole non tollerava due aggettivi incollati a uno stesso vocabolo. E che aggettivi: si fatica a immaginarli mentre corrono dietro a un sentimento forte e deciso come quelli vissuti a Mondo piccolo. Eppure lo scrittore ci mise proprio quelli. Un simbolo che rendesse accessibile a tutti il suo dolore redento. Una pietra d’inciampo che costringesse il lettore a scrutare anche la propria vita. Una finestra sempre aperta su un mondo letterario che intese, sin dall'inizio, , alimentare e alimentarsi della vita di tutti. Giovannino volle dire con tutta la forza che può assorbire una pagina scritta un sentimento fulminante. Un uomo non può lasciare che i suoi genitori se ne vadano se non ha acquisito la capacità di generare amore. Se non ha imparato che l’uomo vive solo in relazione. Altrimenti, la morte della madre e del padre chiama il timore di morire soli. Chiama una paura e un pianto radicalmente diversi da quelli finalmente liberati di Carlino. Evoca un terrore che nessun uomo può avere il coraggio di chiedere a Dio di avere sempre per compagno. Ancora una volta, Guareschi si mostrava portatore di
valori antitetici a quelli della cultura moderna. La sua ricerca disperata del padre, l’amore inespresso col quale gli preparò un posto nel suo universo letterario lo ponevano lontano dalla sovversione dei valori degli ultimi secoli. Una posizione simile viene illustrata con efficacia da Giuseppe Angelini nell’articolo «Il figlio. Censure della cultura moderna e compiti della predicazione cristiana» pubblicato sulla rivista «Servitium». Nel paragrafo «Il complesso antipaterno» Angelini dice: «L'immagine del padre, in particolare, non è semplicemente dimenticata nel pensiero antropologico moderno; essa appare assai più rimossa come insopportabile. Sembra infatti ch’essa riporti inesorabilmente nella dire166
zione di quel pensiero morale e religioso che la cultura laica e democratica vuole ostinatamente confinare entro la sfera di competenza propria della coscienza privata. L'ideale moderno e illuministico della emancipazione attraverso le risorse della ragione, di contro a quelle della tradizione, dell'esempio e dell'autorità, alimenta insieme un cc
10 antipaterno. Tale tratto, che certo di-
venta poi proprio della stessa cultura antropologica, trova la sua iniziale e chiara enunciazione appunto ad opera dei filosofi della ragione». La letteratura offre esempi a non finire di questo sentimento andato sempre più diffondendosi, specialmente tra la fine dell'Ottocento e lungo tutto il Novecento. Nel romanzo I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, Ivan esce con una frase che li raccoglie tutti: «Chi dunque non desidera la morte di suo padre?». Non 2 caso lo scrittore russo intende denunciare, proprio attraverso la figura di Ivan, il pensiero razionalistico, scettico e liberta rio che va impadronendosi del mondo occidentale. 1} Mai tardi» di Guareschi segue invece la via opposta. Pagina dopo pagina si configura come alternativa al sentimento di Ivan. Sul piano letterario pare una riscrittura della Latera dl padre di Franz Kafka. Una raschiatura che ne raggiunge il fondo e ricompone il disegno su geometrie diverse. Su trame recuperate e irraggiungibili da chi non voglia allearsi col padre. Dice Kafka, in uno dei passaggi fondamentali: