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Italian Pages 112 [110] Year 2022
Fabrizio Cossalter
Frammenti dell’età di mezzo
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 13
Fabrizio Cossalter
Frammenti dell’età di mezzo
© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 13 – aprile 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-306-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-330-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: night scene of abandoned ship on the desert with stary sky, illustration painting © grandfailure – stock.adobe.com Le fotografie riprodotte alle pp. 36, 37, 39, 41, 42, 44, 57, 60, 64, 67 appartengono all’Archivio della famiglia Cossalter-Liberatore; quelle alle pp. 72, 91, 103 a Daniel González Moreno; quelle alle pp. 75, 76, 98, 99 a Larissa Pérez Moreno; quelle alle pp. 93, 96, 100 all’Archivio della famiglia Moreno.
a Larita, colei che diede forma alla mia vita, e ai miei genitori, Annalia e Vittore
Che forma bisogna adottare per esprimere ogni tanto la propria opinione sulle cose di questo mondo, senza rischiare di passare, più tardi, per un imbecille? È un bel problema. Mi sembra che la cosa migliore sia di dipingerle, semplicemente, queste cose che ci esasperano. L’autopsia è una vendetta. (Gustave Flaubert, da una lettera a George Sand, 18-19/12/1867)
E facciamo magari della letteratura. Perché no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fin al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne. (Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato)
La mia confusione tra due continenti, due modi di vita, ecc., mi rende ormai la sincerità altrettanto difficile nello scrivere che nei rapporti umani. Contro uno sradicamento simile, la buona volontà non basta più. (Paolo Milano, Note in margine a una vita assente)
Ritengo che le Tofane e le grandi e scintillanti distese di neve su tutta la Conca Ampezzana ma anche al di là verso la provincia di Bolzano, quella cresta punta che si chiama monte Lagazuoi, in vetta al passo del Falzarego siano la mia Patria. (Goffredo Parise, Il mio Veneto)
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Nota dell’autore
È con una certa esitazione che licenzio questo volumetto, lasciandolo, finalmente, in balìa della sua sorte editoriale; non potrebbe essere altrimenti, dato che si tratta, nel bene come nel male, di un autoritratto. Sarà il lettore a decidere se è soltanto un abbozzo, incompiuto e idiosincratico come il suo autore, o se invece è in grado di trasmettere una sequenza di esperienze e di riflessioni un po’ più universali e condivisibili. Per usare le parole di Silvio D’Arzo, «anche questo libro ha una specie di storia», che forse non è inutile riepilogare brevemente: la maggior parte dei frammenti che lo compongono è stata scritta nel corso dell’ultimo anno, sotto la sollecitazione di una clausura che non ha mutato radicalmente le mie abitudini quotidiane ma che mi ha impedito, per la prima volta, di tornare in Italia; gli altri sono stati estratti dal disordinato zibaldone di ricordi, noterelle e impuntature che vado scrivendo da anni e che è destinato a rimanere ampiamente inedito, Deo gratias. L’«età di mezzo» a cui si riferisce il titolo è, ovviamente, quella biologica, ovvero il preludio di un autunno che si sta approssimando, inesorabile e leggero, e nel contempo allude a una condizione storica più generale, che appare evidente agli occhi di
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chi è cresciuto a cavallo tra due epoche e si è stancato, ormai, di occultare per ragioni di opportunità le proprie opinioni, ancorché inattuali. Ad affiorare da questa sorta di consunto palinsesto, lungamente riscritto (con il vocabolario sempre accanto, come una stampella), sono innanzitutto le idee fisse di un espatriato che ripensa senza tregua alla propria amataodiata provincia, abbandonata quando era un giovanotto di belle speranze e ingarbugliate passioni… Devo riconoscere che la mia vita si è svolta, finora, all’insegna di una venturosa casualità. Mi sono trasferito a Madrid nel 2005 e a Città del Messico nel 2009, ignorando in entrambe le circostanze quanto sarebbe durato il mio soggiorno; sedici anni dopo, il «viaggio sedentario» non accenna a concludersi, al punto che il dispatrio si è convertito nell’evento fondativo della mia claudicante maturità e tende a confondersi con essa. In un certo modo, queste pagine sono scaturite da un cortocircuito intellettuale ed esistenziale, dal momento che il tentativo di raccontare il passato e di descrivere il presente si scontra con la precarietà del mio osservatorio, sospeso tra due dimensioni quanto mai lontane l’una dall’altra: come rammemorare, ad esempio, le amene passeggiate dalla «parte» del lago Ghedina o da quella del bosco di Fiames, quando si vive tra gli agi di un gradevole quartiere art déco, circondato dall’ominoso terrain vague di uno sterminato cimitero a cielo aperto? In realtà, non è poi così difficile fingere di essere all’oscuro delle soverchierie, delle violenze e delle vessazioni subite dalla popolazione messicana. Di solito ci limitiamo a commentarle sbrigativamente e, dopo averle liquidate con qualche frase di commiserazione, ricominciamo a parlare d’altro. Tale atteggiamento non deriva però dall’indifferenza, bensì dallo scetticismo e dalla rassegnazione di chi si è semplicemente arreso di fronte alle guerre civili non dichiarate, alle proditorie militarizzazioni e agli insipienti istrioni che tormentano questo paese bellissimo e disgraziato.
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Sono stati proprio questi frangenti ad alterare la mia visione del mondo e a spingermi a fare un esame di coscienza, estemporaneo e liberatorio: la mia minuscola verità è tutta qui, e alla fin fine altro non è se non la storia di un italiano per nulla esterofilo che trascorre i suoi giorni oltreoceano e che forse invecchierà in partibus infidelium. Mi piace immaginare – sotto la scorta di Julio Ramón Ribeyro, il grande scrittore peruviano trapiantato a Parigi – che questi frammenti siano altrettante «prose apolidi», erranti «senza destino né funzione» fra le chimere di un cronotopo fuori asse e, tuttavia, capaci di tradurre in chiave narrativa l’insanabile spaesamento del loro autore. Le mie stesse intemperanze non discendono, del resto, da un qualche spirito di rivalsa, ma piuttosto dalla sensazione di aerea libertà che mi ha accompagnato mentre le mettevo su carta (siccome la diplomazia, letteraria o meno, non è affatto nelle mie corde, ho scelto di non mitigarle, e naturalmente me ne assumo ogni responsabilità). Desidero infine ringraziare Filippo La Porta, i cui consigli e suggerimenti, sempre puntuali e pertinenti, mi sono stati particolarmente preziosi durante la stesura del presente libretto. Città del Messico, giugno 2021
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Tempi di latenza
Al giorno d’oggi non ci si può più fidare nemmeno della stupidità della gente.
Siamo i rissosi reduci di una guerra alla quale abbiamo partecipato in qualità di furieri e di addetti alle salmerie, brandendo con spavalderia e intrepidezza le nostre scacciacani ermeneutiche.
Scrivo dal malanimo e per il malanimo. Chi come me soffre di incontenibili attacchi di atrabile non è in grado di scrivere una sola riga al di sopra o al di sotto del più omeopatico dei sentimenti. Similia similibus curentur.
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«Taci, il nemico non ti ascolta» (Piergiorgio Bellocchio).
C’è chi redige le articolesse, c’è chi persegue le commesse, e poi c’è chi avvelena la carta velina delle sue bagattelle, dedicandole invano a un destinatario già mitridatizzato.
L’interminabile sbornia del postmodernismo ci ha condannato, senza possibilità di remissione, agli eterni postumi del relativismo, con le sue verità alternative, le sue idee ricevute e le sue statue demolite.
Il destino della mia generazione si è compiuto, a nostra insaputa, nel momento in cui le forme della tradizione sono state assorbite dal Made in Italy e la letteratura ha abbracciato il prêt-à-porter.
Una volta raggiunta la mezza età, i giovani scrittori cominciano a perdere i capelli ma imparano a trapiantare gli stili. I più fortunati superano senza strascichi l’angoscia dell’influenza e vincono una bottiglia di liquore.
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Quel che ci ostiniamo a chiamare società letteraria altro non è se non una rumorosa sagrestia nella quale svolazzano sciami di arcipreti, di perpetue e di novizi, per nulla disposti a porgere l’altra guancia e sempre bramosi di esporre le proprie frigide reliquie alla venerazione dei fedeli.
Non appena ho abbassato la guardia del buon gusto, mi sono scoperto inerme di fronte ai venditori all’incanto di carta riciclata e ai poligrafi da una bozza e via.
L’«originalità» è diventata il rifugio degli inetti e dei conformisti, laddove il plagio e il silenzio sono le uniche virtù demiurgiche di cui noi, piccoli lettori di provincia, possiamo ancora menar vanto.
«Perché scrive certa gente? Perché non ha abbastanza carattere per non scrivere» (Karl Kraus).
Fummo trascinati al lardo della critica da un inarrestabile riflusso di grasso letterario.
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Le imposture intellettuali e i disinganni accademici mi hanno insegnato a diffidare meno della menzogna che della verità.
Damnosa hereditas: non sappiamo neppure come dobbiamo spendere il legato dei nostri antenati, che siamo soliti sperperare con malcelata indolenza. Incatenati alle rovine di una civiltà letargica e residuale, che di prometeico non ha più nulla, abbiamo rinunciato financo all’arte della dissipazione spirituale.
Siamo, a tutti gli effetti, i risibili vinti della macabra illusione della «fine della Storia».
Ho una tempra da moralista fiacco, da pensatore astenico.
«L’incredulità è un lusso terribile» (Antoine de Rivarol).
Gli uomini in carriera verso il nulla coltivano un’eccessiva nostalgia di se stessi.
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Credeva di essere servizievole, nell’amore come nelle altre passioni, e invece era soltanto servile.
Aveva ereditato un po’ di patrimonio e fatto un buon matrimonio; quando poi cercò di far da sé, finì col fallire per tre.
Sono sempre arrivato in ritardo su tutto: sulle idee, sulle forme, sulle ideologie, perfino sulle mode giovanili… – la procrastinazione involontaria è stata la mia salvezza.
Come posso pensare di farmi dar retta, se anche le virgole si ribellano contro i miei ragionamenti? Accerchiato dai refusi, tenterò di resistere fra le righe, senza spargere troppo inchiostro.
Non mi dispiacerebbe rifinire i miei giorni con questo epitaffio: «Non ha combinato granché nella vita, ma possedeva una certa astratta integrità».
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Di questi tempi l’industria culturale vede di mal occhio il caro, vecchio gioco all’italiana, che nella nostra smagliante Repubblica della Lettura non si pratica quasi più. Il contropiede è spirato fra le braccia della terza pagina, e insieme a lui si sono estinti pure il libero e la satira.
Il calcio, come tutti i grandi monoteismi, si è secolarizzato troppo presto.
La mia religione è il dubbio di un’altra.
Le profezie gnostiche di Giorgio Agamben e le barzellette rivoluzionarie di Slavoj Žižek hanno egregiamente provveduto a raccogliere il testimone del malizioso colportage sovversivo di Toni Negri e dei suoi accoliti.
Quanti teneri uccellini (nel cui novero, ahimè, mi includo) hanno beccato le limacciose gramaglie degli spaventapasseri della teoria!
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La tetragona mitologia degli spartiati di Mirafiori – la «rude razza pagana» di Mario Tronti, per intenderci – altro non rivela, post res perditas, se non il maschilismo caricaturale, da «poliziottesco», dell’operaismo nostrano.
Ma quanto avremmo desiderato sperimentare la raffinata fatuità di una rivoluzione sconfitta…
Pur condividendone, in linea di principio, le motivazioni, non riesco a non avvertire un certo sentore di mercimonio nei recenti arresti parigini. A che pro interrompere solo ora la «fuga senza fine» dell’esigua schiera di attempati contumaci, ingombranti relitti del «secolo breve», già inumati nel «passato che non passa» in compagnia dei loro ideali sbagliati?
Bisognerebbe rivalutare, piuttosto, la misconosciuta figura di Achille Starace, precoce e incompreso inventore dell’Italian Style.
Nel giardino dei «Quaderni piacentini» fiorirono gli ultimi Finzi-Fortini.
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La Kulturkritik, checché ne dicano i suoi pedanti imbalsamatori, è tuttora viva e vegetante.
«Recitiamo ancora bene, ma il copione non è nostro» (Alfonso Berardinelli).
Le terapie brevi, così in voga oggidì, hanno un che di nauseabondo ed espulsivo, come se la cura consistesse nella parziale o totale deiezione del pensiero e della coscienza di sé.
Troppo spesso il riconoscimento di un diritto, ancorché legittimo, viene accompagnato dalle insoffribili alzate d’ingegno di coloro che lo hanno rivendicato.
Attualmente viviamo – e scriviamo – come se fossimo tutti morti, anche se, per buona educazione o per codardia, facciamo finta di non accorgercene, il che crea un certo imbarazzo tra di noi.
Sembrava tutto così falso, ed era spaventosamente vero…
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Natura non facit saltus e, nella beffarda involuzione della filogenesi, non smette di retrocedere a zig-zag, incespicando a ogni passo.
In questa esistenza di riporto, ciascuno di noi non fa altro che portare in giro con somma disinvoltura la propria cecità selettiva.
Percepisco tutte le seduzioni postume di una catastrofe sontuosamente avventizia.
… Bartleby per omissione, flâneur per vocazione, al punto che mi mancò il coraggio di impugnare la sentenza emessa nei miei confronti – per contrappasso – da un giudice in vena di burle: fine penna mai.
Ars brevis, vita brevior.
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Qui ci vorrebbe un bel drappello di serissimi imbonitori dediti a percorrere le fiere letterarie nostrane e a dispensare agli astanti le ricette e i lunari del dottor Destouches!
Sugli evanescenti romanzi dei miei coetanei non mi viene in mente niente, forse perché non esistono per davvero.
L’autofinzione suole tradurre l’egolatria in un audace gesto di brutale empatia.
«… è sempre più difficile per tutti noi distinguere le vittorie dalle sconfitte» (Filippo La Porta).
Contiamo i giorni, e l’avvenire, di quindici in quindici, di quarantena in quarantena. È la periodizzazione malaccorta e negligente che ci meritiamo, nell’eclissi delle idee e dei sentimenti.
Savoir-vivre: ricordare chi non ci ricorda ed essere ricordati da chi non ricordiamo.
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Come sono piccoli, certi grandi uomini…
Ieri sera [21/06/2016] ho assistito alla conferenza cagliostresca dell’impareggiabile agit-prop dell’umanesimo globale, Nuccio Ordine, il quale ha sciorinato con singolare sprezzatura il manuale Cencelli della cultura politicamente corretta: l’irriconoscibile Camus, il temperato Einstein, l’immancabile García Márquez e il sempre sorprendente Camilleri. Italianissimo, ha sedotto il pubblico messicano con il piglio cosmopolita del barone à la page, in completo e scarpe da ginnastica. La cena ha avuto lo stesso tenore. Lui. Il passaggio dallo spagnolo all’italiano ha favorito, peraltro, lo sbocciare di metafore e similitudini più ardite: si è paragonato a Maradona, ha menzionato, non proprio di sfuggita, la Legion d’onore (ottenuta prima di Romano Prodi!), infine ha tratteggiato gli estrosi programmi della casa editrice che ha fondato l’anno scorso insieme al suo amico Umberto. Benché disprezzi profondamente la politica universitaria, gli basterebbe prendere in mano il telefono per provocare le dimissioni del rettore dell’ateneo in cui insegna. Vorrebbe incarnare l’inattuale pienezza dell’homme accompli, ma ci mette un po’ troppa foga.
«Non ho idee in questo momento, ho soltanto antipatie» (Leo Longanesi).
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Quanti gioiosi professionisti della bancarotta della civiltà occidentale, quanti ludici commessi viaggiatori del nichilismo ho avuto modo di conoscere! Vil razza di speculatori e di lotofagi, che investono sull’abisso per strappare al presente la melliflua emozione di un estremo elzeviro!
Ricordo una conversazione di circa venticinque anni fa (a quel tempo, ben prima delle reciproche, cocenti delusioni, ero ancora il suo «discepolo prediletto»), nel corso della quale Silvio Lanaro mi disse che Giulio Bollati – a causa di un malinteso enciclopedismo, perennemente incompiuto – nutriva il morboso timore di concludere un libro e che per tale ragione non ne aveva pubblicato neanche uno. L’illustre editore – con fattezze da «antico senatore romano» – sarebbe morto di lì a poco, senza dare alle stampe il fantomatico capolavoro storiografico di cui si vociferava sommessamente da un convegno all’altro. Quell’inclinazione dubitativa e fatalmente inappagata – che il mio maestro di allora considerava non acconcia alle ambizioni di un futuro chierico – mi ha offerto, invece, un’inattesa via di fuga dal chiasso delle lotte di classe e di dipartimento tra epigoni locali o forestieri. In fin dei conti, la facondia, sia pure a tratti geniale, si è arresa alla parsimonia: tesaurizzare la frugalità contadina dei miei avi sarebbe di per sé un più che degno programma intellettuale.
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«Si sente come siamo prigionieri della cultura in cui veniamo allevati. Se a qualcuno capita di uscirne non può quasi credere di aver potuto vivere lì dentro. Non so se la mente di un uomo non sia sempre prigioniera della cultura in cui s’inscrive, anche fuggendo da una vecchia a una nuova: forse in questo senso non c’è mai liberazione, si può solo cambiare prigione» (Luigi Meneghello).
Ero un discreto principiante, baciato in gioventù da un certo talento inespresso. Dopodiché ho perso il cogito e la mia carriera non è mai veramente decollata, se non tra i dilettanti delle serie cadette.
Ecco: essere un travet delle humanae litterae, al riparo da perturbazioni atmosferiche e impennate barometriche; vivere, come Ettore Schmitz, la vita di un altro e affidare i miei pochi lacerti alla clandestinità di un quaderno dimenticato in fondo a un cassetto – senza trama, senza inganno…
Godo del privilegio della solitudine. Che è una forma – vertiginosa – di libertà.
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C’è chi è solo come un cane, c’è chi è solo con due cani.
Il suo amore per me è infinito ma non interminabile: quella notte i tessuti si rilasceranno, come una postilla, nell’estasi peritura degli organi costretti a percepire l’imminenza dell’ultimo abbandono.
Happy few: a volte uno riceve così tante batoste che poi comincia a sentirsi un prescelto – le divinità minorate, o esacerbate, sono il nostro pane azzimo…
Questi scartafacci sono il semilavorato di un «personaggiouomo» malmostoso e saturnino, irrimediabilmente fuori asse rispetto alla sua tana incistata nella megalopoli, e rappresentano l’ombroso congedo dall’improntitudine di un’epoca non meno insulsa delle ubbie e delle paturnie che lo contraddistinguono. Tertium non datur. Alla fin fine, i fioretti e gli esercizi spirituali di deprecatio temporum ben si attagliano alla catechesi domenicale dei candidi chierichetti del «mondo di ieri».
Per l’esule afflitto dalla nostalgia della madrelingua, dolceamara matrigna, il frammento è la soglia oltre la quale gli si
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palesa l’ineluttabile débâcle di ogni suo tentativo di affilare una scrittura irreparabilmente ossidata. Carta disincanta.
Leggere molto, tradurre bene, scrivere poco e pubblicare ancor meno. Insomma, «limitare il disonore», come scrisse un grande «maestro involontario», Piergiorgio Bellocchio. Tutto il resto lo lascio volentieri ai cascatori professionali, che da queste parti abbondano.
Zeitgeist: quel pomeriggio, da uno dei piani superiori del palazzo in cui abitavo, se non dal cielo, a precipitare non furono i consueti mozziconi accesi, bensì un ordigno elettronico che si frantumò sul pavimento del mio terrazzo in un microscopico cimitero fossile di silicio e di cristalli liquidi infranti.
Reti sociali: vorrei tanto trovare un’azione che mi rassomigli, ma non ci riesco mai. Ci sono solo reazioni, oggigiorno.
Quantunque sdrucito e tarlato, il misoneismo è come un vecchio paltò che tuttora ci avvolge, ci rassicura e ci riscalda nelle fredde serate invernali – come se il nostro ipocondriaco scontento avesse bisogno di essere incoraggiato.
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Il mio unico alibi è la pusillanimità.
Quando avevo vent’anni, leggevo Kraus senza capirlo. Ora che ne ho molti di più, e lo rileggo da almeno un ventennio, forse lo comprendo meglio, ma non ne traggo alcun giovamento. Excusatio non petita…
La correzione politica è inversamente proporzionale alla correttezza linguistica, con conseguenze assai spesso bislacche e strampalate, se non addirittura esilaranti: basti menzionare il caso del partito spagnolo Unidas Podemos, nel quale pure gli uomini – per riferirsi a se stessi – adoperano il genere femminile!
Disillusi dal cenotafio di cartapesta contro cui si fransero le nostre gesta, amammo nell’omiletica del cartongesso la verità più avvincente di ogni progresso.
Le scancellature mi sono così care perché simboleggiano altrettanti pensieri irresoluti, irresistibilmente attratti – «per via di levare» – dalla forza di gravità che li tiene a terra e incapaci, pertanto, di spiccare il volo e di acquisire una forma. Sono de-
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stinati ad albergare in un qualche bugigattolo della mia mente, dove non faranno danni.
L’amore è – per dirla con Ernest Renan – «un plebiscito di tutti i giorni» nel quale, tuttavia, è estremamente arduo raggiungere il quorum.
Imparerò a congedarmi dalla vita senza aver imparato a vivere.
La cancellazione di sé… Che bel progetto, per chi ne ha il fegato!
Atti impuri: non sono uno scrittore, ma neppure un non scrittore. Il limbo che mi accoglie di contraggenio dissimula l’illegittimo tribunale della mia pretenziosa incoscienza.
Se solo tutti i libri che ho letto mi fossero serviti a qualcosa…
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Ho quarantasei anni e non ho ancora capito bene chi sono. D’altronde, non ho nemmeno troppa voglia di conoscermi sul serio; prediligo, per timore di quel che potrebbe celarsi nel profondo, le minime astuzie del cabotaggio quotidiano.
Il mio problema è che cerco la logica nella vita e la vita nella letteratura.
Un ultimo rammarico: non aver saputo vivere all’altezza della mia ignoranza.
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Ricordi randagi
Il mio lessico famigliare: Contadini e Luigini.
Che cosa può significare, da così lontano, far parte di una storia tanto più grande di me? Di una prosopografia minore, scritta in una lingua che ancora mi parla, ma che io non so più parlare?
Forse anch’io esalerò l’ultimo respiro nominando una Rosebud ormai scomparsa, la casetta sull’albero che mio padre costruì tra le fronde della magnolia per i lieti pomeriggi estivi di ciliegie e romanzi d’avventura.
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Non c’è scrittura senza passeggiata, anche se le passeggiate con i miei cani sono meglio di qualsiasi scrittura.
Di tanto in tanto, quando la lontananza si fa meno sopportabile, mi chiedo dove siano finiti i pattini da ghiaccio di cuoio rosso e nero che i miei genitori mi regalarono per Natale nel 1978 o ’79…
In seguito all’insorgere della malattia, la mia nonna paterna – che si chiamava Giovanetta perché era l’ultimogenita di una famiglia molto numerosa – cominciò a perdere la memoria: a volte mi scambiava per suo padre, a volte per suo figlio, ma non dimenticava mai di darmi la parola d’ordine di un’intera esistenza: «Come va il lavoro? Stai lavorando? Nella vita bisogna lavorare!».
Quand’ero bambino, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, abitavo all’Arcella, il popoloso quartiere di Padova che aveva dato i natali a Toni Negri e che all’epoca era una delle roccaforti della cosiddetta «Autonomia organizzata». I muri erano disseminati di slogan e di scritte inneggianti ai compagni caduti, incarcerati o latitanti. Un pomeriggio d’autunno, mentre compravo le sigarette per mia madre, vidi persino un giovane autonomo alzare al cielo una pistola (la famigerata P38, immagino) durante un corteo improvvisato sul cavalca-
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via della stazione ferroviaria. Altro che laboratorio politico dell’«autovalorizzazione proletaria»… Si trattava, più sinistramente, della patavina Scuola dei devianti, un’opera buffa non priva di esiti tragicomici. (Ma devo ammettere – rammentando la mia adolescenza borghese e «ribelle», intrisa di spleen e insoddisfazione – che anch’io, se fossi nato un decennio prima, avrei potuto essere uno di loro).
Il bisnonno Dante, padre della mia nonna materna, non avrebbe sfigurato fra le pagine del De profundis di Salvatore Satta, visto che all’indomani del 25 luglio gettò nel campo dietro casa il busto del Duce che aveva ostentato per un ventennio.
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Diversamente dal consuocero, il bisnonno Cesare si rifiutò di tradire i suoi bellicosi ideali di ex ardito e di camicia nera della prima ora, che aveva trasmesso intatti ai due figli maschi, Nestore ed Ezio. Ma le loro mani non si macchiarono di sangue nel biennio 1943-45 – e non è una consolazione da poco.
Il fragore della storia sfiorò la mia nonna materna ai primi di maggio del 1938: chi può dire se fu «una giornata particolare» per Augusta Vivaldi, attorniata – nella fotografia – dalle sue compagne di collegio e morta – nella realtà – da oltre vent’anni?
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Lo studium svelerebbe, indefettibilmente, l’esecrabile normalità di un gruppo di ragazze reclutate per ricevere e acclamare Adolf Hitler alla stazione di Verona. A me interessa, piuttosto, l’indimostrabile punctum: la bandierina che mia nonna (la seconda, in alto, da sinistra) non sventola… È lecito riconoscere in quell’atteggiamento la timidezza congenita e la bontà riservata di colei che mi veniva a prendere a scuola e mi preparava la merenda? O è solo un altro miraggio, innocuo e indulgente come una torta di mele appassite?
Si può raccontare un padre, quando l’eco dell’imperizia dello scrivano – «mani di burro, mani di pasta frolla!» – risuona ancora nelle vuote stanze del tempo? E poi, quale forma simbolica bisognerebbe adottare per narrarne le gesta (poiché è di questo che si tratta)? Mi piace pensare che la sua giovinezza sia stata, nonostante le ristrettezze economiche, un’armoniosa tessitura di speranza e intraprendenza, ovvero un felice romanzo di formazione, dal quale traspare spontaneamente l’avventuroso profilo di un’identità in fieri. (In fondo, anche il divario che è esistito tra noi ed è stato fonte di tanti malintesi potrebbe essere raffigurato attingendo al repertorio di quegli eroi letterari: nel mio Bildungsroman Jakob von Gunten si accorge tardivamente di possedere lo stesso patrimonio genetico di Wilhelm Meister, laddove Frédéric Moreau si sorprende ad agognare in segreto le incorrotte ambizioni di Julien Sorel e di Lucien de Rubempré).
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Cominciò a lavorare molto presto, in seconda o terza elementare, come apprendista di un falegname. Il giorno in cui gli consegnarono un premio scolastico nella fabbrica dove lavorava suo padre, involontario augure di un’altra vita, giurò a se stesso che non vi avrebbe mai più messo piede. Intelligente e caparbio, fece l’«avviamento professionale» – la «rude scuola per il popolo» istituita da Arrigo Bottai – e l’Itis, il che gli permise di accedere alla facoltà di ingegneria. Chissà quale futuro si immaginò, nel tragitto in Lambretta da Bolzano a Padova, lungo la Valsugana, quando andò a iscriversi all’università (al di là della cattedra e del prestigio scientifico che chiunque lo conoscesse gli auspicava)…
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Il giorno in cui venni a sapere del tumore di mio padre – era un sabato, il 4 marzo del 2017 – mi scolai una bottiglia di tequila, dopodiché scagliai gli occhiali contro il pavimento, rompendoli, e appuntai questa frase su un taccuino: «Se finisse lui, finirebbe tutto». Ero in preda allo sconforto, naturalmente, però compresi che sovente, nell’eterno capitombolare di un uomo di mezza età, le affezioni più inaspettate risultano essere – giocoforza – quelle meno artificiali.
Andò a farsi operare in motocicletta e, dopo una settimana, tornò dal reparto di urologia del Sant’Antonio con lo stesso mezzo, una Moto Guzzi di 750 cc modificata personalmente nella sua officina domestica. Ero appena arrivato a Padova – mia madre era stata ricoverata un mese prima, in un altro ospedale e con una prognosi che non prometteva niente di buono –, ed ebbi così la possibilità di assistere a quel modesto ma per me portentoso avvenimento, a quel gesto di umanissima, agguerrita resistenza, di cui gli sarò sempre grato, anche se non saprà mai il perché.
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La prostatectomia, le terapie oncologiche e la conseguente leucopenia non hanno fiaccato l’animo di Vittore Cossalter, anzi: nella clausura imposta dalla pandemia continua a prendersi cura, immancabilmente, della cagionevole salute della sua Albertine, a giocare a bridge – sebbene in maniera virtuale –, a dipingere scene di tauromachia e a perfezionare i delicati meccanismi delle sue motociclette d’epoca; insomma, a combattere – pur bardato da cosmonauta o da palombaro –, per abitudine e per spirito di contraddizione. (A differenza del suo primogenito, non soccombe facilmente agli ambigui richiami dei cataclismi imminenti).
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«Pazienza, bisogna essere disponibili» (Beppe Fenoglio).
Oggi [10/10/2018] mia madre, Annalia, la giovane donna la cui bellezza splende ancora, umbratile e melanconica, dalle fotografie di mezzo secolo fa, ha compiuto settant’anni. Possano gli dèi, inquieti padroni di ogni nostra memoria, manifestarle la loro benevolenza e rammentarle compassionevoli la scintillante presenza della ragazza che fu allora e che vedo ora, nel ricordo distante, superare leggera le insidie del tempo per prendere di nuovo in braccio, su una spiaggia senza sole, il suo bambino biondo, vestito con una giacchetta tirolese dello stesso colore del mare.
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Abiteremo per sempre, insieme, questa piccola verità, che è solo nostra, come i sogni che questa notte avverranno, intoccabili e struggenti, in un luogo che gli oltraggi della malattia mai potranno avvicinare.
Eravamo il «popolo dei camper», che a ogni estate sfrecciava a sessanta o settanta chilometri orari lungo le strade e le autostrade d’Italia e d’Europa. Le vacanze nomadi concedevano a quegli esuberanti professionisti con figli a carico – insegnanti, medici e ingegneri – l’opportunità di rinnovare, sebbene su scala ridotta, gli irrequieti vagabondaggi giovanili. Eredi, dal punto di vista esistenziale, dell’atmosfera libertaria del Sessantotto, alla guida dei loro mastodonti tornavano bambini e si divertivano come matti a giocherellare con il «baracchino», l’apparecchio ricetrasmittente per mezzo del quale comunicavamo nel corso degli spostamenti quotidiani. Il nostro nickname era, per ovvie ragioni, Lumaca bianca. In Jugoslavia, all’inizio degli anni Ottanta, optarono per un camping nudista di stretta osservanza, che frequentai con assoluta naturalezza (all’infuori dell’urticante, circonciso scontro con una medusa dispettosa) fino all’arrivo di una pubertà ritardataria e scarsa di peli. Delle tre coppie di adulti che componevano la nostra combriccola sono rimasti in vita soltanto i miei genitori. La Celi e la Biki ci hanno lasciato alcuni anni fa; il Bel e il Tino, nel corrente annus horribilis.
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Ora la vita trascorre in bianco e nero, ma non è detto che sia necessariamente un male…
Il mio apprendistato politico è stato – credo – pressoché tipico e assai confuso: Sinistra giovanile, Partito democratico della
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sinistra, Rifondazione comunista, e poi più niente (scampai, per un pelo, alle Frattocchie solo perché in quinta ginnasio i miei genitori mi proibirono di iscrivermi alla Fgci). Scontando le disfatte altrui, ci sembrava di poter decifrare il segreto di un ardore incenerito dalla storia e tuttavia rilucente nel nostro immaginario di orfani del «futuro passato». Ho sbagliato quasi tutto, probabilmente, eppure ne sono contento… In fondo, il senso di una comunità alla quale appartenere mi si è svelato proprio quando ero un insignificante funzionario di partito che girava per le sezioni di periferia e per le case del popolo dell’Alta e della Bassa Padovana. A importarmi non erano – lo capisco adesso – i dibattiti, i dissensi o le mozioni delle distinte correnti, bensì le «ombre» e i racconti che quei vecchi militanti, operai e contadini, mi offrivano senza chiedere nulla in cambio.
Il sugo delle nostre strambe disavventure di lupetti del branco «piccoletto di Natta e Occhetto» riposa, forse, sulla sfacciata mise en abîme di un canzoniere goliardico e preterintenzionale – «bandiera rossa la trionferà», intorno al bivacco.
Il mio primo incontro con la morte è avvenuto – e forse non avrebbe potuto essere altrimenti – tramite un apparecchio televisivo: mi riferisco, ovviamente, alla tragedia di Vermicino, che seguii con apprensione fino all’ora di andare a letto. Il mattino dopo mia madre mi disse che «Alfredino» non ce l’aveva fatta a uscire dal pozzo e che aveva raggiunto Pippo, il nostro can barbone nero, nei «boschi del cielo».
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Allora avevo sei anni, e l’idea della morte di un coetaneo era semplicemente inconcepibile. Dieci anni dopo, quando ne avevo sedici, morì, per un incidente in motorino, uno dei miei compagni scout, Alessandro. Trent’anni dopo, al principio dell’età di mezzo, il mio migliore amico, colpito da una malattia incurabile, si tolse la vita. Si chiamava Diego.
«Per fare un tavolo, ci vuole il legno…». E per fare una vita?
«A volte, di lontano, il tuo ricordo di persone care è l’opposto della nostalgia: è un senso d’estraniamento e distacco, di cruda smemoratezza, che ti punge con più dolore» (Paolo Milano).
Undici anni fa, all’alba di un giorno di fine gennaio, fui assalito da un terrore notturno di straordinaria intensità, che avrebbe potuto finire davvero male. Non serbo un particolare ricordo di quelle ore decisive, o per meglio dire esso si confonde con il resoconto che me ne fece in seguito colei che sarebbe diventata mia moglie, Larissa Pérez Moreno: le convulsioni, la cianosi, lo stridere dei denti, le sue grida disperate (evidentemente i nostri vicini pensarono che la stessi picchiando, dato che, con la consueta ipocrisia dei messicani, non le aprirono la porta e invece dell’ambulanza chiamarono la polizia); e infine la cor-
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sa in macchina e l’estemporaneo ricovero in ospedale, da cui fui dimesso in giornata, apparentemente sano e con la vaga coscienza di qualcosa che non andava bene in me. La repentina sparizione dei sintomi lasciò spazio al dispiegarsi dell’ineffabile disagio che aveva occasionato tale reazione psicogena. Alcuni mesi dopo, ai primi di dicembre, la scoperta della mortalità cedette il posto alla morte di Diego, e io cominciai a elaborare una serie di irragionevoli congetture, caratterizzate dall’irresistibile forza di convinzione di un dissidio vissuto in sordina: gennaio e dicembre, l’inizio e la fine; io mi ero salvato perché Diego sarebbe morto; Giano bifronte mi aveva risparmiato affinché potessi presenziare in disparte al suo sacrificio. Ciò nonostante sono sopravvissuto, grazie alle scintille di limpida luminosità che Lara, il grande amore della mia vita, ha saputo accendere – insieme a Blanca, Iskra e Pozzo, i miei amati cani – nell’esistenza di chi stentava ad abbandonare il proprio limbo di penombra. Lo straniamento che tuttora perturba i miei risvegli reca l’impronta originaria di quella malinconica congiuntura, come se a tratti non fossi più un personaggio di questa storia, ma soltanto una voce distopica che trasmette, fra il crepuscolo e l’aurora, dal non-luogo di una stazione radiofonica mal sintonizzata.
«Io sono, ormai, il perfetto esule: non mi riesce d’esprimere che sentimenti privati, disegnare personaggi sospesi a mezz’aria, concepire idee astratte. Fra poco io stesso come persona m’astrarrò, sarò un io anagrafico, un documento» (Paolo Milano).
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Il desiderio di prenderla… Ma lei mi ha già preso molto tempo fa. L’«odore del sangue» va e viene, non è mai del tutto biunivoco, colpisce in fretta e non lascia tracce del suo passaggio, se non nella memoria del corpo e nelle viscere.
Una sera, mentre passeggiavamo per il centro di Cortina, mia madre mi indicò un uomo alto con una profonda fossetta sul mento: «Guarda, Fabri, quel signore è Goffredo Parise, lo scrittore!». Va da sé che non le prestai molta attenzione, occupato com’ero a giocare con la neve e a rimirare le scintillanti luminarie natalizie. Lo avrei ritrovato qualche anno più tardi, tra i banchi del liceo, in un’antologia scolastica che ancora conservo. Ogniqualvolta mi sento scoppiare di insignificanza, rileggo i suoi libri, alla ricerca delle vestigia superstiti di quel Veneto «barbaro» di muschi e nebbie che un tempo, nella mia ingenua horreur du domicile, detestavo, ma «il mood è lontano, sempre più lontano e in ogni caso ce ne fu uno e uno solo»… Mi restano alcuni sillabari, che non sempre riesco a compulsare con gli occhi asciutti, e il ricordo fuggevole del sorriso ironico che – chissà – gli apparve agli angoli della bocca in un gelido inverno del secolo scorso.
Una delle tappe obbligate di ogni soggiorno ampezzano era, per noialtri ragazzini del sestiere di Cadin di Sotto, la villa della principessa Elvina Pallavicini, l’acerrima fautrice di monsignor Lefebvre: la visita di prammatica – una brevissima udienza che si ripeteva identica a se stessa un anno dopo l’altro – non
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era motivata soltanto dalle caramelle che ci dispensava, non proprio a profusione, il suo maggiordomo, ma principalmente dall’insaziabile curiosità di un gruppetto di imberbi villeggianti che volevano vedere com’era fatta una principessa in carne e ossa, sia pure confinata su una sedia a rotelle (a causa di una caduta da cavallo simile a quella della sua antenata Luigia, credevo io, fresco di letture pre-ginnasiali…). La nostra secolarizzazione prese l’abbrivio – non è esagerato affermarlo – con l’indigestione provocata dai cremini scaduti dell’algida nobildonna nera; le restituimmo il favore quella stessa notte, con anarchica allegria, tempestando di cioccolatini gli scuri delle sue finestre.
Benché burbero e di poche parole, il mio nonno paterno, Mario Cossalter, era un uomo buono e generoso, la cui felicità consisteva innanzitutto nell’elargire ai figli e ai nipoti la modesta e decorosa eredità che era riuscito a mettere da parte nel corso di cinquant’anni di scrupolosi e pazienti risparmi. Aveva dovuto lasciare la scuola in quarta elementare, com’era normale allora, per dedicarsi alla «vita dura» dei campi. La parentesi militare non fu da meno: «arruolato» il 28 maggio del 1937 e «giunto alle armi» il 4 aprile del 1939 – secondo il suo «Foglio matricolare e caratteristico» –, venne definitivamente congedato il primo di ottobre del 1945, dopo aver partecipato alle «operazioni di guerra svoltesi nello scacchiere balcanico, alla frontiera greco-albanese» (ma non voleva mostrare a nessuno la Croce al merito che gli era stata conferita in virtù di non so più quale Regio Decreto…). Nell’immediato dopoguerra abbandonò Vellai, la frazione di Feltre da cui provengono i Cossalter, e si trasferì assieme alla famiglia in Alto Adige (mio padre è nato a Terlano): malgrado
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la silicosi, lavorò come gruista nelle acciaierie di Bolzano fino al pensionamento. Per la laurea mi aveva promesso un «melòn», ossia un milione di lire. Me lo diede in contanti, in una busta sulla quale aveva scritto il mio nome con la stessa calligrafia infantile e accurata con cui vergava le etichette dei vasetti di marmellata che ci regalava a fine estate. Mi piaceva accompagnarlo all’osteria, dove giocava interminabili partite a briscola con gli amici, bevendo i suoi quartini di rosso e fumando le sue MS di nascosto dalla nonna. Mi piaceva soprattutto andare a funghi con lui, anche se vomitavo a ogni tornante per il mal d’auto e per l’odore delle sigarette. Il suo lascito più prezioso risiede forse nella fisiologica, tollerante attitudine all’adattamento che mi ha insegnato senza mai nominarla: per esempio, il giorno in cui si fece togliere tutti i denti (gli avevano appena fatto il calco per la dentiera), non si perse d’animo, ma andò dal ferramenta e acquistò un «masticatore», per mezzo del quale, nelle settimane successive, poté continuare a mangiare la sua irrinunciabile «fettina» di carne.
Il crollo del muro di Berlino si condensò in un’immagine iniziatica, che in quella prima estate di apertura delle frontiere esercitò una forte suggestione sull’adolescente che ero: la lunga fila di «Trabant» ferme sul ciglio della strada, poiché inette ad affrontare, con il loro motore a due tempi, la ripida salita del Grossglockner.
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Seguendo il suggerimento di un caro amico, ho riletto l’Improvviso per macchina da scrivere dedicato da Giorgio Manganelli ai cani e ai loro padroni: «Deploro la tendenza dei cani a trattare l’uomo come un essere superiore. Ho visto cani che guardavano con riverenza anche me. Esagerati. Deploro la tendenza dei cani a fare buone azioni. Nessun gatto farebbe buone azioni. A lasciarlo fare il cane studierebbe da crocerossino. […] I cani hanno cessato secoli or sono di essere animali, allo stesso titolo per cui si dicono animali le tigri e le giraffe. Il cane ha rinunciato a tutti i termini della sua qualifica psicologica, ed è diventato un’altra cosa. Che cosa? Oserei dire che è diventato un sintomo. Il cane-animale, simpatico e fantasioso chiassone, non esiste più; al suo posto abbiamo questo strano prodotto non strettamente genetico delle inquietudini, dei disagi, dei malumori, degli estri, dei dispetti dell’uomo incivilito. […] Il cane è la nostra nevrosi, il simbolo di qualcosa che non possiamo mai amare abbastanza; e quale sorta di malattia siamo noi per il cane? Una malattia che lo ha reso schiavo». A dispetto della prosa sempre mirabile e acuminata di Manganelli, non condivido le sue conclusioni. A mio avviso, la questione è molto più semplice e al contempo molto più complessa: i cani cercano, forse, di assomigliare agli uomini (chi lo può sapere?), però gli uomini non hanno mai cercato di assomigliare ai cani. La mia esperienza potrebbe essere, al riguardo, abbastanza indicativa: Iskra e Pozzo non mi venerano ciecamente; anzi, si divertono a sfidarmi e pretendono da me la colazione e la cena, spaccando il minuto, a orari precisi (alle nove del mattino e alle quattro e mezza del pomeriggio), per non parlare delle camminate defatiganti fra palmizi e piante esotiche. Ambedue amano la propria routine, vissuta con selvaggio godimento in qualunque circostanza. Magari dipende dal fatto che la biondissima Golden e il nerissimo Labrador, oramai incanutiti, sono stati adottati, già adulti, dopo un certo periodo di esistenza ran-
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dagia (anche se adesso disprezzano le pozzanghere e bevono unicamente acqua minerale). Non lo so; so solamente che sono il loro capobranco, non il loro capofamiglia, e che devo riaffermare la mia autorità a ogni momento, di fronte all’inevitabile riemergere degli istinti: ma io vivo nel regno della rettorica, mentre Iskra e Pozzo – creature immortali, felicemente ignare del destino che ci accomuna – hanno in sé il germe della persuasione. Non dormo insieme a loro, dormo grazie a loro: il russare discreto e benefico, quantunque vigile, dei miei cani mi permette di sognare ancora…
«Sono un solitario, un saturnino, come dicono alcuni, e tendo alla fuga, a quella condizione di solitudine selvatica di certi animali» (Goffredo Parise).
Diffida di chi non ama i cani: sicuramente ha qualcosa da nascondere e teme di essere smascherato dal loro infallibile fiuto fisiognomico.
Per me «Bobi» non è soltanto l’evasivo, enigmatico autore delle Note senza testo, ma anche e soprattutto il protagonista canino di una delle più splendide «favole» di Parise, Anima.
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Ogni cosa si sbecca e si sgualcisce. Anch’io. Sbertucciata, la vita entra sottovoce nel capitolo delle toppe e delle protesi.
Se fosse una maschera innocente e balzana che si aggira per le calli fantasmatiche di Castello durante un piovoso carnevale di fine millennio, lo potremmo chiamare con il più veridico dei suoi molti nomi: Pampalugo. Come un ricordo d’infanzia dotato di una leggerezza prestata e a poco a poco perduta nel corso dei decenni.
«Pomo pero dime ’l vero…» (Luigi Meneghello).
Maldestro come sempre, Pampalugo si sforza giorno dopo giorno di finire i compiti per casa, con la speranza di afferrarsi a un costume meno disordinato, che lo ripari dall’endemico spaesamento di questo suo dispatrio. Vorrebbe essere uno scolaro più diligente, un piccolo artigiano capace di fare al tornio dei pensierini almeno un po’ onesti.
«Espatrio, rimpatrio. Vide bene Henry James che occorre un terzo termine, per definire un altro stato, molto più grave: il dispatrio» (Paolo Milano).
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Forse sono davvero diventato quell’umile, coscienzioso scrivano che la mia maestra delle elementari, suor Clotilde, mai avrebbe potuto immaginare in me, quando mi sculacciava e mi mandava dietro la lavagna per la mia pessima calligrafia.
Il fatto di aver provato a leggere in prima o seconda media Guerra partigiana di Dante Livio Bianco mi ha ragionevolmente rovinato per sempre, suppongo.
Che direbbe un narratologo della mia vita? Cronica assenza di intreccio, sintomatica impossibilità di rintracciare una morfologia coerente. Può darsi. O piuttosto: nebulosa dispersione di satelliti irrelati, inidonei al mestiere di vivere, refrattari all’agnizione di un nucleo che cimenti l’identità e generi un senso.
Diplomfieber: una quindicina di anni fa – dopo aver terminato il dottorato e aver perso una borsa di studio che mi era stata erroneamente promessa – iniziai ad avere dei severi problemi di stomaco. L’impulso a confessare non va esente da una certa vergogna retrospettiva, nel raccontare di quel trentenne che comperava il proprio pranzo in farmacia. Quegli omogeneizzati rappresentavano il gelatinoso recesso del tempo vuoto e amorfo che si apriva, irreprimibile, dinanzi a me. L’unico mezzo di contenzione era, allora come oggi, la mia abituale accidia, la torpida lentezza di fronte alle cose della vita.
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Stamattina mi è caduto mezzo dente, segno che – nell’approssimarsi del conturbante cinquantenario – l’omeostasi della macchina biologica talora si inceppa e fa le bizze. Osservare quell’irridente crepaccio nero nell’orografia della mia chiostra dentaria – macchiata dal caffè e dal tabacco, puntellata dall’ingegneria metallica della fanciullezza, rivestita con i materiali vetrosi e smaltati della gioventù e della maturità – mi fa pensare a un’ulteriore, impercettibile linea d’ombra che magari ho finito col varcare una volta per tutte nella banalità di un lunedì mattina, mentre mi lavavo i denti. Ho conservato il reperto, tuttavia non credo che una formichina verrà questa notte a depositare in sua vece una mezza moneta purchessia.
Le mie ambizioni sono quelle di un uomo normale, al di là di qualche incresciosa smania letteraria: scrivere qualcosa ogni giorno – come consigliava, se non sbaglio, Elias Canetti –; e soprattutto – come il resto dei miei simili, credo – riuscire a non soffrire troppo.
Forse il passato è proprio questo, il senso di un accidente visibile e al tempo stesso ormai inafferrabile, come il fumo della sigaretta che esce dalla tua bocca ma non è più tuo, e rimane lì davanti, nell’aria, per qualche istante, prima di scomparire.
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Le passioni passeggere ci trattengono nell’essenza volatile e sfuggente di tutto quello che non abbiamo saputo ghermire. Sono la presenza platonica e freudiana dei desideri inesauditi, delle vite non vissute, delle biografie rimpiante che non osiamo riconoscere come nostre.
Narra la leggenda che fu un buontempone degno di Signore e signori – istigato da quel formidabile donnaiolo del mio nonno materno, Nestore Liberatore, suo compagno di baldorie – a corteggiare, sedurre e poi abbandonare una nipote della senatrice Merlin per vendicare la scellerata abolizione delle case chiuse.
«Togliete all’italiano le case di tolleranza. Non gli resterà, per i suoi ricordi, che la vita militare» (Ennio Flaiano).
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Arcitaliano e orgogliosamente strapaesano («delicato come una rosa e duro come una roccia», da buon abruzzese), il nonno Nestore era solito scorrazzare in motocicletta per i migliori ristoranti e bordelli delle tre Venezie in compagnia dei suoi intemperanti sodali – un primario, un ingegnere e un imprenditore.
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Una delle loro gite fuori porta culminò nel famoso «episodio del pitale», a causa del quale furono banditi con ignominia dalla locanda del paesino pedemontano in cui alloggiavano: in quell’occasione gli era venuta la bella idea di mettere a bagno in un orinale ricolmo, la notte prima delle nozze, il vestito da sposa della figlia del padrone…
Ho sempre invidiato il suo inestirpabile vitalismo, quella sensualità proteiforme, impulsiva e un po’ malandrina che emanava da ogni suo atto. I toscani che fumammo per festeggiare il suo centesimo compleanno non gli impedirono, d’altronde, di superare – seppur di poco – quota 105. Chissà se terrà fede al nostro patto, stipulato all’incirca quarant’anni fa sulla Croda Rossa d’Ampezzo: «Il primo che morirà dovrà apparire in sogno all’altro per informarlo dall’oltretomba dell’esistenza o meno di una vita ultraterrena [sic]». Ecco, era così, impenitente e boccaccesco come i «mattatori» dei romanzi e dei racconti di Piero Chiara che tanto lo appassionavano; e così lo voglio ricordare.
Gli ho voluto moltissimo bene, anche se mi esponeva – con mio sommo gradimento, devo dire – a una congerie di situazioni potenzialmente pericolose, non proprio adatte a un bambino: arrampicate in roccia, sciate su pendii fin troppo scoscesi (quando avevo quattro anni, mi ruppi una gamba e fui obbli-
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gato a portare il gesso per vari mesi) ed esercitazioni di tiro nei boschi. Possedeva tre pistole: una Lüger della Seconda guerra mondiale, donatagli da un ufficiale della Wehrmacht, una Browning calibro 22 e una Beretta calibro 9. Le manteneva sempre perfettamente oliate e funzionanti, nel caso che «i comunisti prendessero il potere»…
Fu il prozio Ezio – miracolosamente scampato, con la fortunosa complicità di una pallottola vagante, alla ritirata del Don – a regalarmi il mio primo libro, I tre moschettieri, nel 1980. La dedica, a mo’ di divisa, dell’ex ufficiale del regio esercito fu, inevitabilmente, la seguente: «Se non sei buono per il re, non lo sei neanche per la regina».
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I miei nonni paterni si sposarono il 20 dicembre del 1944, alla vigilia dell’ultimo, durissimo inverno di guerra. La mestizia generale che li circondava – quanti parenti morti, internati o alla macchia… – li scortò fino all’altare, ma non frappose ostacoli al coraggio dimesso della loro scelta, che consentì la sopravvivenza della mia stirpe e generò almeno un po’ di felicità. Che aspetto avrà avuto la campagna prealpina, ibernata assieme ai suoi partigiani, mentre si avviavano, calpestando i campi innevati, verso la chiesetta di Vellai?
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Quali parole avrebbe pronunciato quel taciturno compagnone dello zio Domenico – marito della sorella della nonna e cugino del nonno – durante la cerimonia, se non fosse stato prigioniero nei Balcani? (La sorella di mio padre nacque nel 1945; mio padre, nel 1947. Lo zio Domenico tornò a piedi dalla Jugoslavia nel 1946).
Un mondo, il mio mondo, sta lentamente svanendo, insieme con le persone a cui ho voluto bene – tra appuntamenti mancati, funerali disertati e affetti interrotti. E a me – esecutore testamentario, fallimentare curatore – non resta che stilarne à rebours l’idiosincratico epicedio. Ma il passato è una promessa ormai lontana, che non sono stato in grado di mantenere…
La proscrizione volontaria è l’unica forma di patriottismo che ho il diritto di rivendicare.
Era un dicembre di fine Novecento: i due giovani – amici per la pelle, oltre che lettori controfattuali e impolitici di Céline e Drieu La Rochelle – battevano ogni pista, perlustrando Parigi da cima a fondo e ispezionando i fondali impossibili del film che non avrebbero mai girato, eccezion fatta per la lanterna magica di uno dei due, costretto a ripassare e ad animare senza
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requie, malgré lui, quella sceneggiatura fallita, a guisa di lunatica controfigura di un irripetibile pellegrinaggio. In place de la Concorde, sulla scia di un passo di diario ivi ambientato, si lanciarono fra le macchine singhiozzanti, scansandole per un soffio, in una corsa sfrenata che li vide giungere ansanti e felici nei pressi dell’obelisco di Luxor. L’intangibile eternità di quell’istante è un fuoco fatuo – bruciante e profetico come l’opera letteraria, e cinematografica, favorita di Diego – che porterò per sempre nel mio cuore.
Trasformo tutto – vita, amori, dolori – in cattiva letteratura.
Quando ero piccolo, mio padre mi disegnava a carboncino. Io preferisco, invece, lavorare con le ceneri. Ma talvolta la grazia scende su di me, facendomi arrossire…
Lo stampatore distratto che compose il menabò della mia esistenza si servì, per le bozze, di un inchiostro simpatico la cui formula mi è tuttora sconosciuta.
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Possiedo tutti i vizi che mio padre non ha mai avuto, nemmeno da giovane.
«Fa freddo nella storia» (Giorgio Caproni), eppure sento avvicinarsi il disgelo, che apre invisibili crepe nella mia corazza.
La barba imbianca ma la saggezza latita. Per fortuna… E difatti vagheggio ancora, sognando a occhi aperti, di rincontrare Pippo sulla riva del Boite, il torrente – teatro delle nostre marachelle – di fronte al quale proferii, tra festosi ululati, le mie prime parole: «Guarda, nonna, che meraviglioso boschetto di finferli!».
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Unus testis, nullus testis: l’oblio fa la posta a ogni «intermittenza della memoria», insidiando e scompigliando le scarne, lacunose risorse di cui quest’ultima dispone. Al mio mosaico mancheranno sempre molte tessere, ma non importa, in una trama di chiaroscuri le vicende essenziali risaltano quando vengono taciute, perché sono state dimenticate o perché non possono ancora essere rivelate.
I diplomi che dovrebbero abilitarmi all’esercizio del mestiere di storico giacciono, d’altro canto, trascurati in un armadio, e non mi pare il caso di rispolverarli proprio ora.
«Ma saremmo in una microstoria o in una metafora, qui?» (Alberto Arbasino).
Le evocazioni e le reminiscenze che costellano queste pagine sono scaturite dagli imprevedibili smottamenti di un grumo di incongruenze, o di sofferenze, lungamente rimosse. Se fossero un regolamento di conti, a me toccherebbe la parte del colpevole che dopo la fuga ritorna, inspiegabilmente, sul luogo del delitto: da un lato affiora il sentimento pungente di un debito postumo, che vorrei onorare, verso le persone a cui non ho prestato sufficiente attenzione quando erano in vita; d’altro lato agiscono le minute ossessioni di un espatriato che paventa, nei suoi incubi, di convertirsi in un apolide dell’esi-
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stenza, incapace di preservare le proprie radici come di crearne di nuove.
A volte mi sento come un testimone smemorato e assente, che scrive a vanvera di cose su cui non ha più alcuna presa. Certo, nell’era glaciale della post-memoria si ha spesso l’impressione di giocare a mosca cieca con i fantasmi. Non so dire se i tre lustri del mio dispatrio rappresentino, al riguardo, un’attenuante o un’aggravante, ma pur sempre di contumacia si tratta, secondo me. D’altra parte, io mi chiamo Fabrizio per via della Certosa di Parma, il che contribuì – credo – a determinare la mia persistente difficoltà nel mettere a fuoco la realtà. E tuttavia mi ostino a proiettare le ombre del passato sull’esile schermo del presente, nel tentativo di illuminarle con la fioca luce artificiale della scrittura…
Dopo una certa età, sui figli senza figli comincia ad aleggiare, di solito, il presagio crepuscolare di una prossima fin de race, ed è forse per questo che ultimamente mi sono votato alla ricerca nostalgica di un futuro passato ma non del tutto perduto, come se fosse possibile accorciare il tempo con l’aiuto di una malferma invocazione a Mnemosyne. Dovremmo prima imparare a redimere le esperienze, le aspettative e le delusioni di cui fu fatalmente intessuto il cammino dei nostri padri e delle nostre madri, riconoscendovi l’orizzonte di un destino che ci interpella con premura.
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Del resto, la memoria accresce senza posa lo sconcertante mistero del suo anacronismo, nel quale ho creduto, o mi sono illuso, di ravvisare le fattezze di un ricordo dell’avvenire.
Ah, i Cossalter: razza dura, ma chissà se perdura…
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Troppo spesso, nella mia vita, ho confuso l’inconsistenza con la sprezzatura e la labilità con la distinzione; ed è tardi, ormai, dacché Heimweh e Fernweh hanno imbrogliato le piste di un ritorno impossibile e di una palese inettitudine al viaggio. Ecco, sono una sorta di «falso magro» che si trascina appresso l’abulica mole di un pachiderma. Col passare delle generazioni, la costituzione nervosa e reattiva – dolomitica, direi – dei miei avi, sparpagliati ai quattro angoli della terra, deve essere andata smarrita.
«Il pensiero del futuro è un pensiero antiquario» (Umberto Saba).
Sul far della sera, nondimeno, riprendo punto per punto, testardamente, il dialogo silenzioso con gli spiriti non sempre benigni che dimorano nella mia Heimat immaginaria, mentre ammiro le spericolate evoluzioni dei minuscoli colibrì che vengono a bere il loro nettare all’abbeveratoio del patio dove conto le stagioni quasi esclusivamente a ritroso, e mi chiedo: di quali elementi e procedure si nutre l’esperimento di una vita alla buona?
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Notturno messicano
La storia del Messico contemporaneo è la storia delle mortifere recidive di una rivoluzione extrauterina affogata nell’eccidio e nel mezcal.
Le più grandi sventure del mio paese d’adozione derivano dalla pertinace, gattopardesca identità tra omonimia e merito. Quel che altrove è colposa o dolosa confusione qui da noi è schietto riflesso biologico.
La bruttezza zdanoviana dei murales post-coloniali del XX secolo (dipinti, di norma, da artisti di vaglia) mostra con nitida evidenza come il populismo, per trionfare, non debba mai farsi ostacolare da preoccupazioni di ordine estetico.
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L’attuale regime politico messicano è una sorta di dittatura logorroica che calpesta e conculca quotidianamente i più elementari diritti della lingua spagnola.
In America Latina, per una serie di circostanze fortuite e al tempo stesso perfettamente intelligibili, le persone di spirito non possono che essere reazionarie.
Vivo oltreoceano da più di dieci anni, eppure continua a stupirmi il fatto che l’arrivare in orario a un pranzo o a una cena sia considerato dai padroni di casa alla stregua di un imperdonabile atto di mala creanza.
A Città del Messico il successo di un ristorante o di un locale si misura dalla quantità di guardie del corpo che pasturano nei dintorni.
La maggior parte degli homeless di questa ingrata metropoli sono malati mentali di cui nessuno ha voluto o potuto farsi carico.
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Le prime pagine dei tabloids che occhieggio di sguincio ogni mattina all’edicola, mentre compro il giornale, offrono al mio sguardo, con perseverante indecenza, due tipi di pornografia distinti ma affini: la fotografia a colori di una ragazza seminuda, procace e volgare, è affiancata da quella di un morto ammazzato, sanguinante e patetico nella sua irredimibile nudità biologica. Abbiamo serializzato i corpi e normalizzato le stragi; quali altre peripezie biopolitiche ci attendono, nella stolta furia dell’inferno a venire?
La cosiddetta «narco-letteratura» intrattiene il lettore cittadino con i dilemmi manichei di un’(in)offensiva violenza di carta. I suoi prodotti – abitualmente confezionati e sterilizzati altrove, in qualche laboratorio di scrittura creativa – hanno ben poco a che vedere con le agghiaccianti vicissitudini di coloro che arrancano, rassegnati e indifesi, tra le spoglie di un conflitto che non dà tregua.
Lo sciagurato terremoto del 2017 è stato un epifenomeno capace di portare alla luce le bontà e le miserie di ognuno di noi.
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Il sistema di allerta sismica si attiva varie volte all’anno, di giorno o di notte. L’ululare della sirena produce, per una manciata di secondi, uno stato di rarefatta, irreale epochè. Dopo di che, spaventati dai sussulti della terra, ci affrettiamo a mettere il guinzaglio ai cani e usciamo precipitosamente in strada,
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dove c’è sempre qualcuno che piange o che si fa il segno della croce. Di solito non ci sono danni, di modo che rientriamo in casa, tremebondi e sollevati, per riprendere le nostre faccende quotidiane o per tentare di riaddormentarci.
L’editoria iberoamericana è meno terminale che cimiteriale (Borges docet). La ripartizione delle salme dipende, nel migliore dei casi, dalla leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità di ciascun becchino. Della coerenza, tranne rarissime eccezioni, non si ricorda più nessuno.
L’aura postuma di Roberto Bolaño – fonte apparentemente inesauribile di inediti e oggetto del contendere di svariate cause civili – ha contribuito altresì a legittimare una delle avanguardie più mediocri e corrive del secondo Novecento, il movimento poetico infrarealista. In questo senso si potrebbe affermare, parafrasando un aforisma di Karl Kraus, che l’autore cileno scriveva perché sapeva vedere, mentre i suoi compagni di strada lo facevano soltanto per sentito dire.
I detective selvaggi richiamano in vita (e in questo consiste, a mio giudizio, la genuina grandezza di Bolaño) l’ancipite età dell’oro di una generazione «ferita a morte».
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Pur entro i limiti della «dittatura perfetta» (Mario Vargas Llosa) del Partito Rivoluzionario Istituzionale, che non si negava nulla (né i «voli della morte» né la «guerra sporca» contro gli avversari politici) e al contempo dava ospitalità agli esuli cileni e argentini, quei giovani scapestrati ebbero l’opportunità – davvero anomala in America Latina – di vivere secondo i propri codici di condotta e di plasmare un’insolita utopia «desiderante», anche se il portato artistico della loro esperienza non fu per nulla pari ai fermenti esistenziali da cui promanò.
2666 è, al contrario, l’inaudita saga di una realtà ordinaria e indicibile, ovverosia dello stillicidio di un’ecatombe a puntate, le cui comparse muoiono, e non smettono di morire, alla mercé della tetra troupe di uno sceneggiato di cattiva lega. In Messico le telenovelas non possono concludersi in altro modo, a quanto pare.
L’immunità di gregge, riccamente finanziata dal cesarismo di Stato, è uno dei principali attributi originari dell’intellettualità autoctona.
Alle nostre latitudini, l’italianistica è una specie di natura morta con Bignami.
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A forza di Cultural Studies e di tesi di laurea sulle canzoni pop, sulle serie televisive e sulle ricette di cucina, stiamo allevando una generazione di idioti istruiti, impreparati all’arte come alla vita.
Il motto dell’Università Nazionale Autonoma del Messico – alma mater di una torma di chierici gregari – recita così: «Per il mio spirito parlerà la razza». In realtà, continuiamo ad assistere agli atti di violenza che il razzismo dei meticci commette con malvagia pervicacia contro le popolazioni native, forse perché più deboli e più pure…
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Non di rado la degradazione culturale, accecata dall’albagia, si manifesta mediante l’abuso politico della storia, come nel caso del presidente in carica – un fervente cristiano di origine iberica –, il quale ha preteso le scuse ufficiali della monarchia spagnola e del papato per «i crimini dell’invasione europea». Gli oppositori più abbienti, d’altronde, visitano con frequenza Las Vegas, Disneyland e gli altri non-luoghi della pacchianeria globale, guardandosi bene dal conoscere le meraviglie precolombiane (Chichén Itzá, Uxmal, Teotihuacán, Palenque…).
Per la quasi totalità dei messicani, seppur dalla pelle bronzea, l’epiteto di «indio» rappresenta il peggiore degli insulti possibili.
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Complessi di colpa: nella capitale gli artisti di provincia sono tenuti in maggiore considerazione se indossano i tradizionali sandali di fattura indigena.
Secondo l’ineffabile caudillo che amministra le nostre sfortune, gli intellettuali si dividono in due categorie: simpatetici e conservatori, ovvero cortigiani e proscritti.
L’ipocrisia spagnolesca delle patrie lettere ha fatto sì che nella mia lingua d’uso non esista nemmeno la parola stroncatura, sicché il diritto di iscrizione al canone dei contemporanei è accordato finanche agli scribacchini, ai pennivendoli e alle altre anime purganti del sottobosco editoriale e giornalistico.
L’unico che si mise apertamente «dalla parte del torto», ad ogni modo, fu un poeta, anzi un «antipoeta», Nicanor Parra: «Best seller? La KK si mangia: così tante mosche non possono sbagliarsi».
IL CRITICONE: «Non c’è vera cultura senza un rischio reale». L’OTTIMISTA: «Non c’è vera cultura senza un sussidio statale».
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Stando all’ultima omelia del cardinale emerito di Guadalajara, il coronavirus è frutto di una congiura ordita per sottomettere i popoli e si cura con una semplice infusione di guaiava.
A due anni dalla sua straripante vittoria elettorale, il partito di governo ha stanziato un’ingente somma di denaro per finanziare la ricostruzione dell’umile casa natale del líder máximo, con l’intenzione di trasformarla in un museo, o, più probabilmente, in un presepio.
Quanti sgraziati sinonimi dell’orrore dovremo ancora inventare prima di poter sfuggire, anche solo per un attimo, al cuore di tenebra di questo continente?
La mia America, perturbante miscela di bellezza e terrore…
Da inguaribile meteoropatico quale sono, mi hanno sempre attratto le interferenze e le interazioni tra il clima e la creazione letteraria. È sintomatica, a tale riguardo, la rigogliosa messe di «pensatori oziosi» – da Alejandro Rossi a Salvador Elizondo, da Juan García Ponce a José de la Colina – che nobilitarono la riflessione saggistica nella perenne primavera della mia città, rinnovando, fra volute di fumo e jacarande in
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fiore, la cerimonia inattuale di una civiltà prossima a svanire insieme a loro.
A mio avviso, la profonda originalità della saggistica messicana di fine secolo si rivela proprio attraverso l’alta temperatura stilistica e le fertili attitudini ermeneutiche che contrassegnano la prosa degli ultimi maestri del Novecento, interpreti di un cosmopolitismo ibero-americano incarnato con esemplare rigore dalla vita e dalla figura di Alejandro Rossi. Nato a Firenze da padre italiano e madre venezuelana, Rossi si formò – prima di stabilirsi definitivamente a Città del Messico – in Argentina, negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Germania. Filosofo di professione, iniziò a sperimentare sulle colonne di «Plural» e di «Vuelta» – le riviste fondate e dirette da Octavio Paz – le forme felicemente idiosincratiche e penetranti di un personal essay libero da qualsiasi coazione e tenacemente leale a una concezione della scrittura come continua, coraggiosa verifica delle risorse letterarie e delle categorie conoscitive necessarie per attraversare in maniera non subalterna un’epoca di minorità e smarrimento. La fedeltà che gli professo deriva dal ricordo – al tempo stesso innocente e disincantato – di una lettura formativa fatta in età adulta: l’incontro con un discepolo d’oltremare di Montaigne e di Samuel Johnson, che ha contribuito a guidare il mio dispatrio arricchendolo e integrandolo con una conversazione tanto più preziosa quanto più fantasmatica. Le pagine del Manuale del distratto, scritte tra il 1973 e il 1977, svelano la rifulgente maturità di un letterato déraciné che seppe trasformare il proprio estraniamento in uno strumento di conoscenza singolarmente sofisticato e sensibile.
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L’opera di Rossi si inserisce infatti – al di là di ogni esotismo o terzomondismo, così nefasti per la ricezione della letteratura latino-americana – nel «grande contesto» di una Weltliteratur con la quale dialoga costantemente, venendo a rappresentare una sorta di tessuto connettivo atto a ricongiungere e a problematizzare le diverse tradizioni culturali che innervano il nostro «piccolo contesto». I suoi testi – microstorie e indagini tra l’antropologico e il narrativo – compongono con ironica acribia il multiforme catalogo delle assurdità, delle manie e dei vizi del mondo contemporaneo e riflettono senza infingimenti i dubbi e le inquietudini di un umanista elegantemente scettico, insofferente degli inutili specialismi come degli orizzonti burocraticamente angusti del sapere accademico…
«Ci sono forme di sopravvivenza che quasi non hanno bisogno della memoria o del ricordo; però ce ne sono altre che si appoggiano sull’amicizia, sulle conversazioni dimenticate, sugli incontri e sulle discussioni che sembravano casuali perché erano così quotidiane e frequenti. A volte questa seconda maniera è più efficace di quella ottenuta dai grafomani professionali e da coloro che si confessano sistematicamente davanti a un registratore, sentendosi al tempo stesso immortali e moderni. Sto parlando di quelle figure che, ai margini delle istituzioni ufficiali, esercitano una pedagogia disordinata e stimolante, che angoscia e mette a nudo chi si muove da un manuale all’altro. Nei nostri paesi, dove è così frequente che sopraggiunga la pace intellettuale dopo la lettura di tre o quattro libri, questi personaggi conflittuali e indomabili sono meravigliosamente utili: perché sono guastafeste, disadattati, fastidiosi, perché sbadigliano nel momento opportuno, perché ridono quando
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ce n’è bisogno, perché non capiscono mai niente, perché ruttano, si addormentano e chiedono le cose semplici che tutti dovremmo già sapere» (Alejandro Rossi).
Durante l’Erasmus, anziché andare a lezione, passavo le giornate a camminare senza meta per Parigi e a leggere le poesie e i romanzi di Álvaro Mutis nei dehors dei caffè (leggevo un po’ di tutto, a dire il vero, ma furono le traversie di Maqroll il Gabbiere a lasciare un’impronta indelebile nella mia immaginazione). Se adesso vivo nello stesso luogo in cui è vissuto lo scrittore colombiano, lo devo anche ai miraggi e agli auspici suscitati da quei mesi di spensierata pigrizia. Mutis si rifugiò a Città del Messico nel 1956, in seguito all’accusa di malversazione dei fondi della multinazionale petrolifera per la quale lavorava: a quanto sembra, aveva speso – con la briosa prodigalità che lo caratterizzava – una cifra esorbitante allo scopo di finanziare una miriade di stravaganti imprese letterarie e di soccorrere una moltitudine di amici bisognosi (artisti e letterati che versavano in cattive acque). Tre anni dopo venne arrestato; la richiesta di estradizione della magistratura colombiana fu respinta, ma in quel frattempo dovette trascorrere quindici mesi nel carcere panottico di Lecumberri, il sordido «Palazzo nero» in cui erano stati rinchiusi, tra gli altri, l’assassino di Trotzki, Ramón Mercader, e William S. Burroughs. Si dice che le atroci torture patite nell’apando – la cella di castigo – cagionassero i terrificanti deliri dei detenuti più fragili, vessati, d’altra parte, anche dai loro compagni di prigionia. Mutis registrò i soprusi e le angherie connaturali al microcosmo carcerario – dando voce alle desolate sofferenze degli eterni «umiliati e offesi» – nel Diario di Lecumberri, cruciale
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punto di svolta della sua traiettoria letteraria: secondo me, tale periodo di reclusione influì in maniera molto significativa sulla sua opera, rendendo più vividi e più tragici i Leitmotive già presenti nei primi poemi. Il ciclo del Gabbiere – insondabile odissea di un antieroe divenuto navigante dopo il tramonto dell’avventura – altro non è, in fondo, se non un’epica, conradiana allegoria dello sradicamento della condizione umana, nella quale riconosciamo il medesimo sconcerto che pervade i nostri giorni. Superstite dell’incessante naufragio che spariglia ogni rotta, Maqroll ci è fratello, e forse dovremmo aspirare alla sua quieta rassegnazione dinanzi al fato e ai rovesci della fortuna, nella mugghiante burrasca come nella silente bonaccia…
«Nessuno ebbe pietà di lui, non udii mai più il suo nome. Soltanto io lo ricorderò, ogniqualvolta un lampo mi sveglierà nel cuore della notte o la pioggia cadrà sulla mia veglia di uomo libero» (Álvaro Mutis).
La nazione che vanta il ferale primato del più alto numero di giornalisti uccisi nel corso del 2020 ha appena offerto asilo politico a Julian Assange (così dimostrando che lo humour nero e il sovranismo demenziale possono convivere in piena armonia).
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La nostra democrazia plebiscitaria è talmente avanzata che uno stupratore può essere eletto senatore e candidarsi a governatore – con il beneplacito del discepolo latino-americano di Napoleone III, s’intende.
Nella mia esperienza personale, il carattere dei messicani si condensa in due metafore particolarmente efficaci e persuasive: il «labirinto della solitudine» di Octavio Paz e la «gabbia della malinconia» di Roger Bartra. Veritiere e perspicue, ambedue rimandano alle tribolazioni di un destino storico che suole camuffarsi da condanna antropologica. Del resto, le infinite narrazioni del nazionalismo – rivoluzionario o meno che sia – imprigionano la società messicana nel paradosso di un passe-partout che apre solamente le porte del passato e, nel contempo, penetra in ogni anfratto della vita pubblica, avvelenandola.
Lavoro da oltre un decennio all’Universidad del Claustro de Sor Juana e ho la fortuna di fare lezione all’interno dell’antico convento barocco di «San Jerónimo» (espropriato al clero negli anni Settanta), dove visse per un quarto di secolo suor Juana Inés de la Cruz. Il «Claustro» – lo chiamiamo così – rappresenta, oggi più di ieri, un’oasi di libertà intellettuale opposta alle instancabili manovre dei cultori di Tartufo, che magari avranno cambiato d’abito ma che continuano ad angariare lo spirito critico con la medesima bigotteria che riservarono a una delle più grandi poetesse di lingua spagnola: «Spogliata dai tuoi pii aguzzini / di
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tutto ciò che più amavi / – libri, scienza, musica, poesia – / accettasti in nome di Dio o del fato/i crimini della stupidità umana…» (Mario Andrea Rigoni).
È come se osservassimo il presente attraverso un cannocchiale rovesciato, non so se per un difetto della vista o per una specie di idiosincrasia geopolitica: ebbro di orgoglio nazionale, Andrés Manuel López Obrador ama esibirsi davanti ai suoi seguaci in qualità di erede dei tlatoani (signori) aztechi, dei libertadores e dei padri della patria, però vive nell’antico palazzo dei viceré, costruito sulle rovine della reggia di Montezuma. È il primo capo dello Stato che vi risiede dal 1884.
«Vi sono degli uomini che sentono il bisogno di eccellere, di elevarsi al di sopra degli altri, a qualunque costo. Tutto per essi ha lo stesso valore, ammesso che riescano ad emergere su palchetti da ciarlatano; sul palcoscenico, su un trono, su un patibolo, si troveranno sempre bene, pur di poter attirare l’attenzione altrui» (Nicolas de Chamfort).
È con incorruttibile fanatismo cambogiano che Paco Ignacio Taibo II fa onore all’affettuoso nomignolo di Pol Pit che gli affibbiò Carlos Monsiváis. Dopo tutta una vita di militanza, occasionalmente disturbata dalle sinecure dell’attività paraletteraria, gli sforzi dello zelante ultra del blocco nazional-
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corporativo sono stati coronati dall’inveramento delle sue autarchiche fole ideologiche. Le vesti pressoché ministeriali di plenipotenziario della casa editrice statale – il Fondo de Cultura Económica – hanno ridestato, peraltro, la cristallina vocazione censoria dell’occhiuto falco asturiano. Conscio dell’ottocentesca rilevanza della missione affidatagli (la «nazionalizzazione delle masse» non è certo uno scherzo, di questi tempi), il nostro l’ha eseguita con gli strumenti più appropriati e pertinenti: la pugnace «etica della convinzione», meno volontaristica che provvidenziale, la proverbiale egemonia anticulturale e l’incendiario turpiloquio barricadiero. Non pago di aver violentato – nel suo ineguagliabile feuilleton «antimperialista», Ritornano le Tigri della Malesia – gli idoli della nostra infanzia, ridotti a macchiette scurrili e petulanti, il baffuto rapsodo del «Movimento di Rigenerazione Nazionale» si cimenta ora con le indocili opere degli autori in odore di eresia, di anticonformismo o di eterodossia – meritevoli, in ogni caso, del macero e della scomunica. Sprezzante e corrucciato, Pol Pit si affanna, nel bel mezzo del disastro, a dare alle stampe i dozzinali fascicoli dell’obsolescente melodramma patrio del suo rapace committente, protervo e codino come lui. C’è poco da stare allegri, quando i luoghi comuni della facoltosa «sinistra» adespota collimano con i pregiudizi più tenaci e stantii del vetero-populismo pauperista…
Com’è noto, le rivoluzioni – anzitutto quelle fasulle – si accaniscono specialmente contro i calendari: il capriccioso despota tropicale non ha voluto essere da meno, dati i suoi incontinenti aneliti di gloria, e ha obbligato il Minculpop a intervenire sui
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libri di testo e a retrodatare in maniera fraudolenta l’anno di fondazione di Tenochtitlán (dal 1325 al 1321). In questo modo, il settimo centenario della capitale dell’impero azteco può cadere nel meriggio del fulgido sessennio presidenziale ed essere celebrato comme il faut dagli apparati scenografici della «Quarta Trasformazione [sic]».
La fantasia ha finalmente preso il potere: con un innegabile colpo di genio, il partito Fuerza por México ha ottemperato all’obbligo della parità di genere nelle liste elettorali spacciando per transgender la metà dei propri candidati maschi. È bastata una semplice autocertificazione.
Il maschilismo patologico e il paternalismo autoritario si riverberano, con effetti talora grotteschi, sulle espressioni idiomatiche più correnti. Se si vuole elogiare qualcosa o qualcuno, per esempio, bisogna dire: «è molto padre», oppure «è poca madre».
Da qualche anno scarseggiano perfino i farmaci oncologici, per non parlare delle varie tipologie di vaccini, e ciò nonostante siamo i compiaciuti fondatori delle prime università al mondo interamente consacrate alla teoria e alla pratica della disciplina favorita del sublime capocomico: il baseball.
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Malgrado le avversità, il Don Chisciotte delle Americhe ha deciso di ingaggiare un’aspra battaglia, senza esclusione di colpi, al fine di recuperare la «sovranità energetica», basata sugli idrocarburi e sul carbon fossile, sicché si è avventato – violando, en passant, i dettami della Costituzione e del buon senso – contro i mulini a vento delle centrali eoliche, che «imbruttiscono il nostro bel paesaggio».
«Il petrolio è il miglior affare del mondo» (Andrés Manuel López Obrador, 26/05/2021).
Non senza ragione Breton sosteneva che il Messico «è destinato a essere il luogo surrealista per eccellenza»: solo che i cadaveri d’oltremare non sono affatto squisiti e, invece di essere esposti in un museo, vengono occultati nelle fosse comuni. Il turismo culturale, comunque, non si lascia scoraggiare da questi minuti inconvenienti.
Uno sciamano nazional-popolare deve saper dispiegare le proprie virtù taumaturgiche fin dall’inizio del mandato presidenziale, inoculando robuste dosi di «pensiero magico» nelle viscere di ciascun adepto. Sotto questo aspetto le stucchevoli maratone a reti unificate, di chiara derivazione cubana e venezuelana, altro non sono che lo spazio rituale entro i cui confini la finzione prende il posto
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della realtà e la logica amico-nemico si colora di sfumature apotropaiche.
Alcuni mesi fa [15/10/2020] il generale Cienfuegos – ex ministro della Difesa – è stato arrestato negli Stati Uniti con l’accusa di narcotraffico. Uno sbrigativo negoziato diplomatico, facilitato dall’inossidabile amicizia che lega López Obrador a Trump, ha permesso il tempestivo rimpatrio dell’imbarazzante gerarca militare e la sua consegna all’autorità giudiziaria competente. Ma siccome la Dea è bendata (grazie a un provvedimento legislativo ad hoc) e i nostri giudici sono soliti recitare a copione, è stato scagionato quasi immediatamente. Il tintinnio delle sciabole è – secondo natura – sempre più molesto e insolente.
Per quanto condividano il medesimo idioletto, i membri più influenti dell’intellighenzia conversano dottamente intorno al nulla in molteplici traduzioni errate, sfoggiando un’erudizione soporifera. Non è da meravigliarsi che i succedanei della neoavanguardia e dell’adelphismo gagà godano di una certa fortuna salottiera, malgrado la concorrenza sleale del «più grande poeta italiano vivente», Valerio Magrelli.
Il dormiveglia dell’acculturazione genera il mostro dell’accademico trombone.
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Il cardinale Norberto Rivera Carrera, ex arcivescovo primate di Città del Messico, è stato intubato e ha ricevuto l’estrema unzione. Devo confessare che sono un incorreggibile agnostico, epperò mi chiedo quali saranno, nell’aldilà, le ricadute dell’inimitabile apoftegma per il quale è già passato alla storia: «La colpa non è solamente dei pedofili, bensì anche dei fanciulli [sic]».
Non ho mai capito perché nei quartieri più agiati della megalopoli l’arredo urbano sia oggetto, invece che dell’usuale vandalismo, di innumerevoli furti perpetrati con laboriosa solerzia. A che cosa è dovuta, in particolare, la repentina sparizione dei cestini dell’immondizia appena installati? A una ribellione prepolitica che sgorga dal basso ventre della (più che giustificata) frustrazione del sottoproletariato? All’atavica estraneità di quest’ultimo alla res publica e ai suoi disvalori? A un’effimera e incruenta jacquerie postmoderna? E poi, che ne sarà di tutti quei bidoni?
Qualche tempo fa, gli immaginifici amministratori della capitale hanno provato a risolvere l’annoso problema dei parcheggiatori abusivi – un’autentica piaga – consegnando a ciascuno di costoro un giubbetto catarifrangente sul cui dorso campeggiava la seguente scritta: «Lavoratore non salariato del governo di Città del Messico». Credevano che si sarebbero convertiti, pro bono publico, in confidenti della polizia…
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La strategia messianica – «abrazos, no balazos» («abbracci, non sparatorie») – contro la criminalità organizzata sta cominciando a dare i suoi frutti, visto che i decessi per coronavirus hanno abbondantemente superato le morti per omicidio.
Eterogenesi dei fini: fra l’incredulità dei credenti, colti alla sprovvista da siffatta notizia, López Obrador ha annunciato di essere stato contagiato, a dispetto delle sue corrusche massime pedagogiche: «Fermati, nemico, ché il cuore di Gesù è con me»; «Stare bene con la propria coscienza, non mentire, non rubare, non tradire, tutto questo ci aiuta molto a non ammalarci [sic]». (Il viceministro della Sanità si era premunito dichiarando, da par suo, che «la forza del presidente è morale, non è una forza di contagio»).
La retorica patriottarda ha scoccato con inusitata celerità le proprie frecce, lanciando oltre il fosco orizzonte della pandemia la «Giornata Nazionale di Vaccinazione». Le «Brigate Road Runner» («Brigadas Correcaminos») si sono subito messe in moto. Sono composte da dodici elementi: un medico e un infermiere; quattro soldati; due volontari; due promotori dei programmi sociali federali («Seminando Vita» e «La Scuola è Nostra»); e infine due non meglio precisati «Servitori della Nazione». Va detto a loro discolpa che la compravendita delle clientele elettorali può risultare abbastanza difficoltosa.
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Il primo film messicano di Luis Buñuel – Los olvidados (I figli della violenza) – fu sommerso da un fiume di critiche e di rimproveri: punti nell’amor proprio, gli spettatori – professionali e non – reagirono con un misto di ira, di sgomento e di biasimo. Non si capacitavano del fatto che un regista straniero – un repubblicano spagnolo benevolmente accolto dal governo federale, per di più – avesse esibito in modo così crudo le loro vergogne. La suscettibilità è un costume nazionale, si sa, soprattutto quando a mettere alla berlina il degrado interno è un forestiero… (L’alone del sospetto tarda, d’altro canto, a dissiparsi: uno straniero non può sposare un cittadino messicano senza l’autorizzazione del Ministero degli Esteri, comprare casa nei pressi delle zone frontaliere e dei litorali o immischiarsi nella vita politica del paese).
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«Uno dei grandi problemi del Messico è, oggi come ieri, un nazionalismo portato all’estremo che tradisce un profondo complesso d’inferiorità» (Luis Buñuel).
In generale, il messicano è geneticamente incapace di dire di no. Infatti si preoccupa per te, abbagliandoti con la sua generosa disponibilità, a partire dal momento in cui ti rivolge la parola per la prima volta. L’inevitabile commiato segue la stessa falsariga: «Lo que necesites» («Se hai bisogno di qualcosa, vieni da me»), oppure «Estás en tu casa» («Qui sei a casa tua»). Dopo di che si volatilizza, e non risponde alle tue lettere, alle tue telefonate o ai tuoi messaggi, nell’intento di sottrarsi a quella che ritiene una brutta figura: doverti dire di no, per l’appunto.
Il corrido e la ranchera – i due generi di musica popolare più noti e apprezzati – esprimono, con esiti spesso assai pregevoli, il pervasivo sentimento della morte e l’insopprimibile gioia di vivere che conformano l’ancestrale visione del mondo degli abitanti di queste terre.
«Non vale niente la vita/la vita non vale niente…» (José Alfredo Jiménez).
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Vado vagando per la vita e girando per il mondo. Se volete che ve lo dica, io sono un’anima senza padrone. Non mi importa di niente, per me la vita è un sogno. Io bevo quando voglio, non mento, sono molto sincero. E sono come i gabbiani che volano di porto in porto. Io so che la vita è corta, giacché ne sono debitore.
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Il giorno in cui morirò, non porterò niente con me. Bisogna dar piacere al piacere, la vita finisce presto. Di quel che è successo nel mondo, rimane solamente il ricordo. Il giorno in cui morirò, porterò con me solamente un pugno di terra. (Antonio Aguilar, Un pugno di terra)
Non diversamente dai suoi fratelli di secondo letto, Larissa – figlia di una madre medico – non ha mai conosciuto il proprio padre. Purtroppo il loro caso, lungi dall’essere l’eccezione, costituisce l’aberrante regola.
Da bambino fantasticavo con gli zingari che mi avrebbero rapito nottetempo per guidarmi a un’esistenza girovaga e circense; Lari, invece, desiderava una famiglia come la mia.
Il borioso, virulento dongiovannismo del maschio messicano è talmente istituzionalizzato che la garçonnière viene chiamata casa chica («casa piccola»).
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Guadagnare meno della propria compagna è un’inaccettabile vergogna, un’inammissibile onta che non si affronta, se non con gli argomenti di una vendetta sin troppo belluina e perfetta.
Misoginia: qui ci vuole un atto di fede. Morire per credere (marzo 2021: 359 femminicidi).
«Qui tutto va di male in peggio» (Juan Rulfo).
Pedro Páramo non è solamente un capolavoro della letteratura universale e uno straordinario «romanzo della Rivoluzione». L’indimenticabile affresco di una spettrale Yoknapatawpha, traboccante di fantasmi, svela la catabasi compiuta dal protagonista, Juan Preciado, durante il suo viaggio a Comala. Le voci, i ricordi e i mormorii che lo avvolgono in una frammentaria ragnatela narrativa, di rara perfezione stilistica, alludono a un trauma primigenio e alle sue vane conseguenze: l’inappagabile ricerca di un padre assente effettuata dai figli che costui ha disperso nell’oblio.
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La leggenda – diffusa dallo stesso Rulfo e ripresa, fra gli altri, da Enrique Vila-Matas in Bartleby e compagnia – vuole che il brusco abbandono della scrittura fosse dovuto alla morte di suo zio Celerino, dai cui racconti aveva tratto la linfa per i propri libri. Un’ipotesi meno suggestiva ma più plausibile attribuisce l’esaurimento della vena creativa alla disintossicazione dall’alcol. Io preferisco una terza ipotesi: smise di scrivere poiché aveva già scritto, splendidamente, tutto quello che aveva da scrivere.
Il fascino lacerante di questi luoghi e delle storie che vi sono racchiuse è stato catturato dall’obiettivo dei più celebri fotografi stranieri (Henri Cartier-Bresson, Paul Strand, Edward Weston) e messicani (Manuel Álvarez Bravo, Graciela Iturbide, Paulina Lavista). Amo soprattutto le fotografie di Juan Rulfo, che appaiono come la naturale prosecuzione delle sue opere letterarie (Susan Sontag disse in un’intervista che lo considerava il miglior fotografo latino-americano).
A sud del Rio Bravo, dove la maggior parte della popolazione vive alla giornata, vige l’implacabile legge della dimenticanza. La memoria è un lusso che pochi possono permettersi: per i più è una dolorosa simulazione, che finisce quasi sempre male.
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Neanche la morte – ancorché taciturna e micidiale – riesce a schivare il sempiterno fracasso dello sciocchezzaio oclocratico.
Non abbiamo notizie certe di quanto sta accadendo ai margini del paese legale, tra le remote comunità indigene. Che ne sarà stato di Benisa, la bellissima bambina zapoteca che fungeva da maestra di cerimonie in un memorabile concerto di ragazzini sulla piazza principale di Oaxaca? E dei Tarahumara, i fierissimi e infaticabili camminatori, che vivono nelle grotte e sopravvivono a stento grazie all’agricoltura di montagna, all’artigianato e al turismo?
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Cui prodest? Il terzomondismo d’accatto di molti europei trapiantati in Messico fa sì che essi vedano nel caos e nella spazzatura che germoglia sul ciglio delle strade l’emblema di un’autenticità colpevolmente ripudiata dalle loro rispettive patrie, laddove l’immagine di una società più ordinata, civile e liberale rappresenta, a contrario, l’orrido demonio destrorso da cui fuggirono attraversando l’oceano.
Se applicata a una collettività intimamente cattolica, la liturgia laica e repubblicana ingenera, talvolta, degli equivoci deliziosi: quando era alle elementari, verso la fine degli anni Trenta, la nonna di mia moglie fu condotta assieme alle sue compagne
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di classe al cospetto dell’allora presidente, il generale rivoluzionario Lázaro Cárdenas, e, dopo essersi inchinata, gli baciò con riverenza l’anello, dato che un personaggio così importante non poteva che essere un prelato maggiore…
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La maestosità della cattedrale di Mérida si deve a un accidentale, fortunato qui pro quo: il capoluogo dello Yucatán ricevette infatti – per uno di quegli errori umani che ci rendono più attraente la storia – la pianta originariamente destinata alla città di Lima (e viceversa).
Sono stati i viaggi «salgariani» – non saprei come definirli altrimenti, e ne chiedo venia – a restituirmi il ritratto cangiante di un universo magico e misterioso, pagano e cristiano. Nel variopinto sincretismo che gli inquisitori delle Indie occidentali osteggiarono invano istruendo innumerabili processi per stregoneria, fra torture, autodafé e roghi, si scorgono tuttora le vestigia delle religioni e delle credenze precolombiane. Ad esempio, il rituale della limpia – che significa, letteralmente, «pulizia [dell’anima]» – viene praticato dalle guaritrici indigene con l’ausilio delle erbe officinali e degli incensi devozionali e serve a scacciare gli spiriti maligni. Noi stessi abbiamo intravisto, trasognati e ammaliati, il fugace risorgere della cosmogonia primordiale nei gesti arcaici delle due anziane curanderas che strusciavano i loro rametti profumati sul corpo di un adolescente zapoteco e pronunciavano le arcane, indecifrabili formule rituali all’interno della cappella mariana di una chiesa coloniale di Oaxaca.
Il paesino di Chipilo è un angolo di Veneto incastonato nell’area metropolitana della città di Puebla. Ci sono andato per la prima volta l’anno scorso, e mi è sembrato di fare un salto nel tempo, oltre che nello spazio, come se fossi tornato a Feltre
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per una breve vacanza a casa dei prozii. Era un sabato pomeriggio: sulla piazzetta principale, davanti alla Casa d’Italia, un nugolo di bambini biondi scorrazzava in bicicletta, mentre le loro madri, appena uscite da messa, prendevano l’aperitivo al Caffè Monte Grappa. La fisionomia dei suoi abitanti denota la natura fortemente endogamica della minuscola enclave italiana, fondata nella seconda metà dell’Ottocento da un gruppo di «pionieri» provenienti dal trevigiano e dal bellunese, e segnatamente da Segusino e da Longarone. Dopo che si è sparsa la voce della nostra presenza, siamo stati avvicinati da diverse persone, desiderose di chiacchierare dell’Italia e di invitarci a bere un bicchiere del loro vino. Franchi e ospitali, i chipileñi si dedicano principalmente alla produzione di mobili, di formaggi e di insaccati e parlano una strana mescolanza di dialetto veneto e di spagnolo. Sono orgogliosissimi delle proprie origini, che commemorano con minuziosa fedeltà in ossequio a una storia tramandata di generazione in generazione. Il loro Monte Grappa è una collina, o meglio un parco delle rimembranze, sulla cui sommità, nel 1924, venne deposto un masso dell’originale, emblematico dono della delegazione di gerarchi – capitanata da Giovanni Giuriati – che visitò Chipilo nell’ambito della missione diplomatica tra i connazionali emigrati in America Latina: proprio lì, infatti, si erano svolti, durante la rivoluzione messicana, i vittoriosi combattimenti con i «mutandòn» (così avevano soprannominato, per la foggia dei loro pantaloni, le truppe irregolari di Emiliano Zapata), la cui avanzata verso il villaggio era stata troncata dalla strenua resistenza opposta dai coloni. Del fascio locale non resta alcuna traccia, com’è ovvio, mentre il parroco ricopre a tutt’oggi un ruolo fondamentale nella vita collettiva. La continuità storica è garantita dalla memoria indiretta di una madrepatria che in fondo non esiste più
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e, massime, dall’attaccamento alle usanze e alle consuetudini ereditate dai progenitori: l’etica del lavoro (sullo stemma municipale è inciso il motto Labor omnia vincit); l’idioma materno (il «veneto chipileño», gelosamente conservato); gli svaghi del dopolavoro (per esempio, il gioco delle bocce); e le feste popolari (come quella della Befana). Ciascun membro di quest’affascinante comunità di «italiani senza Italia» intende fare, almeno una volta, un viaggio, o pellegrinaggio, a Segusino e a Longarone. In un certo senso, sono più veneti di me, anche se mettono l’aglio nel soffritto per il ragù.
A sollecitarmi, ultimamente, è un sogno ricorrente: mi trovo nella nostra vecchia osteria, circondato dagli amici di un tempo, i quali mi interrogano, sornioni, sui miei andirivieni transatlan-
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tici e fuggitivi; io rispondo loro, con aria navigata e fintamente adombrata: «Non era poi questa gran cosa, l’America…». Ma l’osteria Ai Trani di via Dante ha chiuso i battenti vent’anni fa, e la verità è molto più semplice e disarmante, giacché nessun nostos può essere intrapreso, ex post, da chi persevera nell’illusione, «trattando l’ombre come cosa salda».
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Indice
Nota dell’autore
p. 11
Tempi di latenza
p. 15
Ricordi randagi
p. 33
Notturno messicano
p. 69
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz. 13. Fabrizio Cossalter, Frammenti dell’età di mezzo.
Frammenti dell’età di mezzo Relitti di un naufragio tutto sommato abbastanza fortunato, questi frammenti rivelano – nello stile non meno che nella sostanza – l’esperienza del loro autore, un «letterato di provincia» trapiantato in una megalopoli latino-americana. Vi troviamo varie forme, dall’aforisma gustosamente satirico al ricordo struggente, dalla nota di costume all’apologo pungente, dalla spigolatura «messicana» al raccontino «strapaesano», dalla pagina di diario al dialogo immaginario con gli amici e i maestri di tutta una vita. Sospeso tra due continenti e, forse, tra due epoche, Cossalter non rinuncia a rammemorare il passato e a osservare il presente, trasformando il proprio spaesamento in una risorsa narrativa e conoscitiva: la sua vocazione polemica e la sua attitudine malinconica fanno sì che una biografia troppo falsa per non essere vera diventi – al di là di ogni mitologia del dispatrio o dell’esilio – una potenziale critica della realtà e delle sue fatali ricadute nell’avvenire.
Fabrizio Cossalter è nato a Padova nel 1974. Vive e lavora a Città del Messico. Ha collaborato con la «Revista de Occidente», con il quotidiano spagnolo «ABC» e con «Letras Libres». Nel 2015 ha fondato la casa editrice Ai Trani, per la quale ha tradotto testi di Renato Serra e di Mario Andrea Rigoni. Attualmente scrive su «Zibaldoni e altre meraviglie».
Margini | 13 € 6,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855293303