Georges Bataille. Etica dell'incompiutezza 9788884833648


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Georges Bataille. Etica dell'incompiutezza
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B A B E Le parole della Filosofia Collana diretta da Patrizia Cipolletta, Chiara Di Marco, Claudia Dovolich

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CHIARA DI MARCO

GEORGES BATAILLE Etica dell’incompiutezza

MIMESIS Saggi di filosofia, religione e società

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Questo volume è stato realizzato con il contributo del MIUR su fondi Cofin dell’Università degli Studi di Roma Tre.

© 2005 – Associazione Culturale Mimesis Redazione: Via Mario Pichi 3 – 20143 Milano telefax +39 02 89403935 Per urgenze: +39 347 4254976. E-mail: [email protected] Catalogo e sito Internet: www.mimesisedizioni.it Tutti i diritti riservati.

In copertina: Matisse, Icaro, 1947

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INDICE

INTRODUZIONE Se derober. Pensare (con) Bataille I.

IL DOPPIO VOLTO DI PROMETEO 1. Homo œconomicus-consumans 2. Dépense. Sovranità 3. Sacro e dispendio 4. Sovranità-Acéphale. Il movimento tragico dell’esistenza

p.

7

p. p. p. p.

13 19 42 49

p. 63

II. “JE NE SUIS RIEN. JE NE SAIS QUOI” 1. Al gioco si sostituisce il progetto 2. Le “zone d’ombra” della vita 3. Messa in atto e messa in questione. Colpevolezza e dispendio 4. Volontà di Chance

p. 75 p. 82 p. 99

III. LA TALPA E L’AQUILA 1. Verso l’esperienza del Collège 2. La sociologia sacra 3. “Essere-insieme”. Rivoluzione e comunicazione 4. Sovranità: l’esperienza interiore

p. 137 p. 143 p. 152 p. 162 p. 184

IV. FUORI CAMPO L’amicizia dell’uomo per l’uomo

p. 191

BIBLIOGRAFIA

p. 195

p. 112 p. 124

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Introduzione

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SE DEROBER. PENSARE (CON) BATAILLE

Una filosofia non è mai una casa, è un cantiere. La sua incompiutezza tuttavia non è quella della scienza. La scienza elabora una molteplicità di punti compiuti e solo nel suo insieme presenta dei vuoti. Mentre nel tentativo di coesione l’incompiutezza non si limita alle lacune del pensiero, è su tutti i punti, è su ciascun punto che si manifesta l’impossibilità dell’assetto definitivo. G. Bataille, Teoria della religione

Pensare Bataille. Leggerlo e raccontarlo sapendo di tradirne la “verità”, ma non per questo chiuderlo in finalità teoretiche/accademiche o asservirlo a pratiche ideologiche o politiche. Scrivere di/con Bataille rispettando la paradossalità di un’esistenza che ha sempre lottato per sottrarsi alla subordinazione ad un sistema; seguirlo nel flusso dionisiaco di un pensare e di una scrittura che sfuggono alla sistematicità riflessiva, ad una “servitù dogmatica” a cui neanche l’esperienza mistica, nella nostalgia per l’unità, sembra poter resistere. Seguirlo nell’onda di un’eccedenza che trascina il sapere verso un non-sapere che non si lascia svolgere, perché ogni volta coinvolge appassionando il lettore con la forza di parole sensibili, termini indefinibili, eppure paradigmatici, che in un continuo slittamento semantico eliminano ogni referenza possibile in un linguaggio che contesta/decostruisce, nel suo movimento, ogni certezza – quelle del Senso, dell’Io, di Dio e del mondo – per mostrare la assoluta non necessità del paradigma logocentrico e paterno che ha fin qui diretto il pensiero occidentale. Leggere e raccontare Bataille significa lasciarsi prendere dal libero gioco della moltiplicazione e dell’intreccio di stili che nel loro movimento decostruiscono senso e identità dislocandoli negli innumerevoli passaggi di quel labirinto dell’esistenza che, come una sorta di antilibro apre, ad ogni paragrafo e ad ogni capoverso, un mondo nuovo, un percorso che non risponde a nessun inizio tracciato; sentieri che si inoltrano nella concretezza dell’essere, nella trama rischiosa e incerta di una vita esposta all’ineludibilità di una contingenza che non ci libera però dalla necessità di vivere e agire responsabilmente. Lo stesso complesso intreccio biografico-intellettuale che annoda la sua vita e il suo pensiero rende evidente la coerente contraddittorietà di una vita animata, nella sua singolare solitudine/indipendenza, dalla necessità di sperimentare relazioni e legami agli altri liberi dal giogo del potere, dal desiderio di esperienze collettive che occupano un lungo e ininterrotto periodo della

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sua vita. Quegli anni trenta che vedono la “formulazione” dei punti focali della sua riflessione – il delinearsi di un particolare sentire etico-politico –, dalla nozione di dépense alla messa in discussione, attraverso l’incontro con i pensieri di Hegel, Nietzsche e Marx, di tutte quelle forme di legame sociale – nazismo, fascismo e comunismo – che subordinando la vita al fare hanno posto tra parentesi la parte maledetta, inutilizzabile, incalcolabile della vita degli esseri; quell’alterità che ci abita e ci segna ed in cui si apre lo spazio di una comunicazione sovrana, maggiore, la possibilità di un legame “impossibile” che traccia il clinamen etico necessario ad ogni concreta relazione sociale e politica. Dalla fondazione della rivista Documents, che diresse dal 1929 al 1939, dove, con Michel Leiris, André Masson e Alfred Metreaux, intraprende una serrata battaglia antiidealistica – che delinea la forma di una politica della vita che, nel reale e nella storia, rivendica i diritti di tutto ciò che è dal lato della miseria e dell’oppressione, l’esigenza per Bataille di un basso materialismo che non potrà prendere parola fino a che l’agire umano sarà regolato da un’autorità imperativa che fa dell’altezza la maschera della sua ingenerosa violenza – all’adesione al Cercle communiste démocratique diretto da Boris Souavarine, il cui marxismo non ortodosso costituì lo specchio critico, attraverso Critique sociale, per la messa in discussione di ogni forma di totalitarismo che trova il suo nucleo generativo nell’ipertrofia di uno Stato che si fa “rappresentazione ontologica della comunità umana”, la prova dei legami si traduce però per Bataille nell’esperienza di uno scacco continuamente e necessariamente riproposto. Il fermento rivoluzionario, l’esigenza di un basso materialismo e il diritto di un’eterogeneità che non si facesse, come il fascismo, forza imperativa, lo portano ad allontanarsi dal circolo “troppo organizzato” di Souavarine per dar vita al gruppo di Contre-Attaque, un vero e proprio spazio di “insurrezione del pensiero”, il tentativo di produrre una “politique dans la rue” dove protagonisti fossero non più i politici di mestiere, ma la passione violenta della gente di strada. Un movimento popolare, un “océan d’hommes”, capace di sfidare la cieca forza del fascismo e del capitalismo. L’apertura di uno squarcio di politica viva, una ferita nella prassi tradizionale che però ben presto, con la vittoria del Fronte popolare, si richiuse rimandando l’azione politica a quello stesso parlamentarismo contro cui il gruppo aveva lottato. Nel 1936 Contre-Attaque termina la sua attività e la prova dei legami si espone, nella passione di Nietzsche, all’esperienza estrema e radicale di Acéphale: rivista-luogo di una parola e di una prassi che rompono l’incomunicabilità di un discorso chiuso nel suo ordine, spazio per un pensare altro, ma anche società segreta, nucleo di esperienza, luogo di con-divisione, partage aneconomico, di un modo diverso d’esistere che nella figura dell’acefalo è indice della necessità, per un cambiamento nel reale, di una conversione radicale del cammino umano. Segno di una necessità, sempre meno derogabile, di dover compiere un passo indietro nel percorso tracciato da una razionalità calcolan-

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te, che non è espressione della “nostalgia di un mondo perduto” – il sentimento dei vigliacchi, dice Bataille, di chi non sa e non vuole combattere – né l’abbandono o la negazione del valore della civiltà, ma l’audacia nietzscheana che, per le figure che compone, vuole una potenza che non si inchini davanti a nulla – che tende ad abbattere l’edificio di proibizione morale della vecchia sovranità –. Il meraviglioso KINDERLAND nietzscheano non è altro che il luogo in cui la sfida portata al VATERLAND da ogni uomo prende un senso che è sempre una impotente negazione. Solo dopo Zarathustra, noi possiamo ‘RIPARARE NEI NOSTRI FIGLI DI ESSERE IL FIGLIO DEI MIEI PADRI’1.

Un’affermazione forte dell’indipendenza dell’esistenza, di un modo di essere libero che non si lascia chiudere/asservire in nessuna “funzione”: all’autorità di un Dio trascendente, di una morale del dovere e di una politica del dominio. Il soggetto acefalo, la comunità acefala e assente, indicano allora verso un radicale trascendimento di qualsiasi identificazione-attualizzazione che non sia quella di un ineludibile sostare nella decisione di un’esperienza di sé che è esposizione al rischio stesso dell’esistere, alla pluralità singolare del mondo, nella necessità e nella contingenza di una vita trapassata, segnata da parte a parte dalla finitezza e dalla temporalità. Ed è proprio in quest’ottica, quella di un principio di insufficienza che segna e guida la possibilità dell’essere in una tensione agli altri non più modulata – come sottolinea Blanchot – sul ritmo di un hegeliano riconoscimento/affermazione di sé, ma nel rumore “catastrofico” di una radicale contestazione di un soggetto che si vuole individuum certo e separato che, a mio avviso, possiamo parlare, con Bataille, della posizione di una forma di pensiero e di un modo di esistenza declinati negli incerti caratteri di un’etica dell’incompiutezza. Etica che segna, in modo singolare, il tracciato del cosiddetto postmoderno, anticipando l’operazione decostruttiva dei pensatori della differenza nella dichiarata urgenza di aprire i limiti della figura hegeliana della servitù, i contorni di un’economia ristretta disegnata da una ragione utilitaria che ha costruito forme di società e legami sociali che eludono lo “spirito del dono” – che è puro abbandono, generosità senza capitalizzazione possibile – bloccando così il pensiero/vita dal lato di quella radice epistemica, monocefala, che ha univocamente indirizzato il viaggio/Odissea dell’Occidente. È così che lungi dal riservare la parte del gioco, un ‘mondo filosofico’ che si prende sempre più sul serio e che combatte ogni valore estraneo alla ragione, ha impegnato il pen1

G. Bataille, “Cronaca nietzscheana”, in Id, La congiura sacra, trad. it. (a cura di M. Galletti), Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 77-90, p. 83. Ed è questo «l’unico modo di riconoscere quella comunità che la terra si ostina ancora a nascondere nella chiusura dei suoi confini: ritornare al grande mare che la circonda – e la attraversa – come la sua verità morale», R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. 121.

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siero, e con esso l’azione, nel vicolo cieco in cui si trova l’umanità odierna […] ma […] il pensiero fondato dal lavoro e dalla coazione è fallito; è tempo che, dopo aver ceduto al lavoro e all’utile la parte mostruosa che sappiamo fin troppo bene, il pensiero libero ricordi infine che, nel profondo, è un gioco (un gioco tragico), e che l’umanità intera essendo come lui un gioco, dimenticandolo ci ha guadagnato solo i lavori forzati di innumerevoli moribondi, di innumerevoli soldati2.

Uscendo da quella dimensione di meraviglia, di domanda senza risposta, di perenne problematizzazione che ha segnato l’atto stesso della sua nascita, la filosofia è entrata nell’orizzonte di una storia che ne ha fatto una disciplina con le sue determinazioni e la sua capacità determinante. Un’identità ed un potere che hanno però atrofizzato il pensiero chiudendolo nel cerchio di un sapere che de-finendo, finisce la vita. «Je n’aboutis jamais»: così il pensatore della sovranità risponde alle obiezioni di Sartre circa l’inutilizzabilità dell’esperienza interiore – questa modalità per eccellenza dell’essere che non si può mediare in nessuna prassi conoscitiva, che rifiuta l’architettura del linguaggio discorsivo e il privilegio di una coscienza chiara e distinta – a sottolineare, nella paradossale esigenza per il pensiero di attraversare/fuoriuscire dal sistema, il senso di una relazione empatica col mondo. Un “farsi mondo” che segna, nella fuoriuscita del soggetto da sé, nel sacrificio della propria identità, il movimento di una comunicazione comuniale che, in contrasto con la forma a-propriante, logocentrica, monocefala del pensiero rappresentativo, incontra l’altro nella sua irriducibile differenza, ritrovando quel continuum dell’essere interrotto da una volontà di conoscenza che nel segno del principium individuationis ha affermato la solitudine/discontinuità di una vita ordinata, misurata, riconosciuta, compiuta. Trovare se stessi in quanto incompiuti, lacerati nella propria ineludibile finitezza, trovarsi nell’altro, un altro che come me è lacerato e finito, significa vivere la necessità del sacrificio di sé, l’impossibilità effettuale – storica e discorsiva – della sovranità/comunità, come prassi etica e politica capace di farci tessere relazioni di amicizia; significa pensare una fraternità senza legami di sangue, dice Bataille, possibile nella realtà policefala o acefala di una vita liberata dall’utile, quella di un pensiero che si mette di nuovo a pensare e di una filosofia capace di dire, senza ergersi a Metadiscorso, il movimento incandescente delle idee che emergono in ogni campo. Torna, allora, in maniera forte l’enfasi posta negli anni sessanta sul dionisismo nietzscheano da quella “nuvola bizzarra” nel cielo terso dell’accademia filosofica che è stato ed è, come anche Bataille, Gilles Deleuze: sulla necessità per noi di imparare come Dioniso ad amare/ascoltare Arianna, l’anima, la potenza trasformatrice che ci abita e la cui voce può condurci – ma non trarci fuori –

2

G. Bataille, “Siamo qui per giocare o per fare sul serio?”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio e altri saggi, Guida, Napoli 2000, pp. 327-351, pp. 350-351.

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lungo i mille sentieri del labirinto dell’esistenza. Arianna conserva in sé il mistero della sua origine ed ha saputo conquistare le piccole orecchie di Dioniso – «l’orecchio tondo propizio per l’Eterno ritorno» – che afferma la vita oltre le pratiche rassicuranti della conoscenza e della morale, oltre la morte di Dio, oltre la reattività di un nichilismo che rifiuta l’inquietudine di un pensiero immotivato, quella passione del pensiero che ha fatto ammalare Zarathustra il sacerdote-poeta che non perse mai il filo di Arianna che è il non avere alcun fine e non servire alcuna causa: la causa, egli lo sapeva, tarpa le ali […]. La comprensione alla quale invito intrappola decisamente nella stessa mancanza di via d’uscita: essa presuppone lo stesso supplizio entusiasta. Immagino necessario in questo senso invertire l’idea di eterno ritorno. Non è la promessa di infinite ripetizioni quella che lacera, ma questo: gli istanti afferrati nell’immanenza appaiono improvvisamente come scopi. Non si dimentichi che gli istanti sono, da tutti i sistemi, considerati e assegnati come mezzi: ogni morale dice: ‘ciascun istante della vostra vita sia motivato’. Il ritorno toglie il motivo all’istante, libera la vita dai fini e con questo la rovina. Il ritorno è il modo drammatico e la maschera dell’uomo totale: è il deserto per il quale ogni istante si trova ormai immotivato. È inutile cercare una scappatoia3.

Deserto e lacerazione, rottura dei legami identificanti e apertura/sacrificio di sé, questa è l’esistenza – il labirinto, «l’eterno ritorno che si dice di ciò che è attivo e affermativo» –, questo il senso di un essere-in-comune tra gli uomini irrappresentabile, l’esposizione del fallimento di una forma di pensiero e di un modo d’esistenza che hanno fatto del progetto, del lavoro e della riproduzione la loro unica misura. Per questo contro una visione economica del soggetto e della vita, contro la prassi utilitaristica di un fare che governa ormai tutto il nostro essere, contro una vita stanca di sé dovremmo, forse, con Bataille saper ritrovare un punto di spreco, uno spazio di inutilità, di non-senso, l’emozione di un non-sapere che aveva colto lo stesso Platone in quella passione per la musica che sapeva arginare la paranoia di un mondo dialetticamente definito nella relazione intrinseca ad un Modello, ad un fondamento assoluto. I beni più grandi, si dice nel Fedro, ci vengono dalla “follia”, da quel luogo delle forti insensatezze che da troppo tempo parla a un occidente che non ha orecchie per ascoltare: tendiamo le orecchie ad Arianna, risvegliamo quella saggezza della follia profetica nella forma di una razionalità ragionevole capace di arginare e correggere la folle corsa della macchina della modernizzazione, quella di una razionalità, come osserva Serge Latouche, che diventa «irragionevole quando pretende d’imporsi come norma economica e sociale». Rischiamo la follia tragica di Dioniso. Assumiamo il peso della miseria che bussa al cuore di una civiltà stretta nei calcoli di un’economia di mercato

3

G. Bataille, Sur Nietzsche, volonté de chance, Gallimard, Paris 1945, trad. it., Su Nietzsche, SE, Milano 1994, pp. 29-30.

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che ordina la vita all’utile; diamo spazio agli affetti, ai linguaggi e ai discorsi minori, ad uno spirito del dono che non impone debito, che come il sole prodiga luce al globo terrestre per niente, contestando la prudenza troppo umana di relazioni costruite e calcolate che, sempre di più, risolvono nella miseria di un’uguaglianza di diritto quell’ineguaglianza «ignota e tale che non li subordina gli uni agli altri» che è il “segreto” stesso della comunità. Affermiamo allora l’urgenza di un nomadismo del pensiero per ritrovare l’anima, i sensi, i simboli, la vita stessa, quell’amicizia, come dice Aristotele, che se è presente tra gli uomini esclude ogni ricorso alla giustizia4. Amicizia che ama senza pretendere amore, che risponde senza domandare nella pienezza d’essere che è la libertà di un desiderare che non ha oggetto, tempo o luogo; una relazione senza relazione – come dice Lévinas – che è segno di un legame non amministrabile che unisce solo in quanto distanzia. Che riceve solo in quanto accoglie. Lasciamo parlare Arianna. Essa, come ci ha insegnato Spinoza, è col corpo, è il limite di Teseo, la ragione dietro la cui maschera brilla il sorriso creatore di Dioniso, il dio dell’attimo la cui danza stellare comunica vita al pensiero perché solo finché il pensiero è libero, dunque vitale, nulla è compromesso, quando cessa d’esistere, tutte le oppressioni sono allora possibili, e già effettive, poco importa quale azione sia colpevole, l’intera vita è minacciata5.

4 5

Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, 1156a 26-27. G. Deleuze, Spinoza, philosophie pratique, Minuit, Paris 1970, trad. it., Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 12.

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IL DOPPIO VOLTO DI PROMETEO

Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca. Georges Bataille, Il limite dell’utile

In Dialettica dell’Illuminismo Horkheimer e Adorno rilevano – “definendo” prima il concetto di illuminismo e “leggendo” poi il racconto omerico del viaggio di Ulisse – il nesso tra mito-dominio e lavoro cogliendo, già nel mito, nella sua essenza di racconto volto a nominare, definire, spiegare l’origine, la presenza di quella volontà di razionalizzazione tipica dell’illuminismo che come forma «di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni»1; una presenza che è andata rafforzandosi nel trapasso del racconto di cose accadute nella precisione di un logos in cui si raccolgono tutte le differenze. Platone, per suo conto, nel Protagora “accoglie”, proprio per le sue istanze razionalistiche, il mito di Prometeo che, nelle parole del sofista Protagora, diventa – come ha osservato Untersteiner – «la forma esterna del pensiero»2, l’espressione più “confortevole” di una ratio che maschera nel racconto la sua potenza teoretica: 1

2

M. Horkheimer-Th. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Social Studies Ass., New York 1944, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. «Come la storia delle Sirene adombra il nesso inestricabile di mito e lavoro, così l’Odissea, nel suo complesso, testimonia della dialettica dell’illuminismo. Il poema si dimostra, specie nel suo strato più arcaico, legato al mito: le avventure derivano dalla tradizione popolare. Ma lo spirito omerico, che s’impadronisce dei miti e li ‘organizza’, entra in contraddizione con essi» e nelle peripezie di Odisseo possiamo rintracciare «il prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazionedi-sé di cui l’eroe pellegrino fornisce il modello preistorico», ivi, p. 51. Cfr. inoltre Th. Adorno, Interpretazione dell’Odissea. Con un dialogo sul mito tra Adorno e K. Ker´enyi, a cura di S. Petrucciani, manifestolibri, Roma 2000. M. Untersteiner, I sofisti, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 85-92.

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ci fu un tempo in cui esistevano gli Dei ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione, nell’interno della terra gli Dei le plasmarono, facendo una mescolanza di terra e fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col fuoco e con la terra. E quando si trovarono nel momento di farle venire alla luce, affidarono a Prometeo il compito di distribuire le facoltà a ciascuna razza in modo conveniente3.

Ma Epimeteo, l’imprevidente (ejpi-mhqeuvı), distribuì agli animali tutte le capacità e quando venne creato l’uomo questi rimase spoglio/nudo e privo di tutto. Fu così che il previdente Prometeo (pro-mhqeuvı) rubò «ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica», quell’e[ntecnoı sofiva che – come evidenzia Untersteiner – «vale come il mezzo con cui l’uomo singolo provoca la conoscibilità dei possibili modi di sfruttare il mondo circostante»4, la capacità cioè di conservare la vita. Ma la “sapienza politica”(thvn politikhvn sofivan), l’arte che gli avrebbe permesso di estendere il dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sul mondo, era ancora presso gli dèi, guardata a vista dalle terribili guardie di Zeus che, atterrito di fronte alla violenza dell’uomo, donò loro equamente rispetto (ai{soı) e giustizia per ordinare le città e far nascere legami di solidarietà giustificando così, sul piano antropologico, l’essere dell’uomo come animale politico, come indica Aristotele. Mentre nel racconto mitico proposto da Eschilo in primo piano viene la tragica sorte che tocca a Prometeo – il cui nome però contiene la mhvtiı che è astuzia, misura prima ancora di significare la saggezza, frovnhsiı, una ragionevolezza fortemente femminile che diversamente dal razionale si nutre della rivalità e del conflitto maschile (ajgwvn) – incatenato per aver rubato agli dèi la sapienza tecnica, quasi a presagire andersianamente5 le conseguenze negative di un cattivo uso di tale dono, nel racconto protagoreo è in evidenza una sorta di ottimismo illuministico, una fiducia nelle capacità della ragione che, se rinunciando alla ragionevolezza ha provocato la divinità, porta ancora in sé la capacità di riscoprire una tensione verso il bene: «Ermes, messaggero di Zeus, ti ha invitato a rinunciare all’autonomia, per ricercare la saggezza del retto consiglio»6. Così dice Eschilo che vede nella capacità di coniugare autonomia (aujqavdeia) e retto consiglio (sofhvn eujbouliva) la possibilità della libertà dell’uomo. La possibilità propria di una ragione ragionevole che è però sempre minacciata dalla sua stessa tracotanza, una u{briı che è una sfida a Zeus, la tentazione di una contaminazione tecnocratica del fare che svela un “cedimento” alla razionalità che allontanando l’etica dalla politica ha aperto il regno dell’utilitarismo. Un percorso tragico che palesa il suo movimento 3 4 5 6

Platone, Protagora, 320 d. M. Untersteiner, I sofisti, cit., p. 90. Cfr. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, C. H. Bech, München 1980, 2 voll., trad. it., L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1992. Eschilo, Prometeo incatenato, 1036-1038.

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nell’avvio di quel processo di emancipazione dalle forze mitico-magiche, attraverso la conoscenza razionale, la cui luce illumina però una terra che ormai «splende all’insegna di trionfale sventura»7. Per questo quello di Prometeo è il volto apollineo, razionale, maschio, etnocentrico dell’Occidente, il simbolo di un agire astuto che, separando, col sacrificio e col furto, gli uomini dagli dèi ne rimarca la differenza innescando nei primi, attraverso il dono del fuoco, il desiderio di farsi simili ai secondi, facendo loro scoprire in se stessi tale possibilità: «la somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando». È così che «il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività»8. È così che il dono si trasforma in inganno (dovlon) – Zeus invierà agli uomini Pandora, il “bel male”, che disperderà dolore e sofferenza –, le risorse che il dio preveggente offre agli uomini portano in loro «anche le catene dalle quali Prometeo non riesce a liberarsi». Perché nessuna liberazione, come ci ha insegnato Kant, è mai vera emancipazione se non è sostenuta dalla capacità di far buon uso della ragione, di orientare mezzi e scopi nella dimensione umana di una vita buona in una società giusta: il sapere tecnico segna l’atto fondativo dell’umanità, la sua emancipazione dalla condizione animale e dalla sudditanza al dio, ma anche la sua condanna. Perché questa ambivalenza? Perché il furto delle ‘grandi risorse (mégas póros) necessarie per vivere (bíos) è una colpa (hamartía) di cui Prometeo è costretto a ‘pagare il fio inchiodato con catene a cielo aperto’? Perché ciò che libera è anche ciò che incatena?9

Perché il desiderio di autonomia si è trasformato/tradotto in tracotanza? Il “peccato originale” di Prometeo, possiamo dire, è quello stesso di un’umanità che abbandonati gli dèi si crede potente nel suo sapere, un conoscere che l’ha resa indifferente ad ogni attenzione etica, incapace di quella cura di sé e del mondo che prima era affidata alla provvidenza divina, a quella tecnica regia/politica per la quale l’agire e il fare avevano la loro comune misura nella natura, ed è per questo che la grande colpa (examartía) di Prometeo non è tanto nell’aver rubato agli dèi ‘il fuoco da cui scaturiscono tutte le tecniche (pantéchnou pyròs)’, ma nell’aver

7 8 9

M. Horkeimer-Th. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 11. Ivi, p. 17. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999, pp. 255-256. Cfr. l’analisi condotta da M. Mauss sulla doppia circolazione semantica veicolata nel termine dono inteso come “regalo”, ma anche come “veleno”, come ciò che, al pari del sacrificio, dà e toglie la vita. M. Mauss, “Gift, gift”, in Aa.Vv., Mélanges offerts à Charles Andler par ses amis et élèves, Istra, Strasbourg 1924, pp. 243-247, anche in Id., Œuvres, Minuit, Paris 1969, tomo III, pp. 46-51, trad. it., in M. Granet-M. Mauss, Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975.

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ipotizzato l’autosufficienza (authadía) di queste tecniche per la conduzione della vita umana10.

In quest’ottica la conoscenza diviene sempre più indice di un fare che violenta, usa e domina la vita, un pensare che dimentica l’essenziale relazione che lega ejpisthvmh e poivhsiı, scienza e arte, produzione e creazione, riflessione e pensiero, orientando così l’agire nell’ottica di un fare volto esclusivamente all’utile. Una forma di esistenza regolata univocamente sul principium individuationis i cui paradigmi sono quelli dell’egoismo e dell’isolamento, un’avidità di essere che blocca, sfalda il movimento/continuum dell’esistenza interrompendo il flusso di quella comunicazione-fusione di elementi che è la vita. Movimento incessante contro cui la riflessione rigorosa di un cogito che «lega l’io al pensiero come suo nocciolo irriducibile» ha eretto barriere sempre più alte, una prigione, un limite ci dice Georges Bataille che se è necessario all’esistenza, va vissuto in quanto tale, quindi trasgredito; per questo dobbiamo imparare che non esiste solo la «possibilità di confinarsi nell’isolamento», ma anche quella di «evadere da tale prigione». Infatti da un lato l’uomo vede ciò che fonda, ciò senza di cui nulla sarebbe: un’esistenza privata, egoista e vacua. Dall’altro, un mondo il cui splendore proviene da elementi che comunicano tra loro come le fiamme di un focolare o le onde del mare. Nel proprio intimo, una coscienza immobile resta acquattata: fuori si agitano i movimenti ciechi e l’eccesso della vita,

una tensione irrisolvibile che lo lacera perché non può rinunciare alla propria esistenza isolata; né all’esuberanza di un mondo che si fa beffe di questa esistenza e si accinge ad annientarla. Tra il minuscolo recinto e lo spazio libero si svolge un conflitto quotidiano; e innanzi tutto tra sé e 10

U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., p. 256. Per un primo orientamento nel tema cfr. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Akademische Verlagsellschaft Athenaion, Wiesbaden 1978, prima ed., 1940, anche in Id., Gesamtausgabe, Band 3, Klostermann, Frankfurt am Main 1993, trad. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983; H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Verlag, Frankfurt am Main 1979, trad. it., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990. Intorno al mito di Prometeo ruota l’interessante saggio di R. Trabucchi, Prometeo e la sopravvivenza dell’uomo. Tecnica e prassi per il terzo millennio, Angeli, Milano 1998 dove l’A., ponendo a confronto la figura di Prometeo con quelle di Epimeteo e di Atlante, ed intrecciandole con quelle di Ulisse e Pandora evidenza, attraverso l’analisi di alcuni dei problemi che minacciano oggi la nostra sussistenza, e quella del nostro pianeta, la necessità di ripensare il senso di una tecnoscienza che non riusciamo più a controllare, senza per questo cadere nell’opposto versante di un’utopia ecologista che non può abolire il dato di fatto di un progresso ormai acquisito. Cfr. inoltre, M. Cacciari-M. Donà, Arte, tragedia, tecnica, Cortina, Milano 2000; G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgamesch. Figure del mito, Cortina, Milano 2004; P. Bevilacqua, Prometeo e l’aquila, Donzelli, Roma 2005.

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gli altri uomini, tra l’avarizia e la generosità. Ma per andare dal dentro al fuori bisogna superare lo stretto passaggio il cui nome è Angoscia11,

la sofferenza che necessariamente ci accompagna nel seguire il flusso di desiderio che siamo, nell’accordare il passo alla volontà di fuoriuscire, sempre e di nuovo, da sé, di andare oltre la serietà di un’ontologia metafisica che rispettando l’Essere ha ridotto l’esistenza nei falsi limiti dell’utile, del razionale, del doveroso, trascurando la fecondità di quella dimensione del non-utile e del ragionevole che, oltre la falsa autonomia “avara” fondata sulla stabilità e sulla violenza nei confronti degli altri, è segno di libertà sovrana, di un’autonomia “generosa”, libera di dare, libera di perdersi. In questo contesto anche il mito, “ritualmente vissuto”, osserva Bataille, – il mito in quanto luogo, spazio scenico del venire-divenire del mondo al mondo – svela l’essere nella sua nudità, nel gioco interminabile e indeterminabile della fantasia che “compone la vita” e che, in quanto tale, sfugge all’occhio teoretico. Perché il mito non è soltanto la figura divina del destino e il mondo dove questa figura si muove; esso è inscindibile dalla comunità cui appartiene e che, ritualmente, prende possesso del suo dominio. Sarebbe una finzione se l’intesa che un popolo manifesta nel tumulto delle feste non facesse di esso una realtà umana vitale. Forse il mito non è altro che una favola, ma, se si guarda il popolo che la danza, che la inscena, e della quale essa è la verità vivente, questa favola è l’opposto della finzione12,

è l’espressione di un modo d’essere sensibile che è nello stesso tempo il fuoco vivo di una vita e di una conoscenza lacerate, incompiute. In quanto espressione della totalità dell’esistenza il mito – che sarà, insieme al tema del sacro, al centro di molte analisi del Collège de Sociologie – è la vita stessa della comunità in cui è sorto, qualcosa per noi da ereditare, un senso della vita, un inter-esse, da custodire come un impegno da perseguire che mette in discussione tutti i falsi miti costruiti o recuperati per servire una volontà di potenza che opera crimini contro l’umanità. È il pensiero del mito, il pensiero stesso della comunità, dirà Bataille nei suoi interventi al Collège, che dobbiamo riattivare, quel sacro, «morto per troppa elevazione di spirito», che è il senso di un legame che è paradossalmente, nello stesso tempo, immanente 11 12

G. Bataille, La limite de l’utile (fragments), Gallimard, Paris 1976, trad. it., Il limite dell’utile, Adelphi, Milano 2000, pp. 141-142. G. Bataille, “L’apprenti sorcier”, in Nouvelle Revue Française, 298, Jullet 1938, pp. 4-21, anche in D. Hollier (cur.), Le Collège de Sociologie (1937-1939), Gallimard, Paris 1979, trad. it., a cura di M. Galletti, il Collegio di Sociologia (1937-1939), Bollati Boringhieri, Torino 1991. Il saggio è tradotto anche in G. Bataille, Il labirinto, SE, Milano 2003, pp. 53-75. La citazione è ripresa dall’edizione curata da M. Galletti, p. 29. Cfr. a questo proposito R. Caillois, Le mythe et l’homme, Gallimard, Paris 1938, trad. it., L’uomo e il mito, Bollati Boringhieri, Torino 1998; J.-Luc Nancy, La communauté désœuvrée, Christian Bourgois Editeur, Paris 1986 e 1990, trad. it., La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1992 e 1995, in particolare la seconda parte intitolata “Il mito interrotto”.

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ma trascendente per la sua inappropriabilità. Il mito/sacro sarà allora la “risposta” di Bataille al fascismo, essendo l’unica forza contagiosa in grado di mobilitare le coscienze con l’urgenza istintiva e passionale che il razionalismo moderno ha censurato ed escluso dalla sfera pubblica13.

Si tratta però di un mito che, come il soggetto, è aperto, lacerato nella sua compattezza fondante, disidentificato, un mito che interrotto nella sua capacità operativa è restituito a quella dimensione impolitica che è emblematicamente rappresentata per Bataille dalla filosofia affermativa di Nietzsche, in quel canto di Dioniso che invita Arianna ad essere saggia: «hai piccole orecchie, hai le mie orecchie: metti là una saggia parola! Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare?». E Arianna dovrà abbandonare Teseo – l’eroe modello della ragione metafisica, di quel soggetto forte che nella sua storia ha voluto chiudere fuori di sé quell’Unheimlich che da sempre lo abita – per ritrovare Dioniso il dio della contraddizione tragica, un «dio ebro, un dio demente» il cui martirio è condizione per l’adesione alla totalità dell’essere: «qualcosa che in fondo diviene senza mai prendere forma». Un modo di vita in cui il bisogno di essere uomini non fa paura e la conoscenza non è più solo l’espressione di un Lógos epistemonikós – la forma di una razionalità tecnico-scientifica-economica che escludendo “il destino umano dal mondo della verità” si è affermato solo “a profitto di un’esistenza inferma”, parziale, isolata, una vita avara e statica –, ma anche Phrónesis, la figlia maggiore della dea Minerva, quella saggezza, ragionevolezza, troppo presto esiliata dall’orizzonte del pensiero occidentale quando, allontanandosi dalle rive della “buona vita”, accessibili anche se così difficili da raggiungere per una felicità irraggiungibile, l’uomo è salito su un bolide senza pilota, privo di freni e di retromarcia, diretto verso un futuro in costante accelerazione. Piuttosto che fissarsi un obiettivo, certamente modesto ma a propria misura, egli si è imbarcato alla volta di spazi infiniti. Allora l’unico scopo diventa la fuga in avanti, la corsa stessa. Così, a manipolare se stesso al fine di affrontare tale sfida insensata, diventando cyborg o mutante, l’uomo compromette la propria peculiare identità e si affida a un destino tecnico, definizione del gran salto nell’ignoto. La padronanza totale si trasforma in tal modo nel suo contrario. Il grande manipolatore finisce per non essere altro che un robot manipolato14.

13

R. Esposito, “La comunità della perdita: l’impolitico di Georges Bataille”, Introduzione a G. Bataille, La congiura sacra, cit., pp. XI-XXXVI, pp. XXI-XXII. 14 S. Latouche, Le Défì de Minerve. Rationalité occidental et raison méditerranéenne, La Découverte, Paris 1999, trad. it., La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 11.

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1. Homo œconomicus-consumans Ed è questo il volto che marca in Bataille l’uomo decadente, specchio della prassi utilitaristica e razionalistica propria di quel “disagio” della civiltà, come dice Freud, che segna il nostro presente: la realtà di un Io sicuro, autonomo, fieramente schierato/chiuso contro ogni realtà esteriore. Ma che tale apparenza sia fallace, che invece l’Io abbia verso l’interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in un’entità psichica inconscia, che noi designiamo Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata lo abbiamo appreso per la prima volta dalla ricerca psicoanalitica da cui attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra l’Io e l’Es15.

Una storia che ci racconta di “un’amicale alleanza della specie con il resto dell’universo”, della originaria ed eccitante comunione dell’Io con l’ambiente, dell’infanzia di un soggetto legato al proprio corpo, al corpo materno; sen15

S. Freud, “Das Unbehangen in der Kultur”, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien 1930, ripubblicato l’anno seguente con alcune aggiunte. Il saggio completo fu pubblicato in Id., Gesammelte Werke, 18 voll., S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1948, trad. it., “Il disagio della civiltà”, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1978, 12 voll., vol. 10, 1924-1929, pp. 557-630, p. 559. Ma la battaglia contro la razionalizzazione della vita, nell’ottica delle analisi elaborate quasi contemporaneamente da M. Horkheimer e Th. Adorno, emerge incisivamente nelle poche, ma dense e lucide pagine, del saggio “Sartre. Réflexsions sur la question juive”, (Critique, 12, 1947, ora in Œ. C., XI, pp. 226-228) dedicato da Bataille a discutere il testo sartriano Réflexsions sur la question juive (Paris, Gallimard 1946, trad. it., L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 1990). Si tratta di un saggio che “sposta” l’asse delle Réflexions sartiane aprendo la particolarità del momento storico alla trascendenza simbolica di un evento, Auschiwtz, da cui ormai l’immagine dell’uomo deve essere inseparabile. Così Sartre considera l’antisemitismo come «rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe che non potrebbe vivere in una società senza classi»; che «può esistere solo nelle collettività in cui un debole legame di solidarietà unisce delle pluralità fortemente strutturate; è un fenomeno di pluralismo sociale» che sarà soppresso/vinto nell’auspicata rivoluzione socialista che deve quindi essere accompagnata da una rinnovata coscienza del rispetto per la persona dell’israelita. Un impegno necessario per i francesi, dice Sartre, nella misura in cui «non ci sarà un francese libero, finché gli ebrei non godranno della pienezza dei loro diritti; non un francese vivrà sicuro, finché un ebreo in Francia e nel mondo intero potrà temere per la propria vita» (pp. 120-123). Ciò indica una precisa accusa di Sartre a tutta quella parte dell’umanità che con la sua indifferenza ha ignorato e quindi condannato l’ebreo, all’uomo non autentico, non libero. Bataille apprezza le osservazioni di Sartre, ne condivide la chiarezza analitica, ma rileva nel testo la presenza di una lacuna essenziale, l’assenza di quel legame ineludibile che ci incatena, senza soluzione di continuità, all’evento dell’olocausto, ad un “fatto” – Auschwitz – che segna un punto di rottura nel procedere trionfale della ragione; una caduta radicale, uno sfaldamento dell’omogeneizzazione della vita che si impone al pensiero come un imperativo etico nella cui luce dobbiamo ripensare/rammemorare tutta la nostra vicenda umana. Cfr. a questo proposito, E. Traverso, “Il genocidio invisibile. Le Réflexsions sur la question juive de Jean-Paul Sartre”, in J. Risset (cur.), BatailleSartre un dialogo incompiuto, Artemide, Roma 2002, pp. 59-71.

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sazioni di piacere che la maturazione, ponendoci di fronte ad un “fuori”, un estraneo, ci nega e che il “principio di piacere” «ordina di neutralizzare ed evitare». Ed è proprio il principio di piacere a stabilire la direzione della vita umana, a costruire il senso della nostra esistenza lavorando a limitare, misurare ed ordinare tutto ciò che procura dolore, sofferenza, angoscia, riducendo anche la nostra stessa pretesa di felicità. La difficoltà della felicità sembra essere il segno della nostra fragilità, quella di un essere contrapposto alle forze soverchianti di una natura ostile, incapace per la fragilità di un corpo che diviene sempre più estraneo a cogliere la propria contingenza; una difficoltà che diviene tanto più evidente e problematica nella relazione con le «istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società» e che sembra deporre a sfavore proprio di quella civiltà che dovrebbe essere, al contrario, il veicolo della felicità. Perché, come ha evidenziato Freud, «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza», ha rinunciato alla libertà dello spontaneo fluire del desiderio per una sorta di inerzia psichica che segna, nell’ordine delle istituzioni, il necessario compromesso per la nascita di una società civile capace di arginare la sofferenza che ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali d’allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesauribili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini.

Una massa di dolore a cui possiamo metter riparo o rifugiandoci nella quiete di una vita solitaria o allineandoci in una comunità d’azione che, con l’aiuto della scienza e della tecnica, si impegna «ad aggredire la natura e ad assoggettarla al volere umano», nella convinzione di lavorare «con tutti per il bene di tutti»16, ignorando, al contrario che proprio tale forza può lavorare contro di noi, fino all’estremo, all’olocausto della nostra specie. È questo il segno di una società rivolta esclusivamente all’utilità materiale, dice Bataille, una civiltà che lavora contro il dolore e la sofferenza, che «ha per fine il piacere – ma soltanto in una forma temperata, essendo considerato patologico il piacere violento –», operando in ogni sua dimensione alla conservazione/accumulazione dei beni materiali e alla riproduzione e conservazione della vita nella direzione di quella che Michel Foucault ha indicato come biopolitica. Una politica dei viventi che si esprime nelle strategie di un sapere che intende regolare e governare la molteplicità degli uomini in quanto tale molteplicità può e deve risolversi in corpi individuali, da sorvegliare, da addestrare, da utilizzare, eventualmente da punire,

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S. Freud, “Il disagio della civiltà”, cit., pp. 568-569.

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indirizzando le sue tecnologie verso un disciplinamento dell’uomo-corpo e una organizzazione/normalizzazione dell’uomo-specie. Un governo della «popolazione in quanto problema al contempo scientifico e politico, come problema biologico e come problema di resistenza»17. Un interesse che disegna il volto delle moderne società disciplinari e di controllo, un potere che potenzia e massimizza la vita, che dichiara, contro il diritto sovrano di far morire quello di far vivere; una volontà che però, paradossalmente, continua a tradursi in una negazione della vita nella forma di una politica che volendo far vivere, fa morire. Una politica che ha disegnato il volto dell’homo œconomicus o consumans, un essere di bisogno che si crede libero solo perché lavora a conservare la sua vita e a produrre sapere e tecnologie votati a questo scopo nell’ottica di un’etica dell’intenzione che deresponsabilizza i singoli e le comunità18; è la vita come prodotto di un’ipertrofia della ragione che perpetua lo 17

18

M. Foucault, Il faut défendre la société. Cours au Collège de France 1976, Seuil-Gallimard, Paris 1977, trad. it., Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, “Corso del 17 marzo 1976”, pp. 206-228, pp. 211-213. Cfr. inoltre, M. Foucault, La volonté de savoir. Histoire de la sexualité I, Gallimard, Paris 1976, trad. it., La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 1978; A.a.,V.v., Dossier su Michel Foucault: De la guerre des races au biopouvoir, in Citès, 2, 2000; O. Marzocca (cur.), Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001; G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; L. Cedroni, P. Chiantera-Stutte (curr.), Questioni di biopolitica, Bulzoni, Roma 2003; L. Bazzicalupo, R. Esposito (curr.), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Laterza, Roma-Bari 2003; R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. Cfr. C. Champetier, Homo consumans, archéologie du don et de la dépense, Le Labyrinthe, Paris 1994, trad. it., Homo consumans. Morte e rinascita del dono, Arianna editrice, Casalecchio 1999, dove i concetti di dono e di gratuità costituiscono, in un’ottica possiamo dire batailleana, la “parte maledetta” che continua a sfidare, dal profondo, l’economia ristretta delineando la possibilità di una reale “conversione” etica e politica del paradigma utilitaristico che sostiene la moderna economia di mercato. Cfr. inoltre, A. Caillé, Critique de la raison utilitaire. Manifeste du MAUSS, La Découverte, Paris 1988, trad. it., Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino 1991. A. Caillé è il fondatore del Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales (M.A.U.S.S) che sorto in Francia nel 1980 ha avuto come organon di diffusione dapprima il Bullettin de MAUSS e poi la Revue de MAUSS e che con diversi studi e saggi mira a “liberare” il dono dalla chiusura nella circolarità viziosa dello scambio economico per puro interesse, rilevando la presenza, al fondo stesso dello scambio, di una dimensione di gratuità, senza però aprire una riflessione radicale sulla relazione che il dono istituisce naturalmente e che, non necessariamente, deve declinarsi biunivocamente in un dare-avere che elude proprio quella fecondità del donare-abbandonare senza ritorno che Bataille pone al centro di una comunicazione tra esseri aperti. Per un primo approccio alla tematica del dono cfr. J. Godbout, L’esprit du don, La Découverte, Paris 1992, trad. it., Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Id., Le langage du don, Ed. Fides, Montréal 1997, trad. it., Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1997; J. Derrida, Donner le temps. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991, trad. it., Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Roma 1995; Id., Donner la mort, Galilée, Paris 2000; P. Gilbert e S. Petrosino, Il dono. Un’interpretazione filosofica, Il melangolo, Genova 2001 che riporta un’ampia bibliografia sul tema.

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stato di minorità di un’umanità cosciente che «si riconosce il diritto di acquistare, conservare e consumare razionalmente, ma esclude per principio la dépense improduttiva»19 precludendosi così la stessa possibilità, osserva Bataille, di produrre una “nuova religione”, la formazione di un legame aconfessionale che è pratica di relazioni di potere che indicano un modo altro d’essere e di pensare. Una re-ligione per la quale il bene non è più l’utile ma l’inter-esse senza valorizzazione: quel bene che, in quanto strutturalmente mancante – nel senso di un bene che viene meno alla sua produttività non potendo mai essere reso produttivo –, nessun uomo raggiungerà, e che tuttavia ogni uomo, proprio perché assillato da quell’inter-esse mancante deve continuare indefinitamente a ricercare 20.

Cerchiamo allora di “scoprire”, seguendo l’esperienza di Bataille nella frammentarietà che, paradossalmente, intreccia scrittura e pensiero – e lungo una direttrice speculativa che a partire dalla genealogia nietzscheana fende il logos occidentale raccogliendosi nella riflessione del pensiero critico prima e in quello della decostruzione poi – come nella storia dell’Occidente, si sia delineato il volto “padronale”, apollineo di Prometeo. Come si sia affermata la capacità pre-veggente, la prepotenza di un occhio teoretico che si è imposto come cifra del privilegio di una coscienza/conoscenza che ha ordinato e programmato la vita nell’ottica di una morale utilitaristica, logocentrica e oppressiva: «occhio della Polizia, simile all’occhio della Giustizia», dirà Bataille. Seguiamo il viaggio ai “limiti del possibile” che il pensatore francese sperimenta già ne l’Histoire de l’œil21 dove l’erotismo che muove il racconto è, nel suo necessario legame alla morte, approvazione della vita fin dentro la morte, rifiuto della morte in quanto «istanza autoritaria» – non solo in quanto “petite meurt”, ma come morte totale, smarrimento di sé, dissoluzione «del-

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G. Bataille, La part maudite précédé de La notion de dépense Minuit, Paris 1967, trad. it., La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 5. La notion de dépense è anche pubblicato separatamente in traduzione italiana col titolo di Il dispendio a cura di E. Pulcini presso Armando, Roma 1997. F. C. Papparo, “Una traccia lasciata su un vetro rigato”, in G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., pp. 241-262, p. 242. L’edizione francese comprende anche un corposo dossier articolato in forma di note e ipotesi di lavoro che l’edizione italiana citata riporta parzialmente in Appendice. Si tratta di una scelta, sottolinea il curatore, che segue criteri di «compiutezza e leggibilità dei brani; attinenza, se non diretta, quanto meno tematica con le riflessioni svolte nel Limite dell’utile, selezione di quei brani che, data la prossimità del testo tradotto con quelli della Somme Athéologique (L’Expérience intérieure, Le Coupable, Sur Nietzsche), potessero fornire al lettore un ulteriore elemento per la comprensione del pensiero ‘ateologico’ di Bataille», ivi, p. 10. Cfr. G. Bataille, Histoire de l’œil, par Lord Auch, avec huit lithographies originales, Paris 1928, trad. it., Storia dell’occhio, Gremese. Roma 2000. Il nome di Bataille come autore appare solo nel 1967 nell’edizione postuma ad opera della Societé Nouvelle Des Édition Pauvert.

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l’essere costituto nell’ordine discontinuo» –, forza eccessiva capace di trasgredire l’ethos di una società civilizzata e moralizzata. È infatti proprio nell’erotismo, in quanto esperienza di una esuberanza che stacca il soggetto da sé, estasi profana, atea, che in Bataille si delinea la forma di una libertà sovrana, possibile e non necessaria, che segna un modo altro d’esistere, un modo che nega l’asservimento al mondo dell’utilità – anticipando la critica dell’idealità della visione e del primato della coscienza che sarà al centro dei Dossiers dell’Occhio pineale e Contro Breton –, il nucleo incandescente di una visione che, al limite del suo vedere, quando la volontà di conoscenza ha già percorso ogni possibile sapere, scopre un luogo di non-visibilità, di nonsapere, quello spazio della morte, del non-essere che non è niente da cui la riflessione ci ha sempre allontanato. Esperienza che ritroviamo al centro de L’érotisme e de Le larmes d’Eros – ma anche nel testo incompiuto L’histoire de l’érotisme pensato come naturale evoluzione de La part maudite – in quanto forma espressiva di “un modo d’esistenza a-storico”, una forma di vita finalmente liberata dal cerchio della signoria dell’utile e del dominio. Il senso dell’erotismo è infatti l’approvazione della vita fin dentro la morte e questa altro non è che una sfida sia nell’erotismo dei cuori che in quello dei corpi: una sfida lanciata con indifferenza alla morte. La vita è accesso all’essere: se la vita è mortale, la totalità dell’essere non lo è. La vicinanza della totalità, l’ebbrezza della totalità dominano la considerazione della morte. In primo luogo il turbamento erotico ci dona un sentimento che supera ogni altro, che fa cadere nell’oblio le cupe prospettive connesse alla condizione dell’essere individuale. Poi, al di là dell’ebbrezza concessa alla giovinezza, ci è dato il potere di contemplare la morte in faccia, e di scorgervi infine l’accesso alla totalità inintelligibile, inconoscibile, che è il segreto dell’erotismo, e di cui solo l’erotismo possiede la chiave22.

L’Histoire de l’œil, pubblicato nel 1928 con lo pseudonimo di Lord Auch indica, già nella cancellazione del soggetto-autore, quella necessità di una fuoriuscita del soggetto da sé (estasi) – una disidentificazione, un disinserimento dall’ordine del discorso in quanto messa in questione dell’univocità del senso e della verità, di “tutto ciò che fa autorità” – che Bataille ritiene essenziale per la messa in atto di una comunicazione comuniale tra singolarità non più estranee e che troveremo al centro dell’esperienza di Acéphale. L’erotismo, punto di scarto tra l’uomo e l’animale, tra una sessualità organica, esclusivamente esteriore e riproduttiva e un sentire prettamente interiore e produttivo, è la cifra di una radicale messa in questione del nostro essere nella paradossale verità della necessità del divieto e del desiderio di trasgredirlo, dell’interdetto come necessario “preludio” alla trasgressione e di questa come sua verità, perché 22

G. Bataille, L’érotisme, Minuit, Paris 1957, trad. it., L’erotismo, SE, Milano 1997, p. 24.

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se osserviamo l’interdetto, questo è solo un risultato di cui non abbiamo coscienza. Trasgredendolo, proviamo l’angoscia senza la quale l’interdetto non sarebbe: è l’esperienza del peccato. Ma l’esperienza è piena solo nella trasgressione compiuta, nella trasgressione riuscita, che mantiene l’interdetto, ma per goderne. L’esperienza interiore dell’erotismo richiede da colui che la compie una sensibilità non meno grande e per l’angoscia che fonda l’interdetto e per il desiderio che induce a infrangerlo. È la sensibilità religiosa, che associa sempre strettamente il desiderio e l’orrore, il piacere intenso e l’angoscia […]. Questi sentimenti non hanno nulla di morboso, ma sono nella vita dell’uomo ciò che la crisalide è all’animale compiuto. L’esperienza interiore dell’uomo è data nell’istante in cui, rompendo la crisalide, ha consapevolezza di lacerare se stesso, non la resistenza opposta dal di fuori. Il superamento della conoscenza oggettiva, che le pareti della crisalide limitavano, si lega a questo rovesciamento23.

Ed è sul gioco paradossale del divieto/interdetto e della trasgressione che Michel Foucault si sofferma per evidenziare come non ci sia niente di negativo nella trasgressione nella misura in cui penetrando nel limite, come un lampo improvviso che illumina la notte, lo apre alla verità della sua non necessità: tolto il limite dell’illimitato, morto Dio, l’esistenza è ricondotta alla realtà della sua sovrana finitezza, all’esperienza di un esserci che è gioco di certezze e incertezze, gioco indefinito in cui ogni divisione, ogni contrapposizione è abolita. La trasgressione non ha nulla di negativo, essa è per Foucault, e per tutto il pensiero della differenza, pura affermazione che nessun contenuto può “legare”: è la posizione di un pensiero affermativo, un pensare nietzscheano dove, rompendo con il criterio della transitività, l’affermazione non afferma niente; è la possibilità aperta dal pensiero critico – che Blanchot 23

G. Bataille, “L’erotismo o la messa in questione dell’essere”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio e altri saggi, cit., pp. 403-420, p. 411. Cfr., a questo proposito, M. Perniola, Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille, ombre corte, Verona 1998 dove l’A., mettendo in discussione la concezione etico-estetica dell’esistenza – derivante dal platonico privilegio della visione del Bene-Bello – «all’interno della quale la bellezza sensibile è apprezzata come un momento, un gradino nell’ascesa verso la bellezza spirituale trascendente e metafisica» che ha affermato, nel tempo, un primato dell’organico sull’inorganico, evidenzia l’esistenza di una diversa forma di sensibilità, un sentire proprio dell’inorganico. Una sessualità che sfugge alla ordinaria differenza sessuale, al desiderio e al piacere legati alla visione e al possesso di un corpo, essendo piuttosto un sentire “astrale”, perverso, ma non in quanto «riconducibile ad una perversione specifica (sadismo, masochismo, feticismo, necrofilia), ma perché trae eccitazione da stimoli del tutto inadeguati». Si tratta di una sensibilità nuova che, direbbe Gilles Deleuze, scardina l’ordine delle facoltà, «un sentire che è quasi indipendente dai cinque sensi, che è la loro parodia, il trasferimento delle sensazioni non verso contenuti nuovi, ma verso nuove condizioni a priori della sensibilità» che aprono ad una capacità di «ricevere impressioni e di esperire sensazioni che sono irriducibili ai cinque sensi tradizionali», ivi, pp. 11 e sg.; cfr. G. Deleuze, Différence et répetition, PUF, Paris 1968, trad. it., Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, in particolare la parte III “L’immagine del pensiero”; Id., La Philosophie critique de Kant, PUF, Paris 1962, trad. it., La filosofia critica di Kant, Cappelli, Bologna 1970.

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indica come “principio di contestazione” – che non è «lo sforzo del pensiero per negare delle esistenze o dei valori», ma la decisione di ricondurre ognuna di queste esistenze ed ognuno di questi valori ai propri limiti, e quindi al Limite in cui si compie la decisione ontologica: contestare è andare fino al cuore vuoto dove l’essere raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’essere. Là nel limite trasgredito, echeggia il sì della contestazione che lascia senza eco lo I-A dell’asino nicciano.

Un gioco, si chiede Foucault, che potrebbe essere per noi la prova di quel pensiero dell’origine offertoci da Nietzsche, un pensiero che sarebbe, in assoluto e nello stesso tempo, una Critica e un’Ontologia, un pensiero che penserebbe la finitezza e l’essere?24

Un pensiero di fronte a cui il linguaggio discorsivo rimane disarmato, sentendosi così costretto a cedere il passo a forme espressive a-logiche, emozionali, che scavano il loro spazio nel dire di corpi e di parole aperti, dislocati; corpi e parole di un soggetto che non li/si possiede, segni di un linguaggio non dialettico, il linguaggio del limite «che si sviluppa solo nella trasgressione di colui che lo parla», nella distanza di un vuoto essenziale dove il soggetto che parla/vede fa esperienza della sua finitudine, dell’impotenza della riflessione. È allora che al posto dello sguardo teoretico, al posto dell’occhio filosofante che vede, subentra un occhio cieco, l’occhio della trasgressione che rivoltatosi all’interno della sua orbita, «rimanendo di conseguenza lo stesso e allo stesso posto, sconvolge il giorno e la notte, oltrepassa il loro limite», il limite dello sguardo, proprio attraverso la sua morte. Così il fare esperienza della trasgressione, nel movimento che la trascina verso qualsiasi notte, mette in luce questo rapporto della finitudine nei confronti dell’essere, questo momento del limite che il pensiero antropologico, dopo Kant, designa soltanto da lontano e dall’esterno, nel linguaggio della dialettica25.

In questo senso l’erotismo, in quanto esperienza di un’esuberanza che si dà solo in quanto si perde, è una forma di crescita generosa, osserva Bataille, un dono di sé «a vantaggio di un essere o di un insieme che ci supera», un dono possibile solo nella misura in cui spogliando il nostro essere di tutte quelle sovrastrutture/maschere ideologiche, morali e religiose che come gli abiti ci classificano e definiscono come cose tra le cose, non ci sentiamo più isolati, immobili, limitati, ma immersi in una continuità che «unisce l’essere al di dentro». All’esterno, infatti, tutto è limitato, definito, ordinato, l’essere ci è dato oggettivamente solo in quanto perdita della continuità, perché 24 25

M. Foucault, “La trasgressione”, in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 5572, pp. 60-61. Ivi, p. 70.

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noi non concepiamo nulla senza la discontinuità: quando questa si sottrae, dobbiamo dunque dirci che invece dell’essere, non vi è nulla, perlomeno nulla che possiamo afferrare e concepire. Ho ipotizzato l’apparizione della continuità nell’istante in cui si perdeva: il che significa che nulla appariva. O piuttosto, la sua scomparsa veniva in seguito all’apparizione di qualcosa e […] nell’erotismo qualche ‘cosa’ viene distrutto, qualche ‘cosa’ si muta in nulla, al punto che, in definitiva, l’oggetto coincide col soggetto. Nella riflessione obiettiva, la cosa che ci era data ci sfugge nella riflessione del soggetto su se stesso, facciamo l’esperienza della scomparsa. L’elemento afferrabile dell’esperienza è colto negativamente; ciò che afferriamo è, per così dire, il vuoto lasciato: abbiamo afferrato, ci sforziamo di afferrare ancora e a un tratto non afferriamo nulla. In qualche modo anzi, noi afferriamo il nulla. È divertente che la lingua francese, partita dalla parola rem che voleva dire cosa le abbia dato il significato di nulla (rien)26,

un non-qualcosa che non possiamo dire-afferrare (be-greifen), ma solo provare, esperire, nella sovrana nudità di una soggettività, come direbbe Foucault, non assoggettata, inutile. All’estremo del pensiero, al limite del possibile, ci ritroviamo d’emblée a contatto con quel nucleo enigmatico della vita negato dalla riflessione, quell’impossibile proprio della esuberanza iniziale di un pensare non ancora asservito dalla paura e dal desiderio del mondo, quando l’interrogazione filosofica, dirà Bataille ne La Souveraineté, il sapere, non si accontentavano di servire fini pratici e servili. Nell’esperienza erotica – così come in quella mistica, nel riso, nella poesia, nel gioco e nella festa –, che Bataille vive in senso nietzscheano come affermazione incondizionata della vita, come «affermazione della vita fin dentro la morte», l’eccesso emozionale scardina l’organizzazione “troppo umana” del reale; ogni cosa, ogni valore viene messo in questione, ogni limite è trasgredito, l’io perde la sua autorità e scopre così di “non essere tutto”, di morire, ma nello stesso tempo sente come proprio in questo morire, nell’istante sovrano di un’esperienza impossibile, si celi una possibilità d’esistenza che «è tutto il contrario della pretesa del soggetto di impadronirsi di tutto, di comandare su tutto, di subordinare tutto a se stesso»27. La trasgressione allora immette il soggetto che la vive nella continuità dell’essere proprio negando, dissociando, quella forma di identità prodotta, costruita dai meccanismi di produzione e riproduzione sociale, culturale e morale proprio attraverso un’economia dell’interdetto e del lavoro che ha fatto del desiderio un mero effetto del bisogno. Comprendiamo allora il senso della terribile verità che chiude l’Histoire, lo svanire della potenza visiva dello sguardo teoretico nel gesto blasfemo con cui Sir Edmond incide l’orbita del prete per cavarne l’occhio, un occhio morto, un occhio “cieco”, che abbagliato dalla luce della conoscenza ha dimenticato la sua materialità ed ora, immerso nella carne di 26 27

G. Bataille, “L’erotismo o la messa in questione dell’essere”, cit., p. 415. M. Perniola, Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille, cit., p. 9.

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Marcelle, è perduto, non vede nulla, non riesce ad afferrare l’enigma della vita, quella part maudite che sfugge alla sua presa razionale. Ma è proprio la sua morte, il sacrificio della visione – il sacrificio di sé che Prometeo accetta come espiazione dell’u{briı della volontà di conoscenza – che gli fa sentire la sua prigionia, la servitù di un’esistenza interessata, rendendogli evidente la differenza di un reale che non si lascia ordinare/rappresentare. Anche l’occhio pineale è un occhio cieco, rivolto all’interno, un occhio che Bataille immagina posto alla sommità del cranio, «un occhio speciale per il sole (mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con una specie di ostinazione stupida)»; l’occhio di una visione verticale che, rispetto alla visione orizzontale propria degli occhi, è non utile, non-funzionale, nella misura in cui non mira a stabilire alcun legame fra sé e gli oggetti necessari alla sua conservazione e riproduzione. L’occhio pineale «si apre e si acceca come una consumazione o come una febbre che mangia l’essere, o più esattamente la testa», nella improduttività positiva di una dépense che trasgredisce la forma logica della conoscenza, l’altezza della visione platonica, l’idealità di una bellezza-bene che ha emarginato, in una assoluta degradazione ontologica, tutto ciò che non rispondeva al modello, e che Bataille “ricompone” nella dimensione eterologica28, nello spazio di un pensiero del diverso, un eterogeneo/sacro inassimilabile, che scintilla nella notte del non-sapere, al limite del pensiero discorsivo. Al limite dell’omogeneo, là dove l’occhio della conoscenza, inoltrandosi, s’acceca scoprendo quella tache aveugle in cui l’intelletto perde le sue certezze e sente la necessità di “convertire” il suo cammino, di ritornare verso quell’ignoto che è da sempre la sua stessa possibilità. Sente la necessità di fuoriuscire da una storia, da una politica e da un sapere che non sanno vivere all’altezza della morte sopravvivendo, al contrario, nella serietà alienante del lavoro e della cultura, nell’asservimento del negativo e della contraddizione alla logica escludente di un’economia dello scambio che ha dimenticato l’arte “magica” di un donare inutile; una generosità che non conosce contraccambio, una sovranità, come vedremo, paradossalmente impotente. Riprendendo ora il cammino, possiamo dire genealogico, che Bataille intreccia ne la Notion de dépense e nei frammenti raccolti ne La limite de l’utile dove studiando le società primitive, soprattutto quelle in cui vigeva l’istituzione del potlàch, e confrontandole con la nostra “civiltà” – una modernità cresciuta nell’esclusività del paradigma dell’utile proprio di un’economia ristretta, parziale, espressione di un gioco minore come dice Derrida - mira a decostruire le false certezze e le sicurezze di un’umanità fiacca, che avidamente stanca è drammaticamente “inchiodata alle cose più piccole”29. Un’u28 29

Cfr. G. Bataille, “Dossier ‘Heterologie’”, in Id., Œ.C., cit., II, pp. 167-202. Cfr. J. Derrida, “De l’économie restreinte à l’économie générale: un hegelianisme sans réserve”, in L’Arc, mai 1967, numero monografico dedicato a Bataille. Il saggio è stato poi raccolto in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, trad it., La scrittura e la diffe-

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manità che ingannata “dal bisogno di ragionare” e di calcolare è ormai incapace di vedere il cielo, di godere la gloria, di sentire il caldo della luce del sole, di dire poeticamente il mondo. Un lavoro critico in cui si delineano una forma di vita e un modo di pensiero in cui senso e valore non sono legati/misurati ad una produttività che sbilancia il presente verso il futuro, ma sono vissuti nell’immediatezza dell’hic et nunc di un presente fatto di emozioni e non solo di ragioni, dalla ricchezza di un soggetto che, sciolto dal peso dell’identico, dall’isolamento imposto da una logica “avara” che considera i soggetti «secondo quella condizione giuridica che regola l’attribuzione dei valori prodotti a persone non solidali», vincolando l’esistenza alla durata, sa negarsi abbandonando «senza contropartita ad altri una parte delle ricchezze di cui dispone, anche indipendentemente da ogni appropriazione altrui». Una perdita, un dispendio positivo, dice Bataille, che va a profitto dell’istante presente, a profitto dell’esistenza; una prassi economica che l’esistenzialismo ha reso possibile nella misura in cui con Lévinas il cerchio della soggettività s’è aperto e la servitù delle operazioni conoscitive – la sostituzione mediante la filosofia, dell’esistenza conosciuta (attraverso una pratica intellettuale) con l’esistenza nuda – è tolta nel momento in cui entra in gioco l’intimità30.

Un’interiorità che solo un soggetto depauperato dei segni impressi sulla vita da una signoria che ha fatto del lavoro e del linguaggio i suoi strumenti d’affermazione può sentire, nella sovranità propria di chi valorizza il nulla (rien), conferendogli «con solennità innegabile (ma così profondamente comica) il valore sovrano», negando cioè l’asservimento, non riducendolo «a ciò che è (è utile)», che significa negare il valore non pratico del pensiero, renderlo al di là dell’utile, all’insignificanza, all’onestà semplice del difetto, di ciò che muore e che viene a mancare31,

30

31

renza, Einaudi, Torino 1971, pp. 325-358 col titolo “Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve”. Sulla curvatura genealogica delle analisi batailleane cfr. F. Rella, Introduzione alla citata traduzione de La Part maudite dove, molto incisivamente, si sottolinea come Bataille «ha avuto l’ambizione costante, dall’inizio degli anni trenta, da La Notion de dépense fino a Le Larmes d’Éros, e dunque per quasi l’intera durata della sua vita di studioso, di costruire una storia generale dell’uomo e della civiltà, senza che quest’opera s’intrecciasse, o perlomeno interloquisse con la grande scuola storica francese di Fevre, Braudel e delle ‘Annales’», ivi, p. XII. G. Bataille, “Dall’esistenzialismo al primato dell’economia”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio e altri saggi, cit., pp. 83-112, p. 111. «La parola profitto stride invero se a determinare il profitto è l’istante presente, ma questa incompatibilità rivela proprio l’orientamento gretto delle scienze economiche: è lo stesso orientamento del linguaggio della conoscenza, che in linea di principio non ha la possibilità di fare i conti con il presente», ivi, p. 106. G. Bataille, La souveraineté, in Œ. C., cit., VIII, trad. it., La sovranità, Il Mulino, Bologna 1990, nota 6, p. 56.

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nella dimensione esperienziale di un soggetto finito, “relativo”, un soggetto scisso, segnato dalla differenza e aperto all’alterità. Quel soggetto, dice Bataille, apparso e subito annientato nella storia di un mondo costruito sulla lotta necessaria all’affermazione di uno Spirito che «alla fine, abbraccia la totalità del sapere», una storia che in Hegel risolve il desiderio «in un sapere che è assoluto, che è una soppressione del soggetto, relativo, che sa»32. In quest’ottica mi sembra utile indicare brevemente, richiamandomi a Jacques Derrida, la complessità semantica veicolata dal termine decostruzione o meglio da quella pratica etica e politica del decostruire «che non si può definire perché assume forme molteplici» facendo saltare anche la più forte opposizione tra teorico e pratico. Il decostruire lavora a spostare, decentrare e non a distruggere, il preteso ruolo cardine di quelle nozioni – soggetto, senso, temporalità – che hanno costituito i pilastri su cui è cresciuto il pensiero occidentale, per “comprendere” il movimento della loro costituzione. Per questo Derrida ribadisce spesso nei suoi scritti che la decostruzione non è, «malgrado le apparenze», un’analisi in particolare, perché lo smontaggio di una struttura non è una regressione verso l’elemento semplice, verso un’origine indecomponibile,

ma non è «nemmeno una critica, in un senso generale o in un senso kantiano», perché anzi l’istanza del krinein o della krisis (decisione, scelta, giudizio, discernimento) è essa stessa, come del resto tutto l’apparato della critica trascendentale uno dei ‘temi’ o degli ‘oggetti’ essenziali della decostruzione33.

Un movimento del pensiero quindi in cui il termine critica assume, come sostiene Foucault, il senso di un vero e proprio ethos filosofico, uno stile di pensiero e una forma di vita che non rinunciano alla filosofia, ma ne denunciano, così come per l’intero campo della conoscenza, la pretesa a fare sistema, a farsi strategia di un potere che in cambio di un po’ di sicurezza sottrae libertà e responsabilità ai singoli34.

32 33 34

G. Bataille, “Dall’esistenzialismo al primato dell’economia”, cit., pp. 86-92. J. Derrida, “Lettre à un ami japonais 1985”, in Id., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 387-397, p. 390. Cfr. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, trad. it., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972; “Che cos’è l’Illuminismo?” Lezione tenuta nel 1983 alla Berkely University, trad. it, in A. Pandolfi (cur.), Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, Etica, Politica, Feltrinelli 1998, pp. 217-232; “Che cos’è l’Illuminismo?” (Estratto del corso del 5 gennaio 1983 tenuto al Collège de France), trad. it., in A. Pandolfi (cur.), Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, Etica, Politica, cit., pp. 253-261; “Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung)”, in Bullettin de la Société Française de Philosophie, avril-jun 1990, 2, pp. 35-63.

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Ritornando all’intreccio dei testi batailleani dobbiamo dire che i saggi e i frammenti raccolti ne La limite de l’utile – pubblicato postumo nel volume VII delle Œuvres Complètes – costituiscono l’abbozzo di una versione mai più compiuta, scritta tra il 1938 e il 1945, de La Part maudite, che doveva appunto intitolarsi La Part maudite ou la limite de l’utile. Il testo che funziona come un vero e proprio ponte teorico, che da La Notion de dépense arriva a L’Expérience intérieure, tesse i temi del dispendio, del dono, della morte e del sacrificio in una trama dai fili spesso interrotti che formano una sorta di canovaccio o, possiamo dire, di linea frammentata che è segno di un work in progress che andava svolgendosi attorno al tema di un’economia generale, un’economia “a misura dell’universo” propria di un’esistenza non più irrigidita nell’ordine del Discorso e che costituirà il nucleo portante de La Part maudite. Il saggio La Notion de dépanse – scritto per la prima volta nel 1933 per il n° 7 della rivista Critique sociale diretta da Boris Souvarine ed a cui partecipavano i membri del “Cercle communiste démocratique” che, in contrasto col marxismo ufficiale e in polemica con la linea politica del Partito comunista, si ponevano come punto di forza contro il fascismo e che, proprio in questa occasione, presero le distanze dallo stesso Bataille35 – con la sua pungente e puntuale secchezza delinea un modo d’essere la cui cifra è nel principio della perdita incondizionata. Nell’idea di una vita come sovrano dono di sé che, a mio avviso, apre verso quella dimensione etica e politica di una fraternità aneconomica, una “nuova religio dell’umanità” che, come dice Jacques Derrida, disegna i tratti di una forma d’amicizia e di una politica che sono

35

Importante per comprendere il “distacco” con cui furono accolti molti scritti di Bataille all’interno dello stesso Cercle è l’affermazione che Simone Weil esprime in una lettera aperta, diretta nel ’33 al gruppo di Souvarine, in cui la pensatrice evidenzia la difficoltà di un comune lavoro per la rivoluzione là dove considerazioni e metodi divergenti non permettono alcuna “comunità”. Se per Bataille, afferma la Weil, la rivoluzione «è il trionfo dell’irrazionale», essa è «per me un’azione metodica di cui ci si deve sforzare di limitare i guasti, per la liberazione degli istinti, e precisamente di quelli che sono correntemente considerati patologici, per me una moralità superiore. Cosa c’è di comune?», (in S. Pétrement, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1993, vol. I, trad. it., La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, p. 28). Certamente è comune la convinzione della necessaria coincidenza di pensiero ed azione rivoluzionaria, ma per Bataille seguire la prassi materialistico-dialettica significa continuare a negare possibilità di parola alle contraddizioni tragiche che stanno al fondo dell’esistenza; il trionfo della razionalità, dell’azione metodica, utile, «è la morte della coscienza rivoluzionaria». C’è, quindi, una “inspiegabile” attrazione che spinge Bataille verso Simone Weil: «si tratta di quell’intentio negativa, di quel rifiuto di ogni rappresentazione affermativa del bene che finisce per visualizzarlo necessariamente dalla parte del male», una convergenza che però si scioglie in contrapposizione là dove, per Bataille, la nozione di “obbligazione” «trascinerebbe la Weil indietro, sulla pista ormai impraticabile della vecchia morale […]; il testo weiliano, partito dalla critica negativa del linguaggio etico-politico, riconosciuto giustamente nella sua dimensione idolatra, impositiva, perviene ad imporre altri valori, si fa esso stesso diretta affermazione», R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1999, p. 252.

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stati dimenticati e rimossi dalla modernità36. I tratti propri di un’economia “in grande” che disabilita, possiamo dire, l’economia del sacrificio aprendola al gioco improduttivo di un donare-abbandonare-perdonare che non è pura e semplice dissipazione, ma generosità, quella stessa generosità che egli aveva riconosciuto in Nietzsche, che è ‘dalla parte di coloro danno’37,

una generosità che può operativamente produrre relazioni intersoggettive altre da quelle attivate in un esercizio del potere, direbbe Foucault, che è mera dominazione degli altri. Tesi che qui esposta ancora in maniera “embrionale” trova ulteriore precisazione non solo ne La part maudite, dove la nozione di dépense improduttiva, non calcolata, viene corroborata dall’idea di una negatività senza impiego – una considerazione dialettica del negativo, agita da Bataille con Hegel oltre Hegel, che implica l’espropriazione del momento sintetico –, ma soprattutto ne La Souveraineté dove la linea “applicativa” etico-politica, possiamo dire, della teoria dell’economia generale trova la sua più forte posizione nell’implicita “conversione” della figura hegeliana della signoria nell’esistenza sovrana di Nietzsche38. Nella prefazione a La Part maudite Bataille ci dice che si tratta di “un’opera di economia politica”, non però nel senso di quella scienza economica che in quanto “disciplina” si è fatta sapere strategico al servizio della ragione capitalistica, in quanto riflessione che considera, come fa l’economia ristretta, «i fatti alla maniera degli economisti qualificati», ma nell’ottica di un’«‘economia generale’ in cui il ‘dispendio’(il ‘consumo’) delle ricchezze è, in rapporto alla produzione, l’oggetto primo». Un’economia che guarda/misura gli oggetti della produzione non in relazione ai valori di mercato, ma in rapporto alla “perdita di senso” propria alle eccedenze di energia che non possono essere assorbite/utilizzate per la crescita di un organismo/sistema, che vanno quindi perdute, consumate senza alcun senso e scopo: una perdita inutile che esprime il senso di una sovranità che eccede la logica hegeliana della signoria denunciando il falso movimento dell’Aufhebung «che si riproduce per intero all’interno del discorso, del sistema o del lavoro della significazione»39. Un movimento in cui 36

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Cfr. J. Derrida, Politique de l’amitié, Galilée, Paris 1994, trad. it., Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995, dove l’A. afferma che «se nel focus semantico della philia si trova il focolare, e se la philia non va senza oikeiòtes, non si farà una forzatura dicendo che la questione che orienta il presente saggio […] è quella di un’amicizia senza focolare, una philia senza oikeiòtes. Al limite, senza presenza, senza somiglianza, senza affinità, senza analogia – insieme alla presenza anche la verità vi tremerebbe […]. Un’amicizia veramente aneconomica, è possibile? Ce ne può essere altra? Ce ne devono essere altre?», ivi, pp. 184-185. Cfr. inoltre J. Derrida-A. Dufourmantelle, De l’hospitalité, Calman-Lévy, Paris 1997, trad. it., L’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000. F. Rella, “Lo sguardo ulteriore della bellezza”, Introduzione a G. Bataille, La parte maledetta, cit., p. XXXII. Cfr. G. Bataille, La sovranità, cit., parte IV, §§ 2 e 3. G. Bataille, Prefazione a La parte maledetta, cit., p. 25. Le citazioni usate di seguito sono

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una determinazione viene negata e conservata in un’altra determinazione che ne rivela la verità. Da una indeterminazione a determinazioni infinite, si passa di determinazione in determinazione, e questo passaggio, prodotto dall’in-quietudine dell’infinito, concatena il senso. L’Aufhebung è compresa nel cerchio del sapere assoluto, non eccede mai la sua chiusura, non sospende mai la totalità del discorso, del lavoro, del senso, della legge40,

il limite di un’economia della vita che facendone il fulcro di una circolazione meramente riproduttiva la sottomette al gioco/go serio dell’onto-teo-teleologia, all’evidenza del senso, alla possibilità mai sottratta di una negatività riconvertibile in lavoro, mentre sarebbe necessario perdere senza profitto, spendere l’eccedenza «gloriosamente o in modo catastrofico». La complessa stratificazione dei temi batailleani, la loro continua posizione, sospensione e ripresa, comporta a mio avviso la necessità di una lettura trasversale dei suoi testi, un percorso che permette di seguirne la riflessione nel suo svolgersi come continua messa in campo di una strategia di resistenza contro l’annichilimento conseguente al depauperamento del pensiero prodotto dalle due guerre mondiali e stigmatizzato dall’evento assoluto dell’olocausto41. Una cesura incolmabile nella storia del mondo che è la cifra, drammati-

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tratte dalla traduzione di F. Serna che rimanda, come sottolinea lo stesso traduttore, alla quinta stesura di un testo di cui si contano ben sette versioni, e precisamente a quella pubblicata da Jean Piel nell’edizione del 1967 de La Part maudite. Una traduzione in cui viene mantenuto, in alcune parti, il termine francese dépense accanto a quello italiano di dispendio proprio «per sottolineare, in qualche modo, la ricchezza (l’incertezza) d’implicazioni, di significati che questo termine mantiene lungo tutto il saggio» evidenziando l’impossibilità di chiudere nella parola scritta la pluralità semantica di un dire che in Bataille si traduce in un continuo scivolamento dei termini. In un movimento della scrittura che è segno di una prassi etica e politica che «eccede la logica e la sintassi della filosofia tradizionale, esponendone i concetti a un continuo ‘lavoro’, a una continua messa ‘fuori luogo’ (e quindi ‘fuori legge’: verso La parte maledetta)», verso quel fondo oscuro, bollente, sacro che è il nucleo vitale dell’essere. Nota 1, p. 3 della trad. it., citata. J. Derrida, “Dall’economia ristretta all’economia generale: un hegelianismo senza riserve», cit., pp. 356-357. Cfr. G. Bataille, L’Expérience intérieure, Gallimard, Paris 1973, trad. it., L’esperienza interiore, Dedalo, Bari 1978, nota p. 289. A questo proposito dobbiamo ricordare il “giudizio” che Hanna Arendt esprime circa le affermazioni fatte da Bataille – nell’articolo “Le sens de l’industrialisation soviétique”, in Critique, janv. 1948, n. 20, p. 72 – di non voler “s’attarder longtemps à l’horreur” dei campi al fine di comprendere il fenomeno totalitario. La Arendt ritiene al contrario tale indugio, non solo necessario, ma essenziale nella misura in cui ci permette di andare oltre una mera spiegazione psicologica o sociologica del fenomeno per cogliere l’incolmabile sproporzione, «l’abisso che separa il mondo dei vivi da quello dei morti viventi». Perché «solo l’angosciata immaginazione di chi è stato infiammato da tali resoconti, ma non direttamente ferito nella propria carne ed è quindi immune dal bestiale disperato terrore che, di fronte all’orrendo reale presente, paralizza inesorabilmente tutto ciò che non è mera reazione, può permettersi di indugiare e riflettere sugli orrori». Ma la riflessione di Bataille, pur non indugiando sull’orrore dei campi, ci mette tuttavia, violentemente, di fronte alla paradossalità dell’eterogeneità nazi-fascista che pur promuovendo, nell’ottica sadeana,

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ca e paradigmatica, di quei processi di reificazione della vita e di civilizzazione del vivente che, se per un verso hanno decretato la “nascita” dell’uomo attraverso la differenziazione/autonomizzazione dall’animale e dalle forze naturali ne hanno, per un altro verso, segnato la fine, inaugurando un movimento di progressiva cancellazione, di oblio, osserva Bataille, di quel monito ineludibile – «non rinnegare più ciò che siamo» – che continua a parlarci dal fondo di una caverna della Dordogna. Attraverso quei segni primitivi che popolano le pareti di Lascaux, segni sensibili che, per la prima volta, dicono dell’irruzione dell’uomo nel mondo, del suo esser tale in quanto diverso, non più limitato dall’animale: ma paradossalmente, a parlarci di tale irruzione sono proprio le forme dell’animalità da cui egli fuggiva. Ciò che gli affreschi mirabili annunciano con una forza giovanile non è soltanto il fatto che l’uomo che li ha dipinti smise di essere animale dipingendoli, ma che smise di esserlo dando dell’animale e non di se stesso, un’immagine poetica, che ci seduce e ci appare sovrana,

l’immagine di una libertà – quella di un uomo che non avendo vergogna della sua parte animale, di quel fondo irrazionale, passionale, dionisiaco che ci abita, dissimulò invece quest’umanità che lo distingueva dalle bestie. Mascherò il viso di cui andavamo fieri e mise in mostra ciò che i vestiti nascondono42,

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uno “scatenamento delle passioni”, ha però prodotto solo una forma di sovranità imperativa che riproduce, fino al parossismo, l’imperialismo della razionalità calcolante e morale messa in discussione proprio dal marchese de Sade. Non dobbiamo poi dimenticare le critiche mosse da Bataille a Sartre sulla necessità di riflettere sull’evento Auschwitz quale cesura ineludibile nella storia della ratio occidentale; cfr. a questo proposito infra, nota 15 p. 19; cfr. inoltre H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 2001, in particolare il saggio introduttivo di F. Fistetti, “L’epoca dei totalitarismi è davvero finita? Una rilettura di Hanna Arendt”, ivi, pp. 7-96. G. Bataille, “Il passaggio dall’animale all’uomo e la nascita dell’arte”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio e altri saggi, cit., pp. 359-377, p. 362. «Chiaramente Lascaux non è proprio il primo segno. Vi furono balbettii di cui abbiamo a volte conservato la traccia. Ma è il primo segno sensibile, perché colpisce la sensibilità, pienamente, la più grande intensità. Un uomo del mestiere, diceva recentemente di queste pitture: dopo non si è fatto nulla di meglio», ivi, nota 3, p. 361. È proprio nella diversa relazione con l’animale che emerge la distanza che “accomuna” Bataille a Heidegger sul fronte di un radicato antiumanismo. La differenza invalicabile dell’uomo dall’animale è in Heidegger costituita, data nel linguaggio – che pur non gli appartiene – in una peculiare capacità di elaborazione semantica che manca all’animale e ai vegetali, «ognora imbrigliati nel proprio ambiente, senza mai essere posti liberamente nella radura dell’essere, che, sola, è ‘mondo’. Ma essi sono legati al loro ambiente, perché privi di ‘mondo’, perché è loro negato il linguaggio», (M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 27), l’organon per eccellenza di un processo di identificazione che istituendo un rapporto di subordinazione fra soggetto e oggetto cancella l’intimità originaria

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quasi volesse sottrarsi al destino di un umanismo selvaggio che assorbe nel bisogno di civiltà la vitalità del desiderio scoprendo alla fine il suo vero volto, l’effige fredda e impenetrabile di Apollo – via via dimenticata/negata nella prassi di una ragione che ha fatto del sapere, del lavoro e del linguaggio i segni distintivi, il valore dell’uomo. Al contrario è proprio dall’arte, dalla forza dei segni sensibili dell’arte, che per Bataille nasce l’uomo, dalla capacità di un sentire che non interrompe con lo sguardo/riflessione la continuità dell’essere – quell’essere che la coscienza ha escluso proprio per poter essere chiara, per conoscere e possedere –, ma la afferma. I segni sensibili che animano le pareti di Lascaux significano la realtà di un’umanità profondamente intrisa di desiderio; una capacità d’essere che ci paralizza, osserva Bataille, perché la volontà di compiutezza e di autonomia che ci domina continua ad impedirci di trovare nel mondo animale una risposta ad esso adeguata. Degli altri e degli animali – che a quegli uomini sembravano fratelli – abbiamo infatti solo l’immagine di un mondo incompleto: giovanissimi, abbiamo appreso a vedere nell’animale ciò che gli manca e nella parola bestia che lo designava quelli fra noi che ci facevano vergognare per la loro scarsa ragione.

Guidati dall’idealità, dal “pregiudizio” platonico della kalokagathia siamo stati costretti a “rinviare” all’animalità/estraneità tutto ciò che contraddice quell’identificazione, dimenticando la forza poetica che anima i dipinti di Lascaux, la traccia di un percorso che lasciando il mondo pieno del senso, il mondo delle cose utili, entra nella notte in cui ogni senso svanisce, in cui non vediamo/conosciamo alcunché. Ma la voce che ci giunge da così lontano, dal fondo colorato delle pareti di Lascaux, è un grido di libertà, l’invito a liberarci dalla stupidità, tutta umana, che ci impedisce di ritrovarci e di stabilire tra il più semplice e il più complesso – dall’uomo più antico a quello più recente – il contatto più seducente,

l’invito a ritrovare, secondo l’insegnamento di Spinoza/Nietzsche, le ragioni di una corporeità/passione che non smette di parlare alla nostra ragione/riflessione. Per questo se non possiamo smettere di essere uomini e non potremmo rinunciare a una ragione che sola conosce il limite della ragione (tuttavia) al pari dei nostri padri che pro-

con gli altri/mondo aprendo al trionfo della violenza, ad una lotta per il riconoscimento in cui la morte non ricostituisce continuità, mentre per Bataille «l’apatia che traspare dallo sguardo dell’animale dopo il combattimento è il segno di un’esistenza essenzialmente uguale al mondo in cui essa si muove come l’acqua fra le acque», G. Bataille, Théorie de la Religion, Gallimard, Paris 1948, trad. it., Teoria della religione, SE, Milano 1995, p. 26.

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vavano vergogna nell’uccidere quelli che amavano – e che dovevano uccidere – potremmo, nella caverna di Lascaux, provare la vergogna di essere, mediante la ragione, asserviti ai lavori che a ogni costo dobbiamo portare avanti43

perdendo così, proprio nella riflessione, quel contatto, quella forma di comunicazione diretta col mondo, quell’immersione nel vortice della vita-morte che Lascaux non rappresenta negandolo nell’idealità di un modello, ma mette in opera, mostra come dice Nancy, affermandolo44. Per questo l’uomo del paleolitico non voleva, secondo Bataille, semplicemente “decorare” le pareti delle caverne, ma ne faceva lo spazio di un “rito di evocazione”, il luogo della possibile comunicazione del cacciatore con la preda, lo spazio istantaneo del farsi/apparire del contatto indistinguibile della vita con la morte. Ed il disordine che marca quelle pareti è proprio il segno più radicale di un’“arte” che “strappa gli oggetti al mondo” legando il loro significato all’istante della loro apparizione; una negazione sempre viva della cosa durevole, che nonostante tutto ogni figura era in definitiva diventata, e che mai diventerà il groviglio in cui è persa – groviglio che non può essere ridotto all’unità di senso della cosa

essendo piuttosto quel non-sense – “impossibile” – che è riserva ontologica di ogni possibile. E se da due millenni almeno e in modo abbastanza bizzarro, l’uomo si è lasciato andare ad un’elevazione di spirito legata al sentimento che gli danno le cose durevoli,

tuttavia dobbiamo ricordare, proprio “guardando” a Lascaux, che quando l’uomo ‘nacque’ non fu indotto a preferire ciò che alla lunga doveva diventare, ciò che egli è: il creatore di un mondo di cose durevoli. Al contrario, egli cancellò gli aspetti di questo mondo di cui il suo volto è segno. Non trionfava ancora ma chiedeva scusa. Oggi l’uomo trionfa ma sente già, profondamente, le ragioni che ebbe il primo uomo nel chiedere scusa di essere già ciò che sarebbe sta-

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G. Bataille, “All’appuntamento di Lascaux, l’uomo civilizzato si ritrova uomo di desiderio”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio ed altri saggi, cit., pp. 379-382, p. 382. Cfr. J.-Luc Nancy, “Peinture dans la grotte”, in Id., Les Muses, Galilée, Paris 1994, pp. 121-132, prima apparso ne La Part de l’œil, 1994, numero dedicato a «Georges Bataille et l’estétique» dove l’A., sottolineando la tesi batailleana della nascita dell’uomo dall’arte e giocando con i termini monstrans e monstrum, evidenzia come «la peinture qui commende dans les grottes (mais aussi, les grottes que la peinture invente) est d’abord la monstration du commencement de l’être, avant d’être le début de la peinture. L’homme a commencé par le savoir de cette monstration. Homo sapiens n’est tel qu’au titre d’Homo monstrans [...] l’animal monstrans se montre» nel silenzio del gesto di «une humanité sans humanisme», ivi, pp. 122-126.

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to. L’uomo attuale intuisce l’inanità dell’edificio che ha fondato, sa che non sa nulla e, come i suoi antenati velarono i loro tratti sotto la maschera dell’animale, fa appello alla notte della verità in cui il mondo che ordinò la sua presunzione cesserà di essere chiaro e distinto45.

La strategia di resistenza messa in campo da Bataille nasce anzitutto da una peculiare passione per la vita che è segno della necessità etica per l’uomo di “ricomporre” quello scambio simbolico, come dice Baudrillard46, in cui la morte, giocando il suo gioco con la vita, le sottrae ogni senso possibile facendola però paradossalmente vivere al di là dell’utile, del noto e del certo. La morte come pura “negatività senza impiego”, in quanto verità che distrugge ogni certezza e annulla ogni esperienza possibile, percorre infatti tutta la riflessione di Bataille. Dagli scritti letterari ai saggi questa esperienza dell’impossibile, che accadendo sottrae il soggetto a se stesso, a ogni possibilità conoscitiva, assume la forma di un dispendio improduttivo positivo, una consumazione dell’essere che mostrando l’insignificanza di ogni fondamento, l’inganno della incessante ricerca di “un suolo stabile”, ci riconsegna alla totalità indifferenziata e incompiuta dell’essere che siamo47. Bataille apre il saggio su La notion de dépense con queste emblematiche parole: ogni volta che il senso di una discussione dipende dal valore fondamentale della parola utile, cioè ogni volta che viene affrontato il problema essenziale riguardan-

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G. Bataille, “Il passaggio dall’animale all’uomo e la nascita dell’arte”, cit., pp. 374-376. Cfr. l’accostamento critico che F. C. Papparo delinea con la caverna platonica dove «ciò che viene messo in scena è niente altro che l’inconsistenza reale del mondo apparente», dove ciò che si vede non è ciò che è a Lascaux, ciò che viene rappresentato non è lo spettacolo dell’intelligenza che stigmatizza la distanza del segno sensibile dal modello ideale, ma l’immediata compresenza del significato nel segno sensibile. «Qui nello spazio-Lascaux, ciò che si vede è: vale a dire che l’essere si visibilizza nella messa in rappresentazione e non nella ri-presentazione-ri-conduzione a un modello ideale», (F. C. Papparo, Incanto e misura. Per una lettura di Georges Bataille, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp. 166-168). Sull’arte come dilapidazione positiva dell’energia in relazione all’il y a levinasiano cfr. G. Bataille “Dall’esistenzialismo al primato dell’economia”, cit., pp. 106 e sg. Cfr. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976, trad. it., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1990. F. C. Papparo nel saggio Incanto e misura. Per una lettura di Georges Bataille, cit., evidenziando in maniera incisiva la “paradossalità” del legame di Bataille a Hegel sottolinea che il pensatore francese assume criticamente il concetto di totalità applicandolo alla sua ricerca sul non-sapere; lo riscrive sotto il segno del Rien operando una torsione concettuale per la quale la totalità è «una totalità che si sa in anticipo incompiuta», che contiene cioè in sé «in nuce l’apertura all’impossibile». Ed è proprio nell’evidenza di una totalità «nella sua scansione labirintica e diffratta» che Bataille vede la possibilità per la filosofia di non risolversi nell’oggettività del sapere scientifico, d’essere quindi «‘un sapere che risponde […] all’angoscia del conoscere’», ivi, pp. 146-147, nota 35.

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te la vita delle società umane, quali che siano i partecipanti e le opinioni rappresentate, è possibile affermare che la discussione è necessariamente falsata e il problema fondamentale eluso48

nella misura in cui, per un verso lo stesso termine utile è oggetto delle analisi di più concezioni divergenti tra loro che cercano di superare l’impasse, dovuta alla mancanza di uno strumento capace di definire univocamente ciò che è utile, ricorrendo indebitamente a princìpi quali l’onore e il dovere, idee che, poste al di là del mondo dell’utile e del piacere e impiegate in combinazioni artificiose di carattere pecuniario dovrebbero, insieme ai concetti di Spirito e di Dio, «mascherare lo smarrimento intellettuale dei pochi che rifiutano di accettare un sistema chiuso». D’altra parte, in un’altra direzione, poiché il comune sentire non si preoccupa di queste “difficoltà elementari”, qualsiasi tentativo di contrapporsi a tali considerazioni rimane quasi sempre confinato nel contesto di una pura “riserva verbale” nei confronti della mera utilità materiale. Questa ha come suo fine il piacere considerato però solo in una forma mitigata, «essendo considerato patologico il piacere violento», e viene limitata alla produzione e acquisizione dei beni e alla riproduzione e conservazione della specie. “Attività”, alle quali, osserva Bataille, si dovrebbe aggiungere la lotta contro il dolore che, da sé, qualifica negativamente proprio il principio di piacere «introdotto teoricamente alla base» del criterio dell’utilità. Ciò rende evidente il senso di una valutazione meramente quantitativa della vita, una rappresentazione dell’esistenza che riduce a mere “concessioni”, a stati di distensione dal ruolo puramente sussidiaro, tutto l’ambito del fare che è immediatamente connesso all’affettività e all’emozione. L’attacco polemico, fin dall’apertura, è rivolto contro una visione economicistica della vita, contro l’ottica propria del contrattualismo liberale che affonda le sue radici nella società borghese sviluppatasi dopo la Riforma protestante e che, puntando sui termini dell’autonomia e della libertà del singolo o del gruppo, ha posto in secondo ordine la sua dimensione pubblica, lo spazio politico della vita collettiva, dell’interesse per il bene comune, lo spazio stesso della libertà. Una libertà che è essenzialmente, e prima di tutto, «libertà prodiga che spende e dispensa, senza fondo, il pensiero», generosità di un dare-abbandonare che non ha altro oggetto che se stessa, la possibilità del suo darsi incondizionato, aprendo verso una dialettica del dono senza mercanteggiamento. Un pensiero della libertà, una libertà del pensiero, che si pone come compito etico capace di agire contro una visione del mondo e della vita che riducendo l’essere dell’uomo a mera materia di scambio e consumo, ha fatto della vita un regno dove tutto ha prezzo e non esiste più, come dice Kant, di-

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G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., pp. 4-5.

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gnità; quel valore intrinseco e non relativo che rende ciascuno, nella sua singolarità insostituibile, un fine in se stesso e non un semplice mezzo, elemento di un’economia di mercato che lo riconosce soltanto in quanto serve e non in quanto è49, una considerazione per la quale la parte più apprezzabile della vita è data come la condizione – talvolta perfino come la deplorevole condizione – dell’attività sociale produttiva50.

È lo stesso rifiuto nietzscheano del dominio della cosa, la messa in discussione di una scienza e di un sapere che spiegando subordinano lo spirito all’oggetto, il suo rifiuto di servire, di essere utile ad una morale del debito che ha opposto l’uomo alla vita soffocando il grido di gioia di una soggettività felice «che non sarà più ingannata dal mondo degli oggetti, e si sa ridotta a NIENTE». Per questo, dice Bataille, Nietzsche è di quelli che danno, e il suo pensiero non può essere isolato dal movimento che tentò di opporre alla borghesia accumulatrice; il riconoscimento della vita nell’istante,

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«Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Il posto di ciò che ha un prezzo può essere preso da qualcos’altro di equivalente; al contrario ciò che è superiore a ogni prezzo, e non ammette nulla di equivalente, ha una dignità, ciò che concerne le inclinazioni e i bisogni generali degli uomini ha un prezzo di mercato; ciò che, a prescindere dal bisogno, è conforme a un certo gusto, cioè al compiacimento che si prova per il semplice giuoco senza scopo delle nostre facoltà mentali, ha un prezzo d’affezione; ma ciò che costituisce la condizione necessaria perché qualcosa possa essere un fine in sé, non ha soltanto un valore relativo, o prezzo, ma un valore intrinseco, cioè dignità», I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, J. Hartknoch, Riga 1785, trad. it., Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1990, p. 68. Giustamente F. C. Papparo sottolinea che «se bisogna considerare, kantianamente, l’uomo come fine – e su questo Bataille non ha dubbi –, occorre nello stesso tempo affermare con forza, al di là di Kant e di ogni umanesimo presuntuoso, la necessità dell’uomo di farsi mezzo per confermarsi come fine, per confermare cioè, senza ironia e alla lettera, la sartriana dicitura dell’uomo quale ‘passione inutile’, poiché indagato nelle sue forme storiche e colto nelle oscillazioni del proprio esistere, l’uomo si rivela essere (ed essere stato) essenzialmente una passione per l’inutile». Un essere di desiderio, più che quell’essere di bisogno che ha incarnato, fino alle soglie della postmodernità, la figura del soggetto. “Una traccia lasciata su un vetro rigato”, cit., p. 255. Mi sia consentito rimandare, a questo proposito, al mio saggio Deleuze e il pensiero nomade, Franco Angeli, Roma 1995 ed in particolare al capitolo 4, “Dalla struttura alla macchina”, dove analizzando la ripresa dell’ontologia dell’evento deleuziana sul piano di una filosofia politica ne L’Anti-Edipo – scritto in collaborazione con Felix Guattari – viene posta in primo piano una tematizzazione del desiderio come puro flusso vitale che rompe ogni codificazione. Un desiderio non asservito al bisogno, il desiderio di quegli uomini liberi, solitari e gioiosi, capaci di dire e fare qualcosa a nome proprio senza più timore d’essere chiamati folli, perché la follia, in loro, non è un crollo ma un’apertura, la capacità di fendere il corpo pieno sociale mettendone in discussione gli scopi e gli interessi. Un desiderio affermativo, critico, una vera e propria “macchina da guerra” che rende vana ogni possibile riproposizione di una metafisica rappresentativa. G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., p. 4.

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il suo è per noi il dono più grande, «il dono sovrano, quello della soggettività»51. Una soggettività generosa, sovrana, che non vuole più essere la cifra di una prepotenza teoretica che riducendo il reale nei suoi paradigmi, riducendo il mondo a cosa da manipolare e usare, ha distrutto se stessa, ma un nucleo esperienziale instabile, in cui si intrecciano passioni e ragione, immaginazione e conoscenza, momenti di u{briı e di riflessione, desiderio e volontà, la cui dignità non si confonde più con la proprietà delle cose, con quella volontà di sapere e di accumulazione che anima la società borghese dove l’oggetto, durevole, conta più del soggetto, il quale finché resta dipendente dall’oggetto, non esiste ancora per se stesso e non si ritrova che nella folgorazione dell’istante52,

nell’esperienza inappropriabile di un disinserimento dall’economia della vita che lo espone alla radicalità e alla semplicità del suo essere finito. Perché questo soggetto che io sono, che non posso nominare allo stesso modo in cui nomino ogni cosa particolare, ordinandola secondo le regole di una grammatica e di una logica escludenti, questo soggetto che io sono è un oggetto sempre in questione, sempre messo in gioco nei suoi contenuti differenziati e che si dà solo in un gioco che lo annienta come oggetto e lo restituisce, come oggetto aleatorio, a quel niente inafferrabile che è il soggetto. Questo oggetto aleatorio è nello stesso tempo la forma in cui noi ci proponiamo al desiderio dell’altro; è l’oggetto sovrano, che non serve, che non si lascia cogliere, come oggetto, nella vera realtà, quella dell’azione efficace, senza rischio,

ma solo nella ricchezza di una conoscenza comuniale, non discorsiva. Una conoscenza che scardina la logica del riconoscimento essendo piuttosto una forma di contestazione di sé espressa nell’intreccio di un linguaggio emozionale o espressivo, direbbe Klossowski, una forma di “contagio” in cui viene in primo piano l’atto di una comunicazione intersoggettiva possibile solo tra soggettività messe in questione. Io che non è niente, assenza di identità: “Je ne suis rien”, questa parodia dell’affermazione è l’ultima parola della soggettività sovrana liberata dal dominio delle cose che essa volle – o dovette – esercitare sulle cose53.

51 52 53

G. Bataille, La sovranità, cit., p. 208. Ibidem. Ivi, p. 259. Cfr. P. Klossowski, Les Lois de l’hospitalité, Gallimard, Paris 1994, trad. it., Le leggi dell’ospitalità, Sugar, Milano 1968 che raccoglie i saggi “La revoca dell’editto di Nantes”, “Roberta stasera” e “Il suggeritore”, una trilogia dove il linguaggio, come osserva Gilles Deleuze, perde la sua funzione designativa nel momento stesso in cui spariscono l’unità dei corpi e l’identità dell’io. Il nome Roberta non evoca più una persona, ma una pura intensità che si ripete e si imita attraverso le altre: «i valori del linguaggio espressivo

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Affermazione, come dice Blanchot, dell’impossibilità d’essere in quanto ipse, individuo separato, chiuso nella tautologica certezza della propria identità, perché l’esistenza di ogni essere richiama l’altro o una pluralità d’altri (perché è come una deflagrazione a catena che ha bisogno di un certo numero di elementi per prodursi, ma che rischierebbe, se questo numero non fosse determinato, di perdersi nell’infinito, alla stessa stregua dell’universo, che si compone soltanto illimitandosi in un’infinità di universi). Definisce in tal modo una comunità: comunità finita, perché ha a sua volta il proprio principio nella finitezza degli esseri che la compongono e che non sopporterebbero che questa (la comunità) dimenticasse di portare a un più alto grado di tensione la finitezza che li costituisce54.

Riprendendo la lettura de La notion de dépense vediamo che, nell’ottica di una critica radicale della società borghese, che negando ogni forma di dépense improduttiva ha decretato la fine della libertà sovrana, l’incapacità stessa di un pensiero della comunità, tradito nell’utilitarismo di un’opera, di un progetto, Bataille evidenzia come le stesse relazioni sociali vengono ormai disegnate, disciplinate e normalizzate, sintomaticamente, secondo una economia di mercato che fa dei corpi – soggetti individuali e collettivi – gli oggetti di un calcolo politico, utilitaristico, nella misura in cui ritiene che «un aumento esagerato del numero dei viventi rischia di diminuire la parte individuale» minando così alla base la sostanza etica delle relazioni sociali. Per questo una tale società è piatta, arida e in essa l’esistenza dell’uomo è quella miserevole dell’homo œconomicus di chi, kantianamente minorenne, vive all’ombra del principio economico del pareggio dei conti (le spese regolarmente compensate dagli acquisti), il solo razionale nel senso stretto della parola55,

che regola, ordina e misura la vita sotto il segno dell’efficienza, ignorando quel “di più” incalcolabile che è oltre l’utile, perché è incapace di pensare da sé, di andare oltre se stesso, oltre le ristrettezze di un utilitarismo che non conosce il piacere della vita. Ed è cruda l’immagine metaforica di una società

54 55

o espressionistico sono la provocazione, la revoca, l’evocazione. Ciò che è evocato (espresso) sono gli spiriti singolari e complicati, che non possiedono un corpo senza moltiplicarlo nel sistema dei riflessi e che non ispirano un linguaggio senza proiettarlo nel sistema intensivo delle risonanze. Ciò che è revocato (denunciato) è l’unicità corporea come l’identità personale, e la falsa semplicità del linguaggio in quanto presume che designi dei corpi e manifesti un io. Come dicono gli spiriti a Roberta: ‘se noi siamo evocabili, revocabile è ancora il suo corpo ’», G. Deleuze, “Fantasma e letteratura moderna”, in Id., Logique du sens, Minuit, Paris 1969, trad. it., Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 247-291, p. 263. M. Blanchot, La communauté inavouable, Minuit, Paris 1983, trad. it., La comunità inconfessabile, SE, Milano 2002, p. 35. G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., p. 7.

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cieca, simile ad un padre che, con malevola sollecitudine, soddisfa i bisogni materiali del figlio, ma non vede, non ascolta ciò che si agita oltre quei bisogni. È l’immagine di una società «regolata sul modo servile dei rapporti del padre col figlio», un’immagine storicamente modellata dal lavoro di un potere che ha fatto del piacere una droga per deboli e potenti risolvendo la politica nell’indifferenza apatica di un sistema in cui miseria e ricchezza diventano i dadi necessari al gioco di una dépense calcolata «che non modifica per niente la fondamentale divisione delle classi d’uomini in nobili e ignobili». Ma proprio perché si tratta di un’immagine storicamente prodotta, sottolinea Bataille, essa può essere ribaltata mostrandone, genealogicamente, l’assoluta non necessità. La stessa assoluta non necessità di un Pensiero Unico – di una razionalità e di una logica univoche ed escludenti e di un soggetto identico a sé, signore e maestro di verità – deve dispiegare la forza di una assoluta necessità di recidere le norme, di trasgredire il sapere per tornare a pensare, per vivere nell’orbita di un’esistenza al di là dell’Essere, al di là dell’utile e della produttività, in quello spazio atopico del sacro e del sacrificio che Bataille delinea/sperimenta nella forma di una comunità impolitica, désœuvrée, quale quella di Acéphale, capace di resistere alle derive di un potere votato alla violenza e alla dominazione. Capace di uscire dall’impasse di un dispendio che per mantenersi deve necessariamente ricorrere a qualche forma di produzione, liberando – nelle riflessioni messe in atto ne La limite de l’utile – il sacrificio dall’economicità dello scambio nella radicalità di una perdita che, spogliando soggetto ed oggetto delle loro determinazioni, instaura una comunicazione sacra, comuniale, dove «il sapere non si differenzia più dalla follia». È l’eco della follia nietzscheana, una follia divina, dionisiaca, che scuote il ritmico scorrere del sangue nelle vene di Apollo aprendole al flusso della vita, al disordine di un’esperienza estatica che in Bataille si fa forma di una conoscenza non ragionata e di una pratica di scrittura plurale che attivando un’interrogazione radicale sul senso mettono ogni discorso in rapporto col non-discorso assoluto, eliminando le classiche opposizioni di senso e non senso, di positivo e negativo, di bene e male. Esperienza che l’esistenza fa di se stessa oltre l’esercizio dell’intelligenza, esperienza interiore che «è comunicazione tra esseri e, con ciò, formazione di esseri nuovi»56, nascita di uomini nuovi, artefici di quella nuova forma di umanità predicata da Zarathustra che, simile ad un neonato, «si getta nella vita prima di saperne qualcosa»: perché possiamo rifare la vita e condurla più lontano soltanto attraverso una nuova nascita, un sacrificio/dono di sé che è segno di un’autonomia generosa e di una libertà che è puro dare e perdersi. In questo senso anche la Rivoluzione è un’operazione in pura perdita, la distruzione di quella parte di sé troppo umana, alta, votata all’appropriazione e alla sopraffazione, una dépense necessaria perché 56

G. Bataille, «Il Collegio di Sociologia», in D. Hollier (cur.), Il Collegio di sociologia, cit., pp. 435-444, p. 442.

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la vita umana, distinta dall’esistenza giuridica è tale quale in realtà si svolge su un globo isolato nello spazio celeste, dal giorno alla notte, da una contrada all’altra; la vita umana non può in alcun caso venir limitata ai sistemi chiusi che le vengono attribuiti in talune concezioni ragionevoli. L’immenso travaglio di abbandono, di scorrimento e di tempesta che la costituisce potrebbe essere espresso dicendo ch’essa comincia solo con il deficit di tali sistemi […] se non a partire dal momento in cui le forze ordinate e tenute in serbo con moderazione si liberano e si perdono per fini che non possono venir assoggettati a niente di cui sia possibile render conto. È soltanto con una tale insubordinazione, anche miserabile, che la specie umana cessa di essere isolata nello splendore incondizionato delle cose materiali57.

Una rottura dei principi razionali dell’omogeneità e dell’identificazione – un rovesciamento della forma del pensare, del processo filosofico come organon di una conoscenza appropriativa – che delinea una materialità del pensiero che sottraendolo al giogo dell’ordine grammaticale e della logica proposizionale lo immette nella dismisura della pratica eterologica.

2. Dépense. Sovranità Se Hegel e Freud sono, accanto a Nietzsche, i poli di riferimento filosofici dell’analisi batailleana – da un lato l’impianto psicoanalitico con particolare riferimento, come ho detto, al Disagio della civiltà e, dall’altro la tematica hegeliana del negativo filtrata attraverso la figura dialettica della signoria e della servitù nella Fenomenologia dello Spirito – Marcel Mauss e le sue ricerche etno-antropologiche – in special modo il Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche – ne costituiscono il quadro di riferimento scientifico capace di rendere possibile un rovesciamento del principio di Carnot, una revisione dell’ineluttabile morte/sfaldamento dell’essere nell’ottica di un dispendio positivo, di una perdita/distruzione che anziché precipitare nell’abisso del nulla apre la realtà su due fronti. Da un lato questa distruzione di fatto annienta l’utilità della cosa, consegnandoci, nel momento stesso del suo annichilimento, ciò che va oltre l’utile,

quella sacralità che, per un altro verso, apre alla creazione di uno spazio, anch’esso sacro, di una comunicazione sottratta alle leggi dello scambio: di una comunicazione che, ancora per il momento, definiremo ‘totale’58, 57 58

G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., p. 21. F. Rella, “Lo sguardo ulteriore della bellezza”, Introduzione a G. Bataille, La parte maledetta, cit., p. XVIII. Per quanto riguarda la “presenza” di Freud nelle riflessioni di Bataille cfr. soprattutto C. Pasi, Georges Bataille. La ferita dell’eccesso, Bollati Boringhieri, Torino 2002, che è anche un’interessante interpretazione analitica della vita e dell’opera del pensatore francese.

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e che può indicarci la direzione di un possibile cambiamento della “cultura dell’estraneità” che, sostenuta da un capitalismo ormai globalizzato, domina ogni nostra relazione. Un mutamento di senso che esige la consapevolezza della necessità di far rientrare la vita, divisa dalla conoscenza e dal lavoro, nell’insieme coerente dell’essere, una totalità che Bataille pensa in sintonia con Hegel, ma che, contro Hegel, rifiuta qualsiasi totalizzazione nella misura in cui pretende la fragile incompiutezza di un essere che nell’esperienza di sé si mette in gioco. Il principio dell’utilità materiale che regola le società moderne ha fatto del piacere, come abbiamo visto, il suo fine, una necessità, evidenzia Bataille, che lo ha di fatto circoscritto alla produttività di cose e vite mentre quello connesso all’arte, o anche al vizio, «viene ridotto nelle rappresentazioni intellettuali correnti, a una concessione, cioè a un momento di distensione il cui ruolo sarebbe sussidiario»59. Con una certa lucida negatività Freud riconosce come inevitabile pegno da pagare per lo sviluppo della civiltà non solo la “rinuncia” alla sessualità, ma anche all’aggressività, perché se di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi ristrettezza pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza […]. Ma forse ci abitueremo anche all’idea che ci sono difficoltà inerenti all’essenza stessa della civiltà e che esse resisteranno di fronte a qualsiasi tentativo di riforma60.

Per Bataille – che in questo modo, possiamo dire, anticipa non solo le analisi dei teorici critici, ma in particolare il pessimistico verdetto di Anders sul futuro dell’umanità – l’esclusione/controllo della vita pulsionale, quale strategia propria del sapere-potere della ragione strumentale, ha ingenerato nell’uomo un’apatia e un’indifferenza tali che il nostro esser minorenni s’arresta di fronte al rischio di un piacere incalcolabile, relegando/reprimendo nell’inconscio quelle spinte vitali che non potranno che ripresentarsi, ritornare nella forma unica di una potenza distruttiva. Se il consumo è attività propria della vita umana esso va distinto, in relazione al suo uso/impiego, in un uso produttivo, legato alla conservazione della vita attraverso la riproduzione dell’attività stessa del produrre, e in un uso improduttivo (dépense), aneconomico in quanto fine a se stesso ed in cui Bataille comprende non solo il lusso, le produzioni artistiche nella loro forma maggiore61 e gli spettacoli, ma anche le guerre, i culti, i lutti e l’attività ses59 60 61

G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., p. 4. S. Freud, “Il disagio della civiltà”, cit., pp. 602-603. Parlando della poesia come di una forma espressiva meno intellettualizzata, di uno stato di perdita che l’avvicina al sacrificio, nella terza versione de La notion de dépense – come giustamente ricorda il curatore della traduzione citata – Bataille dice che «qui non si tratta più di perdita reale di una vittima animale o umana, ma di perdita rappresentata da associazioni d’immagini che distruggono l’ordine delle cose pratiche. Questa dépense, è vero,

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suale non finalizzata alla procreazione. Tutte quelle attività che non hanno scopo e per le quali il principio della perdita deve essere il più grande possibile. È il caso ad esempio dei gioielli il cui valore simbolico, nella psicoanalisi, si accosta al sacro/sacrificio: infatti non basta che i gioielli siano belli e splendidi, il che ne renderebbe possibile la sostituzione con altri falsi: il sacrificio di una fortuna alla quale si è preferita una collana di diamanti, è necessario alla costituzione del carattere affascinante di tale collana;

è la perdita, il sacrificio di una parte di sé che può essere esposto, mostrato, ciò per cui sono destinati, che conferisce ai gioielli il loro valore. Ma il sacrificio – e ciò è particolarmente evidente nei riti cultuali – altro non è che la produzione di cose sacre, di ciò che per natura non può essere rimpiazzato, sostituito, in quanto è assolutamente inutile, senza prezzo né misura. Si tratta di un principio di perdita incondizionata in relazione al quale i gioielli come gli escrementi sono materie maledette che colano da una ferita, parti di se stessi destinate ad un sacrificio ostensibile.

Sono doni che vivono fuori dal circolo del commercio, simbolo di un daredonare-fare-sacro in cui l’operare è segno di una perdita improduttiva, di un “decadimento senza limiti”; una dépense la cui posta in gioco è la vita stessa, una produzione-creazione capace di restituire «al mondo sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano». In questa direzione si pone l’ipotesi batailleana di pensare un’economia generale che, facendo perno sulle ricerche fisiche di Georges Ambrosino62 sui flussi di energia alla superficie del globo terrestre trova, proprio nell’eccedenza delle forze che percorre il campo della vita rispetto a quelle effettivamente necessarie al suo mantenimento, il principio di una perdita senza profitto, la possibilità di rompere l’isolamento prodotto da un sistema di economia ristretta che rischia di renderci vittime di tale sovrappiù: poiché, se non abbiamo noi stessi la forza di distruggere l’energia in sovrappiù, essa non può venire utilizzata; e, come un animale intatto che non si può ammaestrare, è lei a distruggerci, siamo noi che paghiamo le spese dell’inevitabile esplosione63.

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cessa di essere puramente simbolica nelle sue conseguenze», G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., nota 2, p. 9. «Devo qui ringraziare il mio amico Georges Ambrosino, direttore presso il Laboratorio dei raggi x, senza il quale non avrei potuto costruire quest’opera. Il fatto è che la scienza non è mai la cosa di un uomo solo; richiede lo scambio di opinioni, lo sforzo comune. Questo libro, per una parte importante, è anche opera di Ambrosino. Mi dispiace personalmente che le ricerche atomiche cui è tenuto a partecipare lo allontanino, almeno per un certo periodo, dalle ricerche di ‘economia generale’. Devo esprimere il desiderio che riprenda in particolare lo studio che ha cominciato con me sui movimenti dell’energia alla superficie del globo», G. Bataille, ivi, nota 2, p. 29. Ivi, pp. 7-9.

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Per questo motivo è necessario operare per un vero e proprio rovesciamento della “morale” e del pensiero che sottendono, sostengono, l’economia ristretta; occorre mettere in atto una vera e propria rivoluzione copernicana nella direzione di un’economia generale dove le stesse possibilità di crescita sono, paradossalmente, ma necessariamente, connesse ad operazioni senza profitto, nell’ottica di quel donare senza riserve e senza contropartita, metaforicamente rappresentato dalla prodigalità gloriosa del sole e nelle forme del piacere erotico e dell’eccesso religioso: un modo d’essere e un’esistenza connessi al piacere e non sottomessi al bisogno. Ma questo consumo inutile dell’eccedente non avviene solo nella forma gloriosa del dono generoso, un consumo della vita a favore della vita o, come direbbe Michel Foucault nell’ottica di una biopolitica positiva, ma anche in quella “catastrofica” di una dépense che, paradossalmente, per far vivere nega la vita, come nel caso delle innumerevoli guerre, più o meno giuste, che animano la prassi biopolitica contemporanea lavorando ad una reificazione totale della vita nella perfetta rispondenza a quel processo di razionalizzazione etica in cui Max Weber ha visto il nocciolo duro di un capitalismo trionfante che ha fatto del lavoro alienato e del bisogno di accumulazione gli imperativi categorici della prassi sociale. È in questo senso, osserva Habermas, che Bataille considerando la modernità come perfettamente inserita nella storia della ragione, una storia «in cui le forze della sovranità e del lavoro si contrastano a vicenda», opererebbe uno vero e proprio scollamento etico e politico tra gli elementi omogenei e quelli eterogenei, una visione che ci pone, problematicamente, di fronte alla necessità di un mutamento della prassi omogeneizzante e totalizzante che caratterizza la storia dell’Occidente64. Di fronte all’esigenza di un «trapasso dalla società totalmente reificata, al rinnovamento della sovranità» a cui sembra, infatti, rispondere il progetto di un’economia generale, ampliata al bilancio energetico della natura in complesso […]. Questa impresa si impiglia, però, nei paradossi di una critica della ragione riferita a se stessa. Così Bataille oscilla, alla fine, fra un incoerente ricollegamento al progetto hegeliano di una dialettica dell’Illuminismo da un lato, e dall’altro una giustapposizione immediata di analisi scientifica e mistica linguistica65.

Ma l’“incoerente” rimando a Hegel è, come ha evidenziato Jacques Derrida, l’espressione di un “hegelismo senza riserve” che facendo giocare Hegel contro Hegel, evidenziando la necessità della “fine della storia”, il compimento della dialettica, ne rileva l’intrinseca paradossalità: la sovranità mancata del

64 65

Cfr. J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Surkamp Verlag, Frankfurt am Main 1985, trad. it., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1987, p. 238. Ivi, p. 219.

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signore e l’incapacità del servo di riuscire, là dove quello ha fallito, sono il segno stesso della possibilità dell’inizio di una storia altra, la storia aperta da una ragione critica di se stessa per la quale l’estraneità è legame che distingue e unisce e il negativo non può più lavorare, non può essere impiegato, riassunto nella lucidità statica del positivo, né regolato nella prassi di un discorso normativo. La critica della ragione, fatta in nome e per conto della ragione, è allora la forma di un far ragionare la ragione che andrebbe intesa nell’ottica di quel «salvare l’onore della ragione» che il pensatore della decostruzione mette in campo richiamandosi a Husserl; un tendere la mano ad una ragione tradita, compromessa proprio «nella vicenda dell’Aufklärerei», perché una incalcolabilità razionale e rigorosa si è annunciata come tale appunto, nella grande tradizione dell’idealismo razionalista. La razionalità del razionale non si è mai limitata, come si è tentato di far credere, alla calcolabilità, alla ragione come calcolo, ratio, conto da rendere, resoconto,

ma è presente nella forma di quella immediatezza della incondizionatezza dell’incondizionato propria dell’idealismo trascendentale kantiano e husserliano, in quella parte della vita in-appropriabile che eccede il sapere calcolabile. Ma come pensare, nello stesso tempo, la relazione e la distanza fra la ratio e l’incondizionalità, come pensare, si chiede Derrida, l’opposizione del calcolabile e dell’incalcolabile? Come articolare allora giustizia e diritto, dignità della vita e mercificazione, l’incondizionalità insita nell’esigenza critica, “decostruttice della ragione”, e il “mal di sovranità” che abita l’ipseità dello stesso? È necessario un cambiamento di rotta, una rivoluzione nel fare e nel pensare: si tratta di pensare la ragione, di pensare il venire del suo avvenire e del suo divenire come esperienza di ciò che viene e di chi viene, di ciò che o di chi arriva – evidentemente come altro, come eccezione o singolarità assoluta di un’alterità non riappropriabile dall’ipseità di un potere sovrano e di un sapere calcolabile66. 66

J. Derrida, Voyous, Galilée, Paris 2003, trad. it., Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 190-209. Ed è in riferimento ad un “messianesimo senza messianismo” – che renderebbe “giustizia” ad un pensiero della eredità, dell’essere-eredi come assunzione di un compito etico da perseguire oltre e dopo l’orizzonte definito dall’onto-teleo-logia – che Derrida vede nel compimento della Storia ad opera dello Spirito Assoluto, o nella vittoria della vecchia talpa marxista, non tanto l’apertura di un nuovo corso della Storia, ma l’inizio di una «storia dell’altro, Storia dell’uomo come altro» in cui non ci sono fini prossimi o progetti, «disegno ontologico o teleo-escatologia», ma la messa in chiaro della necessità di una «ri-politicizzazione, forse di un altro concetto del politico». Una necessità che possiamo vivere proprio a partire da una riflessione aneconomica delle relazioni sociali nella direzione di un pensiero della comunità dove la morte è, col venire al mondo della vita (nascita), la «prova suprema» di un legame senza legame, un’amicizia nella solitudine che in Nietzsche dà il senso di un essere vicini-insieme proprio di chi non ha comunità. Cfr. J. Derrida, Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993, trad. it., Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 126.

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Si tratta di pensare una forma di incondizionalità senza signoria, un’ospitalità, un dono e un perdono incondizionali, incalcolabili, non pareggiabili; si tratta di pensare l’impossibile, che non “significa ‘nulla’”, ma è anzi proprio l’accadere del pensiero, la possibilità del suo a-venire. Si tratta di pensare il senso di una eterogeneità la cui eccedenza implica, anzi richiede, il rimando al calcolabile, all’omogeneo, al negoziabile, prendendo atto di un’autodelimitazione, una certa autoimmunità che spinge la ragione a “transitare” da una parte all’altra, dal calcolo all’incalcolabile, senza alcuna regola o garanzia se non quella della prassi rischiosa di una «scommessa ragionata e argomentata» che si apre, possiamo dire, in quel gioco del limite e della trasgressione in cui prende senso l’esistenza. È la forma di un pensiero passivo, direbbe Gilles Deleuze, il senso di una “decisione passiva”, di «una libertà senza autonomia, una eteronomia senza schiavitù»; la libertà di un soggetto fuoriuscito da sé, di una ragione che si interroga e si supera, una ragione che ragionando diviene, responsabilmente, capace di “transitare”, “transare” tra i due estremi inconciliabili del calcolabile e dell’incondizionale. Un passare dove il ragionevole, è ciò che, portando nella sua portata la pre-ferenza stessa, sarà sempre preferibile – e quindi irriducibile – al razionale che esso eccede. In tali frasi, il razionale avrebbe sicuramente a che fare col giusto, giustamente, e talvolta con la giustezza della ragione giuridica e calcolatrice. Il ragionevole, invece, farebbe di più e altro: terrebbe sicuramente conto della calcolabilità della giustezza giuridica, ma compirebbe anche uno sforzo, attraverso la transazione e l’aporia, in direzione della giustizia67.

È la forma di una ipseità sovrana, una forma di pensiero e un modo d’essere per i quali l’esistenza non è riducibile all’ordine del calcolabile, alla dimensione di un possibile riproducibile e capitalizzabile, perché è quell’impossibile sottratto alla volontà e alla conoscenza – la morte – che accadendo improvvisamente rende conto della assoluta contingenza dell’esistere, della assoluta precarietà e incompiutezza del nostro esserci. È il “lusso della morte”, osserva Bataille, che con l’esuberanza erotica mostra come nella rinuncia ad un’esistenza congelata, nella negazione di un io potente, si rende evidente la verità della vita come nietzscheana affermazione del divenire dell’essere. Volontà di potenza che scardina il tempo dalla figura del circolo, dalla rappresentazione di un tempo ricurvo, fisico, cardinale, misurabile nella successione degli istanti e degli elementi conosciuti e riconosciuti da in Io che distingue un prima e un dopo, per un tempo, come dice Deleuze, ordinale. “Time out of joints”, rivoluzione, movimento vivo fuori dall’ordine delle idee e dei progetti che bloccano l’azione legandola a un «sistema di misure equivalenti». È allora necessario pensare un nuovo inizio: dopo l’hegeliano compi-

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J. Derrida, Stati canaglia, cit., p. 224.

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mento del progetto del sapere assoluto, possibile proprio attraverso la forma di un tempo liberato dagli avvenimenti, la forma di un mutamento radicale, quella propria dell’Aion, il tempo dell’istante atopico, durata ontologica senza spessore né estensione. Aion, eventum tantum, vita che annulla la potenza divorante di Kronos che ripercorre e sottolinea il continuum indifferenziato di Okeanos, ricostituendo, sempre, un nuovo Chosmos. È l’idea che fa star male Zarathustra, il pensiero sconvolgente che ciò che torna sono il Tutto, il Simile, l’Analogo, il Negativo, mostrando però che non tornano individui e mondi, ma secondo l’insegnamento stoico, solo eventi incorporei liberi da ogni affermazione, liberi «sempre per altre volte». Il nichilismo è per Nietzsche follia e spirito di vendetta, muta la volontà libera, la volontà di potenza; vuole redimere il tempo dall’abisso del già trascorso e per questo è volontà creatrice, affermazione di un soggetto sovrano che predica il «così fu» non come fanno gli amanti della morte, i calunniatori del corpo, prigionieri di un divenire che annichilisce la vita, ma affermando del divenire la differenza, quel movimento del diapherein in cui l’identico e il simile, l’analogo e il negativo non preesistono al ritorno68. È il movimento di un volere che non risolve il dolore e la sofferenza, ma ne fa gli oggetti di un’affermazione sovrana: è il grido di gioia di Nietzsche, dice Bataille, il grido della soggettività felice «che non sarà più ingannata dal mondo degli oggetti e si sa ridotta a NIENTE». È la volontà di un soggetto che, posto nel flusso dell’esistenza, resiste opponendosi a che torni non solo l’uomo piccolo, il meschino che non vuole superarsi, ma anche Teseo, l’uomo superiore, l’eroe della conoscenza che ha legato la sua affermazione alla cattiva coscienza e al risentimento, l’uomo teorico che nel segno di Socrate ha creduto che «il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere». Il volere per Nietzsche non è un atto come gli altri, ma la dimensione genetico-critica di tutti i nostri atti, delle nostre azioni e passioni, dei sentimenti e del pensiero, atto creativo che non afferma i valori consolidati, stratificati nel sapere, ma li produce. In questo senso è ratio essendi, affermazione del divenire attivo nell’eterno ritorno, affermazione dell’essere del divenire, produzione della differenza nella ripetizione. Posto nell’ottica dell’eterno ritorno dell’uguale – nel senso di quella univocità non categoriale dell’essere di cui parla Gilles Deleuze – il nihil del nichilismo non è più né il non essere né la negazione della volontà, ma una qualità del negativo trasmutata, una negatività pura, “senza impiego”. Ed è rilevante, a questo proposito, la “correzione”, possiamo dire, che Bataille fa della volontà di potenza, o meglio di un uso “appropriato” – da destra o da sinistra – del testo nietzscheano là dove, osserva Roberto Esposito, la potenza

68

«Né lo stesso né il simile tornano, ma lo Stesso è il tornare di ciò che torna, vale a dire del Differente: il simile è il tornare di ciò che torna, vale a dire del dissimile», G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 473-476.

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è vista come necessaria alla costituzione della sovranità nella misura in cui, in quanto termine politico, è sottoposto ad un mutamento di registro che lo sottragga all’orbita nichilista […] contro la potenza come volontà di sapere, di previsione, di calcolo, la potenza sovrana è essenzialmente volontà di chance. Potenza del caso,

il sì sacro del fanciullo eracliteo che gioca in un presente estatico, libero dal peso di un tempo che ci misura secondo il passato e il futuro, una “messa in gioco” che, contro il calcolo della speculazione, è follia dell’incalcolabile, dell’imprevedibile. Amor Fati, amore di ciò che è come affermazione della sua immutabile possibilità. Amor Fati, chance, Necessità e decisione. Volontà di ciò che è già stato come ciò che ritorna nel futuro perché sospeso nell’Eternità dell’attimo. Al suo stare nel divenire oltre esso. Alla sua trascendenza immanente69.

3. Sacro e dispendio Per questo Bataille cerca una forma di dépense non catastrofica, un consumo dell’energia eccedente che non faccia ricorso, secondo interessi soggettivi o corporativi, né alla guerra né tantomeno ad un’azione rivoluzionaria utile, “metodica” – come voleva Simone Weil –, ma nella direzione di un agire che possiamo dire ragionevole, che non consideri più il dono razionalmente, mettendo così in atto una politica del pareggio che mira, diplomaticamente, a una distribuzione quanto più possibile «eguale delle risorse nel mondo», distruggendone, nel calcolo e nella misura, la inappropriabile generosità/generatività, ma nella forma di una dépense improduttiva possibile per una soggettività sovrana e nella pratica di un sacrificio che, paradossalmente, crea in quanto distrugge, in quanto cancella l’essere “ridotto” a cosa dell’uomo e dell’ambiente. Cerchiamo allora di comprendere il nesso ineludibile che lega e distingue sacro e dépense attraverso il sacrificio in quanto atto che “ripristina”, al di là di ogni mediazione, l’intimità del soggetto con l’oggetto, distruggendo la forma di un rapporto utilitario che il processo di civilizzazione ha instaurato tra l’uomo e il mondo, tra uomo e uomo. Una forma di relazione prodottasi a partire dal momento in cui, in quanto essere di bisogno, l’uomo ha introdotto il lavoro nel mondo sostituendo alla profondità del desiderio e al suo libero scatenarsi l’incatenamento ragionevole ove la verità dell’istante presente non importa più, bensì importa l’ulteriore ri-

69

R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit., pp. 287-292.

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sultato delle operazioni. Il primo lavoro fondò il mondo delle cose, al quale corrisponde generalmente il mondo profano degli Antichi70.

A partire dalla situazione del mondo delle cose, l’uomo diventa egli stesso una cosa tra le cose; lo stesso lavoro vale solo in quanto utile, solo in quanto si fa organon per la trasformazione/uso dell’ambiente, progetto per un consumo del tempo futuro. Anche la conoscenza si fa servile, strategia per prendere il mondo, operazione sempre ripresa e ripetuta che non conosce più la sovranità dell’istante. Una decadenza da cui l’uomo ha cercato, in tutti i tempi, riparo attraverso la produzione di miti e riti che restituissero sé e il mondo all’intimità perduta; un coinvolgimento capace di liberare l’azione dalle catene del tempo profano, di sciogliere l’assoggettamento del presente al futuro, di svincolare la stessa azione rivoluzionaria dalla subordinazione ad un progetto pensato nell’ottica alta dei politici di mestiere, facendo di nuovo spazio allo scatenamento delle passioni dal basso. Pensando la qualità della condizione umana, la vita dell’uomo nel mondo, con la bellissima metafora di una “Galassia scintillante e mobile”, Bataille vede, ne La limite de l’utile, il nostro mondo come un pianeta immobile, pesante, simile ad una stella ormai spenta, isolata nel mobile splendore dell’universo, un suolo su cui l’uomo vive ormai come «un dio caduto che si ricorda dei cieli»; sicuro nella sua indipendenza li guarda, ma non è più alla loro altezza da quando in mezzo al cielo una piccola regione si è data l’autonomia. L’illusoria immobilità e la reale pesantezza del nostro suolo si sono separate dal moto in cui si perde l’insieme. Riconosco, mentre scrivo, la verità del mondo che mi sostiene, ma l’esistenza pesante che mi appartiene non può sfuggire alle sue leggi: questa verità non è altro che uno spettacolo esteriore71;

l’uomo non vive più a misura dell’universo, non partecipa più all’ebbrezza del cielo, ma lega la sua vita all’illusione di solide e immutabili radici. La nostra pesantezza è il risultato più eclatante della perversione di una ratio che ha volto il nostro desiderio d’infinito nella necessità di legare ogni verità a un fondamento immutabile; una conversione che ci ha resi sempre più avidi di forze portandoci a misurare ogni valore col metro della quantità di forze/risorse di cui siamo capaci di impadronirci, mentre, vilmente, mascheriamo la nostalgia per la profondità del cielo, per quel sole che è ormai per noi solo una fonte di calore. Per questo, osserva Bataille, «l’uomo attuale è probabilmente la creatura più estranea all’universo che sia mai vissuta», perché, diciamo con Spinoza/Nietzsche, non sa ancora quali forze siano celate nel corpo, in quel grande altro dalla ragione la cui capacità di sentire in mo70 71

G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, cit., p. 68. G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., p. 20.

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do non riflesso si offre come chance all’intelligenza per una vera e propria redenzione. Per questo «bisogna opporre a quello che ci inganna un’altra sensibilità», la decisione di vivere all’altezza della morte e fuori di sé. È la scelta di entrare, allora, nella dimensione di un’“economia generale” posta nel quadro di un’ontologia che pensa l’essere come intrinsecamente immanente nel reale; è la posizione di una materialità nel pensiero che includendovi la differenza e la marginalità rompe il quadro di una metafisica fondante e fondamentale mettendo in discussione la violenza di un’onto-teleologia che ha costruito il suo/nostro mondo modellandolo secondo i paradigmi dell’utile, dell’ordine e del razionale, secondo i canoni della logica di un sapere che ha messo tra parentesi la vita abbandonando l’originaria comunialità degli esseri, la verità di quel dono di sé all’altro, dice Bataille, che crea soltanto una forma di coscienza elementare. Non è il sapere. È un atto distinto del soggetto. Ma il sapere per l’esattezza si rivolge agli oggetti, non agli atti: a sfere isolate del soggetto, e non alla comunicazione tra soggetto e oggetto. Il sacrificio crea la coscienza dando al soggetto l’immobilità di una lastra sensibile. Solo più tardi su questa lastra sensibile si inscriverà il mondo oggettivo privato delle relazioni con l’interiorità del soggetto – con la parte soggettiva del soggetto. A sua volta questa facoltà di concepire l’oggetto nella sua esteriorità ha presupposto una nuova fase della coscienza. C’è stato l’uomo consapevole dell’oggetto – e del soggetto – che si oppone […] ma le due specie di coscienza erano sovrapposte e rimanevano indipendenti72.

Solo rompendo il cerchio della comunicazione sacrificale, violando il segreto del sacrificio nella catena logica della spiegazione causale, il sapere ha potuto crescere: ciò che esso descrive però non è il mondo così come c’è (il y a), «questa consumazione impersonale, anonima, ma inestinguibile dell’essere», che in Lévinas “dissolve” l’esistente nell’esistenza – “esperienza” ineffabile che sfugge alla discorsività della logica proposizionale, all’ordine e al calcolo di un’economia ristretta, essendo comunicabile solo nella libertà di una parola e di una scrittura maggiori, sovrane, nell’eterogeneità di un dire poetico –, ma il prodotto di una coscienza divenuta oggettivante, quella di una soggettività bisognosa, che tradisce sé e il mondo nella sua avidità di possesso73. È per questo che 72

73

G. Bataille, ivi, p. 182. «Nella rappresentazione hegeliana del mondo mi colpisce la natura dei partecipanti. Il mondo si sviluppa costituito di uomini, e ognuno di essi muore prima di aver saputo. Il sapere si sottrae, e senza dubbio ha sottoposto Hegel alla stessa condizione. È probabile che Hegel abbia creduto di sfuggire a questa legge: un po’ di lucidità gli avrebbe fatto vedere che vi soccombeva – senza che si generasse alcuna contraddizione: può esistere il sapere assoluto senza che almeno uno di quelli che sanno sfugga alla legge? Hegel sbagliando ancora, fu certo di sapere. Dovrebbe, immagino, trovare nella condizione del sapere – finito nel tempo – il riflesso di ciò che è saputo. Se fosse diversamente, come potrebbe esserci identità del soggetto che sa e dell’oggetto che è saputo?», ivi, p. 165. «Se riprendo la terminologia di Lévinas, il soggetto si conduce quindi in esistenza e non in esistente: non è più il soggetto del mondo oggettivo, opposto all’oggetto, che egli non è, di

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la vita, fuori della consapevolezza dei giochi che vincolano al mondo profondo, non ha più senso, è niente altro che un residuo cinereo (mentre) solo l’ingranaggio – l’‘uomo utile’ – è glorificato. Il residuo dell’uomo umilia l’uomo, e noi, noi subiamo l’umiliazione nell’ebetudine,

lontani da quella libera creazione/dono del Sole e delle stelle che è segno di «prodigalità, coraggio smisurato, sacrificio, genio poetico»; lontani da quella dimensione eterogenea/sacra dell’energia vitale in eccesso che è negata dall’organizzazione della vita nel lavoro/consumo necessari al costituirsi della società. Una rinuncia, attraverso la posizione di norme e divieti, alla ricchezza pulsionale della vita, a quella forza incalcolabile nella logica ordinaria e indicibile nel linguaggio discorsivo, che è l’intimità di sé con sé, di sé col mondo, un’affettività in cui s’apre l’esperienza di una comunicazione paradossale, non linguistica, non discorsiva, una comunicazione iper-razionale o sur-razionale nel senso di una razionalità altra, trasgressiva, una forma espressiva diversa della ragione che non nega la razionalità ordinaria, ma ne discute i limiti riconoscendone, nello stesso tempo, la necessità per la sua esistenza. Comprendiamo allora come ciò che il sacrificio mette in atto, osserva Bataille, è una distruzione, ma questa non indica un annientamento del sacrificato bensì una sua restituzione al mondo dell’inutilità, alla libertà del non farsi/essere cosa nella servile subordinazione dell’esistente alla produzione e al lavoro. Un movimento che implica una sorta di “caduta” della coscienza – un indebolimento dell’io teoretico – nella misura in cui l’intimità col mondo esige la negazione della realtà oggettiva e quindi di quel valore di posizionalità a cui è connessa la percezione chiara e distinta di una coscienza “piena”, che vuole e conosce74.

74

cui se può si appropria in modo utile. Egli abbandona senza contropartita ad altri una parte delle ricchezze di cui dispone, anche indipendentemente da ogni appropriazione altrui. Ciò suppone in primo luogo che cessi nel tempo presente di fare la differenza tra se stesso e l’altro, il che vuol dire anche: al culmine non distingue più il mondo dalla sua esistenza». Ma questo fatto d’essere, osserva Bataille, Lévinas lo definisce ancora ponendo l’accento sull’operazione intellettuale, discorsiva, legandolo al soggettivo, all’«orrore che ne prova»; respingendo quindi quella gioia estatica che ci deriva dall’insegnamento nietzscheano della “Pratica della gioia davanti alla morte”, che nasce dall’esercizio di una dépense improduttiva capace di sottrarre il più oneroso e doloroso dei dispendi, la perdita di sé, al giogo dell’intelletto convertendolo nella ricchezza più grande e inutile, nell’estasi di una vita fuori dalla vita, sovranamente fuori dal circolo di un’economia quantitativa che “valuta” l’esistente a misura della ragione. G. Bataille, “Dall’esistenzialismo al primato dell’economia”, cit., pp. 108-110. Sulla relazione Bataille-Lévinas cfr. il saggio di R. Ronchi Bataille, Lévinas, Blanchot. Un sapere passionale, Spirali, Milano 1985 dove, nella comune esigenza dei pensatori francesi di “subordinare” il sapere all’amore, l’A. percorre – senza “pretese di completezze monografiche” – la riflessione di questi tre pensatori emblematici del pensiero francese contemporaneo. Cfr. a questo proposito il saggio di F. C. Papparo, «‘Per più vedere e per più farvi amici’. Su L’Esperienza interiore di G. Bataille», in B. Moroncini, F. C. Papparo, G. Borrello, L’ineguale umanità. Comunità, esperienza, differenza sessuale, Liguori, Napoli 1991, pp. 79-135.

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Se il ritorno all’intimità esige una “coscienza offuscata”, “annichilita”, una coscienza senza oggetto, questo non indica però la sua scomparsa, ma la posizione del suo “sfumare” verso quella dimensione “opaca della notte”, dice Bataille, in cui ci accade l’esperienza dell’intimità col mondo, l’esperienza della nostra finitudine e indeterminatezza. È proprio questa povertà che ci permette di sentire la verità del reale; il suo valore oltre l’ordine delle cose utili e assimilabili, quello «splendore invisibile della vita che non è una cosa», ma una vita che finalmente sottratta alle catene delle cose, allo spazio profano del mondo della rappresentazione, incontra la morte come sua stessa affermazione, come sua possibilità immanente. Allontanata nel mondo degli oggetti, la morte è infatti elusa nella sua peculiarità; ridotta ad una realtà tra le altre diviene semplice negazione della vita e non cifra di una vita che, nella sua pienezza, si sottrae alla presa del calcolo e del progetto dell’intelligenza, così come agli effetti distruttivi dell’azione negatrice del lavoro: la morte è un effetto che, in mezzo alle cose ben ordinate nella loro coerenza, disturba quest’ordine, e per una specie di miracolo negativo, sfugge a questa coerenza. La morte distrugge, riduce a NIENTE l’individuo che si prendeva – e che gli altri prendevano – per una cosa, identica a se stessa. Questo individuo non solo era inserito nell’ordine delle cose, ma l’ordine delle cose era entrato in lui e, dentro di lui, aveva disposto tutto secondo i suoi principi75

includendo sé e il mondo nel cerchio di un tempo cardinale che lega il nostro essere alla necessità di una persistenza ricostruita, a un’identità oltre il limite immanente della morte, nella realtà trascendente di un futuro che dà senso e valore al presente. Una menzogna che ci fa credere che «ciò che non è più, è tuttavia, in qualche altra forma (anima, doppio, ombra)», creando l’illusione di poter vincere ciò che si oppone in maniera radicale al mondo dell’efficacia che è effetto della subordinazione dell’uomo al mondo degli oggetti. Una negazione di sé che non può essere colmata, osserva Bataille, fino a quando continueremo a morire umanamente, finché continueremo a rappresentarci la morte come ciò che accadendo ci impedisce di coglierci «in quanto separa ciò che eravamo, e non è più, dall’essere individuale che cessiamo di essere» sprofondandoci nella divorante angoscia di un’attesa di sé che non sarà mai compiuta. È solo in un modo di vita sovrano, in un modo di vita che non sottomette il presente al progetto, che la rappresentazione della morte è impossibile, che non si muore più umanamente, che si sfugge alla morte negando quel mondo della pratica che lega l’identità al tempo, l’opera al futuro e l’azione ai limiti delle leggi e delle proibizioni. Ma i limiti, secondo quella direzione del pensiero che ci ha chiarito Foucault “leggendo” la risposta kantiana alla domanda Che cos’è l’Illuminismo?, vanno trasgrediti e la sovranità è proprio un 75

G. Bataille, La sovranità, cit., p. 59.

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modo d’essere che richiede l’esercizio della violenza, della violazione dei limiti della proibizione che si oppone all’assassinio, al rischio di morte, un modo d’essere possibile per chi sente/sperimenta, dentro di sé, la necessità di «colmare il vuoto del mondo delle opere utili». Il principio del sacrificio è per Bataille il nucleo di un’esperienza sacra/sovrana in cui ciò che viene distrutto, attraverso la vittima, sono proprio i legami di utilità, di subordinazione dell’essere all’oggetto. È così che nel sacrificio, apparendo, la morte espone un senso della vita più profondo, straordinario, il senso di un abbandonare e donare che segna il passaggio da un ordine duraturo, dove ogni consumo di risorse è subordinato alla necessità di durare, alla violenza di un consumo incondizionato; quello che conta è uscire da un mondo che crea e conserva (che crea a profitto di una realtà duratura). Il sacrificio è l’antitesi della produzione, fatta in vista dell’avvenire, è il consumo che non ha interesse che per l’istante76.

Ma fra l’ordine delle cose e il non ordinabile dell’intimità, fra la coscienza chiara e distinta e la coscienza offuscata, chiarisce Bataille, deve permanere una dialettica sui generis, una dialettica senza mediazione, la forma di un non-rapporto instabile, difficile, ma per questo vitale. Perché se la valorizzazione delle “opere”, il lavoro del negativo nell’azione, ha allontanato la divinità dall’ordine delle cose spostando il “principio di salvezza” nella radicalità inconoscibile e inesperibile di un futuro trascendente, di fatto, misconosce la possibilità dell’impossibile negando che l’intimità non può essere ritrovata che da me – se i due termini sono presenti –, non esiste l’intimità senza di me. Che cosa significa l’intimità ripristinata in se stessa se mi sfugge? La trascendenza della ragione strappava il pensiero nell’istante, con la reminiscenza, alla prigione del mondo sensibile; e la mediazione che libera il divino dall’ordine reale introduce l’impotenza delle opere soltanto in ragione di un non senso che sarebbe l’abbandono di questo mondo. In ogni modo non si può porre l’intimità divina se non in un punto, come la possibilità dell’immanenza del divino e dell’uomo77.

È allora necessario da un lato elevare l’intimità all’autenticità del mondo reale, senza farne però un diverso e più forte principio di realtà, e dall’altro incrinare la potenza e la precisione della coscienza chiara e distinta. Questo implica una COSCIENZA DI SÉ che dirige verso l’intimità la fonte di luce che la coscienza ha elaborato per illuminare gli oggetti (perché) la coscienza di sé non esige, a dire il vero, la distruzione dell’ordine delle cose. L’ordine intimo non può realmente

76 77

G. Bataille, Teoria della religione, cit., p. 47. Ivi, p. 84.

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distruggerlo (allo stesso modo l’ordine delle cose non ha mai completamente distrutto l’ordine intimo) […]. Se si vuole la coscienza non può fare in modo che l’intimità gli sia riducibile, ma può ricominciare, all’inverso, le sue operazioni, in modo che queste si annullino al limite e che si trovi essa stessa rigorosamente ridotta all’intimità78.

Un movimento di effettuazione della coscienza alla fine del quale ciascuno ritroverà la coscienza per quel che più profondamente è: una coscienza che ritrova se stessa solo entrando nella «notte dell’animale intimo nel mondo». La notte in cui si illumina la verità di un’esistenza plurale e polimorfa che non si vuole e che non dobbiamo chiudere in alcun ordine del discorso, sia anche quello della teologia che, consegnando nel suo sapere il divino al trascendente, ci allontana dall’auspicio nietzscheano di una «totale amicizia dell’uomo verso se stesso», dalla coscienza di una «totalità immanente» che non ci si presenta nella certezza piena di un senso dato, ma nella radicalità di una ferita sempre aperta; nella certezza di un vuoto incolmabile per un’esistenza che è sempre situata in un non-senso, in un mondo libero dal senso unico, il mondo di «un’incoerenza senza fine, dove mi potrà condurre soltanto la mia ‘chance’»79. È questo il senso del passaggio batailleano attraverso l’esperienza interiore – l’inserzione del soggetto nel movimento di una dépense improduttiva – dove l’esperienza è la forma di un modo d’essere assolutamente irriducibile al moto della coscienza propria di una ragione univoca, ma aperto invece all’intuizione immediata, emozionale che ci lega al mondo esponendoci, nell’impatto con i limiti di un sapere preteso assoluto e di un senso unico, alla vertigine di un non-sapere e di un non-senso inassimilabili dalla luce della chiarezza e distinzione propria del pensiero logico categoriale. Vediamo allora come il tema del sacrificio, della produzione di cose sacre (sacer-facio), costituisce l’orizzonte semantico, il senso di un fare etico-politico che coniuga individuo e comunità, entro cui si muove l’intera riflessione/interrogazione del Collège de Sociologie sacrée, una “comunità morale” che Bataille fonda insieme a Roger Caillois e Michel Leiris nel 1936. Esperienza che, come vedremo più avanti, segue di poco il fallimento della pratica politica iniziata nel 1935 con Contre-Attaque – che in quanto Union de lutte des intellectuels révolutionnaires si pose come portatrice di una strategia di resistenza contro la prassi capitalistica senza cervello né occhi – e la nascita di Acéphale, dove il tema del sacrificio diviene il nucleo di una comunicazione comuniale tra soggettività libere che di-segna la forma senza contorno di una comunità-espressione di un modo d’essere capace di contestare radicalmente, nel nome di Nietzsche, non solo il sistema politico, ma anche quello filosofico in quanto prodotti del pensiero Unico. 78 79

Ivi, p. 92. G. Bataille, Su Nietzsche, cit., p. 27.

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Per il momento diciamo che l’intento del Collège è la posizione di una sociologia sacra, una sociologia non religiosa, che mira ad evidenziare gli elementi vitali della società – il “movimento d’insieme”, o “movimento comuniale”, che trasforma la società – spostando l’attenzione dalla dimensione economica a quella aneconomica del sacro, del mito e del politico quali forze capaci di riattivare l’inter-esse fra gli uomini; un legame intersoggettivo essenziale che la modernità ha disperso nella parzialità di una vita dis-associata nella massificazione omogeneizzante. Oggetti delle analisi del Collège sono allora tutte quelle attività umane, dalla scienza, all’arte, alla tecnica, che in quanto “creatrici di unità” contrastano non solo la massificazione fascista, ma anche l’atomizzazione democratica, e delle quali il sacro è il nucleo fusionale80. Il polo di una comunicazione tra esseri e, con ciò, formazione di essere nuovi […]. Gli uomini che si uniscono per il sacrificio o per la festa soddisfano un loro bisogno di consumare una sovrabbondanza vitale. La lacerazione del sacrificio che dischiude la festa è una lacerazione liberatrice. L’individuo implicato nella perdita sente oscuramente che tale perdita genera la comunità che lo sostiene81.

L’intento è quello di procedere alla “costruzione” di una sociologia sacra che prende avvio dalle tesi formulate dalla scuola sociologica francese sull’ambivalenza del sacro, secondo la classificazione delle “forze religiose”, operata nel 1912 da Emile Durkheim, in faste e nefaste, pure e impure. Due espressioni che non ne attestano una differenza di natura, ma la possibilità, possiamo dire spinoziana, del darsi di una stessa sostanza in modi differenti, nella misura in cui uno stesso oggetto può passare dall’una all’altra senza mutare natura. Col puro si fa l’impuro e viceversa: l’ambiguità del sacro consiste nella possibilità di questa trasmutazione,

possibilità attestata anche dai differenti sentimenti di rispetto e di orrore che le cose sacre provocano: 80

81

Leggiamo infatti, nella dichiarazione d’intenti con cui Caillois apre gli incontri del Collège che: «l’oggetto preciso dell’attività prospettata può assumere il nome di sociologia sacra, in quanto implica lo studio dell’esistenza sociale in cui si delinea la presenza attiva del sacro. Essa si propone così di stabilire i punti di coincidenza tra le tendenze ossessive fondamentali della psicologia individuale e le strutture direttive che presiedono all’organizzazione sociale e ne determinano le rivoluzioni», R. Caillois, “Introduzione”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 11-15, p. 15. Un punto di vista “lacerante” che, chiarirà Bataille nel saggio che chiude/conclude la vita del Collège, trasporta il germe di una crisi interna che si mostra come necessaria per una comunità/comunicazione che ha come obiettivo quello di “mettere in questione ogni cosa”, quindi anche se stessa come espressione durevole e identificata. Cfr. G. Bataille, “Il Collegio di Sociologia”, ivi, pp. 434-444. Ivi, p. 442.

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c’è, infatti, dell’orrore nel rispetto del sacro, soprattutto quando è molto intenso, e il timore che ispirano le potenze maligne non è generalmente privo di qualche carattere reverenziale82.

Una distinzione ripresa da Roger Caillois, che fin dal 1933 segue le lezioni, tenute presso l’École pratique des hautes études, dai continuatori delle tesi di Durkheim, Georges Dumézil e Marcel Mauss, ma anche dalla lettura/traduzione della Fenomenologia hegeliana fatta da Kojève che rileva l’apertura, all’interno del sistema, di quelle “zone d’ombra della vita” che sfidano proprio i paradigmi ormai consolidati delle scienze sociali. Ne L’Homme et le sacré83 Caillois analizza l’incidenza del sacro nella realtà sociale, la sua capacità di riunire, attraverso i riti e i miti, ciò che nella 82

83

E. Durkheim, Les formes elementaires de la vie réligieuse, Alcan, Paris 1912, trad. it., Le forme elementari della vita religiosa, Milano 1963, pp. 446-448. Dobbiamo notare come a questo proposito e in dialogo critico con la teoria batailleana della sovranità, che sarebbe, possiamo dire, compromessa dal “mitologema scientifico”, indicato come “teoria dell’ambiguità del sacro”, G. Agamben sottolinea come tale ambiguità viene definitivamente accreditata quando «la voce sacer del Dictionnaire étymologique de la langue latine di Ernout-Millet (1932) sancisce ormai il ‘duplice significato’ del termine proprio attraverso un richiamo all’homo sacer», dove «‘sacer designe celui qui ne peût être touché sans être souillé ou sans souiller; de là le double sens de sacré ou maudit (à peu pres). Un coupable que l’on consacre aux dieux infernaux est sacré (sacer esto: cfr, gr. Ágios)’», che si può uccidere senza che si venga puniti, ma la cui vita è insacrificabile. Due tratti della vita dell’homo sacer che sembrano incompatibili e che non possono essere giustificati ricorrendo alla «pretesa ambiguità del sacro, calcata sulla nozione etnologica del tabù», ma rintracciando attraverso un’analisi che distingua e delimiti le sfere del politico e del religioso, una zona che le precede, quella «dimensione della nuda vita, che costituisce il referente della violenza sovrana, che è più originale dell’opposizione sacrificabile/insacrificabile e fa segno verso un’idea di sacertà che non è più assolutamente definibile» attraverso la coppia oppositiva propria della cultura sacrificale. Una dimensione che, affermata dalla modernità emancipatasi dall’ideologia sacrificale, è per noi di estrema importanza, perché «ciò che abbiamo oggi davanti agli occhi è, infatti, una vita esposta come tale a una violenza senza precedenti, ma proprio nelle forme più profane e banali». G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 88 e sg. R. Caillois, L’Homme et le sacré, Gallimard, Paris 1950 (la prima edizione è del 1939), trad. it., L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001. La terza edizione è accresciuta di tre appendici delle quali la terza intitolata “Guerra e sacro” spinse Bataille a scrivere, in guisa di recensione al testo, il saggio “La guerre et la philosophie du sacré”, pubblicato in Critique, 45, 1951 che ora si trova nella trad. it., alle pp. 181-191. Una traduzione del saggio di Bataille si trova anche in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio, cit., pp. 315-325. Nell’ottica del programma del Collège Caillois assume il sacro nella sua valenza attiva, contagiosa, come espressione degli impulsi trasgressivi capaci di mettere in discussione l’ordine sociale esistente, operando così un passaggio immediato dalla conoscenza all’azione. E così precisa nella Prefazione alla terza edizione: «Il saggio fu scritto sotto l’influsso di una preoccupazione quasi esclusiva per le emozioni oscure e imperiose che turbano, affascinano e a volte dominano il cuore umano, tra le quali il sentimento del sacro non è la meno importante […]. Più di una pagina del presente volume si spiega con questa origine ambigua, in cui il bisogno di restituire alla società un sacro attivo, indiscusso, imperioso, divorante, si combina con il gusto di interpretare lucidamente, correttamente,

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realtà omogenea del mondo profano appare come contrapposto, l’ordo rerum e l’ordo hominum. Ne analizza l’ambiguità ricorrendo alle categorie del sacro di rispetto o destro – fonte con i suoi tabù e le sue prescrizioni di ordine e stabilità sociale, un sacro istituzionale quindi – e del sacro di trasgressione o sinistro, che sconvolge l’ordine nell’eccesso e nel dispendio dei sacrifici, delle feste e delle violazioni, ambedue categorie che la teologia conserva distinguendo nella divinità i tratti del fascinans e del tremendum. In questo modo, osserva Caillois, si opera una differenziazione/distanziazione tra religiosità e sacralità dove questa si delinea come spazio di scontro tra le forze del puro – che spingono verso la stasi, l’omogeneità e l’ordine – e quelle dell’impuro che muovono verso l’eterogeneo, il rinnovamento e il dispendio, mentre il fenomeno religioso riguarda la forma istituzionalizzata, amministrata della vita dell’uomo in relazione al sacro, una regolamentazione che mira a garantire da un lato la distanza dell’uomo dal sacro e, dall’altro, la sua inaccessibilità. Una dissociazione tipica della modernità che ha prodotto un’ estensione del sacro anche a fenomeni e ambiti profani e aconfessionali, di fronte alla contemporanea secolarizzazione delle religioni storiche. Si toccano qui i confini della complessità e contraddittorietà della condizione moderna che, mentre si autointerpreta come una conclusa dissoluzione delle istanze religiose nella razionalità della tecnica e della politica, vede, però, risorgere, sotto varie forme, il religioso84.

L’ambiguità del sacro diventa tanto più forte se si considera che tra il puro e l’impuro esiste una sorta di dialettica continuamente reversibile e prettamente funzionale alla costituzione e allo sviluppo della società: cose e uomini vengono, infatti, ad organizzarsi attraverso un costante confronto e scontro tra due classi simmetriche di cose ed esseri, la cui somma abbraccia la natura e la società senza escludere nulla e che determina in tal modo la struttura, a un tempo, dell’ordo rerum e dell’ordo hominum85,

84 85

scientificamente ciò che allora chiamavamo, forse con ingenuità, le risorse profonde dell’esistenza collettiva. Ho detto sacro attivo, ma la parola che allora scegliemmo di dire fu attivista, a significare che noi intendevamo qualcosa di più della semplice azione. Pensavamo a non so quale contagio vertiginoso, a una effervescenza epidemica», ivi, pp. 5-6. Per quanto riguarda l’ambiguità del sacro, riferendosi ad alcune affermazioni di Caillois circa una sorta di “osmosi intellettuale” che li legherebbe, fino quasi a rendere impossibile una distinzione nelle loro riflessioni, Bataille afferma che nessuno prima di lui aveva accordato una importanza così rilevante a tale questione che costituisce «una delle parti personali del suo libro, insieme con Teoria della Festa, a cui credo proprio di non aver contribuito in alcun modo, ma che il mio pensiero utilizza di continuo […]. D’altronde mi sembra difficile comprendere nella loro ragion d’essere gli sviluppi fondamentali de La Part maudite senza averlo letto. L’Homme et le sacré non è solo un libro magistrale, ma un libro essenziale per la comprensione del problema del sacro», G. Bataille, La Sovranità, cit., p. 55. U. M. Olivieri, “La traccia del sacro”, Introduzione a R. Caillois, L’uomo e il sacro, cit., pp. VII-XXXVI, p. XXIII. R. Caillois, L’uomo e il sacro, cit., p. 59. «Data l’ambiguità fondamentale del sacro, occorre vedere in che modo esso si contrapponga nel suo insieme al mondo profano; è opportuno

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dove l’ordine rimanda al movimento della conservazione-riproduzione della vita. Una dicotomia, osserva Caillois, che nel corso dell’evoluzione sociale porterà, attraverso l’affermazione di un principio di specializzazione e di individuazione che si sostituisce al principio di rispetto, alla formazione di un prestigio/potere personale che connesso al consenso si tradurrà nella forma irrigidita dell’autorità riconosciuta; un potere che includerà in sé i caratteri della sacralità fino quasi a non distinguersene più e che troveremo ascritto nella persona del re che diviene così il polo della garanzia politica, sociale e morale della comunità, e che in quanto tale può essere sacrificato, incriminato, quando appare il disordine86. Come il sacro il potere assume le sembianze di un dono esteriore che si riceve per iniziazione o consacrazione, si perde per degradazione o abuso e fonda la sua possibilità sul gioco che si istituisce tra diversi livelli di forze, un gioco «che sottomette automaticamente l’uno all’altro» chi è privo e subisce «la forza santa», quel mana di cui parlano i melanesiani, che è propria di chi sa farsi obbedire dagli altri. Un gioco che trova il suo necessario complemento in una organizzazione gerarchica dei diritti e dei doveri che mantiene la complementarietà del sacro e del profano impedendo, attraverso la prassi dell’interdetto e dei riti, qualsiasi possibile con-fusione: la virtù consiste infatti proprio nel mantenimento dell’ordine, un rispetto del proprio destino che garantisce la possibilità della “disciplina” dell’universo. Ma il tempo consuma le dighe, il funzionamento di un meccanismo consuma e blocca gli ingranaggi. L’uomo invecchia e muore […]. Occorre ricreare il mondo, ringiovanire il sistema. Le proibizioni possono soltanto impedire la sua fine accidentale. Sono incapaci di preservarlo dalla rovina inevitabile, dalla bella morte […]. Arriva il momento in cui è necessario un rimaneggiamento. Occorre che un atto positivo assicuri all’ordine nuova stabilità. C’è bisogno che un simulacro di creazione rinnovi la natura e la società. A ciò provvede la festa87,

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87

cioè cercare a che cosa corrisponda nella società la distinzione di quei due ambiti complementari e opposti che costituiscono il mondo del sacro e il mondo del profano. Ci si avvede subito che essa si sovrappone ad altre partizioni, ad altre dicotomie: quelle di gruppi o di princìpi ugualmente complementari e opposti, la cui opposizione e collaborazione (la concordia discors) permette il funzionamento stesso del guppo sociale», ivi, p. 53. «Non c’è niente, nell’universo, che non sia suscettibile di formare un’opposizione bipartita e che dunque non possa simboleggiare le differenti manifestazioni accoppiate e antagonistiche del puro e dell’impuro. Energie vivificanti e forze di morte si raccolgono per formare i poli attrattivo e repulsivo del mondo religioso. Al primo appartengono la chiarezza e la secchezza del giorno; al secondo le tenebre e l’umidità della notte. L’Oriente e il Sud appaiono la sede delle virtù di accrescimento che fanno sorgere il Sole e aumentare il calore; l’Occidente e il Nord, il luogo delle potenze di perdizione e di rovina che fanno calare le tenebre e spegnere l’astro della vita. L’alto e il basso si trovano qualificati insieme – il Cielo passa per la dimora degli déi dove la morte non entra, il mondo sotterraneo è ritenuto l’oscura dimora in cui il suo dominio è assoluto», ivi, p. 36. Ivi, p. 88.

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un’interruzione del tempo orientato, dell’ordine del chosmos, della padronanza di sé e del principio dell’utilità proprio di un’economia ristretta, per ritrovare la prima età del mondo, per ri-unire i singoli nel molteplice chaos indifferenziato dell’origine che è un modo d’eccedenza della vita da cui può riemergere un ordine altro. Ma il mondo moderno, osserva Caillois, è andato lentamente ed inesorabilmente sostituendo, a quella che possiamo indicare come alternanza “positiva” di lavoro e festa, sacro di rispetto e sacro sinistro, la polarità “negativa” pace e guerra, tranquillità regolata e violenza obbligatoria, dove la guerra, pur ritenuta una “catastrofe assurda e criminale”, viene alla fine giudicata come inevitabile, una prassi necessaria, giusta, che finisce così per perdere ogni misura, tanto che niente può contenderle la sinistra gloria di essere il solo evento della società moderna che strappi gli individui alle loro cure particolari per precipitarli all’improvviso in un altro mondo, in cui non appartengono più a se stessi, e dove scoprono il lutto, il dolore, la morte88,

un trionfo e un’ossessione la cui violenza sembra avere i titoli necessari per sostituire la festa, per occuparne il posto con una dis-umanità considerata divina. Come la festa la guerra interrompe il tempo ordinario, ma non per operare una riconciliazione dei nemici, bensì per annunciare una rottura, la fine di un patto, per chiudere le frontiere aperte dalla festa, dall’alleanza, dall’amicizia; e se essa manifesta l’onnipotenza della festa, lo fa soltanto per usarla in senso opposto, per separare anziché unire. Un’inversione di cui Caillois rintraccia le motivazioni in tre ordini di problemi strutturalmente connessi con il “senso” della civiltà occidentale: l’in88

Ivi, pp. 170-172. Desidero riportare in nota una parte ampia del testo di Caillois sulla guerra e sulla sua paradossale uguaglianza-differenza dalla festa perché mi sembra di estrema attualità. «La festa è innanzi tutto fattore di alleanza. Gli osservatori vi hanno riconosciuto il legame sociale per eccellenza, quello che prima di ogni altro assicura la coesione dei gruppi che periodicamente riunisce. Li congiunge nella gioia e nel delirio, senza contare il fatto che la festa è al tempo stesso l’occasione di scambi alimentari, economici, sessuali e religiosi, delle rivalità di prestigio, di emblema e di blasone, delle gare di forza e di abilità, dei doni reciproci, di riti, di danze e di talismani. Rinnova i patti, ringiovanisce le unioni. La guerra invece provoca la rottura dei contratti e delle amicizie. Esaspera le contrapposizioni. Non soltanto è fonte inesauribile di morte e devastazione, mentre la festa mostra un’esuberanza di vita e di vigore fecondatore, ma le conseguenze che produce non sono meno funeste della rovina che provoca mentre imperversa. I suoi effetti si protraggono al di là della sua opera nefasta. Suscitano e attizzano rancore e odio. Ne derivano altre sventure e infine una nuova guerra, che riprende la precedente. Così al termine di una festa si fissa già il calendario della successiva, per perpetuarne e rinnovarne i benefici. Non meno pronta a germogliare è la cattiva semenza: una fatalità di sventure sempre peggiori sostituisce la rotazione dei tumulti fecondi», ivi, p. 172. Sulla guerra come forza capace di eludere i vincoli produttivi della società ed il suo rapporto con la tragedia, cfr. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit., pp. 278 e sg.

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dustrializzazione tecnologica, la graduale scomparsa del sacro sotto l’incalzare della mentalità profana e la formazione di grandi Stati centralizzati. Un cammino di violenza e di distruzione che appare sempre più totale sotto la spinta della corsa agli armamenti atomici e alle armi batteriologiche. È la prospettiva di un annientamento totale, una distruzione che la festa, in quanto messa in scena di una fantasia, mimava al fine di reintrodurre ciascuno nella rinascita periodica della vita. Una rigenerazione possibile nella misura in cui la festa portava con/in sé quel sacro di cui il mondo deve essere sempre “impregnato” se vogliamo tenerci, osserva Bataille, a quel senso alto dell’esistenza che in ogni vita pone in causa la totalità dell’essere. Quella profondità che possiamo sentire solo con lo sguardo del cuore – quello di una madre che piange il figlio – mentre sfugge allo sguardo razionale – quello dello scienziato che studia sul letto d’anatomia il cadavere di un bimbo –, all’intelligenza rivolta essenzialmente alla oggettivazione, al profano, alla conoscenza della vita, perché nel sentire il sacro l’oggetto e il soggetto sono sempre dati come nell’atto di compenetrarsi o di escludersi (nella resistenza al grande pericolo della compenetrazione), ma sempre, siano in associazione o in opposizione, come il completamento l’uno dell’altro89.

Nel sacro, dunque, è in questione l’essere nella sua totalità, non questo o quel frammento, e Caillois – osserva Bataille nella sua recensione al testo – nonostante affronti il tema del sacro da sociologo, oggettivando e separando quindi tale dimensione dal soggetto90, ha compreso la radicalità della domanda, l’urgenza che il regresso del sacro pone al presente, una domanda che non ha risposta se non nella possibilità, al limite del possibile, della ri-conquista di un modo d’essere sacro/sovrano della vita che da troppo tempo abbiamo dimenticato. Certamente, come osserva Umberto Galimberti, non possiamo tornare alle orge di Dioniso, né alle prostitute sacre che attendevano lo straniero nel tempio. Non ne siamo più all’altezza. Ora che il tempio è chiuso e non ci sono più àuguri che col liuto delimitano lo spazio del sacro, la tras-gressione non ha più un ‘oltre’ verso cui andare; tutto lo spazio è profano91, 89 90

91

G. Bataille, “La guerra e la filosofia del sacro”, cit., p. 183. Il lavoro di Caillois è essenzialmente limitato all’oggettività, egli infatti, osserva Bataille, «intende parlare del sacro in generale (ciò è evidente fin dal titolo che ha scelto), ma tale generalità è ristretta perché egli si è legato all’oggettività. La prima edizione, pubblicata nel 1939, alla vigilia della guerra – e per questo non ebbe forse tutto il successo che meritava –, è una magistrale esposizione dei risultati della scienza delle società arcaiche. Apparentemente, noi non siamo in gioco. Ma le apparenze ingannano», perché anche al di là di limitate incursioni nel campo “metafisico” tutto il saggio tradisce la tensione che per tutta la vita lo ha visto resistere alla volontà di andare incontro alla totalità, una totalità che rinnegò, ma «scegliendo un oggetto limitato di studio, scelse quell’oggetto la cui natura è di annullare i propri limiti, un oggetto che non è un oggetto, perché è soprattutto la distruzione di ogni oggetto», ivi, pp. 185-188. U. Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, p. 120.

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regno di violenza, avidità ed egoismo, dove «l’esercizio della trasgressione può al massimo violare i codici, ma non incontrare i simboli». Quello spessore di vita del sacro cancellato dalla forza della legge di un Dio unico ed eterno – ma anche da quella dell’uomo superiore –, quella di un dio perfetto, il dio della ragione che ha così affermato la sua violenza con la violenza, conservando l’intimità del reale e del divino solo attraverso l’opera di una mediazione che la situa in un al di là inintelligibile dell’essere. Una trascendenza che, dice Bataille, è l’esatto contrario del sacro che, sia nelle forme più semplici che in quelle più avanzate, è essenzialmente comunicazione, contagio, esposizione della vita alla sua tragicità, al senso di un’esistere che si apre solo al limite del possibile. Ed è allora la religione dell’amore di un Dio perfetto, la religione che ha distinto bene e male assumendo così i caratteri dell’economia ristretta e della razionalizzazione della vita, che va oltrepassata, trasgredita nella forma di una ateologia che immettendo l’uomo nello spazio tragico dell’assenza di Dio lo espone all’orrore per un sacro immanente che attrae e respinge, ospita e allontana. Trasgressione che richiama il passaggio necessario attraverso quell’esperienza interiore che «risponde alla necessità di porre tutto in causa senza ammettere tregua […] nella febbre e nell’angoscia di ciò che un uomo sa del fatto d’essere», nell’inquietudine di una domanda irrisolvibile di fronte a quell’impossibile – la morte – a cui siamo destinati. È così che il sacrificio apre un varco verso il sacro, verso un ordine altro da quello prodotto dal senso, dalla ragione, dall’io e da Dio; non un nuovo ordine contrapposto al vecchio, ma un tutt’altro che vivifica la ragione mostrando l’inconsistenza di un’assolutizzazione che ne costituirebbe una progressiva atrofizzazione. La posta in gioco è allora la necessità di costruire una qualità della vita, un modo d’essere e una forma del pensare tali da rimodellare un “destino glorioso”. Ma questo esige la forza di un soggetto che decostruendo le sue sicurezze e le certezze del suo sapere, si pone audacemente fuori dalla menzogna borghese, assumendo il senso della sua comunità, quell’essere con gli altri proprio di chi facendo della propria vita la lacerazione che essa è nella gloriosa angoscia della morte è rigettato come non-senso dalla massa di quegli stessi che non avrebbero senso se lui, questo pazzo non fosse al mondo […]; ciò che è in causa è l’essere che noi siamo, è il suo destino glorioso […] ora, nulla può essere fatto se non da uomini che assumono il senso della loro comunità: l’evento più pesante, in mezzo a urti caotici, sarebbe che un piccolo numero di esseri legassero la loro ‘comunità’ alla comunione dell’uomo col cielo e la terra92.

Una chance che Bataille vede nell’uomo stesso e nella ragione, una ragione che critica di se stessa disfa la sua opera, diviene capace di redenzione, di ritrovare lo sguardo degli uomini ingenui che guardavano 92

G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., pp. 184-185.

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il cielo con gli occhi della follia sacrificale. Immaginavano la festa dell’universo, e dal momento che il pensiero era ancora legato agli atti, tutto il loro agitarsi poteva seguirne il movimento93.

E sottolinea come non sia necessario che a questo compito si dedichi la massa degli uomini, è sufficiente che un numero anche piccolo prenda consapevolezza della necessità di “legare” il mondo con legami sacri, uomini capaci di vedere/sentire la povertà di una vita dedita al fare, di ritrovare nella nudità del proprio essere la forza per creare la propria singolare esistenza, la forza di una libertà di dare, di perdersi e non di accumulare. Per questo vorrei ribadire – secondo quanto andavo sostenendo a proposito del nomadismo deleuziano94 – la necessità di un’educazione alla riflessione capace di opporsi ad una visione economicistica del soggetto e della vita, facendoci ritrovare un punto di spreco, uno spazio di inutilità, di non-senso, la necessità di cogliere, con la ragione e non contro la ragione il movimento del suo a-venire, come dice J. Derrida, nell’esperienza di un’alterità assolutamente incalcolabile e inappropriabile. Movimento senza regola e senza garanzia che richiede un esercizio critico della ragione praticato nella direzione di quel “nucleo essenziale di razionalità” che è ciò che dell’Aufklärung andrebbe, in ogni caso, salvato, perché, come ho detto introducendo Bataille, solo finché il pensiero è libero, dunque vitale, nulla è compromesso, quando cessa d’esistere, tutte le altre oppressioni sono allora possibili, e già effettive, poco importa quale azione sia colpevole, l’intera vita è minacciata95.

4. Sovranità-Acéphale. Il movimento tragico dell’esistenza L’esemplificazione più evidente di ciò che Bataille ci vuole indicare col termine dépense e la sua particolare correlazione al sacro è, come vedremo più analiticamente nel proseguo dei questo lavoro, il potlàch, una forma di scambio/dono che sembra determinare, paradossalmente, l’acquisizione di un potere per il donatario, l’affermazione di un rango/prestigio, la produzione di un lusso, una “messinscena” che però, osserva Bataille, se posta nell’ottica dell’economia generale – là dove il lusso e il dono autentici non appartengono alla ricchezza, ma alla miseria di chi afferma il completo disprezzo delle ricchezze, di chi

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Ivi, p. 222. Mi sia consentito rimandare al mio, Deleuze e il pensiero nomade, Angeli, Milano 1995 come pure al più recente “Educare alla riflessione. ‘Per andare in visita…’” nel volume da me curato, Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004, pp. 23-49. G. Deleuze, Spinoza filosofia pratica, cit., p. 12.

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si stende per terra e disprezza […] di chi rifiuta il lavoro e fa della sua vita, da una parte, uno splendore infinitamente in rovina, dall’altra, un silenzioso insulto alle elaborate menzogne dei ricchi,

– viene da ogni parte superata, smascherata nella sua ignobile verità. Perché al di là di uno sfruttamento militare, di una mistificazione religiosa e di una sottrazione capitalistica, nessuno saprebbe ormai ritrovare il senso della ricchezza, ciò ch’essa annuncia di esplosivo, di prodigo e di traboccante, se non fosse per lo splendore degli stracci e l’oscura sfida all’indifferenza. Se si vuole, da ultimo, la menzogna vota l’esuberanza della vita alla ribellione96,

alla resistenza di un potere sovrano, a una potenza d’essere che è capacità di perdersi, la libertà più grande. Pura potenza senza dominazione, volontà di tragedia dice Bataille, decisione di entrare in quella logica sacrificale che esponendo il sé alla propria insufficienza traccia i contorni di un’etica che mette radicalmente in questione la logica economica costruita da un umanesimo razionalistico. Etica che emerge proprio nella curvatura del dispendio sovrano, nella forma di una potenza impotente, puro potere di dare-perdersi, dono senza contropartita, che può essere solo come «volontà di creare una forza a partire dalla coscienza della miseria e della grandezza di quest’esistenza caduca» che ci è stata destinata. Volontà di tragedia che se affermata da Bataille, lavora però a scompaginare, possiamo dire, l’anima stessa del Collège che, con Caillois in testa, mirava a rimettere all’opera il pensiero, a passare dall’agitazione all’azione, a governare le forze del sacro convertendo la satanica «insurrezione della sensibilità», nel paziente e lucido calcolo dell’intelligenza luciferina97. Dobbiamo allora chiederci come Bataille pensa il potere e soprattutto quale intreccio si tesse tra questo, la comunità e il sacro. Ci aiuta in questo tentativo di comprensione la lettura del testo di una comunicazione di Caillois su “Il potere”, letta al Collège da Bataille il 19 febbraio del 193898, dove si evi96 97

98

G. Bataille, La parte maledetta, cit., pp. 84-85. «La crisi che si disegna all’interno del Collège tra i vari protagonisti avrà come centro focale proprio la direzione e gli scopi di questa attività possibile, la declinazione del passaggio dalla conoscenza all’azione, dalla scrittura all’opera. La valorizzazione nel legame comunitario della volontà di potenza, insita nel passaggio da Satana a Lucifero, ossia nel passaggio dell’individualismo romantico dal piano della conoscenza a quello dell’azione, è infatti il crinale lungo il quale si biforcano le strade inizialmente convergenti di Caillois e Bataille. Sintomo di questa linea di demarcazione è la fascinazione di Caillois per il sacro attivo della magia, di contro al tema della perdita che sembra inclinare Bataille verso lo studio della mistica», U. M. Olivieri, “La traccia del sacro”, cit., pp. XXVIII-XXIX. Come avverte il curatore il testo della conferenza non è quello di Caillois, annunciato nel programma, «non perché egli non l’abbia redatto, ma perché fu costretto a interrompere, per motivi di salute, la sua partecipazione alle attività del Collegio. Parlò Bataille in vece sua e, stando a quanto egli stesso ha affermato, lo fece attenendosi, nella misura del possibile, alle indicazioni di Caillois», R. Caillois, “Il potere”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 154-168, p. 154.

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denzia la sua distanza dalle considerazioni espresse da Caillois in una nota, dedicata a L’exercise du pouvoir di Léon Blum – uno dei maggiori artefici del Fronte Popolare del ’36 e notoriamente anticomunista –, e apparsa su la Nouvelle Revue Française nell’ottobre del 1937. Nota in cui viene sottolineato il carattere tragico del potere nel suo istituire la legalità fondandola, a scapito della comunità – del movimento d’insieme, osserva Bataille, che costituisce la vita sociale – sulla capacità di reprimere, e perfino di uccidere. Una violenza dunque che per istituire l’ordine incanala le forze di coesione attraverso una serie di strategie, di operazioni amministrative che, deputate a garantire la stabilità, sono in realtà una condanna dell’esistenza umana, in quanto azione di alterazione del naturale movimento di agitazione creatrice a favore della conservazione. Prendendo la parola con Caillois, ma andando oltre i propositi del suo amico, e riallacciandosi alle tesi sostenute in una precedente relazione99 – là dove, in particolare, evidenziava come il nucleo delle società primitive fosse un luogo, il sacro, funzionante come centro di attrazione e repulsione, in cui convergono, opponendosi, divieto e trasgressione, dove il primo in quanto potere fasto e destro che vieta il crimine è ciò che si oppone al dispendio, senza però abolire la forza/valore del secondo, il crimine necessario all’uomo per la sua esistenza sociale – Bataille, dopo essersi richiamato agli undici volumi del Ramo d’oro di Frazer100, definisce il potere come la riunione istituzionale della forza sacra e della potenza militare in una sola persona che le utilizzi a proprio vantaggio personale, e pertanto a vantaggio dell’istituzione. In altri termini il potere è ciò che sfugge alla tragedia imposta dal ‘movimento d’insieme’ che anima la comunità umana – ma ciò che sfugge alla tragedia proprio rivolgendo a suo vantaggio quelle stesse forze che la impongono101.

Il potere, quindi, pone termine alla tragedia alterando profondamente il movimento d’insieme che, al di là di qualsiasi interesse individuale, anima la collettività e lo fa volgendo a suo favore le forze della tragedia: pensiamo ad esempio, osserva Bataille, a come il trionfo di Ottaviano nell’antica Roma – ma in eguale misura a come si sono affermati il nazionalsocialismo e il fascismo con Hitler e Mussolini – abbia posto fine alla lotta tra partiti, una “agitazione politica” affine al movimento d’insieme e quindi essenziale alla vita sociale. La formazione del potere appare dunque come espressione della negazione/repressione del movimento d’insieme che anima la vita della comu99 Cfr. G. Bataille, “Attrazione e repulsione II”, ivi, pp. 138-153. 100 Cfr. J. Frazer, The Golden Bough, Mac Milliam, London 1922, trad. it., Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1990, dove la figura del re, a partire dal re sacerdote di Nemi, Dianus, e dal rito della sua messa a morte, racchiude in sé il carattere delle cose sacre, nello stesso tempo proibite e profanabili evidenziando la relazione ambigua tra sacro e potere. 101 R. Caillois, “Il potere”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 154-168, p. 163.

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nità, una reattività che annichilisce la vita tanto che, da allora, la società romana è apparsa come immobile, poco vitale. La solenne potenza della religiosità pagana era come esaurita e solo con l’avvento del cristianesimo, con la forza dei suoi miti, l’agitazione d’insieme si è ricomposta in un movimento che spinse gli individui al di là dei loro interessi particolari. Il potere si afferma esautorando il sacro, rompendo la turbolenza della tragedia – e qui si produce la distanza di Bataille da Caillois che identifica potere e tragedia –; lontano dalla tragedia il potere si è iscritto nella parola di Socrate/Platone, nell’immobilità del Bene che interrompe il flusso del canto di Dioniso 102 , il Dio della Terra nato da un crimine, dalla violenza del Cielo/Zeus contro la madre Semele. E la tragedia è proprio la cifra di una violenza che rompe i divieti, la repulsione verso le cose sacre, il segno di una trasgressione dei limiti imposti, – quelli di un’esistenza considerata e vissuta solo come propria, come destino personale – oltre i quali comincia il significato della vita, nella composizione di una moltitudine di soggetti, nell’intimità originaria degli esseri, un «legame di fraternità che può essere estraneo al legame di sangue», un’amicizia possiamo dire, una complicità tra uomini che decidono le necessarie consacrazioni; e l’oggetto della loro unione non ha per fine un’azione definita, ma l’esistenza stessa, L’ESISTENZA, CIOÈ LA TRAGEDIA103.

La contrapposizione tra un modo di vita tragico/sacro, una forma d’esistenza che ha preso su di sé la morte – l’evento comune «primo e ultimo che interrompe il poter essere d’ognuno» – e un modo d’essere sufficiente, profano, che reattivamente proietta, scarica all’esterno le proprie contraddizioni, emerge nella “lettura” che Bataille mette in campo commentando, in “Cronaca nietzscheana”, la messa in scena nel 1937 a Parigi, ad opera di Jean-Louis Barrault e con i costumi di André Masson, della tragedia di Cervantes Numanzia. Testo dove 102 Cfr. G. Bataille, “L’obelisque”, in Mesures, 15 avril 1938, IV, n°12, trad. it., “L’obelisco”, in Id., Critica dell’occhio, cit., pp. 261-274 dove richiamando la figura nietzscheana del folle che accese una lanterna alla luce del mattino per annunciare nella pubblica piazza del mercato il mistero della morte di Dio, Bataille ci mostra la piccolezza e la provvisorietà della vita quando questa è presa negli individui isolati, nella realtà di un’incarnazione provvisoria, mentre la vita umana, quella «che non ha nome e che l’agitazione di moltitudini innumerevoli esige oscuramente e costruisce nonostante ogni apparenza contraria», ha il suo nucleo pulsante nell’insieme dell’orrore, della violenza, del riso e dell’amore, là dove è il cuore, il centro e non la periferia degli esseri. Qui hanno luogo i movimenti stessi della storia, quelli di una lenta e progressiva “lotta inespiabile” contro Dio e contro il tempo: « è la lotta della ‘sovranità stabilita’ contro la follia dirompente e creatrice delle cose. Così la storia riprende senza fine la risposta della pietra immutabile al mondo eracliteo dei fiumi e delle fiamme». Un movimento che ha ricondotto la gloria della vita nell’umiltà della paura, una prigionia rotta dalla visione estatica del ritorno eterno, dove «il tempo si scatena nella ‘morte’ di Colui la cui eternità dava all’Essere una base immutabile», ivi, pp. 263-272. 103 G. Bataille, “Cronaca nietzscheana”, in Id., La congiura sacra, cit., pp. 77-90, p. 82. In particolare la nota n. 8, p. 84.

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la tragica decisione dei numantini di uccidersi l’un l’altro per non cadere prigionieri di Scipione Emiliano, riflette il “desiderio di libertà e di indipendenza” degli spagnoli; «Numanzia! Libertà!» è il grido degli assediati che dà voce al desiderio per un’umanità perduta, per una morte che fa nascere una nuova vita. La morte di cui si tratta è la morte-in-comune, quella di un popolo, che segna il venir meno di una comunità d’esistenza la cui cifra è quella terrestrità dionisiaca violentata dalla gloria del cielo, dal bisogno divino di punire un’esuberanza che mette in pericolo la sua imperscrutabile necessità. Ed è proprio la Terra che aprendo le sue viscere fa uscire il morto che l’indovino Marquino interroga per conoscere l’orribile destino della città; una Terra che si apre al vivente e che parlando «nelle grida dei bambini sgozzati dai padri, delle mogli sgozzate dai mariti» non suscita orrore, ma desiderio per la libertà perduta, quell’unità della vita come continuità degli esseri che trova il suo fondamento nella «comune coscienza di ciò che è l’esistenza profonda: gioco emotivo e lacerato della vita con la morte». Numanzia, sottolinea Bataille, è la cifra di una “comunità di cuore”, il segno di un vero e proprio rovesciamento della pratica politica – che in quanto gioco di manipolazione e di compromesso ne rende impossibile la formazione – che rende così evidente la “commedia” che in quel momento animava il palcoscenico europeo con la vuota contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Una farsa che all’insegna della democrazia – oppone il cesarismo sovietico al cesarismo tedesco, dimostra quali traffici di bassa lega siano sufficienti a una massa istupidita dalla miseria – alla mercé di coloro che volgarmente la adulano. Esiste una realtà che, dietro questa facciata, attiene ai segreti più profondi dell’esistenza; solamente, è necessario, per chi voglia entrare in questa realtà, prendere alla rovescia ciò che è ammesso. Se l’immagine di Numanzia esprime la grandezza di un popolo in lotta contro l’oppressione dei potenti, essa rivela nello stesso tempo che la lotta attualmente perseguita manca il più delle volte di ogni grandezza: il movimento antifascista, se viene paragonato a Numanzia, appare come un vuoto coacervo, come una vasta decomposizione di uomini legati solo dal rifiuto104.

Ciò che occorre è un vero e proprio rovesciamento dei valori, una ricomposizione degli esseri che vada oltre il rifiuto che caratterizza l’opposizione di ogni forma di totalitarismo, oltre l’opposizione frenetica, dice Bataille, che qualifica l’opposizione antifascista. È necessario ridare vita all’esistenza tragica, a quella coesistenza della vita con la morte capace di scuotere dall’interno l’apatia di una società sfinita da una civiltà della servitù. Occorre uscire da un’economia del sacrificio/dono che legando/fondando la comunità sul proprium ne afferma la necessità servile, il suo essere e farsi all’interno di un discorso politico-economico che svaluta/valuta la vita segnandone il prezzo; occorre entrare nel “segreto” di Acéphale, nella verità del suo scacco. 104 Ivi, p. 88.

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Dobbiamo però ancora aggiungere alcuni lembi di tessuto al patchwork batailleano riprendendo poi il filo del discorso sul potere filtrato attraverso la lente di una sovranità segnata dall’esperienza di Acéphale. Rivista e società segreta che, in nome di Nietzsche, avvia un’azione politica che, in seguito al fallimento di Contre Attaque, travalica l’orizzonte del politico constatando per un verso l’impossibilità di una pratica rivoluzionaria e, per un altro, l’incapacità delle diverse democrazie a bloccare l’avanzata del fascismo. Per questo Bataille cerca una nuova chance spostando l’asse della possibilità verso il sacro: non si tratta di una fuga nel religioso né della ricerca di un esasperato misticismo collettivo, che riassumerebbe in sé ogni tensione soggettiva “costruendo” un in-comune come unità più elevata, ma della riattivazione nel politico di quella tensione che spinge gli esseri verso quel nucleo incandescente, sacro, della vita in cui si innesca la forma di una comunicazione tra esseri aperti, insufficienti, che precede e forma ogni politica possibile. Si tratta di riattivare un pensiero della comunità come comunità d’esistenza, forma di un modo d’essere e di pensare che restituisce la discontinuità degli individui, «insecabili e decisamente separati»105, alla continuità degli esseri singolari. Comunità che è cifra della capacità della vita di tenersi all’altezza della morte, non della mia morte, ma di quella dell’altro che morendo si allontana: «prendere su di me la morte altrui come la sola morte che mi riguarda, ecco quel che mi mette fuori di me», ecco quell’assenza, osserva Blanchot, che mettendomi radicalmente in questione, esponendo la mia insufficienza, «mi apre nella sua impossibilità, all’Aperto di una comunicazione»106. È la comunità della morte che allora fonda la comunità, è la morte l’evento «primo e ultimo che interrompe il poter essere di ciascuno» cancellando l’identificazione dei soggetti, la fissazione dei ruoli, il riconoscimento/appartenenza a un gruppo d’azione; una sufficienza d’essere che si è affermata attraverso la costruzione di legami escludenti. Ordinata alla morte la comunità è, paradossalmente, l’esposizione del senso di una comunione impossibile fra esseri mortali, l’impossibilità di un morire in comune, l’affermazione della insostituibile finitezza di ciascuno a ognuno, il contatto con un dehors che ci penetra nella sua assoluta esteriorità e che non possiamo dominare/misurare. In

105 «La separazione degli esseri, l’abisso che separa il tu dall’io, di solito ha un senso primo. Nella nostra sfera di vita, tuttavia, la differenza fra l’uno e l’altro è solo un approfondimento di possibilità precarie. Se è vero che in un caso, in un tempo determinato, il passaggio da tu a io ha un carattere continuo, l’apparente discontinuità degli esseri non è più una qualità fondamentale. È il caso dei gemelli usciti dallo stesso uovo. Marc Twain diceva che quando uno dei gemelli era annegato non si era mai saputo quale dei due fosse. L’uovo che io fui, poteva scindersi in due individui differenti l’uno dall’altro in quanto l’uno, dicendo ‘io’, avrebbe con ciò escluso radicalmente l’altro, ma non so in che cosa ciascuno di loro differiva da quell’io che non è né l’uno né l’altro. In verità, questa differenza che approfondiamo come una piaga è solo un continuum perduto», G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., pp. 257-258. 106 M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 39.

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quest’ottica si può comprendere perché Acéphale sia il suo “segreto”, il senso di una impossibile identificazione, quella del sacrificio, di una morte e di una comunità possibili solo in quanto si sottraggono ad ogni appropriazione/attualizzazione. Solo disperdendosi, solo nel “disastro”, la comunità è possibile: la privazione della testa, l’acefalità, non è solo il segno dell’esclusione del primato di ciò che la testa simbolizzava, il capo, la ragione raziocinante, il calcolo, la misura e il potere, ivi compreso il potere del simbolico, ma l’esclusione stessa intesa come atto deliberato e sovrano, che avrebbe restaurato il primato sotto la forma del suo cedimento107.

Perdita, ritiro, assenza. Sono le cifre della comunità, di un essere-in-comune a partire dalla ferita aperta nell’essere d’ogni esistente; ferita che è, nello stesso tempo, il venire alla luce di quell’alterità che, come dice Freud, da sempre ci abita ed esposizione del nostro essere lacerato all’altro, alla sua alterità incommensurabile. Libertà di un’apertura/piaga dell’essere che la ragione dialettica ha curato e suturato mascherando l’insufficienza nella paradossalità di una libertà servile, quella del borghese Odisseo che crede di vincere/trasgredire l’incantesimo delle Sirene, ma può ascoltarne il canto solo in una emblematica impotenza. Possiamo a questo punto comprendere perché il sacrificio non è un’uccisione, ma l’espressione di una volontà di autosacrificio, un abbandono-dono di sé senza ritorno, come leggiamo in Théorie de la Religion, nella misura in cui, in quanto atto, la morte per un verso implica la comunione di sacrificante e vittima, rendendo così visibile nella morte dell’altro la propria morte mentre, per un altro verso, poiché ognuno e non solo il sacrificante e la vittima dovrebbe morire – senza però che tale morte si traduca in opera negando la legge del gruppo che esclude ogni proggettualità – accade che l’esperienza della morte dell’altro rivela la stessa impossibilità del morire, quindi la non necessità della morte nel sacrificio che, nella realtà di una messinscena, trasporta la verità di un’esperienza che si dà solo nella forma sempre vuota dell’infinità dell’abbandono. È proprio la “rivelazione” del segreto di Acéphale che ne determina lo scacco, una negazione che ne è, nello stesso tempo, l’inveramento, nella misura in cui il disastro dell’esperienza presenta la verità di un farsi comunitario ancora chiuso nella realtà di un rapporto appropriante, che misura l’altro facendone un mio altro e ordinando anche la sua morte nella logica dell’utile. Solo come dono e abbandono senza ritorno il sacrificio disfa la comunità fondandola, consegnandola al tempo dispensatore che non la autorizza né autorizza quanti le si donano, ad alcuna forma di presenza, rinviandoli così alla solitudine che, lungi dal proteggerli, li disperde o li dissipa senza che ritrovino se stessi o si ritrovino

107 Ivi, p. 48.

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insieme. Il dono e l’abbandono è tale che al limite non vi è nulla da donare e nulla da abbandonare, e il tempo stesso è soltanto uno dei modi in cui questo nulla da donare si offre e si ritira come il capriccio dell’assoluto che esce da sé dando luogo ad altro da sé, sotto la forma di un’assenza108.

Il sacrificio di Acéphale apre a Bataille la via di un’esperienza singolare, esperienza interiore, esperienza di «coloro che non hanno comunità», quella di un’amicizia nella solitudine che non è «la supplenza o il prolungamento» di ciò che in quello scacco non aveva potuto essere, ma la prova necessaria che la comunità, il pensiero della comunità, ci accade solo nella misura in cui siamo coinvolti nella decisione responsabile di rinunciare alla forma di una soggettività piena e riconosciuta, esponendoci alla contestazione che ci viene dall’alterità irriducibile dell’altro. Esperienza solitaria, quindi, che esige però un’amicizia, perché solo nella condivisione della lacerazione, nel contagio di una ferita insanabile si innesca quel movimento di una comunicazione sensibile, affettiva, capace di sconvolgere il regno di una sovranità imperativa che ha tradito il Sacro volgendone l’ambiguità verso l’alto. Ritornando alle riflessioni sul potere vediamo come, per Caillois, emblematico di una ripresa del movimento di composizione degli esseri è il fenomeno del cristianesimo, una forza sacra e produttrice di sacralità che funzionò da collante sociale per poveri ed emarginati d’ogni specie nella misura in cui nella persona di Gesù mise in gioco un re, un re che non solo era dalla parte dei reietti ma che, in quanto crocifisso, si ridusse a criminale, si fece corpo suppliziato identificandosi così con quella parte nefasta e sinistra del sacro divenuta ben presto ripugnante. Ma, osserva Bataille, lo strumento stesso del supplizio recava già il titolo Rex, l’INRI latino. In tal modo l’animazione si ricomponeva a partire dall’orrore, e, componendosi, diventava automaticamente creatrice di forza. Ciò che era ripugnante diventava oggetto di una seduzione estatica, dava libero corso a una gioia maestosa. Il crocifisso andava a sedersi alla destra del Padre onnipotente. Riuniva così nella sua persona, e in modo definitivo, il re puro e temibile e quello condannato a morte. Ma assumeva su di sé il crimine della messa a morte del re109

rinnovando quell’antico sacrificio che i sacerdoti ripetevano identificandosi ogni volta con la vittima, vivendo essi stessi come dei re sacrificati ed assumendo su di sé i crimini del mondo. Ma in questo modo il potere, nella con-fusione di Cristo-Re e Dio onnipotente, sembra non avere più limite. Ciò portò nel mondo romano ad una vera e propria diminuzione del potere politico e religioso; l’imperatore, che raccoglieva in sé il potere militare, cercava nelle forze del paganesimo la via per raggiungere una totalità che, di fatto, gli sfuggiva nella misura in cui l’animazione profonda della società si riuniva at108 Ivi, pp. 47-48. 109 R. Caillois, “Il potere”, cit., p. 165.

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torno alla potenza puramente religiosa. Da questo momento fu necessario, e ciò fu evidente dopo Costantino, che le due facce del potere fossero riunite in una sola persona: l’imperatore come immagine di Dio sulla terra e Dio nell’abito sacro dell’imperatore. Ed è solo nella forma del crimine, quella di un potere che uccide, nella messa a morte da un lato del re – di cui è emblema l’ascia del littore che nell’insegna dei magistrati ad imperium simboleggia la capacità di mettere a morte i sudditi – e dall’altro nella forma di un potere che muore, Cristo, il suppliziato la cui messa a morte apre ad una nuova comunione degli uomini, che la dualità profonda della potenza sacra riprende. Il crimine è dunque il nucleo dell’“agitazione umana”, nucleo di una tragicità dell’esistenza a cui l’umanità ha risposto o identificandosi col criminale che mette a morte il re o, come nel caso del cristianesimo, con la vittima, col re sacrificato. La religione cristiana ha interrotto la tragedia, ha spezzato quel paradossale legame tra sacro e profano, tra interdetto e trasgressione che è il nodo stesso del sacro. Prendendo su di sé la colpa del crimine Cristo si è offerto come “soluzione” all’angoscia della vita, come risoluzione alla violenza del crimine di cui, in certo qual modo, si nutrono tutte le forme religiose. Ma in questo modo, osserva Bataille, il potere tende ad esaurirsi in quanto forza creatrice/agitatrice sopravvivendo nelle forme di una razionalizzazione e tecnicizzazione della vita che sacralizza valori etici e politici quali la patria, il lavoro e la famiglia risolvendo il legame comunitario, consumandolo nella formalità giuridica delle norme e dei diritti a cui sfuggono proprio quegli “accenti” informali di dispendio, di eccesso e di passionalità – forze vibranti del negativo – che animano, dal basso, quell’essere composto che è la società. Ricordiamo che in questa direzione, in Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno metteranno in evidenza come già il dono omerico si presentasse nella forma di una razionalizzazione economica del sacrificio, una messa tra parentesi dell’esperienza di una comunicazione autentica a favore di un modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono110,

un passaggio nella dimensione di quella menzogna razionale della morale e della politica che guida la nascita dell’Occidente. Una civiltà consapevole che l’astuzia di Odisseo «è anche sacrificio per l’abolizione del sacrificio», organon di uno scambio rigoroso in cui tutto avviene secondo le regole precise che disegnano il volto dell’homo œconomicus-consumans, il volto di un sacrificio che vuole tenere legata la morte alla vita, la maschera apollinea di un logos che nasconde, nella sua logica, il volto lacerato di Dioniso, l’uomo-filosofo dell’a-venire, come dice Nietzsche, che rompe l’ordine sociale,

110 M. Horkheimer-Th. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 57.

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la centralità di un soggetto e di un discorso significanti, la circolarità compiuta del sapere assoluto. Una declinazione razionalistica e funzionalistica del potere che emerge in tutta la sua eloquenza nella sovranità moderna, una progressiva desacralizzazione che nella istituzionalizzazione della prassi sociale e politica stigmatizza quella spoliticizzazione della vita che è al centro delle riflessioni di Hanna Arendt; un decalage che il Collège ha tentato di arginare attraverso la messa in atto di una sociologia sacra capace di riattivare il senso di quel “movimento comuniale” che fa della società un essere composto, non un semplice organismo, ma una comunità di singolarità dove ciascun elemento sussiste solo in quanto s-legato, cioè in quanto parte accanto ad un’altra nella composizione di una totalità che non totalizza. Una comunità d’esistenza, dice Bataille in contrasto con Caillois, segnata dalla perdita, dalla lacerazione, dal sacrificio, perché solo là dove l’individuo è esposto ai suoi limiti nasce una comunicazione; solo là dove, nello splendore notturno di una coscienza offuscata, nell’angoscia di un io lacerato, l’uomo tocca il suo limite, la morte come “estremo della sua finitezza”, scoppia la gioia di un’esistenza che è comunicazione, comunione con gli altri. Dove l’esistenza dell’altro è quel dono necessario al mio essere, l’offerta impossibile di un’alterità che sfida ogni certezza scatenando, attivando, quella passionesofferenza della finitezza che è il segno di una comunità senza proprietà. L’esigenza del sacrificio di sé, che in Bataille è alla base del pensiero della comunità, non indica però la necessità di aprire «nuovi cicli di olocausti», ma l’esigenza di rigenerare in noi la consapevolezza che la vita pretende per essere tale, il dono di sé, una dépense la cui unica legge è quella che «considera i movimenti vitali come non soggetti ad alcuna misurazione oggettiva» e ciò vale sia a livello della “sfera invernale” della vita, quando la paura della morte genera solo orrore e violenza e ogni dispendio non è che un mero “appassimento” dell’energia, sia in quelle “esplosioni” proprie dei “flussi primaverili” che sono i movimenti del riso, dell’eros e dell’estasi, un morire generoso, quello di una vita che, come quella del fiore, splende/nasce solo per morire gloriosamente. Se la morte ci appartiene, sottolinea Bataille, solo una vita generosa è capace di giocarne il gioco senza indietreggiare, perché l’uomo generoso non può rinunciare alla gloria della primavera. Sa che senza passare per le brume di novembre non si ha il sole in maggio, sa che un dispendio eroico è la condizione di ogni gloria. Gli dèi non conoscono resurrezione senza messa a morte […] per questo [...] i sacrifici tremendi sono necessari ai dispendi gioiosi. Gli atti religiosi di tutti i tempi, di tutti i popoli, rendono possibile il passaggio dall’angoscia all’estasi della luce, dal sacrificio terreno alla prodigalità solare. Essi seguono il ritmo delle stagioni, e non trascurano mai l’inverno, nella cui indigenza è necessario che la morte abbia luogo111. 111 G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., p. 113.

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Per questo interrogando l’uomo “tranquillo e ragionevole” sull’enigma di una realtà sacrificale che ha accordato gli esseri in luoghi e tempi diversi lo invita, per rispondere, a portare al limite la sua coscienza avida che ordina e calcola per poter sentire l’angoscia di una vita che è dono incapace di calcolo, una comunialità tra esseri aperti, lacerati, fuoriusciti, come si dice ne L’Expérience intérieure, dal cerchio dell’ipseità. In questo senso, allora, comprendiamo come non si tratta, è ovvio, di riprodurre ‘dal vero’ la pratica del sacrificio, ma di prendere sul serio, sul piano cioè della teoria del soggetto, la modalità relazionale inscritta nel sacrificio. Quel che a Bataille interessa di questa modalità, o meglio, quel che egli vi ravvisa, è l’implicazione di una ‘distruzione’ del soggetto chiuso avidamente in sé, o – che è lo stesso – una sottoutilizzazione del soggetto attraverso la via della ‘cosificazione-oggettivazione’112,

affermando quindi la necessità del farsi cosa da nulla (rien), per essere inutilizzabile, incontabile, incommensurabile, sovrano.

112 F. C. Papparo, “Una traccia lasciata su un vetro rigato” cit., pp. 253-254. Riferendosi al tentativo sacrificale messo in atto dalla comunità di Acéphale l’A. osserva che «la semplice, risibile notazione che i ‘congiurati’ volessero tutti quanti fare la vittima e nessuno il sacrificatore basta da sola a dare il senso esatto, perché risibile, della ripresa della pratica sacrificale», ivi, nota 1, p. 253. È il valore simbolico di un atto che rende la comunità impossibile: «è vero che uno dei congiurati, pur di uscire dall’impasse, avrebbe potuto decidere di suicidarsi, ma in questo caso non si sarebbe trattato di un sacrificio. Il sacrificio richiede violenza: un essere strappato alla vita, ed anche nel caso in cui la vittima sia consenziente, la morte resta sempre un patire, un’offesa subita, non può mai diventare una decisione volontaria ed autonoma. La morte non è mia, la morte non è più la mia morte; la morte è dell’altro e viene dall’altro; la morte mi è inflitta, è un movimento che m’investe e devasta» ed il sacrificio trasporta sempre un valore funzionale, quello di una messa in scena, uno spettacolo che, paradossalmente, rivela, l’impossibilità di ciò che presenta, l’impossibilità della morte, la sua non essenzialità per il sacrificio: «sacrificare non è uccidere, ma abbandonare e dare», un consumare «solo ciò che serve, ciò che è utile […] e soprattutto la morte. Giacché il paradosso della negatività […] è che l’opera della distruzione può divenire produttiva a sua volta, può essere piegata ad una finalità – la costruzione di un mondo umano – che a rigore escludeva». È l’assenza della morte, come il dono più radicale, l’eccesso mortale, l’impossibilità del morire che segna lo scacco della comunità acéphalica inverando il senso di un’esistenza comunitaria che «sottrae l’uguaglianza al registro immaginario della lotta mortale e la restituisce a quello simbolico: al luogo dell’altro», B. Moroncini, “La comunità impossibile”, in Aa.Vv., L’ineguale umanità. Comunità, esperienza, differenza sessuale, cit., pp. 9-76, pp. 60 e sg.

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JE NE SUIS RIEN. JE NE SAIS QUOI

L’uomo attuale è probabilmente la creatura più estranea all’universo che sia mai vissuta. Giunge al punto di vivere come se esistessero solo i suoi problemi più minuti e poveri di senso. Tende sempre più a svalutare in se stesso ciò che lo ricollegava a un mondo di luce e di fulgore: il gusto che aveva di cercare la gloria G. Bataille, Il limite dell’utile

Per comprendere il senso dell’invito a “farsi nulla”, rivolto da Bataille all’uomo decadente che egoisticamente legato all’utile non sa più vivere “a misura dell’universo”, è necessario soffermarci sulle riflessioni svolte attorno ai temi della sovranità e del potere ne La Souveraineté. Saggio incompiuto – nell’intenzione dell’autore doveva costituire la terza sezione de La part maudite, ma è apparso postumo solo nell’edizione delle Œuvres Complètes – fu scritto dopo la seconda guerra mondiale sotto l’egida, paradossalmente coesistente, dei nomi di Hegel e Nietzsche: posizione da un lato del movimento dialettico e delle forze di attrazione e repulsione come spinte che muovono/costituiscono le società e, dall’altro, smascheramento del falso gioco della Aufhebung, che dando forma e senso al movimento lo blocca nell’affermazione del divenire indecidibile dell’essere. Un innesto terapeutico, possiamo dire, della follia nietzscheana nell’ordine del sapere assoluto, un’apertura del sistema che fa eco alla lacerazione del soggetto, al sacrificio del pensiero. Se «partendo dal sapere assoluto Hegel non poteva evitare che il discorso svanisse, ma svaniva nel sonno», Nietzsche e, come dice Jacques Derrida, i suoi stili1, è nello stesso tempo la cifra di una soggettività che si è ridotta a niente, che sa non “volersi tutto” e non “volersi sempre”, e il segno di un pensiero che facendosi “evanescente” esce dal “sonno” dogmatico della ragione metafisica e si

1

Cfr. J. Derrida, Éperons. Les styles de Nietzsche, Flammarion, Paris 1978, trad. it., Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano 1991, dove il titolo sottolinea, nella declinazione al plurale del termine stile, l’impossibilità di ricondurre all’unità un pensiero, quello di Nietzsche, la cui singolarità è quella di farsi attraverso una continua dislocazione di sé, nel lavoro di de-costruzione dell’identità del soggetto e dell’univocità del senso.

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ritrova in un rapporto di uguaglianza – e in comunicazione – con i momenti sovrani di tutti gli uomini, nella misura in cui questi non vogliono prenderli come fossero cose […]; io parlo di quel discorso che penetra nella notte e che la chiarezza stessa finisce d’immergere nella notte […] parlo del discorso in cui il pensiero spinto al limite del pensiero esige il sacrificio, o la morte, del pensiero2,

di quella forma dogmatica e ortodossa che ha fatto di Dio e dell’Ego Cogito il fondamento necessario di una metafisica rappresentativa che ripiega la vita sulla quotidianità dei valori precostituiti. E il passaggio, lo svanire del sapere nel non-sapere, come vedremo più avanti, indica proprio verso una decostruzione dell’immagine classica del pensiero di cui l’annuncio nietzscheano della morte di Dio è l’avvio, verso uno sfaldamento dell’Io che è solo nella misura in cui si sa ridotto a “NIENTE”, rien, un non-qualcosa libero dal dominio dell’utilizzazione e della manipolabilità. È questo il dono di Nietzsche, la sovranità di un soggetto che ignora il calcolo, un modo d’essere inattuale che si sottrae a qualsiasi cattura/riduzione. Questo ci fa anche comprendere, come sottolinea Roberto Esposito3, che se Battaille “sottrae” Nietzsche all’appropriazione fascista non ne opera poi una riconsegna ad una lettura da sinistra perché, come leggiamo nella sua recensione al Nietzsche di Jaspers – che «rompe il quadro prestabilito in cui si cercava di far entrare la ‘politica’ di Nietzsche» – , il suo pensiero è come una tempesta che agita l’anima, un movimento di forze plurali e metamorfiche che nessuna forma o nozione può definire/domare. Quella di Nietzsche è una filosofia, per la quale, «nella ricchezza del possibile, senza principio razionale, il contrario e il contraddittorio possono essere tentati, tentativo che obbedisce al solo principio della salvezza e della valorizzazione della condizione umana»4. Posto fuori di ogni possibile interpretazione determinativa il suo pensiero mette alla prova, pensandole insieme, le più diverse possibilità, senza confonderle, quindi anche il politico e l’impolitico, la libertà e la perdita di sé, la comunità e la sua impossibilità. 2 3

4

G. Bataille, La sovranità, cit., pp. 207-208. Cfr. R. Esposito, “La comunità della perdita: l’impolitico di Georges Bataille”, introduzione a G. Bataille, La congiura sacra, cit., pp. XI-XXXVI. Cfr., inoltre, Id., Communitas. Origine e destino della comunità, cit., in particolare il cap. V “L’esperienza” dove, puntualizzando la divergenza Hobbes-Bataille nel contesto dell’opposizione fondativa immunitas-communitas, economia ristretta-dépense improduttiva, contratto-comunità, rileva incisivamente la singolarità dell’identificazione di Bataille a Nietzsche e alla sua opera; un Nietzsche che letto in chiave antiheideggeriana «è il pensatore che, contro l’intera tradizione hobbesiana, per primo insegnò a non ‘volersi tutto’ e a non ‘volersi sempre’, a «‘decidersi’ – innanzitutto da se stesso. A farsi non-intero: ma parte, partizione, partage con l’altro che ci circonda e ci attraversa. A darsi senza risparmio dal momento che ‘una virtù che dona è la virtù più nobile’», la virtù di «colui che spinge il meridiano del nichilismo oltre se stesso, nell’abisso in cui, insieme ad ogni fondamento, sprofonda anche l’assenza di fondamento», ivi, pp. 143-144. G. Bataille, “Recensione a K. Jaspers, Nietzsche, Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlin 1936”, in Id., La congiura sacra, cit., pp. 51-53, p. 52.

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Una paradossalità che va pensata, che dà da pensare nella misura in cui può risvegliare, nel pensiero, il senso di quella auto-limitazione, un lavoro ascetico di cura e costruzione di sé, in cui Max Weber indicava ai “liberi studenti” di Monaco la via per la pratica di un lavoro intellettuale e di una politica liberi dalla costrizione del calcolo economico, perché se la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse all’impossibile5.

La comunicazione/comunialità che segna il legame tra esseri liberi delinea allora il senso di una sovranità s-legata dalla forma di un potere, sia individuale che statuale, che riconosce l’altro solo per negarlo nel movimento di appropriazione di un progetto, politico o filosofico, costruito per riconoscersi. Un movimento che funzionalizza il negativo in un lavoro di potenziamento del potere che è l’esatto contrario di una forma di sovranità che si delinea come pura potenza di perdere, di una comunità che è puro désœuvrement, impoliticità, dove il carattere impolitico non significa qualcosa di completamente diverso dal politico, ma il «politico stesso guardato da un angolo di rifrazione che lo ‘misura’ a ciò che esso non è né può essere. Al suo impossibile»; una differenza prospettica, dunque, che nella considerazione del punto di scarto come limite differenziale che è «divisione ma insieme unione tra ciò che divide», richiama il senso di una comunicazione/condivisione del medesimo spazio, dove ciò che si partisce, si con-divide (partage) non è un qualcosa, una sostanza unica, ma al contrario un’«assenza di sostanza che condivide essenzialmente l’assenza di essenza»6. Un partage impossibile, ma necessario, tra fuori e dentro, tra politico e impolitico dove possiamo leggere il tra, secondo le indicazioni messe in campo da Michel Foucault e Gilles Deleuze, in chiave antiheideggeriana, come un intreccio, gioco di una tessitura che non distingue/autentica ma articola la differenza in un non-rapporto inappropriabile e irrappresentabile. Un tra che mette fuori gioco sia il soggetto identitario, perfettamente centrato ed autosufficiente, sia quello di una comunità effettuale in quanto spazio di superamento delle tensioni e realizzazione dei progetti di individui che vi si riconoscono, portando così in primo piano – nell’evidenza politica delle esperienze di Contre-Attaque, del Collège e di Acéphale – l’esigenza di ripensare 5 6

M. Weber, Wissenschaft als Beruf. Politik als Beruf, Gesamtausgabe, I/17, J. C. B. Mohr, Tübingen 1992, trad. it., La scienza come professione. La politica come professione, Ed. di Comunità, Torino 2001, p. 113. J.-Luc Nancy, “La comparution” in J.-Luc Nancy-Jean-Christophe Bailly, La comparution (politique à venir), Christian Bourgois Editeur, Paris 1991, pp. 49-100, trad. it., “La comparizione. Dall’esistenza del ‘comunismo’ alla comunità dell’‘esistenza’”, in Aa.Vv., Politica, Cronopio, Napoli 1993, pp. 13-58, p. 18.

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il nesso peculiare che lega dépense/sacro e comunità in quanto “spazi” eterotopici in cui vigono legami di amicizia tra estranei, rapporti senza dipendenza, senza episodio, in cui entra tuttavia la semplicità della vita […] il movimento dell’intesa, in cui, parlandoci, anche nella più grande familiarità, conserviamo distanze infinite, questa separazione fondamentale a partire dalla quale ciò che separa diventa rapporto7.

Un legame tragico capace di resistere alle derive dell’individualismo borghese, ma anche alla massificazione depauperante della prassi totalitaria fascista e comunista facendoci intravedere, oltre la presbiopia di una vita misurata col metro dell’utile, «qualcos’altro per cui valga la pena di vivere». In questo senso l’impolitico è la condivisione del politico, o meglio ancora, il politico come condivisione: all’estremo opposto del pericolo gnostico si apre lo spazio di pensiero della comunità8,

anche nella direzione di una riconsiderazione del “comunismo” come proposta ontologica, come tentativo, oltre l’opzione politica, di pensare l’essere che è in comune tra gli uomini, il comune degli uomini, dove l’ontologia, dice Nancy, non è «l’ontologia dell’‘Essere’, o di ‘ciò che è’: ma dell’essere in quanto non è niente di ciò che è»9. Interrogandosi sul significato del comunismo10 nella sua contemporaneità, nella limitatezza di un presente subordinato all’utile, Bataille lo indica come la “contraddizione più attiva” della sovranità, come movimento che, paradossalmente, ha agito per abbattere il carattere borghese compromesso col mondo delle cose, con la capacità di possedere e produrre oggetti e, nello stesso tempo, come lo spazio in cui, necessariamente, «ciò che è sovrano deve rivivere, forse in forme nuove, ma forse anche nelle forme più banali». Se positivamente il comunismo smaschera la commedia della sovranità borghese nel suo farsi signoria che si istituisce nel potere di una classe per la quale la parola “umano”, e quindi il senso stesso della dignità, è applicabile a tutti gli uomini in ugual misura, esso nega poi tale dignità all’uomo che opprime/sfrutta il suo simile: una valutazione che ribadisce proprio quel principio di esclusione che si voleva contestare. Il comunismo ha voluto svelare la mistificazione borghese della sovranità del dare rivelando il mutamento del senso del donare che, nell’abbandono di quella dismisura che dava vita alla generosità arcaica, è ora “misurato secondo i propri mezzi”. La dignità, il

7 8 9 10

M. Blanchot, L’Amitié, Paris 1971, p. 328. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit., p. XXII. J.-Luc Nancy, “La comparizione”, cit., pp. 27-28. «Parlo del comunismo inteso in generale come una dottrina politica in azione, che cerca di cambiare il mondo, e non come fanno i teorici comunisti quando evocano la fase comuni-

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rango, sono così legati esclusivamente al possesso delle cose, alla produzione di beni sempre più contesi, ricercati, che entrano a determinare una gerarchizzazione dell’essere umano il cui unico valore è la violenza «di ciascuno contro tutti gli altri», una lotta di classe in cui il senso della sovranità/comunità è come cancellato: basta considerare i mucchi di merci che servono a distinguere gli uni dagli altri coloro che le acquisteranno, tutti quei vestiti, quei mobili, i cibi, gli attrezzi […]. Basta considerare le case, gli appartamenti o i luoghi pubblici, le macchine più o meno lussuose o i vagoni suddivisi in classi! Non c’è niente, o quasi niente, che non serva a porci su un gradino, il più alto possibile, di questa scala della dignità democratica in cui il senso che giustificava l’ascesa si è perduto11.

In questa situazione il comunismo vuole agire come macchina per abolire le disuguaglianze, ogni distinzione o differenza, ma lo fa, osserva Bataille, «senza cognizione di causa», accentuando la confusione borghese della soggettività con le cose, negando alla radice ogni forma di sovranità – anche quella di una differenza singolare «che ha come valore la verità soggettiva» e che, originariamente, co-involge ciascuno in quanto parte nel continuum degli esseri – , operando una omogeneizzazione e una massificazione degli individui che negano la dignità soggettiva e fanno della prassi comunista il compimento della modernità. Servendo le cose, l’uomo del comunismo non sa goderne, ossessionato anch’egli da una volontà di accumulazione che annulla la sacralità folgorante dell’istante per un durare che gravita essenzialmente verso il futuro. Facendo del principio di equivalenza un giudizio di valore con cui misurare la qualità della vita il comunismo ha però instaurato, a sua volta, un elemento di discriminazione profonda: una tale dignità esclude infatti dal suo spazio quel simile che sfrutta il simile, che opprime e violenta il fratello, afferma un’ineguale umanità ritornando così «per una via traversa alla selezione che esso, per sua essenza, negava!». Una distinzione che annienta il soggetto, lo riduce a cosa fra le cose e con ciò stesso annulla la sovranità propria di tutti gli uomini; è per questo, dice Bataille, che la sovranità di cui parlo ha poco a che vedere con quella degli Stati, definita dal diritto internazionale. Parlo in generale di un aspetto opposto, nella vita umana, a quello servile o subordinato […] perché, ben oltre il bisogno, l’oggetto del desiderio, umanamente è il miracolo, è la vita sovrana, al di là del necessario che è caratterizzato dalla sofferenza12.

11 12

sta e finale della trasformazione del mondo, in cui ciascuno riceverà secondo i suoi bisogni, opponendola alla fase socialista che la precede immediatamente, durante la quale la produzione è interamente presa in mano e organizzata dalla collettività», G. Bataille, La sovranità, cit., nota 1, p. 114. Ivi, p. 186. Ivi, pp. 41-44.

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In questo senso Bataille ci parla della necessità di porre in atto un modo d’essere e una forma di pensiero in grado di resistere alla violenza del potere, capace di non farci rinunciare alla sovranità, vivendo nietzscheanamente come l’ultimo degli uomini, fuori dal pensiero comune, fuori dal circolo utilitaristico della produzione e del consumo che sancisce la subordinazione dello spirito all’oggetto facendo dell’uomo un semplice mezzo al servizio di una morale e di una logica che hanno chiuso nella gabbia d’acciaio dei loro precetti e delle loro regole la vita e il pensiero soggettivi13. Ed è a questo proposito indicativa la chiusura de La souveraineté – nella quarta ed ultima parte emblematicamente intitolata “Il mondo letterario e il comunismo” – dove al pensiero sovrano di Nietzsche fa seguito, nel proposito ribadito di non voler «perdere di vista l’essenziale», perché «l’essenziale è sempre lo stesso: la sovranità non è NIENTE», il nome di Kafka, “uno dei più grandi geni della nostra epoca”, l’esempio perfetto del rifiuto dell’attività efficace i cui libri, quindi, nella logica dello spirito comunista, dovevano essere bruciati. Al pensatore boemo Bataille ha dedicato, ne La littérature et le mal, il saggio intitolato “Dobbiamo bruciare Kafka?”, dove il gioco della composizione letteraria si fa segno espressivo di un’esistenza che vuole essere “inoperosa”, di un pensare che è “rifiuto dell’attività efficace”, segno della “perfetta puerilità” in cui «l’umanità allo stato nascente manifesta la sua essenza». Kafka è allora la cifra di un’umanità per la quale la vita è gioco e passione, desiderio senza bisogno, azione senza scopo. Per questo scrisse, volle essere uno scrittore sapendo che la letteratura, come l’attesa della terra promessa a Mosè, non avrebbe mai potuto rispondere alla sua aspirazione; così nei Diari afferma che il patriarca ‘non raggiunse mai Canaan non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo’. Non è più soltanto la denuncia della vanità di un determinato bene, ma di tutti gli scopi, ugualmente vuoti di significato: uno scopo è sempre, senza speranza, nel tempo – come un pesce è nell’acqua – un punto qualunque nel moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana14,

quella di chi rinviando lo scopo nel tempo non solo manca il presente, ma fa dello scopo sempre protratto il principio stesso dell’agire misconoscendo l’immediatezza della vita. Mosè falli perché aveva una vita umana, una vita posta nella prospettiva di un avvenire già pensato, costruito, una vita che non gioca ma è gioc-gata: la vita “sociale” di Kafka, il suo lavoro adulto d’ufficio, quell’attività commerciale opposta al piacere della lettura e della lettera13

Di questo è modello Nietzsche il cui privilegio, dice Bataille, «dal punto di vista che ho scelto è di fondamentale importanza, è che egli legava alla soggettività la conoscenza, e per questa ragione il suo pensiero è inconciliabile con quelle forme di pensiero che occupano il mondo (la volgarità fascista non cambia niente)», La sovranità, cit., nota n. 6, p. 209. 14 G. Bataille, La littérature et le mal, Gallimard, Paris 1957, trad. it., La letteratura e il male, SE, Milano 1987, p. 138.

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tura, insignificanti impieghi di tempo senza scopo né valore, colpe che l’autorità del padre riversava contro l’irresponsabile infantilità di un desiderio senza giustificazione, inutile. Per questo, osserva Bataille, se tutto nel mondo sembra riflettere la padronanza dell’azione, la sua autorità decisiva, e «a tal proposito il comunismo non pone alcuna difficoltà di principio», Kafka – in ciò «perfettamente agli antipodi dell’atteggiamento comunista» – fu consapevole dell’illusorietà di una vita rinviata nel tempo, dell’inganno dello scopo e, nella certezza della ricchezza dell’istante, ha preferito rinunciare ad ogni diritto; al riconoscimento che gli sarebbe pervenuto entrando con il lavoro nella comunità sociale, scegliendo non di fuggire, ma di vivere coscienziosamente negli ingranaggi del mondo civile, nel mondo dell’“azione efficace”, quello dell’autorità paterna e della Legge, per perdervisi nella direzione di quel movimento dell’esperienza interiore, meditazione, in cui il soggetto si cerca proprio rifiutandosi di rimanere chiuso nella sfera dell’attività. Operazione sovrana che, come dice Blanchot, «riceve l’autorità solo da se stessa» ed «espia al tempo stesso tale autorità» sfuggendo così al dominio della durata. Sottraendosi al desiderio di felicità, di riconoscimento e di soddisfazione, si vive «allontanandosi dall’errore comune che, di fronte all’autorità, implica il gioco della rivalità», perché se colui che rifiutava la costrizione alla fine è vincitore, diviene a sua volta, per se stesso e per gli altri, simile a coloro che ha combattuto, a coloro che si incaricano di esercitare la costrizione. La vita puerile, il capriccio sovrano privo di calcoli, non possono sopravvivere al proprio trionfo. Non vi è sovranità che a una condizione: non avere l’efficacia del potere, che è azione, supremazia dell’avvenire sul momento presente, supremazia della terra promessa15.

E la possibilità di permanere in questa infantile sovranità riposa nella capacità di perdersi, di non cadere nel giogo del calcolo, dello scopo, del lavoro, “o nell’istante durevole della morte” quando non c’è più nulla (rien), né fini, né risultati da cercare: è il prezzo della sovranità, l’aporia di un modo d’essere che non può darsi se non come diritto di negarsi, se non come ciò che non possiamo mai possedere alla maniera di un oggetto, ma che tuttavia siamo obbligati a pensare perché, se la morte apre un vuoto nel pieno della vita che genera in noi una preoccupazione personale, la morte irreale lasciando il sentimento di un vuoto, nel momento stesso in cui ci angoscia, ci attrae, poiché questo vuoto è sotto il segno della pienezza dell’essere. Il nulla o il vuoto, o gli altri si riferiscono nello stesso modo a una pienezza impersonale-inconoscibile16 15 16

Ivi, p. 145. Ivi, nota n. 21, p. 153.

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e quindi inappropriabile. Il richiamo a Kafka ci indirizza verso le complesse riflessioni che Bataille ha svolto sulla poesia e sulla letteratura/scrittura come forme di una comunicazione maggiore che agisce politicamente attraverso l’apertura/trasgressione dell’ordine del discorso nella misura in cui rinuncia a farsi opera, un’organizzazione dell’umano in cui si dice la verità dell’interruzione del suo mito, la verità dell’interruzione di tutte le parole fondatrici, delle parole creatrici e poetiche, della parola che schematizza un mondo e inventa un’origine e una fine. Dice così che la fondazione, la poiesi, lo schema, sono sempre offerti, senza fine, a tutti e a ciascuno, alla comunità, all’assenza di comunione attraverso la quale noi comunichiamo e ci comunichiamo non il senso della comunione, ma una riserva infinita di sensi comuni e singolari17.

Prima di seguire lo svolgersi di questa traccia nel percorso batailleano dobbiamo ancora una volta riprendere il filo sospeso della sovranità riandando alle analisi svolte ne La part maudite e ne La limite dell’utile. 1. Al gioco si sostituisce il progetto Il fascino dell’utile che segna l’emergere e l’affermarsi della moderna borghesia capitalistica ha trovato il suo punto di forza nell’opposizione della Chiesa riformata all’«economia gloriosa cui soprintendeva la gerarchia del clero», limitando razionalmente i bisogni e riservando la gloria soltanto a una ulteriorità verso cui solo l’utilità/lavoro guidava. In questo processo però la ricchezza viene spogliata di quel senso glorioso che aveva avuto fino ad allora e il denaro viene considerato come un mezzo di produzione: da quel momento allo stesso modo in cui la Chiesa ha votato l’uomo a Dio, così la società borghese ha votato il denaro al capitale. Ma l’azione economica è molto più sottile ed efficace, essa penetra nel cuore della vita e distrugge facendo del consumo e delle ricchezze le condizioni e gli elementi fondamentali dell’attività produttiva. L’uomo che degrada il mondo riducendo l’esistenza a consumazione dell’essere misconosce la “gloria dei cieli”, fugge quel sacrificio che è libero dono di sé, una com-unione con l’altro che è, al limite della vita, morte e sacrificio, nascita ad una nuova esistenza, un’esistenza gloriosa come quella del piccolo Nanauatzin che sfugge alla violenza della Terra, alla pesantezza di un suolo immobile, fondante, dandosi alle fiamme: così «egli fa della sorgente solare la gloria cui la vita umana aspira, ottenendola però solo con la morte» e così facendo «non è meno prodigo del Sole»18. Il desiderio di vivere all’altezza della morte e fuori di sé, che muove il gesto del piccolo dio, ci 17 18

J.-Luc Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 161. G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., p. 30.

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mostra come solo l’angoscia e il rischio di perdersi possano effettivamente allontanare da quella pienezza di sé, da quella tracotanza della ragione, che inficiano ogni ricerca di gloria19. L’angoscia è inevitabile, non basta parlarne, la sofferenza va vissuta ed è sotto questo aspetto che Prometeo non è solo il figlio ribelle, l’aquila provvida – Atheus-Prometheus – che sfida l’altezza del cielo, l’ordine alto del padre, per rubare il fuoco soggiacendo così alla punizione divina/ paterna, ma è anche la vittima che, nell’automutilazione sacrificale, disegna il volto di una possibile redenzione. Il segno per Bataille dell’inizio di un cammino eterologico che va verso quella “parte maledetta”, femminile, ragionevole, sinistra, bassa, del nostro essere che da sempre è stata una minaccia ineludibile per la ragione; una meravigliosa libertà che nel gesto estremo di Vincent Van Gogh testimonia di «un amore che non teneva conto di niente», e soprattutto di un’umanità fiacca, di una forma di vita che si vuole «elevata, ufficiale, che si conosce». Ma la vita nella sua pienezza è caso e necessità, destino legato al capriccio di un’alea che dobbiamo amare, a cui dobbiamo donarci-abbandonarci con quella passione che fa del piccolo dio una fiamma nel calore del Sole. Così il mito della tecnica, l’illusione di una conoscenza capace di offrire il massimo di felicità svela la sua impostura, la farsa di un mondo segnato dall’efficienza; un’alienazione assurda, una falsa liberazione su cui dobbiamo tornare a riflettere cercando di riandare, come novelli «apprendisti stregoni», alla «vecchia casa umana», al mito vivente, «che la polvere intellettuale, conosce solo come morto e considera un commovente errore dell’ignoranza», al senso di un’interezza che non si compie in alcun progetto, che non ha misura, scopo o determinazione, perché si gioca in un destino che coinvolge nello stesso tempo individuo e comunità. Il mito è infatti “inscindibile” dalla comunità, ne è la realtà vitale, l’espressione sensibile di un continuum che è l’esistenza totale. Il mito con la sua forza poetica e poietica entra nei corpi di coloro che accomuna, portando l’esistenza «al ‘grado di ebollizione’, e le trasmette l’emozione tragica che rende accessibile la sua intimità sacra», quello spazio in cui la vita incontra il destino, la casualità indeterminabile in cui si gioca la sua possibilità nell’esperienza di un philein che è estraneo ad ogni calcolo. Un legame d’amicizia, una «comunità assoluta» che, oltre ogni refe-

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«Il racconto azteco illustra questo intero libro. L’‘Astro solare’ ne è il centro; come uno specchio, la ‘morte sacrificale’ riflette l’intensità del suo fulgore; l’‘angoscia’ di Tecuciztecal testimonia il senso pesante della nostra morte. Ma non solo questo racconto: tutto ciò che è stato l’impero azteco è un’illustrazione di quello che voglio dire. Se a separarci dall’Universo è la presenza nella nostra vita della gravezza, può tuttavia la nostra vita conoscere un movimento lieve che la riscatti da questo grande peso? Ritengo sia questo movimento ad animarci quando siamo assetati di gloria. Lo stesso eccesso di glorie e sacrifici cui il Messico indulse è per noi più illuminante delle condotte meno orribili di altri. Vi è in noi una volontà di gloria che vuole si viva come dei soli, prodigando i nostri beni e la nostra vita», ivi, pp. 30-31.

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renza individuale o collettiva, è la consonanza di voci singolari che nel silenzio della ragione fa accadere un mondo nuovo20. Consonanza che nasce proprio dalla passione che vive nel mito, quel sentimento/legame sacro che, al di là di ogni parola, apre il movimento di una comunicazione fra esseri singolari, esposti nella loro reciproca incompiutezza. In questo senso, osserva Bataille, il mito si identifica non soltanto con la vita, ma anche con la perdita della vita, con il decadimento e la morte. Ed è per questo che il suo riferirsi ai costumi messicani non ha il senso né di una cattiva provocazione né quello del richiamo ad un modello – il Messico dei sacrifici – capace di orientare la nostra vita, ma esprime la necessità, «per cambiare la nozione sensibile che abbiamo di noi stessi e dell’Universo», di portare in primo piano l’inevitabile e difficile passaggio per la peggiore delle angosce, il sentimento della morte, perché, ci dice, «se la ragione comporta una pesantezza, io voglio alleggerirla, e non eluderla» e i comportamenti gloriosi degli aztechi, la loro leggerezza e la violenza, evidenziano come l’azione umana e il gioco dell’Universo non fossero estranei l’uno all’altro: e in questo sbagliavano meno di noi. Nulla è esattamente legato come si è creduto, ma la nostra vita si realizza solo unita a quella dell’Universo. Anche la nostra azione economica si accorda con lo splendore del cielo: a un simile accordo si riallaccia l’efficacia dei riti agrari, di cui occorre invertire il senso affinché si possano comprendere. Gli uomini non possono fare in modo che la natura li segua, ma possono seguire la natura21.

Lo splendore e la gloria del Messico dei sacrifici finirono con l’arrivo di Cortés, l’avvento della ratio occidentale che ruppe l’incanto di una vita ritmata sui toni dell’universo: il tumulto delle feste, delle guerre, dei riti e dei sacrifici era il suono stesso della vita dei messicani, il suono di un essere aperto, infranto nella sua pretesa integrità e immobilità, messo a nudo di fronte alle forze della natura nella coincidenza di un’inattesa estasi mistica. Attraverso il sacrificio il popolo azteco istituiva quella comunicazione sacra che non è conoscenza ma esperienza – non-sapere – che apriva il loro essere al “gioco delle stelle”. Una gloria incarnata dal sovrano la cui prodigalità dava senso all’intera vita sociale del popolo. È così che la vita fuggì dalle città azteche. Abbandonata la contemplazione l’uomo si votò al lavoro utile. La morale dei presbiteriani d’America, osserva Bataille, è la cifra di questo nuovo sentire, l’estrema negazione dell’economia 20

21

«Il mito è anzitutto una parola piena, originale, che rivela o fonda l’essere intimo di una comunità […] questa parola non è un discorso che risponde alla curiosità di un’intelligenza; è la risposta a un’attesa più che a una domanda e a un’attesa del mondo stesso. Nel mito il mondo si fa conoscere e mediante una dichiarazione o una rivelazione completa e decisiva», che è la comunicazione stessa dell’essere-in-comune, della comunità. J.-Luc Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 105. G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., p. 225.

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della festa che l’Europa cattolica, ma anche protestante, ha conservato, anche se solo nelle relazioni esteriori dei singoli, attorno ad una Chiesa. È l’avvio di una lenta e inarrestabile trasformazione della natura in prodotto, in cosa manipolabile-vendibile dove la sostituzione delle antiche chiese con le fabbriche fa saltare l’originario vincolo tra festa-dispendio-sacrificio-sacro. Emblematica di questo nuovo cammino dell’umanità è la “parabola” della scrofa con cui Benjamin Franklin esprimeva, nel XVIII secolo, il paradosso di una ricchezza impiegata solo per essere riprodotta e che Max Weber vide perfettamente incarnare lo “spirito del capitalismo”: poiché il danaro genera denaro, e i discendenti possono a loro volta generare e così via, cinque scellini si mutano in sei, poi in sette scellini e tre pence, e così via fino a diventare una sterlina. Il denaro produce tanto più quanto ve n’è, in modo che il profitto cresce sempre più in fretta […] e così come […] chi uccide una scrofa distrugge la sua discendenza all’infinito, chi uccide una moneta da cinque scellini assassina tutto ciò che avrebbe potuto produrre: colonne intere di sterline22.

Chi spreca uccide, ma per l’“uomo d’affari”, l’uccisore di scrofe, l’“uomo del sacrificio” è immorale: affari, industria, capitale, accumulazione, tutto ciò è contrario al sacrificio, è necessità di eliminare lo spreco, di fuggire il sacrificio; l’uomo borghese ride dei comportamenti gloriosi, li tollera, disprezzandoli, solo se favoriscono un interesse materiale. La morale ascetica, collegando il valore all’utilità, ha disegnato il volto di quell’homo œconomicus, faber e consumans, che vivendo nel tempo del progetto, della produzione e del lavoro continua a rimandare l’esistenza al dopo, rifiutando la pienezza di un oggi irripetibile. Per questo la morale dell’utile porta con sé, fin dall’inizio, il tarlo della sua consumazione: l’azione rivolta solo al profitto, la produzione e riproduzione mediante circolazione del denaro hanno eroso ogni fine glorioso – la “mancanza di fini umani” – , spento ogni calore comunicativo, isolato gli individui in un egoismo che diventa tanto più forte quanto minore è l’utile disponibile. La migliore esemplificazione della separazione tra azione gloriosa e azione utile, tra fini gloriosi e fini produttivi è la “piccola fabbrica puritana”, apice di una vita che, abbandonata ogni attività contemplativa si è dedicata al lavoro utile, un’efficienza chiusa in se stessa sotto l’egida della grazia divina di cui il capitalismo maturo, osserva Bataille, è l’anima impersonale, capace di un’impresa che non conosce più relazioni tra soggetti, ma tra imprese e mercati. Un modo di vita il cui unico impulso è la “volontà speculativa” del capitale, un’avidità pianificata il cui unico senso è quello di articolare e ordinare uomini e forze per riprodurre illimitatamente il suo giuoc/go. Il capitale segna la fine dell’economia della festa, di un’economia generale propria di una società dove, «una volta assicurata la sussistenza», si votava il sovrappiù del lavoro disponibile a opere suntuarie: così alla gloria del dono si è opposto l’imperativo 22

Ivi, p. 61.

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del guadagno e la convinzione della carità, con cui si cerca di porre rimedio alla dissociazione umana, non è altro che una maschera incapace di dissimulare la forza separante dell’avidità. La strategia del capitale è però quella dell’inganno, quella di un dono avvelenato, di un progetto calcolato; lo stesso termine capitale rimanda alla più antica e semplice forma di ricchezza – quella del gregge composto di capita – con la differenza che mentre in altri tempi, il pastore prelevava dal gregge la parte maledetta, che le potenze minacciose della festa rivendicavano. L’uomo d’affari americano dispose delle proprie ricchezze come di una cosa inerte e inoffensiva: una scrofa che doveva produrre indefinitamente […] ucciderla sarebbe stata una colpa. Ai giorni nostri l’uomo d’affari è vittima dell’infinità di scrofe, rovinato, ridotto a desiderare la morte23.

Quello del capitale è uno sviluppo fine a se stesso, osserva Bataille, che contiene fin dall’inizio un principio d’orrore, il principio di una reificazione della vita che non conosce più il piacere della generosità, la fecondità di un dispendio positivo, di un donare posto fuori dal circolo economico dello scambio, sottratto alla circolarità della legge della produzione-consumazioneproduzione che pone la società capitalistica contro la vita «depredando sistematicamente il globo» con la messa in campo di una volontà speculativa generale «che tende a far passare nel proprio campo di sfruttamento l’insieme degli uomini e la totalità delle forze disponibili»24. Un gioco che alimenta il profitto, un esercizio di pianificazione della vita che segna, nell’avidità di potere, nell’u{briı prometeica, lo stravolgimento del dono: la fecondità delle risorse che il dio preveggente ha dato agli uomini diviene inganno, dovlon, nella misura in cui la ragione si fa strumento di un processo senza fine di violenza e violazione, innescando quel movimento di trapasso dal gioco e dal riso – che nelle comunità pre-capitalistiche segnavano lo stato di una comunicazione aperta fra gli uomini e fra questi e il mondo – al progetto e alla serietà di società che non conoscono più il dono della vita. Ai comportamenti gloriosi e ai dispendi improduttivi, per i quali «ogni persona era solo l’espressione di un insieme organico a cui apparteneva», subentrano l’individualismo e l’avidità che rompono la comunialità propria di un modo d’essere e d’agire sovrani. Il gioco è, come il dono, quello proprio ad un’economia “in grande”, un gioco sovrano o maggiore che non può servire e «in cui si manifesta la verità profonda: di sovrano c’è solo il gioco e il gioco che non è sovrano è solo la messinscena del gioco»25. Gioco e sovranità sono inseparabili. Mai come oggi, osserva Bataille, il tema del dono appare così “bruciante” e problematico per un sistema economico che, votato all’utile e al profitto, emargina dal suo contesto il senso di 23 24 25

Ivi, p. 65. Ivi, p. 71. G. Bataille, “Siamo qui per giocare o per fare sul serio?”, cit., pp. 327-351, p. 344.

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quella generosità “liberale” propria del gioco puro, un gioco sacro come dice Huizinga, che è capace di svelare «la capricciosa libertà e il fascino che animano il movimento di un pensiero sovrano, non asservito alla necessità», ritrovando l’immediatezza di un contatto col mondo, un’immersione nella totalità del cosmo possibile solo nella misura in cui il solo fine del gioco è l’indifferenza ad ogni fine. Un modo d’eccellere sovrano proprio di un’anima «incurante dell’utile»; mentre il dono necessario della società capitalistica è paradossalmente quello della guerra, un gioco mascherato che «in minima parte per la sua estrema crudeltà e soprattutto in ragione degli obiettivi politici che gli avversari vi perseguono, eccede quasi sempre la misura del gioco»26, il suo essere una competizione generosa e disinteressata, una competizione in cui meglio gioca chi meglio dona le proprie risorse, un’esuberanza che non deve trasformarsi in avarizia, in rivalità. Un’alterazione dello spirito del gioco, un blocco del movimento di esuberanza che agita l’umanità che deriva essenzialmente dalla paura di perdersi disperdendo ogni energia, dal desiderio di non morire, di sopravvivere modificando nel lavoro il mondo e questa paura, l’angoscia di morire, che è oggi diventata un principio sovrano. Il principio della subordinazione, del servaggio (Knechtschaft) come dice Hegel, proprio di chi prende paradossalmente la morte sul serio, di chi non vuole giocare il gioco maggiore, quello che la vita, per essere tale, intreccia necessariamente con la morte: non è la morte a essere seria; essa ispira sempre orrore, ma se questo orrore ci atterrisce al punto da farci abdicare per non morire, siamo noi a dare alla morte una serietà che è conseguenza del lavoro accettato. Umanamente, la paura non superata della morte e il lavoro servile sono una sola e la stessa cosa, immensa e miserabile, all’origine dell’uomo attuale e del suo linguaggio serio: quello dell’uomo di Stato, dell’industriale e del lavoratore asservito27.

26

27

Ibidem. Sul senso del gioco come “farmaco” contro il sonno della ragione e sulla necessità di “ridere” della filosofia dogmatica cfr. F. Brezzi, A partire dal gioco, Marietti, Genova 1992. Sottratto a qualsiasi connotazione naturalistica il gioco, come la festa, non è né pausa, né ricreazione o fuga dal mondo, ma libera attività dell’essere-pensiero. Attività incerta, improduttiva e disinteressata ma, nello stesso tempo, indispensabile, necessaria al singolo come alla collettività in quanto indice di vitalità morale e spirituale. Dialogando criticamente con autori quali Huizinga, Bataille, Gadamer, Fink e Kostas Axelos, l’Autrice rileva la fecondità ermeneutica del gioco quale «segno di libertà intangibile, asimmetrica», forza capace di dischiudere non solo la «profondità umana», ma anche quella cosmica, mostrandosi nella duplice veste di forza destrutturante a livello concettuale e di «potente fattore di ‘raccoglimento’ ontologico a partire dai valori di spontaneità regolata, di interesse disinteressato, di inutilità finalizzata, di arbitrio impegnato, di rischio di vita e di morte», ivi, p. 15. Una forma di pensiero che liberando la ricchezza semantica del logos dal clivaggio dell’intelligenza apre la ragione alla passione, alla fantasia, all’immaginazione, alla forza di un pensiero nomade, alogico in cui senso e verità non sono principio o origine, ma produzione e creazione del libero gioco delle facoltà, intuizione sensibile che apre al fondo delle cose. Sul nomadismo del pensiero cfr. C. Di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit. G. Bataille, “Siamo qui per giocare o per fare sul serio?”, cit., p. 344.

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Per questo, osserva Bataille, occorre coniugare gioco e dono, leggere Huizinga con Mauss, per non assolutizzare o irrigidire nell’unilateralità del senso la polivocità semantica insita in questi termini: il gioco non è esclusivamente indice di un fare o regolato o disordinato ma, come il sacro, è cifra di un disordine limitato in quanto «l’ordine e la regola in esso provano la necessità in cui si trovarono gli uomini di limitare con una regola quel che per natura era impossibile o difficile da contenere»28. Se è vero che Huizinga assume i luoghi del gioco, gli spazi ad esso deputati come “sacri”, “santi”, in quanto “mondi temporanei” che sospendono il tempo e la logica ordinari, tuttavia, osserva Caillois, il gioco si differenzia dal sacro in quanto fascinans e tremendum, in quanto ambito di una tensione interiore, essendo piuttosto una prassi di distensione e distrazione interiore. Ma nella forma maggiore, chiarisce Bataille, il gioco mantiene la tensione del sacro, segnando una fuoriuscita dalla dimensione profana, ordinaria della vita, per entrare nell’apertura sovrana di un pensare e di un agire non asserviti alla necessità, nello spazio di una filosofia che, dalla parte del gioco, scioglie il legame con un sapere che spiegando la vita ha cancellato il carattere sacro, rischioso, mortale proprio di un domandare che non ha risposta. Centrale allora è l’analisi socio-etno-antropologica del dono messa in campo da Marcel Mauss che, nel saggio del 192429, definisce la realtà sociale, oltre le astrazioni e le frammentazioni operate dagli scienziati sociali, attraverso la nozione di “fatto sociale totale” che implica un approccio tridimensionale, come osserva Levi-Strauss, al fattore sociale in quanto fa «coincidere la dimensione propriamente sociologica con i suoi molteplici aspetti sincronici; la dimensione storica o diacronica; e infine, la dimensione fisio-psicologica». Una modalità che può essere posta solo in individui di questo o quel luogo perché l’unica garanzia che un fatto totale corrisponda alla realtà «consiste nella possibilità di coglierlo in una esperienza concreta»30 e, viceversa, in una essenziale complementarietà di soggetto e oggetto. Così il dono è per Mauss un “fenomeno sociale totale” – un fatto il cui senso rimanda ad una complessità semantico-esperienziale che coinvolge la dimensione religiosa, economica, estetica e giuridica – la cifra di un sistema di scambio che relaziona individui e gruppi e che si pone alla base della nascita dell’odierna economia di mercato. Lo scambio nei sistemi economici e giuridici che precedono, possiamo dire, la mentalità propria dell’economia ristretta non era indice di un semplice passaggio di ricchezze da individuo a individuo, ma segno di una recipro28 29

30

G. Bataille, ivi, pp. 333-336. Cfr. M. Mauss, “Essai sur le don, forme et raison de l’échange dans les sociétes archàiques”, in Anné Sociologique, n. 1, 1924, pp. 30-186, trad. it., “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. 155-292. C. Lévi-Strauss, “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, cit., p. XVLVI.

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ca manifestazione di amicizia, di attenzione, di riconoscimento sia tra persone morali che tra soggetti collettivi che si «obbligano reciprocamente» al rispetto, pena la guerra privata o pubblica. Forme di prestazione totale, dice Mauss, o potlách secondo il termine chinook proprio del linguaggio delle tribù del nord-ovest americano, dove indica essenzialmente il “nutrire”, il “consumare”, nella dimensione di una “festa continua” che raccoglie in sé riti religiosi, prestazioni giuridiche ed economiche, distribuzione di cariche. Il potlách è allora una modalità di circolazione di beni che esclude però il senso del mercanteggiamento: per lo più è il dono solenne di ricchezze considerevoli offerte da un capo al suo rivale con lo scopo di umiliarlo, di sfidarlo, di obbligarlo. Il donatario deve cancellare l’umiliazione e raccogliere la sfida, è costretto a soddisfare l’obbligazione contratta con l’accettazione: potrà rispondere più tardi, soltanto con un nuovo potlách, più generoso del primo: deve restituire ad usura31.

Questo rende paradossale l’uso del potlách; il dispendio dell’eccedente sembra, infatti, portare all’acquisizione di un potere, quello che viene ad instaurarsi sul donatario, nella misura in cui si consuma, si perde per l’altro. In questa maniera si consolida una forma di rivalità perché chi riceve il dono ritiene, a sua volta, di dover ricambiare per distruggere questo potere, così che il potlách sembra perdere la sua realtà di dono generoso, di dono senza ricambio. Ma, osserva Bataille, ciò che si acquisisce nella forma della “dilapidazione” non è qualcosa come una ricchezza o un altro bene, ma il prestigio, un valore individuale o collettivo che solo se giocato in vista di un dominio degli altri rovescia la sua inutilità in un impiego servile: è il partito preso di trattare una cosa – disponibile e utilizzabile – ciò di cui l’essenza è sacra, ciò che è perfettamente estraneo alla sfera profana utilitaria, dove la mano, senza scrupoli, per fini servili, alza il martello e inchioda il legno32.

Una contraddizione irrisolvibile finché si continua a fare del dono uno strumento, nell’agire così come nel pensare, per cogliere ciò che di per sé è inafferrabile – «siamo incessantemente ingannati, perché vogliamo afferrare quest’ombra» –. Tuttavia, osserva Bataille, il potlách si accosta alla sacralità del sacrificio sottraendo oggetti utili alla logica profana della riproduzione: sono ricchezze utili che, ad esempio tra gli aztechi e gli indiani del nord-ovest americano, vengono distrutte, un lusso che crea valore, un rango che è l’esatto contrario di una ricchezza che, nella nostra società, è ormai divenuta la vera miseria. Per questo motivo evidenzia come il lusso autentico,

31 32

G. Bataille, La parte maledetta, cit., p. 76. Ivi, p. 82.

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esige il completo disprezzo delle ricchezze, l’oscura indifferenza di chi rifiuta il lavoro e fa della sua vita, da una parte, uno splendore infinitamente in rovina, dall’altra, un silenzioso insulto alle elaborate menzogne dei ricchi33.

Un donare allora che è il movimento stesso di una vita vissuta all’altezza dell’universo, una donazione che non prevede scambio, un dono che rompe il cerchio dell’oikonomia, del valore e della legge di proprietà che hanno improntato il cammino dell’occidente, il cammino di Ulisse, l’odissea della riappropriazione. Se c’è dono, ciò che è donato – come cosa o atto di donazione – «ne doit pas revenir au donnant», non deve essere capitalizzato entrando così nel circolo di quell’economia del sacrificio – un “sacrificalismo” come dice Derrida, che riduce il tragico dell’esistenza a un punto di «arbitraggio dei costi di opportunità» – che rendendolo possibile ne annulla, paradossalmente, la possibilità, ma deve accadere come un gioco maggiore in cui si gettano i dadi solo «per raggiungere una cifra imprevedibile»34. Il dono è la figura stessa dell’impossibile, ciò che «est sûr, ne peut être défini» se non cancellandone il senso, la forma estrema di un accadere, la morte, che si sottrae alla volontà del soggetto, alla possibilità della conoscenza, ad un possibile impiego perché questa, come verità della vita, non ci appartiene, come la vita che «ci è donata dai nostri genitori, ma eccede infinitamente questo dono», un eccedere che è il senso stesso del dono. Per questo, dice Bataille, la ragione è contro il gioco ed il lavoro, quale principio che regola il mondo della produzione, ne è la negazione; il lavoro infatti riproduce la vita producendo i mezzi

33 34

Ivi, p. 85. In Donare il tempo. La moneta falsa (cit.), Jacques Derrida obietta criticamente a Mauss che «non si preoccupa abbastanza di questa incompatibilità tra il dono e lo scambio, o del fatto che un dono scambiato è un semplice rapporto di prestito e resa, cioè un annullamento del dono», ivi, p. 10. In contrasto con questa posizione è l’analisi del dono, dello spirito del dono come ciò che crea e alimenta il legame sociale, portata avanti da Alain Caillé ne Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (cit.), dove l’A. evidenzia che, se giustamente il dono deve essere messo dalla parte della spontaneità, tuttavia la concettualizzazione derridiana fallisce là dove egli dà del dono «una caratterizzazione che sarebbe infinitamente più valida per la donazione o meglio che vale soltanto per essa. Solo la donazione, solo la vita dona e può donare senza causa, senza ragione, senza calcolo […]. Se la vita non mira ad altro che alla vita, il dono da parte sua, mira alla riproduzione non biologica ma sociologica, a stabilire e ristabilire il rapporto sociale». Un dono modesto quindi che, come sostiene anche Godbout, è spontaneamente dato senza attesa di restituzione determinata, per questo «l’impossibile non è il dono; è l’identificazione del dono con la donazione», ivi, pp. 110-111. È proprio l’incapacità del pensiero moderno a distinguere tra dono e donazione, sottolinea Caillé, che rende difficile comprendere il senso stesso del dono; facendone qualcosa di antitetico sia al calcolo che all’intenzione il dono è posto nell’ottica di un qualcosa che non esistendo prima appare senza alcuna causa «come se fosse scontata e andasse da sé». Ma proprio questo andar da sé è il senso della donazione nella direzione di quell’es gibt, di un’esistenza, che eccede la serie delle cause e che può essere constatato solo in quanto dono senza oggetto; evento mai presente, direbbe Derrida, indisponibile, un più di senso che eccede ogni identificazione, ogni significazione.

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adatti alla sua conservazione, la mette al riparo dal dispendio, vuole salvarla dalla morte, da quell’esperienza impossibile a viversi in quanto cancellazione radicale di sé, evento casuale che quando accade sottrae all’accadere ogni altro evento possibile. Per questo il lavoro nella sua essenzialità utilitaristica ha tutta la gravità del serio, la rigidità e la corta vista del giudice e dell’ufficiale giudiziario che «sopprimono gli elementi dovuti al caso o al capriccio che nella tragedia, fosse anche una tragedia reale, conservano un senso incontestabile e orribile di gioco». Quella serietà che nella Fenomenologia contrappone l’attitudine del gioco (o del rischio della morte) alla paura della morte, un gioco in cui ciò che appare sotto le spoglie del serio non è la morte, ma il lavoro servile, il lavoro coatto, quel servaggio (Knechtschaft), come dice Hegel, troppo spesso mascherato nella forma della libertà di un gioco minore che paralizza l’azione. Il modo d’essere proprio di chi sceglie di asservirsi per allontanare l’orrore dell’annullamento, una abdicazione di sé, una miserabile rinuncia ad essere, che è «all’origine dell’uomo attuale e del suo linguaggio serio: quello dell’uomo di Stato, dell’industriale e del lavoratore» che facendo del lavoro un principio sovrano riderebbero della ricchezza di una poesia, del suo gioco maggiore, sovrano, sottratto «all’universale appiattimento imposto dalla paura della morte»35. “Propter vitam, vivendi perdere causam”: la formula di Giovenale è il manifesto paradossale della modernità, il segno dell’uomo borghese libero ed emancipato che non sa giocare se non giochi finalizzati, minori, giochi utili alla sua affermazione; il borghese è un uomo che non sa più pensare se il pensiero non è solo il lavoro della riflessione per l’azione, ma anche, più radicalmente, un movimento incessante di problematizzazione, un domandare senza risposta possibile che ha nell’inconoscibile, nella morte, il suo perché. Un modo d’essere e una forma di pensiero che il “mondo filosofico”, prendendosi troppo sul serio, ha tradito nel lavoro della conoscenza seguendo sempre più la prassi di una tecno-scienza che negando valore al mondo dell’eterogeneo ha tracciato la via di una violenta disumanizzazione che Bataille, troppo ottimisticamente, vedeva giunta, con le due guerre che avevano devastato l’Europa, ad un punto tale di nefandezza da far sperare in una possibile inversione: il pensiero fondato dal lavoro e dalla coazione è fallito; è tempo che, dopo aver ceduto al lavoro e all’utile la parte mostruosa che sappiamo fin troppo bene, il pensiero libero ricordi infine che, nel profondo, è un gioco (un gioco tragico), e che l’umanità intera essendo come lui un gioco, dimenticandolo ci ha guadagnato solo i lavori forzati di innumerevoli moribondi, di innumerevoli soldati.

Una speranza infrantasi sul nascere nella misura in cui

35

G. Bataille, “Siamo qui per giocare o per fare sul serio?”, cit., pp. 341-343.

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i lavori dei laboratori da cui escono macchine incredibili segnalano infine il carattere nefasto di un lavoro divenuto illimitatamente realtà sovrana36.

Oggi, ancora più di quando Bataille scriveva queste riflessioni, vediamo i frutti amari di un pensiero volto all’utile, di una ragione che non vuol saperne di ascoltare quella parte ragionevole, debole è stato detto, di sé che incontra il mondo e gli altri oltre la paura della morte, oltre la dimensione profana dell’identità, della durata delle cose, del calcolo dei valori e dei piaceri, nella passione che anima la sfera del sacro sinistro. Una passione libera, divina dice Bataille, che sciolta dalle catene delle ideologie politica e religiosa, che ne hanno fatto il male per eccellenza37, è la forma di un pensiero sovrano che non vuole giustificazioni/garanzie costruendo norme morali, ma esige un’etica umana, un’etica dell’incompiutezza che è pratica di una vita all’altezza della morte, mentre continuiamo a voler vivere come se la morte già non esistesse più, come se potessimo limitare il mondo al lavoro efficiente e alle comodità. Ci siamo allontanati dalla poesia, le sue gelide violenze ci disturbano. Siamo ridotti a covare in segreto una paura che non dominiamo più, ma che resta vergognosamente in noi, come un continuo mal di pancia. A dispetto dei roghi, le streghe d’un tempo cercavano i terrori del sabba. Preferivano la loro folle esaltazione a una vita sicura e tranquilla: oggi preferiamo la durata tranquilla, solo che, per finire, non abbiamo né l’una né l’altra38.

L’invito di Bataille è quello di praticare una vita all’altezza della morte, di costruire una morale all’altezza della vita, una ipermorale che è l’espressione di un “ateismo essenziale”, la decisione di vivere responsabilmente l’incompiutezza che ci segna impegnando, nell’ottica della dépense improduttiva, la nostra azione in un mondo che, sottratto all’altezza dell’idealità e della trascendenza, lascia apparire nella sua verità il fondo tragico dell’esistenza. Ma come innescare il movimento di fuoriuscita del pensiero dal vuoto prodotto dal lungo sonno della ragione? come uscire dal cerchio del progetto, dalla serietà di un sapere che ha tradito se stesso inchiodandosi alla verità di una conoscenza irrefutabile? Come “risolvere” la “bancarotta” di una morale che trionfa solo maledicendo la vita, tradendone la sacralità nella falsità delle innumerevoli guerre giuste? Seguendo le riflessioni di Gabriel Marcel – messe in campo a proposito di Les Condamnés di Madeleine Deguy – sul senso che l’istante del morire ha 36 37

38

Ivi, p. 351. «Non pongo qui i principi di una morale personale: voglio invece esprimere i valori necessari – e già virtualmente riconosciuti – nelle attuali condizioni di vita. Uso il noi solo perché voglio anticipare chi non vede peraltro che, oggi, il male si dà essenzialmente nella bestialità al servizio della ragione di Stato. Senza questa caratteristica, Buchenwald non sarebbe il segno decisivo, indiscusso, irriducibile del male», G. Bataille, “Del rapporto tra il divino e il male”, in F. C. Papparo, (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio e altri saggi, cit., pp. 47-58, nota 4, p. 55. Ivi, p. 58.

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per il condannato rispetto alla vita che sta vivendo, Bataille evidenzia come il sacrificio/dono di sé, il sacrificio della vita, e questo vale tanto per i credenti che per i martiri della resistenza, non è mai riducibile ad un commercio, ad un calcolo che tiene conto dei risultati futuri, ma vale solo in relazione all’istante in cui accade l’impossibile, nell’esperienza inesperibile dell’accadere della morte. Il sacrificio/dono è tale solo nell’istante che accade, nell’attimo che rompe la catena temporale che lega ogni atto alla progettualità, al futuro. Per questo il sacrificio/dono è un atto indefinibile, impossibile, che disarticola ogni organizzazione, rompe ogni legame sociale, la prassi di una logica comunitaria fondata sul proprium e sull’appartenenza “disinserendo” chi fa dono si sé dal circolo delle significazioni che muovono la prassi identitaria. In questo senso il sacrificio/dono è un dispendio «a vantaggio di un istante presente di beni che la ragione ordinava di mettere da parte per il futuro»; un dispendio di sé che facendo tacere la voce dell’Io rende possibile una vera comunicazione fra soggetti non assoggettati, disidentificati, accomunati da un modo d’essere e da una forma di pensiero che non vogliono e non possono essere messi al servizio di alcuno e di alcun progetto nella misura in cui significano solo nel e per quell’istante in cui sono spesi sovranamente. È qui che Bataille riscontra il limite del tentativo messo in atto da Marcel di liberare il sacrificio dal cerchio del “mercanteggiamento”; egli non coglie bene i legami necessari – nel senso che un disinserimento totale è quasi impossibile – di un comportamento disinserito dalle nozioni comuni, inseriti nella trama del tempo. Ancor meno comprende la necessità ultima – giacché in definitiva egli cerca di rompere questi legami – di non romperli a metà39.

Marcel ha provato a “staccare” l’ultimo istante di vita del condannato da ogni servitù, ma facendo della “virtù” del sacrificio una testimonianza ha finito per porlo nell’ordine delle azioni fondate sul “mercanteggiamento”, nell’ordine delle azioni, che coordinate verso un fine, anche se posto per altri, anche se necessario in un ordine morale, ne annullano il tratto sensibile, emozionale, inarticolabile. Una reazione contro la “pura emozione sensibile” che gli fa dimenticare come sia proprio l’emozione il movimento di un sentire capace di sopprimere la cura del tempo a venire e dare all’ultimo istante la sovranità decisiva, in cui il caduco abbatte i poteri dell’eternità. A questo punto la testimonianza che ne viene data dipende dalla scomparsa della preoccupazione del testimoniare40.

Vivere nell’istante, vivere sovranamente significa allora vivere/superare l’angoscia della morte sfuggendo alla trappola di un vivere come essere-sem39 40

G. Bataille, “L’ultimo istante”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio ed altri saggi, cit., pp. 37-46, p. 43. Ivi, p. 46.

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pre-in-attesa di morire, un’alienazione esistenziale che individualizza la vita separandoci da noi stessi e dagli altri; vivere sovranamente l’angoscia della morte significa farci carico dell’incompiutezza essenziale del nostro essere. Affrontata nella sua paradossale contingenza la morte qualifica il “miracolo” di una nascita, la chance di una singolarità che, spogliata delle certezze e dei valori del sapere, è esposta nella sua nudità alla radicalità incommensurabile dell’annullamento, alla forza destrutturante di una negatività inimpiegabile che apre sempre nuove possibilità di vita, quando ogni possibile sembra ormai esaurito. Per questo, sottolinea Bataille, proprio quando la conoscenza è condotta al limite: quando poniamo lo sguardo sull’abisso della morte, quando nessun sapere può soccorrerci di fronte alla paura della fine, non solo scorgiamo che l’uomo – che muore – deve liberarsi della morte, ma anche che deve liberarsi della forma risibile dell’uomo. Egli deve ridere alla fine di questa sostanza individuale, di questa cosa, di cui ha scioccamente preso la forma e che lo ha reso comico. Dalla servitù della cosa, in effetti, non è sufficiente che si sbarazzi al modo dei sovrani del passato: sarebbe solo una scappatoia, quella sovranità era lusinga, era la schiavitù degli altri […]. Bisogna arrivare fino al limite e ridere della morte, non solo perché è stupida, ma perché fa paura: e fa paura proprio perché è stupida. La morte, questo soffocamento di animale sgozzato, di cui il privilegio dell’uomo, che proietta nel tempo ciò che prova, ha fatto il soffocamento del tempo stesso, il soffocamento di tutto il futuro41.

Ma il sacrificio di chi muore nell’orbita di un’emozione irrappresentabile, inutilizzabile, che non risponde a niente se non a se stessa, essendo posta nella dimensione aperta e senza uscita di un istante in cui ogni senso è sospeso ed ogni tempo è di troppo, è la cifra di un modo d’essere aneconomico, all’altezza della morte – di quell’il y a lévinasiano in cui «il soggetto si conduce in esistenza e non in esistente» – che innesca il movimento di una comunicazione sovrana fra singolarità, un “noi” in cui non è più possibile distinguere/identificare io e l’altro, questo mondo e la sua esistenza, un’unità che non è mai la somma di una serie di “io” poiché “com-appare” solo nella misura in cui “io” scompare. In questo senso il potlách entra nello spazio semantico dell’economia generale che, con una sorta di rivoluzione copernicana, fa del consumo improduttivo una dépense positiva, un modo di vivere al di là dell’utile; il fulcro di un’esistenza che valuta la vita come fine in sé facendo di sé un «dono senza profitto». Virtù che dona dice Zarathustra come l’oro che non è volgare, non è utile e luccica di mite splendore; sempre esso dona se stesso. Solo come riflesso della virtù più nobile, l’oro giunse al più bel valore. Simile al-

41

G. Bataille, “Il paradosso della morte e della piramide”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio ed altri saggi, cit., pp. 191-208, p. 208.

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l’oro, luccica lo sguardo di colui che dona […]. Non è volgare la virtù più nobile e non utile, esso luccica di mite splendore: una virtù che dona è la virtù più nobile […] e dove manca l’anima che dona, noi indoviniamo sempre degenerazione42.

Posto nell’ottica del dono il sacrificio sacralizza il mondo ricostituendo l’intima comunione del soggetto e dell’oggetto; una relazione non utilitaria dell’uomo con l’uomo e dell’uomo alle cose che distrugge il senso servile, profano, con cui la razionalità calcolante ha misurato e ordinato il tutto. Ed è a questo proposito che Bataille introduce un chiaro riferimento alla dialettica hegeliana servo-padrone dove lo schiavo, assoggettato nel lavoro, è ridotto a cosa, a merce, ed ha preferito questo alla morte, ha scelto di perdere una parte di sé così come il padrone, rendendolo cosa, vive una falsa libertà, quella di chi volendo godere della vita è costretto a conservare il desiderio e, necessariamente, si allontana anche da sé, dalla parte più intima e vera, ponendosi in un mondo dove oramai ogni uomo può essere una cosa. Allora sulla vita umana cala la stessa desolazione che grava sulle campagne quando il cielo è grigio. Il tempo grigio, nel momento in cui vengono i giochi di luce, perché il sole è uniformemente smorzato dalle nubi, sembra ‘ridurre le cose a ciò che sono’. L’errore è evidente: ciò che è davanti a me non è mai altro che l’universo, l’universo non è una cosa e non m’inganno affatto se vi vedo lo splendore nel sole43.

L’inganno è quello di una conoscenza oggettiva che separa le cose dalla vita e rende usabile, manipolabile, il mondo, l’inganno di un’antropologia scientifica la cui immagine dell’uomo, meccanismo perfetto e noto, doppia la verità di una profondità molteplice e problematica. Ma allora il rapporto di subordinazione che il progresso razionale ha stabilito tra scienza e mitologia, tra filosofia e mitologia va rovesciato, le catene della subordinazione paterna vanno spezzate e, senza scartare il valore della conoscenza metodica, il lume dell’intelligenza umana, bisogna imparare a disporre liberamente della scienza, anche oltre i suoi stessi fini, perché se lasciata a se stessa, alla sua condizione di esistenza, che la vuole rivolta a distruggere i fantasmi mitologici, niente le potrà impedire «di vuotare ciecamente l’universo del suo contenuto umano». Occorre saper vedere proprio nell’atto di esclusione/squalificazione, operato dalla scienza nei confronti dell’eterogeneo e del marginale, il segno di una qualificazione/valutazione essenziale di un sapere altro, non asservibile all’utile. L’esclusione diviene allora, paradossalmente, l’indice di un movimento di liberazione del pensiero dalle maglie della necessità razionale con cui il sapere oggettivante, ripartendo conoscenza e azione nelle dimensioni 42 43

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, tomo I, parte I, “I discorsi di Zarathustra”, pp. 88-93, pp. 88-89. G. Bataille, La parte maledetta, cit., p. 67.

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del sacro e del profano, ha imbrigliato il reale. Il rovesciamento di cui parla Bataille si può, a mio avviso, accostare al senso di quel renverser le platonisme di cui parla Gilles Deleuze che non è tout court una sostituzione del negativo al positivo, del non-sapere al sapere, dell’irrazionale al razionale, del basso all’alto, un movimento che riprodurrebbe una signoria della ragione di segno contrario, ma la decisione etica e politica di restituire dignità ontologica a quell’inautentico, al mondo dei simulacri, a quei falsi pretendenti che da sempre minacciano la centralità dell’Idea. Perché il simulacro non è una copia degradata, esso racchiude una potenza positiva che nega sia la copia, sia il modello, sia la riproduzione […] lungi dall’essere un nuovo fondamento, inghiottisce ogni fondamento, assicura un universale crollo come evento positivo e gioioso, come sfondamento44,

come capacità di smascherare un pensiero che marcando come negatività il sensibile, ha delineato quella morale delle passioni tristi, morale degli schiavi, denunciata da Spinoza e da Nietzsche, che ha inscritto il dono in quella logica dell’obbligatorietà del debito che segna ancora il nostro modo d’essere e d’agire. Ciò che è in gioco allora è il concetto stesso del negativo, il senso di una dialettica dove la posizione di due determinazione dell’essere, l’identità e la differenza, non indica verso una selezione escludente, una conciliazione che, attraverso la mediazione, conserva solo ciò che non contraddice la logica omogeneizzante dello Spirito, ma verso una possibile coesistenza, una conrelazione dei differenti momenti che, come riconoscimento di reciproca dignità ontologica e valenza gnoseologica, delinea la forma di un pensiero del negativo in cui esso non è più soltanto Azione, negatività distruttrice dell’essere, ma affermazione di un modo altro d’essere. Una negatività affermatrice quindi che vige proprio là dove sembra ormai impossibile che qualcosa ancora possa essere proprio in quanto non utilizzabile, non razionalizzabile, non definibile nei parametri della logica discorsiva. Ciò che è in questione – secondo una direttrice critica che emergerà nel pensiero francese della differenza – è il nucleo stesso del logos dialettico, la possibilità, al di là del compimento della Storia come totalità dotata di senso nell’Azione, della sussistenza della negatività. La possibilità stessa del pensiero, la forma di un pensare che non rinuncia a se stesso; perché si chiede Bataille, se l’azione (il ‘fare’) è – come dice Hegel – la negatività, il punto è sapere se la negatività di chi non ha più ‘nulla da fare’ venga meno o se invece sussista allo stato di ‘negatività senza impiego’: personalmente, non posso decidere se non in una unica direzione, giacché proprio io stesso sono questa ‘negatività senza impiego’ (né potrei definirmi con maggior precisione). Riconosco che Hegel ha pre44

G. Deleuze,“ Platone e il simulacro”, in Id., Logica del senso, cit., pp. 223-246, p. 231.

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visto siffatta possibilità; tuttavia egli non l’ha posta alla fine dei processi che ha descritto. Immagino che la mia vita – o, meglio ancora, il suo aborto, la ferita che è la mia vita – costituisca di per sé la confutazione del sistema chiuso di Hegel45.

Una dis-occupazione della negatività che mette in discussione il ruolo stesso dell’intellettuale – quel saggio, “filo-sofo compiuto”/Hegel che ha riconosciuto Napoleone, l’uomo del compimento della Storia – come uomo che non avendo scelto di non agire non rinuncia a parlare, a riconoscere la negatività come condizione dell’esistenza e a farsi riconoscere proprio in quanto uomo della “negatività senza impiego”, in quanto capace di un modo di resistenza alla servitù del logos che lo impegna a dare «alla parte di esistenza liberata dal fare la sua soddisfazione», nella forma di un non-sapere, di un pensiero “sottratto”, irriducibile nei termini dell’intuizione cosi come in quelli della rappresentazione. Un pensiero senza contenuto, sottolinea Nancy, che non è la notte in cui sparisce ogni differenza, ma l’oscurità/non-senso illuminato da uno sguardo cieco che tocca le cose e avvicina l’altro senza appropriarsene46. 45

46

G. Bataille, “Lettera a X., incaricato di un corso su Hegel…”, 6 dicembre 1937, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 111-115. In forma completa la lettera appare anche ne Le coupable, Gallimard, Paris 1944, trad. it., Il colpevole. L’Alleluhia, Dedalo, Bari 1989, Appendice, pp. 163-165. Pubblicato la prima volta nel 1943 fu edito nuovamente nel 1954 con l’aggiunta del saggio Metodo di Meditazione apparso nel 1947 e con un Post-scriptum del 1953 come secondo tomo che, insieme a L’esperienza interiore e al Su Nietzsche completa il trittico della Somma ateologica. La lettera fu scritta a Kojève in risposta alla conferenza tenuta al Collège il 4 dicembre 1937 – il cui testo, come chiarisce il curatore nella nota introduttiva, forse mai redatto dall’autore, è andato perduto – dove ciò che colpì particolarmente Bataille furono proprio le conclusioni in cui ricordando il richiamo di Hegel alla figura di Napoleone che, in quanto uomo dell’Azione, opera il compimento/fine della Storia, Kojève evidenziava come, pur avendo avuto una corretta intuizione, il filosofo di Jena avesse però sbagliato di secolo perché l’uomo della fine della Storia non era Napoleone bensì Stalin. Così Hollier riporta due passi dell’Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito dove Kojève descrive, nella sua problematica relazione del riconoscimento, che «Hegel riconosce e rivela Napoleone alla Germania. Crede di poterla salvare (mediante la Fenomenologia) e preservare sotto forma sublimata (aufgehoben) in seno all’impero napoleonico […]. Si giunge così a una dualità: il Realizzatore – il Rivelatore, Napoleone-Hegel, l’Azione (universale) e il Sapere (assoluto). Vi è, da un lato Bewusstsein, dall’altro Selbwusstsein». Hegel e Napoleone sono però «due uomini diversi: il Bewusstsein e il Selbwusstsein sono dunque ancora separati. Il fatto è che Hegel non ama il dualismo. Forse che si tratta di sopprimere la diade finale? Sarebbe realizzabile (ma non è nemmeno certo) se Napoleone ‘riconoscesse Hegel’, così come Hegel ha ‘riconosciuto’ Napoleone. Si aspettava (1806) Hegel di essere da Napoleone chiamato a Parigi per diventarvi Filosofo (il Saggio dello Stato universale e omogeneo, colui che doveva spiegare (giustificare), e forse guidare l’attività di Napoleone? Tutti i grandi filosofi da Platone in poi hanno conosciuto questa tentazione. Ma il testo della Fenomenologia inerente a ciò è (volutamente?) oscuro. Comunque stiano le cose, la Storia è conchiusa», A. Kojève, “Le concezioni hegeliane”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 108-111, p. 109. Così Nancy chiarisce il “senso” del dileguarsi del pensiero, del sapere nel non-sapere: «ciò che il pensiero sottratto pensa, non è pensato se non come ciò che lo sottrae a se stesso. È

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Ma, pur riconoscendo la negatività, Hegel non ha però rischiato di farsi riconoscere come uomo della “negatività riconosciuta”, quella ancora possibile alla fine della storia, una negatività che c’è, che è coessenziale all’esistenza, ma della quale non si può più disporre; ed è per questo, «per il fatto di non assumere fino in fondo il ruolo di uomo della ‘negatività riconosciuta’» che, in una certa misura, appartiene ancora a quel “Tierreich”, quel “Bestiario” secondo Kojève, o “regno animale dello Spirito” come dice Hyppolite, in cui l’uomo fugge ancora da se stesso, fugge quella parte maledetta, irriducibile, che non ha bisogno per essere d’essere riconosciuta/mediata nella prassi dialettica, ma vissuta in quanto essenziale per un esserci che non è solo Azione e Lavoro, ma dispendio positivo, nucleo esperienziale/vissuto di una soggettività in perdita, “in rovina”, una soggettività sovrana capace, solo nel sacrificio di sé, di parlare, dice Bataille, come me di Nulla, cioè di negare il valore non pratico del pensiero, di ridurlo, al di là dell’utile, all’insignificanza, all’onesta semplicità della mancanza, di ciò che muore e viene meno47,

in quella semplicità del desiderio e dell’Amore che è invece superata nel lavoro dialettico. Il legame di Bataille a Hegel, che passa per la lettura/traduzione della Fenomenologia dello Spirito fatta da Alexandre Kojève, risulta disseminato in più/diversi luoghi della sua produzione nella duplice prospettiva del sistema, del Sapere/discorso filosofico, che in quanto strategia/disciplina gioca il suo necessario rimando al Potere, e in quella dell’eccesso, del “più di” energia – proprio della dépense improduttiva – che rompe il cerchio della necessità, l’ordine del discorso e la logica della ri-flessione smascherando la falsa pacificazione dialettica. Una paradossale vicinanza ritmata – contro ogni forma di umanismo o antropologismo – attorno al modo d’essere di una soggettività scissa, come diranno i pensatori francesi della differenza, attraversata da e aperta all’alterità. Un soggetto patico, quel soggetto “fortuito” i cui desideri e bisogni sono stati forzatamente sottomessi alla verità di una conoscenza che come ricerca dell’oggetto ha sempre preteso un’adeguazione del soggetto all’oggetto e Hegel

47

in questo modo che esso è ‘ancora pensiero’. Esso è percezione di sé, come ogni pensiero, ma non si coglie qui nell’atto di un’intenzione d’oggetto, né di progetto: esso si coglie nello spodestamento dell’oggetto e del progetto, dell’intenzione e dunque della coscienza: esso si coglie spodestato, coglie quel che rimane pensante quando nulla è da pensare. Esso si intravede nudo, esposto, privato non solo dei suoi oggetti e delle sue operazioni, ma anche della sua sicurezza di sé, certo del suo dileguarsi; cogito la cui cogitatio è questo dileguamento, insieme implosione silenziosa e vuoto d’angoscia, così come scroscio di risa. Cogito escogitato, pensiero esterno a sé». J.-Luc Nancy, “Il pensiero sottratto”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 75-88, pp. 83-84. G. Bataille, La sovranità, cit., nota p. 56.

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poneva l’oggetto come una totalità di cui ogni soggetto era una parte: ogni individuo, ogni pensiero, era un momento del divenire universale, del sistema del mondo. Il soggetto tuttavia si sapeva alla fine ridotto a essere solo un ‘paragrafo’ dell’insieme, del sistema. Poteva solo inabissarsi, distruggersi nella conoscenza di una totalità del divenire, di un divenire compiuto, non mutevole; poteva essere solo a una condizione: di sapere che ‘egli’ non era, se non un pezzo subordinato di un insieme immenso e necessario, un’‘utilità’, e, se si riteneva autonomo, un errore. Il desiderio di Hegel si risolse così in un sapere, che è assoluto48,

in una volontà di conoscenza che ha finito per cancellare l’individuo e la storia. 2. Le “zone d’ombra” della vita Sul finire degli anni ’30 Alexandre Koyré, appena nominato directeur d’études presso la V sezione dell’École pratique, chiudeva la sua relazione sullo stato degli studi hegeliani in Francia rammaricandosi per la loro scarsità e modestia49. Un’affermazione che di lì a poco troverà una netta smentita nell’abbondanza e nella rilevanza di studi su Hegel50 che invece popolano l’oriz48 49

50

G. Bataille, “Dall’esistenzialismo al primato dell’economia”, cit., p. 86. Cfr. A. Koyré, Relazione su L’état des études hégéliennes en France, in Id., Etudes d’histoire de la pensée philosophique, Colin, Paris 1961, pp. 205-230, trad. it., in Aa.Vv., Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze 1980, relazione tenuta al I Congresso di studi hegeliani svoltosi all’Aia nell’Aprile del 1930. Utile per comprendere il clima di “diffidenza teoretica” nei confronti di un Hegel ritenuto, forse a torto, l’ispiratore del paganesimo, è la recensione che Koyré scrisse al saggio di J. Wahl «Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel» (1929), in Revue Philosophique, 1930, pp. 7-8, dove ponendo riserve circa la presenza di un’impronta mistica nel pensiero hegeliano, evidenzia, al contempo, come fin dal suo sorgere la riflessione hegeliana fosse indirizzata verso il sistema. Leggendo Hegel alla luce della fenomenologia di Husserl e di Heidegger, Koyré indirizzerà una lettura da “sinistra” del pensiero hegeliano che si ritrova in Kojève e Sartre, mentre a Wahl si rifà una lettura da “destra” a cui si ispireranno Marcell per un verso e tutto il versante filosofico cristiano dall’altro. Sulla difficile penetrazione della speculazione hegeliana nella cultura filosofica francese cfr. W. Biemel, “Die Phänomenologie und die Hegel-Renaissance in Frankreich”, in Stuttgarter-Tage, 11, Bonn 1974, pp. 643-655; R. Salvadori, Hegel in Francia. Filosofia e politica nella cultura francese del Novecento, De Donato, Bari 1974; Id. (cur.) Interpretazioni hegeliane, cit.; F. Valentini, “La presenza di Hegel e gli studi hegeliani”, in V. Verra (cur.), La filosofia dal ’45 ad oggi, Eri, Torino 1976, pp. 150-161; V. Descombes, Le même et l’autre. Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Minuit, Paris1979; M. Roth, Knowing and History. The Resurgence of French Hegelianism from 1930 through the Postwar Period, New York 1988. Più in generale cfr. A. Negri, Hegel nel Novecento, Laterza-Bari 1987; G. Jarczyk-P. J. Labarrière, De Kojève à Hegel. 150 ans de pensée hégélienne en France, Biblioteque Albin Michel, Paris 1966. Gli anni trenta segnano l’inizio, in Francia, di una vera e propria Hegel Renaissance, dopo una prima tornata di studi hegeliani messa in campo, negli anni venti, soprattutto da intellettuali stranie-

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zonte filosofico francese già solo una decina di anni dopo quando, in Senso e non senso (1948), Merleau-Ponty dichiara, in maniera forte, come all’origine di tutto ciò che di grande è stato fatto in filosofia, all’origine anche dello stesso marxismo, della fenomenologia, del pensiero di Nietzsche e della psicoanalisi ci sia Hegel il quale ha inaugurato «il tentativo di indagare l’irrazionale e di integrarlo ad una ragione allargata». Un’affermazione paradossale se si pensa che proprio l’aspetto onnicomprensivo della ragione dialettica costituisce il punto d’attacco che la generazione dei noveau philosophes, tra i quali gli stessi Foucault, Deleuze e Derrida, prenderà come suo campo di battaglia proprio la dialettica hegeliana, tanto da condurli ad affermare che «tutta la nostra epoca, sia attraverso la logica o l’epistemologia, sia attraverso Marx o Nietzsche, tenta in qualche modo di sfuggire a Hegel»51 rilevando il movimento della differenza e della ripetizione in luogo di quello dell’identico e della contraddizione. Ma l’allargamento della ragione di cui parla Merleau-Ponty non indica tanto, o solo, verso un potenziamento della ragione forte, tale da comprendere nel suo impero anche ciò che lo stesso Hegel aveva considerato non reale, quelle zone d’ombre e di violenza della vita e della storia dell’uomo che il movimento dialettico disegnava come estranee, quanto piuttosto verso una vera e propria metamorfosi della ragione, verso il configurarsi di un pensiero altro nell’orizzonte del pensare, una forma che non si dibattesse più nella scelta tra lo Stesso e l’Altro, ma che li comprendesse in una dialettica senza conciliazione in cui identità e identico, differenza e diverso non sono più né paradigmi dell’intelletto, né postulati della ragione, ma nodi relazionali e problematici, maschere direbbe Nietzsche, di un divenire polemologico dell’essere in cui non è possibile fermare un’origine o un originale, un fine o una fine52. In quest’ottica l’interesse è rivolto soprattutto a quei temi della Fenomenologia dello Spirito – coscienza infelice, dialettica servo-padrone, coscienza pura, coscienza peccatrice – particolarmente vicini al momento storico, ma anche, come ha posto in luce Jean Wahl nel saggio del ’29 La malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel53, per gli scritti pre-sistematici, quegli scritti filosofici giovanili dove è forte il senso della complessità, fluidità e “irrazionalità” della dimensione umana, nel rilievo dato alla coscienza infeli-

51 52 53

ri – dai polacchi come Meyerson ai tedeschi come Gröthuysen e Basch, ai russi Koyré e Kojève che avevano trovato rifugio sul suolo francese tentando, anche sulla scorta della Die Jugendgeschichte Hegels (1905) di Dilthey, una rivalutazione dell’Hegel etico-politico – e paradossalmente dai surrealisti, Breton in testa, che sulla scorta delle lezioni kojèviane, ne tentarono l’introduzione in un mondo accademico che, imbevuto di pensiero scientifico cartesiano e kantiano, sembrava staccato dall’urgenza della prassi politica. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, trad. it., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1977, p. 74 Cfr. V. Descombes, Le même et l’autre. Quarante-cinq ans de philosophie française, Minuit, Paris 1979, pp. 23-26. J. Wahl, La malheur de la conscience dans la philosphie de Hegel, trad. it., La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, ISEDI, Milano 1972, Laterza, Roma-Bari 1994.

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ce religiosa, tanto da trovare radici prossime nel pensiero mistico di Boehme e Eckart. Ed è questa dimensione oscura, bassa dell’esistenza che porta Bataille verso Hegel già sul finire degli anni venti, quando in alcuni articoli apparsi sulla rivista Documents54, dove il filosofo tedesco viene presentato ora – come nel saggio del 1929 “Le cheval académique” – quale emblema di una forma di pensiero alto, organico, solare, razionale, ora – come nel saggio “Le bas materialisme et la gnose” – come segno della polarità bassa, oscena, irrazionale della vita umana, quella dimensione, irriducibile nei cardini della purezza logica e nella astratta processualità conciliante del sistema, di matrice gnostica che è alla base del materialismo dialettico. Una gnosi, dice Bataille, che da un punto di vista psicologico è prossima alla forma non ontologica del materialismo dialettico, un materialismo in cui la materia «non è la cosa in sé», un principio “elevato” a cui sottomettere «l’essenza che io sono» e la sua ragione: la bassa materia è il vortice dell’eterogeneo, la zona d’ombra del mondo/creato che trasgredisce l’ordine logico delle «grandi macchine ontologiche» rompendo il giogo di un pensiero che si vuole compiuto, assoluto, il movimento di una Storia giunta al suo concetto55. Un rapporto, possiamo dire, di amore e odio, segna quindi la relazione Bataille-Hegel con momenti di grande vicinanza nel cogliere/sentire la profondità oscura della vita e dell’animo umano, soprattutto in relazione ai temi del desiderio, della morte e della finitezza rilevati nella lettura-interpretazione di Kojève della dialettica servo-padrone, e di profonda riserva, quasi di rimprovero nei confronti di un Hegel debole, incapace di vivere fino in fondo l’esperienza dell’estremo, l’angoscia di uno spaesamento che, come ci dice ne L’Exepérience intérieure, deve aver percepito, ma di fronte alla quale, per “non diventare pazzo”, ha indietreggiato.

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Cfr. D. Hollier, Documents 1929-1930, Mercure de France, Paris 1968, trad. it., Documents 1929-1930, Dedalo, Bari 1974. Cfr. D. Hollier, “Dall’al di là di Hegel all’assenza di Nietzsche”, in Aa.Vv., Bataille, Union Générale d’Edition, Paris 1973, trad. it., Georges Bataille.Verso una rivoluzione culturale, Dedalo, Bari 1974, pp. 85-113. Il testo raccoglie gli interventi e le comunicazioni tenutesi al Colloquio di Cerisy-la-Salle, dal 20 giugno al 9 luglio 1972, diretto da Philippe Sollers e intitolato”Verso una rivoluzione culturale: Artaud e Bataille”. «Nella letteratura gnostica la negatività senza impiego, nozione che diventerà centrale nel pensiero di Bataille sul finire del decennio, ha il suo antefatto mitico, il suo prologo in cielo. Questo prologo narra di una crisi in seno all’Assoluto, uno sprofondamento del Pleroma, nella pienezza, una catastrofe nell’eternità. La creatura è separata, al di fuori della legge del cosmo, è fuori-legge. Non c’è più ponte fra Dio e creatura, se non la conoscenza, che guida l’itinerario della reintegrazione». Ma in Bataille non c’è itinerario verso la salvezza, piuttosto la continua «dilapidazione del proprio […] la persistente incisione della differenza. L’elemento basso, intorno a cui si era aggregato il primo interesse di Bataille alla gnosi, doveva rigenerare il predicato materialista. Il più basso è ciò che non è, non una nuova testa, ma scarto, differenza», M. Ciampa,“ La gnosi paradossale di Georges Bataille”, in J. Risset (cur.), Georges Bataille: Il Politico e il Sacro, Liguori, Napoli 1987, pp. 22-28, pp. 23-24.

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Allorché il sistema si chiuse, Hegel credette per due anni di diventare pazzo: forse ebbe paura di aver accettato il male – che il sistema giustifica e rende necessario; o forse, collegando la certezza di aver raggiunto il sapere assoluto con il compimento della storia – con il passaggio dall’esistenza allo stato di vuota monotonia – si è visto, in un senso profondo, diventare morto; forse, anche, queste tristezze diverse si componevano in lui nell’orrore più profondo di essere Dio. Mi sembra tuttavia che Hegel, al quale ripugnava la via estatica (la sola risoluzione retta dell’angoscia), dovette rifugiarsi in un fondo vano, di equilibrio e di accordo con il mondo esistente, attivo, ufficiale56,

ed è per questo che nel sistema la poesia, il riso, l’estasi sono espulsi, «non conoscono altra fine se non il sapere». Una presenza latente, ma certamente indubbia, nonostante il parere di Alexandre Koyré, nella filosofia hegeliana che sarà esplicitata dal rovesciamento marxista che ponendo nella concretezza della vita materiale, nella conflittualità delle relazioni sociali, il momento della contraddizione, ne evita la risoluzione, la conciliazione nella perfezione del concetto. Ma anche l’operazione marxista57 cade nella trappola dell’idealismo nella misura in cui, procedendo ad una critica univocamente negativa della dialettica, finisce con il sottrarre alla lotta di classe uno strumento, la dialettica appunto, che solo se giustificata esclusivamente sul terreno concreto dell’esperienza vissuta risulta un valido strumento di comprensione del reale e di resistenza alle riduzioni logiche. Per questo nel saggio “Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana” – scritto in collaborazione con Raymond Queneau ed apparso nel marzo del 1932 sul n° 5 della rivista La Critique sociale – viene posta in campo un’operazione di “recupero” della dialettica nella direzione della critica positiva messa in atto da Nicolaj Hartman58 che, esaminando «l’uno dopo l’altro, i diversi temi dialettici sviluppati nella filosofia di Hegel» distingue «quelli che sono giustificati dall’esperienza, fondati nella realtà», come quelli che si ritrovano nella Fenomenologia dello Spirito, e su tutti la figura dialettica servo-padrone, «da quelli che 56 57

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G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., pp. 175-177. Il riferimento di Bataille è in particolare al «fallimento di Engels, che ha lavorato per otto anni alla preparazione di una teoria dialettica della natura con il solo risultato, nel 1855, della seconda prefazione dell’Anti-Dühring», dove gli esempi della negazione della negazione, del chicco d’orzo o degli strati geologici mostrano un’insufficienza d’analisi in cui la dialettica perde il suo valore pratico sul piano sociale. G. Bataille-R. Queneau, “Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana”, trad. it., in M. Ciampa e F. Di Stefano, Sulla fine della storia. Saggi su Hegel, Liguori, Napoli 1985, pp. 110-125, p. 114. Il saggio è apparso sul numero 5 di La Critique sociale che contiene sia la La notion de dépense che la prima parte de La structure psycologique du fascisme dove la polarità alto/basso viene riprodotta nelle coppie utile/dispendio e omogeneo/eterogeneo nella direzione della definizione di una condizione sovrana dell’esistenza. Una seconda edizione è quella del 1955 sulla rivista Deucalion nel numero monografico intitolato Etudes hégéliennes. Cfr. N. Hartman, “Hegel et le problème de la dialectique du réel”, in Revue de métaphisique et de morale, 5, 1931, pp. 285-316.

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hanno soltanto un valore nel linguaggio», come ad esempio i temi dell’essere e del nulla propri non solo della Logica, ma anche della Filosofia della natura. Ed è proprio nel tema della dialettica servo-padrone che il marxismo fonda la teoria della lotta di classe, benché per «l’ambizione di dare alle concezioni dialettiche il carattere generale di leggi della natura» si sia poi dovuto escludere l’elemento antitetico proprio della contraddizione sistematica; per questo, affermano Bataille e Queneau, «la sostituzione della natura alla logica non è altro che lo Scilla e Cariddi della filosofia post-hegeliana», un mare tempestoso che per essere attraversato richiede «una nuova giustificazione sperimentale della dialettica», una giustificazione possibile solo «sul terreno immediato della lotta di classe, nell’esperienza quindi e non nel coacervo aprioristico delle concezioni universali»59. Occorre riandare alla fonte stessa della dialettica, a quella dimensione oscura e profonda, mistico-magica, che richiama, con il neoplatonismo, i nomi di Eckhart, di Cusano e Boehme, a quei “fantasmi della filosofia” che sono inconciliabili con la precisione e il rigore delle scienze della natura, ad una materialità del pensiero, ad un basso materialismo, che “abbassando” l’idealità dell’essere nel magma infuocato dell’eterogeneo mostra il punto cieco, “la zona d’ombra” della creazione. Hartman dichiara la necessità, nel momento in cui il pensiero dialettico comincia ad esprimere delle relazioni, di un riferimento a casi particolari – secondo una modalità che ci ricorda da vicino il ricorso, in sede di filosofia sociale, fatto da Axel Honneth alla psicologia di Mead60 – poiché per esempio, nessuna opposizione di termini può rendere conto dello sviluppo biologico di un uomo che è via via bambino, adolescente, adulto, vecchio. Viceversa se si considera lo sviluppo psicologico dello stesso uomo dal punto di vista psicoanalitico, si può dire che l’essere umano è limitato fin dall’inizio dai divieti che il padre oppone ai suoi impulsi. In questa condizione egli è costretto a desiderare inconsciamente la morte del padre. Allo stesso tempo, i desideri rivolti contro

59 G. Bataille-R. Queneau, “Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana”, in M. Ciampa e F. Di Stefano (curr.), Sulla fine della storia, cit., p. 114. 60 Servendosi del concetto hegeliano di lotta per il riconoscimento e integrandolo con le categorie psicologiche e sociologiche messe in campo da G. H. Mead, che offrono alla teoria hegeliana un “contenuto” empirico/materiale, Axel Honneth distingue – riattivando l’impianto critico della prima scuola di Francoforte – tre momenti o gradi del processo di riconoscimento. Un percorso che va dalle relazioni primarie (amicizia) a quelle giuridiche (rispetto di sé), per culminare nella comunità etica dove il soggetto viene riconosciuto per il suo valore sociale (stima di sé). In questo movimento si produce una maturazione dell’identità personale in cui autodeterminazione e autorealizzazione non si escludono, ma sono momenti successivi e necessari per il raggiungimento di un’integrità dell’individuo che è al fondo di relazioni intersoggettive capaci di rispondere ai conflitti morali e politici che segnano le nostre democrazie. Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Surkamp Verlag, Frankfurt am Main 1992, trad. it., Lotta per il riconoscimento, Il saggiatore, Milano 2002.

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l’autorità paterna si ripercuotono sulla persona stessa del figlio il quale fa ricadere su di sé la castrazione, come un colpo di rimbalzo dei suoi desideri di morte61.

Si tratta, osserva Bataille, di un’esperienza essenziale per l’uomo, un’esperienza vissuta, che mostra come i termini del processo dialettico trovano il motivo del loro movimento nella concretezza dell’esistenza reale: l’uomo nuovo/figlio può realizzarsi solo negando/distruggendo quella negatività che prima l’ha opposto al padre, evidenziando così l’essenzialità di un processo che impronta di sé sia l’uomo che la natura, sia lo spirito che la materia ed in cui risulta imprescindibile il ricorso a «forze o ad azioni negative, intese non come scopi ma come mezzi imposti dallo sviluppo storico», quelle forze e quelle azioni a cui la borghesia “condanna” il proletariato e che caratterizzano l’attività rivoluzionaria quale fulcro per una nuova società. Saranno i seminari sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, tenuti dal giovane filosofo russo Alexandre Kojève – succeduto nel 1933 su designazione dello stesso Koyrè alla cattedra di Filosofia delle religioni all’École Pratique –, ad attrarre Bataille, che per la prima volta affronta un confronto diretto col testo del pensatore tedesco62. L’interesse suscitato dai seminari è dovuto all’evidenziazione di una particolare apertura ad un percorso dialettico in cui il movimento di emancipazione dell’uomo, dal mero sentire animale alla formazione della coscienza, non è segnato dall’affermarsi di una “misteriosa aurora della ragione”, ma da un 61 G. Bataille-R. Queneau, “Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana”, cit., pp. 122-123. 62 In seguito al difficile clima politico instauratosi in Germania nel 1926, Alexandre Kojève si trasferisce a Parigi collaborando dapprima alla rivista Recherches philosphique diretta da Koyré per poi succedergli alla cattedra di Filosofia delle religioni. Nel 1933-34 inizia le sue lezioni, – “riprendendo” la lettura dei testi hegeliani avviata da Koyré e interrotta agli scritti jenensi proprio dalla Fenomenologia – che porterà avanti fino al 1939 con un seminario che vedrà coinvolti molti giovani intellettuali e studiosi di diversa provenienza e con molteplici interessi. Storici, filosofi, sociologi e psichiatri tra i quali ricordiamo Raymond Aron, lo stesso Alexandre Koyré, Jean Wahl, Raymond Queneau, Roger Callois, Jacques Lacan, Georges Bataille, Pierre Klossowski, J.-P. Sartre e André Breton. Come evidenzia R. Bodei, nell’introduzione alla traduzione italiana del testo di Kojève, delle «generazioni di grandi intellettuali e (con il metodo francese della agrégation) di più modesti insegnanti si sono formati, direttamente o indirettamente, alla sua scuola. L’immagine di Hegel, a lungo negativa nell’ambito della filosofia francese, finisce così per coincidere gradualmente con il ritratto che ne delinea Kojève e per imporsi in tal modo alla génération des 3 H (formatasi cioè sotto il segno di Hegel, Husserl e Heidegger), fino a quando essa non sarà sostituita, all’inizio degli anni Sessanta, dalla generazione ispirata dai trois maîtres des supçon, Marx, Nietzsche e Freud», R. Bodei, “Il desiderio e la lotta”, introduzione a A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1991, pp. VIIXXIX, p. VII. Si tratta della traduzione dei primi tre capitoli dell’Introduction di Kojève alla Fenomenologia hegeliana. Cfr. inoltre J. Wahl, “A proposito dell’Introduzione alla Fenomenologia di Hegel di A. Kojève” in M. Ciampa-F. Di Stefano, Sulla fine della storia, cit., pp. 47-69.

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radicato desiderio/désir (Begierde)63 antropogenetico di riconoscimento che dà forma e senso alle relazioni infra e intersoggettive. Il desiderio, sottolinea Kojève, «rende in-quieto l’Uomo e lo spinge all’azione», un’azione negatrice, trasformatrice del dato e dello stesso desiderio, del desiderio dell’altro, dell’altro io che desidera e vuole essere riconosciuto, ma poiché ciascuno dei due esseri dotati di un tale Desiderio è pronto a rischiare la propria vita – e, quindi, a mettere in pericolo quella dell’altro – allo scopo di farsi ‘riconoscere’ dall’altro, di imporsi all’altro come valore supremo, il loro incontro non può essere che una lotta a morte. E solo in e mediante una tale lotta la realtà umana si genera, si costituisce, si realizza e si rivela a se stessa e agli altri. Essa, pertanto, non si realizza e non si rivela che come realtà ‘riconosciuta’64,

ma la possibilità del sussistere della società implica la formazione imprevedibile, indeducibile, libera, sottolinea Kojève, di due “partiti” della vita, due differenti modi d’essere, possiamo dire, dove l’uno sacrifica il proprio desiderio d’essere riconoscendo l’altro come Signore (Herr) e l’altro affermandosi come Servo (Knecht). Sottraendo la Fenomenologia al sistema, Kojève rilegge/traduce e commenta il testo hegeliano puntando in particolare sui temi antropologici del riconoscimento e della conquista della consapevolezza della libertà da parte della coscienza umana. Sottolinea soprattutto il carattere di concretezza storica del processo dialettico, un processo di cui è protagonista essenziale l’uomo, un percorso che non è la manifestazione di un’idea solo teorica, ma il cammino pratico del soggetto verso la conquista e la consapevolezza della propria libertà, cammino di liberazione, dunque, da ogni tipo di vera o falsa trascendenza. Cammino di morte nella misura in cui «solo un essere mortale può essere libero. Si può dire anzi che la morte è la manifestazione ultima della libertà». Sono proprio i temi della morte, del desiderio di riconoscimento e quello del lavoro come mezzo di innalzamento e valorizzazione del soggetto, i nodi

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Kojève traduce il termine tedesco Begierde col francese désir piuttosto che con appétit per evitare, come osserva lo stesso Hyppolite, un appiattimento, una limitazione semantica del termine nello spazio del semplice sentire istintuale. In quanto désir l’autocoscienza si cerca nell’altro ponendosi, essenzialmente, come mancanza. Una insufficienza che non può essere colmata dall’appetito istintuale, naturale o animale, che si dirige verso i differenti del mondo, ma in quanto è proprio dell’uomo si dirige su un altro desiderio, è, dice Kojève, «Desiderio di Desiderio dell’altro», desiderio di riconoscimento, desiderio d’essere nella “realtà umana”, nella società. Attivazione quindi di un processo di identificazione/oggettivazione che si fonda su un progressivo asservimento, annullamento del desiderio animale; di quello stesso appetito che lo costituisce. Per questo deve negare la vita stessa, deve poter morire come tale. Cfr., B. Moroncini, Il discorso e la cenere, Guida, Napoli 1988, dove si evidenzia la caratterizzazione del desiderio nei termini di una “mancanza ad essere” propria di un soggetto scisso, separato da quella totalità che lo costituisce nella originaria coappartenenza all’universo. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit., p. 8.

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che portano ad un serrato doppio confronto critico con il materialismo dialettico e con la fenomenologia heideggeriana inducendo Kojève a sottolineare come mentre Heidegger ha ripreso i temi hegeliani della morte, ma trascura i temi complementari della Lotta e del Lavoro; onde nella sua filosofia non riesce a rendere conto della Storia. Marx mantiene assieme i temi della Lotta e del Lavoro, e la sua filosofia è essenzialmente ‘storicista’, ma egli trascura il tema della morte (pur ammettendo che l’uomo è mortale); perciò non vede (e ancor meno certi marxisti) che la Rivoluzione non è soltanto un fatto, ma ancora essenzialmente e necessariamente sanguinosa (tema hegeliano del Terrore)65.

Morte e negatività sono le radici concrete della catena dialettica, le condizioni essenziali che l’uomo deve assumere, decidendole volontariamente, per poter essere libero, riconoscendo la propria finitezza ed agendo spassionatamente nella storia. Come si vede più che sugli aspetti concilianti del processo dialettico, Kojève insiste particolarmente sui momenti violenti, sui toni eccessivi, sugli aspetti paradossali e profani dell’esistenza rilevando la pregnanza di quelle “zone d’ombra” della vita dell’uomo su cui insisteranno, in altra prospettiva e con esiti differenti, Georges Bataille, Raymond Queneau, Pierre Klossowski e Gilles Deleuze. Ed è proprio Queneau che fa risalire il primo “incontro” di Bataille con i testi hegeliani agli anni ’20, in particolare ad alcuni articoli pubblicati nel primo numero della rivista Documents nell’aprile del ’29, dove il perfetto razionalismo hegeliano è l’organon di un pensiero dell’alto, un pensiero solare, ideale, capace di co-involgere nel suo ordine perfino le sproporzioni in quanto «espressioni dell’essere logico che, nel suo divenire, procede per contraddizioni» ricomponendo il basso, la polarità negativa, nell’ordine-economia del sistema. Tuttavia il basso materialismo percorre la filosofia hegeliana; si tratta di quegli elementi di derivazione gnostica che, osserva Bataille, il sistema non riesce ad evitare fino in fondo e che solo il rovesciamento dialettico marxista ha riportato nella giusta luce dando valore all’immediatezza dell’esistente nella sua irriducibile contraddittorietà66.

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A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénomélogie de l’esprit professèes de 1933 à 1939 à L’École des Hautes Études, reunites et publiées par Raymond Queneau, Gallimard, Paris 1974, nota p. 537. 66 Cfr. R. Queneau, “Premières confrontations avec Hegel”, in Critique, 195-196, numero monografico intitolato Hommage a Georges Bataille, août-sept. 1963, pp. 694-700. Cfr. inoltre, D. Hollier, “Dall’al di là di Hegel all’assenza di Nietzsche”, in A.a. Vv., Bataille, cit.; G. Coccoli, “Bataille lettore di Hegel”, in M. D’Abbiero (cur.), Desiderio e filosofia, Guerini, Roma 2003, pp. 59-75; S. Colafranceschi, “Georges Bataille: una negatività senza impiego”, ivi, pp. 77-98; M. L. Lanzillo, “La fine della storia: l’eroe, il saggio, il sovrano. Hegel, Kojève, Bataille”, in Fenomenologia e società, 2-3, 1995, pp. 228-243. A testimonianza dell’interesse di Bataille per Hegel e della importanza degli studi hegeliani per il

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Ed è proprio questa dimensione non accademica, “sinistra”, possiamo dire, che è al fondo della filosofia hegeliana ad attirare l’attenzione di Bataille: è la dimensione della coscienza infelice religiosa, messa in evidenza nel ricordato saggio di J. Wahl, che ha aperto ad una riconsiderazione del pensiero del filosofo tedesco sul suolo francese, un’operazione di “recupero” della dialettica, oltre il lavoro marxista, che però sostituendo la «natura ossia la materia» alla logica non esce dall’impasse di un idealismo della natura che diventa «lo Scilla e Cariddi della filosofia post hegeliana», privando del suo sangue la lotta di classe mentre, come abbiamo visto, con Queneau, Bataille sostiene che un nuovo modo di intendere la dialettica inizia con la critica positiva fatta da Nicolai Hartman che distingue nei diversi temi dialettici sviluppati da Hegel quelli propri della Fenomenologia che sono «giustificati nell’esperienza, fondati nella realtà» da quelli che «hanno soltanto valore di linguaggio»67 e che sono propri della Filosofia della natura e della Logica. Seguiamo allora più da vicino la lettura che Bataille fa della Fenomenologia hegeliana, una lettura centrata proprio su uno dei temi fondati sull’esperienza, cioè la figura dialettica servo-padrone – quasi in una sorta di contrappunto al testo/commento di Kojève – nei saggi Hegel la morte e il sacrificio e Hegel, l’uomo e la storia68 e nei testi raccolti in Appendice all’edizione Gallimard del 1973 de Le coupable69. Generalmente, mi sembra che i giochi del pensiero attuale siano falsati dal misconoscimento – di cui ci compiacciamo – della rappresentazione generale dell’Uomo e dello Spirito umano, data da Hegel fin dal 1806. Di questa rappresentazione non posso sapere né fino a che punto sia grandiosa, né se debba costituire l’oggetto principale della mia riflessione; ma so che esiste e si impone nella misura in cui la conosciamo. Il minimo che possa dire è che è vano ignorarla, e ancora più vano è sostituirvi le improvvisazioni imperfette implicate tacitamente, e forse subdolamente, da tutti coloro che parlano dell’uomo70.

Bataille sottolinea così l’importanza e la “portata incomparabile” del pensiero hegeliano; segue da vicino l’interpretazione di Kojève, soprattutto per quel che riguarda quell’aspetto dialettico dell’hegelismo che è il punto decisivo della Filosofia dello Spirito in cui si «considera l’opposizione del Signore e del Servo» insieme al suo fondamento a partire dalla negatività in quanto

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progetto portato avanti sulla rivista “Acéphale” cfr. M. Galletti (cur.), Georges Bataille. La congiura sacra, cit., nota n. 3, p. 283. G. Bataille-R. Queneau, “Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana”, cit, pp. 110-111. Cfr. G. Bataille, “Hegel, l’uomo e la storia” e “Hegel la morte e il sacrificio”, in M. Ciampa-F. Di Stefano, Sulla fine della storia, cit., pp. 11-35 e 71-93. Cfr. inoltre Id., “La dialectique hégélienne du maître et de l’esclave clé de voûte de la Phénoménologie de l’esprit et de la doctrine marxiste” in Cahiers de Contre-Attaque. Cfr. a questo proposito i saggi che compongono l’“Appendice” de Il colpevole, cit. G. Bataille, “Hegel, l’uomo e la storia”, in M. Ciampa-F. Di Stefano, Sulla fine della storia, cit., pp. 12-35, p. 12.

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principio dell’azione, ma si colloca, nello stesso tempo, sia al di là della circolarità dialettica e del discorso filosofico in quanto sapere assoluto che della lettura kojèviana, “ricollocando”, o piuttosto dovremmo dire convertendo la forma del sapere assoluto da cifra di una falsa “pacificazione” nell’“economia del negativo” ad espressione di una lotta irrisolvibile71. Il duplice nodo è quello che lega senso, mondo dell’azione e “destino” della negatività alla fecondità di una “negatività senza impiego” come cifra ineludibile dell’essere umano, segno di quella blessure, la ferita aperta che è la vita come slancio mai compiuto, non-senso – direbbe Deleuze – che apre ad una comunicazione intersoggettiva “che si svolge fuori dei canali del Senso”. Negatività su cui e in cui si è aperta l’esistenza stessa di Bataille, « quella di un uomo che non ha più nulla da fare» – come dice rispondendo alle osservazioni rivoltegli dal signor X, incaricato di un corso su Hegel –; «negatività vuota di contenuto», che non può essere respinta neanche nel peccato perché l’uomo della ‘negatività senza impiego’ non può quasi più disporne: nella misura in cui egli è la conseguenza di ciò che lo ha preceduto, il senso del peccato non ha più forza in lui. Egli è di fronte alla propria negatività come davanti a un muro. Qualsiasi disagio ne provi, egli sa che niente ormai potrebbe essere escluso, poiché la negatività non ha più via d’uscita72.

È il punto d’innesto della sovranità, della capacità dell’uomo di sottrarsi alla logica del peccato che regola quella morale del debito73 forgiata nell’otti71

72 73

Mi sembra utile riportare una lunga ma emblematica citazione da La sovranità dove Bataille esprime il suo paradossale rapporto di affinità e di distanza da Hegel: «La differenza tra il mio pensiero dialettico e quello di Hegel è difficile da formulare, giacché la contraddizione può riprendere di continuo lo sviluppo dell’uno e dell’altro. Nell’insieme del movimento che rappresenta il pensiero di Hegel ai miei occhi, non c’è niente che io non sia disposto a seguire. Ma l’autonomia del ‘sapere assoluto’ di Hegel è quella del discorso che si sviluppa nel tempo. Hegel pone la soggettività non nello svanire (sempre ricominciato) dell’oggetto, ma nell’identità che il soggetto e l’oggetto raggiungono nel discorso. Ma alla fine il ‘sapere assoluto’, il discorso nel quale si identificano il soggetto e l’oggetto, si dissolve da solo nel NIENTE del non-sapere, e il pensiero evanescente del non-sapere si situa nell’istante. Da un lato abbiamo l’identità tra il sapere assoluto e questo pensiero evanescente; dall’altro quest’identità non si ritrova nella vita. Il ‘sapere assoluto’ si richiude, mentre il movimento di cui parlo si apre. Partendo dal ‘sapere assoluto’, Hegel non poteva evitare che il discorso svanisse, ma il discorso svaniva nel sonno. Il pensiero evanescente di cui parlo è il risveglio e non il sonno del pensiero: esso si trova in un rapporto di uguaglianza – e di comunicazione – con i momenti sovrani di tutti gli uomini, nella misura in cui questi non vogliono prenderli come se fossero cose […], parlo di quel discorso che penetra nella notte e che la chiarezza stessa finisce d’immergere nella notte (la notte – il silenzio definitivo). Parlo del discorso in cui il pensiero spinto al limite del pensiero esige il sacrificio, o la morte, del pensiero», G. Bataille, La sovranità, cit., p. 207. G. Bataille, “Lettera a X, incaricato di un corso su Hegel, Parigi 6 dicembre 1937”, cit., p. 164-165. Cfr. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, Naumann, Leipzig 1887, trad. it., Genealogia della morale, in Id., Opere, cit., vol. VI, tomo II, pp. 213-367.

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ca dello sguardo del Padre/Legge, la logica appropriante di una morale dell’equivalenza che, in contrasto con un’etica del dono, misura la vita come in un conto economico che non prevede sprechi, eccessi, dispendi. Da sempre il rapporto dell’uomo con la natura si mostra come viziato, indirizzato da un desiderio di autonomia, di emancipazione dall’“intrico” irrisolvibile delle forze naturali che lo imprigionano, un desiderio che ha votato la nostra esistenza a un processo incessante di costruzione di teorie e metodi per imbrigliare nella catena dei principi razionali il reale. L’autonomia diviene così l’indice di un perverso lavoro di asservimento della natura all’uomo e dell’uomo all’uomo, una libertà che non ci libera nella misura in cui in ogni posizione (ogni posizione è provvisoria), l’esistenza umana si basa su un termine medio. Essa non può aspirare all’autonomia in nome di se stessa. La lucidità (il discernimento) mentale le permette di scorgere la vanità del movimento che la costituisce. Infatti, nello stesso momento in cui si coglie come movimento verso l’autonomia, sente il proprio intricarsi, la profonda dipendenza in cui la tiene la natura intricata. Da qui la sua necessità di riferirsi a termini medi ideali come Dio o la ragione74

quali vie d’accesso ai “segreti/misteri” del reale. Percorsi che esigono un gravoso pedaggio, la rinuncia all’immediatezza della vita, la sua trasposizione, dissimulazione, nell’irrealtà del discorso razionale, dove le parole pretendono di rimpiazzare le cose, o nell’iper-realtà del discorso divino che, ordinando il mondo secondo i principi del bene e del male, disegna l’orizzonte dell’autonomia come spazio della pura moralità. Si tratta, nel processo dialettico, della sostituzione di un “logos”, sia nella forma di Dio che della pura ragione, all’uomo che cerca la sua autonomia, della consegna della possibilità di emancipazione ad un termine medio che va a sostituirsi al reale; ma – osserva Bataille – una volta raggiunta l’identificazione con la ragione, una volta che la storia sia compiuta, cessando l’opposizione dell’uomo alla natura, sembrerebbe escluso ogni altro movimento, ogni possibilità d’accadere storico, mostrando così le conseguenze dell’autonomia in maniera esclusivamente negativa. È solo la «presenza di una autenticità – la differenza positiva –» che dà senso e valore ad una contrapposizione critica che è segno di autonomia/sovranità nella misura in cui quella non svaluta l’“intrico” del reale, chiudendolo, de-finendolo, nelle risposte della scienza o della fede, ma lo valuta come “messa in questione” infinita, radicale, a partire da cui ogni risposta acquista senso, perché l’autonomia dell’uomo è collegata alla messa in questione della natura, alla messa in questione, e non alle risposte che le si danno. Il principio precedentemente

74

G. Bataille, “Due frammenti sull’opposizione fra l’uomo e la natura», in Id., Il colpevole. L’Alleluhia, cit., pp. 171-177, p. 171.

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enunciato può essere ripreso in forma più generale; ogni ‘risposta’ alla ‘messa in questione’ della natura assume lo stesso senso per l’uomo e per la natura. Ciò vuol dire: 1) che, essenzialmente, l’uomo è una ‘messa in questione’ della natura 2) che la natura stessa è l’essenziale – il dato fondamentale – di ogni risposta alla messa in questione. L’ambiguità di questi enunciati dipende dal fatto che la natura è, in un certo senso, un campo definito ma che, in un senso più profondo, questo campo è proprio la risposta fondamentale che si presenta agli interrogativi umani (come trampolino della domanda infinita). In altri termini, ogni risposta alla domanda fondamentale è una tautologia: se metto in questione il dato, nella risposta non potrò andare al di là di una nuova definizione […] del dato come tale […]. Nessuna ‘risposta’ può offrire all’uomo una possibilità d’autonomia

se non quella di un pensare critico, questionante, che non pretende a soluzioni o risposte, ma, come dice Gilles Deleuze, fa del problema, della problematizzazione l’unica risposta possibile. Per Kojève la filosofia dialettica o antropologica hegeliana, osserva Bataille, è una filosofia della morte, un pensiero del negativo in cui la negazione è la peculiarità propria con cui l’uomo si contrappone alla stabilità della Natura opponendole un io personale puro. La presenza di un’interiorità/intimità/oscurità nell’esteriorità/luce delle cose che sono in sé che, immediatamente, gli mostra l’ineludibilità del suo essere «immerso nella nientificazione del tempo», una coscienza della morte che esteriorizzandosi dà luogo, attraverso l’azione/lavoro, ad un cambiamento della Natura. L’azione «trasforma il mondo e crea dalle fondamenta un mondo umano, che indubbiamente dipende dalla Natura ma non è in lotta contro di essa»75, la negazione è Azione: da un lato il Niente puro, dall’altro il mondo storico dove la negatività dell’uomo «crea l’insieme del reale concreto (oggetto e soggetto allo stesso tempo, mondo reale cambiato o meno, uomo che pensa e cambia il mondo)»76. Ma la filosofia dialettica, la filosofia della morte è, per Bataille, ateismo nella misura in cui considerando l’uomo come un movimento inseparabile dalla totalità si presenta nella forma di una teologia entro la quale l’uomo ha occupato, sacrificando la sua parte “animale”, facendosi come dice Heidegger essereper-la-morte, il posto di Dio. Ma la negazione umana della natura e dell’essere naturale dell’uomo, l’azione separatrice dell’intelletto, mostra l’Azione come “morte che vive una vita umana”, negatività quindi che distrugge se stessa e alla cui violenza resiste, sovrana, solo la pura impotente bellezza del sogno, quella di un mondo in cui niente è separato, «dove ciascun elemento, al contrario degli oggetti astratti dell’intelletto, è dato concretamente, nello spazio e nel tempo», una bellezza che è, che non cerca nulla, non crea, non agisce e quindi non distrugge e non si autodistrugge77. 75 76 77

G. Bataille, “Hegel, l’uomo e la storia”, cit., p. 13. G. Bataille, “Hegel, la morte e il sacrificio”, cit., p. 73. La relazione Bataille-Heidegger è alquanto problematica nella misura in cui lo stesso Bataille nel saggio “De l’existenzialisme au primat de l’économie” – pubblicato su Critique,

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Ma la morte non rivela niente, la negatività compiendosi nega proprio ciò che avrebbe dovuto rivelare: è l’impossibile coincidenza della morte come (auto)coscienza con l’essere cosciente dell’uomo che muore, l’impossibile attuazione di un’esperienza dell’irruzione della morte nel vivente. Si inserisce qui la grande commedia umana del sacrificio, come sotterfugio ingenuo, dice Bataille, con cui l’umanità ha da sempre cercato di impadronirsi della morte, di (non)-viverla attraverso un terzo, il sacrificato, che muore per noi. Anche la morte, come la vita, viene allora rappresentata, una spettacolarizzazione che, reiterando l’evento nel tempo e nello spazio, ha permesso all’intera umanità di «afferrare ciò che la morte le dava e le sottraeva allo stesso tempo». Ma esiste una profonda differenza tra il modo d’essere sovrano dell’uomo del sacrificio, che nel turbamento dell’atto sacrificale vedeva una possibilità di arricchimento della vita – il sacrificio come una sorta di teatro in cui va in scena la realtà di un mondo che «trasfigura le cose e ne distrugge il senso ristretto» – e quello del sapiente hegeliano, un modo d’essere che investendo il sacrificio di un significato lo ha reso in termini di servitù, mentre ciò che è sovrano, dice Bataille, non serve, non è utile. Per questo «solo la parola sacra, poetica, limitata al piano della bellezza impotente, conserva il potere di manifestare la piena sovranità»78, quell’autonomia che è propria di un modo d’essere e di una forma di pensiero in-quieti, perché hanno la loro misura in quella mancanza di quiete che è cifra di un domandare infinito, una messa in questione/problematizzazione di ciò che siamo a cui non c’è risposta concepibile e di cui non c’è esperienza possibile79.

78 79

dicembre 1947-gennaio1948, ristampato in Œ.C., XI, pp. 279-306, trad. it., cit., pur dichiarando la sua non approfondita conoscenza del filosofo tedesco esprime ammirazione per «la sintesi che egli ha compiuto dell’esperienza religiosa tradizionale e di una filosofia di scuola associata all’ateismo», per le sue analisi sul sacro, sul profano, sul discorso, sul mitico, sul poetico e, nello stesso tempo, ne critica l’aspetto e l’espressione “professorale” che non gli permettono di sentire la “spontaneità” ed “intimità” del pensiero con la vita. «L’autentico in lui è coscienza dell’autentico, o nostalgia di rari momenti autentici, che segue una vita di studi professorali, dedita alla conoscenza dell’autentico», una vita non vitale che ignorando la passione non sperimenta la ricchezza della sovranità, ivi., pp. 284 e sg. Molto aspramente Sartre “giudicando” la filosofia di Bataille evidenzia, a proposito dell’esperienza interiore, che «l’erreur de M. Bataille est de croire que la philosophie moderne est demeurée contemplative. Il n’a pas visiblement compris Heidegger, dont il parle souvent e mal à propos. Par suite, s’il utilise le techniques philosophiques, c’est pour exprimer plus commodément une aventure qui se situe au delà de la philosophie, aux confins du savoir e du non savoir. Mais la philophie se venge: ce matériel technique, employé sans discernement, roulé par une passion polémique ou dramatique, asservi à rendre les halètements et les spasmes de nostre auteur, se retourne contre lui. Les mots qui prirent dans les ouvrages de Hegel, de Heidegger, des significations précises, insérés dans le texte de M. Bataille, donnent à celui-ci les apparences d’une pensée rigoureuse. Mai dès qu’on cherche à la saisir, la pensée fond comme la neige», J.-P. Sartre, “Un nouveau mystique”, in Id., Situations I, Gallimard, Paris 1947, pp. 143-188, p. 156. Ivi, p. 90. Cfr. G. Bataille, “Frammento sulla conoscenza, la messa in atto e la messa in questione”, in Id., Il colpevole, cit., pp. 167-170.

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Alla messa in questione nell’uomo corrisponde sempre, in un paradossale doppio movimento, la messa in atto, un fare appropriante, un’attività negatrice che lo oppone alla natura. L’uomo è questo doppio movimento: da un lato conoscenza pratica, messa in atto che con le sue certezze e le sue risposte respinge o rinvia la messa in questione, dall’altro messa in questione – “scienza disinteressata”–, la dimensione espressiva, esperienziale, propria della filosofia, della poesia, dell’estasi, tutto il mondo al di là del serio, dell’utile, che va ad interferire nella messa in atto della conoscenza pratica, interessata, seria, utile, introducendo una perdita di senso, un’insignificanza che se apre un vuoto nell’esercizio conoscitivo, disegna il modo di una comunicazione prelogica, al di là del soggetto e del linguaggio significante, che indica verso una forma nuova di soggettività e di comunità. 3. Messa in atto e messa in questione. Colpevolezza e dispendio L’interferenza, dice Bataille ne L’impossible, va mantenuta in quanto spazio di sovranità, di sottrazione alla colpevolezza che abbiamo introiettato contrapponendoci alla natura; se infatti la verità ha dei diritti su di noi. Ciò nondimeno noi possiamo, e anche dobbiamo, rispondere a qualcosa che, senza essere Dio, è più forte di tutti i diritti: questo impossibile al quale non perveniamo che dimenticando la verità di tutti questi diritti, che accettando la sparizione80,

il fatto d’essere assoluta contingenza, incompiutezza e desiderio insaziabile, ineludibile essere per la morte, negatività senza destino, impensabile, esperienza impossibile, ma innegabile, perché «la notte che sa di essere notte non sarebbe più notte, non sarebbe che il declinare del giorno». La colpevolezza sorge nell’indugiare dell’uomo nell’interferenza, nel compiacersi di risposte che bloccano il doppio movimento della messa in atto e messa in questione; l’indugio è menzogna, reazione che blocca l’azione nella fede in una risoluzione, un “compimento” della contraddizione che chiuderebbe la storia facendo entrare l’uomo nella “notte animale”. Mentre «messa in atto e messa in questione si oppongono infinitamente, da una parte come acquisizione a vantaggio di un sistema chiuso, dall’altra come rottura e squilibrio del sistema»81. La fine della storia, la risoluzione della negatività nella conciliazione dialettica, nell’equilibrio del Senso, nell’identità del Concetto e del Tempo, paralizza il pensiero nella servitù del concetto e chiude l’uomo nel limite dell’utile.

80 81

G. Bataille, Œ. C., vol. III, p. 102. G. Bataille, “Frammento sulla colpevolezza”, in Id., Il colpevole, cit. pp. 181-186, p. 183.

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La compiutezza su cui Hegel ha costruito l’edifico della Fenomenologia prescrive la fine della vita e per questo appare a Bataille come un falso fondamento, perché non esiste fondamento, non esistono principi né giustificazioni, quindi non c’è inizio né fine-conclusione della storia, non c’è la Saggezza di un Sapere assoluto in cui si acquieta la frenetica avventura della coscienza, ma la consistenza di una dilacerazione insanabile, una ferita (blessure), un luogo di perdita a partire dal quale si può ritrovare quel “libero movimento dell’universo” che ci fa sentire la libertà del nostro necessario essere “dentro il potere della morte”, quella dissipazione di sé, quel bisogno di perdita, rimosso dalla modernità, in cui gli apprendisti stregoni della comunità di Acéphale riconoscevano la possibilità di costruire una forma d’esistenza al di là “del merito e dell’intenzione”. È per questo che la rappresentazione hegeliana del mondo colpisce particolarmente Bataille, lo colpisce soprattutto la “natura” dei partecipanti a questo rito-ripetizione, che è la vita, in cui ogni attore muore prima di aver saputo. Il sapere si sottrae, e senza dubbio ha sottoposto Hegel alla stessa condizione. È probabile che Hegel abbia creduto di sfuggire a questa legge: un po’ di lucidità gli avrebbe fatto vedere che vi soccombeva – senza che si generasse alcuna contraddizione: può esistere il sapere assoluto senza che almeno uno di quelli che sanno sfugga alla legge? Hegel, sbagliando ancora, fu certo di sapere. Chi sapesse senza errore non sarebbe più sicuro di sapere: Dovrebbe immaginare, trovare nella condizione del sapere – finito nel tempo – il riflesso di ciò che è saputo. Se fosse diversamente, come potrebbe esserci identità del soggetto che sa e dell’oggetto saputo?82

La rappresentazione hegeliana è allora una ripetizione/ripresentazione del processo del divenire dello Spirito che nell’affermazione del Sapere assoluto ritrova l’inizio e l’origine del processo: una fine della storia che si rispecchia nell’inerzia contemplativa della scienza del Saggio, uno stato d’equilibrio, una mancanza di desiderio di riconoscimento che produce il ritiro dell’Azione sia come lotta che come lavoro. Pienamente soddisfatto «nel e mediante lo Stato universale e omogeneo», alla fine della storia, l’Uomo propriamente detto è per Kojève definitivamente annientato, inglobato in una circolarità completa e corretta. La negazione della Natura non è legata solo alla coscienza della morte, ma nella misura in cui la negazione cambia il dato naturale essa appare nel lavoro e nella cultura, per Hegel, anzitutto nella lotta per il riconoscimento, la lotta di puro prestigio83 che si innesca nel movimento di maturazione che 82 G. Bataille, Il limite dell’utile, cit., p. 165. 83 A questo proposito R. Bodei osserva che Kojève, caratterizzando la lotta mortale come lotta di puro prestigio, che va al di là di qualsiasi “interesse vitale” o biologico, vuole rilevare il carattere sociale della lotta: l’affermazione di sé, il riconoscimento di valore richiesto dai soggetti, che innesca la lotta, una volta usciti dalla necessità della pura dimensione

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conduce l’uomo dal semplice sentire animale alla formazione della coscienza. Un percorso di formazione del soggetto/io che nasce sul terreno doloroso e cruento dello scontro tra desideranti/desideri. Il movimento della Storia, il divenire dell’esistenza umana nel Mondo, è il progressivo farsi della negazione, il farsi da parte dell’uomo, della propria “natura” servile, per divenire/crearsi libero; una lotta a morte, dice Hegel, poiché per la creazione della propria umanità l’uomo deve negare la sua natura animale, deve cioè negare se stesso, il dato che è, rendersi libero, indipendente da esso: l’Uomo è Autocoscienza. È cosciente di sé, cosciente della sua realtà e della sua dignità umane; e in questo differisce dall’animale, che non sorpassa il livello di semplice Sentimento di sé. L’uomo acquista coscienza di sé nell’atto in cui, per la ‘prima’ volta dice ‘Io’84.

La parola rivela l’“Io”, ma non ci “informa” sul come e sul perché di questa origine; il soggetto conoscente, infatti, “si perde” nell’oggetto conosciuto; soltanto il desiderio trasforma l’essere rivelato a sé da se stesso nella conoscenza (vera) in un ‘oggetto’ rivelato a un ‘soggetto’ da un soggetto differente dall’oggetto e ‘opposto’ a lui. Solo nel e pel, o meglio ancora, come ‘suo’ Desiderio l’Uomo si costituisce e si rivela – a sé e agli altri – come un Io, come Io essenzialmente diverso dal non-Io e radicalmente opposto a esso. L’Io (umano) è l’Io di un Desiderio o del Desiderio85,

84

85

animale, è il «nodo in cui si intrecciano coscienza individuale e coscienza sociale», il punto di incontro/scontro tra privato e pubblico, tra individuo e collettività. Nodo che mi sembra essere la posta in gioco del dibattito etico-politico contemporaneo nel pensare forme di soggettività e modalità di relazioni altre rispetto ai legami stigmatizzati nella forma del Pensiero Unico. Cfr. R. Bodei, “Il desiderio e la lotta”, cit., pp. XII-XIII. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit., p. 3. Cfr. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Gaiste, in W. Bensepien-R. Heede (curr.), Gesammelte Werke, Hamburg 1980, band 9, che riproduce l’originale del 1807, trad. it., Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, cap. IV, sez. A, “Autonomia e non autonomia dell’autocoscienza. Signoria e servitù”, pp. 275-291. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit., pp. 3-4. Cfr. a questo proposito l’introduzione citata di R. Bodei al testo di Kojève, in particolare la nota n. 1 a p. X dove, a proposito del perdersi dell’uomo nell’oggetto conosciuto, viene richiamata la vicinanza a Sartre là dove «in un’efficace interazione di fenomenologia hegeliana e husserliana, allorché contrappone la coscienza non-tetica […] a quella tetica, in grado di ritornare in se stessa e di pensarsi quando l’individuo è ‘visto’ dall’Altro». Un interessante accostamento a Sartre è messo in atto anche da J. Wahl in relazione alla separazione fra in-sé e per-sé che, secondo Kojève, in Hegel sarebbe falsata dal “pregiudizio monistico” che non distingue tra l’essere dell’Uomo e l’Essere della Natura. Hegel avrebbe soltanto abbozzato tale distinzione quando identifica, contrapponendoli, da un lato lo spazio con il Sein – come essere-statico-dato – e dall’altro il tempo con il Selbst – l’io personale, l’Uomo. In quest’ottica il tempo sarebbe una nientificazione dell’essere o dello spazio, ma essendo l’Uomo stesso Tempo allora è anche un niente, una «nientificazione dell’Essere spaziale». E la sola forza che oltrepassi questa situazione è il Desiderio che in quanto azione negatrice/creatrice supera questa nientificazione ponendo l’essere dell’io, la sua forma,

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un desiderio d’essere che spinge all’azione, alla lotta per il riconoscimento, allo scontro con l’altro, emblematicamente rappresentato dalle figure del Signore e dello schiavo. Il desiderio (Begierde) e non la conoscenza, l’azione e non la contemplazione, rivelano l’uomo in quanto soggetto autocosciente: dal desiderio puramente animale, dalle pulsioni rivolte all’autoconservazione il movimento di soggettivazione s’allarga; investendo gli altri uomini si fa desiderio umano, desiderio dell’altro da sé, un desiderio di desiderio che provoca la lotta come desiderio di riconoscimento di sé (Anerkennen o Anerkennung) come valore. Questo è il viaggio che porta l’uomo a farsi come tale, a porsi di fronte all’altro mettendosi in gioco, rischiando la vita, il proprio senso, il proprio desiderio86. Se la posta in gioco del processo dialettico è l’affermazione del soggetto, un potenziamento di sé attraverso l’affermazione della propria libertà, un arricchimento nella coincidenza della propria attualità col Vero, l’alterità è la pedina sempre spostata, ma mai eliminata, della partita hegeliana: la chiave del divenire è l’Altro poiché l’Io può porsi solo affermando la propria libertà dall’altro attraverso l’altro, attraverso l’oblio/negazione di sé nell’Altro. È

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non più come spazio, ma come tempo. Un io per il quale «il mantenimento dell’esistenza significherà dunque: non essere quel che è (come essere statico e dato, come essere naturale e carattere innato) ed essere (cioè divenire) quel che non è […] il momento essenziale dell’io è l’avvenire, ma un avvenire che sussiste solo nella misura in cui nega ciò che lo fa essere»; ma la negatività «‘sul piano fenomenologico, l’azione creatrice dell’uomo non è altro, che la Libertà umana’. D’altronde, affinché questa libertà esista, ci deve essere qualcosa che sia dato. Così il campo di quel che Sartre chiama il Per-Sé presuppone quello dell’In-Sé, come per un altro verso il campo dell’In-Sé presuppone il Per-Sé: L’essere dell’uomo consiste dunque nel farsi», J. Wahl, “A proposito dell’Introduzione alla Fenomenologia di Hegel di A. Kojève”, in M. Ciampa-F. Di Stefano (curr.), Sulla fine della storia, cit., pp. 66-67. Rilevando la presenza di una dinamica aggressiva all’interno della dialettica intersoggettiva che struttura il tracciato dello schema L, Jacques Lacan si richiama espressamente alla dialettica hegeliana dell’autocoscienza, là dove, nella relazione signoria-servitù, emerge chiaramente il motivo della lotta per il riconoscimento. Diversamente da Hegel però Lacan non “risolve” il conflitto nel lavoro, ma nella soppressione che il servo opera del signore attraverso un’anticipazione-prefigurazione della morte: «Il servo si è sottratto davanti al rischio della morte in cui gli veniva offerta l’occasione di diventare padrone in una lotta di puro prestigio. Ma poiché sa di essere mortale sa anche che il padrone può morire. Da questo momento egli può accettare di lavorare per il padrone rinunciando nel frattempo al godimento: e nell’incertezza del momento in cui giungerà la morte del padrone, egli attende». In questo modo però subisce una doppia alienazione: infatti non solo gli è sottratta la sua opera dall’altro, ma anche la possibilità d’essere in quella riconosciuto. Così può essere solo nel momento anticipato della morte del padrone, identificandosi con questa morte, morendo anche lui. Tuttavia «si sforza di ingannare il padrone con la dimostrazione delle buone intenzioni manifestate nel suo lavoro» agendo così allo stesso modo di quei bravi bambini del “catechismo analitico” quando dicono «che l’ego del soggetto cerca di sedurre il suo superego», J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1953-1954), Seuil, Paris 1975, trad. it., Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 1978, pp. 275-277.

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così, sostiene Kojève leggendo Hegel, che l’uomo in origine non è mai completamente uomo, diviene tale mediante l’Azione libera e volontaria che contrappone due tipi di comportamento umano diverso: se la realtà umana si può generare solamente come socialità, la società è umana – per lo meno alla sua origine – solo a patto d’implicare un elemento di Signoria e un elemento di Servitù, esistenze ‘autonome’, esistenze ‘dipendenti’. Perciò, parlare dell’origine dell’Autocoscienza significa necessariamente parlare dell’‘autonomia e della dipendenza dell’Autocoscienza, della Signoria e della Servitù’87.

È in funzione di tale rapporto che progressivamente, divenendo nella lunga durata della storia, si afferma l’essere dell’uomo; è nella storia, nella dialettica storica tra Signore e Servo che prende corpo la verità della realtà umana, un divenire che sembra terminare, completarsi nella comprensione filosofica, quando il conflitto tra autocoscienze contrapposte – la storia in quanto temporalità effettuale – è risolto, conciliato, nella assolutezza in-temporale del Concetto. La Storia, ogni storia, procede e si sviluppa nell’ottica hegeliana mediante la com-prensione delle differenze nell’identità del Concetto, un percorso che procede attraverso un lavoro di Aufhebung della negatività che culmina nella posizione del Vero. Nell’unità dell’Intero: la Storia ha termine quando l’uomo non agisce più nel senso pieno della parola: ossia, non nega più, non trasforma più il dato naturale e sociale con una Lotta cruenta e un Lavoro creatore. E l’uomo cessa di farlo quando il reale gli ha dato piena soddisfazione (Befriedung), realizzando completamente il suo Desiderio88.

La storia allora non è altro che lo svolgimento dell’inter-azione tra due forme d’essere autonome, ma nello stesso tempo coessenziali all’esistenza stessa della società umana, al suo stesso costituirsi in quanto tale; una storia che si esprime come dialettica del riconoscimento e che termina con la morte/negazione dell’altro in quanto forma estranea, in quanto semplice esistenza naturale. Una fine che passa attraverso il toglimento di ogni negatività, una fine che è frutto di lotte e violenze perché sul palcoscenico della storia reale non si discute a colpi di argomenti verbali, non è qui il regno delle discussioni filosofiche, ma sottolinea Kojève, si procede «a colpi di clave, di spade o di cannoni da una parte; di falci, di martelli o di macchine dall’altra»89. Ma la fine della Storia prospettata dalla lettura kojèviana nell’ottica di una pacificazione del desiderio di riconoscimento – in una società omogenea che livella in un sistema socio-economico privo di resistenza signori e servi –, os-

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A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit. p. 9. Ivi, p. 63. Ivi, p. 57.

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serva Bataille, vede come unico elemento di sovranità non quella déprise, quel distacco critico, attivo, come dice Foucault, dal regime di sapere-potere che ci ha costituiti in quanto soggetti assoggettati, un modo d’essere capace di fungere da fulcro per la produzione di una forma di soggettività non assoggettata, ma l’indifferenza generata dall’uniformità, una omogeneizzazione delle risorse vitali che genera un’incapacità a pensare da sé e una mancanza di critica che paralizzano l’azione. Perché se l’uomo è essenzialmente un animale storico, impegnato in un lavoro di continua trasformazione, differenziazione di sé, e quindi «la Storia umana cesserà quando l’Uomo finirà di trasformarsi e, in tal modo, di differenziarsi da sé», allora «la partita storica che si gioca è finale», compiuta, nella misura in cui le uniche variazioni possibili sono quelle proprie di «una cultura indubbiamente suscettibile di diversificazione ma con variazioni soltanto quantitative, senza vere distinzioni qualitative»90. Un pessimismo che investe il nostro tempo, come appare dalle analisi che Francis Fukuyama svolge in The End of History and the Last Man dove la perdita di desiderio per un futuro diverso, il tacere delle passioni e delle ideologie che hanno mosso il processo della modernità sono le cifre di un cammino privo di cambiamento, un divenire immobile che ci chiude nell’opacità di un millenarismo opprimente. Conclusioni che ricordano, in un certo qual modo, il pessimistico giudizio kojèviano su una fine della storia che segna la scomparsa dell’uomo in quanto tale, col suo ridivenire animale: «il mondo e l’uomo non possono più muoversi», dice Kojève, l’uomo non è più capace d’azione avendo già realizzato ogni obiettivo umano. Un pessimismo ben presto revocato in dubbio se guardiamo ad una nota aggiunta alla seconda edizione dell’Introduction, dove osservando i costumi giapponesi moderni, Kojève vi trova un modo d’esistenza che sfugge all’azione negatrice dell’opera, una pratica di vita in cui l’azione non trasforma i contenuti, ma si esercita per “puro snobismo”; una prassi che nel contesto di valori total90

Incisivamente R. Bodei – riferendosi al commento di Kojève al sessantotto francese per il quale poiché non s’era versato sangue non era successo niente – osserva, in una lucida contemporaneità, che se «con la scomparsa delle guerre e delle révolutions sanglantes, il mondo risulterà pacificato», questo non vuol dire che si sia prodotta una situazione di estrema felicità, poiché alle gioie dell’arte, dell’amore e del gioco farà riscontro «l’uniformità livellatrice di un riconoscimento piatto e formale». Un mondo in cui sembra che «la violenza continuerà ad esistere in qualche forma, ma che essa non incontrerà alcuna effettiva opposizione o resistenza, poiché vittime e persecutori, ‘servi’ e ‘signori’ di fatto (se ancora si potrà usare questa terminologia) condivideranno gli stessi valori e saranno integrati nello stesso sistema globale […]. La battaglia di Jena (al rumore delle cui cannonate si dice che Hegel abbia concluso la Fenomenologia) ha cronologicamente inaugurato quel processo, tuttora in corso, che dallo ‘stato universale’ napoleonico, erede dei valori transnazionali della rivoluzione francese, si irradia su tutto il mondo integrando il genere umano entro un unico sistema omogeneo di relazioni di simmetrico, globale e persino involontario riconoscimento», “Il desiderio e la lotta”, cit., pp. XXI-XXIII. Cfr. F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, Pre Press 1992, trad it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.

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mente formalizzati, «privi di qualsiasi contenuto ‘umano’ in senso storico» permetterebbe ancora, dopo la fine della storia, di costruire relazioni sociali “umane” evitando, nello stesso tempo, sia l’estremismo distruttivo di una vita completamente razionalizzata sia la “ricaduta” nell’originaria animalità. Ma ciò che rimane tuttavia “sospeso” è la passione per una cura del mondo che non sia quella di un puro calcolo di interessi e piaceri, una cura che è l’organon perfetto di relazioni artificiali e artificiose prodotte da una politica scaduta in mera amministrazione, da una cultura tecnica che gestisce “saggiamente”, utilmente, l’omogeneità fondamentale e la comprensione reciproca di coloro che la incarnano ai diversi livelli. Un punto vista servile sulla vita ha infatti preferito e formato un sapere/agire strategico, un discorso del potere sull’uomo a partire dal quale «ogni uomo può vedere in se stesso l’umanità, in quel che lo rende uguale agli altri proprio mentre fondavamo la nostra sui valori che ci distinguevano»; un’apoteosi umana, troppo umana, afferma Bataille, così perfetta che non siamo più in grado di coglierne l’inganno, l’impossibile rivelazione, la contemplazione di quel Vero che neanche l’immaginazione può soddisfare. Se la fine della Storia è il compimento dell’opera, la realizzazione di un’umanità senza differenze, se anche la contemplazione passiva del Saggio non agisce più per negare, trasformare il dato, se pensa «di sfigurarlo non fosse altro che nei suoi discorsi» affidandosi «senza riserve all’Essere» e aprendosi «interamente al reale», Bataille reagisce contro questo estremo servilismo del pensiero. Contro questa evidente fine della sovranità di un desiderio che è pura negatività sans emploi che, fuori dal tempo dell’opera, brilla nell’istante miracoloso in cui la vita, senza bisogni, si apre senza limiti, oltre la particolarità del sapere e del mondo delle pratiche, nell’universalità dell’essere e della morte91. La fine della storia non è allora l’epifania del Saggio che ripete «pedagogicamente il Libro nelle cui pagine è rinnovato il processo di compimento dell’Opera», ma la cessazione del gioc/go del servo e del signore, la fine di quella relazione oppositiva fra forme d’umanità differenti che segna il trionfo della logica strumentale attraverso la quantificazione delle risorse vitali, la morte della potenzialità creativa il cui primo segno è proprio la progressiva mitologizzazione del sapere tecnico, l’affermarsi di una fede tecnologica che 91

«Se prendo in considerazione il mondo reale, il salario dell’operaio gli permette di bere un bicchiere di vino: può farlo, come afferma, per darsi forza, ma lo fa in verità con la speranza di sfuggire alla necessità che è il principio del lavoro. Secondo me, essenzialmente, se l’operaio si beve un bicchiere di vino, è perché c’è nel vino che butta giù un elemento miracoloso di sapore, che è appunto il fondo della sovranità. È poca cosa, però il bicchiere di vino gli dà almeno, per un breve istante, la sensazione miracolosa di disporre liberamente del mondo. Il vino lo si beve macchinalmente (appena l’ha trangugiato l’operaio lo dimentica), eppure è questo il principio dell’ebbrezza, di cui nessuno potrebbe contestare il valore miracoloso», perché al di là dei bisogni, al di là del necessario, il «miracoloso che ci incanta» appare nell’istante intemporale che trascina la vita fuori dal discorso della coscienza/conoscenza. G. Bataille, La sovranità, cit., p. 44.

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confeziona la vita a scapito di un’estetica dell’esistenza che richiede impegno e rischio: è il drammatico spettacolo di un’umanità che ha dimenticato se stessa, che è sul punto di morire, ma non sa più neanche morire. La fine della storia è l’avvio di un nuovo inizio: l’apertura dello spazio del non senso. Di quello spazio cioè in cui l’uomo, il sovrano, pone in essere le cose e dove le cose non sono più dotate di un senso proprio, di una loro propria storia92.

È il momento della morte del Signore – la negatività della morte che non può essere recuperata nel movimento dialettico della conoscenza assoluta – che Bataille, contro Hegel, e oltre Kojève, porta in primo piano; una morte libera dal sistema, assoluta, quella zona d’ombra della vita che rompe la luce del pensiero logico istituendo il nucleo incandescente dell’esistenza, quel “cuore” che Hegel ha sentito battere, ma ha messo tra parentesi, velandolo sotto la maschera seria dell’identità e del suo farsi nel sapere assoluto. Ma è proprio questo evento inassimilabile nelle forme del sapere, questa esperienza impossibile in quanto sempre sottratta, che per Bataille indica la possibilità di un cambiamento di rotta nel pensiero, uno spostamento dall’inerzia della servitù e del possibile alla potenza sovrana dell’impossibile. Al nonluogo che attrae e sfugge, calamita che fa ruotare la vita nell’infinito e indeterminabile movimento di un essere che il discorso e la storia tradiscono, ma che si deve dire, così come deve darsi, nella fattualità determinata dell’esistente: è il paradosso di una sovranità che è sempre, necessariamente, compromessa con un soggetto che non smette di volere, di conoscere, per superarsi in quanto finito e limitato, il paradosso di una comunità che non si dà se non in quanto assente, non disponibile, inconfessabile nella misura in cui ciò che «è taciuto in questo modo è saputo da chi tace. Ma questo sapere non si deve comunicare, essendo al tempo stesso il sapere della comunicazione», quella passionalità/sacralità del legame che, fuori dalla socialità, fonda ogni legame sociale. Se, come afferma Hegel, la Storia ha inizio con una lotta di puro prestigio per il riconoscimento, alla base della vita umana, osserva Bataille, c’è un problema di scelta tra il desiderio di produrre per crescere e un modo di vivere glorioso, improduttivo; se proprio questo sembra segnare la scelta iniziale, tuttavia non bisogna misconoscere l’essenziale duplicità che lega e distingue consumo improduttivo e preoccupazione di crescita. Una radicale ambivalenza che segna l’esistenza umana ora schiava, ora sovrana, utile e inutile; e forse, oggi, il movimento folle di un incontenibile desiderio di sapere ci ha portato all’estremo del possibile, là dove sporgendoci sull’abisso della morte possiamo sentire che cos’è l’Uomo: una “negatività senza impiego” che 92

M. L. Lanzillo, “La fine della storia: l’eroe, il saggio, il sovrano. Hegel, Kojève, Bataille”, cit., p. 242.

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spezza il corso del mondo, una forza capace di interromperne, anche solo per un attimo miracoloso, il progresso «riflettendo l’impotenza a distruggerlo», disponendone sovranamente, liberamente. Ma l’uomo, per la verità, riflette il mondo soltanto ricevendo la morte. In quel momento è sovrano. Ma la sovranità gli sfugge, egli sa che se la conservasse, essa finirebbe di essere quello che è […]. L’uomo dice che cos’è il mondo, ma la sua parola non può turbare il silenzio che si diffonde. Egli nulla sa, se non nella misura in cui il senso del sapere che possiede gli si sottrae93.

L’esperienza del negativo non lavora più utilmente alla ricomposizione della ferita dell’essere, a colmare l’insufficienza e lo sradicamento che siamo, ma innesca il movimento incessante di una messa in questione di sé, del mondo e del sapere che è esperienza dell’incompiutezza ontologica che segna l’esistenza: un labirinto, quello sonoro in cui si muove Dioniso, un labirinto musicale, osserva Gilles Deleuze, in cui Arianna, l’anima, trasmutata dopo l’abbandono dell’eroe Teseo, può finalmente danzare libera. Solo fuori dai confini dei territori, degli Ethos, «dei canti di lavoro, di marcia, di riposo», lontano dalle architetture morali e razionali costruite dalla civiltà, Arianna acquista le “piccole orecchie” capaci di ascoltare Dioniso/toro e diventa così attiva: Dioniso è l’affermazione dell’Essere, ma Arianna è l’affermazione dell’affermazione, la seconda affermazione o il divenire-attivo. Da questo punto di vista, tutti i simboli di Arianna cambiano senso quando si rapportano a Dioniso invece di essere deformati da Teseo. Non solo la canzone di Arianna cessa di essere l’espressione del risentimento, per essere una ricerca attiva, una domanda che già afferma (Me – vuoi? me? Me-tutta?); ma il labirinto non è più il labirinto della conoscenza e della morale, il labirinto non è più il percorso in cui s’impegna, tenendone il filo, che va a uccidere il toro. Il labirinto è diventato lo stesso toro bianco, Dioniso-toro […] il labirinto non è più architettonico, è diventato sonoro e musicale94,

93

94

G. Bataille, “Hegel, l’uomo e la storia”, cit., pp. 34-35. Cfr. M. Perniola, Georges Bataille e il negativo, Feltrinelli, Milano 1977, ristampato, con l’aggiunta di due saggi su “Sessualità organica e sentire astrale” e “L’iconoclasma erotico di Bataille” in Id, Philosophia sexsualis. Scritti su Georges Bataille, cit. L’A. sottolinea che la conclusione a cui Bataille arriva nella sua lettura di Hegel «è apparentemente paradossale: da un lato la vita servile basata sul lavoro e sulla cultura, che subordina il presente all’avvenire, si immagina erroneamente che l’avvenire sia il prodotto omogeneo del passato e perciò resta prigioniera di questo; dall’altro la vita sovrana che vive il presente proprio perché è consapevole dell’alterità e della differenza dell’avvenire e dell’inutilità di progettare l’identità, contiene in se stessa una capacità di auto-superamento, da cui viene effettivamente trasmessa all’avvenire», ed è per questo che per Bataille i veri rivoluzionari «non sono i proletari e gli intellettuali, ma gli esclusi dal lavoro e dalla cultura: disoccupati, sottoproletari, poeti, folli», ivi, p. 116. G. Deleuze, “Mystère d’Ariane”, in Philosophie, 17, 1987, pp. 67-72, ripreso in Id., Critique et clinique, Paris, Minuit 1993, trad. it., Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 131-139, p. 136.

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e l’unico suono che si ode è il canto della Terra, «l’eterno ritorno in persona», un ritorno selettivo, che afferma la complessità dell’essere, l’irriducibilità della vita, la necessità di ripensare quella part maudite, quell’animalità che abbiamo negato, ma che ci chiama incessantemente. La sovranità di cui si tratta è quella che ne Le Labyrinthe Bataille afferma come “pratica della gioia davanti alla morte”95, l’esercizio di una vita che sente e ama la sua insufficienza, la sofferenza di una ferita che «annientando ogni al di là intellettuale o morale magnifica l’esistente fin dentro la morte». Una mistica dell’esistenza – che può essere descritta solo nelle rappresentazioni di stati contemplativi effettivamente vicini, dice Bataille, alle pratiche religiose dell’Asia e dell’Europa – la cui esperienza singolare appartiene solo a chi non sente più che c’è qualcosa come un al di là-della-vita. È la sovranità di chi danza felice col tempo che l’uccide, l’esuberanza di chi ama l’incrinatura del proprio esserci e vive gloriosamente, perché non c’è essere senza incrinatura, ma noi andiamo dall’incrinatura subita, dalla decadenza, alla gloria (incrinatura amata). Il cristianesimo giunge alla gloria fuggendo ciò che è (umanamente) glorioso. Deve dapprima raffigurarsi la messa in salvo di ciò che, rispetto alla fragilità delle cose di questo mondo, è sostanziale: allora diventa possibile il sacrificio di Dio e la sua necessità entra subito in gioco. Così concepito, il cristianesimo è l’espressione adeguata della condizione umana […]. Ma è al livello di coloro che cedono presto – che non possono sopportare un’ebbrezza senza domani (quella dell’erotismo, della festa). Il punto in cui abbandoniamo il cristianesimo è l’esuberanza. Angela da Foligno la raggiunse e la descrisse, ma senza saperlo96.

L’esuberanza quale cifra della trasgressione dei limiti dell’essere – apertura di sé che espone soggetto e scrittura alla violenza del non-senso e del nonsapere – scorre in tutta la Somme Atheologique ed è segno di quell’esperienza interiore, esperienza dei limiti del sapere, che non è assimilabile, se non per la sua forza dirompente, a quella dell’esperienza mistica. Non si tratta quindi di entrare né nell’alveo di un misticismo ascetico, che instaurando una comunicazione diretta tra l’uomo e Dio trasforma l’esperienza interiore, la pratica del non-sapere, in organon di un sapere assoluto e di una morale della salvezza, né in quella dimensione della spiritualità orientale, Zen, che mira al raggiungimento di quel momento di illuminazione chiamato satori che dà il senso di un ritrovare, un tornare a un genitore, un ritornare a casa, mentre per Bataille si tratta di entrare, come dice Nietzsche, in quello stato di potenza che è volontà di dare, desiderio senza oggetto, domanda senza risposta. A questo proposito risultano illuminanti alcune osservazioni sul tema della comunicazione, poste in campo da Padre Daniélou nel dibattito seguito 95 96

Cfr. G. Bataille, “Le Labyrinthe”, in Recherches philosophiques, vol. V, 1935-36, trad. it., “Il Labirinto”, in S. Finzi (cur.), Georges Bataille. Critica dell’occhio, cit., pp. 245-254. G. Bataille, Il colpevole, cit., p. 35.

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alla conferenza di Bataille Discussion sur le péché che, come quelle sulla distinzione tra persona e individualità biologica, trovano un ulteriore sviluppo in relazione al tema della comunità a cui esse necessariamente aprono. Volendo dare una “risposta cristiana” alle analisi batailleane, Padre Daniélou osserva che il peccato è posto da Bataille come una via privilegiata di accesso al sacro in quanto, diversamente dall’esperienza mistica, “deformata” nella sua integrità dal desiderio della salvezza che la “solidifica in un chiuso possesso”, lascia intatta la ferita, l’insufficienza radicale dell’essere dell’uomo e del mondo, il suo essenziale non poter essere risposta a sé e al mistero del reale, ma non considera che niente è meno stabile del mistico, che viene da Dio incessantemente disturbato e ostacolato a ripiegarsi su se stesso, la cui intera vita è progresso e realizza nell’estasi il decentramento totale di sé, che è in effetti ciò a cui tendiamo e che apre alla totale comunicazione con gli altri97.

La vera ferita, la ferita più alta, che apre la comunicazione non è per Padre Daniélou la negatività, intesa da Bataille come puro gusto del nulla, come movimento di una caduta che sembra esprimere il desiderio di rompere i limiti di un corpo per possederlo più che un annullamento di sé, ma l’esercizio di una santità che, nell’anima, è accettazione della “disperazione” di non possedere Dio come unica possibilità per incontrarlo. Il Dio di Bataille è il Dio dei filosofi, la perfetta autosufficienza inesplicabile e indicibile, mentre il Dio cristiano, afferma Padre Daniélou, è quel mistero trinitario di una comunicazione ineffabile dove il proprio della persona è annullato nella comunità-comunicazione di una stessa natura. Perché ci sia comunità, comunicazione, affinché queste siano possibili, è necessario «che ci sia qualcuno che mette in comune e perché l’integrità di un essere sia distrutta è indispensabile che l’essere ferito sussista», perché la persona non è, come l’individualità biologica, un limite chiuso e invalicabile, ma ciò che è limite e che per questo «può essere totalmente immanente ad un altro», quindi totalmente comunicata. Secondo Padre Daniélou sarebbe solo un «timore ossessivo del confort spirituale» – l’idea della Salvezza come possesso, ripiegamento su di sé – ad impedire a Bataille di cogliere il valore della mistica e dell’eccesso al di là di una somiglianza meramente formale. Ma l’etica dell’incompiutezza che si profila nella riflessione batailleana, l’etica di una sovranità impossibile, non vuole mettere fuori campo la colpevolezza attraverso una forma di trascendenza religiosa che “recupererebbe” gli effetti del peccato98. E in 97 98

“Esposizione di Padre Daniélou”, in G. Bataille, La condizione del peccato, trad. it., Mimesis, Milano 2002, p. 35. Così Bataille risponde alle osservazioni di Padre Daniélou nel dibattito seguito alla conferenza: «quello che più chiaramente mi differenzia da voi è, mi sembra, l’abbandono che devo fare di ogni specie di bene da realizzare sulla terra, di ogni specie di azione che possa apparirmi come dover essere, che mi privi di ogni possibilità di stabilità a partire dal mo-

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questa direzione l’estasi è una perdita di conoscenza/coscienza, che si configura come una sorta di probità intellettuale che rinuncia al fondamento, indice della libertà di una soggettività sovrana che esiste e sente di esistere in un universo senza al di là, senza Dio. È la perdita propria di una soggettività lacerata, scissa, cifra di una dialettica che non giunge mai, hegelianamente, all’affermazione di una coscienza servile e padrona di sé attraverso il lavoro, ma a quella di una signoria che consuma se stessa facendo del consumo improduttivo, dell’incompiutezza, della morte e del desiderio senza oggetto i segni di una ferita ineludibile – perché se guarita condanna l’essere all’inerzia, «alla morte che genera morte» – che è la chance stessa dell’esistenza99. Un modo d’essere impersonale, dice Bataille, che in quanto eterna messa in gioco rifiuta la quiete e la soddisfazione – è desiderio di détresse, di perdita di sé, di abbandono assoluto –, le risposte e le verità, perché è il contrario di qualsiasi risposta al desiderio di sapere. È messa in questione radicale, infinita, possibilità di una comunicazione comuniale tra singolarità che precedono ogni forma di individuazione, di identificazione degli esseri, il punto di incontro di un’etica e di una politica della vita che amano gli esseri e il mondo al di là dell’interesse e del lavoro. È il modo d’essere proprio di un soggetto acefalo – l’emblema scandaloso di quella congiura sacra che impone di «abbandonare il mondo civile e la sua luce» per poter finalmente «divenire tutt’altri» – il soggetto che è sfuggito alla sua testa come il condannato alla prigione. Ha trovato al di là di se stesso non Dio che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione. Al di là di ciò che io sono, io incontro un essere che mi fa ridere perché è senza testa, che mi riempie di angoscia perché è fatto di innocenza e di crimine100.

mento in cui non ho più questo appoggio che voi avete e che vi trascina via vostro malgrado, se si tratta di voi, e sia che lo vogliate, se si tratta della Chiesa nel suo insieme. A partire dal momento in cui questo punto d’appoggio viene a mancare, diventa impossibile definire il peccato come fa la Chiesa; diventa impossibile trovare anche la minima stabilità, perché quel che si incontra crolla da ogni lato: non c’è altro che il vuoto, il nulla perfetto, non vi è alcun limite alla sensualità, alcuna possibilità di dare una base qualsiasi, uno sviluppo preciso ad una via che si diparte dalla sensualità. Non rimane che parlare della notte, del caso, e aver solo una devozione, quella per la possibilità. Bisogna dirlo è una delle devozioni più penose, più costose, quella che lascia costantemente alla mercé del peggiore, mentre i cristiani, che erano alla mercé della grazia non mi sembravano tanto sfavoriti», “Discussion sur le péché”, in Id., Œ.C., cit., VI, pp. 315-359, trad. it., La condizione del peccato, cit., pp. 81-82. 99 Cfr. a questo proposito, R. Carifi, Nomi del Novecento, Le Lettere, Firenze 2000. 100 G. Bataille, “La conjuration sacrée”, in Acéphale, 1, 24 jun 1936, trad it., “La congiura sacra”, in S. Finzi (cur.), Critica dell’occhio, cit. pp. 256-260, pp. 257-259. Tradotto anche in Id., La congiura sacra, a cura di M. Galletti, cit., pp. 3-7.

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4. Volontà di Chance Il culmine, l’esuberanza delle forze che segna l’esperienza mistica come momento di massima dilacerazione dell’essere è il farsi violento di un’incrinatura nell’identità del soggetto e nelle certezze metafisiche che permette la comunicazione, una esperienza conoscitiva “indiretta” o “non-logica”101, o meglio a-logica, che travalica la conformità della conoscenza logico scientifica, l’ordine di una realtà omogenea, identificata, e come tale discorsivamente definibile, verso quella di una “realtà eterogenea” che, non essendo organizzabile in funzione del principio dell’utile, sfugge all’appropriazione del linguaggio categoriale. Esperienza che Bataille indica come “ordre de la force o du choc”, un’intimità con la vita che spacca l’ordine razionale e le regole morali che misurano esseri e mondo in funzione della conservazione, del consumo produttivo, costituendo così per la visione classica la dimensione stessa del peccato, il male come contrapposto al bene. Le riflessioni di Bataille sulla nozione di peccato – esposte in una conferenza organizzata dalla rivista Dieu vivant e tenutasi il 5 marzo 1944 a Parigi in casa di Marcel Moré e di cui Pierre Klossowski, presente alla discussione, ha formulato un estratto – sono raccolte nella parte intitolata “Il culmine e il declino” del suo saggio Su Nietzsche, con delle modifiche relative all’idea “del nulla della noia” introdotte per rispondere alle osservazioni di Jean-Paul Sartre. Modifiche che non alterano la sostanza del testo, dice Bataille, che con Nietzsche intende mettere in discussione la possibilità stessa di un universo morale quale quello in cui siamo cresciuti e per questo sottolinea di aver bisogno «di ciò che il concetto di peccato contiene di infinito»102, una non-nozione quindi che come quella di dépense rompe la logica utilitaristica e identitaria propria di un’ontologia conservatrice e le regole di una morale razionale: ciò che mi colpisce, nella dimensione morale, è il tremore vissuto dagli uomini decisi ad andare fino in fondo. Non un’esperienza, ben definita, da universitario. Come avrei potuto, altrimenti, scorgere, al termine dell’ascensione verso il bene,

101 Cfr. J. M. Heimonet, Négativité et communication, Jean-Michel Place, Paris 1990, in particolare le pp. 81-109. 102 Ribadendo la feconda ambiguità insita nel termine peccato in risposta alle osservazione fattegli da Sartre e da Hyppolite, Bataille rileva l’inadeguatezza del linguaggio ad esprimere ad esempio «una nozione estremamente semplice, cioè la nozione di un bene che sarebbe un dispendio consistente in una perdita pura e semplice. Se per l’uomo sono costretto a riferirmi all’essere – e si nota immediatamente che introduco una difficoltà –, se per l’uomo, in un dato momento, la perdita, e la perdita senza alcun compenso è un bene, non possiamo riuscire ad esprimere quest’idea. Il linguaggio è manchevole perché il linguaggio è fatto di proposizioni che fanno intervenire delle identità, e a partire dal momento in cui, per l’eccesso delle somme da spendere, si è costretti a non spendere più per il guadagno, ma a spendere per spendere, non si può più rimanere sul piano dell’identità. Si è costretti ad aprire le nozioni al di là di se stesse», G. Bataille, La condizione del peccato, cit., “Dibattito”, pp. 43-90, p. 76.

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la fatalità di un crimine? Ritengo che un’avversione rigorosa è tenuta ad andare fino all’estremo della comprensione. È quanto non si è fatto fino ad oggi103.

Se il bene sembra essere, fin dall’inizio, un vantaggio portato a un essere e, viceversa, il male un danno, è anche vero che per un verso il bene appare legato, nella forma dell’interesse per gli altri, ad un necessario disprezzo per se stessi e, per un altro verso, il male, in quanto implica la separazione degli esseri, sarebbe connesso all’esistenza stessa e allora il bene si presenterebbe nella forma dell’interesse degli altri: una conciliazione equivoca, una deriva semantica su cui si è costruita tutta la morale, osserva Bataille, che ai termini di questa “coppia bugiarda” sostituisce quelli di culmine e declino dove il primo, in quanto eccesso ed esuberanza delle forze, è “altra cosa dal bene” e più vicino al male, mentre il secondo in quanto depauperamento e stasi delle forze, è altra cosa dal male e determina le regole morali dando «il massimo valore alla preoccupazione di conservazione», all’arricchimento dell’essere. L’espressione più equivoca del male, del culmine morale, è il supplizio del Cristo in croce: il più grande dei peccati, un peccato illimitato che coinvolge in quanto tale tutti gli uomini, perché ciò che i carnefici di Pilato inchiodarono sulla croce fu il sacrificio stesso, il senso di una ferita che lacerando l’integrità divina – «il supplizio del Cristo reca offesa all’essenza di Dio» – e lacerando ogni essere in quanto colpevole, mette in atto la possibilità di una comunicazione altrimenti impossibile: una notte di morte, in cui il Creatore e le creature insieme sanguinarono, si straziarono a vicenda e si posero in questione sotto ogni aspetto – al limite estremo della vergogna – è stata necessaria alla loro comunione104.

Il culmine morale, il delitto che offende Dio, trova allora il senso dell’amore, della comunione degli esseri nel peccato che li unisce riunendoli al Creatore; una complicazione che mette in gioco l’essere dell’uomo e quello della divinità nel movimento di un dono sacrificale in cui vittima e carnefice si affacciano sul proprio nulla, perché solo scivolando nella morte afferrano ciascuno per proprio conto, e insieme, il loro dio. La mancanza di comunicazione, l’isolamento nel proprio essere intristisce e il malessere della noia interiore genera nella solitudine esteriore l’angoscia di una vita vissuta nella ristrettezza della propria egoità mentre, oltre questa certezza inutile, in rapporto all’io, esiste un esteriore, assenza d’io che è un nulla – “una regione attraverso la quale appaiono gli esseri degli altri” – che non è un mero niente ma, possiamo dire, una dissipazione dell’io, una destrutturazione delle sue certezze e convinzioni, un dispendio di sé che lo apre all’esperienza degli altri. Una comunicazione che non è un desiderio d’unione, che ricondurrebbe ad un es103 G. Bataille, ivi, p. 22. 104 G. Bataille, “Il culmine e il declino”, in Id. Su Nietzsche, cit., pp. 45-71, p. 49.

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sere chiuso, ma una comunialità tra esseri aperti che si mettono in gioco affermandosi nella loro incompiutezza. Essere allora significa, per Bataille, come ha incisivamente evidenziato Klossowski, essere nel peccato, essere colpevole: “non annoiarsi”105. Un violare violarsi che è volere il male, un desiderare la rottura d’ogni integrità dell’essere che si fa istante sovrano, culmine di una morale difficile per la quale non bisogna smettere d’essere responsabili, secondo quella radicalità che nel sacrificio non cristiano faceva assumere il crimine del sacrificio a coloro che ne “reclamavano il benefico”, mentre nel cristianesimo prevale una volontà di liberazione dalla colpa che fa maledire il sacrificio ed esclude il colpevole dalla chiesa. «Il culmine non è subire, è volere il male», cercare una dissipazione di sé che rompe il cerchio conservatore della “morale volgare”, il decalogo delle regole d’interesse che ponendo il fine dell’essere nell’a-venire non ammette la messa in gioco se non per una causa utile. Lo stato, il miglioramento della condizione dei poveri ecc. [Essa non esprime che una stanchezza di cui l’odio più grande ha per oggetto la libertà dei sensi, gli eccessi sessuali – ‘irruzione selvaggia verso un culmine inaccessibile’ – e di cui l’‘esuberanza si oppone per essenza alla preoccupazione per il tempo a venire’. Il culmine erotico, non essendo legato ad alcun merito, ma ben più al biasimo, dipende dalla possibilità, mentre il culmine eroico, raggiunto al prezzo di dure sofferenze, dipende dal merito – benché la fortuna giochi un ruolo importante nel disordine proprio delle guerre.] L’essenza di un atto morale è, per il giudizio volgare, nell’essere asservito a qualche utilità, nel condurre al bene qualche essere, un movimento nel quale l’essere aspira a superare l’essere. Così la morale non si dà più che come negazione della morale106.

Un’equivoco, dice Bataille, nato dalla pratica della contrapposizione di male e bene, di egoismo e altruismo, dalla posizione di leggi e divieti che sbarrano la via al nostro desiderio d’essere, al disordine disinteressato necessario a produrre la vita; pratiche che s’oppongono a quell’aspirazione “ardente e dolorosa” che lo spinge a scrivere, una tensione che è la preoccupazione morale di trovare “un obiettivo il cui valore superi quello tutti gli altri”. Un incommensurabile che è la forma di una trascendenza che, come ha detto Nietzsche, prescinde da Dio così come da un fine morale, dall’utile dello Stato o della Chiesa; è l’esercizio di una “libertà difficile”, la libertà dell’essere, una libertà concreta, contraria ad ogni forma di costrizione. Ma l’esercizio 105 A Padre Daniélou, che controbatte a Bataille come la Chiesa si sia degradata proprio a causa dell’intrusione del peccato, Klossowski risponde sottolineando che il mondo e sì schiacciato dal peccato, ma è incapace di prenderne coscienza, di assumerne la responsabilità e per questo rimane chiuso nella noia, ama il peccato e non vuole riconoscerlo: lo splendore del peccato è completamente assente, «questo mondo è del tutto spento», cfr. G. Bataille, La condizione del peccato, cit., p. 47. 106 Ivi, pp. 26-27.

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della libertà sta dalla parte del male, non come lotta per la propria libertà contro un’oppressione particolare, come conquista di un bene, ma come ciò che di per sé è contrario alla costrizione, esercizio mortale quindi nella misura in cui, come abbiamo visto, solo la morte di sé, la negazione della frammentarietà della vita nei soggetti, dell’individuazione, della paralisi della vita nell’agire specializzato, rivolto a un fine, si fa segno di una vita intera che, in quanto tale, non appartiene che a se stessa. Una totalità, un’integrità che non possiamo acquisire ma soltanto dare, e dare senza tener conto, senza che mai un dono abbia per fine l’interesse di qualcuno. (Ritengo a questo proposito il bene di un altro un falso scopo perché se voglio il bene di un altro lo faccio per trovare il mio, a meno che non lo identifichi addirittura col mio. La totalità è in me questa esuberanza: un’aspirazione vuota, un desiderio doloroso di distruggersi senz’altra ragione che il desiderio stesso – e la totalità lo è interamente – di bruciare. In ciò essa è la voglia di ridere di cui ho parlato, questo prurito di piacere, di santità, di morte […]. Non ha più compiti da assolvere)107.

L’etica umana che Bataille disegna è allora, possiamo dire, una morale dell’incompiutezza che anzitutto vale in quanto impone la messa in gioco radicale del nostro esserci, che vale solo in quanto superamento dell’essere nella comunicazione. Una morale del desiderio e del culmine, dell’annientamento della realtà come totalità compiuta e conoscibile: la percezione nell’esistenza di un senso dell’esistere che è al di là del senso, un non-sense che non indica una forma di negazione, un’azione di soppressione, ma la volontà di affermare che solo in tale consapevolezza è possibile approvare la vita nella sua totalità. Abbandonati il bene e la ragione-senso è l’esperienza cruda della propria nudità che si spalanca di fronte all’uomo; esperienza disarmante, singolare, come quella di Zarathustra la cui danza ritma il movimento di un ritornare in cui ciascun istante, dice Bataille, è in quanto accadere libero e differenziale, immotivato, senza-senso, sottraendo così la totalità della vita all’ordine dei mezzi e dei fini materiali e morali. Questo significa forse rinunciare all’azione? Come conciliare libertà e azione? Come vivere la tensione che ci lega al senso, ma che non respinge anzi guarda, desidera il non-senso? L’arte, la creazione artistica, l’immaginazione poetica e letteraria, nella loro libertà dalla schiavitù del senso e del dovere, abbracciano la totalità solo abbandonando il reale, solo accettando il rischio della solitudine e del silenzio, solo agendo al di fuori dell’azione: ma la libertà, dice Bataille, è nel poter essere uomo totale, sovrano, e l’uomo totale può agire rinunciando da un lato “a darsi come finalità per gli altri” e dall’altro a fare dell’azione un mezzo per i suoi fini, rinunciando alla via d’uscita da una storia finita che promette il nostro compimento. Questo significa che 107 G. Bataille, Su Nietzsche, cit., p. 24.

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la ragione può trovare da sé e in se stessa la forma dell’autolimitazione – «l’azione deve essere limitata razionalmente da un principio di libertà» –, significa che l’azione negatrice che l’uomo mette in atto sulla natura e su di sé non si esaurisce nel possesso e nella conoscenza, perché a partire da quando l’uomo totale (la sua irrazionalità) si riconosce come esterno all’azione, da quando vede in ogni possibilità di trascendenza una trappola e la perdita della sua totalità, avviene la rinuncia, nel campo dell’attività, alle forme del dominio irrazionale (feudali, capitalistiche)108.

In questo senso Bataille richiama l’attacco di Nietzsche alla morale idealista – l’affermazione della necessità di una distruzione dei pregiudizi morali che si opponevano all’emancipazione della vita umana – alla affermazione cioè di quella forma di uomo totale, libero dalle schiavitù morali del passato, uomo sovrano e non di potere, capace di arrischiarsi negli infiniti possibili della vita. Capace di aderire al mondo senza dover ricorrere più alle garanzie della morale e della scienza, vivendo la vita fino in fondo nella consapevolezza della radicale insufficienza che è l’esistenza: «se abbandono le prospettive dell’azione», ci dice Bataille, «mi si rivela la mia perfetta nudità. Sono al mondo senza aiuto, senza appoggio, sprofondo»; l’unica possibilità è all’estremo del possibile, nell’ingresso in quella notte dell’esistenza, del non-sapere che, come il castello di Kafka, è alla fine l’inaccessibile. Un modo d’essere che Nietzsche non ha voluto definire proprio perché definerlo avrebbe voluto dire limitarlo, fissarlo, chiuderlo nella progettualità dell’a-venire, limitare i diritti della vita nell’organicità dell’idea109. Ritornando alle tesi sul peccato e in particolare all’ottava relativa all’affermazione secondo cui i culmini spirituali – le cui premesse sono il rigetto del108 Ivi, nota del curatore, n. 1, p. 31. 109 Proprio questa volontaria non definizione dell’uomo sovrano da parte di Nietzsche, evidenzia Bataille, ha dato luogo a “confusioni abusive”, ad appropriazioni indebite da parte di “certi fascisti” che videro in lui il precursore di Hitler. Occorre allora liberare Nietzsche “dall’onta nazista”: «il procedimento iniziale di Nietzsche deriva da un’ammirazione per i Greci, gli uomini intellettualmente meglio riusciti di tutti i tempi. Nello spirito di Nietzsche tutto è subordinato alla cultura, mentre nel terzo Reich, la cultura, ridotta, ha come finalità la forza militare. Uno dei caratteri più significativi dell’opera di Nietzsche è l’esaltazione dei valori dionisiaci: l’ebbrezza e l’entusiasmo infiniti […]. Nonostante alcune tendenze ben presto represse, il razzismo ammette soltanto valori soldateschi: ‘La gioventù ha bisogno di stadi e non di boschi sacri’ afferma Hitler (mentre) Nietzsche si definisce stranamente come figlio dell’avvenire. Connetteva lui stesso questo nome alla sua esistenza di senza-patria. Effettivamente la patria è per noi la parte del passato, e su di essa, unicamente e ristrettamente su di essa, l’hitlerismo edifica il suo sistema di valori, non porta alcun valore nuovo. Nulla di più estraneo a Nietzsche: il quale afferma di fronte al mondo la totale volgarità dei tedeschi […]. Non c’è nulla di più essenziale all’hitlerismo dell’odio contro gli ebrei. A questo si oppone questa norma di condotta di Nietzsche: ‘Non frequentare nessuno che sia implicato nella sfrontata beffa mistificatoria delle razze’. Non c’è nulla che Nietzsche abbia affermato in modo più palmare del suo odio contro gli antisemiti», G. Bataille, Su Nietzsche, cit., pp. 199-200.

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la sensualità e il primato del futuro sul presente – sono la negazione di una morale del culmine e quindi appartengono alla morale del declino, Bataille osserva che, esaurita l’esuberanza naive, ingenua possiamo dire, propria di un’anima giovanile che predilige il gioco temerario, lo spreco e l’eccesso, quando le forze vengono meno, quando decliniamo, allora ogni nostra azione viene sviluppata in vista di uno scopo, nella ricerca dei mezzi più idonei a risolvere ogni possibile difficoltà presente e futura. In questo senso la stessa prassi ascetica finisce però col non distinguersi più dal lavoro di un negoziante o di un operaio che, ogni giorno, misurano i loro sforzi in vista di un utile o di un salario che li sollevi dal bisogno. Gli esercizi ascetici restano umani, il culmine ascetico è troppo umano; essi restano prigionieri di un esasperante desiderio di salvezza che li chiude nel limite di un fare votato esclusivamente al risultato, mentre il culmine non è un fine, non è «ciò che deve essere raggiunto», così come il declino non è «ciò che bisogna eliminare». Culmine e declino sono invece, in un’ottica che richiama il paradossale binomio Spinoza-Nietzsche, l’espressione di differenti stati intensivi, potenza che intacca la durata dell’essere “denunciando” la pesantezza e la necessità di una morale da sempre compromessa con l’azione. Una morale delle passioni tristi che chiude il ventaglio delle possibilità della vita nella determinazione di un’esistenza mortificata nel giudizio e nel pregiudizio. Culmine e declino si chiamano a vicenda come tratti necessari della nostra avventura esistenziale e se il declinare è l’inevitabile modalità espressiva di un modo d’essere, pensare e agire negativi, il culmine come modalità espressiva di un modo d’essere, pensare e agire “senza ragione e senza pretesto”, risulta a sua volta inaccessibile, impossibile, almeno fino a quando, osserva Bataille – in un singolare rimando alla situazione che lo lega al suo uditorio –, continuiamo ad essere uomini e quindi a parlare. Parlare di una morale del culmine significa infatti essere già in una morale del declino, là dove la pervasività del linguaggio, la tirannia delle regole logico-grammaticali costruiscono un orizzonte trascendente di normatività che giudica e pregiudica la vita: non ci libereremo di Dio finché non romperemo il cerchio della grammatica, dice Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, finché non disarticoleremo l’univocità di un senso affidato alla perfezione di un linguaggio nozionale che, mentre dice, significa il mondo cancellandone l’essere110. Il linguaggio, come 110 Cfr. F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, in Id., Opere, cit., vol. VI, tomo III. Discutendo dello “spazio letterario” in Bataille, R. Ronchi evidenzia il particolare rapporto che lega linguaggio e comunicazione a partire dalla paradossalità di un esserci finito e imperfetto che, pur se indicibile e impensabile, è però, in quanto tale comunicabile. «Più precisamente si comunica senza dirsi in un gesto di scrittura. Questo comunicarsi è anzi la sua natura, il suo essere eccedente i limiti e la giurisdizione del logos parmenideo»; ed è proprio in questa lacuna del logos che si rende possibile «ogni nostro scambio significativo con l’altro», una comunicazione assoluta e sovrana «che non si lascia pensare, non si lascia dire, ma si scrive», si mostra nella sua radicale «differenza dal detto». Si delinea così in Bataille un’etica della scrittura: «nella sua estraneità costitutiva al lavoro insensato della civiltà, in

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spesso Bataille ripete, è manchevole, incapace di esprimere/comunicare l’orizzonte del dispendio, della non-proprietà, quindi della non-identità, lo spazio indefinibile della sovranità, di una complicità che non può essere detta, fissata, ma solo vissuta nella condizione di una vacanza che è assenza di senso e di identità. Per questo occorre aprire le nozioni, destituire la logica proposizionale dal suo privilegio a favore, direbbero Deleuze e Guattari, di un antilogos, una logica altra in cui «la differenza è il vero logos ma il logos è l’erranza che sopprime i punti fissi», che scardina l’immagine dogmatica che lavora nel pensiero classico, preferendo al modello il simulacro, che non è esattamente una “pseudo-nozione” poiché in quanto tale funzionerebbe ancora come polo di riferimento e quindi come indice d’errore nella dinamica proposizionale. Il simulacro è il segno di uno stato istantaneo che non permette il passaggio da un pensiero all’altro; «è ciò che noi sappiamo di un’esperienza» che non ha però come oggetto «la comunicazione intelligibile della nozione», ma «la complicità, i cui motivi non sono neanche determinabili né cercano di determinarsi». L’“uso” del simulacro non spiega ciò che accade in questa complicità, sostenendo così il senso di un’assenza, l’esperienza vissuta di una vacanza dell’io (coscienza senza-sostanza) e di Dio come suo garante, un non-pensiero non riconducibile ad alcun enunciato esperienziale che arriva all’altro, alla coscienza dell’altro che però continua, in quanto “natura identica”, essere chiuso, «a far riferimento ad un registro di nozioni basato sul principio di contraddizione, dunque dell’identità dell’io, delle cose e degli esseri»111, identità, integrità, che gli permettono di operare la distinzione tra bene e male. questa sua essenziale inoperosità, risiede la sua potenza sovrana: non servendo a nulla, nemmeno a divertire, essa risveglia ad un desiderio, ad una ossessione che deve essere punto di ispirazione e di legittimazione per la stessa ragione progettante», R. Ronchi, “Un’ontologia dell’eccesso”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 89-103, pp. 100-103. 111 P. Klossowski, La rassemblance, Paris 1984, trad. it., La Rassomiglianza, Sellerio, Palermo 1987, p. 20. Cfr. Id, Le leggi dell’ospitalità, cit., dove Klossowski fa risalire la considerazione positiva del simulacro alla tradizione ermetica, alla posizione cioè del simulacro quale potenza simulatrice-creatrice, potenza demoniaca di una natura intermedia tra gli dei impassibili e gli uomini assoggettati alla passione; una natura contraddittoria, ma necessaria per l’uomo di fronte alla insondabile ed inaccessibile perfezione della divinità. Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, cit., in particolare il saggio “Renverser le platonisme”, lì tradotto come “Platone e il simulacro”, pubblicato precedentemente in Revue de métaphysique et de morale, 4, 1967, dove a Platone viene fatta risalire la genesi del pensiero rappresentativo, che facendo perno sull’unità della coscienza e su quella di fondamento, disegnerà, con la logica aristotelica prima e con il cristianesimo poi, la riflessione filosofica fino a quella dichiarazione di guerra che Nietzsche lancia, nel Crepuscolo degli idoli, ai modelli e alle copie, quando il simulacro, la più alta potenza del falso, fa cadere il Medesimo e il Simile facendo dell’eterno ritorno il cerchio eccentrico di un divenire senza inizio né fine. «L’eterno ritorno è quindi sì il Medesimo e il Simile, ma in quanto simulati, prodotti dalla simulazione, dal funzionamento del simulacro (volontà di potenza). In questo senso esso rovescia la rappresentazione, distrugge le icone: non presuppone il Medesimo e il Si-

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Eliminando la presa di qualsiasi identità – io, coscienza, Dio – il linguaggio del simulacro non risponde più all’essere che appare come ciò che eternamente fugge l’esistente: di colpo «l’esistenza ricade nel discontinuo dove non aveva mai smesso di ‘essere’», dove il bene e il male non sono più discernibili. È allora proprio la non-nozione di peccato, in quanto violazione di ogni identità, il nucleo paradossale di un’istanza comunicativa che non comunica se non la propria impossibilità; un’apertura di cui non potremo/sapremo dare/dire «niente altro che il suo simulacro». Ma proprio in questa direzione la riflessione di Bataille, osserva Klossowski, potrebbe confondersi con quella di Heidegger là dove questi, assumendo una sorta di responsabilità rispetto ad un “esistente” che si ignora come discontinuo e si racchiude nell’incuranza di ogni percezione dell’essere in quanto essere, sente l’esperienza dell’angoscia come possibile reimmissione verso il punto d’origine, nella direzione di quella domanda fondamentale che segna la scaturigine del pensare filosofico. Ma in Bataille il discontinuo diventa il motivo di una rivolta, nel nome stesso della fuga dell’essere, contro l’esistente utilmente sfruttato e organizzato per sé, ivi compresa la filosofia112,

quella stessa di Heidegger, che legata ai risultati rimane un lavoro “professorale” che vuole recuperare, ricomporre, dunque rimanere in quello stesso percorso metafisico che pretendeva decostruire e oltrepassare. In Bataille la “catastrofe ontologica” del pensiero è allora l’esatto contrario di quella dépense incommensurabile che non pretende recupero, ricomposizione, risposta, è rivolta «nel nome stesso della fuga dell’essere, contro l’esistente utilmente sfruttato e organizzato per sé, ivi compresa la filosofia», rivolta contro una riflessione opposta alla sovranità del pensare. Possiamo allora riandare, ancora una volta, all’esperienza del decostruzionismo francese e in particolare al pensiero della differenza di Gilles Deleuze là dove in relazione alla filosofia platonica si scopre la potenza positiva del simulacro come puro divenire, puro evento capace di negare il gioc/go non solo del modello ma anche delle copie mettendo così in discussione ogni idea d’origine o fondamento ed esibendo il divenire sovversivo e differenziale della vita. Ciò che è messo in discussione è tutto il mondo della rappresentazione o ri-presentazione (re-présentation dove la particella reiterativa re indica la forma concettuale dell’identico), il mondo del medesimo, dell’Idea, del Senso, della Verità e dell’Io quale suo principio generale, che si è imposto nella riflessione filosofica a svantaggio della differenza, della vita nella sua paradossale, ma ineludibile pluralità: mile, ma costituisce anzi il solo Medesimo di ciò che differisce, la sola somiglianza del dispaiato» facendo della divergenza e del decentramento il senso di un’affermazione superiore. Ivi, p. 233. 112 P. Klossowski, La rassomiglianza, cit., pp. 24-26.

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il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione, come dalla perdita delle identità e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell’identico. Il mondo moderno è il mondo dei simulacri. In esso l’uomo non sopravvive a Dio, l’identità del soggetto non sopravvive a quella della sostanza. Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un ‘effetto’ ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione113.

In quest’ottica il simulacro è segno dell’u{briß artistica, di quella passione per/della vita che ci parla attraverso l’opera, una mistificazione positiva direbbe Nietzsche, che è la condizione stessa di una vita che è inestricabile e inspiegabile connubio di gioia e dolore, di piacere e sofferenza e che il lavoro del pensiero/Logos e la forza mistificatrice di una volontà buona, che hanno trovato nel buon senso e nel senso comune gli strumenti del loro agire, non hanno mai smesso di celare sotto l’armonia e la calma del volto di Apollo. Ne deriva una critica radicale dell’“immagine dogmatica” del pensiero che ha nel volere, nel riconoscere e nel fondare le sue cifre; quella immagine che da Platone in poi ha scelto, selezionato e misurato l’esistente separando l’autentico dall’inautentico, le copie ben fondate, perché dotate di una somiglianza interna col modello, dai simulacri, falsi pretendenti, sofisti che minacciano l’identità del modello/Socrate. Eventi che sconvolgono il cerchio del tempo/Kronos-Chosmos, il divenire eterno delle somiglianze, in una storia che è solo una rappresentazione omogeneizzante e organica del divenire. Il simulacro è allora la forma di ciò che è – l’essente –, di ciò che si ripete senza rispondere ad alcuna identità prestabilita, di ciò che per sé è senza possibilità di distinzione e selezione. Solo là dove l’essere si dissemina differendo nei simulacri, solo là dove si ripete differenziandosi, solo a questo patto la differenza è pensata in se stessa e non rappresentata o mediata114.

Solo a patto di rinunciare al fondamento, alla verità, alla determinazione del sapere, il pensiero è di nuovo possibile, la filosofia è possibile; solo entrando nel paradossale gioco nietzscheano dell’eterno ritorno il pensiero si pone di fronte allo s-fondamento universale, a quell’Ungrund in cui risuona la voce dello Straniero, il nomade, che definendo il sofista non lo distingue più da Socrate, innescando una violenza del Logos che apre al pensiero nuove possibilità. Sarà questo il valore dell’esperienza interiore che è principio a se stessa, che non ha fini diversi da sé, il senso di un “viaggio” possibile solo se si suppone «la negazione delle autorità, dei valori esistenti che limitano il possibile». Ma l’u{briı del simulacro sfugge a qualsiasi insegnamento, la differenza si perde nel “lavoro professorale” di Heidegger, mentre occorre un non-sapere,

113 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 3-4 114 Ivi, p. 116.

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una “rivolta” filosofica contro il mondo del lavoro e della presupposizione. Un sapere altro che non trasforma il mondo chiudendo così l’interrogativo originario che muove ogni pensare, ma che tiene aperta quella piega dell’essere che segna la fine della servitù dogmatica del pensiero logocentrico e l’affermazione di una forma del pensare e di un modo di vita che Deleuze ha trovato “prefigurati” nella filosofia dell’essere-espressione di Spinoza e nella genealogia nietzscheana, là dove, osserva Klossowski, nel commentare una sentenza di Spinoza (non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere), Nietzsche fa notare che la pretesa serenità dell’intelletto non si stabilisce nel tipo di armistizio tra due o tre impulsi contraddittori, quando ogni atto di conoscenza ‘dipenderebbe sempre dal comportamento di questi impulsi che sapranno benissimo farsi sentire tra loro e procurarsi vicendevolmente del male’ finché ‘quel forte improvviso sfinimento […] che spiega come il pensiero consapevole, e particolarmente quello dei filosofi, sia il più svigorito di forze’115.

Le esperienze sovrane del riso, dell’angoscia, dell’eccitazione erotica e sacrificale sono allora per Bataille le cifre di un pensiero incoerente, eccessivo e di un linguaggio a-logico, che non si faranno mai discorso filosofico, prassi appropriativa di una metafisica che ha eliminato l’estraneo a sé, l’incompatibile, lo smisurato, il non utile, riducendo e ordinando il reale nel concetto per prenderlo. Esperienze che mutano/alterano radicalmente il soggetto, rompono la sua identità mostrandone l’interna discontinuità, lacerando così la trama del nostro esserci, aprendo un passaggio possibile e «agevole dalla filosofia del lavoro – hegeliana e profana – alla filosofia sacra espressa dal ‘supplizio’, ma che suppone una filosofia della comunicazione, più accessibile»116. Quel culmine morale possibile nell’esperienza della perdita di sé, nella violenza e nella dispersione dell’integrità dell’essere, che apre al nulla, dice Bataille, che è in noi come negazione, un vuoto d’essere, un non-sense, un non-agire in cui siamo indipendenti dal progetto di una vita perfettamente e completamente concepibile, che si mostra come un modo d’essere in cui, paradossalmente, l’azione è «il rimando dell’esistenza a più tardi», in cui la vita è sospesa, rimandata a più tardi. Ed è proprio questa dilazione dell’azione che Bataille riscontra, in polemica con Breton, nella critica ad un’avanguardia che nel tentativo di superamento della categoria artistica riduce/adegua, nell’ottica della dialettica hegeliana, il movimento di decomposizione, l’eversività dell’azione, alla compiutezza del progetto, restaurando i diritti di un assoluto e di una trascendenza che ignorano il negativo. In questo senso Bataille pensa l’esperienza interiore come “movimento” capace di opporsi, di disfare il campo stesso del progetto, come capacità della stessa ragione di «disfare la sua opera, di abbattere ciò 115 P. Klossowski, La Rassomiglianza, cit., pp. 27-28. 116 G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 135.

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che ha edificato», di andare con un piccolo scarto dei progetti oltre il mondo spento e calmo in cui il pensiero discorsivo ci trascina. In questa direzione, ci dice, si muove il suo impegno a disfare la Fenomenologia hegeliana, “una filosofia del lavoro”, in cui l’uomo si completa adeguandosi al progetto. L’ipse che deve divenire tutto non fallisce, non diventa comico, insufficiente, ma il particolare, lo schiavo impegnato sulle vie del lavoro accede dopo molti meandri, alla vita dell’universale. Il solo intoppo a tale modo di vedere (del resto, di un’ineguagliata profondità, in qualche modo inaccessibile) è ciò che nell’uomo è irriducibile al progetto: l’esistenza non discorsiva, il riso, l’estasi, che legano – da ultimo – l’uomo alla negazione del progetto che egli è – tuttavia l’uomo sprofonda per ultimo in una cancellazione totale di ciò che egli è, di ogni affermazione umana117.

E Hegel deve aver toccato questo estremo, deve aver scorto il non-senso alla fine del compimento; ma era giovane e per fuggire all’angoscia e alla distruzione ha volto le spalle, ha elaborato il sistema – «in ogni tipo di conquista, indubbiamente, vi è un uomo che sfugge una minaccia» – e annullato quell’abisso, il negativo che fa paura, ma che ci fa liberi esponendo il gioco della morte con la vita118. Come osserva Mario Perniola, Bataille non oppone dialetticamente progetto e azione, teoria e prassi, ma le intende come differenti articolazioni di una stessa struttura in cui l’azione, anziché sottomettersi/eseguire il progetto ne assume criticamente il senso per smascherarne le contraddizioni, i limiti di un sapere assoluto e di un io che si fa assoluto divenendo tutto. Contraddizioni da cui può nascere l’esperienza del non sapere […] l’esperienza del negativo, della finitudine, dell’imperfezione; non è la mera ignoranza, ma semmai la conoscenza dei limiti del sapere e dell’esistenza, l’accettazione gioiosa ed estatica di essi, il punto in cui la disperazione e l’angoscia per la propria morte, per l’incompiutezza e la provvisorietà della propria prospettiva storica scivolano e si capovolgono nella decisione di essere senza indugio se stessi, di identificare mezzi e fini, di fondare su nulla la sovranità della rivolta119.

Una tale esperienza, l’esperienza interiore, rimane fuori di qualsiasi progetto, è principio a se stessa, “autorità”, dice Blanchot, che non ha risposta, 117 Ibidem. 118 «Allorché il sistema si chiuse, Hegel credette per due anni di diventare pazzo: forse ebbe paura di aver accettato il male – che il sistema giustifica e rende necessario; o forse, collegando la certezza di aver raggiunto il sapere assoluto con il compimento della storia – con il passaggio dall’esistenza allo stato di vuota monotonia – si è visto, in un senso profondo, diventare morto; forse, anche, queste tristezze diverse si componevano in lui nell’orrore più profondo di essere Dio. Mi sembra tuttavia che Hegel, al quale ripugnava la via estatica (la sola risoluzione retta dell’angoscia), dovette rifugiarsi in un fondo vano, di equilibrio e di accordo con il mondo esistente, attivo, ufficiale», ivi, p. 175. 119 M. Perniola, Bataille e il negativo, cit., p. 15.

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operazione sovrana che contestando l’esperienza ordinaria non ha «dominio, impero, durata» ed è segno nel suo pensiero di uno spaesamento, una “confusione”, di una “interferenza” nella sua opera che – rispetto ai suoi interlocutori, “esseri chiusi” cristiani o umanisti – non rende più possibile distinguere bene e male, tra la nozione e il proibito, tra la nozione e il peccato, tra la nozione e l’identità, prima ancora che egli stesso abbia una nozione della perdita di identità come costitutiva del peccato120,

perché l’apertura degli esseri è possibile solo nella messa in campo di un simulacro di nozione121. Per questo parlare di morale del culmine, dice Bataille, è cosa comica; farne un fine dell’azione significa infatti ridurla nell’alveo dell’utile, entrare quindi nel declino. Ma declinare è inevitabile così come il culmine è inaccessibile nella misura in cui pretende uno smisurato dispendio di forze, una vita che, al limite, è impossibile; non per questo però dobbiamo rinunciarvi, non per questo dobbiamo soffocare il desiderio, non per questo dobbiamo negare il presente nella preoccupazione del futuro – e il pensiero e il linguaggio «si disinteressano del presente e continuamente gli sostituiscono il futuro» –, perché solo mantenendo aperto l’interrogativo morale l’autonomia che ci accompagna attraverso le conquiste del sapere incontra la libertà del silenzio che vive in quel domandare estatico ed erotico che non ha mai risposta, perché dissipa ogni nostra pretesa di certezza. È proprio nel pericolo di vivere oltre le preoccupazioni del sapere, al di là delle condizioni del fare, contro l’utile e l’interesse, che non ci si allontana dal culmine: i rapimenti dell’estasi e gli ardori di Eros sono altrettante domande – senza risposta – alle quali sottomettiamo la natura e la nostra natura. Se sapessi rispondere all’interrogazione morale […] mi allontanerei decisamente dal culmine. È solo lasciando aperta dentro di me, come una piaga, l’interrogazione, che conservo una chance, una possibilità d’accesso verso di esso122.

120 P. Klossowski, “Estratto delle tesi fondamentali”, in G. Bataille, La condizione del peccato, cit., pp. 23-31, p. 31. 121 Così Bataille evidenzia l’importanza di Blanchot nel suo pensiero: «conversazione con Blanchot. Gli dico: l’esperienza interiore non ha fine né autorità che la giustifichino. Se faccio saltare, scoppiare la preoccupazione di un fine, di un’autorità, sussiste almeno un vuoto. Blanchot mi ricorda che fine, autorità sono esigenze del pensiero discorsivo; io insisto, descrivendo l’esperienza nella forma data in ultimo luogo, chiedendogli come creda ciò possibile senza autorità né altro. Mi dice che l’esperienza stessa è l’autorità. Aggiunge, a proposito di tale autorità, che deve essere espiata», L’esperienza interiore, cit., pp. 9697. Sull’amicizia che ha legato Bataille e Blanchot e sul ruolo che quest’ultimo ha avuto nella composizione de L’esperienza interiore cfr. il saggio biografico di C. Bident, Maurice Blanchot. Partenaire invisible, Champ Vallon, Seyssel 1998. 122 P. Klossowski, “Estratto delle tesi fondamentali”, cit., p. 31.

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È proprio il rischio implicito nell’accettazione/scelta della chance che spinge l’uomo ad odiare se stesso, a disprezzare e a temere quei “sentimenti” rari che s’innalzano sopra tutto ciò che è, come dice Nietzsche, troppo umano, terra-terra, scialbo, falso. Volontà di chance del fanciullo, principio aperto del gioco, un sì sacro che afferma l’evento, che supera i “limiti dell’essere” liberando l’azione dal giogo dell’agente, così come da quello di ogni altro esistente, ponendo la vita fuori dalla “fase dei padroni”.

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LA TALPA E L’AQUILA

La terra è bassa, il mondo è mondo, l’agitazione umana è almeno volgare, e forse inconfessabile: è la vergogna della disperazione icariana. Ma alla perdita della testa, non c’è un’altra risposta: un ghigno grossolano, ignobili smorfie… È scavando la fossa fetida della cultura borghese che si vedranno forse aprirsi nelle profondità del sottosuolo i sotterranei immensi e sinistri dove la forza e la libertà umana si stabiliranno al riparo di tutti gli attenti! Del cielo che ordina allo spirito di qualsiasi uomo la più imbecille elevazione. G. Bataille, La “vecchia talpa”

Facendo esplicito atto di déprise dallo “spirito troppo calmo” del movimento surrealista, lo scontro di Bataille con Breton – la cui preoccupazione per l’esteriorità fa arrestare la sua ricerca alla trascendenza1 degli oggetti che hanno valore – nasce, soprattutto, come contrasto per la lettura dell’opera di D. A. F. de Sade, portando al distacco, alla rottura di un’“amicizia” che troverà la sua maggiore enfasi nella pubblicazione, da parte di Breton, del Secondo manifesto del movimento surrealista (1930) e nella partecipazione di Bataille ad un pamphlet, con la pubblicazione del saggio Un cadavre e degli arti-

1

Cfr. G. Bataille, “Appendice” in Id., Su Nietzsche, cit., pp. 195-218, in particolare la parte VI, “Surrealismo e trascendenza”, p. 218. Particolarmente indicativo del rapporto «tra Breton e Bataille, tra il surrealismo e la sua trasgressione» è il saggio di M. Perniola Bataille e il negativo, in particolare il § 2 “Trasgredire il surrealismo”, ripubblicato in Id., Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille, cit., pp. 23-135. Sottolineando la complessa alternanza dialettica di amicizia-inimicizia che ha segnato la relazione fra i due pensatori, Perniola chiarisce che se oggi la loro posizione appare diversa «tanto sul piano filosofico generale che rispetto ai tre problemi fondamentali dell’avanguardia: l’arte, il gruppo, la rivoluzione. Ciò che li accomuna è ovviamente il rifiuto della situazione esistente, della società di classe, dell’economia, dello stato, in una parola della virilità borghese, ma essi concepiscono questa rivolta in modo sostanzialmente diverso: per Breton si tratta di opporre ai falsi valori della borghesia i veri valori della società liberata, di opporre al falso positivo, rappresentato dall’autorità, dalla logica formale, dalla morale tradizionale, il vero positivo della comunità umana, della dialettica, della morale rivoluzionaria; per Bataille invece si tratta di opporre al positivo (vecchio o nuovo che sia) il negativo della lotta di classe, del non-sapere, del desiderio», ivi, p. 54.

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coli “Il valore d’uso di D. A. F. de Sade” e “La vecchia talpa e il prefisso su nelle parole surrealista e superuomo”, che aprono il Dossier contro Breton. Dopo la collaborazione al numero 6 della rivista “La Révolution surréaliste”, dove pubblicò una serie di Fatrasies trascritte in francese moderno, lo scontro con Breton si acuì, sfociando nel 1929 nella fondazione della rivista Documents2 (1929-1930) a cui collaboravano surrealisti dissidenti, come Leiris e Desmos, e intellettuali e studiosi di diversi campi disciplinari e differenti orientamenti culturali. Conservatori e spiriti liberi accomunati da un intenso anticonformismo, dal desiderio, proclamato da Bataille, di decostruire radicalmente il formalismo classico e la logica composita e risolutiva che governavano il sapere e le sue produzioni. Una forma di pensiero e un modo d’essere che soffocano le potenze disgregatrici della vita, quelle esperienze del negativo – la morte, la malattia e ogni forma di degradazione – e dell’irrazionale/passionale mondo dionisiaco dell’ebbrezza e dell’eros che sentiamo/vediamo mormorare/apparire sotto le forme armoniose e calde di quel fiore che, ne Le langage des fleurs, il marchese de Sade sfoglia, gettandone i petali nel liquame di una fogna. Un gesto il cui senso è nell’essere, nello stesso tempo, un invito e una provocazione che il marchese De Sade rivolge ai suoi contemporanei, quando in Français, encore un effort si vous voulez être républicain3 poneva come passo necessario, dopo il fatto della Rivoluzione, quello di una completa negazione delle istanze borghesi che proprio in essa si andavano affermando. Un gesto/invito che richiama, nella sua essenza simbolica, la polemica batailleana contro l’alto, che domina gli scritti degli anni trenta, e che si inscrive nella prassi etico-politica dell’impossibile, attraverso un’azione di decostruzione del linguaggio politico – messa in atto in un percorso che coinvolge il marxismo, la psicoanalisi e la sociologia francese – agita contro l’arroganza teorica dell’alto. L’intento è quello di rivendicare la dignità ontologica del basso opponendo alle diverse forme di idealismo, anche quelle più rivoluzionarie poste in campo dalle avanguardie e dal surrealismo, una forma di materialismo che, nel segno di Sade, si sviluppa in una vera e propria eterologia che procede secondo due livelli distinti e complementari. Da un lato come riflessione antropologica e esistenziale, attraverso l’esperienza soggettiva del limite e della trasgressione e, dall’altro, come analisi socio-economica dove l’esperienza del limite e della trasgressione, viene trasposta nelle contrappo-

2

3

Emblematico dell’ambiente eteroclito, che si compone attorno a Documents, è il sottotitolo della rivista, Doctrines Archéologic, Beaux-Arts, Ethnographie, finanziata da un mercante di quadri. La rivista comprende 15 numeri ed è pubblicata nel vol. I delle Œ. C., trad. it., parziale in Id., Documents (1939-1930), cit. L’intera raccolta degli articoli è stata ripubblicata in D. Hollier (cur.) Documents, Jean Michel Place, Paris 1991. Cfr. D. A. F. De Sade, Français, encore un effort si vous voulez être républicain, trad. it., Francesi ancora uno sforzo!, Guaraldi, Rimini 1973.

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sizioni di utile e dispendio, omogeneo ed eterogeneo, aquila-borghese cifra del pensiero capitalistico/idealista e talpa materialista cifra della visione materialistico dialettica della storia. L’immagine cupa, “sporca”, del vecchio marchese che violenta il candore della rosa gettandola nel liquame delle fogne scuote la sensibilità poetica di Breton, che vede invece in quel gesto il segno di una volontà di liberazione del sentimento dalle catene di una poetica che fa di un fiore, «nella misura in cui ognuno lo può offrire, il veicolo brillante dei sentimenti più nobili come dei più bassi»; una rivolta contro “l’idolo poetico” quindi che non sfocia però tout court, come vorrebbe Bataille, nella contestazione dei valori dell’alto. Una lettura che mira a recuperare l’opera di Sade – epurando i suoi testi a livello di finzione letteraria – inserendo i suoi scritti, «e con essi il personaggio dell’autore al di sopra di tutto (o quasi) ciò che è possibile opporre loro». Un’operazione, commenta Bataille, che rende il comportamento di questi “apologisti” simile a quello dei sudditi primitivi nel riguardo del re che adorano esecrandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente. Nel caso più favorevole, l’autore di Justine è effettivamente trattato come un corpo estraneo qualsiasi, vale a dire che egli non è oggetto di un trasporto di esaltazione che nella misura in cui questo trasporto ne facilita l’escrezione (l’esclusione perentoria)4,

trattandolo come un qualsiasi oggetto, un corpo estraneo, da prendere/ingerire, usare/digerire, gettare/espellere per omologarlo, ordinarlo nella perfetta adeguazione a quello spirito di razionalizzazione della vita che dalla “visione d’idee” della teoresi platonica culmina nella violenza del sistema hegeliano che, dialetticamente, risolve, lavora, il negativo, l’estraneo, l’esteriore, nella perfetta omogeneità e trasparenza dello spirito assoluto. Un movimento che assimila la linfa vitale dell’essere conformando il divenire ai suoi canoni e, allontanando perentoriamente tutto ciò che non è assimilabile, innesca quel processo di immunizzazione e autoimmunizzazione che definisce, come sottolinea Roberto Esposito, la comunità sotto il segno del proprium. E questa è per Bataille la stessa operazione che Breton e i surrealisti hanno messo in atto nei confronti di Sade e della sua opera, un’appropriazione che riducendone il senso «al valore d’uso volgare degli escrementi, nei quali non si ama molto spesso che il piacere rapido (e violento) di evacuarli e di non vederli più», ha messo tra parentesi la potenzialità etica e politica presente nella forma oltraggiosa di una trasgressione letteraria inconciliabile col mero valore d’uso volgare.

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G. Bataille, “Le valeur d’usage de D. A. F de Sade”, in Id., Dossier de la polémique avec Breton, in Œ. C., cit. vol. II, trad. it., “Il valore d’uso di D. A. F. de Sade (Lettera aperta ai miei attuali compagni)”, in Id., Critica dell’occhio, cit., pp. 119-135.

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Perché il “sadismo” non è solo esposizione violenta del negativo, ma anche presa di posizione contro tutto ciò che opera per una limitazione, per una “correzione” del negativo, nella misura in cui si oppone alla sua irruzione, mentre è proprio in questa cruda visione della nostra realtà che la triste necessità sociale, la dignità umana, la patria, la famiglia, i sentimenti poetici appaiono senza alcuna maschera e senza alcun gioco di ombra o di luce […] è infine possibile vederci altro che delle forze subordinate: tanti schiavi che lavorano vilmente a preparare belle eruzioni tonitruanti, le sole capaci di rispondere ai bisogni che tormentano le budella della maggior parte degli uomini5.

È in queste espressioni perverse e violente – che decostruiscono per un verso l’immagine dell’uomo prodotta da un’antropologia umanistico-illuminista e, dall’altro, l’idea di una soggettività cartesianamente certa e trasparente – che è possibile cogliere quello stato di subordinazione delle forze ormai pronto ad implodere riconvertendo l’attitudine alla schiavitù in una libera e incontrollata eruzione del desiderio. Un mondo oltraggioso e oltraggiato quello sadeano che i surrealisti hanno “curato” filtrandolo attraverso la positività dell’artificio letterario e della creazione poetica, una immunizzazione che “libera” però l’opera sadeana da qualsiasi possibile com-promissione sul terreno della pratica politica: è l’incapacità di sostenere/portare il negativo che attraversa la vita in una radicalità che impegna fino alla distruzione, l’incapacità dell’avanguardia e del surrealismo di trasgredire i valori e le strutture del pensiero e della società borghesi. Così la forza eversiva dell’arte sadeana, e dell’arte in generale, è recuperata nell’ordine del discorso, convertita in strategia del potere; chiuse nelle maglie di un Significante che cancella la loro originaria vocazione alla rivolta, riconducendo l’ignoto nella calma familiarità di un reale addomesticato nella conoscenza, la letteratura, e l’arte in generale, non arrivano se non ad una “sovranità minore”, un’autonomia che somiglia a quella dei bambini, dice Bataille, che sono “sovrani nei loro limiti”, incapaci di cambiare il mondo, di “contestare l’impero dell’attività”. È per questo che l’idea di una rivoluzione a partire dalla poesia, di una carica rivoluzionaria propria della parola poetica, rende quest’ultima mero strumento al servizio di una prassi che le sottrae sovranità: la poesia è condannata all’inserimento nella misura in cui rivendicando – come vuole l’avanguardia surrealista – una funzione sociale positiva si fa progetto storico identificandosi così con quello stesso potere/gerarchia che vorrebbe contestare. In questo senso Bataille, fin dagli anni ’30, mette in discussione lo stesso superamento dell’arte – nel senso dell’Aufhebung hegeliana – promossa dal surrealismo, sottolineando come questa, insieme alle esperienze del riso, del-

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Ivi, p. 121.

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l’estasi e dell’erotismo, è sempre implicata col negativo, un assolutamente eterogeneo che non conosce possibile “commercio”, seppur dialettico, col mondo omogeneo dell’attività economica, scientifica e politica, ma solo la radicalità di un impegno decostruttivo di tutto ciò che è alto, mentre il surrealismo, e per estensione l’intera avanguardia, concepiscono la loro rottura col mondo borghese ancora come un’avventura icariana, aristocratica, esemplare: i surrealisti trasformano il basso in alto, l’incosciente in tesoro poetico, Sade in un idealista moralizzatore6.

Al superamento che restaura hegelianamente il diritto del positivo, risolvendo il negativo nel rigore del sapere assoluto, Bataille oppone il movimento della trasgressione come presa in carico e valorizzazione del negativo, come affermazione dell’immanenza della verità, del presente sul progetto; come forma di un pensare altro che vuole la vita, quel “disordine” che in Hegel non è diventato altro che «un ordine che si nasconde, questa notte è la maschera del giorno!»7. Così è l’esperienza interiore – “la vita fuori di sé” – il modo di una comunicazione che è capace di uscire dall’impasse del superamento della prassi rivoluzionaria posta in campo dall’avanguardia surrealista senza cadere, come osserva Perniola, nel falso movimento di una parola poetica che, soddisfatta di sé, pretende il riconoscimento della sua regalità, e non prova ad andare oltre il mondo, oltre l’ombra di Dio, oltre se stessa. Mentre sono l’estrema solitudine, il non-riconoscimento, la cancellazione di sé, la rinuncia al tema e al progetto, che innescano la possibilità di un’intimità col mondo e con gli esseri, un legame d’uguaglianza nella differenza, che spezza il cerchio della conoscenza, il peso di una dialettica appropriante che oggettiva uomini e cose riducendoli nella scala dell’utilizzabilità. Riconoscendoli all’interno di una prassi economica che li valorizza solo in quanto mezzi, mera merce di scambio da misurare e ordinare, privati, dunque, di tutta quella dimensione propria dell’eterogeneo, del qualitativo, dell’inessenziale, che vive oltre il piano delle individualità prodotte nella logica identitaria dell’occidente. Di fronte all’incapacità surrealista a sostenere/riconoscere il negativo Bataille dichiara la necessità di un concreto impegno intellettuale per un futuro, possibile solo nella consapevolezza di una ineludibile immanenza del negativo – un’ombra, quella della morte che, come ha sottolineato Michel Surya8,

6 7 8

M. Perniola, Philosophia sexualis, cit., p. 25. G. Bataille, “L’Al di là del serio”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille, L’Al di là del serio e altri saggi, cit., pp. 137-147, p. 140. Cfr. M. Surya, Georges Bataille, la mort à l’œuvre, Gallimard, Paris 1992. Per quanto riguarda il tema della “negatività senza impiego” cfr. quanto dichiara Bataille, riferendosi a sé, nella “Lettera a X incaricato di un corso su Hegel”, precedentemente citata dall’edizione posta nella traduzione italiana de Il colpevole. Citiamo qui dall’edizione integrale della lettera pubblicata in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 111-115, in cui, rispondendo a Kojève, due giorni dopo la conferenza tenuta al Collegio di Sociologia il 4

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vuole ri-mettere all’opera, in quanto pura “negatività senza impiego”, desiderio sottratto alla circolarità compiuta, all’“omologazione” costruita dal discorso storico, un fare aneconomico che contesta la fine della storia che s’annuncia nella perfetta conciliazione del Saggio col dato, nella contemplazione di chi «si affida all’essere senza riserve» andando pacificamente incontro ad un reale che si rispecchia in lui – e quindi dell’impossibilità di restaurare una qualche trascendenza, sia anche quella di una sacralità svuotata dalle religioni della sua essenziale ambivalenza. Anche se, dichiara Bataille nel Sur Nietzsche, non si può dubitare della «volontà di immanenza» che anima il desiderio di trasgressione del surrealismo e dell’intera avanguardia artistica, tuttavia, tale spinta, “forse”, ha lasciato troppo presto gli oggetti, ha sostituito i vecchi valori con altri valori concepiti, a loro volta, come superiori e trascendenti. Un tradimento della spinta dal basso, un misconoscimento delle forze del negativo che, invece, co-involgono l’intera esistenza in quanto «situata al di là del senso», in quanto libera affermazione del non-senso che la illumina, e che rendono l’uomo cosciente del fatto che «non ha altro da fare se non essere quello che è», che non deve più mettere qualcosa al di sopra di sé. Al contrario la pretesa dell’avanguardia di superare il vecchio mondo pone un dover-essere che la trasforma in legittima erede di questo, in garante dei valori, in depositaria di un sapere assoluto, in direzione cripto-burocratica. Il superamento è per Bataille sempre elusione del negativo, restaurazione della trascendenza: la vecchia talpa rivoluzionaria non procede ascensionalmente verso l’apoteosi, ma per sbieco, in un negativo che nessuna dialettica potrà mai trasformare9.

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dicembre del 1937, Bataille dichiara: «se l’azione (il ‘fare’) è – come dice Hegel – la negatività, il punto è sapere se la negatività di chi non ‘ha più nulla da fare’ venga meno o sussista allo stato di ‘negatività senza impiego’: personalmente non posso decidere se non in un’unica direzione, giacché proprio io stesso sono questa ‘negatività senza impiego’ (né potrei definirmi con maggior precisione). Riconosco che Hegel ha previsto siffatta possibilità; tuttavia egli non l’ha posta alla fine dei processi che ha descritto. Immagino che la mia vita – o, meglio ancora, il suo aborto, la ferita aperta che è la mia vita – costituisca di per sé la confutazione del sistema chiuso di Hegel». Una negatività che si trasforma in opera, azione che si esplicita nell’arte, nell’esercizio di una scrittura che non chiude il negativo fissandone il valore all’interno del grande discrimine morale Bene/Male o logico, Senso/non-senso o economico, Utile/improduttivo, ma lo libera riconoscendolo in un bisogno di agire che ne «fa la condizione di ogni esistenza umana». Un’esistenza rischiosa che spogliata dalla necessità dell’utile sa finalmente ridere, piangere ed amare, sa di nuovo fare qualcosa in un’esistenza finalmente liberata dal fare, mentre Hegel «per il fatto di non assumere fino in fondo il ruolo della ‘negatività riconosciuta’, non rischiava niente: apparteneva dunque ancora in certa misura al Tierreich», termine che, come si dice nella nota n. 6 del curatore a p. 529, Kojève traduce con “bestiario” e Hyppolite con “regno animale dello spirito”, ivi, pp. 111-115. M. Perniola, Philosophia sexualis, cit., p. 26.

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1. Verso l’esperienza del Collège La posta in gioco è, per Bataille, la messa in discussione della dissimulazione del negativo, dell’opposizione maggiore, nella “serietà” dell’Aufhebung. La fede in una dialettica che Breton ritiene lo strumento capace di superare/conciliare tutte le antinomie e che finisce invece per vietare un’esperienza radicale del negativo; l’affermazione cioè di una pura negatività, una negatività “senza impiego” che ritrova nella forza di quelle esperienze emozionali, essenziali dell’esistenza – nascita, morte, finitudine, amore, riso, canto – la spinta necessaria a convertire la sedenterietà del sapere nell’esuberanza dirompente del non-sapere. Nella “verità” di un sapere altro, nomadico, un sapere sovrano per il quale il momento della mediazione, il non ha per fine solo la passione del pensiero, il pathos di una vocazione a essere che non si può dire se non limitandola, annullandola nelle determinazioni del linguaggio discorsivo, perché essere non significa mai essere dato. Non posso mai percepire in me qualcosa di reperibile e definito ma solo ciò che sorge in seno all’universo ingiustificabile, e che mai è più giustificabile dell’universo. Non esiste niente di più deprimente. Sono in quanto rifiuto di essere ciò che può essere definito. Sono in quanto la mia ignoranza è smisurata: nella depressione scivolerei nella classificazione del mondo e mi prenderei per l’elemento che ne orienta la definizione. Ma che cosa annuncia in me questa forza che rifiuta? Niente10.

Quella sovranità che conosciamo solo nei suoi effetti, nel riso e nelle lacrime, nella gioia e nel dolore, nella violenza di esperienze che eccedono la razionalità, i limiti di una conoscenza servile, utile, subordinata al progetto. È l’esperienza di un sentire incessantemente rivolto contro l’autorità del sapere «che si prende gioco del pensiero», un esercizio di libertà che non deve mai farsi strumento per un fine, azione al servizio di un sapere, perché compiendosi/impegnandosi ricade nella trappola dialettica che fa dello schiavo un nuovo padrone, la forma perfetta della sottomissione. In questo contesto Sade appare a Bataille, possiamo dire, come un grande “maestro del sospetto”, un demistificatore di quella buona volontà rivoluzionaria che ha mascherato le forze oscure della vita da valori sacrali solo «per renderli accettabili e permetterne la pratica innocente ai ‘figli della patria’». Un’operazione che esposta in forma oltraggiosa, scandalosa, è stata accolta solo per essere neutralizzata, temperata nell’ottica di quella «generale assenza di rimozioni vivaci davanti alla guerra» che Bataille, Caillois e Leiris –

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G. Bataille, “Le non-savoir”, Botteghe oscure, 11, 1953, pp. 18-30, edizione ampliata pubblicata in Gramma, 1, 1974; raccolto in Id., Œ. C., cit., tomo XII, trad. it., “Il non-sapere”, in Id., Conferenze sul non sapere e altri saggi, Costa & Nolan, Genova-Milano 1998, pp. 59-71, p. 71.

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chiarendo il senso del Collège in quel particolare momento storico11 – denunciano come «segno di svirilizzazione dell’individuo», di forte cedimento, di fronte all’avanzata dell’individualismo borghese, dei legami sociali più profondi; legami sacri, non utilizzabili, non capitalizzabili da chi li sente solo vivendoli nel contesto di una radicale, e mai superabile, incompiutezza. Anziché enunciare teorie e formulare programmi nel saggio La valeur d’usage de D. A. F. de Sade, Bataille enuclea alcune essenziali proposizioni che pongono i “valori” sadeani fuori dal circolo mistificatorio dell’uso surrealista, sottraendoli alle regole di un calcolo economico entro cui «in qualche modo si scrive giorno per giorno il credito che degli individui e anche delle collettività possono concedere alla propria vita», per immetterli, al contrario, nel dominio “dell’impertinenza gratuita”. Nella linea che articola gli impulsi umani nella polarizzazione appropriazione-escrezione Bataille definisce la suddivisione dei fatti sociali in religiosi – come dimensione della proibizione, dell’obbligo e del sacrificio – e profani come spazio dell’organizzazione civile, politica, economica e giuridica segnata dalla produzione per il consumo. Due linee che secondo la modalità consumazione/appropriazione – che può essere «sacramentale (sacrificale) o no secondo che si accusi o si distrugga convenzionalmente il carattere eterogeneo degli elementi»12 – determinano da un lato un processo di omogeneizzazione/identificazione del reale e dei singoli in identità costituite dall’alto e, dall’altro, un’azione di “escrezione complessa” che non mira ad appropriarsi/espellere definitivamente l’eterogeneo, ma ad assumerlo in quanto tale, in quanto differenza irriducibile, non explicable, sacra, nodo di una tensione fisica e spirituale che in una sorta di incessante movimento oscillatorio ci affascina e, nello stesso tempo, ci spaventa, ci attrae e ci respinge. In questa seconda direzione Bataille analizza le forze opposte dell’amore e del terrore per il sacro, la sua essenziale ambivalenza e quel punto focale in cui la repulsione, il lato negativo si “disperde” convertendosi in forza attratti-

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Emblematica a questo riguardo è la “Dichiarazione del Collegio di Sociologia sulla crisi internazionale”, firmata da Bataille, Caillois e Leiris, dove si recrimina l’oblio “riparatore” in cui si è eclissata la forza rivoluzionaria dopo la pace conseguente agli accordi di Monaco. Uno spettacolo deplorevole, quello «di un popolo che si rifiuta di ammettere la guerra tra le possibilità della propria politica di fronte a una nazione che sulla guerra, al contrario, fonda la sua». Contro questa desolazione morale, contro l’assurdità di una tale politica, il Collège, pur ponendosi essenzialmente come organismo di studio e ricerca, si dichiara un vero e proprio “focolaio di energie”, invitando «coloro ai quali l’angoscia ha rivelato come unica via di uscita la creazione di un legame vitale tra gli uomini a unirsi a lui, a prescindere da qualsiasi altra determinazione che non sia la consapevolezza dell’assoluta menzogna delle attuali forme politiche e della necessità di ricostituire dalla base un modo d’esistenza collettiva che non tenga conto di alcuna limitazione geografica o sociale, e che permetta di avere un po’ di dignità sotto la minaccia della morte», in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit. pp. 56-59, p. 59. G. Bataille, “Le non-savoir”, cit., p. 124.

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va capace di trasformare lo sconforto in gioia, la depressione in “tensione esplosiva”. Analisi che fa ricorso alle categorie di attrazione e di repulsione attraverso cui la sociologia francese spiegava il pensiero primitivo e la nascita dello spazio sociale. In due conferenze pronunciate nel Gennaio del 1938 al Collège de Sociologie13 Bataille sottolinea come è sempre l’elemento sinistro, disgregante, eterogeneo ad essere rigettato e ad innescare il fenomeno del sacro, a costituire, ancor prima di tradursi in interdetto o divieto, il collante sociale e politico delle più antiche comunità, il nucleo «attorno al quale si compone il gioioso percorso della comunicazione umana». Nucleo che è esterno agli individui, non solo perché esso non è costituito da una o più persone diverse dalle altre – e comunque è molto più complesso perché racchiude in sé qualcosa di più delle persone –, ma essenzialmente è esterno agli esseri che formano il gruppo in quanto oggetto, da parte loro, di una repulsione fondamentale. Il nucleo sociale è infatti tabù, vale a dire intoccabile e innominabile: a prima vista presenta la stessa natura dei cadaveri, del sangue mestruale o dei paria. Paragonate a siffatta realtà, le diverse impurità non rappresentano niente di più che una forza di repulsione degradata: non sono né veramente intoccabili, né veramente innominabili. Tutto fa supporre che gli uomini dei tempi primitivi siano stati uniti da un disgusto e un terrore comune, da un orrore insormontabile avente per oggetto proprio ciò che originariamente era stato il centro di attrazione della loro unione14.

L’eterogeneo, il sacro, in quanto das ganz Anders, costituisce allora un nucleo interattrattivo che funziona come termine medio di relazioni non dialettizzabili, un “nucleo di silenzio”, inconfessabile, dice Blanchot, che apre e distingue l’esistente nella misura in cui esclude e attrae a sé, attorno al suo segreto, in un medesimo movimento d’insieme le singole esistenze. Esistono due forme di interattrazione tra gli esseri – la sessualità e il riso – che pur essendo espressioni immediate di un movimento sensibile non si riscontrano, nei fatti, che in forma mediata, in una sorta cioè di “alterazione” o sospensione legata al riconoscimento sociale, alla particolarità di una relazione circoscritta in una «massa limitata anch’essa individualizzata»; mentre ciò che fonda l’intensità della comunicazione è l’impersonalità, la neutralità di un’e-

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Cfr. G. Bataille, “Attrazione e repulsione I. Tropismi, sessualità, riso e lacrime. Gennaio 1938”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 126-138; Id., “Attrazione e repulsione II. La struttura sociale”, ivi, pp. 139-153. Sinteticamente nella presentazione del primo testo batailleano si sottolinea che la coppia di opposti, attrazione e repulsione «corrisponde a quelle che la sociologia francese aveva elaborato per dar conto del pensiero primitivo. Di uso frequente nel corso degli anni trenta, si ritrova in svariati testi. Due esempi. Freud vi ricorre per formulare il dualismo degli istinti (pulsione di vita, pulsione di morte) […] antitesi […], che forse coincide con quell’altra polarità di attrazione-repulsione che la fisica suppone per il mondo inorganico», ivi, p. 126. Ivi, p. 130.

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mozione sensibile che s’apre «al primo venuto» innescando un contagio fecondo, una messa in comunicazione fra essere aperti. L’unione tra gli uomini è quindi sempre mediata, messa in atto dall’attrazione/repulsione di questo “nucleo di silenzio” che rende le relazioni delle relazioni umane. Legami, sottolinea Bataille nella seconda conferenza, che essenzialmente viviamo, di cui quindi non è possibile fare né un’analisi sociologica oggettiva, né una descrizione fenomenologica – anche se sul piano fenomenologico l’uomo può arrivare al riconoscimento di sé –, ma necessariamente e soltanto un’ideologia della lotta che non può però sfuggire all’errore. Hegel, Freud e Mauss sono, come ho già detto, i referenti teorici su cui Bataille innesta i suoi principi: se è proprio la negatività hegeliana, cioè l’azione distruttrice a segnare il senso della specificità umana, se è vero che egli «si è spinto espressamente nella direzione in cui l’essenziale può essere scoperto», tuttavia ciò che dello spirito della Fenomenologia Hegel rappresenta è una realtà essenzialmente omogenea che ha superato/risolto l’eterogeneità profonda dello spirito. Quella dimensione inconscia, negativa, esclusa/espulsa da una coscienza/conoscenza che ha poi univocamente determinato il sacro nella forma attrattiva, destra, pura, mentre è proprio l’ambiguità, la differenza che segna/è il sacro a costituire la verità di una comunità d’esistenza che non si richiude sugli individui o sulla collettività. È la trasmutazione, sempre attiva nella sacralità, che appare ad esempio nel cadavere – che dalla sua forma nefasta, impura, contagiosa, intoccabile quindi, diviene «man a mano che la putrefazione viene meno», fasto, puro –, è la trasposizione del corpo suppliziato, infamato di Cristo nella persona divina che, nella loro paradossalità, esemplificano il carattere ambiguo del sacro. Seguendo le tesi di Konrad T. Preuss che indica le cose sacre come cose essenzialmente rigettate, come forze spese che fanno del sacro il luogo di una assoluta dépense improduttiva, Bataille evidenzia proprio nel paradigma repulsivo immunitario – l’allontanamento del cadavere/morte il cui processo di disgregazione rischia di contaminare incontrollabilmente l’intero organismo vitale/sociale – la linea che mette riparo al perdurare di un dispendio che pone in discussione la sussistenza stessa della comunità e degli individui che ne fanno parte. Il nucleo d’attrazione centrale è un movimento energetico dispendioso, una eccedenza di forze, una perdita di sé che spinge al controllo e alla fuga dalla dispersione attraverso l’interdetto, la costruzione di una barriera che non annulla però la possibilità che, attraverso un nuovo crimine, sia rimessa in circolazione una spinta energetica libera. È il caso della morte vissuta ad esempio nelle popolazioni primitive come “conseguenza di un crimine magico” che libera, quando ad esempio si tratti della morte di un capo o di un re, l’esplosione violenta dell’intera comunità15. La morte ritorna allora come il più grande e, nello stesso 15

Evidenziamo qui, molto brevemente, che l’interesse dei partecipanti al Collège per le comunità va per quelle comunità così dette elettive o nuove, contrapposte alle comunità tradizionali, «che sono il risultato di una scelta operata dagli elementi che la compongono, e

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tempo, ultimo dispendio possibile che rende evidente nella sua paradossalità come solo la libera perdita possa produrre un’esistenza collettiva, come l’uomo abbia, nello stesso tempo, bisogno di costruire barriere contro il suo desiderio di dispendio e di distruggere, di trasgredire tali barriere per vivere: tutta la sua esistenza, vale a dire tutto il suo dispendio, si produce dunque in una sorta di vortice tumultuoso dove sono in gioco al tempo stesso la morte e la tensione più splendente di vita. È questo vortice che si produce essenzialmente al centro degli insiemi individualizzati che egli forma. E tale vortice continua a prodursi anche nelle forme periferiche del dispendio, allorché gli uomini imboccando una traversa, ridono insieme davanti a rappresentazioni (dissimulate) della morte, o quando sono spinti eroticamente gli uni verso gli altri da immagini che sono come tante ferite aperte sulla vita16.

Dobbiamo allora mantenere attive le forze della tragedia, quel nucleo violento di potenza che rompe le barriere, la Legge/tabù che protegge le cose sacre, mettendo così in discussione la forma di un potere – nazismo e fascismo – che si è affermato proprio volgendo a suo favore quelle forze, alterando così nella servilità funzionale il senso “inutile” della comunità; una sovranità d’esistenza che si oppone alla compromissione etica e politica con la realtà di un soggetto sempre più sospeso tra il desiderio di sicurezza e l’esperienza della precarietà. Un soggetto reattivo, direbbe Niezsche, che nell’incapacità a creare nuovi valori, ad autodeterminarsi, si chiude nel passato lasciandosi irretire dal fascino dell’ordine e della riaggregazione che animano il potere fascista. È necessario dire che, a più riprese, nelle sedute del Collège, Bataille evidenzia l’incapacità, implicita nella sociologia in quanto scienza, a spiegare il suo oggetto, quel soggetto che, nella misura in cui è attraversato e segnato dall’eterogeneo è alterato e quindi reso inaccessibile, indicibile nella rigidità del discorso scientifico. Una messa in discussione, una riflessione sulla scienza, che in Bataille si sviluppa attraverso la conoscenza eterologica, nell’esigenza sempre già presente, anche se non esplicitata, dell’esperienza interiore e del “metodo di meditazione”. Ed è soprattutto in relazione all’antropologia di Mauss che Bataille chiarisce la necessità della messa a punto di un “metodo”, o meglio di un contro-metodo, capace di cogliere, comunicare, questa dimensione dell’eterogeneo/sacro che è il nucleo stesso della struttura sociale. Una necessità che scandisce la distanza tra la sociologia ufficiale e la sociologia sacra attorno a cui si muove il Collège17. La ricerca del sacro e la

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presentano un carattere di totalità – quali gli ordini religiosi, le società segrete», G. Bataille-R.Caillois, “La sociologia sacra e i rapporti tra ‘società’, ‘organismo’, ‘essere’”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 91-105, p. 101. G. Bataille, “Attrazione e repulsione II. La Struttura sociale”, cit., p. 152. Emblematico della contrastata accoglienza che il Collège ebbe nella vita culturale e politica francese è, fra gli altri, l’articolo di G. Sadoul, “Sociologie sacrée”, apparso su Commune. Revue littéraire pour la défense de la culture, 60, sett-ott 1938, pp. 1515-1525, trad. it.,

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possibilità, a partire da questo, di una comunicazione intersoggettiva che tesse la trama invisibile di una comunità tra singolarità pre-individuali, costituiscono il nucleo animatore del Collège che, come lo stesso Bataille ci dice, «rappresenta l’attività in qualche modo esterna» di Acéphale, la “società segreta” che, rispetto all’omonima rivista, si costituì come «prolungamento e compimento del suo alter ego pubblico»18. Fondato nel 1937, dallo stesso Bataille e da Roger Caillois, il Collège svolse la sua attività – consistente prevalentemente in conferenze che si tenevano ogni due settimane presso una libreria del quartiere latino di Parigi – fino all’estate del 1939 sotto la spinta, secondo quanto afferma lo stesso Caillois nella “Dichiarazione di intenti”, che figura come introduzione a Per un collegio di Sociologia19, di una pressante attualità, quella degli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, che esigeva la messa in atto di un «lavoro critico avente per oggetto i mutui rapporti tra l’essere dell’uomo e l’essere della società». Un lavoro etico e politico che mette in discussione, come osserva Jules Monnerot, la riduzione, operata dalle scienze sociali di stampo positivistico, dei fatti sociali a “cose”, evidenziando invece, sotto la spinta della fenomenologia sociale di stampo husserliano, che andava sviluppandosi in Germania, il richiamo a quella “sfera dei vissuti” che Bataille ha messo in campo nell’Introduzione a La structure psychologique du fascisme20. Uno scritto “essenziale”,

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in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 477-482, particolarmente aspro non solo con Bataille e la sua «velleità di potenza tutt’altro che convincente», ma con l’intero Collège che, osserva l’A., «sembra dunque aver posto come postulato la negazione della società, della sua struttura economica, delle sue classi, per lasciar sussistere solo una distinzione, quella tra i Signori, intellettuali e nobili, e l’immensa moltitudine dei Servi, materiali e vili. Per i signori del Collegio, la sociologia è la scienza della negazione della sociologia vera. E il loro imperialismo conquistatore, aberrante, delirante e paranoico si fonda su una ignoranza totale delle più elementari realtà sociali», ivi, p. 482. Ma ancora più “fredde” sono le parole di Sartre che sottolinea come «non è invano che Bataille ha fatto parte di quello strano e famoso Collegio di Sociologia che tanto avrebbe sorpreso l’onesto Durkheim al quale si richiamava espressamente, e attraverso una scienza nascente, ogni suo membro perseguiva propositi extrascientifici. Bataille vi ha imparato a trattare l’uomo a mo’ di cosa». Per questo, ironicamente, si chiede: «È un caso se questi sociologi, i Durkheim, Lévy-Bruhl, Bouglé, sono gli stessi che, verso la fine del secolo scorso, tentarono invano di gettare le basi di una morale laica? È un caso se Bataille, il testimone più amaro del loro fallimento, riprende la loro visione del sociale e la supera carpendo loro, per adattarla ai suoi fini personali, la nozione di ‘sacro?’», J.-P. Sartre, “Un nouveau mystique”, cit., pp. 165-166, trad. it. parziale in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 492-493, p. 492. Cfr. M. Galletti, “Il re del bosco”, in G. Bataille, La congiura sacra, cit., pp. 129-143, p. 131 È preceduta da una nota sulla fondazione del Collège scritta nel marzo del 1937 ed apparsa nel numero 3-4 dello stesso anno della rivista Acéphale. Cfr. “Nota sulla fondazione di un Collegio di Sociologica”, in G. Bataille, La congiura sacra, cit., pp. 94-95. G. Bataille, “La structure psychologique du fascisme”, in La critique sociale, 10 nov. 1933, 11, 1934, trad. it., La struttura psicologica del fascismo, L’Affranchi, Salorino, CH, 1990. Del saggio esistono altre due traduzioni, quella di S. Finzi in G. Bataille, Critica

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asciutto e lucido, pubblicato in due battute tra il 1933 e il 1934 sulla rivista Critique Sociale diretta da Boris Souvarine, che offre una chiave di lettura particolare non solo del fascismo, ma dei fenomeni totalitari in generale. Tenendo sullo sfondo le analisi sociologiche di Durkheim e di Mauss, e quelle psicologiche di Freud, e richiamandosi alle istanze marxiste solo in quanto terreno problematico per l’avvio di un’analisi rigorosa delle strutture sociali, il saggio accosta il tema dell’ambivalenza del sacro così come emerge nella realtà di un negativo che, in quanto eterogeneo che minaccia l’ordine dell’omogeneo-produttivitàconsenso, si caratterizza come desiderio o come repulsione. Il testo, come ci dice lo stesso Bataille, costituisce, per quanto riguarda il fascismo in piena espansione in Europa, «un tentativo di rappresentazione rigorosa (se non completa) della sovrastruttura sociale e dei suoi rapporti con l’infrastruttura economica», una traccia per un lavoro che avrebbe dovuto svilupparsi. Una descrizione che non mancherà di sorprendere e di colpire le persone che non hanno familiarità né con la sociologia francese né con la filosofia tedesca moderna (fenomenologia) né con la psicoanalisi

e che si riferisce direttamente «a degli stati vissuti» escludendo, in quanto al metodo psicologico usato, «ogni ricorso all’astrazione». L’interesse è, come dice François Wahl21, per il concreto, nel richiamo ad un’esperienza nella cui pratica si delinea il movimento di un impegno etico e politico capace di sovvertire l’autorità di un potere estraniante. L’analisi di Bataille vuole rilevare – andando oltre l’economicismo della visione marxiana – gli elementi che hanno fatto sì che l’ideologia fascista si sia affermata con tanta forza, proprio perché il marxismo, dopo aver affermato che, in ultima istanza, l’infrastruttura di una società determina o condiziona la sovrastruttura, non ha azzardato alcuna spiegazio-

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dell’occhio, cit., pp. 175-210 e quella di M. Baldino nella rivista “Tellus”, anno X, n. 22, Sul liberalismo, pp. 83-106 che ritraduce il saggio con l’intento di verificare «fino a che punto l’analisi batailleana dell’insieme della struttura sociale, possa ancora costituire un utile strumento dinanzi alla necessità di stabilire un rapporto critico con la koiné liberale», al di là di implicazioni metafisiche o soteriologiche indicative di una diversa forma di “civiltà”. Ne deriva la rilevanza di una struttura analitica che, oltre la contingenza storica, si apre «a soluzioni decisamente più attuali» che nella linea di riflessione indicata da Jünger o dalle analisi di Deleuze-Guattari, e in contrasto con la lettura di M. Cacciari (cfr. L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 120 e sg.), mostra «quanto l’omogeneità sociale – per mantenersi al gergo di Bataille – sia sempre in relazione con un di fuori, con un’esteriorità-eterogenità alla quale appartengono tanto le grandi compagnie commerciali, i grandi sistemi industriali, le formazioni religiose come il cristianesimo e l’islamismo, quanto certi meccanismi locali di bande, margini, minoranze che continuano ad affermare i diritti di società segmentarie contro gli organi di potere di Stato», ivi, nota p. 107. Cfr. F. Wahl, Vers le concret, Paris, Vrin 1932.

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ne generale riguardo alle modalità specifiche della formazione della società religiosa e politica. Ha parimenti ammesso la possibilità di interferenze della sovrastruttura ma, di nuovo, non è passato dall’affermazione all’analisi scientifica22

non rilevando l’incidenza dei fattori psicologico e religioso. Muovendo allora da una descrizione generale della struttura sociale, Bataille introduce due nuove polarità – dopo quelle di alto e basso –, quelle di omogeneo ed eterogeneo che richiamano, rispettivamente, la forma di una società regolata dalla produzione e misurata dall’utile, e quella di un’insieme orientato alla dépense improduttiva di cui le cose sacre costituiscono una parte. La prima è espressione propria della società capitalistico-borghese che ha il suo fondamento nel denaro, cioè in «un’equivalenza calcolabile», che giudica/misura il lavoro ed espropria il lavoratore della sua esistenza facendone una funzione interna alla produzione sociale. Un processo che si estende progressivamente attraverso le classi intermedie e medie ed appare in tutta la sua forza mistificante nel proletariato che, incluso nel lavoro, è escluso dal godimento di una parte apprezzabile di profitto: «fuori della fabbrica, e anche al di fuori delle sue specificità tecniche», l’operaio è assolutamente irriducibile all’omogeneo e, in quanto tale, va a costituire quella parte estranea, eterogenea alla società omogenea, alle sue regole e leggi, in cui vanno ad associarsi, spontaneamente, tutti quegli elementi che le contraddizioni economiche e sociali disarticolano all’interno delle società omogenee. In questo modo l’eterogeneo costituisce un vero e proprio pericolo per la società omogenea, un «tout autre» inassimilabile; uno spazio di conflitti e di contraddizioni che passano per contagio da un soggetto all’altro in un movimento che sconvolge e coinvolge la dimensione dell’affettività, ed è proprio su questa che ha lavorato l’ideologia fascista. In quanto tout autre l’eterogeneo sfugge alla conoscenza ordinaria, all’ordine di un discorso funzionale ad una società omogenea, ma è avvicinabile, osserva Bataille, con lo stesso approccio descrittivo con cui Durkheim ha cercato di comprendere il sacro in quanto «forma limitata in rapporto all’eterogeneo»; sacro che nella sua fondamentale ambiguità porta in sé il puro e l’impuro, il divino e il terreno, la pura intelligibilità e la bassa materialità. Anche il fascismo presenta questa duplicità: è una forza eterogenea in quanto rompe la situazione costituita destabilizzando l’omogeneità sociale, ma si tratta di un’eterogeneità che si pone dalla parte delle forme alte, superiori. Rispetto alle figure vuote, prive di iniziativa e incapaci di agire, incarnate dai politici democratici, evidenzia Bataille, Hitler e Mussolini «risultano immediatamente come un tutt’altro». Essi hanno raccolto nella loro persona una forza eccessiva che li ha posti al di là della legge e della storia omogenea, un’effervescenza affettiva che ha affascinato le masse. Ma l’eccesso di ener-

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G. Bataille, La struttura psicologica del fascismo, cit., nota 1, pp. 13-14.

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gia raccolto in unità nella persona del “capo”, si è presto tradotta in un’istanza autoritaria, una signoria imperativa, diretta contro gli uomini; una forma di “monarchia”, che opera una divisione all’interno dell’eterogeneo che, come per il sacro, si distingue in alto e basso, puro e impuro. Un movimento che, qualificando/riconoscendo il fascismo dal lato destro, superiore, nobile, elevato di quella linea che dialetticamente, da Platone a Hegel, ha distinto le copie ben fondate dai simulacri, nel falso movimento di un processo di autenticazione che ha fondato e sorretto tutto il mondo della rappresentazione, è l’espressione di un pensiero reattivo che seleziona e valuta la vita in base alle categorie di Vero e Falso, di Bene e di Male. La superiorità che delinea quindi il fascismo non è altro che una sovranità mistificata, un’eterogeneità definita che fondandosi sulla sacralità del potere ha dato. e può ancora dar luogo, nella concentrazione di autorità religiosa e autorità militare, ad una forma estrema d’oppressione, ad un totalitarismo che cancella l’esistenza in quanto esistenza umana, facendo di ogni singolo individuo niente altro che «una parte di un corpo la cui testa è le chef-dieu»; un’autorità che sovverte, ma impedisce qualsiasi sovversione23. Un’analisi lucida che fa sembrare che «ogni speranza sia preclusa a dei movimenti rivoluzionari» che sviluppandosi in una democrazia non riescono più a mettere in atto reazioni eterogenee capaci di sovvertire il cammino delle forme imperative; tuttavia, proprio l’urgenza di una emancipazione dell’esistente, in una situazione politica ormai degradata, spinge Bataille ad affermare che fin dall’inizio la semplice presa in considerazione delle formazioni sociali affettive rivela risorse immense, l’inesauribile ricchezza di forme caratteristiche di ogni vita affettiva. (Perché) non soltanto le situazioni psicologiche delle collettività democratiche sono, come ogni situazione umana, transitorie, ma rimane possibile considerare, quanto meno come una rappresentazione ancora imprecisa, delle forze di attrazione differenti da quelle che sono già utilizzate, tanto differenti dal comunismo attuale od anche passato quanto lo è il fascismo dalle rivendicazioni dinastiche24.

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24

«Il fascismo si situa ad eguale distanza tra il theatrum comunitario della tragedia e quello rappresentativo della democrazia. Mentre quest’ultima produce una decomposizione individualistica del sociale, il fascismo ripropone una nuova coesione coatta, sui cui caratteri – fascismo significa etimologicamente unione, concentrazione – si esercita in modo particolarmente penetrante l’analisi di Bataille. In breve contro la coesione rivoluzionaria realizzata dalla decapitazione del sovrano, la coesione fascista è di tipo teologico-politico. Il fascismo è la massima forma di teologia politica. Ma in che senso? In quello dell’intreccio tra omogeneo ed eterogeneo e della sua elevazione a valore Stato […]. Come l’Islam, il fascismo è dunque massima forza di concentrazione; ma, diversamente da esso, non concentrazione assoluta da qualsiasi fondamento, bensì prodotta da e a sua volta produttrice di Stato, del proprio Stato. Perciò esso è teologia politica portata a Stato», R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit., pp. 296-297. G. Bataille, La struttura psicologica del fascismo, cit., p. 93.

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Ma proprio attorno a questa possibilità, alla diversa maniera di intendere la prassi politica, alla necessità di una rivoluzione “catastrofica”, totale – una rivolta che parta dal basso, una riattivazione della dimensione affettiva delle masse, anestetizzata dall’ordine fascista, capace di combattere l’omogeneizzazione sul suo stesso terreno, un sur-fascismo come suo oltrepassamento – si determinano quelle inconciliabili divergenze all’interno del Cercle communiste démocratique che ne decretano, alla fine del 1934, lo scioglimento. Una rottura che, l’anno seguente, spinge Bataille verso quella particolare esperienza di riflessione teorica e di prassi politica che fu Contre-Attaque, prospettando già quella che sarà l’avventura di Acéphale, ma soprattutto l’avvio del Collège. Se infatti da forze affettive differenti, interne alle attuali formazioni sociali, è possibile aspettarsi una sovversione del fascismo, allora è proprio in una di tali possibilità che occorre «sviluppare un sistema di conoscenze» dei movimenti di attrazione e di repulsione che animano la sovrastruttura, una “scienza” dell’eterogeneo, dice Bataille chiudendo il saggio, che sarà l’arma più semplice per «perseguire l’emancipazione» della vita. 2. La sociologia sacra È proprio in questa direzione che lavora il Collège, senza per altro riuscire ad evitare – come evidenzia Denis Hollier nell’Introduzione a Le Collège de Sociologie – quell’eccesso di ambiguità nei confronti del fascismo che in maniera critica emerge già «nel primo commento della stampa sulle attività del Collegio». Ambiguità che rappresenta però la cifra stessa della riflessione del Collège, l’indice di una scienza eterologica che comincia là dove la scienza non può più inoltrarsi; sul terreno dei soggetti compromessi e compromettenti, inoggettivabili – il sacro, la morte, la sessualità, il potere – verso cui, al tramonto, vola l’uccello di Minerva. Ma questo per i nemici degli equivoci ha torto: dovrebbe coricarsi di buon’ora. È colpevole di pensare dopo il tramonto. È proibito pensare quando si ha di fronte l’ignoto, quando si tocca l’avvenire con la propria ignoranza. È l’epoca in cui Picasso incide il suo Minotauro cieco. Analogamente, quando la notte incombe, bisogna mantenere il massimo di distinzione: che le idee restino distinte anche quando la notte è oscura25.

Paradossalmente è necessario che la ragione conosca ciò che la allontana, i suoi divieti, gli interdetti, che sappia muoversi nella sua notte senza paura nella consapevolezza che ambiguità e incompiutezza le appartengono, la segnano, altrettanto quanto la certezza e il compimento, nel rimando a quella realtà complessa e contraddittoria che è l’essere umano: ragione e corpo, or25

D. Hollier, “Sull’equivoco (tra letteratura e politica)”, Introduzione a, Id. (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. XI-XXVII, p. XXIV.

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dine e violenza, misura e piacere, motivazione e immotivazione, conoscenza ed esistenza. Comprendiamo allora perché fin dall’inizio il Collège si presenta come una sorta di comunità morale – la morale che scaturisce dall’ateismo essenziale di Nietzsche e di Sade, un’etica dell’incompiutezza che delinea la forma di una vita gloriosa, all’altezza dell’universo; legami d’amicizia e modi d’azione che sfuggono alla progettualità razionale –, una comunità immersa e attraversata dalla forza dei vissuti che segnano i fenomeni sociali, implicata nei fatti che vive e osserva. Sono le tematiche del mito, del sacro, della festa, delle comunità politiche e religiose e del potere a costituire i nodi che le conferenze del Collège tentano, volta a volta, di svolgere; temi propri di una sociologia sacra in quanto assume come suo oggetto l’insieme delle manifestazioni dell’esistenza attiva del sacro. È per questo allora che si propone di stabilire punti di coincidenza tra le tendenze ossessive fondamentali della psicologia individuale e le strutture direttive che presiedono alla organizzazione sociale e ne determinano le rivoluzioni. L’uomo valorizza all’estremo certi istinti rari, fuggitivi e violenti, della sua esistenza limitata. Il Collegio di Sociologia parte da questo dato di fatto e si sforza di rivelare pratiche equivalenti proprio in seno all’esistenza sociale26,

attraverso una sociologia attiva, dice Caillois, capace di vivificare, trasformandolo, il suo campo di indagine. Una “speranza” presto infranta non solo dai conseguenti fatti storici, ma dagli stessi contrasti interni al Collège, in particolare per quanto attiene al diverso punto di vista di Bataille e Caillois circa il “compito intellettuale” che la comunità doveva assumere nel fornire alla riflessione teorica la forza capace di incidere strategicamente nel reale. Compito che Caillois rivendicava in prima persona, là dove Bataille sottolineava come «un’organizzazione ignara dello sviluppo che le darà il ‘corso delle cose’ non possa rivendicare una simile pretesa»27. Dissidi che si ampliarono anche per il diverso modo di considerare la relazione tra la “nuova” sociologia sacra e la prassi metodologica seguita dalla scuola sociologica francese; un’esigenza che diviene anche il punto di un contrasto profondo di Bataille sia con Caillois che con Leiris i quali ritengono necessario il conformarsi alla prassi sociologica di Durkheim, Mauss e Hertz – seguire cioè una via più simile a quella degli scienziati sociali – per non correre il rischio di far assomigliare il lavoro del Collège a quello di una “conventicola letteraria”28. Ma, ricorda Bataille, la spinta che 26 27 28

R. Caillois, “Introduzione”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Cociologia, cit., pp. 11-15, p. 15. G. Bataille, “Lettera a R. Caillois del 20 luglio 1939”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 460-464, p. 463. Cfr. M. Leiris, “Lettera a G. Bataille. 3 luglio 1939”, in D. Hollier, Il Collegio di sociologia, cit., pp. 458-459, dove esplicitando i suoi dubbi circa il rigore con cui si è proceduto nel lavoro del Collège, Leiris dichiara che se scopo dell’associazione è anzitutto lo studio

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aveva animato la formazione del Collège – ciò che ormai da più di due anni, dichiara, lo ha spinto a partecipare alle riunioni – non è l’idea di «formare un’organizzazione influente», fondata sulle regole e sui metodi di una scienza incontestabile, bensì la volontà di creare una forza a partire dalla coscienza della miseria e della grandezza di quest’esistenza caduca che ci è toccata in sorte – perché, dichiara – PORRE DI FRONTE AL DESTINO costituisce per me l’essenziale della conoscenza – anche a costo di crisi, di rotture pericolose, di contestazioni necessarie – allo sviluppo di un tentativo ancora poco sicuro di sé29.

E per chiarire il suo modo di intendere la realtà sociale, nella complessità delle relazioni che legano l’uomo a se stesso e al contesto della società, per distinguere il carattere sacro del lavoro del Collège da quello della scienza sociologica, Bataille introduce un duplice livello di analisi. Da un lato, secondo un approccio di carattere scientifico, si ha una visione dell’individuo come un aggregato incompiuto – l’uomo e l’animale come composizioni strettamente legate e stabili e la società come espressione di un composto legato da vincoli instabili e «facilmente revocabili» – e, dall’altro, secondo un approccio, possiamo dire “emozionale”, vengono messe in primo piano le relazioni erotiche e affettive che, apparentemente, sembrano essere del tutto estranee alle dinamiche che presiedono alla formazione dei vincoli sociali. Una via traversa che però «ha il vantaggio di porre di fronte a quelle realtà che, oltre a essere le più oscure, sono anche le più familiari»30: esperienze che non possono assolutamente essere ridotte a segno della volontà di riproduzione. Nella passione erotica emerge infatti il senso di quella lacerazione profonda, di quella ferita essenziale che apre ogni essere alla comunicazione/comunione con l’altro, mostrando come ogni relazione è sempre, nello stesso tempo, una perdita della propria unità, dell’integrità, una passione smisurata per l’altro che porta o a perdersi completamente o a ritrovarsi nell’unità mai compiuta dell’amore. Volontà di perdersi e volontà di ritrovarsi. Un movimento che esige la messa in gioco di sé, in cui la passione, l’essere del movimento del cuore, osserva Bataille, non batte più nell’angustia di una vita coniugale orientata dall’utile,

29 30

delle “strutture sociali”, allora «penso che errori seri contro le regole di metodo stabilite da Durkheim – autore al quale ci siamo richiamati – siano stati commessi parecchie volte nel Collegio: lavoro a partire da nozioni mal definite, confronti fra fatti desunti da civiltà di carattere profondamente diverso ecc.». Il proposito stesso di costituire una sociologia sacra, inoltre, gli sembra in chiara «contraddizione con i dati acquisiti dalla sociologica moderna e, in modo particolare, con la nozione maussiana di ‘fatto totale’»; osservazioni queste che lo inducono a ritenere che oramai non rimane che o rinunciare al nome di sociologia o seguire le regole di una scienza già costituita. G. Bataille, “Il Collegio di Sociologia. Martedi, 4 luglio 1939”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit, pp. 434-444, p. 436. Ivi, p. 441.

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ritmata, come quella della società, sul filo del diritto e dell’amministrazione, un’unione «fondata sull’interesse, laddove la comunità legata da vincoli affettivi richiama l’unità passionale degli amanti», dove la comunicazione, come nelle feste e nei sacrifici, genera negli individui un dispendio energetico, un sovrappiù del flusso vitale che funziona come una vera e propria potenza liberatrice nel cui movimento individuo e comunità si con-fondono. Per questo la società non è mai un’unità totalizzante che identifica e assorbe le parti, ma un «essere composito», l’essere di un movimento comuniale, di una comunicazione che passa tra singolarità pre-individuali. Un movimento intensivo il cui nucleo è il sacro, la dimensione oscura che non sottende né una conoscenza né la coscienza chiara e distinta di un ego cogito che definisce e separa, ma un non-sapere possibile per una coscienza ambigua, “vaga”, quella di un soggetto disassoggettato, lacerato dalla consapevolezza del suo dover “patire” necessità e contingenza. Comprendiamo allora perché l’amore esprime un bisogno di sacrificio: ogni unità deve perdersi in qualche altra unità che la oltrepassa. Ma i movimenti della carne hanno una doppia direzione […]. L’essere infatti è costantemente sollecitato in due direzioni che portano l’una alla formazione di organizzazioni stabili e di forze conquistatrici, l’altra, tramite dispendi di forze ed eccessi che si moltiplicano, alla distruzione e alla morte31;

due opposti modi d’essere, due diverse forme di vita che nella loro singolarità sono cancellati nelle pratiche di una quotidianità che esige ordine, misura e stabilità. Ed è qui che si apre quell’“interrogativo senza fondo”, dice Bataille, che deve caratterizzare una sociologia sacra, quell’apertura su l’impossibile, la morte, che emerge necessariamente e pericolosamente una volta che «l’uomo ha accettato di interrogare la sfinge sociologica». Il Sacro come cifra di una fusione, dirà Bataille ne Le Sacré32, che è «formazione di nuovi esseri», una perdita di sé che se si realizza totalmente solo con la morte trova nell’esperienza erotica, in quella mistica, nei riti, nei sacrifici e nelle feste, la sua “immagine”. Un’anticipazione “affettiva” che innesca uno sguardo sull’abisso dell’esistenza, sulla verità della morte la cui realtà sottrae ogni possibile consolazione, ogni tentativo di fuga dalla “durezza” che sostanzia il dilemma di un esserci che è tale solo nella misura in cui non “ci” è più. E qui possiamo cogliere tutto il pathos di una Teresa d’Avila quando «grida che muore di non morire»; l’eros di una passione che apre, al di là di ogni possibile arresto, una breccia su un universo in cui forse non c’è più organizzazione, né forma, né essere, dove la morte sembra ruotare da un mondo all’altro, giacché la composizione organizzata degli esseri è verosimil-

31 32

Ivi, pp. 440-442. Cfr. G. Bataille, “Le Sacré”, in Cahiers d’art, 1939; cfr. D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., nota n. 4, p. 553.

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mente priva di senso qualora sia in gioco la totalità delle cose – perché – la totalità non può essere analoga agli esseri compositi, animati da uno stesso movimento, che noi conosciamo33.

Il mondo degli amanti, la “comunità degli amanti“, appare a Bataille più vicina alla totalità dell’esistenza di quanto possano esserlo la politica, l’arte o la scienza; ciò che anima questo mondo vero, non è un progetto o un complotto, ma un insieme di casualità, una coincidenza arbitraria di volontà che decide un incontro, apre una chance. Ed è solo l’incontro, l’intesa degli amanti, che crea una realtà effettiva/affettiva esplosiva, quella stessa che con il Maggio ’68 ha mostrato, dice Blanchot, come «nella subitaneità di un incontro felice», una festa che ha sconvolto le forme sociali, si sia affermata una comunicazione comuniale tale che «ciascuno, senza distinzione di classe, di età, di sesso o di cultura» si sia aperto/legato all’altro «come a un essere già amato, proprio perché era il familiare-sconosciuto»34. La volontà d’essere che anima il mondo degli amanti non è quella di una ragione che decide e interviene, è una volontà cieca, che decide senza seguire un progetto, senza interesse, azzardando e giocando così una vita che è posta all’altezza dell’universo. Una volontà che appare quindi come una vera e propria «macchina da guerra» che rompe i muri delle regole sociali e delle norme morali, una volontà che le masse hanno perduto nell’incapacità di aderire ad un destino che si sottrae alla concatenazione delle azioni utili. Solo una vita che si mette in gioco, quella di chi odia la servitù della ragione che calcola e si fa niente (rien), di chi ha la «virtù di significare il destino», di riempire di senso un modo d’essere che la volontà di sicurezza e felicità che ordina le società capitalistiche ha ridotto al minimo, può amare, perché se è vero che è umano volersi liberare dalle sofferenze è però «disumano abbandonare l’esistenza al concatenarsi delle azioni utili». Virtù d’amore, virtù d’amicizia che, dice Bataille, come il sacro può passare/contagiare gli uomini attraverso il mito che di per sé apre un mondo in quanto immagine di una pienezza che penetra nei corpi di chi partecipa alla sua verità. Il mito è assolutamente inseparabile dall’esistenza in-comune; la comunialità che esso innesca e trasmette è infatti data solo nell’esperienza, mentre sfugge «alle leggi determinate definite dalla scienza» che «sono il contrario di questo gioco della fantasia che compone la vita»35. L’oggettivismo della scienza, la sua pretesa all’universalità, a farsi autorità e valore, è allora per Bataille un vero e proprio “scempio morale” che va combattuto in nome dei suoi stessi principi, quelli di una conoscenza tradita che accresce il dominio dell’uomo solo a vantaggio di un’esistenza menomata, solo in quanto riduce

33 34 35

G. Bataille, “Il Collegio di Sociologia. Martedi, 4 luglio 1939”, cit., p. 444. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., pp. 65-66. G. Bataille, “L’apprendista stregone”, cit., p. 29.

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l’uomo al rango di cosa. Le feste, i sacrifici e le cerimonie d’iniziazione, che l’antropologia pone come campo del proprio sapere, in quanto nuclei d’eterogeneo sono spazi di effervescenza della vita, esperienze di dispendio e di lacerazione che sfuggono all’oggettivazione, alla determinazione di una logica che misura e classifica, costituendo piuttosto la dimensione di quel «fuoriscienza», spazio del non-sapere o esperienza interiore, che viene a profilarsi, possiamo dire con Deleuze, come una sorta di campo trascendentale immanente; prova del limite, ma anche condizione della possibilità del prodursi del soggetto e della sua conoscenza. Perché sempre davanti alla specie umana c’è una duplice prospettiva: da una parte la prospettiva del piacere violento, dell’orrore e della morte – quella propriamente della poesia – e, dall’altra, la prospettiva della scienza o del mondo reale dell’utilità […] solo l’utile, il reale hanno un carattere di serietà. Non abbiamo mai il diritto di preferire la seduzione: la verità ha dei diritti su di noi. E direi che ha tutti i diritti su di noi. Eppure noi possiamo, dobbiamo anzi, rispondere a qualche cosa che, non essendo Dio, è più forte di tutti i diritti: quell’impossibile cui non accediamo che dimenticando la verità di tutti quei diritti, che accettando la scomparsa36,

entrando nel Labirinto dell’esistenza, un mondo in cui non ci sono più né Dio né l’Io, il mondo ateologico di un soggetto suppliziato, spossessato della sua sapienza, depauperato di una conoscenza che vale solo in quanto al suo estremo, al limite del possibile, mostra la sua impotenza a rispondere, a dar senso all’esistenza di un essere mai compiuto. È qui che si innesta il proposito del Collège di “pensare” una sociologia sacra, una scienza dell’eterogeneo – spazio del sacro sinistro rimosso, o meglio, convertito dal potere in sacro destro – che risponda al bisogno di cambiamento richiesto dall’urgenza politica del momento. Una “conoscenza” che spinga all’azione uomini che non sembrano più in grado di impadronirsi della loro esistenza, di uscire dalla «volgarità statica della società disaggregata» per mutar faccia al mondo, senza perdersi nella sabbie mobili della retorica di partito in cui finiscono per annaspare uomini e progetti. Per Bataille non si tratta però, come per Caillois, di passare ad una più vasta congiura», ad una forma di comunità che abbia alla sua base l’azione, quanto piuttosto della messa in atto di una «congiura sacra», una comunità universale che, nel principio della differenza, trova il nucleo di una coesione comuniale capace di risacralizzare l’esistenza, ricomponendo un legame interattrattivo in cui ciò che si condivide è un’assenza, quella blessure che ci attraversa e che ci si rivela solo nel contatto tra esseri scissi, dice Bataille, «sospesi sul loro vuoto». Il sacro è allora la forza che “lega” una società, ma questo vive al limite del

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G. Bataille, L’Impossible, Minuit, Paris 1950, trad. it., “L’Impossibile”, in Id., Tutti i romanzi, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 214-339, Prefazione alla seconda edizione, p. 218.

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politico, fuori di qualsiasi comunità di fatto, nella realtà esistenziale dell’uomo della tragedia che «considera ridicolo rigettare sugli altri tutto ciò che gli appare terrificante», rifiutando così di fare della sua vita il teatro di una rappresentazione comica per il potere. L’uomo della tragedia afferma l’assurdità della vita umana e, ponendosi fuori dalle organizzazioni sociali primarie – quelle ufficiali, regolate e amministrate – si ritrova in un’organizzazione secondaria, una «comunità elettiva», giovane e misteriosa la cui virulenza contagia, risvegliandola, la vecchia società pubblica «pesante e lenta», facendo germinare un nuovo modo d’essere. Ciò delinea una torsione ontologica, possiamo dire, della sociologia sacra che, ne Le coupable, si caratterizza nella forma di un’etica dell’incompiutezza che risponde all’u[briß della Fenomenologia dello Spirito, al desiderio di una compiutezza della conoscenza con “l’ignoranza amata” (Unwissenheit) propria di “una saggezza senza speranza”. La compiutezza hegeliana è, alla fine, solo un “fallimento”, perché l’unico compimento possibile della conoscenza ha luogo solo se dico che l’esistenza umana ha un inizio che non sarà mai portato a termine. Quand’anche l’esistenza raggiungesse la sua estrema possibilità, non potrebbe trovare soddisfazione, per lo meno quella delle esigenze che vivono in noi. Essa definirebbe false queste esigenze a giudizio d’una verità che le apparterrà in uno stato di dormiveglia. Ma, per sua norma, questa verità è tale solo a una condizione, che io muoia e con me l’incompiutezza propria dell’uomo. Eliminata la mia sofferenza, quando l’incompiutezza delle cose cessa di rovinare la nostra sufficienza, la vita si allontanerebbe dall’uomo; e con la vita, la sua verità lontana e inevitabile: che incompiutezza, morte e desiderio insaziabile sono la ferita mai chiusa dell’essere37.

Ma come ritrovare il sacro? Come rimettere in gioco il negativo? Come riattivare l’effervescenza di una comunicazione comuniale che è assoluta apertura degli esseri alla propria ineludibile alterità? All’alterità irriducibile degli altri? Se nel suo insieme il Collège concorda nel perseguire, come abbiamo visto, una scienza dell’eterogeneo che rimanda a quel sacro che è fuggito dal mondo e dal cuore di un’umanità che è sempre più impegnata in una prassi dialettica che ci vede attori di un’indomabile violenza sugli oggetti, sui nostri simili e su noi stessi, diverso è il modo di intendere una possibile fuoriuscita dal processo di omogeneizzazione e di identificazione che muove la strategia del potere dominante. Il susseguirsi delle conferenze e delle discussioni mette infatti in evidenza da un lato la distanza che si va formando tra Bataille, Caillois e Leiris circa l’“uso” del sacro e, dall’altro, il contrasto sul modo di intendere il potere e quindi la comunità. Parlando de “Il sacro nella vita quotidiana” Leiris cerca di comprenderlo e farcelo comprendere nei suoi tratti peculiari – fuori dal circolo semantico del

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G. Bataille, Il colpevole, cit., p. 36.

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sacro ufficiale –, a partire dai fatti umilissimi della vita di tutti i giorni, come ciò che appare con i caratteri del “prestigioso”, del “pericoloso”, dell’“insolito”, del “proibito”: qualcosa dai contorni imprecisi, ma nello stesso tempo qualcosa di rigoroso, spazio di un non-senso che dà senso al mondo. Mentre Leiris pensa il sacro oscillando «tra un registro soggettivo, autobiografico-narrativo, ed uno tassonomico, puramente descrittivo di eventi classificati secondo i criteri elaborati in sede metodologica», rimanendo così “chiuso” nell’ortodossia dell’analisi sociologica, Bataille si muove verso una caratterizzazione del sacro marcatamente «esistenziale (nel senso letterale del termine): sacro è ciò che mette in gioco l’esistenza inscrivendola dentro la necessità di una morte comune», proprio perché è la morte che crea la comunità, la morte – quella di Laure per Bataille – che «si spartisce con gli altri»38. Per quanto riguarda il contrasto con Caillois – che come abbiamo visto, ruota in particolare attorno alla concezione del potere – è chiarificante quanto lo stesso Caillois afferma nel saggio “Il vento invernale”39 che completa il trittico che compone il “manifesto” del Collège. In particolare Caillois rileva come il processo di ri-sacralizzazione della società deve essere posto nell’ottica di una conversione delle forze sataniche in quelle luciferine, in una sorta di educazione del senso della rivolta, in maniera tale che lo spirito di sommossa si trasformi in un «atteggiamento largamente imperialista, e che ci si persuada a subordinare le proprie reazioni impulsive e turbolente alla necessità della disciplina, del calcolo e della pazienza». Si tratta allora della messa in atto di un vero e proprio processo di sursocializzazione attraverso la costituzione di una «struttura più solida e più densa»40, una comunità elettiva, segreta e disciplinata – molto vicina all’ordine della Compagnia di Gesù – capace di contrapporsi in maniera forte a quella labile e vecchia che ci governa. Per Bataille però il segreto non rimanda ad una “congiura” politica, ad una comunità di fatto, ma ad una comunità di esistenza, comunità inconfessabile, che è l’unità comuniale in cui ciascuno trova il senso della propria incompiutezza. È nella volontà di tragedia più che in quella di potenza che si forma il nucleo attorno a cui convergono le passioni e le emozioni che attraversando/frammentando i numantini ne segnano, nella morte, la possibilità di un’impossibile comunità. Questo ci fa comprendere più chiaramente anche il senso del richiamo di Bataille a Sade, la necessità di denunciare il movimento microfisico di un pote38 39 40

R. Esposito, Categorie dell’impolitico, cit. pp., 300-308. Cfr, R. Caillois, “Il vento invernale”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 42-55. Ivi, pp, 46-47. Cfr. A. Laserra, “Bataille e Caillois: Osmosi e Dissenso”, in J. Risset (cur.), Il politico e il sacro, cit., pp. 120-136, che ben evidenzia come l’osmosi intellettuale che muove i due direttori del Collège non basta a Bataille: «la continuità dell’esistenza è totale messa in gioco dell’essere, è aprirsi alla propria morte ‘qui dépasse l’homme’. Questa è l’esperienza cui invita l’Acéphale e che Bataille teorizza con Caillois al Collège. Ma una lucidità di diverso tipo spinge Caillois verso mete diverse che si precisano al momento in cui l’esperienza del Collège è travolta dalla guerra», ivi, p. 135.

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re che de-sacralizzando la vita si è fatto sempre più sottile, preciso e inglobante, attraverso operazioni di riflessione che «sostituendo dappertutto agli oggetti esteriori, a-priori inconcepibili, delle serie classificate di concezioni o di idee» ha costruito una rappresentazione del mondo tanto distante dal reale che non può arrivare ad una fase terminale nel senso dell’escrezione che dal momento in cui gli scarti irriducibili dell’operazione si troveranno determinati41.

Scarti che la filosofia non ha rinunciato ad identificare nelle sue speculazioni, ad assimilare, anche se solo “sufficientemente”, nelle forme astratte di una totalità senza contenuto, di un mondo infinito o non conosciuto. Così se le religioni nel loro sviluppo autonomo avrebbero potuto accostare il sacro nella sua interezza, istituzionalizzandosi hanno operato una scissione tra cielo e terra, tra divino e demoniaco, superiore e inferiore, cha ha prodotto una progressiva omogeneizzazione della dimensione superiore-divina. Una positivizzazione che ha fatto assumere a Dio i tratti esemplari del Padre, con tutto il suo bagaglio di obbligazioni, di «proibizioni e di licenze parziali che canalizzano e regolarizzano sacralmente» gli impulsi negativi chiudendo così, di fatto, il sacro fuori di ogni possibile appropriazione. Si comprende allora come l’eterologia, che Bataille pensa come «scienza di ciò che è tutt’altro», differisce sostanzialmente dalla religione e per questo sarebbe più appropriato usare il termine di agiologia, dove agios porta in sé l’analogo doppio senso di sacer, tanto sporco che santo. Ma è soprattutto il termine scatologia (scienza dei rifiuti) che conserva nelle circostanze attuali (specializzazione del sacro) un valore espressivo incontestabile, come doppione di un termine astratto quale quello di eterologia42.

Qui il termine scienza non indica il carattere di oggettività proprio della conoscenza scientifica, poiché anzi essa si rivolge proprio agli “scarti” rimossi in quanto non omogeneizzabili né appropriabili nel lavoro del pensiero intellettuale e, anzitutto, a quelle pulsioni violente e irriducibili che nella sfera della vita umana vengono identificate come antisociali, poiché rivolte a separare gruppi di forze contrapposte, ciascuno dei quali è nella necessità di escludere l’altro. Per questo motivo la rivoluzione, come movimento di separazione e di espulsione, assume i tratti esclusivamente negativi del sacro; per un verso infatti mette in atto una destrutturazione della sintassi produttiva del mercato capitalistico e, per un altro verso, smaschera l’artificiosità dell’immagine “alta” dell’uomo del dovere, l’uomo della morale borghese che trova la sua prima legge proprio nel consumo produttivo. Solo in quanto forza eterologica quindi la rivoluzione può eludere la presa utilitaristica delle ideolo41 42

G. Bataille, “Il valore d’uso di D. A. F. de Sade”, cit., p. 126. Ivi, nota p. 127.

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gie. Ma, osserva Bataille, poiché si tratta di stati di forze inconsce, di “zone d’ombra” del pensiero e della vita che limitano/trasgrediscono la potenza dello sguardo dell’occhio teorico, possono essere “dette” solo nella forma paradossale di un non-sapere – sentite nell’esperienza interiore di una violenza del pensiero che squassa/trasgredisce il proprio essere e l’essere del mondo –, eccedendo quindi ogni verità posta a garanzia della conoscenza. È solo negando le prerogative di un sapere che ha chiuso la vita nell’univocità logica e grammaticale del linguaggio proposizionale ed ha soffocato il desiderio in una morale degli schiavi timorosa della gioia e del piacere, che si può aprire lo spazio di una comunicazione in cui senso e verità hanno finalmente rotto la loro dipendenza dal Logos. Per questo Bataille non costruisce né progetta un’eterologia, ma ne sperimenta la possibilità, ne pratica la violenza alla fine del pensiero, al limite dell’omogeneo e della consumazione razionale, proprio là dove il processo intellettuale produce i suoi “scarti”, procedendo così al rovesciamento completo del processo filosofico che da strumento di appropriazione che era passa al servizio dell’escrezione e introduce la rivendicazione delle soddisfazioni violente implicate dall’esistenza sociale43.

Allo sguardo filosofico, teorico razionale, che penetra le cose e coglie le essenze fa da contrappunto uno sguardo che non vede, lo sguardo di un occhio cieco, pineale, la ferita vuota della coscienza da cui emerge l’ignoto, la notte tremenda che contamina la chiara certezza dell’essere/Io alterando ogni espressione/forma di identità, minando il primato di una cultura della visione e dell’immagine fondata sulla coscienza e sulla conoscenza, in quell’«Occhio della polizia, simile all’occhio della Giustizia umana» che ne La Nascita della tragedia Nietzsche indica come l’occhio di Socrate. L’organon di una visione straordinaria che, come quello dell’aquila, animale solare per eccellenza, vede al limite dell’altezza, fin dentro il Sole, rispecchiandosi in quell’ideale di forma e bellezza che domina e dà senso al reale. Occhio della mente capace di una visione intellettuale in cui, dice Bataille, possiamo cogliere, anche se con molta difficoltà, proprio come nell’organo di senso, una macchia cieca (tache aveugle) che può essere trascurabile e senza conseguenze, «nella misura in cui l’intelletto è ausiliare all’azione», mentre deve essere, al contrario, portata in primo piano quando «nell’intelletto si considera l’uomo stesso, voglio dire un’esplosione del possibile dell’essere»; allora la macchia assorbe l’attenzione: non è più la macchia a perdersi nella conoscenza, ma la conoscenza in essa. L’esistenza chiude in tal modo il cerchio, ma non ha potuto farlo senza includere la notte da cui esce solo per rientrarvi. Poiché procedeva dall’ignoto al noto, deve invertirsi al vertice e ritornare all’ignoto44,

43 44

Ivi, p. 128. G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 176.

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verso quella dimensione del “non fabbricato”, del riso, della poesia, dell’estasi che fanno precipitare la vita dalla dimensione certa del noto nell’incerto e lacerante spazio di ciò che per sua natura è inconoscibile. Spazio dell’esistenza irriducibile alla conoscenza, zona d’ombra che Hegel ha espulso dal sistema in quanto non-sapere, intralcio quindi al lavoro necessario all’io per il suo compimento. Ma la circolarità dialettica porta in sé la contraddizione finale: il suo compimento è infatti l’affermazione di un non-sapere definitivo, il riconoscimento che voler conoscere fino in fondo conduce, inevitabilmente, in quell’oscurità senza fondo in cui si ode solo il silenzio dell’estasi, un non-sapere che non si fa mai mezzo per un fine. Così mentre il sapere lavora al compimento, poesia, riso, estasi non sono l’uomo compiuto, non danno soddisfazione. A meno di morirne, li si abbandona come un ladro (o come si abbandona una ragazza dopo l’amore), inebetito, respinto stupidamente nell’assenza della morte: nella conoscenza distinta, l’attività, il lavoro45.

3. “Essere-insieme”. Rivoluzione e comunicazione Vivere una vita all’altezza della morte, vivere «senza progetto»: è questo per Bataille il senso di un essere-in-comune che non si lascia afferrare/identificare; una rivoluzione, l’essere di una forma di pensiero e di un modo d’esistenza che non sono chiamati «a sussistere, a insediarsi», a lavorare per rivolgere il potere che li osteggia sostituendovi realtà altrettanto forti e mortifere perché, come sottolinea Blanchot, ciò che importa non è tanto l’effetto rivoluzionario quanto la sua capacità di innescare una “comunicazione esplosiva”, di lasciare, come nel caso del Maggio ’68, che si manifestasse, al di fuori di ogni interesse utilitario, una possibilità di essereinsieme che rendeva a tutti il diritto all’uguaglianza nella fraternità attraverso la libertà di parola che esaltava ciascuno. Ciascuno aveva qualcosa da dire, talvolta da scrivere (sui muri); cosa dunque? Questo poco importava. Il dire prevaleva sul detto. La poesia era quotidiana. La comunicazione ‘spontanea’, nel senso che pareva senza ritegno, altro non era che la comunicazione con se stessa, trasparente, immanente, malgrado le lotte, i dibattiti, le controversie, in cui l’intelligenza calcolatrice si esprimeva meno che con l’effervescenza quasi pura (in ogni caso, senza disprezzo, senza alterigia né bassezza) – per cui si poteva intuire che, rovesciata o meglio negletta l’autorità, si manifestasse una maniera ancora mai vissuta di comunismo che nessuna ideologia era in grado di recuperare o di rivendicare46.

Ciò che importa è il formarsi e l’affermarsi di una passione che sfida la legge e oltraggia la morale del dovere, precedendo e orientando il possibile 45 46

Ivi, p. 177. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., pp. 66-67.

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senza mai compromettersi col reale. È il senso del mondo vero degli amanti: una fuoriuscita da un mondo divenuto favola che racconta se stesso senza «guardare in faccia la morte», incapace negli affanni di un esserci votato all’utile e alla felicità, di quella solidarietà necessaria ad una vera gloria: «chi guarda la morte, e se ne rallegra, già non è più un individuo soggetto alla putrefazione del corpo»47, è già inserito nel movimento comuniale di quanti si sono scelti per condividere, nella morte, una perdita irreversibile che, proprio in quanto tale, paradossalmente rinnova la vita, nell’ottica di un prospettivismo che non giudica, ma ama la vita affermandola fin dentro la morte. In questo contesto possiamo comprendere perché alla rivoluzione come atto eclatante sul palcoscenico della storia deve seguire una pratica eterologica, la pratica violenta di una libertà morale – quale quella «professata per la prima volta da Sade» – il cui senso rimanda all’esperienza di condivisione orgiastica che si instaurava nei riti sacrificali propri delle religioni e delle culture primitive; una pratica in cui si rinnova l’esperienza dell’alterità che ci abita come avviene ad esempio nell’incontro con le culture di colore capaci, dice Bataille in una straordinaria contemporaneità, di innestare nell’equilibrio della logica dei Bianchi quella energia inassimilabile che può ri-mettere la morte all’opera, disperdendo «la coscienza della abominevole inibizione che paralizza le collettività della loro razza»48. Una emancipazione della vita che, in contrasto con la tendenza del surrealismo a “recuperare”, conciliare, il negativo – nelle sue diverse espressioni – nella positività di una dimensione alta, ideale, morale, a svantaggio della dimensione concreta, materiale dell’esistente, vede Bataille, in contrapposizio-

47 48

G. Bataille, “La gioia dinanzi alla morte”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 415-422, p. 422. Ricordiamo come a proposito di una “rivoluzione” non meramente riducibile ai suoi effetti Kant, nel saggio del 1798 Il conflitto delle facoltà, rispondendo alla domanda “che cos’è la rivoluzione?” ne individua il senso di segno di progresso del genere umano non tanto nei suoi effetti sociali più immediati e più eclatanti, quanto nel sentimento di entusiasmo che è capace di generare anche negli uomini che, pur non essendone i diretti agenti, vi sono emotivamente coinvolti facendone, qualsiasi sia il suo esito un segno di “rischiaramento”. Cfr. J. F. Lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, Guerini, Milano 1989, dove l’entusiasmo della platea della storia è il sentimento che accomuna, al di là del clamore delle res gestae, gli spettatori più lontani dallo spettacolo rivoluzionario, in una disposizione d’animo che, nella direzione di quanto Kant afferma ne La critica del giudizio, nasce da «una certa rappresentazione che occupa il giudizio riflettente». Si tratta di un modo, possiamo dire, “estremo” del sublime, dove l’incommensurabilità tra le idee della ragione e le possibilità presentative del soggetto conoscente «non solo fallisce […], ma per così dire si rovescia» in una «presentazione semplicemente negativa, una sorta di ‘astrazione’ caratterizzata con una certa audacia come una ‘presentazione dell’infinito’». Un movimento che fa dell’entusiasmo una sorta di divina follia, un accidente dell’intelletto che, se non ha in sé un valore etico, tuttavia conserva «nella sua sfrenatezza episodica una validità estetica, poiché è un segno energetico, un tensore del Wunsch» che in quanto tale è in sé già un indicatore di progresso, ivi, p. 49.

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ne al carattere sovrano dell’aquila surrealista, aggressiva e autoritaria, segno dell’imperialismo politico e dell’idealismo filosofico, portare in primo piano il basso materialismo. La tendenza al basso fatta segno dalla vecchia talpa marxista che specifica l’azione rivoluzionaria delle masse; un’azione che scava nel terreno organizzato/arato dal potere, agendo nello spazio concreto dei bisogni materiali, producendo un vero e proprio smottamento, quel “sollevamento geologico” – ricordato nel Manifesto del Partito Comunista – che non ha niente a che vedere con la sublimazione dell’immediatezza del reale nella trasparente calma su-reale di un cielo in cui vola, indisturbata e dominante l’aquila idealista/imperialista; un volo icariano verso il potere/Sole destinato però allo scacco, alla caduta. Quello del surrealismo è il volo estraniante di un idealismo rivoluzionario che tende a fare della rivoluzione un’aquila al di sopra delle aquile, una superaquila che abbatte gli imperialismi anteriori, un’idea radiosa come un adolescente che si impadronisce eloquentemente del potere a beneficio di un’utopica ispirazione,

una deviazione, sottolinea crudamente Bataille, che conduce inevitabilmente all’insuccesso della rivoluzione e alla soddisfazione del bisogno eminente di un idealismo con l’aiuto di un fascismo militare49.

Anche la tracotanza, che segna la ribellione di Prometeo al Padre, perpetrata attraverso il furto del fuoco, è marchiata dallo scacco; ma la rivolta dell’eroe greco «risente del complesso di castrazione»50, egli è tale solo nella misura in cui ne patisce, sul proprio corpo, l’esisto sanguinoso. «Prometeo è il grande suppliziato che soggiace nella passività di tipo femminile collegata all’angoscia della castrazione», ma questa è a sua volta «iscritta nell’autocastrazione, è assunta come sfida nei confronti del padre e culmina nell’accettazione della morte dietro cui si profila l’immagine della donna, della madre»51, quel49 50

51

G. Bataille, “La ‘vecchia talpa’ e il prefisso su nelle parole superuomo e surrealista”, in Id., Critica dell’occhio, cit., pp. 136-154, p. 139. «Se si affermasse che il complesso di castrazione fa rivivere a quelli che atrofizza una avventura umana essenziale il cui risultato tragicomico, incontestabilmente ridicolo, caratterizza e definisce la condizione umana, l’affermazione passerà evidentemente per anticipata, ma viene il momento in cui le esitazioni degli spiriti scientifici appaiono non soltanto inopportune ma vili. È preferibile introdurre, al contrario, una anticipazione più caratterizzata ancora: sarebbe possibile determinare, nel corso di ogni complesso di castrazione, un punto solare, un barbaglio luminoso quasi accecante che non ha sbocco che nel sangue della carne tagliata e nel vacillamento nauseato, nel momento in cui il viso diventa livido [...]. Perché il fanciullo che nel terrore di essere mutilato cerca di provocare l’esito sanguinoso, non dà affatto prova di mancanza di virilità: un eccesso di forza, al contrario, e una crisi di orrore lo proiettano ciecamente verso tutto ciò che vi è al mondo di più tagliente, cioè lo splendore solare», G. Bataille, “L’occhio pineale”, in Id., Critica dell’occhio, cit., pp. 108-114, p. 113. C. Pasi, Georges Bataille. La ferita dell’eccesso, cit., p. 104.

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la dimensione del femminile, parte maledetta, la cui passività sente l’eterogeneo, il sacro sinistro, come propria dimensione, spazio irriducibile del divenire della differenza, apertura dell’essere nell’alterità. Ma gli uomini continuano a rubare il fuoco dal cielo per riconoscersi: continuano a percorrere un cammino di conoscenza che fa dell’efficienza e del profitto le sue uniche cifre. L’homo œconomicus-consumans, emblematicamente incarnato dall’uomo tecnologico, crede in ogni possibile, anche se illusoria, via di fuga dalla pesantezza dell’esistenza, accetta qualsiasi spiegazione che lo sollevi dall’impegno e dalla responsabilità. Per questo l’altezza a cui guarda l’avanguardia surrealista appare a Bataille una vera e propria mistificazione, una conversione/riduzione dei valori bassi che vive nel suffisso su, dove, con una tendenza icariana, vengono elevati associandoli a valori alti, immateriali e trascendenti. L’impresa surrealista compie quindi – e ciò è particolarmente evidente nelle dichiarazioni fatte da Breton nel Secondo manifesto surrealista – una sorta di deviazione etica indirizzando i valori del negativo nella positività di valori che trascendono la concretezza del divenire, così che «tutto ciò che non ha per fine l’annientamento dell’essere in un brillante interiore e cieco», appare volgare e l’unica mossa possibile rimane quella di una radicale eliminazione, un superamento delle «contraddizioni insanabili della natura». Un lavoro che non ha però per oggetto il vuoto essere-nulla di Hegel, ma la piena e luminosa bellezza della volta del cielo, tutto il mondo dei falsi valori della borghesia e della morale tradizionale che hanno “maledetto” il mondo basso – impiegandoli nella letteratura – per raggiungere una grandezza che, alla fine, risulta comica e patetica dimenticando proprio quegli impulsi profondi, bassi, che hanno messo in movimento la “rivolta” surrealista. Una condanna della terra, del mondo che è mondo, che rende la “scappatoia icariana” una falsa via d’emancipazione; perché è nelle fessure della terra, nella bassa terra dove l’agitazione umana è volgare, e «forse inconfessabile», dice Bataille, là dove vive e cresce la vecchia talpa rivoluzionaria che la libertà umana può trovarsi «al riparo da tutti gli attenti! Del cielo che ordina oggi allo spirito di qualsiasi uomo la più imbecille elevazione»52; da una legge e da una morale trascendenti, che continuano a negare il diritto di parola all’eterogeneo, alla quotidianità del desiderio e della lotta. La funzione sovversiva che il surrealismo attribuisce all’arte, alla letteratura e alla poesia è allora equivoca nella misura in cui artisti, letterati e poeti rinunciano al bisogno di essere uomini chiudendo il senso della loro vita nella realtà fittizia delle loro creazioni, non riuscendo così ad avere altro che un’esistenza “zoppa”, dissociata dal reale. Un’esistenza servile, spesa in funzione di un progetto, per la «gloria della Chiesa o dello Stato», usata per ac-

52

G. Bataille, “La ‘vecchia talpa’ e il prefisso su nelle parole surrealista e superuomo”, cit., p. 153.

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crescere una fede religiosa o un’ideologia politica, mentre la letteratura autentica non è azione, è comunicazione; è una prometeica trasgressione dei limiti, delle norme e dei principi della morale alta, messa in discussione delle regole e delle leggi della società. Per questo la letteratura è colpevole, senza diritti, è il sospirato ritrovamento dell’infanzia. Ma un’infanzia che comandasse, avrebbe una verità? Di fronte alla necessità dell’azione, si impone l’onestà di Kafka, il quale non concedeva a sé alcun diritto53.

Nessuno però, osserva Bataille ne “L’apprendista stregone” – uno dei quattro testi che compongono Per un Collegio di Sociologia, apparsi nel luglio del 1938 su la “Nouvelle Revue Française”54 quando ormai il Collège era attivo da più di un anno –, si rende conto della desolazione di un’esistenza ridotta ad organo servile, nessuno comprende la tristezza di chi si fa politico, scrittore o scienziato, di chi diviene solo una funzione della società, rinunciando a diventare “uomo intero”. L’artista, il politico e lo scienziato che temono il destino umano e si rifugiano nell’inganno del loro sapere non possono essere virili; tollerano l’esistenza, ma non amano la vita, la tradiscono e nella misura in cui mentono a se stessi, distogliendo lo sguardo dalla realtà di miseria e dolore di un universo senza causa e finalità, mentono agli altri ingannandoli con le loro “costruzioni” alte, utili. Così mentre l’uomo di scienza mascherando nella sua volontà di conoscenza il senso dell’esistenza umana ne riduce la complessità nelle verità delle discipline, abdicando quindi esplicitamente alla parzialità di un sapere da costruire, l’inganno dell’artista è molto più sottile e difficile da scoprire; nulla ha senso nell’arte se non è finzione, ma cosa significano quei fantasmi dipinti, quei fantasmi scritti, evocati allo scopo di rendere il mondo in cui ci destiamo un po’ meno indegno di essere abitato dalle nostre esistenze inoperose? Tutto è falso nelle immagini della fantasia. Falso a causa di una menzogna che non conosce più né esitazione né vergogna55.

Scienziati, politici, intellettuali e artisti incarnano allora le forme di un’esistenza dissociata, una non esistenza, in quanto non sono niente di più di una funzione all’interno di una società subordinata all’azione, dove l’agire assorbe ogni volontà, annulla ogni possibilità non volta all’utile allontanandosi

53 G. Bataille, La letteratura e il male, cit., p. 12. 54 Gli altri testi sono L’“introduzione”, firmata da Roger Caillos, “Il sacro nella vita quotidiana” di Michel Leiris, “Il vento invernale” di Roger Caillois e una “Dichiarazione del Collegio di Sociologia” firmata da Bataille, Caillois e Leiris. 55 G. Bataille, “L’apprendista stregone”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 16-31, p. 20. Una traduzione si trova anche in G. Bataille, Critica dell’occhio, cit., pp. 275-292.

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sempre di più da quella totalità dell’esistenza che non sarà mai la collezione/somma di capacità e di conoscenze, somma di “infermità inguaribili”, perché la vita, come corpo vivo, non si lascia sezionare; la sua complessa semplicità non si lascia rappresentare nelle opere né ridurre nelle istituzioni. La vita che vive è, infatti, come quel “mondo degli amanti”, mondo vero «che si costruisce a partire da un insieme di casualità che dà la risposta attesa a un’avida e potente volontà d’essere»56, dove nel silenzio della passione si comunica la realtà di un’esistenza a cui la scienza, ma anche l’arte e l’azione politica non possono dare che un senso frammentario. La comunità degli amanti è lo spazio proprio di una comunicazione sensibile, emozionale; un modo d’essere che anche se non va visto come la «forma elementare della società ha però per l’uomo un valore dimostrativo». Il mondo vero degli amanti infatti, in quanto espressione di una radicale e libera decisione d’essere con l’altro, di condividere una volontà d’essere che solo nella condivisione può essere, solo in quanto volontà di vivere fuori di ogni progetto, di un calcolo che fissa il possibile, costituisce «una delle rare possibilità dell’esistenza». La volontà che anima l’essere-in-comune di due amanti non è in niente simile alla volontà che “delibera e interviene”, non segue un progetto né alcuna predeterminazione, ma è spinta solo dal cieco e rischioso desiderio di vivere quell’esperienza, perché come «una bella partita a carte ha valore solo se le carte, mescolate e tagliate, non sono disposte secondo una combinazione anteriore che costituirebbe l’atto del barare», così la totalità dell’esistenza trova la sua ragion d’essere nell’inconsapevolezza del rischio, in quell’innocenza nietzscheana del fanciullo eracliteo che gioca col caso sottraendo la vita a qualsiasi disposizione ontoteo-teleologica, ad un Uni-verso, chosmos ordinato, ove ciascuno ha diritto d’essere secondo l’ordine/posto assegnato. «Perché», come dice Zarathustra, «bisogna che il leone diventi bambino»; perché il bambino/ vita è innocenza e oblio, e il bambino ha sempre bisogno del gioco, la vita esige sempre un nuovo inizio, un primo movimento – volontà di chance – un «sì» sacro che è rinascita dalle ceneri di una civiltà dispersa: la morte di Dio è affermazione della vita denudata, della complessità contraddittoria di un reale che ci segna e attraversa, una materialità caotica, una temporalità insondabile che dobbiamo vivere. Ma vivere per Nietzsche/Bataille non significa fare ordine paralizzando così il fluire delle forze in formule e dottrine, ma creare, inventare composti instabili, equilibri dinamici, esserci nell’«eterna gioia del divenire» di un compimento che non sarà mai compiuto. Perché proprio la casualità dell’essere è il segno per noi di una libertà indecidibile, la cifra di una assenza di senso, non-senso, che ci ri-immette nel libero movimento di un chaosmos57 che è il libero gioco delle forze che compongono il mondo.

56 57

Ivi, p. 26. Riferendosi alla “libertà sovrana”, che solo la vecchiaia è in grado di donarci, Deleuze e Guattari si chiedono – nel loro ultimo lavoro “a quattro mani” – Che cos’è la filosofia? E rispon-

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È proprio l’esperienza di una vita che si gioca, la «sensazione» d’essere giocati, che mette in atto una conversione del punto di vista sulla vita: allora «l’intera esistenza» ci appare come «situata al di là del senso», un’incoerenza che è la presenza cosciente dell’uomo nel mondo in quanto egli è non-senso, e non ha altro da fare se non essere quello che è, non potendo più superarsi, attribuirsi un qualunque senso nell’azione,

e dove il non-senso non rimanda all’azione di negazione di un qualche oggetto, poiché l’intenzione che rifiuta ciò che è privo di senso è infatti il rifiuto di essere totali, per questo rifiuto noi non abbiamo coscienza della totalità dell’essere in noi. Ma se dico non-senso con l’intenzione contraria di cercare un oggetto libero di senso, non nego nulla, enuncio l’affermazione nella quale tutta la vita si illumina nella coscienza […] se abbandono le prospettive dell’azione, mi si rivela la mia perfetta nudità. Sono al mondo senza aiuto, senza appoggio, sprofondo. Non c’è altra soluzione che un’incoerenza senza fine, dove mi potrà condurre soltanto la mia ‘chance’58.

È nell’esperienza ex-statica della chance che ci si dà, liberamente, come un lampo che illumina la notte dell’istante, l’infinita possibilità che è la vita; come un dono inaspettato a cui dobbiamo decidere di abbandonarci, di aderirvi amandolo come nostro destino, perché è “chance di tutti gli uomini e loro luce”, caso e possibilità, trasgressione che è esperienza del limite, esercizio del pensiero al limite del pensiero, pratica di un modo d’essere al limite del possibile, messa in gioco radicale del proprio essere, dell’io che si è.

58

dendo con Nietzsche ci indicano il proprium di quest’arte nella capacità di creare concetti, perché questi «non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c’è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati», una creazione, un atto imprevedibile che tende un ordine nel Chaos, un piano di immanenza, nel divenire assoluto, folle, “inconsistente” della vita. Ma ciò che interessa i nostri pensatori è che il piano di immanenza – la consistenza prodotta dal pensiero – non pretenda ad essere unico, Il piano, un nuovo fondamento che contro il chaos ricostituirebbe un nuovo Chosmos definito, segno di quell’idea terribile che fa star male Zarathustra. Il pensiero sconvolgente e radicale che ciò che torna è il Tutto, il Simile, l’Analogo, il Negativo, un tempo cardinale che scalza dal suo cerchio la differenza. L’atto del pensare in quanto creazione di concetti, in quanto estrazione dal chaos di un che di essere, non deve né produrre una trascendenza che subordina a sé l’immanenza né costituire una forma al disopra della materia, ma affermare nel suo movimento la “doppia immanenza” che connette intrinsecamente ordine e disordine, trascendenza e immanenza. Chaosmos: è il movimento infinito e doppio che incrocia e distingue essere e pensiero, physis e nous, mostrando che ciò che torna non sono individui e mondi ma, secondo l’ottica stoica, solo gli eventi incorporei, eventi liberi da ogni effettuazione e incarnazione, liberi «sempre per altre volte» nel flusso indefinibile del rivenire dell’essere-differenza. G. DeleuzeF. Guattari, Qu’est-ce-que la philosophie?, Minuit, Paris 1991, trad. it., Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, in particolare la prima parte “Filosofia”. G. Bataille, Su Nietzsche, cit., p. 26.

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Una volontà di chance – quella modalità dell’esserci che nel sottotitolo del Sur Nietzsche Bataille indica come dimensione dell’oltreuomo – che è lo spazio di una libertà sovrana che, sottraendo la vita all’ordinamento secondo mezzi e fini, espone gli esseri al rischio dell’indeterminatezza, alla morte, al non-sapere, all’impossibile, ed è, in quanto tale, estrema adesione/scelta della vita contro ogni tentazione di consolazione trascendente: «non ho il potere di mettere al di sopra di me alcun oggetto – sia che io lo comprenda sia che mi strazi – se non il nulla: che non è niente». È questa, sottolinea Bataille, l’affermazione di una radicale immanenza della vita che si illumina però proprio nella follia della trascendenza; un falso che apre sulla verità della immanente immensità dell’essere, con tutta la sua “oscurità insensata”, un’assenza che non è il puro niente, ma il «fondo dell’essere pieno, questo fondo vero davanti al quale si dissipa ogni trascendenza». L’immanenza si decide allora proprio nell’adesione alla chance, nell’affermazione, come dice Nietzsche, di una volontà che è «aspirazione estrema e incondizionata», amor fati: adesione libera e responsabile, assoluta, all’evento, ad un esserci che si fa segno del caso, possibilità tra i possibili, contingenza indeterminabile che è affermazione della vita al di là del bene e del male. Un’adesione che induce in un stato di détresse, proprio nel punto in cui si percepisce la perdita di ogni certezza, in cui Dio, Io e Mondo perdono il loro valore, in cui non si scorge più una possibile organizzazione della vita nel sapere, in un progetto che chiude il possibile su se stesso. Détresse: angoscia che non allontana però dal gioco. «Non posso essere in gioco senza l’angoscia che mi dà il sentimento d’essere sospeso», dice Bataille, perché giocare significa tout court aprirsi alla chance, all’istante mai compiuto che illumina la notte di una vita utile, significa entrare nell’esperienza del limite e, nello stesso tempo, sentire la necessità di un superamento, di una trasgressione di tutto ciò che è stato disegnato dalla volontà di conoscenza, chiuso nell’ordine razionale e morale del mondo. La chance è quindi una casualità necessaria per andare dal possibile all’impossibile in una soluzione di continuità che non chiude più il cerchio della Storia. L’impossibile è allora la cifra di una fine che non chiude, di una compiutezza mai compiuta dove l’essere, come differenza e distanza da qualsiasi origine, delinea la forma di una soggettività e di una comunità indefinibili e indeterminabili, impolitici, come ha evidenziato Roberto Esposito, se questo significa trarre fuori da ogni ideologica sostanzializzazione individuo e comunità, ma politici o meglio etico-politici nella misura in cui l’assunzione della sovranità, come consapevolezza del nostro esser niente (rien), è indice di un “antiumanesimo” che non solo mette in discussione le più evidenti disumanizzazioni della vita, ma rende manifeste le difficoltà di un’ontologia che, come quella heideggeriana, dimentica la concretezza degli esseri nella loro singolarità irriducibile. Per riprendere le riflessioni di Bataille sulla letteratura, l’arte e la poesia e sulla loro capacità di trasgredire il falso positivo dei valori borghesi, per com-

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prendere il senso che egli dà alla rivoluzione, mi sembra utile richiamare la figura dell’“l’uomo integrale” che Pierre Klossowski porta in primo piano nella conferenza “Il marchese de Sade e la Rivoluzione”, tenuta il 7 febbraio 1939 al Collège. L’“uomo integrale” di Sade è il criminale regicida, l’uomo incapace di servire, di funzionare, è cifra della plasticità di un essere polimorfo che sovverte ogni modello di equilibrio statico, di normalità. È l’uomo di cui parla Bataille, nella “Prefazione” al Sur Nietzsche, che Klossowski introduce per rappresentare emblematicamente, contro la massa amorfa degli uomini medi – che preferendo un “regime sociale” che enfatizza l’idea dell’uomo naturale quale idealizzazione dell’uomo banale, «desiderano rigenerarsi nel corso del rivolgimento sociale e trovare in esso la loro soluzione» –, la categoria di quegli uomini che, appartenendo a un livello di vita superiore, hanno maturato, proprio a partire dal loro status, una lucida coscienza critica del reale59. Si tratta di “grandi borghesi” o “aristocratici illuminati”, libertini convinti che, nella consapevolezza di vivere un’esistenza moralmente aleatoria, hanno voluto rendere universale la struttura problematica che vive nella loro intimità e si aspettano, come nel caso del marchese De Sade, «che la Rivoluzione apporti una rifusione totale della struttura dell’uomo». La rivoluzione, in quanto segno estremo di una dépense improduttiva, vive nella figura e nei romanzi di Sade, nella sua volontà di trasgredire tutto il mondo riconosciuto dei valori alti, di sradicare dall’interno la volontà prevaricatrice di una Ratio omogenea e benpensante. È l’esigenza di un cambiamento radicale nel modo d’essere dell’uomo, la necessità di passare da un’esistenza dissociata, funzionale e servile ad un’esistenza totale, polimorfa – come afferma la realtà sadiana – che non è quella dell’uomo naturale, sempre assimilabile nella logica del potere e nelle regole di una morale del dover essere, ma l’esperienza di ciò che c’è di più irriducibile e che libera da qualsiasi legittimazione ideologica l’esercizio delle forze impulsive prospettando però, come evidenzia Klossowski, una sorta di “utopia del male” nella misura in cui ne esige l’esplosione, rendendo necessario per il mutamento uno stato di immoralità continuo. Come il fuoco, infatti, il male vive sempre sotto la cenere del bene, e

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«Posso esistere totalmente soltanto superando in qualche maniera lo stadio dell’azione. Altrimenti sarò soldato, rivoluzionario di professione, scienziato, non l’‘l’uomo totale’. Lo stato frammentario dell’uomo è in fondo come la scelta di un obiettivo. Quando un uomo limita i suoi desideri, per esempio, all’impadronirsi del potere nello stato, agisce, sa ciò che deve fare. Poco importa che fallisca: immediatamente si inserisce il suo essere con vantaggio nel tempo. Ogni istante diventa utile. In ogni momento gli è data la possibilità di procedere verso il fine prescelto: il suo tempo diventa un cammino verso tale fine (ed è tutto questo che abitualmente si chiama vivere). Lo stesso accade se ha come fine la sua salvezza. Posso conservare in me il carattere d’integralità soltanto rifiutando di agire, o almeno negando la preminenza del tempo riservato all’azione. Soltanto se non è subordinata a un soggetto preciso che la supera, la vita rimane integrale. La totalità in questo senso ha come essenza la libertà», G. Bataille, Su Nietzsche, cit., pp. 23-24.

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poiché se il disgusto, la noia, succedono al ‘crimine commesso al solo scopo di commettere un crimine’, è sempre e solo nel mondo istituzionale esistente che l’idea di simile crimine può nascere, seguito da una simile noia, cioè da una caduta di intensità; talmente forte è la tendenza funzionale degli impulsi strutturati istituzionalmente che l’individuo riesce, solo raramente, a mantenersi a un grado d’intensità impulsiva, quando essa cessa di rispondere in quanto mezzo a uno scopo assegnato dalle istituzioni, cioè, in generale, alla loro conservazione, a un significato trascendente, al bene di tutti.

Presa alla lettera la visione sadiana di una società nello stato di immoralità/criminalità continua rischia, secondo Klossowski, di perpetuare ad infinitum quella noia iniziale da cui è nato il crimine distruggendo nell’azione un istante dopo l’altro60. Ma seguendolo, come fa Bataille reagendo al surrealismo, nella sua “esclusione”, nella dissonanza di una parola che scava nell’inconfessabile, allora vediamo che dietro il suo invito a perseverare nel crimine il problema vero, piuttosto, sarebbe sapere che cosa, allo stato di ‘insurrezione permanente’, strutturerebbe ancora le forze impulsive, in quali atti queste forze si riconoscerebbero come non aventi altro fine che se stesse61.

Si tratta di quegli atti sovrani, operazioni sovrane – esplicitate da Bataille nel Metodo di meditazione – differenti da tutto quello che, ordinariamente, nell’impegno politico, appare come un’operazione subordinata, nell’impiego intellettuale del pensiero, a un possibile, ad un progetto e ad una logica che ingannano l’azione. Ma prima di entrare nel labirinto dell’Esperienza interiore – nel terreno mobile di una solitudine che disegna, come vicinanza nella distanza il legame di Bataille a Nietzsche o a Blanchot, i tratti di un’amicizia incondizionata – dobbiamo ancora soffermarci sul tema della letteratura e della sua relazione alla politica. Lo facciamo ricorrendo alle osservazioni che Georges Bataille ha messo in campo in “risposta” alle dichiarazioni di J.-Paul Sartre sul ruolo, inevitabilmente engagée, compromesso, della letteratura e dello scrittore/intellettuale ai fini di un rinnovato impegno sociale62. La presa di posizione di 60

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Pierre Klossowski “correggerà” quest’affermazione dicendo che non è la noia che minaccia l’immoralità, ma l’«istituzione nella quale rischia di impantanarsi la sua intensità insurrezionale», “Il marchese de Sade e la rivoluzione”, in D. Hollier (cur.), Il Collegio di Sociologia, cit, pp. 290-307, nota 16, p. 542. Conferenza pronunciata in occasione del 150° anniversario della Rivoluzione. Ivi, nota n° 17, p. 542. Per questo l’uomo naturale che la Rivoluzione vorrebbe far rivivere è per Sade un detestabile antagonista dell’uomo integrale che porta su di sé il marchio stesso del crimine, l’uccisione del re, la morte di Dio: occorre allora sostituire alla «fraternità dell’uomo naturale quella solidarietà del parricidio atta a cementare una comunità che non poteva essere fraterna perché cainica», ivi, p. 300. Cfr. J.-P. Sartre, “Présentation des ‘Temps Modernes’”, in Id., Situations, II, Gallimard, Paris 1948, trad. it. in F. Brioschi (cur.), Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, Milano

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Bataille si inserisce nel contesto dell’“indecisione” di Sartre tra una “politica della letteratura” e una “politica degli intellettuali”, tra impegno dell’opera e impegno dell’autore, dell’autorità dello scrittore. È per questo che ne “La littérature est-elle utile?” dichiara esplicitamente e in maniera radicale, in consonanza con Blanchot – e nello spirito polemico che lo aveva visto contrapposto a Breton e ai surrealisti –, che il proprium non solo dell’opera letteraria, ma dell’opera in genere, è quello di non-essere-utile, d’essere quindi, in quanto libera da fini e progettualità, misura d’ogni libertà63. La letteratura non è un “lavoro” in cui l’autore rinuncia alla libertà follemente divina del pensare per costruire un pensiero della realtà, ma è un gioco – il gioco maggiore – dove ogni mossa, ogni lancio di dadi risponde solo alla casualità del lancio, a un’imprevedibile combinazione che compone il divenire. Come la poesia maggiore la letteratura è allora un’opera in cui accade, come in Sade, una distruzione, una catastrofe che coinvolge nella sua rovina non solo il mondo raccontato, ma anche l’autore e il lettore64. Una catastrofe del soggettoautore, come dice Michel Foucault, che in quanto “unità originaria, salda e fondamentale” qualifica la storia delle idee corroborando, nello stesso tempo, il carattere assoluto e il ruolo fondatore del soggetto, mentre bisognerebbe parlare di “funzione autore” come di una delle possibili specificazioni della funzione soggetto65. Solo in quanto inoperosa l’opera vale, solo in quanto si perde ri-

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1976. A proposito dell’impegno a cui Sartre lega successivamente l’opera e lo scrittore, Michel Surya osserva che «se Sartre parlava in un primo tempo di letteratura impegnata, e parlava solo di essa, ora parla dello scrittore che s’impegna, e neppure in quanto scrittore, ma solamente in quanto ‘uomo’. Tale ritrattazione non è priva di conseguenze: Sartre passa allora da ciò che si sarebbe potuto chiamare una ‘politica della letteratura’ a ciò che sarebbe solo una ‘politica degli scrittori – che lui stesso chiamerà più tardi una ‘politica degli intellettuali’. È il prezzo che in apparenza era pronto a pagare affinché non si confondesse la sua posizione con quella dei comunisti (e l’esistenzialismo con il realismo socialista). Senza comunque che tale ritrattazione lo piegasse alla concezione borghese d’una letteratura morale». “Il salto mortale dell’engagement (Sartre, Bataille, attraverso Breton)”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 19-33, p. 25. Il riferimento è all’articolo di Sartre “Presentation”, in Temps Modernes, ott. 1945, dove il pensatore esistenzialista non usa ancora il termine intellettuale e dove, anche se non esplicitamente, viene alla luce un “nuovo” principio dell’impegno tale da escludere da sé la possibilità del tradimento, in contrasto con gli intellettuali borghesi, ma più tardi, in La Naturalisation de la littérature, anche con gli intellettuali comunisti ai quali contesta «una letteratura senza legami». Problematico rimane comunque il ruolo della letteratura rispetto all’impegno sociale tanto che se, inizialmente, Sartre sembra enfatizzare una vera e propria “politica della letteratura, in un secondo momento entra nell’ottica di una “politica degli scrittori”, o come dirà “degli intellettuali”. Cfr. G. Bataille, “La littérature est-elle utile?”, in Id., Œ.C., cit., XI, p. 13. «L’essenza delle sue opere è la distruzione: non solamente la distruzione degli oggetti, delle vittime messe in scena (che vi si trovano solo per soddisfare la furia negatrice), ma anche dell’autore e della sua stessa opera. Insomma è probabile che la fatalità per cui Sade scrisse e restò privo della sua opera, partecipi della verità stessa dell’opera: la quale porta la cattiva novella di una connessione dei viventi con ciò che li uccide, del Bene e del Male: si potrebbe dire dell’urlo più forte con il silenzio», G. Bataille, La letteratura e il male, cit., pp. 100-101. Cfr. M. Foucault, “Cos’è un autore?”, in Id., Scritti letterari, cit., pp. 1-21.

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nunciando ad essere riconosciuto/utile, l’uomo è sovrano; solo aderendo al destino di una libertà, paradossalmente condannata al fallimento nel reale, l’autore è sovrano. Per questo «non possiamo mai essere sovrani» se non nell’istante miracoloso, fuoritempo, che strappa l’esistenza al servaggio dell’intelligenza, al lavoro di un linguaggio che chiude hegelianamente la generosità dell’immediatezza sensibile nella fredda ri-producibilità del concetto. In quest’ottica lo scrittore è tale solo nella misura in cui si fa “sacro”, solo a condizione di trasgredire i limiti che, imponendosi alla folla, s’impongono parimenti a lui (dal momento che non è distinto da essa; dal momento che si distingue da essa solo non osservando tali limiti). Lo scrittore è sacro solo a condizione d’essere sovrano66.

La libertà è sovrana, è per tutti, solo a patto che lo scrittore mostri a tutti, nel suo modo d’esistenza, il mezzo per trasgredire quegli stessi limiti che gli si impongono. Così anche la scrittura e l’opera saranno sacre solo a condizione di farsi maggiori, di uscire dal cerchio assoluto del senso Unico, solo a patto di non generare significazioni, identità e certezze, perché in quanto manifestazione del senso, il discorso è la perdita stessa della sovranità. Lo stato di servitù quindi non è che il desiderio del senso: proposizione con la quale si sarebbe confusa la storia della filosofia; proposizione che determina il lavoro come senso del senso, e la techne come dispiegarsi della verità67.

Non è certo l’efficacia la misura dell’azione; questa ha il suo valore solo in una vita smisurata, la sola a possedere il «senso di ogni umanità». Per questo rispondendo al “maldestro” questionario sulla incompatibilità della letteratura con la vita, posto sulla rivista Empédocle da René Char agli inizi degli anni ’5068, Bataille, centrando la riflessione sulla letteratura engagée attorno ai termini dell’utilità e dell’interesse, paragona metaforicamente l’azio66 67 68

M. Surya, “Il salto mortale dell’engagement (Sartre, Bataille, attraverso Breton)”, cit., p. 32. J. Derrida, “Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve”, cit., pp. 338-339. «C’è in ogni uomo, lo si sa, una goccia di Ariele, una goccia di Calibano, più una particella di uno sconosciuto elemento amorfo, diciamo, per semplificare, carbone, suscettibile di trasformarsi in diamante se Ariele persevera, o, se Ariele rinuncia, in malattia delle mosche. Lasciamo a coloro che vorranno risponderci il compito di precisare il buon senso o meno, la logica o meno della nostra domanda e il suo quadro d’orientamento. Questionario maldestro e poco chiaro, si obbietterà. Ma è da voi, avversari o amici, che questionario e risposte si aspettano lumi», R. Char, “Esistono incompatibilità”, trad. it. in C. Grassi (cur.), Georges Bataille. Conferenze sul non-sapere e altri saggi, cit, p. 204. Il testo raccoglie ciò che resta degli interventi tenuti da Bataille, tra il 1953 e il 1954, al Collège philosophique che avrebbero dovuto confluire nel saggio, mai scritto, Mourir de rire ou rire de mourir. Cfr. G. Bataille, “René Char e la forza della poesia”, in F. C. Papparo (cur.), Georges Bataille. L’al di là del serio, cit., pp. 259-263, che ha sullo sfondo il saggio di M. Blanchot, “La littérature et le droit à la mort” 1949, trad. it. in Id., Da Kafka a Kafka, Milano 1983 dove, contro Sartre, si dichiara la libertà di una letteratura sovrana, non subordinata all’azione.

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ne che soffoca la vita nel cappio dell’efficacia a quegli alberi che imponendo la loro misura sul tutto impediscono di vedere la foresta, si confondono con essa, mascherando così la dismisura di una vita che rifiuta la prevaricazione di una territorializzazione, direbbero Deleuze e Guattari, decisa nelle strategie di un potere-sapere assoggettante. Se la ragion d’essere d’ogni azione è la vita stessa in quanto forma di una complessità indicibile che, «al di là dell’attività produttiva, è, nel disordine, l’analogo della santità», allora l’uomo avido d’agire, osserva Bataille, accetta quella misura continuando a ingannare se stesso e la vita. «Nell’impossibilità di agire veramente» è meglio sottrarsi all’azione; questo non significa retrocedere vilmente, ma al contrario opporsi, testimoniare della passione del pensiero per il nulla del mondo che la morte di Dio ha certificato. Non dobbiamo accettare la vita passivamente facendone un «peso e una fonte di obblighi», nell’ottica di una morale negativa che risponde solo alla necessità del bisogno e a cui solo un atto criminale può sottrarci, ma dobbiamo porci all’interno di una morale positiva dove la vita si afferma in quanto desiderio di ciò «che può essere amato smisuratamente» e con essa tutto ciò che sfugge al mero agire utile, essendo piuttosto di quella dimensione del piacere puro che sfugge alle costrizioni, alla de-finizione in un concetto69. A questo “spazio” disordinato della vita non si può dar parola significante; qui il linguaggio scopre la sua impotenza, e la letteratura la sua miseria, una indigenza di cui occorre farsi carico perché, confessa Bataille, «scrivere in noi è il potere di aggiungere un tratto alla visione sconcertante che meraviglia, che spaventa – che l’uomo ha di se stesso, incessantemente», è la capacità/sovranità di imporre il calore vitale della passione alla fredda luce della ragione. Solo destrutturando la gabbia d’acciaio dell’esperienza discorsiva, i limiti della servitù del concetto a cui la signoria hegeliana incatena il desiderio/vita, la letteratura, ma in una certa misura anche la poesia e l’azione, si fanno nucleo di una verità sovrana perché, sottolinea Bataille in netta polemica con Sartre, «mai un uomo impegnato ha scritto qualcosa che non fosse menzogna, o che non oltrepassasse l’impegno». Sempre al di là di una scelta, di una decisione, lo scrittore impegnato è implicato/compromesso in un progetto con la Storia, destinato allo scacco, mentre quando non è così, l’impegno a cui si fa riferimento non è il risultato di una scelta corrispondente al senso di responsabilità o di necessità, ma l’effetto di una passione o di un desiderio insormontabile, che non lasciano mai scelta. L’impegno orientato e fondato sulla paura della fame, dell’assoggettamento o della morte altrui, sulla pena degli uomini, allontana dalla letteratura, che sembra meschina – o

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«Per essere chiari, non dovremmo forse sottolineare in compenso che la letteratura, come il sogno, è espressione del desiderio – dell’oggetto del desiderio – e quindi dell’assenza di costrizioni, dell’insubordinazione leggera?», G. Bataille, “Lettera a René Char sulle incompatibilità dello scrittore”, in Id., Conferenze sul non sapere e altri saggi, cit., pp. 165-180, p. 172.

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peggio – a coloro che sono alla ricerca di un’azione indiscutibilmente urgente, alla quale sarebbe vigliacco o futile non dedicarsi integralmente. Se esistono delle ragioni per agire, è necessario esprimerle il meno letterariamente possibile. È chiaro che lo scrittore autentico, che non scrive per ragioni meschine o inconfessabili, non può, senza cadere nella piattezza, fare della propria opera un contributo ai progetti della società utile. Nel caso servisse a qualcosa, l’opera non potrebbe avere alcun valore di verità sovrana70,

perché un comportamento è sovrano quando è prossimo al sacrificio, quando è dalla parte del consumo e del dispendio improduttivi più che da quella della produzione e dell’appropriazione delle ricchezze. E la letteratura è consumo, è sapere che non si arrende al giogo del potere e per questo è maledetta, diabolica, irresponsabile: è un gaspillage che non ha altro fine che il déroger. Siamo di fronte ad una presa di posizione nei confronti dell’etica esistenzialista, una messa in discussione radicale suffragata – come osserva Marina Galletti – da un progressivo distanziamento di Bataille dalle tesi sulla “rivolta”, messe in campo da Camus, determinato dallo slittamento «dalla morale della rivolta alla morale servile», dalla «‘rivolta’ autentica di Caligula o della criminale eroina del Malentendu e la morale ‘avara e senza vita’ messa in scena nelle austere pagine della Peste». Uno spostamento che porta Camus nell’alveo della morale esistenzialista, fuori da quella «comunità ateologica» dei difensori del male in cui Bataille ritrova la forza destrutturante del pensiero di Nietzsche «la cui violazione illimitata si configura come il superamento della ‘rivolta’ puerile, tesa a mantenere intatto […] l’ordine contro cui si erige»71. Una letteratura che spezza il muro costruito dai “dottori di Dio” e da quelli dell’Uomo – i fautori del Medesimo e dell’utopia antropocentrica, del Pensiero Unico che conferma e non trasgredisce – attorno alla fantastica e delirante biblioteca, che Borges nomina Babele, per arginare la fuga del senso, la destrutturazione dell’identità discorsiva che trascina nel suo rovinare un soggetto che non è più capace di sostenere/portare il peso di un 70

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Ivi, p. 173. A questo proposito P. Tamassia osserva che «le rigide posizioni affermate nei manifesti della letteratura engagée sono state, nel corso del tempo, smussate e modificate da Sartre – se non capovolte – nel senso d’una critica radicale alla strumentalità della scrittura (letteraria) e alla soggettività dell’autore» come emerge in maniera inequivoca dagli scritti sull’arte dove l’opera, sia pittorica che letteraria, è la messa in atto di un incontro/scontro tra forze vitali che elude la dinamica soggetto-oggetto. Ciò delinea una sorta di «percorso laterale – paradossale – che attraversa la non-significazione (‘il silenzio della significazione), la poesia, il nulla dell’immaginario e l’alterità dell’oggetto artistico, un’idea di letteratura totalmente diversa da quella condannata da Bataille nel 1950. Pur mantenendo un itinerario per molti aspetti differente da Bataille, Sartre riesce comunque a fuoriuscire dall’impasses dell’engagement, senza comunque confinare la letteratura in uno sterile disimpegno apolitico», P. Tamassia, “Al di là della dialettica: politica e letteratura”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 35-47, p. 44. M. Galletti, “Rivolta e sovranità”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 49-55, p. 55.

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pensiero che, a furia di ordinare e classificare, non sa più pensare/creare, non sa trasgredire, dice Foucault, ma lavora soltanto a spostare continuamente il limite del possibile senza immergersi mai in quello spazio sovrano, impossibile, che è nucleo di follia, di assenza di Parola, assenza d’opera, non-senso che genera senso. Attorno all’apertura sovrana della letteratura fantastica di Babele la dialettica si è adoperata, in un lavoro incessante di razionalizzazione, a dar forma, senso e limite allo spazio vuoto, all’assenza attorno a cui è stata costruita la biblioteca. Fedeli all’enigma dell’interiorità i dottori dell’Uomo hanno pazientemente recintato la biblioteca «secondo un’idea di eternità e dall’esterno, la dialettica, ha dato forma geometrica al vuoto; hanno chiuso l’assenza tra le pareti di un esagono» che è divenuto icona di un assoluto moralismo del limite. Solo la simultanea catastrofe della totalità del sapere e dell’identità del soggetto hanno reso evidente la menzogna della compiutezza nel sapere assoluto e dell’enigma dell’interiorità nella trasparenza dell’ego cogito, aprendo al pensiero lo spazio vuoto di senso dell’esagono in cui precipitano senso, parola e scrittura. La letteratura nata e cresciuta sulla Parola della dialettica, sulla discorsività della dialettica, «non è che la barriera che la ragione ha tentato di opporre alla vulcanicità insensata del delirio», alla vertiginosa caduta del soggetto nel buco nero di un’indecifrabile interiorità. Caduta che è esperienza di una dépense di sé che si disegna come violazione dei limiti dell’interiorità, una destrutturazione dell’identità che segna la fine dell’homo theologius e dialecticus aprendo all’esperienza interiore, all’esperienza di una esteriorità interna, un dehors dice Foucault, che ci attraversa e ci segna. Un esteriore sentito, paradossalmente, come ciò che è più interno a noi dell’interiorità stessa, quell’impossibile, dice Bataille, che deborda al limite della possibilità, al limite di un linguaggio in cui la parola si fa antidialettica e antiteologica per eccellenza. Un linguaggio quindi la cui cifra è quella della trasgressione, dell’oltrepassamento – nell’ottica dello über nietzscheano – dei limiti imposti dalla logica dell’identità e dalla morale del dovere: u{briı e scelus, superamento dice Nietzsche, un movimento del pensiero, teoretico e pratico, che si fa “diabolico” in quanto libero e non servile. Una scrittura maggiore, sovrana, che eccedendo lo spazio sintattico e grammaticale della logica preposizionale, rompendo il cerchio della signoria del senso Unico e della presenza, non cerca più come l’hegeliana signoria il riconoscimento progettando la traccia entro cui «conservare la vita – il fantasma della vita – nella presenza», ma produce la traccia in quanto traccia. Quest’ultima è traccia solo nel caso che in essa la presenza sia irrimediabilmente sottratta, fin dal suo primo annunciarsi e che essa stessa si costituisca come possibilità di una cancellazione assoluta72.

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J. Derrida, “Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve”, cit., pp. 343-344.

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Scrittura-sacrificio, sacrificio del senso, di una concettualità che certamente Bataille mette in campo – è necessario far passare attraverso il linguaggio servile ciò non è servile –, ma che apre mettendo all’opera un gioco di duplicazioni, di ripetizioni e di slittamenti dei termini che disarticola la loro classica articolazione al senso e al sapere, consegnandoli al silenzio, a un non-rapporto, a un non-sapere, a partire dal quale s’apre la possibilità di un contatto inedito, intensivo, col mondo e con gli altri. Dopo la morte di Dio e quella dell’uomo il nodo della nuova letteratura è, come ci ha insegnato Foucault, quello del problema del superamento del limite, anzi dell’esperienza del superamento del limite. Non tanto per ritrovare l’esperienza perduta, quanto per avvicinarsi, alla possibilità di un linguaggio non dialettico. E la strada per raggiungere questo linguaggio dal quale il soggetto è escluso, è data dalla trasgressione73,

una trasgressione sovrana, come osserva Derrida, che non cancella né neutralizza il senso per accedere «all’identità immediata e indeterminata di un non-senso, né alla possibilità di mantenere il non-senso», ma opera una vera e propria riduzione del senso, una de-costruzione che non è allora il segno di una maggiore potenza di dominazione/significante, ma l’indice di una im-potenza estrema, di una povertà d’azione del linguaggio e della scrittura che designa l’autentica esistenza. Impotenza che è segno, in Bataille, di una scrittura-sacrificio – un’etica della scrittura – che lucidamente e chiaramente espone il senso di una ferita dell’io, la piega aperta di un’interiorità vuota, il silenzio di un non-senso, il buio di una notte che acceca e attrae: lacerazione che lascia penetrare l’alterità, che attende l’altro per sentirlo nel ritmo dionisiaco di una comunicazione sacra74. Un’esperienza interiore e sovrana che esplode con la morte di Dio e dell’Io scoprendo la ricchezza della finitudine, il segreto del “regno illimitato del limite”; esperienza dell’impossibile, di ciò su cui non abbiamo più alcun potere, ma dalla cui im-potenza non possiamo sottrarci, «eccesso di vuoto – dice Blanchot –, sovrabbondanza di negatività che è in noi il cuore infinito della passione del pensiero»75. L’esperienza del limite e della trasgressione sussistono quindi in uno stato di co-involgimento e non di contrapposizione ridando, “l’una all’altra la loro densità” come il fulmine che, dice Foucault, illumina e dà senso alla notte, ma da questa riceve la sua luminosa singolarità. Esperienza di un’esistenza sovrana che non indica né violenza, in un mondo misurato e forgiato nella dimensione del Bene e del Male, né trionfo dialettico o rivoluzionario sui limiti che oltrepassa, ma – come dice Blanchot – una pura affermazione senza con73 74 75

C. Milanese, “Postfazione” a M. Foucault, Scritti letterari, cit., pp. 151-162, p. 160. Sulla scrittura-sacrificio cfr. C. Pasi, Georges Bataille. La ferita dell’eccesso, cit., in particolare il cap. I. M. Blanchot, “Postfazione” a G. Bataille, Su Nietzsche, cit., pp. 221-231, p. 227.

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tenuto, contestazione che riconduce esistenze e valori ai loro limiti, là dove «nel cuore vuoto dove l’essere raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’essere», svanisce ogni possibile eco dello «I-A dell’asino nicciano»76. Rivolta che rilancia l’infinito perché è come se l’impossibilità ci facesse segno dietro ogni atto, parola ed espressione della nostra vita, perché non facciamo esperienza solo della possibilità di ciò che conosciamo, afferriamo e possiamo dominare, ma anche di ciò che «si sottrae a qualsiasi uso e fine». Di fronte a tale esperienza il linguaggio discorsivo perde forza e coerenza, mentre emergono le forme estreme di un linguaggio e di una scrittura incompiuti, non padroni di sé, insufficienti – come è ogni espressione di Bataille –, che corrodono incessantemente il proprio spazio. Un linguaggio e una scrittura da cui è cancellato il soggetto/autore – frattura del soggetto/filosofo – che parla e per il quale l’opera non è più la cristallizzazione trasparente di un contenuto; un linguaggio sovrano che Bataille incarna in un perpetuo passaggio a livelli diversi di parola, attraverso uno sganciamento sistematico in rapporto all’Io che ha preso la parola, già pronto a dispiegarla, a installarsi in essa: sganciamento nel tempo (‘scrivere questo’, o ancora ‘tornando indietro, se rifaccio questo cammino’) sganciamento nella distanza della parola nei confronti di chi parla (diario, note, poemi, racconti, meditazioni, discorsi dimostrativi), sganciamento interiore nei confronti della sovranità che pensa e scrive (libri, testi anonimi, prefazioni di libri, note aggiunte)77.

Libertà di un andare-venire nomadico nel labirinto dell’esistenza che le parole possono percorrere solo scivolando su se stesse, eludendo ogni possibile senso, sperimentando la più completa dis-giunzione, fino al limite estremo, a quella camera centrale vuota in cui l’angoscia crescente del cammino esplode nella «gioia torturatrice» di una saggezza estatica che non promette alcun ritorno ad un’origine o unità perduta. Saggezza che incontra la follia nietzscheana del non-filosofo, la forza che oltraggia l’essere stesso della filosofia, che stra-volge l’occhio della riflessione, lo getta fuori di sé lacerando ogni limite e privandolo della potenza dello sguardo. Così al posto delle costruzioni dell’occhio teorico, che riflette il mondo organizzandolo in un discorso, troviamo le sensazioni di un occhio cieco, rivolto all’interno, un occhio che è nello stesso tempo «il più chiuso e il più aperto», il punto in cui il linguaggio giunto ai suoi confini, fa irruzione fuori di se stesso, esplode e si contesta radicalmente nel riso, nelle lacrime, negli occhi sconvolti dell’estasi, nell’orrore muto ed esorbitato dal sacrificio78.

76 77 78

M. Foucault, Scritti letterari, cit., p. 60. Ivi, p. 65. Ibidem.

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A questo proposito è emblematico quanto osserva Jean-Luc Nancy là dove a proposito del non-sapere, come pensiero che è “solo presenza in sé senza contenuto”, chiarisce che tale assenza non è un mero vuoto, ma un vuoto consistente, una notte in cui l’occhio cieco avanza, penetrando in un non-senso che è la sua sovranità. In quest’ottica il senso del senso è, paradossalmente, proprio il movimento del suo sottrarsi, l’essere fuori di sé, un se dérober – «je pense come un fille enlève sa robe», dice Bataille,– uno spogliarsi, un denudarsi, un esporsi del pensiero che mostra solo se stesso: una nudità «che lascia vedere tutto mostrando però al tempo stesso che non c’è più niente da vedere. Niente al di là della nudità se non altra nudità». La “povertà” di un soggetto altro che non vede ma sente la sua lacerazione incontrando quella degli altri, attivando una vue touchante, come direbbe Deleuze, che intreccia per sottrazione e mai per appropriazione la realtà del nostro esserci. Ma, afferma Bataille, non sappiamo essere colpevoli, non sappiamo comunicare, non sappiamo spogliarci della signoria del discorso: per quanto coupable, «la veste sembra non togliersi e neppure la si toglie, rispettosi o incatenati dal lavoro di strane Penelopi che tutte le notti allungano il vestito»79. La letteratura deve allora essere eccessiva, deve “funzionare” come una sorta di piattaforma prometeica, organon nello stesso tempo di sfida alle norme e alle convenzioni e nucleo suppliziato/suppliziante in quanto cifra di un’espiazione per una colpevolezza che non produce pentimento, ma si afferma nel culmine della propria realizzazione, quel sommet, quell’estremo del possibile la cui impossibilità dà angoscia e non-senso e disegna il percorso che articola gli scritti che compongono la Summa Atheologica, quel punto massimo di potenza dell’essere in cui, paradossalmente, la vita è impossibile perché come il castello di Kafka, il culmine alla fine non è che l’inaccessibile. Si sottrae a noi, almeno in quanto continuiamo a essere uomini: a parlare80.

Sommet che è la libertà stessa dell’essere, una libertà non legata ad alcuna necessità morale perché, in quanto pura possibilità dell’esserci, è “sottoposta” soltanto alla “legge della chance”, come Bataille stesso dice introducendo gli otto saggi dedicati ad altrettanti grandi scrittori che compongono La littérature et le mal, saggi precedentemente apparsi singolarmente sulla rivista Critique, «che si è saputa imporre per la sua serietà», e che non casualmente è contrapposta a Les Temps Modernes di Sartre. Di fronte all’esuberanza emozionale che pervade gli anni del primo dopoguerra, a Bataille sembra che la letteratura soffochi prigioniera dei suoi stessi limiti; volendo coglierne il senso bisogna penetrare in quello spazio aperto

79 80

E. Gezzi, “Togliersi il vestito”, introduzione alla trad. it. di G. Bataille, L’esperienza Interiore, cit., pp. 9-22, p. 22. G. Bataille, Su Nietzsche, cit., p. 64.

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del non-senso che sfugge alla ragione calcolante, bisogna arrischiarsi nella sua part maudite, là dove desiderio e immaginazione fanno della vita una perpetua rivolta contro l’oppressione, contro la volontà di sopravvivenza di un mondo irrimediabilmente adulto. La letteratura, e il Male che vi si esprime, non indicano allora un’assenza di morale ma, al contrario, esprimono l’esigenza di una iper-morale, quella dell’uomo totale, l’uomo del desiderio che rinuncia al serio e afferma il mondo. Una morale quindi che sfida la morale mettendo in gioco se stessa, allo stesso modo di quell’ipercristianesimo che nel Sur Nietzsche Bataille chiama comico, nella misura in cui mette in scena l’idea di un divino che, nella figura di Cristo, «eccede la perfectio della sostanza immutabile», l’idea di un uomo perfettamente consapevole del suo dover morire, l’emblema di quella negatività che ne segna il passaggio/uscita dall’animalità. E nella letteratura che si fa luogo di quella parte maledetta che è la più carica di significato, la parte del rischio e della sovranità, traspare alla fine il sorriso, ciò a cui, «essenzialmente si riduce la vita» e per questo essa è comunicazione e poiché la comunicazione non può avvenire che ferendo gli esseri essa è colpevole ed è proprio questo che Sartre avrebbe ignorato ostinandosi a cercare una verità, una “illuminazione”, là dove regna l’oscurità, «l’impenetrabilità di tutto ciò che è la sovranità», mentre soltanto se la libertà, il trasgredire le interdizioni e il consumo sovrano sono considerati nella forma in cui di fatto si presentano, possono rivelarsi le basi di una morale a misura di coloro che non sono interamente piegati dalla necessità e che vogliono rinunciare alla pienezza intravista81.

Così in Wuthering Heights di Emily Brontë, Bataille ritrova una andatura paragonabile a quella della tragedia: il senso di una trasgressione tragica della legge che vieta la parte sacra, maledetta, la interdice divinizzandola, facendone quindi, nello stesso tempo, un nucleo di attrazione e di repulsione, un divieto che paradossalmente invita alla trasgressione. Invito che esige d’essere accolto nell’istante miracoloso e irripetibile della chance, l’istante che rompe la realtà del mondo per farci accedere nell’intemporalità della comunicazione degli esseri, là dove il Male non è più un principio contrapposto al Bene nell’ottica di una morale costruita entro i limiti della ragione, ma la libertà sovrana dell’essere, della sua parte sovrana, libera da questi limiti: l’azione criminale ‘turpe’, si oppone a quella ‘passionale’. La legge le condanna ambedue: ma la letteratura più umana è l’alto luogo della passione. Ciò non impedisce che la passione sia maledetta: soltanto una ‘parte maledetta’ è riservata a ciò che, in una vita umana, è più carico di significato. La maledizione è la via me-

81

G. Bataille, La letteratura e l male, cit., p. 180.

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no illusoria della benedizione […]. La ‘parte maledetta’ è quella del gioco, del rischio, del pericolo. È anche quella della sovranità: ma la sovranità si espia82.

Ma non sempre la letteratura è “diabolica”: se la libertà dell’essere, la sovranità, traspare nell’opera di Genet, che fin dall’inizio si è proposto la ricerca del Male, tuttavia il suo limite, la sua debolezza, sta proprio nella incapacità di mettere in atto quella forma di comunicazione maggiore a cui invece la letteratura deve votarsi vietandosi ogni possibile identificazione. Genet scrive, suscita interesse, ma non attiva la passione; sembra quasi che la sua scrittura allontani, separi, il lettore dall’opera, lo neghi. Un limite che Sartre ha compreso, ma di cui non ha tratto le debite conseguenze: più che di un’opera si tratta di un surrogato, «a mezza via da quella comunicazione maggiore» vicina alla poesia, a quel modo d’essere e scrivere sovrani in cui si cancellano le identità individuali – dello scrittore e del lettore – a favore, come dice Foucault, di una funzione autore e di un’opera assente, una metamorfosi in cui ogni miseria dell’Io, ogni servilità umana è tolta. Solo così la letteratura, come dice Blanchot, si fa creazione, comunicazione sovrana, operazione che esige da parte dell’autore la cancellazione di sé, il superamento delle sue debolezze umane, di tutto ciò che in lui s’oppone all’altezza dei momenti sovrani e, nello stesso tempo, anche quella di quei lettori “grevi di servilità” che riconoscendolo ne annullerebbero la libertà; fare opera letteraria significa voltare la schiena alla servilità, come ad ogni diminuzione concepibile, significa parlare il linguaggio sovrano che, provenendo dalla parte sovrana dell’uomo, si rivolge all’umanità sovrana.

Una comunicazione che appare solo là dove il linguaggio profano, la comunicazione debole, falliscono, solo là dove emerge la consapevolezza del nostro essere-in-comune, una relazione all’alterità che, pur essendo inintelligibile, in-appropriabile ci costringe a cercarla mostrando lo “scandalo” di un essere che non è più alla nostra portata, lo scandalo di un’esistenza sacra, di una comunicazione forte che abbandona le coscienze riflettentesi l’una nell’altra, o le une nelle altre, a quel fatto impenetrabile che è il loro ‘da ultimo’83

da cui ci allontaniamo quando siamo persi nel fare della vita produttiva. Perché la comunicazione maggiore è esperienza di una dolorosa lacerazione dell’io, l’esperienza di un accordo discordante che mette in circolazione la consapevolezza, «finalmente condivisa, della impenetrabilità di noi stessi e del mondo», del fatto che non siamo se non in quanto «immersi nella comuni82 83

Ivi, p. 29. Ivi, pp. 174-182.

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cazione», nell’esperienza di un’estrema solitudine che può finalmente sciogliersi in un riso o in una lacrima che toccano gli altri. Nell’istante miracoloso in cui prende vita una comunicazione emozionale fatta di momenti sovrani impercettibili, in cui si comunica solo la nudità dell’Io, la sottrazione del pensiero, la povertà, come direbbero Derrida e Nancy, di una ragione che non rinuncia a se stessa, ma abdica alla necessità di dar conto del suo venir-meno-divenire84, della sua/nostra incapacità a dar senso al mondo; una verità che non possiamo dire se non tradendola. Un sentire che apre ogni possibile dire, passando attraverso quelle esperienze “sacrali” condivise del riso, dell’amicizia e dell’erotismo che legano l’uno e l’altro essere nella fluidità dinamica di una relazione trasparente, in un modo d’essere senza finalità, senza intenzione o volontà pratica, senza soggetto né oggetto, perché sottrae all’uno e all’altro ciò che li «rende visibili, conoscibili, identificabili» per identificarci soltanto «al movimento che ci sottrae. E si chiama amore quanto morte, riso quanto lacrime, e linguaggio e pensiero»85, un movimento, un passaggio dall’uno all’altro, nell’uno attraverso l’altro che produce e articola il senso. Si tratta di un passaggio segnato dal contatto, quasi un corpo a corpo fra soggetti e fra soggetti e mondo, dove lo sguardo teorico/appropriante cede il passo a una vue touchante, una visione sensibile, capace di dire un mondo, di raccontare una vita senza darne il perché; un sentire-toccare86 che introduce la passione nell’intelligenza – «vivo di esperienza sensibile e non di spiegazioni logiche» dice Bataille –, quella cifra del cuore, della passività femminile che rappresenta la ferita nell’identità di un Io maschio, la ferita che a-rende il pensiero alla sua più essenziale dépense facendogli toccare/guardare quel punto cieco in cui affonda il tutto del senso che segna il culmine della dialettica hegeliana. È la sensibilità di una ragionevolezza etica che non ha un proprium a cui comandare; un non-sapere-sapere che, come dice Nancy, non è né scienza, né religione, né filosofia – che non dà senso da scambiare, ma che è il senso dello scambio, della nostra esistenza in comune87.

Ragionevolezza possibile solo per un essere inachevé, incompiuto, finito, ma appunto per questo eccessivo in quanto liberato dai limiti di un’identità 84

«Non ho nulla contro la ragione e l’ordine razionale (nei numerosi casi in cui è evidentemente opportuno sono, come tutti gli altri, favorevole alla ragione e all’ordine razionale), ma riconosco che in questo mondo nulla, che non eccedesse le esigenze dell’utilità, è apparso degno di adorazione, nulla che affascinando, non devastasse e raggelasse, nulla che non fosse, in una parola, sul punto di non poter essere osservato», G. Bataille, “Lettera a René Char sulla incompatibilità dello scrittore”, cit., p. 170. 85 J.-Luc Nancy, “Il pensiero sottratto”, in J. Risset (cur.), Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, cit., pp. 75-88, p. 83. 86 Cfr. a questo proposito, C. Di Marco, “Dire un mondo. Dire una vita”, in L. M. Lorenzetti, Dall’alto rinascendo, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 39-45. 87 J.-Luc Nancy, “Il pensiero sottratto”, cit., pp. 87-88.

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costruita per un “pensiero morto”, dice Bataille, sottratto; pensiero di non-sapere che mette a nudo/espropria (de-robe) di tutto ciò che il sapere e il potere nascondono, smascherando tutte quelle false certezze che disegnano la superficie opaca di un’esistenza senza desiderio. E poiché «sono convinto che il sapere ci assoggetti, che alla base di ogni sapere vi sia un servilismo, l’accettazione di un modo di vivere nel quale ogni momento ha senso solo in vista di altri che lo seguiranno», osserva Bataille, possiamo “delineare” la forma di un non-sapere come movimento della continua contestazione/rivolta del pensiero contro se stesso, contro quell’istinto di conservazione/produzione che vuole invece la morte e la sofferenza, spostando il senso in una ulteriorità che le giustifica. Pensiero-sacrificio, eccedenza che avviene in un progressivo scivolamento del senso dall’uno all’altro, comunicazione che non trasporta significati, ma un’apertura di senso che dall’altro “riecheggia in me”, praxis, osserva Nancy, che non è padronanza dei mezzi in vista di un fine, bensì la trasformazione senza fine del soggetto del senso in sé: un senso che non è altro che la sua comunicazione e – quindi – il suo sottrarsi […], pensiero che si disfa degli oggetti, per diventare se stesso: noi, gli uni con gli altri e il mondo88.

Questo modo d’essere, questo pensiero del sapere, non è allora né quello dello schiavo che accetta la morte, né quello del signore hegeliano, ma quello di chi, facendo del mondo e di sé un gioco, “sente” la sofferenza e la morte affermandole nel gioco più grande e difficile, quello della vita, il gioco del continuum dell’essere in cui gli esseri comunicano la loro pura singolarità differenziale, l’infrazione dell’identità e del sapere. Un modo d’essere sovrano in cui l’affermazione del continuum non è indice di una pienezza o presenza dell’essere/senso, ma l’esperienza di una differenza assoluta, oramai sciolta dalle catene di una semiotica significante che ha decretato l’importanza del segno a dire e a significare. Una semiotica per la quale ogni rinvio ad un altro segno si aggiunge naturalmente ad altri segni, formando e riformando continuamente quel “muro bianco” su cui si inscrive la potenza del Significante; un «mondo di morte e di terrore» che assicura non soltanto l’organizzazione dei segni in un significato conoscibile e comunicabile, ma anche la loro estensione e circolazione attraverso il meccanismo dell’interpretazione. Un meccanismo perverso che non cessa mai, nella sua circolarità, di «restituire del significante, di ricaricarlo o di produrne» territorializzandosi, come dicono Deleuze e Guattari, in un viso, nella dimensione propria di un’identità, di uno sguardo e di una riflessione che organizza i corpi e disciplina gli individui. Se il viso ha un grande avvenire lo ha solo a patto di essere disfatto, solo a patto di una deterritorializzazione assoluta, quella di un pensiero qualitativo, anecono-

88

Ivi, p. 88.

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mico, capace di sfondare il muro del significante, di cogliere dietro le rappresentazioni dell’occhio che vede l’irappresentabile visione di uno sguardo cieco: il mondo impossibile «delle cose future, e da questo mondo ogni logica è assente»89. “Esperienza dell’istante”, dice Bataille, il furtivo che in quanto differenza sottratta «non si dà, si ruba, si trascina da sé in un movimento che è nello stesso tempo di effrazione violenta e di fuga dileguante»90. 4. Sovranità: l’esperienza interiore L’esperienza, «voyage au bout du possibile de l’homme», è lo spazio dell’impossibile che si apre nella ragione quando le vengono meno certezze, verità e valori; è il viaggio che questa compie quando, nella sua inesauribile tensione verso l’estremo, sente la sua limitatezza, scopre una piega nella potenza, si riconosce colpevole e, come Prometeo, espia la sua u{briı sacrificando/lacerando la sua perfezione. Esperienza-limite, esperienza interiore: «è la risposta che l’uomo incontra quando ha deciso di mettersi radicalmente in questione», di revocare in dubbio ogni possibile risposta nell’unica certezza che è quella di doversi fermare alla verità della sua incompiutezza, alla paradossalità di un’esistenza imperfetta che si fa misura e limite della pretesa compiutezza di un sapere che, sempre, lascia fuori di sé un’altra possibilità, un impossibile, inaccessibile e inconoscibile, che dà da pensare. Perché l’uomo non esaurisce la sua negatività nell’azione; no, non trasforma in potere tutto il nulla che è; forse può raggiungere l’assoluto rendendosi uguale al tutto e formandosi la coscienza del tutto, ma più estrema di questo assoluto è allora la passione del pensiero negativo, perché è ancora capace, di fronte a questa risposta, di introdurre la domanda che la sospende, e, di fronte al compimento del tutto, di conservare l’altra esigenza che, sotto forma di contestazione, rilancia l’infinito91.

Esperienza inutilizzabile, dice Sartre, che non vale più che «bere un bicchiere di alcool o scaldarsi al sole su una spiaggia»; esperienza che arriva a nulla, che si dissolve nel nulla perdendosi in una sorta di estasi panteistica. Una critica dura, una lettura che riduce la singolarità dell’esperienza interiore alla particolarità di un’esperienza personale, quella di una inquietudine psicologica che trova però soddisfazione nella misura in cui arriva a Dio, o al vuoto di una notte che riassorbe in sé ogni difficoltà. Ma l’esperienza interiore è

89 90 91

G. Deleuze-F. Guattari, Capitalisme et schizoprénie. Tome II. Mille plateaux, 2 voll., Minuit, Paris 1980, trad. it., Mille piani, 2 voll., Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987, pp. 165-248. J. Derrida, “Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve”, cit., p. 341. M. Blanchot, “Postfazione” a G. Bataille, Su Nietzsche, cit., pp. 221-231, p. 224.

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per il pensiero come una sorta di navigazione a vista, un movimento che avviene solo al limite della pienezza della conoscenza e del sapere, nell’istante in cui la sola consistenza possibile è quella del non-sapere, del non-senso. Quella dell’operazione sovrana che rompe anzitutto il falso legame costruito dalla conoscenza fra soggetto e oggetto per evidenziarne la possibilità di una con-fusione radicale, ma inaccessibile e inesplicabile, che traccia un modo altro di pensare la soggettività, il legame fra soggetti e la relazione con le cose, scavando e destrutturando la consistenza filosofica del cogito cartesiano, sfaldando l’univocità del senso ed aprendo il cerchio della logica dell’utile. Esperienza sovrana in cui l’uomo esiste all’altezza dell’universo; una forma di pensiero e un modo d’esistenza in cui la negatività è finalmente inoperosa; dove la morte è inutile, impossibile in quanto esperienza che non possiamo fare, ma a cui non possiamo sottrarci, che sentiamo proprio al limite del possibile come la possibilità più vera, perché non possiamo gestirla, conoscerla. Un’esigenza ardita, provocante dice Bataille, sentita ma subito tradita dal surrealismo che ha subordinato all’ideale il desiderio di conoscenza sovrana, il desiderio di trasgredire il limite del possibile, di entrare in quella deriva del senso che è il “labirinto” dell’esistenza. Ma vivere sovranamente, entrare nel non-sapere, non significa mettere fuori gioco la conoscenza e il sapere; l’operazione sovrana è infatti possibile solo quando le operazioni subordinate sono quanto più possibile compiute, solo al limite del sapere assoluto è possibile il non-sapere, solo alla fine della storia è possibile la storia: di limite in limite, si arriva a porre alla sommità qualche operazione sovrana. Alla sommità dell’intelligenza vi è un vicolo cieco in cui pare decisamente alienarsi la ‘sovranità immediata dell’essere’: una regione di suprema stupidità, di sonno92;

il modo d’essere e di pensare di un’umanità che ha rinunciato al bisogno d’essere umana, eludendo quel continuum che disegna la dimensione propria di un esserci in cui singolarità preindividuali coesistono l’una accanto all’altra e condividono lo stesso spazio d’esistenza preferendolo a una “rappresentazione” della vita che vede posti, fronte a fronte, “individui insecabili e decisamente separati” che dicendo “Io” escludono radicalmente l’altro, un “tu” che disegna lo spazio di una discontinuità in cui la differenza è assoluta, non rimanda più ad alcuna uguaglianza possibile. Solo morendo a sé l’io abbandona il falso accordo logico col mondo, solo nell’angoscia della mancanza di una parola definitiva si immerge nella profondità abissale dell’estasi dove non ci sono più né parola né scrittura, non ci sono più le certezze rassicurante dell’ordine del discorso e della norma morale, ma c’è solo il silenzio di parole impronunciabili che comunicano la

92

G. Bataille, “Metodo di meditazione”, trad. it. in Id., L’esperienza interiore, cit., pp. 251307, p. 268.

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passione di un’anima affacciata sul mistero dell’impossibile. Perché nel labirinto che è l’esistenza non ci sono fili se non ingannevoli, il labirinto non si apre, ma si abita perché da sempre non ha confini se non quelli costruiti dal piccolo io e dalla sua misera ragione timorosi di una complessità inconoscibile. Il labirinto si può vivere/dire solo nella frammentarietà di una scrittura «lesionata e scheggiata che irrompe negli strappi dell’istante e ha la continuità in orrore»; una scrittura, quella de L’esperienza interiore, che allarga le labbra della piaga, espone la fessura, la sua buca e inghiotte come la vertigine del vuoto93

ogni significazione, ogni certezza, nella convulsione incessante di un intelletto, direbbe Deleuze, scosso dalla passione del pensare, forzato nei suoi limiti da un uso illegittimo delle facoltà, un gioco che lo espone alla sensualità di un corpo aperto alla contingenza di un fuori che l’attraversa. La lacerazione è fonte di ricchezza: questo il senso del richiamo di Bataille al “supplizio”94 – questa l’apertura prometeica oltre la violenza e il suo rimando al non-sapere, all’esperienza estatica, alla filosofia sacra contro l’hegeliana filosofia profana del lavoro – attorno a cui ruota L’Expérience. Sono questi, infatti, i segni dell’apertura di una ferita insanabile nel cuore del logos che introduce il soggetto in quella comunicazione comuniale degli esseri che costituisce l’anima di una “comunità di chi non ha comunità”. Comunità assente o negativa, dice Bataille, comunità di soggetti sovrani, non assoggettati, che entrano nello spazio esperienziale di un modo d’essere con-l’altro-accanto-all’altro nella consapevolezza della propria insufficienza, della tragicità dell’esistenza. Si comprende allora la centralità che il tema del supplizio assume ne L’Exéperience intérieure, il senso di un sacrificio di sé che è la cifra di un ioche-muore fuoriuscendo dall’accordo logico del sapere. Il sacrificio di sé a cui rimanda, attraverso l’immagine dello sfaldamento del corpo, il supplizio del giovane cinese – ma anche quello del martirio della carne, il sacrificio di Cristo sulla croce come “via breve” di comunicazione con l’Altro – è l’esperienza capace di comunicare il dolore o piuttosto, dice Bataille, l’eccesso del dolore, «proprio quel che io cercavo, non per goderne, ma per distruggere in me tutto ciò che si oppone alla rovina»95, tutto ciò che impedisce all’uomo di raggiungere l’estremo limite del possibile96. Una drammatizzazione che trasfigura l’esistenza: sottratta alla causalità dei ritmi quotidiani, alla povertà di un io che si vuole tutto, che non vuole morire, l’esistenza comunica la sua in-

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C. Pasi, Georges Bataille. La ferita dell’eccesso, cit., p. 29. “Il supplizio” costituisce la seconda parte de L’esperienza interiore. Ivi, p. 190. È il tema che G. Ferrari pone al centro del suo saggio, Georges Bataille. Il limite e il possibile, Marco Editore, Cosenza 2003.

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superabile inquietudine, la paradossalità di una tensione/desiderio di compiutezza che non potrà mai compiersi: nel cuore di un uomo vi è, infatti, tanta inquietudine in fondo che nessun Dio – o donna – è in potere di portarvi sollievo. Ciò che vi porta sollievo ogni volta è solo temporaneamente una certa donna o Dio: l’inquietudine tornerebbe presto se non vi fosse la stanchezza. Senza dubbio Dio, nell’immensa fuga di vaghi regni, può a lungo rinviare il nuovo sollievo a un’inquietudine riaccesa. Ma il sollievo morirà prima dell’inquietudine97.

Se a partire dall’esigenza di spossesamento di sé, di sacrificio dell’io, l’esperienza interiore in quanto esperienza sovrana è accostata dallo stesso pensatore all’esperienza mistica, agli stati di estasi e di rapimento, di cui sono emblematici gli esempi di Teresa D’Avila e di Angela da Foligno, è però ad essi contrapposta sia in quanto esperienza libera, aconfessionale, ateologica, sia perché priva della finalità/progettualità di fusione del soggetto in Dio, della rivelazione idealizzata dell’impossibile. L’estasi per Bataille non è mai soddisfacimento, abbandono, ma al contrario angoscia continua, tensione dolorosa che non postula-progetta la salvezza; «para venir a serlo todo» diceva San Giovanni della Croce, possedere Dio, essere tutto. Perdersi per salvarsi significa, nello stesso tempo, perdere la possibilità stessa dell’ascesi, mentre all’estremo del sapere l’unica risposta possibile è, paradossalmente, una domanda senza via d’uscita: sai ora ciò che devi sapere, quel che ignori è ciò che non hai alcun bisogno di sapere […]. Si è creduto alle risposte della ragione, senza vedere che esse stanno in piedi solo dandosi un’autorità come divina, scimmiottando la rivelazione (con una sciocca pretesa di dire tutto),

mentre è proprio il non volersi più come tutto, il volersi uomo nuovo, übermensch dice Nietzsche, che libera dal bisogno di dover pensare la vita misurandola con la perfezione di un valore e di un dovere morali che la soffocano come gli artigli di un gatto schiacciano il respiro del topo. Non volersi più tutto e morire: è la notte del non-sapere, volersi ciò che si è, come si è, imperfetti, finiti, incompiuti, condizionati, crudeli; decidere e non subire vivendo nella falsa luce del sapere, decidere e non progettare perché la decisione chiede che «si rinunci agli indugi, che si decida immediatamente, tutto in gioco: la conseguenza importa in secondo luogo»98. Per questo parlando de L’esperienza interiore ne parla come del racconto della disperazione, della sofferenza di fronte all’unica consapevolezza possibile, al di là delle ipocrisie della morale e degli inganni della scienza, di non es-

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G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 193. Ivi, p. 60.

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sere tutto ed essere certi di morire: è la consapevolezza dell’esistenza come enigma, di una vita dataci come domanda impossibile ai limiti del possibile. L’esistenza appare allora ne Le labyirinthe99 come un luogo senza uscita, spazio chiuso ma da abitare, da percorrere in un incessante movimento di rinnovamento; un intrico d’essere e d’esistere che non dobbiamo aprire/conoscere, fuggendo così al suo peso attraverso l’hegeliana scappatoia della razionalità, dove l’esistenza personale, nella fondamentale separazione/identificazione degli uomini in schiavi e padroni, appare solo una funzione di un tutto che assorbe ogni significato. La vita si offre agli esseri come un campo di battaglia senza soluzione: ciascuno immagina l’altro incapace o indegno d’essere tanto che perfino l’amore e l’ammirazione suscitano dubbi e diffidenza; un’insicurezza che ha spinto gli uomini a chiudere l’essere nella fortezza dell’io per afferrarlo, conoscerlo, possederlo, ma l’essere è inafferrabile, l’inquietudine dell’esistenza non si prende si patisce. L’essere non abita alcun luogo, è da nessuna parte, è complessità inafferrabile, un labirinto di cui le parole tracciano i percorsi mai compiuti segnando, volta a volta, combinazioni semantiche che ce ne danno il senso come di un composto duraturo. In quest’ottica, osserva Bataille, la conoscenza è come una sorta di legame biologico che ci mostra l’esistenza come una connessione funzionale più che come un incontro disinteressato; uno scambio tra particelle che sopravvivono alla separazione momentanea, un modo d’essere che «ha il difetto di vedere la conoscenza come un fondamento del legame sociale», mentre «la cosa è molto più difficile e, anzi, in un certo senso, non è affatto così», perché la conoscenza è un tipo di “legame banale” in cui il linguaggio mantiene solo in parte la forza di quella comunicazione essenziale che vive nel sacrificio e nel sacro. Nel movimento della conoscenza l’uomo – questa particella infima, «chance imprevedibile e puramente improbabile» sorta dal gioco dell’universo – supera l’isolamento, segna una via d’uscita dal labirinto dell’esistenza innescando un divenire delirante che, di illusione in illusione, lo spinge verso il tutto, verso un’immensità che si sottrae alla conoscenza, si sottrae infinitamente davanti a un essere che la cerca sottraendosi a sua volta all’improbabilità che egli stesso è, senza saper cercare nulla se non per ridurre alla necessità del suo comando100;

una volontà di potere/sapere che nel gioco sempre più affinato delle composizioni assorbe la nostra vita destinandola allo scacco, rigettando l’uomo

99

Il testo è apparso nella rivista “Recherches philosophique”, V, 1935-1936, pp. 364-372, trad. it. in S. Finzi (cur.), Georges Bataille. Critica dell’occhio, cit., pp. 245-254 ed è stato ripreso, in una versione rimaneggiata, nella terza parte de L’esperienza interiore, trad. it. cit., pp. 137-159 col titolo “Il Labirinto (o la composizione degli esseri)”. Per le citazioni seguirò l’edizione italiana pubblicata ne L’esperienza interiore. 100 G. Bataille, “Il labirinto (o la composizione degli esseri)”, cit., pp. 136-141.

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nell’angoscia dell’insufficienza del suo essere più che nella pace di un ipse compiuto. Un’angoscia che dobbiamo imparare a so-portare e non a delegare rinunciando a sé, alla propria autonomia, assumendo la complessità, la precarietà, l’insufficienza e l’ambiguità di un essere-ci che non possiamo racchiudere, compiere e, come il toro che «avventa contro il vuoto che un matador fantasma gli apre incessantemente dinanzi», dobbiamo imparare a sprofondare in questo nulla, a rischiarare col riso la notte del non-sapere, la verità di un’altezza compromessa dalla conoscenza. Dobbiamo comprendere che le altezze a cui la conoscenza ci porta sono solo il limite estremo delle nostre possibilità, limite possibile in cui si apre l’abisso dell’impossibile, la “smisuratezza”, come dice Leiris, in cui l’uomo deve trovare la propria misura, là dove scompare ogni distinzione e l’alto e il basso, l’apollineo e il dionisiaco, il tutto e il nulla si con-fondono101. Solo a partire dall’esperienza dello spossesamento di sé, di una dépense che sacrifica l’Io e la sua volontà di conoscenza, è possibile costruire una forma nuova di umanità, è possibile abitare il labirinto dell’esistenza, l’enigma che l’uomo è a se stesso, un essere che «si consuma in un conflitto senza fine tra bene e male, umanità e animalità». Un conflitto in cui la natura si ribella alla natura, là dove la volontà d’autonomia dalla natura non è altro che un dato naturale che cela sotto di sé tutte le tensioni animalesche che animano l’essere dell’uomo […]. Qualsiasi tentativo di autonomia dalla natura non fa che riconsegnare l’uomo al suo essere (nel)la natura102.

Dobbiamo allora entrare nel labirinto della vita seguendo la canzone di Arianna, quella di un’anima trasmutata, dopo l’abbandono di Teseo, dal canto e dalla danza di Dioniso-toro. La sua carezza scioglie la pesantezza della conoscenza e illumina il labirinto della morale facendole scoprire che «quel che poc’anzi credeva un’attività era solo un’impresa di vendetta, diffidenza e sorveglianza (il filo)». Amando Teseo l’anima nega la vita, l’uomo nega se stesso; donandosi a Dioniso essa ama e ci fa amare anche quella parte maledetta – minotauro – estranea a sé, che voleva uccidere, chiudere all’esterno, sentendo che proprio quell’esteriorità è invece, come dice Blanchot, più intima a noi di qualsiasi interiorità. Intimità che è amicizia dell’uomo per l’uomo, amicizia dell’uomo con se stesso, un sentire che possiamo riattivare solo guardando a quella parte inutile, ma coessenziale, dell’essere che siamo.

101 Cfr. M. Leiris, “Hommage à Georges Bataille”, in Critique, 1963, n. 195-196. 102 F. Ferrari, Georges Bataille. Il limite e il possibile, cit. pp. 38-39.

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FUORI CAMPO

L’amicizia dell’uomo per l’uomo Più volte, reclamando la sovranità, Bataille ci ricorda che «non possiamo mai essere sovrani», che dobbiamo amare, cercare la sovranità come fosse l’oriente della conoscenza, perché solo decidendo di non volersi più come tutto, di farsi niente (rien), possiamo entrare in quella notte luminosa del non-sapere dove «convengono tutte le inclinazioni dell’uomo, tutti i possibili che egli è», dove si incontrano ragione e passione, conoscenza ed estasi, ordine e chaos. Un sapere altro, il sapere di una ragione e di un soggetto spogliati della loro pesantezza, segnati dalla passione di un pensare nel quale Dio, Io e Mondo svaniscono; tensione di un pensiero che, all’estremo del possibile, ancora chiede chi sono io? che cos’è la vita? Un domandare di fronte al quale il pensiero sente solo la sua impotenza a pensare, a sospendere l’angoscia in una risposta. È però proprio questa tensione irrisolvibile, l’angoscia ci dice Bataille, che ci spinge a pensare nella misura in cui porta in sé anche la possibilità di un suo superamento; non una soluzione, ma una conversione che accade nella decisione di una adesione radicale alla complessità incommensurabile della vita. La decisione di amare la chance, una possibilità nuova che ci restituisce al piacere dell’esistenza dando al sapere una misura che “disarma” – come dice Pannikkar – la “ragione armata”, quella propria di una scienza che cedendo alla “lussuria del potere” elogia la particolarità, frammenta la vita e dimentica il legame con la totalità dell’esistenza. Il labirinto e non la piramide1 deve allora essere la cifra dell’esistenza; il nomadismo e non la sedentarietà qualifica il pensiero, l’ordine folle di un

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«Se si considera la massa delle piramidi e i mezzi rudimentali di cui disponevano i costruttori, appare evidente che nessuna impresa è costata una somma di lavoro più grande di quella che voleva fermare il flusso del tempo. È senza dubbio il faraone egiziano che ha dato per primo alla persona umana la sua struttura e questa volontà di essere senza limiti che tende a stabilirla diritta sopra il suolo come una specie di edificio luminoso e vivente […] perché è solo nella misura in cui una massa di potenza considerevole si era accumulata in una sola testa che l’essere umano aveva elevato fino al cielo la sua avidità di potenza eterna [...]. E non occorreva meno che l’edificio gigantesco della piramide per ristabilire l’ordine delle cose: la piramide faceva entrare il re-dio nell’eternità del cielo presso il Râ

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chaosmos che contesta quello misurato e significato di un chosmos tracciando così la forma di un divenire sottratto alla conoscenza, nella polimorfia di un senso che libera e glorifica la vita negando l’univocità che «mutila e frammenta». L’esistenza non è solo lavoro, ma anche passione e tumulto, il pensiero non è solo discorso e progetto, ma emozione e gioco, esperienza di una comunicazione comuniale che disorienta, sovverte l’orizzonte del sapere e la precisione del linguaggio nozionale ri-orientandoli verso la concretezza, verso quella immediatezza dell’esperienza che sfugge al discorso e che, come abbiamo visto, può essere “detta” solo attraverso una sorta di vue touchante, quella di uno sguardo cieco che sente la “purezza del cielo” o il “profumo di una stanza”; un sentire improvviso, involontario, la chance di un istante miracoloso, un pathos del pensiero che apre il fondo irrazionale dell’essere, quel flusso dionisiaco, vitale, che continua a ribollire nelle vene di Apollo. Labirinto, nomadismo, chaosmos, polimorfia. Sono queste le cifre di una forma di pensiero e di un modo d’esistenza che qualificano una vita gloriosa, una vita vissuta all’altezza delle stelle, contrapposta al modo d’essere limitato dell’uomo della riflessione, di chi, chinandosi al principio d’utilità, subordina l’essere al progetto e non comunica né sente più la vita. A quest’uomo utile, chiuso nella parzialità di una falsa sufficienza, Bataille ricorda che nei vasti flussi delle cose, io non sono e tu non sei che un punto d’arresto propizio a uno sgorgo. Non tardare a prendere esatta coscienza di questa posizione angosciosa: se ti capitasse di fissarti a obiettivi chiusi in limiti in cui nessuno è in gioco all’infuori di te, la tua vita sarebbe quella dei più, sarebbe ‘priva di meraviglioso’2,

sarebbe la vita di chi è incapace di domandare, di amare, di ridere, di cogliere la chance – di aderire al caso, all’istante inatteso – necessaria per andare fino all’estremo del possibile e vivere con gioia ciò che altrimenti è l’impossibile: la morte in quanto necessità inesperibile, la comunità in quanto assenza di comunità. Comunità di ineguali dove il senso del legame è quello di un nonrapporto, come sottolinea Blanchot, la cui unica misura è la dismisura di un’alterità inaccessibile e inconoscibile: «soltanto negli altri possiamo scoprire come dispone di noi l’esuberanza leggera delle cose». Altri che non possiamo conoscere ma solo incontrare nella misura in cui diveniamo capaci di sacrificio, di costituirci, possiamo dire, un sé “modesto” tale in quanto attraversato, piegato da un “fuori” che lo abita e che lo mette continuamente in gioco, alterando tutte le sue sicurezze. Io-che-muore: una pluralità che non conosce-raccoglie, ma sperimenta-accoglie.

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solare e, in questa maniera, l’esistenza ritrovava la sua pienezza incrollabile nella persona di colui che aveva riconosciuto», G. Bataille, “L’obelisco”, in Id., Critica dell’occhio, cit., pp. 261-274, pp. 264-265. G. Bataille, L’esperienza interiore, cit., p. 155.

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Dobbiamo allora imparare ad entrare senza paura nella «danza dell’esistenza», come il neonato che entra nel mondo senza sapere niente né di sé né della vita; dobbiamo immergerci nel dolore di un non-sapere, nel rischio di una messa in questione radicale del nostro essere che è però il segno di una nuova nascita, non un’origine, ma un “inizio” paradossalmente capace nella sua intemporalità di sconvolgere, qui ed ora, la rete delle relazioni costituite, di liberare un contagio di energia, di calore, di movimento, dice Bataille, un flusso vitale eterogeneo – un sacro finalmente spogliato di sostanza trascendente – che, sul piano etico-politico, ci fa intravedere una diversa linea di soggettivazione, un modo di esistenza e una forma di pensiero altri in cui entrano, con gli stessi diritti e nella stessa misura, ragioni e passioni, calcoli e desideri. Un sé prudente, una soggettività senza soggetto, possiamo dire, che fa della propria finitudine e precarietà la cifra di un compimento impossibile; un sé che costruisce sulla propria inquietudine una saggezza pratica che, senza garanzie morali né certezze metafisiche, lo “guida” nei mille sentieri della vita, nella complessità di un reale in cui all’estremo del possibile, quando tutto sembra essere raggiunto e conosciuto, si aprono nuove vie, mondi altri, un sé sempre diverso. Per questo l’esperienza, l’esperienza interiore o esperienza-limite, non è mai una via d’uscita, ma la messa in atto di un movimento di problematizzazione che trascina il soggetto fuori di sé, che scardina ogni certezza facendo lavorare il pensiero, liberando l’interrogazione su se stessi e sul mondo senza mai consolidarla nel quadro di un apparato gnoseologico, normativo o ideologico. L’esperienza limite assume allora i caratteri del dono, quelli dell’affermazione pura nietzscheana, dove ciò che si dona, ma anche si riceve, è la possibilità di un’amicizia “integrale” per quell’“impossibile” che è l’uomo; il “segreto” di una sovranità e di una comunità che vanno custodite nella loro ineffettualità, nella purezza di un sentimento/desiderio che è solo nel punto in cui «qualcuno è dissuaso dal poter dire Io». Nel punto di una comunicazione in cui non ci sono più soggetti-identità, ma dei differenti uguali, dei divenire posti in uno scambio ineguale, «che non equivale ad una permutazione», ma al passaggio dall’uno all’altro di un movimento di continua e necessaria ripresa, continuità a partire da una inderogabile discontinuità. Ciò che viene comunicato «da un punto estremo a un essere e da un essere a questo punto estremo, è il folgorante bisogno di perdersi»3: amicizia è il senso di questa comunicazione, amicizia per noi stessi, per quello “sconosciuto” che ci abita e che siamo. Decisione etica di incontrare l’altro, necessità di esporsi all’altro senza difese, come al proprio limite, per incontrarlo; essere per l’altro, dice Bataille, affinché la mia vita abbia un senso, quello dell’altro. «La sovranità o è silenziosa o cade». Amicizia è la parola possibile per la sovranità, una parola che va custodita nel silenzio di una comunicazione sensi3

G. Bataille, L’amitié. Le rire de Nietzsche, Gallimard, Paris 1973, trad. it., L’amicizia, SE, Milano 1999, p. 30

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bile, mai compiuta, inappropriabile; un esserci aperto, un essere accanto agli altri nella reciproca nudità, una povertà dell’Io e una debolezza della ragione che delineano i contorni di un’etica dell’amicizia che, in senso nietzscheano non giudica la vita, ma la fa esistere, non la conserva o preserva, ma l’afferma. Amicizia: è «il cuore stesso della fraternità: il cuore o la legge», il nucleo sacro di quella “comunità dei celibi” che l’Achab di Melville scopre intuendo che anche suo padre è un orfano, che siamo tutti orfani, che siamo figli di niente, dunque fratelli e sorelle al di là di qualsiasi legame di sangue e di proprietà. Una comunità impersonale né individuale né collettiva che chiama in causa, come dice Gilles Deleuze, tutti e ciascuno nella misura in cui ognuno è già da sempre non solo un altro da sé, ma anche un noi-altro, anzi un noi-altri irriducibile nella misura in cui il cum dell’in-comune delinea, trasporta, il senso di una relazione di complicità non meramente naturale e inconsapevole, ma prodotta come responsabilità di ciascuno, in prima persona, all’interno di un modo di esistenza per il quale «il punto non è che ciascuno ami al pari di tutti gli altri, ma che tutti amino, ciascuno come nessun altro nella totale irriducibilità agli altri per conto proprio e senza alcuna sostituzione possibile»4.

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G. Deleuze, “Mathesis, scienza, filosofia”, trad. it., in Millepiani, 8, 1996, pp. 11-19, p. 13.

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BIBLIOGRAFIA

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MIMESIS Saggi e narrazioni di estetica e filosofia Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

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BRUNO Giordano, La magia e le ligature, a cura di Luciano Parinetto, 2000, pp. 151, ISBN 8887231389, € 13,43 CAPRA Sisto, Albania proibita. Il sangue, l’onore, e il codice delle montagne con la versione integrale del Kanun di Lek Dukagjini e saggi di Gjon Gjomarkaj e Arben Xoxa, 2000, pp. 246, ISBN 888483001X, € 17,04 CAPRA Sisto, STARNONE Gavino, Albania anno zero. Dopo la guerra che succede?, 1998, pp. 148, ill. col., ISBN 8887231508, € 13,43 CARDANO Girolamo, Metoposcopia. Manuale per la lettura della fronte, a cura di Alberto Arecchi, 1994, 20032, pp. 206, ill., ISBN 8884831989, € 14,00 DAS AREIAS Almir, Cos’è capoeira. Tra danza e lotta: un’arte strumento di libertà, a cura di Luiz Martins de Oliveira (Mestre Baixinho), 2005, pp. 81, ISBN 8884833857, € 11,00 ERACLITO, Fuoco non fuoco. Tutti i frammenti, traduzione e commento a cura di Luciano Parinetto, 1994, 20002, pp. 223, ISBN 8885889220, testo greco a fronte, € 15,49 ERMETE TRISMEGISTO, Corpo ermetico, Asclepio. Scritti teologico-filosofici, vol. I, a cura di Pierre Dalla Vigna e Carlo Tondelli, 1988, 20005, pp. 219, ISBN 885889026, € 17,04 ERMETE TRISMEGISTO, Estratti di Stobeo: Kore Kosmou. Scritti teologico-filosofici, vol. II, a cura di Tiziana Villani e Carlo Tondelli, 1989, 20005, pp. 149, ISBN 88885889107, € 14,46 ERMETE TRISMEGISTO, L’ogdoade e l’enneade, Definizioni ermetiche, a cura di Patrizia Alloni, 1995, pp. 109, ISBN 8885889530, € 10,33 ERMETE TRISMEGISTO, Liber hermetis. Scritti astrologici, prefazione di Pierre Dalla Vigna, traduzione e note di Guido Pellegrini, 2001, pp. 156, ISBN 8884830435, € 15,50 F ADINI Ubaldo, P ASCUCCI Giammario, Immagine-desiderio. Contributo ad una genealogia del moderno, 1999, pp. 185, ISBN 8887231338, € 14,46 FIRMICO Materno, In difesa dell’astrologia. Matheseos Libri, I, a cura di Emanuela Colombi, 1997, pp. 92, ISBN 8885889565, testo latino a fronte, € 10,33 GAGGERO Giacomo, Esperienza musicale e musicoterapia, 20052, pp. 115, ISBN 8884831172, € 12,00 GAVAZZI Iris, Il vampiresco. Percorsi nel brutto, 2004, pp. 144, ISBN 8884832527, € 13, 00 GILARDONI Andrea, I meccanismi dell’obbedienza e le tecniche della resistenza. Materiali per un laboratorio teatrale storico-psicologico, 2005, pp. 195, ISBN 8884833949, € 19,00 GRASSANI Enrico, L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subita dall’uomo,2002, pp. 124, ISBN 8884831180, € 10,33 IBN ‘ARABI Nuhyi al-Din, Il nodo del sagace ovvero l’idea di uomo universale nell’‘Uqlat al-Mustawfiz, introduzione, traduzione e note di Carmela Crescenti, 2000, pp. 194, ISBN 8887231346, € 15,49 ILDEGARDA DI BINGEN, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a cura di Luisa Ghiringhelli, 1998, pp. 291, ISBN 8887231117, € 18,08 LESCE Francesco, Un’ontologia materialista. Gilles Deleuze e il XXI secolo, 2004, pp. 127, ISBN 8884832942, € 12,00 LESSING Gotthold E., Il teatro della verità. Massoneria, Utopia, Verità, a cura di Luciano Parinetto, tavole di Salvatore Carbone, 1997, pp. 175, ISBN 8885889751, € 15,49 LULLO Raimondo, Trattato di astrologia, 2003, pp. 125, ISBN 8884830745, € 12,00 MCCULLY Robert, Jung e Rorschach, 1988, pp. 284, ill., ISBN 8885889085, € 18,08 METRODORA, Medicina e cosmesi naturale ad uso delle donne: la antica sapienza femminile e la cura di sé, prefazione di Giorgio del Guerra, 1994, pp. 109, ISBN 8885889433, testo greco a fronte, € 9,30 MOSCONI Lodovico, Io ti voleva uguale al primo bene, 1989, pp. 129, ill., ISBN 8885889034, € 9,80 PANAINO Antonio, PELLEGRINI Guido (a cura di), Giovanni Schiaparelli. Storico della astronomia e uomo di cultura, Atti del seminario di studi organizzato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dall’Istituto di Fisica Generale Applicata dell’Università degli Studi di Milano, Milano, 12-13 maggio 1997, Osservatorio astronomico di Brera, 1999, pp. 193, ISBN 8887231540, scritti di Raffaella Simili, Maria Casaburi, Salvo De Meis, Hermann Hunger, Agnese Mandrino, Antonio Panaino, Guido Pellegrini, Giuseppe Bezza, Enrico G. Raffaelli, € 15,49 PAOLO D’ALESSANDRIA, Introduzione all’astrologia. Lineamenti introduttivi alla previsione astronomica, a cura di Giuseppe Bezza, 2000, pp. 197, ISBN 8887231737, € 15,49

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PARINETTO Luciano, Alchimia e utopia, prefazione di Giorgio Galli, 2004, pp. 179, ISBN 8884831911, € 15,00 • PARINETTO Luciano, Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica, prefazione di Giorgio Galli, 2004, pp. 219, ISBN 8884832403, € 15,00 • PATAÑJALI, Yoga sutra. Il più antico testo di yoga con i commenti della tradizione, a cura di Massimo Vinti e Piera Scarabelli, 1992, 20002, 20043, pp. 195, ISBN 8885889360, € 15,00 • PEREGO Marcello, Le parole del sufismo. Dizionario della spiritualità islamica, 1998, pp. 276, ISBN 8887231192, € 18,08 • PERI Francesco, Da Weimar a Francoforte. Adorno e la cultura musicale degli anni venti, 2005, pp. 287, ISBN 8884833868, € 19,00 • PERNIOLA Mario (a cura di) Il pensiero neo-antico. Tecniche e possessione nell’arte e nel sapere del mondo contemporaneo, 1995, pp. 124, ISBN 8885889573, scritti di Mario Perniola, Roberto Motta, Renzo Paris, Claudia Castellucci, Francesco Pellizzi, Giuliano Compagno, Tiziana Villani, Giuseppe Conte, Christoph Wulf, Michel Deguy, Tomaso Kemeny, Isabella Vicentini, Giuseppe Patella, € 10,33 • PEVERADA Stefano, Il canto delle sirene. Protagora e la metafisica, 2002, pp. 428, ISBN 8884831016, € 19,00 • PEVERADA Stefano, Nietzsche e il naufragio della verità. Critica, nichilismo, volontà di potenza, 2003, pp. 571, ISBN 8884831806, € 19,00 • PEVERADA Stefano, Il sacrificio del dio bambino, 2005, pp. 127, ISBN 8884832462, € 13,00 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna I. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 330, ISBN 8887231842, scritti di Hortolanus, Arnaldo da Villanova, Nicolas Flamel, Basilio Valentino, Bernardo Trevisano, Vinceslao Lavinio di Moravia, Giovanni Pontano, € 21,70 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna II. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 312, ISBN 8887231834, scritti di Ferrari, Salomone Trismosino, George Ripley, Ireneo Filalete, Olivero de Oliveriis da Todi, Clovis Hesteau de Nuysement, Denys Zacharie, € 21,70 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna III. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 348, ISBN 8887231826, scritti di Artefio, Kalid Ben Jazichi, Kalid Rachaidibi, Kalid Ben Jesid, Geber, Raimondo Lullo, Frate Elia, Altus, Jean de La Fontaine, Esprit Gobineau de Montluisant, € 21,70 • PLOTINO, Enneadi I e II, a cura di Pierre Dalla Vigna, Carlo Tondelli e Tiziana Villani, traduzione di Carlo Tondelli, 1992, pp. 239, ISBN 8885889387, € 17,04 • PROTO Antonino, Ermete Trismegisto: gli Inni. Le preghiere di un santo pagano, 2000, pp. 178, ISBN 8887231982, € 15,49 • P’AWSTOS Buzand, Storia degli armeni, introduzione e cura di Gabriella Uluhogian, traduzione di Marco Bais e Loris Dina Nocetti, note di Marco Bais, 1992, pp. 231, ISBN 8885889883, € 15,49 • REVERT Eugène, Stregoni, zombi e vodù. Pratiche magiche nelle Antille, traduzione e cura di Alberto Arecchi, 2001, pp. 125, ISBN 888483032X, € 12,40 • ROSSI Paola (a cura di), Atharvaveda. Il Veda delle formule magiche, 1994, pp. 222, ISBN 888588945X, testo sanscrito a fronte, € 13,43 • AL-DIN RUMI, Il canto dello spirito. Aneddoti del Mathnawi, introduzione, traduzione e note di Anna Maria Martelli, 2000, pp. 201, ISBN 8887231664, € 15,49 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte prima – scritti editi, tomo I, 1997, pp. 462, ISBN 888723101X, ristampa dell’edizione bolognese del 1925, € 23,24 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte prima – scritti editi, tomo II, 1998, pp. 395, ISBN 8887231125, ristampa dell’edizione bolognese del 1926, € 23,24 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte seconda – scritti inediti, tomo III, 1998, pp. 338, ISBN 8887231214, ristampa dell’edizione bolognese del 1926, € 20,66 • SICA Anna - ARONSON Arnold, New York Theatre from tradition to Avant-garde, 2005, pp. 192, ISBN 8884831733, € 15,00 • SOTERO M. - ROGORA G. - GANDOLFI D., Corpo simbolo Rorschach. Processi simbolici e archetipici al test di Rorscah in medicina psicosomatica, 1990, pp. 137, ISBN 888588914X, € 13,42 • TASINATO Maria, Elena, velenosa bellezza, seguito da una traduzione dell’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini, 1990, pp. 74, ISBN 8885889123, testo greco a fronte, € 7,75

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TASINATO Maria, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, 1990, pp. 93, ISBN 8885889158, € 10,33 TORRES Yólotl González, Il culto degli astri tra gli Aztechi, a cura di Annelisa Addolorato, 2005, pp. 149, ISBN 8884830370, € 17,00 TOTOLA Giorgia, Donne e follie nell’epica romana. Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, 2002, pp. 85, ISBN 8884830834, CD-ROM multimediale in allegato, € 13,00 THEA Paolo, Gli artisti e gli “spregevoli”. 1525: la creazione artistica e la guerra dei contadini in Germania, con un saggio di Karl-Hartwig Kaltner sulle guerre contadine in Austria, 1998, pp. 172, ISBN 8887231206, € 14,46 TRIPALDI Fabio, L’ossessione dello spirito, 2004, pp. 284, ISBN 8884832373, € 16,00 VACCARO Salvo - COGLITORE Marco (a cura di), Michel Foucault e il divenire donna, prefazione di T. Villani, 1997, pp. 217, ISBN 8885889832, scritti di Rosi Braidotti, Lois McNay, Deborah Cook, Mary Tijattas, Jean-Pierre Delaporte, Jana Sawicki, Karen Vintges, Judith Butler, Hélène Cixous, in appendice Quattro interventi di M. Foucault sulla sessualità, € 15,49 V AN S EVENANT Ann, Il filosofo dei poeti. L’estetica di Benjamin Fondane, 1994, pp. 126, ISBN 8885889212, € 11,88 VILLANI Tiziana, I cavalieri del vuoto. Il nomadismo nel moderno orizzonte urbano, 1992, pp. 83, ISBN 8885889395, € 7,75 VILLANI Tiziana e DALLA VIGNA Pierre (a cura di), Guerra virtuale e guerra reale. Riflessioni sul conflitto del Golfo, 1991, pp. 94, ISBN 8885889174, scritti di Mario Perniola, Carlo Formenti, Pierre Dalla Vigna, Tiziana Villani, Felix Guattari, Jean Baudrillard, € 8,78

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