Florence de Lussy - Simone Weil 8820390000, 9788820390006

Rivoluzionaria e mistica a un tempo, Simone Weil in soli 34 anni di vita ha impresso un segno nei campi di storia, filos

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Italian Pages 128/129 [129] Year 2019

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Florence de Lussy - Simone Weil
 8820390000, 9788820390006

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Le basi 5

SIMONE WEIL

Una collana che ofre sintetiche e originali introduzioni su molteplici soggetti nel campo delle scienze umane: dalla storia alla ilosoia, dalla sociologia alla politica, dall’arte alla religione, dai classici alla teoria e storia della letteratura. Rivolti a un pubblico generale ma scritti da esperti, i libri della collana intendono essere obiettivi e completi, ma al tempo stesso vogliono invitare alla rilessione sui vari temi afrontati. Le basi sono l’introduzione perfetta per studenti e docenti, e per chi intende avvicinarsi per la prima volta a soggetti sconosciuti.

Titoli della collana Le basi 1. E.H. Cline, La guerra di Troia 2. C. Smith, Gli Etruschi 3. K. Radner, Antica Assiria 4. I. Waldschmidt, Maria Montessori 5. F. de Lussy, Simone Weil 6. B. Graziosi, Omero 7. A. Miquel, Letteratura araba (di prossima pubblicazione) 8. J.J. Tschudin, D. Struve, Letteratura giapponese (di prossima pubblicazione) 9. F. D’Agostino, I Sumeri (di prossima pubblicazione)

Florence de Lussy

SIMONE WEIL Traduzione di Francesco Agnellini

Collana Le basi

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

Titolo originale: Simone Weil Copyright © Que Sais-Je?/Humensis, Simone Weil 2016

Per l’edizione italiana: Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2019 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. + 39 02 864871 – fax + 39 02 8052886 e-mail [email protected]

www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere efettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie efettuate per inalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere efettuate a seguito di speciica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

ISBN 978-88-203-8944-4 Ristampa: 4

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Traduzione: Francesco Agnellini Realizzazione editoriale: battitoriliberi, Pisa Copertina: Carlo Gafoglio Stampato da: L.E.G.O. S.p.A., stabilimento di Lavis (TN) Printed in Italy

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Sommario

1. Un’educazione intellettuale

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2. Il pensiero come vocazione

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3. Difendere “quelli di sotto”

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4. Un lento passaggio verso la trascendenza

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5. I Quaderni: quaderni di laboratorio e diario di un’anima

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6. Verso la pura speculazione

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7. Una strana cristiana

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8. Tra la sventura e la gioia

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9. Messaggi impercettibili

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10. Errori ed eccessi

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11. Il personaggio, la scrittura

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Conclusione

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Cronologia

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Note

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Bibliograia

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Indice dei nomi

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Un’educazione intellettuale

Il culto della conoscenza Personalità intellettuale unica della Francia del XX secolo, ilosofa di grande fama e dalle altissime inclinazioni spirituali – “il solo grande spirito del nostro tempo”, come l’ha deinita Camus – Simone Weil è di origine ebraica da entrambi i genitori. Dal lato paterno la famiglia – il cui cognome era scritto “Weill” due generazioni prima – era ben radicata a Strasburgo e formata da ebrei praticanti. Invece il padre di André e Simone, Bernard – uno dei tre igli che Abraham Weil aveva avuto dal secondo matrimonio – era un medico ateo che professava idee progressiste. Sul versante materno, la stirpe dei Reinherz originaria della Galizia e poi stabilitasi ad Anversa era ininitamente più “variegata”. La famiglia, cosmopolita e colta, non disdegnava la sinagoga, ma apparteneva a quella che viene chiamata tendenza liberale dell’ebraismo. Con la madre di Simone, Salomea, detta Selma, e suo fratello Felix, questa propensione al dubbio andò raforzandosi. Un vento di ribellione scosse la famiglia.1 I genitori di Simone Weil appartenevano alla media borghesia ebraica, incline all’arte e alla cultura e con un grande rispetto per la conoscenza e per i valori accademici. Una borghesia votata a integrarsi con la società francese e impegnata assiduamente nel raggiungimento di questo traguardo.

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capitolo 1

Raggiungere l’eccellenza Fin dalla più tenera età, entrambi i bambini ricevettero i migliori strumenti per avere successo nel loro percorso scolastico. I genitori cercarono le scuole e gli istituti migliori e non esitarono a rivolgersi agli insegnanti più rinomati per impartire lezioni private, se emergevano carenze nel corpo docente. L’obiettivo primario era quello di raggiungere l’eccellenza in ogni ambito. I due bambini vissero queste scelte con grande naturalezza, in particolare André, le cui straordinarie capacità in campo matematico parevano destinarlo a un grande successo. Simone, sua sorella, forse spronata dal fratello maggiore, ma già di suo iniammata di un coraggio eroico, concepì in dall’adolescenza un progetto di vita che le avrebbe permesso di accedere al “regno trascendente ove entrano solo gli uomini di autentica grandezza e ove abita la verità”.2 Si preissò certi principi di condotta morale che conidò a padre Perrin, un amico domenicano di Marsiglia, in una famosa lettera scritta due giorni prima o forse alla vigilia stessa della sua partenza per gli Stati Uniti, nel maggio 1942, intitolata Autobiografia spirituale. L’estrema rettitudine della giovane donna non può lasciare adito a dubbi sulla veridicità delle sue afermazioni. Prendiamole alla lettera: “Dopo mesi di tenebre interiori, all’improvviso e per sempre ho avuto la certezza che ogni essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo di attenzione per attingerla.”3 Né tantomeno dobbiamo dubitare della volontà di “progettare tutta la vita che le sta davanti, e di prendere la ferma e costante decisione di farne qualcosa; di guidarla da un capo all’altro attraverso la volontà e il lavoro in una determinata direzione”, perché sono le stesse parole usate nel 1935, sette anni prima, in una lettera all’amica Albertine Thévenon, istitutrice a Saint-Étienne, il cui marito, istitutore a sua volta, ricopriva anche un ruolo importante nelle attività sindacali della regione.

un’educazione intellettuale

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Un programma di vita Dall’estratto appena citato è possibile desumere tre linee guida, corrispondenti ad altrettanti livelli o “registri” dell’“anima” umana, che si concentrano su tre concetti, o “parole chiave”, in cui sono espresse sia certezze che ingiunzioni a se stessa. La prima di queste certezze è che il regno della verità è riservato al genio (si tratta per lei di una stessa, duplice nozione). La parola “verità”, troppo ampia e che si può usare in troppi contesti, deve essere intesa in senso negativo, cioè come riiuto della menzogna (soprattutto dell’autoinganno) e delle illusioni che è in grado di suscitare. Trasposta sul piano ontologico, indica l’opposizione tra sogno e realtà, dato che la verità è “il bagliore della realtà”. Anche se il brillantissimo percorso di suo fratello André, “che ha avuto un’infanzia e una gioventù paragonabili a quelle di Pascal”, l’aveva portata a confrontarsi sin da piccola con la nozione di genio, non è tanto a se stessa che pensa, quanto al destino di “qualsiasi essere umano”. La seconda linea guida che si può desumere dal pensiero di Simone Weil è infatti la fede nella pari dignità degli esseri umani. L’inluenza di Descartes è qui evidente. Non le fa forse dire, nella tesi di diploma che scrisse nel 1929, che “una persona qualsiasi, per quanto mediocri possano essere la sua intelligenza e i suoi talenti [può], se si applica, sapere tutto ciò che è alla portata dell’uomo”? Simone Weil manifesta in questo passaggio una evidente e innata connivenza con “quelli di sotto”. Inine, la sua ilosoia richiede un costante sforzo d’attenzione. La nozione di attenzione, che secondo lei è “l’occhio dell’anima”, viene sviluppata secondo diverse accezioni. Simone Weil identiica almeno due regimi di attenzione “a seconda che si cerchi di individuare le relazioni necessarie che compongono [l’ordine del mondo] o di contemplarne lo splendore”. Si tratta in questo caso del regime di attenzione inseparabile da quello del metodo, e quindi da quello del rigore che ne costituisce il corol-

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capitolo 1

lario. Si riconoscerà peraltro il “potere di ben giudicare” che apre il Discorso sul metodo. Con esso viene espresso il valore supremo della matematica, le cui dimostrazioni procedono attraverso catene di ragionamenti che aprono la strada alle nozioni “chiare”. Questa insistenza sulla nozione di metodo porterà Simone Weil a chiedere una “revisione critica della scienza nel suo complesso” (menzionerà infatti la necessità di “ripensare” la scienza). Ma soprattutto l’esigenza di un metodo è intimamente legata alla preoccupazione sull’educazione dei lavoratori, che l’accompagnerà sempre. Simone voleva infatti far passare il mondo dei lavoratori da una necessità subìta a una necessità metodicamente gestita, così da strappare il velo di ignoranza che li manteneva in una condizione di schiavitù. Prendono così forma le preoccupazioni sociali e politiche che non la abbandoneranno mai. Quando una rivelazione di ordine mistico la condurrà a una nuova illuminazione, a questo blocco molto compatto di nozioni si aggiungeranno quelle strettamente legate di sventura (prima riferita quasi interamente alla condizione dei lavoratori, poi marchio distintivo della condizione umana in generale), e di amore. Questo lo schema essenziale di un’immensa “partitura” in movimento, che riguarda tanto la vita quanto il suo pensiero. È lecito parlare di “composizione su piani multipli”, utilizzando un’espressione cara a Simone Weil. Ed è facile capire che, a seconda dei momenti o dei punti di svolta del suo itinerario ilosoico, una linea guida prevalga sulle altre. Tuttavia queste coesistono secondo diverse conigurazioni, poiché ciò che è esplicito può contrapporsi o allearsi a ciò che è implicito. Alcune peculiarità della personalità di Simone Weil spiegano questa varietà di accenti. Era solita condurre il proprio pensiero ino alle sue estreme conseguenze una volta che si fosse impegnata – e con quale intensità! – in una direzione che le sembrava richiedere tutta la sua forza di attenzione e convinzione. La grande agilità mentale di cui era dotata le faceva percorrere con notevole velocità questo o quel campo del pensiero, o assumere una deter-

un’educazione intellettuale

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minata posizione dottrinale piuttosto che un’altra. Con la stessa sollecitudine attraversò, entrandovi e uscendone, anche alcuni ambienti e gruppi molto particolari, come il Circolo Comunista Democratico, frequentato dai soggetti più disparati. Per non dire poi dell’intensità con cui visse alcuni drammi d’amore che, con il suo fascino tenebroso, la unirono e la separarono da Souvarine, “Laure” e Bataille. La forza di un tale impegno e il fuoco che la animava probabilmente non furono del tutto estranei a una morte così prematura. In un certo senso fu una vita bruciata. Questi momenti scandiscono un percorso breve ma straordinariamente ricco e pieno di contrasti. E incrociano grandi snodi, sia in corrispondenza di eventi legati alla congiuntura storica del momento, sia di eventi che investirono la sua vita privata. Pertanto non è poi così assurdo trovare in essi una certa coerenza.

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Il pensiero come vocazione

Una formazione elitaria Una vocazione ha preso forma: Simone Weil sarà ilosofa. Si dedica alla comprensione ed evita ogni forma di pigrizia mentale. È con questa disposizione d’animo che, giovane diplomanda di 16 anni, si appresta a entrare nel famosissimo corso di preparazione letteraria del liceo Henri IV. Simone Weil appartiene alla “generazione del 1905”, come la chiama Jean-François Sirinelli,1 che aveva una grande stima per i corsi di preparazione letteraria e per l’École Normale Supérieure (ENS), le due grandi istituzioni in cui si formava l’élite della nazione. Questi giovani, che dovettero afrontare un mondo mutevole, pieno di eccessi e violento, divennero adulti quando il secolo sprofondò negli orrori del totalitarismo. Qual è dunque lo stato dell’istruzione secondaria nel 1925 (l’anno in cui Simone Weil entrò in prima superiore al liceo Henri IV), in particolare per quanto riguarda le condizioni di accesso delle giovani donne? Nell’autunno del 19242 per la prima volta alcune ragazze erano state ammesse ai corsi di preparazione letteraria non solo all’Henri IV, ma anche a Marsiglia e a Poitiers. Tre anni dopo, tre di loro vennero accolte al concorso di lettere della ENS; una sola nel 1928: Simone Weil, che così fu una delle primissime ragazze ad accedere ai corsi di preparazione letteraria e a vincere il concorso di ingresso all’École Normale, roccaforte maschile.

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capitolo 2

Dunque, Simone Weil vince il concorso per entrare all’ENS nel 1928, un anno dopo le amiche Simone Pétrement (la sua futura biografa), Clémence Ramnoux e Suzette Molino (che sposerà poi il normalista Louis Roubaud, padre di Jacques Roubaud, a sua volta membro dell’Oulipo3). Negli anni precedenti erano state ammesse alla Normale eccellenti “annate”: giovani menti che si scontrarono con le diicilissime condizioni causate dall’avvicinamento della Seconda guerra mondiale e che, spesso, diedero prova di grandissimo valore. Nel 1924 e nel 1925 igurano i nomi di Raymond Aron, Georges Canguilhem, Paul Nizan, Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty. Tra i matematici (molto numerosi), quelli di Jean Dieudonné, Charles Ehresmann, Claude Chevalley… e di André Weil, molto precocemente peraltro, dato che apparteneva alla classe del 1922. Si tratta di una “generazione di macchine intellettuali turbocompresse, che giravano molto veloci”, commenterà in modo pittoresco Pierre Bertaux nel 1985.

Consacrarsi al pensiero come ci si consacra a una religione C’erano pochi grandi maestri in quel periodo. Raymond Aron ne parla con ironia: “Per farci ispirare da un maestro, così da ucciderli e prolungarne l’opera, potevamo scegliere solo tra Léon Brunschvicg, Alain (Émile Chartier) e Bergson (che però si era già ritirato dall’insegnamento). Tra tutti i baroni della Sorbona, Léon Brunschvicg era il più barone.”4 All’opposto di quest’ultimo, e in contrasto pressoché costante riguardo al metodo d’insegnamento, ai programmi, alla pedagogia, c’era Alain, grandissimo professore, pensatore e “virtuoso”, secondo la deinizione – strana ma corretta – proposta da Julien Gracq. L’inluenza esercitata da questo noto professore fu considerevole in dagli inizi della sua carriera di insegnante e si accrebbe ulteriormente quando venne chiamato al liceo Henri IV nel 1909. La sua reputazione era immensa. Alcuni avevano per lui una vera e propria venerazione (fatto, questo, che irri-

il pensiero come vocazione

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tava Simone Weil). I giovani studenti dei corsi di preparazione letteraria si trovavano di fronte a un “maieuta” e formavano un seguito di discepoli che difondevano quella che veniva chiamata “dottrina”. Per loro Alain era “l’uomo” (la stessa parola usata da Alain quando si riferiva al suo maestro, Lagneau). Le norme di vita esposte da questo grande moralista davanti al suo auditorio di studenti diventavano in qualche modo delle parole d’ordine che sapevano toccare il cuore di una gioventù pronta a iniammarsi (come l’ingiunzione di “salvare la propria anima”, intesa come potere di giudicare e volere, che è l’anima di ciascuno e lo spirito di tutti). Simone Weil non fu la meno iniammata fra i suoi studenti. Ferdinand Alquié, che aveva preparato nel suo stesso periodo il concorso per accedere ai corsi ed era stato accettato insieme a lei, spiega in modo lapidario la forza di condizionamento della dottrina di questo inimitabile professore sulle giovani menti che si nutrivano delle sue parole. Simone Weil era stata discepola di Alain, “pertanto era razionalista, dualista, anti-mistica, kantiana”.5 Jeanne Alexandre, a sua volta, insiste sul versante insolente e ribelle a cui conduceva questo attaccamento incondizionato: “Ella aveva bisogno dello sguardo del giudice e riiutava ogni volta che ne aveva la possibilità tutti gli altri insegnamenti: sida costante all’amministrazione e a tutti gli altri professori che, in confronto ad Alain, per lei non valevano nulla.”6 Una volta entrata alla Normale, Simone trascinava ancora il suo gruppo di amici al liceo Henri IV per continuare a godere del suo insegnamento. Dal canto suo, Alain giudicò la sua giovane allieva (aveva solo sedici anni) “superiore agli altri membri della sua generazione, e di molto”. “Di suo ho letto” – continuava in un articolo per “La Table ronde” dell’aprile 1950 – “dei commenti su Spinoza che andavano al di là di ogni cosa.” Ciò non gli impediva di prendersi gentilmente gioco di lei chiamandola “la Marziana”, per via dei grandi occhiali che adombravano il suo volto delicato. C’era in lei qualcosa di strano, un comportamento insolito che tutti quelli che l’hanno conosciuta in quel periodo hanno

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evidenziato. E dove passava, gli equilibri – di solito precari – si rompevano. Causava una certa inquietudine. Aveva eliminato la sua stessa condizione femminile, ogni grazia evidente, ogni civetteria. Era dispiaciuta di non essere un uomo, perché sapeva in troppo bene che la sua voce faceva fatica a raggiungere il pubblico. Adottò un modo di vestire che ne faceva un personaggio dall’aspetto androgino e mostrò un coraggio che potrebbe essere qualiicato come “virile”. Alain le insegnò a coniugare due tipi di sforzo e di lavoro: l’esercizio del puro intelletto, con la geometria, madre della matematica, e l’esercizio del pensiero messo a confronto con la nuda natura, dato che il reale può essere raggiunto solo nel punto di congiunzione fra ciò che è concepito e ciò che è esperito. Questo metodo di lavoro, che è anche una legge di “secondarietà” – si può pensare solo in modo mediato –, Simone Weil non lo dimenticò mai. A questo si deve aggiungere che il valore supremo alberga nell’individuo e non nella collettività, perché la folla non pensa. Tale idea dell’oppressione dell’individuo da parte della collettività non cessò mai di assillarla, tanto da suscitare dei problemi e persino delle aporie nel suo pensiero. Tuttavia non accettò completamente l’insegnamento del suo maestro, come ebbe occasione di dire all’amico Gilbert Kahn nel corso di una conversazione avvenuta nella primavera del 1941: “C’è una parte del suo pensiero che ho assimilato al punto da non poterla più distinguere dal mio, e un’altra che ho respinto.”7

Una forma di indottrinamento Sul piano politico l’inluenza di Alain ebbe un’enorme portata, e ciò fu nefasto. È risaputo che il circolo dei suoi discepoli, capeggiato da Michel Alexandre, costituiva un microcosmo completamente impregnato del pensiero del maestro. Basti citare una pagina di Raymond Aron, datata gennaio 1929: “All’École Normale si agitano come ossessi – anima e corpo – un gruppo di giovani uomini, sani e robusti, felici di applicare, sui campi sportivi

il pensiero come vocazione

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e nelle università popolari, con l’aratro e con le petizioni politiche, gli insegnamenti del Maestro. Vengono chiamati ‘i discepoli di Alain’, dall’amministrazione e da certi studenti con terrore, da altri con amicizia, a volte anche con rispetto.”8 L’inluenza di Alain si esercitava attraverso tre canali: da una parte per mezzo della rivista dei “Libres Propos” che fu, con la sua nuova serie (dal marzo 1927), un vettore di idee del gruppo dei chartiersiti9 militanti invitati a scrivere per la rivista, cosa che Simone Weil non mancò di fare; da un’altra parte, sul piano dell’azione, attraverso il Gruppo di educazione sociale e la Lega dei diritti dell’uomo; inine, e soprattutto, sul fronte del paciismo – un paciismo estremo di cui Simone Weil in seguito si pentì amaramente e che, com’è noto, portò alcuni ad assumere disastrose posizioni collaborazioniste all’avvicinarsi della guerra. Raymond Aron, per molto tempo vicino alla persona e all’insegnamento di Alain, se ne allontanò verso il 1932-1933 e pronunciò contro di lui parole severe come queste: “Il cittadino contro il potere rivendica immediatamente l’irresponsabilità.” O ancora: “La rivolta scivolava verso un antimilitarismo trasigurato dalla ilosoia di Alain. Questo antimilitarismo contribuì in qualche modo a demoralizzare l’esercito.”10 Il Gruppo di educazione sociale nacque dall’incontro degli studenti con Lucien Cancouët, compagno d’armi di Alain e sindacalista ferroviario. Fu un tentativo di resuscitare le università popolari, che avevano avuto un grande successo alla ine del XIX secolo ma che avevano ormai smarrito il loro slancio iniziale. “Era necessario ricominciare su basi più modeste, innestando la scuola popolare su delle azioni utili dal punto di vista materiale.” Da questo proposito presero le mosse alcune conferenze popolari destinate alla preparazione dei concorsi o alla cultura dello spirito e del libero esame.11 Simone Weil, a partire dal 1927, vi partecipa con alcuni condiscepoli e persino con suo fratello André. L’esperienza dura quattro anni, ino al 1930-1931. Poi ciascuno tornò al destino “normalista” imposto dalla loro formazione intellettuale. René Château e Jacques Ganuchaud divennero pro-

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fessori di ilosoia nei licei, André Weil continuò la sua folgorante ascesa in campo matematico, Guillaume Guindey ebbe una carriera fra le più brillanti come ispettore delle inanze. Gli abbonati alla rivista dei “Libres Propos” e quelli che vi scrivevano erano gli stessi che si iscrivevano alla Lega dei diritti dell’uomo e al giornale paciista “La Volonté de paix”. Per Simone Weil, che, nelle parole di Alain, “sempre corre in avanti”, fu il preambolo di un intenso impegno politico nel mondo del sindacalismo.

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Difendere “quelli di sotto”

Una militanza aggressiva Simone Weil si interessò alla politica molto presto. Dotata di un’empatia fuori dal comune, quando vedeva delle ingiustizie ne sofriva. Sin dall’adolescenza legò il suo destino a quello degli emarginati, che chiamava “quelli di sotto”, come conidò a Bernanos nel 1938 nell’unica e famosa lettera che gli scrisse su I Grandi Cimiteri sotto la luna: “Sin dall’infanzia, le mie simpatie si sono rivolte verso quei raggruppamenti che si richiamavano agli strati disprezzati della gerarchia sociale.”1 Lei stessa si stupisce della facilità con cui riesce a fraternizzare con gli operai, come conida in una lettera del febbraio 1933 a Louis Bouët, membro della Federazione unitaria dell’insegnamento e responsabile dell’amministrazione e della redazione de “L’École émancipée”: “Per quanto mi riguarda, non mi riesco a spiegare come, pur essendo cresciuta in un ambiente piccolo-borghese e patriota, io sia stata attratta sin dall’infanzia dagli operai e abbia sempre assaporato le gioie più grandi nei quartieri operai, fra le folle di lavoratori ecc.”2 Non appena venne chiamata a insegnare nel Puy, Simone Weil – vicina alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario, che integrava l’apporto del marxismo con quello dell’anarchismo (nella sua versione proudhoniana) – partecipa con caparbietà alle lotte sindacali. Prima ancora di essere arrivata, grazie ai coniugi Alexandre, aveva contattato Monatte, che la indirizzò ai militanti

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capitolo 3

de “La Révolution prolétarienne” nella regione di Saint-Étienne e, in particolare, a Urbain Thévenon. Milita con entusiasmo nelle ila di questo piccolo gruppo. Collabora regolarmente alla rivista fondata dai suoi amici, sindacalisti rivoluzionari militanti. I suoi articoli, ben strutturati e ricchi di rilessioni interessanti, talvolta persino profetici, attirano presto l’attenzione del mondo sindacale e dei suoi dirigenti. Fra il 1931 e il 1932, tiene dei corsi alla Borsa del lavoro di Saint-Étienne, proseguendo così l’esperienza da studente nei Gruppi di educazione sociale. Le sue parole d’ordine, che riprendevano i temi fondamentali del sindacalismo rivoluzionario, erano l’auto-emancipazione della classe operaia e un anti-intellettualismo che rigettava la preminenza degli intellettuali sui movimenti operai. Era preoccupata di proteggere il particolarismo operaio al modo di Fernand Pelloutier, militante sindacalista della ine del secolo precedente, che sognava “una società di uomini ieri e liberi”. Lungo tutto il corso della sua vita rimase fedele a questa visione del mondo operaio.3

Tra comunismo e antistalinismo L’ammirazione che Simone nutrì verso Marx ino alla sua morte non scemò mai, in ragione del contributo imprescindibile del suo metodo. Pur riconoscendo che la metodologia marxista aveva messo in luce una meccanica dei rapporti sociali che indaga, “come il isico con la materia, i rapporti di forza” e, in particolare, il meccanismo dell’oppressione capitalista, Simone tuttavia fu da subito sensibile alle contraddizioni insite in questa dottrina. Da un lato l’“idea geniale” del metodo analitico, dall’altro le dirompenti speranze rivoluzionarie. La sua analisi non cambierà mai, tanto negli innumerevoli testi del periodo da militante, o nella “Grande Opera” rappresentata dalle Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934), quanto in Sulle contraddizioni del marxismo (1937) e nel lungo saggio incompiuto, redatto a Londra nel 1934, in cui, alla luce dei suoi progressi spirituali, riprende un’ultima volta la sua critica.

difendere “quelli di sotto”

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È stata comunista? Sì, se si intende questo termine in senso ampio. Ma non aderì mai al Partito, anche se per un attimo ne fu tentata. Comunista, certo, ma schierata praticamente da subito con l’opposizione di Boris Souvarine, al quale si sentiva molto vicina e che, a sua volta, aveva di lei una grande considerazione. Come il suo mentore era convinta che l’Internazionale comunista avesse irrimediabilmente mancato i suoi obiettivi e che l’URSS non fosse più uno Stato operaio. “Bisogna costruire un nuovo partito rivoluzionario”, scrive. Nel 1967, in un numero della sua rivista “Le Contrat social”, Boris Souvarine ha dato la sua opinione sull’inluenza del comunismo sul pensiero della giovane donna. Secondo lui, era diventata comunista “nel periodo in cui il partito comunista aveva smesso di esserlo”. Pertanto, continua, fu “marxista e comunista con intelligenza, cioè critica e revisionista […] giusto il tempo di maturare molto presto e di approfondire le sue idee, poi di superarle tanto con lo studio e la rilessione quanto con l’esperienza in Germania di quel periodo”.4 Legata al “sapere diretto” (come la descrive Alain), decise di andare in Germania, cioè nel paese in cui il comunismo si trovava allo stadio più avanzato, così da farsi lì un’idea sul rapporto di forza che intercorreva tra la socialdemocrazia, il Partito comunista e il partito di Hitler in piena ascesa. Ci trascorre circa due mesi e fornisce una lettura premonitrice della situazione. Le sue considerazioni “sulla Germania totalitaria”, pubblicate in “La Révolution prolétarienne” nell’ottobre del 1932, faranno una grande impressione a Boris Souvarine per l’“analisi penetrante unita alla capacità di sintesi” (secondo le sue parole) che manifestano. Con la vittoria di Hitler, all’inizio di febbraio del 1933, in una lettera a Louis Bouët, responsabile del settimanale dell’“École émancipée”, organo della Federazione unitaria dell’insegnamento, constata amaramente: “Ecco fatto. Hitler c’è riuscito. Per quanto l’avessi previsto, non riesco ancora a convincermi che sia davvero successo. Né a sopprimere la sensazione (irragionevole, me ne rendo conto) di essere una disertrice stando qui invece che là, dove avranno luogo le vere battaglie.”5

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capitolo 3

Si era infranto un sogno. Ci fu in lei una tormentata successione di prese di posizione e di ripensamenti. Si avvicinava con fervore a un movimento o a una persona, poi eccola allontanarsi se quelle azioni non soddisfacevano le sue aspettative. Una successione di lampi. Nessuno riusciva a tenere il suo passo. Il suo amico Claude Jamet, normalista dello stesso anno che era riuscito a penetrare a fondo nella sua personalità eccezionale, annota sul suo diario: “Non c’è nulla di volgare o mediocre in lei. Ecco quel che fa la sua forza: una bontà arrabbiata.” Poi cerca di tenere il passo delle sue “continue scommesse” e dei “movimenti così diversi” che attraversò: “Discepola di Alain, comunista, trozkista, anarchica, vicina a Gaston Berger, e poi cos’altro?”6 Ma nel 1933 l’onda che l’aveva spinta così in alto s’infrange. “Sofoco in questo ambiente rivoluzionario con i paraocchi”,7 si lamenta nel corso dello stesso anno in una lettera a Urbain Thévenon (il marito di Albertine, che fu per lei un’amica molto cara e una conidente). Critica apertamente i “vecchi dogmi” che hanno portato al fallimento. L’importante articolo Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria? – pubblicato il 25 agosto 1933 sulla rivista che aveva lo stesso titolo – esprimendo la constatazione di una sconitta, getta nella costernazione i militanti. Nonostante avesse attenuato l’amarezza delle sue conclusioni rispetto a una prima stesura, la sua analisi sullo stato delle cose è tra le più fosche. Qualche mese prima, nel gennaio del 1933, aveva scritto a Louis Bouët: “Non riesco a mascherare e nemmeno ad addolcire dei giudizi che mi paiono suicientemente fondati. Anche se lo volessi, è più forte di me: la mia penna si riiuta!”8 Di fatto, in questo testo tormentato Simone Weil riesce a manifestare i primi tratti del proprio stile: un modo di esprimersi onesto, lontano da qualsiasi forma di eloquenza, ma duro, con argomentazioni sviluppate impietosamente. L’incedere del discorso è spietato, si potrebbe dire. Userà lo stesso tono nelle Rilessioni sulle cause della libertà…, che si concludono con una visione ancora più cupa del futuro: “Complessi-

difendere “quelli di sotto”

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vamente, la situazione in cui versiamo è molto simile a quella di viaggiatori del tutto sprovveduti che si trovano su un’automobile lanciata a tutta velocità e senza conducente attraverso un paese accidentato.” Poco importa! Se si è andati incontro a un fallimento, bisogna ricominciare da zero. Nell’articolo de “La Révolution prolétarienne”, prospetta un programma – enorme – volto a riconsiderare lo statuto dell’individuo rispetto alla collettività: Noi vogliamo fare degli uomini completi eliminando la specializzazione che ci mutila tutti. Vogliamo conferire al lavoro manuale la dignità che merita, dando all’operaio la piena intelligenza della tecnica invece che un semplice addestramento; e dare all’intelligenza il suo proprio oggetto, mettendola a contatto con il mondo per mezzo del lavoro.

Questo programma andò maturando in lei. Decide di ritirarsi “completamente da ogni specie di politica, salvo la ricerca teorica”,9 come spiega all’amica Simone Pétrement nel marzo del 1934, aggiungendo: “Questo per me non esclude assolutamente l’eventuale partecipazione a un grande movimento spontaneo di massa (nei ranghi, come soldato).” Ed è esattamente quel che accade nel 1936. Durante i grandi scioperi, s’intrufola nelle fabbriche occupate e, senza nascondere la propria soddisfazione, pubblica nel numero 10 de “La Révolution prolétarienne” un articolo. Si tratta de La vita e lo sciopero delle operaie metalmeccaniche, in cui, con la brutale franchezza di cui non poteva fare a meno, ostenta la propria gioia a un ingegnere – si crede –, Victor Bernard, direttore delle fonderie di Rosières, vicino a Bourges, con il quale aveva intrattenuto per qualche mese, da gennaio a giugno del 1936, una itta corrispondenza. All’incirca due mesi dopo aver conidato a Simone Pétrement la sua decisione di ritirarsi dalla politica, Simone riaferma questa decisione, più o meno negli stessi termini, in una lettera a una sua vecchia allieva nel Puy. Però fa un’eccezione: la lotta

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contro il colonialismo, che occupa un posto di primo piano nel suo pensiero. Infatti, a partire dal 1937,10 si moltiplicano gli articoli e i progetti di testi a favore delle vittime dell’oppressione, dello sfruttamento e delle repressioni spesso feroci con cui queste popolazioni venivano sottomesse, che si trattasse degli indocinesi, dei marocchini, dei tunisini, o dei membri della Stella Nord-Africana, gruppo fondato da Massali Hadij, di cui lei supportava le idee difendendole con coraggio e vigore. Era l’unica a incoraggiare i movimenti di rivolta nelle colonie, perché preconizzava un’emancipazione crescente di questi popoli, con il timore che potessero cadere “in un nazionalismo estremista – a sua volta imperialista e conquistatore –, in un’industrializzazione a oltranza fondata sulla miseria prolungata in modo indeinito delle masse popolari, in un acceso militarismo, in una statalizzazione dell’intera vita sociale analoga a quella dei paesi totalitari”.11 Una simile lucidità di analisi, che potremmo anche deinire profetica, non può che impressionare, tanto sono numerosi gli esempi contemporanei che corroborano con la loro crudezza queste sinistre previsioni. Il 20 giugno 1934 redige una richiesta di congedo “per studi personali”, allegando la traccia di una tesi: “Una tesi di ilosoia riguardante il rapporto della tecnica moderna, fondamento della grande industria, con gli aspetti essenziali della nostra civilizzazione, cioè da una parte con la nostra organizzazione sociale, dall’altra la nostra cultura.” La sua speranza – come si può notare – è di fare piena luce sulla condizione umana a partire dal punto di vista dei più umili, dei più sacriicati, dei più sviliti, visti come rappresentanti dell’umanità intera, cioè degli operai in fabbrica. Subito dopo scrive la sua “Grande Opera”, o “testamento” (di già!), un saggio imponente che non fu mai pubblicato inché rimase in vita, le Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, in cui per l’appunto sviluppa il programma presentato alla ine del suo articolo apparso su “La Révolution prolétarienne”, indirizzato a Souvarine e a “La Critique sociale”. Proprio per costui, che riteneva essere superiore a

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lei e di un’intelligenza più agile, fa ricorso a ogni sua forza. L’articolo, che venne ritardato di diversi mesi e raggiunse le dimensioni che ben conosciamo (un manoscritto di 120 pagine), non fece in tempo a comparire, dato che la pubblicazione della rivista era stata sospesa per mancanza di inanziamenti. Inine, il 4 dicembre 1934 entrò in fabbrica, non per saggiare le condizioni degli strati più bassi della società, come fecero George Orwell e Jack London, ma per mettere a nudo le condizioni stesse dell’accesso alla conoscenza, facendo di se stessa la cavia su cui condurre le proprie ricerche, oltre che per sperimentare realmente una condizione di schiavitù che, con una parafrasi, deinirà in seguito, nel saggio L’amore di Dio e la sventura, la “polverizzazione dell’anima attraverso la brutalità meccanica delle circostanze”. Si è spesso parlato di “dolorismo” in Weil. Senz’altro ci fu in lei, oltre a una straordinaria capacità di compassione, una sorta di autocompiacimento in tal senso. Ma, più nel profondo, aveva presentito che la soferenza e la sventura a quei tempi così legate al mondo del lavoro ofrivano un accesso privilegiato alla verità sulla condizione umana, e anche alla sua bellezza. Era convolata a nozze con la sventura.

La necessità di un metodo La ricerca di un’organizzazione sociale più umana attraverso la rivoluzione (la “rivoluzione proletaria” – anche se come si è visto aveva già rinunciato a questo obiettivo utopico) non poteva avere alcuna ragion d’essere senza un progetto in grado di guidare in modo metodico il pensiero, perché solo così ne sarebbe conseguita un’azione ugualmente metodica. Due delle linee guida indicate all’inizio di questo libro, e cioè l’insopprimibile dignità di ogni uomo e la necessità di stabilire e applicare un metodo, si trovano in questo caso strettamente connesse. Non si tratta tanto di una sovrapposizione di due piani, quanto di un pensiero unico che si sdoppia. L’obiettivo politico ingloba le questioni di

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metodo così come tutto il campo della scienza. L’epistemologia fa tutt’uno con l’etica e la politica. “La rivoluzione deve essere tanto intellettuale quanto sociale”, scrive nel 1933 nella sua recensione del libro di Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo. L’alleggerimento della condizione di schiavitù degli operai richiedeva infatti che i lavoratori venissero liberati dall’“empirismo”, cioè dal velo dell’ignoranza. Era necessario che imparassero i fondamenti del loro mestiere e, per fare ciò, bisognava insegnar loro i rudimenti della prima e della più antica fra le scienze: la matematica. Non c’è traccia di incoerenza. In questa fase del suo percorso, tale intenzione entra in modo duraturo nei progetti di Simone Weil intorno alla questione sociale. Prova ne è il notevole lavoro che aveva presentato durante il primo anno all’École Normale, nel quale contesta le Lezioni di geometria elementare di Jacques Hadamard, opera che le aveva prestato l’amico Camille Marcoux. Non stupisce neppure il fatto che abbia dedicato la sua tesi di diploma di studi superiori, Scienza e percezione in Descartes, a un ilosofo che considerava essere superiore a Marx e a Platone. Descartes aveva infatti afermato a più riprese l’esistenza di una “saggezza comune” e aveva esaltato l’uguaglianza della ragione, oltre che coltivato il sogno di fondare una specie di università operaia.12 Simone Weil sentiva l’urgenza di trasmettere i fondamenti del sapere, e dunque della cultura, a chi per deinizione ne era escluso. Tuttavia, l’“educazione operaia” poteva essere condotta solo per il tramite di una volgarizzazione della storia della scienza, per come lei la intendeva – e questo problema era diventato una delle sue preoccupazioni principali. Secondo lei, questa disciplina doveva poggiare sull’acquisizione graduale e sempre chiara del progredire delle scienze in dalla loro origine, come aveva preconizzato Descartes. “L’uomo ha bisogno della scienza”, scrive nella sua tesi di diploma, “a condizione che le prove non siano imposte e che essa venga insegnata nel modo che Descartes chiamava analitico, cosicché ogni alunno, procedendo come se fosse lui stesso a inventare con metodo,13 non fosse tanto

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nella posizione di ricevere un insegnamento, quanto di istruirsi da sé.” Dunque, ciò che Simone Weil cercava con tutta se stessa era la possibilità di stabilire “un passaggio impercettibile, senza grandi balzi, tra l’uomo comune e il sapiente”. Questa doveva essere la sua risposta al postulato marxista, che torna come un Leitmotiv nei testi di questo periodo, sulla necessità di “abolire la degradante divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale”. L’uomo è fatto schiavo da ciò a cui non riesce a pensare: questo principio sta alla base del suo grande sforzo sia per padroneggiare una conoscenza matematica di base, che acquisì con grande fatica, sia per distribuirne i beneici a chi le stava intorno. Su questo argomento vale la pena riportare un’espressione sagace tratta dalla febbrile corrispondenza intrattenuta con il direttore di fabbrica di cui si è parlato poc’anzi, tra gennaio e giugno del 1936: “Quando qualcosa abbassa l’intelligenza, degrada ogni uomo.”

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Un lento passaggio verso la trascendenza Riflessione sulla sventura Dopo la solida “formazione” che le istituzioni scolastiche francesi dispensavano alle loro élite, com’era accaduto per Simone e per molti intellettuali della sua generazione, non era facile uscire da schemi di pensiero che venivano quasi imposti. Nelle pagine che seguono cercheremo di issare le tappe di questo processo, che ebbe un lungo decorso. Al tempo degli scioperi del 1936, Simone Weil non aveva nascosto l’“indicibile sentimento di gioia e di liberazione” che aveva provato nel vedere che una volta tanto i suoi “compagni” usavano la testa. Eppure, come conidò ad Auguste Detœuf, grande industriale e fondatore dell’Alsthom1 che l’aveva aiutata a entrare in fabbrica, questo entusiasmo poggiava su un profondo pessimismo. Parla addirittura di “disperazione”. Sapeva in troppo bene che momenti come quello non potevano durare e che il corso della vita quotidiana, schiacciato dalla necessità e dall’obbedienza, sarebbe ripreso come prima. Il velo dell’oppressione era caduto per un momento, ma presto sarebbe stato rimesso. Il “sentimento di un’insanabile impotenza” avrebbe soffocato lo slancio. La parola malheur, “parola ammirevole, priva di corrispondenze nelle altre lingue”, entra così, una volta per tutte, nel vocabolario di Simone Weil. In essa si coniugano l’apatia, l’indiferenza, l’anonimato (“Non riusciranno più a credere di essere

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qualcuno”, scrive ne L’amore di Dio e la sventura), che sono il marchio della schiavitù. A partire dall’esperienza del malheur della classe operaia, “in dentro la sua carne e la sua anima”, si avvia in lei un lento avvicinamento alla religione, che la fa passare da un ateismo convinto e di comodo alla fede in Cristo. Nell’Autobiografia spirituale indirizzata a padre Perrin rievoca le tappe di questo cambiamento. Delle tre fasi descritte, riteniamo che la prima abbia avuto luogo in Portogallo, nell’estate successiva alla sua uscita dalla fabbrica. Trovandosi a sua volta in uno stato isico miserevole (l’esperienza in fabbrica aveva “ucciso la [sua] giovinezza”), venne travolta dall’indicibile miseria di un gruppo di mogli di pescatori che cantavano delle canzoni “di una tristezza straziante”. “In quell’occasione ho avuto immediatamente la certezza che il cristianesimo è la religione per antonomasia degli schiavi, che degli schiavi non potevano non aderirvi, e io con loro.” Episodi simili accaddero anche ad Assisi nel 1937, poi a Solesmes nel 1938, dove soggiornò con sua madre per assistere alle celebrazioni della Settimana Santa. Ma l’incontro decisivo ebbe luogo qualche mese più tardi, verosimilmente in novembre. Fu la sua “via per Damasco”. Ripetendo fra sé e sé, come amava fare, una poesia di George Herbert (un giovane inglese le aveva fatto scoprire i poeti metaisici del XVII secolo) intitolata Love (I, the unkinde, ungrateful […]/ Love took my hand and smiling did reply:/ Who made the eyes but I?2) si sentì rapire. “Il Cristo stesso è disceso e mi ha presa”, scrive.3 Si tratta di una traduzione quasi letterale dell’espressione di cui si è servito san Paolo nella lettera ai Filippesi: katelêmphtên hupo Christou. Parallelamente accade che l’anima, in istanti eccezionali, si slanci verso l’immensità dei cieli superiori, come si legge nella Repubblica, nel Fedro e nel Teeteto di Platone (e anche in Filone d’Alessandria). Simone Weil – sempre nella stessa lettera autobiograica – riprende queste esperienze antiche: “Lo spazio si apre. All’ininità dello spazio ordinario della percezione si sostituisce un’ininità alla seconda o talvolta alla terza potenza. Nello stesso

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tempo quest’ininità si riempie da parte a parte di silenzio, un silenzio che non è assenza di suono, bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono.”4 Si evidenzia così il legame con il pensiero dell’antichità, di cui Simone Weil si sente erede. Dio personale, Dio impersonale – Simone Weil non cesserà mai di meditare su questo duplice tema, riportandolo a un’unità e separandolo al tempo stesso. Questa rivelazione, e cioè che forse un Dio potesse amare le sue creature,5 era una novità assoluta e segnò uno spartiacque decisivo nella sua vita. Ma delle avvisaglie c’erano già state in precedenza. Alla ine del 1937, la lettura dell’abbozzo di tesi dell’amica Simone Pétrement, intitolato L’idea separata. Introduzione allo studio del dualismo,6 ebbe su di lei una profonda inluenza e spazzò via alcune sue obiezioni. Simone Weil si era sofermata con particolare attenzione sulle pagine riguardanti i nuovi culti misterici e le rappresentazioni che, si dice, venivano date a Eleusi. “Si tratta di rivelare agli uomini il segreto della loro condizione […] nonostante tutti gli eccessi a cui queste religioni hanno dato adito […] il loro spirito era puro: non sono già più pagane.” A nostro parere, queste considerazioni su Cristo sono ancora più rivelatrici: “Il solo mezzo di passaggio è la croce, e non si tratta di una conciliazione, non è un passaggio dolce e delicato, non costituisce una continuità; è l’immagine stessa di una rottura, ed è l’immagine più violenta. Con essa, la vera gloria viene rivestita di un’apparenza che è quanto di più diferente da lei.” Ecco esposti alcuni dei temi centrali del pensiero religioso di Simone Weil. Seguirono innumerevoli sessioni di lettura in biblioteca. Senza dire nulla sulla sua “avventura” (ne parla solo con due persone, a un giorno di distanza se non lo stesso giorno: a padre Perrin, come si è appena detto, e a Joë Bousquet, che era andata a visitare a Carcassonne) e senza cercare consiglio né sostegno, Simone Weil apre il capitolo – che si rivelerà immenso – delle sue ricerche religiose, rivolgendosi alle fonti più antiche con l’intento di ritornare alle origini. I Quaderni di quell’anno, con le sue note

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di lettura, permettono di farsi qualche idea sul panorama che intendeva coprire. Si possono trovare alcuni estratti delle Rane di Aristofane sui misteri e dei passi tratti dal Libro dei morti egiziano e dall’epopea di Gilgamesh. Così, improvvisamente, si fa prendere dalla questione religiosa nella sua accezione più ampia, facendo appello alla sua solida formazione da normalista e secondo un intento a tutti gli efetti enciclopedico. Non desistette mai. Quando, in una fase successiva del suo percorso, si interessa all’ambito della patristica, non ha alcuna diicoltà ad appropriarsi del pensiero di Giustino, Clemente Alessandrino e Origene, tutti studiosi di ilosoia che non distinguevano, come invece facciamo noi, tra naturale e sovrannaturale. E che consideravano gli elementi religiosi del mondo pagano come frammenti di una rivelazione totale per il tramite di quello che viene chiamato logos spermatikos o preparatio evangelica. Ciò consentiva un facile passaggio dal paganesimo al cristianesimo e Simone Weil entrò in quest’ordine di pensiero. Clemente non chiamava forse “iniziato” chi veniva battezzato? Sente il bisogno di prenderne nota in uno dei suoi Quaderni. Ecco perché nei suoi scritti sono così frequenti i riferimenti ai misteri (in particolare quelli di Eleusi). Questi studi la inluenzarono a tal punto che nella sua ultima opera, La prima radice, dà grande risalto alla “spiritualità dei misteri”. È un aspetto che non smette di stupire, perché signiica accordare a questo fenomeno religioso, di cui ancora oggi non si sa molto, un’importanza che probabilmente non aveva.7 Una simile insistenza sulla sfera misterica della spiritualità greca e il parallelismo costante con i misteri cristiani, che da allora segnarono tutta la sua opera, hanno consentito a Massimo Cacciari di parlare con sottile ironia del “passato eterno del cristianesimo nella cultura pagana”.8 Ma è dalla ilosoia, dalla poesia e dal teatro greci, da cui fu sempre più inluenzata, che attingerà l’essenza del suo sentimento religioso. Basta leggere le lettere che scrive dall’Italia (durante il suo primo viaggio, dal 23 aprile al 16 giugno 1937)

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a Jean Posternak,9 conosciuto poco prima in un sanatorio a Montana, in Svizzera. Queste lettere, da cui traspare una gioia evidente (perché sapeva essere felice, sentimento che faceva il paio con le sue rilessioni sul malheur…), sono accompagnate da traduzioni dal greco. Ci sono versi dall’Iliade, dall’Elettra e anche passi di Platone. Le tragedie di Sofocle e di Eschilo costituivano il nucleo di spiritualità più elevata al quale aveva avuto accesso ino a quel momento. Bevve avidamente a questa fonte. Il verso del “riconoscimento di Elettra e di Oreste”, che tradusse e ritradusse – ogni volta da capo – più di sette volte, era a suo parere un culmine inarrivabile. D’altra parte, aveva scritto un breve riassunto di questa tragedia per gli operai della fabbrica di Rosières, vicino a Bourges, in cui insegnò nel 1936, convinta che “la poesia greca sarebbe cento volte più vicina al popolo, se la potessero studiare, della poesia francese e di quella moderna”. La sfumatura mistica via via sempre più marcata data a questo scambio rende perfettamente conto del cambiamento che fece passare Simone Weil da un fermo agnosticismo all’introiezione del mistero cristico. Questa autodidatta del cristianesimo, che in completa solitudine era riuscita ad aprirsi un passaggio nel fondo di una foresta irta di contraddizioni, da quel momento fece sue le igure di Elettra e di Antigone, nascondendo dietro di loro, con ingenuo pudore, l’esperienza tanto rara da cui era stata gratiicata. Così, nel saggio sulle Forme dell’amore implicito di Dio, ricorda “colui al quale è capitata l’avventura di Elettra”.10 Ne spiega la valenza ilosoica e religiosa in questi termini: “Un animo umano sente tutto il peso del mondo sottoforma di sventura.” Quale migliore autoritratto?

Il fulcro di un’opera e di una vita: Meditazioni sull’obbedienza e la libertà Questo testo breve e denso, probabilmente scritto durante l’estate del 1937, al ritorno dal suo primo viaggio in Italia, è indubbia-

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mente uno dei punti più alti dell’opera di Simone Weil. È opportuno vedere in esso l’articolazione più riuscita di un percorso e di un pensiero che unisce gli ambiti della politica, dell’etica e della religione, all’incrocio di due grandi temi che vengono rappresentati attraverso due scale di valori. Da una parte, la dottrina di Marx che, al modo dei isici, aveva fondato i rapporti di forza sulla materia – un’idea geniale, secondo lei. Ma questo dava vita a un sistema troppo rigido in cui la forza è tutto. Il materialismo può spiegare ogni cosa, eccetto il sovrannaturale, e si ha ragione a essere materialisti solo se non si tiene conto di esso.11 Tuttavia l’oppressione, così ben descritta da Marx, non può essere abolita da una rivoluzione. L’intento è buono, ma utopico.12 Dall’altra parte, e all’opposto, sta una dottrina fondata sul bisogno del bene che è presente in ogni uomo, in cui ciò che non può essere rappresentato (cioè la contraddizione) può essere solo contemplato. Nell’essere umano c’è un valore che trascende il mondo. Si tratta di un chiaro riferimento a Platone, per il quale, al di là dell’intelligenza, regna la saggezza. Questo punto d’incontro è un momento miracoloso di equilibrio (miracoloso perché fragile), anche se la conclusione del saggio evidenzia un forte pessimismo: “Qualsiasi ordine sociale, per quanto necessario, è essenzialmente malvagio.”13 L’incedere del saggio è molto serrato. Partendo dal problema posto dal giovane La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria, Simone Weil tratta in da subito l’importante questione della paradossale “sottomissione dei molti ai pochi”. Poi cerca di risolvere questa contraddizione che, a suo parere, è solo apparente: è proprio perché sono in pochi che quelli che danno gli ordini diventano dominatori delle masse, dato che “formano un insieme”. L’esposizione del paradosso è subito seguita dal suo rovesciamento: pensare e amare, le facoltà superiori di ogni individuo, sono facoltà sovversive e pericolose per l’ordine. E fa l’esempio dei Gracchi che, avendo voluto “portare con grande naturalezza nell’azione politica ciò che veniva ispirato dallo spirito e dal cuore… non potevano che

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morire sgozzati, abbandonati anche dai loro”. Si possono trarre due lezioni da queste pagine importanti. In primo luogo, l’azione politica che Simone Weil ha “iancheggiato” – è lei stessa a usare questa parola – per qualche anno è secondo lei poco credibile a causa del suo legame inscindibile con la violenza e delle contraddizioni implicite al suo stesso esercizio. Un’azione che può essere riassunta nella formula “il male minore”. La speranza di una rivoluzione per il popolo è svanita. L’altra lezione è che l’uomo è solo, e sarà sempre sconitto. L’aveva già annotato nei suoi Quaderni di rilessioni quotidiane: “Tutti i drammi di Sofocle sono, sotto varie forme, il dramma della solitudine… della debolezza dell’individuo, anche energico (come lo sono tutti).”14 “Il Cristo stesso”, scrive, “quando si è sentito abbandonato da tutti, schernito, disprezzato, privato del valore della vita, per un momento ha perso la convinzione nella sua missione; cos’altro può voler dire il lamento: ‘Mio Dio, perché mi hai abbandonato?’” Il che signiica osare controbilanciare la miseria dell’uomo attraverso la debolezza di un Dio.

Il pensiero e la tragedia del pensiero Simone Weil riprende la questione con una variazione sul tema del “potere della forza”. Il suo pensiero si pone così lungo la scia dei testi greci, che mette decisamente in primo piano con, sullo sfondo, la sua esperienza della guerra di Spagna. Il testo sull’Iliade che scrive per la “NRF”15 nel 1939 (L’Iliade o il poema della forza) nasce dallo scottante ricordo di quell’“atmosfera impregnata di sangue” in cui alcuni sguazzavano “con un piacere evidente”; ricordo che seppe comunicare con grande vividezza a Bernanos nella lunga lettera precedentemente citata, dedicata ai Grandi cimiteri sotto la luna. Si passa così dall’analisi politica della forza oppressiva ai fondamenti (che si potrebbero dire “metaisici”) di un’antropologia che poggia su un “miscuglio” di soferenze, dubbi e aspirazioni, e che pertanto implica coscienza e sensibilità. L’uomo è inelutta-

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bilmente sottoposto ai capricci del destino. Pertanto, prendendo a prestito l’espressione da Verdi, è lecito parlare di forza del destino.16 Il suo vocabolario subisce una mutazione: si parla sempre di sventura, certo, ma viene preferita l’espressione “miseria umana”, meno brutale e “crociiggente”. La concezione dolorosa dell’esistenza umana ha senso “in relazione alla felicità, che è ciò che è proprio dell’anima”. Così scrive nelle lettere al fratello, prigioniero a Rouen.17 Ma nel 1942, in un lungo testo destinato alla Genie d’Oc, L’ispirazione occitana, rievocherà “il dolore straziante, il dolore inconsolabile della creatura inita”.18 In questo saggio riconsidera le basi stesse della ilosoia guardando la condizione umana da una nuova ottica, concependola nella forma dell’esilio e della distanza tra quello che si è e ciò verso cui si tende. Troviamo dunque in Simone Weil “il pensiero e la tragedia del pensiero” – come in Pascal, che però lei non amava, rimproverandogli fra le altre cose la dottrina della “scommessa”. Questo doppio esercizio del pensiero consente di riuniicare le due grandi facce di un percorso ilosoico che si ha la – funesta – abitudine di considerare inconciliabili. La “comprensione”, secondo il motto di Spinoza con il quale Simone Weil apre la sua “Grande Opera” del 1934 (“In ciò che riguarda le cose umane, non irridere, non compiangere, non indignarsi, ma comprendere”), d’ora in avanti viene elevata ino alle più alte vette dello spirito, spirito che desidera e agogna una realtà che avverte senza mai riuscire a svelarla del tutto, che riesce ad ascoltare tutti i lamenti e le grida, o almeno a intuirli, se questi non hanno potuto essere espressi. Ne La persona e il sacro, il primo testo redatto una volta arrivata a Londra alla ine del 1942, ribadirà queste idee con una forza impareggiabile.

Matematica e mistica Parallelamente, l’introduzione di un vocabolario inluenzato dalla terminologia scientiica fa presagire un cambiamento deci-

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sivo nel corso delle rilessioni di Simone Weil. Un “rigore geometrico”, cioè l’ambito della necessità, pervade ancora una volta il suo pensiero. Quelli che “vanno al di là della forza di cui dispongono” iniscono inevitabilmente col subire l’oltraggio che hanno inlitto ai nemici: “Questo castigo di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu il primo oggetto della meditazione dei Greci. Esso costituisce l’anima dell’epopea; con il nome di Nemesi è il movente delle tragedie di Eschilo; i pitagorici, Socrate, Platone ne fecero il punto di partenza per pensare l’uomo e l’universo.”19 Già nella Meditazione sull’obbedienza e sulla libertà era possibile avvertire una potenziale preminenza della matematica e il trionfo di quest’ultima sulla isica. La nozione di “forza” assumeva infatti una connotazione scientiica attraverso il richiamo a Galileo (del quale aveva da poco comprato le opere complete a Firenze20), che introdusse la nozione di “gravità”, primo abbozzo di quello che poi sarà conosciuto come “principio d’inerzia”. Il ricongiungimento del fratello e della sorella, due “geni” allevati con il preciso scopo di diventare tali, costituisce un nuovo “momento” di questo percorso, e uno dei più importanti. Dopo quello che abbiamo considerato il “culmine” dell’opera e del pensiero di Simone Weil, cioè la Meditazione sull’obbedienza e la libertà, ci si deve ora confrontare con un’articolazione più profonda dei destini dei due fratelli. La complicità che li unisce è evidente. Simone Weil è afascinata dalla matematica come non le capitava dall’infanzia, scandita dai successi prodigiosi del giovane André. Arrivò perino, con molto afanno, a padroneggiare le Lezioni di geometria elementare di Jacques Hadamard, e partecipò almeno a due congressi Bourbaki,21 uno a Chançay nel 1937, l’altro a Dieuleit l’anno seguente. Poté così conversare quasi da pari a pari con suo fratello in merito alle origini greche della matematica, avvantaggiandosi della sua formazione ilosoica. La ricca corrispondenza che intrattengono dal gennaio all’aprile del 1940 ofre un sorprendente contrasto tra le dramma-

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tiche vicende (la guerra in stallo, la “strana guerra”, 22 prima di tutti gli orrori che ne seguirono) e il grande piacere intellettuale che lo scambio tra queste due grandi menti emana. Se per André Weil l’isolamento forzato divenne l’occasione per scoperte decisive (l’integrazione nei gruppi topologici e le sue applicazioni…), per sua sorella questa congiuntura di elementi che coniugavano la grande storia e gli imprevisti di una vita singolare fu l’occasione di un ritorno deciso e determinante alla Grecia, patria della ilosoia, delle scienze e di un dio che sempre geometrizza (ho theos aei geometri), oltre che di proporre a suo fratello una ricostruzione delle scoperte di Pitagora sul triangolo rettangolo alla quale André dà il suo beneplacito perché, scrive, “non presuppone che egli ne abbia dato una dimostrazione”. Inoltre Simone focalizza la sua argomentazione sul concetto di proporzione, la cui etimologia indica la rigorosa origine matematica. In questo modo introduce le preoccupazioni in ambito religioso dei Greci, che ormai la riguardano così da vicino. Ricorda il “legame tra le preoccupazioni matematiche da una parte, e quelle ilosoico-religiose dall’altra, la cui esistenza è storicamente riconosciuta al tempo di Pitagora”. È qui che fa la sua comparsa il nome del ilosofo greco che presto diventa il fulcro della rilessione di Simone sui misteri divini. Dalla nozione di proporzione passa poi naturalmente a quella di sproporzione “tra l’uomo e Dio”, che suo fratello riprende dando il proprio assenso, ma anche integrando l’argomentazione secondo la sua ottica non religiosa di matematico (“La sproporzione tra il pensiero e il mondo e, come dici tu, tra l’uomo e Dio.”) In seguito discutono, spiriti animati dall’argomento di cui stanno parlando e accomunati da un medesimo stupore, del “dramma degli incommensurabili”. Ecco quel che dice in proposito André Weil: La proporzione è ciò che si nomina; il fatto che vi siano rapporti che non sono nominabili (e nominabile è un rapporto fra numeri interi), che vi siano stati dei logoi alogoi, l’espressione

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stessa è tanto sconvolgente che non posso credere che in un’epoca così drammatica nella sua essenza, e che ha conosciuto e provato a tal punto l’angoscia, un fatto così straordinario abbia potuto essere preso per una semplice scoperta scientiica come, ad esempio, la trascendenza di e e di π.23

Questo entusiasmo giovanile consente a Simone di passare dagli incommensurabili alla mania dei misteri, “ispirati dagli dei”, di cui fa l’elogio Platone.24 Così facendo collega etimologicamente i misteri alla mistica, com’era sua intenzione: “Platone […] è un mistico.” Lo ribadisce con forza quasi due anni più tardi, quando inizierà il suo studio su Dio in Platone.25

Cammini incrociati Nel 1940, Simone Weil è al contempo conosciuta e sconosciuta. Ha scritto molto. Sarebbe più corretto dire che non ha mai posato la penna, che si tratti di articoli pronti per la pubblicazione o soltanto di abbozzi e progetti, o ancora della folta corrispondenza che intratteneva con i suoi compagni di tante lotte, tanto che le sue lettere occupano un posto di primo piano tra i suoi scritti, per l’ampiezza, la ricchezza e la qualità della scrittura. Si pensi alla lettera a Robert Guihéneuf, 26 di ritorno dall’Unione Sovietica nel 1936, riguardante il lavoro con le macchine, nuova forma di schiavitù, o all’importante lettera a Bernanos sulla guerra civile spagnola, o ancora alla lettera aperta a Jules Romains, che assunse dimensioni tali da diventare la prima stesura del saggio Esperienza della vita di fabbrica, pubblicato a Marsiglia nel 1941. Si pensi inoltre alle lettere scritte alle sue vecchie allieve, in particolare quella a Huguette Baur, proprio nel pieno della Disfatta.27 I suoi articoli – davvero numerosi – sono destinati a riviste facenti capo a degli organi sindacali o a movimenti con tendenze marxiste o antifasciste, come “L’École émancipée”, “La Révolution prolétarienne”, “La Critique sociale”, del suo amico Boris

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Souvarine, o, poco dopo, alle riviste “Vigilance” e “Syndicats”. E come non pensare alle Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, un testo considerevole sia per la lunghezza sia per la forza del pensiero che sprigiona? Non essendo stato pubblicato sulla rivista di Souvarine, rimase sconosciuto per quasi vent’anni, ino a quando non venne pubblicato nel 1955 da Gallimard, nella collana “Espoir”, nel volume Oppression et liberté. Tuttavia, le grandi riviste che si rivolgevano a un pubblico più vasto, meno concentrato sulle sole questioni sociali, restarono inaccessibili. Il saggio L’Iliade o il poema della forza, che viene considerato come uno degli apici raggiunti dal pensiero di Simone Weil e un modello diicilmente eguagliabile di traduzione di esametri greci, venne riiutato dalla “NRF”. In compenso, venne immediatamente accolto dai “Cahiers du Sud”, la rivista fondata da Jean Ballard a Marsiglia, per essere pubblicato in due parti, nel dicembre del 1940 e nel gennaio del 1941. Con la rivista dei “Nouveaux Cahiers”, che riuniva dei giovani industriali attratti dalla personalità di Auguste Detœuf, ai quali poi si aggiunsero uomini alla ricerca di nuove soluzioni per una Francia che ripensava a se stessa, Simone Weil acquisisce una certa notorietà. Per essa scriverà diversi articoli, ivi compreso una parte di Sulle origini dell’hitlerismo, testo enorme di cui sarà pubblicata solo la prima metà, perché l’ultima parte venne riiutata dalla censura. Simone Weil non si curava della sua reputazione di autrice. Aveva lo sguardo sempre rivolto al futuro e non guardava mai indietro, alla ricerca di quel che poteva essere appreso e meritava di essere conosciuto. Il bisogno di allargare il suo orizzonte era senza limiti. Eppure, anche in momenti terribili come la Disfatta, per lei contavano solo i suoi testi letterari, e cioè le poche poesie che aveva composto e l’abbozzo di un dramma teatrale, Venezia salvata, che non smetterà mai di rimaneggiare, senza riuscire a portarlo a termine.

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I Quaderni: quaderni di laboratorio e diario di un’anima La scienza, solo la scienza Oltre al ritorno alla Grecia che traspare nella corrispondenza fra Simone Weil e suo fratello dal febbraio all’aprile del 1940, si può notare un fenomeno di cristallizzazione che dà un rinnovato vigore ai diciotto mesi marsigliesi che seguirono l’esodo del giugno 1940. Esso segna con chiarezza un ritorno alla scienza. Giunta a Marsiglia con i suoi genitori il 15 di settembre dello stesso anno, Simone Weil si occupa solo di scienza, come testimoniano i suoi Quaderni. Attraverso le sue annotazioni, si evidenzia una rilettura attenta delle Entretiens au bord de la mer di Alain. Quando riuscì a fare arrivare da Parigi i cinque volumi delle opere di Galileo che aveva acquistato in Italia, si immerse in uno studio approfondito, penna alla mano, di queste opere (soprattutto del Dialogo sopra i due Massimi Sistemi). Questo interesse pressoché esclusivo,1 che stupì alcuni fra i suoi amici ritrovati laggiù, venne bruscamente portato alla sua massima intensità dalla lettura di un’opera di Planck appena tradotta: Iniziazione alla fisica. La questione dei quanta iniamma a tal punto il suo spirito che Simone impiega ogni sua energia per contestare una teoria che giudicava devastante (parla di una “tempesta” che “ha sradicato i valori”2) e inizia ad abbozzare un saggio (La scienza e noi) con un incipit teatrale: “Abbiamo smarrito la scienza.” Qualche mese dopo, riprende il fascicolo e

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dà alla luce una “bomba a mano”, le Rilessioni sulla teoria dei quanta. Se la descrizione del “paese dei sapienti” e dei costumi che vi regnano divertono il lettore per la grande ironia profusa, il processo intentato contro la nuova isica è impietoso. Certo, riconosceva che l’innovazione di Planck, introducendo la discontinuità nell’energia, “ha avuto una fortuna prodigiosa”,3 dato che le sue formule erano valide per tutti gli scambi di energia che avevano luogo nell’ininitamente piccolo (e i quasi sessant’anni che separano Simone Weil dall’inizio del XXI secolo sono stati il teatro di esperienze e di risultati ancor più prodigiosi). Ciò nonostante, saggiamente auspica per la scienza un lavoro di ricapitolazione e di revisione, “lasciando chiaramente apparire le diicoltà, le contraddizioni, le impossibilità che oggi ci si afretta a dissimulare con soluzioni dietro le quali l’intelligenza non può scoprire più niente”.4 Oggi alcuni isici e ilosoi della scienza sarebbero d’accordo su questo punto. Simone Weil è combattiva nelle pagine conclusive del suo articolo. In sintesi, è lei a porre come “fondamento di una scienza nuova”5 le nozioni di equilibrio e di limite. Richiamando la formula di Anassimandro che amava citare spesso e che emerge dall’universo presocratico dal quale attinge in modo sempre più distinto, queste nozioni sono intese come rotture di equilibri che si compensano.

Un campo per il pensiero La ventina di Quaderni6 scritti da Simone Weil giorno dopo giorno ino alla sua morte accompagnano la ilosofa verso un altro modo di scrivere e di pensare. Dopo la revoca del suo posto da insegnante in applicazione delle leggi di Vichy, si trova libera da ogni incombenza. Aveva sperato di lavorare nei campi dopo un soggiorno da Gustave Thibon nell’agosto e nel settembre del 1941, a Saint-Marcel d’Ardèche, e aveva già lavorato come vendemmiatrice a settembre-ottobre dello stesso anno. Vana speranza. Mentre si impegna in alcune attività a sostegno ai rifugiati bloccati nei campi (in particolare dei vietnamiti nel campo

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di Mazargues e degli spagnoli nel campo di Vernet, nell’Ariège), e mentre prepara le diverse pratiche per tentare di andare in America, parallelamente alla sua militanza nella resistenza (nel circuito della distribuzione dei quaderni clandestini del Témoignage chrétien), Simone riesce anche a ritagliarsi uno spazio per le proprie rilessioni. La via è libera: ci si ionda. Segue così la sua inclinazione naturale, con un sentimento non così distante da una certa felicità, in tempi tanto tragici. Si accusa di “pigrizia” e parla della sua tendenza alla contemplazione come di una tentazione (come aveva già fatto verso il 1935 in alcune annotazioni personali incluse nel Quaderno I, precedente alla guerra). Questo lusso ininterrotto indica il ritorno all’attività, “naturale” in qualche modo, a cui era stata votata da una giovinezza consacrata allo studio e da lunghi anni di formazione. Aveva scelto la ilosoia e poi aveva percorso una carriera singolare piena di azioni coraggiose, bizzarre, seguite da vuoti per così dire vertiginosi. Ed eccola ora ridiventare ilosofa a tutti gli efetti, anche se il suo modo di pensare non appartiene in senso stretto (o “canonico”) alla ilosoia. Infatti i Quaderni lasciano intravedere sostanzialmente una triplice attività. Alcune note di lettura relative a saggi scientiici letti accuratamente sono accompagnate da esperimenti mentali (nel senso tecnico del termine) e da momenti di meditazione. Queste tre azioni sono fortemente legate. La lettura ininterrotta di centinaia di pagine dei Quaderni, tutti simili fra loro, che scrisse sin dagli anni dell’ENS, formano una sorta di “diario” dei suoi pensieri. Scritto solo per se stessa e, di conseguenza, molto ellittico, questo diario è talvolta diicile da decifrare, è oscuro. Sfogliandone le pagine si ha l’impressione di un pensiero sorpreso nel vivo del suo esercizio. È un pensiero che pensa ad alta voce, si potrebbe dire, mostrando lo svolgimento dell’attività di uno spirito, con i suoi balzi, le pause, le involuzioni, i nodi, le idiosincrasie, e l’efetto fecondo delle relazioni fra questi modi di procedere. Si può per questo motivo parlare di una successione di frammenti interrotti? Solo in parte, perché si percepiscono dei col-

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legamenti, e anche delle sequenze di ragionamenti, per quanto ridotti a un’ossatura minimale. Utilizza spesso delle sigle, che sono come la ricompensa che si ottiene in seguito a letture attente e ostinate. Se certi collegamenti testimoniano un uso rigoroso della logica, altre sequenze mostrano i segni di un percorso meno “canonico” del pensiero, di cui le tracce redatte non mostrano che il risultato, spesso sotto forma di aforismi che appaiono come lampi di pensiero. Gustave Thibon ha raccolto questi lampi e li ha classiicati per grandi temi nel suo piccolo libro intitolato L’ombra e la Grazia.7 Alcune “equazioni” del pensiero della ilosofa si riescono a leggere solo in questi frammenti. Per “equazioni” intendiamo un certo tipo di deduzioni che solo una mente dotata di una grande capacità analogica può seguire, congiungendo e armonizzando con una sorprendente libertà gli strati di senso, i livelli del pensiero, i registri espressivi e i vocabolari speciici che appartengono ad ambiti separati e autonomi. La comprensione di queste intuizioni nascoste ma profondamente radicate non può che avvenire per mezzo di una “condotta forzata” del pensiero.

“Comprensione dificile delle cose evidenti” L’adagio scritto due volte in Quaderni consecutivi (Quaderni IV-V) fa intuire il senso di un programma che, tutto sommato, è direttamente riconducibile agli insegnamenti del suo maestro, Alain. Per quest’ultimo, infatti, pensare non signiica altro che ripensare. Un pensiero compiaciuto, che si ritiene saldo, è un pensiero “stantìo”. “Pensare è un atto violento”, era solito dire; o, ancora: “Pensare è un eccesso.” L’allieva non dimenticò mai questa lezione. La sua rilessione pertanto si riorganizza attorno a un vocabolario, se non nuovo, almeno rivisitato e controllato in ognuno dei suoi concetti. Attraverso un confronto sistematico dei vocaboli d’uso comune con le diverse discipline e conoscenze del suo tempo, Simone Weil riviviica i concetti di cui si era servita una

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tradizione ilosoica in troppo vasta. Questi concetti possono essere travisati: i termini che sembrano di uso comune non possono infatti essere imposti dall’alto senza che vi siano dei conlitti e degli sconinamenti di senso. Simone Weil ne era perfettamente consapevole, e così si avvalse di un procedimento (che poi non è altro che “un cambiamento di punto di vista”) per scoprire nuovi rapporti, aprendo la strada a percorsi non battuti. Ne fa un uso puntuale che le consente di delimitare uno spazio di signiicato omogeneo per esprimere un pensiero davvero “rinnovato” in virtù, appunto, delle particolari accezioni date alle parole. Solo le grandi menti, le sole che siano capaci di proporre un rinnovamento, riescono a concepire e a imporre queste nuove illuminazioni; anche se questa novità deve limitarsi, come scrive Simone Weil nella recensione per “L’avvenire della scienza”, a non essere altro che un “accento nuovo impresso a un pensiero non solo eterno di diritto, ma antico di fatto”. Se il suo pensiero non è ilosoico in senso stretto, il suo stile è ilosoico, e in particolare lo è, come dice Jeanne Hersch, il suo modo di operare: “Ella ricorre a delle aporie, con l’aiuto delle quali immobilizza, ‘blocca’ per così dire il pensiero. […] Moltiplica i paradossi per obbligare il pensiero a superare certi esercizi di approfondimento per così fargli raggiungere quel che sta al di là della sfera del razionale.”8

I modelli scientifici Il XX secolo vede trionfare la scienza. Secondo Simone Weil probabilmente questo è l’unico motivo di grandezza di questo secolo di ferro, “la sola cosa abbastanza buona che possediamo, e cioè la scienza”,9 come scrive a Jean Wahl nell’ottobre del 1942. Il rigore degli strumenti di precisione che ha costruito permette al pensiero di non mentire a se stesso. Su queste solide basi, viviicate dagli scambi avuti con il fratello nella primavera del 1940, allestisce l’impalcatura della sua ilosoia. Le si è rimproverato un razionalismo eccessivo: non faceva che applicare

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l’insegnamento di Alain, così come i presupposti materialisti della dottrina di Marx. Ovunque scopre dei meccanismi e, di conseguenza, delle leggi, dato che l’universo viene considerato come un groviglio inestricabile di leggi necessarie. Estende la nozione di materia alle realtà non isiche, riferendosi a una “materia psicologica”. E anche in merito ai fenomeni di ordine morale, sia collettivi sia individuali, rileva qualcosa di analogo alla materia propriamente detta: “I pensieri sono sottomessi a un meccanismo che li contraddistingue. Ma si tratta di un meccanismo.” Persino la sfera del sovrannaturale non era esclusa dalla legge suprema della necessità. Sostenere l’interdipendenza del profano e dello spirituale e dare una base concreta (cioè scientiica) ai fenomeni spirituali è una costante in Simone Weil. Lei infatti vede un’analogia tra i rapporti meccanici che costituiscono l’ordine del mondo e le verità divine. E proprio per tentare di fare chiarezza nel suo percorso spirituale – che è stato, come si è visto, bruscamente inondato di luce – paragona instancabilmente le realtà spirituali ai modelli scientiici, che si tratti di quelli da lei rivisitati o delle nuove teorie che emergono con scalpore all’inizio degli anni Quaranta. L’intreccio fra note di lettura di opere scientiiche con rilessioni di ordine psichico, morale o spirituale appare con grande evidenza nel Quaderno V, che è quasi interamente consacrato alle letture scientiiche. D’altra parte, usa costantemente ai margini la sigla Ʌ (una “lambda” maiuscola) che signiica “legge”. Ai modelli meccanici di forze su cui ha già avuto occasione di rilettere in profondità (che si tratti del principio di Archimede o della “legge dei lavori” elaborata da Alain), segue pertanto una scienza della psyché introdotta attraverso l’energia (e più precisamente la termodinamica), alla quale succede poi un approccio biologico della vita psichica. Con il suo famoso assioma (“Nulla si crea, nulla di distrugge, tutto si trasforma”) Lavoisier aveva fondato la isica sulla reversibilità dei fenomeni. Il secondo principio della termodinamica,

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chiamato anche principio di Carnot, enuncia al contrario il principio di irreversibilità dei fenomeni. Si tratta dell’entropia e corrisponde a una dispersione di energia. Con grande audacia, Simone Weil formula i principi di un’energetica psichica partendo da questo postulato: “Soggetto, oggetto e il desiderio che li unisce. Questo desiderio è energia. Ecco cos’è la psyché.” Poi prende in considerazione tre livelli energetici della psyché: l’energia vegetativa, che corrisponde alla mera esistenza, un’energia di second’ordine da lei denominata energia supplementare, attraverso cui l’“io” identiica il suo oggetto e lo desidera, e inine un’energia superiore, l’energia sovrannaturale, che corrisponde al desiderio distaccato dalla sua fonte, ha la capacità di staccarsi dall’oggetto e, da sola, permette di contrastare il secondo principio della termodinamica. Analogamente, Simone Weil distingue tre tipi di scambio di energia in questa “meccanica umana”, in cui vede delle leggi tanto vincolanti quanto quella di gravità. Infatti l’energia può degradarsi quando ci sono degli scambi attraverso un cambiamento di piano. Tramite le nozioni di “alto” e “basso”, evoca degli scambi ascendenti e quelle che chiama “riqualiicazioni dell’energia”, ovvero quando l’attenzione viene orientata dall’amore per il bene. In compenso, non smette di denunciare la pericolosità dell’immaginazione, che sogna di possedere l’altro consumandolo. Concepisce un altro approccio all’immaginario, che chiama immaginario di “prim’ordine”, nel quale vede un metro per interpretare il folclore; perché le grandi immagini dotate di un valore universale sono come “venute da fuori”. Il gran numero di ricerche sul folclore e sulle iabe, così come i tesori scoperti in esse, trovano qui la loro spiegazione. Per giunta, decriptava con rara abilità la lingua universale dell’immaginario collettivo, anche se questa inclinazione la portò a spingersi troppo in là. Giunse infatti a concordare con l’idea di una rivelazione originaria appoggiandosi a un passaggio del Filebo di Platone in cui si parla di “uomini antichi, più vicini di noi agli dei”.

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È nell’ambito della biologia, e in particolare della scienza dei fenomeni vegetali, che Simone Weil continua la sua ricerca di un’energia suscettibile di creare una forza antagonista alla gravità. Ha in testa l’immagine dell’albero dalle radici celesti di cui parla Platone nel Timeo (90a). Com’era solita fare, si documenta e consulta il Compendio di biologia vegetale edito da Masson nel 1937. Nel 1940 si procura anche un esemplare ciclostilato del Corso di biologia generale – Biologia vegetale della facoltà di scienze di Marsiglia. I principi che trae da queste letture sono: “Ogni forma di energia su questa terra viene dal sole. Tutto è una combinazione di energia solare e gravità.” Viviamo di energia solare, la “mangiamo”. Le parole e le espressioni “avere fame”, “avere sete”, “bere” e “mangiare” assumono in Simone Weil una connotazione spirituale e sostituiscono eicacemente nozioni di ambito psicologico. L’anima nel Fedro non si nutre forse della realtà contemplata dall’altra parte del cielo? E nel frammento orico che ama citare (“E tu troverai a sinistra della casa di Ade…”), isola spesso questo verso: “La sete mi consuma e mi uccide.” L’energia vitale può essere assorbita attraverso le proprietà della cloroilla, secondo una complessa meccanica che la biologia vegetale era riuscita a chiarire. Essa agisce da una fonte inaccessibile (discende continuamente su di noi). È l’immagine della grazia. A partire da queste considerazioni, Simone Weil elabora una teoria psico-isiologica della grazia, tramite quella che chiama audacemente “virtù cloroilliana della grazia”.10 Le considerazioni sulla gravità e la grazia,11 che da questo momento in poi innervano l’ininterrotta meditazione condotta nei Quaderni, costituiscono uno snodo fondamentale; è come un balzo, la rottura di una diga, di cui il poema La porta dà la più vivida testimonianza: “Aprendosi, la porta lasciò aiorare tanto silenzio/ che non si vedevano i frutteti e neppure un iore;/ Solo lo spazio immenso dove stanno il vuoto e la luce/ Fu d’un tratto presente, da parte a parte, colmando il cuore,/ E lavando gli occhi quasi ciechi di polvere.” C’è un’apertura sulla

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trascendenza, un altro mondo che richiama, parallelamente, l’immagine antica dell’uovo di gallina di cui bisogna rompere il guscio, della quale Simone Weil parlerà all’amico Joë Bousquet nel maggio 1942.

Le equazioni del pensiero Tale gerarchia di ordini, di cui abbiamo seguito le tracce ripercorrendo le grandi “venature” dei Quaderni, culmina con il ruolo di primo piano assunto dalla matematica in queste meditazioni in cui ininterrottamente si avvicendano strumenti e tesori di immagini. Infatti, i collegamenti che si possono instaurare, articolare o chiudere con una formula di carattere matematico sono innumerevoli. Si potrebbe parlare a questo proposito di una via di accesso privilegiata (o di interfaccia, per insistere su questa sfumatura del vocabolario) al mistero della condizione umana. Seguendo il suo consueto modo di procedere, cioè quello di elevare e rendere ogni volta più rigorose le categorie del pensiero, la ilosofa ha plasmato la matematica per un ine che non è propriamente il suo. Per chi ha raccomandato una “scala dal meno al più certo, e dal più al meno rappresentabile”, la matematica rappresenta “il grado intermedio di certezza, il grado intermedio di inconcepibilità”, che consente all’intelletto di appropriarsi con sicurezza dei rapporti che è incapace di rappresentarsi. Queste ininite rilessioni quotidiane, che sono al contempo dei quaderni di laboratorio e il diario di un’anima di cui si possono seguire i continui progressi secondo una via ascendente, vennero riprese e rimaneggiate ne La prima radice: Tutto nella creazione è sottoposto al metodo, compresi i punti d’intersezione fra questo e l’altro mondo. Questo vuol signiicare il termine logos, il quale vuol dire relazione, ancor più che parola. Ma il metodo dura col mutare del suo campo di applicazione. Man mano che ci si innalza, esso cresce in rigore e precisione. Sarebbe cosa ben strana che l’ordine delle cose materiali

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capitolo 5 recasse un maggior rilesso di saggezza divina di quanto non ne abbia l’ordine delle cose dell’anima. È vero invece il contrario.12

I Quaderni di New York Dopo aver lasciato la Francia con i suoi genitori il 14 maggio 1942 – in viaggio verso un nuovo esodo –, Simone Weil attraversa l’Atlantico e giunge a New York. Dopo le ultime settimane a Marsiglia, dove fu straordinariamente proliica (le lettere e i saggi che scrisse avrebbero potuto dare vita a diverse opere), fu presa da una sorta di abbattimento del suo stesso essere, segno di una caduta nella depressione già molto accentuata. Questo accadeva nonostante le lunghe ore di lavoro passate alla New York Public Library, unico modo per recare un po’ di sollievo al suo spirito. Le annotazioni nel suo Quaderno di questo periodo si fanno rare, ino al giorno in cui una lettera di Maurice Schumann rianima la speranza di riuscire ad andare in Inghilterra. Dalla metà di settembre al 10 novembre, quando inalmente riuscì a lasciare gli Stati Uniti, Simone Weil riprende a scrivere i Quaderni. In poche settimane ne scrive cinque.13 Gli argomenti di rilessione che li contraddistinguono non riguardano più le discipline scientiiche, com’era stato ino ad allora. Il suo genio analogico, in quei tragici momenti, si nutre dei miti e del folclore di ogni nazione. Segue anche con attenzione le strade che le aprivano le iabe, persuasa che esse racchiudessero “un tesoro di spiritualità di un’antichità incalcolabile”. L’erudizione di cui dà prova ha il solo scopo di deinire l’unico tema che le sta a cuore in questi mesi di grande incertezza, cioè quello della Passione. Le sue rilessioni si issano sulla croce di Cristo, che ritrova ovunque, al cuore di ogni tradizione. Le pagine del suo “diario” riecheggiano del lamento di Cristo (“Perché mi hai abbandonato?”) e dei lamenti dell’anima. L’ultimo Quaderno, il “taccuino di Londra”, conserva rilessioni ammirevoli, in particolare sullo Spirito (o energia sovran-

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naturale), per il quale congiunge tre immagini provenienti da tre diverse tradizioni, segnatamente quella del pneuma (o “soio”) degli stoici, quella del fuoco di Eraclito, e inine quella del soio vitale della disciplina dello yoga. Le raccoglie in questo aforisma: “Lo Spirito di verità – il soio igneo di verità, l’energia di verità – è al tempo stesso l’Amore.”14 A ogni tappa del suo destino di esule, Simone Weil spalanca orizzonti più ampi e raggiunge nuove vette del pensiero. Senza ombra di dubbio, i Quaderni, in cui la ilosofa si è sforzata di ripensare le cose da un altro punto di vista e, così facendo, ha rinvigorito di volta in volta l’energia del suo pensiero, costituiscono un tesoro inesauribile.

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Verso la pura speculazione

Il problema dell’impossibile unione tra inito e ininito tormenta i ilosoi dall’Antichità più remota. Con la sua ricerca di Dio, Simone Weil lo riprende in questi termini: “Ci sono due cose impossibili perché contraddittorie: il contatto della creatura pensante con il pensiero divino, e il contatto del pensiero divino con la creazione, presa da un punto di vista particolare.”1 Con grande coraggio per quanto riguarda l’ordine della pura speculazione, testerà l’ipotesi dell’uomo-Dio nella persona di Cristo usando gli strumenti messi a disposizione dalla matematica. Dalla ine del 1941 e ino al febbraio del 1942 Simone Weil riprende ad annotare la sua copia del Timeo, come aveva già fatto durante gli anni dei corsi di preparazione letteraria. Ma questa volta con uno scopo ben preciso: rivisitare con Platone il processo matematico che sta alla base della creazione del mondo, così da ritrovare in essa quella che intuiva poter essere l’espressione matematica della mediazione tra l’uomo e Dio e rispondere a quello che aveva scritto a suo fratello durante l’inverno del 1940 sulla “disproporzione tra l’uomo e Dio”. Cos’altro poteva cercare con questo riesame ardente e minuzioso del testo – occupazione che le causò “un rapimento inesprimibile”, come scrisse all’amico Thibon –, se non la conferma, formulata in termini matematici, della possibilità dell’uomo-Dio mediatore, e cioè Cristo? Per lei, era ormai quasi una certezza. E così il problema posto da Platone nella Repubblica (VI, 493c) – problema che la tortura – sulla distanza tra l’essenza della necessità e quella del bene, può essere avviato verso una soluzione.

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In termini matematici, la mediazione, o proporzione, detta “medietà geometrica”2 (che non è né la medietà aritmetica né la medietà armonica, ma si pone per l’appunto tra la quarta e la quinta), corrisponde alla misura “non nominabile” della diago– nale del quadrato (o √2), esempio tipico delle radici irrazionali che André Weil era solito chiamare logoi alogoi, o “rapporti innominati”. L’apprendimento degli irrazionali per questa via appaga l’attesa di Simone Weil, che così riesce a toccare la “radice del grande segreto” evocato nel Quaderno XI. Si servirà persino del termine “rivelazione” in un analogo ambito di rilessione, all’inizio di Dio in Platone. È inevitabile riprendere il commento di Marwan Rashed, a cui si deve l’ammirevole presentazione del Timeo con le annotazioni di Simone. Egli richiama “il pensiero platonico della mediazione [divenuto] a sua volta mediazione, che Simone Weil giudica abbastanza solido da accompagnare il suo cammino mistico”.3 Il lavoro di rilettura e di annotazione del suo esemplare del Timeo condotto dalla ilosofa costituisce una introduzione monumentale (quasi una scala d’onore) alle pagine sui pitagorici che scriverà durante lo scalo a Casablanca, da cui riparte la nave che la porterà con i suoi genitori a New York. Questi scritti andranno poi a formare il seguito e la conclusione di un saggio che è stato titolato Intuizioni precristiane.4 La dottrina di Platone è “in tutto e per tutto quella dei pitagorici, alla quale egli avrebbe cambiato solo una parola, parlando di ‘idee’ invece che di ‘numeri’”, come lei stessa ricorda al fratello nella loro corrispondenza della primavera del 1940. Così non ci si stupirà che Simone Weil si prenda cura di ricopiare tutti i frammenti signiicativi rimasti della dottrina pitagorica ricavati dai Fragmente der Vorsokratiker editi da Diels, di cui possedeva la prima edizione. Le pagine intitolate A proposito della dottrina pitagorica sviluppano la sua intuizione, e cioè che la matematica “contiene la sintesi della necessità che governa le cose sensibili e le immagini delle verità divine”.5 Rendendo ancora più stretto il rapporto tra matematica e mistica, già di per sé molto forte, arriverà a scri-

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vere nel primo Quaderno americano che “ogni geometria procede dalla Croce”,6 così com’è vero il contrario, e cioè che solo la geometria può giustiicare la Croce. L’obiettivo supremo della sua ricerca non è forse quello di concepire l’Incarnazione, che allo stesso tempo è Passione? È possibile dunque osservare un deciso ritorno all’antica mistica del cosmo che si era difusa nel neoplatonismo, ino a Niccolò Cusano, ai Fiorentini, a Giordano Bruno e Keplero. Così fa la sua comparsa qualcosa di simile a una gnosi in grado di penetrare i misteri dello spirito. Per questo inno di grandissima rainatezza intellettuale alla gloria della matematica, Simone Weil si serve di un linguaggio nudo, esemplare, duro e trasparente, vibrante come una freccia nel bersaglio, che è poi il tratto che la rende più riconoscibile e che ha un potere di seduzione capace di trascinare il lettore, suo malgrado. Questa cristologia congetturale, il cui schema speculativo si basa sulla nozione di mediazione intesa come medietà proporzionale, è una costruzione della mente, un “esperimento di pensiero” (per riprendere un’espressione di Xavier Tilliette). Pierre Boutang ha parlato di una “intrusione dell’idea ‘matematica’ nella logica”, di una “trasformazione essenziale che ne fa lo strumento proprio della metaisica”. Nelle considerazioni conclusive delle pagine sui pitagorici, Simone Weil non esita a considerare la matematica come una “specie di poema mistico composto da Dio stesso”. E, al culmine della sua meditazione, qualche pagina dopo scrive: “Nella semitenebra in cui siamo immersi tutto per noi è rapporto, così come nella luce della realtà tutto è in sé mediazione divina. Il rapporto è la mediazione divina intravista nelle nostre tenebre.”7 Conclusione “folgorante” di qualche mese passato a Marsiglia, le pagine pitagoriche di Simone Weil sono il frutto della sua rilettura del Timeo, accompagnata dalla lettura della tesi che Maurice de Gandillac consacra a Niccolò Cusano (La Filosofia di Niccolò Cusano), pubblicata nel 1941. Con la sua teoria della coincidentia oppositorum, quest’ultimo aveva creato una mate-

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matica congetturale che si emancipava risolutamente dal contesto scientiico immediato. Passando dall’età metaisica all’età matematica, ediica una matematica teologica di vasta portata. Rapita dalla stessa ebrezza, Simone Weil si precipita spontaneamente al suo seguito, realizzando a sua volta una sintesi sorprendente della proporzionalità greca e cristiana. Sembra avere preso coscienza dell’audacia delle sue tesi, e in termini appena velati scrive a padre Perrin il 26 maggio 1942 (dopo lo scalo a Casablanca, dove per l’appunto furono redatte le pagine sui pitagorici) queste righe che menzionano la rivelazione di “una larga porzione di verità e di bellezza in qui dissimulate da uno spesso strato di polvere”. Poi aggiunge: “È pressappoco analoga a una nuova rivelazione dell’universo e del destino umano. […] Occorre maggior genio di quanto ne sia servito a Archimede per inventare la meccanica e la isica.”8 Simone Weil è consapevole di essersi elevata verso vette dove manca l’ossigeno. Intuisce che pagine come quelle possano spiazzare il suo conidente di Marsiglia. Turbata dal fatto di non aver ricevuto risposta dopo l’invio, scrive una lettera (inedita) inviata da New York alla sua amica Hélène Honnorat. Si tratta di “due grandi buste piene di carte”, scrive, “che contengono il pitagorismo e altre cose, dei pensieri un po’ aberranti” e si chiede “se da queste buste non emanasse un odore troppo forte di zolfo”. Com’era possibile, allora, che nutrendo pensieri così poco in odore di cattolicesimo potesse decidersi a entrare nella Chiesa? Scarta deinitivamente l’idea, o almeno così sembra. Simone Weil è una igura liminale.

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Una strana cristiana

Quando Simone Weil aveva condotto il suo “grande rivolgimento” prima della guerra, aveva fatto ricorso alla vastità della sua cultura per indagare il mondo delle religioni. A Marsiglia la sua indagine raggiunse un’ampiezza estrema. Tutte le strade che si aprivano sotto i suoi passi erano altrettante occasioni da cogliere. Non se le fece sfuggire. Aveva solo una certezza: al cuore della polifonia composta dai saperi e dalle dottrine religiose, ciò che era oscuro in una era chiaro nelle altre, quindi era necessario farle dialogare. Con l’aiuto della sua guida e interprete, René Daumal, si avvicinò al pensiero indiano. L’interesse sarà duraturo: a Londra, sul letto d’ospedale, annotava ancora l’esemplare della Gītā che le era stato donato da suo fratello. Le innumerevoli segnature nei suoi Quaderni relative all’ātman, il principio impersonale della coscienza di sé e l’incanto simmetrico della rinuncia all’“io”, costituiscono l’eco più chiara di questa inluenza. Per quanto riguarda il pensiero cataro, Simone Weil si avvalse dei consigli eruditi di Déodat Roché, che però non aveva delle fonti molto aidabili. Poi si interessò al taoismo, attraverso Pierre Salet, e al buddismo, come si è visto in precedenza. Iniziò anche una raccolta sul folclore che negli Stati Uniti raggiunse una notevole estensione. Il progetto di un’antologia che avrebbe voluto intitolare Saggezza di tutti i tempi e di tutti i paesi, come conida a Simone Pétrement nel settembre del 1941, manifesta il vigore e l’audacia di un pensiero che vuole allargare incessantemente i propri conini.

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Presa da questi conlitti e problemi si ritrova a New York, pentolone piuttosto solforoso in cui ribollono passioni contraddittorie. Evita la comunità francese, e così si trova più isolata che mai. I suoi scambi con padre Perrin avevano avuto vita breve. Anche se è commossa dalla santità del monaco ormai quasi cieco, per cui prova “un sentimento d’afetto, di riconoscenza e di ammirazione”, lo maltratta un po’: “Lei non mi ha portato né l’ispirazione cristiana né il Cristo: quando l’ho incontrata, infatti, questo non rimaneva più da fare, era già un fatto compiuto, e senza il tramite di alcun essere umano.” E il manoscritto della sua ultima lettera, imbucata a Casablanca, non è certo privo di insolenza. A New York Maritain, a cui lei aveva scritto, consigliò a Simone Weil di contattare padre Couturier, domenicano atipico e di ampie vedute che si batteva per il rinnovamento dell’arte sacra. Non le riuscì di incontrarlo, ma redasse al suo indirizzo una lunghissima lettera in trentacinque punti: inì la stesura subito prima di imbarcarsi per Londra. Verrà poi pubblicata con il titolo di Lettera a un religioso. Con l’espediente di una richiesta di chiarimenti, Simone Weil sferra un attacco in piena regola alla Chiesa cattolica. Anche in questo caso non lesina ironia e durezza, incapace com’è di mascherare o addolcire i suoi giudizi. Si tratta di un processo crudele, nel quale l’autoritarismo che contraddistingue la Chiesa viene qualiicato come “totalitarismo”. Da questa lettera, che va a parare un po’ ovunque (le 35 opinioni numerate traggono in inganno su questo punto) – in cui gli argomenti sono giustapposti alla rinfusa e le ripetizioni frequenti – si possono isolare tre temi principali.

Il rifiuto viscerale dell’Antico Testamento In un primo tempo, si può notare un riiuto viscerale dell’Antico Testamento, che aveva riletto e annotato nella versione in due volumi della Bibbia del rabbinato francese, comprata a Marsiglia (Librairie Durlacher, 1930). Lettura di cui Levinas sottolinea la cecità, l’aggressività, la parzialità e un’“immediatezza” che

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denota una mancanza di distanza critica stupefacente per una donna del suo livello culturale. Questo odio per gli Ebrei desta un certo turbamento. L’attacco è frontale e corrisponde alla prima delle 35 domande sottoposte a padre Couturier. Una prima versione – molto più lunga – della prima domanda fu tolta dal fascicolo da Simone Weil: aveva preso una tale ampiezza che ne fa un testo a parte, intitolato Israele e i Gentili, pubblicato in L’amore di Dio. Come testimonianza di questa issazione – assolutamente negativa – sugli Ebrei, non si può trovare nulla di più feroce delle pagine in cui enumera rapidamente le meraviglie e i beneici delle civiltà non ebraiche (tutte precedenti all’era cristiana), per poi opporle alla presunta idolatria e alla crudeltà degli Ebrei. In queste pagine, appassionate ma eccessive, capovolge la tesi difesa da san Paolo, che vedeva nei Gentili degli innesti sull’ulivo di Israele. Credeva, infatti, che ci fosse una spiritualità più pura presso di loro che in Israele; il che, in pratica, signiicava sposare la tesi del pagano Celso esposta nel trattato Contra Celsum di Origene (che lei aveva letto almeno in parte e al quale le era capitato di fare riferimento). Ciò nonostante, non scarta tutti i libri dell’Antico Testamento. Come avrebbe potuto? Per due volte, stila la lista dei libri che giudica ammissibili per un’anima cristiana (domande 18 e 31). La lista più lunga comprende: “Isaia, Giobbe, Il Cantico dei Cantici, Daniele, Tobia, una parte di Ezechiele, una parte dei Salmi, una parte dei libri sapienziali, l’inizio della Genesi…”

Il pancristismo Simone Weil difende punto per punto le sue idee. Introduce audacemente i nomi delle divinità greche nei modelli da seguire, è favorevole all’ingresso nel pantheon cristiano di divinità venerate presso altri popoli, accogliendo con la più generosa liberalità tutto ciò che è rimasto dell’Antichità precristiana, ma cancellando i venti secoli che ci separano dalla Giudea del I secolo! È

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proprio su questo punto che la posizione di Simone Weil è molto strana, o almeno poco coerente. Perché il Cristo, che dice di avere incontrato e la cui Passione (nella quale riconosce un fatto storico innegabile) non smetterà mai di essere argomento di rilessione, per lei non fa davvero parte di una storia santa, e neppure della storia vera e propria. Il Cristo è il logos mediatore che sta al di sopra del tempo. La sua concezione è risolutamente antistorica. Invocando Prometeo e il suo dramma “sacro”, non dice altrimenti: “La storia di Prometeo è la storia stessa del Cristo proiettata nell’eterno. Vi manca solo la localizzazione nel tempo e nello spazio”.1 Proseguendo lungo la stessa linea, predica un universalismo cristiano basato sul primo capitolo del Vangelo di Giovanni: “Il Verbo è la luce che illumina ogni uomo. Quale testo più categorico si potrebbe desiderare?”, scrive nello stesso momento in uno dei Quaderni di New York.2 Si tratta, in qualche modo, di conchiudere tutto in un pancristismo “che riconduce l’evento assolutamente sovrannaturale dell’incarnazione a una ilosoia cosmologica e gnostica”, come spiega Hans-Urs von Balthasar nella Teologia della storia.3 Questa immobilizzazione del tempo, che lei “geometrizza”, la conduce negli ultimissimi mesi della sua vita a raigurare instancabilmente nei Quaderni il cerchio zodiacale in cui ama inscrivere il ritorno ciclico della storia eterna della Passione di Cristo.

Una contestazione aggressiva del magistero romano Tale contestazione prende spunto dal sentimento fortemente radicato in Simone Weil – al contempo innato e acquisito – della libertà assoluta della coscienza. Per lei, la funzione del libero arbitrio è sovrana. Anche in questo si riconosce un richiamo all’insegnamento di Alain, che raccomandava l’esercizio sistematico del dubbio. Lei arriva a scrivere proprio nella Lettera a un religioso che “considera una certa sospensione del giudizio a riguardo di

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qualsivoglia pensiero, senza eccezione alcuna, ciò che costituisce la virtù dell’umiltà nella sfera dell’intelligenza”. Quest’ultima espressione non manca di stupire. Sulla scia di questa idea, Simone Weil accusa la Chiesa di essere diventata “claustrofobica” (il che non era sbagliato in un tempo in cui imperava una neoscolastica noiosa e poco propensa alla novità). La accusa peraltro di imporre la sua visione con un autoritarismo che lei giudicava insopportabile (inveiva contro espressioni quali “al di fuori della Chiesa non v’è salvezza” o anathema sit…). A tutto questo lei oppone la mistica. È convinta che “i mistici di quasi tutte le confessioni religiose si assomiglino ino a confondersi”. Pertanto, si scontrano due visioni della religione. “È come se”, scrive, “sotto la medesima denominazione di cristianesimo e all’interno della stessa organizzazione sociale, vi fossero due religioni distinte: quella dei mistici e l’altra.”4 Inoltre, questo modo risoluto di “accamparsi al di fuori delle mura” della Chiesa non è senza rapporto con il suo astio verso l’ebraismo. Ammira Marcione perché riiuta il Dio dell’Antico Testamento. Per lo stesso motivo aderisce con entusiasmo alle idee del catarismo seguendo le teorie erronee che difondevano alcuni specialisti di allora, in particolare Déodat Roché, che confondeva catari e manichei. Questo fervore anti-ebraico e anti-giudaico arriverà ino ad annichilire il rigore della sua intelligenza, che, in un caso come questo, si dibatte in un mare di controsensi. È possibile osservare in Simone Weil testardaggine e scivoloni, che derivano dal suo accanimento contro gli Ebrei. Fa di Roma un mito, di Atene un contro-mito, e il suo pensiero, spesso complesso, non è privo di ambiguità. “Questa ilosofa dallo sguardo indagatore aveva un’obiettività così appassionata”, dichiara Stanislas Fumet, che ebbe occasione di intrattenersi con lei una volta a Marsiglia e si scontrò contro la sua testardaggine verso Aristotele (un’altra delle cose che non poteva sopportare!). Simone Weil aderisce ai punti principali del Credo della Chiesa cattolica, gode appieno della bellezza delle sue cerimonie

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e dei suoi riti, e ha più volte mostrato di essere particolarmente attratta dai canti gregoriani. Ciò nonostante, non le riconosce “alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nella sfera del pensiero” e continua le sue ricerche nell’ambito della religione “senza nessuna ambizione di un accordo o di un disaccordo possibile con l’insegnamento dogmatico della Chiesa”.5 Una volta chiariti questi aspetti, è possibile considerarla cristiana. Ma sarebbe più corretto deinirla cristica: tutto il suo amore è rivolto a Cristo e alla sua Passione. Con la Lettera a un religioso, dalla quale non si aspetta alcuna risposta (che infatti non arriverà mai, ed è facile immaginare lo stupore e la perplessità suscitate nel padre domenicano alla lettura di questo documento…), una porta si chiude deinitivamente e questa soglia non sarà mai varcata.

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Simone Weil era intimamente votata alla comprensione. Per cercare di risolvere la contraddizione – lo scarto – tra la necessità e il bene, con le sue “pagine pitagoriche” si era lanciata in speculazioni di un’audacia che pareva aver dato i suoi frutti. L’uso fatto della nozione di medietà proporzionale, e dunque di mediazione (risultato della sua lettura del Timeo), le aveva fatto intravedere la possibilità di concepire l’Incarnazione. Un’analoga rilessione, ma proiettata verso un livello superiore d’indagine sui misteri divini, viene messa in pratica attraverso le categorie di sventura e di amore. L’analisi è rivolta non più solo all’esame della possibilità dell’esistenza di un uomo-Dio, ma al mistero – e allo scandalo – della Crociissione, sventura assoluta posta a sigillo della salvezza. Il risultato è un saggio corposo, L’amore di Dio e la sventura, redatto alla vigilia della partenza per l’America, quando la ine già si fa presentire. Questo saggio, capolavoro singolare, va posto in stretta connessione con la corrispondenza che Simone Weil intrattiene con il poeta Joë Bousquet tra aprile e maggio del 1942. Com’è noto, una ferita procurata verso la ine della Prima guerra mondiale aveva privato Bousquet dell’uso degli arti inferiori, condannandolo a condurre ino alla morte una vita “crociiggente”, da infermo. “Felici” – si permette di scrivergli Simone – “coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca.”1 Con grande tenacia intellettuale, fa della sventura, che non mente, una via d’accesso privilegiata alla verità e alla vera vita. E riesce a trovare le parole perfette per esprimere

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questo concetto in una dichiarazione sublime nella sua forza e nella sua semplicità: “Sono convinta che la sventura da un lato, dall’altro la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicando entrambe la perdita dell’esistenza personale, siano le uniche chiavi mediante le quali si entra nel paese puro, il paese respirabile; il paese del reale.”2 Queste poche righe condensano un grumo di pensieri che vanno tutti nello stesso senso. Vale per l’immagine (ricorrente nei Quaderni del 1942) di Giobbe, seduto su un cumulo di letame, a cui venne rivelata la bellezza del mondo, nuda e priva della nebbia di valori menzogneri. Ma vale anche per l’immagine che compare nella poesia La porta, che aprendosi rivela “lo spazio immenso in cui sono il vuoto e la luce”, totalizzante e che riempie il cuore. Tutte le pagine scritte durante l’ultimo mese che precedette la partenza (quindi tutti i testi di Attesa di Dio e la quasi totalità del volume dei Pensieri disordinati) convergono verso questa sintesi suprema, frutto di una tensione assoluta, che assume il valore di un testamento. Non sembra improprio in questo caso servirsi dell’immagine di una vetta illuminata che emerge dalle nuvole. Le nozioni di sventura e di gioia, prima opposte ma poi unite (dato che la sventura non avrebbe senso se l’idea di felicità ne fosse assente) stanno alla base di una gioia paradossale, corroborata dalla testimonianza dei grandi maestri “spirituali”. Questo tipo di gioia – sostengono questi, e in primis Simone Weil – talvolta arriva ad attraversare le tenebre della sventura e a illuminarle, come la giovane mistica riesce a dire con un’espressione folgorante nel saggio su L’amore di Dio e la sventura: “Dio è gioia e la creazione è sventura, ma è una sventura che risplende della luce della gioia.”3 In queste pagine si riesce a scorgere il rilesso appena sbiadito della sua stessa esperienza. Questa considerazione è quasi confessione, una ripresa pressoché letterale di due conidenze fatte quasi contemporaneamente ai suoi interlocutori privilegiati nei giorni che precedettero la partenza, padre Perrin e Joë Bousquet:4 “Quando il silenzio di Dio penetra nella nostra anima, vi si apre un varco ino a raggiungere il silenzio

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segretamente presente in noi. Allora […] lo spazio si apre davanti come un frutto che si separi in due, perché oramai vediamo l’universo da un punto che è situato al di fuori dello spazio.”5 Brevi momenti di “trasigurazione” in seno a un etere rarefatto, risposta data a pochi eletti, ma che nulla tolgono a questa massima delle Rilessioni senza ordine sull’amore di Dio, impossibile da leggere senza spavento e che spinge a pensare che Simone Weil si afrettasse verso la morte: “Bisogna scegliere tra la verità e la morte o la menzogna e la vita.”6 In tutti i grandi testi del periodo londinese, come se si trattasse di variazioni attorno a un unico tema, Simone riprenderà instancabilmente questo problema, che per l’appunto poggia sulla parola “perché?”, sia ne La persona e il sacro, il cui svolgimento è scandito da questo avverbio, sia nel famoso paragrafo della lunga lettera per Maurice Schumann: “Sento una lacerazione che si approfondisce di continuo, al contempo nell’intelligenza e al centro del cuore, data l’incapacità in cui mi trovo di pensare uniti nella verità la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame fra questi.”7 Si soferma nuovamente sul grande enigma della vita umana che aveva espresso all’inizio de L’amore di Dio e la sventura, stupendosi che “Dio abbia dato alla sventura il potere di aferrare l’anima di un innocente e di impadronirsene da sovrana assoluta”.8

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Messaggi impercettibili

La disillusione Simone Weil riuscì a raggiungere Londra dopo un giro immenso e innumerevoli tentativi. L’aiuto di Maurice Schumann, suo vecchio condiscepolo nella classe di Alain al liceo Henri-IV, fu determinante. Fu lui a raccomandarla ad André Philip, che era stato nominato commissario per l’Interno. Quest’ultimo, che lei aveva avuto occasione d’incontrare a New York, aveva letto e ammirato un buon numero dei suoi articoli, e fece tutto il possibile per farla arrivare a Londra. Si erano sbagliati su di lei, come suggerisce la stessa Simone Weil nella lettera di dimissioni che consegnò all’assistente di André Philip, Francis-Louis Closon, suo diretto superiore nella gerarchia, il 26 luglio 1943? Sembrava proprio di sì. La presenza di questa esile e giovane donna in un ambiente interamente maschile, diviso in fazioni rivali che rendevano la situazione confusa (dato che il generale de Gaulle era ancora lontano dal vincere la partita) non poteva che creare sconcerto. Ci si aspettava che partecipasse alla propaganda e che suggerisse delle soluzioni possibili, afrontando problemi concreti, e invece sembrava come caduta da un mondo ultraterreno e avallava degli obiettivi impossibili, per non dire utopici, che in nulla coincidevano con l’urgenza del momento. Allo stesso tempo, aveva una sola idea in testa: farsi aidare una missione pericolosa ed essere paracadutata in Francia. Questo, nonostante il rispetto che provava per

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lei, le valse un’osservazione sferzante da parte di Cavaillés: “È un caso di una nobiltà eccezionale, ma oggi il caso non c’è più.” Quasi subito si nota un grosso malinteso. Avida di azioni eroiche, non uscì mai dal complesso nel quale risiedeva il commissariato dell’Interno della Francia libera, dove era stata posta agli ordini di André Philip. In La France libre, Jean-Louis Crémieux-Brilhac la rappresenta in termini poco lusinghieri mentre lavora in uno sgabuzzino dimesso della residenza privata al numero 17-19 di Hill Street. “È proprio lì”, scrive, “che Simone Weil, vagabonda senza fagotto, redasse La prima radice e immaginò il futuro regime di una Francia utopica lasciandosi morire di fame.”1 Lavorò, sotto la responsabilità diretta di Francis-Louis Closon, alla commissione di studio delle misure da prendere per la Liberazione e anche alla commissione per la “riforma dello Stato”, presieduta da Félix Gouin. Il risultato fu una dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo. Questo è il quadro dell’immenso lavoro di Simone Weil nei pochi mesi che precedettero la sua morte. I temi afrontati nella serie di saggi e di rapporti redatti in queste circostanze, riuniti negli Scritti di Londra, furono tutti, in maggiore o minor misura, ripresi nell’immenso getto d’inchiostro che è La prima radice, da lei scritta in parallelo, senza che neppure per un istante avesse avuto la speranza che venisse letta o conosciuta.

La persona e il sacro:2 un capovolgimento del vocabolario Simone Weil si impegna profondamente nel progetto di una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo auspicata da de Gaulle. André Philip ne aveva presentato il programma sottoforma di una “professione di fede” in una conferenza intitolata I fondamenti giuridici e sociali della Resistenza francese, tenuta a New York il 7 novembre 1942. Simone Weil era presente. In essa va trovata l’origine inequivocabile – e fattuale – di un testo importante come La persona e il sacro. André Philip non

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aveva forse dichiarato nella sua conferenza che “i valori universali sono interamente fondati sul principio del carattere sacro della persona umana”? Con il suo temperamento battagliero, Simone Weil immediatamente insorse. Lo testimonia l’abbozzo del testo redatto non appena messo piede su suolo inglese, intitolato La persona umana è sacra?, con l’aggiunta: “È necessario mantenere il vocabolario ‘personalista’?” Questo signiicava riiutare, non senza violenza, l’enunciato di Philip, al contempo basato sulla dottrina personalista di Emmanuel Mounier, molto in voga al tempo, e sostenuto dal pensiero di Jacques Maritain, che era l’intellettuale più ascoltato in Francia e negli Stati Uniti, dove era dovuto rimanere dopo la dichiarazione di guerra. Più in profondità, è l’espressione stessa “diritti dell’uomo” che, secondo Simone Weil, poggia su due concetti precari: quello di persona e quello, intimamente legato al primo, di diritto. Questa ilosofa giustamente conosciuta per il rigore delle sue analisi decide così di procedere con una revisione del suo vocabolario; perché, scrive subito, “là dove vi è un grave errore di vocabolario, è diicile che non vi sia un grave errore di pensiero”. Il tema al centro di queste pagine è dunque il linguaggio o, più esattamente, il vocabolario, cioè le parole, il loro uso, le domande che è lecito porsi su di esse: sono adeguate? Le nozioni che circoscrivono poggiano su deinizioni chiare? È possibile per alcune di esse riuscire a concepire ciò che esprimono? In questione sono soltanto, credo, i concetti più ampi, quelli che si ritiene possano fare maggiore chiarezza, che Simone Weil elenca ed enumera nel sottotitolo del suo saggio: Collettività – Persona – Impersonale – Diritto – Giustizia. L’inizio è brutale, il vocabolario crudo. Probabilmente, Simone Weil ha fortemente voluto questo efetto “impattante”. Il suo scopo non è altro che quello di svestire la persona degli abiti che la abbelliscono per opporgli più eicacemente l’essere umano che si ofre al nostro sguardo, nudo e senza ornamenti, esposto come chiunque fra noi agli imprevisti della sventura. Per quanto concerne la nozione di sacro, essa è a sua volta stretta-

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mente legata a quella di sventura, il cui efetto principale è quello di forzare l’anima a gridare “perché?”. Questa domanda eterna, ripetuta non meno di quattro volte in pochi paragrai, supera la classica indagine ilosoica. Essa, come la croce, è il segno dell’aspirazione e dell’esigenza al bene che alberga nel cuore di ogni uomo. E proprio per questa ragione costituisce l’unica prova dimostrabile dell’esistenza della perfezione e, di conseguenza, del sovrannaturale, che Simone Weil chiama il sacro. Energico nella sua concezione e magistrale nel suo sviluppo, il saggio si articola in dodici punti decisivi che ruotano attorno a un tema centrale per meglio comprenderne le implicazioni. L’ultima parte del saggio, che ha come argomento il “potere delle parole”, è dedicata alla “virtù di illuminazione e di trazione verso l’alto” di alcune parole “alle quali corrisponde una perfezione assoluta e per noi inaferrabile”. Sono come ammantate di silenzio. Simone Weil riprende dal Timeo di Platone l’immagine dell’uomo paragonato a una pianta dalle radici celesti (90a), che cresce e s’innalza grazie all’energia apportata dalla luce che cade incessantemente dal cielo. Non è quindi un caso se, a margine della bozza de La persona e il sacro, Simone Weil abbia disegnato un albero con le radici protese verso l’alto. Se il saggio impressiona per la forza di persuasione che sprigiona, allo stesso tempo disturba a causa dell’insolita asprezza della prosa quando tratta la categoria dei privilegiati, che fa il paio con degli autentici slanci di compassione quando vengono messi a confronto con quelli che, occupando i gradini più bassi della scala sociale, non hanno parole per esprimere la loro sventura. La sua bellezza e la sua forza sono dovute al fatto che Simone Weil riprende e sintetizza i tesori e i progressi del suo pensiero che le rilessioni del 1942 le hanno permesso di accumulare, e più in particolare i grandi testi succeduti – come spinti, potremmo dire – all’approssimarsi della partenza per l’America e durante lo scalo a Casablanca, che si tratti delle Forme dell’amore implicito di Dio, de L’amore di Dio e la sventura, de L’amore di Dio o anche delle Pagine pitagoriche, che formano

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l’ultima e grandiosa parte delle Intuizioni precristiane.3 Allo stesso tempo questo saggio è una prima redazione della “professione di fede” inclusa nello Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano,4 che dovrà essere seguita da uno Studio dei bisogni umani e da una Dichiarazione degli obblighi ma di tutt’altro tono: le pagine de La persona e il sacro sono rivolte alla sensibilità e cercano di colpire attraverso grandi contrasti, lontani dal tono solenne che ci si aspetterebbe da una dichiarazione uiciale, che è la cifra stilistica della prima parte de La prima radice. Eppure, come non vedere nell’immagine dell’albero doppiamente radicato e nelle pagine de La persona e il sacro una prima indagine programmatica che darà poi vita a La prima radice? L’obiettivo di questa seconda “Grande Opera” non è forse quello di rasserenare l’animo di un popolo sconitto, schiacciato da una terribile sventura condivisa da tutti e per di più molto concreta (non soltanto metaisica), per rigenerarlo e radicarlo nuovamente, infondendogli la luce e il calore del “bene” e sforzandosi di cancellare quel che “schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza”, doppio diabolicamente capovolto di quelle parole luminose e portatrici di bene che sono la giustizia, la verità e la bellezza?

La prima radice: un testamento Quella che è stata per molto tempo considerata come un’opera scritta di getto (e così sembra in apparenza, ma solo in apparenza), La prima radice (titolo scelto dall’editore dell’edizione originale) forma un insieme non omogeneo che consta di tre diversi momenti, ognuno dei quali con un proprio obiettivo, per quanto essi non vengano indicati come tali sul manoscritto. La prima sezione è formata da una “dichiarazione fondamentale”, preludio a una nuova “dichiarazione dei diritti dell’uomo” auspicata dal generale de Gaulle. Questa parte è seguita da un saggio teorico che assume la forma di un dittico in cui vengono

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articolate le nozioni di sradicamento e di ri-radicamento. Inine, allontanandosi risolutamente dalla sfera della politica, Simone Weil sviluppa una meditazione metaisico-religiosa nella quale riprende i più alti pensieri formulati verso la ine del periodo marsigliese. Scritto in una situazione d’urgenza e in modo discontinuo, questo testo è lontano dal possedere la chiarezza espositiva di un lavoro accademico. Non costruito, non riletto, non corretto, si sarebbe in diritto, sul piano strettamente formale, di giudicarlo confuso. Inoltre, all’editore Gallimard giunse solo in forma di manoscritto. Venne consegnato a Boris Souvarine dai signori Weil quando tornarono in Francia. L’amico di famiglia lo trasmise poi a Brice Parain, che a sua volta lo aidò a Camus, che lo pubblicò nella collana Espoir nel 1949. Il blocco compatto di fogli non conteneva le prime parti, rimaste in forma dattilografata. Venne pubblicato com’era e si apriva bruscamente con un inventario dei “bisogni dell’anima”. Nel 1943, dopo dieci anni di maturazione interiore, Simone cercava nuovamente di rinsaldare “al di sopra dell’idolo sociale, il patto dello spirito con l’universo” con il quale aveva concluso le Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Questa volta si basa sull’esigenza di bene assoluto presente nel cuore dell’uomo, che però trova la propria origine in una realtà posta al di fuori del mondo. Usando questa perifrasi, cercava di riunire ogni uomo, quali che fossero le sue convinzioni, dietro alle aspirazioni cristiane. “La vera missione del gruppo francese di Londra è, proprio in ragione delle circostanze politiche e militari, una missione spirituale prima ancora di essere una missione politica e militare.” Conseguire una vittoria militare è di per sé insuiciente: vorrebbe dire sostituire un regime oppressivo con un altro. Non si tratta d’altro che di “aiutare la Francia a trovare, nella profondità della sua sventura, una ispirazione conforme al suo genio nazionale e ai bisogni attuali degli uomini soferenti”.5 Con questa seconda “Grande Opera”, come la deinisce scherzosamente in una lettera ai genitori del 22 maggio 1943, Simone

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Weil cerca di porre le basi di una nuova civilizzazione in grado di abolire “tutto quello che, nella vita contemporanea, schiaccia gli animi sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza”. Come si è visto, si tratta non a caso della conclusione del saggio La persona e il sacro, perché tutto è fondato dalla nozione di sacro, e tutto converge in essa. Nella prima parte, riguardante le “esigenze dell’anima”, Simone Weil argomenta così: “Il fatto che un essere umano possieda un destino eterno impone un solo obbligo: il rispetto. L’obbligo è adempiuto soltanto se il rispetto è efettivamente espresso, in modo reale e non ittizio; e questo può avvenire soltanto mediante i bisogni terrestri dell’uomo.”6 Seguono quattordici voci che raggruppano e oppongono a due a due le nozioni che corrispondono ai bisogni diversi e complementari “che sono vitali, essenziali, analoghi alla fame”. Simone Weil sottopose queste poche pagine al suo capo, André Philip, e al suo superiore diretto, Francis-Louis Closon. Lette sommariamente, sembra che ricevettero un’approvazione molto tiepida (e qualche critica), come dimostrano le osservazioni annotate a margine del manoscritto. Sconcertato, Philip inì col dire alla giovane donna: “Sbloccatevi.” Lei non si fece abbindolare da questo invito, perché sembrava lasciare intendere che avrebbe dovuto essere disponibile in seguito per delle cose più serie. Questo ci fa capire perché la seconda parte del saggio inizi con l’indicazione di un ultimo bisogno, il numero 15, dedicato alla nozione di radicamento.7 Qui poté “sbloccarsi” a volontà, cosa che non mancò di fare. E da quel momento in poi il saggio non poté che assumere dimensioni notevoli. L’ultima parte dell’opera, diventata una meditazione sulla forza e sull’obbedienza, si apre con delle considerazioni sull’arte della politica. Quest’ultima presuppone un’analisi metodica delle forze in campo e soprattutto processi dell’immaginazione collettiva (fondata su afetti e aspirazioni), così da potere rispondere agli attacchi dell’avversario usando dei mezzi analoghi, che si tratti di forza, di prestigio o di astuzia. L’idea più forte, che è anche quella più originale fra quelle da lei sviluppate, riguarda

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l’arte della propaganda. Quella che lei raccomanda deve rispondere punto su punto a quella usata da Hitler. Aveva letto attentamente il Mein Kampf, in cui questo tema veniva trattato per interi capitoli, e arriva a scrivere – non senza ironia – che Hitler aveva apportato su questo problema “un contributo durevole al patrimonio del pensiero umano”. Avendo profondamente assimilato i principi di questa arte, evidenzia i principi di un nuovo metodo che ha al proprio centro l’“utilizzo metodico ed eicace dello spirito di rivolta”, fondato sulla capacità di aferrare le opportunità che si presentano, e che dunque presuppone una conoscenza approfondita dei momenti in cui conviene agire. Simone Weil aveva meditato sulle opere di Machiavelli, “isico del potere politico”, modello a cui in questa occasione si lega ancor più strettamente. Lega questo modello a quello che viene proposto ad Arjuna nella Gita (agire senza cercare di raccogliere i frutti delle proprie azioni) e a quello di Lawrence d’Arabia, che, pur disprezzandola, seppe riconoscere l’imperio della forza e coniugare la lucidità all’impegno. Ciò nonostante nella terza parte de La prima radice, la sua meditazione torna sulle basi più antiche e propriamente fondatrici della sua indagine ilosoica, e cioè l’alternanza e l’impossibile congiunzione delle nozioni di necessità e di bene. Con un vigore ammirevole per una giovane donna allo stremo delle forze, sulla quale già incombe la morte, incentra la sua meditazione sulla igura di Hitler, questo Führer delle orde d’acciaio, sinistro agente di morte e sventura al cuore delle tenebre di quei tempi maledetti. Rappresenta, a livello simbolico, il punto culminante di ciò che la necessità può rappresentare quando assume la forma della forza bruta. Nel corso di un centinaio di pagine, il nome di Hitler appare diciassette volte; e per tre volte lei passa all’attacco – osiamo dire – appoggiando la sua analisi su qualche passaggio estratto dal Mein Kampf: L’uomo non deve mai cadere nell’errore di credersi di essere signore e padrone della natura. Sentirà allora che, in un mondo

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dove i pianeti e i soli seguono traiettorie circolari, dove le lune girano attorno ai pianeti, dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza, costringendola a servirla docilmente o a spezzarsi, l’uomo non può richiamarsi a leggi speciali.8

Queste righe (che aveva già ricopiato in un Quaderno di vecchie annotazioni) colpiscono Simone Weil dritto al cuore. Per una ilosofa imbevuta della dottrina stoica dell’amor fati, si trattava di una dichiarazione quasi blasfema. Non avrebbe mai potuto darsi pace ino a quando non avesse controbattuto con delle argomentazioni sempre più incalzanti e appassionate, che in qualche modo scandiscono la progressione del pensiero. La prima volta che cita il passaggio,9 non senza suscitare stupore nel lettore, Simone Weil giudica “irreprensibile” il ragionamento di Hitler, perché si fonda, scrive, su una concezione del mondo che ha preso piede nel XVIII secolo (e che è già si lascia intravedere in Descartes). Poi attacca: “C’è una sola scelta da fare. O bisogna riconoscere che nell’universo, accanto alla forza, opera un principio diverso dalla forza, o bisogna riconoscerla come signora unica e sovrana anche per le relazioni umane.” La sua argomentazione si basa sull’opposizione fra scienza e umanesimo che c’è da qualche secolo. Con l’espressione “concezione del mondo”, Simone Weil intende la scienza moderna, i cui grandi successi non sono basati, a suo parere, su quello che lei chiama spirito di verità. Segue una lunga descrizione di quello che aveva chiamato “villaggio dei sapienti” nel saggio Rilessioni a proposito della teoria dei quanta.10 Riprendendo gli stessi temi (lo spirito di falsa grandezza, la ricerca del prestigio, gli efetti della moda…), in quest’occasione ricorre alla massima ferocia, dato che la posta in gioco mette in causa i valori fondanti di una civilizzazione sul punto di crollare. La satira è aggressiva, il bilancio sconfortante. La seconda volta che cita il passaggio del Mein Kampf,11 ma senza il famoso adagio di Descartes,12 capovolge l’argomentazione di Hitler: “In che modo la forza cieca potrebbe produrre

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dei cerchi? Non è la debolezza a servire dolcemente la forza. È la forza che è docile alla saggezza eterna”, e così introduce le nozioni di limite e di ubbidienza. La materia viene portata all’obbedienza attraverso la virtù dell’amore, che, inscrivendosi in dei limiti consentiti, è più forte della forza. Simone Weil torna una terza volta sul Mein Kampf, con un’argomentazione che inizia dalla prima frase del passaggio: “L’uomo non deve mai cadere nell’errore di credersi di essere signore e padrone della natura.”13 Questa volta, il tono è trionfalistico. Prende posizione basandosi sul rapporto tra la necessità (che determina le forze di quaggiù) e il pensiero: “L’uomo è una creatura pensante.” Ora, “la necessità è fatta di rapporti che sono dei pensieri”. La conclusione s’impone da sé: l’uomo sta dalla parte di ciò che comanda alla forza. Alla ine compie un ultimo capovolgimento. Certo, l’uomo non è signore e padrone della natura, e Hitler aveva ragione su questo punto, “ma è il primogenito del padrone, il iglio della casa”. Prende parte all’autorità, e la scienza con i suoi risultati impressionanti ne è la prova. Giunta a questo punto, Simone Weil esulta. Si dirà che aveva già raggiunto la stessa conclusione in due testi coevi, scritti durante lo scalo a Casablanca, le sue Pagine pitagoriche e la seconda parte del saggio su L’amore di Dio e la sventura,14 utilizzando gli stessi termini. Ma, molto rimaneggiata e compressa, la formula acquisisce in questo caso un’importanza sorprendente. Esiste infatti una stupefacente somiglianza tra questi scritti e le ultime meditazioni de La prima radice. Sotto la pressione e la gravità degli avvenimenti, il pensiero e la sensibilità raggiungono insieme il loro culmine. Lo sradicamento dalla Francia, che marca la ine del soggiorno marsigliese, e una tragica ine che comincia a preigurarsi, formano un tutt’uno nell’estremo stato di angoscia in cui Simone Weil si dibatte a Londra. Con una diferenza, però: il lavoro di ricapitolazione iniziato quando presagisce che la sua ine è vicina, in qualche modo assume il ruolo che in idrograia possono avere le dighe e i canali. In questo caso

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si tratta di canali di pensiero che, nel fermento che provocano, danno una forza e una chiarezza incomparabili all’espressione. In una serie di brevi illuminazioni, Simone Weil chiama a testimone i vertici raggiunti dalle diverse forme della saggezza e dei testi sacri degli Antichi: “Questa è la verità che erompe con incomparabili accenti d’allegrezza nelle parti belle e pure del Vecchio Testamento, in Grecia nei pitagorici e in tutti i sapienti, in Cina nei testi di Lao-Tse, nei libri sacri indù, nei frammenti egiziani.”15 In poco tempo l’animo religioso di Simone Weil e il suo spirito impregnato si amalgamano ino a fare tutt’uno. Certo, la matematica, che da sempre ha occupato il centro del suo pensiero, qui è predominante. Privilegiando la medietà proporzionale (o medietà geometrica in musica), evidenzia la nozione di mediazione quale condizione della possibilità dell’Incarnazione. In essa vede l’immagine del Cristo, il Mediatore per antonomasia. Ciò nonostante, si cura di aggiungere alla matematica la scienza dell’energetica,16 mettendo l’accento sul fenomeno della fotosintesi nella sfera della biologia vegetale, nella quale vede, attraverso l’azione del sole che universalmente irradia chiunque, l’immagine dello Spirito, o pneuma, che letteralmente signiica “soio igneo”, soio misto a fuoco (subito collegato alla tecnica dello “yoga respiratorio”) che dà la vita.17 “Quindi non solo18 la matematica, ma tutta la scienza, senza che nemmeno pensiamo ad accorgercene, è uno specchio simbolico delle verità soprannaturali.”19 In questo caso si deve intendere l’unione del logos, fonte di “ogni studio teorico, rigoroso e puro dei rapporti necessari”20 e della Grazia che genera la Vita. Simone Weil arriva al punto. Ancora una volta il rigore del pensiero scientiico copre il campo della sua meditazione. Obbligando il suo pensiero ad arrivare al dunque, e forzando l’eccezionale capacità di ragionamento della sua mente, tenuta a freno dalla ragione, in qualche modo, come si dice quando si “restituisce il maltolto” a qualcuno, Simone Weil fa risuonare nelle ultime pagine della sua opera testamentaria una musica da grand’or-

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gano, con accordi sublimi. Infatti i diversi piani del suo pensiero si compenetrano, formano un blocco compatto, che trova il suo culmine in questa formulazione quasi matematica: “È una sola e identica cosa che rispetto a Dio è saggezza eterna, rispetto all’universo è ubbidienza perfetta, rispetto al nostro amore è bellezza, rispetto alla nostra intelligenza è equilibrio dei rapporti necessari, rispetto alla nostra carne è forza bruta.”21 Una simile padronanza del pensiero, dello stile e dell’afettività non può che richiamare il monito di Spinoza che una decina di anni prima aveva posto all’inizia della sua prima “Grande Opera”, le Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale: “In ciò che riguarda le cose umane, non irridere, non compiangere, non indignarsi, ma comprendere.” Eppure, in questo caso si percepisce come l’efetto di un’esaltazione, se non strana, almeno paradossale.

Una verità muta È riuscita ad aprirsi un varco nel “grande segreto”? Questo è certo. Stagliandosi sul limite vertiginoso di una crepa che destabilizzava il fondamento di una civiltà millenaria, Simone Weil si scontrò con l’enigma dell’infelice condizione degli esseri umani. Il suo genio visionario, con picchi di eroismo, non può essere ignorato: è luminosa e pura, ma con una maschera tragica. Provando una sorta di pace che trascendeva la tristezza, Simone Weil confronta la sua sorte a quella dell’eroina muta del Racconto dei sei cigni dei Grimm. “La verità e la sventura sono […] mute”, scrive nei Quaderni di Londra. È proprio in questa condizione tragica, che è quella dei folli di Shakespeare e di Velásquez – non essere ascoltati quando si è coscienti di possedere “la verità” – che scrive ai suoi genitori una penultima lettera, il 4 agosto 1943. Sarebbe morta pochi giorni dopo. Aveva solo trentaquattro anni.

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Coerenza del cammino, coerenza del pensiero Non stupisce che in questi scritti londinesi siano ben riconoscibili le grandi linee direttrici del programma di vita che aveva espresso una ventina di anni prima, all’età di quattordici anni, anche se portate a un’altezza vertiginosa. Questa purezza di fuoco e di ghiaccio di uno spirito superiore distaccato da tutto non poteva che allontanarla da un ambiente non al suo livello. La parola chiave per antonomasia, “verità”, e il suo opposto, “menzogna”, la fanno da padrone negli scritti londinesi. Ne La prima radice ne ricorda l’importanza servendosi della parola Maat, nozione centrale nella religione egiziana, che signiica sia “verità” che “giustizia”. Al grado più alto della sua meditazione (la morte si avvicina), Simone Weil richiama lo “spirito di verità” o il “soio di verità” (espressioni che derivano dal termine greco pneuma) o, meglio ancora, l’“energia di verità” o “la verità come forza agente”,22 “vera come la morte e viva come la vita”.23 La nozione di metodo e il suo contrario, il rigore, compaiono a ogni istante nella sua “seconda ‘Grande Opera’”, in particolare “per insulare un’ispirazione a un popolo”. Sono metodi, scrive, “di un rigore matematico”.24 “Tutto nella creazione è sottoposto al metodo, compresi i punti d’intersezione fra questo e l’altro mondo. Questo vuol signiicare il termine logos, il quale vuol dire relazione, ancor più che parola.”25 Simone Weil aei geometrei – perché rimane pur sempre geometra –, certo, ma tenendo conto anche della scienza della natura e della biologia. Per quanto riguarda l’uguale dignità degli esseri umani, nelle pagine de La persona e il sacro – il primo testo redatto a Londra – riprende l’opposizione tra genio e talento con cui si confrontava in dall’adolescenza, ma in questo caso la rende ancor più radicale, ponendo un’equivalenza sostanziale tra il genio più brillante e l’idiota del villaggio: “Bisogna incoraggiare gli idioti, i senza talento, quelli dal talento mediocre o poco più che medio che sono dotati di genio. Non c’è da temere di renderli orgogliosi. L’amore della verità si accompagna sempre all’umiltà.”26 Questo

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saggio, che porta al vertice massimo l’unione fra verità e sventura, ci dà – mi pare – la chiave deinitiva per assicurare alla vita e al pensiero di Simone Weil quella coerenza che gli è stata spesso negata. Queste pagine, infatti, feroci e piene di compassione, esprimono eloquentemente la preoccupazione principale della ilosofa sin dalla sua adolescenza e per tutto il corso della sua breve vita, quella cioè per il destino iniquo riservato alle innumerevoli schiere di coloro che vengono schiacciati dal peso della sventura, i cui lamenti non vengono ascoltati. Lo riassume bene con un’espressione sorprendente quando parla de “la verità e la giustizia dalla lingua mozzata”.27 Una sola battaglia, una stessa lotta, corre da un capo all’altro del breve destino della ilosofa. Lo sforzo di attenzione costante? Come si è visto, Simone lo esercita alla lettera e questa tensione, che non l’ha mai abbandonata, le procurò martellanti mal di testa. La negazione dei suoi bisogni isici ebbe delle conseguenze nefaste: è possibile che sia stata una delle cause del suo precoce decesso. Quanto al “regno della verità riservato al genio”, non c’è dubbio che vi sia entrata. Sicuramente Simone Weil fu visitata dal genio, ma un genio di una specie particolare, che lei stessa era riuscita a deinire magistralmente cinque anni prima, opponendolo ancora una volta al talento. In una lettera indirizzata a uno studente inglese di Oxford, incontrato a Solesmes durante la Settimana Santa del 1938, ne parla così: “Genius is distinct from talent, to my mind, by its deep regard and intelligence for the common life of common people – I mean people without talent. The most beautiful poetry is the poetry which can be express, in its truth, the life of people that can’t write poetry. Outside of that, there is only clever poetry. The soul of genius is caritas, in the Christian signiication of the word; the sens that every human being is all-important. That, at least, is my creed.”28 Il genio del cristianesimo, di conseguenza, sta nella coscienza dell’estrema importanza di ogni essere umano.

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Errori ed eccessi

Non può sorprendere il fatto che una personalità dotata di un’intelligenza ailata, di una volontà indomabile, che attraversò la vita come un astro incandescente, lasci intravedere qua e là qualche opacità. Si possono seguire due strade, che ripercorreremo brevemente. Una lascerà intravedere una certa sopravvalutazione di sé. L’altra, più dolorosa da seguire, gli errori causati da un antiebraismo esacerbato.

La tentazione dell’orgoglio 1. la posizione sovrastante dell’eletto. Simone Weil si credeva predestinata. Nelle lettere scritte a padre Perrin, verso il quale prova un afetto sincero, la parola “vocazione” torna spesso, come il sentimento di un piano di Dio a suo riguardo. Per accettare il battesimo che il padre le ofre con grande generosità, deve aspettare di “averne ricevuto l’ordine” e di sentirsi irresistibilmente spinta a farlo. Ritenendosi eletta, rivendica un rapporto diretto con Dio, seguendo l’esempio di quello che san Paolo scrive nella lettera ai Galati; l’eletto non ha bisogno delle mediazioni solite. A questo riguardo, si ricordi l’impertinenza che traspare da quello che Simone Weil scrive in una delle lettere all’amico domenicano: “Lei non mi ha portato né l’ispirazione cristiana né il Cristo: quando l’ho incontrata, infatti, questo non rimaneva più da fare.”

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Chi, come Simone Weil, ha ricevuto la grazia “straordinaria” di una rivelazione “si crede risolutamente un passo avanti a tutti gli altri, avendo come unica garanzia la propria rivelazione”, correndo così “il rischio di scambiare un monologo interiore per un dialogo con Dio”.1 Occupa, di conseguenza, una posizione preminente. Nell’ultima sezione Amore implicito e amore esplicito del saggio sulle Forme dell’amore implicito di Dio, Simone Weil, dietro alla copertura di una inta neutralità, rievoca sei volte nel corso di poche pagine “l’avventura di Elettra”, cioè “il contatto diretto tra l’anima e Dio”. Qui aiora la tentazione dell’orgoglio. D’altra parte Simone Weil ne era cosciente dato che ammette, in una lettera a padre Perrin, di avere “la folle presunzione di accettare che si possa essere delle eccezioni”. Nella lunga lettera scritta da Londra a Maurice Schumann, il tema della sua particolare vocazione torna con grande insistenza. Pare che il suo corrispondente avesse reagito supponendo un’affettazione di santità. Ancora una volta, si nota l’aioramento di una sopravvalutazione di sé. 2. una volontà di farsi da parte troppo marcata. Colui (o colei) che crede di aver ricevuto “una visita personale dal suo maestro” non può che sperimentare la propria indegnità al cospetto di tanta grazia e pertanto sente il dovere di adottare una strategia di abbassamento. L’abbandono della propria volontà e l’annichilimento dell’“io” furono aspramente ricercati da Simone Weil. In risposta alla follia d’amore di Dio che, creando il mondo, consente di ridurre la sua potenza, dà a questa operazione di distacco il nome di “discreazione”. Creando questo vuoto, Simone Weil esprimeva un pensiero sublime, che consisteva nel voler sparire “perché le cose che vedo, non essendo più le cose che io vedo, divengano perfettamente belle”.2 Creazione e Creatore potranno allora “scambiarsi i loro segreti”. Ciò signiicava nutrire la speranza di avere accesso a questa presenza nuda, luminosa e atemporale di cui

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parlano gli ultimi versi della poesia La porta. Si nota anche l’inluenza manifesta del pensiero del tao. Ma la ricerca del “niente” nel distacco (l’Abgescheidenheit di Eckhart) di questa ilosoia vicina al pensiero dei mistici renani, su cui tanto amava rilettere, non può far dimenticare che si mantiene l’“io” in una condizione di preminenza: non ci si mette da soli all’ultimo posto; solo gli altri possono assegnarcelo. Questo gusto per l’autoannientamento, la ricerca continua e ostentata dell’ultimo posto, l’umiltà rivendicata con ardore, non potevano non attirare l’attenzione di numerosi pensatori che rivolsero all’indirizzo della giovane ilosofa delle attestazioni di stima, certo, ma non prive di ironia. Stanislas Breton, nell’articolo titolato Simone Weil l’Admirable (un’allusione evidente a Ruysbroeck l’Ammirabile),3 si lascia sfuggire che la ilosofa “teneva alla sua lucidità più ancora che al suo fervore”. Stessa campana con Jean Guitton, il quale, in un articolo sul “Le Figaro”, dice che Simone Weil era della “razza degli eroi”, prima di aggiungere: “Per appartenere a quella dei santi, forse le mancava un po’ di tenerezza verso se stessa, un po’ meno anarchia, un po’ meno orgoglio per la sua umiltà.” Nella prefazione a un piccolo libro che Marie-Madeleine Davy dedicò a Simone Weil nel 1956 per le Éditions universitaires, Gabriel Marcel andava dritto al punto. Scandalizzato dal riiuto di Simone Weil dell’eredità di Israele, la rimproverava di non rendersi conto di tutto quello che la separava dai Greci, e cioè “il senso dell’eccesso, la passione per la trascendenza, un’umiltà al limite dell’odio verso di sé – e dunque l’orgoglio”. Umiltà, odio di sé, orgoglio: in queste tre parole sta la chiave degli errori, imbarazzanti e anche gravi, che hanno avuto come efetto quello di indebolire la testimonianza oferta dalla vita e dal pensiero della ilosofa.

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Il rifiuto del giudaismo Il violento riiuto del giudaismo da parte di Simone Weil si esprime in diversi modi. Come si è visto c’è un riiuto per l’Antico Testamento, ma anche delle proprie origini e del fatto stesso di essere ebrea. Le giustiicazioni che ha dato di tale odio non sono accettabili e nella maggior parte dei casi sembra voglia solo aggirare quello che a lei sembra un ostacolo. L’esempio più eclatante del malessere generato da queste scappatoie che poggiano su ragionamenti maliziosi si trova in una lettera, scritta da Tolosa durante l’esodo dell’agosto 1940, a una vecchia allieva del liceo di Roanne, Huguette Baur, che aveva oferto un alloggio a lei e ai suoi genitori in una proprietà di famiglia. Commossa, ma risoluta, Simone Weil riiuta. Il nucleo dell’argomentazione che sviluppa può essere riassunto dalle poche righe che seguono: dopo aver evocato l’imminenza “di una forma più o meno accentuata di razzismo”, scrive: “In un caso simile, mi troverò nel novero dei paria. Tutto sommato, mi rincresce: è stupido sofrire per qualcosa che non si è scelto e a cui non si è legati. Ma, in deinitiva, così andranno le cose. E io non ho alcun modo per sottrarmi a ciò.”4 Dalla lettura molto acuta di Joël Janiaud dei paradossi e delle ambiguità contenute in questa afermazione, si può trarre questa conclusione: “Simone Weil si tiene contemporaneamente nella comunità ebraica e al di fuori di essa, con uguale determinazione.”5 Aggrava il suo caso qualche mese più tardi, mentre si trova a Marsiglia, in una lettera a Boris Souvarine, a cui aida queste afermazioni stravaganti, in merito alle tesi sostenute da Charles Autran su degli argomenti linguistici: “Se credessi di discendere dai Fenici, avrei una coscienza di razza e rivendicherei con vigore la superiorità di questa razza. Invece sono paralizzata dalla consapevolezza che mi si accusa [per via delle leggi di Vichy] di discendere da genti che non hanno dato contributo migliore all’umanità di Jehovah.”6

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Com’è possibile poi non mettere in conto a Simone Weil la recensione (mai stampata), scritta all’inizio del suo periodo londinese, di un lungo articolo della rivista di estrema destra dell’OCM7 “Les Cahiers. Études pour une révolution française”? Questo articolo riguardante gli Ebrei francesi, sul fascicolo datato giugno 1942, è ignominioso e fa sobbalzare il cuore. Lei non lo smentisce. Raymond Aron, con cui si era intrattenuta a Londra e che probabilmente conosceva questo testo, ne fu scioccato e non riuscì a giustiicarla: “La sua intenzione, fosse anche posta a condizioni, di proibire i matrimoni non misti per eliminare l’ebraismo equivale a volere un etnocidio.”8 Tra le numerose recensioni di George Steiner per la rivista “The New Yorker”, una in particolare, scritta nel 1992, è dedicata all’opera di Thomas R. Nevin, Simone Weil. Portrait of a Self-exiled Jew, che era stata pubblicata da poco. La recensione, che si intitola Bad Friday,9 è severa ma vicina alla verità. Il grande critico ammira la ilosofa: “Simone Weil fu, indubbiamente, la prima donna tra i ilosoi.” Poi, nella conclusione, aggiunge: “Fu anche una schlemihl trascendente.” Questa parola, che in yiddish si riferisce a un individuo sventurato, sembra in efetti adattarsi bene alla storia di chi ha riiutato la sua ebraicità con pervicacia e violenza, non è riuscita a inserirsi nella rete di France Libre a Londra ed è morta sola e in condizioni miserevoli in un ospedale del Kent. Non può che venire in mente il famoso racconto di Adelbert von Chamisso, Peter Schlemihl, l’uomo che aveva perduto la sua ombra. Anche questa giovane donna, infatti, aveva perduto la sua. Nello stesso articolo, George Steiner giudica “lunga e disorientante” la storia dell’odio di sé ebraico. Il paragone che compie con Wittgenstein, che a sua volta riiutava la sua ebraicità, è molto istruttivo. Più istruttiva ancora la vicinanza che scopre con Kafka (“un altro cugino sospetto”), sottolineando una comune rettitudine analitica, simili scrupoli logici e una stessa compassionevole indagine. D’altra parte, vede in loro “lo sfruttamento di qualche vena di follia”. La parola può intimorire, ma non può

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che ricordare l’osservazione di Simone Weil, nella penultima lettera che trova la forza di scrivere ai suoi genitori il 4 agosto 1943 (qualche giorno prima della sua morte), a proposito dei folli di Velásquez: “Sappiamo bene che una grande intelligenza è spesso paradossale, e talvolta un po’ stravagante…” Su questo argomento – non c’è alcun dubbio – Simone Weil è stata stravagante nel senso peggiore.

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Il personaggio, la scrittura

Un personaggio dai tratti marcati Ciò che più ha colpito tutti quelli che hanno conosciuto Simone Weil è stata l’altezza della sua anima e del suo spirito. Un’altezza che dava le vertigini. L’estraneità che le veniva riconosciuta aveva l’efetto di allontanare gli spiriti che non erano del suo livello. La si temeva. Ma quando prendeva la parola, il brusio fra il pubblico spariva e la si ascoltava. Oltre alla sua straordinaria forza intellettuale e all’implacabile onestà delle sue analisi, emanava una forza quasi sovrumana. Bisogna ricordare – come è già stato fatto molte volte, ma è utile ripeterlo – la sua rudezza, l’intransigenza, la radicalità. Era inlessibile nei suoi propositi e la sua forza di volontà intimoriva. Non avendo premura di piacere, non aveva riguardi per nessuno e sapeva essere ofensiva, soprattutto nei primi tempi della sua vita da intellettuale impegnata. Il suo contemporaneo Claude Jamet, già citato in precedenza, usa delle espressioni molto suggestive a questo proposito: “Fa tutto a pezzi con una parola; si fa strada in mezzo a un massacro di idoli e di idee.” Aggiungiamo a questo ritratto una invincibile libido sciendi. Cercava di sapere tutto, di far suo tutto ciò che poteva essere compreso e padroneggiato servendosi di tutti gli strumenti oferti dalla cultura del tempo, con un’avidità intellettuale per la conoscenza che non escludeva uno sguardo inquisitore in grado di attraversare le vite degli altri e attingervi risorse per

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il proprio pensiero. Era uno sguardo che poteva turbare: penetrava ogni segreto. Era un essere impetuoso e appassionato, alimentato da un fuoco interiore, e quindi non privo di violenza. Questa parola, anzi, identiica una delle principali caratteristiche della sua personalità (ma non tutte). Dopo avere imboccato il “passaggio” con il quale si sarebbe chiusa la prima tappa del suo percorso, perdette buona parte di questa asprezza. Divenne più dolce, e anche capace di tenerezza. Ma non per questo il fuoco della sua intelligenza smise di bruciare. Rilegge i classici greci: Platone, certo, ma anche i grandi tragici (oltre a riscoprire i presocratici, come Eraclito e un famoso frammento orico). Com’era lecito aspettarsi, si concentra sul mito della caverna nella Repubblica e su quello dell’anima alata nel Fedro, in particolare commenta lo strazio dei prigionieri nel tentativo di risalire e uscire dalla caverna e le mille torture cui vengono sottoposte le anime che cercano di elevarsi al di sopra del cielo. Queste considerazioni erano destinate a chi, nella cripta del convento dei domenicani a Marsiglia, veniva a seguire le conferenze che in seguito avranno come titolo – che rende perfettamente il senso della sua indagine sulle cose divine – Dio in Platone. La violenza è presente in ogni passaggio dei testi da lei commentati. “La conversione è un’operazione violenta e dolorosa, uno strappo, e […] implica un’irriducibile quantità di violenza e di dolore da cui non si può detrarre nulla”, scrive a proposito dei prigionieri della caverna. Così, quando nel febbraio del 1942 si cimenta nella traduzione dei versi 173-183 di uno dei cori dell’Agamennone di Eschilo nel Quaderno VIII, si soferma sull’espressione “charis biaios” e dopo qualche diicoltà la traduce, grazie alla forza e al genio che le vanno riconosciuti, con “grazia fatta di violenza”.1 Molte delle peculiarità che le possono essere attribuite vanno ricondotte alla sua ebraicità, che tuttavia lei riiutava furiosamente. Si possono riconoscere, come hanno fatto alcuni, un certo accanimento nella lotta, la capacità di difendere tenacemente un

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punto controverso, mettendo ogni cosa in discussione (anche se detestava il pilpoul talmudico2). Tuttavia, è giusto sottolineare il suo legame per eredità materna alle tradizioni chassidiche dell’Europa centrale. La sua carità fervente, un’empatia rara verso gli umili e gli umiliati, la propensione ad ascoltare, come provenisse dalla notte dei tempi, il lamento che deve dare testimonianza della razza degli uomini sventurati, il patrocinarne con forza le istanze, sono tutti aspetti che vanno in questa direzione. L’amore per il prossimo, certo; ma anche un amore di Dio molto precoce, che però non si riconosce come tale. Jean Hyppolite, che fa parte della stessa annata alla Normale (1924) di Raymond Aron, Jean-Paul Sartre e Georges Canguilhem, e che era di poco più vecchio di Simone Weil, ha reso in modo impeccabile questo fervore. Era il 1925 e Simone Weil frequentava il corso di preparazione letteraria: “Come dimenticare i momenti in cui parlava di Spinoza? C’era una sorta di ebrezza di Dio, nella scoperta di Spinoza, una passione per l’assoluto che per lei era fondamentale.”3 Inoltre c’era qualcosa di profetico in questa giovane iglia d’Israele che aveva la vocazione di fare ascoltare la verità muta di tutti, e che era muta proprio in virtù di uno squilibrio di fondo. Una igura dell’eccesso, insomma.

Lo stile, la scrittura È stupefacente il contrasto tra il freno che si impone nella scrittura e l’ammirevole slancio che la anima. Nei suoi scritti, Simone Weil si dimostra estranea a ogni forma di retorica, come a ogni tentativo di fare efetto o cercare successo. Non è che sia insensibile alla bellezza della letteratura – la lettura di poeti come Villon, Maurice Scève e Théophile de Viau suscita in lei un piacere intenso –, ma non accetta di farsi imbrigliare dalla compiacenza in cui indulge troppo spesso la letteratura. Non cerca mai l’eloquenza. Per parlare della scrittura di Simone Weil conviene distinguere due periodi: quello degli anni di militanza e quello del

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“grande passaggio”, che la portò a un altro modo di pensare e dunque di scrivere. Già ai corsi di preparazione letteraria, nel “topos” che consegna al “maestro”, usa un linguaggio molto astratto, secco e rude; lo stesso Alain le rimprovererà questa aridità. Seguiranno i numerosi articoli che farà pubblicare nelle riviste “impegnate”, che oggi verrebbero dette di sinistra o di estrema sinistra. Questi esibiscono lo stesso tipo di scrittura perentoria ed estemporanea di cui non si può che ammirare la forza d’urto. Riferendosi al grande saggio redatto da Simone Weil nel 1934, le Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Huguette Bouchardeau usa un’espressione particolarmente forte: secondo lei, “Simone Weil fa un’incisione della società degli anni trenta.”4 Con la seconda fase del suo percorso, si rimane colpiti dalla trasparenza e dalla sobrietà della scrittura della ilosofa, così come dalla densità e dalla tensione che non si allenta mai. Con una padronanza assoluta del modo di argomentare e un uso preciso del linguaggio che danno voce a un pensiero perfettamente articolato, tende a una perfezione che potrebbe essere accomunata a quella dei grandi classici, se non fosse per una certa pesantezza dovuta a uno sforzo estremo d’esattezza. Questo aspetto è confermato dalla testimonianza di alcune delle sue allieve riguardo al suo modo di insegnare. La sua voce era neutra, persino spenta. Parlava lentamente, ma si sforzava di scegliere con cura le parole. Si deve anche, per analogia, mettere in parallelo il solco tracciato della sua scrittura, così incredibilmente netto e regolare, adottato dai primi mesi del corso di preparazione letteraria dopo un rimprovero che le aveva mosso Alain, e che non subirà alcuna evoluzione ino agli ultimi mesi della sua vita. Una “voce” e un tracciato immediatamente riconoscibili. Questo stile molto puro che impara a far suo, con il tempo acquisisce una certa lessibilità. Le frasi incedono in ampie gettate che fanno pensare a delle cadenze claudéliane (da studente leggeva e apprezzava l’autore de La sciarpina di raso). Talvolta,

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la sua scrittura si avvicina alla poesia, dato che il ritmo riesce a rendere un accento ammaliante, non assillante e anzi piuttosto avvincente. Ciò nonostante, quando Simone Weil difende un’idea a cui tiene, per convincere adotta il suo stile degli inizi. Un esempio è dato da alcuni scritti a carattere politico, come la Nota sulla soppressione generale dei partiti politici, scritta a Londra nel 1943 e pubblicata nel n. 26 de “La Table ronde”, nel febbraio del 1950. Queste pagine risvegliarono nel suo vecchio maestro Alain lo spirito mordace del professore che era stato. Reagì alla Nota due mesi dopo nella stessa rivista: “Ecco un articolo pieno di fuoco, scritto come col piccone.” Ed elogia quelle “frasi dirette, istantanee, che battono più volte sullo stesso punto”. Lo stesso avviene ne La persona e il sacro in cui, partendo da una petizione di principio basata su una convinzione indimostrabile (e cioè che dentro ogni uomo c’è qualcosa di sacro), Simone rimischia le carte una dozzina di volte cambiando i punti di attacco. Qui si può notare la ricerca di un certo efetto, indubbiamente con l’unico scopo di costringere il lettore ad ascoltare il suo appello – cosa che, dopo la lettura de La prima radice, portò Claude Jamet a scrivere negli appunti del suo diario citati in precedenza: “Manca solo la genialità dello stile; ma chi ci fa caso? Lei ha lo stile del genio.” L’unione in uno scrittore di due modi di sentire, di percepire e di esprimere, che uniscono freddezza (dei ragionamenti implacabili) e passione (un’ironia a volte pungente, un “vibrato” colmo di compassione), fa di questa ilosofa un essere inclassiicabile, addirittura impossibile secondo alcuni. David Tracy è arrivato a dire, in una conferenza tenuta alla Bibliothèque Nationale de France nel 2009, 5 con una formula di grande impatto nella sua concisione: “Simone Weil, eccessiva come persona, misurata come pensatrice.”

Conclusione

Questa avventuriera del pensiero, che può essere facilmente paragonata a un’atleta tanto furono eicaci gli esercizi che si impose, ha cercato delle chiavi via via sempre più adatte per tentare di capire sia se stessa che il mondo, e per cercare di pensare Dio. Non cerca di lavorare per far saltare il chiavistello dell’inintelligibile. La sida all’impossibile è una nozione cruciale per capire il suo pensiero. È per lei una forza ascendente (o un “principio di ascensione”) che “getta nella trascendenza”. Pertanto, il lavoro di laboratorio si distingue poco dall’esercizio spirituale per come lo intendevano gli autori dell’Antichità, come ha magistralmente dimostrato Pierre Hadot. Con una inezza psicologica eccezionale e una non meno notevole fermezza dello sguardo, ha colpito con il suo scalpello i cardini dei comportamenti, stanando le ambiguità, ribaltando i giudizi comuni, facendo apparire in piena luce le grandezze e le miserie della specie umana, raramente distribuite secondo l’opinione comune. Battendosi con le idee, ma anche contro di esse, Simone Weil non conobbe mai serenità d’animo e toglieva il sonno a chiunque frequentasse (“Si aidava a pensieri che mi toglievano il sonno”, arriva a dire Joë Bousquet). È una igura scomoda che non può lasciare indiferenti. Una cosa è certa: non smetterà mai di suscitare in chi la legge, l’ha letta o la leggerà, delle reazioni contraddittorie e spesso violente: sia un’ammirazione che sfocia nell’idolatria, sia, all’opposto, un odio portato all’estremo. Un punto sul quale tutti possono essere d’accordo è la purezza del suo sguardo: non c’è nulla di vile né di mediocre in lei. La sola

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conclusione

forza di Simone Weil è la virtù di cui parlava già a 16 anni, nel primo “topo” consegnato ad Alain sul Racconto dei sei cigni in Grimm: “La sola forza in questo mondo è la purezza.” Avrebbe voluto abbeverarsi di luce, nutrirsi di essa. Ci riuscì quasi. In questo sta il segreto della sua vita e della sua morte. Lo spirito respira nei suoi scritti un’aria pressoché pura. Durante un’estate sulle colline dell’Ardèche, Gustave Thibon sorprese lo sguardo di Simone Weil che contemplava sotto di sé lo splendore della valle del Rodano e il maestoso Ventoux di fronte a lei. Era radiosa. I suoi occhi avevano visto la bellezza. Come assente da sé, cieca e assorta, era diventata lo specchio in cui veniva rilesso lo splendore che stava contemplando. La presenza di questa grande ilosofa, che fu allo stesso tempo una mistica, s’impone. Il suo sguardo proietta sulle ombre tormentate del nostro tempo una luce violenta.

Cronologia

1909

3 feùùraio

Nasce a Parigi.

1925

ottoùre

Entra in prima superiore al liceo Henry-IV. Diventa allieva di Alain

1928

ottoùre

Entra all’École Normale Supérieure in rue d’Ulm.

1930

luglio

Discute la tesi per il diploma di studi superiori (Scienza e percezione in Descartes).

1931

luglio

Arriva settima al concorso per accedere alla facoltà di ilosoia.

settemùre

Istaura rapporti con i militanti de “La Révolution prolétarienne”.

ottoùre

Comincia la carriera da insegnante nel Puy. Conosce Urbain e Albertine Thévenon, istitutori e sindacalisti.

luglioagosto

Viaggio in Germania.

ottoùre

Chiamata al liceo di Auxerre.

novemùre

Conosce Boris Souvarine.

25 agosto

Viene pubblicato l’articolo Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?

ottoùre

Chiamata al liceo di Roanne.

giugno

Chiede un “congedo per studi personali”. Scrive la sua “Grande Opera”, le Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale.

4 dicemùre

Entra come operaia addetta alle presse in una fabbrica di Alsthom.

1932

1933

1934

90 1935

1936

1937

1938

1939

1940

cronologia agostosettemùre

Viaggio in Portogallo. Prima esperienza a carattere religioso.

ottoùre

Chiamata al liceo di Bourge.

dicemùre

Visita le fonderie di Rosières. Conosce Victor Bernard, direttore tecnico.

giugno

Inizio del Fronte Popolare.

agosto

Si reca in Spagna. Si ustiona gravemente una gamba a causa della sua gofaggine.

settemùre

Ottiene un congedo di tre mesi che verrà prolungato ino alla ine dell’anno scolastico.

feùùraio

Conferenza sulla razionalizzazione del lavoro (taylorismo).

aprile

Scrive per i “Nouveaux cahiers”, fondati di recente.

aprile-giugno

Primo viaggio in Italia.

estate (?)

Meditazioni sull’obbedienza e la libertà.

settemùre

Assiste al congresso dei matematici del gruppo Bourbaki, a Chançay.

ottoùre

Chiamata al liceo di Saint-Quentin ma, sinita e alitta da atroci emicranie, abbandona il posto a gennaio.

aprile

Segue gli uizi della Settimana Santa all’abbazia di Solesmes. Scopre i poeti metaisici inglesi.

maggio

Secondo viaggio in Italia.

verso novemùre

Esperienza mistica.

marzo

Abbandona le sue posizioni paciiste.

autunno

Scrive Le origini dell’hitlerismo e L’Iliade, o il poema della forza.

feùùraiomarzo

Fitta corrispondenza con suo fratello, accusato di renitenza e incarcerato nell’Havre, poi a Rouen.

cronologia 13 giugno

I Weil lasciano Parigi. Esodo attraverso la Francia.

15 settemùre

Arriva a Marsiglia. Difonde i Cahiers du témoignage chrétien.

1941

1942

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giugno

Incontra padre Perrin, che le fa conoscere Gustave Thibon.

agosto

Ospite da Gustave Thibon.

18 ottoùre

Lettera a Xavier Vallat.

novemùre

Rilessioni a proposito della teoria dei quanta.

marzo

Scrive, per il numero speciale dei “Cahiers du Sud”, Le Génie d’Oc et l’homme méditerranéen, L’ispirazione occitana.

fine marzo

Incontra Joë Bousquet a Carcassonne.

2-5 aprile

Segue gli uizi della Settimana Santa all’abbazia di En-Calcat.

fine aprile

Aida i suoi Quaderni a Gustave Thibon.

aprile-maggio

Lavora intensamente. Scrive un numero impressionante di saggi.

4 maggio

Si imbarca per New York.

6 luglio

Arriva a New York.

metà settemùre

Prima stesura della lettera a padre Couturier.

metà settemùre-novemùre

Riprende a scrivere quotidianamente su alcuni Quaderni.

10 novemùre

Lascia gli Stati Uniti diretta a Londra, dove è assegnata alla direzione degli Interni come redattrice.

1943

Tenta invano di farsi mandare in missione in Francia. Scrive il saggio che sarà poi conosciuto come La prima radice. 26 luglio

Abbandona le sue funzioni.

92

cronologia 17 agosto

Viene trasferita al sanatorio di Ashford.

24 agosto

Muore per uno scompenso cardiaco all’età di 34 anni.

Note

1. Un’educazione inellettuale 1 Queste notizie biograiche provengono dall’opera di Sylvie Weil,

iglia di André Weil e nipote di Simone Weil, intitolata Chez les Weils. André et Simone, Buchet-Chastel, Paris 2009. 2 Œuvres, Gallimard, Paris 1999, p. 769, d’ora in avanti Œ. Si veda la Bibliograia, p. 101. Per la versione italiana si veda Autobiografia spirituale, in Sala M.C. (a cura di), Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 25. 3 Ibid.

2. Il pensiero come vocazione 1 Abbiamo ampiamente preso spunto dall’opera più importante di

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Sirinelli J.-F., Génération intellectuelle. Khâgneux et normaliens dans l’entre-deux-guerres, Fayard, Paris 1988. Il decreto di Léon Bérard sull’uniformità dell’istruzione secondaria maschile e femminile risale al 25 marzo 1924. Esso consentiva alle ragazze di accedere ai corsi di preparazione letteraria, ma non avevano ancora diritto a entrare all’École Normale Supérieure in qualità di allieve. Potevano concorrere solo per delle borse di licence. [Fondato da R. Queneau e da F. Le Lionnais nel 1960, l’Oulipo, acronimo per Ouvroir de littérature potentielle (“Opiicio di letteratura potenziale”) fu un gruppo composto per lo più da scrittori e matematici che si occupò di esplorare le potenzialità creative della letteratura a partire dalle sue regole formali, o costrizioni N.d.T. Aron R., Mémoires, Julliard, Paris 1983, p. 38. Cahiers Simone Weil, d’ora in poi CSW, t. XXIV, n. 1, mars 2001, p. 3. Rencontre de Simone Weil et d’Alain, in Alain, philosophe de la culture et théoricien de la démocratie, Association des amis d’Alain, Paris 1976, p. 183. Si può trovare questa afermazione per la prima volta nel testo di

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note

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presentazione del convegno di Cerisy, “Vigueur d’Alain, rigueur de Simone Weil” (21 luglio-1 agosto 1974). È stato poi ripreso in Alain, philosophe de la culture et théoricien de la démocratie, cit., p. 12. Sirinelli, Génération intellectuelle. Khâgneux et normaliens dans l’entre-deux-guerres, cit., p. 494. [Con questa parola, derivante dal vero nome di Alain, Émile Chartier, si intendono i suoi allievi della prima ora e il gruppo di amici che ne condividevano le idee, tutti impegnati a difondere le sue idee nei Libres Propos, N.d.T. Aron, Mémoires, cit., p. 43 (con un’evidente allusione all’opera Le Citoyen contre les pouvoirs) e p. 58. Pétrement S., La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, pp. 71-72.

3. Difendere “quelli di sotto” 1 Weil, Lettera a Georges Bernanos, in Pagine scelte, Marietti, Ge-

nova 2009, p. 148. 2 In Lettres de Simone Weil à Louis Bouët, introduzione di L. le

Bars, in CSW, t. XXXII, n. 4, dicembre 2009, p. 439. 3 Per queste considerazioni, ci siamo basati sull’articolo importan-

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te e molto completo di P. Rolland, Simone Weil et le syndacalisme révolutionnaire, in Jacquier C. (a cura di), Simone Weil. L’Expérience de la vie et le travail de la pensée, Sulliver, Arles 1998, pp. 69-101. Si veda la presentazione di Jacquier, Lettres de Simone Weil à Boris Souvarine, cit., p. 31. CSW, t. XXXII, n. 4, dicembre 2009, p. 436. CSW, t. V, n. 1, marzo 1982, p. 3. Rolland, Simone Weil et le syndacalisme révolutionnaire, cit., p. 76. Lettres de Simone Weil à Louis Bouët, cit., p. 426. Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., p. 264. E ino al 1943. Infatti, ne La prima radice, Simone Weil ha accostato esplicitamente l’hitlerismo ai metodi di conquista e di dominazione coloniale. Gérard V., Simone Weil, L’Enracinement, décolonisation, nel numero speciale della rivista “Esprit”, Simone Weil, notre contemporaine, agosto-settembre 2012, pp. 52-68. Les nouvelles données du problème colonial dans l’empire français, in Essais et combats, n. 2/3, dicembre 1938. [N.d.T., per l’edizione italiana, cfr. Weil, «I nuovi aspetti del problema

note

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coloniale nell’Impero francese», in Id., La colonizzazione e il destino dell’Europa, a cura di Ombrosi O., Marietti, Genova 2009] 12 Nella recensione del saggio di Lenin precedentemente citata, Simone Weil ribadisce che: «Descartes aveva formulato il progetto di una scuola di arti e mestieri in cui ogni artigiano avrebbe appreso a rendersi conto di tutti i fondamenti teorici del proprio mestiere; in questo modo, sul piano culturale, dimostrava di essere più socialista di tutti i discepoli di Marx» (Œuvres complètes, d’ora in poi: OC, t. I, vol. 1, p. 309). 13 Corsivo mio.

4. Un lento passaggio verso la trascendenza 1 [O, come viene chiamato oggi, Alstom: importante gruppo indu-

striale francese che opera nel settore ferroviario, N.d.T. 2 Io, lo scortese e ingrato […]/ Amore mi prese la mano e sorriden-

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do rispose:/ E chi fece gli occhi se non io?, si veda Herbert G., Amore, in Campo C., La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, p. 173. Weil, Autobiografia spirituale, cit., p. 29. Ibid., p. 33. Con un’analoga rilessione conclude il poema in prosa intitolato Prologo, che chiude il Quaderno XI, l’ultimo della serie di Quaderni aidata a Gustave Thibon qualche giorno prima di lasciare la Francia. Una comune vena poetica e mistica attraversa la poesia di Herbert e quella di Simone Weil. Ancora inedita. Una versione rimaneggiata di questo saggio, titolata Il Dualismo in Platone, negli gnostici e nei manichei, venne pubblicato da Gallimard nel 1946. Le sue fonti su questo argomento si trovano principalmente nell’opera di Boulanger A. (Orphée. Rapports de l’orphisme et du christianisme, Rieder, Paris 1925), che è stata trovata nella sua biblioteca. Il saggio è ben fatto, ma lavori recenti smentiscono in parte le sue tesi. M. Cacciari, Platonismo e gnosi. Frammento su S. Weil, “Paradosso”, 1, 1992, 125-32. CSW, t. X, n. 2, giugno 1987, pp. 101-38. Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 168. Su questo argomento si veda Y a-t-il une doctrine marxiste?, [1943], in Oppression et liberté, Gallimard, Paris 1955, p. 232. Rinunciare alla rivoluzione non vuol dire rinunciare alla rivolta.

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note In un articolo del 1938, Sulle contraddizioni del marxismo, Simone Weil parla di “questo spirito di rivolta che, nello scorso secolo, brillava di luce propria nel nostro Paese”, ed elogia “l’idealismo elevato, lo spirito quasi ascetico dei gruppi socialisti all’inizio del XIX secolo” (in Incontri libertari, trad. it. Zani M., Elèuthera, Milano 2001, pp. 90-91). Œ, p. 494. Weil, Quaderni I, a cura di Gaeta G., Adelphi, Milano 2004, p. 144. [“Nouvelle Revue Française”, N.d.T. [In italiano nel testo originale, N.d.T. “Non avendo potuto rispondere al richiamo nel settembre del 1939, venne arrestato a Helsinki con l’accusa di essere una spia dei russi, poi fu condannato alla fucilazione, trasferito in Svezia, in Danimarca, in Inghilterra, per inine essere riportato in Francia alla ine del gennaio del 1940. Ha raccontato le sue peripezie nei Ricordi di un apprendistato.” Questo il racconto di sua iglia, Sylvie Weil, nell’opera citata in precedenza (Chez le Weil…). Weil, L’ispirazione occitana, in Pagine scelte, cit., p. 173. L’Iliade o il poema della forza, in Sala M.C., Gaeta G., La rivelazione greca, Adelphi, Milano 2014, p. 44. Nell’edizione delle Opere, Adriano Salani Editore, Firenze 1935. [Nicolas Bourbaki è uno pseudonimo dietro al quale un gruppo di matematici principalmente francesi, dal 1935 al 1983, si occupò di difondere le principali teorie riguardanti la matematica moderna attraverso pubblicazioni e congressi, N.d.T. [Con “strana guerra” si intende l’intervallo che va dalla campagna di Polonia all’avvio della campagna di Francia, quindi dal settembre del 39 al maggio del 40, segnato da un periodo di sospensione delle operazioni militari, N.d.T. Weil S. e A., L’arte della matematica, a cura di Sala M.C., Adelphi, Milano 2018, p. 73. Mania è un termine utilizzato nei rituali misterici degli antichi Greci che parlano di una trance o di un delirio simile a una specie di follia. Dio in Platone, cit., p. 85. L’homme et la machine. Autour du “Grand Œuvre”, in Cahiers Simone Weil, numero speciale, t. XXI, n. 1-2, marzo-giugno 1988, pp. 1-20. Œ, pp. 967-70. [Con il termine Débâcle (Disfatta) i francesi si riferiscono alla disastrosa sconitta del loro esercito contro le truppe tedesche, nel maggio-giugno del 1940, N.d.T.

note

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5. I Quaderni 1 Altri interessi – molto forti – si aggiunsero a questa passione do-

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minante: il pensiero indiano, di cui impara i rudimenti grazie a René Daumal, studente con lei all’Henri-IV e ora ritrovato a Marsiglia, e il buddismo zen, a cui si era avvicinata attraverso gli Essays in Zen Buddhism di Daisetz Teitaro Suzuki, di cui lo stesso Daumal tradusse le Second Series. Si entusiasmò anche per il numero speciale della Génie d’Oc, che entra in quel periodo nella sua fase di elaborazione più intensa e, di conseguenza, per il catarismo, di cui si parla molto nei “Cahiers du Sud”, rivista che è il punto d’incontro di tutti gli intellettuali rifugiati nella città focese. Weil, Rilessioni a proposito della teoria dei quanta, in Sulla scienza, trad. it., Cristadoro M., Torino, Borla, 1971, p. 173. Ibid., p. 160. Ibid., p. 171. «Sul fondamento di una scienza nuova», ibid., pp. 223-28, in particolare p. 225. Fatta eccezione di un primo quaderno iniziato a scrivere prima della guerra, che aveva etichettato con un “Non conta” e che essenzialmente accompagnava la redazione delle Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Un’opera utile, sicuramente, e costantemente rieditata, malgrado le mancanze di questo modo di procedere. La cronologia è assente. Ma il pensiero di Simone Weil non è isso, si arricchisce nutrendosi di stimoli continui. D’altra parte, non si conosce il contesto che vide nascere questi aforismi. In condizioni simili, è molto probabile mancarne le sfumature e il vero signiicato. Hersch J., Éclairer l’obscur. Entretiens avec Gabrielle et Alfred Dufour, L’Âge d’Homme, Lausanne 1986, p. 78. Œ, p. 979. de Lussy F., L’image chlorophyllienne de la grâce chez Simone Weil, “Spazio ilosoico”, 17, 2/2016, 337-49. È il titolo, come si ricorderà, che Gustave Thibon ha dato alla sua selezione di annotazioni prese dai Quaderni, pubblicata nel 1947 presso Plon. Nonostante la bontà dell’impresa, rimane il fatto che un rapporto più diretto con quell’opera monumentale che sono i Quaderni è preferibile e, soprattutto, più piacevole: così è possibile seguire i veri collegamenti del suo pensiero. Weil, La prima radice, Comunità editrice, Roma 2017, p. 200. Dal XIII al XVII, in Weil, Quaderni IV, cit., pp. 49-360. Ibid., p. 382.

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note

6. Verso la pura speculazione 1 OC, t. VI, vol. 3, pp. 54-55. 2 Nozione concepita dai matematici greci per esprimere i rapporti e

le proporzioni. 3 In Weil, Écrits de Marseille II, in OC, t. IV, vol. 2, p. 464. 4 Il titolo non è suo, ma riesce comunque a far capire perfettamente

lo stato dei suoi progetti di allora. 5 Weil, A proposito della dottrina pitagorica, in La Grecia e le in-

tuizioni precristiane, trad. it. Harwell Pieracci M., Campo C., Rusconi, Milano 1974, p. 240. 6 S. Weil, Quaderni IV, cit., p. 118. 7 Weil, A proposito della dottrina pitagorica, cit., p. 277 e p. 282. 8 Weil, Attesa di Dio, cit., p. 58.

7. Una strana cristiana 1 Weil, Lettera a un religioso, opinione 7, a cura di Gaeta G., Adel-

phi, Milano 1996, p. 22. 2 Weil, Quaderni, IV, cit., p. 164. 3 von Balthasar H.-U., Théologie de l’histoire, trad. fr. Givord R.,

Parole et Silence, Paris 2003, p. 100. 4 Weil, Lettera a un religioso, opinione 14, cit., p. 42. 5 L’amore di Dio, trad. it. Bissaca G., Cattabiani A., Borla, Roma 1979, p. 226.

8. Tra la sventura e la gioia 1 Weil S., Bousquet J., Corrispondenza, SE, Milano 1994, p. 33. 2 Ibid., p. 40. 3 Weil, L’amore di Dio e la sventura. Appendice agli scritti, in At-

tesa di Dio, cit., p. 250. 4 Lettera a padre Perrin: “Talora già le prime parole strappano il

mio pensiero dal mio corpo per trasportarlo in un luogo fuori dello spazio, dove non c’è né prospettiva né punto di vista. Lo spazio si apre” (in Attesa di Dio, p. 32); a Joë Bousquet: “Quando il guscio è rotto, quando l’essere è uscito […]. Lo spazio si è aperto e squarciato. Lasciando il corpo miserabile abbandonato in un angolo, lo spirito viene trasportato in un punto fuori dallo spazio, che non è un punto di vista, che non è prospettico e da cui questo mondo visibile è visto realmente, senza prospettiva” (in Corrispondenza, p. 32).

note

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5 Weil, L’amore di Dio e la sventura. Appendice agli scritti, in At-

tesa di Dio, cit., p. 255. 6 Rilessioni senza ordine sull’amore di Dio, in L’amore di Dio, cit.,

p. 113. 7 Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris

1957, p. 213. 8 Weil, L’amore di Dio e la sventura, in Attesa di Dio, cit., p. 173.

9. Messaggi impercettibili 1 Crémieux-Brilhac J.-L., La France libre, Gallimard, Paris 2013, t. 2

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II, p. 1040. Redatto a Londra all’inizio del 1943, questo testo fu pubblicato per la prima volta nel 1950 nella rivista “La Table ronde”. Il titolo deinitivo venne dato con la pubblicazione, per Gallimard, del volume degli Écrits de Londres et dernières lettres, nel quale occupa le prime pagine. Il titolo scelto è stato probabilmente proposto dalla famiglia e dagli editori prendendo spunto dall’intestazione della bozza (La persona umana è sacra?). Si noti che in ciascuno di questi testi è espresso l’efetto della sventura sull’anima che ha la forza di gridare “perché?”. Œ, pp. 625, 714-715 e 761 (“L’anima ha un solo modo certo per sapere che ha fame. L’importante è che gridi la sua fame”) e Rilessioni senza ordine sull’amore di Dio, cit., p. 113 (“Gridare che abbiamo fame”; “L’essenziale è sapere che si ha fame è sapere di aver fame.”) Weil, Studio per una dichiarazione degli obblighi nei confronti dell’essere umano, in Senza partito: obbligo e diritto per una nuova pratica politica, trad. it. Dotti M., Feltrinelli, Milano 2013, pp. 51-62. S. Weil, La prima radice, cit., p. 228 e p. 210. Ibid., p. 12. Ibid., p. 50. Simone Weil si serve della traduzione francese di Gaudefroy-Demonbynes J., Calmettes A. (Hitler A., Mon combat, Nouvelles Éditions latines, Paris 1934, t. I, cap. x: «Les causes de la débâcle»). Weil, La prima radice, cit., p. 253. Weil, Rilessioni a proposito della teoria dei quanta, cit., pp. 164-67. Weil, La prima radice, cit., p. 301. “Renderci signori e padroni della natura” (Discorso sul metodo, VI). Weil, La prima radice, cit., p. 306.

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note

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Weil, Appendice agli scritti, in Attesa di Dio, cit., pp. 239-40. Weil, La prima radice, cit., pp. 300-01. “La nozione di energia è al centro di tutto”, ibid., L’apostolo Paolo (II, Corinzi, III, 6) usa l’espressione to pneuma zoopoiei (“lo spirito insula la vita”), in opposizione alla “lettera che uccide”. Corsivo mio. Weil, La prima radice, cit., p. 309. Œ, p. 621. Weil, La prima radice, cit., p. 310. Ibid., pp. 267-68. Ibid., p. 263. Ibid., p. 310. Ibid., p. 200. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 38. Ibid., p. 47. “Io penso che il genio sia diverso dal talento, dal momento che getta uno sguardo più acuto sulla vita ordinaria della gente ordinaria – intendo dire della gente priva di talento – e ne ha una comprensione più profonda. La poesia più bella è quella capace di esprimere, nella sua verità, la vita delle persone che non possono scrivere poesie. Al di là di questo, c’è solo poesia sagace; e gli esseri umani possono tranquillamente fare a meno di questo tipo di poesia. La sagacia ispira l’aristocrazia dell’intelligenza; l’anima del genio è caritas, nella concezione cristiana di questa parola, e cioè nella coscienza dell’importanza estrema di ogni essere umano. Almeno, questo è quello che credo” (lettera rimasta inedita in Francia e pubblicata alla ine dell’opera diretta da de Lussy F., Simone Weil. Sagesse et grâce violente, Bayard, Paris 2009, pp. 297-305).

10. Errori ed eccessi 1 Seguiamo l’argomentazione dell’eccellente contributo di Philippe

Chevallier (“L’extraordinaire au risque de l’éthique dans Le Livre sur Adler”) all’opera collettiva a cura di Habbard A.-C., Message J., Søren Kierkegaard. Pensée et problèmes de l’éthique, Presses universitaires du Septentrion, Villeneuve-d’Ascq 2009. 2 Weil, L’ombra e la grazia, trad. it. Fortini F., Bompiani, Milano 2017, pp. 59 e 75. 3 Jan Van Ruysbroeck (1293-1381), detto “il dottore Ammirabile”, è stato un mistico dei Paesi Bassi autore di una vasta produzione letteraria.

note

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4 Weil, Piccola cara… Lettere alle allieve, trad. it. Sala M.C., Ma-

rietti, Genova 1998, p. 68. 5 Janiaud J., Singularité et responsabilité. Kierkegaard, Simone

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Weil, Levinas, Honoré Champion, Paris 2005, e in particolare il cap. III, Stratégies de l’abnégation. Si veda la “Lettre de février 1941”, in Jacquier C. (dir.), Simone Weil. L’expérience de la vie et le travail de la pensée, cit., p. 42. [Organisation civile et militaire, uno dei grandi movimenti della resistenza francese, N.d.T. Aron, Mémoires, cit., p. 514. Si veda una selezione di queste recensioni in George Steiner at The New Yorker, New Directions, New York 2009 (tradotto in francese con il titolo Lectures. Chroniques du New Yorker, 2010). Nella traduzione di P.-E. Dauzat, il titolo dell’articolo su Simone Weil con un gioco di parole diventa Venerdì mal-santo.

11. Il personaggio, la scrittura 1 Weil, Quaderni, III, cit., p. 49. 2 Una specie di esercizio intellettuale che consiste nel dimostrare

che le contraddizioni possono essere solo apparenti. 3 CSW, t. IV, n. 2, giugno 1981, p. 122. 4 Bouchardeau H., Simone Weil, Julliard, Paris 1995, p. 132. 5 Tracy D., Mask as Person. The Disappearing – Appearing Self of

Simone Weil; in francese, Simone Weil. Le masque et la personne, in Cahier de L’Herne, numero dedicato a Simone Weil, 2014, pp. 301-06.

Bibliografia

Opere di Simone Weil In francese Singole opere Attente de Dieu, introduction de J.-M. Perrin, Editions du Vieux Colombier, Paris 1950. La Condition ouvrière,* Gallimard, Paris 1951. La Condition ouvrière, [nuova edizione arricchita con introduzione e note di Robert Chenavier], Gallimard, Paris 2002. La Connaissance surnaturelle,* Gallimard, Paris 1950. Écrits de Londres et dernières lettres,* Gallimard, Paris 1957. Écrits historiques et politiques,* Gallimard, Paris 1960. L’Enracinement,* Gallimard, Paris 1949. L’Enracinement ou Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, [prefazione, note, varianti e appendici a cura di F. de Lussy e M. Narcy], Flammarion, Paris 2014. Intuitions préchrétiennes, Fayard, Paris 1985. Lettre à un religieux,* Gallimard, Paris 1951. Lettre à un religieux, Seuil, Paris 1974. Œuvres [ampia scelta di testi], a cura di F. de Lussy, Gallimard, Paris 1999. Oppression et liberté,* Gallimard, Paris 1955. Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu,* Gallimard, Paris 1962. Poèmes seguito da Venise sauvée,* Gallimard, Paris 1968. La Source grecque,* Gallimard, Paris 1963. Sur la science,* Gallimard, Paris 1966.

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ùiùliografia

Œuvres complètes [Opere complete] I primi dieci volumi sono stati diretti da André-A. Devaux e Florence de Lussy (poi da quest’ultima da sola), quelli seguenti da Robert Chenavier (sono previsti sedici volumi: tredici per le opere e tre per la corrispondenza) Tome I: Premiers écrits philosophiques, 1988. Tome II, vol. 1: Écrits historiques et politiques. L’Engagement syndical (1927-juillet 1934), 1988. Tome II, vol. 2: Écrits historiques et politiques. L’Expérience ouvrière et l’adieu à la révolution (juillet 1934-juin 1937), 1991. Tome II, vol. 3: Écrits historiques et politiques. Vers la guerre (19371940), 1989. Tome VI, vol. 1: Cahiers (1933-septembre 1941) [Cahiers I-III, con due quaderni detti «inediti»], 1994. Tome VI, vol. 2: Cahiers (septembre 1941-février 1942) [Cahiers IV-VII], 1997. Tome VI, vol. 3: Cahiers (février 1942-juin 1942) [Cahiers VIIIXII], 2002. Tome VI, vol. 4: Cahiers (juillet 1942-juillet 1943) [Cahiers XIII-XVII e «Carnet de Londres»], 2006. Tome IV, vol. 1: Écrits de Marseille I. Philosophie, science, religion, questions politiques et sociales, 2008. Tome IV, vol. 2: Écrits de Marseille II. Grèce – Inde – Occitanie, 2009. Tome III: Poèmes et Venise sauvée. In preparazione. Tome V, vol. 1: Écrits de New York et de Londres. In preparazione. Tome V, vol. 2: L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, 2013. Tome VII, vol. 1: Correspondance familiale, 2012. Corrispondenza (estratti) “Correspondance avec Gustave Thibon”, in Barthelet Philippe (dir.), Gustave Thibon, Lausanne, L’Âge d’Homme, “Dossiers H», pp. 411-29.

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“Correspondance avec Gustave Thibon”, in Cahiers Simone Weil, t. IV nos 2 a 4, giugno, settembre e dicembre 1981. Ma si tratta di una raccolta incompleta, che dovrà essere rivista e messa a confronto con l’edizione di Philippe Barthelet (a sua volta incompleta). “Lettre de Simone Weil a Robert Guiheneuf”, in L’Homme et la machine. Autour du « Grand Œuvre », Cahiers Simone Weil, t. XXI n. 1 e 2, marzo-giugno 1998, p. 120. “Lettres à Antonio”, in Cahiers Simone Weil, t. VII, n. 3, settembre 1984, pp. 201-17. “Lettres à Boris Souvarine”, in Jacquier Charles (dir.), Simone Weil, l’expérience de la vie et le travail de la pensée, Arles, Editions Sulliver, 1998, pp. 25-64. “Lettres à Jean Posternak”, in Cahiers Simone Weil, t. X, n. 2, giugno 1987 (Assise 19371986), pp. 101-38. “Lettres au père Perrin”, in Attente de Dieu, Fayard, Paris 2006, pp. 13-84. “Lettres de Simone Weil à Louis Bouët”, in Le travail ou l’expérience de la nécessité, Cahiers Simone Weil, t. XXXII, n. 4, dicembre 2009, pp. 417-50. “Quatre lettres à Huguette Baur”, in Cahiers Simone Weil, t. XIV, n. 3, settembre 1991, pp. 195-205. Correspondance Simone Weil – Joë Bousquet, [edizione critica stabilita e introdotta da M. Narcy e F. de Lussy], Editions Claire Paulhan, Paris. In preparazione.

Nota bene. – Molti volumi della collana «Espoir», indicati in questa bibliograia con un *, contengono lettere, in particolare il volume La Condition ouvrière (edizione del 2002), nel quale sono pubblicate, fra molte altre, le lettere a Victor Bernard. Anche il volume Œuvres ne contiene diverse, e fra le più importanti, come le lettere a Bernanos, l’ultima lettera a Joë Bousquet, le due ultime lettere a padre Perrin, o quella a Jean Wahl e a padre Couturier, “Lettre à un religieux” [Lettera a un religioso].

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In italiano Attesa di Dio, a cura di M. C. Sala, Adelphi, Milano 2008. Cinque lettere ad uno studente, trad. it. R. Colla, La Locusta, Vicenza 1990. Corrispondenza. Simone Weil/Joë Bousquet, seguito da Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, a cura di A. Marchetti, SE, Milano 1994. I catari e la civiltà mediterranea, a cura di G. Gaeta, Marietti, Genova 1996. Il bello e il bene, a cura di R. Revello, Mimesis, Udine 2013. Ispirazione occitana, trad. it. D. Fergnani, Farina, Milano 2016. La condizione operaia, trad. it. F. Fortini, SE, Milano 1994. La Grecia e le intuizioni precristiane, trad. it. M. Harwell Pieracci e C. Campo, Rusconi, Milano 1974. L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2016. L’amore di Dio, trad. it. O. Nemi, Rusconi, Milano 1984. L’attesa della verità, a cura di S. Moser, Garzanti, Milano 2014. La persona e il sacro, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 2012. La prima radice - Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, trad. it. F. Fortini, Ediz. di Comunità, Milano 1973; SE, Milano 2007. La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014. L’arte della matematica, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 2018. Le origini dell’hitlerismo, a cura di R. Revello, Meltemi, Roma 2017. Le stelle nell’anima. Lettere a Antonio Atarés 1941-1942, trad. it. D. Canciani, Edizioni Lavoro, Roma 1993. Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996. Lettere della guerra, a cura di L. Coppola, La Locusta, Vicenza 1988. Lezioni di filosofia, 1933-1934, trad. it. L. Nocentini, Adelphi, Milano 1999. L’ombra e la grazia, trad. it. F. Fortini, Bompiani, Milano 1991.

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Lottiamo noi per la giustizia?, trad. it. C. Campo, in “Tempo presente”, I, 8 (1956), pp. 605-10. Manifesto per la soppressione dei partiti politici, trad. it. F. Regattin, Castelvecchi, Roma 2008. Morale e letteratura, trad. it. N. Maroger, ETS, Pisa 1990. Nota sulla soppressione dei partiti politici insieme a Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, a cura di G. Gaeta, in “Diario”, n.6/1988, pp. 3-30. Note sulla musica, a cura di A. Marchetti, “In forma di parole”, IV serie, Numero Primo, gennaio febbraio marzo, 1966, pp. 189-92. Oppressione e libertà, trad. it. L. Basile, Orthotes, Salerno 2015. Padre nostro, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2015. Pensieri disordinati sull’amore di Dio, trad. it. N. Tajana e R. Colla, La Locusta, Vicenza 1984. Pensieri e lettere, a cura di C. Campo, in «Letteratura», VII, 3940, maggio-agosto 1959, pp. 9-33. Piccola cara…: lettere alle allieve, a cura di M.C. Sala, Marietti, Genova 1998. Poesie e altri scritti, a cura di R. Carii, Mondadori, Milano 1998. Quaderni, a cura di G. Gaeta, IV voll., Adelphi, Milano 1982. Rilessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, trad. it. G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983. Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente, a cura di D. Canciani, Edizioni Medusa, Milano 2003. Sulla Germania totalitaria, trad. it. G. Gaeta, Adelphi, Milano 1990. Sulla guerra. Scritti 1935-1945, trad. it. D. Zazzi, Il Saggiatore, Milano 2017. Sulla scienza, trad. it. M. Cristadoro, Borla, Torino 1971. Venezia salva, tragedia in tre atti, trad. it. C. Campo, Adelphi, Milano 1987. Viaggio in Italia, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2015.

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Opere e articoli su Simone Weil In francese Bibliografie e testimonianze Bouchardeau H., Simone Weil. Biographie, Julliard, Paris 1995. McLellan D., Utopian Pessimist: The Life and Thought of Simone Weil, Macmillan Press Limited, London 1989 (19912). Perrin J.-M., Mon dialogue avec Simone Weil, Nouvelle Cite, Paris 1984 (ried. 2009). Pétrement S., La Vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1978, 2 voll. (ried. 1997, 1 vol.). [cfr. per l’edizione italiana, La vita di Simone Weil, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1994]. Weil S., Chez les Weil. André et Simone, Buchet-Chastel, Paris 2009. Opere generali Chenavier R., Simone Weil. Une philosophie du travail, Cerf, Paris 2001. Debidour V.-H., Simone Weil ou la Transparence, Plon, Paris 1963. Gabellieri E., Être et don. Simone Weil et la philosophie, Peeters, Louvain 2003. Julliard J., Le Choc Simone Weil, Flammarion, Paris 2014. Saint-Sernin B., L’Action politique selon Simone Weil, Cerf, Paris 1988. Vetö M., La Métaphysique religieuse de Simone Weil, L’Harmattan, Paris 2014. Opere collettive Gabellieri E., L’Yvonnet F. (dir.), Simone Weil, L’Herne, Paris 2014. Gérard V. (dir.), Simone Weil, lectures politiques, Editions Rue d’Ulm, Paris 2011. Jacquier C. (dir.), Simone Weil. L’expérience de la vie et le travail de la pensée, Sulliver, Arles 1998.

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Kahn G. (dir.), Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, Aubier Montaigne, Paris 1978. L’Yvonnet F. (dir.), Simone Weil. Le grand passage, éd. revue, Albin Michel, Paris 2006. Lussy F. de (dir.), Simone Weil. Sagesse et grâce violente, Bayard, Paris 2009. Numeri speciali Castel-Bouchouchi A. (dir.), Simone Weil et la philosophie, “Les Études philosophiques”, juillet 2007. Little P., Ughetto A. (dir.), Simone Weil. La soif de l’absolu, “Sud”, n. 8788, 1990. Lussy F. de (dir.), L’homme et la machine. Autour du “Grand Œuvre”, “Cahiers Simone Weil”, mars-juin 1998. Thélot J., Le Lannou J.-M., Sepsi E. (dir.), Simone Weil et le poétique, “Les Cahiers de marge”, n. 4, 2007. Worms F., Simone Weil, notre contemporaine, “Esprit”, n. 89, août-septembre 2012. Selezione di articoli (o di capitoli di libri) Breton S., Simone Weil l’admirable, “Esprit”, mai 1995, 31-46. Citati P., Portrait de Simone Weil, in Portraits de femmes, Gallimard, Paris 2001, pp. 166-87 (originariamente in Ritratti di donne, Rizzoli, Milano 1992). Levinas E., Simone Weil contre la Bible, in Diicile liberté, Albin Michel, Paris 20073, pp. 205-17. Lussy F. de, Simone Weil. L’attention comme exercice spirituel: ‘Boire la lumiere’, “Sorgue”, n. 6, 2007, 13-21. Steiner G., Vendredi mal-saint, in Lectures. Chroniques du « New Yorker », Gallimard, Paris 2010, pp. 314-27. (titolo orginale: Bad Friday, in George Steiner at The New Yorker. Essays, New York, New Directions, 2009). Tracy D., Simone Weil. The Impossible, in Doering Jane, Springsted Eric O. (ed.), The Christian Platonism, Notre Dame (Indiana), Notre Dame Press, 2004, pp. 229-41. Worms F., “Simone Weil ou les efets de la nécessité sur l’âme hu-

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maine”, in La Philosophie en France au XXe siècle. Moments, Gallimard, Paris 2009, pp. 370-93. In italiano Per brevità, viene elencata solo una selezione di opere speciicatamente dedicate a Simone Weil. Aa.Vv., Il pensiero di Simone Weil nella politica dei rapporti tra donne, a cura di S. De Perini e N. Lucchesio, Centro donna, Venezia 1991. Aa.Vv., Incontro con una donna. Simone Weil 1901-1943, in «Il futuro dell’uomo», Firenze, n. 2 (1982). (Atti del Convegno su Simone Weil, Firenze, 13-14 marzo 1982). Aa.Vv., L’avventura di uno sguardo puro. 100 pagine di Simone Weil, Editore Città Nuova, Roma 2001. Aa.Vv., Le passioni di Simone Weil. Politica, cultura, religione, “Testimonianze”, XXXVII, dicembre 1994, 12 (370). (Atti del Convegno su Simone Weil, Torino, 27-28 gennaio 1994). Aa.Vv., Simone Weil, Uipc, Roma 1973. Aa.Vv., Simone Weil e la condizione operaia, Editori riuniti, Roma 1985. Aa.Vv., Simone Weil. La provocazione della verità, Liguori, Napoli 1990. Adler L., L’indomabile: Simone Weil, Jaca Book, Milano 2009. Bea E., Simone Weil. La memoria degli oppressi, SEI, Torino 1997. Benagiano A., Simone Weil: il dominio della forza e della libertà, Wip, Bari 2010. Bingemer M.C., Simone Weil, una mistica sulla soglia, Città Nuova, Roma 2015. Bingemer M.C. e Di Nicola G.P., Simone Weil. Azione e contemplazione, Efatà Editrice, Torino 2005. Bonetto G., Nella pelle degli altri: Simone Weil e la condizione operaia, Borla, Roma 1979. Borgna E., L’indicibile tenerezza: in cammino con Simone Weil, Feltrinelli, Milano 2016.

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Borrello G., Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil, Liguori, Napoli 2001. Calasso S., Simone Weil. Una profetessa per il nostro tempo, Logos, Roma 1992. Calò C., Simone Weil. L’attenzione. Il passaggio dalla monotonia dell’apparenza alla meraviglia dell’essere, Città nuova, Roma 1996. Canciani D., Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e rilessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma 1996. Canciani D., Simone Weil prima di Simone Weil. Gli anni di formazione di un’intellettuale francese degli anni Trenta, Cleup, Padova 1984. Canciani D., Tra sventura e bellezza. Rilessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Edizioni Lavoro, Roma 1998. Canciani D., Fiori G., Gaeta G., Marchetti A., Simone Weil. La passione della verità, Morcelliana, Brescia 1984. Canciani D. e Gaeta G., Album Simone Weil, Edizioni Lavoro, Roma 1997. Carta M.S., Il metaxy. La filosofia di Simone Weil. Un approccio al femminile, Armando Editore, Roma 2003. Castellana F., Simone Weil, la discesa di Dio, Edizioni Dehoniane, Napoli 1985. Castellana M., Mistica e rivoluzione in Simone Weil, Laicata Editore, Manduria 1979. Cattaneo M., Simone Weil e la critica dell’idolatria sociale, Edizioni Scientiiche Italiane, Napoli 2002. Cavani L.-Moscati I., Lettere dall’interno. Racconto per un film su Simone Weil, Einaudi, Torino 1974. Chenavier R., Simone Weil: l‘attenzione al reale, trad. it. F. Negri, Asterios, Trieste 2016. Chiaino A., Dalla parte del più debole: il filo rosso della riflessione politica di Simone Weil, Diogene multimedia, Bologna 2018. Corbascio Contento M., Scienza, etica e religione nel pensiero di Simone Weil, Levante Editori, Bari 1992.

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Indice dei nomi

Alain (Emile Chartier) 8-12, 15-16, 35, 38, 40, 54, 61, 84, 88, 89, 93 Alexandre, coniugi 13 Alexandre, Jeanne 9 Alexandre, Michel 10 Alquié, Ferdinand 9 Anassimandro 36 Antigone 27 Archimede 40, 50 Aristofane 26 Aristotele 55 Aron, Raymond 8, 10-11, 79, 83, 93-94, 100 Autran, Charles 78 Ballard, Jean 34 Bataille, Georges 5 Baur, Huguette 33, 78 Bérard, Léon 93 Berger, Gaston 16 Bergson, Henri-Louis 8 Bernanos, Georges 13, 29, 33, 94 Bernard, Victor 17, 90, 103 Bertaux, Pierre 8 Bouchardeau, Huguette 84, 100 Bouët, Louis 13, 15-16, 94 Boulanger, A. 95 Bousquet, Joë 25, 43, 57-58, 87, 91, 98 Boutang, Pierre 49 Breton, Stanislas 77 Bruno, Giordano 49 Brunschvicg, Léon 8

Cacciari, Massimo 26, 95 Camus, Albert 1, 66 Cancouët, Lucien 11 Canguilhem, Georges 8, 83 Cartesio, v. Descartes Chartier, Émile v. Alain Château, René 11 Chevalley, Claude 8 Clemente Alessandrino 26 Closon, Francis-Louis 61-62, 67 padre Couturier 52-53, 91 Crémieux-Brilhac, Jean-Louis 62, 98 Cristo 24-25, 29, 44, 47, 52, 54, 56, 71, 75 Cusano, Niccolò 49 d’Ardèche, Marcel 36 Daumal, René 51, 96 Davy, Marie-Medeleine 77 de Gandillac, Maurice 49 de Gaulle, Charles 61-62, 65 de Viau, Théophile 83 Descartes, René 3, 20, 69-70, 89, 94 Detœuf, Auguste 23, 34 Diels 48 Dieudonné, Jean 8 Dufour, Alfred 97 Eckhart 77 Ehresmann, Charles 8 Elettra 27, 76 Eraclito 45, 82 Eschilo 27, 31, 82

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indice dei nomi

Filone di Alessandria 24 Fumet, Stanislas 55 Galileo 31, 35 Ganuchaud, Jacques 11 Gilgamesh 26 Giustino 26 Gouin, Félix 62 Gracq, Julien 8 Grimm, Racconto dei sei cigni 72, 88 Guihéneuf, Robert 33 Guindey, Guillaume 12 Guitton, Jean 77 Hadamard, Jacques 20, 31 Hadij, Massali 18 Hadot, Pierre 87 Herbert, George 24, 95 Hersch, Jeanne 39, 97 Hitler, Adolf 15, 68-70, 99 Honnorat, Hélène 50 Hyppolite, Jean 83 Jamet, Claude 16, 81, 85 Janiaud, Joël 78, 100 Kafka, Franz 79 Kahn, Gilbert 10 Keplero 49 de La Boétie, Étienne 28 Lagneau, Jules 9 Lao-Tse 71 Lavoisier, Antoine-Laurent de 40 Lawrence d’Arabia 68 Lenin 20, 94 Levinas, Emmanuel 52, 100 London, Jack 19 Machiavelli, Niccolò 68 Marcel, Gabriel 36, 77 Marcione 55 Marcoux, Camille 20 Maritain, Jacques 52, 63 Marx, Karl 14, 20, 28, 40, 94 Merleau-Ponty, Maurice 8

Molino, Suzette 8 Monatte 13 Mounier, Emmanuel 63 Nevin, Thomas R. 79 Nicolas Bourbaki 96 Nizan, Paul 8 Origene 26, 53 Orwell, George 19 Parain, Brice 66 Pelloutier, Fernand 14 Perrin 2, 24-25, 50, 52, 58, 75-76, 91, 98 Pétrement, Simone 8, 17, 25, 51, 94 Philip, André 61-63, 67 Pitagora 32 Planck, Max 35-36 Platone 20, 24, 27-28, 31, 33, 4142, 47-48, 64, 82, 95-96 Posternak, Jean 26 Prometeo 54 Ramnoux, Clémence 8 Rashed, Marwan 48 Reinherz, Felix 1 Reinherz, Salomea detta Selma 1 Roché, Déodat 51, 55 Romains, Jules 33 Roubaud, Jacques 8 Roubaud, Louis 8 Ruysbroeck l’Ammirabile (Jan Van Ruysbroeck) 77, 100 Salet, Pierre 51 san Paolo 24, 53, 75, 99 Sartre, Jean-Paul 8, 83 Scève, Maurice 83 Schumann, Maurice 44, 59, 61, 76 Shakespeare, William 72 Sirinelli, Jean-François 7, 93 Socrate 31 Sofocle 27, 29 Souvarine, Boris 5, 15, 18, 33-34, 66, 78, 89, 94

Spinoza 9, 30, 72, 83 Steiner, George 79, 100 Suzuki, Daisetz Teitaro 96

Velásquez, Diego 72, 80 von Balthasar, Hans-Urs 54, 97 von Chamisso, Adelbert 79

Thévenon, Albertine 2, 16, 89 Thévenon, Urbain 14, 16, 89 Thibon, Gustave 36, 38, 47, 88, 91, 95, 97 Tilliette, Xavier 49 Tracy, David 85, 100

Wahl, Jean 39 Weil, Abraham 1 Weil, André 1-3, 8, 11-12, 31-32, 48, 93 Weil, Bernard 1 Weil, Sylvie 93, 96 Wittgenstein, Ludwig 79

Vallat, Xavier 91

Finito di stampare nel mese di aprile 2019 da L.E.G.O. S.p.A., stabilimento di Lavis (Trento) Printed in Italy