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GIOVANNI SCOTO ERIUGENA OMELIA E COMMENTO SUL VANGELO DI GIOVANNI
CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION
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CORPVS CHRISTIANORVM Continuatio Mediaeualis 166
IOHANNIS SCOTTI SEU ERIVGENAE HOMILIA SVPER ‘IN PRINCIPIO ERAT VERBVM’ et COMMENTARIVS IN EVANGELIVM IOHANNIS editiones novas cvravit Édouard A. Jeauneau adivvante Andrew J. Hicks
TURNHOUT
FHG
GIOVANNI SCOTO ERIUGENA OMELIA E COMMENTO SUL VANGELO DI GIOVANNI
Introduzione, traduzione e note a cura di Giovanni MANDOLINO
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Supervisione accademica Paolo Chiesa e Rossana Guglielmetti
©2018, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.
D/2018/0095/87 ISBN 978-2-503-57969-6 eISBN 978-2-503-57971-9 DOI 10.1484/M.CCT-EB.5.115117 ISSN 2034-6557 eISSN 2565-9421 Printed on acid-free paper.
INDICE GENERALE
Introduzione 7 La sfuggente figura di Giovanni Scoto Eriugena 7 L’Homilia e il Commentarius sul vangelo di Giovanni: inquadramento storico 17 Rivelazione e Scrittura 20 Scrittura e natura 26 Natura e uomo 28 Uomo e Dio 31 Avvertenza 38 Bibliografia 41 Tavola delle abbreviazioni usate 41 Edizioni di opere 41 Opere di Eriugena 41 Opere di altri autori antichi e medievali 42 Studi 43 Studi su Eriugena e sulla cultura medievale 43 Studi sul pensiero tardoantico e patristico 44 Giovanni Scoto Eriugena: Omelia Giovanni Scoto Eriugena: Commento sul vangelo di Giovanni Libro I Libro II Libro III Libro IV Libro V Libro VI
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47 91 93 124 125 155 171 172
Indice generale
Indici 187 Indice delle fonti bibliche 187 Indice delle fonti non bibliche 193 Indice dei nomi 206 Indice dei luoghi 210
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INTRODUZIONE
La sfuggente figura di Giovanni Scoto Eriugena Le ragioni del fascino della figura di Giovanni Scoto Eriugena (IX sec.) sono molteplici: irlandese emigrato alla corte di Carlo il Calvo, intellettuale di spicco e teologo di eccezionale altezza speculativa nel panorama della cultura carolingia, dotato di solida erudizione nelle arti liberali e nella tradizione patristica tardoantica, raro conoscitore del greco nell’alto medioevo latino, versatile autore di opere che spaziano dalla teologia all’esegesi biblica e alla poesia, l’Eriugena si presenta come una figura poliedrica e singolare. Dobbiamo ai pionieristici studi di Maïeul Cappuyns lo smantellamento di diverse biografie fantasiose che dal medioevo alla storiografia moderna sono proliferate intorno alla figura del filosofo irlandese.1 A partire dalla leggenda messa in circolazione da Guglielmo di Malmesbury (1080-1142 ca.),2 secondo la quale Giovanni Scoto sarebbe morto in Inghilterra, ucciso a colpi di stilo dai suoi studenti,3 vi sono stati tentativi di cronologia che fanno dell’autore un contemporaneo di Beda (m. 735), culminando in biografie che 1 M. Cappuyns, Jean Scot Érigène. Sa vie, son oeuvre, sa pensée, Louvain, 1933 (rist. Bruxelles, 1969), p. 9-13. Per un riesame sintetico ma aggiornato e completo, si v. A. Cavallini, La penna del pavone. Bibbia ed esegesi in Giovanni Scoto Eriugena, Roma, 2016, cap. secondo (“Arti liberali, Bibbia e Padri greci”). 2 La storia è narrata da Guglielmo nei suoi Gesta regum Anglorum II, cap. 22. 3 Questa notizia ricalca la storia del martirio di san Cassiano, nota a partire da Prudenzio, Peristephanon IX. Cfr. W. Berschin, Griechisch-lateinisches Mittelalter. Von Hieronymus zu Nikolaus von Kues, Bern, 1980, p. 152.
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Introduzione
vorrebbero un Eriugena studente ad Atene e viaggiatore nelle terre d’Oriente, dove oltre al greco avrebbe appreso anche l’arabo e il caldaico.4 La scarsità di dati sembra aver alimentato, piuttosto che scoraggiato, le ipotesi romanzesche. Oggi possiamo tenere presenti queste ricostruzioni come parte della storia degli studi, testimonianze di un interesse e di una curiosità duraturi nei confronti di un personaggio presto avvolto da un alone di leggenda. Una volta smantellate queste narrazioni, gli appigli sicuri rimanenti consentono una ricostruzione soltanto episodica e spesso puramente congetturale della vita e della produzione dell’Eriugena. Il nome con cui l’autore è menzionato nei manoscritti più antichi è Iohannes Scottus, ossia “Giovanni l’irlandese”; lo stesso significato di Scottus è da attribuirsi all’altro soprannome, Eriugena, con cui Giovanni designa se stesso in apertura della sua traduzione del corpus delle opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita (Incipiunt libri sancti Dionysii Areopagitae, quos Joannes Ierugena5 transtulit de Graeco in Latinum, jubente ac postulante rege Carolo Ludovici imperatoris filio). Non sappiamo quasi nulla della prima parte della sua vita, se non che nacque probabilmente nel primo quarto del IX secolo in Irlanda, dove avrebbe ricevuto una prima istruzione nelle lettere latine, e che in circostanze ignote di lì emigrò in Gallia, dove questa istruzione sarebbe stata affinata nel clima culturale ormai consolidato della rinascita carolingia, e coronata dall’apprendimento del greco. Forse egli aveva potuto conoscere qualche rudimento di questa seconda lingua già nella madrepatria.6 Con questo nome in passato ci si riferiva correntemente all’ebraico. PL 122, 1035-6A. La variante grafica Eriugena/Ierugena è stata discussa da Cappuyns, Jean Scot Érigène cit., p. 5-6. 6 Lo confermerebbe, se vera, l’eventualità che le sue Glossae divinae historiae, in cui vengono chiosati anche termini greci, siano state un’opera precoce, composta dal filosofo prima del suo arrivo in Gallia: altri però datano l’opera al decennio 850-860, dopo l’arrivo in Gallia. Sembra infatti accantonata l’ipotesi che le straordinarie conoscenze del greco da parte di Giovanni siano frutto della fase irlandese degli studi, tanto più che le grandi scuole irlandesi, come ha mostrato Cappuyns ( Jean Scot Érigène cit., p. 13-29), avevano già vissuto il loro momento di splendore nel secolo VII, e da tempo andavano declinando, per cedere il passo alle scuole anglosassoni e poi carolinge. 4 5
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Introduzione
La presenza di Giovanni alla corte di Carlo il Calvo risalirebbe almeno all’845 circa, in base a una lettera di Prudenzio di Troyes, che con lui avrebbe stretto legame d’amicizia a corte: siccome Prudenzio lasciò la corte appunto intorno all’845, si ritiene generalmente che Giovanni Scoto vi si trovasse fin dall’inizio degli anni ’40 del secolo. Il ruolo da lui ricoperto sarebbe stato quello di maestro di arti liberali presso la scuola palatina. Cappuyns ha avanzato l’ipotesi di mettere in collegamento i suoi probabili rapporti con l’ambiente scolastico di Laon e un’attività d’insegnamento svolta presso la scuola palatina della vicina Quierzy.7 In questo decennio si situerebbe in effetti la composizione di alcune opere che testimoniano dell’attività dell’Eriugena nel campo delle arti liberali, cioè due serie di glosse di commento al De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (IV-V sec.), ossia le Annotationes in Martianum e le Glosae Martiani, nonché le glosse In Priscianum sulle Institutiones grammaticae di Prisciano (V-VI sec.). Con questo interesse per le arti liberali, Marziano in particolare, collima anche l’epistola autografa di incerta datazione Domine Winiberte, in cui Giovanni Scoto si dice disponibile ad emendare il De nuptiis di Marziano Capella. Forse anche gli esordi di Eriugena come commentatore della Bibbia risalgono a questo periodo iniziale della sua attività: le sue Glossae divinae historiae, serie di brevi annotazioni su alcuni termini inusuali dell’Antico Testamento, data la presenza di parole in antico irlandese, sono state verosimilmente composte per un pubblico irlandese, che si tratti di un’opera composta da Eriugena nella madrepatria o, più probabilmente, in Gallia per qualcuna delle colonie irlandesi che sappiamo vi risiedevano. La prima data sicura della vita di Giovanni Scoto è l’851, quando Incmaro, arcivescovo di Reims, e Pardulo, vescovo di Laon, lo coinvolgono in una controversia sulla predestinazione, al fine di replicare alle tesi del monaco sassone Godescalco d’Orbais (805868), fautore di tesi geminopredestinazionistiche, ossia sostenitrici della predestinazione sia dei buoni che dei malvagi rispettivamente alla ricompensa e al castigo ultraterreni. Così Pardulo ci testi7
M. Cappuyns, Jean Scot Érigène cit., p. 62-66.
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Introduzione
monia nella Epistola ad ecclesiam Lugdunensem: “Abbiamo spinto a scrivere quell’irlandese di nome Giovanni che è nel palazzo del re” (Scotum illum qui est in palatio regis, Joannem nomine scribere coegimus).8 La critica è concorde nel ritenere che la richiesta d’intervento che i due prelati rivolsero a Giovanni, un uomo che per quanto ne sappiamo non possedeva nemmeno un qualche grado di dignità ecclesiastica, implica che all’epoca egli dovesse già godere di una reputazione intellettuale considerevole, acquisita in un arco di tempo di almeno alcuni anni. Alla posizione sostenuta da Godescalco, che trovava punti d’appoggio nella dottrina agostiniana, circa l’esistenza di una doppia predestinazione degli eletti e dei dannati, Giovanni Scoto oppone una tesi apparentemente contraddittoria, divisa fra la tradizionale concezione della dannazione cristiana e le teorie dei padri della Chiesa greci a lui noti sull’apocatastasi, ossia il ritorno finale di tutte le cose in Dio. Basterà dire per il resto che la stravaganza delle tesi e dei riferimenti patristici proposti scontentò tutti: non solo i sostenitori di Godescalco riuniti al concilio di Valenza, ma lo stesso Incmaro, committente dell’opera, e l’amico Prudenzio di Troyes ne respinsero le dottrine. La carriera di Eriugena, tuttavia, non pare aver risentito minimamente di questo insuccesso: anzi, gli anni ’60 del IX secolo sono quelli in cui, stando alla ricostruzione più diffusa, si concentrerebbe la sua maggiore attività, ed anche gli anni della sua intensa carriera di traduttore dal greco. Gli autori greci di cui conosciamo traduzioni eriugeniane sono tutti cristiani. La più celebre impresa di Giovanni Scoto traduttore consiste nella versione del corpus delle opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita (La gerarchia celeste; La gerarchia ecclesiastica; I nomi divini; La teologia mistica; dieci epistole). Nell’anno 827, infatti, l’imperatore bizantino Michele II il Balbuziente aveva donato a Ludovico il Pio un manoscritto delle opere dello Pseudo-Dionigi. L’omaggio possedeva una grande portata simbolica, in quanto costituiva un segno di unione e di continuità culturale fra Oriente e Occidente: fino a Lorenzo Valla, il falsario autore del Corpus Dionysiacum, che nelle 8
PL 121, 1052A.
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Introduzione
sue opere si spaccia per il Dionigi convertito da san Paolo sull’Areopago (At 17, 34) e che oggi è ritenuto un anonimo neoplatonico di ambiente siriaco operante agli inizi del VI secolo d.C., era creduto effettivamente discepolo di Paolo, dapprima vescovo ad Atene e poi primo vescovo di Parigi. Lì egli sarebbe stato martirizzato e divenne il dedicatario dell’importante abbazia omonima, Saint-Denis. Fu naturale dunque che il manoscritto (oggi segnato Paris, Bibliothèque Nationale, grec 437) venisse allora ben accolto e gelosamente custodito proprio a Saint-Denis, sotto l’abbaziato di Ilduino. Divulgarne però i contenuti attraverso una resa latina accessibile agli intellettuali carolingi si rivelò impresa troppo gravosa: Ilduino stesso vi si cimentò per primo, ma a causa di un’insufficiente conoscenza del greco e della difficoltà del pensiero dionisiano questo primo tentativo rimase lettera morta. Negli anni ’60 del secolo toccò dunque a Giovanni Scoto ripetere la prova, dietro commissione di Carlo il Calvo. Le fonti dell’epoca ci mostrano questo periodo come una nuova rinascita delle lettere, dopo la decadenza seguita alla morte di Carlo Magno:9 certo anche l’impresa della traduzione dionisiana si inquadra in questa “rinascita”, e forse Carlo non volle farsi mancare l’occasione di superare la cultura del tempo di Ludovico il Pio. Fatto sta che il tentativo stavolta riuscì. La prima grande traduzione eriugeniana dal greco, dunque, la Versio Dionysii, dedicata come abbiamo già accennato all’imperatore, restituiva in latino l’intero corpus del filosofo tardoantico. La traduzione viene normalmente datata prima dell’860-4; ma il traduttore rivedrà il suo testo anche negli anni seguenti (864-866), dimostrando una padronanza notevole della lingua greca, al punto da raggiungere una sua completa autonomia nei confronti del tentativo precedente di Ilduino (a costo di fraintendere il testo di partenza anche laddove Ilduino aveva reso correttamente). L’irlandese non si limitò a tradurre lo Pseudo-Dionigi, ritornando sul proprio operato e rivedendo la propria traduzione, ma stese anche un commento del primo trattato del corpus componendo le Expositiones in ierarchiam coelestem (864-870?). E ancora la ricerca di 9
M. Cappuyns, Jean Scot Érigène cit., p. 50-53.
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Introduzione
chiarimenti su luoghi oscuri dell’opera pseudodionisiana potrebbe aver costituito il punto di partenza che lo indusse a tradurre dal greco anche gli Ambigua ad Iohannem di Massimo il Confessore (m. 662), dove potè leggere anche passi delle orazioni di Gregorio di Nazianzo; e a tradurre anche un’altra opera di Massimo, le Quaestiones ad Thalassium (864-866?). In questi stessi anni (862-864?) avrebbe tradotto anche il De hominis opificio di Gregorio di Nissa (ca. 335-395), a cui egli però, come del resto i suoi contemporanei e già il primo traduttore di quest’opera, Dionigi il Piccolo (VI sec.), si riferisce col nome di De imagine, oppure Liber o Sermo de imagine.10 Oltre a questi autori, l’Eriugena conosce e cita anche opere di altri due Padri greci del IV secolo: l’Ancoratus di Epifanio di Salamina e le omelie sui sei giorni della creazione di Basilio di Cesarea. Accanto alle opere tradotte da Eriugena personalmente, egli conosceva anche Origene (185-254 d.C.), alcune opere del quale esistevano già in latino nella traduzione tardoantica effettuata da Rufino (IV-V sec.). A completare il quadro degli autori greci noti ad Eriugena, egli cita da due omelie di san Giovanni Crisostomo, di cui una spuria.11 Non è chiaro come questo oscuro maestro irlandese di arti liberali riuscì ad apprendere la lingua greca al punto da conoscere e padroneggiare questa notevole serie di opere. L’ipotesi più sostenibile in definitiva sembra essere l’apprendimento sul continente alla corte di Carlo, per mezzo non solo di strumenti come glossari e salteri bilingui, ma presumibilmente anche grazie a contatti diretti con uomini di cultura bizantini. Le sue traduzioni sono improntate a un sostanziale letteralismo, in nome della fedeltà al modello: una norma che ammette deroghe soltanto laddove la resa parola per parola tradisca il senso proprio del testo di partenza.12 É. A. Jeauneau, Études érigéniennes, Paris, 1987, p. 34. É. Jeauneau, Études érigéniennes cit., p. 38-42. 12 Per una dichiarazione di metodo particolarmente significativa, si veda la prefazione alla Versio Dionysii in MGH Epp. 6, p. 158-161. Sui termini del dibattito relativo alla teoria della traduzione nella tarda antichità e nel medioevo, cfr. P. Chiesa, ‘Ad verbum o ad sensum? Modelli e coscienza metodologica della traduzione tra tarda antichità e alto medioevo’, in Medioevo e Rinascimento, 1 (1987), p. 1-51; su Giovanni Scoto v. spec. le p. 35-39; inoltre, sempre relativamente a Giovanni Scoto, cfr. P. Chiesa, ‘Traduzioni e traduttori dal greco nel IX secolo: sviluppi di una tec10 11
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Introduzione
Questo metodo gli costerà, anni più tardi, le critiche (condivisibili sebbene poco comprensive) di Anastasio Bibliotecario (875), a sua volta traduttore, diplomatico e uomo politico di spicco della curia pontificia, che riterrà la Versio Dionysii a sua volta bisognosa di un traduttore (quem interpretaturus susceperat, adhuc redderet interpretandum).13 Parallelamente a questa intensa attività di traduzione, che specie nel caso delle opere pseudodionisiane possiamo immaginare accompagnata da un assiduo sforzo di comprensione profonda, Eriugena attendeva alla stesura del suo capolavoro originale in cinque libri, il Periphyseon, composto forse fra l’862 e l’866.14 Normalmente si ipotizza l’anno 866 come terminus ante quem per la composizione dell’opera, sulla base della lettera dedicatoria posta da Giovanni Scoto in chiusa dell’opera (sul ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 12965) e indirizzata all’amico Wulfad,15 col quale i contatti più frequenti si sarebbero interrotti in quell’anno. Sappiamo infatti che Wulfad nell’866 abbandonò la corte di Carlo per diventare arcivescovo di Bourges, mentre la lettera di Giovanni fa pensare che egli fosse ancora presente a corte al momento del suo recapito. Fa da riscontro a questa ricostruzione il fatto che nel catalogo dei libri posseduti da Wulfad figurino solo opere eriugeniane la cui composizione risalirebbe a prima dell’866 (le versioni dal greco tranne il De imagine, e appunto il Periphyseon).16 Del Periphyseon possediamo quattro versioni, di cui ciascuna rappresenta una rielaborazione della versione precedente: le prime due versioni, tramandate dal manoscritto Reims, Bibliothèque municipale 875, sono sottoposte nica’, in Giovanni Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età carolingia, Spoleto, 1989, p. 171-200, che propone esempi specifici dalle traduzioni eriugeniane e tiene conto, oltre che della già citata prefazione alla Versio Dionysii, anche delle Expositiones in ierarchiam coelestem. 13 MGH Epp. 7, p. 430-434. 14 Forse con una pausa prolungata nella composizione fra il libro III e il libro IV dell’opera: cfr. Iohannis Scotti seu Eriugenae Periphyseon – ed. É. A. Jeauneau, vol. 4, Turnhout, 2000 (CC CM 164), introd., p. LVII. 15 Periph. V, 1021B-1022C, p. 226-228 dell’ed. Jeauneau. 16 Il catalogo di Wulfad è stato pubblicato da M. Cappuyns, ‘Les «Bibli Vulfadi» et Jean Scot Érigène’, Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale, 33 (1966), p. 137-139. Il Periphyseon compare in due volumi, nella numerazione di Cappuyns ai num. 16-17, con la dicitura: Libri. Perifiseon., II.
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Introduzione
al controllo dell’autore e di un suo stretto collaboratore, mentre la terza versione rappresenta una fase di lavoro successiva operata autonomamente da questo collaboratore, e la quarta infine una versione tendenzialmente deteriore a partire dalla terza.17 17 Per un riassunto dello status quaestionis circa le versioni del Periphyseon e le mani all’opera sui manoscritti che ce lo conservano, cfr. l’edizione critica di É. Jeauneau, Iohannis Scotti seu Eriugenae Periphyseon, vol. 1, Turnhout, 1996 (CC CM 161), introd., p. XIX-XXVIII. Le prime due versioni del Periphyseon sono tramandate per i libri I-IV (per il IV in modo incompleto) dal ms. R (Reims, Bibliothèque municipale 875). La versione I vi è costituita dal nudo testo; la versione II è il frutto di modifiche e correzioni effettuate di suo pugno dall’autore (la mano in minuscola irlandese i1) e da un collaboratore sottoposto al suo controllo (la mano irlandese i2), nonché da interventi in minuscola carolina che Jeauneau indica con Rc), anch’essi presumibilmente controllati dall’Eriugena. Gli interventi di i2 su R sembrano quelli di uno scriba che dietro indicazione di Eriugena copia dei brani presumibilmente approntati dall’autore. Abbiamo dunque su R correzioni e aggiunte autografe di Giovanni Scoto, che ci assicurano di trovarci di norma in presenza di una versione (II) sorvegliata dall’autore. La versione III, tramandata dal ms. B (Bamberg, Staatsbibliothek Philos. 2/1), è frutto di modifiche della versione II ad opera del solo collaboratore di Eriugena i2. Gli interventi di i2 sembrano ora quelli di un editore che lavora per suo conto su un testo ormai non più controllato dall’autore: i2 cioè non ricopia passi, bensì aggiunge glosse, titoli dei capitoli, rimandi interni; ma, in più, interpola anche maldestramente il testo del maestro, a volte giungendo a falsarne il pensiero in passaggi concettualmente delicati. Aggiunte di questo genere fatte da i2 si trovano anche su R, e non è detto che anche lì non distorcano il senso del testo voluto dall’autore. È probabile che i2 abbia in un primo momento collaborato alla stesura del Periphyseon soltanto in veste di scriba sotto la supervisione di Eriugena, e che in seguito abbia operato autonomamente come editore dell’opera, giungendo a modificarne il testo su R e su B. Visto questo comportamento, si tratta di aggiunte che non possono essere considerate “autentiche”, ossia volute dall’autore. La versione III, quindi, costituisce l’“edizione” dell’opera da parte di i2 il quale, libero dal controllo autoriale, non esita ad intervenire con modifiche sostanziali sul testo voluto dall’autore. Infine, la versione IV è quella conservata sul ms. P (Paris, Bibliothèque nationale, lat. 12964), consistente nel testo della versione III, più aggiunte non riconducibili a nessuna delle due mani irlandesi e di solito decisamente inautentiche e deteriori. Un’ulteriore complicazione: verso la fine del libro IV del Periphyseon (855D) viene meno il ms. R, che garantiva in certa misura la vicinanza al testo voluto dall’autore. Testimoni della versione II dell’opera restano due mss. del Periphyseon risalenti al XII secolo, H e M (rispettivamente Avranches, Bibliothèque municipale 230 e Cambridge, Trinity College O.5.20), nonché la Clauis Phyisicae di Onorio d’Autun, di cui Jeauneau sceglie un codice siglato A (ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 6734) per la costituzione del testo; sulla base di questi tre testimoni viene ricostruita la versione II nell’edizione del libro V dell’opera. Dobbiamo però tenere presente che la Clauis per i primi quattro libri dell’opera e fino a V, 881B costituisce una riduzione del Periphyseon, con inserzioni
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Introduzione
Il Periphyseon, titolo greco che significa “sulle nature”, è fra le opere originali di Eriugena quella in cui egli presenta nella maniera più estesa e sistematica il suo pensiero teologico-filosofico. Si tratta di un dialogo in cinque libri, i cui interlocutori sono un Nutritor e un Alumnus, ossia un maestro e un allievo: il dialogo muove da una quadripartizione della totalità del reale, designabile col termine natura, identificando la natura non creata e creante con la divinità, la natura creata e creante con le cause primordiali intelligibili del cosmo sensibile contenute nel Verbo divino, la natura creata e non creante con il mondo sensibile che di quelle cause costituisce l’effetto, e la natura non creata e non creante nuovamente con la divinità, vista questa volta non più sotto l’aspetto creatore di principio dell’essere, bensì sotto quello escatologico di fine a cui le creature ritorneranno stabilmente. Naturalmente non è possibile fornire in poche righe un’idea adeguata di quest’opera, ma già da questo riassunto schematico della metafisica eriugeniana si può scorgere una forma di neoplatonismo cristiano, strutturato secondo una scansione di piani ontologici gerarchizzati e percorso da una dinamica di processione e ritorno che ha i suoi punti di partenza e di arrivo nel principio divino. All’interno di questo quadro Eriugena inserisce anche elementi propri della fede cristiana, come la nozione di peccato originale, che ha comportato il decadimento universale della natura umana nella sua attuale condizione imperfetta e carnale, e il riscatto di quella colpa grazie alla redenzione operata dalla persona divina di Cristo, la cui incarnazione ha restaurato la possibilità del ritorno dell’umanità a Dio; abbondano infine a scopo argomentativo anche i riferimenti e le esegesi scritturistiche. Alcuni dei temi esposti nel Periphyseon ricompariranno ad ogni modo anche più avanti nel corso di questa introduzione, in quanto ripresi da Eriugena nelle sue due opere qui presentate, l’omelia sul prologo del vangelo di Giovanni e il commento sul medesimo vangelo. Proprio queste due opere, la Homilia e il Commentarius, appartengono probabilmente all’ultima fase della produzione dell’Eriudi frasi di raccordo da parte di Onorio; dopodiché, essa cita in modo più fedele, eccettuati piccoli adattamenti.
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Introduzione
gena, all’incirca dopo l’870. Esse saranno oggetto di approfondimento a parte nella prossima sezione dell’introduzione. Va infine ricordato ancora che, nell’arco della sua lunga esperienza a corte (all’incirca fra l’850 e l’877), l’Eriugena compose anche versi (Carmina) tendenzialmente occasionali, caratterizzati dalla presenza di parole o di interi versi in greco. Si segnalano infine alcune opere di dubbia attribuzione: oltre a dei frammenti di un commento sui primi capitoli della Genesi, sarebbero ascrivibili al maestro irlandese anche la traduzione delle Solutiones ad Chosroem regem di Prisciano, che raccoglie questioni e curiosità scientifiche, traduzione di un originale greco perduto; e la Defloratio de libro Ambrosii Macrobii Theodosii de differentiis et societatibus Graeci Latinique uerbi, un compendio di grammatica del verbo greco e latino che sarebbe servito a Giovanni Scoto per apprendere il greco. Dalla fine degli anni ’70 del IX secolo, Giovanni torna a scomparire nelle nebbie della storia. Non abbiamo più testimonianze della sua attività: di norma si cita come data di morte l’877, anno della morte di Carlo il Calvo, ma questa data di fatto sta soltanto ad indicare la fine del patrocinio dal quale Eriugena dipendeva per la sua attività precedente. Anche sulla sua morte si possono avanzare solo congetture. Scartato l’aneddoto di Guglielmo di Malmesbury, un’ipotesi di ricostruzione su questi ultimi anni è stata tentata da Peter Dronke:18 il cronista Asser (morto agli inizi del X secolo), nella sua biografia di Alfredo di Wessex, il De rebus gestis Ælfredi regis,19 accenna all’arrivo alla corte inglese di Grimbald di Saint-Bertin e di un grande intellettuale esperto di arti liberali di nome Giovanni: che si tratti di Giovanni Scoto Eriugena? Da ultimo, possiamo solamente ipotizzare con verosimiglianza la morte dell’irlandese nell’ultimo quarto del secolo.
P. Dronke, The Spell of Calcidius, Firenze, 2008, p. 58-69; cfr. anche Giovanni Scoto Eriugena, Sulle nature dell’universo I – ed. P. Dronke, M. Pereira (Scrittori greci e latini), vol. 1, Milano, 2012, introd., p. XV-XVI. 19 Asserius, De rebus gestis Ælfredi regis, cap. 78: v. Asser’s Life of King Alfred together with the Annals of Saint Neots erroneously ascribed to Asser – ed. W. H. Stevenson, Oxford, 1904, p. 63. 18
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Introduzione
L’Homilia e il Commentarius sul vangelo di Giovanni: inquadramento storico L’Homilia e il Commentarius di Eriugena sul vangelo di Giovanni, come già accennato, appartengono con buona probabilità alla fase tarda della produzione dell’autore. Il merito della ricostruzione storico-filologica relativa a queste due opere appartiene a Édouard Jeauneau, il quale ha curato l’edizione critica di entrambe con traduzione e commento,20 ripubblicandole poi congiuntamente in una nuova edizione critica rivista e aggiornata a distanza di anni.21 Una prima tappa importante nella storia degli studi moderni sull’omelia e sul commento eriugeniani sul vangelo di Giovanni fu segnata nel XIX secolo dal lavoro di Félix Ravaisson: a lui spetta il merito di avere riconosciuto nella Homilia, già precedentemente nota, un’opera di Eriugena, e di avere scoperto l’unico manoscritto (Laon, Bibliothèque municipale 81, IX sec.) che conserva il testo del Commentarius, attribuendo correttamente anche quest’opera all’irlandese.22 L’omelia, spesso designata dal suo incipit come Vox spiritualis aquilae (“voce dell’aquila spirituale”), è stata tramandata da numerosi manoscritti: Jeauneau ne ha censiti 73 nella sua edizione più recente (contro i 54 dell’edizione precedente). Tale cifra insolitamente alta, che comporta una notevole diffusione dell’opera, si spiega a causa degli errori di attribuzione che ne assegnarono la paternità ad alcuni dei nomi più famosi della patristica greca, soprattutto a Origene, ma a volte anche a Giovanni Crisostomo e, 20 Jean Scot, Homélie sur le prologue de Jean – ed. É. Jeauneau (SC 151), Paris, 1969; Jean Scot, Commentaire sur l’évangile de Jean – ed É. Jeauneau (SC 180), Paris, 1972. 21 Iohannis Scotti seu Eriugenae Homilia super «In principio erat uerbum» et Commentarius in euangelium Iohannis – ed. É. A. Jeauneau, A. J. Hicks, Turnhout, 2008 (CC CM 166). 22 Per l’omelia, cfr. F. Ravaisson, Rapports au ministre de l’instruction publique sur les bibliothèques des départements de l’Ouest, suivi de pièces inédites, Paris, 1841, p. VII-IX e 334-355 (Ravaisson ha esaminato quest’opera sulla base del ms. Alençon, Bibliothèque municipale 149); per il Commentarius, cfr. F. Ravaisson, Catalogue général des manuscrits des bibliothèques publiques des départements, vol. 1, Paris, 1849, p. 503-568.
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Introduzione
in un caso, a Gregorio di Nazianzo. È significativo rilevare come queste attribuzioni, benché erronee, colleghino l’omelia alla tradizione patristica greca, con la quale essa presenta innegabili affinità di tesi e di tematiche, a causa della familiarità di Eriugena con i testi del cristianesimo greco. L’omelia è suddivisa in 23 capitoli: i primi cinque hanno carattere più speculativo e al tempo stesso non privo di afflato poetico; dopodiché, il testo assume un carattere più esplicitamente esegetico, commentando buona parte del prologo del vangelo di Giovanni, ossia i versetti da 1 a 14 compreso. Non sappiamo quando datare con esattezza l’omelia di Eriugena, ma sappiamo che è stata spesso conservata all’interno di raccolte medievali di omelie per l’anno liturgico, in corrispondenza della terza messa del giorno di Natale, in cui appunto si leggeva il prologo del vangelo giovanneo. È quindi plausibile che questo fosse anche il suo contesto di fruizione originario. L’altra opera qui presentata, il Commentarius eriugeniano sul vangelo di Giovanni, ci è pervenuta incompleta. Il testo conservato, che procede commentando lemma per lemma, corrisponde a Gv 1, 11-29; 3, 1-4, 28a; 6, 5-14. Mentre la lacuna iniziale e quelle intermedie nel testo del commento si spiegano con la caduta di quaternioni del manoscritto, la lacuna finale sembra dovuta all’interruzione della stesura da parte dell’autore. Infatti l’ultimo quaternione (ff. 43-48v) che trasmette l’opera eriugeniana sembra riflettere uno stadio ancora provvisorio del lavoro al Commentarius: vi si riscontra una minore cura formale nella trascrizione del testo, e soprattutto compaiono qui con maggiore frequenza correzioni e aggiunte in margine vergate da una mano che scrive in minuscola irlandese, la mano denominata dai paleografi i1, nella quale è stata riconosciuta la scrittura di Eriugena stesso.23 Tale stato provvisoNella sua edizione del 1972 (introd., p. 70-77), Jeauneau aveva accolto l’opinione dell’eminente paleografo Bernhard Bischoff, ritenendo che la mano i1 non fosse quella dell’autore – individuata invece nella mano i2 operante su altri manoscritti di opere eriugeniane, fra cui il ms. Reims, Bibliothèque municipale 875 del Periphyseon – bensì di un suo collaboratore: a partire da uno studio di pochi anni posteriore ad opera di T. A. M. Bishop (‘Autographa of John the Scot’, in Jean Scot Érigène et l’histoire de la philosophie (Laon 7-12 juillet 1975) – ed. R. Roques, 23
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rio, unitamente alla maggior presenza di modifiche autografe sul testo nell’ultima parte del Commentarius, ha fatto pensare che l’opera sia rimasta incompiuta per la morte dell’autore. La fortuna di questo testo incompiuto, conservato da un codex unicus, non è stata tuttavia nulla. Non sappiamo dove quest’opera fu scritta, ma il manoscritto sembra essere sempre stato conservato a Laon: Anselmo di Laon (m. 1117) o qualcuno dei suoi collaboratori potè così servirsene per la stesura della parte della Glossa ordinaria relativa al vangelo di Giovanni, inserendo stralci del commento eriugeniano nel testo che doveva diventare un punto di riferimento canonico per l’esegesi biblica bassomedievale. Per quanto riguarda infine i rapporti fra l’Homilia e il Commentarius, occorre precisare che si tratta di due opere pensate e composte come distinte: il Commentarius non costituisce la base esegetica a partire dalla quale è stata ricavata la Homilia, come dimostrano le differenti interpretazioni presentate nelle due opere a proposito dei versetti giovannei commentati in entrambe (Gv 1, 1114), né ne costituisce la prosecuzione. Nonostante si tratti di due opere distinte, è possibile presentarle congiuntamente come un insieme coerente, come qui si tenterà di fare. Una prima ragione è dovuta al comune genere letterario dei due testi, entrambi a carattere esegetico. Una seconda ragione è la loro plausibile vicinanza cronologica: con tutta probabilità, infatti, si tratta in entrambi i casi di opere del tardo Eriugena. Infatti sia l’Homilia che il Commentarius presentano concetti sviluppati sistematicamente nel Periphyseon: il fatto che spesso si tratti di cenni sintetici è dovuto al genere del commento biblico, vincolato a seguire i lemmi e l’andamento del testo sacro, piuttosto che a una versione ancora germinale e precoce delle dottrine eriugeniane. Entrambe le opere inoltre certamente presuppongono che l’autore all’epoca della composizione abbia ormai ben presenti, oltre all’onnipresente Agostino, tutti gli autori greci da lui tradotti (specialParis, 1977, p. 89-94), l’opinione oggi comunemente condivisa è quella esattamente contraria (i1 l’autore, i2 il collaboratore): Jeauneau stesso ha segnalato questo cambiamento di posizione nell’introduzione alla sua nuova edizione del Commentarius (p. XCV-CI e CV-CVI). Le note della mano i1 rinvenibili nel Commentarius possono perciò considerarsi d’autore.
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mente i riferimenti e le citazioni allo Pseudo-Dionigi e a Massimo il Confessore abbondano). Infine, e soprattutto, le due opere vengono presentate assieme a causa della condivisa coerenza di metodo esegetico e della comunanza di idee ricorrenti in entrambi i testi. Quale sia la quantità e la densità dei contenuti di queste due opere, il lettore potrà giudicarlo da sé: nel seguito di questa introduzione si tenterà di rendere un’idea almeno delle linee essenziali di alcuni dei temi principali che le percorrono, presentando congiuntamente le loro esposizioni sparse attraverso le pagine della Homilia e del Commentarius.
Rivelazione e Scrittura Eriugena condivide con la tradizione cristiana precedente la concezione secondo cui la rivelazione della divinità all’uomo è avvenuta progressivamente nel corso della storia: il tempo dell’umanità è scandito da fasi successive, che si prolungano e terminano in una piena rivelazione, la quale si compirà nella dimensione escatologica, ossia nella vita futura. Inizialmente, l’uomo decaduto dopo il peccato originale ha vissuto nell’errore religioso del politeismo, come i pagani; oppure ha adottato la religione ebraica, la quale costituisce, nell’ottica cristiana, soltanto un anticipo, ancora imperfetto, della vera religione. L’incarnazione e la predicazione di Cristo, assieme alla sua opera redentrice che passa per la sua morte e resurrezione, segnano nella visione cristiana il momento di svolta e di passaggio a una seconda fase della storia umana. L’ultima svolta decisiva si avrà nella beatitudine ultraterrena, con la piena comprensione e visione di misteri divini fino a quel momento ritenuti per sola fede, o per fede con l’aiuto dell’indagine razionale. Eriugena articola questa progressione storica servendosi di concetti chiave ripresi dai testi degli autori greci a sua disposizione, in particolare lo Pseudo-Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore. I primi due trattati delle opere dello Pseudo-Dionigi (La gerarchia celeste, La gerarchia ecclesiastica) descrivevano un cosmo ordinato verticalmente, diviso in una gerarchia celeste, ossia gli
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ordini delle schiere di intelligenze angeliche, e al di sotto di questa in una gerarchia ecclesiastica, dunque umana, corrispondente alla strutturazione della chiesa cristiana. La gerarchia ecclesiastica era stata preceduta da una gerarchia legale (ossia che osservava la Legge dell’Antico Testamento), la quale negli scritti pseudodionisiani non viene tematizzata, ma a cui si allude soltanto. Il fine comune delle tre gerarchie è il raggiungimento della condizione beata, che lo Pseudo-Dionigi, neoplatonicamente, intende come una assimilazione dell’uomo alla divinità.24 La gerarchia angelica è la più prossima alla divinità e la prima a ricevere l’illuminazione della verità e della luce divina in purissime contemplazioni intellettuali. La gerarchia legale, ancora impreparata alla piena comprensione della verità, la riceve in modo simbolico, “con immagini oscure delle verità, con copie lontanissime dai modelli, con enigmi difficili a comprendersi, con figure la cui contemplazione celata è ardua da discernere, poiché [il principio divino] irradia una luce commisurata agli occhi deboli, così da non danneggiarli”.25 La gerarchia umana, infine, intermedia fra le altre due gerarchie, ha a disposizione entrambi i modi di partecipazione della verità divina. Accanto allo Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore (Quaestiones ad Thalassium LXIV) aveva elaborato una dottrina delle tre leggi: la legge naturale, ossia la legge che emerge dall’indagine delle cose naturali, portando alla luce le “ragioni” (λόγοι) inerenti in esse e inseritevi dalla divinità; la legge scritta, che descrive il rapporto fra uomo e Dio e ne prescrive le modalità; la legge della grazia, che giunge con Cristo e include e compie le prime due. Su queste basi, specialmente quelle fornite dallo Pseudo-Dionigi, Eriugena costruisce una visione tripartita delle vicende della manifestazione da parte della divinità all’umanità: dopo l’adesione ai precetti 24 L’origine di questo tema in Platone è la celebre frase del Teeteto (176A8-B2): “Perciò occorre tentare di fuggire di qui a lì quanto prima. La fuga, infatti, è l’assimilazione a Dio per quanto possibile” (διὸ καὶ πειρᾶσθαι χρὴ ἐνθένδε ἐκεῖσε φεύγειν ὅτι τάχιστα. φυγὴ δὲ ὁμοίωσις θεῷ κατὰ τὸ δυνατόν). 25 ἀμυδραῖς τῶν ἀληθῶν εἰκόσι καὶ πορρωτάτοις τῶν ἀρχετύπων ἀπεικονίσμασι καὶ δυσθεωρήτοις αἰνίγμασι καὶ τύποις οὐκ εὐδιάκριτον ἔχουσι τὴν ἐγκεκαλυμμένην αὐτοῖς θεωρίαν ἀνάλογον φῶς ὡς ἀσθενέσιν ὄψεσιν ἀβλαβῶς ἐπιλάμψασα (De ecclesiastica hierarchia V, 2).
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meramente esteriori ed ancora oscuri della Legge precedente l’avvento di Cristo, è subentrata l’attuale età della legge della grazia, in cui i simboli oscuri sono stati solo parzialmente svelati; la rivelazione completa ed ultima si avrà nella vita futura (Commentarius I, 24; I, 30; III, 10; IV, 1). In questa costruzione, peraltro, assume una rilevanza particolare nella Homilia e nel Commentarius il personaggio di Giovanni Battista, in quanto figura liminare nel passaggio dalla vecchia alla nuova legge, dall’Antico al Nuovo Testamento: “La Legge e i profeti fino a Giovanni, e a partire da lui il regno dei cieli” (Lc 16, 16). Questa visione progressiva della storia, che identifica la storia della salvezza con la storia della rivelazione, imposta i criteri fondamentali dell’ermeneutica cristiana antica e medievale: i fatti e i detti narrati nell’Antico Testamento, testo sacro della religione ebraica, non sono altro che anticipazioni che adombrano verità che emergeranno soltanto in fatti e detti relativi alla venuta di Cristo narrata nel Nuovo Testamento. Le origini di questa idea risalgono proprio a quest’ultimo: come recita la Lettera agli ebrei, “avendo infatti la legge [ossia l’Antico Testamento] solo un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha il potere di condurre alla perfezione” (Eb 10, 1). Con riferimento a questo versetto Eriugena dice: “Gesù Cristo era la verità e come il corpo che proiettava l’ombra” (Commentarius I, 31), ossia l’inveramento del preannuncio ancora confuso ed enigmatico presentato nell’Antico Testamento. E ancora, il testo giovanneo stesso, in una delle sue pericopi discusse dal Commentarius, contiene uno dei versetti neotestamentari che contribuirono allo sviluppo della concezione del rapporto fra l’antica promessa divina e il suo rinnovamento, e fra l’Antico e il Nuovo Testamento, come rapporto fra l’adombramento della verità e il suo svelamento: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17). Agli occhi di un esegeta cristiano, tuttavia, ciò non toglie necessariamente né sempre verità storica al racconto veterotestamentario: per fare l’esempio fornito da Eriugena nel Commentarius (VI, 5), la costruzione del tabernacolo da parte di Mosè, narrata nell’Esodo (cap. 40), è realmente avvenuta. Solo che simili realtà dell’Antico Testamento al tempo stesso alludono, quasi “miman-
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dole”, al corrispondente evento neotestamentario che permetterà retrospettivamente di coglierne il senso profondo: questo tipo di allusioni è detto nella tradizione latina figura;26 Eriugena, però, che si rifà di preferenza alla terminologia greca, lo definisce mysterium (“mistero”). Altre realtà veterotestamentarie sono state invece soltanto espresse nel testo sacro, senza corrispondenza con eventi reali: Eriugena le definisce “simboli” (symbola).27 In Eriugena, tuttavia, al tempo stesso, proprio a causa della residua strumentalità simbolica dovuta all’imperfezione e provvisorietà che caratterizza la legge della grazia (e la corrispondente gerarchia ecclesiastica), anche le realtà o i detti neotestamentari (specie evangelici) possono risultare oscuri: d’altronde, come si era espresso san Paolo, “ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor 13, 12). Tali fatti e detti del Nuovo Testamento possono anche significare vicende dell’Antico Testamento, gettando su di loro nuova luce spirituale e mostrandone più pienamente la relazione con il loro inveramento nel Nuovo. È questo ad esempio il caso del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: secondo l’interpretazione di Eriugena, il ragazzo che aveva con sé cinque pani e due pesci (Gv 6, 8-9) rappresenta Mosè, in quanto autore dei cinque libri del Pentateuco, e la sua giovane età sta ad indicare l’imperfezione della Legge (Commentarius VI, 2).28 Sulla base di queste premesse si instaura perciò una fondamentale opposizione fra senso letterale e significato spirituale del testo biblico: il senso letterale rimane certo un polo imprescindibile in questo binomio, in quanto permette di conoscere gli eventi della Su questo si v. il classico saggio di Erich Auerbach, Figura, originariamente pubblicato in Archivum Romanicum, 22 (1938), p. 436-489; ora incluso in id., Studi su Dante, Milano, 20177 (1963), p. 176-226. 27 Sulle nozioni di mysterium, symbolum ed altri termini correlati, cfr. J. Pépin ‘Mysteria et Symbola dans le commentaire de Jean Scot sur l’évangile de Saint Jean’, in The Mind of Eriugena. Papers of a Colloquium. Dublin, 14-18 July 1970 – ed. J. J. O’Meara, L. Bieler, Dublin, 1973, p. 16-30; Jean Scot, Commentaire sur l’évangile de Jean – ed. É. Jeauneau, Paris 1972 (SC 180), appendice III, p. 397-402. 28 Cfr. su questi temi A. Cavallini, La penna del pavone. Bibbia ed esegesi in Giovanni Scoto Eriugena, Roma, 2016, p. 131-135. 26
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storia salvifica e, ad un’analisi attenta, di cogliere rimandi interni al testo sacro in vista dell’interpretazione figurale; ma è il senso spirituale quello in cui si individua il significato profondo della novità cristiana, al punto che la lettera diventa addirittura fuorviante e nociva per chi non sia cosciente del senso profondo da assegnarle. “La lettera uccide, lo spirito vivifica”, ha scritto ancora san Paolo (2 Cor 3, 6); lo predicherà sant’Ambrogio, e se ne ricorderà non solo Agostino (Conf. VI, 4, 6), ma anche Eriugena, attento lettore di entrambi. Non solo la comprensione del senso profondo del testo veterotestamentario, ma anche l’intelligibilità stessa del messaggio cristiano, così come viene presentata in più punti dal Nuovo Testamento, richiede uno spostamento di prospettiva dal senso letterale delle affermazioni ad un piano spirituale, simbolico-allegorico. L’errore della religione ebraica, anche (ma non solo) secondo Eriugena, consiste nel non aver saputo intendere in modo spirituale, non più letterale, la novità cristiana, rifiutando di accoglierne il messaggio. Ad esempio il vangelo di Giovanni, nella porzione commentata da Eriugena, riferisce due casi di personaggi ancora incapaci di questo spostamento di prospettiva, e in uno di essi lo svelamento, quasi una sorta di “agnizione”, che porta ad intendere la divinità della figura di Gesù e la dimensione spirituale del suo annuncio. Nel terzo capitolo del vangelo di Giovanni, si legge che un fariseo di nome Nicodemo, un capo (princeps) dei giudei ed esperto nella Legge ebraica, nottetempo andò da Gesù, dichiarando di aver capito che Gesù, dati i suoi miracoli, doveva essere un maestro venuto da Dio; alla risposta di Gesù che solo chi rinasce dall’alto può vedere il regno di Dio, Nicodemo confuso, non capendo il valore spirituale delle parole del suo interlocutore, risponde: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Gv 3, 4). In modo simile, nell’episodio della samaritana al pozzo di Sicàr (Gv 4, 5-26), la samaritana inizialmente non comprende che Gesù, parlandole di acqua viva e salvifica, intende qualcosa di più spirituale ed elevato dell’acqua del pozzo; infine, dopo essersi accorta che Gesù inspiegabilmente conosce la sua vita, crede di parlare con un profeta, fino a che, domandandogli del Messia, si sente finalmente rispondere: “Sono io, che ti parlo” (Gv 4, 26).
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In questa prospettiva di forte opposizione fra lettera e spirito, è sul piano del senso spirituale che viene inserita la ricerca della verità teologica. È a partire dal cristianesimo antico di lingua greca, con l’indirizzo esegetico noto come “scuola alessandrina”, a cui appartennero Clemente di Alessandria e soprattutto Origene (II-III sec. d.C.), che tale ricerca è stata intrapresa coniugando le indicazioni del testo biblico con i concetti che l’esegeta dotto traeva dalla filosofia pagana del tempo, specialmente quella platonica. Eriugena si inserisce perfettamente nel solco di questa tradizione, che si prolunga dalla tarda antichità greco-romana fino a lui passando per i testi fondanti della teologia latina (Agostino e Ambrogio) e bizantina (Pseudo-Dionigi, Massimo e, in misura minore, Gregorio di Nissa). Occorre tenere presente queste indicazioni di massima, altrimenti il lettore dell’Homilia e del Commentarius potrebbe meravigliarsi della spregiudicatezza e del modo addirittura pretestuoso in cui l’irlandese interpreta il testo sacro, individuando anche nei brani evangelici più prosaici rimandi a temi propri della metafisica e della teologia trinitaria cristiana: temi che, se pure tengono conto delle indicazioni del testo rivelato, erano stati sviluppati con gli strumenti forniti dalla filosofia greca. Infine, per quanto riguarda il metodo esegetico di Eriugena, egli sostiene che non c’è limite alle interpretazioni possibili di uno stesso passo della Scrittura (purché in accordo con la retta fede, beninteso). Come si legge nel Periphyseon (IV, 749C): “Il significato delle parole divine è molteplice e infinito. Infatti in una stessa penna di pavone si scorge una meravigliosa e bella varietà di innumerevoli colori, in uno stesso punto di una piccola parte della penna”.29 La Scrittura stessa è anzi stata pensata per questa infinità di interpretazioni possibili: tale criterio ermeneutico aperto trova il suo presupposto e la sua giustificazione nell’infinità della natura divina: “L’infinito creatore della sacra Scrittura nelle menti dei profeti, lo Spirito Santo, pone in essa infiniti significati” (Periph. III, 690B).30 29 Est enim multiplex et infinitus diuinorum eloquiorum intellectus. Siquidem in penna pauonis una eademque mirabilis ac pulchra innumerabilium colorum uarietas conspicitur in uno eodemque loco eiusdem pennae portiunculae. 30 Infinitus siquidem conditor sanctae scripturae in mentibus prophetarum spiritus sanctus infinitos in ea constituit intellectus.
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Scrittura e natura Eriugena indica sia nell’Homilia che nel Commentarius due vie di accesso per l’uomo alla conoscenza della divinità. Non soltanto la Scrittura, che come si è appena visto contiene l’infinità di significati spirituali profondi rivelatori delle realtà divine, ma anche la natura può elevare le facoltà intellettuali dell’uomo verso il suo creatore. Queste due vie, secondo Eriugena, sono i due modi in cui l’uomo, che si è deliberatamente allontanato da Dio col peccato originale ritrovandosi così nell’ignoranza di Dio, può ritrovare tracce che lo riconducano alla sua conoscenza: questo riconoscimento deve passare per una comprensione profonda della lettera del testo sacro e, parallelamente, per un’osservazione della natura creata, prestando attenzione alla bellezza delle sue forme (Hom. 11). Per questa teoria della duplicità delle vie anagogiche (cioè di risalita verso Dio) a disposizione dell’uomo, Eriugena è debitore in larga misura a Massimo il Confessore. Quest’ultimo, infatti, aveva ad esempio interpretato nei suoi Ambigua ad Iohannem (Amb. VI) le vesti candide indossate da Cristo al momento della trasfigurazione come cosmo sensibile e Scrittura: Eriugena riprende questa interpretazione nel Periphyseon (III, 690A e 723D). In tal senso Massimo interpreta anche la dichiarazione del Battista nel vangelo giovanneo, laddove egli si dice indegno di sciogliere il legaccio dei sandali di Cristo (Gv 1, 27): Massimo suggerisce – con una di quelle esegesi spericolate di cui il lettore è stato avvertito poco sopra in questa introduzione – che i piedi di Cristo sono anch’essi interpretabili rispettivamente come la ragione naturale e il senso spirituale della Scrittura, coperti dai sandali, ossia dalle forme sensibili e dalla lettera della Scrittura. Questa esegesi si ritrova a proposito di questo versetto giovanneo anche nel Commentarius di Eriugena (I, 29). È coerente con questa visione anche l’interpretazione che Eriugena dà, a quanto sembra senza fonti precedenti, del sepolcro di Cristo nella Homilia (cap. 3): “Il sepolcro di Cristo è la divina scrittura, nella quale i misteri della sua divinità e della sua umanità vengono protetti dalla densità della lettera come da una pietra”.
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Come si vede Eriugena, riprendendo da Massimo uno spunto esegetico puntuale, ripropone e perpetua una visione tanto del testo sacro quanto del creato come “indumento”, come viluppo o (per usare un altro termine dell’esegesi medievale) come integumentum: la natura e la Scrittura, una volta denudate, cioè decodificate in accordo a determinati criteri razionali, mostrano Dio, cioè rivelano delle verità relative alla divinità. In modo più generale, Massimo aveva inserito i modi della conoscenza che conducono alla divinità all’interno di un più globale processo di perfezionamento progressivo dell’uomo che, se completato, porta alla sua deificazione, o divinizzazione, ossia alla sua assimilazione e unione con Dio (una nozione ripresa anche da Eriugena: cfr. più sotto in questa introduzione la sezione “Uomo e Dio”). Questo processo richiede uno sforzo congiunto di comportamento ascetico (πρᾶξις) e di conoscenza (γνῶσις). Lo sforzo pratico consiste nella conversione dal vizio alle virtù e nello sviluppo di queste ultime, culminanti nell’amore e nell’impassibilità. Lo sforzo conoscitivo-intellettuale comporta i due momenti ripresi anche da Eriugena, cioè l’indagine della natura (φυσικὴ θεωρία) e della Scrittura; un ulteriore grado dello sforzo conoscitivo è la teologia (θεολογία), articolata secondo l’insegnamento dello Pseudo-Dionigi in teologia affermativa (che risale per analogia dalle creature al creatore) e negativa (che considera la divinità in sé e per sé, negandone le caratteristiche appartenenti alle creature); quest’ultimo stadio, che anche in Eriugena rappresenta il coronamento dell’ascesa conoscitiva, comporta il superamento della ragione umana, e costituisce il momento in cui si attua la deificazione.31 Eriugena, nel cap. 14 della Homilia, riprende soprattutto i due stadi della contemplazione naturale e teologica: Massimo negli Ambigua ad Iohannem (Amb. XVII) aveva intessuto un sistema di corrispondenze quaternarie fra le virtù, i quattro vangeli e i quattro elementi del mondo (aria, acqua, terra ed etere igneo), collocando il vangelo giovanneo, in quanto più speculativo ed elePer l’articolazione della conoscenza in Massimo cfr. Maxime le Confesseur, Questions à Thalassios, vol. 1, ed. J.-C. Larchet, F. Vinel (SC 529), Paris, 2010, introd., p. 56-81 31
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vato degli altri tre, in corrispondenza dell’etere celeste. Egli aveva infine fatto corrispondere ai quattro elementi e ai quattro vangeli quattro livelli via via più elevati di spiritualità: fede, azione, filosofia naturale e teologica.32 Eriugena opera su queste corrispondenze sostituendo ai quattro vangeli quattro livelli via via più profondi di comprensione della Scrittura: la terra corrisponde alla lettera del testo biblico, l’acqua al significato morale, l’aria alla contemplazione naturale (φυσική) e l’etere del cielo empireo alla theologia, nel senso stretto che le attribuiva Massimo, così che, concordando nuovamente con lui, secondo Eriugena Giovanni evangelista, raffigurato secondo il suo simbolo tradizionale come un’aquila spirituale, per grazia divina giunge al culmine della contemplazione umana. Il risultato dell’operazione svolta da Eriugena con questa ripresa è sostanzialmente identico sotto questo punto di vista, ma al tempo stesso mostra, più esplicitamente e sinteticamente di quanto non facesse la sua fonte, il rapporto di parallelismo fra le due vie, cioè fra la sfera naturale e quella scritturistica: il risultato eriugeniano, dovuto al parallelismo (si direbbe quasi intercambiabile) fra le due vie, è la possibilità di presentazione della Scrittura come un mondo, ossia come una sorta di suggestivo rovescio della più nota immagine del liber naturae.
Natura e uomo Nel pensiero teologico cristiano il tema antropologico assume una grande importanza e centralità in relazione a quello teologico. Ciò è dovuto a due idee correlate: la prima è che l’uomo, peccando, ha messo in moto il piano della salvezza e della redenzione; la seconda, determinante, è che questo piano si attua proprio attraverso l’assunzione della natura umana da parte della divinità, al fine di riscattarla dalla colpa originaria. 32 Nella traduzione di Eriugena: Aiunt autem et aliter symbolum esse sanctorum euaggeliorum quaternitatem fidei et actionis et naturalis et theologicae philosophiae (Maximi Confessoris Ambigua ad Iohannem iuxta Iohannis Scotti Eriugenae Latinam interpretationem – ed. É. Jeauneau, Turnhout, 1988 [CC SG 18], Amb. XVII, p. 139 r. 86).
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Per quanto riguarda Eriugena, nelle grandi linee il suo pensiero antropologico,33 pur rimanendo naturalmente debitore di Agostino, è significativamente influenzato dal De opificio hominis di Gregorio di Nissa, tradotto in latino da Eriugena stesso col titolo di De imagine. Eriugena, specialmente nel libro IV del Periphyseon, riprende da Gregorio l’idea che l’uomo, creato originariamente a immagine di Dio, cioè dotato di ogni bene in abbondanza dalla divinità, è stato diviso nei due sessi, maschio e femmina, a causa del peccato. Questo modo di riproduzione in comune con gli animali bruti, tuttavia, non gli è stato dato come punizione della sua colpa: al contrario, si tratta di una soluzione provvidenziale da parte della divinità, che nella sua onniscienza aveva previsto il peccato, al fine di dare all’essere umano un modo di propagazione della specie anche dopo il peccato, permettendogli così di giungere al compimento del numero di uomini prefissato nel piano divino. La visione presentata da Gregorio, pur compiangendo la miseria dell’uomo attuale preda del peccato, delle passioni e dell’animalità, presentava una visione fortemente ottimistica del ruolo dell’uomo all’interno del creato e della sua centralità: è in vista dell’uomo che è stata fatta la creazione, e l’uomo ne costituisce il padrone e il culmine a un tempo. Nell’Homilia e nel Commentarius eriugeniani viene riproposta questa idea della centralità dell’uomo all’interno del creato. L’uomo, in virtù delle sue due componenti, corpo e anima, riassume in sé tanto il mondo inferiore, quello dei corpi sensibili, quanto quello superiore delle potenze angeliche (Hom. 19). Come si legge nel Periphyseon (IV, 764A): “Perciò Dio ha voluto far esistere l’uomo nel genere degli animali, perché ha voluto creare in lui ogni natura”.34 Egli costituisce perciò un terzo “mondo” intermedio fra gli altri due nella gerarchia ontologica creata, e perciò gli si può applicare il nome di “mondo” (Hom. 18 e 19), ornatus in latino, resa del greco κόσμος (“cosmo”), che comprende in sé contemporane33 Per uno studio generale sull’antropologia eriugeniana, si v. W. Otten, The anthropology of Johannes Scottus Eriugena, Leiden – New York – København – Köln, 1991. 34 Propterea deus hominem in genere animalium uoluit substituere, quoniam in ipso omnem naturam uoluit creare.
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amente l’idea di ordine e di bellezza; oppure, con termine tratto da Massimo il Confessore, l’uomo viene definito (Hom. 19) una “officina” (ἐργαστήριον) di tutte le cose. Perciò Eriugena ritiene possibile interpretare, di nuovo in maniera sorprendente, alcuni riferimenti biblici al “mondo” come allusioni alla natura umana: così, nell’Homilia (cap. 13), il versetto giovanneo (Gv 8, 12) in cui Gesù dice di sé “io sono la luce del mondo” viene ripresa e ampliata in: “io sono la luce del mondo intelligibile, cioè della natura razionale e intellettuale”. Più avanti (cap. 18), nel versetto che dice che il Verbo “era nel mondo” (Gv 1, 10), accanto alla totalità creata Eriugena ravvisa un riferimento all’uomo. Si può anche citare un’interpretazione analoga (Hom. 19), dove il versetto del vangelo di Marco (16, 15) “predicate il vangelo a ogni creatura” viene inteso nel senso che “ogni creatura” è l’uomo, in quanto appunto raduna in sé le caratteristiche di tutte le creature (così anche ad esempio in Periph. II, 536A-B). In questi passi due idee tradizionali che accompagnano la riflessione antropologica antica, pagana e cristiana, vengono combinate in una sola: l’uomo come mondo in piccolo, o “microcosmo”, e l’uomo come “orizzonte” (μεθόριος), cioè intermediario, fra una dimensione inferiore e una dimensione superiore dell’essere (per questa ragione Eriugena, con una formulazione analoga alle due vie della teologia affermativa e negativa pseudodionisiana, dice nel Periphyseon – IV, 758B – che l’uomo al tempo stesso è e non è un animale). La posizione centrale e riassuntiva dell’intero creato assegnata all’uomo motiva, secondo Eriugena, la modalità di attuazione del processo di redenzione, ossia spiega anche perché è proprio la natura umana ad essere stata assunta dalla divinità. Sarebbe stato possibile, ad esempio, che Cristo si incarnasse nella natura angelica: ma siccome non tutte le caratteristiche umane (come ad esempio la corporeità) si trovano negli angeli (Periph. III, 733A-734B), Cristo, per ricondurre a Dio tutta la creazione, ha assunto su di sé la natura umana, nella quale tutti gli aspetti della creazione, spirituali e sensibili, sono compresenti: la sua incarnazione nell’uomo ha rivelato la divinità agli uomini e agli angeli (Hom. 11; Periph. V, 912B-913B). La ragione specificamente cristiana della dignità dell’uomo viene enunciata (e poi discussa nelle sue implicazioni) nel Periphy-
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seon (IV, 764C) in rapporto al tema della presenza del creato intero nell’uomo: “Perché poi abbia voluto creare in lui ogni natura, se vuoi il mio pensiero in merito, ti rispondo: perché ha voluto farlo a sua immagine e somiglianza, in modo che come il modello primo supera tutte le cose per l’eccellenza della sua essenza, così la sua immagine superasse tutte le creature per dignità e grazia”.35 Nel Commentarius Eriugena, interpretando il versetto “Dio infatti amò il mondo al punto da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16), mantiene la lettura secondo cui “mondo” va inteso nel senso di “uomo”. Ma la ragione di questa interpretazione non è più, come in precedenza, la posizione mediana dell’uomo fra creature inferiori e superiori, né (come aveva già detto Gregorio di Nissa, De opificio hominis XVI, 177D-180A) il fatto che il suo corpo sia composto dai quattro elementi (tutte le creature corporee lo sono, non soltanto l’uomo!). Ora, invece, l’uomo è un mondo perché Eriugena attribuisce a ornatus/cosmo il senso primario e più proprio di “ornamento”. Così, nell’interpretazione di Eriugena, Dio ha dato il suo Figlio unigenito per l’uomo, ornamento del creato in quanto fatto a immagine e somiglianza del suo creatore. La centralità e l’unicità dell’uomo nella creazione divina rendono quindi ragione dell’economia salvifica, ossia del piano voluto e attuato da Dio nei confronti dell’uomo. Questo piano consiste in una missione che parte dalla divinità (Cristo che si fa uomo) per trarre letteralmente in salvo l’umanità, riconducendola a Dio.
Uomo e Dio Si è già accennato sopra (“Natura e Scrittura”) al fatto che secondo Eriugena, il quale a sua volta riprende fonti greche come lo Pseudo-Dionigi e Massimo, è possibile all’uomo il superamento della propria natura così da venire deificato, cioè reso Dio. Tale 35 Cur autem in ipso omnem naturam uoluit creare, si a me quaeris, respondeo: Quia ad imaginem et similitudinem suam uoluit eum facere, ut quemadmodum principale exemplum superat omnia essentiae excellentia, ita imago eius superaret omnia creationis dignitate et gratia.
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possibilità è stata offerta all’uomo per grazia da parte della divinità, attraverso la discesa e la risalita di Cristo nella natura umana: con un movimento reciproco, Dio si è fatto uomo affinché l’uomo fosse fatto Dio. Questa dottrina era ben presente nel versante della tradizione patristica greca a cui Eriugena attinge, mentre era inusuale e poteva apparire audace ad un pubblico latino di età carolingia. Perciò Eriugena, quando introduce questo tema, presente sia nell’Homilia che nel Commentarius, si premura di evidenziarne la coerenza con i capisaldi della retta fede servendosi di un ragionamento a fortiori: se il miracolo più grande, ossia il farsi uomo della divinità, è già avvenuto, che cosa c’è da meravigliarsi se l’uomo viene trasformato in Dio (Hom. 21; Comm. I, 21)? E poiché nell’ottica di Eriugena l’uomo, come si è visto, riassume in sé tutto il creato, la sua deificazione è condizione del ritorno universale di tutte le creature in Dio: così, anche nel Periphyseon (V, 906C-907A), poiché l’intero creato è riassunto nell’uomo, esso risorgerà e compirà il ritorno in Dio insieme a lui. Questo ritorno (reditus, trattato estesamente nel V libro del Periphyseon) neoplatonicamente si configura come un ritorno degli effetti nelle loro cause e in generale come riunificazione, fino a che, per dirla con Dante, sia “legato… in un volume / ciò che per l’universo si squaderna” (Paradiso XXXIII, 86-87). Il ritorno della natura creata in Dio, come spiega il Periphyseon (V, 876A-B), avviene in cinque fasi, che consistono in un progressivo riassorbimento delle nature inferiori in quelle superiori: la prima fase consiste nella dissoluzione del corpo umano nei quattro elementi dopo la morte; la seconda nella resurrezione del corpo; la terza nella trasformazione del corpo in spirito; la quarta nella trasformazione dello spirito (e con esso di tutta la natura umana) nelle cause primordiali eternamente presenti in Dio; e infine la quinta nella trasformazione della natura stessa in Dio. Al tempo stesso, tuttavia, Eriugena precisa che la deificazione, ferma restando la riunificazione universale, è concessa specificamente agli eletti (Periph. V, 1020A-C). A proposito dell’ultimo stadio del ritorno, Eriugena fa il paragone dell’aria che, permeata dalla luce, sembra essersi trasformata in luce, malgrado non abbia perso la propria identità. Questo esempio ricompare poco oltre (V, 879A-B) assie-
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me a quello del ferro liquefatto dal fuoco, che sembra essere diventato fuoco a sua volta. Esso si trovava già nel I libro del Periphyseon (I, 449A-451B): Dunque, come tutta l’aria è luce, e tutto il ferro liquefatto, come abbiamo detto, è infuocato, anzi addirittura sembra fuoco, eppure le loro sostanze permangono, allo stesso modo bisogna intendere con sano intelletto che dopo la fine di questo mondo ogni natura, corporea o incorporea che sia, sembrerà essere soltanto Dio, pur permanendo l’integrità della natura, così che Dio, che è in sé incomprensibile, venga in qualche modo compreso nella creatura, e per parte sua la creatura venga per un miracolo indicibile trasformata in Dio.36
Eriugena riprende queste similitudini dagli Ambigua ad Iohannem di Massimo il Confessore. Esse sottendono il concetto, dapprima neoplatonico, poi adoperato in cristologia37 e ora rifunzionalizzato da Eriugena in contesto escatologico, di “unione inconfusa” (ἀσύγχυτος ἕνωσις), un dispositivo che serve appunto a spiegare come due nature che entrano in composizione possano divenire effettivamente una cosa sola senza perdere le rispettive identità.38 Questo concetto permette di spiegare la deificazione dell’uomo e del creato senza implicare il panteismo, ossia senza implicare che le creature divengano a tutti gli effetti Dio. L’unione inconfusa Periph. I, 451B: Sicut ergo totus aer lux, totumque ferrum liquefactum, ut diximus, igneum, immo etiam ignis apparet, manentibus tamen eorum substantiis, ita sano intellectu accipiendum quia post finem huius mundi omnis natura siue corporea siue incorporea solus deus esse uidebitur, naturae integritate permanente, ut et deus, qui per se ipsum incomprehensibilis est, in creatura quodam modo comprehendatur, ipsa uero creatura ineffabili miraculo in deum uertatur. 37 Cfr. Periph. V, 883A-884A, che fornisce esempi che mi sembrano definibili come unione inconfusa, fra cui lo Pseudo-Dionigi (I nomi divini II, 4), il quale per spiegare l’unione e la simultanea distinzione delle tre persone trinitarie faceva il paragone dell’unica luce di più lampade distinte presenti all’interno di una sala e, inversamente, di come la rimozione di una delle lampade sottragga precisamente la luce di quella lampada sola. 38 Sull’unione inconfusa, con riferimento alla tradizione degli esempi dell’aria luminosa e del ferro ignito, cfr. J. Pépin, ‘Stilla aquae modica multo infusa vino, ferrum ignitum, luce perfusus aer. L’origine de trois comparaisons familières à la théologie mystique médiévale’, in Miscellanea Andrea Combes, vol. 1, Roma, 1967, p. 331-375 (= id., “Ex Platonicorum Persona”. Études sur les lectures philosophiques de Saint Augustin, Amsterdam, 1977, p. 271-315). 36
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risponde così in Eriugena alla necessità di conciliare e superare due istanze contrapposte: da un lato la necessità di mantenere distinti creatore e creatura, dall’altro quella di giustificare l’effettiva realtà del ritorno e dell’unificazione di tutte le cose in Dio, trovando uno spazio concettuale all’interno dell’ortodossia in cui sia possibile mantenere il tema platonico dell’assimilazione dell’uomo alla divinità. La deificazione, tuttavia, non è prevista soltanto post mortem: essa, come indicato da Massimo il Confessore,39 può essere concessa già in questa vita ad alcuni personaggi di eccezionale santità, ad esempio patriarchi e apostoli: fra questi nel Periphyseon (V, 998C-999C e 897B-C) Eriugena menziona proprio quelli che figurano nei primi cinque capitoli della Homilia: Pietro, Paolo, Giovanni. In casi come i loro, si ha un’esperienza estatica, ossia un passaggio in Dio, metaforicamente definibile come “morte” (nel Periphyseon Eriugena discute il tema con riferimento al versetto di Sal 115, 15: “preziosa è agli occhi del Signore la morte dei suoi santi”). Tale passaggio consiste nella elevazione fino alla divinità, al di sopra di tutte le cose visibili e invisibili, grazie all’altezza della loro contemplazione. Si può notare in questa metafora della morte un’analogia con le negazioni eccellenti di origine neoplatonica di cui Eriugena ampiamente si serve: come la divinità è nulla in quanto al di sopra dell’essere, tenebra in quanto al di sopra della luce della conoscibilità, ignorante in quanto dotata di sapienza suprema, così il passaggio dei santi in Dio è morte in quanto superamento della normale esperienza umana. Il tema della metaforica morte come elevazione spirituale figura perciò, coerentemente con queste premesse, anche nel Commentarius (I, 32, riprendendo Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XLIII). La concezione della condizione beata come deificazione, dunque assimilazione a Dio, comporta una qualche forma di esperienza della divinità da parte del soggetto deificato. Ma che cosa vedono i deificati, ad esempio gli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni, menzionati tanto nel Periphyseon quanto nell’apertura dell’Homilia? Anche a proposito di questo tema della visione di Dio, come 39
Cfr. Maxime le Confesseur, Questions à Thalassios cit., introd., p. 73-81.
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di quello appena menzionato della deificazione, Eriugena deve far fronte a due istanze contrastanti. Da un lato infatti san Paolo ha promesso la futura visione di Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13, 12), e Giovanni ha dichiarato che Dio verrà conosciuto “così com’è” (1 Gv 3, 2). Dall’altro, lo stesso Giovanni asserisce che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1, 18); e, fatto decisivo, così la pensava anche lo Pseudo-Dionigi (si v. ad esempio La gerarchia celeste IV, 3), di cui Eriugena aveva abbracciato le tesi teologiche circa la totale trascendenza e inconoscibilità della natura divina. Eriugena individua la soluzione del problema nella nozione di “teofania”, cioè “manifestazione divina”40 (tema affrontato nel Periphyseon per la prima volta in I, 446A-448D): si tratta di manifestazioni create della divinità increata, la quale si dà quindi a conoscere in creature che ne costituiscono delle immagini (ad esempio quelle antropomorfe e teriomorfe che si leggono nella Bibbia). Il creato stesso è un’automanifestazione divina: vale a dire che la divinità trascendente, inconoscibile ed occulta si rende essere, diviene intelligibile e manifesta (Periph. III, 678C-679A). Le creature deificate, dunque, non vedranno Dio in sé e per sé, poiché supera le facoltà conoscitive di qualunque creatura, ma queste sue manifestazioni. Queste contemplazioni teofaniche sono graduate a seconda dei meriti, sulla base del versetto: “nella casa di mio padre ci sono molte dimore” (Gv 14, 2; cfr. Periph. V, 945C). In Periph. V, 926A-C e 945C-D, Eriugena spiega che l’oggetto della contemplazione da parte dei santi è la teofania “più prossima” della divinità, teofania nella quale consiste la promessa visione “faccia a faccia”, nonché il rapimento nelle nubi incontro a Dio (1 Tess 4, 17; cfr. anche Perih. V, 998B-C). Ma poiché la natura divina è infinita, come si è visto a proposito dell’infinità dei sensi della Scrittura, ciascun essere deificato riceverà una progressione di teofanie anch’essa infinita. Eriugena conosce l’idea dell’infinità del progresso nel bene da Gregorio di Nissa (De opificio hominis XXI), e la riprende nelle 40 Sulla nozione di teofania in Eriugena, cfr. ad es. T. Gregory, ‘Note sulla dottrina delle Teofanie in Giovanni Scoto Eriugena’, in Studi medievali, 4 (1963), p. 75-91; J. Trouillard, ‘La notion de «théophanie» chez Érigène’, in Manifestation et révélation – ed. S. Breton, D. Dubarle, Y. Ledure, J. Marello, X. Tilliette, J. Trouillard, Paris, 1976, p. 15-39.
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sue Expositiones in ierarchiam coelestem (VI, 3-81) riformulandola (in modo tuttavia per nulla alieno al pensiero di Gregorio) come infinità della ricerca di Dio da parte dell’uomo, e legandola alla dottrina delle teofanie. Quel brano riecheggia anche nel Periphyseon (V, 1010 C-D): Tu infatti passi sempre negli intelletti di coloro che ti cercano e che ti trovano. Sei infatti sempre cercato da loro, e sempre sei trovato e non trovato. Sei sempre trovato nelle tue teofanie, nelle quali, come in degli specchi, ti fai incontro in maniera molteplice alle menti di coloro che ti pensano nel modo in cui tu permetti di essere pensato: non che cosa sei, ma che cosa non sei e il fatto che sei. Non sei invece trovato nella tua sovraessenzialità, per la quale oltrepassi e superi ogni intelletto che vuole ascendere alla tua comprensione. Distribuisci dunque ai tuoi la tua presenza nel modo ineffabile della tua apparizione, ma li oltrepassi con l’incomprensibile sublimità e infinità della tua essenza.41
Questa, in sintesi, la soluzione prospettata anche nel Commentarius (I, 25), dove proprio a proposito di Gv 1, 18 (“Dio nessuno l’ha mai visto”) Eriugena espone i capisaldi appena visti della dottrina delle teofanie. Le indicazioni sommarie fin qui fornite consentono al lettore di congedarsi dalla presente introduzione e di accostarsi ai due testi eriugeniani presentati. All’inizio dell’Homilia, infatti, Eriugena descrive la deificazione di Giovanni evangelista come il volo di un’aquila spirituale (la metafora, come già si è accennato, deriva dal tradizionale simbolo di questo volatile per rappresentare Giovanni). Questo volo culmina nella visione della trinità, descritta dall’incipit del prologo giovanneo, a partire da “in principio era il Verbo” (Gv 1, 1-14), letto da Eriugena, in accordo con la tradizio41 Semper enim in intellectibus quaerentium et inuenientium te transitum facis. Quaereris enim ab eis semper, et semper inueniris et non inueniris. Semper inueniris quidem in tuis theophaniis, in quibus multipliciter, ueluti in quibusdam speculis, occurris mentibus intelligentium te eo modo quo te sinis intelligi, non quid es, sed quid non es et quia es. Non inueniris autem in tua superessentialitate, qua transis et exsuperas omnem intellectum uolentem et ascendentem comprehendere te. Ministras igitur tuis praesentiam tuam ineffabili quodam modo apparitionis tuae, transis ab eis incomprehensibili excelsitudine et infinitate essentiae tuae.
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ne esegetica precedente, come riferimento alla presenza del Figlio nel Padre e come affermazione della pari divinità della natura di entrambi. Eriugena, in queste pagine dell’Homilia che sono fra le sue più belle anche dal punto di vista letterario, istituisce quindi un confronto fra la visione di Dio concessa per grazia a Giovanni e quella concessa da un lato a Pietro quando disse: “tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo” (Mt 16, 16), dall’altro a Paolo, rapito al terzo cielo (2 Cor 12, 2-4). L’evangelista, tuttavia, ha ricevuto in grazia una contemplazione più elevata degli altri due apostoli, in quanto è arrivato alla contemplazione del mistero trinitario stesso. Infatti, come emerge dal Periphyseon (V, 887C-D), a proposito del versetto Mc 13, 31 (“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”), le “parole” imperiture udite da Paolo vengono identificate da Eriugena con le cause presenti nel Verbo. Dunque la sua ascesa perviene alle cause eterne create nel Verbo, ma non alla divinità in sé, come accade per Giovanni, la cui contemplazione viene esaltata come superiore a quella di Paolo nel cap. 4 della Homilia: Giovanni non solo ha inteso la Parola, ossia il Verbo, ma a differenza di Paolo ha anche potuto metterla per iscritto nel prologo del suo vangelo.42 Pietro, da parte sua, ha saputo riconoscere in Gesù in carne ed ossa il Cristo, cogliendo il mistero della sua incarnazione: Giovanni gli è comunque superiore, perché ha colto il Figlio di Dio nella sua sola divinità, eternamente generato dal Padre e a lui coessenziale (Hom. 3); per la stessa ragione possiamo presumere che Giovanni evangelista agli occhi di Eriugena sia superiore anche a Giovanni Battista, che ancora nel grembo di sua madre ha riconosciuto Cristo incarnato (Hom. 16). La sublimità della contemplazione dell’evangelista Giovanni è tale che il lettore è indotto a chiedersi se, contemplando grazie al suo volo intelligibile il mistero trinitario, egli non sia giunto alla contemplazione della natura divina così com’è in sé, “bucando” il diaframma delle teofanie, o superandolo con balzo ineguagliabile. 42 In Periph. V, 982A-B, tuttavia, il punto d’arrivo dell’elevazione di san Paolo al terzo cielo viene identificato con il Verbo. Malgrado l’apparente discrepanza, i due brani forse non sono inconciliabili, se si pensa che è appunto nel Verbo che sono create le cause.
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In tal caso l’inserimento di una possibilità del genere all’interno della concettualità fin qui esposta circa la deificazione e le teofanie risulterebbe problematica. Eppure, si tratta forse invece non di un superamento delle teofanie, bensì di una “esponenziale realizzazione” (A. Cavallini)43 della manifestazione teofanica. Vale a dire che l’automanifestazione di Dio, prima di procedere nel creato, dunque all’esterno della natura divina, si dispiega internamente alla divinità; e questo dispiegarsi non è altro che l’interna articolazione trinitaria della divinità cristiana, cioè la generazione del Figlio dal Padre e la processione dello Spirito Santo.44 L’evangelista sarebbe dunque giunto al culmine della manifestazione divina accessibile all’uomo deificato, contemplandone non più una teofania creata, ma una interna alla divinità stessa. Dalla trinità, infine, il volo dell’aquila ridiscende nella “valle della storia” (Hom. 14), e l’uomo Giovanni inizia a scrivere il suo vangelo, vergandolo con penna di pavone: al lettore non resta a questo punto altro che osservarne i variopinti riflessi colti dal suo omonimo irlandese.
Avvertenza La presente traduzione italiana dell’Homilia e del Commentarius si basa sulla più recente edizione critica di queste due opere curata da Édouard Jeauneau (Iohannis Scotti seu Eriugenae Homilia super «In principio erat uerbum» et Commentarius in euangelium Iohannis – ed. É. A. Jeauneau, A. J. Hicks, Brepols, Turnhout, 2008 [CC CM 166]). Anche le note di commento qui proposte hanno un enorme debito con le due edizioni curate da Jeauneau, ineguagliate per ricchezza di documentazione e di ricerca svolta sulle fonti. Per la Homilia, il lettore italiano potrà inoltre servirsi di una valida edizione curata da Marta Cristiani, con testo a 43 A. Cavallini, La penna del pavone. Bibbia ed esegesi in Giovanni Scoto Eriugena, Roma, 2016, p. 140. 44 Così W. Beierwaltes, il quale ravvisa cenni di questa concezione anche nello Pseudo-Dionigi: Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, Milano, 1998, p. 231-290.
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fronte, introduzione e commento (Giovanni Scoto, Il Prologo di Giovanni – ed. M. Cristiani [Scrittori greci e latini], Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano, 1987), basata tuttavia sul testo della prima edizione critica di Jeauneau. Non si è voluto qui riprodurre inutilmente in toto i contenuti offerti da questi lavori: a quelle edizioni è opportuno continuare a rinviare chiunque voglia approfondire queste due opere eriugeniane a scopo di studio o di ricerca. Con la presente edizione si è semplicemente tentato da un lato di mettere a disposizione per la prima volta al lettore italiano il testo del Commentarius, dall’altro di affiancarlo a una nuova traduzione della Homilia, basata sul nuovo testo critico, al fine di evidenziare prospettive e temi comuni fra le due opere; infine, si è tentato di inserire nelle note di commento qui fornite, accanto alle tante informazioni già segnalate dalle edizioni sopra menzionate, alcuni spunti interpretativi tratti dagli studi eriugeniani che è parso proficuo tenere presente in sede di commento come accompagnamento alla lettura di questi due testi. Questa introduzione, a sua volta, non ha la pretesa di esaurire i temi trattati nell’Homilia e nel Commentarius, ma soltanto di fornirne un primo inquadramento informativo a carattere storico e un orientamento indicativo per la loro lettura: pertanto l’esposizione è stata resa il più possibile lineare, lasciando alle note di commento il compito di dettagliare e documentare meglio quanto fin qui detto. Per quanto riguarda le note di commento, nel caso dell’Homilia, a causa della loro estensione che avrebbe appesantito il piè di pagina, esse sono state divise in note sintetiche a piè di pagina (contenenti i riferimenti di più immediata consultazione: le fonti non bibliche, rinvii ad altre opere eriugeniane, brevi chiarimenti di alcune rese italiane adottate) e in note poste dopo ogni capitolo per tutte le altre osservazioni sul testo. La numerazione è stata diversificata per le due tipologie di note (alfabetica per il piè di pagina, numerica per le note posposte). Tale distinzione non si è invece resa necessaria per il Commentarius, che conserva pertanto tutte le note a piè di pagina con la sola numerazione alfabetica. Infine, sempre relativamente al Commentarius sono stati segnalati in nota i passi del testo (presenti in special modo nel libro VI)
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che nel ms. Laon, Bibliothèque municipale 81 costituiscono note autografe effettuate dalla mano i1 di Eriugena, dove queste non si limitino alla correzione di una o poche lettere, ma consistano in aggiunte più estese. Desidero da ultimo esprimere un sentito ringraziamento alla professoressa Rossana Guglielmetti, responsabile della collana Corpus Christianorum in Translation in lingua italiana, che ha seguito con attenzione e con pazienza tutte le fasi del lavoro, rivedendolo e fornendomi utili correzioni e consigli sia nel merito dei testi eriugeniani sia in vista della loro pubblicazione.
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BIBLIOGRAFIA
Tavola delle abbreviazioni usate CC CM CC SG CC SL CSEL MGH PG PL SC
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Giovanni Scoto Eriugena Omelia
SECONDO GIOVANNI
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In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio, ecc. (Gv 1, 1)
OMELIA DEL BEATO GIOVANNI L’IRLANDESE
1. La voce dell’aquila spiritualea 1 risuona all’orecchio della Chiesa. Il senso esteriore ne accolga il suono effimero, l’animo interiore ne penetri il significato eterno. Voce del volatile che vola alto, che si innalza non al di sopra dell’aria corporea o dell’etere o dei confini dell’intero mondo sensibile,2 ma che trascende ogni contemplazione,b al di là di tutte le cose che sono e che non sono,3 con le ali rapide della più recondita teologia, con lo sguardo della contemplazione chiarissima e superna. Chiamo “cose che sono” quelle che non sfuggono del tutto alla comprensione umana o angelica; chiamo invece “cose che non sono” quelle che lasciano indietro completamente le forze di ogni intelligenza, sebbene siano dopo Dio4 e non escano dal numero delle cose create dall’unica causa del tutto.5 Il santo teologo Giovanni vola quindi al di sopra non solo delle cose che si possono comprendere con l’intelletto e dire, ma si eleva ancora più in alto, verso quelle cose che superano ogni intelletto ed espressione, e con ineffabile volo della mente si innalAgostino, In Iohannis euangelium, XXXVI, 1. “Contemplazione” rende qui il latino theoria, traslitterazione del greco θεωρία, vocabolo di uso frequente presso lo Pseudo-Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore; altrove tradotto da Eriugena con speculatio o con contemplatio, questo termine nei suoi scritti designa normalmente l’interpretazione teologica della lettera del testo biblico, oppure, in un senso più generale e più calzante relativamente a questo brano, l’atteggiamento dell’intelletto che ricerca la conoscenza di realtà superiori (una definizione simile si trova in Periph. III, 624A). a
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za al di fuori di tutte le cose verso gli arcani dell’unico principio del tutto; e conoscendo in modo puro6 del principio stesso e del Verbo, cioè del Padre e del Figlio, sia l’incomprensibile unita sovraessenzialità, sia l’incomprensibile sovrasostanzialità distinta, incomincia il suo vangelo dicendo: In principio era il Verbo. Note di commento 1. Nella tradizione cristiana antica e medievale, il simbolo dell’aquila per indicare l’evangelista Giovanni nasce dalla descrizione dei quattro animali dell’Apocalisse (4, 6-8), il primo simile a un leone, il secondo a un vitello, il terzo a un uomo e il quarto a un’aquila, tradizionalmente associati nell’ordine a Marco, Luca, Matteo e appunto Giovanni: essi a loro volta riprendono i quattro animali alati e dotati di molti occhi descritti nel libro di Ezechiele (1, 5-21). In particolare Agostino, il cui commento al vangelo di Giovanni costituisce una delle fonti per l’esegesi fornita da Eriugena nella presente omelia e nel Commentarius, ritiene l’evangelista “Non a torto paragonato a un’aquila secondo il senso spirituale” (non immerito secundum intelligentiam spiritalem aquilae comparatus: In Iohannis euangelium, XXXVI, 1, citato alla n. a). 2. Nel Periphyseon (II, 549 B-C) viene fornita la descrizione cosmologica necessaria alla visualizzazione del volo dell’aquila: fra la terra, centro del cosmo, e il cielo più esterno (quello delle stelle fisse), il cielo sublunare è occupato dall’aria, mentre lo spazio fra la luna e il cielo delle stelle fisse è occupato dall’etere. 3. Queste nozioni eriugeniane trovano riscontro nel lessico scritturistico della Vulgata, là dove l’Epistola ai Romani di Paolo (4, 17) recita: “e chiama le cose che non sono come le cose che sono” (et uocat ea quae non sunt tamquam ea quae sunt). 4. L’espressione “dopo Dio” (post deum) ricalca quella greca (τὰ μετὰ θεόν) spesso impiegata da Massimo il Confessore negli Ambigua ad Iohannem per indicare le cose create. 5. Per la nozione di “cose che sono” e “cose che non sono” cfr. Periphyseon I, 443A-446A, dove Eriugena, dopo aver definito nell’incipit dell’opera (I, 441A) la nozione più generale di natura come insieme delle cose che sono e che non sono, distingue cinque sensi di questa divisione generalissima della natura. Il primo è quello per cui si dice non-essere ciò che trascende assolutamente le capacità intellettive delle creature, ossia Dio e le cause primordiali presenti nel suo Verbo. Il secondo, derivato dallo Pseudo-Dionigi, considerando la gerarchia ver-
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ticale delle creature intelligenti (ordini angelici e uomini), indica come “essere” la conoscibilità della creatura inferiore da parte di quella superiore, e inversamente come “non-essere” l’inconoscibilità del superiore da parte dell’inferiore. Il terzo senso è quello per cui l’essere consiste nelle cose sensibili, soggette a generazione e corruzione, mentre i paradigmi eterni delle cose sensibili, ossia le cause primordiali presenti nel Verbo, sono non-essere, da intendersi nel senso eccellente del neoplatonismo, ossia come realtà superiori all’essere. Si tratta di una curiosa inversione terminologica del principio platonico per cui è l’essere ideale il vero essere – l’essere in senso forte – e le cose sensibili, in quanto loro copie, non “sono” propriamente: questo principio viene tuttavia espresso come quarto senso della suddivisione eriugeniana (è il modo secundum philosophos), convivendo col senso precedente e, si direbbe, fungendo da suo complementare. Il quinto e ultimo modo della divisione è quello “antropologico”, per cui si dice non-essere l’uomo degradato dal peccato originale, in rapporto all’uomo redento che torna ad essere. Nel passo dell’Homilia qui in esame, l’opposizione essere/non-essere andrà intesa nel primo senso enunciato dal Periphyseon: le “cose che non sono”, che come Dio trascendono ogni capacità intellettiva e che tuttavia appartengono al novero delle cose create e dunque vengono “dopo di lui”, devono perciò essere le cause primordiali, esistenti in Dio, ma create (esse costituiscono la natura creata et creans, come enunciato chiaramente all’inizio del Periphyseon). Tale prima accezione della distinzione fra le cose che sono e che non sono è richiamata in termini assai simili a quelli dell’Homilia anche in Periph. III, 630B-C: “le cause primordiali, poste intorno e dopo l’unico principio” (primordiales causae, circa et post unum principium constitutae); e in Periph. V, 907B: “tutte le cose che sono e che non sono (cioè che soggiacciono al senso e all’intelletto, e che superano ogni senso e intelletto eppure sono dopo Dio e, per adoperare le parole di san Dionigi Areopagita, ruotano intorno a Dio)” (… omnia quae sunt et quae non sunt (hoc est quae sensui et intellectui succumbunt, et quae sensum omnem et intellectum superant et tamen post deum et, ut uerba sancti Dionysii Ariopagitae utar, circa deum uoluuntur)). Così secondo l’interpretazione di Marta Cristiani nel commento ad loc. (p. 78). Jeauneau invece, nella sua prima edizione dell’Homilia (SC 151, Paris, 1969, p. 204-205, n. 1 e 2) aveva preferito, sulla scorta di Félix Ravaisson (Rapports au ministre de l’instruction publique sur les bibliothèques des départements de l’Ouest, suivis de pièces inédites, Paris, 1841, p. 334), una lezione non supportata dalla tradizione manoscritta. Il testo trasmesso, su cui si basa anche la presente tradu-
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OMELIA, 1
zione, è il seguente: Dico autem quae sunt, quae siue humanum siue angelicum non omnino fugiunt sensum; quae uero non sunt, quae profecto omnis intelligentiae uires relinquunt, cum post deum sint et eorum numerum quae ab una omnium causa condita sunt non excedant. Ravaisson, e con lui l’ed. Jeauneau del 1969, sposta la pericope quae uero non sunt… uires relinquunt dopo non excedant. Ne risulta l’interpretazione dell’opposizione fra “cose che non sono” e “cose che sono” in questo passo dell’Homilia come riferita, più banalmente, all’opposizione fra Dio e le creature. Successivamente, nell’edizione del Commentarius di Eriugena al vangelo di Giovanni (p. 187-188 n. 15) e poi nella nuova edizione del testo latino su cui si basa la presente traduzione (CC CM 166, Turnhout, 2008, p. 4), Jeauneau ha preferito il ritorno alla lezione della tradizione manoscritta, interpretando perciò anch’egli le “cose che non sono” dell’Homilia come le cause primordiali. 6. Stante l’interpretazione da assegnare alla “cose che sono” e “che non sono” individuata qui sopra nella n. 5, ossia rispettivamente le creature e le cause primordiali, che si trovano in Dio ma sono create, il volo dell’evangelista Giovanni si configura come il superamento intellettuale di tutto ciò che è inferiore a Dio e da lui derivato, per cogliere in modo immediato la natura divina stessa. Questa conoscenza della divinità viene caratterizzata perciò come diretta e “pura” (pure dinoscens). Questo pone, tuttavia, un problema affascinante e centrale per la comprensione dell’opera di Eriugena: nella sua costruzione teologica, infatti, la conoscenza immediata, appunto “pura”, della divinità non è possibile. La promessa paolina della visione di Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13, 12), e quella di Giovanni secondo cui Dio verrà conosciuto “così com’è” (1 Gv 3, 2) si scontrano con l’affermazione evangelica secondo cui non è possibile vedere Dio (Gv 1, 18) e con la concezione della trascendenza divina e della sua conseguente inconoscibilità elaborata dai neoplatonici cristiani, specie lo Pseudo-Dionigi (si v. ad es. De caelesti hierarchia IV, 3). Nel pensiero di Eriugena, perciò, viene elaborata una soluzione che tenta di conciliare le due istanze: la divinità non creata si dà a conoscere solamente attraverso le sue manifestazioni create, le “teofanie” (oltre a Commentarius I, 25, cfr. Periph. I, 446A-448D; V, 905B; 926A-C; 945C-D; 998B-C), nella cui infinita progressione consiste la visione di Dio (Expositiones in ierarchiam coelestem VI, 3-81, dove l’idea della progressione infinita, fondata sull’infinità della natura divina, è tratta da Gregorio di Nissa, De opificio hominis XXI; cfr. anche Periph. V, 1010 C-D). Sulla dottrina delle teofanie in Eriugena cfr. T. Gregory, ‘Note sulla dottrina delle Teofanie in Giovanni Scoto
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Eriugena’, in Studi medievali, 4 (1963), 75-91; J. Trouillard, ‘La notion de «théophanie» chez Érigène’, in Manifestation et révélation – ed. S. Breton, D. Dubarle, Y. Ledure, J. Marello, X. Tilliette, J. Trouillard, Paris, 1976, p. 15-39. La visione di Dio in cui culmina il volo dell’evangelista Giovanni qui nel testo dell’Homilia, in quanto perviene alla conoscenza pura della natura divina, potrebbe comportare un superamento della dottrina delle teofanie in favore di una visione immediata della divinità (cfr. anche qui sotto, al cap. 2 dell’Homilia, dove compare in riferimento alla contemplazione l’immagine del “vedere il volto della verità” – ueritatis perspexerit uultum – che sembra alludere alla visione paolina “faccia a faccia”). Alternativamente, si può pensare, con Beierwaltes (Eriugena. I fondamenti del suo pensiero [Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi, 13], Milano, 1998, p. 231-290), seguito recentemente da A. Cavallini (La penna del pavone. Bibbia ed esegesi in Giovanni Scoto Eriugena [Fundamentis novis], Roma, 2016, p. 140), che l’evangelista abbia superato soltanto le manifestazioni teofaniche esterne alla divinità e consistenti nelle cose create, penetrando all’interno del mistero trinitario, dove i rapporti trinitari (generazione del Figlio e processione dello Spirito Santo) costituirebbero a loro volta una sorta di teofania “più intima”, ossia un’automanifestazione della divinità ancora interna alla natura divina stessa, anteriormente alla sua processione nel creato e dunque nelle sue teofanie successive.
2. O santo Giovanni, giustamente sei chiamato Giovanni! “Giovanni” è un nome ebraico, la cui traduzione in greco è ΩΙ ΕΧΑΡΙϚΑΤΟ,a in latino “colui che ha ricevuto un dono”.b 1 Infatti, a chi fra i teologi è stato donato ciò che è stato donato a te, ossia di penetrare i misteri nascosti del sommo Bene e di comunicare alle menti e ai sensi degli uomini le cose che ti sono state rivelate e mostrate? Dimmi, a chi è stata donata una grazia così grande? Forse qualcuno dirà: “Alla vetta somma degli apostoli”; intendo dire a Pietroc 2 che, al Signore che gli domandava chi credeva che Egli F. Wutz, Onomastica sacra [t. 41], p. 702, 705-706, 716, 733. Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum (ed. de Lagarde, p. 76, 19). c Pseudo-Dionigi, De diuinis nominibus, III, 2 (cfr. Eriugena, Versio Dionysii, PL 122, 1127D: Petrus uertex et honorabilissima theologorum summitas); Massimo il a
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fosse, rispose: Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo (Mt 16, 16). Ma uno potrebbe argomentare, e non avventatamente a mio giudizio, che Pietro disse tali cose come figura della fede e dell’azione più che della scienza e della contemplazione. Perché? Perché Pietro è posto come modello dell’azione e della fede, mentre Giovanni fa da figura della contemplazione e della scienza.a L’uno riposava sul petto del Signore (Gv 13, 23-25), il che indica il mistero della contemplazione; l’altro esitava spesso (Mt 14, 28-31; 26, 69-75), a significare l’incertezza dell’azione. Infatti, la messa in atto dei precetti divini, prima di diventare disposizione stabile, a volte distingue le forme pure delle virtù, mentre altre volte il suo giudizio s’inganna, oscurato dalle nebbie dei pensieri carnali. Invece, la vista acuta della contemplazione più recondita, dopo aver scorto una sola volta il volto della verità, in nessun modo ne è più respinta, mai non s’inganna, non è più accecata da alcuna caligine in eterno. Note di commento 1. La nozione greca di χάρις, “grazia”, si lega nel pensiero eriugeniano a quella di “dono”, in base alla distinzione fra datum (“dato”), dono di natura, e donum (“dono”), ricevuto per grazia (cfr. in merito Commentarius III, 9); alla categoria di donum appartiene anche la divinizzazione ricevuta da Giovanni, il cui nome è perciò significativo e corrispondente alla figura di questo evangelista. 2. Vale la pena approfondire i riferimenti alle fonti forniti sopra (n. c). Pietro è definito in modo simile dallo Pseudo-Dionigi (ἡ κορυφαία καὶ πρεσβυτάτη τῶν θεολόγων ἀκρότης, “la più alta e la più venerabile vetta dei teologi”: De diuinis nominibus, III, 2; nella trad. di Eriugena Petrus uertex et honorabilissima theologorum summitas: PL 122, 1127D) e da Massimo il Confessore (ἡ κορυφὴ τῶν ἀποστόλων, reso da Eriugena con Petrus uertex apostolorum: Quaestiones ad Thalassium LXI, 272-273; CC SG 22, p. 100-101). Lo stesso appellativo riservato a Pietro si trova in Periph. V, 892B e soprattutto V, 897B-C, in un contesto che corrisponde appieno a quello dell’Homilia, in quanto vi si parla della possiConfessore, Quaestiones ad Thalassium LXI, 272-273; CC SG 22, p. 100-101); Eriugena, Periphyseon V, 892B e 897B-C. a Agostino, In Iohannis euangelium CXXIV, 5-7; Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LIII (CC SG 18, p. 233-234); Quaestiones ad Thalassium III, 23-24 (CC SG 7, p. 54-55).
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bilità di deificazione già in vita per figure di eccezionale santità (evangelisti e patriarchi), deificazione definita come una metaforica “morte” (per i restanti eletti essa avrà luogo solo nella vita futura: cfr. Periph. V, 998C-999C, dove pure vengono fatti i medesimi esempi di Pietro e di Paolo, che qui nell’Homilia comparirà al cap. 4): “Forse che Pietro, quella celebre vetta degli apostoli, era morto a ogni creatura e passò in Dio quando, al Signore che gli domandava chi diceva che Lui fosse, rispose: ‘Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo’? Forse che, in modo simile, Giovanni evangelista è defunto a tutte le cose che sono, superandole tutte con l’altezza della contemplazione e gridando: ‘In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio’, e tutta la sua mirabile e ineffabile contemplazione di teologo? Ascolta l’Apostolo, ancora trattenuto dal corpo mortale, che tuttavia, morto e crocifisso, afferma: ‘Il mondo è stato crocifisso a me, e io al mondo’. Questa è la morte dei santi che passano in Dio stesso per la virtù della contemplazione, e che deificati superano tutte le cose che sono e se stessi per l’altezza della grazia divina” (Num et Petrus, ille apostolorum uertex, mortuus erat omni creaturae et transiuit in deum, quando domino interroganti quem se esse diceret respondit: “Tu es Christus filius dei uiui”? Num similiter Iohannes euangelista omnibus quae facta sunt defunctus est, altitudine theoriae cuncta superans et clamans: “In principio erat uerbum, et uerbum erat apud deum, et deus erat uerbum”, totaque ipsius mirabilis et ineffabilis theologi theoria? Audi Apostolum adhuc mortali corpore detentum, mortuum tamen se et crucifixum pronuntiantem: “Mihi mundus crucifixus est”, inquit, “et ego mundo”. Talis itaque est interitus sanctorum contemplationis uirtute in ipsum deum transeuntium et omnia quae sunt et se ipsos deificati altitudine diuinae gratiae superantium).
3. Entrambi gli apostoli, tuttavia, corrono al sepolcro (Gv 20, 3-8). Il sepolcro di Cristo è la divina Scrittura, nella quale i misteri della sua divinità e della sua umanità vengono protetti dalla densità della lettera come da una pietra.1 Ma Giovanni nella corsa arrivò prima di Pietro: è perché la virtù della contemplazione, del tutto purificata, penetra gli intimi segreti della parola di Dio in modo più acuto e veloce della virtù dell’azione che deve ancora purificarsi. Eppure, è Pietro che entra nel sepolcro per primo, Giovanni solo dopo. E così entrambi corrono, entrambi entrano. Pietro è simbolo della fede, Giovanni significa l’intelletto. E perciò, dal
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momento che è scritto: Non capirete, se prima non crederete (Is 7, 9), necessariamente la fede viene prima nell’entrare nel sepolcro della sacra Scrittura, poi seguendola vi entra l’intelletto, al quale l’ingresso è preparato dalla fede.a Certo Pietro volò altissimo, riconoscendo Cristo Dio quand’era già fatto uomo nel tempo e dicendo: Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo; ma più alto volò quello che comprese con l’intelletto che lo stesso Cristo era Dio, generato da Dio prima di tutti i tempi, dicendo: In principio era il Verbo. Nessuno creda che noi anteponiamo Giovanni a Pietro. Chi mai lo farebbe? Chi fra gli apostoli potrebbe essere più alto di quello che vien detto ed è loro vetta? Noi non anteponiamo Giovanni a Pietro, ma confrontiamo la contemplazione con l’azione, l’animo perfettamente purificato con quello ancora da purificare, la virtù che è già pervenuta ad una disposizione stabile con quella che ancora sta progredendo. In questo momento, infatti, non stiamo esaminando la dignità delle persone apostoliche, ma investighiamo la bellissima differenza dei misteri divini.2 Pietro, dunque, cioè l’azione che si esercita nelle virtù, vede il figlio di Dio circoscritto in modo meraviglioso e ineffabile dalla carne per mezzo della virtù della fede e dell’azione. Giovanni, invece, cioè l’altissima contemplazione della verità, ammira il Verbo di Dio di per sé, prima dell’incarnazione, assoluto e infinito nel suo principio, cioè nel Padre suo. Pietro, introdotto dalla rivelazione divina, vede le cose eterne e temporali a un tempo, rese una cosa sola in Cristo. Giovanni, di Lui, porta alla conoscenza delle anime fedeli le sole cose eterne. Note di commento 1. Jeauneau (ed. Turnhout, 2006, CC CM 166, p. 6) dichiara di non aver individuato precedenti per l’esegesi del sepolcro come sacra Scrittura, e ritiene perciò che si tratti di una novità eriugeniana. Per spiegare la genesi di un’immagine del genere, ha proposto (ed. 1969, p. 213 n. 4) che essa derivi dall’espressione “il Logos si ispessisce” (ὁ λόγος παχύνεται) di Gregorio di Nazianzo (Or. 38, 2), citata da Massimo il Confessore (Ambigua XXIX) e per suo tramite anche da Eriugena nel Periphyseon (V, 1005B-C) e nel Commentarius (I, 29). a
Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LIII.
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2. Eriugena, che riprende l’esegesi di Massimo il Confessore (Ambigua ad Iohannem LIII, citato qui sopra, n. a), vi aggiunge però la riflessione sui rapporti tra fede e azione da un lato e intelletto e contemplazione dall’altro: il primo polo di questo rapporto, pur essendo di dignità inferiore quanto alla penetrazione dei misteri divini, è propedeutico e necessario al secondo, ossia a una retta comprensione del dato di fede accettato. La fede, in questa prospettiva debitrice del pensiero di Agostino, si configura come punto di partenza per la comprensione razionale: cfr. ad es. Periph. I, 516C (Nil enim aliud est fides, ut opinor, nisi principium quoddam, ex quo cognitio creatoris in natura rationabili fieri incipit, “la fede infatti, a quanto ritengo, non è altro che un inizio dal quale nella creatura razionale incomincia ad aversi la conoscenza del creatore”). Il confronto tra fede ed azione, simboleggiate da Pietro, e intelletto e contemplazione, simboleggiati da Giovanni, si conclude qui evidentemente in favore del secondo polo (con l’affermazione della superiorità del prologo giovanneo sulla frase di Pietro riportata a Mt 16, 16 e qui sopra ai cap. 2 e 3 dell’Homilia). L’ulteriore argomento che ora motiva la superiorità del secondo polo rispetto al primo si appella alla nozione di purificazione. Questo rende chiara anche la struttura concettuale che sorregge la descrizione dei rapporti fra i due poli: si tratta dello schema ascendente delle funzioni gerarchiche che Eriugena riprende dallo Pseudo-Dionigi, scandito dalle funzioni purgare, illuminare, perficere (“purificare, illuminare, perfezionare”), che conducono all’assimilazione a Dio, cioè al fine di ogni gerarchia. Alla prima funzione corrispondono la fede e l’azione; alla seconda, la scientia; alla terza, la sapientia. Cfr. Expositiones III, 293-385; VII, 2-3 per la descrizione di queste funzioni; Periph. II, 574A e V, 981A per contesti che esemplificano la loro gradazione ascendente.
4. Dunque il volatile spirituale, dal rapido volo, che vede Dio – insomma, il teologo Giovanni – supera ogni creatura visibile e invisibile, vola attraverso ogni intelletto, e deificato entra in Dio che lo deifica.1 Oh, san Paolo, sei stato rapito, come tu stesso racconti, al terzo cielo (2 Cor 12, 2-4),2 ma non sei stato rapito al di là di ogni cielo! Sei stato rapito in paradiso, ma non al di sopra di ogni paradiso! Giovanni travalica ogni cielo e ogni paradiso creati, cioè ogni natura umana e angelica.3 Nel terzo cielo, o vaso d’elezione e maestro dei gentili (At 9, 15; 1 Tm 2, 7; 2 Tm 1, 11), hai
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udito parole ineffabili che all’uomo non è lecito dire. Giovanni, scrutatore della verità più riposta, oltre ogni cielo, nel paradiso dei paradisi, cioè nella causa di tutte le cose, ha udito l’unica Parolaa per mezzo della quale tutte le cose sono state create, e gli è stato permesso dire quella Parola e predicarla agli uomini, nella misura in cui è possibile predicarla agli uomini, e proclama con sicurezza: In principio era il Verbo.4 Note di commento 1. Viene qui fatta la prima menzione dell’importante nozione di deificazione (θέωσις/deificatio), nell’Homilia sviluppata per lo più poco sotto, nel cap. 5. Il termine θέωσις risale allo Pseudo-Dionigi, ma il concetto ad esso sotteso, ossia la possibilità dell’intelletto finito di trascendere se stesso ricongiungendosi all’infinità del primo principio, era ben presente nella patristica greca. Tale dottrina era invece per lo più sconosciuta ai Padri latini: perciò vediamo Eriugena introdurla con una certa circospezione nel Commentarius (I, 21). 2. L’interpretazione eriugeniana del terzo cielo a cui ascese san Paolo è debitrice da vicino di quella fornita da Massimo il Confessore nell’Ambiguum XVI (numerazione secondo l’ed. CC SG 18, p. 134), 1240B-C: “Il ‘terzo cielo’ io penso per congettura che siano i confini che delimitano la filosofia attiva e la contemplazione naturale e gli altissimi ragionamenti della mistagogia teologica, o anche i loro limiti, perché è una specie di misura del comprendere la virtù e la natura e la teologia che riguarda la virtù e la natura, e Dio applica tale misura in modo naturale secondo l’analogia a ciascuna cosa: fu in quei confini e in quei limiti che si trovò il beato Apostolo […]. O ancora, forse la Scrittura dice che il ‘terzo cielo’ sono i tre ordini dei santi angeli che sono sopra di noi, verso l’alto, collegati tra di loro, ai quali giunse forse il santo Paolo…” (trad. it. in: Massimo il Confessore, Ambigua. Problemi metafisici e teologici su testi di Gregorio di Nazianzo e Dionigi Areopagita – ed. C. Moreschini [Il pensiero occidentale], Milano, 20142 [2003], p. 381). La prima interpretazione offerta da Massimo sembra quella più coerente con il contesto dell’Homilia; ma anche la seconda interpretazione viene recuperata da Eriugena nei versi da lui premessi alla sua traduzione del Il latino originale ha uerbum: la resa “Parola” è stata scelta qui per esplicitare in traduzione la contrapposizione fra le parole udite da Paolo e la Parola, cioè Cristo Verbo, udita da Giovanni. a
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De caelesti hierarchia dello Pseudo-Dionigi (PL 122, 1038A-B). Inoltre, nel Periphyseon (V, 887C-D) Eriugena, discutendo Mc 13, 31 (“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”), identifica le “parole” imperiture con le cause presenti nel Verbo. Queste sono le parole udite da san Paolo. La sua ascesa perviene quindi alle cause eterne create nel Verbo, ma non al mistero trinitario divino stesso come accade per Giovanni. In Periph. V, 982A-B, tuttavia, il punto d’arrivo dell’elevazione di san Paolo al terzo cielo viene identificato con il Verbo: malgrado l’apparente discrepanza, i due brani non sono inconciliabili, se si pensa che è appunto nel Verbo che sono create le cause. 3. Il paradiso del libro della Genesi viene interpretato allegoricamente da Eriugena, anche nel Periphyseon (in numerosi passi) e nel Commentarius (I, 30), come significante soprattutto la natura umana, ma anche quella angelica (cfr. Periph. V, 980D-984B). 4. Se il confronto fra Pietro e Giovanni simboleggiava quello tra fede e contemplazione, il confronto tra Paolo e Giovanni stabilisce ora una graduazione dell’ambito contemplativo, riaffermando la superiorità dell’esperienza avuta da Giovanni. Marta Cristiani, nel suo commento (p. 90-92), suggestivamente propone di porre le esperienze contemplative di Paolo e di Giovanni in corrispondenza con la “trinità della nostra natura” individuata da Eriugena nelle funzioni del νοῦς/intellectus, λόγος/ratio e διάνοια/sensus interior nel Periphyseon (II, 570BC): a Paolo corrisponderebbe la ratio, conoscenza delle cause primordiali post deum, a Giovanni l’intellectus, che opera al di sopra di ogni natura creata, circa deum. Tale interpretazione sarebbe però complicata dal fatto che, stando all’edizione critica di Jeauneau, sul ms. Reims, Bibliothèque municipale 875 (R) che costituisce la copia di lavoro di Eriugena corredata di numerose sue correzioni e aggiunte autografe (minuscola irlandese della mano i1), i riferimenti alle funzioni della triade intellectus-ratio-sensus interior in questo passo del Periphyseon sono tutte aggiunte marginali fatte da un suo ignoto collaboratore (cui apparteneva la grafia irlandese denominata i2). A livello contenutistico, tuttavia, malgrado i dubbi espressi da Peter Dronke (Giovanni Scoto, Sulle nature dell’universo – ed. P. Dronke, M. Pereira [Scrittori greci e latini], vol. 2, Milano, 2013; v. “Aggiunte e correzioni al libro II in R”, p. 308-309), queste aggiunte mi paiono non incompatibili con la dottrina eriugeniana, specialmente appunto con un quadro come quello offerto dall’Homilia.
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5. Giovanni dunque non era uomo, ma più che uomo, quando superò sia se stesso che tutte le cose che sono e, sorretto da ineffabile virtù di sapienza e da purissimo acume della mente, entrò nelle cose che sono al di là di tutte le cose, ossia nei segreti dell’unica essenza in tre sostanze e delle tre sostanze in un’unica essenza.a 1 Non avrebbe infatti potuto ascendere a Dio, se non fosse prima stato fatto Dio. Come il raggio dei nostri occhi non può percepire le forme e i colori delle cose sensibili prima di mescolarsi ai raggi solari e di diventare una cosa sola in essi e con essi, così l’animo dei santi non riesce ad accogliere la conoscenza pura delle cose spirituali che superano ogni intelletto, se prima non si è reso degno di avere partecipazione della verità incomprensibile.2 Perciò il santo teologo, trasformato in Dio, partecipe della verità, dichiara che il Dio Verbo sussiste nel Dio principio, cioè che il Dio Figlio sussiste nel Dio Padre: In principio – dice – era il Verbo. Guarda il cielo aperto, ossia il mistero della somma e santa trinità e unità rivelato al mondo! Osserva l’angelo3 divino ascendere al di sopra del figlio dell’uomo (Gv 1, 51), ossia annunciarci che Egli è Verbo prima di tutte le cose nel principio, e poi discendere su quel medesimo figlio dell’uomo e gridare: E il Verbo si fece carne (Gv 1, 14). Discende predicando col suo vangelo che il Dio Verbo si è fatto uomo in mezzo a tutte le cose, nascendo da una vergine in un modo che oltrepassa la natura; ascende proclamando che quel medesimo Verbo è stato generato dal Padre prima e al di là di tutte le cose, in un modo che è al di là dell’essere.b Note di commento 1. La formula tradizionale latina per descrivere la trinità era “una sostanza in tre persone” (una substantia in tribus personis); Eriugena invece preferisce adoperare la formula greca, “una essenza in tre sostanze” (μία οὐσία ἐν τρίσιν ὑποστάσεσιν): cfr. qui sopra (n. a) per rinvii ad esempi di quest’uso eriugeniano. Per questa formula trinitaria cfr. Eriugena, Periphyseon II, 567B; 613A-C. Le espressioni “in un modo che oltrepassa la natura” e “in un modo che è al di là dell’essere” rendono rispettivamente gli avverbi latini supernaturaliter e superessentialiter, a loro volta traduzioni eriugeniane dal greco ὑπερφυῶς e ὑπερουσίως, entrambi termini del lessico pseudodionisiano. a
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2. Eriugena dichiara altrove di aver preso il principio dell’assimilazione nella conoscenza da Massimo il Confessore (Periph. I, 449D, dove tale principio è espresso così: quodcunque intellectus comprehendere potuerit, id ipsum fit). La similitudine della visione ha le sue origini remote nel Timeo di Platone (45B-D), e si ritrova ad esempio nel commento di Calcidio a tale opera (cap. 245-248: Timaeus. A Calcidio translatus commentarioque instructus, ed. J. H. Waszink [Corpus Platonicum Medii Aevi. Plato Latinus IV], London-Leiden, 1962, p. 256-259). Qui nel cap. 5 della Homilia va tuttavia notato anche che la similitudine del raggio visivo che diventa tutt’uno con la luce dei raggi solari viene utilizzata da Eriugena per descrivere l’unione inconfusa (cioè tale che le rispettive identità dei due elementi unificati non si perdono) con Dio nella deificazione, analogamente alle due similitudini dell’aria permeata dalla luce e del ferro ignito che si trovano nel Periphyseon (I, 450A-451B; V, 876A-B e 879A-B). 3. L’impiego del termine “angelo” riferito all’evangelista Giovanni è insolito: la sua deificazione non spiega come mai egli possa venire così designato (come vien detto nel cap. 1, Giovanni ha superato “le cose che sono”, dunque anche il grado della conoscenza “umana e angelica”). È possibile che qui il termine debba intendersi come un calco dal greco ἄγγελος, dunque nel significato di “messaggero”: a supporto di questa spiegazione, si può notare come nel testo immediatamente seguente a proposito di Giovanni venga sottolineato appunto l’aspetto di annunciatore della divinità del Verbo e della sua incarnazione (nobis… annuntiantem), e figuri il termine euangelium (“vangelo”, la “buona novella”), dall’evidente connessione etimologica con angelus.
6. In principio – dice – era il Verbo. Va notato che in questo passo, con la voce verbale “era”, il santo evangelista si riferisce a un valore relativo non al tempo, ma alla sostanza. Infatti il suo lemma “sono”, da cui si ricava per coniugazione irregolare, racchiude una duplice accezione. A volte significa la sussistenza di una qualunque cosa di cui si predica prescindendo dal movimento temporale, e perciò è detto verbo sostantivo; altre volte esprime i movimenti temporali in analogia con gli altri verbi. Perciò, dicendo In principio era il Verbo è come se avesse detto esplicitamente: “Nel Padre sussiste il Figlio”. Del resto chi, dotato di intelletto sano, oserebbe dire che il Figlio ha avuto sussistenza nel Padre a partire
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da un dato momento? Solo l’eternità è pensabile, là dove si comprende con l’intelletto solo la verità immutabile.a 1 E perché nessuno ritenesseb che il Verbo sussiste nel principio senza che vi si intraveda alcuna differenza delle sostanze, subito aggiunse: E il Verbo era presso Dio (Gv 1, 1). Cioè: “E il Figlio sussiste col Padre in unità di essenza e in distinzione di sostanza”. E ancora, per evitare che in qualcuno serpeggiasse il veleno contagioso di quell’errore consistente nel credere che il Verbo si limiti ad essere nel Padre e con Dio, senza che quel Verbo stesso sussista sostanzialmente e coessenzialmente al Padre (questo l’errore che si impadronì dei perfidi ariani2), ecco che egli subito aggiunse: E il Verbo era Dio (Gv 1, 1). Inoltre, egli previde che alcuni avrebbero cercato di sostenere che l’evangelista aveva scritto In principio era il Verbo e il Verbo era Dio riferendosi non a uno stesso Verbo, ma intendendo una cosa con “il Verbo nel principio” e un’altra con “il Verbo era Dio”. Perciò, demolendo preventivamente la credenza eretica, prosegue coerentemente il filo del suo discorso: Questo era in principio presso Dio. Come a dire: “Questo Verbo, che è Dio presso Dio, è proprio quello che era in principio, e non un altro”. Ma dai manoscritti greci si può capire in modo più significativo: vi si trova scritto ΑΥΤΟϚ,3 cioè “questo stesso”, al maschile, e perciò può essere riferito a entrambe le parole, “Verbo” e “Dio”; infatti in greco questi due sostantivi, theos e logos (“Dio” e “Verbo”), sono maschili. Quindi, si può intendere così: “E il Verbo era Dio, questo (Verbo) era in principio presso Dio”, il che è come se avesse detto più chiaro del giorno: “Questo Dio che è Verbo presso Dio è proprio lo stesso di cui ho detto: In principio era il Verbo”. Note di commento 1. Jeauneau (nell’ed. del 1969, ad loc.) individua vari antecedenti possibili fra i Padri greci per questa distinzione di natura linguistica fra significatio substantiae e significatio temporis: il più somigliante al a Per la medesima distinzione a proposito dei valori attribuibili al verbo “essere” cfr. Eriugena, Commentarius I, 23 (relativo a Gv 1, 15). b Forse la fonte è Beda, Hom. I, 8 (PL 94, 39B-40A; ed. D. Hurst, CC SL 122, p. 53-54).
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presente passo eriugeniano sembra essere il primo frammento di un commento di Origene sul vangelo di Giovanni (relativo a Gv 1, 1), ma è difficile precisare definitivamente la fonte. 2. L’eresia ariana, che prende il nome da Ario (256-336 d.C.), pur conoscendo varie sfumature ed evoluzioni nel corso delle controversie trinitarie del IV secolo, si caratterizza in generale per una teologia che nega la piena uguaglianza (consustanzialità) di natura fra la persona del Padre e quella del Figlio. 3. La tradizione manoscritta greca del vangelo giovanneo reca in realtà la lezione οὗτος, “questo”. La lezione αὐτός, citata qui da Eriugena, è una variante presente nel ms. greco da lui utilizzato.
7. Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui (Gv 1, 3). Per mezzo dello stesso Dio Verbo, o dello stesso Verbo Dio sono state fatte tutte le cose. E che altro significa Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui, se non: alla sua nascita dal Padre prima di tutte le cose, tutte le cose sono state fatte con Lui e per mezzo di Lui? Infatti la sua stessa generazione dal Padre costituisce la creazione di tutte le cause e l’operazione e l’effetto di tutte le cose che dalle cause procedono nei generi e nelle specie. Proprio così, per mezzo della generazione del Dio Verbo dal Dio principio tutte le cose sono state fatte. Ascolta che paradosso divino e indicibile, che segreto insolubile, che abisso insondabile, che mistero incomprensibile! Per mezzo di qualcosa di non fatto, bensì generato, tutte le cose sono state fatte, ma non generate. Il principio da cui vengono tutte le cose è il Padre, il principio per mezzo del quale esistono tutte le cose è il Figlio. Allorché il Padre pronuncia il suo Verbo, ossia allorché il Padre genera la sua sapienza, tutte le cose vengono fatte. Dice il profeta: Hai fatto tutte le cose nella sapienza (Sal 103, 24). E in un altro passo, introducendo la persona del Padre: Il mio cuore ha proferito. E che cosa ha proferito il suo cuore? Lo spiega lui stesso: Dico un Verbo buono (Sal 44, 2), pronuncio un Verbo buono, genero un Figlio buono.a 1 Il cuore del Padre è la sua sostanza propria, dalla quale è stata generata la sostanza propria del Figlio. Sulla generazione del Figlio, con riferimento agli stessi versetti qui citati, cfr. Eriugena, Periphyseon II, 556B-563B. a
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Il Padre precede il Verbo non per natura, ma in quanto causa. Ascolta il Figlio stesso che dice: Il Padre è più grande di me (Gv 14, 28), la sua sostanza è causa della mia sostanza. Voglio dire che il Padre precede il Figlio quanto alla causa; il Figlio precede tutte le cose che per mezzo suo sono state fatte quanto alla natura. La sostanza del Figlio è coeterna al Padre.a 2 La sostanza delle cose che sono state fatte per suo mezzo ha avuto inizio prima dei tempi secolari (2 Ti 1, 9; Tit 1, 2), non nel tempo, ma insieme ai tempi. Perché anche il tempo è stato fatto insieme alle altre cose che sono state fatte, e non è stato fatto prima, non anteposto, ma concreato.b Note di commento 1. L’origine della concezione teologica del Verbo divino come mediatore fra il Padre (principio divino) e il creato risale proprio a due versetti del prologo giovanneo: Gv 1, 3 (qui commentato) e Gv 1, 10 (“e il mondo fu fatto per mezzo di lui”), nonché alla Lettera ai Colossesi di Paolo (1, 16: “poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”). Nella tradizione teologica cristiana, sia greca (es. Origene) che latina (es. Agostino), il Logos-Cristo assume sia il ruolo d’intermediario nella creazione del cosmo (causalità efficiente-strumentale), sia quello di luogo intelligibile dei modelli del cosmo sensibile, assumendo così alcuni caratteri tipici dell’Intelletto ipostatico o “cosmo intelligibile” del medioe neoplatonismo. Nel pensiero di Eriugena, in particolare, nel Verbo (generato ab aeterno dal Padre) sono create le cause primordiali delle cose, secondo un modo d’esistenza ancora di tipo intelligibile, e perciò più unitario rispetto alla realtà sensibile; la creazione di quest’ultima costituisce per così dire l’“estrinsecazione”, un rendersi esplicito, delle cause contenute nel Verbo, attraverso la loro processione e differenziazione nei loro effetti. Da notare, di contro all’accusa di panteismo spesso rivolta ad Eriugena, la sua completa coerenza con l’ortodossia in questo capitolo dell’Homilia nel differenziare il modo di venuta all’esistenza del Figlio (generazione) da quello del cosmo (creazione, sia pure dapprima nel Figlio). Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XXI. Agostino, De civitate Dei XI, 6, 16-17; Confessiones XI, 10, 12-13; e in particolare, vista la polemica antimanichea presente forse nel capitolo successivo dell’Homilia e poi nel cap. 18, si può pensare a De genesi contra Manichaeos I, 2, 3. a
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2. Sull’anteriorità causale, ma non temporale, del Padre rispetto al Figlio cfr. il riferimento a Massimo il Confessore (Ambigua ad Iohannem XXI) già citato qui sopra (p. 64 n. a), dove la nozione di “maggiore quanto alla causa” viene contrapposta polemicamente proprio all’eresia ariana, che ravvisava nel versetto Gv 14, 28 un passo forte a sostegno della disparità di natura fra le due persone divine.
8. E qual è la conseguenza del Verbo pronunciato dalla bocca dell’Altissimo (Sir 24, 5)?1 Di certo il Padre non ha parlato invano, non senza frutti, non senza un grande effetto; anche gli uomini, infatti, parlando fra loro producono un qualche effetto nelle orecchie di chi li ascolta. Perciò dobbiamo credere e comprendere con l’intelletto tre cose: il Padre che parla, il Verbo pronunciato, le cose che vengono fatte per mezzo del Verbo. Il Padre parla, il Verbo è generato, tutte le cose vengono fatte. Ascolta il profeta: Dato che Egli ha parlato ed esse sono state fatte (Sal 32, 9), cioè ha generato il suo Verbo, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte. E perché non si ritenga che, fra le cose che sono, alcune sono state fatte per mezzo del Verbo stesso di Dio, mentre altre o sono state fatte al di fuori di Lui o esistono di per se stesse al di fuori di Lui, così che non tutte le cose che sono e che non sono si potrebbero riferire a un unico principio, egli aggiunse, a conclusione di tutta la teologia sopra esposta: E nulla è stato fatto senza di lui (Gv 1, 3), cioè nulla è stato fatto al di fuori di Lui,2 perché Lui circonda tutte le cose al suo interno, comprendendole tutte,3 e non si può pensare nulla che gli sia coeterno o consustanziale o coessenziale,a 4 eccetto Suo Padre e il Suo Spirito, che procede dal Padre per mezzo di Lui.5 Anche questo si può capire più facilmente in greco: dove infatti i Latini hanno come testo “senza di Lui”, i greci hanno ΧΩΡΙϚ ΑΥΤΟΥ, cioè “al di fuori di Lui”.6 Similmente, anche il Signore stesso dice ai suoi discepoli: Al di fuori di me7 non potete fare nulla (Gv 15, 5). Come a dire: “Voi che non avete potuto venir fatti per mezzo vostro al di fuori di me, che cosa potreste mai fare al di a
Per queste nozioni cfr. Eriugena, Periphyseon II, 556D; 561C-562A.
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fuori di me?”. Infatti anche in questo passo i greci scrivono non ΑΝΕΥ ma ΧΩΡΙϚ; cioè non “senza”, ma “al di fuori”. Ho detto che si capisce più facilmente perché, se uno sente dire “senza di Lui”, potrebbe interpretare “senza il Suo consiglio o aiuto”, e perciò non attribuirgli la totalità delle cose e ciascuna di esse; se invece sente dire “al di fuori di Lui”, non rimane assolutamente nulla che non sia stato fatto in Lui e per mezzo di Lui. Note di commento 1. L’allusione biblica al Verbo/parola pronunciato dalla bocca dell’Altissimo costituisce probabilmente in realtà una conflazione di riferimenti diversi: assieme a Sir 24, 3 (24, 5 nella Vulgata latina: “Io [la sapienza] sono uscita dalla bocca dell’Altissimo”), si può pensare a Dt 8, 3 (“l’uomo non vive soltanto di pane, ma […] l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”), citato in Mt 4, 4 (dove Gesù tentato dal diavolo nel deserto cita questo versetto). 2. L’argomentazione contro l’esistenza di qualcosa al di fuori della divinità prima della creazione è già stata avviata nelle righe finali del cap. 7, attraverso la descrizione del tempo come “non… fatto prima, non anteposto, ma concreato”. Jeauneau ravvisa in questo capitolo un’anticipazione della polemica coi manichei che verrà esplicitata al cap. 18 dell’Homilia. 3. Eriugena spiega che tutte le creature sono comprese all’interno del Verbo divino. La divinità (talvolta specificamente il Verbo, come in questo caso), secondo una concezione teologica sviluppata nel tardo neoplatonismo e recepita per esempio dallo Pseudo-Dionigi e da Massimo il Confessore, precontiene in sé tutte le cose in modo unitario. Salvatore Lilla ha rilevato come questa nozione, già esistente nel neoplatonismo, riceva maggiore enfasi nei testi dello Pseudo-Dionigi, insistenza che lo accomuna al suo contemporaneo pagano Damascio: cfr. S. Lilla, “Denys l’Aréopagite, Porphyre et Damascius”, in Denys l’Aréopagite et sa posterité en Orient et en Occident. Actes du Colloque International (Paris, 21-24 septembre 1994) – ed. Y. de Andia, Paris, 1997, p. 136-141; id., Dionigi l’Areopagita e il platonismo cristiano, Brescia, 2005, p. 173. Eriugena ritorna su questo tema anche in altre sue opere, adoperando lo stesso verbo ambire (“circondare”) scelto nel presente passo dell’Homilia: cfr. ad es. Expositiones IV, 3-220; Periph. II, 590B e III, 633A. 4. Anche le cause, sebbene siano create eternamente nel Verbo, dato appunto il loro statuto creaturale possono dirsi coeterne soltanto in senso relativo, e non coessenziali alla natura divina trinitaria.
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5. A proposito della processione dello Spirito Santo, Jeauneau ha notato giustamente che Eriugena, diversamente dalla formula trinitaria latina, afferma che lo Spirito procede dal Padre per mezzo del Figlio (per Filium) e non dal Padre e dal Figlio (Filioque): cfr. É. A. Jeauneau, ‘Érigène entre l’Ancienne et la Nouvelle Rome. Le Filioque’, in Chemins de la pensée médiévale. Études offertes à Zénon Kaluza – ed. P. J. J. M. Bakker, Turnhout, 2002, p. 289-321 (= id., Tendenda Vela, Turnhout, 2007, p. 605-639). 6. L’avverbio χωρίς corrisponde in realtà piuttosto appunto a “senza”, come del resto era stato reso nel testo biblico latino. 7. Nell’originale latino si ha anche qui “senza di me” (sine me, in greco χωρὶς ἐμοῦ), e non “al di fuori di me” (extra me): Eriugena cita il testo in accordo con la resa più esatta che egli individua per il termine originale greco.
9. Ciò che è stato fatto in Lui era vita (Gv 1, 4). Il santo Evangelista ha rivelato misteri divini lontanissimi da ogni ragione e intelletto,a ossia il Dio Verbo nel Dio che lo pronuncia, in entrambi lasciando intendere lo Spirito Santo agli intelletti che scrutano la divina Scrittura: infatti, come chi parla, nel pronunciare la parola, esala necessariamente uno spirito, così il Dio Padre, tutto in una volta, genera il Suo Figlio e insieme produce il Suo Spirito per mezzo del Figlio generato.1 Dopo aver provato che tutte le cose sono state fatte per mezzo del Dio Figlio e che nulla sussiste al di fuori di Lui, egli, come ripartendo da un nuovo inizio, ha proseguito la concatenazione della sua teologia dicendo: Ciò che è stato fatto in Lui era vita. Prima ha detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui. E come se qualcuno gli avesse fatto una domanda sulle cose che sono state fatte per mezzo del Dio Verbo, per sapere come e che cosa erano in Lui le cose che sono state fatte per Suo mezzo, risponde, e dice: Ciò che è stato fatto in Lui era vita. a Preferisco qui intendere e tradurre analogamente a come ha fatto Marta Cristiani, intendendo remotissima omni ratione et intellectu del testo originale non come ablativo assoluto (Jeauneau), ma riferendo remotissima ai mysteria rivelati dall’evangelista.
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Questa frase può essere pronunciata in due modi: si può fare una pausa dopo ciò che è stato fatto, e poi aggiungere in Lui era vita; oppure si può scandire Ciò che è stato fatto in Lui, e poi aggiungere era vita.a Perciò nelle due pronunce contempliamo due sensi diversi. Infatti, un conto è il senso contemplativo che dice: “Ciò che è stato fatto suddiviso nello spazio e nel tempo, distinto in generi, forme e numeri, congiunto o separato rispetto alle sostanze sensibili e intelligibili, tutto questo in Lui era vita”; un altro conto è quello che dichiara: “Ciò che è stato fatto in Lui non era altro che vita”. Così il senso diventa: “Tutte le cose che sono state fatte per mezzo di Lui, in Lui sono vita e una cosa sola.b Infatti erano (cioè sussistono) in Lui causalmente, prima di essere in se stesse al modo degli effetti”. Altro è infatti il modo in cui le cose fatte per mezzo di Lui esistono al di sotto di Lui, altro è il modo in cui le cose che Lui è esistono in Lui.c 2 Note di commento 1. Anche questa dichiarazione trinitaria, come quella poco sopra al cap. 8 (“il Suo Spirito, che procede dal Padre per mezzo di Lui”) e come quella di Commentarius III, 3 (“Viene dal Padre attraverso il Figlio”), differisce dalla formula trinitaria latina circa il Filioque: cfr. qui sopra cap. 8 n. 5. 2. Le due possibili interpretazioni del versetto non si escludono a vicenda. La prima consiste nell’affermazione secondo cui “ciò che è stato fatto”, ossia il creato sensibile già proceduto dalle sue cause intelligibili in generi, specie, numero ed estensione spazio-temporale, sussisteva “in Lui”, cioè nel Verbo, ancora sotto forma di causa primordiale, ossia secondo un modo d’esistenza eterno ravvisato nel termine “vita”. La seconda interpretazione, dicendo “ciò che è stato fatto in Lui” si riferisce solamente alle cause nel Verbo, ugualmente attribuendo loro l’eternità, ma prescindendo dalla loro processione negli effetti. In sintesi, la prima interpretazione menziona secondo Eriugena sia gli effetti sia le loro cause, la seconda soltanto le cause. Agostino, In Iohannis evangelium I, 16. Agostino, De trinitate IV, 1, 3 (ripreso da Eriugena a proposito dello stesso versetto giovanneo in Periphyseon II, 559A e nel cap. 10 dell’Homilia). c Agostino, De genesi ad litteram II, 6, 12 (richiamato da Eriugena nella discussione dello stesso versetto giovanneo in Periphyseon III, 667A-C). a
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10. Dunque tutte le cose che sono state fatte per mezzo del Verbo vivono in Lui immutabilmente e sono vita. In Lui tutte le cose né sono state né saranno secondo l’estensione temporale o spaziale, ma in Lui sono esclusivamente una cosa sola al di sopra di ogni tempo e spazio, e sussistono in modo universale le cose visibili, invisibili, corporee, incorporee, razionali, irrazionali; in Lui vivono, sono vita e sussistono eternamente, in modo semplice, il cielo e la terra, l’abisso e tutte le cose che si trovano in essi.1 Anche le cose che a noi sembrano prive di ogni moto vitale, nel Verbo vivono.a Ma se cerchi in che modo, in accordo con quale ragione tutte le cose che sono state fatte per mezzo del Verbo sussistono in Lui in modo vitale, unitario nella sua formab e causale, prendi ad esempio la natura delle creature, apprendi il Fattore dalle cose che sono state fatte in Lui e per mezzo di Lui: Le sue realtà invisibili – come dice l’Apostolo – si lasciano comprendere dall’intelletto per mezzo delle cose che sono state fatte (Rm 1, 20). Osserva come le cause di tutte le cose contenute dalla sfera di questo mondo sensibile sussistano simultaneamente e secondo una forma unitaria in questo sole, che è detto il più grande luminare del mondo: di lì procedono le forme di tutti i corpi, di lì la bellezza dei diversi colori e tutte le altre cose che si possono predicare della natura sensibile.2 Considera la molteplice e infinita virtù dei semi, in che modo il gran numero delle erbe, degli arbusti, degli animali sia racchiuso simultaneamente nei singoli semi; considera in che modo da questi si sviluppi la molteplicità bella e innumerevole delle forme.c Guarda con gli occhi della mente in che modo le molteplici regole nell’arte dell’artigiano sono una cosa sola e vivono nell’animo di chi le stabilisce; in che modo il numero infinito delle linee sussiste in un punto come una cosa sola;d osserva gli esempi naturali di questo tipo. Trasportato al di Eriugena, Periphyseon V, 907C-908B. L’espressione “unitario nella sua forma” corrisponde nell’originale latino a uniformiter, a sua volta resa del greco ἑνοειδῶς nella Versio Dionysii di Eriugena. c Agostino, De genesi ad litteram V, 23 (dove tuttavia il seme precontenente la pianta che se ne svilupperà rappresenta la ragione seminale, diversa dalle cause primordiali di Eriugena). d Pseudo-Dionigi Areopagita, De divinis nominibus V, 6. a
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là di tutte le cose da questi, come dalle ali della contemplazione naturale,a 3 con l’aiuto della Grazia divina, una volta illuminato, potrai vedere con lo sguardo della mente gli arcani del Verbo e, per quanto è concesso alle argomentazioni umane che cercano il loro Dio, potrai vedere in che modo tutte le cose che sono state fatte per mezzo del Verbo in Lui vivono e sono vita:4 “In Lui infatti” come dice la voce divina viviamo, ci muoviamo e siamo (At 17, 28). E come dice il grande Dionigi Areopagita: “L’essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell’essere”.b Note di commento 1. La radice scritturistica dell’idea della mediazione del Verbo nella creazione e del sussistere di tutte le cose nel Verbo è paolina (cfr. il già citato versetto di Col 1, 16: “poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose…”). La formulazione eriugeniana qui ricorda Agostino, De trinitate IV, 1, 3 (brano già echeggiato nel capitolo precedente dell’Homilia, cap. 9 n. b). Eriugena caratterizza ora il modo d’essere delle cause primordiali create nel Verbo. Esse cioè sussistono in modo: 1) immutabile; 2) privo di estensione spazio-temporale, eterno; 3) unitario; 4) universale; 5) causale. In Periph. II, 546A-B, Eriugena interpreta il versetto “in principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1, 1) come creazione delle cause primordiali nel Verbo. In particolare, il cielo rappresenta le cause delle realtà intelligibili e delle nature angeliche, mentre la terra rappresenta le cause delle realtà sensibili; in Periph. II, 550C e 556A, ferma restando l’interpretazione allegorica della “terra”, è invece l’“abisso” (Gen 1, 2) a rappresentare le cause delle realtà intelligibili. 2. Eriugena fornisce una serie di esempi sensibili per permettere intuitivamente di comprendere il rapporto fra unità delle cause, ancora per così dire racchiuse in se stesse, e molteplicità dei loro effetti. Il primo esempio è quello del sole, la cui luce è causa della possibilità della varietà delle forme e dei colori nel mondo sensibile: esso proviene dallo Pseudo-Dionigi, De divinis nominibus V, 8 dove, coerentemente col contesto di riutilizzo scelto da Eriugena, serviva a spiegare il modo della preesi-
a “Contemplazione naturale” corrisponde nell’originale latino a physica theoria, a sua volta traslitterazione del greco φυσικὴ θεωρία, espressione proveniente da Massimo il Confessore: cfr. la n. 3 a questo capitolo. b Pseudo-Dionigi Areopagita, De caelesti hierarchia IV, 1 (τὸ γὰρ εἶναι πάντων ἐστὶν ἡ ὑπὲρ τὸ εἶναι θεότης).
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stenza dei paradigmi di tutte le cose nella divinità; Eriugena si serve del medesimo esempio anche in Periph. III, 680A-B. 3. Nel pensiero di Massimo il Confessore, dal quale Eriugena riprende l’espressione φυσικὴ θεωρία/physica theoria, la “contemplazione naturale” si contrapponeva alla “teologia”, che prende come punto di partenza la Scrittura; le due vie contemplative sono nella prospettiva di Massimo complementari, in quanto il mondo e la Scrittura sono i due luoghi della manifestazione di Dio. 4. Si può notare la somiglianza dell’elevazione causata dalla “contemplazione naturale” con il volo dell’aquila spirituale descritto nel cap. 1 dell’Homilia.
11. E la vita era la luce degli uomini (Gv 1, 4). Il Figlio di Dio che tu, santo teologo, prima hai chiamato Verbo, ora lo chiami vita e luce. A ragione ne hai cambiato gli appellativi, per farci intendere significati diversi. Hai chiamato il Figlio di Dio “Verbo”, perché per mezzo Suo il Padre ha detto tutte le cose, dato che Egli ha parlato ed esse sono state fatte (Sal 32, 9). Poi lo hai chiamato “luce” e “vita”, perché il medesimo Figlio è luce e vita di tutte le cose fatte per mezzo Suo. E che cosa illumina? Nient’altro che se stesso e il Padre Suo. Perciò è luce e illumina se stesso, rivela se stesso al mondo, manifesta se stesso a quelli che non lo conoscono.1 La luce della conoscenza divina si è allontanata dal mondo nel momento in cui l’uomo ha abbandonato Dio.2 Perciò la luce eterna dichiara se stessa al mondo in due modi: attraverso la Scrittura e attraverso il creato. La conoscenza divina, infatti, non si rinnova in noi se non attraverso il testo della divina Scrittura e l’osservazione del creato. Devi imparare le parole divine e comprendere nel tuo animo il loro significato intellettuale, nel quale conoscerai il Verbo. Con i sensi corporei devi percepire le forme e le bellezze delle cose sensibili, e in esse otterrai intelligenza del Verbo di Dio.3 E in tutte queste cose la verità non ti parlerà d’altro che di Colui che ha fatto tutte le cose, al di fuori del quale non potrai mai contemplare nulla, perché Lui è tutte le cose.a In tutte le cose che Per la designazione di Dio come “tutte le cose” cfr. Eriugena, Periphyseon I, 516D-517A e 520B; III, 704B-C. a
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sono, tutto ciò che è, è Lui. Come senza di Lui non c’è alcun bene sostanziale, così non c’è nessuna essenza o sostanza. E la vita era la luce degli uomini. Perché ha aggiunto “la luce degli uomini”, come se fosse specialmente e propriamente la luce degli uomini Colui che è la luce degli angeli, la luce dell’intero creato, la luce di ogni esistenza visibile e invisibile? Forse il Verbo, che vivifica tutte le cose, viene detto in modo speciale e proprio “luce degli uomini” perché è in un essere umano che si rivelò non solo agli uomini, ma anche agli angeli e a ogni creatura in grado di essere resa partecipe della conoscenza divina? Non è apparso tramite un angelo agli angeli, né tramite un angelo agli uomini, ma tramite un uomo sia agli uomini che agli angeli;a ed è apparso non come un’immagine vana,b 4 ma nella vera e propria umanità, che ha preso su di sé interamente in unità con la Sua sostanza, e ha offerto la conoscenza di sé a tutti quelli che Lo conoscono. Perciò è luce degli uomini il nostro signore Gesù Cristo, che nella natura umana ha manifestato se stesso a ogni creatura razionale e intellettuale e ha dischiuso i misteri nascosti della sua divinità, per la quale è pari al Padre.5 Note di commento 1. Mi sembra che questa riflessione eriugeniana sul Verbo come manifestazione di Dio abbia una matrice scritturistica in Col 1, 15 (dove di Cristo si dice che “egli è immagine del Dio invisibile”): a questo versetto si rifanno volentieri le speculazioni teologiche del cristianesimo antico sul Logos come manifestazione della divinità paterna altrimenti occulta, le quali spesso sostengono in concomitanza il già accennato ruolo mediatore del Logos (esposto al rischio di subordinazionismo proprio in virtù della sua “visibilità”, ossia del suo ruolo disvelatore); cfr. cap. 7 n. 1. 2. Il “momento in cui l’uomo ha abbandonato Dio” è il peccato originale (cfr. il cap. 12 dell’Homilia, dove la caduta, coerentemente con la trama metaforica luce-tenebra espressa qui, è associata alle tenebre dell’ignoranza divina).
Cfr. in proposito Eriugena, Periphyseon V, 912B-913B. L’espressione “immagine vana” traduce il latino phantasia: cfr. Massimo, Ambigua ad Iohannem XXXVIII (e la glossa conservata dal ms. Mazzarino 561, rif. alla r. 102 dell’ed. CC SG 18, p. 284). a
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3. Nel capitolo precedente è stata già menzionata la contemplazione della natura (physica theoria) proposta da Massimo il Confessore come via per la conoscenza della divinità; qui il tema viene ripreso, affiancando anche l’altra via, ossia l’approfondimento della Scrittura, a partire dalla superficie del suo testo (diuinorum apicum, cap. 3, reso con “parola di Dio”), per poi coglierne il senso spirituale profondo. Cfr. ad es. Massimo, Amb. VI, r. 408-517 e r. 1067-1073 (e la nota all’Ambiguum VI di Massimo conservata dal ms. Mazzarino 561, in rif. alla r. 446 dell’ed. CC SG 18, p. 267), dove Massimo interpreta le vesti candide indossate da Gesù al momento della trasfigurazione come il mondo sensibile e la Scrittura (interpretazione ripresa da Eriugena in Periph. III, 690A e 723D; menzione delle due vie anche in Periph. V, 1005B-C). Nel suo Commentarius (I, 29) al vangelo di Giovanni, Eriugena fornisce un’interpretazione analoga anche dei calzari di Cristo che Giovanni battista si dichiara indegno di sciogliere (Gv 1, 27). Stando al presente brano dell’Homilia, le due vie, convergenti e complementari, si configurano come decadimento rispetto alle modalità della conoscenza ed esperienza della divinità da parte dell’uomo edenico. Marta Cristiani, nel suo commento ad loc., rileva come questa duplicità di mezzi anagogici, se da un lato implica una sorta di “sacralizzazione” della natura, dall’altro implicitamente indicherebbe, almeno in linea di principio, un ridimensionamento del ruolo della Scrittura. 4. La specifica secondo cui l’incarnazione di Cristo non costituisce una “immagine vana” (phantasia) è indirizzata contro il docetismo, ossia contro la tesi eterodossa secondo cui Cristo, incarnandosi, non avrebbe assunto realmente la natura umana, bensì soltanto appunto un suo simulacro, un’immagine. 5. L’incarnazione, benché avvenuta nell’uomo, ha rivelato la divinità a tutte le creature capaci di comprenderne l’annuncio (dunque a tutte le creature razionali e intellettuali, sia umane che angeliche). Tutte le facoltà angeliche si trovano anche negli uomini, ma non viceversa (Periph. III, 733A-734B): l’incarnazione del Verbo è avvenuta nella natura umana in quanto quest’ultima riassume in sé tutta la creazione.
12. E la luce riluce nelle tenebre (Gv 1, 5). Ascolta l’Apostolo: Voi un tempo siete stati tenebre – dice – ma ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8). Ascolta Isaia: Mentre sedevano nella regione dell’ombra della morte, una luce è sorta per loro (Is 9, 2; Mt 4, 16). L’intero genere umano per colpa del peccato originale era nelle
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tenebre: non quelle della vista esteriore, con cui si percepiscono forme e colori sensibili, ma quelle della vista interiore, che distinguono le specie e le bellezze degli intelligibili; non nelle tenebre di quest’aria fosca, ma nelle tenebre dell’ignoranza della verità; non nell’assenza della luce che rischiara il mondo corporeo, ma nell’assenza della luce che illumina il mondo incorporeo.a Ma dopo che questa luce è sorta da una vergine, essa brilla nelle tenebre, cioè nei cuori di coloro che la conoscono. Ma siccome il genere umano nel suo complesso si divide come in due parti, cioè quella di chi ha il cuore illuminato dalla conoscenza della verità e quella di chi ancora rimane nelle tenebre nerissime dell’empietà e della perfidia,1 l’Evangelista ha soggiunto: E le tenebre non la compresero (Gv 1, 5). Come se dicesse chiaramente: la luce splende nelle tenebre delle anime fedeli, e illumina sempre di più, a partire dalla fede, tendendo verso la visione;b 2 invece, la perfidia e l’ignoranza dei cuori empi non hanno compreso la luce del Verbo di Dio che splendeva nella carne: Si è oscurato – come dice l’Apostolo – il loro cuore stolto, e quelli che si dicevano sapienti sono stati resi stolti (Rm 1, 21-22). Ma questo è il senso morale. Note di commento 1. Sulla divisione degli uomini all’annuncio della verità cfr. più sotto, cap. 20. L’empietà designa di norma la condizione degli infedeli come i pagani, mentre la perfidia è riferita agli ebrei (ma a volte anche agli eretici, come gli ariani così definiti più sopra, al cap. 6); talvolta entrambi i gruppi vengono tacciati di empietà. 2. Nelle Expositiones (II, 940-954: cfr. la n. b a questo capitolo) Eriugena descrive una progressione simile dalla fede all’azione e alla scienza, e infine alla luce della verità (progressione coerente con l’articolazione del rapporto fra ragione cristiana e fede presentata ai cap. 2-3 attraverso il paragone fra Pietro e Giovanni).
a Per l’immagine della luce e delle tenebre per indicare la condizione peccaminosa ed empia di contro alla venuta di Cristo, oltre ai brani della Scrittura citati in apertura del capitolo cfr. Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem III (ed. CC SG 18, p. 37, r. 524-525) ed Eriugena, Periphyseon V, 943A. b Cfr. in proposito Eriugena, Expositiones II, 940-954.
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13. La contemplazione naturale di queste parole è invece questa.1 La natura umana, anche se non avesse peccato, non avrebbe potuto splendere con le sole proprie forze: essa infatti non è luce per natura, ma partecipe della luce. Può ricevere la sapienza, ma non è la sapienza stessa partecipando della quale si può diventare sapienti.a 2 Come questa aria di quaggiù non è luminosa di per sé, anzi viene definita col nome di “tenebre”, e tuttavia può ricevere la luce solare, così la nostra natura, considerata in se stessa, è una sostanza tenebrosa, ma ricettiva e partecipe della luce della sapienza. E non si dice che l’aria sopra menzionata, quando partecipa dei raggi solari, splende di per sé, ma si dice che è lo splendore del sole ad apparire in essa, in modo tale che essa non perde la sua oscurità naturale e al tempo stesso riceve in sé la luce proveniente dall’alto. Così, allo stesso modo, la parte razionale della nostra natura, quando possiede la presenza del Verbo di Dio, conosce le cose intelligibili e il suo Dio non da se stessa, ma per mezzo della luce divina posta in essa.b Ascolta il Verbo stesso: Non siete voi – dice – che parlate, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi (Mt 10, 20). Con questa sola frase ha voluto insegnarci a intendere lo stesso anche in tutto il resto, e a farla risuonare sempre nell’orecchio del nostro cuore in modo ineffabile: non siete voi che splendete, ma è lo Spirito del Padre vostro che splende in voi, cioè vi manifesta che io splendo in voi, perché io sono la luce del mondo (Gv 8, 12) intelligibile, cioè della natura razionale e intellettuale; non siete voi che mi conoscete, ma io stesso che conosco me stesso in voi attraverso il mio Spirito,3 perché voi non siete luce sostanziale, ma partecipazione della luce che sussiste di per sé. Perciò la luce splende nelle tenebre, perché il Verbo di Dio, vita e luce degli uomini, non cessa di splendere nella nostra natura, che esaminata e osservata in sé risulta una sorta di oscurità informe; e non ha mai voluto abbandonarla, neppure quando essa Lo abbandona. Le dà forma contenendola per natura, gliela restituisce a Beda, Hom. I, 8, 131-136 (CC SL p. 55-56), citato da Alcuino, Commentaria in Iohannis evangelium I, 8; Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium VIII; cfr. Eriugena, Periphyseon III, 630A-632B. b Per la metafora della luce a proposito della conoscenza di Dio cfr. Eriugena, Periphyseon I, 450A-B.
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deificandola per grazia. E siccome Lui è una luce incomprensibile a ogni creatura, le tenebre non lo compresero. Infatti, Dio supera ogni senso e intelletto, e lui solo ha l’immortalità. La sua luce è detta “tenebre” per via della sua eccellenza,4 dato che nessuna creatura può comprendere che cosa o come sia5 (Fil 4, 7; Tt 6, 16). Note di commento 1. Può suscitare perplessità ritrovare la nozione di “contemplazione naturale” (physica theoria) in questo contesto. Come si è detto sopra (cap. 10 n. 3; cap. 11 n. 3), in Massimo il Confessore, seguito da Eriugena, la theoria può essere rivolta alla natura (e questa è propriamente la contemplazione naturale) o alla Scrittura. Qui, tuttavia, si parla di contemplazione naturale anche a proposito della Scrittura: questo è infatti il nome tecnico che, di nuovo in Massimo e in Eriugena, prende il terzo dei quattro sensi della Scrittura: cfr. cap. 14. Inoltre (come emergerà chiaramente sempre nel cap. 14), la complementarità di natura e Scrittura come vie per l’accesso alla conoscenza di Dio viene messa a frutto in una costruzione di metafore che trapassano dall’uno all’altro ambito: in particolare, nell’Homilia, più che l’immagine del “libro della natura”, viene offerta l’immagine speculare della Scrittura come mondo. 2. Nel pensiero dello Pseudo-Dionigi Areopagita, la concezione gerarchica del cosmo prevede che ogni creatura abbia una data misura naturale di ricettività del raggio divino, che essa può cooperare a recepire fino a colmarsene, ma che non può mai eccedere (sulla nozione di gerarchia si v. R. Roques, L’universo dionisiano. Struttura gerarchica del mondo secondo ps. Dionigi Areopagita, Milano, 1996). Quando tale misura viene colmata, la creatura umana, senza perdere la sua identità costitutiva, viene divinizzata per grazia (secondo un modo di unione detto “unione inconfusa”): Eriugena si confronta spesso con questo tema caratteristico della patristica greca (da lui stesso riconosciuto come tale: cfr. Periph. V, 1015B-C). In particolare, da Massimo il Confessore egli deriva la metafora qui adoperata dell’aria permeata dalla luce al punto da risultare indistinguibile dai raggi luminosi; a questa egli affianca nel Periphyseon (I, 449A-451B; V, 879A-B e 1020A-C) anche quella del ferro fuso dal fuoco al punto da risultare tutt’uno con la natura di quest’ultimo. Sulla tradizione delle metafore dell’unione inconfusa, si v. J. Pépin, ‘Stilla aquae modica multo infusa vino, ferrum ignitum, luce perfusus aer. L’origine de trois comparaisons familières à la théologie
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mystique médiévale’, in Miscellanea Andrea Combes, vol. 1, Roma, 1967, p. 331-375 (= id., “Ex Platonicorum Persona”. Études sur les lectures philosophiques de Saint Augustin, Amsterdam, 1977, p. 269-316). 3. La conoscenza di Dio da parte dell’uomo ha come condizione di possibilità l’illuminazione divina. Pertanto, in un altro senso si può dire che Dio conosce se stesso attraverso l’uomo: su questo tema cfr. W. Beierwaltes, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero (Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi, 13), Milano, 1998, p. 69-70): in questo volume (cap. VII) Beierwaltes riflette anche sulla tradizione relativa alla conoscenza autoriflessiva che dal motore immobile aristotelico, il quale è “pensiero di pensiero” (Metaph. XII, 1074B34), conduce fino ad Eriugena. 4. Nel pensiero dello Pseudo-Dionigi, la trascendenza della divinità la rende inconoscibile ed inesperibile da parte delle sue creature così come essa è in sé, donde il nome di “caligine” o “tenebra”, nel senso non di una privazione di luce, bensì di una negazione eminente (cfr. ad es. De divinis nominibus VII, 2); al tempo stesso, questa oscurità divina è fonte di illuminazione per tutti i gradi dell’essere inferiori. Il risultato è la paradossale definizione della divinità come “tenebra luminosa”: cfr. De mystica theologia I, 1 (τὸν ὑπέρφωτον… γνόφον); questa definizione conoscerà vasta fortuna non solo in Eriugena, ma in generale nella teologia e nella mistica medievali (per fare solo un esempio, si pensi a Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum VII, 5, dove il passo dionisiano in questione tratto dal De mystica theologia è citato per esteso). 5. Data l’infinità e la sovracategorialità della natura divina, conoscerla è impossibile non solo per le creature, ma in un certo senso anche per la divinità stessa: si tratta del tema neoplatonico della docta ignorantia, che Eriugena nel Periphyseon audacemente qualifica come divina ignorantia. Il fatto che Dio non possa conoscere di se stesso che cosa sia non intende affermare una impotenza divina, bensì l’incircoscrivibilità della natura divina, la quale non è un quid, un “qualcosa”, una sostanza definibile, alla maniera aristotelica (cfr. ad es. la discussione in W. Beierwaltes, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero [Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi, 13], Milano, 1998, cap. VII, alle p. 203229). Cfr. Periph. II, 589B: “Dio perciò non sa di sé che cos’è, perché non è una cosa, in quanto non è comprensibile in una qualche cosa né per se stesso né per alcun intelletto” (Deus itaque nescit se quid est, quia non est quid, incomprehensibilis quippe in aliquo et sibi ipsi et omni intellectui).
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14. C’era un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni (Gv 1, 6). Ecco che l’aquila, dalla vetta altissima del monte della teologia, ridiscende con volo leggero nella profondissima valle della storia, riposando le sue ali dall’altissima contemplazione del mondo spirituale col ritorno dal cielo alla terra. Infatti, la divina Scrittura è una sorta di mondo intelligibile, costituito da quattro parti che sono come i suoi quattro elementi. La sua terra è come posta nel mezzo e nel punto più basso, come un centro, ed è la storia; intorno ad essa, a mo’ di acque, scorre l’abisso dell’intelligenza morale, che i greci chiamano solitamente ΗΘΙΚΗ. Queste due, la storia e l’etica, che sono come le due parti inferiori di questa specie di mondo, sono avvolte tutt’intorno dall’aria della scienza naturale, quella che i greci chiamano ΦΥϚΙΚΗ. Al di fuori e al di là di tutte le cose c’è poi la sfera di quell’ardore etereo e igneo del cielo empireo, cioè della contemplazione superna della natura divina che i greci chiamano “teologia”, oltre la quale nessun intelletto riesce a giungere.1 Il grande teologo, cioè Giovanni, all’inizio del suo vangelo, toccando le elevatissime vette della teologia e penetrando i segreti del cielo dei cieli spirituali, ascendendo oltre ogni storia ed etica e fisica, per raccontare i fatti di poco precedenti l’incarnazione del Verbo secondo la storia inclina il suo volo intelligibile quasi avvicinandosi alla terra, e dice: C’era un uomo inviato da Dio. Note di commento 1. È stata già ricordata nei capitoli precedenti l’idea di Massimo il Confessore secondo cui natura e Scrittura sono mezzi per l’elevazione spirituale verso la divinità, e la conseguente sovrapposizione “metaforica” fra le due (cfr. cap. 13 n. 1): l’idea per cui la Scrittura è costituita da quattro livelli di lettura, via via più elevati, analoghi ai quattro elementi via via più leggeri e perciò più distanti dal centro del cosmo (idea che Eriugena poteva leggere in Gregorio di Nissa, De opificio hominis I: quest’opera fu tradotta da Eriugena stesso in latino col titolo di De imagine), è qui derivata dai sistemi quaternari di corrispondenze in Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XVII, 53-94 (CC SG 18, p. 138-139). Emerge così lo sfondo, a un tempo cosmologico e spirituale, del volo dell’evangelista descritto nel cap. 1 dell’Homilia. I quattro sensi qui elencati non coincidono con i quattro sensi tradizionali dell’ese-
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gesi cristiana latina consolidata in età carolingia (letterale, allegorico/ figurale, morale, anagogico), sebbene entrambi questi sistemi di quattro sensi siano graduati in ordine crescente di altezza spirituale.
15. Coerentemente Giovanni introduce l’altro Giovanni nella sua teologia; l’abisso invoca l’abisso nella voce (Sal 41, 8) dei misteri divini; l’evangelista narra la storia del Precursore; colui a cui è stato fatto il dono di conoscere il Verbo nel principio menziona colui a cui è stato fatto il dono di precedere il Verbo incarnato.a C’era, dice. Non ha detto semplicemente “fu inviato da Dio”, ma C’era un uomo, per distinguere l’uomo partecipe della sola umanità, che è colui che precorre, dall’uomo congiunto e composto di divinità e di umanità, che è Colui che viene dopo. Ha detto così per separare la voce effimera dal Verbo che rimane sempre e immutabilmente; per far intendere l’apparizione della stella mattutina all’alba del regno dei cieli e per annunciare che stava arrivando il sole della giustizia.b Distingue il testimone da colui di cui porta testimonianza, l’inviato da colui che lo manda, il lucernino notturno dalla luce chiarissima che riempie il mondo distruggendo le tenebre della morte e dei peccati dell’intero genere umano. Dunque il precursore del Signore fu un uomo, non un dio; invece, il Signore di cui è precursore fu a un tempo uomo e Dio.c Il precursore fu un uomo, che sarebbe diventato Dio per grazia; quello da lui precorso era Dio per natura, che stava per assumere la condizione umana per umiltà e perché voleva redimerci e salvarci. L’uomo era inviato. Da chi? Dal Dio Verbo che egli precorre. La sua missione è precorrerlo. Getta una voce gridando: Voce di uno che grida nel deserto (Gv 1, 23). Il messaggero prepara l’arrivo del Signore. Di nome Giovanni: a cui è stato fatto il dono di diventare precursore del re dei re, di manifestare il Verbo incarnato
a Cfr. più sopra, al cap. 2 dell’Homilia (qui ripreso con una contrapposizione tra i doni differenti fatti dall’alto rispettivamente all’evangelista e al precursore). b Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XVII, 28-32 (CC SG 18, p. 137); Cfr. formulazioni simili in Eriugena, Commentarius I, 28. c Cfr. in proposito Eriugena, Commentarius III, 9.
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e di battezzare nel nome della filialitàa spirituale, testimone della luce eterna con la predicazione e col martirio.
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16. Egli venne a testimoniare, per portare la testimonianza della luce (Gv 1, 7), cioè di Cristo. Ascolta il testimone: Ecco l’agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati dal mondo (Gv 1, 29). E ancora: Colui che viene dopo di me, è stato fatto prima di me (Gv 1, 15; 1, 27; 1, 30). Questo si capisce più chiaramente nel testo greco: ΕΜΠΡΟϚΘΕΝ ΜΟΥ, cioè è stato fatto davanti a me, davanti ai miei occhi. Come se dicesse esplicitamente: colui che nell’ordine dei tempi è nato nella carne dopo la mia nascita, io davanti ai miei occhi, mentre ero ancora nel ventre di mia madre sterile, l’ho visto con una visione profetica davanti a me, concepito e fatto uomo nell’utero di una vergine (Lc 1, 41).b Non era lui la luce, ma a portare testimonianza della luce (Gv 1, 8). Sottintendi quanto detto sopra e intendi così: Non era lui la luce, ma è stato mandato a portare testimonianza della luce. Il precursore della luce non era la luce. Perché allora viene chiamato lucerna ardente (Gv 5, 35) e “astro mattutino”?c Era una lucerna ardente, ma ardeva acceso non da un fuoco proprio, splendeva non di luce propria. Era una stella mattutina, ma non aveva ricevuto da se stesso la propria luce: la grazia di Colui che egli precorreva ardeva e splendeva in lui. Lui non era la luce, ma partecipe della luce. Non era suo ciò che in sé e per sé splendeva. Come abbiamo detto sopra, nessuna creatura, razionale o intellettuale, è di per sé sostanzialmente luce, ma lo è per partecipazione dell’unica e vera luce sostanziale che splende dovunque in tutte le cose che splendono intelligibilmente.d
Il termine “filialità” traduce qui il latino filietatem (così anche a Commentarius I, 33): il vocabolo è affine a un neologismo di conio eriugeniano, filiolitatem, nato dalla resa del greco ὑιοθεσία. b Cfr. gli stessi contenuti in Eriugena, Commentarius I, 23. c Per l’immagine dell’astro mattutino cfr. le fonti indicate qui sopra al cap. 15 (n. b). d Cfr. il cap. 13 dell’Homilia. a
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Perciò prosegue: Era luce vera quella che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv 1, 9). Chiama “vera luce” il Figlio di Dio per sé sussistente, generato prima di tutti i secoli dal Dio Padre per sé sussistente. Chiama “vera luce” il medesimo Figlio fatto uomo dagli uomini per gli uomini. È Lui la luce vera, che dice di sé: Io sono la luce del mondo; chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita eterna (Gv 8, 12). 17. Era luce vera quella che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Che cosa significa “che viene nel mondo”? E a chi è riferito “ogni uomo che viene nel mondo”? E da dove viene nel mondo? E in quale mondo viene? Se interpreti in riferimento a ciò che dagli occulti recessi della naturaa 1 viene in questo mondo per generazione nello spazio e nel tempo, quale mai illuminazione ci sarebbe in questa vita per quegli esseri che nascono per morire, crescono per corrompersi, vengono composti per dissolversi, cadendo tutti dalla quiete della natura silente nell’inquietudine di una tumultuante miseria? Dimmi, quale può essere la luce spirituale e vera per degli esseri procreati in una vita transitoria e falsa? Questo mondo non sarà piuttosto un’abitazione adeguata a quelli che si sono allontanati dalla vera luce? Non sarà, piuttosto, giustamente detta regione dell’ombra della morte (Is 9, 2; Mt 4, 16),b valle di lacrime (Sal 83, 7), baratro d’ignoranza e abitazione d’argilla (Sap 9, 15) che appesantisce l’animo umano e impedisce agli occhi interiori la vista della vera luce? Allora non dobbiamo intendere che illumina ogni uomo che viene nel mondo come riferito alle cose che dalle cause nascoste dei semi procedono nelle specie corporee. L’espressione va invece riferita alle cose che spiritualmente vengono nel mondo invisibile, per mezzo della rigenerazione della grazia che viene data nel battesimo. Queste, disprezzando la nascita nel corpo corruttibile, scelgono quella secondo lo spirito; calpestando il mondo che a L’espressione “dagli occulti recessi della natura” rende il latino de occultis naturae sinibus. b Cfr. più sopra, Homilia cap. 12 (per l’espressione “regione dell’ombra della morte”).
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è in basso e ascendendo al mondo che è in alto,a abbandonando le ombre dell’ignoranza e della morte, cercando la luce della sapienza e della vita, smettendo di essere figli degli uomini, iniziando a diventare figli di Dio, lasciandosi alle spalle il mondo dei vizi e distruggendolo in se stessi, ponendosi davanti agli occhi della mente il mondo delle virtù e bramando con tutte le loro forze di ascendere a quello.b 2 La vera luce, quindi, illumina quelli che vengono nel mondo delle virtù, non quelli che precipitano nel mondo dei vizi. Note di commento 1. Gli “occulti recessi della natura” sono le cause presenti nella sapienza che è il Verbo divino, anteriormente alla loro processione e differenziazione nei loro effetti manifesti. Su questo tema si v. É. Jeauneau, Études Érigéniennes, p. 235-242. 2. A proposito dei passi di Massimo il Confessore ricordati a p. 82 n. b, vale la pena specificare che nel passo degli Ambigua vengono associate anche le quattro virtù cardinali ai quattro elementi del mondo nei suoi sistemi di corrispondenze; e nelle Quaestiones ad Thalassium si parla di “cosmo vero delle virtù”.
18. Era nel mondo (Gv 1, 10). In questo passo chiama “mondo” non solo il creato sensibile in modo generale, ma anche, in modo speciale, la sostanza della natura razionale che è nell’uomo. Il Verbo, la vera luce, era infatti in tutte queste cose e, per dirla semplicemente, nella totalità creata; vale a dire che sussiste ed era sempre,c perché non smette mai di sussistere in tutto. Infatti, come la voce di chi parla svanisce nel nulla appena smette di parlare, così, se il Padre celeste smettesse di pronunciare il suo Verbo, non sussisterebbe l’effetto del Verbo, cioè la totalità creata. La fondazione sostanziale e la permanenzad della totalità creata è Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XVII e XXVII. Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem XVII, 55-85 (CC SG 18, p. 138139: cfr. sopra, cap. 14 n. 1); Quaestiones ad Thalassium LXIII, scolio 1 (CC SG 22, p. 180-181). c Cfr. Homilia cap. 6 (erat con valore di sussistenza). d L’espressione “la fondazione sostanziale e la permanenza” rende il latino substitutio et permansio. Per substitutio, cfr. Eriugena, Periphyseon V, 903A-B e 905A; a
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l’atto di parlare del Padre, cioè l’eterna e immutabile generazione del Suo Verbo. La frase che dice Era nel mondo, e il mondo è stato fatto per mezzo di Lui (Gv 1, 10) può anche ragionevolmente essere riferita solo a questo mondo sensibile. Affinché nessuno, condividendo l’eresia manichea, ritenesse che il mondo che cade sotto i sensi sia stato creato dal diavolo, e non dal Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, il teologo prosegue: era nel mondo, cioè sussiste in questo mondo, Colui che contiene tutte le cose. E il mondo è stato fatto per mezzo di Lui: il Creatore del tutto non dimora in opere altrui, ma nelle sue, in quelle che ha fatto Lui.a 19. Dobbiamo prestare attenzione al fatto che il santo evangelista ha nominato il mondo per quattro volte. Eppure, noi dobbiamo intenderne soltanto tre. Il primo è pieno esclusivamente delle sostanze invisibili e spirituali delle potenze: chiunque vi sia giunto possiede la piena partecipazione della vera luce. Il secondo è quello contrario al precedente, in quanto costituito esclusivamente da nature visibili e corporee; e anche se occupa la parte più bassa della totalità, pure, in esso era il Verbo ed è stato fatto per mezzo del Verbo. Esso, inoltre, costituisce il primo grado per quelli che vogliono ascendere per mezzo dei sensi alla conoscenza della verità: la vista delle cose visibili attira l’animo che ragiona alla conoscenza delle cose invisibili. Il terzo mondo è quello che, in virtù della sua posizione intermedia, coniuga in sé sia quello superiore degli esseri spirituali che quello inferiore delle cose corporee e fa delle due cose una sola: questo si intende solo nell’uomo, nel quale è riunita ogni creatura. L’uomo, infatti, è composto di corpo e di anima. Prendendo il corpo da questo mondo, l’anima dall’altro, Expositiones IV, 50-67; Commentarius IV, 4; Versio Ambiguorum III, 199 (CC SG 18, p. 27). Permansio corrisponde al greco μονιμότης: cfr. Versio Ambiguorum III, 404; XXVII, 119 (CC SG 18, rispettivamente p. 34 e 162), ma si trova anche nell’uso di Agostino per esprimere la conservazione del creato nell’essere. a Cfr. Homilia cap. 8 (dove è probabilmente già adombrata questa stessa polemica contro i manichei).
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forma un unico cosmo, ornato e ordinato.a E il corpo possiede tutte le caratteristiche della natura corporea, l’anima tutte quelle della natura incorporea: queste due nature, nel momento in cui si aggregano in un unico composto, formano l’ornamento mondano intero dell’uomo. Per questo l’uomo è detto “ogni”: ogni creatura si riunisce in luib 1 come in una sorta di officina.2 Perciò anche il Signore stesso così esortò i suoi discepoli che si accingevano a predicare: Predicate il vangelo a ogni creatura (Mc 16, 15). Questo mondo, quindi, cioè l’uomo, non ha conosciuto il suo Creatore: non ha voluto conoscerlo né attraverso i simbolic 3 della Legge scritta, né attraverso gli esempi del creato visibile, trattenuto dalle catene dei pensieri carnali. E il mondo non lo conobbe (Gv 1, 10). L’uomo non conobbe il Dio Verbo, né prima che assumesse natura umana, mentre era in sé nudo nella sola divinità, né dopo l’assunzione della natura umana, rivestito della carne. Ignorava l’invisibile, negava il visibile. Non ha voluto cercare chi lo cercava, non ha voluto ascoltare chi lo chiamava, non ha voluto venerare chi lo deificava, non ha voluto accogliere chi lo accoglieva. Note di commento 1. Per l’idea che ogni creatura sia riunita nell’uomo cfr. Gregorio di Nissa, De opificio hominis XVI, 185D (citato qui alla n. b), dove Gregorio, in riferimento a Gen 1, 26 (“facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”) evidenziava l’utilizzo biblico del nome generico “uomo”, ad indicare che è la totalità della natura umana a venire creata nella prescienza divina. Il testo biblico, cioè, dice “uomo”, al singolare, ma si intendono tutti gli uomini: “Perciò il tutto è stato chiamato un solo uomo” (Διὰ τοῦτο εἷς ἄνθρωπος κατωνομάσθη τὸ πᾶν). Eriugena, nella sua traduzione (De imagine, ed. Cappuyns, p. 236 r. 4), traduce: propterea unus homo nominatum est omne. Si tratta di una resa maldestra, che a L’espressione “cosmo, ornato e ordinato” rende un unico termine latino, ornatus: Eriugena intende questo termine come traduzione esatta di κόσμος, il quale è connotato nel duplice senso di ordine e di bellezza armonica cui quest’ordine dà luogo: cfr. Commentarius III, 6. Perciò si è tentata qui una traduzione interpretativa e con allitterazione paretimologizzante (“ornato e ordinato”). b Gregorio di Nissa, De opificio hominis XVI, 185D. c Sulla nozione di “simboli” in Eriugena cfr. Expositiones VII, 458-472; Commentarius VI, 5-6.
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suona: “Perciò un solo uomo è stato chiamato tutto/ogni”. A partire da questa resa, egli rilegge a modo suo l’affermazione di Gregorio, interpretando “tutto/ogni” come nome proprio dell’uomo, e intendendola nel senso che l’uomo riassume appunto in sé ogni creatura. 2. Questa prima parte del cap. 19 costituisce una riproposizione della dottrina dell’uomo “orizzonte” (μεθόριος), ossia mediatore, fra mondo superiore ed inferiore, in quanto li riassume in sé. Gregorio di Nissa aveva dato un’interpretazione particolare di questo tema, assegnando all’uomo una posizione mediana in quanto da un lato a immagine di Dio, dall’altro diviso in maschio e femmina (De opificio hominis XVI, 181B-C; nella versione latina di Eriugena: ed. Cappuyns, p. 233 r. 33 – p. 234 r. 2). Su questo tema in Gregorio cfr. E. Corsini, ‘L’harmonie du monde et l’homme microcosme dans le De hominis opificio’, in Epektasis. Mélanges patristiques offerts au cardinal Jean Daniélou – ed. J. Fontaine, C. Kannengiesser, Paris, 1972, p. 455-462. Massimo il Confessore aveva già impostato i fondamentali di questa concezione: nell’Amb. XXXVII, citato estesamente da Eriugena in Periph. II, 530B-531A e 536A, Massimo inquadra l’interpretazione di Gregorio all’interno di una divisione della natura in cinque parti: non creata e creata; quest’ultima è divisa in intelligibile e sensibile; quest’ultima nuovamente si divide in cielo e terra; la terra si divide in paradiso e terra abitata; e infine l’uomo si divide in maschio e femmina, ma è al tempo stesso una natura tale da mediare fra tutte le altre divisioni, che proprio nella natura umana verranno superate e riunificate. L’uomo è pertanto detto ἐργαστήριον, “officina”, di tutte le cose, un termine che Eriugena adopera nella sua versione degli Ambigua e che figura anche in questo capitolo dell’Homilia. Si comprende perciò come mai il tema dell’uomo-orizzonte non compaia nell’Homilia così come inteso da Gregorio, ma inquadrato nella concezione di Massimo (e venga così riproposta una ragione della medietà umana, la compresenza di sensibile e intelligibile, non incompatibile ma neppure coincidente con quella data da Gregorio). 3. I principali studi sulla nozione eriugeniana di “simbolo” sono i seguenti: l’appendice III di Jeauneau all’ed. del Commentarius di Eriugena (SC 180), p. 397-402; J. Pépin, ‘Mysteria et Symbola dans le commentaire de Jean Scot sur l’évangile de Saint Jean’, The Mind of Eriugena. Papers of a Colloquium. Dublin, 14-18 July 1970 – ed. J. J. O’Meara, L. Bieler, Dublin, 1973, p. 16-30. Quest’ultimo studio mostra che in Eriugena i mysteria sono allegorie presenti in fatti storicamente avvenuti e raccontati nella Bibbia; invece i symbola sono allegorie raccontate ma non concretamente avvenute (es. le parabole evangeliche di Gesù). I due
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termini costituiscono di fatto una traslitterazione dal greco (μυστήριον, σύμβολον): tra le varie fonti greche di Eriugena, lo Pseudo-Dionigi mostra di adoperarli con significato analogo (es. all’inizio della sua Lettera IX). Tuttavia, in Eriugena ciascuno dei due termini viene a volte sostituito da sacramentum, il che rifletterebbe l’uso lessicale di Agostino.
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20. È venuto dunque fra i suoi (Gv 1, 11), cioè fra le cose che sono state fatte per mezzo di Lui e che, perciò, giustamente sono sue proprie. E i suoi non lo hanno accolto (Gv 1, 11). “I suoi” sono tutti gli uomini, che ha voluto redimere e ha redento. A quanti invece lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel Suo nome (Gv 1, 12). Ecco che ormai si divide non l’umanità, bensì la volontà del mondo razionale.a Quelli che ricevono il Verbo incarnato sono separati da quelli che Lo rifiutano. I fedeli credono all’arrivo del Verbo e accolgono volentieri il loro Signore. Gli empi lo negano e lo respingono con ostinazione: i giudei per invidia, i pagani per ignoranza.b A chi Lo accoglie ha dato il potere di diventare figli di Dio, a chi non lo accoglie dà ancora il tempo di farlo. A nessuno, infatti, viene tolta la possibilità di credere nel Figlio di Dio e la possibilità di essere figlio di Dio: questo è stato posto nell’arbitrio dell’uomo e nella cooperazione della grazia. A chi ha dato il potere di diventare figli di Dio? A chi lo accoglie e crede nel Suo nome. Molti accolgono Cristo, ma non credono nel Suo nome. Gli ariani lo accolgono, ma non credono nel Suo nome, non credono che l’unigenito Figlio di Dio sia consustanziale al Padre: dicono che non è ΟΜΟΟΥϚΙΟΝ, cioè coessenziale al Padre, ma ΕΤΕΡΟΥϚΙΟΝ, cioè di essenza diversa da quella del Padre. Perciò non gli serve a nulla accogliere Cristo, fintantoché insistono a negare la Sua verità.c A quanti invece accolgono Cristo, vero Dio e vero uomo, e credono in questo con saldissima fede, a loro è data la possibilità di diventare figli di Dio. a Cfr. Eriugena, De praedestinatione XVI, 2 (che richiama Agostino, De genesi ad litteram XI, 21). b Cfr. sopra, Homilia cap. 12 (per “la perfidia e l’ignoranza dei cuori empi”). Fra i richiami biblici, cfr. Mt 27, 18 e Mc 15, 10 (per la “perfidia” giudaica). c Cfr. più sopra, Homilia cap. 6.
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21. I quali sono nati non da sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio (negli antichi manoscritti greci c’è scritto soltanto: I quali sono nati non da sangue, ma da Dio)1 (Gv 1, 13). Non da sangue, dice, cioè non da procreazioni corporee sono nati quelli che ottengono di essere adottati come figli di Dio per i meriti della loro fede, ma da Dio Padre per mezzo dello Spirito Santo in coeredità con Cristo, cioè condividendo la filialità con l’unigenito Figlio di Dio (Rm 8, 14-17; Gal 4, 5-7).a Né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo. Vengono introdotti i due sessi, grazie ai quali si propaga il numero dei nati secondo la carne: l’evangelista ha inteso con la menzione della carne il sesso femminile, con quella dell’uomo il sesso maschile.b Non dire: “Sembra impossibile che i mortali diventino immortali, i corruttibili incorruttibili, che semplici esseri umani siano figli di Dio, che creature temporali possiedano l’eternità!”. Trai invece dalle cose più grandi un argomento con cui rinsaldare la fede intorno a ciò che ti crea dei dubbi: E il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14). Allora, se il fatto più grande si è già verificato senza dubbio, perché dovrebbe risultare incredibile che possa conseguirne il fatto meno grande? Se il Figlio di Dio si è fatto uomo – e su questo nessuno di quelli che lo hanno accolto ha dubbi – che cosa c’è da stupirsi se l’uomo, credendo nel Figlio di Dio, diventerà figlio di Dio? Anzi, proprio perciò il Verbo è disceso nella carne: perché la carne (l’uomo), attraverso la carne credendo nel Verbo, ascenda a Lui; perché per mezzo del Figlio naturale unigenito molti vengano resi figli adottivi. Il Verbo si è fatto carne non per se stesso, ma per noi, che non avremmo potuto venire trasformati in figli di Dio se non per mezzo della carne del Verbo. È disceso da solo, ascende con molti.c Colui che di Dio fece un uomo, fa degli uomini dèi. Cfr. sopra, Homilia cap. 15, p. 80 n. a (“filialità”). Agostino, In Iohannis evangelium II, 14. c Cfr. per questo tema Eriugena, Commentarius III, 5 (relativo a Gv 3, 13: “E nessuno è asceso in cielo, se non Colui che è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo che è nel cielo”). a
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Ed ha abitato fra noi (Gv 1, 14), cioè ha preso possesso della nostra natura, per farci partecipi della Sua natura.a Note di commento 1. L’osservazione di Eriugena sulla lezione data dai mss. greci è parzialmente esatta: alcuni di essi, infatti, in corrispondenza del versetto qui commentato non riportano la pericope “né dalla volontà dell’uomo”.
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22. E abbiamo visto la Sua gloria, la gloria come di unigenito dal Padre (Gv 1, 14). Dove hai visto, santo teologo, la gloria del Verbo incarnato, la gloria del Figlio di Dio fatto uomo? Quando l’hai vista? Con quali occhi l’hai scrutata? Con gli occhi del corpo, immagino, sul monte, al momento della trasfigurazione: allora tu eri lì come terzo testimone della glorificazione divina (Mt 17, 1-9; Mc 9, 1-9; Lc 9, 28-36). Eri presente, a quanto credo, a Gerusalemme, e hai sentito la voce del Padre che glorificava il Suo Figlio dicendo: “L’ho glorificato, e lo glorificherò di nuovo!” (Gv 12, 28). Hai udito folle di bambini che gridavano: “Osanna al figlio di David!” (Mt 21, 10; Mc 11, 9-10; Lc 19, 37-38). Che cosa dirò della gloria della resurrezione? L’hai visto risorgere dai morti, quando entrò da te e dai tuoi condiscepoli a porte chiuse (Gv 20, 26). Hai visto Sua gloria quando è asceso al Padre, quando è stato assunto in cielo dagli angeli (At 1, 9-11). E, sopra tutte queste cose, hai contemplato con altissimo sguardo della mente Lui, il Verbo, nel suo principio presso il Padre Suo, dove hai visto la Sua gloria come di unigenito dal Padre. 23. Pieno di grazia e di verità (Gv 1, 14). Il senso di questa frase è duplice. Si può infatti intendere relativamente alla umanità e divinità del Verbo incarnato, così che la pienezza della grazia si riferisca all’umanità, la pienezza della verità alla divinità.b Infatti il Verbo incarnato, il nostro Signore Gesù Cristo, ha ricevuto a b
Cfr. Eriugena, Commentarius I, 21. Cfr. Eriugena, Commentarius I, 22.
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la pienezza della grazia quanto all’umanità, perché è capo della Chiesa (Ef 4, 15; 5, 23) e primogenito di ogni creatura (Col 1, 15-18), cioè di tutta l’umanità intesa in modo universale, che in Lui e per mezzo di Lui è stata risanata e restaurata (Ef 1, 10). Dico “in Lui” perché Lui è il modello supremo e primo della graziaa per la quale, senza alcun merito precedente, l’uomo viene reso Dio, e in Lui questo modello si è manifestato in modo primordiale. Ma anche “per mezzo di Lui”, perché dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto (Gv 1, 16) la grazia della deificazione in cambio della grazia della fede, con cui crediamo in Lui, e dell’azione, con cui osserviamo i suoi precetti.b La pienezza della grazia di Cristo si può anche intendere riferita allo Spirito Santo: lo Spirito Santo, in quanto dispensatore e operatore dei doni della grazia, spesso viene anche detto “grazia”. L’operazione di questo Spirito, la quale ha sette forme, ha riempito l’umanità di Cristo e in Lui ha riposato, come dice il profeta: E riposerà su di Lui lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e d’intelletto, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di scienza e di pietà; e Lo ha riempito lo Spirito del timore del Signore (Is 11, 2-3). Dunque, se vuoi intendere riferita a Cristo in se stesso l’espressione pieno di grazia, sappi che è relativa alla pienezza della deificazione e della santificazione secondo l’umanità: della deificazione, dico, per la quale l’uomo e Dio sono stati unificati nell’unità di un’unica sostanza; e della santificazione, per la quale non solo è stato concepito dallo Spirito Santo, ma è anche stato riempito dalla pienezza dei suoi doni e, come sulla cima del mistico candelabro della Chiesa, le lampade delle grazie risplendettero in Lui e da Lui.c Oppure, se preferisci, puoi intendere la pienezza della grazia e della verità del Verbo incarnato come riferita al Nuovo Testamento, come anche lo stesso evangelista, poco oltre, sembra intendere. Dice infatti: La Legge è stata data attraverso Mosè, la grazia L’espressione “modello supremo e primo della grazia” traduce il latino maximum et principale exemplum gratiae: principale exemplum rende spesso in Eriugena il greco πρωτότυπον. b Agostino, In Iohannis evangelium III, 8-9. c Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium LXIII; cfr. Eriugena, Periphyseon II, 563D-564C. a
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e la verità sono state fatte attraverso Gesù Cristo (Gv 1, 17). In tal caso, non a sproposito dirai che la pienezza della grazia del Nuovo Testamento è stata donata attraverso Cristo e che in Lui è stata compiuta la verità dei simboli della Legge,a come dice l’Apostolo: Nel quale abita corporalmente la pienezza della divinità (Col 2, 9), chiamando cioè “pienezza della divinità” i significati mistici delle cose adombrate nella Legge. Cristo, venendo nella carne, ha insegnato e manifestato che questi significati si trovavano in Lui corporalmente (cioè in modo vero), perché Lui è la fonte e la pienezza delle grazie, la verità dei simboli della Legge, il termine delle visioni profetiche.b A Lui la gloria insieme col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.
L’espressione “simboli della legge” rende il latino legalia symbola, espressione che a sua volta traduce il greco τὰ νομικὰ σύμβολα, ricorrente nello Pseudo-Dionigi e in Massimo il Confessore (cfr. sopra, cap. 19 n. c e n. 3). b Cfr. Eriugena, Expositiones I, 250-251: “Dalle visioni profetiche che i greci chiamano θεοφανείας [‘teofanie’], cioè apparizioni divine” (Ex uisionibus propheticis, quas Graeci θεοφανείας appellant, id est diuinas apparitiones). a
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Giovanni Scoto Eriugena Commento sul vangelo di Giovanni
I, 20. È venuto dunque fra i suoi (Gv 1, 11), cioè si è incarnato nella natura umana. E i suoi non lo hanno accolto. Questo è detto dei perfidi giudei e di tutti gli empia che non hanno voluto accogliere il Verbo di Dio, cioè non hanno voluto né credere in lui né comprenderlo.b E perché non si pensasse che nessuno degli uomini lo accolse – dall’inizio del mondo, infatti, non c’è mai stato un tempo in cui non ci fosse chi accogliesse il Verbo divino – perciò l’Evangelista ha aggiunto: A quanti invece lo hanno accolto, cioè a tutti quelli che hanno creduto in lui, ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12). Non ha detto: “ha dato loro il potere di salvarsi”, o “ha dato loro il potere di ritornare nell’originaria condizione e dignità della natura umana”, ma – il che è ineffabile e impossibile ad ogni natura per sé sola – ha dato loro la possibilità di diventare figli di Dio per mezzo della sublimità della sua grazia.c A quelli che credono nel suo nome, a quelli cioè che credono che riceveranno la conoscenza e la comprensione intelCfr. Homilia cap. 20 (dove la menzione dei perfidi e degli empi viene fatta commentando il versetto Gv 1, 12 immediatamente successivo a quello di questo passo del Commentarius) e cap. 12. Esegesi analoga del versetto giovanneo si legge in Agostino, In Iohannis evangelium II, 12. b Allusione a Is 7, 9, che nella versione biblica greca dei Settanta dice: “Se non crederete, neppure comprenderete” (καὶ ἐὰν μὴ πιστεύσητε, οὐδὲ μὴ συνῆτε). Questo versetto era stato spesso ripreso da Agostino nelle sue opere, nel contesto della determinazione del rapporto che intercorre tra fede e ragione. c La specificazione qui fatta da Eriugena, secondo cui il potere di diventare figli di Dio non indica il ritorno nell’originaria condizione umana, sottende la sua dottrina secondo cui il ritorno della natura umana nella sua condizione originaria (precedente al peccato originale) è garantita a tutta la natura umana insieme per natura e per grazia, mentre soltanto agli eletti spetta la deificazione, ossia appunto il “potere di diventare figli di Dio” in virtù della grazia divina (cfr. Periph. V, 902D-906C). a
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lettuale di lui, grazie alla fede in questa vita, grazie alla visione nell’altra.
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I, 21. I quali non da sangue, cioè non da seme, né dalla volontà della carne, cioè né dal sesso femminile (spesso infatti la carne simboleggia il sesso femminile), né dalla volontà dell’uomoa (Gv 1, 13), cioè né dal seme maschile.b Si può anche intendere né dalla volontà della carne in modo che ciò che segue (né dalla volontà dell’uomo) ne sia una spiegazione. Non mancano infatti quelli che attribuiscono soltanto alla carne il moto irrazionale per mezzo del quale gli uomini sono concepiti nella carne, come se ciò non riguardasse per niente l’anima, malgrado la carne senza l’anima non possa nulla in queste cose. E perciò seguirebbe: né dalla volontà dell’uomo, nel senso di “né dalla volontà dell’essere umano intero”. Spesso i sapienti designano col termine “uomo” l’essere umano. Ma sono nati da Dio, ossia per mezzo della grazia del battesimo, nel quale chi crede in Cristo inizia a nascere da Dio. Ma perché nessuno ritenesse impossibile che l’essere umano mortale, carnale, fragile e corruttibile fosse innalzato a una gloria tale da diventare figlio di Dio, l’Evangelista, come riprendendo fiato e rispondendo ai pensieri inespressi degli infedeli, ha posto un argomento fortissimo: E il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14). Come a dire: non stupitevi che la carne (cioè l’uomo mortale) possa diventare figlio di Dio per grazia, dato che c’è un miracolo più grande, il Verbo fatto carne. Infatti, se ciò che è superiore discende all’inferiore, che c’è di strano se ciò che è inferiore ascende a ciò che è superiore, con l’aiuto della grazia di quest’ultimo? Specialmente dal momento che è per questo che il Verbo si è fatto carne, perché l’uomo diventasse figlio di Dio. Il Verbo è disceso nell’uomo perché per mezzo di Lui l’uomo ascendesse a Dio.c Questa “Uomo” corrisponde nel testo latino a uiri, cioè specificamente uomo di sesso maschile, e non genericamente “essere umano” (in tal caso si avrebbe homo). b Stessa interpretazione di questo versetto in Homilia cap. 21 (come lì segnalato, l’interpretazione risale ad Agostino, In Iohannis evangelium II, 14). c Cfr. Homilia 21. Eriugena riprende qui nuovamente Agostino, In Iohannis evangelium II, 15 (seguito del brano segnalato nella nota precedente) per spiegare a
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frase evangelica vale anche all’inverso, alla maniera dei proloqui:a come diciamo “Il Verbo si è fatto carne”, così possiamo dire: “E la carne si è fatta Verbo”. Ed ha abitato fra noi (Gv 1, 14), cioè ha vissuto fra noi uomini. Il Verbo ha abitato fra noi, cioè ha preso possesso della nostra natura.b I, 22. E abbiamo visto la sua gloria (Gv 1, 14). Cioè noi, che egli ha scelto fra tutto il creato, abbiamo visto la sua gloria in miracoli chiarissimi, nella trasfigurazione sul monte spirituale, nello splendore della resurrezione; e non un’altra gloria, ma la gloria dell’unigenito dal Padre (Gv 1, 14). Pieno di grazia. Si sottintende: lo abbiamo visto pieno di grazia quanto alla sua natura umana, e di verità quanto a quella divinac (Gv 1, 14). I, 23. Giovanni testimonia di lui, cioè del Verbo, e grida – o, come si legge in greco: e gridòd – dicendo: “Era questo l’uomo di cui io dissi” o, come dice il testo greco, di cui io dicevo (Gv 1, 15): il che è molto più significativo. Infatti, se avesse utilizzato il passato perfetto “dissi”, avrebbe inteso dire che la l’interpretazione dell’economia salvifica, tradizionale soprattutto nella patristica greca, secondo cui all’incarnazione del Verbo corrisponde il movimento inverso, ossia la deificazione dell’uomo, cioè la sua divinizzazione. La dottrina della deificazione dell’uomo era per lo più estranea alla patristica latina: perciò Eriugena la introduce sempre difendendola con argomenti il più possibile accettabili per un lettore di lingua latina: in questo caso, ad esempio, facendo leva sulle parole stesse dell’evangelista e adducendo un Padre latino, Agostino, il quale nella sua esegesi del prologo giovanneo parlava anch’egli di “nascita da Dio” in seguito al battesimo, sebbene non propriamente di “diventare Dio”. a Proloquium è un termine della logica che Eriugena riprende da Marziano Capella, dove designava una frase composta da un soggetto in nominativo e da un predicato di terza persona singolare, vera, falsa o dubbia (De nuptiis IV, 389-390). Qui Eriugena si riferisce più specificamente alla “conversione di proposizione” (in particolare alla “conversione semplice”), ossia all’inversione di soggetto e attributo del soggetto (su cui cfr. Marziano Capella, De nuptiis IV, 396-403). b Stessa esegesi di “ed ha abitato fra noi” in Homilia cap. 21. c Cfr. Homilia cap. 23. d Il testo biblico latino citato da Eriugena ha infatti clamat, al presente, mentre in greco il verbo corrispondente è κέκραγεν, al perfetto.
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sua opera di predicare il Cristo era un’azione già conclusa; invece, l’imperfetto “dicevo” significa sia l’inizio nel passato della predicazione di Cristo da parte di Giovanni che la perseveranza nella predicazione stessa, ancora in corso. Questo era: “questo” è il pronome dimostrativo che si utilizza per una persona presente; ciò ci permette di capire che Cristo era presente in quel luogo in cui Giovanni ha fornito apertamente una tale designazione di Lui. E non c’è da stupirsene. Spesso infatti il Signore, ancora sconosciuto quasi a tutti, prima di essere battezzato e di iniziare a predicare, era solito recarsi da Giovanni. Perciò Giovanni afferma: Era questo l’uomo di cui io dissi. In questo passo, come spesso anche in quelli precedenti, il verbo “era” indica non valore temporale ma di sussistenza, di modo che intendiamo “questo era” come se dicesse esplicitamente: “È questo, sussiste questo, l’uomo che vi dicevo”.a A chi lo diceva? Naturalmente ai suoi discepoli, ai quali predicava il Cristo ancora assente e poi, quando fu presente, lo mostrava. Questo emerge dal seguito del testo, dove dice ai suoi discepoli: Ecco l’agnello di Dio! (Gv 1, 29; 1, 35-36). Colui che verrà dopo di me, o come è scritto in altri codici: Colui che venne dopo di me (Gv 1, 15). Infatti il termine greco corrispondente ΕΡΧΟΜΕΝΟϚ è participio sia del passato che del futuro.b È stato fatto prima di me (Gv 1, 15). Come se dicesse esplicitamente: “Colui che viene nel mondo dopo di me in ordine di tempo, per concepimento e nascita, è stato fatto prima di me, è superiore a me nell’ordine della dignità. Io infatti sono un puro e semplice uomo; Lui è più di un uomo, in quanto composto di umanità e divinità; Lui è il Signore, io un servo; Lui è il re, io il suo precursore”. Perciò prosegue: perché era prima di me, non solo per l’eternità della sua divinità, ma anche per la dignità della Sul valore “di sussistenza” dell’imperfetto (di contro al valore temporale) cfr. Homilia cap. 6 e 18. b L’indicazione grammaticale qui fornita da Eriugena sul participio ἐρχόμενος è per la verità scorretta (in greco si tratta di un participio presente), indice di come anche la sua padronanza del greco, pur così eccezionale per l’epoca carolingia, non fosse sempre ineccepibile. a
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sua umanità. Ma se un lettore attento controllerà il testo greco, intenderà in un altro modo l’espressione: Colui che verrà dopo di me (ossia “Colui che sarebbe venuto dopo di me”, o “Colui che è venuto nel mondo dopo di me”), è stato fatto prima di me, cioè è apparso davanti a me; e come l’ho profetato e l’ho conosciuto con gli occhi dello spirito mentre ero ancora nel grembo materno, così anche ora coi miei occhi di carne lo scorgo fatto davanti a me, cioè che viene. Infatti, l’espressione ΕΜΠΡΟΣΘΕΝ ΜΟΥ del testo greco si traduce propriamente “davanti a me”, cioè davanti ai miei occhi.a E che cosa osservo in lui, vuoi con gli occhi della carne vuoi con quelli del corpo? Nient’altro che il fatto che Egli era prima di me o, come dice in modo più significativo il greco, che Egli era “primo rispetto a me”. Per questo è stato fatto in mia presenza, perché conoscessi che Lui è primo, ossia che mi precede in tutto. Mi precede infatti nella pienezza della grazia. Tutto ciò che io possiedo per grazia, non lo ricevo da altro che dalla pienezza della sua grazia. I, 24. Perciò coerentemente ha aggiunto: E della Sua pienezza abbiamo ricevuto tutti noi (Gv 1, 16). Di che pienezza sta parlando? La stessa di cui sopra ha detto: E abbiamo visto la Sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 14). In Cristo infatti abita la pienezza della grazia quanto all’umanità, e la pienezza della verità quanto alla divinità.b Per cui anche l’Apostolo dice: In Lui abita corporalmente – cioè veramente – la pienezza della divinità (Col 2, 9). Ma in che modo la pienezza della grazia risiede in Cristo quanto all’umanità? Semplicemente in quanto Lui è il primo e massimo modello della grazia divina,c in quanto Cristo uomo, senza alcun merito precedente, è stato assunto nell’unità della sostanza o, per dirla al modo più corrente, nell’unità della persona.d Per questi temi cfr. Homilia cap. 16. Sulla pienezza della grazia e della verità in Cristo cfr. più sopra Commentarius I, 22 e Homilia cap. 16. c Su Cristo come modello della grazia cfr. Homilia cap. 23. d Come già visto a proposito dell’Homilia (cap. 5), Eriugena nelle definizioni trinitarie adopera in latino i corrispettivi della terminologia greca, ossia essentia a
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In Lui c’è per natura la pienezza della verità, perché Lui è verità, come ha detto Lui stesso: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Della Sua pienezza secondo l’umanità e la divinità abbiamo ricevuto noi tutti. Con noi tutti intende “noi che fra il popolo di Israele lo abbiamo accolto e quelli che fra i popoli di tutto il mondo hanno creduto in Lui”. Abbiamo ricevuto la grazia, per la quale crediamo in lui, e la verità, per la quale Lo comprendiamo con l’intelletto.a E quel che segue, grazia in cambio di grazia, è perché si sottintenda: abbiamo ricevuto dalla sua pienezza grazia in cambio di grazia, ossia la grazia della contemplazione della verità in cambio della grazia della confessione di fede nel Suo essersi fatto uomo, ossia la grazia della visione in cambio della grazia della fede, la grazia della deificazione in futuro in cambio della grazia dell’azione e della scienza nel presente.b E perché nessuno di quelli che si gloriano nella Legge ritenesse di aver ricevuto la grazia e la verità dalla Legge, subito ha aggiunto: Perché la Legge è stata data attraverso Mosè (Gv 1, 17). È come se avesse detto: dico che è dalla pienezza di Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto la grazia e la verità, e non dalla Legge per questo motivo: attraverso Mosè la Legge è stata soltanto data, senza che fornisca alcuna grazia a chi la riceve secondo la lettera, dato che non è altro che un’ombra e un simbolo del Nuovo Testamento.c La grazia e la verità sono state fatte attraverso Gesù Cristo (Gv 1, 17). Si può anche intendere così: la Legge, finché viene considerata in Mosè, cioè nella nuda lettera, è sole substantia per οὐσία e ὑπόστασις, laddove in latino si parlava rispettivamente di substantia e di persona. a Sugli uomini che hanno accolto Cristo cfr. Homilia cap. 20; sulla fede come grazia cfr. Homilia cap. 23. b Sulla visione della verità che viene a sostituire la fede cfr. Homilia cap. 23 (e il riferimento ad Agostino, In Iohannis evangelium III, 8-9). c L’idea che l’Antico Testamento non sia altro che un’“ombra” del Nuovo proviene dalla Lettera agli ebrei (10, 1). Tale affermazione si inquadra nella visione cristiana della storia come progressiva rivelazione della divinità all’uomo. Il punto di svolta in tale svolgimento storico è dato naturalmente dall’incarnazione, dalla predicazione e dalla morte e resurrezione di Gesù, di cui Eriugena dirà più avanti (I, 31) che era come il corpo che proiettava l’ombra costituita dall’Antico Testamento.
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tanto Legge; quando invece viene considerata in Cristo, è grazia e verità. Lo spirito della Legge, infatti, è grazia e verità in Cristo Gesù. Perciò la Legge, considerata in Mosè, non è grazia e verità, mentre in Cristo lo è. È in questo modo che sant’Agostino distingue il Vecchio Testamento dal Nuovo. Dice infatti: “La Legge è stata data perché si ricercasse la grazia; la grazia è stata data perché si adempisse la Legge”.a Presenta quindi tre cose – la Legge, la grazia, la verità – sottendendo tre gerarchie: la prima nel Vecchio Testamento, tramandata in enigmi oscurissimi; la seconda (che chiamiamo anche mediana) nel Nuovo Testamento, dove si trova l’abbondanza della grazia e la manifestazione chiarissima delle cose dette e fatte in forma di mistero nella Legge; la terza, quella celeste, che inizia già in questa vita e che verrà portata a compimento nell’altra, in cui senza più nebbia alcuna verrà donata a coloro che vengono deificati la contemplazione della pura verità. Col nome di “Legge” si allude quindi alla prima gerarchia, con quello di “grazia” alla seconda, con quello di “verità” alla terza. Chiunque desideri saperne di più su queste tre gerarchie, legga san Dionigi Areopagita.b Cfr. Agostino, De spiritu et littera XIX, 34. La nozione stessa di “gerarchia” nasce con gli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita. Questi infatti distingue fra una gerarchia celeste (composta di ordini triadici di intelligenze angeliche che mediano l’illuminazione divina in direzione degli ordini di creature inferiori), e due gerarchie terrene: la gerarchia ecclesiastica (la quale è a sua volta strutturata grosso modo triadicamente e imita la gerarchia celeste) e la gerarchia legale, la quale non costituisce oggetto di un approfondimento a sé stante, ma viene menzionata e caratterizzata in luoghi sparsi del corpus delle opere pseudodionisiane. Il fine delle gerarchie è unico, ossia la divinizzazione, processo di risalita unificante realizzato in ciascun grado della gerarchia (con una cooperazione di adesione volontaria e di grazia dall’alto) nei limiti delle possibilità stabilite relativamente a quel grado. Come nel testo di Eriugena, anche nello Pseudo-Dionigi la gerarchia ecclesiastica è stata preceduta da quella legale, relativa alla fase della rivelazione corrispondente all’Antico Testamento e perciò caratterizzata dalla comprensione della verità solo per mezzo di simboli oscuri. La gerarchia ecclesiastica, che interviene nel momento della rivelazione e della buona novella, conosce meglio questa verità grazie alla rivelazione compiuta dei due Testamenti: essa ha in comune con quella legale la comprensione simbolica del sensibile, e con quella celeste la contemplazione intelligibile (De ecclesiastica hierarchia V, 1-2). La gerarchia ecclesiastica si trova perciò appunto, come dice anche Eriugena, in una posizione intermedia fra quella legale e quella angelica. Per una discussione approa
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I, 25. Nessuno ha mai visto Dio (Gv 1, 18). Al cumulo delle lodi della pienezza di Cristo viene aggiunto: Nessuno ha mai visto Dio. E da questa circostanza della invisibilità divina la natura umana sarebbe stata privata di ogni beatitudine (contemplarlo infatti è la vera beatitudine), se non fosse venuta in soccorso la bontà divina attraverso l’incarnazione dell’unigenito Figlio di Dio, il quale nella carne (ossia nell’umanità assunta nella sua interezza) mostrò non solo se stesso, ma manifestò agli uomini il Dio Padre prima del tutto sconosciuto;a come dice Lui stesso: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato (Gv 17, 6). Ancora, a Filippo che gli chiede: Mostraci il Padre, e questo ci basta, viene risposto: Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio (Gv 14, 8-9). E ancora: Nessuno ha visto il Figlio tranne il Padre, e nessuno ha visto il Padre tranne il Figlio e quelli a cui il Figlio ha voluto rivelarlo (Mt 11, 27). Questo va compreso in riferimento non solo agli uomini, ma anche agli angeli: anche gli angeli non hanno potuto conoscere nella sua natura il loro Dio, che supera ogni intelletto, perché è invisibile e sconosciuto. Ma con l’incarnazione del Verbo hanno compreso il loro Signore, cioè il Figlio di Dio e, in Lui e per mezzo di Lui, anche di tutta la Trinità trascendente il tutto. Così, il farsi uomo del Dio Verbo giovò in modo universale sia alle creature razionali che a quelle intellettuali: a quelle razionali, liberandone la natura dalla morte, dalla schiavitù del diavolo e dall’ignoranza della verità; a quelle intellettuali facendo loro conoscere la loro causa che prima ignoravano.b Perciò l’Apostolo dice: In Lui sono state restaurate tutte le cose, quelle in cielo e quelle in terra (Ef 1, 10). Ma giustamente ci si chiede perché nel Vecchio e nel Nuovo Testamento spesso si legge che Dio è apparso agli uomini, sia vifondita della nozione di gerarchia si v. R. Roques, L’universo dionisiano. Struttura gerarchica del mondo secondo ps. Dionigi Areopagita, Milano, 1996. a Cfr. Homilia cap. 11, a proposito del quale si è già fatto riferimento alla possibile matrice scritturistica della riflessione (Cristo “immagine del Dio invisibile”: Col 1, 15). b La stessa considerazione sul fatto che l’incarnazione ha giovato non solo agli uomini ma anche agli angeli si trova nell’Homilia cap. 11, in Periph. V, 912C-913A e in uno dei componimenti poetici di Eriugena (Carmina, pars II, VIII, v. 41-50 – ed. L. Traube in MGH Poetae 3, p. 539).
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sibilmente agli occhi del corpo, sia invisibilmente con visioni profetiche, malgrado il vangelo dica: Nessuno ha mai visto Dio. Se fosse detto del solo Padre che nessuno lo ha visto, il problema si risolverebbe in modo facilissimo, interpretando nel senso che le persone del Figlio e dello Spirito Santo sono spesso apparse visibilmente, mentre il solo Padre è al di là di ogni visione.a Tuttavia, non a una sola persona, bensì all’intera Trinità che è un unico Dio va riferito il detto Nessuno ha mai visto Dio, cioè l’essenza e la sostanza dell’unica Trinità, perché essa supera ogni intelligenza delle creature razionali e intellettuali. Perciò con buona ragione occorre indagare che cosa è apparso quando si dice che Dio è apparso, visibilmente o invisibilmente. Sant’Agostino afferma senza esitare che il Figlio è apparso nell’Antico Testamento, non però in quella sostanza per cui è uguale al Padre, ma in qualche creatura subordinata, visibile o invisibile. In modo simile, quando si legge che è apparso lo Spirito, ad esempio in forma di colomba, bisogna ritenere che sia apparso non in sé, in quella sostanza per cui è coessenziale al Padre e al Figlio, ma in una creatura subordinata. Lo stesso devi pensare riguardo al Padre.b Anche le visioni dei profeti, in cui si racconta che i profeti hanno visto Dio, sono avvenute in una qualche creatura spirituale subordinata. Dionigi sostiene fermamente che la sostanza divina in se stessa non è apparsa loro
a Anche Agostino si era interrogato su come conciliare il passo giovanneo con le visioni di Dio narrate nel testo biblico (cfr. De trinitate II, 9-18 e l’epistola 147 de videndo Deo). Secondo una tradizione che risaliva fino al II secolo d.C., il soggetto delle teofanie, ossia delle apparizioni divine ai patriarchi e a Mosè era il Logos-Figlio, in quanto manifestazione visibile del Dio invisibile. A causa di questo suo ruolo intermedio e implicitamente subordinato, all’epoca della controversia ariana i teologi cristiani sostenitori del simbolo niceno sulla piena consustanzialità del Figlio rispetto al Padre tentarono di riformulare la dottrina delle teofanie come manifestazioni o dell’intera Trinità, o di una delle sue persone indifferentemente, in modo da non intenderle più soltanto come manifestazioni specificamente del Logos. Agostino avrebbe proseguito questa linea, svincolando compiutamente la nozione di teofania da ogni subordinazionismo relativo al Figlio (così M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, 1975, p. 506-511; cfr. anche R. P. Vaggione, Eunomius of Cyzicus and the Nicene Revolution, Oxford, 2001, p. 127-140). b Così Agostino nella già menzionata Ep. 147 e nel commento a Giovanni (In Iohannis evangelium III, 17).
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in alcun modo, perché non si ritenga che essa, che è invisibile e incomprensibile, possa essere in qualche modo vista o compresa.a Ci si chiede anche se ciò soltanto degli uomini che sono ancora in questa vita, e non delle potenze celesti, che sono eternamente stabili nella contemplazione divina. A questo bisogna rispondere che nessuno, partecipe vuoi della natura umana vuoi di quella angelica, può contemplare Dio in sé nella sua propria natura.b Ciò che nel testo latino è formulato come Nessun uomo ha visto Dio, in greco è Nessuno ha visto Dio: ΟΥΔΕΙϚ si traduce sia “nessun uomo” che “nessuno”. Che cosa vedono, allora, le anime sante degli uomini e gli intelletti santi degli angeli, quando vedono Dio, se non vedono Dio stesso, che si racconta abbiano visto? Per fare solo qualche esempio fra i molti possibili, Isaia ha visto il Signore che sedeva su un trono eccelso (Is 6, 1). Il Signore dice nel vangelo: I loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18, 10). E anche: Chi ama me, sarà amato dal Padre mio, e io amerò Lui, e mi mostrerò a lui (Gv 14, 21). Nella sua epistola, Giovanni dice: Sappiamo che siamo figli di Dio, ma ancora non è apparso ciò che saremo. Sappiamo però che, quando Lui apparirà, Lo vedremo così come è (1 Gv 3, 2). E Paolo: Ora vediamo come in uno specchio e per enigmi, ma allora vedremo faccia a faccia (1 Cor 13, 12). E altre cose del genere. Ma quindi, che cosa vedono o vedranno gli uomini e gli angeli, se sant’Ambrogio e Dionigi Areopagita ribadiscono nel modo più inequivocabile e senza esitare che Dio, cioè la somma Trinità, a a Sull’impossibilità di vedere e comprendere Dio secondo lo Pseudo-Dionigi Areopagita cfr. De caelesti hierarchia IV, 3 (dove pure viene addotto Gv 1, 18) e il commento di Eriugena ad loc. (Expositiones IV, 380-418). Nel pensiero dello Pseudo-Dionigi, l’impossibilità di vedere e, più in generale, di cogliere la divinità in sé e per sé, certificata dal versetto giovanneo, era teologicamente fondata sulla concezione neoplatonica secondo cui il principio divino supremo è collocato al di sopra della sfera dell’essere: tale concezione nasce dall’interpretazione della Repubblica di Platone, VI, 509B, dove si dice che l’idea del Bene è ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, “al di là dell’essere”, coniugata con l’interpretazione teologica della prima ipotesi del Parmenide, che nega che l’uno partecipi dell’essere (141D7-E10). In quanto al di là dell’essere, la natura del principio divino è pertanto al di sopra di ogni possibile intellezione e discorso e, a maggior ragione, al di sopra di ogni percezione sensibile. b Cfr. Ambrogio, Expositio in Lucam I, 385-387; Agostino, Ep. 147, VI, 18.
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nessuno è mai apparsa, appare e apparirà per se stessa?a Apparirà allora nelle sue teofanie, cioè nelle apparizioni divine, in cui Dio apparirà secondo l’altezza della purezza e della virtù di ciascuno. Teofanie sono tutte le creature visibili e invisibili attraverso le quali e nelle quali Dio spesso è apparso, appare e apparirà.b Ancora, le teofanie sono le potenze delle anime perfettamente purificate e degli intelletti: in loro Dio si manifesta quando Lo cercano e Lo amano.c In esse, come in nubi, i santi vengono rapiti incontro a Cristo, come dice l’Apostolo: Saremo rapiti nelle nubi incontro a Cristo (1 Ts 4, 17), chiamando nubi le luminosissime altitudini della contemplazione divina, in cui saranno sempre con Cristo. Perciò Dionigi dice: “E se qualcuno dice di averlo visto – (s’intende Dio) – non ha visto Lui, ma qualcosa fatto da Lui”.d Infatti è assolutamente invisibile Colui “che si conosce meglio non conoscendo”,e e “la cui ignoranza è vera sapienza”.f I, 26. Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre (Gv 1, 18). O, come è scritto in greco: che è al seno del Padre, o Cfr. Ambrogio, Expositio in Lucam I, 369-432; e nuovamente Pseudo-Dionigi, De caelesti hierarchia IV, 3. b L’assoluta trascendenza della divinità (imposta dal neoplatonismo cristiano recepito da Eriugena) genera il dilemma della privazione della visione beatifica “faccia a faccia”: Eriugena opta per una via media, quella della visione di Dio non così com’è in se stesso, ma nelle sue manifestazioni commisurate alla capacità e al merito della creatura. La stessa soluzione viene prospettata da Eriugena in varie sue opere. Su tutto ciò cfr. Homilia cap. 1 n. 6. c Per queste osservazioni sulle potenze delle anime in relazione alle teofanie cfr. Expositiones IV, 287-309. Le creature stesse sono delle teofanie, in quanto Dio si manifesta a loro che lo cercano. d Citazione da Pseudo-Dionigi, Ep. 1. e Citazione da Agostino, De ordine II, 16, 44. f Citazione da Pseudo-Dionigi, Ep. 1, la stessa epistola citata nelle righe precedenti. Il paradosso secondo cui esiste una forma di ignoranza superiore alla conoscenza (tema della docta ignorantia) è tipicamente neoplatonico: lo Pseudo-Dionigi, qui seguito da Eriugena, applica audacemente tale concetto alla divinità, la quale è ignorante in senso eccellente, ossia in quanto è al di sopra della sapienza di cui sono capaci le creature. Si tratta della stessa forma di negazione eccellente che consente allo Pseudo-Dionigi e ad Eriugena di parlare di Dio come “non-essere”, o “nulla”, in quanto superiore all’essere (l’idea che il primo principio si collochi in una dimensione “extraontologica” è anch’essa caratteristicamente neoplatonica: cfr. qui sopra, p. 102 n. a). a
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nei seni del Padre. In alcuni manoscritti greci il seno del Padre è detto al singolare, in altri al plurale, come se il Padre avesse molti seni.a Egli ha narrato (Gv 1, 18). Il Figlio unigenito, dunque, ha narrato Dio, cioè si è manifestato in se stesso, non in quanto divinità, che è assolutamente invisibile, ma in quanto umanità, che ha assunto per manifestare se stesso, il Padre Suo e lo Spirito Santo agli uomini e agli angeli. Infatti l’anima umana, pur essendo in sé invisibile, manifesta attraverso i movimenti del corpo non che cos’è, ma il fatto che è.b E che cosa significa che è nel seno del Padre, o nei seni del Padre? Forse che una cosa è il seno del Padre, un’altra il Figlio unigenito del Padre? Non altro, bensì lo stesso Figlio unigenito è il seno del Padre. Il Figlio è detto “seno del Padre”, perché ha insinuato il Padre nel mondo. È il seno del Padre anche perché è sempre nei segreti della natura paterna,c come dice Lui stesso: Io sono nel Padre, e il Padre in me (Gv 14, 10). Dunque la casa del Padre è il Figlio unigenito, come dice Lui stesso: Nella casa del padre mio ci sono molte dimore (Gv 14, 2), come a dire: “In me, in cui il Padre abita come nella propria casa, ci sono molte dimore; in essa ognuno avrà una sua accoglienza secondo i suoi meriti e la Sua grazia”. Così, allo stesso modo, il Figlio è anche seno del Padre: in Lui il Padre riceve e raduna quelli che vuole ricevere e radunare.d a La lezione “seni”, al plurale, è per la verità attestata non dalla tradizione manoscritta neotestamentaria, ma dalle citazioni presso alcuni Padri greci. b Sulla base del detto biblico per cui l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1, 26-27), Eriugena sviluppa questa analogia fra l’uomo e la divinità anche nel Periphyseon, specialmente nel libro “antropologico” (il quarto). Eriugena vi spiega che l’uomo non può conoscere la propria essenza, ma solo il fatto di esistere, proprio come la divinità non può conoscere di sé “che cos’è”, ma solo “che è” (IV, 771B-D): così facendo, non solo dà dignità filosofica all’antica massima “conosci te stesso”, ma soprattutto coniuga le riflessioni di Gregorio di Nissa sull’inconoscibilità dell’animo umano (De opificio hominis XI = De imagine XI, citato in Periph. IV, 788B-789A) con il celebre tema della divina ignorantia sviluppato nel libro II del Periphyseon. c Esegesi analoga di questo versetto anche in Ambrogio, De patriarchis XI, 51 e in Agostino, In Iohannis evangelium III, 17. d Cristo viene definito “casa del Padre” in questo stesso senso escatologico anche in Periph. V, 984B.
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Ha narrato, ovvero ha dimostrato, dimostra e dimostrerà il Dio invisibile con il suo insegnamento e con la manifestazione della sua incarnazione, come dice nella stessa frase che abbiamo addotto poco sopra: Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui (Gv 14, 21). I, 27. E questa è la testimonianza di Giovanni (Gv 1, 19). Come a dire: tutto quanto abbiamo detto, a partire da Giovanni porta testimonianza (Gv 1, 15) fino a egli ha narrato (Gv 1, 18), è la testimonianza di Giovanni il precursore su Colui del quale è il precursore. Dopodiché, riprende la narrazione come da un nuovo inizio, dicendo: Quando i giudei inviarono da Gerusalemme (Gv 1, 19), eccetera. L’ordine delle parole è: E dichiarò, e non negò, quando i giudei mandarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti (Gv 1, 20), eccetera. Che cosa non negò, che cosa dichiarò? Non sono io il Cristo (Gv 1, 20). I giudei credevano infatti che Giovanni battista fosse il Cristo, perché nei profeti era stato predetto che sarebbe venuto nel mondo. Lo avevano scambiato anche per Elia di Tisbea per la sua rigorosa astinenza e castità, per la sua vita solitaria, per la sua severissima condanna dei peccati e per il forte terrore che infondeva sul giudizio futuro. Oltre a questo, credevano che lui, Giovanni, fosse qualcuno dei profeti redivivo, vedendo che c’era in lui la massima grazia della profezia. Non sono io il Cristo, dice, perché sono il precursore del Cristo e voce di uno che grida nel deserto. “Sei Elia?” Risponde: “Non sono io” (Gv 1, 21). Questa negazione si può intendere in due modi. Ha detto: “Non sono Elia, ma sono venuto nello spirito e nella virtù di Elia”. Oppure anche: “Non sono Elia: lui era soltanto un profeta, mentre io non sono solo profeta, ma anche precursore; non che i profeti non siaa Si tratta del profeta Elia, le cui vicende sono narrate in 1 Re 17-21 e 2 Re 1-2: siccome nella Bibbia si racconta che Elia non morì, ma che fu rapito in cielo (2 Re 2, 11), il suo ritorno era atteso dagli ebrei. Così si spiega il loro tentativo di identificare Giovanni battista col celebre profeta.
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no tutti precursori di Cristo; ma nessuno dei profeti è nato nello stesso anno di Cristo, precorrendoloa di così poco tempo”. “Sei il profeta?” Rispose: “No” (Gv 1, 21). Di nuovo si può intendere in due modi: o nel senso che nega perché è più di un profeta, come Cristo predica di lui (Mt 11, 9; Lc 7, 26); o nel senso che risponde alla loro opinione. Quelli infatti credevano che Giovanni fosse uno dei profeti morti del tempo passato. Perciò dice: Non sono uno di quei profeti dal cui novero voi credete che io sia risorto e che credete vi stia predicando ora in persona. Gli dissero dunque: “Chi sei?” (Gv 1, 22). Se non sei il Cristo o Elia o uno dei profeti, dicci chi sei, così non dobbiamo tornare da quelli che ci hanno mandato senza alcuna risposta e notizia su di te, senza essere in grado di dar loro una risposta. Che cosa dici di te stesso? (Gv 1, 22) Abbiamo sentito che tu hai predicato il Cristo, ma di te stesso non dici nulla apertamente. Insomma, che cosa dici di te stesso? Io sono voce di uno che grida nel deserto (Gv 1, 23). Dice: se volete sapere che cosa affermo di me stesso, sappiate che io sono voce. Non ha detto: “Io sono un uomo”, oppure: “Io sono Giovanni figlio di Zaccaria”, ma ha detto: “Io sono voce”.b c Non ha considerato in sé il fatto d’essere uomo, né la sua genealogia umana, perché il precursore del Verbo è stato innalzato al sopra di tutte queste cose. Ha abbandonato tutte le cose contenute nel mondo, è asceso in alto, è diventato voce del Verbo, così che non afferma in sé alcuna sostanza, tranne ciò che ha ricevuto dall’abbondanza della grazia al di là di ogni creatura, cioè l’essere voce del Verbo. Questo nome non se lo è imposto da se stesso, ma gli è stato imposto molto tempo prima dal profeta Isaia (Is 40, 3), anzi dallo Spirito Santo attraverso Isaia. Io dunque sono voce, non la mia voce, ma la voce di uno che grida. La voce, infatti, si dice in re-
A “precorrendolo” corrisponde in latino qui fieret praecursor, testo frutto di una modifica da parte della mano autografa i1. b Per l’autodesignazione di Giovanni battista come “voce” cfr. Agostino, In Iohannis evangelium IV, 7. c La pericope di testo da “Non ha detto: ‘Io sono un uomo’…” a “‘Io sono voce’” è un’aggiunta della mano autografa i1. a
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lazione a qualcosa. Giovanni è quindi la voce del Verbo che grida, cioè che predica attraverso la carne. E dove grida questo Verbo, la cui voce è Giovanni? Nel deserto. Molti vogliono intendere con questo deserto la Giudea e tutto Israele. La Giudea infatti è ridotta a un deserto, privata di ogni culto divino, contaminata dalle lordure dell’idolatria, al seguito soltanto della lettera della Legge, privata di ogni senso spirituale, inquinata da superstizioni di ogni sorta.a E quella che prima è stata detta “confessione” (“Giudea” infatti significa “confessione”)b è stata volta in negazione totale della verità. È in questa solitudine che predicarono per la prima volta sia la voce del Verbo sia il Verbo stesso. Ma ci si può chiedere, giustamente, perché il precursore del Verbo è stato indicato con il nome di voce. La voce è interprete dell’animo: tutto ciò che l’animo prima pensa e ordina invisibilmente in se stesso, lo proferisce sensibilmente attraverso la voce ai sensi di chi la ascolta.c L’animo, quindi, cioè l’intelletto di tutte le cose, è il Figlio di Dio: Lui è, come dice sant’Agostino, intelletto di tutte le cose, anzi, è tutte le cose.d È bello che il Suo precursore sia nominato come “voce”, perché attraverso di lui per la prima volta si è mostrato al mondo dicendo: Ecco l’agnello di Dio (Gv 1, 29), eccetera. Tuttavia, con speculazione più alta, per “deserto” si può intendere l’ineffabile altitudine della natura divina, che è lontana da tutte le cose. È infatti deserta di ogni creatura, perché supera ogni intelletto, pur senza abbandonare alcun intelletto. E questo è espresso in modo più chiaro della luce dal termine greco ΕΡΗΜΟϚ: infatti ΕΡΗΜΙΑ significa lontananza e altitudine, il che ben si adatta alla natura divina. Nel deserto dell’altitudine Così aveva inteso Gregorio Magno (Homiliae XL in evangelia, omelia VII, 2), citato da Beda (In Marci evangelium expositio I, 73-74) e da Alcuino (Commentaria in Iohannis evangelium I, 2). b Stessa etimologia di “Giudea” come “confessione” ad es. in Agostino, Enarrationes in Psalmos, 75, 3. c Per l’analogia dei rapporti fra animo e voce con quelli relativi al Verbo e al battista cfr. Agostino, Sermo 288 (de uoce et uerbo). d Cfr. Agostino, De ordine, II, 9, 26; definizioni analoghe ricorrono anche altrove in Eriugena: De praedestinatione II, 49-50; Periph. I, 486A; III, 632D-633A e 659A. a
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divina, quindi, grida il Verbo attraverso cui sono state fatte tutte le cose. Ascolta Mosè che dice nella Genesi: Dio disse: “Sia fatta la luce” (Gen 1, 3), Dio disse: “Sia fatto il firmamento” (Gen 1, 6). In modo simile, in tutte le opere dei sei giorni vien prima detto Dio disse, dove nel nome “Dio” dobbiamo intendere il Padre, mentre “disse” significa il Verbo.a Il Verbo di Dio grida allora nella lontanissima solitudine della bontà divina. Il Suo grido è la creazione di tutte le nature. Lui infatti chiama le cose che sono così come quelle che non sono,b perché attraverso Lui il Dio Padre ha gridato, cioè ha creato tutte le cose che ha voluto fossero fatte. Ha gridato invisibilmente che il mondo fosse fatto, prima che fosse fatto il mondo. Ha gridato venendo nel mondo visibilmente che il mondo fosse salvato. Prima ha gridato eternamente attraverso la sua sola divinità prima dell’incarnazione, poi ha gridato attraverso la sua carne. I, 28. E quale voce manda quella sua voce, la voce del Suo precursore? Ascolta: Raddrizzate la via del Signore (Gv 1, 23). Che cosa vuol dire “raddrizzate la via del Signore”? Non significa forse ciò che segue: “Raddrizzate i suoi sentieri”? Raddrizzate dunque la via del Signore, cioè predicate e credete rettamente al Signore, che è la via, come dice Lui stesso: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Raddrizzate la via del Signore si può intendere anche come “credete rettamente nel Signore”. Il Signore, infatti, non entra nei cuori degli uomini per altra via se non la fede, che è la via del Signore. a Per questa esegesi della formula “Dio disse” nella Genesi cfr. Agostino, De genesi ad litteram II, 6. b La menzione delle cose “che sono” e “che non sono” richiama l’opposizione fondamentale con cui si apre il Periphyseon, e che riaffiora anche in apertura dell’Homilia col volo dell’evangelista Giovanni “al di là di tutte le cose che sono e che non sono”. Più in particolare, la creazione come “chiamata all’esistenza” echeggia l’espressione paolina di Rm 4, 17 (“e chiama le cose che non sono come le cose che sono”), citata esplicitamente a proposito di questo stesso tema anche in Periph. I, 445C-D. La metafora della “chiamata” viene collegata da Eriugena alla nozione del Verbo divino (uerbum, dunque anche Parola), della sua produzione del creato (in cui consisterebbe allegoricamente il “grido nel deserto” di cui Giovanni battista costituisce la “voce”) e del suo preannuncio da parte del battista, appunto voce del Verbo.
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Come ha detto il profeta Isaia (Gv 1, 23). L’evangelista, vedendo già scritto nel modo più esauriente il detto di Isaia sul precursore del Signore nel vangelo secondo Luca (Lc 3, 4; Mt 3, 3; Mc 1, 3), ha deciso di interromperlo, perché non sembrasse superfluo ripeterlo di nuovo. Non è fuor di proposito, mi sembra, inserire a questo punto qualche parola sui nomi mistici del precursore. È chiamato “voce”, perché Giovanni ha preceduto il Verbo di Dio come la voce precede ciò che la mente ha concepito. Viene chiamato ΠΡΟΔΡΟΜΟϚ, cioè “precursore”, perché Giovanni ha preceduto il Signore non solo nella sua concezione e natività, ma anche nel mistero del battesimo e della predicazione della penitenza. Viene chiamato ΦΩϚΔΟΡΟϚ, cioè “portatore di luce”, perché lui per primo ha portato la luce del mondo a conoscenza del mondo, e l’ha portata in se stesso.a Giovanni viene chiamato “stella mattutina”, che in greco si dice ΑϚΤΡΟΝ ΠΡΩΙΝΟΝ, perché, come quella stella che gli astronomi chiamano “Lucifero” precede il levarsi del sole, così il precursore del Signore è apparso al mondo prima ed è stato seguito dal sole della giustizia.b In modo simile, i greci lo chiamano ΑΚΡΙΔΟΜΕΛΙΤΡΟΦΟϚ,c per via della sua astinenza dai cibi di cui gli uomini normalmente si nutrono. ΑΚΡΙϚ significa “locusta”, ΜΕΛΙ “miele”, ΤΡΟΦΗ “nutrimento”. ΑΚΡΙΔΟΜΕΛΙΤΡΟΦΟϚ, quindi, significa “che si nutre di locuste e di miele selvatico”. Quelli che erano stati mandati a lui erano del gruppo dei farisei (Gv 1, 24). Ci si chiede perché i farisei siano stati mandati da Giovanni. Ma a questo bisogna rispondere: gli furono mandati proprio i farisei perché i farisei desideravano sentire Giovanni, avendo sentito dire che la sua predicazione aveva convinto il popolo della resurrezione generale di tutti gli uomini dai morti, specialmente in quel passo dove dice: Razza di vipere, Nelle Annotationes in Martianum Eriugena aveva così glossato il lemma phosphori: Luciferi; φῶς lux, φορός ferens, id est lampas (ed. C. E. Lutz, p. 59 r. 20; cfr. anche p. 132 r. 20-30). b Su Giovanni battista come “astro mattutino” e su Cristo come “sole della giustizia” cfr. Homilia cap. 15. c Il termine ἀκριδομελίτροφος rimanda alla descrizione della dieta del battista in Mt 3, 4 e Mc 1, 6, sebbene non si trovi nel testo evangelico. a
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chi vi libererà dall’ira imminente? (Mt 3, 7; Lc 3, 7) (che verrà cioè nel giudizio dopo la resurrezione). Anche loro, infatti, credevano e predicavano con la massima convinzione la resurrezione dei morti, e perciò si racconta che in molte cose fossero d’accordo con Cristo, e che aiutarono spesso anche l’apostolo Paolo (At 23, 7?).a Perché battezzi allora, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? (Gv 1, 25) Ci si può chiedere perché i farisei attribuissero l’autorità del battesimo a Elia o ai profeti. Avevano infatti udito dalla lettura dei profeti che Cristo sarebbe venuto nel mondo e avrebbe battezzato. Sapendo quindi che il Giordano rappresentava la prefigurazione del battesimo, e che Elia ed Eliseo lo avevano attraversato a piedi asciutti, erano certi che in Elia e in Eliseo era stata anticipata la figura del battesimo, e che fossero loro ad essere risorti e a battezzare. È per questo che non lo interrogavano chiedendo: “Sei uno dei profeti?”, ma soltanto: “Sei il profeta?”, cioè quello che prefigurava il battesimo. Rispose loro: “Io battezzo nell’acqua” (Gv 1, 26). Come a dire: io immergo nell’acqua, prefigurando soltanto, con la purificazione dei corpi, la santificazione del corpo e dell’anima in Colui che battezza veramente. Ma fra voi sta (cioè vi si mostra presente) uno che voi non conoscete (Gv 1, 26), perché non credete in lui e non sapete chi sia. I, 29. È Colui che viene dopo di me, cioè Colui del quale, nel piano e nella predeterminazione divina, prima che il mondo fosse fatto, è stato predefinito che venisse dopo di me nel mondo, per succedere a me, suo precursore. Che è stato fatto prima di me (Gv 1, 27), cioè che è stato fatto, presente, davanti agli occhi della mia mente e del corpo.b Lo a I farisei costituivano al tempo della vita di Gesù la principale setta giudaica, caratterizzata da una tendenza tradizionalista e dall’osservanza scrupolosa dei precetti religiosi formali. Uno dei punti dottrinali sostenuti dai farisei, in particolare contro la setta dei sadducei (maggiormente ellenizzati), era la credenza nella resurrezione dai morti con il corpo, dunque un elemento di comunanza oggettiva con la predicazione di Giovanni battista (e con quella che sarebbe diventata la dottrina cristiana in merito). b Per questa esegesi di Gv 1, 27 cfr. Homilia cap. 16 e qui sopra, Commentarius I, 23.
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vedo e lo conosco in mezzo a voi, ma voi non lo conoscete. C’è anche un altro senso in queste parole, come vuole Massimo: Giovanni rappresenta la figura della penitenza, dato che ha predicato la penitenza, mentre Cristo rappresenta la figura della giustizia, non solo perché giudica il mondo, ma anche perché Lui stesso è la giustizia eterna.a La penitenza di solito si fa dopo una violazione della giustizia. Perciò la natura umana, che ha trasgredito le leggi divine nel paradiso, predica e compie la penitenza nella persona di Giovanni, e afferma apertamente sia che la giustizia sostanziale del Verbo di Dio la precede quanto alla divinità, sia che viene dopo di lei quanto all’assunzione della carne. E lo fa per richiamare la natura umana allo stato originario della giustizia eterna, attraverso una vita conforme alle leggi divine che essa per superbia aveva disprezzato. A cui io non sono degno (Gv 1, 27), eccetera. Il calzare del Verbo è la sua carne, che ha assunto da una vergine, a cui si allude con la figura del calzare. Infatti, come il calzare si fa col cuoio degli animali morti, così la carne di Cristo si è fatta mortale per noi, perché con la Sua morte perisse la nostra morte.b La carne di Cristo, infatti, si è fatta mortale non per colpa di un suo peccato, come la nostra carne; ma è diventata passibile per condiscendenza verso la nostra natura quale essa era dopo il peccato. Non ha rifiutato di subire la morte per noi, ma non ha assunto la causa della morte (il peccato). Per questo la morte non ha potuto trattenerlo, perché non aveva un debito con la morte. La morte non poteva trattenere prigioniero chi non aveva trovato colpevole. Dal primo uomo com’era prima del peccato Egli assunse l’essere senza peccato; dal medesimo uomo com’era dopo il peccato assunse la mortalità: con queste due caratteristiche ha restaurato in se stesso la nostra natura tutta intera. In se stesso ha completamente cancellato la nostra morte, e ha ripristinato la vita eterna. Nell’esser privo di peccato Massimo, Ambigua XVII, 28-34; XLV, 1-11: il pentimento e la penitenza devono precedere il conseguimento della giustizia, così come Giovanni ha preceduto Gesù. b Questa interpretazione del calzare come carne di Cristo era già stata avanzata da Gregorio Magno (Homiliae XL in evangelia, Hom. VII, 3), ripreso da Beda (In Marci evangelium expositio I, 183-186). Cfr. anche Periph. V, 1005A. a
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ha mostrato in sé la nostra natura prima del peccato. Allora, se il calzare del Verbo è la carne del Verbo, dovrai intendere coerentemente il legaccio del Suo calzare come la sottigliezza e l’intreccio inestricabile dei misteri dell’incarnazione. È l’altitudine di questo mistero che il precursore si giudica indegno di sciogliere. Va notato, però, che non ha detto: “A cui non scioglierò il legaccio del calzare”, ma: “Non sono degno di sciogliere il legaccio del calzare”. Lui, infatti, ha sciolto i misteri dell’incarnazione di Cristo quando Lo ha mostrato al mondo nel modo più esplicito e ha rivelato molte cose sulla Sua divinità e umanità. Ma si ritiene indegno di farlo.a Il calzare di Cristo si può anche interpretare come il creato visibile e la sacra Scrittura: in queste due cose imprime le Sue orme, come fosse coi suoi piedi. Il creato visibile è l’abito del Verbo: Lo predica chiaramente, mostrandoci la Sua bellezza. Suo abito è anche la divina Scrittura, che contiene i Suoi misteri. Il precursore si ritiene indegno di sciogliere il legaccio, cioè la sottigliezza, di tutte queste cose, creato e Scrittura. Due sono i piedi del Verbo: uno è la ragione naturale del creato visibile, l’altro l’intelligenza spirituale della divina Scrittura. Uno è coperto dalle forme sensibili del mondo sensibile, l’altro dalla superficie delle lettere divine (cioè delle Scritture). In due modi i commentatori della Legge divina si riferiscono all’incarnazione del Verbo. Uno è quello che insegna la Sua incarnazione da una vergine, con cui si è congiunto alla natura umana in unità di sostanza. L’altro è quello che afferma che il Verbo stesso è come incarnato, cioè addensato nelle lettere, e nelle forme e negli ordini delle cose visibili. Il legaccio di questo duplice calzare è l’accurata ricerca della verità in tutte queste cose, e l’indagine fortemente intricata che il precursore si ritiene indegno di risolvere.b Così nuovamente Gregorio Magno (sempre nell’Hom. VII, 3) e Beda (In Marci evangelium expositio I, 186-193). b L’interpretazione dei calzari di Cristo come rispettivamente il creato e la Scrittura proviene da Massimo il Confessore (Amb. VI, 429-517): si è già visto, a proposito dell’Homilia (cap. 11), come nel pensiero di quest’ultimo mondo sensibile e sacra Scrittura siano i due luoghi di manifestazione della divinità. Questa idea trova qui nuova applicazione esegetica nell’allegoria relativa ai calzari di Cristo e al a
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I, 30. Queste cose avvennero in Betania di là dal Giordano, dove Giovanni si trovava a battezzare (Gv 1, 28). Queste cose, cioè, che sono state dette finora dal precursore sulla divinità e umanità del Verbo di Dio e che sono state dette sulla predicazione del precursore stesso e sulla sua risposta ai farisei, sono avvenute in Betania di là dal Giordano, cioè oltre il Giordano. Betania significa “casa dell’obbedienza”.a Ci sono due Betanie: una oltre il Giordano, dove si trovava Giovanni a battezzare, l’altra al di qua del Giordano, non lontano da Gerusalemme, dove il Signore resuscitò Lazzaro (Gv 11, 1-45). Ma queste cose sono ricolme di misteri. Dunque la Betania di là dal Giordano prefigura misticamente la natura umana, che è stata fatta casa dell’obbedienza prima del peccato. Essa è stata infatti creata perché obbedisse ai comandi divini che le erano stati affidati dentro i confini del paradiso (cioè dentro i suoi beni naturali), perché non si allontanasse dalla contemplazione e dall’amore del suo creatore, a immagine del quale è stata creata, ma vi aderisse sempre.b La Betania di là dal Giordano che è la natura umana risiedeva al di là dei fiumi della grazia divina riversati su di lei dopo l’incarnazione del Verbo, come esaurita dalla mancanza dei beni divini e dalla siccità del fluire della sapienza. Invece, la Betania in Giudea, al di qua del Giordano e vicina a Gerusalemme, è la medesima natura liberata tramite l’incarnazione del Verbo di Dio e tramite i fiumi della loro laccio, assumendo una connotazione più specificamente legata alla cristologia e al mistero (l’incarnazione). La veste di Cristo, come si evince dal testo di Massimo e da Periph. III, 689D-690A e 723D, si riferisce alla trasfigurazione di Gesù (Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36). Si è tentato di rendere con “addensato nelle lettere” l’originale incrassatum litteris, il quale rinvia a sua volta all’espressione greca “il Logos si ispessisce” (ὁ λόγος παχύνεται) presente in Gregorio di Nazianzo (Or. 38, 2) e nell’Ambiguum di Massimo. Cfr. per quest’espressione in Eriugena Periph. V, 1005B-C e Homilia cap. 3 n. 1. a “Casa dell’obbedienza” è una delle due etimologie del nome “Betania” fornite da Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 60 r. 26-27. b L’interpretazione qui fornita, secondo cui Betania rappresenta la natura umana, viene associata da Eriugena all’interpretazione spirituale dell’Eden (anch’esso simboleggiante la natura umana), sviluppata servendosi di Origene e di Ambrogio in Periph. IV, 814D-818D: lo si evince qui nel Commentarius dall’interpretazione del paradiso come insieme dei beni naturali presenti nella natura umana.
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grazia divina, dispensati per la prima volta attraverso i sacramenti del battesimo; questa natura, come trasportata nella Giudea (cioè nella vera confessione di fede, d’azione e di scienza)a e nella casa dell’obbedienza (cioè nell’unità della Chiesa che obbedisce alle leggi divine), è posta vicino a Gerusalemme. Gerusalemme significa “visione della pace”.b E questa significa la città celeste, alla quale la natura umana ancora non è giunta del tutto: questa cosa crediamo che avverrà dopo la resurrezione generale di tutti gli uomini, quando la natura umana sarà introdotta alla contemplazione intera e pienissima della divina. Eppure anche ora non è molto lontana dalla patria celeste, per quanto si attardi ancora nella carne nella casa dell’obbedienza. Infatti, in parte conosce la verità, illuminata dalla grazia del suo redentore; in parte la profetizza, significando nei simboli visibili e nelle dottrine mistiche le cose che non comprende appieno con l’intelletto. E perciò, con quest’unica frase dell’evangelista si allude misticamente a tre gerarchie (cioè sacerdozi). Il primo sacerdozio, che era sotto la Legge, è caratterizzato come la Betania oltre lo scorrere della grazia e della verità tramite Cristo nel Nuovo Testamento. E questo sacerdozio si trovava lontano da Gerusalemme, cioè dalla visione della pace, a causa dei suoi misteri oscuri e difficilissimi da comprendere, e a causa delle nebbie dei suoi precetti, fittissime e molto lontane dalla luce della verità. Il secondo sacerdozio è nel Nuovo Testamento, che inizia dalla predicazione del precursore e terminerà alla fine del mondo, come dice la Scrittura: La Legge e i profeti fino a Giovanni, e a partire da lui il regno dei cieli (Lc 16, 16). Questo sacerdozio in parte splende per la chiarissima conoscenza della verità, in parte è avvolto in simboli oscuri. I simboli principali del Nuovo Testamento sono le tre ΤΕΛΕΤΑΙ (cioè i tre riti mistici): la prima è quella del battesimo, la seconda quella della ϚΥΝΑΞΕΩϚ (cioè della comunione del corpo e del sangue del
a Per la Giudea interpretata etimologicamente come “confessione” cfr. più sopra Commentarius I, 27. b “Gerusalemme” come “visione della pace” è una etimologia desunta o nuovamente da Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 50 r. 9-10, oppure da Isidoro, Etymologiae VIII, 1, 6.
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Signore), la terza nel mistero del crisma.a Il terzo sacerdozio si celebrerà nella vita futura, nella quale non ci sarà nessun simbolo, nessuna oscurità di figure, ma tutta intera apparirà chiarissima la verità. Perciò il sacerdozio del Nuovo Testamento occupa una sorta di posizione intermedia fra il passato della Legge e il futuro della vita beata. In alcuni punti esso considera la verità come futuro, in altri – nel servizio del culto – la celebra come passato.b Perciò la Betania di là dal Giordano prefigura il sacerdozio della Legge, la Betania al di qua del Giordano e non lontana da Gerusalemme il sacerdozio della grazia, Gerusalemme la vita futura dei beati. Nel sacerdozio della Legge, quindi, come di là dal Giordano, la natura umana, che dopo il peccato originale ha oscurato in sé l’immagine divina per ignoranza della verità e l’ha contaminata per brama delle cose temporali, viene istruita e corretta sotto la legge di natura e sotto la Legge scritta. Nel sacerdozio del Nuovo Testamento, sotto Cristo, quella stessa natura è stata illuminata, educata sotto la legge della grazia e come resa prossima al sacerdozio futuro e perfezionata: illuminata attraverso la fede, educata attraverso la speranza, e resa prossima alla visione divina attraverso la carità, nella misura in cui le è permesso, mentre ancora è nella carne, penetrare con l’intelletto le sublimità delle cose divine. Ma se tu ricerchi la differenza fra queste tre leggi (voglio dire quella naturale, quella scritta e della grazia), in breve sappi quea Questi tre sacramenti vengono definiti τελεταί (“misteri”) dallo Pseudo-Dionigi, De ecclesiastica hierarchia V, 3 (ed. Heil – Ritter p. 175 r. 17-23 = PG 3, 504B-C). b Il sottotesto di questa articolata riflessione sono i primi due scritti del corpus delle opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita: il De caelesti hierarchia e, soprattutto, il De ecclesiastica hierarchia. Come si è già detto più sopra (Commentarius I, 24, p. 99 n. b), lo Pseudo-Dionigi espone principalmente la struttura e il ruolo della gerarchia angelica, intermediaria dell’illuminazione divina verso il basso, in direzione dell’uomo, e della gerarchia ecclesiastica (cristiana), mentre fa soltanto cenno alla gerarchia legale (es. De ecclesiasticha hierarchia V, 2). Mentre nelle opere dello Pseudo-Dionigi i componenti di una gerarchia, quella angelica, sono le potenze angeliche, e i componenti delle altre due sono uomini, Eriugena sembra interpretare qui le tre gerarchie come momenti di una rivelazione che ha in tutti e tre i casi per oggetto l’umanità. Cfr. ancora per riferimenti al tema delle tre gerarchie l’epistola dedicatoria di Eriugena a Carlo il Calvo, preposta alla sua traduzione del Corpus Dionysiacum (MGH Epp. 6, p. 160-161) e le Expositiones in ierarchiam coelestem (I, 426-480; III, 278-280).
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sto. La legge di natura è quella che ordina che tutti gli uomini si amino a vicenda in ugual modo, in modo tale che, come per tutti c’è una sola e stessa natura, così diventi comune anche l’amore di tutti per tutti. La legge scritta è quella che vieta di violare la legge di natura, distingue fra vizi e virtù e rappresenta la figura della legge della grazia. Affermo che la stessa legge scritta è un aiuto alla legge di natura: dato che la legge di natura da sola non è bastata a correggere la natura umana, l’obbligo della legge scritta costringeva a evitare le cose da proibire e insegnava quelle da compiere.a La legge di natura, infatti, è caduta in disuso fra gli uomini al punto che essa non riconosceva il suo creatore e non era in grado di discernere le virtù dai vizi. La legge della grazia è quella che non solo insegna che gli uomini devono amarsi a vicenda e distingue virtù e vizi; ma insegna anche, al di sopra di ciò (cosa possibile solo alla grazia divina), a morire, se occorre, per gli uomini, non solo buoni ma anche malvagi. È questa la legge che Cristo ha adempiuto in se stesso, dal momento che ha sofferto non semplicemente per tutti gli uomini, ma anche per tutti gli empi.b Dove Giovanni si trovava a battezzare. Giovanni battezzava di là dal Giordano. E giustamente, perché ancora non aveva il vero battesimo che, per quelli che lo ricevono, libera tutta la natura umana non solo dal peccato originale ma anche dai propri peccati personali; ma battezzava soltanto nell’acqua, come con una sorta di prefigurazione del perfetto battesimo, che è poi seguito in Cristo. Battezzava dunque oltre il Giordano, cioè olIdea analoga in Agostino, Sermo 156 I, 1 e II, 2. Questo passaggio riprende il tema delle tre leggi da Massimo il Confessore (Quaestiones ad Thalassium LXIV): il tema verrà sviluppato più estesamente in Commentarius IV, 6. In Massimo, la legge naturale è quella che si rivela nella “contemplazione naturale” (evocata anche da Eriugena nella Homilia, cap. 14) e che permette di cogliere i logoi, ossia le “ragioni” divine inscritte nelle creature sensibili. La legge scritta si trova nell’Antico Testamento: essa mostra il rapporto fra Dio e gli uomini, inclusi i precetti che sono stati loro dati. La legge della grazia è stata introdotta grazie all’incarnazione e all’opera redentrice di Cristo. La legge naturale predispone a ricevere la legge scritta, che include la prima; a loro volta, queste due leggi sono incluse e compiute nella legge della grazia (su questo tema, si v. Maxime le Confesseur, Questions à Thalassios, vol. 1 – J.-C. Larchet, F. Vinel, Paris, 2010, introd., p. 50-54). Cristo è definito compimento della legge di natura in Periph. V, 1003B-C. a
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tre i fiumi dei doni divini, che non avevano ancora cominciato a discendere nella natura umana in Cristo. Giovanni era di là dal Giordano, perché rappresentava la figura della legge di natura e della legge scritta. In Giovanni era prefigurata la legge di natura. Infatti, quelli che sotto la legge di natura conducono vita pia, casta e lontana da ogni contagio del modo di vita carnale, come in una sorta di deserto delle virtù divine, devono vivere come Giovanni. Giovanni significa anche la legge scritta, dato che ne costituisce il termine: La Legge e i profeti fino a Giovanni (Lc 16, 16). Siccome però è stato reso non solo profeta, ma anche rivelatore del Cristo, egli non significa soltanto la Legge, ma anche il vangelo e la grazia. E perciò il testo prosegue: E a partire da lui il regno dei cieli (Lc 16, 16). Come a dire: in Giovanni, come in una specie di spartiacque, finisce la legge e, al tempo stesso, a partire da lui comincia la rivelazione della grazia, che il vangelo chiama “regno dei cieli”. I, 31. Il giorno seguente – o, come è scritto in modo più significativo in greco, un altro giorno – Giovanni vede Gesù venire verso di lui (Gv 1, 29). Dice un altro giorno, cioè con un’altra conoscenza. La prima conoscenza, infatti, era stata quando lo aveva rivelato ai popoli che lì accorrevano, dicendo: Questo era colui che vi dicevo (Gv 1, 15). Ora, invece, come con una seconda conoscenza, il giorno seguente (o un altro giorno) Giovanni vede Gesù venire verso di lui. Giovanni il precursore conosce con duplice sguardo, della mente e del corpo, il suo Signore, che lui precorreva, venire verso di lui. Gesù viene verso Giovanni non solo con i passi del corpo, ma anche con l’avvicinamento della sua contemplazione interiore. Gesù quindi viene verso Giovanni, cioè si è degnato di essere conosciuto da Giovanni quanto alla sua umanità e divinità. E dice: Ecco l’agnello di Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29). Lo predica apertamente ai popoli dicendo: Ecco l’agnello di Dio. Il Verbo di Dio da Giovanni viene chiamato “agnello”. Era Lui, infatti, ad essere prefigurato dall’agnello mistico nella Legge (Es 12, 1-14). Non c’è niente di strano nel fatto che si parli della verità servendosi di una sua ombra. L’agnello della Legge era un’ombra; Gesù Cristo era
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la verità e come il corpo che proiettava l’ombra.a Anche il fatto che si tratti proprio di un agnello non è casuale. L’agnello, infatti, fornisce ai suoi proprietari tre cose: latte, lana e anche il nutrimento della sua carne. Nostro Signore fornisce a chi crede in Lui il rivestimento delle virtù, li nutre col latte (cioè con l’insegnamento semplice della verità), e li conduce al nutrimento perfetto della sua contemplazione divina. Cristo vien detto agnello di Dio, perché si è immolato per tutto il mondo. E perciò il testo prosegue: Ecco Colui che toglie il peccato del mondo. Vuol dire che lo toglie, non trasferendolo da un luogo a un altro, o da un tempo a un altro, ma che lo toglie del tutto, perché non esista più, e attraverso la morte della sua santissima carne fa morire del tutto tutto il peccato del mondo. Il peccato originale viene detto peccato del mondo, perché è comune al mondo intero, cioè all’intera natura umana.b Il suo reatoc viene perdonato con la grazia del battesimo; mentre il peccato stesso, alla fine del mondo, con la resurrezione di tutti gli uomini, sarà distrutto del tutto. Il peccato originale è quello per cui l’intera natura umana, creata tutta in una volta a immagine di Dio, nella quale tutti gli uomini dall’inizio alla fine del mondo sono una cosa sola e creati simultaneamente corpo e anima, ha trasgredito nel paradiso le leggi divine per disobbedienza, non volendo attenersi all’ordine divino. Infatti, non peccò solo il famoso primo uomo Adamo, giunto prima degli altri in questo mondo visibile a partire dal genere della natura umana; ma peccarono tutti, prima di giungere nel mondo. Il detto dell’Apostolo: Come tutti muoiono in Adamo, così tutti vengono vivificati in Cristo (1 Cor 15, 12) dobbiamo intenderlo riferito non soltanto a quel primo unico uomo, ma dobbiamo ritenere che col nome di Adamo a Per la metafora di origine neotestamentaria secondo cui la Legge veterotestamentaria è come un’ombra della rivelazione cristiana cfr. cap. I, 24, p. 98 n. c. b Sull’universalità del peccato umano cfr. Periph. V, 974A. c In Eriugena, il reato (termine tecnico) è elemento della colpa originaria che non si identifica con essa, ma la cui eliminazione, che come qui viene detto si verifica col battesimo, è imprescindibile per l’eliminazione futura del peccato stesso: cfr. più sotto, Commentarius I, 33 (dove il peccato viene paragonato a una ferita e il reato alla punta della freccia che l’ha provocata, e che dev’essere rimossa perché la ferita possa poi rimarginarsi).
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sia designata tutta la natura umana in modo generale. Quell’Adamo singolare non sarebbe nato in questo mondo corruttibile attraverso la generazione, se non fosse venuto prima il misfatto della natura umana. La divisione della natura in due sessi, maschile e femminile, e a partire da questi la generazione corruttibile della successione e del numero degli uomini, è la pena generale del peccato, col quale tutto il genere umano simultaneamente ha trasgredito l’ordine divino in paradiso.a Questo peccato generale viene dunque detto originale; e giustamente, perché il peccato è la comune origine di tutti. Per colpa di quello tutti noi uomini, eccetto il Redentore, dobbiamo morire e corromperci. Solo il nostro Redentore, in quella massa di tutto il genere umano, è stato lasciato senza peccato per curare la ferita, in modo che attraverso Lui, l’unico sempre salvo, venisse curata la ferita di tutta la natura e, per questo mezzo, tutto ciò che era stato ferito venisse restituito al suo stato originario di salute. Perciò questo peccato originale, nonché i delitti dei singoli individui dopo la generazione in questo mondo, vengono sciolti dall’abbondanza della grazia del battesimo tramite il nostro Salvatore, per essere cancellati del tutto. E questo è ciò che dice l’evangelista: Ecco l’agnello di Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo. Questo è l’unico e singolare agnello mistico, nella cui figura il popolo d’Israele immolava nel tempo pasquale un agnello per ogni casa. Anche noi, che crediamo in Lui dopo che è già avvenuta la Sua incarnazione e passione e resurrezione, e che per quanto ci è concesso comprendiamo i suoi misteri, al tempo stesso lo immoliamo spiritualmente e lo mangiamo intellettualmente, con la mente, non coi denti.b Nell’interpretazione di Eriugena, il peccato originale narrato nella Genesi non è stato commesso dai due individui Adamo ed Eva ma, coerentemente con l’interpretazione allegorica eriugeniana della condizione edenica (Periph. IV, 814860), da un “Adamo metastorico” (come lo definisce Jeauneau nel suo commento a questo passo), nel quale sono creati tutti gli uomini: la natura umana tutta intera dunque è colpevole del peccato originale, e a seguito di questo viene divisa in maschio e femmina (cfr. Gregorio di Nissa, De opificio hominis XVI – in particolare 185A-D per il rapporto fra l’umanità generale e l’individuo Adamo – e, in Eriugena, Periph. IV, 798B-799C). b Quest’ultima espressione è ripresa da Agostino, In Iohannis evangelium XXVI, 12. a
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I, 32. Perciò ciascuno di quelli che credono in Cristo, secondo la propria virtù e secondo la propria possibilità, e secondo la disposizione e la qualità della virtù posseduta, è crocifisso e insieme crocifigge per sé Cristo, ossia è crocifisso insieme a Cristo (Gal 2, 19). Uno è crocifisso soltanto al peccato, quando riposa da tutte le operazioni del peccato nella carne e attraverso la sua carne, come annientato da una sorta di morte; e mortifica quello, voglio dire il peccato, trafiggendolo coi chiodi del timore di Dio, frenandone tutti gli assalti, perché non riescano ad operare nulla nella sua carne. Un altro è crocifisso alle passioni, cioè alle azioni malate dell’anima: da queste essa è corrotta in se stessa, prima di operare tramite il corpo (l’azione è propria dell’anima, l’operazione del corpo); è crocifisso quando viene risanato per mezzo delle facoltà dell’anima restaurata. Un altro è crocifisso alle fantasie delle passioni, cioè alle immagini delle cose sensibili: queste passioni si formano nei sensi corporei, detti “passioni” dai sapienti; è crocifisso quando i suoi sensi si chiudono a queste fantasie, per non essere da queste attratto in modo vile verso la brama di qualcuna delle cose temporali. Un altro è crocifisso ai pensieri e ai concetti della mente, attinti dalle cose sensibili attraverso i sensi corporei, per non dimorare più in essi, venendo allontanato dalle contemplazioni divine. Un altro muore non solo quanto alle fantasie dei sensi, ma muore del tutto anche rispetto a tutti i sensi stessi, per non essere da loro indotto in alcun errore. Un altro abbandona ogni familiarità naturale e disposizione che tramite i sensi corporei possedeva nei confronti delle cose sensibili, come crocifisso a tutte queste cose. Un altro estingue universalmente in se stesso, come in una croce, ogni moto sensibile, così da non avere affatto in sé alcun atto naturale. E ognuno di questi con sé crocifigge Cristo. Infatti, quale sarà la disposizione nell’animo di ciascuno dei fedeli attraverso gli accrescimenti delle virtù, tale sarà la sua fede riguardo a Cristo attraverso gli accrescimenti delle conoscenze intellettuali. E ogni volta che, rispetto ai modi di vita precedente e inferiore, muore e viene condotto a gradi più alti, ogni volta le opinioni intorno a Cristo, per quanto semplici, moriranno in lui e con lui e saranno innalzate dalla fede e dall’intelligenza a teofanie più sublimi relative a Lui. Perciò Cristo muore ogni giorno
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COMMENTO, I, 32
nei suoi fedeli e viene da loro crocifisso, nel momento in cui essi fanno morire i pensieri su di Lui o carnali o già spirituali ma ancora imperfetti, ascendendo sempre in alto, fino a pervenire alla vera conoscenza di Lui: Lui infinito si forma infinitamente, anche nelle menti più purificate. Un altro cessa perfettamente dall’operazione intellettuale stessa, come fosse perfettamente morto: supera non solo gli atti naturali dell’anima, ma anche le sue operazioni intellettuali. Un altro è crocifisso alla filosofia attiva. La filosofia attiva è quella che si occupa delle unioni e distinzioni delle forze naturali. Anche la filosofia attiva, per quanto può, esamina i modi dell’incarnazione del Verbo. Ma l’uomo spirituale, superandole tutte (ossia superando tutta la filosofia morale sulle virtù dell’anima e sulla carne di Cristo), s’innalza fino alla vera e propria contemplazione naturale in spirito, come da una specie di carne del Verbo alla Sua anima. Un altro muore rispetto alla contemplazione naturale. La contemplazione naturale è la facoltà speculativa intorno all’anima razionale accolta da Cristo. L’uomo spirituale muore rispetto ad essa quando non solo nega che Cristo è carne, dato che comprende che essa si è trasformata in spirito, ma inoltre rifiuta di considerarlo un’anima razionale. Infatti, come la Sua carne è stata esaltata e mutata in anima razionale, così la Sua anima razionale è stata elevata e insieme trasformata in intelletto. Perciò chi ascende perfettamente a Lui deve necessariamente essere trasportato alla uniforme e semplice introduzione della scienza teologicaa dentro ai misteri, come passando da una sorta di anima di Cristo al Suo intelletto. Un altro, partendo da questa medesima scienza teologica semplice, che si muove soprattutto attorno all’intelletto di Cristo, a Al posto di “scienza teologica”, il testo latino del ms., conservato da Jeauneau, ha theoricae scientiae, cioè “scienza teorica” o “contemplativa”. Tuttavia, Commentarius I, 32 parafrasa Massimo il Confessore (v. nota seguente): nel testo greco di Massimo e nella traduzione eriugeniana si leggeva rispettivamente θεολογικὴ ἐπιστήμη e theologica scientia; il copista del ms. del Commentarius potrebbe aver corrotto theologicae scientiae in theoricae scientiae. Si può aggiungere a sostegno di questa correzione il riferimento subito seguente nel Commentarius a “questa medesima scienza teologica semplice” (eadem simpla theologica scientia).
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COMMENTO, I, 32
ascende misticamente alla perfetta e segreta infinità divina stessa, morendo rispetto a tutte le cose che sono dopo Dio attraverso la negazione, come passando da una sorta di intelletto di Cristo alla Sua divinità. È così che l’agnello di Dio viene sacrificato nei cuori dei fedeli, e dal sacrificio viene vivificato. È così che il peccato del mondo viene tolto da ogni natura umana.a L’intero capitolo I, 32 del Commentarius consiste in una lunga citazione-parafrasi, con aggiunte autonome, dall’Ambiguum ad Iohannem XLIII di Massimo il Confessore. Eriugena, come risulta dalla chiusa del capitolo, introduce questo lungo e complesso brano per spiegare in che modo spiritualmente si attua la redenzione operata da Cristo. Riprendendo Massimo, egli afferma che la crocifissione spirituale di Cristo nei fedeli, ossia la mortificazione del peccato e delle operazioni inferiori, operata da ciascuno secondo la sua elevazione spirituale, avviene in una progressione all’interno della quale si possono individuare i gradi della “contemplazione” (θεωρία) già incontrati più sopra nell’Homilia e nel Commentarius. I gradi della crocifissione, ossia del perfezionamento ascetico e spirituale, sono così enumerati nel testo di Eriugena: peccato (da cui il cristiano si astiene per il timore di Dio); passioni dell’anima; fantasie (cioè immagini) delle cose sensibili; pensieri concepiti dalla mente a partire dai sensi; sensi; relazione con le cose sensibili; moti sensibili. A questo primo stadio, il cui coronamento comporta il perfetto distacco dalla sfera degli oggetti dei sensi, dai sensi stessi, e dalle rappresentazioni e dai pensieri cui le sensazioni danno luogo, segue uno stadio più intellettuale ed elevato di “crocifissione”, corrispondente alla comprensione via via più elevata dell’unione ipostatica (cioè incarnazione) di Cristo alla natura umana. Ciò significa che nel pensiero di Massimo, ripreso da Eriugena, il perfezionamento spirituale è “intrinsecamente cristiano”, in quanto corrisponde all’approfondimento della comprensione del mistero specificamente cristiano dell’incarnazione. Questo secondo stadio di perfezionamento comporta, in progressione, il superamento dell’operazione intellettuale, della filosofia attiva e morale (che riflettono sulla carne del Verbo), della contemplazione naturale (che riflette sull’anima razionale del Verbo) e della scienza teologica (che riflette sull’intelletto del Verbo), per culminare in una ascesa mistica (che ascende alla divinità stessa del Verbo). Alla nozione di Massimo circa la varietà dei livelli a cui può avvenire la crocifissione spirituale di Cristo, Eriugena connette la nozione di “infinità divina”. Quest’ultima è tratta da Gregorio di Nissa, secondo cui l’infinità della natura divina fa sì che anche il progresso spirituale sia infinito (a causa di una tensione infinita dell’anima nel progresso all’interno del Bene divino detta ἐπέκτασις): su questo tema in Gregorio si v. fra gli studi classici J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique. Essai sur la doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse, Paris, 1944; E. Mühlenberg, Die Unendlichkeit Gottes bei Gregor von Nyssa: Gregors Kritik am Gottesbegriff der klassischen Metaphysik, Göttingen, 1966. Eriugena, come già visto a proposito di Commentarius I, 25 (con rinvio a Expositiones VI, 34-42 e a Periph. V, 1010C-D), lega la nozione di progresso infinito esposta da Gregorio (De opificio hominis XXI) all’infinito succedersi delle teofanie divine. a
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COMMENTO, I, 33
I, 33. Questo introduce in modo sommesso una questione non trascurabile. Ci si può chiedere con ragione in che modo l’agnello di Dio, cioè il Salvatore del mondo, toglie il peccato originale di tutta la natura umana: l’ha già tolto nei fatti e ne ha purificato tutta la natura umana, oppure finora lo ha tolto solo quanto alla speranza, mentre nei fatti lo toglierà dopo la comune resurrezione della natura umana? Se la natura umana è già stata liberata dal peccato originale nei fatti, perché ogni giorno coloro che vengono battezzati in Cristo ricevono attraverso l’abbondanza della grazia la remissione del peccato originale e dei propri delitti, che promanano grazie a una qualche sorgente dal peccato originale? Perché anche quelli che nascono nella carne non possono nascere senza concupiscenza carnale, la quale non è altro che la punizione del peccato originale? Se infatti la causa, cioè il peccato originale, è stata del tutto sradicata, perché il suo effetto, o piuttosto la sua punizione, permane ancora? Quelli che nascono dalla stessa concupiscenza carnalea vengono purificati da questa pena con la grazia del battesimo, incominciando a rinascere in Cristo attraverso lo Spirito, così che quelli che vengono procreati nella carne tramite la concupiscenza della carne hanno bisogno dell’indulgenza del battesimo non solo per il delitto dei loro genitori col quale sono stati concepiti, ma anche per il misfatto comune, ossia il peccato originale, col quale tutti gli uomini universalmente avevano peccato nel primo uomo.b A questo bisogna rispondere perciò che la natura umana è già dal peccato originale, che nei fatti l’abolizione e l’eliminazione completa non è stata fatta né in tutti in modo comune né nei singoli in modo speciale: questo viene riservato per la vittoria ultima alla fine del mondo, quando, come dice l’Apostolo, verrà distrutto l’ultimo nemico, la morte (1 Cor 15, 26). Quando verrà distrutta universalmente la morte – detta “ultimo Eriugena, rifacendosi ad Agostino, considera la concupiscenza al tempo stesso una conseguenza del peccato (assente dunque nella condizione edenica originaria dell’uomo) e un peccato vero e proprio, il cui inevitabile ruolo nella procreazione comporta la trasmissione ai nuovi nati del peccato originale, eliminabile solo attraverso il sacramento del battesimo: cfr. Periph. IV, 847A-B. b Sul ruolo del battesimo cfr. Periph. IV, 846D-848A. a
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nemico”, al maschile, perché in greco ΘΑΝΑΤΟϚ, “morte”, è di genere maschile – necessariamente la sua causa, il peccato originale, sarà cancellato completamente dalla natura umana.a L’abolizione della causa precederà infatti l’abolizione dell’effetto: ossia, l’eliminazione del peccato originale in tutti e nei singoli, come nel tutto e nella parte, precederà l’eliminazione della morte, quando si adempirà anche ciò che è stato detto per bocca del profeta: Sarò la tua morte, o morte, e il tuo morso, o inferno (Os 13, 14). Finora, quindi, la nostra natura è liberata quanto alla speranza (Rm 8, 24), in futuro invece sarà liberata nei fatti. Allora, che cosa viene dato attraverso la grazia della nascita divina, voglio dire attraverso il battesimo, se il peccato originale non viene completamente estirpato alle radici? A questo bisogna rispondere: attraverso il battesimo viene sciolto soltanto il reato del peccato originale, pur rimanendo il peccato originale.b Un conto, infatti, è estrarre una freccia da una ferita, un conto è dopo sanare la ferita. Questo, quindi, è tutto ciò che la grazia del battesimo ci apporta: ci libera dal reato del peccato e ci esalta nella grazia della filialità divina, perché le ferite dei nostri delitti inizino ad essere sanate. Fintantoché il reato rimane, come ferro in una ferita, non si può sanare alcuna ferita; ma una volta sottratto quello, viene lasciato spazio alla medicina spirituale…
Sull’eliminazione della morte e del peccato dalla natura umana cfr. Periph. V, 924B. b Per la nozione di “reato” cfr. più sopra, Commentarius I, 31, p. 118 n. c. a
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III, 1. C’era un uomo fra i farisei, di nome Nicodemo, principe dei giudei (Gv 3, 1). Fariseo significa “diviso”, farisei “divisi”.a Infatti la loro setta è divisa dagli altri giudei, cioè dagli scribi e dai sadducei. Solo i farisei credevano alla resurrezione dei morti, mentre gli altri la respingevano. Nicodemo significa “vittoria del popolo”, o “popolo vincitore”, in quanto rappresenta la figura di tutti quelli che, fra il popolo giudaico, hanno creduto in Cristo. Chiunque crede in Cristo vince il mondo (1 Gv 5, 5). Principe dei giudei vuol dire uno dei primi fra i giudei, dotto nella lettera della Legge, maestro di Israele. Questi venne da Lui di notte (Gv 3, 2). Secondo Agostino, Nicodemo rappresenta la figura dei catecumeni. Infatti i catecumeni, cioè quelli istruiti nella fede ma non ancora battezzati né iniziati al sacramento del corpo e del sangue del Signore, vengono a Cristo muniti della sola fede; non conoscendo ancora la virtù del battesimo, che non hanno ancora ricevuto, si avvicinano come se fossero nella notte dell’ignoranza dei sacramenti.b Invece, secondo Gregorio il teologo, Nicodemo va inteso come un discepolo notturno, rappresentando quelli che credono in Cristo nel modo più perfetto, così che non sfugge loro nulla della totalità della fede cattolica, ma sono privi della luce delle opere perfette; siccome temono l’attacco e l’invidia dei loro pensieri e azioni carnali (come di giudei infedeli), godono della presenza di Cristo per la sola fede, ma non hanno fiducia nelle opere buone.c Perciò l’evangelista dice: Questi venne da Lui di notte. a Per questa etimologia di “farisei” cfr. Isidoro, Etymologiae VII, 6, 40; VIII, 4, 3-4. b Cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XI, 3-4. c “Gregorio il teologo” è Gregorio di Nazianzo (Or. 45, 24), commentato in modo analogo da Massimo il Confessore negli Ambigua ad Iohannem (Amb. LI).
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COMMENTO, III, 1
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E gli disse: Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può fare questi miracoli che fai tu, se Dio non è con lui (Gv 3, 2). Da queste parole, con cui Nicodemo incominciò a parlare a Cristo, si può comprendere che Nicodemo era uno di quelli che avevano creduto poco tempo prima, il giorno di Pasqua, dei quali si dice: Mentre poi era a Gerusalemme a Pasqua, in un giorno di festa, molti credettero nel Suo nome, vedendo i miracoli che facevaa (Gv 2, 23). A questo si riferisce quel che dice: Nessuno infatti può fare questi miracoli che fai tu, se Dio non è con lui. Gesù rispose e gli disse: “In verità, in verità ti dico, se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3, 3). C’è da chiedersi perché Gesù abbia risposto a Nicodemo parlando della seconda nascita, che è secondo lo spirito, malgrado lui non sembri avergli chiesto nulla al riguardo. Ma bisogna rispondere: siccome il Signore vide che lui aveva creduto, come avevano creduto anche altri che avevano visto i suoi miracoli, e che avevano ritenuto che la sola fede bastasse loro senza la virtù della generazione spirituale e senza i sacramenti, subito iniziò a insegnargli la nascita secondo lo spirito. Come se gli avesse detto esplicitamente: non ti basta l’aver soltanto creduto in me, se non ricevi i sacramenti del battesimo e non comprendi la virtù della generazione spirituale. Va notato che nei manoscritti greci si legge ΑΝΩΘΕΝ nel passo in cui in quelli latini si trova “di nuovo”. Il senso quindi diventa: “se uno non è nato ΑΝΩΘΕΝ”, cioè “dall’alto”, dicendo “dall’alto” invece che “di nuovo”. E questo si capisce più facilmente e in modo più consono alle due nascite, terrena e celeste. Dice infatti l’Apostolo: Il primo uomo dalla terra è terreno, il secondo uomo dal cielo è celesteb (1 Cor 15, 47). Le nascite sono due, come dice Agostino. Di a Per questa osservazione cfr. nuovamente Agostino, In Iohannis evangelium XI, 3. b L’esegesi che collega la “nascita dall’alto” alla nascita celeste (di contro alla nascita terrena) si trovava già nel commento di Origene (V, 8) alla Lettera ai Romani, che Eriugena poteva leggere in quanto presente nella biblioteca dell’amico Wulfad, dedicatario del Periphyseon (il catalogo della biblioteca personale di Wulfad è stato individuato e pubblicato da M. Cappuyns, ‘Les «Bibli Vulfadi» et Jean Scot Érigène’, Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale, 33 [1966], p. 137-139).
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COMMENTO, III, 1
queste, l’una è dalla terra, l’altra dal cielo, cioè dall’alto; l’una dai genitori secondo la carne, l’altra da Cristo e dalla Chiesa secondo lo spirito; l’una a somiglianza delle bestie attraverso il peccato nella morte, l’altra a somiglianza delle virtù celesti attraverso la grazia nella vita; l’una contro natura attraverso il delitto, l’altra secondo natura attraverso la riparazione del delitto.a Gregorio il teologo sostiene invece che ci siano quattro nascite, a cui anche nostro Signore Gesù Cristo si è degnato di sottoporsi per la salvezza della natura umana. La prima è quella nascita in cui tutto il genere umano simultaneamente è nato dal nulla, della quale sta scritto: E Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27). La seconda è quella dai due sessi, conseguita al delitto dell’uomo e simile a quella degli altri animali, della quale sempre la Scrittura dice: Maschio e femmina li creò (Gen 1, 27), con la quale tutto il genere umano si moltiplica all’infinito con una successione terrena. La terza è quella secondo lo spirito, della quale ora il Signore dice: Se uno non è nato di nuovo; in questa nascita la natura umana incomincia a ritornare alla sua sede originaria, dalla quale era precipitata. La quarta sarà nella resurrezione di tutti, quando tutta la nostra natura simultaneamente nascerà, morta la morte, alla vita eterna. La prima quindi è naturale, la seconda dovuta al peccato, la terza alla grazia del Redentore, la quarta è al tempo stesso secondo la natura e la grazia. La possibilità della resurrezione, infatti, è naturalmente presente nella natura umana, dato che le è del tutto contraria la morte eterna.b Che cosa poi sia conferito alla resurrezione dalla natura e che cosa dalla grazia, non è questo il luogo per discuterne.c Cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XI, 6. Gregorio di Nazianzo (Or. 40, 2) è nuovamente conosciuto e citato qui da Eriugena tramite l’esegesi di Massimo il Confessore (Ambigua ad Iohannem XXXVIII). Le nascite menzionate da Gregorio erano soltanto tre, ma Massimo ritiene che egli alluda anche a una quarta. Le quattro nascite secondo Massimo ed Eriugena costituiscono altrettanti momenti nel processo dinamico di divisione e di riunificazione del cosmo, avviato con la creazione della molteplicità, inclusa quella degli uomini (nascita dal nulla), proseguito con l’allontanamento dell’uomo da Dio in seguito al peccato originale (nascita dai due sessi), restaurato con la redenzione (nascita secondo lo Spirito, associata al sacramento battesimale) e destinato a compiersi con la resurrezione (nascita alla vita eterna). c Il problema del ruolo escatologico della natura e della grazia viene discusso da Eriugena in Periph. V, 902D-905A, dove il ritorno generale della natura nelle sue a
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COMMENTO, III, 1-2
Non può vedere il regno di Dio. I significati del regno di Dio sono molteplici. Il regno di Dio è la Chiesa dei fedeli, di cui è scritto: Il regno di Dio è fra di voi (Lc 17, 21). Il regno di Dio è la totalità del creato corporeo e spirituale. Il regno di Dio sono le virtù celesti e le anime dei giusti. Il regno di Dio è il Figlio di Dio, che si estende da un confine all’altro con forza, dispone tutte le cose con bontà (Sap 8, 1). Il regno di Dio è la visione della verità. Quindi, l’espressione non può vedere il regno di Dio si può intendere coerentemente come: “non può conoscere me, che sono il regno del Padre. Io infatti non sono solo il re del tutto, ma sono anche quel regno e tutte le cose”. Giustamente, dunque, la visione della verità viene detta e compresa come regno di Dio.a
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III, 2. Gli dice Nicodemo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Forse che può una seconda volta entrare nel grembo di sua madre e nascere?” (Gv 3, 4) Lui, che finora è nato soltanto secondo la carne, ha inteso in senso carnale, e perciò ha risposto in modo carnale, dato che non era nato dal sacramento del battesimo e dello spirito. E tuttavia ha parlato in modo veritiero, perché nessuno può nascere due volte secondo la carne, così come nessuno può nascere due volte secondo lo spirito. Come infatti l’uomo nasce una volta sola nella carne dalla carne, così nasce una volta sola dallo spirito nello spirito. Infatti, il sacramento del battesimo, ricevuto una volta, nessuno può ripeterlo.b Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico, se uno non è nato dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3, 5). Prima aveva detto: Non può vedere il regno di Dio; ora, invece, cambiando una parola: Non può entrare nel regno di Dio. Dal che si può capire cause viene distinto dal ritorno, più specifico, degli eletti deificati. Cfr. più sopra cap. I, 20 n. c. a Per un’analoga identificazione del Figlio con la scienza e la visione che egli ha delle cose cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XXI, 5 e, in Eriugena, qui sotto, Commentarius III, 4. b Stessa esegesi di questo versetto in Agostino, In Iohannis evangelium XII, 2: “La rigenerazione spirituale è una sola, così come una sola è la generazione carnale” (Regeneratio spiritalis una est, sicut generatio carnalis una est).
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COMMENTO, III, 2
che vedere il regno di Dio non è altro rispetto ad entrarvi, ma è la stessa cosa. Chi infatti vede il regno di Dio, vi entra; e chi vi entra, lo vede. Vedere infatti è entrare, ed entrare è vedere, cioè conoscere la verità. Se uno non è nato dall’acqua e dallo spirito, cioè dal sacramento visibile e dall’intelletto invisibile. È come se avesse detto esplicitamente: se uno non ha ricevuto il simbolo del battesimo visibilmente e non ha accolto lo spirito (cioè il senso intellettuale di quello stesso simbolo), non può entrare nel regno di Dio. Si può intendere anche dall’acqua come “dal sacramento visibile”, e dallo spirito, cioè “dallo Spirito Santo”.a Ci si chiede perché il Signore ha stabilito che si faccia un sacramento visibile del battesimo nell’acqua, malgrado il solo insegnamento spirituale sembri sufficiente, per mezzo della fede, alla nascita dell’uomo dallo spirito. Ma va detto anche questo: siccome l’uomo è costituito da un corpo visibile e da un’anima invisibile, era necessario un sacramento visibile per la purificazione del corpo visibile, allo stesso modo in cui è necessario l’insegnamento invisibile della fede per la santificazione dell’anima invisibile. Malgrado infatti il sacramento del battesimo non sembri apportare ancora niente al corpo in questa vita, tuttavia nella resurrezione futura renderà ciò che è mortale immortale, ciò che è corruttibile incorruttibile, e tutte le altre caratteristiche che faranno parte della gloria della resurrezione futura. Comunque, anche nella vita presente la virtù del sacramento santifica i corpi dei fedeli, perché vengono resi tempio di Dio, come dice l’Apostolo: Non sapete che i vostri corpi sono il tempio dello Spirito Santo? (1 Cor 3, 16; 1 Cor 6, 19). Ma se qualcuno desidera conoscere appieno la virtù del battesimo, legga san Dionigi Areopagita nel libro sulla gerarchia ecclesiastica.b Eriugena intende l’affermazione di Gesù circa la nascita dallo spirito in un duplice significato: da un lato essa designa cioè la nascita consistente nel sacramento battesimale, dunque la nascita secondo lo Spirito Santo, diffusamente tematizzata qui nel Commentarius anche a causa della sua relazione con la predicazione e l’attività di Giovanni battista; dall’altro, la nascita secondo lo spirito consiste nel superamento, da parte del fedele cristiano (quale si accinge a diventare Nicodemo), del piano della lettera dei fatti e dei precetti dell’antica legge, in favore di una comprensione spirituale, ossia di una più profonda comprensione della rivelazione divina. b Il riferimento è al cap. II del De ecclesiastica hierarchia dello Pseudo-Dionigi. a
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COMMENTO, III, 2-3
Il testo prosegue: Ciò che è nato dalla carne è carne e ciò che è nato dallo spirito è spirito (Gv 3, 6). Ribadisce le due nascite, dalla carne e dallo Spirito. Ciò che è nato dalla carne, cioè dal primo uomo per successione nella carne, è carne, cioè è carnale. Va notato che, in questo passo, col termine “carne” l’evangelista ha inteso non soltanto la carne, ma tutto l’uomo carnale.a Spesso infatti l’anima carnale viene chiamata col nome di “carne”, donde l’Apostolo: La carne concupisce contro lo spirito, e lo spirito contro la carne (Gal 5, 17). Bisogna anche sapere che, come l’uomo carnale tutto intero, anima e corpo, è detto “carne”, così anche l’uomo spirituale tutto intero, anima e corpo, è detto “spirito”, perché gli uomini che nascono in Cristo attraverso lo Spirito Santo vengono resi una cosa sola con lo Spirito stesso sia quanto al corpo che all’anima. Dal che si può comprendere che il sacramento del battesimo prefigura il fatto che ci sarà una trasformazione della carne in spirito.b Non stupirti perché ti ho detto: “Occorre che voi nasciate di nuovo” (Gv 3, 7). Come a dire: non ti risulti strano e incredibile che l’uomo rinasca dallo spirito.
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III, 3. Lo Spirito soffia dove vuole (Gv 3, 8). Dove lo Spirito Santo vuole compiere il potere della sua santificazione, là soffia, là compie la santificazione. Da questo si comprende che la fede con la quale crediamo in Cristo e il sacramento col quale rinasciamo sono doni dello Spirito Santo, che soffia dove vuole, cioè opera nelle cose in cui vuole operare, distribuendo a ciascuno il proprio come vuole (1 Cor 12, 11). E senti la Sua voce (Gv 3, 8). Riguardo alla voce dello Spirito Santo basta menzionare le parole di sant’Agostino. Dice: “Nessuno vede lo Spirito. Come facciamo a sentire la voce dello Spirito? Risuona il salmo, la voce è Spirito. Risuona il vangelo, la voce è Spirito. Risuona la parola divina, la voce è Spirito. ‘Senti la Sua voce e non sai da dove venga e dove vada’. Se anche tu nascerai dala L’idea proviene da Agostino (cfr. ad es. i passi individuati da Jeauneau: De civitate Dei XIV, 4; Enarrationes in psalmos, Ps. 29, II, 1; De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 80, 2). b Per queste riflessioni sulla carne, lo spirito e il sacramento battesimale cfr. Periph. III, 706A-C; V, 948A-B.
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COMMENTO, III, 3
lo Spirito, sarai anche tu ciò che è lo Spirito. Chi non è ancora nato Spirito non sa di te da dove vieni e dove vai. Proseguendo, dice infatti: ‘Così è anche chiunque è nato dallo Spirito’”.a Così ha detto sant’Agostino. La voce dello Spirito, quindi, è la voce di Cristo, udita da Nicodemo. Ma siccome quest’ultimo ancora non è nato dallo Spirito e non sa, malgrado abbia udito la sua voce, da dove venga e dove vada, gli dice: ma non sai da dove venga e dove vada (Gv 3, 8), perché ancora non sei nato dallo Spirito. E per questo, malgrado tu senta la mia voce mentre parlo del mio Spirito, non sai da dove viene quello Spirito, ossia in che modo vuole che l’uomo nasca da Lui nello Spirito, né a quale perfezione conduce l’uomo che nasce da Lui. Chi nasce da Lui, infatti, viene reso tutt’uno con Lui. Come quello Spirito è santo per natura, così rende anche chi nasce da Lui Spirito santo per grazia. Così è chiunque è nato dallo Spirito (Gv 3, 8). Non come te, Nicodemo, che ancora non sei nato dallo Spirito e non sai da dove venga e dove vada, malgrado tu ne senta la voce. Chiunque nasce dallo Spirito e ne sente la voce sa , cioè capisce sia per quale motivo spiri in quelli in cui vuole spirare, sia a quale fine li conduca. Mi sembra però che si capisca più facilmente se si pronunciano con intonazione interrogativa le parole del Signoreb Così è chiunque è nato dallo Spirito, intendendo: Lo Spirito soffia dove vuole, e senti la Sua voce, ma non sai da dove viene e dove va, dato che ancora non sei nato dallo Spirito. Così è chiunque? Come a dire: credi che chiunque nasce dallo Spirito sia tale da sentirne la voce, ma ignorare da dove viene e dove va? Non credere che sia così! Infatti, se nasci dallo Spirito, non solo sentirai la Sua voce, ma saprai anche da dove viene e dove va. Viene dal Padre attraverso il Figlioc – come altrove è scritto: Lo manderà il Padre nel Citazione da Agostino, In Iohannis evangelium XII, 5. La prima delle due interpretazioni qui offerte per la frase “così è chiunque è nato dallo Spirito” si rifà a quella sopra citata di Agostino; per la seconda, quella che propone di interpretarla come una domanda, Jeauneau non ha individuato precedenti: la si direbbe un’interpretazione originale di Eriugena. c Il testo giovanneo offre ad Eriugena l’occasione di un cenno alla teologia trinitaria. Secondo la formula latina, lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio (formula a
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COMMENTO, III, 3-4
mio nome (Gv 14, 26) – perché dallo Spirito nascano i credenti in Cristo. Ritorna al Padre, sempre attraverso il Figlio, riconducendo quelli che nascono da Lui alla filialità divina.
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III, 4. Nicodemo rispose e gli disse: “In che modo queste cose possono avvenire?” (Gv 3, 9) Lui, che aveva letto la lettera della Legge ma ignorava totalmente il suo spirito, esita ancora. Ignorava ciò che dice l’Apostolo: La lettera uccide, lo spirito vivifica (2 Cor 3, 6). La Legge infatti, letta ma non compresa, uccide, mentre letta e compresa vivifica. Perciò a Nicodemo sembrava impossibile quello che il Signore predicava riguardo alla nascita dallo Spirito. Viene confutata la superbia giudaica, che ignora lo spirito dell’insegnamento divino e dice non esservi cose più alte della lettera della Legge, nella quale si avverte il profumo dei misteri divini; per questo Nicodemo viene rimproverato dal Signore.a Dice l’evangelista: Gesù rispose e gli disse: “Tu sei il maestro di Israele e non sai queste cose?” (Gv 3, 10) Dove va notato che il Signore ha detto Tu sei il maestro di Israele non come insulto, ma per castigare la superbia, che non conosce nulla tranne la lettera e la nascita della carne. In verità, in verità ti dico che diciamo cose che sappiamo e che testimoniamo cose che abbiamo visto, e voi non accogliete la nostra testimonianza (Gv 3, 11). Come se dicesse esplicitamente: Tu credi, Giudeo superbo e ignaro del potere delle parole divine, che noi diciamo cose che non conosciamo, o che testimoniamo cose che non abbiamo visto? No. Diciamo cose che del Filioque): la formulazione qui adottata da Eriugena sembra invece rifarsi al simbolo niceno greco, dove la menzione del Filioque era assente. Così egli si comporta anche nel II libro del Periphyseon (565A; 603A; 609A-D; 611A-612D) e nell’Homilia (cap. 8 n. 5 e cap. 9 n. 1). a Per quest’idea Jeauneau rinvia ad es. ad Agostino, Epistula 120, III, 13 e In Iohannis evangelium XII, 6, e ancora, fra i luoghi eriugeniani, Periph. IV, 839AB. Si è già visto qui nel Commentarius (I, 24 e I, 27) come l’Antico Testamento contenga enigmi e simboli oscuri, chiariti (almeno parzialmente) dal loro senso spirituale che appare con la rivelazione divina nell’incarnazione e nella redenzione. Eriugena indica l’errore dei giudei nel loro rifiuto di riconoscere il senso spirituale del testo sacro: è il caso appunto di Nicodemo, incredulo perché ancora ancorato alla lettera dell’Antico Testamento.
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COMMENTO, III, 4
sappiamo. La sapienza conosce le cose che dice, e ha visto le cose che testimonia. È Lui, infatti, la sapienza che non inganna né s’inganna. È Lui la vista che ha visto tutte le cose prima che fossero fatte; e la sua stessa vista è sostanza delle cose che sono state viste. E la sua testimonianza è vera, perché è Lui la verità (Gv 14, 6); e tutto ciò che procede dalla verità è necessariamente vero. E il Signore stesso è anche il linguaggio del Padre, la parola del Padre e il Suo Verbo. Di quella parola il profeta dice: La sua parola corre veloce (Sal 147, 15). E Lui stesso dice di sé: La parola che vi ho detto non è mia, ma del Padre che mi manda (Gv 14, 24). Osserva allora l’efficacia delle parole: Diciamo cose che sappiamo, perché Lui è scienza e linguaggio; e testimoniamo cose che abbiamo visto, perché Lui è vista, e vera testimonianza.a Il fatto che abbia parlato al plurale suggerisce il mistero della santa Trinità.b E voi non accogliete la nostra testimonianza, perché non credete in noi e non siete in grado di comprendere le cose che insegniamo; e questo perché non siete ancora nati dallo Spirito. Se vi ho detto – o, come si legge in greco, dicevo – cose terrene, e voi non credete, come potrete credere, se vi dirò cose celesti? (Gv 3, 12) Nicodemo ha chiesto in che modo queste cose possono avvenire, credendo impossibile la nascita dallo Spirito. Ma si sente dire dal Signore: Se vi dicevo cose terrene. Ci si chiede perché abbia detto Se vi dicevo cose terrene, malgrado non sembri aver detto nulla di terreno nei suoi discorsi precedenti: aveva anzi detto cose del tutto spirituali, insegnando la nascita dallo Spirito. A questo bisogna replicare che la risposta non si riferisce alla parte precedente del dialogo, ma alle cose che aveva detto più addietro, il giorno di Pasqua, ai giudei che gli chiedevano un miracolo: Distruggete questo tempio, a Per l’identificazione di Cristo con queste sue qualificazioni cfr. più sopra, Commentarius III, 1, p. 128 n. a (e il passo di Agostino lì indicato). b L’idea che nel testo biblico l’uso del plurale all’interno di discorsi diretti pronunciati da Dio, o da Cristo, celi un riferimento alla Trinità, era tradizionale nell’esegesi cristiana: Eriugena poteva trovarla ad esempio in Gregorio di Nissa, De opificio hominis VI (a proposito di Gen 1, 26, “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”; in Gregorio l’argomento deriva a sua volta con ogni probabilità dalle Homiliae in Hexaemeron XI, 6 di suo fratello Basilio di Cesarea).
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COMMENTO, III, 4-5
e in tre giorni lo riedificherò (Gv 2, 19). Dice quindi: se poco tempo fa vi parlavo della distruzione del mio corpo ancora terreno, e non avete creduto, come potrete credere, se vi dirò cose celesti, cioè la nascita spirituale dallo Spirito Santo, che è celeste e divina? Se non avete creduto alla distruzione del mio corpo terreno nella passione e alla sua resurrezione nel terzo giorno, perché mi chiedete di dischiudervi i misteri della nascita spirituale, alla quale non siete in grado di credere, dato che non siete rinati dallo Spirito? Eppure, dirò lo stesso cose celesti, anche se non potete capire.a
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III, 5. E nessuno è asceso in cielo, se non Colui che è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo che è nel cielo (Gv 3, 13). È dubbio se il tempo del verbo “ascendit” in latino sia perfetto o presente. Ma in greco no: è passato.b In questa frase si ricerca qual è la discesa del figlio dell’uomo e quale l’ascesa; e qual è il cielo a cui è asceso e da cui è disceso, e nel quale sempre permane mentre ascende e discende. Ma per non dilungarci dicendo le interpretazioni di molti intorno a questo punto, basterà dire quanto pare più verosimile. Nella divina Scrittura il Padre celeste, che è principio di tutte le cose, è spesso chiamato “cielo”. Spesso nel vangelo si legge che il Signore alzò gli occhi verso il cielo (Mt 14, 19; Mc 6, 41; Mc 7, 34; Lc 9, 16; Gv 11, 41), cioè verso il Padre. Non bisogna credere che abbia alzato i Suoi occhi verso questo cielo stellato, corporeo, circoscritto, mortale. Perciò alzava gli occhi al Padre perché quelli che Lo guardavano credessero senza dubbio che era sempre stato nel Padre a cui si rivolgeva. Quindi l’espressione Nessuno è asceso in cielo, se non Colui che è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo che è nel cielo può trovare una bella spiegazione in altre parole: nessuno è asceso al Padre, se non chi è disceso dal Padre, il figlio dell’uomo che è nel Padre.c Per questa interpretazione delle “cose terrene” a cui allude Cristo cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XII, 7. b Il testo greco ha infatti ἀναβέβηκεν (“risalì”), al perfetto. c Eriugena propone un’interpretazione dello stesso versetto anche in Periph. V, 911C-D (in particolare sulla discesa, interpretata come una discesa del Verbo nelle cause e da lì fino negli effetti creati) e V, 999B-C (sull’ascesa: anche lì il “cielo” del versetto giovanneo è interpretato come il Padre). a
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COMMENTO, III, 5
Lui stesso ha spiegato chiaramente altrove di che tipo siano la sua discesa e ascesa, dicendo: Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, e di nuovo lascio il mondo e vado al Padre (Gv 16, 28). La sua uscita dal Padre, quindi, è il farsi uomo, e il Suo ritorno al Padre la deificazione dell’uomo da Lui assunto e l’assunzione nell’altezza della divinità. È disceso da solo, perché solo Lui si è incarnato. Ma se è asceso da solo, che speranza c’è per quelli per i quali è disceso? Eppure c’è una speranza grande e inspiegabile, perché tutti coloro che ha salvato ascendono in lui: ora per fede nella speranza, alla fine dei tempi invece per visione e nei fatti, come dice Giovanni nella sua epistola: Sappiamo di essere figli di Dio; ma non è ancora apparso ciò che saremo. Quando però apparirà, saremo simili a Lui; Lo vedremo infatti come è (1 Gv 3, 2). Quindi, è disceso da solo ed asceso da solo, perché Lui è un unico Dio con tutte le sue membra, Lui è l’unico figlio di Dio: in Lui tutti quelli che credono in Lui sono una cosa sola. Un solo Cristo, quindi, corpo con le Sue membra, è asceso al Padre.a E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così occorre innalzare il figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna a Eriugena considera il Cristo risorto e asceso al cielo come prototipo dell’uomo deificato: cfr. Periph. V, 892C-897B e 912B-913A; e cfr. inoltre l’Homilia, cap. 23: “Lui è il modello supremo e primo della grazia per la quale, senza alcun merito precedente, l’uomo viene reso Dio, e in Lui questo modello si è manifestato in modo primordiale”. Nel presente passo del Commentarius riemerge il rapporto di reciprocità tra il farsi uomo del Verbo divino (movimento di discesa) e la divinizzazione dell’uomo (movimento di ascesa): Eriugena risolve il problema posto dalla dichiarazione secondo cui Cristo è asceso da solo, e non con tutti gli uomini da lui salvati, intendendo che tutti gli uomini vengono in qualche maniera riunificati in Cristo, per cui il testo biblico può dire che lo stesso e unico soggetto che ha compiuto la discesa dal cielo compie anche la risalita corrispondente, senza che ciò escluda la salvezza degli uomini. Eriugena intende dunque questo versetto, come lui stesso dice nell’Homilia (cap. 21), nel senso che in realtà Cristo “è disceso da solo, è asceso con molti”. Lo stesso problema era già stato posto e risolto in modo analogo da Agostino, In Iohannis evangelium XII, 9: “Se dunque nessuno, tranne Lui, è disceso e asceso, che speranza c’è per gli altri? Quella speranza c’è, perché Lui è disceso perché fossero uno solo in Lui e con Lui coloro che sarebbero ascesi per mezzo di Lui” (Si ergo nemo, nisi ille, descendit et ascendit, quae spes est caeteris? Ea spes est caeteris, quia ille propterea descendit ut in illo et cum illo unus essent, qui per illum ascensuri essent).
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COMMENTO, III, 5
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(Gv 3, 14-15). La verità stessa spiega la sua figura; il corpo stesso chiarisce la sua ombra. La storia divina narra che il popolo di Dio era tormentato dai serpenti nel deserto e che per i loro morsi frequenti molti morivano. Ma Mosè, per ordine del Signore, aveva fatto un serpente di bronzo, l’aveva appeso a un alto albero e aveva ordinato al popolo che chiunque fosse morso dai serpenti guardasse in su verso il serpente di bronzo, e sarebbe stato guarito e liberato dalla ferita del serpentea (Nm 21, 6-9). Tutto questo è ombra del futuro (Col 2, 17; Eb 10, 1), è figura di Cristo che sarebbe morto per la salvezza di tutti quelli che vengono uccisi dai morsi velenosi dei serpenti dei loro peccati. Mosè quindi è Cristo stesso; il serpente di bronzo è la morte di Cristo; l’albero a cui il serpente è appeso è la croce di Cristo, sulla quale si sottopose alla morte per la salvezza di tutti quelli che credono in Lui. È bello anche che la morte di Cristo venga figurata per mezzo di un serpente, con quel modo d’espressione con cui si pone la causa al posto dell’effetto: il serpente era la causa della morte di Cristo; e per questo sempre il serpente rappresentava in modo figurato il suo effetto, cioè la morte. Perché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna. C’è una grande differenza fra la lettera e lo spirito, fra la figura e la verità, fra l’ombra e il corpo. La lettera è il fatto narrato dalla Scrittura sacra, lo spirito è la morte di Cristo tramandata dal vangelo. Il serpente figurato appeso all’albero offriva a chi lo guardava la vita temporale; la morte di Cristo offre a chi le crede la vita eterna.b Ma – ci si può giustamente chiedere – che cos’hanno a che vedere queste cose con la seconda nascita dallo Spirito? La risposta è facilissima. Ascende al Padre in Cristo solamente chi nasce dallo Spirito, per diventare conforme all’immagine del Figlio di Dio (Rm 8, 29), cioè perché in lui sia formato Cristo (Gal 4, 19) e lui sia una cosa sola con Cristo. In modo simile, attraverso la morte di Cristo si salva solamente chi è nato dallo Spirito. Nessuno nasce dallo Spirito attraverso il battesimo, se non Questa esegesi dell’episodio si trovava già in Agostino, In Iohannis evangelium XII, 11. b Così anche Agostino, In Iohannis evangelium XII, 11. a
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nella morte di Cristo, come dice l’Apostolo: Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti con Cristo nella morte perché, come Cristo è risorto dai morti nella gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una vita nuova (Rm 6, 4). III, 6. Dio infatti amò il mondo al punto da dare il suo Figlio unigenito (Gv 3, 16). Spiega la causa della salvezza umana, cioè il Padre celeste, dal quale viene ogni salvezza e la restaurazione della natura umana attraverso il Suo Figlio unigenito nel Suo Spirito. La causa della salvezza umana, dunque, è l’amore del Padre, che amò il mondo a tal punto da dare il Suo Figlio unigenito, ossia da consegnarlo alla morte, perché chiunque guardi alla Sua morte non perisca, ma abbia la vita eterna. Ma ci si chiede quale sia il mondo che Dio ha amato. Non bisogna credere infatti che il Padre abbia amato questo mondo, cioè la totalità composta da cielo e terra: questa non è stata fatta per se stessa, ma per il mondo superiore. È dunque il mondo superiore, che Lui creò a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), cioè la natura umana, che il Padre amò al punto da consegnare Suo Figlio per lui. Ma va notato che il mondo amato dal Padre, cioè l’uomo, non viene chiamato “mondo” in quanto composto di quattro elementi, fatto che si scorge nell’uomo ancora terreno solo relativamente al corpo; ma l’uomo viene chiamato “cosmos” perché è ornato a immagine e somiglianza di Dio, la quale si intende soltanto o principalmente riferita all’anima. “Cosmos”, infatti, in greco significa propriamente “ornamento”, non “mondo”. E quale creatura è ornata quanto quella creata a immagine del creatore? A questo scopo perciò Dio amò il mondo e consegnò Suo Figlio per esso, perché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita, non temporale, ma eterna.a Già nell’Homilia, cap. 19, è stata presentata questa interpretazione secondo cui l’uomo è un “mondo”, o un “ornato”, in base al significato che Eriugena attribuisce al termine greco κόσμος (questo vocabolo è reso appunto con ornatus da Eriugena nella sua traduzione delle opere dello Pseudo-Dionigi). Tale interpretazione recupera in contesto teologico e spirituale il tema tradizionale dell’uomo microcosmo; tuttavia, sulla scorta di Gregorio di Nissa (De opificio hominis XVI, 177D-180A), viene rifiutata la spiegazione materialistica dell’analogia fra uomo e a
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Dio infatti non ha mandato Suo Figlio nel mondo (cioè nella natura umana) per giudicare – cioè per condannare per il suo peccato – il mondo, ossia l’uomo; ma perché sia salvato il mondo della natura umana attraverso di Lui (Gv 3, 17). Chi crede non viene giudicato; chi invece non crede è già giudicato (Gv 3, 18). Chi crede nel Figlio di Dio non viene giudicato, perché gli sono rimessi tutti i peccati per i quali sarebbe stato giudicato. Per chi non crede è già terminato il giudizio, perché non crede, e perciò ha dei peccati per i quali viene giudicato, dato che non crede né vuole che gli si rimettano i suoi peccati. A questo proposito va notato che ciascuno giudica oppure non giudica se stesso.a Non giudica se stesso chi considera che i peccati gli siano stati rimessi, e non rimane in lui alcunché da giudicare. Chi invece non crede, giudica se stesso, perché trattiene in sé cose degne del giudizio. È già giudicato. Ha detto “già”, fin dal tempo presente. Per quanto infatti il suo giudizio, con cui si giudica colpevole, sia nascosto nella vita presente, in quello futuro tuttavia diverrà manifesto. Perché è già giudicato? Perché non crede nel nome dell’unigenito Figlio di Dio (Gv 3, 18). Infatti il giudizio, cioè la dannazione eterna, non è nient’altro che il non credere nel Figlio di Dio, così come la beatitudine e la vita non sono nient’altro che credere e conoscere il Figlio di Dio,b come dice Lui stesso: Questa è la vita eterna, che conoscano te, solo e vero Dio, e Gesù Cristo che hai mandato (Gv 17, 3). cosmo dovuta alla compresenza in entrambi dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco), in quanto questa caratteristica non si trova soltanto nell’uomo, ma anche in tutti gli altri viventi. A questa giustificazione della peculiarità dell’uomo ne viene pertanto sostituita un’altra, specificamente cristiana, secondo cui l’“ornamento” umano consiste nel suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio, ossia partecipe di tutti i beni propri della natura divina. Cfr. Periph. IV, 793C-797C (dove viene citato il cap. del De opificio hominis in questione). a Sul giudizio cfr. Periph. V, 997B. b Non si intende solamente che la fede in Cristo è il presupposto indispensabile per la vita futura o per la dannazione: in queste righe si allude anche alla concezione “spiritualizzante” della vita ultraterrena secondo Eriugena (sviluppata nel V libro del Periphyseon), a proposito della quale non si deve pensare a premi e castighi materiali, ma alla beatitudine come piena visione di Dio e, inversamente, alla dannazione come assenza di questa visione.
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Il testo prosegue: Questo è il giudizio per cui la luce è venuta nel mondo (Gv 3, 19). Se la luce non fosse venuta nel mondo, non ci sarebbe giudizio del mondo, come dice il Signore: Se non fossi venuto e non avessi parlato, non avrebbero alcun peccato (Gv 15, 22). Quindi la luce – cioè l’incarnazione, l’insegnamento, la passione e la resurrezione del Verbo di Dio – giudica il mondo. Chi vuole accedere alla luce, cioè al Figlio di Dio, per credere in Lui e conoscerlo, non viene giudicato. Chi invece né Gli crede né Lo comprende, rimarrà nelle sue tenebre, nelle quali sarà dannato, cioè giudicato, in quanto non vuole accedere alla luce. E gli uomini preferirono le tenebre alla luce (Gv 3, 19). Dice bene “gli uomini”, ovvero i carnali, gli empi, gli increduli, non quelli spirituali; questi ultimi infatti ascendono oltre l’uomo e superano la loro natura per mezzo della grazia di Colui che li illumina.a Sul perché gli uomini abbiano preferito le tenebre alla luce, il testo prosegue aggiungendo coerentemente: Le loro opere infatti erano malvagie (Gv 3, 19). Quali sono queste opere malvagie? Nient’altro che l’empietà, l’incredulità, l’odio della luce eterna e il non volerla guardare, ma voler rimanere nelle tenebre dei peccati. Chiunque infatti fa il male odia la luce, e non viene alla luce, perché le sue opere non vengano biasimate (Gv 3, 20). Perciò l’empio fugge la luce della verità, per evitare che diventi manifesta la sua empietà, nella quale sono contenute tutte le opere malvagie. Come infatti la pietà non manca di alcuna buona opera, così l’empietà non manca di alcun male. Chi invece opera la verità, viene alla luce, perché le sue opere siano manifeste, perché sono state fatte in Dio (Gv 3, 21). Chi è che opera la verità, ovvero, chi è che compie le opere buone prescritte dalla verità, se non chi crede in Cristo? E chi è che viene alla luce, cioè a Cristo e al suo insegnamento, perché siano manifeste le sue opere, buone perché fatte in Dio, se non chi crede in Cristo e osserva i suoi precetti? a La menzione evangelica degli “uomini” viene specificata da Eriugena nel senso di “uomini carnali”, contrapposti a quelli spirituali: questi ultimi, infatti, non sono propriamente semplici uomini, in quanto destinati alla deificazione per grazia divina.
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COMMENTO, III, 7
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III, 7. Dopo questi fatti Gesù e i suoi discepoli giunsero nella terra della Giudea (Gv 3, 22) eccetera. Non bisogna pensare che subito dopo la discussione con Nicodemo, avvenuta a Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli siano giunti nella terra della Giudea, ma che ritornarono dalla Galilea alla Giudea dopo un certo intervallo di tempo. In senso morale, la terra di Giudea è il cuore dei fedeli. Giudea significa “confessione”.a La confessione però è di due tipi: c’è la confessione dei peccati e la confessione delle lodi divine.b Quindi, in qualunque cuore ci sia quella duplice confessione, dei peccati e delle lodi divine, là giunge Gesù con i suoi discepoli, cioè con il suo insegnamento e la sua illuminazione, e lì dimora e lo purifica da tutti i peccati. E a questo si riferisce quanto segue: E dimorava lì con loro e battezzò (Gv 3, 22). Stando alla lettera, Gesù dimorava nella Giudea coi discepoli, oppure coi giudei credenti. Non è chiaro, infatti, se dimorava con loro voglia dire che dimorava coi suoi discepoli oppure coi giudei che credevano in Lui oppure, più verosimilmente, con entrambi. E battezzò. Qui, se fu Cristo stesso a battezzare, ci si chiede come mai l’evangelista più avanti dica: Benché non fosse Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli (Gv 4, 2). A questo bisogna rispondere che in un primo momento fu Cristo stesso che battezzò i suoi discepoli, poi i discepoli stessi battezzavano quelli che credevano in Cristo, anche se alcuni pensano che Lui non battezzò nessuno di persona, ma che viene detto che battezzò in quanto impose ai suoi discepoli di battezzare.c Il testo prosegue: Giovanni invece si trovava a battezzare ad ΑΙΝΩΝ vicino a Salim, perché lì c’erano molte acque (Gv 3, 23). Giovanni stava ancora battezzando nel Giordano, mentre Cristo aveva incominciato a battezzare in Giudea i suoi discepoli e, tramite loro, altri. Bisognava infatti che il discepolo precursore non abbandonasse il mistero del suo ruolo a L’etimologia di “Giudea” come “confessione” è stata già menzionata da Eriugena in Commentarius I, 27, sulla base di Agostino, Enarrationes in Psalmos, 75, 3. b Per questa distinzione dei due tipi di confessione cfr. Agostino, Enarrationes in Psalmos, Ps. 29, II, 19, 12-15; Isidoro, Etymologiae VI, 19, 75-79. c Interpretazione tratta da Agostino, In Iohannis evangelium XV, 3-4.
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di precursore prima che colui di cui era il precursore iniziasse a mostrare la verità. L’ombra rimase ancora, perché la luce non si era ancora del tutto rivelata.a Ad ΑΙΝΩΝ, cioè nelle acque: l’acqua, infatti, in ebraico si chiama “enos”. Perciò il seguito dice, come spiegando il significato del nome: perché lì c’erano molte acque.b Su Salim invece si tramandano varie cose. Alcuni sostengono che si tratti di Gerusalemme, la quale non è molto distante dal Giordano. Infatti, a quanto dicono costoro, essa era originariamente chiamata soltanto “Salim”;c poi “Gebusalem”, perché conquistata dai gebusei (2 Re 5, 6 [= 2 Sam 5, 6]; 2 Cr 11, 4-5);d poi Gerusalemme, cioè “tempio della pace”, per via della gloriosissima fama, estesa fino ai confini del mondo, del nobilissimo tempio costruitovi da Salomone. Altri, invece, che ritengo più affidabili, dicono che Salim è una rocca situata oltre il Giordano, nel punto in cui il Giordano entra nel lago di asfalto, cioè di bitume,e e che in quella rocca, di cui ancora si possono vedere i resti, regnò un tempo Melchisedec (Gen 14, 18).f Vicino a questa battezzava Giovanni, perché lì c’erano molte acque. III, 8. Giovanni infatti non era stato messo in carcere (Gv 3, 24). Infatti, una volta messo in carcere, subito smise di battezzare, proprio mentre incominciava il battesimo di Cristo. Ci si chiede: in che cosa il battesimo da parte di Giovanni giovò a quelli che furono battezzati da lui? Non bisogna credere in nessun modo, infatti, che avesse comportato la remissione non solo del peccato originale, ma anche dei peccati individuali. Che cosa comportò, allora? Di certo qualcosa di grande. Quanto infatti l’insegnamento della fede giova ai catecumeni non ancora battezzati, tanto il battesimo di Giovanni giovò a quelli battezzati a Una spiegazione simile si trova in Gregorio Magno, Homiliae XL in evangelia, omelia XX, 2. b Per questa etimologia cfr. Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 66, 8. c Cfr. Gerolamo, Hebraicae quaestiones in Genesim – ed. de Lagarde, p. 24, 16-17. d Così anche Agostino, Enarrationes in Psalmos, Ps. 61, VII, 25-30; Ps. 64, II, 9-12. e Col nome di “lago di asfalto” si designava il Mar Morto, a causa dell’assenza di vita in quelle acque: cfr. Isidoro, Etymologiae XIII, 19, 3. f Per questa interpretazione cfr. ad es. Gerolamo, Ep. 73, 7.
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da lui, prima che si sottoponessero al battesimo in Cristo. Giovanni predicava appunto la penitenza, preannunciava il battesimo di Cristo e li trasse verso la conoscenza della verità che apparve al mondo. Non fanno forse lo stesso, tutti i giorni, i ministri della Chiesa? Per prima cosa istruiscono quelli che si accostano alla fede; poi ne rimproverano i peccati; poi promettono la remissione di tutti i peccati nel battesimo; e così li traggono verso la conoscenza e l’amore della verità. Viene aggiunto, come colmo di lode e di utilità, il momento in cui Giovanni compì il battesimo. Il precursore doveva compiere l’effetto del suo ruolo di precursore in tutto; così che, come aveva preceduto Cristo nella nascita e nella predicazione, similmente doveva fare anche nel battesimo.a Come l’aurora precede il sorgere del sole, così i sacramenti di Giovanni precedettero le opere di Cristo; e, come l’aurora in qualche modo scaccia le ombre, così l’insegnamento del precursore incominciava a scacciare le tenebre dell’ignoranza del mondo intero. Perciò, perché il vero battesimo di Cristo non apparisse al mondo all’improvviso, lo precedette un battesimo figurato, perché la verità risplendesse in modo più alto e luminoso, se prima una figura fosse riuscita gradita a quelli che sedevano nelle tenebre. Ancora, ci si chiede perché Cristo sia stato battezzato da un suo servo. A questo bisogna rispondere: Cristo si è degnato di essere battezzato dal suo servo sia per onorare il compito del suo precursore, sia per render noto a tutti i giudei e a tutto il mondo che quel compito era vero. Ma se solo questa è stata per il Signore la causa del battesimo da parte del Suo servo, perché Giovanni non ha battezzato soltanto Cristo? Sarebbe ben bastata, a lode e testimonianza del battesimo del servo, l’umiltà del Signore. Ma a questo bisogna rispondere che, se da Giovanni fosse stato battezzato soltanto Cristo, il battesimo di Giovanni avrebbe dato l’impressione di giovare ai battezzati più di quello di Cristo. Infatti, si sarebbe potuto credere molto migliore l’unico battesimo con cui era stato battezzato il Signore, rispetto a quello con cui molti erano stati battezzati dal Signore e dai suoi discepoli. Ma perché non si poa
Così anche Gregorio Magno, Homiliae XL in evangelia, VII, 3.
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tesse pensare una cosa del genere, da Giovanni furono battezzate molte persone.a Se poi ci si chiede se al Signore in persona giovò a qualcosa essere battezzato dal Suo precursore, alcuni rispondono, in modo convincente, che Cristo effettuò una sorta di santificazione del battesimo di Giovanni.b Quel battesimo, tuttavia, non giovò in nulla a Cristo. Sappiamo però che alcuni autori greci affermano con sicurezza che la santificazione dell’umanità di Cristo fu accresciuta per mezzo del sacramento del battesimo da parte di Giovanni: lo argomentano soprattutto sulla base della discesa dello Spirito Santo in forma di colomba su di Lui dopo il battesimo. E non c’è nulla di strano, dato che l’evangelista dice: Gesù cresceva in sapienza, età e grazia presso Dio e gli uomini (Lc 2, 52). Che ci sarebbe di strano se Cristo avesse ricevuto un qualche incremento della Sua umanità attraverso il sacramento del battesimo da parte del Suo precursore, per esempio nel merito della sua umiltà, a causa della quale non ha disdegnato di sottoporsi al battesimo da parte del Suo servo? Ha ricevuto la grazia perché, in virtù del suo battesimo, tutti i credenti in Lui ricevessero la remissione di tutti i peccati, originali e individuali.c Agostino aggiunge anche un’altra ragione per il battesimo del Signore da parte del Suo servo: per evitare che i catecumeni che vivono in modo casto e pio dopo aver accettato la fede insuperbissero credendo che il mistero del battesimo non può apportar loro nulla, una volta che vivono nella fede in cui sono stati educati.d Ma perché non facessero quest’errore e non faticassero invano, il Signore ha voluto dar loro l’esempio del Così anche Agostino, In Iohannis evangelium IV, 14; XIII, 7; De baptismo contra Donatistas V, 9, 11. b Si tratta di una interpretazione tradizionale, non solo in ambito latino (Gerolamo, Commentarii in evangelium Matthaei I, 227-283, citato da Beda, In Marci evangelium expositio I, 216-221) ma anche greco (Jeauneau rinvia in proposito a Gregorio Nazianzeno, Or. 39, 15). c Non è chiaro chi siano gli autori greci da cui proviene questa interpretazione: Jeauneau dichiara nell’apparato delle fonti (ed. CC CM 166) di non essere riuscito a individuarli. Non si può nemmeno escludere che si tratti di qualcuna delle autorità fittizie talvolta addotte da Eriugena (es. Periph. I, 449B-C, dove addirittura viene citato un passo di Agostino inesistente; cfr. il commento di Peter Dronke ad loc., in: Giovanni Scoto, Sulle nature dell’universo, ed. P. Dronke, M. Pereira, vol. 1, Milano, 2012, p. 244-245). d Cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XIII, 6. a
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Suo battesimo, perché nessuno di loro osasse gonfiarsi d’orgoglio, vedendo che il loro Signore si era sottoposto al battesimo del Suo servo: se il Signore non ha disprezzato il battesimo del suo servo, per quale ragione quelli dovrebbero rifiutare di sottoporsi al battesimo del loro Signore?a
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III, 9. Sorse dunque una discussione fra i discepoli di Giovanni e i giudei riguardo alla purificazione (Gv 3, 25). I discepoli di Giovanni, vedendo che molti fra i giudei avevano creduto in Cristo e si erano fatti battezzare dai suoi discepoli, mossi da invidia, interrogavano i giudei riguardo alla purificazione, cioè riguardo al battesimo. Infatti, si stupivano che altri, oltre a Giovanni e ai suoi discepoli, potessero battezzare, ritenendo che Giovanni fosse più grande di Cristo, dato che avevano visto, poco tempo prima, proprio Cristo battezzato da Giovanni nel Giordano. E andarono da Giovanni, con l’intenzione di accusare Cristo e i suoi discepoli, convinti che battezzassero per fargli torto, e gli dissero: “Rabbi, quello che era con te di là dal Giordano, che sembrava un tuo discepolo quando era stato battezzato da te di là dal Giordano, quello a cui hai reso testimonianza dicendo: Ecco l’agnello di Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29); ecco, lui battezza ora in Giudea – il che ci sconcerta non poco – e tutti vanno da lui” (Gv 3, 26). Vogliamo perciò chiederti: che ne pensi di questa temerarietà? Giovanni rispose e disse: “Un uomo non può ricevere alcunché, se non gli è stato dato dal cielo” (Gv 3, 27). In alcuni manoscritti greci si legge: Se non gli è stato dato dall’alto, dal cielo. Il servo risponde con umiltà a quelli che accusano il suo Signore: Un uomo – dice – non può ricevere alcunché. Come a dire: voi credete che io sia più grande di colui di cui sono servo e precursore; sbagliate a non credere in Lui e a ignorare chi sia e da dove venga, e a credere che io sia ciò che non sono. Perché sappiate chi è Lui e chi sono io, ascoltate a
V, 3.
Per quest’ultima osservazione cfr. Agostino, In Iohannis evangelium IV, 13-14;
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la mia risposta: Un uomo non può ricevere alcunché. Io sono uomo e non Dio, Lui invece è sia Dio che uomo. È Lui quello a cui ho reso testimonianza dicendo: Della sua pienezza abbiamo ricevuto noi tutti (Gv 1, 16). Sono dunque un uomo. Non ho ricevuto nulla da me stesso, io che non ho nulla che potrei ricevere da me stesso; tutto ciò che ho ricevuto, l’ho ricevuto da Lui. Se ho ricevuto la grazia di essere il precursore, l’ho ricevuta da Lui. Voi credete che io sia oltre la natura umana, perché avete sentito dire che sono nato grazie a un miracolo del potere divino: sono nato da genitori in età avanzata, in modo inconsueto e quasi al di sopra della natura umana. Perciò credete che io sia oltre l’uomo. No. Io sono soltanto un uomo. Se sapeste chi sono, non mi esaltereste oltre ciò che sono; e se sapeste chi è Lui, in nessun modo mi paragonereste a Lui. Io infatti sono un uomo, Lui è Dio; tutto ciò che ho ricevuto, l’ho ricevuto da Lui. Il sapientissimo precursore di Cristo separa in se stesso natura e grazia: attribuendo a se stesso l’essere uomo, ossia l’essere mortale, peccatore, fatto come creatura terrena dal primo uomo terreno (1 Cor 15, 47), e tutte le altre caratteristiche che scorgeva circa la debolezza della natura umana, il peccato e la pena del peccato in se stesso e in tutti gli altri uomini; e separando da sé la grazia dall’alto, che aveva ricevuto non per meriti, ma per abbondanza della pienezza di colui di cui era precursore. Nell’uomo vanno considerate due cose: il dato e il dono. Il dato si riferisce alla natura, il dono alla grazia. E benché entrambe queste cose provengano soltanto da Dio – come dice l’Apostolo: Uomo, che cos’hai che tu non abbia ricevuto? (1 Cor 4, 7) – tuttavia la Scrittura di solito ascrive il dato della natura all’uomo, il dono a nessun’altro che a Dio. Dio infatti ha dato la natura per questo, per ornarla con la grazia. Questo è il significato di: L’uomo (cioè la natura umana) non può ricevere alcunché della grazia, se non gli è stato dato dal cielo. In questo passo, Giovanni ha detto “dato” al posto di “donato”, il che si trova spessissimo nella divina Scrittura. Si può intendere “dato” al posto di “dono”, e viceversa. Infatti i dati della natura e i doni della grazia sono congiunti a tal punto da risultare inseparabili. Non c’è alcuna natura razionale completamente priva del dono della grazia. Se non è stato dato dal cielo.
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Da quale cielo? Dal Padre.a Ascolta l’apostolo Giacomo che dice: Ogni dato ottimo e ogni dono perfetto viene dall’alto, dal Padre delle lucib (Gc 1, 17). Con queste parole si accorda perfettamente quello che dice Giovanni: L’uomo non può ricevere alcunché, se non gli è stato dato dal cielo, cioè dal Padre, che è principio di tutti i beni; e, se viene dal Padre, lo fa senz’altro in primo luogo attraverso il Figlio, della cui pienezza abbiamo ricevuto tutti noi (Gv 1, 16). Voi stessi mi rendete testimonianza (Gv 3, 28). Soltanto questo mi si addice nelle vostre parole, voi che non solo non credete in colui che mi ha inviato, ma per giunta ritenete nullo il suo battesimo: il fatto che mi rendete testimonianza che ho detto che non sono io il Cristo, ma che sono stato inviato prima di Lui (Gv 3, 28). Queste le parole che avete sentito da me, quando parlavo di Lui oltre il Giordano (Gv 1, 19-27). Avete senz’altro sentito, dato che dite: Quello che era con te di là dal Giordano, a cui hai reso testimonianza. E se avete sentito, perché accusate presso di me quello a cui ho reso tale testimonianza, come se battezzasse le folle per far torto a me? Ho detto: non sono il Cristo, ma un semplice uomo; non sono unto dal Padre con la pienezza dello Spirito, ma è Lui l’unto, e io ho ricevuto della sua pienezza. Ma siccome sono stato mandato prima di Lui, sono stato inviato nel mondo prima, nascendo prima di Lui. Lui invece è Dio prima di tutti i secoli insieme con Dio Padre; io sono un uomo inviato nella carne alla fine dei tempi, prima che Lui nascesse nella carne. a Per l’uso biblico di chiamare “cielo” il Padre cfr. più sopra, Commentarius III, 5. La fonte eriugeniana per l’interpretazione di questo versetto consistente nell’identificazione del cielo col Padre è Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium L, 100-107. b La distinzione, qui definita, fra “dato”, pertinente alla natura, e “dono”, pertinente alla grazia, occupa un posto di rilievo nella speculazione eriugeniana: cfr. Expositiones I, 22-162 (dove viene specificato che tutto ciò che è stato creato partecipa della bontà, cioè della divinità, in entrambi i modi, dato e dono); Periph. III, 631C-632A (dove pure viene spiegato l’uso biblico di porre “dato” per “dono” e viceversa); V, 904C-906B. Il versetto di Giacomo citato in questo passo del Commentarius, logicamente fondamentale per tale distinzione, figura anche in apertura del De caelesti hierarchia dello Pseudo-Dionigi.
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III, 10. Chi ha la sposa è lo sposo (Gv 3, 29). Il precursore vedeva i pensieri dei suoi discepoli: loro affermavano tali cose su Cristo e sul Suo battesimo, e ascoltavano la risposta del loro maestro su di sé e sul suo battesimo, cioè “L’uomo non può ricevere alcunché”. Egli così umiliava se stesso e affermava in modo veritiero di essere un uomo terreno. Volevano chiedergli: se tu sei soltanto un uomo, e non hai di tuo potere e grazia superiori a ciò che hai ricevuto da colui che ora battezza in Giudea, e tu dici che sei stato mandato prima di Lui, dicci allora: che cosa sei, se non sei un semplice uomo? Quanto vali? Che grazia hai ricevuto dal cielo? Lui rispose: Chi ha la sposa è lo sposo. Colui che è venuto per la Chiesa, è venuto per avere una sposa, che ora incomincia a chiamare a partire dal popolo giudaico, battezzando molti giudei; Lui è lo sposo.a Io, invece, non sono né lo sposo, come credete voi, né ho una sposa, ma mi annovero fra quelli che intendo con “sposa”. Però, perché sappiate che cosa sono io e quale grazia ho da quello sposo che ha la sposa, ascoltate: L’amico dello sposo (Gv 3, 29). Non sono lo sposo, ma ho una grande grazia dallo sposo: sono suo amico. Che è presente e lo ascolta, gode di una grande gioia (Gv 3, 29). Io sono l’amico dello sposo, e sono saldo nella sua grazia. Rimango nella sua amicizia, non ne decado. Lui mi custodisce perché io non cada. Lui mi dona di non abbandonare la sua grazia, ma di essere sempre saldo e sentirlo, sentire il suo insegnamento, non soltanto al di fuori con l’orecchio del corpo, ma anche all’interno con l’orecchio del cuore, e più all’interno che all’esterno. La sua voce è la sua testimonianza, con la quale afferma di essere Figlio di Dio e sposo della Chiesa. E siccome sento la sua parola, gioisco della voce dello sposo (Gv 3, 29). Gioa La risposta di Giovanni battista, a causa della metafora nuziale che essa contiene, è stata associata da Eriugena al Cantico dei Cantici, e in particolare all’esegesi allegorica, diffusa a partire dal commento al Cantico di Origene (noto anche al medioevo latino nella traduzione tardoantica fattane da Rufino), secondo cui la sposa del Cantico indica la Chiesa (oppure l’anima) che si congiunge a Cristo (cfr. ad es. l’incipit del libro I del commento di Origene). Eriugena qui ripropone dunque a proposito del versetto giovanneo un’esegesi sorta dal Cantico dei Cantici. Già Agostino aveva spiegato lo stesso versetto in questo senso: In Iohannis evangelium XIII, 12.
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vanni riferisce dunque a se stesso le sue parole: L’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, gode di una grande gioia per la voce dello sposo. Lo ha fatto perché i suoi discepoli capissero chiaramente che cosa lui era, e che cosa era Cristo nel quale ancora non credevano, e del quale non avevano ricevuto il battesimo. Dunque questa mia gioia è completa (Gv 3, 29). È come se dicesse: la mia gioia è completa nel fatto che sono diventato amico dello sposo, e sono saldo nella sua grazia, e sento fin d’ora la voce dello sposo che chiama la sposa in Giudea fra i giudei, e che comincia da sé sia a predicare che a battezzare; ma voi, che non credete in Lui, questo ancora non lo percepite. E non stupitevi che Lui battezzi, che tutti vadano da Lui per credere ed essere battezzati, e che abbia più discepoli di me: Lui deve crescere, io invece diminuire (Gv 3, 30). Nelle vostre menti deve crescere Lui, che per ora voi credete soltanto un uomo privo di qualunque potere; ma è Lui che deve crescere, perché conosciate non solo il vero uomo, ma anche il vero Dio uguale a Suo Padre. Occorre dunque che lui cresca nei vostri pensieri, e che io invece diminuisca. Reputate più grande di quel che sono, Lui più piccolo di quel che è. La vostra opinione su di me in voi diminuirà, la vostra opinione su di Lui in voi aumenterà.a E se lo sapeste, ve ne rendereste conto anche dai segni visibili. Io sarò decapitato, Lui sarà innalzato sulla croce, perché attraverso questo sappiate che Lui deve crescere sopra tutte le cose nelle menti di quelli che credono perfettamente in Lui, io invece diminuire, perché nessuno pensi di me altro che quello che io sono e che ho ricevuto da Lui. Proprio questo significa il fatto che Lui sia nato quando la luce incominciava a crescere e le tenebre a decrescere; mentre io sono nato mentre la luce incominciava a diminuire e le tenebre a crescere.b Ma si può intendere il passo anche in un Esegesi analoga in Gregorio Magno, Homiliae XL in evangelia, omelia XX, 5. Per la lettura delle parole del battista come allusione alla diversità del suo supplizio e della sua nascita rispetto ai medesimi eventi nella vita di Gesù cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XIV, 5. Il fatto che Cristo sia nato “mentre la luce incominciava a crescere e le tenebre a diminuire” ravvisa un significato simbolico nella data del Natale, situata poco dopo il solstizio d’inverno (21 dicembre), dunque poco dopo il giorno più breve dell’anno, a partire dal quale le ore di luce incoa
b
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altro modo: Giovanni rappresenta la figura della Legge, Cristo la figura di se stesso, cioè della verità. Mentre la verità appariva nel mondo, iniziò a diminuire la Legge, cioè le opere carnali. Sapendo queste cose, il precursore, il profeta, il più che profeta (Mt 11, 9; Lc 7, 26) dice: Lui deve crescere, io diminuire. Lui, siccome è la verità, crescerà nel mondo, cioè sarà conosciuto in modo chiarissimo da quelli che credono e crederanno in Lui. La Legge, invece, di cui io rappresento la figura, diminuirà man mano che crescerà la verità.a III, 11. Colui che viene dall’alto è al di sopra di tutti (Gv 3, 31). Il servo ritorna al paragone fra sé e il suo Signore. Colui che viene dall’alto, cioè che dal Padre viene nel mondo per salvare il mondo, è al di sopra di tutti: Lui supera non solo me, suo servo e precursore, ma anche tutti gli uomini, e non solo gli uomini, ma anche tutte le potenze celesti e tutte le cose che sono e che non sono. E questo non quanto alla divinità, ma quanto all’umanità: è uomo, e più che uomo. La Sua divinità non supera nulla, perché è tutte le cose.b minciano ad aumentare. Viceversa, la nascita di Giovanni battista, nato “mentre la luce incominciava a diminuire e le tenebre a crescere”, si celebra il 24 giugno, tregiorni dopo il solstizio d’estate (giorno di luce più lungo dell’anno), a partire dal quale le giornate iniziano appunto ad accorciarsi. a Questa esegesi prosegue la tematica esposta sopra (Commentarius I, 30) delle tre gerarchie o sacerdozi, desunta dallo Pseudo-Dionigi (De ecclesiastica hierarchia), e delle tre Leggi, derivata da Massimo il Confessore. Viene così sottolineato il ruolo “liminare” o “incoativo” della predicazione di Giovanni battista, già evidenziato sopra attraverso la citazione evangelica: “La Legge e i profeti fino a Giovanni, e a partire da lui il regno dei cieli” (Lc 16, 16). b L’affermazione secondo cui la divinità di Cristo è tutte le cose non è naturalmente da intendersi in senso panteistico (cfr. Periph. III, 650D). Eriugena in questo genere di affermazioni è debitore delle concezioni dello Pseudo-Dionigi circa la teologia negativa e quella affermativa: perciò è al tempo stesso possibile annoverare Dio fra le “cose che non sono” in quanto le trascende tutte (Periph. I, 443A-B), e fra “quelle che sono” in quanto è creatore e causa di tutte (come in questo passo del Commentarius, o anche ad es. in Hom. 11 e in Periph. I, 517A; a tal proposito Eriugena cita spesso lo Pseudo-Dionigi, De caelesti hierarchia IV, 1: “l’essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell’essere”; cfr. ad es. Hom. 10); oppure ancora come simultaneamente trascendente tanto le cose che sono quanto quelle che non sono (Expositiones VII, 413-414; Periph. II, 572D; III, 681B-C). Pertanto, là dove
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Colui che viene dalla terra, è terra e parla della terra (Gv 3, 31). Questo lo dice di se stesso. Come a dire: io, che vengo dalla terra, cioè che sono nato da genitori terreni, discendendo da colui al quale fu detto: Sei terra e tornerai alla terra (Gen 3, 19), cioè proprio da quell’uomo terreno da cui tutti i terreni hanno tratto il peccato e la pena del peccato (la morte): da lì vengo. E perciò sono terra, perché sono nato dalla terra, né penso di essere altro. Se ho qualche cosa al di sopra di questo, la ricevo dalla pienezza di Colui prima del quale sono stato inviato. E parla della terra, cioè parlo della fragilità della mia natura, sapendo che essa sarebbe nulla, se non ricevesse dall’alto. E non stupirti che Giovanni parli di sé in terza persona: lo fa con buona ragione, perché mostra in sé la persona di ogni uomo terreno. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti (Gv 3, 31). Ripete la stessa frase che ha detto poco sopra: Colui che viene dall’alto è sopra tutti. Ora dice di nuovo: Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti. Sono le stesse parole, tranne che prima ha detto viene dall’alto, ora invece viene dal cielo. Che cos’è questa ripetizione, e che cosa vuol dire? Forse altro significa “viene dall’alto”, altro “viene dal cielo”? Cristo viene dall’alto, Cristo viene dal cielo, e perciò è al di sopra di tutti e di tutto. Perciò fra “viene dall’alto” e “viene dal cielo” si può intendere una differenza di questo tipo: nelle parole viene dall’alto dobbiamo intendere l’altezza della natura umana prima del peccato del primo uomo; non dubitiamo che Cristo sia venuto da quell’altezza. Se infatti venisse dall’uomo com’era dopo il peccato, forse non sarebbe senza peccato. Ma siccome fu senza peccato, bisogna credere correttamente che assunse l’uomo com’era prima del peccato. Infatti nostro Signore Gesù Cristo, creatore e salvatore della natura umana, ha assunto sia il primo uomo com’era prima del peccato, sia in qualche modo il secondo uomo com’era dopo il peccato. Che cosa ha preso dall’uomo com’era prima del peccato? L’essere privo di peccato, perché la natura umana, Eriugena dice che Dio è tutte le cose, egli ha in mente una predicazione affermativa che non comporta una identificazione, bensì mira a stabilire un nesso causale che va dalla divinità alla creatura.
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prima di peccare, era completamente priva di peccato. Che cosa ha preso dall’uomo com’era dopo il peccato? Il morire per il peccato, ma senza nessun reato del peccato.a Quindi ciò che dice prima, Colui che viene dall’alto, si intende correttamente così: colui che viene dalla sublimità della natura umana fatta a immagine di Dio prima del peccato. Nessuno, infatti, viene da lì, se non Lui solo. Quanti infatti vennero nel mondo, vennero dall’uomo peccatore; soltanto Lui è disceso senza peccato dall’uomo com’era prima del peccato. Invece, là dove prosegue dicendo Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti, intendiamo che il nome “cielo” significhi il Padre,b dal quale Cristo è stato mandato nel mondo, come dice Lui stesso: Sono uscito da mio Padre e sono venuto nel mondo (Gv 16, 28). Allora bisogna credere che l’unigenito Figlio di Dio sia sopra tutte le cose in due modi: in primo luogo, perché viene esaltato al di sopra di ogni natura umana, Lui che viene da quella natura com’era prima che peccasse; in secondo luogo, perché quanto all’altezza della divinità, nella quale è uguale al Padre, supera ogni creatura.c E ciò che ha visto e ha udito, questo testimonia (Gv 3, 32). Che cosa ha visto il Figlio di Dio? Nient’altro che questo: ha conosciuto di essere nel Padre e uguale a Lui. E ha udito. Che cosa ha udito? Ha udito dal Padre: Io oggi ti ho generato (Sal 2, 7; At 13, 33; Eb 1, 5; Eb 5, 5). Ha visto quindi se stesso nel Padre Suo quanto alla Sua divinità, e ha udito da Suo Padre che Lui Lo ha generato uguale a sé. Questo testimonia. Che cosa testimonia? Che è il Figlio di Dio. E dove lo testimonia? Ritorna a quanto è scritto più sopra, dove Lui stesso dice di sé: “Dio infatti non ha mandato Suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse salvato attraverso di Lui. Chi crede in Lui Sul “reato” cfr. più sopra, Commentarius I, 31 (p. 118 n. c) e I, 33. Sul “cielo” nel senso di “Padre” cfr. più sopra, Commentarius III, 5 e III, 9. c La duplicità di significati attribuita all’affermazione “Colui che viene dal cielo – o ‘dall’alto’ – è al di sopra di tutti” indica che Eriugena ravvisa in questa espressione la compresenza di due piani di senso: da un lato quello della redenzione, che conduce alla considerazione dell’enunciato evangelico in relazione all’assunzione della natura umana da parte di Cristo eccettuato il peccato; dall’altro quello della divinità considerata in sé e per sé, che porta a ribadire il dogma trinitario dell’uguaglianza di sostanza fra Padre e Figlio. a
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non viene giudicato. Chi invece non crede, è già giudicato, perché non crede nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”. Questo dunque è ciò che ha visto il Figlio di Dio, e che testimonia di se stesso. E nessuno accoglie la Sua testimonianza (Gv 3, 32). Se nessuno accoglie la sua testimonianza, perché è venuto, e che vantaggio ha portato al mondo? Giovanni il precursore, pieno della grazia della profezia divina, previde quelli che avrebbero creduto in Cristo, accogliendo la Sua testimonianza, e quelli che non avrebbero creduto in Lui, rifiutando la Sua testimonianza. Fra quelli che non credono né crederanno, ma che si sono preparati da soli la morte, nessuno accoglie la testimonianza del Figlio di Dio. Invece, fra quelli che credono e crederanno, non c’è chi non accolga la Sua testimonianza e, perciò, chi non sia salvo.a Perciò il testo prosegue: Chi riceve la sua testimonianza ha certificato che Dio è veritiero (Gv 3, 33). E che cosa vuol dire “ha certificato”? Questo: ha confermato nel suo cuore, e ha autenticato, quasi con sigillo immutabile di perfetta fede, che Dio è veritiero.b Questo si capisce meglio se si legge il testo greco, che Dio è vero, così che il senso diventa: chi accoglie la testimonianza che il Figlio di Dio dà su se stesso, sul fatto che è Figlio di Dio e che Suo Padre Lo ha inviato per la salvezza del mondo, quello crede fermamente che Dio è vero, Lui che su di sé ha reso testimonianza del fatto che è vero Dio, Figlio del vero Dio. III, 12. Perché colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio (Gv 3, 34). Dice questo soltanto del Figlio di Dio che, in quanto inviato dal Padre, dice le parole di Dio. Ma non sono forse stati mandati da Lui anche i profeti? Non sono forse stati mandati da Lui anche gli apostoli, e hanno detto le parole di Dio? Perché allora del solo Cristo è detto: colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio? Sembra infatti che abbia detto: colui che Dio ha mandato, dice le parole di chi lo manda. E questo a Eriugena accenna qui al tema della predestinazione alla dannazione, da lui sviluppato ampiamente nel De praedestinatione; cfr. anche Agostino, In Iohannis evangelium XIV, 8. b Stessa interpretazione in Alcuino, Commentaria in Iohannis evangelium II, 6 (PL 100, 789A).
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l’hanno fatto i profeti e così pure gli apostoli. Che cosa c’è allora di grande che è stato dato a Cristo e che agli altri non è stato dato? Fai attenzione alle parole colui che Dio, cioè il Padre, ha mandato dice le parole di Dio. Siccome anche colui che è stato inviato è Dio, perciò dice le parole di Dio. Il senso dunque diventa: colui che Dio ha mandato certo è Dio, e perciò le Sue parole sono le parole di Dio. Quindi, le parole del Figlio che rende testimonianza di se stesso sul fatto che è Dio sono parole di Dio. Le parole dei profeti e degli apostoli sono parole di Dio perché hanno detto parole di Dio – lo Spirito Santo infatti ha parlato in loro –, ma quelle parole non appartengono loro come parole loro proprie, bensì come parole del vero Dio. Le parole di Cristo appartengono a Lui stesso, e giustamente vengono dette parole di Dio, in quanto Lui è per natura Dio, e tutto Dio, e tutta sapienza, e in Lui è la pienezza dei doni di Dio.a Perciò il testo prosegue: Dio infatti non dà lo Spirito con misura (Gv 3, 34). Come a dire: Dio dà il Suo Spirito con misura ai singoli uomini, come dice l’Apostolo: All’uno è data attraverso lo Spirito la parola di sapienza, all’altro la parola della scienza (1 Cor 12, 8), e la restante divisione dei doni spirituali. Con queste parole viene mostrato che lo Spirito Santo vien dato con misura ai membri della Chiesa. Questo lo afferma coerentemente l’Apostolo, dicendo: Ma opera un unico e medesimo Spirito, distribuendo a ciascuno il proprio come vuole (1 Cor 12, 11). Ma a Cristo, che è il capo della Chiesa, Dio non dà lo Spirito con misura, ma come ha generato da tutto se stesso tutto il Suo Figlio, così, all’incarnazione del Suo Figlio, gli ha dato tutto il Suo Spirito, non per partecipazione, non dividendolo, ma in modo generale e universale.b Il Padre ama il Figlio, e gli ha dato in mano tutte le cose (Gv 3, 35). Rende ragione del perché agli altri uomini Dio dà lo Spirito con misura, mentre a Suo Figlio dà lo Spirito non con misura, ma in tutto. Perché? Semplicemente perché il Padre ama il Figlio: perciò gli ha dato tutto intero il Suo Spirito. E gli ha dato in mano tutte le cose. Perché tutte le cose? a b
Così anche Agostino, In Iohannis evangelium XIV, 10-11. Cfr. Periph. II, 564C-565A.
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Forse tutte quelle che sono state fatte in Lui? In principio – infatti – Dio fece il cielo e la terra (Gen 1, 1). E il Salmo: Hai fatto tutte le cose nella sapienzaa (Sal 103, 24). Perciò tutte le cose fatte nel Figlio il Padre le ha date in mano a Lui. Con senso più profondo: Gli ha dato in mano tutte le cose, cioè tutte le cose che il Padre ha sostanzialmente, le ha date al Figlio, generandolo da sé uguale a sé in tutte le cose. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 36). Perché? Perché il Figlio stesso è la vita eterna, come Lui stesso dice: Io sono la verità e la vita (Gv 14, 6). Giustamente, quindi, chi crede nel Figlio ha la vita eterna. Come a dire: chi crede nel Figlio ha il Figlio stesso, e perciò ha la vita eterna, perché il Figlio stesso è la vita eterna. Chi invece non crede nel Figlio non vedrà la vita eterna (Gv 3, 36). È lo stesso tipo di espressione: chi invece non crede al Figlio non vedrà il Figlio, che è la vita. Ma l’ira di Dio rimane su di lui (Gv 3, 36). Non dice: l’ira di Dio verrà su di lui, ma rimane su di lui. Qual è quella ira di Dio? Nient’altro che quella maledizione con cui Dio maledisse il peccato del primo uomo che aveva trasgredito il suo comando, dicendo: Maledetta la terra nelle tue opere (Gen 3, 17). L’effetto di quell’ira è la morte, la corruzione e la completa ignoranza della verità: tutte queste cose rimangono su di lui. Di quell’ira dice l’Apostolo: Un tempo voi foste figli dell’ira come gli altri (Ef 2, 3). L’ira di Dio può essere intesa come il peccato originale, dato che fu quel peccato originale ad attirare l’ira di Dio sulla natura umana. È questo peccato originale che rimane in quelli che non vogliono credere in Colui che è morto per loro.
a Eriugena ritiene pertinente addurre questi due versetti a causa del significato spirituale ad essi attribuito da lui stesso e da un’ampia tradizione patristica sia greca sia latina. Il versetto Gen 1, 1, infatti, viene interpretato altrove (Periph. II, 545B-562A; V, 907B) nel senso che il “principio” menzionato nella Genesi non è altro che il Verbo divino, ossia il Figlio, nel quale il Padre crea le cause primordiali di tutte le cose: il cielo, interpretato da Eriugena come l’insieme delle cose intelligibili e delle creature celesti, e la terra, che sta ad indicare le cose sensibili. Cristo è anche la sapienza del Padre: perciò il versetto Sal 103, 24 indica anch’esso la creazione delle cause primordiali nel Verbo.
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IV, 1. Quando dunque Gesù seppe che i farisei avevano sentito che Gesù faceva più discepoli di Giovanni e ne battezzava di più, anche se non era Gesù in persona a battezzare ma i suoi discepoli (Gv 4, 1-2) – Cristo battezzò e non battezzò: battezzò, cioè purificò nello Spirito quelli di cui non Lui, ma i suoi discepoli bagnavano il corpo con l’acquaa – lasciò la Giudea e ritornò in Galilea (Gv 4, 3). Quando il Signore, che conosce tutti i cuori, venne a sapere che i farisei avevano sentito che erano andati da lui più discepoli che da Giovanni e che ne aveva battezzati più di Giovanni, lasciò la Giudea. I farisei, mossi dall’invidia contro Cristo e i suoi discepoli, vedevano che il battesimo di Giovanni ne risultava un po’ svilito (i discepoli di Giovanni erano per lo più farisei, così come lo erano allora anche quelli di Cristo), mentre cresceva il battesimo di Cristo e il numero dei suoi discepoli. Inoltre, sapevano che la Legge e le cerimonie del Vecchio Testamento venivano abolite dall’insegnamento di Cristo (cosa che non potevano apprendere dall’insegnamento di Giovanni). Insomma, turbati da questo genere di invidia, meditavano di perseguitare Cristo, i suoi discepoli e tutti quelli che credevano in Lui. Data la circostanza, Gesù lasciò la Giudea, cioè i farisei increduli che meditavano di perseguitarlo. Lo fece, però, non per paura o per impossibilità: avrebbe potuto benissimo rimanere in Giudea restando illeso dalla persecuzione dei farisei carnali ed empi; ma per lasciare un esempio a quelli che avrebbero poi creduto in Lui, dando loro col suo esempio facoltà di fuggire dai persecutori e di abbandonarli per un periodo, per non venir presi da loro prima del tempo voluto e predefinito da Dio. Perciò sarebbe rimasto più a lungo in Giudea, se avesse saa
Così anche Agostino, In Iohannis evangelium XV, 3.
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puto che quelli che vi aveva lasciato sarebbero divenuti credenti.a Invece, secondo le norme dell’interpretazione speculativa, Gesù lasciò la Giudea, dopo aver dato inizio alla Chiesa in quelli fra il popolo giudaico che avevano creduto in Lui; lasciò i giudei carnali, perfidi, attaccati pedissequamente alla lettera della Legge e ostili all’accesso allo spirito della lettera stessa, che è Cristo.b Lasciò la Giudea, abbandonando quelli che, per colpa della loro superbia, trascurò di salvare. Abbandonò la lettera della Legge, la quale non basta a condurre nessuno alla perfezione: La Legge infatti non ha mai condotto nessuno alla perfezione (Eb 7, 19). E ritornò in Galilea, cioè nell’intelligenza spirituale della lettera, figurata simbolicamente dalla Galilea. Non a caso vien detto ritornò in Galilea: infatti era venuto dalla Galilea in Giudea, come sta scritto più sopra: Dopo questi fatti Gesù e i suoi discepoli giunsero nella terra della Giudea (Gv 3, 22). La Galilea rappresenta la figura della vita celeste e della bontà divina, dalla quale il Signore, nascendo nella carne, giunse in Giudea, cioè nei sacramenti della Legge data all’inizio ai giudei, come dice l’Apostolo: Quando giunse la pienezza dei tempi, Dio mandò il Suo Figlio fatto da una donna, fatto sotto la Legge (Gal 4, 4). Siccome però non voleva rimanere sotto la Legge, né che vi rimanessero quelli che avrebbero creduto in Lui, lasciò la Legge, perché quelli non fossero sotto la Legge, ma sotto lo spirito. E questo è quanto dice l’Apostolo: Per riscattare quelli che erano sotto la Legge (Gal 4, 5), cioè per richiamarli dalla schiavitù della legge carnale alla libertà dello spirito. E questo significa quel ritornò in Galilea. Occorreva però passare per la Samaria (Gv 4, 4). La Samaria è situata fra la Giudea e la Galilea; cioè fra la legge della Per questa spiegazione dell’allontanamento di Cristo dalla Giudea cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 2. b Nel quadro già visto a più riprese della distinzione fra le tre leggi (spec. Commentarius I, 30), Cristo viene definito da Eriugena come “spirito della Legge”, in quanto abolisce la Legge dell’Antico Testamento apportando una rivelazione spirituale più profonda. In Periph. V, 1005B, Eriugena si esprime in modo analogo: Spiritus enim legis est Christus (“Lo spirito della Legge è Cristo”); è coerente con questa idea anche l’interpretazione avanzata nella Homilia (cap. 3) secondo cui il sepolcro di Cristo è la lettera del testo sacro, che cela i misteri relativi alla sua divinità e umanità. a
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COMMENTO, IV, 1-2
lettera, rappresentata dalla Giudea, e le eterne leggi divine intorno a Dio, raffigurate dalla Galilea, lì in mezzo è situata la legge naturale. Quindi, siccome Cristo per prima cosa ha posto le fondamenta della Sua Chiesa sulla base della legge della lettera, occorreva che passasse per i gentili che vivevano sotto la legge di natura, per chiamare così anche fra loro le pietre scelte (1 Pt 2, 4-5) per la loro fede a far parte della costruzione che aveva incominciato. La Samaria infatti è abitata da genti di origine diversa, cioè da quelli che hanno usato o abusato sia della lettera della Legge, imposta al solo Israele carnale, sia della legge naturale. Vi passò perché il costruttore potesse ritornare nella Galilea dell’eterna beatitudine con una Chiesa universale, radunata e edificata sia con giudei che con gentili. Che la Galilea significhi la vita eterna, si può immaginare non solo dalla sua traduzione, ma anche dalle azioni divine lì compiute. “Galilea” significa appunto “trasmigrazione fatta”, o “giro”.a È infatti stata fatta una trasmigrazione della natura umana nel suo Salvatore, dapprima dalla legge carnale alle leggi naturali, poi di nuovo da queste ultime, oltre la natura, alle leggi eterne. Inoltre in Galilea, secondo il racconto, è avvenuta anche la trasfigurazione di Cristo (Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36), dalla quale è significata la trasformazione della natura umana nella gloria originaria che aveva abbandonato peccando. È in Galilea che ascende sul monte su cui consegnò ai suoi discepoli l’insegnamento delle beatitudini in otto parti (Mt 5, 1-12), attraverso il quale i credenti in Cristo trasmigreranno alla beatitudine della futura, cui allude il numero otto. IV, 2. Gesù giunse poi a una città della Samaria detta Sicar, vicino al podere che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe (Gv 4, 5). La Samaria, come abbiamo già detto, è l’immagine del popolo dei gentili che vive sotto la legge naturale. La città della Samaria detta Sicar rappresenta l’insieme dei fedeli di quel popolo che accoglie la fede in Cristo. Sicar infatti Per questa etimologia di “Galilea” cfr. Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 58, 2; p. 64, 25; Pseudo-Dionigi, De caelesti hierarchia XV, 9 (ed. Heil – Ritter, p. 58 r. 16-22). a
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COMMENTO, IV, 2
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significa “chiusura” o “ramo”. Il popolo dei gentili era chiuso: La Scrittura ha chiuso tutte le cose sotto il peccato (Gal 3, 22). È quello il ramo di oleastro tagliato e innestato sull’olivo i cui rami sono stati spezzati (Rm 11, 17-24). Va notato che “Sicar” è una corruzione di “Sichem”. Sichem vuol dire “numeri”:a rimane infatti ancora imprecisato il numero degli eletti fra i gentili. E siccome la stessa ragione naturale non sorge se non dalla causa di tutti i beni, che è Dio, è un’espressione azzeccata il pozzo di Giacobbe (Gv 4, 6), ossia la ragione, che procede dalla profondità infinita del Padre. Non è inadeguato neanche pensare che il pozzo di Giacobbe significhi quest’infima parte dell’universo, ossia tutte le cose visibili contenute nei confini di questo mondo sensibile.b Dunque, riassumendo: il pozzo di Giacobbe è simbolo o della natura sensibile, o della ragione intelligibile. Gesù dunque, affaticato dal viaggio, si sedette così sul pozzo (Gv 4, 6). La fatica di Gesù è la sua incarnazione. Ha assunto la nostra natura, sensibile alle fatiche e ai casi di questo mondo per colpa del peccato originale. Il suo viaggio è la discesa della Sua divinità per assumere la somiglianza con la nostra natura. Non ha fatto alcuna fatica a crearci attraverso la sua divinità, mentre ha fatto fatica a ricrearci attraverso la sua umanità. Pur rimanendo eternamente e immutabilmente in se stesso e in Suo Padre, ha mosso se stesso con una sorta di viaggio della missione temporale attraverso la carne. Si sedette sul pozzo: l’atto del sedersi di Cristo rappresenta il suo prender possesso della nostra natura da parte della Sua immutabile divinità.c Ma la noa Eriugena desume il significato di “Sicar” verosimilmente da Gerolamo: cfr. Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 66, 20-22 (ripreso da Beda, In Genesim III, 12): Sichar conclusio sive ramus. Conrupte autem pro Sichem (quae transfertur in umeros) ut Sichar legeretur usus optinuit. L’interpretazione di “Sichem” come “numeri” viene da un errore presente nel testo manoscritto della fonte eriugeniana o commesso da Eriugena stesso (leggendo in numeros invece del corretto in umeros). b Questa era l’interpretazione del pozzo data da Agostino, De diversis quaestionibus LXXXIII (qu. 64, 2), citato anche da Alcuino, Commentaria in Iohannis evangelium II, 7 (PL 100, 792C). c L’originale latino gioca sul legame etimologico fra sessio (“il sedersi”) e possessio (“possesso”).
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COMMENTO, IV, 2
stra natura è duplice: è composta di un corpo visibile e di un’anima invisibile. La duplice interpretazione di questo pozzo indica queste due cose. Prima si è detto, infatti, che il pozzo raffigurava sia l’anima razionale che il creato visibile. Siccome però l’umanità di Cristo supera non solo ogni creatura visibile, ma anche ogni creatura intellettuale – è infatti detto uomo e più che uomo – è appropriato che secondo il racconto si sieda sul pozzo, per quanto affaticato dal cammino. La stanchezza della sua stessa umanità è più forte di ogni creatura, perché è stata assunta da Dio.a Era verso l’ora sesta (Gv 4, 6). L’ora sesta prefigura la sesta età del mondo. La prima età va dalla cacciata del primo uomo dal paradiso alla costruzione dell’altare fatto da Noè uscito dall’arca dopo il diluvio (Gen 8, 20). La seconda, da lì fino all’altare su cui Dio ordinò ad Abramo di immolare Isacco (Gen 22, 1-14). La terza, da lì fino all’altare di re David nell’aia di Ornan il gebuseo (1 Cr 21, 18). La quarta, fino all’altare di Zorobabele nel tempio ricostruito (Es 3, 2-3). La quinta, fino al battesimo di Giovanni o, come molti non irragionevolmente credono, fino al vero altare, cioè fino alla croce di Cristo, che tutti gli altari precedenti rappresentavano tipologicamente. Da lì alla fine del mondo si estende la sesta età, quella in corso ora.b La settima età si compie nell’altra vita nelle anime sciolte dai corpi: questa età comincia dal martirio di Abele (Gen 4, 8), e si concluderà alla fine del mondo con la resurrezione di tutti. Dopo questa inizierà a spuntare l’ottava, che non sarà circoscritta da nessuna fine.c Nella sesta ora si può intenLa fatica di Cristo, ossia la sua incarnazione, supera comunque le creature corporee, anche quelle dotate di facoltà intellettuali, a causa della compresenza della natura divina nell’uomo terreno: perciò, dice Eriugena, il vangelo narra che Gesù si sedette sul pozzo, a significare la sua condizione di superiorità malgrado la condizione umana. b Per l’interpretazione del viaggio di Gesù nel senso della sua incarnazione, e per le sei età del mondo fin qui enumerate cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 7-9. Per la tradizione patristica relativa alla dottrina delle età del mondo e per le loro differenti enumerazioni e suddivisioni, si v. A. Luneau, L’histoire du salut chez les Pères de l’Église. La doctrine des âges du monde, Paris, 1964. c La settima e l’ottava età del mondo sono menzionate anche da Agostino (Jeauneau, nel suo commento ad loc., rinvia alla monografia di A. Luneau, L’histoire du salut chez les Pères de l’Église, cit., p. 321-327) e da Beda, Homiliae I, 11 (PL 94, 56C-D). a
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COMMENTO, IV, 2-3
dere anche, raffigurato tipologicamente, il perfetto splendore della grazia celeste, che risplendette per il mondo nel modo più pieno nel momento in cui Cristo si fece uomo. Il numero sei è infatti un numero perfetto.a
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IV, 3. Una donna della Samaria venne ad attingere l’acqua (Gv 4, 7). La Samaria, come abbiamo già detto, è figura dei gentili. La donna uscita dalla Samaria è la Chiesa, composta di gentili: essa, accolta la fede, desidera attingere al pozzo della verità stessa, cioè Cristo. Inoltre, la donna uscita dalla città sta a indicare la natura umana che desidera naturalmente il pozzo della ragione per poter soddisfare la sua sete (cioè il suo innato desiderio della vera conoscenza). Ma non poteva farlo prima dell’incarnazione del creatore, che è il pozzo della vita. Beveva invece faticosamente al pozzo naturale della ragioneb in lei innata, indagando in modo fisico la natura delle cose, ed anche il creatore e causa della natura stessa.c a Eriugena discute le ragioni della perfezione del numero sei in Periph. III, 655C-656C: il sei è infatti uguale alla somma dei numeri per cui è divisibile (1, 2, 3), che sono anche i primi tre numeri della successione numerica e, aggiunti uno dopo l’altro al sei (più una nuova aggiunta di 1), raggiungono il 10. Inoltre, il fatto che i giorni della creazione del mondo secondo la Genesi siano sei rinvia, proprio in virtù della perfezione di questo numero, alla perfezione del creato. b Come nota Jeauneau, il termine “ragione” (ratio) qui è tecnico e va inquadrato in una tripartizione delle facoltà dell’anima desunta da Massimo il Confessore: la prima è l’animus, attività semplice e addirittura superiore alla natura dell’anima, che si esercita intorno alla divinità inconoscibile; la seconda è la ratio, che come qui perviene a definire la divinità in quanto causa delle cose esistenti, ma può farlo solo per mezzo delle creature; la terza è il sensus, movimento composto non di per sé ma solo in quanto diviso nei cinque sensi, che a partire dagli enti esterni attraverso la percezione sensibile ne coglie i logoi. Cfr. in proposito Periph. II, 572C-573A; 576C-577C; Expositiones X, 3. Cfr. per questo tema anche più oltre, Commentarius IV, 5. c A partire da questo capitolo del Commentarius fino alla fine del libro IV, Eriugena porta avanti una duplice esegesi dell’episodio della samaritana. Per l’interpretazione secondo cui la samaritana rappresenta la Chiesa cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 10; invece l’interpretazione secondo cui essa rappresenta la natura o l’anima individuale era stata avanzata da Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium XLI. La progressiva comprensione della reale natura di Gesù da parte della samaritana, descritta dall’episodio evangelico, passa quindi a significare parallelamente sia l’orientamento dell’anima umana alla verità in Cristo, che
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COMMENTO, IV, 3
Gesù le dice: “Dammi da bere”. I suoi discepoli infatti erano andati in città ad acquistare del cibo (Gv 4, 7-8). Gesù, seduto sul pozzo, chiede alla Chiesa appena nata, da Lui raccolta fra i gentili, la bevanda della fede, con la quale si crede in Lui. Chiede alla natura la bevanda della ragione, con la quale si indaga il suo creatore e redentore. I discepoli allontanatisi per acquistare cibo in città sono gli apostoli mandati nel mondo ad acquistare cibo spirituale (cioè fede, azione e conoscenza), con cui si saziano i maestri della Chiesa. Essi, infatti, per prima cosa a quelli a cui predicano chiedono la fede, poi azioni coerenti con quella fede, infine la conoscenza della verità, tramite la quale viene predicata la fede e al tempo stesso vengono portate a compimento sia l’azione che la scienza.a Gli dice dunque la donna samaritana: “Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? I giudei infatti non hanno relazioni coi samaritani” (Gv 4, 9). Quella donna samaritana, che rappresentava l’immagine della Chiesa o della natura, si stupisce che il Signore, che lei ancora non conosceva e di cui sapeva soltanto che era giudeo, le abbia chiesto da bere, malgrado lei fosse una donna samaritana: I giudei infatti – come dice lei – non hanno relazioni con i samaritani. Qui, per quanto riguarda la lettera del testo, ci si chiede che cosa intenda la donna dicendo: I giudei infatti non hanno relazioni coi samaritani, mentre i samaritani hanno vissuto e coabitato sotto la legge di Mosè e sotto tutti i suoi comandi e simboli; perciò, se vivevano sotto un’unica legge, vien da pensare che abbiano avuto contatti anche riguardo al nutrimento. In che senso allora non avevano relazioni? A questo bisogna rispondere: i giudei e i samaritani, che vivevano sotto un’unica legge, adoravano un unico Dio, il Padre, ma erano in disaccordo sul luogo della preghiera. I giudei, la conduce alla beatitudine, sia l’approfondimento della fede da parte della Chiesa fino a pervenire alla conoscenza. a Eriugena individua quattro tappe di ascesa spirituale: fede, azione, scienza, contemplazione (detta anche speculazione o teologia): cfr. Expositiones I, 261-664; II, 919-1297; IX, 412-483; Periph. II, 574A; V, 1017D. Alle tre tappe qui menzionate aveva già fatto riferimento più sopra (Commentarius I, 24 e I, 30).
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COMMENTO, IV, 3-4
infatti, ritenevano che non si dovesse pregare Dio in nessun altro luogo che il tempio, il quale stava a Gerusalemme. I samaritani, invece, ritenevano che Dio dovesse essere adorato sul monte della Samaria su cui abitò Giacobbe. In questo senso dunque non avevano relazioni, essendo divisi sul luogo della preghiera. Se infatti la legge giudaica avesse proibito ai giudei di avere relazioni coi samaritani, forse Cristo non avrebbe chiesto alla donna la bevanda figurata, e non avrebbe permesso ai suoi discepoli di acquistare cibo da loro, dato che senza dubbio bisogna credere che abbia chiesto non una bevanda d’acqua corporea, ma una bevanda di fede spirituale. Gesù rispose e le disse: “Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere’, saresti stata tu a chiedere a lui, e lui ti avrebbe dato acqua ” (Gv 4, 10). Come a dire: Se tu, donna, mi conoscessi, e credessi perfettamente in me, e se conoscessi il dono di Dio, cioè lo Spirito Santo,a saresti tu a chiedere a me da bere, e io per merito della tua fede ti darei l’acqua viva, cioè lo Spirito Santo.
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IV, 4. La donna gli dice: “Signore, non hai un secchio, e il pozzo è profondo. Come fai ad avere acqua viva?” (Gv 4, 11). La donna, ancora carnale e priva di fede, non capiva le parole di colui che le parlava. Aveva creduto che il Signore dicesse quelle parole riguardo all’acqua sensibile, mentre invece Lui si riferiva a quella intelligibile. Il pozzo profondo, come abbiamo già detto, significa o la profondità della natura umana, o la bassezza del creato sensibile e corporeo, la quale è detta profonda perché nulla, fra la totalità delle cose create, è più in basso della natura corporea. Il secchio, invece, è la dedizione alla sapienza: grazie a questa dedizione l’acqua della ragione viene estratta dai segreti seni della natura, allorché l’indagine naturale si occupa della creazione dell’uomo o del creato sensibile.b Sant’Agostino sostiene che il pozzo profondo significa il godimento delle cose corporee, a Così il vangelo stesso induce a interpretare (Gv 7, 38-39), come infatti interpreta anche Agostino, In Iohannis evangelium XV, 12. b Eriugena prosegue qui l’esegesi, avanzata all’inizio del cap. IV, 3, secondo cui la samaritana rappresenta la natura umana che cerca di conoscere il suo creatore
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COMMENTO, IV, 4
dalle quali e nelle quali, a mo’ di acqua che si effonde, sorge il piacere stesso; il secchio invece è il desiderio dell’anima carnale, che desidera sempre saziarsi del godimento delle cose temporali e corporee.a Il testo prosegue: Forse tu sei più grande del nostro padre Giacobbe, che ci ha dato il pozzo, e vi bevevano lui, i suoi figli e le sue greggi? (Gv 4, 12) La donna samaritana era straniera; eppure chiama Giacobbe suo padre. E con buona ragione, perché era vissuta sotto la legge di Mosè, e possedeva il podere che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe. Le sue parole Forse tu sei più grande del nostro padre Giacobbe sembrano voler dire questo: forse tu hai più potere del nostro padre Giacobbe, che scavò questo pozzo e aveva un secchio con cui forniva acqua a sé, ai suoi figli e alle sue greggi? Tu invece non hai né un secchio, né alcun altro strumento per estrarre l’acqua, eppure prometti di darmi da bere. Così dice, senza ancora capire le parole di colui che le parlava. Gesù rispose e le disse: “Chiunque beve di quest’acqua che tu, donna, vuoi attingere, e credi che io voglia chiederti, avrà di nuovo sete, ossia essa estingue la sete temporale in modo temporale. Chiunque invece berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno” (Gv 4, 13). Come a dire: a chiunque crede in me, io darò il dono dello Spirito Santo che procede dal Padre attraverso di me, e non avrà più sete in eterno. Dirà infatti col salmista: Sarò saziato quando apparirà la tua gloria (Sal 16, 15). Ma l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte di acqua che zampilla nella vita eterna (Gv 4, 14). L’acqua spirituale, cioè il dono dello Spirito Santo, zampilla nella vita eterna. L’acqua corporea scorre verso il basso, l’acqua spirituale zampilla verso l’alto, ed innalza con sé nella gloria e nella beatitudine eterne quelli che la bevono. Gli dice la donna: “Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia sete e non venga qui ad attingecon le sole forze dell’indagine naturale, condotta per mezzo della corrispondente facoltà della ragione. a Cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 16.
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COMMENTO, IV, 4-5
re” (Gv 4, 15). La natura inizia a conoscere il suo creatore; nella creatura c’è infatti il desiderio della beatitudine e della vera conoscenza, che veniva prefigurato attraverso la donna samaritana. La Chiesa inizia a conoscere in modo più alto la fede che prima aveva soltanto incominciato ad attingere, e lo fa nel momento in cui comincia ad entrare nelle ragioni teologiche.
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IV, 5. Gesù le dice: “Va’, chiama tuo marito e vieni qui” (Gv 4, 16). Come a dire: tu mi chiedi l’acqua che zampilla nella vita eterna, cioè lo Spirito Santo, per dono del quale io do la vita eterna. Ma non puoi bere quest’acqua, se non chiami tuo marito. Va’ dunque, se vuoi bere, chiama tuo marito, e vieni qui con lui, cioè credi in me, affinché tu e tuo marito beviate a fondo lo Spirito Santo. In questo punto si intende il passaggio della contemplazione dal genere alla specie. Prima, infatti, si è detto che la donna samaritana è simbolo sia della Chiesa generale raccolta fra i gentili, sia della natura umana generale. Ora invece la medesima donna indica la figura sia di ciascun individuo stabilito nell’unità della Chiesa, sia di ciascuna anima partecipe della natura umana.a La donna quindi è l’anima razionale, il cui marito è l’animo, che viene chiamato in molti modi: a volte “intelletto”, a volte “mente”, a volte “animo”, spesso anche “spirito”. Di questo marito l’Apostolo dice: Il capo della donna è il marito, il capo del marito è Cria Il termine “passaggio” (transitus), come mostrato da Jeauneau nel suo commento ad loc. (ed. 1972), può designare sia un ordine reale, sia un ordine logico: qui si tratta del secondo caso. In particolare, la nozione di transitus in contesto esegetico viene discussa da Eriugena in Periph. V, 1008B-1010B, dove si tratta del transitus parabolarum a proposito della parabola del figliol prodigo. Lì il transitus è uno strumento ermeneutico che permette di assegnare alle parti di una stessa parabola referenti allegorici diversi: una stessa parabola può cioè trattare allegoricamente prima un tema, poi un altro, anche se all’apparenza la narrazione rimane continua. All’esegeta spetta quindi di assegnare valenze diverse a uno stesso elemento narrativo, a seconda del momento e del contesto in cui lo trova all’interno di una stessa parabola. Come qui nel Commentarius, anche nel brano menzionato del Periphyseon il transitus si configura come una specificazione a partire da un genere (la parabola del figliol prodigo, là dove parla dell’uccisione del vitello grasso, si riferisce al ritorno generale della natura umana in Dio, mentre l’invidia del fratello maggiore nei confronti del fratello prodigo e pentito indica l’invidia degli ebrei per la conversione dei gentili: Periph. V, 1008D-1009A).
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COMMENTO, IV, 5
sto, il capo di Cristo è Dio (1 Cor 11, 3; Ef 5, 23). È come se dicesse esplicitamente: il capo dell’anima razionale è suo marito, il suo intelletto; mentre il capo dell’intelletto è Cristo. Infatti, l’ordine naturale della creatura umana è questo, per cui l’anima è posta sotto il governo della mente, la mente sotto quello di Cristo; e così l’uomo tutto intero è congiunto per mezzo di Cristo a Dio e al Padre. Anche i due sessi, infatti, maschile e femminile, che si vedono soltanto all’esterno nel corpo, indicano le relazioni interiori fra l’animo e l’anima. L’anima razionale, inoltre, si divide in tre: animo, ragione e senso interiore. L’animo gira sempre intorno a Dio, e per questo è detto giustamente marito e reggitore delle altre parti dell’anima, in quanto fra lui e il suo creatore non s’interpone nessun’altra creatura.a La ragione invece si occupa delle cause e della conoscenza delle cose create; tutto ciò che l’animo apprende grazie alla contemplazione superna, lo consegna alla ragione, e la ragione a sua volta lo affida alla memoria. La terza parte dell’anima è il senso interiore, che è subordinato alla ragione come alla parte a lui superiore, e perciò tramite la ragione è subordinato alla mente.b Al di sotto di quel senso interiore, poi, seguendo l’ordine naturale, è posto il senso esteriore, tramite il quale l’anima tutta intera anima e regge i cinque sensi del corpo e vivifica il corpo intero.c L’anima razionale, quindi, non è in grado di ricevere nulla dei doni superni se non attraverso suo marito, cioè attraverso l’animo che tiene il primo posto in quella intera natura: perciò giustamente viene ordinato alla donna, cioè all’anima, di chiamare suo marito, il suo intelletto, col quale e tramite il quale può bere i doni spirituali, e senza il quale non può assolutamente essere parUna formulazione molto simile sul fatto che nulla si frappone tra l’animo e Dio si trova in Agostino, De vera religione LV. b Per i rapporti tra queste facoltà dell’anima cfr. Periph. II, 541A-B e IV, 815BD. Questa esegesi ha una lunga tradizione: iniziata da Filone di Alessandria (De opificio mundi 165), venne ripresa da Origene (Hom. in Gen. I, 15 e IV, 4; Hom. in Exodum II, 1 e XIII, 5) e, nel mondo latino, da Agostino (In Iohannis evangelium XV, 19, in riferimento al passo evangelico qui discusso da Eriugena) e da Ambrogio (De paradiso II, 11), a cui si rifà esplicitamente Eriugena quando menziona questa interpretazione nel Periphyseon. Per la tripartizione dell’anima razionale secondo Eriugena cfr. cap. IV, 3, p. 160 n. b, a proposito della “ragione” lì menzionata. c Per il senso esteriore cfr. Periph. II, 569C. a
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COMMENTO, IV, 5-6
tecipe della grazia superna. Perciò dice: chiama tuo marito e vieni qui, non pensare affatto di venire a me senza tuo marito. Se manca l’intelletto, nessuno sa ascendere all’altezza della teologia e partecipare dei doni spirituali.a IV, 6. La donna rispose e gli disse: “Non ho marito”. Gesù le dice: “Hai detto bene dicendo: ‘non ho marito’” (Gv 4, 17). Hai detto bene, dice; lodo quel che hai detto, perché hai parlato in modo veritiero. So infatti che tu non hai marito, e lo so non perché l’hai detto tu, ma lo so da me, al quale nulla è sconosciuto. Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero (Gv 4, 18). Riguardo ai cinque mariti della donna mistica, cioè dell’anima che vive carnalmente, i pareri degli autori sono vari. Alcuni lo intendono riferito ai cinque libri della legge mosaica,b ma il loro parere non è condivisibile, perché la legge mosaica è stata data soltanto ai giudei, mentre questa donna rappresenta in generale tutta l’anima umana. Agostino intende che i cinque mariti siano i cinque sensi del corpo, sotto i quali senza dubbio vive ogni anima, prima di pervenire all’età matura in cui può servirsi della ragione. Nei bambini, infatti, sono sviluppate le facoltà della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto: ma oltre a queste cose l’anima, ancora carnale e infantile, non può partecipare di nulla. Tuttavia, nel momento in cui giunge all’età adulta, è come se si congiungesse a un sesto marito, cioè alla ragione. Spesso, però, l’anima carnale e stolta, trascurando il movimento razionale che sarebbe il suo naturale marito, si sottomette all’errore, dal quale e tramite il quale è ingannata, e, abbandonato l’ordine naturale, desidera ciò che è contro la sua natura. Per questo si dice dell’errore: e quello che hai ora non è tuo marito; hai abbandonato tuo marito e non hai voluto obbedirgli, hai seguito un adultero, e in questo modo ti sei resa adultera. Ma se vuoi bere dell’acqua che Per questa allegoria del marito e della donna cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 18-19. b Così Ambrogio, Expositio in Lucam VII, 2214-2216. a
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ti darò, va’, chiama tuo marito, al quale devi sottometterti e congiungerti con un’unione spirituale. Abbandona l’adultero, per non essere adultera; abbandona l’errore da cui sei sedotta; hai lasciato tuo marito e hai violato la bellezza naturale della tua castità. Così dice Agostino.a Massimo afferma che i cinque mariti significano le cinque leggi date all’anima umana. La prima fu data all’uomo nel paradiso prima del peccato, a proposito dell’albero proibito e illecito. La seconda fu data dopo la trasgressione e la sua cacciata dal paradiso, riguardo alla moltiplicazione della stirpe umana. La terza fu data a Noè prima del diluvio, riguardo alla costruzione dell’arca. La quarta fu data dopo il diluvio, sulle divisioni delle genti. La quinta ad Abramo, riguardo alla circoncisione e al sacrificio di suo figlio. Erano queste le cinque leggi a cui, come a cinque mariti, era sottomessa l’anima umana, dall’inizio del mondo fino alla legge di Mosè.b Invece, la legge della lettera, data attraverso Mosè, fu data non per liberare o per giustificare l’anima, ma per rimproverarla e schiacciarla sotto il peso delle rappresentazioni oscure, che non le avevano apportato nessuna salvezza, a meno che non si fosse rifugiata presso la grazia del Nuovo Testamento: “La Legge infatti è stata data perché si ricercasse la grazia; la grazia è stata data perché si adempisse la Legge”.c La legge della lettera, allora, non aveva apportato nulla alla salvezza della natura umana – La Legge infatti non ha mai condotto nessuno alla perfezione (Eb 7, 19) – ma era servita ad accumulare un peccato dopo l’altro: come dice l’Apostolo: La forza del peccato è la Legge (1 Cor 15, 56); e: La Legge è subentrata perché il peccato abbondasse (Rm 5, 20). Per questi motivi, è bello ciò che il Signore dice alla samaritana: e quello che hai ora non è tuo marito. Lascia la lettera, non è tuo marito; va’ da tuo marito, lo spirito della lettera; chiama la legge della grazia, che è tuo marito, dal quale concepirai la prole spirituale delle virtù, col Cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 21-22; De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 64, 6-7. b Il riferimento è a Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium XLI, 21-44. Per le tre leggi cfr. più sopra, Commentarius I, 30. c Citazione da Agostino, De spiritu et littera XIX, 34 (già citato più sopra, in Commentarius I, 24). a
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quale ti darò i doni dello Spirito Santo, grazie ai quali riuscirai a credere in me. Ripudiato allora il sesto marito, cioè la legge carnale, all’anima razionale viene ordinato di chiamare suo marito, cioè il Nuovo Testamento, la legge della grazia, sotto la quale soltanto poteva essere salvata. IV, 7. La donna gli dice: “Signore, vedo che tu sei un profeta” (Gv 4, 19). Appena la donna capì, da quel che il Signore le sul numero dei suoi mariti e sul suo adulterio con un marito non suo, che Lui era un profeta, subito gli pose una domanda. Come a dirgli: dato che vedo e capisco senza dubbio che tu sei un profeta, risolvimi la questione su cui litigano i giudei e i samaritani, cioè sul luogo in cui adorare Dio, a causa della quale i giudei non hanno relazioni con noi, cioè sono in disaccordo con noi. I nostri padri adoravano su questo monte, cioè Giacobbe, i suoi figli e tutti i samaritani vissuti sotto la legge mosaica; e voi, giudei, dite che è a Gerusalemme il luogo dove bisogna adorare (Gv 4, 20). È su questo che dissentiamo, è per questo che non abbiamo relazioni concordi: noi adoriamo Dio su questo monte della Samaria dove lo adorò Giacobbe, voi nel tempio di Gerusalemme. Allora, siccome vedo che tu sei un profeta, non ho dubbi che tu sappia tutto; per cui risolvimi questa disputa, quella fra voi e noi, sul luogo dove dobbiamo adorare Dio, qui o a Gerusalemme. Gesù le dice: “Donna, credimi, viene un tempo in cui non adorerete il Padre né su questo monte, né a Gerusalemme. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo” (Gv 4, 21-22). Con queste parole schiaccia la superbia della donna samaritana e di tutti i samaritani. I samaritani ritenevano infatti che il loro culto non fosse inferiore a quello dei giudei. Parla quindi per conto dei giudei: non di quelli empi che non l’hanno accolto, ma dei patriarchi, dei profeti e di quelli che poco prima in Giudea avevano creduto in Lui.a Per questo dice: voi adorate il Padre che non conoscete, noi invece adoriamo quel medesimo Padre, che conosciamo. Nessuno, Così anche Agostino, In Iohannis evangelium XV, 26 (con formulazione molto simile). a
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infatti, può adorare il Padre, se prima non ha adorato il Figlio. Chi crede nel Figlio, conosce il Figlio e, perciò, conosce anche il Padre. Dice infatti: Filippo, chi vede me vede anche mio Padrea (Gv 14, 9). Quindi tu, donna, con tutta la tua non conosci il Padre che adori, perché ancora non credi nel Suo Figlio, attraverso il quale si perviene alla conoscenza del Padre. Questo il significato di quanto segue: perché la salvezza viene dai giudei (Gv 4, 22). Come se avesse detto esplicitamente: noi conosciamo ciò che adoriamo, includendo se stesso fra i giudei credenti, perché la salvezza viene dai giudei, perché Cristo, che è la salvezza del mondo intero, viene dai giudei, non solo quanto all’origine nella carne, ma anche quanto alla propagazione della fede. È da loro, infatti, che è sorta la fede e la Chiesa delle origini. Ma viene un tempo ed è adesso. Chiama “tempo” la sua presenza nella carne. Dice: tu, donna, mi consulti sul luogo in cui adorare. Per questo ti dico: Viene un tempo, sono presente, ed adesso, sono nella carne, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre nello spirito e nella verità (Gv 4, 23). Prima che io venissi, nessuno poteva adorare il Padre nello Spirito e nella verità, tranne i patriarchi e i profeti, ai quali la mia presenza nella carne fu rivelata tramite lo Spirito prima che io venissi nel mondo. Quindi, donna, i veri adoratori adoreranno me e mio Padre non su questo monte, né a Gerusalemme, ma all’interno, nell’intimo tempio del loro cuore e della loro intelligenza, che sarà prima purificata attraverso la fede, illuminata attraverso la scienza, portata a compimento attraverso la deificazione sul monte della teologia.b Quelli che avranno ricevuto l’illuminazione La stessa idea della mediazione necessaria del Figlio per giungere alla conoscenza del Padre (e dello Spirito) si legge in Eriugena anche in Expositiones I, 234244. b Le tre operazioni di purificazione, illuminazione e perfezione derivano dallo Pseudo-Dionigi (De caelesti hierarchia III, 2) e sono approfondite da Eriugena soprattutto nelle sue Expositiones (VIII, 229-236; XIII, 535-544). Eriugena associa i tre elementi purificazione-illuminazione-perfezione alla serie ascendente fede, azione (entrambe collegate alla purificazione: cfr. più sotto, Commentarius VI, 2; Periph. II, 574A), scienza (corrispondente all’illuminazione) e contemplazione (o “deificazione” o “teologia”, corrispondente alla perfezione e conseguente ad essa: Periph. I, 449D). Sulla successione fede-azione-scienza-contemplazione cfr. anche a
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dello Spirito Santo, adoreranno nello spirito: Infatti il Padre cerca tali adoratori (Gv 4, 23), che Lo adorano nel Suo Spirito e nella verità della sua conoscenza. Gesù concluse poi quel che aveva detto con un argomento razionale, dicendo: Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità (Gv 4, 24). Come a dire: se Dio fosse corporeo o fosse un corpo, forse in quel caso cercherebbe luoghi corporei per la Sua adorazione. Ma siccome è Spirito, cerca chi Lo adori nel suo spirito e nell’intelletto per mezzo di una conoscenza vera.a IV, 8. La donna gli dice: “So che viene il Messia, detto il Cristo” (Gv 4, 25). Siccome il Signore prima aveva detto: “Viene un tempo ed è adesso”, la donna credeva che lui parlasse del Messia, cioè del Cristo che ancora doveva venire, e non si accorgeva che era già presente, ma pensava si riferisse a qualcun altro. Infatti aveva sentito dai profeti che sarebbe venuto il Cristo. Per questo dice: So che viene il Messia. Ha detto “viene”, non “verrà”, per accordare le sue parole con quelle del profeta con cui parlava; oppure, illuminata in qualche misura dallo Spirito, capì che Cristo che veniva era già presente; oppure, perché si usa dire “viene” riferendosi a chi è in viaggio, anche se non è ancora arrivato. “Messia” è un termine ebraico, che in greco è tradotto “Cristo”, cioè “unto”.b Quando verrà lui, ci annuncerà tutto (Gv 4, 25). Non ha ancora capito che Cristo era perfettamente presente, ma ha creduto, informata dai profeti, alla venuta di Cristo e al suo insegnamento futuro. Ci annuncerà tutto, cioè tutto ciò che riguarda il culto suo e di suo Padre. Gesù le dice: “Sono io, io che ti parlo” (Gv 4, 26). Dapprima il Signore ha aperto l’intelletto della donna perché credesse, ad es. Expositiones I, 391-396; II, 940-954. L’immagine del monte della teologia, legata quindi a quest’ultimo stadio, richiama le parole della samaritana riguardo al monte di Giacobbe, ma si trova anche altrove in Eriugena (ad esempio in riferimento all’ascesa di Mosè sul monte Sinai, o alla trasfigurazione di Cristo): cfr. Periph. III, 661A; 689C-690A; Homilia cap. 14; e più sotto, Commentarius VI, 6. a Per quest’ultima osservazione cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XV, 24. b Stessa spiegazione del termine “Messia” in Agostino, In Iohannis evangelium XV, 27.
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poi le si è manifestato. Lei, infatti, credeva ai profeti che avevano predetto la venuta di Cristo, e perciò aveva meritato di parlare con colui che credeva prossimo, malgrado non avesse ancora capito che era già presente. Per merito della sua fede giunge alla conoscenza di Cristo che parla di sé dicendo: sono appunto io il Cristo; colui che credevi ancora di là da venire, sappi che è già presente. E subito dopo arrivarono da lui i suoi discepoli, e si stupivano perché parlava con una donna (Gv 4, 27). Perché si stupivano, malgrado Cristo parlasse spessissimo con le donne? Non si stupivano quindi del fatto che il loro Signore parlasse con una donna, ma soltanto che parlasse con una samaritana, cioè con una donna straniera, perché ignoravano il mistero della Chiesa che sarebbe sorta dai gentili. Nessuno tuttavia diceva: “Che cosa cerchi, perché parli con lei?” (Gv 4, 27) I discepoli non hanno osato far domande al loro Signore, temendo di venirne rimproverati se gli avessero fatto domande imprudenti, in quanto non erano ancora in grado di conoscere il mistero della Chiesa futura. La donna lasciò dunque la sua brocca (Gv 4, 28). Dopo che la Chiesa, o la natura umana, ha conosciuto la presenza della sostanza divina nella carne, ha lasciato la sua brocca, ha lasciato le sue consuetudini carnali, ha lasciato l’acqua e la dedizione alla scienza carnale…a
Analoga interpretazione della brocca in Agostino, De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 64, 8. a
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VI, 1. non potesse vedere la folla che veniva verso di lui senza levare gli occhi, lui che aveva visto tutto prima che il mondo fosse fatto, e non aveva mai bisogno dello strumento degli occhi del corpo per vedere. Alza dunque i suoi occhi, insegnandoci ad alzare gli occhi del nostro cuore, e che tutto il mondo accorre da ogni parte alla fede in Cristo. Dall’esempio di Cristo veniamo esortati ad alzare anche gli occhi del nostro cuore: così che, se per caso ci venisse permesso, grazie al suo insegnamento e alla sua illuminazione interiore, di ascendere all’altezza dell’azione, della scienza e della teologia, la folla dei pensieri carnali che ci inseguono non ci turbi e non ci faccia precipitare dall’altezza della contemplazione,a ma facciamo in modo di nutrirli soddisfacendoli con cibi spirituali, nella misura in cui ne sono capaci. Dice a Filippo (Gv 6, 5). Filippo, che vuol dire “bocca della lampada”,b rappresenta la figura di quelli che predicano la fede: a loro, che sono stabiliti insieme con Cristo nell’altezza della contemplazione, il Signore parla ogni giorno di nutrire la folla dei pensieri carnali: “Dove compreremo pane perché questi mangino?”. Questo diceva, tentandolo (Gv 6, 6), cioè esaminandone la fede sul miracolo futuro. Dio non tenta coi mali (Gc 1, 13). Tenta invece gli eletti per mettere alla prova, non per Ricompaiono qui i quattro gradi dell’ascesa (corrispondenti alle tre operazioni, purificazione-illuminazione-perfezione, esposte dallo Pseudo-Dionigi) già visti sopra (Commentarius IV, 7). b Etimologia diffusa del nome Filippo, citata ad esempio da Isidoro e da Beda, ma che Eriugena riprende probabilmente ancora una volta da Gerolamo, Liber interpretationis hebraicorum nominum – ed. de Lagarde, p. 64, 23; 69, 5; 76, 28. a
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farli cadere. Ci sono due specie di tentazioni: una prova la fede dei giusti, l’altra dimostra la mancanza di fede degli empi.a Lui infatti sapeva che cosa avrebbe fatto (Gv 6, 6). Sta dicendo che il Signore tenta Filippo per metterlo alla prova, non per apprendere che cosa avrebbe fatto. Lui infatti sapeva, prima che il mondo fosse fatto, tutti i miracoli che avrebbe fatto nel mondo. Lui infatti sapeva significa che sapeva non da qualche tempo, ma prima di tutti i tempi, che cosa avrebbe fatto. VI, 2. Filippo gli rispose: “Duecento denari di pane non bastano neppure perché ciascuno di loro ne riceva un pezzo” (Gv 6, 7). Filippo, nutrito del latte dell’insegnamento, incapace di ricevere il cibo solido della vera fede e della vera conoscenza, ha risposto ancora in base alla misura della sua capacità, credendo impossibile che una moltitudine così grande potesse essere sfamata con pochi pani. Il Signore scherza quindi con Filippo per istruirlo, mettendo alla prova la semplicità della sua fede, perché così imparasse ad ascendere più in alto e non credesse che per Dio ci sia alcunché di difficile. Quelli che evangelizzano, che come abbiamo detto sono prefigurati attraverso Filippo, al Signore che li tentava, ossia che metteva alla prova la loro fede e con ciò al tempo stesso la lodava, hanno risposto: Duecento denari di pane non bastano. Il numero cento è perfetto: è dieci volte dieci.b Questo numero, se raddoppiato, fa duecento, che ben rappresenta tipologicamente la perfezione dell’azione buona e della scienza razionale.c Ma questa duplice perfezione non basta per le persone da sfamare (cioè da istruire), se non vi viene aggiunta l’altezza della teologia. Infatti, l’azione delle virtù si limita a purificare le anime dei fedeli, la scienza delle cose create le illumina. Ma quella purificazione e illuminazione non bastano loro, se non viene aggiunta la disposizione stabile della perfetta contemplazio-
a La distinzione tra le due specie di tentazioni si trovava in Cassiodoro, Expositio psalmorum, Ps. 25, 45-53 (PL 70, 183D-184A; ed. CC SL 97, p. 230). b Così Gregorio Magno, Moralia in Iob, XV, 14. c Jeauneau suggerisce che questa associazione delle due centinaia con l’azione e la scienza si ispiri a Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LXIII.
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ne, l’unica che conduce le anime alla compiuta pienezza del ristoro spirituale. Gli dice uno dei suoi discepoli, Andrea fratello di Simon Pietro: “Qui c’è solo un ragazzino che ha cinque pani d’orzo e due pescetti, ma che cosa sono queste cose in confronto a tanta gente?” (Gv 6, 8-9) Andrea, fratello di Simon Pietro, ha risposto con la stessa semplicità di Filippo. Ma in quella semplicità è contenuta una contemplazione dai molti sensi. Questo ragazzino, che sulla base del racconto sarà da intendersi o come uno dei discepoli o come un ragazzino fra la folla che li seguiva, significa misticamente il legislatore, cioè Mosè, che in modo non incongruo vien detto un ragazzino, perché la Legge data attraverso di lui non ha mai condotto nessuno all’età adulta della giustiziaa (Eb 7, 19). Il legislatore vien detto un ragazzino, perché prefigurava coi fatti e profetava con le parole l’unità futura della Chiesa. Andrea ha detto “qui”, cioè nel Vecchio Testamento: questo, mentre il Nuovo già comincia a risplendere, ha iniziato a perdere valore, ma ancora non è scomparso del tutto. Che ha cinque pani d’orzo. I cinque pani d’orzo sono i cinque libri della Legge mosaica, detti “d’orzo” non senza ragione, perché gli uomini carnali si nutrivano di quelli.b L’orzo è l’alimento caratteristico delle bestie, non degli uomini.c Il popolo carnale viveva ancora sotto la lettera e non abbandonava il vecchio primo uomo, di cui è scritto: L’uomo, mentre era nella prosperità, non ha compreso, è simile alle bestie, ed è stato reso simile a quelled (Sal 48, 13; 48, 21). Per questo motivo veniva annoverato fra le bestie a L’interpretazione allegorica del ragazzo recante i cinque pani e due pesci come allusione a Mosè si trovava già in Gerolamo, Commentarii in evangelium Matthaei, II, 1240-1243 (CC SL 77, p. 121). b Così Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 5: diversamente da Eriugena e da Gerolamo, tuttavia, egli aveva identificato il ragazzo dei pani e dei pesci con il popolo ebraico. Cfr. anche Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LXIII. c L’osservazione proviene da Origene, Hom. in Gen. XII, 5. d Cfr. Periph. IV, 798D-799A; 847B. Lì Eriugena spiegava, rifacendosi al De opificio hominis di Gregorio di Nissa (da cui riprende anche la citazione dei Salmi qui addotta), come il modo di riproduzione attraverso il sesso sia un espediente tratto dal regno degli animali bruti, escogitato dalla divinità in seguito al peccato originale, per garantire la propagazione della specie umana decaduta fino al raggiungimento del numero di anime prestabilito.
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brute, e perciò si nutriva solo della lettera, quasi che questa fosse un pane d’orzo misto a pula, ma non del midollo spirituale della lettera stessa. In natura, infatti, gli involucri di pula aderiscono così strettamente ai chicchi d’orzo che a malapena possono essere separati dai midolli di quelli: essi significano la difficoltà della comprensione intellettuale dei sacramenti e dei precetti della Legge.a Il fatto che i pani d’orzo siano proprio cinque si presta bene ad essere inteso come allusione ai cinque sensi corporei.b Infatti, un fedele sarà annoverato fra gli animali bruti che si nutrono di orzo nella misura in cui si abbandona al godimento di ciò che riceve dai cinque sensi del corpo. Ma nel momento in cui, abbandonando i sensi, si nutre di cibo spirituale, grazie all’accrescimento dell’azione e della scienza, allora lo si annoveri non più fra gli esseri bruti, ma fra gli animali razionali. Quindi, siccome a nessuno è permesso ascendere all’altezza delle virtù e delle contemplazioni, se prima non si nutre dei significati delle cose sensibili, è bello che il Signore distribuisca i pani d’orzo alla folla di fedeli che lo segue: così, dopo averli saziati con quelli, se hanno mantenuto la fede ricevuta, li conduce agli alimenti spirituali e più alti propri della creatura razionale.c Essi non possono esserne nutriti prima di aver trasceso i sensi corporei e tutte le cose che ricevono tramite quelli. Le parole Ma che cos’è questo in confronto a tanta gente vogliono dire: la lettera della Legge, o i sensi corporei e le cose corporee, che cosa sono, a che servono rispetto a una così grande moltitudine di fedeli che crederanno in te e chiederanno alimenti spirituali, che superano ogni dettato letterale e ogni senso corporeo? Né l’occhio ha visto, né l’orecchio ha udito, né è giunto al cuore dell’uomo ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (1 Cor 2, 9). a La spiegazione sul midollo e la pula è ripresa da Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 5. In queste righe la mano autografa i1 compie alcune correzioni, ed aggiunge la pericope di testo che va da “In natura, infatti, gli involucri” a “precetti della Legge”. b Cfr. Origene, Hom. in Gen. XVI, 6; Agostino, De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 61, 1. c L’idea per cui l’uomo ha bisogno necessariamente della mediazione di simboli sensibili è tratta dallo Pseudo-Dionigi Areopagita, De caelesti hierarchia I: cfr. anche il commento di Eriugena allo Pseudo-Dionigi in Expositiones I, 494-518.
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VI, 3. Gesù dice: “Fate sedere le persone”. L’erba in quel luogo era molta (Gv 6, 10). L’erba che era “molta” significa la lettera della Legge, che era molteplice nei suoi simboli. La molta erba può anche significare adeguatamente dei pensieri carnali, che si introducono nell’anima tramite i sensi corporei e da essa subito scivolano via.a È bello anche che si dica che ai discepoli viene ordinato di far sedere le persone, dato che i maestri di verità non riescono a innalzare i loro alunnib all’altezza della contemplazione, se prima non iniziano a istruirli come partendo dai luoghi più bassi, dalla semplicità della lettera e del creato visibile.c La lettera della sacra Scrittura e le forme delle cose visibili sono senz’altro il primo gradino per ascendere all’altezza delle virtù: essi, una volta letta in un primo momento la Scrittura o osservata la creatura, ascendono allo spirito della lettera e alla ragione della creatura, grazie ai passi della retta ragione. Dunque si sedettero gli uomini, in numero di quasi cinquemila (Gv 6, 10). I cinque pani significano i cinque libri di Mosè presi alla lettera, oppure i cinque sensi del corpo. Con lo stesso criterio speculativo, con retta ragione, i cinquemila uomini alludono alla moltitudine di quelli che vissero sotto la legge della lettera, o di quelli che ancora soggiacciono ai sensi carnali.d Il numero mille è infatti perfetto e cubico: dieci per dieci per dieci fa mille. E mille, moltiplicato per cinque, allude al completamento a Per l’“erba” di questo versetto come simbolo della carnalità cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 6. b “Alunni” rende il latino quos nutriverant, “quelli che essi [i maestri di verità] avevano nutrito”. Nella traduzione italiana “alunni” si è tentato di mantenere almeno a livello etimologico (alumnus da alo, “nutrire”) la relazione con l’ambito semantico del nutrimento: è suggestivo pensare che la sua pregnanza concettuale in questa sede potrebbe legarsi alla scelta dei personaggi dialoganti nel Periphyseon di Eriugena, il maestro e l’allievo o meglio, nel testo originale latino, appunto il Nutritor e l’Alumnus. c Jeauneau giustamente ravvisa qui una consonanza di temi con la Homilia, cap. 14: si tratta dell’interpretazione spirituale dell’opposizione spaziale basso-alto (qui il sedersi sull’erba, lì la valle della storia rispetto alle vette della teologia), in concomitanza con un richiamo a natura e Scrittura come alle due vie verso la conoscenza di Dio, sulla scia di Massimo il Confessore. d Per questa interpretazione dei cinquemila uomini cfr. Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 6; Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LXVII.
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del numero di quelli che vivono carnalmente e che fra poco, una volta istruiti dalla storia sacra e dall’aspetto visibile delle cose, passeranno all’altezza delle cose spirituali.a Gesù poi prese i pani e rendendo grazie li distribuì fra quelli seduti. In modo simile fece coi pesci, finché ne vollero (Gv 6, 11). Il Signore prese dei pani, perché era stato Lui a dare la Legge attraverso Mosè: propriamente la Legge è di chi l’ha data, non di chi, nel ruolo di ministro, è stato l’intermediario attraverso cui è stata data. E rendendo grazie li distribuì fra quelli seduti. A chi avrà reso grazie, se non al Padre che ha amato il mondo al punto da dare il Suo Figlio (Gv 3, 16), grazie al quale nutriva il mondo con sacramenti visibili e creature sensibili, per condurlo e nutrirlo, attraverso queste cose, verso la Sua conoscenza? I due pesci alludono, per quanto lo possono i simboli sensibili, ai due Testamenti.b I pesci in acqua, infatti, sono i simboli sensibili nel popolo ancora carnale, ma che sta iniziando a vivere nel modo perfetto. Questi simboli, nel momento in cui si inizia a comprenderli in qualche misura più a fondo, vengono distribuiti a chi li desidera rettamente, finché ne vogliono. Distribuire, infatti, vuol dire distinguere i simboli visibili dai loro significati intellettuali invisibili, e suddividerli secondo la capacità di ciascuno.c Alcuni, poi, sostengono che nei due pesci siano significate le due persone presenti nella Legge, cioè il re e il sacerdote;d secondo altri, i profeti e i salmi.e f
Così anche Alcuino, Commentaria in Iohannis evangelium III, 12 (PL 100, 822C-D). b Per questa interpretazione dei due pesci cfr. Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam VI, 82 (CC SL 14, p. 204); Gerolamo, Commentarii in evangelium Matthaei, II, 1242-1243 (CC SL 77, p. 121); Isidoro, Allegoriae quaedam sanctae scripturae 169 (PL 83, 120C-121A). c Esegesi analoga della distribuzione in Origene, Hom. in Lev. IV, 10; Hom. in Gen. XII, 5. d Così Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 5; De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 61, 2; Sermo 130, 1. e Così Beda, In Marci evangelium expositio II, VI; Homiliae II, 2; Alcuino, Commentaria in Iohannis evangelium III, 12 (PL 100, 821C). f La pericope di testo da “Alcuni, poi, sostengono” a “i profeti e i salmi” è un’aggiunta della mano autografa i1. a
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VI, 4. Quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente si perda” (Gv 6, 12). La folla semplice dei fedeli è sazia e soddisfatta della sola lettera, del creato visibile e dei simboli visibili. Ai maestri della Chiesa viene ordinato di raccogliere i significati spirituali della lettera, del creato e dei simboli, quasi fossero dei pezzi avanzati, che gli uomini carnali ancora non possono mangiare: in questo modo, il senso intellettuale incomprensibile a quegli intelletti non si perde, ma il desiderio razionale delle anime spirituali se ne sazia nelle contemplazioni divine. Perciò, i pezzi dei pani d’orzo sono i sensi intellettuali sottili e difficili della sacra Scrittura e dei sacramenti sensibili, significati che i dottori della Chiesa raccolgono insieme, perché niente di essi si perda, cioè perché di essi non rimanga niente che non venga distribuito a quelli capaci d’intendere i sensi intelligibili.a Dunque li raccoglievano, e riempirono dodici ceste dei pezzi dei cinque pani d’orzo, che erano avanzati a quelli che avevano mangiato (Gv 6, 13). Il numero di dodici ceste raffigura tipologicamente la capacità dei sapienti che raccolgono i significati spirituali. Il numero dodici, infatti, è perfettissimo e, significa i già citati sensi intellettuali degli uomini divini sotto molti aspetti (nell’esercizio delle virtù, nella scienza delle cose e nella teologia, che si occupa solo delle cose divine).b In primo luogo, la perfezione del dodici si scorge nel fatto che è il doppio del numero sei. Il numero sei allude alla perfezione delle opere buone in questa vita, perfezione che, raddoppiata, raggiunge l’eterna contemplazione, che è il frutto di tutte le operazioni buone.c Inoltre, il dodici contiene in sé le armonie di tutta la musica. Infatti ha l’intervallo di quarta (diatessaron) nel quattro rapporCfr. Agostino, In Iohannis evangelium XXIV, 6. Per questa interpretazione delle dodici ceste cfr. Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LXIII. c A tale perfezione del numero sei era già stato fatto cenno in Commentarius IV, 2 (si v. il rimando al Periphyseon lì fornito). Anche in Agostino (es. De civitate Dei XI, 30) il numero sei aveva rilevanza particolare (si pensi alla creazione del mondo in sei giorni nella Genesi). a
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tato al tre; ha l’intervallo di quinta (diapente) nel tre e nel due; ha l’intervallo di ottava (diapason) nel rapporto fra il dodici stesso e il sei (il diapason intero si ha anche entro il numero otto); ha il tono nel rapporto fra nove e otto. Tutti questi numeri sono contenuti nei limiti del dodici.a Perciò, con questo numero è raffigurata l’armonia connessa di tutte le cose visibili e invisibili. Quest’armonia è nota e comprensibile soltanto a quelli che hanno intelligenza delle cose divine, per quanto è concesso agli uomini. Il numero dodici si divide anche in dieci e due: perciò significa anche la legge della lettera, che è in dieci comandamenti, e il precetto della carità, che è internamente dupliceb (Mt 22, 36-39) e da cui dipendono la Legge e i profeti (Mt 22, 40). Quindi, quelli che completano la Legge col precetto della carità sono le ceste, nelle quali vengono raccolti e salvati i pezzi spirituali dei significati divini, perché nulla di loro si perda. Lo stesso numero si divide in sette e cinque – numeri attribuiti alla musica della voce umana – e indica la meravigliosa concordia di tutte le cose che fanno ritorno a un unico fine.c Il cinque, moltiplicato per se stesso, fa venticinque. Il sette, invece, si divide in due parti, di cui la maggiore è il quattro, la minore il tre. Per cui, se si moltiplica il sette per la sua parte minore, si ottiene ventuno. E se a questo numero si aggiunge la parte maggiore, si ottiene ancora venticinque. Perciò, il cinque e il sette, moltiplicati, vengono ricondotti a un unico fine. Le ceste spirituali, allora, sono quelli che, in virtù dell’azione e della scienza, pervengono all’unico fine della contemplazione eterna.d a Cfr. Expositiones VI, 179-198; Periph. III, 718B-D. Eriugena riprende qui considerazioni numerologiche diffuse in vari autori ben noti al medioevo latino, come Macrobio, Marziano Capella e Boezio. Il senso generale del testo di Eriugena a proposito del numero dodici è che questo numero include in sé tutti i possibili intervalli musicali, ossia le distanze fra suoni di altezza diversa, che producono armonia. b La duplicità del precetto dell’amore consiste nel fatto che esso deve essere rivolto in primo luogo a Dio, in secondo luogo al prossimo. Eriugena svolge una considerazione analoga anche in De praedestinatione III, 6. c Il passo è di difficile interpretazione: secondo Jeauneau (ed. CC CM 166, p. 130, ad loc.) il riferimento è alle sette vocali della lingua greca in rapporto alle cinque della lingua latina. d Per quest’ultima interpretazione delle ceste evangeliche cfr. Massimo il Confessore, Ambigua ad Iohannem LXIII.
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COMMENTO, VI, 5
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VI, 5. Le persone dunque, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: “Lui è veramente un profeta che viene nel mondo” (Gv 6, 14). Di nuovo la folla imperfetta s’inganna, perché è a causa di un miracolo visibile, e non della forza intelligibile del miracolo, che diceva: Lui è veramente un profeta che viene nel mondo. In questo miracolo dei cinque pani d’orzo ci si chiede, non senza ragione, perché vengano raccolti fino a riempire dodici ceste solo i pezzi dei cinque pani, e non anche dei due pesci, malgrado il vangelo racconti che le cinquemila persone furono saziate con cinque pani e due pesci. La profondità di questo mistero mi sembra così oscura che a malapena la si può sondare. Agostino, nel suo commento al vangelo di Giovanni, non ne tratta, ma l’ha tralasciato del tutto, anche se a molti sembra sufficiente quanto si legge nel vangelo di Marco: Portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e i pesci (Mc 6, 43). Così che si deve sottintendere: e portarono via i pezzi dei pesci, o altri pezzi o i medesimi. Ma se erano altri, le ceste diventerebbero non più dodici, ma ventiquattro. Se erano gli stessi, sarebbe bastato dire: portarono via dodici ceste di avanzi. Non sembra privo di mistero il fatto che, dopo la menzione dei pezzi dei pani raccolti, dica soltanto: “E i pesci”, senza aggiungere altro. Matteo e Luca, invece, menzionano indistintamente i pezzi (Mt 14, 20; Lc 9, 17), senza chiarire se si trattasse soltanto di quelli dei pani, come dice Giovanni, oppure di quelli dei pani e insieme dei pesci.a Proviamo dunque a indagare, per quanto ce lo consente la Luce delle menti, senza scartare affrettatamente le interpretazioni altrui. Abbiamo già detto che col numero dei cinque pani si allude ai cinque sensi del corpo o ai cinque libri mosaici, con i due pesci invece a simboli dei due Testamenti. Qui, per prima cosa, bisogna ricercare che differenza ci sia fra i misteri e i simboli delle due Leggi, quella della lettera e quella della grazia.b Propriamente, i misteri a La pericope di testo da “anche se a molti sembra sufficiente” a “oppure di quelli dei pani e insieme dei pesci” è un’aggiunta della mano autografa i1. b Cfr. Agostino, De vera religione L. Sulla distinzione fra mysterium e symbolum, e su altri termini a questi connessi come sacramentum, cfr. lo studio di J. Pépin ‘Mysteria et Symbola dans le commentaire de Jean Scot sur l’évangile de Saint Jean’,
180
COMMENTO, VI, 5
sono quelli tramandati al modo dell’allegoria nei fatti e nei detti: cioè sono stati sia fatti storicamente, sia detti, in quanto vengono narrati. Per esempio: il tabernacolo di Mosè era stato sia costruito nei fatti, sia detto e narrato dal testo della sacra Scrittura. In modo simile, i sacramenti delle vittime sacrificali della Legge sono stati sia fatti quanto agli eventi storici, sia detti quanto alla narrazione. In modo simile, la circoncisione è stata sia fatta nella carne, sia narrata nella lettera. Anche nel Nuovo Testamento il mistero del battesimo e quello del corpo e del sangue del Signore sono stati sia compiuti nei fatti, sia tramandati e detti dalla lettera. E questa forma dei sacramenti coerentemente è detta dai santi Padri allegoria del fatto e del detto. C’è un’altra forma, che riceve propriamente il nome di simbolo, ed è chiamata allegoria del detto, ma non del fatto, perché consiste soltanto nei detti dell’insegnamento spirituale, e non anche in fatti sensibili. Perciò, i misteri sono quelli che, in ciascuno dei due Testamenti, sono stati sia fatti storicamente, sia raccontati dalla lettera. Invece i simboli sono quelli che non sono stati fatti, ma che vengono solo detti come se si trattasse di fatti, al solo fine di ammaestrarci. Per esempio, nell’Antico Testamento è scritto: Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre (Es 23, 19; 34, 26). Non si legge mai che sia storicamente accaduta una cosa del genere, come testimonia Agostino. Tuttavia, è stato detto e scritto e tramandato come un fatto, anche se non si trova che la verità della storia divina racconti che ciò è stato fatto.a Un altro esempio, tratto dai salmi: I monti saltarono come arieti e i colli come agnelli di un greggeb (Sal 113, 4). In questi e in molti altri luoghi simili della divina Scrittura si deve intendere la sola allegoria del detto, non del fatto e del detto. Nel Nuovo Testamento vengono narrate molte cose non fatte, stando al testo della storia,
in The Mind of Eriugena. Papers of a Colloquium. Dublin, 14-18 July 1970 – J. J. O’Meara, L. Bieler, Dublin, 1973, p. 16-30 (già citato a proposito della Homilia, cap. 19); si v. inoltre l’appendice III nell’ed. Jeauneau del Commentarius del 1972 (SC 180), p. 397-402. a Agostino, Quaestiones in Heptateuchum II, qu. 90 e 164; De octo quaestionibus ex veteri testamento VIII; Ambrogio, De paradiso V, 27. b Cfr. Agostino, Enarrationes in psalmos, Ps. 113, I, 1-3.
181
133
COMMENTO, VI, 5-6
ma soltanto dette come se fossero state fatte.a Fra queste, gli esempi si trovano soprattutto nell’allegoria delle parabole del Signore. Per esempio, la parabola del ricco e del povero Lazzaro nel seno di Abramo, dell’abisso fra i due, del fuoco, della lingua, del dito (Lc 16, 19-31);b tutte cose che nessuna autorità tramanda come avvenute nei fatti, ma che sono dette esclusivamente in modo figurato. Questa forma è riconoscibile praticamente in tutte le parabole, ed è propriamente detta “simbolica”, per quanto sia abitudine della divina Scrittura dire “simboli” al posto di “misteri” e viceversa, per via di una certa vicinanza e somiglianza fra i due.
134
VI, 6. Adduciamo quindi un esempio simile, col quale possiamo convincere di ciò che sosteniamo. Il popolo dei fedeli carnali era già presente nel Vecchio Testamento, e lo è anche nel Nuovo: esso non crede che ci sia nulla al di fuori della lettera e dei sensi corporei, perché è capace di ascendere più in alto, al di là della lettera della Scrittura e di ciò che riceve dai sensi. In modo simile, nel Vecchio Testamento si narra che ci furono dei perfetti e dei sapienti nell’azione e nella scienza dei significati intellettuali: loro, come i discepoli, ascendono con Cristo all’altezza della contemplazione, come su un monte, dopo aver lasciato gli uomini carnali sotto la lettera e la sensazione corporea, seduti sull’erba delle cose temporali: Ogni carne è erba, e ogni sua gloria un fiore di campo (Is 40, 6). Perciò dobbiamo immaginare che ci sia come una moltitudine di fedeli semplici seduta alle pendici del monte oppure in pianura (cioè al di sotto dell’altezza dei significati intellettuali divini). Infatti, anche dal testo del vangelo si può intendere che il Signore sfamò la folla non sulla cima del monte, ma in una pianura, dove c’era molta erba, nel passo dove dice: “Ritornò sul monte da solo”; in questo modo noi recepiamo che, quanto agli eventi storici, il Signore dapprima salì al monte solo con i suoi discepoli,
a
3, 1.
Per questa osservazione sul Nuovo Testamento cfr. Origene, De principiis IV,
Coerentemente con l’inquadramento qui proposto delle parabole come “simboli”, dunque non fattualmente avvenute, Eriugena interpreta in senso esclusivamente allegorico questa stessa parabola anche in Periph. V, 935B-937D. b
182
COMMENTO, VI, 6
poi ridiscese in basso e, a miracolo compiuto, ritornò da solo ancora una volta sul monte. A questa moltitudine, che ha fame della fede in Cristo, si aggiungano i cinque pani e i due pesci: cioè i sacramenti, che sono sia fatti che scritti, e i simboli, non fatti ma soltanto detti. Cristo prenda cinque pani e due pesci e, ringraziando il Padre (cioè Colui che ha voluto nutrire i suoi fedeli coi simboli e coi sacramenti), li dia ai suoi discepoli, i suoi maestri, i suoi ministri: essi li dividano fra la folla. I pani d’orzo vengono spezzati dai discepoli nel momento in cui i misteri delle due Leggi vengono da loro suddivisi in fatti storici e nei loro significati spirituali. Gli uomini carnali si nutrono della semplice storia; quelli spirituali raccolgono i significati divini della stessa storia, come fossero dei pezzi. I pezzi con cui si nutrono e si saziano gli uomini carnali sono i fatti storici; i pezzi con cui si nutrono gli uomini spirituali sono i significati divini dei fatti storici. Per esempio, si legga il libro della Genesi, dove viene raccontato il passaggio d’Israele carnale attraverso il Mar Rossoa (Es 14-15). Il cristiano semplice, ancora come seduto sull’erba delle cose temporali e carnali, si nutre della sola storia. Tutto ciò che là si è svolto, è noto grazie ai cinque sensi del corpo. Infatti vi si vede che gli Israeliti attraversarono il mare a piedi asciutti, mentre gli Egiziani furono uccisi; ciò fu anche sentito dalle popolazioni vicine; l’acqua del mare è stata assaporata, annusata e toccata. L’animo ancora semplice del fedele rimugina e pensa fra sé tutte queste cose e, come fossero pezzi del cibo della storia divina, se ne sazia. Non può comprendere invece il significato intellettuale della lettera stessa, e perciò quello viene raccolto da quelli che sanno le cose spirituali, in modo che non vada perso ma giovi a quelli che lo sanno intendere. Ecco i cinque pani d’orzo, ossia i misteri dei fatti storici, divisi in lettera e spirito; in quanto è lettera si adatta ai cinque sensi corporei; in quanto è spirito si adatta a quelli spirituali. Ascolta l’Apostolo che spezza i pani: Abramo ebbe due figli, uno da a L’episodio del passaggio del Mar Rosso è in realtà nell’Esodo, non nella Genesi come dice qui Eriugena: si tratterà di un lapsus, che insieme alle aggiunte autografe testimonia lo stato ancora provvisorio del testo di questo libro VI del Commentarius. Tuttavia, proprio a causa delle frequenti correzioni e aggiunte autografe che vi si trovano, è singolare che un errore così macroscopico sia rimasto senza correzione.
183
135
COMMENTO, VI, 6
136
una serva e uno da una donna libera (Gal 4, 22). Ecco i primi pezzi della storia, sufficienti per i semplici. Di seguito aggiunge i pezzi spirituali, dicendo: Questi sono i due Testamentia b (Gal 4, 24). Alla medesima moltitudine, si aggiungano i due pesci, cioè la sola allegoria del detto riguardante l’insegnamento spirituale, ma non del fatto storicamente avvenuto. Questa viene come contenuta dal numero due, perché si percepisce soltanto con due sensi, la vista e l’udito, mentre con gli altri non può essere percepita. Si legge con gli occhi, si sente con le orecchie, ma è preclusa all’olfatto, al gusto e al tatto. Per utilizzare un esempio già noto, si legga ciò che è scritto nell’Esodo: Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre (Es 23, 19; 34, 26). Questo simbolo si può sia leggere con gli occhi sia sentire con le orecchie, ma non può essere spezzato, dato che non ha riscontro coi fatti, ma è soltanto detto in modo allegorico. E siccome non si può dividere, è affidato per intero alla memoria dei fedeli carnali, perché credano che in queste parole c’è un senso spirituale, anche se loro non lo capiscono; viene invece raccolto per intero da quelli che conoscono spiritualmente le cose spirituali. Perciò nei simboli, cioè nelle esposizioni dell’insegnamento spirituale, tramandate dalla sola allegoria del detto e non del fatto, non si raccoglie nessun pezzo, perché non si possono dividere in storia e significato intellettuale. Lì si deve avere intelligenza del solo significato, mentre non c’è nessun fatto. Ancora, nel Nuovo Testamento, per prendere un esempio anche da lì, il corpo e il sangue di nostro Signore viene sia compiuto nei fatti (mistero),c sia indagato secondo i suoi significati spirituali (cervello).d Ciò che viene avvertito e percepito esternamente daSulla compresenza nella Scrittura del senso letterale concretamente avvenuto e dei sensi spirituali cfr. Periph. IV, 818A-B (dove pure viene fatto l’esempio di Gal 4, 22). b La pericope di testo da “in quanto è spirito si adatta a quelli spirituali” a “Questi sono i due testamenti” è un’aggiunta della mano autografa i1. c La parola “mistero” è un’aggiunta della mano autografa i1 (cfr. la nota seguente). d La parola “cervello” è un’aggiunta della mano autografa i1. Il senso del termine, inserito dall’autore nel testo del manoscritto poco dopo aver aggiunto anche “mistero”, è tutto sommato chiaro: si tratta di una contrapposizione fra il mistero, che nel lessico eriugeniano indica l’evento storicamente reale dotato di valenza spia
184
COMMENTO, VI, 6
gli uomini carnali, sottomessi ai cinque sensi corporei, è il pane d’orzo, perché non sono in grado di ascendere all’altezza dell’intelligenza spirituale, ed è come un pezzo con cui si sazia il loro pensiero carnale. Il pezzo spirituale è per quelli che sono capaci di conoscere l’altezza dei significati divini di quello stesso mistero: perciò viene da loro raccolto perché non si perda. Infatti, il mistero composto da lettera e spirito in parte si perde, in parte rimane eternamente. Si perde ciò che si vede, perché è sensibile e temporale; rimane ciò che non si vede, perché è spirituale e eterno. Come esempio di simbolo, poniamo: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio (Gv 1, 1). Questo viene solo detto, non vi si apprende nessun fatto storico, e perciò viene recepito tutto intero in modo semplice dagli uomini carnali, e al tempo stesso tutto intero in modo unitario dagli uomini spirituali. In questo caso non ci possono essere pezzi, perché non c’è nulla che si possa intendere secondo la storia, ma tutto va riferito alla teologia, che supera ogni senso (Fil 4, 7) e intelletto. Viene letto con gli occhi di chi lo legge, viene sentito con le orecchie di chi lo sente, e perciò, come due pesci, viene recepita una medesima teologia dell’evangelista, adatta a due sensi. * * *
rituale-allegorica, e il significato spirituale-allegorico stesso. Il termine “cervello” è inusitato in questa accezione, malgrado Jeauneau (ed. CC CM 166, ad loc.) abbia individuato due paralleli in Fulgenzio (Mythologiae II, 13 e III, 9). In Eriugena il termine ricorre soltanto nell’ambito di discussioni a carattere strettamente medico-naturalistico, senza lasciar spazio a significati traslati che ne giustifichino l’impiego all’interno di un discorso sul metodo esegetico.
185
137
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
Esodo
Biblia sacra iuxta Vulgatam versionem − ed. R. Weber, R. Gryson, B. Fischer, Stuttgart, 2007
-
Genesi -
59 n. 3, 108 n. a, 119 n. a, 154 n. a, 160 n. a, 178 n. c, 183, 183 n. a
183 n. a, 184
3, 2-3
159
12, 1-14
117
14-15
183
23, 19
181, 184
34, 26
181, 184
40
22
Numeri
1, 1
70 n. 1, 154, 154 n. a
1, 2
70 n. 1
1, 3
108
Deuteronomio
1, 6
108
8, 3
66 n. 1
17-21
105 n. a
1, 26 1, 26-27
21, 6-9
84 n. 1, 133 n. b
136
1 Re
104 n. b, 127, 137
1, 27
127
3, 17
154
3, 19
150
1-2
105 n. a
4, 8
159
2, 11
105 n. a
8, 20
159
14, 18
141
5, 6 (= 2 Samuele 5, 6)
22, 1-14
159
2 Re
141
1 Cronache 21, 18
187
159
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
Osea
2 Cronache 11, 4-5
13, 14
141
124
Matteo
Salmi 174 n. d
3, 3
109
2, 7
151
3, 4
109 n. c
16, 15
163
3, 7
110
32, 9
65, 71
4, 4
66 n. 1
41, 8
79
4, 16
73, 81
44, 2
63
5, 1-12
48, 13
174
10, 20
83, 7
81
-
11, 9
157 75 106, 149
63, 154, 154 n. a
11, 27
113, 4
181
14, 19
134
115, 15
34
14, 20
180
147, 15
133
14, 28-31
103, 24
Sapienza 8, 1
128
9, 15
81
Ecclesiastico / Siracide 24, 3 (= 24, 5 Vulgata)
65, 66 n. 1
-
37, 54, 57 n. 2
17, 1-8
112-113 n. b, 157
17, 1-9
88
18, 10
102
21, 10
88
22, 36-39
179
22, 40
179
27, 18
147 n. a
54
16, 16
26, 69-75
Cantico dei cantici
100
54 86 n. b
Marco
Isaia 6, 1
102
7, 9
56, 93 n. b
9, 2
73, 81
11, 2-3
89
40, 3
106
40, 6
182
Ezechiele 1, 5-21
1, 3
109
1, 6
109 n. c
6, 41
134
6, 43
180
7, 34
134
9, 1-9
88
9, 2-8
112-113 n. b, 157
11, 9-10 50 n. 1
13, 31
188
88 37, 59 n. 2
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
15, 10
86 n. b
16, 15
30, 84
Luca 1, 41
80
2, 52
143
3, 4
109
3, 7
110
7, 26
106, 149
9, 16
134
9, 17
180
9, 28-36 16, 16
88, 112-113 n. b, 157 22, 114, 117, 149 n. a
16, 19-31
182
17, 21
128
19, 37-38
88
Giovanni 1, 1 1, 1-14
49, 62, 63 n. 1, 185 36
1, 3
63, 64 n. 1, 65
1, 4
67, 71
1, 5
73, 74
1, 6
78
1, 7
80
1, 8
80
1, 9
81
1, 10 1, 11
86, 93 19
1, 11-29
18
62 n. a, 80, 95, 96, 105, 117
1, 16
89, 97, 145, 146
1, 17
22, 90, 98
1, 18
35, 36, 52 n. 6, 100, 102 n. a, 103, 104, 105
1, 19
105
1, 19-27
146
1, 20
105
1, 21
105, 106
1, 22
106
1, 23
79, 106, 108, 109
1, 24
109
1, 25
110
1, 26
110
1, 27
26, 73 n. 3, 80, 110, 110 n. b, 111
1, 28
113
1, 29
80, 96, 107, 117, 144
1, 30
80
1, 30-51
124
1, 35-36
96
1, 51
30, 64 n. 1, 82, 83, 84
1, 11-14
1, 15
60
2
124
2, 19
134
2, 23
126
3
24
3, 1
125
3, 1-4 3, 2
18 125, 126
1, 12
86, 93, 93 n. a
1, 13
87, 94
3, 3
126
1, 14
60, 87, 88, 94, 95, 97
3, 4
24, 128
3, 5
128
189
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
3, 6
130
4, 5
157
3, 7
130
4, 5-26
24
3, 8
130, 131
4, 6
158, 159
3, 9
132
4, 7
160
3, 10
132
4, 7-8
161
3, 11
132
4, 9
161
3, 12
133
4, 10
162
3, 13
87 n. c, 134
4, 11
162
136
4, 12
163
3, 16
31, 137, 177
4, 13
163
3, 17
138
4, 14
163
3, 18
138
4, 15
164
3, 19
139
4, 16
164
3, 20
139
4, 17
166
3, 21
139
4, 18
166
3, 22
140, 156
4, 19
168
3, 23
140
4, 20
168
3, 24
141
4, 21-22
168
3, 25
144
4, 22
169
3, 26
144
4, 23
169, 170
3, 27
144
4, 24
170
3, 28
146
4, 25
170
18
4, 26
24, 170
3, 29
147, 148
4, 27
171
3, 30
148
4, 28
171
3, 31
149, 150
4, 28b
171
3, 32
151, 152
5
171
3, 33
152
5, 35
80
3, 34
152, 153
6, 1-4
172 172
3, 14-15
3, 28a
3, 35
153
6, 5
3, 36
154
6, 5-14
4, 1-2
155
6, 6
172, 173
4, 2
140
6, 7
173
4, 3
155
6, 8-9
4, 4
156
6, 10
190
18
23, 174 176
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
6, 11
177
6, 12
178
6, 13
178
6, 14
180
7, 38-39 8, 12
Lettera ai Romani 1, 20 1, 21-22
162 n. a 30, 75, 81
11, 1-45
113
11, 41
134
12, 28
88
13, 23-25
54
14, 2
35, 104
14, 6
98, 108, 133, 154
14, 8-9
100
14, 9
169
14, 10
104
14, 21
102, 105
14, 24
133
14, 26
132
14, 28
64, 65 n. 2
15, 5
65
15, 22
139
16, 28
135, 151
17, 3
138
17, 6
100
20, 3-8
55
20, 26
88
88
9, 15
57
13, 33
151
17, 28
70
17, 34
11
23, 7
110
74
4, 17
50 n. 3, 108 n. b
5, 20
167
6, 4
137
8, 14-17
87
8, 24
124
8, 29
136
11, 17-24
158
Prima lettera ai Corinzi 2, 9
175
3, 16
129
4, 7
145
6, 19
129
11, 3
165
12, 8
153
12, 11
130, 153
13, 12
23, 35, 52 n. 6, 102
15, 12
118
15, 26
123
15, 47
126, 145
15, 56
167
Seconda lettera ai Corinzi 3, 6 12, 2-4
Atti degli apostoli 1, 9-11
69
24, 132 37, 57
Lettera ai Galati 2, 19
191
120
3, 22
158
4, 4
156
4, 5
156
4, 5-7
87
4, 19
136
4, 22
184, 184 n. a
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
4, 24
184
5, 17
130
Seconda lettera a Timoteo 1, 11 Lettera a Tito
Lettera agli Efesini 1, 10
6, 16
89, 100
2, 3
154
4, 15
89
5, 8
73
5, 23
1, 5
76, 185
72 n. 1, 100 n. a 89
1, 16
64 n. 1, 70 n. 1
2, 9
90, 97
2, 17
10, 1
22, 98 n. c, 136
1, 13
172
1, 17
146
2, 4-5
157
Prima lettera di Giovanni
136
103
3, 2
35, 52 n. 6, 102, 135
5, 5
125
Apocalisse
Prima lettera a Timoteo 2, 7
156, 167, 174
Prima lettera di Pietro
Prima lettera ai Tessalonicesi 4, 17
151
7, 19
Lettera di Giacomo
Lettera ai Colossesi 1, 15-18
151
5, 5
89, 165
4, 7
76
Lettera agli Ebrei
Lettera ai Filippesi
1, 15
57
4, 6-8
57
192
50 n. 1
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Agostino Confessioni (CC SL 27) VI, 4, 6 XI, 10, 12-13
24
64 n. b 178 n. c
XIV, 4
130 n. a
VIII
175 n. b
qu. 61, 2
177 n. d
qu. 64, 2
158 n. b
qu. 64, 6-7
167 n. a
qu. 64, 8
171 n. a
qu, 80, 2
130 n. a
II, 6, 12
II, 9, 26
107 n. d
II, 16, 44
103 n. e
De spiritu et littera (CSEL 60) XIX, 34
99 n. a, 167 n. c
De trinitate (CC SL 50-50A) IV, 1, 3
68 n. b, 70 n. 1
II, 9-18
101 n. a
De vera religione (CC SL 32)
De genesi ad litteram (CS EL 28, 1) II, 6
181 n. a
De ordine (CC SL 29)
De diversis quaestionibus LXXXIII (CC SL 44A) qu. 61, 1
64 n. b
De octo quaestionibus ex veteri testamento (CC SL 33)
De civitate Dei (CC SL 47-48) XI, 30
86 n. a
I, 2, 3
143 n. a
XI, 6, 16-17
69 n. c
XI, 21
De genesi contra Manichaeos (CSEL 91)
64 n. b
De baptismo contra Donatistas (CSEL 51) V, 9, 11
V, 23
L
180 n. b
LV
165 n. a
Enarrationes in Psalmos (CCSL 38-40)
108 n. a 68 n. c
Ps. 29, II, 1
193
130 n. a
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Ps. 29, II, 19, 12-15
140 n. b
Ps. 61, VII, 2530
141 n. d
Ps. 64, II, 9-12
141 n. d
Ps. 75, III
107 n. b, 140 n. a
Ps. 113, I, 1-3
181 n. b
Epistole (CSEL 34, CSEL 44)
XII, 11
136 n. a, 136 n. b
XIII, 6
143 n. d
XIII, 7
143 n. a
XIII, 12
147 n. a
XIV, 5
148 n. b
XIV, 8
152 n. a
XIV, 1011
153 n. a
XV, 2
156 n. a 155 n. a
Ep. 120, III, 13
132 n. a
XV, 3
Ep. 147
101 n. a, 101 n. b
XV, 3-4
140 n. c
XV, 7-9
159 n. b
102 n. b
XV, 10
160 n. c
In Iohannis evangelium (CCSL 36)
XV, 12
162 n. a
XV, 16
163 n. a
68 n. a
XV, 18-19
166 n. a
II, 14
87 n. b
XV, 19
165 n. b
II, 12
93 n. a
XV, 21-22
167 n. a
II, 14
94 n. b
XV, 24
170 n. a
94 n. c
XV, 26
168 n. a
89 n. b, 98 n. b
XV, 27
170 n. b
101 n. b, 104 n. c
XXI, 5
Ep. 147, VI, 18
I, 16
II, 15 III, 8-9 III, 17 IV, 7
104 n. b
IV, 13-14
144 n. a
IV, 14
143 n. a
V, 3
144 n. a
XI, 3
126 n. a
XI, 3-4
125 n. b
XI, 6
127 n. a
XII, 2
128 n. b
XII, 5
131 n. a
XII, 6
132 n. a
XII, 7
134 n. a
XII, 9
135 n. a
128 n. a
XXIV, 5
174 n. b, 175 n. a, 177 n. d
XXIV, 6
176 n. a, 176 n. d, 178 n. a
XXVI, 12
119 n. b
XXXVI, 1
49 n. a, 50 n. 1
CXXIV, 5-7
54 n. a
Quaestiones in Heptateuchum (CC SL 33)
194
II, qu. 90
181 n. a
II, qu. 164
181 n. a
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Sermones (PL 38-39) 130, I
177 n. d
156, I, 1
116 n. a
156, II, 2
116 n. a
288
107 n. c
Asser De rebus gestis Ælfredi regis (ed. W. H. Stevenson, Oxford 1904) 78
Alcuino Commentaria in Iohannis evangelium (PL 100) I, 2
107 n. a
I, 8
75 n. a
II, 6
152 n. b
II, 7
158 n. b
III, 12
16 16 n. 2
Basilio di Cesarea Homiliae in Hexaemeron (SC 26bis) XI, 6
12 133 n. b
Beda Homiliae (CC SL 122)
177 n. a, 177 n. e
Ambrogio De paradiso (CSEL 32, 1)
I, 8
62 n. b
I, 8, 131-136, p. 55-56
75 n. a
II, 2
165 n. b
I, 11
159 n. c
V, 27
181 n. a
II, 2
177 n. e
De patriarchis (CSEL 32, 2) XI, 51
In Genesim (CC SL 118A)
104 n. c
III, 12
Expositio evangelii secundum Lucam (CCSL 14)
158 n. a
In Marci evangelium expositio (CC SL 120)
I, 360-432
103 n. a
I, 73-74
107 n. a
I, 385-387
102 n. b
I, 183-186
111 n. b
VI, 82
177 n. b
I, 186-193
112 n. a
VII, 2214-2216
166 n. b
I, 216-221
143 n. b
II, VI
177 n. e
Anastasio Bibliotecario Epistula ad Carolum Calvum (MGH, Epp. 7) p. 430-434
Bonaventura Itinerarium mentis in Deum (Opera theologica selecta, editio minor, Ad Claras Aquas, vol. 5, 1964, p. 179214)
13 n. 13
Aristotele Metafisica XII, 1074B34
77 n. 3
VII, 5
195
77 n. 4
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Nomi divini (Corpus Dionysiacum I – ed. B. R. Suchla, Berlin 1990)
Calcidio Timaeus. A Calcidio translatus commentarioque instructus (ed. J. H. Waszink, LondonLeiden 1962) 245-248
-
61 n. 2
Cassiodoro Expositio psalmorum (CC SL 97) Ps. 25, 45-53
173 n. a
32
10, 20, 115 n. b, 146 n. b
I
175 n. c
III, 2
169 n. b
IV, 1
70, 70 n. b, 149 n. b
IV, 3
35, 52 n. 6, 102 n. a, 103 n. a
V, 2 XV, 9
II
V, 3
115 n. a
70 n. 2
VII, 2
77 n. 4
10, 77 n. 4 77 n. 4
-
10
I
103 n. d, 103 n. f 86 n. 3
-
12
Filone di Alessandria De opificio mundi (ed. L. Cohn, Berlin 1896) 165
165 n. b
Fulgenzio Mythologiae (ed. R. Helm, Leipzig 1898)
129 n. b 115 n. b
V, 8
Epifanio di Salamina Ancoratus (GCS 25)
10, 20, 115 n. b, 149 n. a
V, 2
69 n. d
IX
157 n. a
99 n. b
53 n. c, 54 n. 2
V, 6
Epistole (Corpus Dionysiacum II – ed. G. Heil, A. M. Ritter, Berlin 1990)
21, 21 n. 25
V, 1-2
III, 2
I, 1
Gerarchia ecclesiastica (Corpus Dionysiacum II – ed. G. Heil, A. M. Ritter, Berlin 1990) -
33 n. 37
-
Ps.-Dionigi Areopagita Gerarchia celeste (Corpus Dionysiacum II – ed. G. Heil, A. M. Ritter, Berlin 1990) -
II, 4
Teologia mistica (Corpus Dionysiacum II – ed. G. Heil, A. M. Ritter, Berlin 1990)
Dante Alighieri Divina commedia. Paradiso XXXIII, 86-87
10
196
II, 13
184-185 n. d
III, 9
184-185 n. d
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Giovanni Scoto Eriugena Annotationes in Martianum (ed. C. E. Lutz, Cambridge Mass. 1939) -
9
p. 59 r. 20
109 n. a
p. 132 r. 20-30
109 n. a
Carmina (ed. L. Traube in MGH Poetae 3) -
16
II, VIII, v. 4150, p. 539
100 n. b
Commentarius in evangelium Iohannis (CC CM 166) -
15, 17, 17 n. 22, 18, 19, 19 n. 23, 20, 22, 25, 26, 29, 31, 32, 38, 39, 50 n. 1, 52 n. 5, 93 n. a, 113 n. b, 121 n. a, 122 n. a, 129 n. a, 135 n. a, 146 n. b, 149 n. b, 160 n. c, 164 n. a
I, 30
22, 59 n. 3, 149 n. a, 156 n. a, 161 n. a, 167 n. b
I, 31
22, 98 n. c, 124 n. b, 151 n. a
I, 32
34, 121 n. a, 122 n. a
I, 33
80 n. a, 118 n. c, 151 n. a
III, 1
133 n. a
III, 3
68 n. 1
III, 4
128 n. a
III, 5
87 n. c, 146 n. a, 151 n. b
III, 6
84 n. a
III, 9
54 n. 1, 79 n. c, 151 n. b
III, 10 IV
22 160 n. c
IV, 1
22
IV, 3
162 n. b, 165 n. b
IV, 6
116 n. b
IV, 7
172 n. a
I, 20
127-128 n. c
I, 21
32, 58 n. 1, 88 n. a
IV, 2
178 n. c
I, 22
88 n. b, 97 n. b
IV, 4
83 n. d
I, 23
62 n. a, 80 n. b, 110 n. b
IV, 5
160 n. b
VI, 2
23, 169 n. b
I, 24
VI
22, 115 n. b, 118 n. a, 132 n. a, 161 n. a, 167 n. c
I, 25
36, 52 n. 6, 122 n. a
I, 27
114 n. a, 132 n. a, 140 n. a
I, 28
79 n. b
I, 29
26, 56 n. 1, 73 n. 3
39, 183 n. a
VI, 5 VI, 5-6 VI, 6
22 84 n. c 169-170 n. b
Defloratio de libro Ambrosii Macrobii Theodosii de differentiis et societatibus Graeci Latinique verbi -
197
16
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
De imagine (ed. M. Cappuyns, in Recherches de théologie ancienne et médiévale 32 [1965], p. 205-262) -
XI
12, 13, 29, 78 n. 1 85 n. 2
XVII, p. 236 r. 4
84 n. 1
III, 278-280
115 n. b
IV, 3-220
66 n. 3 83 n. d
IV, 287-309
103 n. c
IV, 380-418
102 n. a 36, 52 n. 6
VI, 34-42
122 n. a
VI, 179-198
179 n. a 57 n. 2
VII, 413-414
152 n. a 107 n. d
III, 6
179 n. b 86 n. a
Epistola ‘Domine Winiberte’ -
57 n. 2
VII, 2-3
II, 49-50 XVI, 2
III, 293-385
VI, 3-81
De praedestinatione (ed. E. Mainoldi, Firenze 2003) -
161 n. a
IV, 50-67
104 n. b
XVII, p. 233 r. 33 – p. 234 r. 2
II, 919-1297
I, 219-664
161 n. a
I, 22-162
146 n. b
I, 250-251
90 n. b
I, 234-244
169 n. a
I, 391-396
169-170 n. b
I, 426-480
115 n. b
I, 494-518
175 n. c
II, 940-954
74 n. b, 74 n. 2, 169-170 n. b
84 n. c
VIII, 229-236
169 n. b
IX, 412-483
161 n. a
X, 3
160 n. b
XIII, 535-544
169 n. b
-
Expositiones in ierarchiam coelestem (CC CM 31) 11, 13 n. 12
VII, 458-472
Glosae Martiani
9
-
149 n. b
9
Glossae divinae historiae -
8 n. 6
Homilia super ‘In principio erat Verbum’ (CC CM 166) -
15, 17, 19, 20, 22, 25, 26, 29, 32, 34, 36, 37, 38, 39, 51 n. 5, 52 n. 5, 53 n. 6, 54 n. 2, 58 n. 2, 59 n. 4, 64 n. b, 64 n. 1, 66 n. 3, 73 n. 3, 76 n. 1, 85 n. 2, 108 n. b, 122 n. a
1
61 n. 3, 71 n. 4, 78 n. 1, 103 n. b
1-5
198
34
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
2
Periphyseon (CC CM 161-165)
53 n. 6, 57 n. 2, 79 n. a
2-3
74 n. 2
4
55 n. 2
5
58 n. 1, 61 n. 2, 97 n. d
6
74 n. 1, 82 n. c, 86 n. c, 96 n. a
7
66 n. 2, 72 n. 1
8
68 n. 1, 83 n. a, 131132 n. c
9
70 n. 1, 131-132 n. c
10
68 n. b, 76 n. 1, 149 n. b
11
26, 30, 76 n. 1, 100 n. a, 100 n. b, 112 n. b, 149 n. b
-
13, 13 n. 16, 14 n. 17, 15, 19, 34, 51 n. 5, 59 n. 3, 59 n. 4, 77 n. 5, 104 n. b, 108 n. b, 126 n. b, 164 n. a, 165 n. b, 176 n. b, 178 n. c
I
33
I, 441A
50 n. 5
I, 443A-B
149 n. b
I, 443A446A
50 n. 5
I, 445C-D
108 n. b
I, 446A448D
35, 52 n. 6
I, 449A451B
33, 76 n. 2
12
71 n. 2, 81 n. b, 86 n. b, 93 n. a
13
30, 78 n. 1, 80 n. d
14
27, 38, 76 n. 1, 82 n. b, 116 n. b, 169170 n. b, 176 n. c
15
80 n. c, 87 n. a, 109 n. b
I, 450A451B
61 n. 2
16
37, 97 n. a, 97 n. b, 110 n. b
I, 450A-B
75 n. b
18
29, 64 n. b, 66 n. 2, 96 n. a
I, 486A
107 n. d
I, 516C
57 n. 2
I, 516D517A
71 n. a
19
29, 30, 85 n. 2, 90 n. a, 137 n. a, 180181 n. b
20
74 n. 1, 93 n. a, 98 n. a
21
32, 94 n. b, 94 n. c, 95 n. b, 135 n. a
23
I, 449B-C I, 449D
I, 451B
33, 33 n. 36
149 n. b
I, 520B
71 n. a 104 n. b
II, 530B531A
85 n. 2
II, 536A
85 n. 2
II, 536A-B
199
61 n. 2, 169 n. b
I, 517A II
95 n. c, 97 n. c, 98 n. a, 98 n. b, 135 n. a
143 n. c
30
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
II, 541A-B
165 n. b
II, 545B562A
154 n. a
II, 546A-B
70 n. 1
II, 549B-C
50 n. 2
II, 550C
70 n. 1
II, 556A
70 n. 1
II, 556B563B
63 n. a
II, 556D
65 n. a
II, 559A
68 n. b
II, 561C562A
65 n. a
II, 563D564C
89 n. c
II, 564C565A
153 n. b
II, 565A
131-132 n. c
II, 567B
60 n. a
II, 569C
165 n. c
II, 570B-C
59 n. 4
III, 630A632B
75 n. a
III, 630BC
51 n. 5
III, 631C632A
146 n. b
III, 632D633A
107 n. d
III, 633A
66 n. 3
III, 650D
149 n. b
III, 655C656C
160 n. a
III, 659A
107 n. d
III, 661A
169-170 n. b
III, 667AC
68 n. c
III, 678C679A
35
III, 680AB
71 n. 2
III, 681BC
149 n. b
II, 572C573A
160 n. b
III, 689C690A
169-170 n. b
II, 572D
149 n. a 57 n. 2, 161 n. a, 169 n. b
III, 689D690A
112-113 n. b
II, 574A
III, 690A
26, 73 n. 3
II, 576C577C II, 589B
160 n. b
III, 690B
77 n. 5
III, 704BC
71 n. a
III, 706AC
130 n. b
25
II, 590B
66 n. 3
II, 603A
131-132 n. c
II, 609AD
131-132 n. c
III, 718BD
179 n. a
II, 611A612D
131-132 n. c
III, 723D
26, 73 n. 3, 112-113 n. b
60 n. a
III, 733A734B
30, 73 n. 5
II, 613A-C III, 624A
49
IV
200
29, 104 n. b
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
V, 892C897B
135 n. a
IV, 749C
25
IV, 758B
30
IV, 764
31
IV, 764A
29
IV, 771BD
104 n. b
V, 902D905A
127 n. c
IV, 788B789A
104 n. b
V, 902D906C
93 n. c
IV, 793C797C
137-138 n. a
IV, 798B799C
119 n. a
IV, 798D799A
174 n. d
IV, 814860
119 n. a
IV, 814D818D
113 n. b
IV, 815B-D
165 n. b
IV, 818A-B
184 n. a
IV, 839A-B
132 n. a
IV, 846D848A
123 n. b
IV, 847AB
123 n. a
IV, 847B
174 n. d
IV, 855D
14 n. 17
V
V, 897B-C
V, 876A-B
32, 61 n. 2
V, 879A-B
32, 61 n. 2, 76 n. 2
V, 881B
14 n. 17
V, 883A884A
33 n. 37
V, 887C-D
37, 59 n. 2
V, 892B
54 n. b, 54 n. 2
V, 903A-B
82 n. d
V, 904C906B
146 n. b
V, 905A
82 n. d
V, 905B
52 n. 6
V, 906C907A V, 907B
201
32 51 n. 5, 154 n. a
V, 907C908B
68 n. a
V, 911C-D
134 n. c
V, 912B913A
135 n. a
V, 912B913B
30, 72 n. a
V, 912C913A
100 n. b
V, 924B
124 n. a
V, 926A
32, 138 n. b
34, 54 n. b, 54 n. 2
35
V, 926A-C
52 n. 6
V, 935B937D
182 n. b
V, 943A
74 n. a
V, 945C
35
V, 945C-D
35, 52 n. 6
V, 948A-B
130 n. b
V, 974A
118 n. b
V, 980D984B
59 n. 3
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
V, 981A V, 982A-B
37, 59 n. 2
V, 984B
104 n. d
V, 997B
138 n. a
V, 998B-C
35, 52 n. 6
V, 998C999C
34, 55 n. 2
V, 999B-C
134 n. c
V, 1003BC
116 n. b
V, 1005A
111 n. b
V, 1005B
156 n. b
V, 1005BC
56 n. 1, 73 n. 3, 112-113 n. b
V, 1008B1010B
164 n. a
V, 1008D1009A
164 n. a
V, 1010CD
Versio Dionysii praef. (MGH, Epp. 6 / PL 122)
57 n. 2
76 n. 2
V, 1017D
161 n. a
V, 1020AC
32, 76 n. 2
V, 1021B1022C
13 n. 15
col. 1035A1036A col. 1127D
53 n. c, 54 n. 2
II, 1240-1243
174 n. a
II, 1242-1243
177 n. b
73, 7
141 n. f
Hebraicae quaestiones in Genesim (ed. P. de Lagarde, Leipzig 1868 / CC SL 46) p. 24 r. 16-17
141 n. c
Liber interpretationis hebraicorum nominum (ed. de Lagarde, Göttingen 1870 / CC SL 72)
8 n. 5 59 n. 2
143 n. b
Epistole (CSEL 54-55)
13 n. 12, 69 n. b
col. 1038A-B
12
I, 227-283
Versio Dionysii (PL 122) -
115 n. b
p. 158-161 Girolamo Commentarii in evangelium Matthaei (CC SL 77)
36, 52 n. 6, 122 n. a
V, 1015B-C
p. 160-161
p. 50 r. 9-10
114 n. b
p. 58 r. 2
157 n. a
p. 60, r. 26-27
113 n. a
p. 64 r. 23
172 n. b
p. 64 r. 25
157 n. a
p. 66 r. 8
141 n. b
p. 66 r. 20-22
158 n. a
p. 69 r. 5
172 n. b
p. 76 r. 19
53 n. b
p. 76 r. 28
172 n. b
Glossa ordinaria -
202
19
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Guglielmo di Malmesbury Gesta regum Anglorum
Gregorio Magno Homiliae XL in evangelia (CC SL 141) VII, 2
107 n. a
VII, 3
111 n. b, 112 n. a, 142 n. a
XX, 2
141 n. a
XX, 5
148 n. a
II, 22
Isidoro Allegoriae quaedam sanctae scripturae (PL 83) 169
VI, 19, 75-79
173 n. b
Gregorio di Nazianzo Orazioni (SC 358) 38, 2
56 n. 1, 112-113 n. b
39, 15
143 n. b
40, 2
127 n. b
45, 24
125 n. c
12, 29, 137138 n. a, 174 n. d
I
78 n. 1
VI
133 n. b
XI
104 n. b
XVI, 177D180A
85 n. 2
XVI, 185A-D
119 n. a
XVI, 185D
84 n. b, 84 n. 1
XXI
VII, 4, 3-4
125 n. a
VII, 6, 40
125 n. a
VIII, 1, 6
114 n. b
XIII, 19, 3
141 n. e
-
74 n. a
III, 199, p. 27
83 n. d
III, 404, p. 34
83 n. d
203
26
VI, 408-517
73 n. 3
VI, 429-517
112 n. b
VI, 10671073
73 n. 3
XVI, p. 134
58 n. 2
XVII
35, 52 n. 6, 122 n. a
12, 33, 50 n. 4, 82 n. 2, 85 n. 2
III, 524-525, p. 37
VI
31, 137 n. a
XVI, 181B-C
140 n. b
Massimo il Confessore Ambigua ad Iohannem (CC SG 18)
Gregorio di Nissa De opificio hominis (PG 44) -
177 n. b
Etymologiae (ed. W. M. Lindsay, Oxford 1911)
Moralia in Iob (CC SL 143143B) XV, 14
7 n. 2
27, 28 n. 32, 82 n. a
XVII, 28-32, p. 137
79 n. b
XVII, 28-34
111 n. a
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
XVII, 53-94, p. 138139
78 n. 1
XVII, 55-85, p. 138139
82 n. b
XXI
64 n. a, 65 n. 2
XXVII
82 n. a
XXVII, 119, p. 162
83 n. d
XXXVII
85 n. 2
XXXVIII
127 n. b
XXIX
72 n. b
XLV, 1-11
111 n. a
XLIII LI LIII LIII, p. 233234 LXIII
LXVII
125 n. c
173 n. c, 174 n. b, 178 n. b, 179 n. d
160 n. c
XLI, 21-44
167 n. b
L, 100-107
146 n. a
LIII
95 n. a
IV, 396-403
95 n. a
14 n. 17
-
147 n. a
I
147 n. a
V, 8
126 n. b
Homiliae in Exodum
12, 82 n. 2
XLI
IV, 389-390
Commento alla lettera ai romani (PG 14)
176 n. d
75 n. a
9
Origene Commento al Cantico dei cantici (SC 375-376)
54 n. a
VIII
21, 116 n. b
-
56 n. 1, 57 n. 2
54 n. a
LXIV
Onorio di Autun Clavis physicae
34, 122 n. a
III, 23-24, p. 5455
89 n. c
-
Quaestiones ad Thalassium (CC SG 7, CC SG 22) -
LXIII
Marziano Capella De nuptiis Mercurii et Philologiae (ed. J. Willis, Leipzig 1983)
56 n. 1
XXXVIII
54 n. b, 54 n. 2
LXI, 272273, p. 100101
II, 1
165 n. b
XIII, 5
165 n. b
Homiliae in Genesim (GCS 29) I, 15
165 n. b
IV, 4
165 n. b
XII, 5 XVI, 6
82 n. b
204
174 n. c, 177 n. c 175 n. b
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Teeteto
Homiliae in Leviticum (SC 286-287) IV, 10
176A8-B2
177 n. c
Timeo
Sui princìpi (GCS 22) IV, 3, 1
45B-D
182 n. a
-
-
16
Prudenzio Peristephanon
102 n. a
Repubblica VI, 509B
9
Prisciano di Lidia Solutiones ad Chosroem regem
10 n. 1
Platone Parmenide 141D7-E10
61 n. 2
Prisciano di Cesarea Institutiones grammaticae
Pardulo di Laon Epistola ad ecclesiam Lugdunensem (PL 121) col. 1052A
21 n. 24
IX
102 n. a
205
7 n. 3
INDICE DEI NOMI
Alumnus: 15, 176 n. b Ambrogio di Milano: 24, 25, 102, 102 n. b, 103 n. a, 104 n. c, 113 n. b, 165 n. b, 166 n. b, 177 n. b, 181 n. a Anastasio Bibliotecario: 13 Andrea, apostolo: 174 Anselmo di Laon: 19 ariani: 62, 74 n. 1, 86 Ario, eresiarca: 63 n. 2 Asser: 16, 16 n. 2 autori greci: 10, 12, 19, 20, 143, 143 n. c Basilio di Cesarea: 12, 133 n. b Beda: 7, 62 n. b, 75 n. a, 107 n. a, 111 n. b, 112 n. a, 143 n. b, 159 n. c, 172 n. b, 177 n. e Boezio: 179 n. a Calcidio: 61 n. 2 Carlo il Calvo: 7, 9, 11, 12, 13, 16, 115 n. b Carlo Magno: 11 Cassiano: 7 n. 3 Cassiodoro: 173 n. a Clemente di Alessandria: 25 Damascio: 66 n. 3 Dante Alighieri: 32 David: 88, 159 Dionigi, personaggio degli Atti degli apostoli (17, 34): 11 Dionigi Areopagita, pseudo: 8, 10, 11, 20, 21, 25, 27, 31, 33 n. 37, 35,
Abele: 159 Abramo: 159, 167, 182, 183 Adamo: 118, 119, 119 n. a Agostino: 19, 24, 25, 29, 50 n. 1, 57 n. 2, 64 n. b, 64 n. 1, 68 n. a, 68 n. b, 68 n. c, 69 n. c, 70 n. 1, 83 n. d, 86 n. a, 86 n. 3, 87 n. b, 89 n. b, 93 n. a, 93 n. b, 94 n. b, 94 n. c, 94-95 n. c, 98 n. b, 99, 99 n. a, 101, 101 n. a, 101 n. b, 102 n. b, 103 n. e, 104 n. c, 106 n. b, 107, 107 n. b, 107 n. c, 107 n. d, 108 n. a, 116 n. a, 119 n. b, 123 n. a, 125, 125 n. b, 126, 126 n. a, 127 n. a, 128 n. a, 128 n. b, 130, 130 n. a, 131, 131 n. a, 131 n. b, 132 n. a, 133 n. a, 134 n. a, 135 n. a, 136 n. a, 136 n. b, 140 n. a, 140 n. b, 140 n. c, 141 n. d, 143, 143 n. a, 143 n. c, 143 n. d, 144 n. a, 147 n. a, 148 n. b, 152 n. a, 153 n. a, 155 n. a, 156 n. a, 158 n. b, 159 n. b, 159 n. c, 160 n. c, 162, 162 n. a, 163 n. a, 165 n. a, 165 n. b, 166 n. a, 167, 167 n. a, 167 n. c, 168 n. a, 170 n. a, 170 n. b, 171 n. a, 174 n. b, 175 n. a, 175 n. b, 176 n. a, 176 n. d, 177 n. d, 178 n. a, 178 n. c, 180, 180 n. b, 181, 181 n. a, 181 n. b Alcuino di York: 75 n. a, 107 n. a, 152 n. b, 158 n. b, 177 n. a, 177 n. e Alfredo di Wessex: 16
206
INDICE DEI NOMI
170, 169-170 n. b, 171, 172, 176, 177, 180, 182, 183 Giacobbe: 157, 158, 162, 163, 168, 169-170 n. b Giacomo: 146, 146 n. b Giovanni Battista: 22, 26, 37, 73 n. 3, 78, 79, 95, 96, 105, 105 n. a, 106, 106 n. b, 107, 108 n. b, 109, 109 n. b, 109 n. c, 110 n. a, 111, 111 n. a, 113, 114, 116, 117, 129 n. a, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147-148, 147 n. a, 148 n. b, 149, 148-149 n. b, 149 n. a, 150, 152, 155, 159 Giovanni Crisostomo: 12, 17 Giovanni, evangelista: 28, 28 n. 32, 34, 35, 36, 37, 38, 49, 50 n. 1, 52 n. 6, 53, 53 n. 6, 54, 54 n. 1, 55, 55 n. 2, 56, 57, 57 n. 2, 58, 58 n. a, 59 n. 2, 59 n. 4, 60, 61 n. 3, 63 n. 1, 73 n. 3, 74, 74 n. 2, 78, 79, 102, 108 n. b, 135, 171, 180 Giovanni Scoto Eriugena: 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 n. 17, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 35 n. 40, 36, 37, 40, 49, 49 n. b, 50 n. 5, 52 n. 6, 53 n. c, 54 n. 2, 56 n. 1, 57 n. 2, 58 n. 1, 59 n. 2, 59 n. 3, 59 n. 4, 60 n. a, 60 n. 1, 61 n. 2, 62 n. a, 63 n. 3, 64 n. 1, 65 n. a, 66 n. 3, 67 n. 5, 67 n. 7, 68 n. b, 68 n. c, 68 n. 2, 69 n. a, 69 n. b, 69 n. c, 70 n. 1, 70 n. 2, 71 n. 2, 71 n. 3, 71 n. a, 72 n. a, 73 n. 3, 74 n. a, 74 n. b, 74 n. 2, 75 n. a, 75 n. b, 76 n. 1, 76 n. 2, 77 n. 3, 77 n. 5, 78 n. 1, 79 n. b, 79 n. c, 80 n. b, 82 n. d, 84 n. a, 84 n. c, 84 n. 1, 85 n. 2, 85 n. 3, 86 n. a, 87 n. c, 88 n. a, 88 n. b, 88 n. 1, 89 n. a, 89 n. c, 90 n. b, 93 n. c, 94 n. c, 94-95 n. c, 95 n. a, 95 n. d, 96 n. b, 97 n. d, 98 n. c, 99 n. b, 100 n. b, 102 n. a, 103 n. b, 103 n. f, 104 n. b, 107 n. d, 108 n. b, 109 n. a, 112-113 n. b, 113 n. b, 115 n. b, 116 n. b, 118 n. c,
38 n. 44, 49 n. b, 50 n. 5, 51 n. 5, 52 n. 6, 53 n. c, 54 n. 2, 57 n. 2, 58 n. 1, 66 n. 3, 69 n. d, 70, 70 n. b, 70 n. 2, 76 n. 2, 77 n. 4, 86 n. 3, 90 n. a, 99, 99 n. b, 101, 102, 102 n. a, 103, 103 n. a, 103 n. d, 103 n. f, 115 n. a, 115 n. b, 129, 129 n. b, 137 n. a, 146 n. b, 149 n. a, 149 n. b, 157 n. a, 169 n. b, 172 n. a, 175 n. c Dionigi il Piccolo: 12 ebrei: 74 n. 1, 105 n. a, 164 n. a egiziani: 183 Elia, profeta: 105, 105 n. a, 106, 110 Eliseo, profeta: 110 Epifanio di Salamina: 12 Eva: 119 n. a Ezechiele, profeta: 50 n. 1 farisei: 109, 110, 110 n. a, 113, 125, 125 n. a, 155 Filippo, apostolo: 100, 169, 172, 172 n. b, 173, 174 Filone di Alessandria: 165 n. b Fulgenzio: 184-185 n. d gebusei: 141 gentili: 57, 160, 161, 164, 164 n. a, 157, 158, 171 Gesù Cristo: 15, 20, 22, 24, 26, 31, 37, 55, 55 n. 2, 56, 58 n. a, 64 n. 1, 66 n. 1, 72, 72 n. 1, 73 n. 3, 73 n. 4, 74 n. a, 80, 85 n. 3, 86, 86 n. 3, 87, 88, 89, 90, 94, 96, 97, 97 n. b, 98, 98 n. a, 98 n. c, 99, 100, 100 n. a, 103, 104 n. d, 105, 106, 109 n. b, 110, 111, 111 n. a, 111 n. b, 112, 112 n. b, 112-113 n. b, 114, 115, 116, 116 n. b, 117, 118, 120, 121, 122, 122 n. a, 123, 125, 126, 127, 128, 129 n. a, 130, 131, 132, 133 n. a, 133 n. b, 134 n. a, 135, 135 n. a, 136, 137, 138, 138 n. b, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 147 n. a, 148, 148 n. b, 149, 149 n. b, 150, 151, 151 n. c, 152, 153, 154 n. a, 155, 156, 156 n. a, 156 n. b, 157, 158, 159, 159 n. a, 159 n. b, 160, 160 n. c, 161, 162, 163, 164, 164-165, 165, 166, 169,
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INDICE DEI NOMI
Lazzaro, resuscitato da Gesù: 113 Luca, evangelista: 50 n. 1, 109, 180 Ludovico il Pio: 10, 11 Macrobio: 179 n. a manichei: 83 n. a Marco, evangelista: 50 n. 1, 180 Marziano Capella: 9, 95 n. a, 179 n. a Massimo il Confessore: 12, 20, 21, 25, 26, 27, 27 n. 31, 28, 30, 31, 32, 33, 34, 49 n. b, 50 n. 4, 53 n. c, 54 n. 2, 56 n. 1, 57 n. 2, 58 n. 2, 61 n. 2, 64 n. a, 65 n. 2, 66 n. 3, 70 n. a, 71 n. 3, 72 n. b, 73 n. 3, 74 n. a, 75 n. a, 76 n. 1, 76 n. 2, 78 n. 1, 79 n. b, 82 n. 2, 82 n. a, 82 n. b, 85 n. 2, 89 n. c, 90 n. a, 111, 111 n. a, 112 n. b, 112-113 n. b, 116 n. b, 121 n. a, 122 n. a, 125 n. c, 127 n. b, 146 n. a, 149 n. a, 160 n. b, 160 n. c, 167, 167 n. b, 173 n. c, 174 n. b, 176 n. c, 176 n. d, 178 n. b, 179 n. d Matteo, evangelista: 50 n. 1, 180 Melchisedec: 141 Messia: 170, 170 n. b Michele II il Balbuziente: 10 Mosè: 22, 23, 89, 98, 99, 101 n. a, 108, 135, 136, 161, 163, 167, 169-170 n. b, 174, 174 n. a, 176, 177, 181 Nicodemo: 24, 125, 126, 128, 129 n. a, 131, 132, 132 n. a, 133, 140 Noè: 159, 167 Nutritor: 15, 176 n. b Onorio di Autun: 14 n. 17 Origene: 12, 17, 25, 63, 64 n. 1, 113 n. b, 126 n. b, 147 n. a, 165 n. b, 174 n. c, 175 n. b, 177 n. c, 182 n. a Ornan il gebuseo: 159 Padri greci: 12, 62 n. 1, 104 n. a Paolo, apostolo: 11, 23, 24, 34, 35, 37, 37 n. 42, 55 n. 2, 57, 58 n. 2, 59 n. 2, 59 n. 4, 64 n. 1, 102, 110 Pardulo di Laon: 9 Pietro, apostolo: 34, 37, 53, 54, 54 n. 2, 55, 55 n. 2, 56, 57 n. 2, 59 n. 4, 74 n. 2 Platone: 21 n. 24, 61 n. 2 Prisciano di Cesarea: 9
119 n. a, 122 n. a, 123 n. a, 126 n. b, 127 n. b, 127 n. c, 128 n. a, 129 n. a, 131 n. b, 131 n. c, 131-132 n. c, 132 n. a, 133 n. b, 134 n. c, 135 n. a, 137 n. a, 138 n. b, 139 n. a, 140 n. a, 147 n. a, 149 n. b, 149-150 n. b, 151 n. c, 152 n. a, 154 n. a, 156 n. b, 158 n. a, 159 n. a, 160 n. a, 160 n. c, 161 n. a, 162 n. b, 164 n. a, 165 n. b, 169 n. a, 169 n. b, 169-170 n. b, 172 n. b, 174 n. b, 175 n. c, 176 n. b, 179 n. a, 179 n. b, 182 n. b, 183 n. a, 184-185 n. d giudei: 24, 86, 93, 105, 125, 132 n. a, 133, 140, 142, 144, 147, 148, 156, 157, 161, 162, 166, 168, 169 Giuseppe, figlio di Giacobbe: 157, 163 Girolamo di Stridone: 53, 113 n. a, 114 n. b, 141 n. b, 141 n. c, 141 n. f, 143 n. b, 157 n. a, 158 n. a, 172 n. b, 174 n. a, 174 n. b, 177 n. b Godescalco d’Orbais: 9, 10 greci: 65, 66, 78, 90 n. b, 109 Gregorio Magno: 107 n. a, 111 n. b, 112 n. a, 141 n. a, 142 n. a, 148 n. a, 173 n. b Gregorio di Nazianzo: 12, 18, 56 n. 1, 112-113 n. b, 125, 125 n. c, 127, 127 n. b, 143 n. b Gregorio di Nissa: 12, 25, 29, 31, 35, 36, 78 n. 1, 84 n. b, 84 n. 1, 85 n. 1, 85 n. 2, 104 n. b, 119 n. a, 122 n. a, 133 n. b, 137 n. a, 174 n. d Grimbald di Saint-Bertin: 16 Guglielmo di Malmesbury: 7, 7 n. 2, 16 Ilduino: 11 Incmaro di Reims: 9, 10 Isacco: 159 Isaia: 73, 102, 106, 109 Isidoro: 114 n. b, 125 n. a, 140 n. b, 141 n. e, 172 n. b, 177 n. b Israele, popolo di: 98, 107, 119, 125, 132, 157, 183 Israeliti: 183 Lazzaro, mendicante della parabola di Lc 16, 19-31: 182
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INDICE DEI NOMI
samaritani: 161, 162, 168 Simon Pietro, apostolo: 174 Valla, Lorenzo: 10 Wulfad: 13, 13 n. 16, 126 n. b Zaccaria, padre di Giovanni Battista: 106 Zorobabele: 159
Prisciano di Lidia: 16 Prudenzio: 7 n. 3 Prudenzio di Troyes: 9, 10 Rufino: 12, 147 n. a sadducei: 125 Salomone: 141 samaritana: 24, 160, 160 n. c, 161, 162 n. b, 163, 164, 167, 168, 169-170 n. b, 171
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INDICE DEI LUOGHI
Inghilterra: 7 Irlanda: 8 Laon: 9, 19 Mar Morto: 141 n. e Mar Rosso: 183, 183 n. a Parigi: 11 Quierzy: 9 Saint-Denis, abbazia di Parigi: 11 Salim: 140, 141 Samaria: 156, 157, 160, 162 Sicar: 24, 157, 158, 158 n. a Sichem: 158, 158 n. a Sinai: 169-170 n. b Valenza: 10
ΑΙΝΩΝ (ainon): 140, 141 Areopago: 11 Atene: 8, 11 Betania: 113, 113 n. a, 113 n. b, 114, 115 Eden: 113 n. b Galilea: 155, 156, 157, 157 n. a Gallia: 8, 8 n. 6, 9 Gebusalem: 141 Gerusalemme: 88, 105, 113, 114, 114 n. b, 115, 126, 140, 141, 162, 168, 169 Giordano, fiume: 110, 113, 115, 116, 117, 140, 141, 144, 146 Giudea: 107, 107 n. b, 113, 114, 114 n. a, 140, 140 n. a, 144, 147, 148, 155, 156, 156 n. a, 157, 168
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