Filosofia delle donne 8842082368, 9788842082361

In questo libro le donne, protagoniste e soggetti del dialogo filosofico, discutono di ragione, identità, conoscenza, sc

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Italian Pages 165 [175] Year 2007

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Filosofia delle donne
 8842082368, 9788842082361

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Biblioteca Essenziale Laterza 74

Filosofia serie diretta da Tito Magri VOLUMI PUBBLICATI

Maurizio Ferraris ~ L’ermeneutica Salvatore Veca ~ La filosofia politica Eva Picardi ~ Le teorie del significato Michele Di Francesco ~ La coscienza Piergiorgio Donatelli ~ La filosofia morale Diego Marconi ~ Filosofia e scienza cognitiva Nicla Vassallo ~ Teoria della conoscenza Massimo Marraffa ~ Filosofia della psicologia Claudia Bianchi ~ Pragmatica del linguaggio Achille C. Varzi ~ Ontologia Christopher Hughes ~ Filosofia della religione

Pieranna Garavaso Nicla Vassallo

Filosofia delle donne

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione febbraio 2007 Seconda edizione ottobre 2007

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8236-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

alle nostre madri

... se qualcuno ha un destino, è un uomo. Se qualcuno riceve un destino, è una donna. Elfriede Jelinek Le amanti

La maggior parte degli uomini conosce la biografia della propria auto molto meglio dell’autobiografia della propria donna. Elfriede Jelinek La voglia

Filosofia delle donne

La tela di Penelope

1. Che cos’è una filosofia delle donne L’oratorio era tutto suo, tutto scritto da Lavinia. Da mesi l’aveva terminato, aveva aspettato l’occasione della lontananza del Vivaldi e l’aveva introdotto con la complicità di Zelinda, la portiera sordomuta, che non aveva capito nulla. La scrittura del maestro era stata imitata a meraviglia, nessuno aveva sospettato una soperchieria tanto eccezionale, così era stato disposto che per Pasqua l’oratorio fosse eseguito. «Capisci, non avevo altro mezzo, mai mi prenderebbero sul serio, mai mi permetteranno di comporre. La musica degli altri è come un discorso rivolto a me, io devo rispondere e sentire il suono della mia voce; più ne ascolto e più so che il mio canto e il mio suono sono diversi. Non è uno scherzo: potresti star zitta quando ti senti chiamata da chi ti vuol bene? Pensa, dunque, qui dentro c’è tutto il mio bisogno, strumenti, voci, chi ascolta: ma senza inganni, per me, è come un tesoro sepolto, nessuno suonerebbe una nota sola di quel che invento. Povera me se se ne accorgono, se Don Antonio tornasse... Giura che non parlerai, giura!» (Banti 1996, p. 29).

Così Lavinia implora la cara amica Orsola che suona con tanta soavità l’oboe. Lavinia, come Penelope, deve ricorrere all’inganno e scongiura l’amica di non tradirla; a entrambe non è dato il controllo del proprio destino. Nel racconto di Anna Banti, l’oratorio composto da Lavinia e passato per opera del maestro Antonio Vivaldi non verrà 3

mai eseguito dalle orfanelle della Pietà, e Lavinia scomparirà dall’orfanotrofio senza preavviso e senza dire addio alle amiche. Non scomparirà però dalla loro memoria la straordinaria verità rivelata così chiaramente dal gesto di Lavinia: «Anche una ragazza può comporre musica, se vuole». La filosofia, quando praticata con arte e impegno, è una conversazione tra punti di vista diversi in cui le ragioni a favore e contro ciascun punto di vista sono espresse, vagliate e discusse con l’obiettivo di mantenere e rafforzare i punti di vista più convincenti e raffinare le ragioni migliori a loro sostegno. Pure la musica di Lavinia è parte di un dialogo a cui le è proibito partecipare, ma a cui le è difficile sottrarsi. La spinge prepotentemente la consapevolezza che la sua voce e il suo suono sono diversi da quelli del maestro, da quelli di tutti i maestri finora ascoltati. Per fare buona filosofia, ogni punto di vista dev’essere considerato e se ne esiste uno che rimane fuori dalla cerchia di quelli vagliati e discussi, diviene più impellente la necessità di esprimerlo e difenderlo. Lavinia sa che la sua musica non verrà mai eseguita ma sa anche che, nella conversazione che sta ascoltando, nessun’altra voce canta come la sua. Molte voci come quella di Lavinia sono assenti dalla filosofia occidentale e forse per questo spesso sembra che la musica non cambi mai. Fare filosofia delle donne è un modo per immettere nel dibattito contemporaneo nuovi punti di vista che non sono stati ancora espressi e affinati a pieno. Una filosofia delle donne non rappresenta tutte le voci finora escluse. È solo un esempio, e speriamo un modello, di come si debba allargare il dialogo filosofico. Una filosofia delle donne è una filosofia in cui le donne parlano da protagoniste, è un discorso fatto da loro e che a loro appartiene; in essa le donne sono i soggetti del dialogo. È anche una filosofia sulle donne, che parla delle donne e degli argomenti che a loro interessano, in cui il mondo femminile diviene oggetto del discorso. 4

2. C’è bisogno di una filosofia delle donne? Lo studio della filosofia raffina l’intelletto. Lo dimostrano le statistiche dell’Educational Testing Service sui risultati ottenuti da studenti universitari nel Graduate Record Examination (GRE), un test che misura «le capacità di pensare criticamente, di scrivere in modo analitico, di ragionare verbalmente e quantitativamente, capacità acquisite nell’arco di un lungo periodo di tempo e non in connessione con alcun campo specifico di studio». Tra il 2001 e il 2004, gli studenti intenzionati a conseguire un Bachelor of Arts in filosofia – titolo di studio paragonabile a una laurea in Italia – hanno ottenuto per il ragionamento verbale e la scrittura analitica i risultati più alti nel GRE rispetto a studenti di altre discipline, e i più alti per il ragionamento quantitativo nelle discipline umanistiche. Purtroppo, i dati indicano che sono soprattutto gli uomini a trarre vantaggio dallo studio della filosofia. Nei paesi anglosassoni sono più gli uomini che le donne a laurearsi in filosofia; in Italia, invece, dove si laureano in filosofia più donne che uomini, le docenti ordinarie di filosofia – così come in ogni altro campo del sapere – sono davvero rare: sono ancora Socrate e Immanuel, non Cristina e Ipazia a frequentare le più raffinate palestre della mente1. Se lo studio della filosofia ha effetti positivi sulle capacità intellettuali degli esseri umani, costituisce uno svantaggio per le donne e per tutta la nostra cultura che queste non ne traggano beneficio al pari dei loro colleghi maschi. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, forse è semplice1 Impiegheremo qui e là i nomi di alcune donne e di alcuni uomini, di cui si trovano brevissime biografie nella sezione «Protagoniste e protagonisti». Non ci proponiamo però di parlare di queste donne e uomini o di narrare la loro storia. Tra l’altro, le donne e gli uomini che nominiamo possono non essere rappresentativi; speriamo solo che i loro nomi ci inducano a ricordare le tante donne di valore che sono «assenti» in tante realtà e che nasca un interesse a saperne di piú sulle «altre» storie, quelle che per lo più non sono ancora state scritte.

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mente colpa delle donne se non si dedicano alla filosofia; dopo tutto sono loro che scelgono liberamente di non fare filosofia fino ai livelli accademici più elevati, di non diventare professori universitari. Il punto cruciale di questa obiezione sta tutto nel termine liberamente. Per capire cosa diciamo quando affermiamo che la maggioranza delle donne sceglie liberamente, è utile paragonare la questione del perché non ci sono più donne che scelgono di intraprendere una carriera universitaria in filosofia alla questione del perché non ci sono più donne tra i docenti universitari di informatica, di fisica e di molte altre materie scientifiche. Su questo problema si è concentrata una discreta attenzione negli ultimi venti o trent’anni. Le scienze, così come la filosofia, richiedono grande intelligenza e solide capacità logiche e razionali. Nell’immaginario collettivo, nella cultura popolare, nel senso comune e nei miti, le donne vengono però rappresentate spesso come esseri istintivi, passionali, sensuali, irrazionali, emotivi e perfino illogici. Queste idee sulle donne e sulle loro capacità, sul loro ruolo sociale e sulla loro supposta natura, hanno esercitato un influsso straordinariamente potente sui modi in cui le donne sono state educate e sulle modalità con cui è stato loro permesso o proibito di essere pensatrici e artiste. Non dovrebbe sorprendere che molte donne, nella storia della civiltà occidentale, abbiano liberamente scelto di non diventare scienziate e filosofe; c’è da stupirsi piuttosto che ve ne siano state alcune, nonostante tutto. Per quanto ai nostri giorni le statistiche non siano del tutto incoraggianti, le filosofe non sono più così rare come lo erano al tempo di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, la prima donna al mondo a ottenere una laurea in filosofia: nel 1678 presso l’Università di Padova (cfr. Maschietto 1978, King 1991 e Waithe 1991); solo dopo duecento anni altre donne seguiranno il suo esempio. Nonostante la sua erudizione (oltre a filosofia, teologia, scienze e matematica, aveva studiato anche spagnolo, latino, greco, e6

braico, arabo e perfino il caldeo, una versione dell’aramaico in cui viene celebrata la messa dai cattolici caldei di Babilonia) Elena Lucrezia non fu esente dalle paure di cui sono vittime tante donne. Si riporta infatti che avesse voluto studiare teologia e non filosofia, ma che un certo cardinale Gregorio Barbari, al tempo vescovo di Padova e rettore dell’Università, avesse osteggiato il conferimento di una laurea in teologia a Elena Lucrezia perché ciò avrebbe permesso a una donna di insegnare teologia. Pare inoltre che, al momento del conferimento della laurea, quando avrebbe dovuto alzarsi e pronunciare un discorso, Elena Lucrezia ricusò dicendo: «Questo non posso farlo, perché dopo tutto sono solo una donna» (Morgan 1966, p. 57). L’interiorizzazione del senso di inferiorità in una donna di tanto valore può rattristarci ma non ci sorprende. Forse non molte donne scelgono di intraprendere una carriera universitaria in filosofia anche a causa di un modello di pensatore ben rappresentato da Socrate e Immanuel, ma che non si addice a Ipazia e Cristina; forse possiamo capire perché è necessario produrre una filosofia delle donne, una filosofia che presti attenzione a come e a cosa pensano molte donne. Tuttavia il modo migliore per agevolare lo sviluppo di un pensiero che porti alla luce tematiche, problemi e soluzioni d’interesse rimane quello di lasciar costruire questo pensiero alle donne stesse. È necessario che le protagoniste siano donne. L’espressione inglese add and stir ben descrive ciò che non è sufficiente fare: per cambiare un ambito di studio e renderlo più accessibile a gruppi sociali finora esclusi non basta aggiungervi qualche rappresentante degli esclusi e mescolare il tutto. Per un cambiamento autentico è necessario che si metta in atto un ripensamento profondo della disciplina stessa, chiedendosi se le metodologie usate finora siano accessibili a tutti e ugualmente fruibili e, se non lo sono, essere disposti a sostituirle o modificarle. Bisogna rinegoziare i temi su cui si concentra la ricerca, rimanendo aperti alla possibilità che problemi e questioni consi7

derati centrali e imprescindibili nel passato vengano accantonati, sostituiti, modificati. Per esempio, bisogna essere disposti ad abbandonare l’illusione che il soggetto primario sia quello dato per scontato da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche: un essere umano autonomo e isolato dagli altri, senza sesso, senza età, senza caratteristiche fisiche particolari, senza preferenze sessuali e senza bagaglio culturale. Se siamo convinti, come ogni vero filosofo dovrebbe essere, che si valuta meglio una tesi considerandola da molti punti di vista e se accettiamo il fatto che, quando sono persone appartenenti a gruppi sociali diversi a fare ricerca, pensare, sollevare domande, avanzare ipotesi, presentare una risposta, difenderla, obiettare, i risultati finali sono diversi da quelli raggiunti da persone appartenenti tutte al medesimo gruppo, diventa allora indispensabile includere nel dialogo filosofico una grande quantità di punti di vista diversi. La musica cambia a seconda di chi la suona. Lo stesso è vero per una conversazione filosofica: i punti di vista considerati sono differenti a seconda di chi ha la voce per intervenire. Per Ipazia e le sue sorelle sarà più interessante un dialogo in cui possano essere protagoniste e che verta su problemi di loro interesse. C’è bisogno di una filosofia delle donne innanzitutto per le donne, per l’altra metà del genere umano. Ma c’è anche bisogno di una filosofia delle donne per la filosofia stessa, perché essa necessita di rappresentare la più ampia varietà possibile di punti di vista e Ipazia è tra coloro che non hanno avuto finora voce nella filosofia tradizionale. 3. Quando la ragione è donna e le donne hanno ragione Una delle caratteristiche più appariscenti della letteratura femminista contemporanea, e una delle ragioni per cui è difficile studiarla, è la sua interdisciplinarità: sociologia, antropologia e psicologia sono senz’altro necessarie per 8

apprezzare appieno il contenuto di ogni analisi femminista. L’interdisciplinarità agevola una varietà di approcci alla speculazione filosofica e occorre quindi parlare delle filosofie femministe al plurale2. Le filosofie femministe sono presenti nei diversi settori della filosofia. In epistemologia e filosofia della scienza nascono con la volontà di capire le cause della scarsa rappresentanza femminile in molti campi scientifici. Questa volontà genera quella che Sandra Harding (1986) battezza the science question in feminism: si tratta dello studio delle norme e metodologie della ricerca scientifica secondo ottiche femministe. Le filosofie femministe si estendono poi a metafisica, etica, storia della filosofia, filosofia del linguaggio, filosofia politica e sociale, filosofia della biologia, bioetica, estetica, filosofia della religione. In tutti questi campi emergono vari tentativi di connettere in modo speculativamente utile temi e argomenti sviluppati all’interno della filosofia tradizionale con temi e argomenti sviluppati dalle filosofie femministe. Prendiamo, per esempio, l’etica e la filosofia del linguaggio. Molte analisi femministe criticano le due principali teorie etiche, il consequenzialismo di Mill e il deontologismo di Kant, per dimostrare che né l’uno né l’altro sono adeguati a rappresentare le modalità di ragionamento attraverso cui i soggetti, e non solo le donne, giungono a una valutazione morale. Né la teoria di Kant, secondo la quale l’azione più giusta da compiere è quella dettata dai nostri doveri, né la teoria di Mill, secondo la quale l’azione più giusta da compiere è quella che produce il maggior benessere per coloro che sono toccati da tale azione, sembrano infatti tener conto delle relazioni di cura che si instaurano 2 Nei prossimi capitoli non forniremo alcuna panoramica sulle diverse posizioni femministe. Ci sono già parecchie opere che descrivono con accuratezza, completezza e acume la mappa del femminismo storico e contemporaneo. Per alcune di esse, rimandiamo alla sezione «Cos’altro leggere».

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tra i soggetti. Ciò conduce a sviluppare la cosiddetta etica della cura in contrasto con l’etica della giustizia tipica della tradizione filosofica (cfr. Gilligan 1982, Noddings 1984 e Tong 1993). In filosofia del linguaggio le riflessione femministe applicano invece prospettive già esistenti a problemi nuovi. Vengono, così, messi in luce i pregiudizi sessisti nascosti nell’uso di pronomi maschili per riferirsi al soggetto generico di un’azione, o nell’uso di designazioni maschili per attività di prestigio, come il rettore, il preside, il pilota, il chirurgo (cfr. Vetterling-Braggin 1981). Oppure vengono analizzati usi linguistici di termini politicamente significativi, a partire dalle due principali teorie del significato di nomi propri come «Nicla» e «Pieranna», ma anche di nomi di gruppi sociali come «italiani» e «nativi americani», che risalgono originariamente a John Stuart Mill e a Gottlob Frege. Per Mill un nome proprio è solo un’etichetta, uno strumento come un altro per identificare un soggetto; un nome non vuol dire nulla in se stesso, non ha un significato, non ha nessun contenuto descrittivo. Per i fregeani, invece, un nome è simile all’abbreviazione di una lista, più o meno completa o completabile, delle proprietà del soggetto cui il nome si riferisce. Così, «Nicla» significa la docente di Filosofia della Conoscenza dell’Università di Genova, l’autrice di Teoria della conoscenza, la velista che nella primavera del 1983 ha rischiato il naufragio su una barca di sette metri nell’alto mar Tirreno, e via di seguito. Benché vi siano questioni aperte – come facciamo quando ci sono molte «Nicle»?; cosa accade al significato di «Nicla» se Nicla smette di andare in barca a vela? – quando le analisi prendono in esame nomi come «nativi americani», siamo condotti ad affrontare temi metafisici, etici e politici (cfr. Nuccetelli 2001 e 2004): che ruolo ha o deve avere l’etnia nell’identità di un soggetto?; se accettiamo una concezione fregeana dei nomi, come possiamo evitare che so10

lo, o soprattutto, gli stereotipi finiscano nella lista delle proprietà associate ai nomi di popoli? 4. Scienza dell’essere e scienza del sapere Nei capitoli che seguono ci proponiamo di mostrare come il pensiero filosofico tradizionale possa venir arricchito e reso più interessante e significativo dalla sua commistione con prospettive femministe. Siamo infatti convinte che tessendo insieme temi della tradizione e temi femministi si ottenga una riflessione critica e autenticamente filosofica. Emergeranno due ambiti fondamentali, la metafisica e l’epistemologia. Nel primo discuteremo della tensione tra l’attenzione alla particolarità degli individui e l’aspirazione a un’universalità oggettiva: in Platone questa tensione crea il problema dell’uno e dei molti; nella filosofia delle donne si manifesta soprattutto nel dibattito sull’essenzialismo, sull’esistenza di un’essenza-donna. Per quanto riguarda l’identità personale, il problema consiste nel conciliare un’essenza comune a tutti i soggetti di uno stesso genere con l’imprescindibile particolarità di ogni singolo soggetto (sul concetto di genere cfr., per esempio, Connell 2002). Venendo all’epistemologia, si presenta non solo il problema delle donne come soggetti conoscenti e oggetti conoscenti, ma anche quello di trovare un’armonia tra l’importanza di punti di vista epistemici particolari e la possibilità di una prospettiva oggettiva. Il carattere profondamente sociale dell’esperienza umana, che ispira in forme diverse pensatori come Aristotele, Hegel e Marx, si manifesta nella filosofia delle donne sotto la forma di una rivalutazione della dimensione collettiva, interpersonale e sociale sia per l’identità femminile, sia per la conoscenza femminile. Il soggetto filosofico autonomo e individuale della filosofia tradizionale viene sottoposto a una dura critica: esso offre un’immagine distorta dell’essere umano, sia quando cerchiamo la nostra identità, sia quando aspiriamo alla conoscenza. Così come 11

non siamo isole ontologiche, non esistiamo come sé autonomi e completi, non siamo nemmeno isole epistemiche, non esistiamo come soggetti conoscenti autosufficienti e isolati: ciò che accettiamo in quanto vero e affidabile ci viene trasmesso da altri, e possiamo acquisire la nozione di verità e affidabilità solo all’interno della collettività. Metafisica ed epistemologia occupano un posto d’onore anche nella filosofia tradizionale e si interessano di questioni fondamentali da cui dipende la soluzione di una moltitudine di altri problemi. Se vogliamo, per esempio, costruire una teoria della mente – come si fa in filosofia della mente – è cruciale avere in precedenza deciso se accettiamo un’ontologia dualista (se riteniamo cioè che gli esseri umani siano costituiti da due sostanze, mente e corpo), o monista (se riteniamo cioè che gli esseri umani siano costituiti da una sola sostanza, materiale o mentale). Un’ontologia dualista deve risolvere il problema dell’interazione di mente e corpo, mentre un’ontologia monista non lo deve fare. D’altro canto, qualsiasi filosofia della mente dovrà presupporre che sia possibile conoscere qualcosa e in particolare dovrà basarsi su un’epistemologia che spieghi come si possa giustificare la nostra fiducia nell’introspezione e nella testimonianza. Volendosi invece occupare di etica, è indispensabile affrontare prima questioni metafisiche ed epistemologiche: se infatti non sappiamo cosa sono i soggetti morali, non possiamo attribuire loro alcuna responsabilità; se non sappiamo cosa sia la conoscenza, non possiamo asserire di conoscere alcun principio morale. Siamo consapevoli di non essere riuscite a tener conto di parecchi lavori interessanti sui temi che ci prestiamo a trattare. Abbiamo solo provato a tessere una tela, augurandoci che Penelope non la debba subito disfare. Questa stoffa, la sua trama, la varietà dei suoi colori riflettono tutta la particolarità delle nostre identità, delle nostre conoscenze e delle nostre inevitabili parzialità di giudizio. Non ci proponiamo tanto di sostenere in toto la critica femmi12

nista della filosofia tradizionale, quanto di dimostrare come un’interazione tra le due produca risultati originali e significativi. Penelope può tessere una tela più robusta e variopinta con fibre filate da più mani.

L’identità delle donne

Ciò che mai vorrei essere è una persona finta, contraffatta – qualunque strato di nequizia celi la mia natura – Mi sento meglio nella verità – è la salvezza, il cielo – Quale squallido esilio una bugia, che con la nostra vita si dichiara – Emily Dickinson

1. Lo spettro di Santippe «Se Socrate avesse ascoltato Santippe, la filosofia occidentale non sarebbe mai nata o forse non sarebbe nata in Grecia». Così la pensano quelli che vedono nella moglie di Socrate, Santippe, l’antitesi di quell’amore per la ragione che nei dialoghi platonici Socrate invece manifesta apertamente. In contrasto con la ricerca oggettiva del vero che contraddistingue Socrate, la tradizione vuole che Santippe sia interessata esclusivamente a questioni domestiche. Mentre il marito passa il tempo a pensare, discutere e crearsi quei potenti nemici che lo condanneranno a morte, Santippe si affaccenda invano per riportarlo a casa. Ella rimane uno dei classici esempi del supposto antagoni15

smo tra femminile e ragione, un mito che resisterà per secoli e che non siamo ancora riusciti a demolire. Le opinioni dei filosofi sulle donne costituiscono un museo degli orrori o meglio, come dovremmo più saggiamente dire, delle amenità. Per Aristotele le donne sono maschi menomati o mutilati perché il loro essere donne è dovuto a una certa passività e mancanza di potenza. Aristotele riesce perfino a coniare una teoria «biologica» degli «umori», capace di giustificare la tesi secondo cui lo spirito, ossia la parte più importante dell’essere umano che ha origine dal congiungimento del mestruo, o umore femminile, e dello sperma, o umore maschile, è il prezioso contributo recato solo ed esclusivamente dallo sperma maschile: la «biologia degli umori» spiega il processo di riproduzione minimizzando e svalutando il ruolo della donna. Su questa metafisica Aristotele fonda poi una teoria politica e una psicologia, secondo le quali l’uomo è fatto per comandare e la donna per obbedire. Le generalizzazioni aristoteliche sul carattere femminile non sono particolarmente originali: rispetto agli uomini, le donne sono dotate di maggiore sensibilità, complessità psicologica e memoria, ma sono anche più impulsive, doppie, gelose, petulanti e spudorate. Si poteva sperare che la fede cristiana e il suo messaggio d’amore conducessero i filosofi medievali a cogliere e difendere l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, donne incluse. Purtroppo ciò non accade: basti pensare che Tommaso d’Aquino si mantiene fedele ad Aristotele non solo nelle speculazioni logiche e metafisiche, ma anche per quanto riguarda le virtù e i vizi femminili: la donna è un maschio mal riuscito e mentre appartiene all’uomo il potere attivo di generare, alla donna viene concesso solo un potere passivo. La storia della filosofia è davvero ricolma di stereotipi che denigrano le donne: per Kant, Ipazia non può compiere azioni genuinamente morali per carenza di senso del dovere; per Hegel il posto di Ipazia è la casa e l’am16

bito familiare perché ella è priva della capacità di ragionare su un piano universale, così come è necessario per affrontare le questioni politiche e pubbliche. Schopenhauer deriva tutti i vizi di Ipazia dalla sua naturale inferiorità rispetto al maschio: le donne sono meno intelligenti degli uomini, perennemente infantili, prive di senso di giustizia, manipolatrici e bugiarde. Per Nietzsche le donne sono un gingillo, un mero passatempo per l’uomo e il loro unico obiettivo è la procreazione. Grande eccezione in questa galleria degli orrori rimane John Stuart Mill (1869) con la sua appassionata difesa dei diritti delle donne e con la sua illuminante analogia tra la sottomissione delle donne e la schiavitù. Non c’è da meravigliarsi che Ipazia e le sue sorelle non abbiano nel corso dei secoli ricercato il piacere della speculazione filosofica. Se qualcuno ci proponesse un ritratto di noi stessi e di tutti quelli che appartengono alla nostra famiglia, o al nostro paese di origine, o alla nostra etnia, marchiato dalle caratteristiche più infami, continueremmo ad ascoltare con rispetto e interesse quello che costui ci dice? Tra le due possibile reazioni di fronte a una denigrazione sistematica, e cioè il disinteresse e la interiorizzazione, il primo è certo più sano, la seconda senz’altro più pericolosa. La storia della filosofia occidentale relega Ipazia ai margini del mondo filosofico: manca una conoscenza delle donne in un duplice senso. Non solo manca una conoscenza delle donne, perché abbiamo pochi documenti storici delle riflessioni filosofiche prodotte dalle donne, ma perché quello che si dice sulle donne non le rappresenta in modo oggettivamente accurato. Nell’immaginario collettivo, la filosofia si identifica ancora con Socrate, con un modo di pensare astratto e rigidamente logico considerato alieno a Santippe; quest’ultima simboleggia i sentimenti, l’irrazionalità, la concretezza delle cure domestiche. Non c’è da stupirsi se Ipazia, Cristina e Elisabetta, una volta interiorizzata la loro supposta irrazionalità, non competano 17

bene là dove la ragione e la mente, femminili solo grammaticalmente, regnano maschie e sovrane. La propensione della filosofia per la speculazione astratta e la razionalizzazione, unita al suo disprezzo del femminile, continua a tenere lontane le donne. 2. Vivacità della ragione e passività della natura L’antagonismo tra Socrate e Santippe non è solo caricaturale, ma corre parallelo a un divario teorico che attraversa gran parte della speculazione filosofica occidentale. La metafisica tradizionale è dominata da varie forme di dualismo: la realtà è costituita da due tipi di sostanze opposte, chiamate forma e materia da Aristotele, mente e corpo da Cartesio, pensiero, o ragione, e natura da Spinoza, Kant, Hegel. Queste forme di dualismo includono un polo superiore e positivo, che contiene le attività della mente, della ragione e del pensiero, e un polo inferiore, caratterizzato dalla passività della natura e della materia. Il dualismo di per sé non comporta un giudizio di valore sui due tipi di sostanze. È dalla loro gerarchizzazione e dall’associazione dell’uomo con il polo superiore e della donna con quello inferiore che nasce la difficoltà teorica di un rapporto tra donne e filosofia (cfr. Lloyd 1984 e 1993). Il soggetto che domina la filosofia tradizionale esibisce tutte le caratteristiche del polo positivo: è un soggetto autonomo, autosufficiente, razionale e privo di legami materiali, corporei e spesso perfino emotivi. Nelle parole di Young (2005, p. 5), «la metafisica occidentale ha postulato l’idea di un soggetto individuale autonomo, un ego chiuso in se stesso che abita un corpo ma è distinto da esso». Il problema è rappresentato dal fatto che il soggetto, che viene concepito come pensiero puro privo di corporeità, non può esistere nella realtà. Basta leggere Cartesio per trovare un esempio del soggetto in questione, o Kant, secondo il quale il soggetto che segue l’imperativo categorico deve esser capace di prescindere dai propri legami af18

fettivi e sociali. Gran parte dell’epistemologia tradizionale, se non tutta, presuppone poi la nozione di un soggetto conoscente autonomo, privo di caratteristiche sensoriali e fisiche particolari (cfr. cap. 3). Il concetto di io proposto da Cartesio e Kant non corrisponde al vissuto di molti e riflette esperienze di vita proprie di una situazione privilegiata, in cui autonomia e indipendenza sono possibili. Nella filosofia tradizionale, questa concezione del sé svolge una funzione normativa e selettiva in quanto sanziona un modello di soggetto che presenta caratteristiche possedute solo da una cerchia ristretta. Al tempo stesso sanziona il fatto che gli esclusi da tale concezione del sé lo sono proprio perché posseggono caratteristiche tipiche dell’altro polo, ossia la passività, la corporeità e materialità proprie della natura, in contrasto con la vivacità e l’immaterialità della ragione e del pensare. Le critiche femministe dell’epistemologia tradizionale sottolineano l’impossibilità che il soggetto tradizionale esista. Molte donne – all’interno di società occidentali e non – e molte persone di colore non hanno lo stesso livello di autonomia e indipendenza di cui gode la maggioranza degli individui di sesso maschile, di pelle bianca, di classe elevata. Se fossero donne e individui appartenenti a gruppi non privilegiati a elaborare una nozione di soggetto, quest’ultima sarebbe assai diversa da quella che troviamo nella tradizione. Per le donne che si occupano della crescita dei bimbi e della cura degli ammalati e degli anziani, che fanno fronte ai bisogni fisiologici degli altri, essere se stesse significa essere interdipendenti. Non è certo l’autonomia la dimensione in cui molte donne si riconoscono, ma piuttosto la dimensione della cura dell’altro da sé, dell’essere responsabili dell’altro, dei limiti imposti alla propria indipendenza dalla necessità di rispondere ai bisogni altrui. Come vedremo tra breve, ciò conduce a elaborare una nozione di identità assai diversa da quella tradizionale.

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3. «Foemina sive natura» Le metafisiche femministe reagiscono in vari modi alle diverse forme di dualismo e allo svilimento del mondo naturale. Alcune mettono in discussione la supposta passività e inferiorità della natura rispetto al pensiero e alla ragione; rivalutano il corpo e la sua materialità, assimilando il mondo femminile al mondo naturale non umano e riconoscendo i pregi di entrambi, spesso sulla base della somiglianza del loro asservimento a opera del patriarcato (cfr. Warren 1990 e 2000). In tempi come i nostri, segnati dal riscaldamento globale dell’ambiente, da disastri climatici ed ecologici, dalla possibile estinzione di intere specie naturali, da risorse naturali sempre più scarse o iniquamente distribuite – basti pensare a come sprechiamo l’acqua in Occidente e a come in altre parti del mondo la sua carenza causi la morte di innumerevoli esseri umani – è doveroso chiedersi se la ragione umana meriti un posto privilegiato nella gerarchia dei valori: siamo sicuri che i nostri interventi «razionali» abbiano ottimizzato e continuino ad ottimizzare l’ambiente? È innegabile che la vita di Ipazia sia migliorata, almeno in Occidente, grazie a tecnologie che le hanno garantito acqua, elettricità e medicine, ma che dire della vita di donne che devono abbandonare la loro terra perché la monocultura fa piazza pulita della cultura rurale? Come sarebbe adesso il nostro pianeta, come sarebbero le sue risorse, se non avessimo tentato di alterare aggressivamente il corso della natura? Domande come queste ci rendono talvolta scettici sull’effettiva superiorità del polo razionale su quello naturale (cfr. anche Shiva 1993). È però possibile negare un’affinità speciale tra donne e natura e affermare che la subordinazione delle donne e della natura non abbiano nulla in comune, se non l’origine negli assetti economici e sociali del mondo occidentale contemporaneo. La maggiore empatia di Barbara verso l’organismo che osserva al microscopio, rispetto a quella della maggioranza dei suoi colleghi, sarebbe così solo frut20

to di una socializzazione che ha insegnato all’una, ma non agli altri, che tutti i corpi hanno bisogno di cure, alcuni periodicamente sanguinano e, se sono particolarmente spensierati, possono addirittura riprodursi. Ciò che distingue le due reazioni di fronte ai multiformi dualismi della cultura occidentale è l’accettazione, o meno, dell’associazione del femminile con la dimensione naturale. La prima reazione nega che il naturale sia inferiore al razionale, ma non rigetta la maggiore vicinanza delle donne alla natura, anche sulla base di considerazioni di tipo biologico: la funzione riproduttiva conduce le donne a essere più consapevoli della dimensione corporea della vita umana e a valorizzarla. La seconda reazione si avvale invece di considerazioni di tipo sociologico per sostenere che la maggiore affinità delle donne con la natura è solo frutto della funzione sociale svolta dalle donne in una cultura che assegna loro mansioni di cura. È difficile optare per una delle due reazioni: i fenomeni complessi hanno per lo più cause complesse. Vedremo come sia la biologia sia la sociologia forniscano prospettive indispensabili per capire la corporeità e la contestualità della condizione umana. Una riflessione filosofica, che dimentica tali caratteristiche, non è adeguata a comprendere la condizione umana. Ben venga quindi Ipazia a ricordare a René e a Immanuel che non si può fare buona filosofia senza tener conto sia della mente sia del corpo, sia della ragione sia della natura. 4. Il dibattito sull’essenzialismo Per poter dire, come hanno fatto per secoli i filosofi, che le donne sono passive e non attive, affini alla natura e non alla ragione, disinteressate agli approcci teorici e alle elucubrazioni astratte, bisogna riuscire a trovare un’essenza comune a tutte le donne. È però palesemente falso asserire che tutte le donne rifuggono dal ragionamento teorico. Dopo tutto, lo afferma già Platone nella Repubblica, vi so21

no differenze in termini di capacità e talento più significative all’interno di uno stesso sesso che non tra tutte le donne e tutti gli uomini. Vi sono donne con quozienti intellettivi equivalenti o superiori a quelli di molti uomini, vi sono donne matematiche, donne filosofe, donne avvocato, donne che studiano fisica nucleare. Ipazia stessa fu studiosa e insegnante di matematica e di filosofia. Come possiamo riferirci a tutte le donne quando diciamo che non amano il pensiero astratto? Dobbiamo presupporre che essere donna comporti il possesso di un’essenza, un insieme ben definito di proprietà senza le quali un soggetto non è una donna. Ma quali sarebbero queste proprietà che devono possedere tutte le donne per essere donne? Le metafisiche femministe si devono occupare del problema dell’essenzialismo, dell’esistenza di un’essenza femminile, così come delle conseguenze teoriche e politiche del problema stesso (cfr. Spelman 1988). Platone si chiede come sia possibile definire e conoscere l’uno nei molti, come riusciamo a identificare ciò che hanno in comune, per esempio, tutti gli oggetti lucidi. La proprietà dell’essere lucido non può identificarsi con nessun particolare oggetto lucido perché la lucidità è presente anche in altri oggetti particolari, anche in oggetti che presentano una lucidità magari leggermente più opaca. Eppure diciamo di alcuni oggetti che sono lucidi, segnalando così che vi è qualcosa in comune tra loro. Platone finirà col sostenere che esiste una forma, un oggetto astratto, un concetto, potremmo dire, che non è identico a nessun oggetto concreto particolare ma che è rappresentato o esemplificato in ciascuno di loro. Questo è l’uno, la forma singolare e astratta, che raccoglie tutto ciò che hanno in comune i molti, ovvero tutti gli oggetti concreti che sono lucidi. Chiaramente questa spiegazione solleva diversi interrogativi: come si apprendono le forme o i concetti astratti visto che non sono percepibili con i sensi allo stesso modo degli oggetti concreti?; come si connette l’uno con i suoi molti? 22

Una soluzione simile viene proposta per la proprietà di essere donna. Qual è la radice comune tra Ipazia che è greca, ama il ragionamento astratto e passa il tempo a leggere trattati di matematica, ed Elisabetta che è del Palatinato, ama leggere trattati di filosofia e scrivere lettere a René? Cosa le accomuna come donne? Se Ipazia vuole persuadere Elisabetta, Cristina e Santippe che è ora che le loro domande vengano discusse nell’agorà, come riuscirà a convincerle che un’essenza comune le rende, nonostante le differenze apparenti, ontologicamente uguali tra loro e diverse dagli uomini, da tutti gli uomini? Lungi dall’essere solo astratto, questo problema ha una forte valenza concreta: sembrerebbe che solo se troviamo quest’essenza è possibile una comunanza di obiettivi per un movimento politico femminista. Vi sarebbe quindi una chiara connessione teorica tra l’essenzialismo e l’esistenza di un qualsiasi movimento politico che intenda rappresentare tutte le donne, in quanto donne. Alcune teoriche femministe proclamano l’esistenza di una radice comune alla base della disuguaglianza di tutte le donne (cfr. Woolf 1929 e 1938; de Beauvoir 1949 e Friedan 1963), ma descrivono spesso contesti culturali e sociali atti a rappresentare correttamente solo le donne appartenenti a gruppi dominanti: donne borghesi, eterosessuali, benestanti, di pelle bianca e religione cristiana. Nel «male oscuro», illustrato da Betty Friedan in La mistica della femminilità, non si può non riconoscere la «casalinghità» di molte donne occidentali borghesi che dedicano la propria vita alla famiglia, sacrificando la realizzazione di ogni ambizione professionale. Tuttavia, questo modello di donna non include molte, troppe altre donne. La domanda di una schiava nera come Sojourner Truth, «Ma non sono anch’io una donna?», richiede una risposta soddisfacente da parte di chiunque voglia teorizzare una qualche metafisica femminista. Le schiave, le donne povere, molte donne di colore, che, per ovvie ragioni economiche, non possono permettersi di rinunciare a lavorare fuori casa, e 23

che non assomigliano affatto al modello della casalinga, idealizzata e trattata come una bimba, di cui parla Friedan, sono anch’esse donne. Qualsiasi nozione di essenza che non le classifichi come tali è chiaramente carente. In questo dilemma nessuna delle due alternative sembra accettabile. Se si sostiene l’esistenza di un’essenza «donna» e si comincia a definirla, si corre il rischio di pensare che per essere donne si debba essere come Cristina ed Elisabetta, ma non come Sojourner e Ipazia. D’altro canto, se si bada alle caratteristiche particolari che definiscono quello che siamo come individui, se si presta attenzione al fatto che Ipazia è bianca e Sojourner è nera, che Saffo è lesbica ma Harriett è eterosessuale, che Cristina ha studiato e Sojourner non sa leggere, che Virginia ha una stanza tutta per sé mentre Sojourner deve dormire con molti altri schiavi, allora diventa difficile capire cosa vi sia in comune tra questi soggetti che possa legittimamente aiutarci a definire cosa voglia dire essere donna. Rimane il dubbio se si possa giustificare qualsiasi asserzione che si basi sull’essere donne, o sulle esperienze vissute in quanto donne, e il dubbio potrebbe risultare fatale per la possibilità di creare un movimento teorico e politico per tutte le donne. 5. «Donna non si nasce» Abbiamo detto che un argomento per sostenere l’affinità tra donne e natura è quello biologico: le donne sono più vicine alla natura che alla ragione e quindi pensano in modo diverso, agiscono in modo diverso, perché generano bambini. Benché già per Platone la differenza sessuale non sia rilevante per decidere come uomini e donne debbano essere educati e come si debbano scegliere i capi di Stato, l’argomento biologico continua a riemergere in varie guise. Come possiamo confutarlo? La distinzione tra sesso e genere pare la via più sicura per garantire sia un elemento comune e incontestabile per l’essenza femminile – e quindi risolvere il problema del24

l’uno e dei molti riguardo la nozione di donna – sia l’innegabile varietà di modi di essere donna che si manifestano nel reale. Si deve a Simone de Beauvoir una tesi che diventerà uno dei dogmi e degli slogan del pensiero femminista: «Donna non si nasce». Vi è infatti una grande differenza tra l’essere femmina e l’essere donna, e non c’è alcuna connessione necessaria tra le due condizioni. Essere femmina, appartenere a un certo sesso, è una condizione determinata dalla biologia: significa avere una certa configurazione anatomica che contiene tra l’altro organi riproduttivi come utero e ovaie che, nella maggioranza dei casi, rendono una donna capace di generare un altro esemplare della specie umana. Essere donna, d’altro canto, appartenere a un certo genere, è una condizione determinata dai complessi contesti sociali e culturali in cui un essere umano vive: spesso include caratteristiche diverse a seconda del diverso contesto in cui ci si trova. Sembrerebbe che non si stia dicendo nulla di nuovo. Dopotutto la differenza sessuale viene notata da diversi pensatori antichi, alcuni dei quali sviluppano teorie specifiche per collegare la sottomissione socio-politica delle donne alla loro «inferiorità» biologica. Grazie alla nozione di genere, compiamo però un grande passo in avanti nell’individuazione e nell’analisi della discriminazione delle donne. Con il termine «genere» si notano e nominano per la prima volta simboli culturali e costrizioni sociali separati e separabili dal ruolo biologico. Ipazia solleva domande che prima di lei non sono venute in mente a nessuno. È proprio necessario rinunciare a una carriera, a un impiego indipendente da quello del proprio marito, per essere una buona madre? Chi ha detto che solo le donne sanno occuparsi dei figli, o che per loro è più facile e naturale? Se non ci fossero Cristina, Elisabetta e Santippe a casa a pulire, cucinare e andare a prendere i bimbi a scuola, come farebbe René a passare tanto tempo davanti al caminetto e Socrate ad andare in piazza a discutere? E se Cristina decidesse invece di andare in piazza a parlare? 25

Il concetto di genere come costrutto sociale permette di rigettare l’idea che il sesso di un essere umano debba fissare il suo destino sociale: la biologia non determina in modo causale le nostre vite. Inoltre, il fatto che il genere di un essere umano sia legato ai contesti sociali consente di contemplare diverse modalità d’essere donna. Queste modalità sono talvolta talmente incompatibili tra loro da non poter essere contemporaneamente soddisfatte, e quindi da non poter essere tutte rappresentabili in un’essenza unitaria di donna. Nella cultura occidentale del secondo dopoguerra una donna appartenente a una famiglia nucleare agiata è prima di tutto madre e sposa, economicamente dipendente dal marito, aliena da una dimensione sociale, pubblica e politica che si estenda al di fuori del suo quartiere e della sua chiesa. Una donna appartenente a una famiglia di contadini o di operai, tuttavia, deve contribuire economicamente alla famiglia e la donna ideale del periodo bellico deve saper essere forte fisicamente. Società diverse con ideali nonché sistemi economici diversi producono modelli diversi di donna. Agire in quanto donna in contesti sociali diversi richiede azioni, sentimenti e virtù diverse. 6. L’ubiquità del genere La distinzione tra sesso e genere rimane al centro di gran parte delle metafisiche femministe fino a quando non viene sottoposta a una critica radicale. Appellandosi a Foucault e Lévi-Strauss, Judith Butler (1990 e 1993) solleva domande cruciali: da dove deriva la distinzione stessa?; come abbiamo fatto a concepirla? Se tutto ciò che pensiamo, qualsiasi nostro concetto e schema concettuale nasce all’interno di un contesto culturale e sociale, non esiste una dimensione cosiddetta naturale, una dimensione biologicamente data non soggetta ai condizionamenti culturali e sociali dei nostri modi di pensare e catalogare il reale: anche la nozione di sesso non costituisce un mero dato 26

biologico. La differenza sessuale non è il risultato di differenze fisiche avulse da qualsiasi pratica interattiva e discorsiva di cui tale differenza fa parte e in cui essa produce aspettative, reazioni e comportamenti. La nozione di sesso è «normativa» nel senso di un ideale regolativo che funziona da modello o norma per l’essere sessuato – maschio o femmina, senza alternative o gradazioni tra i due poli – e per il comportamento sessuale-eterosessuale (cfr. Butler 1993). Il genere è «performativo» nel senso che la differenza sessuale nasce in una serie di atti che si ripetono in accordo con codici di comportamento sociale (cfr. Butler 1990). La scelta e la formazione della differenza sessuale in un soggetto non sono però autonome o arbitrarie, né si risolvono in un unico atto con cui possiamo scegliere il nostro genere. La performatività del genere si manifesta nella pratica reiterata con cui i nostri modi di parlare producono gli effetti stessi a cui si riferiscono. Il sesso di un soggetto appare come un dato perché le nostre pratiche sociali e linguistiche selezionano delle caratteristiche che chiamiamo «maschili» e «femminili», e che divengono salienti e percepibili come segni di mascolinità e femminilità solo dopo averle così denominate (cfr. Butler 1993). C’è uno stretto legame tra la materialità del corpo e la materializzazione delle norme che governano la differenza sessuale. I corpi non possiedono una materialità indipendentemente dal processo attraverso il quale il sesso viene materializzato, ossia ancorato a certe particolari caratteristiche fisiologiche. In contrasto con la millenaria tradizione filosofica occidentale per cui il corpo esiste in quanto oggetto materiale incontrovertibilmente autonomo, Butler sostiene che le qualità materiali stesse dei corpi derivano in qualche modo dalle nostre pratiche sociali (per una critica cfr. Nussbaum 1999; una replica si trova in Butler 2002). Il dibattito sulle rivoluzioni scientifiche (cfr. Kuhn 1960) e la critica femminista della filosofia della scienza 27

tradizionale (cfr. Harding 1986 e 1991, Longino 1990) sottolineano come nemmeno la scienza sia autonoma rispetto ai contesti sociali in cui viene praticata. Se i risultati di una teoria scientifica, le verità che essa sostiene di provare e perfino la scelta delle entità ontologiche che ammette sono soggette a fattori normativi, allora non sembra affatto assurda la tesi secondo la quale all’interno della biologia si ammettono solo certe categorie sessuali – maschi e femmine, senza alcuno stato intermedio –, categorie che vengono prima «create», o rese salienti nel fenomeno, e poi riconosciute in esso. Basterebbe rammentare ancora una volta come Aristotele «scopra» la teoria degli umori per conservare le gerarchie sociali che ritiene appropriate per la società greca dei suoi tempi. Esempi tratti dalle scienze cognitive forniscono un’ulteriore prova che ciò che in un certo contesto sociale e culturale appare come un dato empirico incontrovertibile viene identificato invece in altri contesti come un costrutto sociale, una mescolanza di esperienze sensoriali e di rielaborazioni culturali. Persino ciò che percepiamo, ciò che vediamo a occhi nudi, è spesso determinato dal modo in cui pensiamo, da quello che ci aspettiamo di vedere, da ciò che siamo pronti a riconoscere e a concepire. Se ci aspettiamo di vedere normali carte da gioco, vedremo i cuori rossi e le picche nere, anche nel caso in cui le carte di picche sono rosse e quelle di cuori nere. Se crediamo con Aristotele e Tommaso d’Aquino che l’uovo è passivo e materiale, penseremo che lo sperma è attivo e dotato dello spirito della vita; ci parrà inconcepibile che l’uovo possa avere una funzione determinante per le caratteristiche dell’embrione. Analogamente, i nostri giudizi sul sesso di un soggetto sono plasmati dalle categorie mentali che acquisiamo nelle esperienze culturali e sociali. Siamo partite ipotizzando che varie forme di dualismo metafisico dettino le principali caratteristiche della nozione di sé elaborata dalla filosofia tradizionale. Le metafisiche femministe, criticando la valorizzazione di un solo po28

lo di tali dualismi e l’identificazione del mondo femminile con il polo passivo, naturale e materiale, discutono le nozioni di sesso, genere, corpo e materialità insieme alla loro importanza per l’elaborazione di una nozione più completa del sé. In questo quadro teorico si svolge il confronto sulla nozione di identità tra filosofia tradizionale e metafisiche femministe. Vedremo ora come si sviluppa il dibattito sull’identità nei due ambiti, per discutere poi il tema del trauma, a sostegno della nostra tesi sull’utilità di un dialogo tra la prospettiva tradizionale e quella femminista. 7. Il sé nella filosofia tradizionale I temi fondamentali che riguardano il sé nella filosofia tradizionale sono tre: il sé, la conoscenza di sé e le condizioni dell’identità personale. Il primo concerne la natura dell’identità di un soggetto: quando riteniamo che un essere sia un sé, o una persona? Quali sono le proprietà o le capacità di Sojourner che ci fanno dire che è una persona quando pronuncia la sua appassionata dichiarazione alla convention di donne di Akron, nell’Ohio, nel 1851, mentre la simpatica cagnetta Maddy assopita ai nostri piedi non lo è? Il secondo tema è epistemologico: possiamo conoscere il nostro sé e, se sì, attraverso un’introspezione che è affidabile? Se poi pensiamo di disporre di una nozione soddisfacente d’identità, sorge il terzo tema: quali sono le condizioni necessarie alle quali un soggetto, che presupponiamo essere una persona, può essere considerato la stessa persona in tempi diversi? Diamo per scontato che Ipazia sia una persona (se sembra banale, vale la pena di ricordare tempi in cui non veniva accettato come un fatto né che donne libere come Ipazia, né che donne schiave come Sojourner fossero persone) e cioè presupponiamo che sia possibile specificare quali caratteristiche fanno di Ipazia una persona, per esempio la capacità di parlare o di usare utensili o la capacità di pensare e di essere cosciente di se stessa (cfr. Dennett 1976); quali altre condizioni so29

no necessarie per asserire che l’Ipazia che sta ora leggendo il sistema matematico di Tolomeo è la stessa persona che ieri discuteva di astronomia col padre Teone?1 7.1. Persone, esseri razionali ed esseri umani. Nell’affrontare il problema dell’identità, la tradizione elabora la nozione di essere umano, la nozione di persona e la nozione di essere razionale. La meno problematica è senz’altro la nozione di essere umano: c’è infatti un accordo abbastanza evidente sul fatto che un essere umano sia un essere appartenente alla specie umana e si presuppone che tale appartenenza possa essere accertata attraverso l’analisi del DNA. Veniamo allora alle altre due nozioni. L’io o il sé viene considerato una persona, mentre neghiamo che gli animali non umani come la cagnetta Maddy, gli scimpanzè e i delfini posseggano le caratteristiche necessarie per essere persone. Perché? All’origine della nozione contemporanea di persona sta la definizione di John Locke (1690) che include due elementi fondamentali, presenti in forme più o meno sofisticate anche nel dibattito contemporaneo (cfr. Dennett 1976 e Frankfurt 1971). Da una parte vi è l’elemento metafisico che descriveremo come mentale, o psicologico: esso comprende la capacità di pensare e in particolare di concepire se stessi come un essere pensante, o cosciente, che continua a esistere nel tempo come lo stesso essere. Sojourner è una persona perché può ragionare, e di fatto ragiona bene quando dimostra che sono incompatibili tra loro la definizione di donna usata dagli oratori della convention e la realtà della sua esistenza di donna. Inoltre, Sojourner può concepire se stessa come la stessa persona in tempi diversi: adesso mentre parla di fronte a tutti e ieri quando era nei campi a lavorare duramente, o l’indomani quando avrebbe potuto 1 Nell’intestazione del terzo libro del commento di Teone al sistema matematico di Tolomeo leggiamo: «Commento di Teone di Alessandria del sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia».

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mangiare quanto un uomo, se solo le avessero dato abbastanza cibo. La cagnetta Maddy invece, almeno per quanto riesce a comunicarci, non perde tempo a pensare alla definizione di «animale domestico» e a chiedersi se lei stessa ne soddisfi le condizioni. Maddy non ha quella consapevolezza di sé come essere pensante che gli esseri umani valutano tanto positivamente da considerarla una delle condizioni necessarie per essere una persona. Il secondo elemento della nozione di persona è quello «legale». Ipazia è una persona perché può compiere azioni ed essere destinataria di azioni che hanno valenza morale: può compiere azioni moralmente meritevoli, come quando aiuta l’amica oppressa dalle faccende domestiche invece di passare il pomeriggio a leggere il sistema di Tolomeo, o può essere oggetto di disprezzo per aver osato leggere e discutere in pubblico il sistema di Tolomeo, pur essendo una donna. Anche nel caso della nozione di essere razionale, siamo alla ricerca di una nozione plausibile di razionalità che permetta di separare gli esseri umani dagli animali non umani (cfr. Bennett 1964, Davidson 1982 e Searle 2001). È recente l’ipotesi secondo cui la differenza tra Ipazia e Maddy, dal punto di vista della capacità di raziocinio, sia solo una questione di gradi. Dicendo, per esempio, che Maddy crede che la sua padrona tornerà presto a casa e per questo l’aspetta davanti alla porta, attribuiamo alla nostra cagnetta i cosiddetti «atteggiamenti proposizionali», cioè stati mentali che hanno come oggetto una proposizione o un asserto. Se diciamo che, quando si stende davanti alla porta di casa, Maddy crede che la padrona torni presto, implichiamo in un certo senso che Maddy è in grado di concepire un asserto come «la mia padrona tornerà a casa presto» e questo significa che Maddy in un certo qual modo pensa, che è quindi in una certa misura un essere razionale. Tuttavia, comprendere il sistema di Tolomeo, così come fa Ipazia, richiede un livello di razionalità superiore rispetto a quello di Maddy. La discussione della 31

nozione di razionalità finisce per essere incorporata in quella della nozione di persona: la razionalità viene ritenuta componente indispensabile dell’essere una persona. Prendiamo la relazione tra persone ed esseri razionali e chiediamoci: (a) tutte le persone sono esseri razionali?; (b) tutti gli esseri razionali sono persone? A (b) occorre rispondere negativamente, a meno che non si voglia dire che Maddy è una persona. Di primo acchito (a) sembrerebbe invece richiedere una risposta positiva: non abbiamo forse detto che la razionalità, intesa come capacità di pensare e ragionare, viene per lo più considerata necessaria per essere una persona? Se un soggetto per essere una persona deve poter pensare e ragionare, tutte le persone sono esseri razionali. Ma cosa accade se un essere perde la capacità di pensare, come pare avvenga nei soggetti in stato vegetativo permanente, o nei casi gravi di Alzheimer? Vogliamo forse dire che questi soggetti non sono più persone? Per molti queste sono domande pericolose che possono condurre a non tutelare più la vita umana. Condividiamo l’idea che concetti come quelli di persona e di razionalità siano complessi, ma non ci sembra proficuo sostenere che sono concetti indefinibili: sollevare domande simili ha il solo scopo di acquisire una maggiore chiarezza sulle credenze riguardo a noi stessi, al resto del mondo animale e a ciò che ci contraddistingue da esso. 7.2. Conoscenza di sé. Il sé non è un concetto prettamente filosofico. Ne parlano gli psicologi e ne parliamo tutti noi quando ci raccontiamo agli altri. Il sé sembra essere un presupposto ineliminabile della nostra esistenza. I modi in cui viviamo e ci rapportiamo mostrano che crediamo in un sé unitario in continua evoluzione. Eppure si può dubitare del fatto che esista un sé, dubitare che sia unitario e continuo, dubitare che possiamo conoscerlo. Se il primo dubbio non viene avanzato spesso (cfr. Olson 1998), la questione dell’unitarietà e continuità del sé appartiene in pieno al dibattito sull’identità personale (oggetto del prossi32

mo paragrafo). Ma vediamo per primo il problema epistemologico. L’introspezione ci fornisce una percezione di noi stessi, dei nostri stati mentali ed emotivi, di cosa pensiamo e di cosa sentiamo. Cartesio la considera uno strumento indispensabile per il cogito ergo sum: se non potessimo fidarci di quello che ricaviamo attraverso l’introspezione, non potremmo essere coscienti di pensare. Buona parte della filosofia tradizionale ritiene che l’introspezione sia una fonte accurata, sebbene fallibile, per conoscere se stessi. Distinguiamo infatti l’incorreggibilità dell’introspezione – se Pieranna ci dice onestamente che ha mal di stomaco, senza alcun intento di ingannarci, non possiamo ribattere che si sbaglia – dalla sua infallibilità – può darsi che il suo stomaco stia benissimo e che Pieranna pensi di avere mal di stomaco a causa di un’allucinazione. David Hume nega l’esperienza interiore di un sé unitario e continuo: il mondo interiore è un teatro in cui gli stati mentali e affettivi si susseguono come scene diverse di un’interminabile commedia. Quando impieghiamo l’introspezione, sperimentiamo sempre e solo la pura sensazione del momento presente. Se Pieranna ora si concentra su se stessa, può avvertire il silenzio attorno a sé, rendersi conto che sta pensando a come presentare la posizione di Hume, sentire freddo ai piedi, ma non può mai esperire null’altro al di là di queste esperienze individuali: l’introspezione non fornisce prove dell’esistenza di un sé unitario e continuo, soggetto delle nostre esperienze. Pur negando l’esperienza diretta di un sé al di là del flusso delle esperienze interiori, Hume non nega che quando Pieranna sente il silenzio che la circonda, ella stia effettivamente provando questa sensazione. Egli non chiama in causa l’accuratezza dell’introspezione, bensì la sua portata. È importante notare la differenza tra avere l’esperienza di un sé continuo in aggiunta a stati interiori particolari e avere la convinzione di essere uno stesso sé unitario e continuo. È possibile essere convinti di essere un sé unitario e 33

continuo senza averne esperienza, così come può accadere a una persona poco introspettiva. È del resto possibile avere esperienza di sé, ma non accettarla come autentica e affidabile, così come può accadere a un soggetto schizofrenico che abbia la sensazione di essere un sé unitario all’interno degli episodi in cui si manifesta l’una o l’altra delle sue molteplici personalità, ma che non si fidi di questa esperienza ben ricordandosi dell’esistenza delle altre personalità. Ne dobbiamo concludere che la convinzione di essere un sé e l’esperienza di un sé unitario e continuo sono stati diversi e indipendenti uno dall’altro. 7.3. Identità personale. Per risolvere il problema dell’identità personale, cioè per trovare a quali condizioni siamo disposti a dire che ci troviamo di fronte alla stessa persona in tempi diversi, vengono proposti due tipi di criteri, corporei e psicologici. Stando ai criteri corporei, ci troviamo di fronte alla stessa persona, se e solo se questa ha lo stesso corpo, o è lo stesso organismo (cfr. Thomson 1997, Carter 1989, Feldman 1992, Mackie 1999, Olson 1997, van Inwagen 1980 e Williams 1973). Stando ai criteri psicologici, ci troviamo di fronte alla stessa persona se e solo se in essa permangono gli stessi ricordi, gli stessi gusti, gli stessi progetti, ossia una qualche commistione delle stesse caratteristiche psicologiche (cfr. Johnston 1987, Garrett 1998, Lewis 1976, Noonan 1989, Nozick 1981, Perry 1972 e Unger 1990). Il criterio corporeo gode di un’iniziale plausibilità perché è indubbio che nella vita di tutti i giorni ci avvaliamo del criterio dell’apparenza fisica per riconoscere noi stessi e gli altri. Se la nostra amica Ipazia ha lo stesso viso, la stessa statura e la stessa apparenza fisica di ieri non ci verrà in mente di dubitare che sia proprio la stessa Ipazia a prendere l’autobus con noi stamattina. Impieghiamo lo stesso criterio anche per riconoscere gli animali, le piante e gli oggetti materiali. Sebbene l’utilizzo di un unico criterio per accertare la permanenza di diversi tipi di entità pre34

senti il vantaggio della semplicità, il criterio corporeo ha un’ovvia limitazione. Dato che i nostri corpi sono in continua evoluzione, è infatti impreciso dire che riconosciamo le persone perché hanno la stessa apparenza fisica. Sicuramente la nostra amica non è più esattamente la stessa che abbiamo incontrato al liceo e il suo corpo, come del resto il nostro, è senz’altro cambiato; eppure non abbiamo dubbi quando la riconosciamo. Forse, allora, non è solo l’aspetto fisico a guidarci, anche perché possiamo riconoscere una persona e credere che sia la stessa anche quando la rivediamo dopo parecchio tempo e la sua apparenza fisica è notevolmente cambiata. Proprio per tentare di spiegare questi casi, ci sono criteri che si concentrano sulle nostre caratteristiche psicologiche. Nel tentativo di mostrare l’importanza delle caratteristiche psicologiche, si possono utilizzare esperimenti mentali complessi. Quinton (1962), per esempio, ci propone il seguente. Immaginiamo che, mentre stiamo passeggiando sulla spiaggia con Ipazia, si verifichi un terribile incidente: Ipazia calpesta inavvertitamente una mina e il suo corpo viene distrutto. Immaginiamo anche che, quella stessa notte, ci appaia un’immagine luminosa che ci parla esattamente come avrebbe fatto Ipazia, ricordandoci particolari del sistema di Tolomeo e menzionando progetti di ricerca che abbiamo discusso assieme. Inizialmente possiamo pensare a un’allucinazione, o a uno scherzo di pessimo gusto, ma se tale situazione perdurasse nel tempo, se l’immagine continuasse a venirci a trovare e mantenesse con noi un rapporto in tutto e per tutto simile a quello che avevamo con Ipazia, alla fine ci abitueremmo all’idea che la nostra amica esiste ancora, seppure in forma non tangibile, e cominceremmo a trattarla in questa nuova forma, così come trattavamo Ipazia quando aveva ancora un corpo. L’esempio dovrebbe dimostrare che non è necessario il corpo per la continuità di una persona, bensì i ricordi, le credenze, i progetti di vita, i pensieri, insomma uno specifico patrimonio psicologico. 35

Se l’esempio ci fa sorridere per la sua improbabilità, quelli che costellano il dibattito contemporaneo sull’identità personale sono ancora più ingegnosi. Non mancano infatti príncipi e poveri che si scambiano corpi o cervelli, repliche di cervelli e di corpi che permettono di costruire controparti fisicamente e psicologicamente identiche a noi, donne che ricevono tutti i ricordi di un uomo e avversari politici che si ritrovano a vivere uno nel corpo dell’altro (cfr. Williams 1973, Parfit 1984 e Perry 1975). A meno di non essere sostenitori incalliti dei criteri psicologici, è chiaro che esperimenti mentali come questi propongono casi fisiologicamente impossibili per la biologia e medicina attuali. Non possiamo ancora trapiantare cervelli, così come invece trapiantiamo altri organi vitali, e non abbiamo ragione di pensare che, se tali trapianti fossero chirurgicamente possibili, il cervello porterebbe con sé, completo e inalterato, il patrimonio psicologico di una persona. Al contrario di quanto affermano i filosofi che li usano, questi casi non sembrano poi particolarmente convincenti e ci lasciano più confusi di prima. Infine, è difficile liberarsi dall’impressione che essi presentino una certa circolarità: se immaginiamo che il patrimonio psicologico di Ipazia venga trasferito nel corpo di Socrate, e viceversa, grazie a uno scambio di cervelli, non ci siamo già serviti di molte ipotesi senza dimostrarle? Per esempio, abbiamo presupposto che il patrimonio psicologico di Ipazia, o quello di Socrate, sia astraibile con precisione e nettezza dal corpo in cui i ricordi, pensieri, sensazioni, sentimenti di Ipazia, o di Socrate, si sono formati e abbiamo dato per scontato che un corpo, o l’altro, non faccia differenza per il patrimonio psicologico stesso: il vero Socrate può ritrovarsi nel corpo di Ipazia e, vista la misoginia di quei tempi, pensare: «Oibò, sono fregato!». Proponendo l’esempio, ormai classico, del principe e del povero che si scambiano i corpi, Williams (1973) si chiede come sia possibile al principe esprimere la sua ironia raffinata con la voce rozza e le fattezze popolane del 36

povero. Quinton (1962) immagina invece che la personalità e i ricordi di Winston Churchill si ritrovino nel corpo di una bimba di sei anni per domandarsi se la saggezza e la sagacia di Churchill possano trovare espressione in un corpo infantile. Questi casi, in cui alcune caratteristiche psicologiche dipendono da certe caratteristiche fisiche per potersi realizzare, dovrebbero provare che non si riesce a far a meno del corpo per conservare le caratteristiche psicologiche e quindi l’identità di una persona. Si potrebbe obiettare che i suddetti esempi non mostrano che il corpo specifico del principe, o quello di Winston Churchill, è necessario per la continuità delle caratteristiche psicologiche, ma solo che un certo tipo di corpo è necessario. Il principe ha bisogno di un corpo raffinato e Churchill di un corpo anziano, ma questo non implica che lo stesso identico corpo debba esser presente. Le cose stanno proprio così? Immaginiamo di innamorarci di una persona, che debba per lavoro stare spesso lontana da noi o che sia a lungo irraggiungibile; ci basterebbe una sua replica con lo stesso tipo di corpo e le stesse identiche caratteristiche psicologiche per essere felici? Molto di quanto intendiamo con «amare una persona» comincerebbe a sgretolarsi in un’ipotesi del genere, e riflettere su ciò può incoraggiarci a non sottovalutare quanto la situazione in cui ci troviamo sia profondamente ancorata nella corporeità. (Williams 1973, p. 81).

Questa reazione viene condivisa da quelle metafisiche femministe che rimproverano alla filosofia tradizionale di sottovalutare il corpo e il suo ruolo nella costituzione del sé e nella conservazione dell’identità personale. 8. I sé nelle metafisiche femministe Nelle metafisiche femministe il dibattito sul sé genera grande interesse (cfr. Meyers 1997). Ancora una volta non 37

prevale una visione unitaria: «Non esiste [infatti] ‘la prospettiva femminista’ o una ‘teoria femminista’ univoca» (Griffiths 1995, p. 5). Analizzeremo qui di seguito alcune concezioni fondamentali: il sé corporeo, il sé relazionale, il sé narrativo. Partiamo dal sé corporeo. In forte contrasto con la filosofia tradizionale, le metafisiche femministe sottolineano l’importanza del corpo e della sua materialità nella costituzione dell’identità. Vi è la necessità di analizzare e alterare le varie forme di dualismo. La volontà di valorizzare la natura delle donne porta in primo piano il corpo come parte di questa stessa natura (cfr. par. 3 del presente capitolo). La tematizzazione della distinzione tra sesso e genere, insieme al controverso rapporto tra dimensioni biologiche e dimensioni sociali, conduce non solo a rivalutare le dimensioni naturali, materiali e corporee dell’esistenza umana in nome di una sua comprensione più integrale, ma anche ad analizzare criticamente queste stesse categorie (cfr. Butler 1993 e Cavarero 1995). Il corpo è entità centrale per discutere le nozioni di bellezza, sensualità e piacere. Alcuni studi si occupano della violenza che i vari stereotipi sociali sull’erotismo e sulla sessualità esercitano sulle donne e sulla loro corporeità (cfr. Bartky 1990, Young 1990 e Hesse–Biber 1996); altri vedono l’anoressia e la bulimia come disturbi psicologici generati dell’interiorizzazione parossistica di un modello di bellezza femminile che conduce le donne a odiare il proprio corpo (cfr. Bordo 1993 e Bran 1999); altri ancora riflettono sul trattamento medico e sociale dell’handicap (cfr. Wendell 1996). In tutti questi campi, le metafisiche femministe si distinguono per una maggiore attenzione nei confronti della corporeità e materialità quali componenti imprescindibili dell’identità umana. Si distinguono poi per una marcata ostilità nei confronti dell’approccio medico-scientifico occidentale che tende a sottovalutare sia la prospettiva personale – il corpo vissuto piuttosto che osservato o usato – sia l’autorità cognitiva del soggetto nel ri38

ferire le proprie esperienze fisiche alle autorità mediche. Anche nella filosofia tradizionale contemporanea qualcosa sta però cambiando al riguardo: si comincia a rifiutare l’oggettivazione del corpo, il suo essere trattato alla stregua di un mero oggetto (sessuale o meno) che possiamo possedere (cfr. Olson 2006). Da una collaborazione tra prospettiva femminista e prospettiva tradizionale potrebbe nascere un’argomentazione più convincente per rifiutare l’oggettivazione e per rivalutare l’esperienza cosiddetta proprio-percettiva – quell’esperienza del corpo che abbiamo, diciamo, dall’interno, dalla prospettiva in cui il corpo non è vissuto come oggetto da possedere, ma piuttosto come parte essenziale della nostra identità. Pur rammentando i limiti dell’introspezione, così come ci ricorda anche la psicoanalisi, ci possiamo appellare all’incorreggibilità della percezione personale del nostro corpo per difendere alcuni diritti fondamentali (per esempio, quello dei disabili di un ascolto attento della loro prospettiva da parte degli altri, personale medico compreso). Se per la filosofia tradizionale il soggetto è autonomo e autosufficiente, per le metafisiche femministe esso è radicato nei contesti sociali: è un sé relazionale. La relazionalità del sé si stabilisce a partire dai primi fondamentali rapporti con la madre e il padre e persiste per tutta la nostra esistenza, colorandone intimamente gli aspetti etici (cfr. Chodorow 1978 e Gilligan 1982). Per Butler (1990), Ipazia non è un sé senza essere, o prima di essere, una donna, cioè prima di appartenere a un genere; Friedman (1997) elabora una nozione di autonomia che necessita di un sé relazionale; per Brison (1997 e 2002) la relazionalità è essenziale per la ricostruzione di ogni sé disintegrato da traumi e violenze. Wendell (1996), infine, è a favore dell’esistenza di un legame profondo tra i contesti sociali e l’identità del disabile: così come l’handicap stesso è un costrutto sociale, l’identità di una persona disabile non può formarsi se non all’interno di una rete di relazioni. 39

Il problema del sé e della conoscenza del sé diviene allora il problema della costituzione sociale dell’identità personale. Così come Pieranna è la figlia di Rina, l’alunna di Lucia e l’ex insegnante di Kristie, ogni altro essere umano, uomo o donna, bambino o anziano, esiste in una rete di relazioni sociali che definiscono i ruoli, i doveri, i privilegi e le dipendenze di tale soggetto. Le aspettative sociali che ci vincolano a doveri familiari e sociali differenti, a seconda delle comunità in cui viviamo, sono all’origine della formazione, legittimazione e conservazione della nostra identità. Sebbene la concezione relazionale del sé non sia un’elaborazione peculiare delle metafisiche femministe (anche Fichte, Hegel e Marx sviluppano concezioni relazionali), rimane specifica delle prospettive femministe l’attenzione per i sistemi di oppressione sociale (per esempio, il genere, le preferenze sessuali e l’handicap), che contribuiscono a determinare i contesti sociali in cui il sé si costituisce. Veniamo ora all’ultima delle tre concezioni del sé. L’intuizione alla base della concezione del sé narrativo risiede nella convinzione che la nostra identità sia costituita da una narrazione diacronica dei fatti della nostra vita. Talvolta l’autore è il protagonista (cfr. Schechtman 1996 e Dennett 1988), nel qual caso possiamo parlare di autobiografia e di un sé che crea se stesso narrando la propria storia. Talvolta invece l’autore della nostra storia è un’autrice che narrandoci ci crea (cfr. Cavarero 1997). Le tesi fondamentali di questa concezione sono due: una descrittiva, l’altra normativa. Per la prima gli esseri umani sono caratterizzati dal vivere di fatto la propria esistenza come una narrazione, una storia, o almeno un insieme di storie. Forse per poter dire di aver vissuto una vita meravigliosa, come fa Wittgenstein poco prima di morire, è necessario aderire alla tesi descrittiva e valutare esteticamente la propria vita. Per la tesi normativa, invece, dobbiamo vivere e concepire la vita come una narrazione; è indispensabile per essere una persona in senso proprio (cfr. Strawson 2004). Strawson nega che la tesi empirica 40

valga per scrittori famosi come Borges, Montaigne, Iris Murdoch, Proust, Stendhal, Virginia Woolf (gli «episodici» vivrebbero la propria esistenza come una serie di episodi distinti senza continuità tra loro), e filosofi di varie tendenze (per esempio, Hannah Arendt 1958 e 1968, Foucault 1984, 1999 e 2001b, Ricoeur 1990) sostengono la tesi normativa, tesi del resto che riteniamo assai plausibile. Nessuna delle tre concezioni si trova in opposizione con le altre. In particolare, una concezione che unisca la dimensione relazionale a quella narrativa spiega meglio la conoscenza del sé di quanto non riesca a fare una concezione non-relazionale. Infatti, se il nostro sé è radicalmente autonomo e autosufficiente, possiamo conoscerlo solo attraverso l’introspezione, ma, dal momento che l’accuratezza di quest’ultima è chiamata in causa, una concezione non relazionale deve trovare delle ragioni a sostegno dell’affidabilità dell’introspezione stessa. D’altro canto, una concezione sia narrativa sia relazionale può appellarsi alla conoscenza degli altri come base per la conoscenza di se stessi. Visto che, come diverrà chiaro nel prossimo capitolo, la testimonianza è all’origine di gran parte della nostra conoscenza del mondo esterno, la conoscenza del sé sarebbe resa possibile dalla stessa fonte conoscitiva che rende possibile la maggior parte delle nostre conoscenze. Cavarero (1997) difende un’identità altruistica insieme a una concezione sia relazionale sia narrativa del sé: è la relazione con un altro che racconta la nostra vita e che, così facendo, crea il nostro sé, che ci permette di esistere come una narrazione, non nell’autonomia e nell’isolamento, ma in rapporto a chi ci guarda, ci comprende, ci descrive. 9. Il trauma Abbiamo utilizzato alcuni esperimenti mentali per discutere dell’identità personale. Il loro impiego è però problematico. Se vi è chi lo difende (cfr. Parfit 1984 e Sorensen 1992), vi è anche chi lo ritiene fuorviante (cfr. Wittgenstein 41

1967 e Quine 1972), inconcludente (cfr. Wilkes 1988) e superfluo (cfr. Brison 2002). Senza voler negare che gli esperimenti mentali abbiamo una funzione utile, crediamo che possa essere a volte più opportuno rivolgerci a casi reali. Per esempio, appellarsi a casi di traumi reali ci garantisce, più chiaramente di ogni esperimento mentale, la possibilità di applicare la riflessione filosofica a una nozione, come quella del sé, che interessa tutti noi. Per trauma intendiamo un evento in cui una persona si sente profondamente vulnerabile e in balia di una forza percepita come una minaccia per la propria vita (cfr. Brison 1997 e Herman 1992). Un trauma può essere causato da una guerra, un attacco personale (come negli episodi di violenza sessuale o fisica, rapina, scippo), un rapimento, un attentato terroristico, una tortura, una prigionia, l’internamento in un campo di concentramento, un disastro naturale o dovuto all’opera dell’uomo, un grave incidente automobilistico, la diagnosi di una malattia grave (cfr. American Psychiatric Association 1994, p. 424). Un trauma è una ferita psicologica che le vittime considerano alla stregua di una frattura radicale nella propria esistenza (cfr. Freedman 2006, p. 106). «Sono morta ad Auschwitz, ma nessuno lo sa» (Delbo 1970), «Si può essere vivi dopo Sobibór senza essere sopravvissuti a Sobibór» (Langer 1995), «Sono morto in Vietnam» (Shay 1994), «Mi mancherà sempre la persona che ero» (Scherer 1992). Qui parlano due sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, un reduce di guerra e la vittima di uno stupro. In testimonianze di questo genere c’è spesso un sé che parla di se stesso e un sé che viene dichiarato morto, scomparso, rimpianto. Ci troviamo quindi di fronte a un paradosso: il soggetto afferma in qualche modo di non esistere e tuttavia, per poter parlare della propria non esistenza, deve essere in grado di esistere in qualche modo. In opposizione a Cartesio che afferma «Penso, perciò esisto», chi subisce violenza afferma «Penso, ma non esisto più». 42

Una concezione adeguata del sé, che riesca a rendere conto delle affermazioni di chi ha subito un trauma, deve comprendere tutte le dimensioni del sé menzionate in precedenza: il sé deve essere corporeo, relazionale e narrativo (cfr. Brison 1997). Deve essere inoltre possibile concepire una nozione di soggetto che, a differenza di quella di Locke, non richieda la continuità e l’unitarietà del sé. Questo perché la vittima di un trauma è da una parte la stessa persona e d’altra parte ha perduto una dimensione importante della propria unitarietà. Infine, l’autonomia del sé dev’essere connessa intimamente con la relazionalità del sé; solo così si riesce a ricostruire in qualche misura un sé che, benché non propriamente unitario e continuo, può, nonostante tutto, parlare di se stesso quando si dichiara morto. La dimensione corporale del sé è necessaria per poter capire quanto avviene nell’esperienza traumatica. Nella situazione post-traumatica, l’unione mente/corpo viene recepita con tale intensità dalla vittima che mente e corpo possono risultare indistinguibili. Reazioni considerate usualmente psicologiche, come la paura e l’ansia, vengono esperite come corporee, in quanto del tutto al di fuori di un qualche controllo consapevole. I ricordi del trauma sono rivissuti nel corpo e non solamente nella memoria; hanno un carattere corporeo legato all’individualità e alla specificità del corpo che ha subito il trauma. Come ben sottolinea Brison, Lo studio del trauma non porta alla conclusione che il sé possa essere identificato con il corpo, ma dimostra che il corpo e la percezione che se ne ha sono nonostante tutto componenti essenziali del sé (Brison 1997, p. 18).

Sebbene condizione non sufficiente, il corpo è senz’altro una condizione necessaria per identificare la stessa persona in tempi diversi. Un corpo del medesimo tipo di quello che ha originariamente subito la violenza, come richiederebbe la proposta di Quinton, non riuscirebbe affatto 43

ad assicurare identità a una vittima. Solo con quel corpo, che ancora conserva nella propria fisicità la memoria della violenza, la vittima potrà ricominciare a essere in qualche misura se stessa. La narratività e la relazionalità del sé sono proprietà interdipendenti nel senso che l’esistenza dell’una richiede l’esistenza dell’altra, e viceversa. Durante l’evento traumatico e nelle esperienze post-traumatiche, la vittima acquista una percezione del tempo diversa da quella di persone che vivono in circostanze normali. Per le vittime il passato scompare, il futuro diventa brevissimo, una questione di ore, e il presente domina la coscienza. In queste circostanze non avrebbe senso parlare di un sé narrativo perché manca una dimensione diacronica che consenta al soggetto di narrare una storia su di sé, in cui il soggetto esiste nel passato, nel presente e nel futuro. Ma l’esperienza del trauma è l’esperienza dell’annullamento di sé; nel trauma la persona si dissocia da se stessa e dice spesso di essersi osservata dall’esterno, forse perché ogni identificazione con la vittima sarebbe intollerabile. La dimensione narrativa del sé riemerge come una necessità nell’esperienza post-traumatica quando il soggetto deve narrare l’esperienza vissuta per riappropriarsene, per ricostruire una storia in cui riconoscersi. La tessitura della narrazione permette alla vittima di riguadagnare un certo livello di controllo: Mentre i ricordi traumatici (soprattutto i flashback percettivi ed emotivi) sembra vengano subiti passivamente, le narrazioni sono il risultato di certe scelte ovvie (quanto raccontare, a chi, in che ordine e via di seguito)... Si possono controllare certi aspetti delle narrazioni e quel controllo, esercitato ripetutamente, porta a un maggior controllo sui ricordi stessi, rendendoli meno invadenti e conferendo a essi quel tipo di significato che permette loro di essere integrati nel resto della vita (Brison 1997, p. 24).

L’integrazione dei ricordi in una narrazione che consente alla vittima di ricostruire il proprio sé richiede un contesto sociale; la vittima ha bisogno di altri che ascolti44

no: «La narrazione cura i cambiamenti di personalità solo se il sopravvissuto trova o crea una comunità di persone fidate capace di ascoltarlo» (Shay 1993, p. 188). Inoltre, solo all’interno di un contesto sociale le storie che narriamo acquistano un significato: «In grande misura, custodiamo le nostre storie l’uno per l’altro, e la forma che queste storie prendono emerge in parte dai racconti tessuti insieme» (Hoffman 1989, p. 279). Perché la nostra storia acquisti significato deve essere narrata all’interno di un contesto di segni, norme, relazioni condivise. Ci pare che solo una concezione che tessa insieme le varie nozioni di sé discusse nelle metafisiche femministe e che incorpori una versione emendata del sé autonomo della filosofia tradizionale possa render ragione di affermazioni paradossali quali «Sono morta ad Auschwitz». Tale concezione non deve considerare il sé come unitario, continuo e coerente perché il sé può anche non parlare con una voce sola. Deve poi tener conto del fatto che il sé risiede in un corpo e ne ha bisogno per essere se stesso, per ricordare pienamente, per esempio. Infine, il sé deve essere relazionale e narrativo perché nessun sé si ricostruisce al di fuori di una rete di relazioni sociali che sole rendono sensata la storia della nostra esistenza. L’incontro tra filosofia tradizionale e metafisiche femministe riesce così a consegnarci una nozione di sé più completa che chiarisce esperienze umane reali e tragicamente significative. Il problema metafisico di trovare una concezione soddisfacente del sé necessita però inevitabilmente di risposte sensate a importanti quesiti riguardanti la conoscenza: ce ne occuperemo nel prossimo capitolo.

La conoscenza delle donne

Ciò che sappiamo non sempre si vede – le peggiori paure sono ignote – È la terra locanda di stranieri e l’aria – di segreti – Emily Dickinson

1. Soggetti conoscenti e oggetti di conoscenza In questo capitolo tratteremo delle epistemologie femministe; ne parleremo al plurale e non al singolare perché esse concettualizzano in modo differente e variegato il problema della conoscenza nella convinzione che «una diversità di prospettive è necessaria per un discorso critico e vigoroso che sia epistemicamente efficace» (Longino 2002, p. 131). Il loro obiettivo è quello di fare leva sul genere femminile (ma anche maschile) come la migliore categoria per discutere, criticare, rivedere il quadro con cui in passato si è riflettuto sulle pratiche e sulle norme epistemiche, al fine non solo di mostrare che la tradizione opprime le donne sotto il profilo conoscitivo, ma anche di sviluppare nuovi approcci che enfatizzino competenze e doti conoscitive femminili. Questi lavori sono stati spesso ignorati, nella convinzione immotivata che le epistemologie femministe non siano a pieno titolo epistemologie, o che esse non 47

riescano a fare altro che proporre qualcosa di banalmente analogo a «gli uomini vengono da Marte, mentre le donne vengono da Venere» o «gli uomini non chiedono mai informazioni, mentre le donne non sanno leggere le cartine». Forse, però, più che contestare da subito il diritto delle epistemologie femministe di fregiarsi del titolo di «epistemologie», o più che offrire di esse una visione caricaturale, è meglio cercare di capire se esse sviluppano tesi interessanti e se queste tesi apportano contributi originali all’epistemologia (cfr. Nelson e Nelson 1994, p. 487). I temi che ci apprestiamo a discutere ci forniranno buone ragioni per ritenere che le epistemologie femministe, nel richiamare l’attenzione sulle dimensioni sociali della conoscenza, contribuiscono in modo essenziale e duraturo allo sviluppo dell’epistemologia contemporanea. Come abbiamo appreso nel capitolo precedente, la filosofia tradizionale si appella formalmente a un soggetto conoscente astratto, imparziale e universale. Tuttavia, è difficile negare come tale soggetto sia in realtà particolare e concreto e venga per lo più identificato con l’uomo bianco, occidentale, eterosessuale, di cultura elevata, di buona posizione sociale. A sostegno della tesi secondo la quale il soggetto è particolare e concreto, molte filosofie femministe si appellano alla psicoanalisi e dichiarano che il contesto sociale del genere maschile è diverso, nella nostra società, da quello del genere femminile (cfr., per esempio, Chodorow 1978 e Keller 1985; ma anche Scheman 1995)1. Vediamo meglio. I bambini, di genere sia femminile sia maschile, si sviluppano in modo da raggiungere la maturità cognitiva ed emotiva, il che comporta elaborare un senso di sé distinto dagli altri e dall’ambiente circostante. Si tratta del senso di 1 Alla pratica psicoanalitica può però venire mossa, tra l’altro, l’accusa di sessismo (si pensi all’atteggiamento di Freud nei confronti di Dora) e di astoricismo (è sospetta l’insistenza a tutti i costi sulla famiglia nucleare). Per alcune lacune e ambiguità nell’opera freudiana in relazione alla sessualità, eterosessualità e omosessualità cfr. De Lauretis (1994).

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un sé autonomo che nasce e inizia a manifestarsi a partire dai primi anni di vita come processo di separazione dalla madre. Nonostante il complesso di Edipo, il bisogno di separazione è recepito in modo più acuto dai bambini di genere maschile: essi devono sviluppare non solo un senso di sé individualmente separato da quello della madre, ma anche un senso di sé che nulla condivide col genere a cui appartiene la madre – è questa infatti la richiesta di una cultura, come la nostra, in cui il maschile non deve presentare traccia del femminile. La separazione è drammatica e conduce a una forte ansia di autonomia dagli altri, oltre che dalla madre. Si ottiene così il soggetto a cui l’epistemologia tradizionale si riferisce: un soggetto individualista e isolato, il cui sguardo sul mondo è distaccato e incapace di assumere nei confronti della natura che lo circonda un atteggiamento simbiotico e/o emotivo. Del resto, sebbene comprensibile, il desiderio di distacco, disinteresse, assolutezza, è un paravento dietro cui si cela spesso il bisogno maschile di egemonia (cfr. Keller 1985, Jaggar 1989 e Young 1986). Più in generale, è difficile negare che la propria situazione, soprattutto in connessione al genere di appartenenza e all’identità culturale, non giochi alcun ruolo nel tipo di opportunità cognitive ed esperienze epistemiche che si possono avere. Per esempio, rispetto agli uomini, le donne dispongono senz’altro di maggiori occasioni per sapere cosa significhi essere anoressica, partorire con dolore, soffrire di depressione. È proprio per capire che cos’è la conoscenza che occorre negare che il soggetto conoscente sia un essere neutro o generico, che non ha storia, genere, razza, classe sociale, preferenza sessuale, cultura, età2. Il 2 Se da una parte occorre notare che la nozione di razza è al centro di accese polemiche, nelle quali si portano in campo anche appelli più o meno fondati alla ricerca scientifica, d’altra parte è bene rilevare che ai suddetti fattori se ne potrebbero aggiungere altri: origini etniche, caratteristiche genetiche, lingua, fede religiosa, appartenenza politica, handicap, stato economico, solo per menzionarne alcuni.

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genere non è così l’unica categoria cui si ricorre, perché c’è una duplice convinzione: da un lato, si ritiene che possesso della conoscenza e posizione epistemica non siano influenzati solo dalle specificità di genere, dall’altro, si pensa che lo stesso concetto di «genere» sia analizzabile solo in relazione ad altri concetti. Per dirla in parole povere, anche se è possibile che ognuno di noi sia o uomo o donna, non è possibile che si sia solo uomo o donna: si è single o sposati, bianchi o no; poveri o ricchi; eterosessuali o no; giovani o anziani; e così di seguito. Non si dà soggetto conoscente che non appartenga a un determinato genere, classe, razza, e via dicendo, cosicché il soggetto è sempre situato. Per esempio, i soggetti hanno corpi differenti per costituzione e ruoli, e questo influenza il loro modo di osservare un fenomeno come la guerra: essa diventa accettabile o inaccettabile a seconda della posizione di forza o di debolezza in cui ci si trova, o del ruolo sociale d’aggressione o di cura che si è deputati a svolgere. Qui di seguito intendiamo chiederci sia se le donne conoscono, sia se le donne sono conosciute. Anche se prevarrà l’interesse per le donne come soggetti conoscenti, ci soffermeremo sul problema delle donne come oggetti di conoscenza. Il nostro proposito è motivato dalla banale constatazione che, rispetto alla conoscenza, alle donne può venire negato sia il ruolo di soggetti, sia quello di oggetti. Da una parte, le donne non riescono a essere soggetti conoscenti, perché vengono ostacolate nelle loro capacità e possibilità di acquisire conoscenza: sono definite «irrazionali» e contrapposte al soggetto conoscente razionale; viene loro sottratta autorità epistemica; sono relegate in posizioni cognitive inferiori e la subordinazione a cui vengono costrette le rende insicure; sono loro sottratte risorse necessarie come il tempo, il potere, il denaro da investire in cultura; viene loro negata un’educazione, anche a proposito delle condizioni della loro esistenza (basti pensare che la differenza tra orgasmo vaginale e orgasmo cli50

torideo è ancora sconosciuta a molte donne – chi ha letto il «vecchio» Rapporto Hite ricorda che mentre il 70% delle donne non raggiunge l’orgasmo vaginale, il 92% raggiunge quello clitorideo), o comunque un’istruzione adeguata (alle donne è stato a lungo negato l’accesso all’università, mentre la scolarizzazione di massa non riguarda ancora molte donne nel mondo); non sono previsti per loro programmi di formazione, educazione e/o sensibilizzazione specifici (a proposito dei loro diritti rispetto alle molestie e alle violenze sessuali, o dei rischi che comporta il lavoro domestico, o del fatto che il loro ruolo di mogli, madri, figlie può essere all’origine di patologie di tipo psicologico); sono discriminate sul lavoro (basti ricordare che in Italia le donne professori ordinari sono solo il 15%); sono praticamente escluse da settori specifici della conoscenza (quante donne astronaute ci sono e quante di loro sono sbarcate sulla luna finora?); vengono «rapinate» dei loro contributi conoscitivi3; non sono incoraggiate ad acquisire competenze e a ottenere qualifiche di tipo «maschile». Tutto ciò ha senz’altro contribuito a eliminare le donne come soggetti conoscenti dalla cultura occidentale, a far pensare a molti che le donne non siano in grado di offrire contributi significativi, a fare sì che le donne siano diventate competitive tra loro nel tentativo di preservare un qualche status (sulla competitività femminile, cfr. Brown 2003). Basti ricordare – lo abbiamo visto nel primo capitolo – come la scienza, l’arte e la filosofia occidentali abbiano «dimenticato» le proprie protagoniste4 o come an3 Se sono forse poco noti i casi di Sophie Brahe e del fratello Tycho, di Gabrielle du Châtelet e di Voltaire, di Marie Paulze Lavoisier e del marito, di Ada Byron e di Charles Babbage, sono sicuramente emblematici i premi Nobel negati a: Jocelyn Bell-Burnell in favore di Anthony Ewish; Rosalind Franklin in favore di Francis Crick e James Watson (cfr. Sayre 1975); Mileva Maric´ in favore di Albert Einstein; Lise Meitner in favore di Otto Hahn; Chien-Shiung Wu in favore di Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang. 4 Vogliamo allora ricordare alcune scienziate importanti: per il Settecento Laura Bassi, la prima italiana a ottenere una cattedra universi-

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cora nel 2005 il rettore di Harvard, Lawrence H. Summers, possa aver ipotizzato che le donne siano non solo socialmente ma anche biologicamente inferiori agli uomini nella scienza e nell’ingegneria. Chiaramente, il problema è lungi dall’essere superato, o dal riguardare oggi solo i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Ma non sarà che la ragione della penuria di donne nelle carriere scientifiche non è tanto la biologia quanto il fatto che, a differenza degli uomini, le donne non hanno una moglie? È sempre illuminante leggere un classico testo d’umorismo femminista scritto da Judy Syfers nel 1971, intitolato Why I Want a Wife, che magnifica i vantaggi dell’avere una moglie, grazie alla quale siamo esentati dalle preoccupazioni e dai compiti di tutti i giorni. D’altra parte, le donne vengono rese invisibili come oggetti di conoscenza, e questo nelle più diverse discipline. L’economia ignora il lavoro casalingo: esso non è discusso nel Capitale di Marx e, comunque, anche quando si dedica attenzione all’economia domestica, non viene riconotaria, la matematica Maria Gaetana Agnesi, autrice di un testo fondamentale di analisi, l’astronoma Caroline Herschel scopritrice di otto comete; per l’Ottocento le matematiche Marie Sophie Germain, Ada Byron Lovelace, Sofia Kovaleskaja e Emmy Noether; la fisica e astronoma Mary Fairfax Sommerville, la fisica e chimica Marie Sklodowska Curie, che riuscì a vincere un doppio premio Nobel; le astronome e astrofisiche Maria Mitchell, Henrietta Swan Leavitt, Anne Cannon, Antonia Maury e Cecilia Payne Gaposchkin. Non si può non menzionare Maria Montessori, la prima donna dell’Italia unita a laurearsi in medicina e a esercitare la professione di medico. Nel secolo scorso hanno brillato alcune psicoanaliste: Anna Freud, Melanie Klein, Helen Deutsch, Juliet Mitchell, Luce Irigaray, mentre Ruth Benedict, Margaret Mead, Ida Magli e Cecilia Gatto Trocchi hanno offerto significativi contributi all’antropologia; Margherita Hack è invece astronoma di profilo internazionale e grande divulgatrice. Quanto ai premi Nobel, oltre Maria Sklodowska Curie, ricordiamo: sua figlia Irène Joliot-Curie per la chimica, Maria Goeppert-Mayer per la fisica, Dorothy Crowfoot-Hodgkin per la chimica, Gerty Radnitz-Cori, Rosalyn Sussman-Yalow, Barbara McClintock, Rita Levi-Montalcini, Gertrude Elion, Christiane NussleinVolhard, Linda Buck per la medicina. Su alcune di queste scienziate cfr. Sesti e Moro (2002).

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sciuta la centralità del ruolo delle donne (cfr. Cudd 2001). L’epistemologia ritiene che siano ingiustificate credenze per lo più femminili come «gli adulti sono inaffidabili» o come «nessun luogo è sicuro», credenze che vengono nutrite dalle bambine e dalle donne che hanno subito abusi e/o violenze sessuali (cfr. Freedman 2006). Nonostante le donne consumino più farmaci degli uomini, la farmacologia tara dosi, modi e tempi di somministrazione dei medicinali sui corpi maschili, in particolare su corpi maschili di circa settanta chilogrammi, mentre nel testare nuovi prodotti utilizza quasi esclusivamente uomini adulti, con il risultato che le donne possono riscontrare problemi a livello di dosaggi, efficacia ed effetti collaterali. La ricerca medica considera l’osservazione del corpo maschile sufficiente a produrre dati attendibili anche per il corpo femminile; studia alcuni disturbi (per esempio, quelli cardiocircolatori) prevalentemente o esclusivamente su soggetti maschili; è, in generale, maggiormente interessata a trovare cure per le patologie che colpiscono gli uomini; vede la salute delle donne legata indissolubilmente alla riproduzione e difatti si concentra sull’apparato riproduttivo/ginecologico, senza però fare troppo caso al dolore fisico delle donne (neanche il 4% dei parti italiani avviene con l’epidurale); trasmette a volte l’idea che la buona salute della donna coincida con la bellezza e la giovinezza. La storia parla soprattutto di re e qualche volta di regine, di condottieri e di guerre, mentre ci racconta assai raramente come in tutte le guerre le donne sono state e sono picchiate, violentate, costrette a prostituirsi, denigrate, oggettificate, sottomesse, dominate. Le indagini sociologiche che si occupano dell’argomento sottostimano sempre i dati reali. D’altro canto, occorre però conoscere i «gusti» delle donne: le donne paiono diventare interessanti come oggetti di conoscenza solo quando si intende vendere loro qualcosa di più o meno fatuo: vestiti, borse, scarpe; pentole e cucine; diete; soap-opera, letteratura rosa, riviste scandalistiche; automobili più o meno chic, ma dalle pre53

stazioni contenute; e così via. Anche in questi ambiti sono però poi davvero i reali gusti delle donne a contare, e le donne divengono davvero oggetti di conoscenza almeno in alcuni casi, oppure questi gusti vengono loro imposti (irrealizzabili taglie 38 che sfilano sulle passerelle, scarpe con tacchi vertiginosi, cucine troppo grandi e troppo care, soap-opera insulse, diete che sono l’anticamera dell’anoressia) e pertanto le donne divengono semplici oggetti? Oggetti da comandare e normare, così lo stilista di turno può dire bellamente e senza che nessuno si scandalizzi: «quest’anno basta con le donne aggressive e sexy: le donne dovranno essere tutte lolite», o «basta con le minigonne: dopo i sedici anni le donne in minigonna rischiano di essere ridicole». Il fatto che alle donne venga per lo più sottratto lo status sia di soggetti conoscenti sia di oggetti di conoscenza è chiaro ancor oggi solo a poche donne. Taluni propongono di rimediare a queste lacune conoscitive proponendo alle donne la pratica dell’autocoscienza, la cura psicoanalitica, la riforma del linguaggio, o comunque di un sistema simbolico tradizionale che penalizza le aspirazioni epistemiche femminili (cfr. Cixous 1975, Hornsby 2000, James 2000, Langton 2000 e Richmond 2000). Qui ci interesseremo poco di questi rimedi, per affrontare prevalentemente la domanda «di quale conoscenza stiamo parlando e di chi è questa conoscenza?». Stando alle epistemologie femministe, i soggetti conoscenti non osservano il mondo con uno sguardo imparziale: un medesimo oggetto può infatti suscitare paura in alcuni e audacia in altri (si pensi a due sciatori, uno provetto, l’altro principiante, di fronte a un’impervia pista da sci), mentre una medesima proposizione può essere fonte di gioia e di rabbia (si pensi a due soggetti, uno molto amico di Ipazia e l’altro rivale di Ipazia, di fronte alla proposizione «Ipazia ha pienamente compreso il sistema di Tolomeo»). Per quanto riguarda, invece, gli aspetti meramente sociali, il bersaglio polemico viene spesso indivi54

duato nel solipsismo metodologico cartesiano che obbliga il soggetto a sospendere il proprio giudizio su qualsiasi proposizione dubitabile, a concepirsi come una mente distinta dal corpo, priva di radici biologiche, culturali e sociali. Vediamo meglio. L’individualismo cartesiano impone che ogni soggetto conoscente sia in grado di dubitare di tutte le credenze relativamente al mondo esterno, incluse le credenze relative al proprio corpo e alle relazioni con gli altri soggetti conoscenti, fino al punto che il corpo e gli altri divengono irrilevanti per la conoscenza. È stato in proposito sostenuto che solo i soggetti maschili possono illudersi di riuscire a vivere nella solitudine epistemica cartesiana e che, comunque, è un lusso prettamente maschile ipotizzare che tutti i soggetti siano nella posizione di sospendere il proprio giudizio su tutte le credenze, incluse quelle che riguardano la fisicità: solo il soggetto maschile riesce a ignorare quanto la propria conoscenza dipenda dagli altri, perché gli è stato insegnato che deve contare solo su stesso. È stato, inoltre, argomentato che, da un punto di vista cartesiano, la conoscenza è del tutto preclusa alle donne, se le donne vengono identificate con il corpo e con la natura, mentre essa è resa disponibile agli uomini, se gli uomini vengono identificati con la mente e la cultura. È stato, infine, sostenuto non solo che l’individualismo comporta che esclusivamente le credenze del singolo soggetto possano essere giudicate razionali o irrazionali, e che di fatto le credenze maschili sono per lo più giudicate razionali, mentre quelle femminili irrazionali, ma anche che la ragione cartesiana altro non è che una mascolinizzazione della conoscenza (cfr. Bordo 1987)5. 5 Gli attacchi femministi contro Cartesio possono lasciare perplessi, e lasciano di fatto perplesse le autrici del presente volume. Le ragioni sono diverse, a partire dal rapporto di Cartesio con donne come la principessa Elisabetta di Boemia. Non solo le sono dedicati i Principia Philosophiae, opera in quattro volumi di filosofia e di fisica, ma soprattutto Cartesio intrattiene con lei una corrispondenza in cui prende in

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Quando si giunge, esplicitamente o implicitamente, a criticare la ragione, il rischio è però quello di intrappolare le donne nel regno della conoscenza emotiva. Sebbene doverosa, una radicale rivalutazione epistemica delle emozioni può condurre a riaffermare il vecchio pregiudizio che vuole le donne prettamente irrazionali (sull’errore di identificare le emozioni con l’irrazionalità, cfr. comunque Solomon 2006). Se dobbiamo ricordare che le critiche della razionalità possono istigare a un’esaltazione dell’irrazionalità, dobbiamo anche considerare che alcune delle critiche in questione mirano non a una abolizione, ma a una revisione del concetto di razionalità, e di conseguenza anche a una revisione del concetto di irrazionalità. Rispetto alla nozione di ragione ci troviamo di fronte a un problema analogo a quello accennato nel precedente capitolo (cfr. parr. 2 e 3) circa il rapporto tra donne e natura. Rivalutando la natura (e l’irrazionalità) per apprezzare le cagrande considerazione le obiezioni di Elisabetta sempre insoddisfatta delle repliche del filosofo sul rapporto tra mente/corpo. Questa corrispondenza sta alla base di Les passions de l’âme. Cartesio invia parti dell’opera anche alla regina Cristina di Svezia, che inviterà il filosofo a Stoccolma. In effetti, le vicende personali e intellettuali di Cartesio appaiono molto più femministe (almeno per l’epoca) di quanto alcuni studi storici femministi sembrino ammettere. Contro l’idea della filosofia cartesiana proposta in alcuni di questi studi, occorre aggiungere il fatto che Cartesio si batte contro l’autoritarismo. Non solo contro il memorizzare sillogismi, ma soprattutto contro la dipendenza epistemica da ogni autorità, incluse le autorità religiose e i loro connessi pregiudizi – le sue Meditationes de Prima Philosophia invitano a «revocare in dubbio» «tutte le opinioni ricevute fino allora» da ogni tipo di autorità, per impegnarsi in una serie di meditazioni e di esperimenti mentali che condurranno all’«io sono, io esisto». Ancor oggi ci sono molte, tante donne che vorrebbero poter dubitare di credenze misogine per poter dire «io sono, io esisto». Al pari di molte epistemologhe femministe, Cartesio può quindi essere considerato un «sovversivo». Lo attesta tra l’altro la sua richiesta epistemica di idee chiare e distinte per ogni essere umano (non era certo una consuetudine dell’epoca) e la sua ostinazione nel riflettere sulle connessioni tra mente e corpo. Ci sembra che la maggior parte delle epistemologie femministe non tenga conto di questi aspetti della filosofia cartesiana.

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ratteristiche (e i modi di conoscere) delle donne, si rischia di rafforzare gli stereotipi sulla naturalità (e irrazionalità) femminili. Un risultato auspicabile sono nozioni di razionalità e irrazionalità, di ragione e natura, che non siano mere etichette positive per l’uomo e negative per la donna, e che, comunque, non sfavoriscano le potenzialità epistemiche femminili. Più in generale, non possiamo rinunciare a indagare i concetti in questione in vista di una rilettura priva di pregiudizi, sebbene occorra diffidare dell’idea che la razionalità, ma anche l’oggettività e la ragione, siano virtù in quanto espressione della mascolinità, così come l’irrazionalità, ma anche la soggettività e la natura, siano negative in quanto espressione della femminilità6. Occorre a questo punto aprire una parentesi. Abbiamo detto che la nostra domanda è «di quale conoscenza stiamo parlando e di chi è questa conoscenza?», cui abbiamo offerto una prima risposta generale: stiamo parlando della conoscenza delle donne e di una conoscenza che appartiene alle donne. Così facendo abbiamo dato l’impressione errata che, al di là del discorso sul genere, vi sia solo un tipo di conoscenza, mentre ve ne sono almeno tre: la conoscenza competenziale (es. «so giocare a tennis»), la conoscenza diretta (es. «conosco Ipazia») e la conoscenza proposizionale (es. «so che Saffo è una poetessa»). La conoscenza competenziale – chiamata anche conoscenza dell’abilità o conoscenza pratica – comporta il disporre di una certa capacità o competenza. In altre parole, possediamo conoscenza competenziale quando sappiamo fare non solo cose abbastanza semplici come parlare italiano, nuotare, andare in motocicletta, ma anche più complesse e «tec6 Dell’oggettività parleremo in seguito, mentre per quanto concerne la razionalità, la tradizione la considera astratta, indipendente dalla corporeità, un mezzo per operare in senso argomentativo sulle proposizioni; nuove concezioni della razionalità riescono invece a garantirle una base fisica e a metterne in luce gli usi metaforici e metonimici insieme alle sue capacità di categorizzare e procedere per immagini mentali (cfr. Lakoff 1987).

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nologiche» come costruire una bomba, fecondare artificialmente un uovo, programmare un computer. Ci troviamo, invece, in presenza di conoscenza diretta quando conosciamo qualcuno o qualcosa. Questo tipo di conoscenza, che richiede evidentemente l’essere stati o l’essere a contatto diretto con quel qualcuno o qualcosa, è piuttosto frequente: facciamo esperienza personale e diretta delle persone e degli oggetti nel mondo, dei nostri pensieri e delle nostre sensazioni, cosicché possiamo avere conoscenza diretta dei nostri amici, della nostra casa, della nostra città, dei nostri amori, dei nostri dolori, delle nostre credenze, dei nostri desideri, dei nostri stati mnemonici. La conoscenza proposizionale, infine, si concretizza nel sapere che una proposizione è vera. Il suo raggio è amplissimo. Basti considerare quanta conoscenza proposizionale crediamo normalmente di possedere: non si tratta solo della conoscenza che abbiamo acquisito a scuola (conoscenza di proposizioni relative ad astronomia, biologia, filosofia, logica, geografia, matematica, storia, religione, e così via), ma anche di conoscenze come «so che Ipazia è una mia cara amica», «so che la mia casa si trova a Genova», «so che il pesto è buono», «so che in prima elementare avevo una bella maestra», e questo elenco potrebbe proseguire indefinitamente, anche perché si arricchisce costantemente. Nell’ambito di gran parte della filosofia tradizionale, conoscenza proposizionale e conoscenza diretta vengono ritenute le forme più importanti di conoscenza. La conoscenza competenziale è invece spesso trascurata e ritenuta riconducibile alle altre due forme di conoscenza. Non suscita certo sorpresa il fatto che alcune conoscenze attribuite più spesso a donne che a uomini sono esempi di conoscenza competenziale. 2. Conoscenza competenziale La conoscenza competenziale è un tipo di conoscenza che manifestiamo quotidianamente nel nostro relazionarci con 58

il mondo e con gli altri. Abbiamo detto che essa comporta sempre una qualche abilità, come l’abilità di scrivere, di guidare, di nuotare, di costruire una casa, di cucinare, e così via. Ma come dobbiamo valutarla? Alcune filosofie continentali, anche di matrice femminista, hanno una pessima idea della tecnologia, magari perché ritengono che essa consideri le donne solo in quanto consumatrici di prodotti tecnologici (contraccettivi, pentole a pressione, lavatrici e così via) oppure perché pensano che incida pesantemente sul corpo femminile attraverso tecniche quali la fecondazione assistita e la chirurgia estetica. Queste filosofie dovrebbero però dimostrarsi capaci di distinguere tra diversi tipi di sapere tecnologico: infatti, a meno di non voler sposare la tesi, implausibile, secondo la quale la conoscenza competenziale delle donne non costituisce mai un sapere tecnologico, condannare ogni tipo di sapere tecnologico comporta anche condannare la conoscenza competenziale delle donne. Altra cosa è invece sostenere che le cosiddette competenze femminili riguardano solo compiti imposti alle donne dalle società patriarcali. Sta comunque di fatto che la conoscenza attribuibile alle donne è tradizionalmente una conoscenza competenziale, che si è concretizzata e continua a concretizzarsi nel curare i bambini e nell’educarli, nel cucinare e lavare i piatti (la lavastoviglie non ha rappresentato una svolta: non è alta la percentuale di famiglie italiane che ne possiede una), nel gestire la casa e la famiglia, nell’occuparsi del partner e degli anziani, nell’aiutare altre donne a partorire e ad abortire, nell’assistere i malati, ma anche nell’infibulare altre donne, nel sedurre gli uomini, nel giocare a tennis (sport non solo a cui le donne hanno accesso da tempo, ma che ci ha anche regalato protagoniste assolute come Martina Navratilova). Mentre pochi sarebbero disposti a negare che le donne dispongono di queste competenze, alcuni potrebbero sostenere che le competenze in questione non sono conoscenze, ragionando come segue (cfr. Dalmiya e Alcoff 1993, p. 221): 59

1) tutti i casi di conoscenza devono essere formulabili nei termini di conoscenza proposizionale; 2) la conoscenza tradizionale delle donne non è formulabile in questi termini; 3) quindi, la conoscenza tradizionale delle donne non è di fatto conoscenza. Se seguiamo Aristotele, il quale riconosce dignità di conoscenza non solo all’episteme, ma anche alla techne, possiamo contestare la verità della premessa (1) e di conseguenza evitare la conclusione (3). Per quanto concerne invece la premessa (2), se essa viene formulata correttamente come «la conoscenza competenziale delle donne non è sempre traducibile nei termini di conoscenza proposizionale», la sua verità è difficilmente opinabile. Non possiamo negare che quando sappiamo fare certe cose, possediamo spesso anche conoscenza proposizionale relativa a esse, mentre possiamo avere conoscenza proposizionale senza conoscenza competenziale. Per esempio, se sappiamo guidare una bicicletta, è assai probabile che sappiamo che occorre montare sulla sella della bicicletta, pedalare, frenare, e così via, mentre possiamo conoscere tutte le proposizioni relative all’andare in bicicletta (abbiamo magari letto il manuale del ciclista perfetto), senza sapere dare neanche due pedalate in equilibrio. Si consideri però la cura di un particolare neonato: molto può venire tradotto in conoscenza proposizionale, come del resto attestano i tanti manuali che insegnano a prendersi cura dei neonati, ma non tutto può venire così tradotto. Difatti, non sono acquisibili attraverso un manuale abilità come quella di capire cosa un neonato intende chiedere con il suo pianto, o quella di consolarlo, o quella di comprendere quando desidera il ciuccio. Dato che comporta una conoscenza la cui fonte è l’empatia, la cura di un neonato spesso non consiste e non può consistere solo nel conoscere una quantità di informazioni e di regole tutte esprimibili in forma proposizionale: è indispensabile identificarsi, immedesimarsi con il neonato per capirne bisogni e richieste (per ap60

profondire il tema dell’empatia, cfr. Boella 2006, De Vecchi 2004, Goldman 2006 e Rainone 2006). Si può obiettare che la necessità dell’empatia è strettamente legata al fatto che il neonato non sa parlare e che essa cade in tutti quei casi di conoscenza competenziale in cui è disponibile il linguaggio e in cui quindi si può instaurare un dialogo con l’altro soggetto. Non vogliamo negare l’importanza della testimonianza come fonte conoscitiva, e difatti su di essa ci soffermeremo nella prossima sezione, ma vi sono casi in cui essa non riesce a giocare alcun ruolo. Si consideri, per esempio, il noto caso del riconoscimento del sesso dei pulcini. Dato che gli allevatori su larga scala di polli da batteria hanno un grande interesse economico ad allevare solo galline, è per loro importante poter distinguere i pulcini appena nati tra maschi e femmine. Questi ultimi si assomigliano molto e incaricare un veterinario di ispezionarli richiederebbe non solo troppo tempo, ma anche troppo denaro. Gli allevatori si affidano così a persone, che, guarda caso, sono in gran parte donne, che riescono a stabilire a prima vista il sesso dei pulcini; sebbene nessuno sappia come facciano, nemmeno loro stesse, esse compiono quest’operazione in modo del tutto efficace. Il loro è un tipo di conoscenza competenziale davvero speciale: chi lo possiede non lo ottiene per testimonianza da parte di altri soggetti conoscenti, e difatti è incapace di trasporla nei termini di conoscenza proposizionale, ossia in una lista di asserzioni; nessuno è stato finora in grado di produrre una tale lista (cfr. Musgrave 1993, p. 12). La conoscenza delle levatrici è un altro buon esempio di una conoscenza competenziale non tutta esprimibile in asserzioni. Anche in questo caso, come per la cura dei neonati, l’empatia vi gioca un ruolo importante: solo identificandosi con la donna partoriente, calandosi nei suoi stati d’animo e nei suoi pensieri, una levatrice riesce ad assisterla durante il parto. Se le donne sono effettivamente più empatiche degli uomini, così come ci viene spesso assicurato, si potrebbe 61

capire come mai la conoscenza competenziale, che si rivela nella cura delle altre persone, viene considerata tipicamente femminile e come mai quindi i compiti di cura vengono affidati in prevalenza a donne. L’empatia rappresenta senz’altro un requisito necessario per la cura degli altri: ci conduce a concettualizzare gli altri come soggetti capaci di pensieri, sentimenti, emozioni, desideri, bisogni che occorre cercare di capire. Anche se avessero ragione coloro che considerano l’empatia un moto soggettivo e inafferrabile dell’animo umano, la conoscenza empatica presenta caratteristiche oggettive, e difatti parliamo di un modo corretto e di un modo scorretto di allevare i neonati, di aiutare le donne a partorire, di prenderci cura degli anziani. La connessione tra conoscenza competenziale e contesti sociali è molto stretta: che sia femminile e/o maschile, questo tipo di conoscenza si può infatti concretizzare solo in contesti in cui certe pratiche sono socialmente istituite o riconosciute. Si consideri, per esempio, una pratica sociale complessa, come il saper giocare a tennis, in cui risulta basilare sapere cosa fare con una rete, una pallina e le racchette. È evidente che si sa cosa fare con questi oggetti solo nel contesto di una società in cui il gioco del tennis è stato inventato, regolamentato, praticato, mentre, nel contesto di una società ove non si conosce il tennis, rete, pallina e racchette possono non acquistare alcun significato e, comunque, non rappresentano strumenti utili al fine di sapere giocare a tennis (anche se ciò non esclude che possano essere impiegati per qualche altro uso ludico). Così la medesima pratica può assurgere a conoscenza in un certo contesto, mentre può non farlo in un altro. L’appello ai contesti risulta imprescindibile anche nel caso in cui si conferisca priorità alla conoscenza competenziale sulla conoscenza proposizionale, da sempre considerata la conoscenza per eccellenza: la conoscenza proposizionale verrebbe ora a rappresentare un caso particolare di conoscenza competenziale perché avere conoscenza proposizionale consisterebbe sostanzialmente nel saper 62

fare asserzioni (cfr. Tanesini 1999). Innanzitutto asserire un enunciato non è un atto decontestualizzato. Per fare solo due esempi, in una prospettiva olista, un enunciato acquista significato solo nel contesto di una determinata teoria; se invece un enunciato contiene indicali (parole come «questo», «là» e «oggi», che possono denotare oggetti, luoghi e tempi diversi a seconda del contesto in cui vengono usate) il suo significato varia in relazione al contesto linguistico ed extralinguistico. Per quanto riguarda poi specificamente il saper fare asserzioni, è ovvio che questa abilità presuppone un contesto sociale in cui vige la responsabilità di giustificare i propri asserti. Chi fa un’asserzione deve essere capace di giustificarla quando l’interlocutore domanda «come fai a saperlo?», o più modestamente «perché lo credi?». Non mostrare tale disponibilità e non assumersi quindi la responsabilità di giustificare le proprie asserzioni significa non sapere fare asserzioni. Così se Nicla afferma «la regina di Inghilterra ha più di ottant’anni» e le chiediamo «come fai a saperlo?» o «perché lo credi?», ci aspettiamo che ci fornisca giustificazioni come «l’ho letto su un libro di storia», «ho assistito alle celebrazioni», «la regina mi aveva invitato al suo compleanno», e non risposte come «sono fatti miei», «sei una spia», «la luna è fatta di formaggio». È dunque chiaro che la nozione di giustificazione può venire contestualizzata. Per esempio, secondo Longino (1990, 1992, 1999 e 2002), il contesto modula l’acquisizione, la revisione e la valutazione delle credenze nel senso che indica lo sfondo delle assunzioni e delle regole metodologiche condivise da una certa comunità, oppure lo sfondo delle assunzioni in base alle quali i singoli individui esaminano i dati e ne stabiliscono la rilevanza evidenziale. L’idea in se stessa non è nuova ed è ben espressa da Wittgenstein: Ho un’immagine del mondo. È vera o è falsa? Prima di tutto, è il substrato di tutto il mio cercare e di tutto il mio asserire... [Questa] mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho con-

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vinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso (Wittgenstein 1969, parr. 162 e 94).

È invece nuova la convinzione che lo sfondo contenga in prevalenza, anche se non solo, assunzioni di carattere androcentrico e ginocentrico: nonostante venga spesso auspicato l’avvento del post gender (cfr. Rothblatt 1995), la nostra cultura e la nostra società sono ancora ampiamente strutturate sulla base della nozione di divisione o differenza sessuale e di genere, ed è su questo sfondo che continuiamo ancora oggi a distinguere tra vero e falso. Vediamo come questo tipo di contestualismo conduce a sociologizzare la nozione di giustificazione. Lo sfondo delle assunzioni individuali, proprio in virtù del suo essere individuale, può introdurre elementi soggettivistici nel processo conoscitivo. Per evitare ciò il soggetto conoscente deve confrontarsi non solo con il mondo, ma anche con gli altri soggetti conoscenti (e da qui la sociologizzazione) in modo da difendere, modificare o rigettare le proprie credenze grazie a un incontro con le credenze degli altri. Lo stesso vale per lo sfondo delle assunzioni comunitarie, nel senso che la parzialità di cui pecca la giustificazione sociale delle credenze deve venire corretta valutando le proprie assunzioni e stabilendo confronti con comunità che presentano altre assunzioni: la comunità deve quindi portare innanzi un discorso critico non solo al suo interno, ma, al fine di evitare il relativismo, deve confrontarsi altresì con altre comunità – anche qui la sociologizzazione è scontata. Sia come soggetto, sia come comunità, occorre «basare la giustificazione sull’interazione dialogica, sulla reciprocità critica e discorsiva» nonché «fare sì che il pieno esercizio delle capacità cognitive dipenda dalle relazioni con gli altri» (Longino 1999, p. 344)7. L’esame della co7 Può essere importante notare che il tentativo di opporsi al soggettivismo e al relativismo nella teoria della giustificazione sarebbe apprez-

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noscenza competenziale, un tipo di conoscenza spesso attribuito alle donne, ci ha portato a puntualizzare la necessità di una dimensione sociale sia nella definizione di una competenza sia nella sua giustificazione epistemica. I contesti sociali ci mettono in contatto con altri soggetti epistemici; è ora quindi di affrontare il tema della conoscenza degli altri. Si tratta di un tipo di conoscenza diretta assai rilevante per la nostra esistenza e su cui si basano diverse scienze quali pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia; e, per alcuni aspetti, medicina, storia ed economia. 3. Conoscenza degli altri Non vogliamo sminuire il ruolo della conoscenza proposizionale o sostenere che essa è secondaria rispetto alla conoscenza diretta. Quest’ultima comporta frequentemente conoscenza proposizionale: se conosciamo Jodie Foster, di norma sappiamo anche che è attrice e regista, che è madre di due bambini, che non è sposata. La conoscenza proposizionale, del resto, comporta spesso conoscenza diretta: se sappiamo che la nostra amica Ipazia ha i capelli ricci, normalmente è perché conosciamo Ipazia e abbiamo visto che ha i capelli ricci, e non perché abbiamo letto un volume su Ipazia e i suoi capelli ricci. È allora interessante cercare di capire se tutta la conoscenza proposizionale si basi sulla conoscenza diretta. La risposta più plausibile pare essere negativa: possiamo, per esempio, sapere che Maria zato dalla tradizione. Basti ricordare che per Kant (1781, 1787, trad. it. 1989, p. 622) – ma non solo per lui – la giustificazione deve essere «valida per ognuno che soltanto possegga la ragione». Eppure la tradizione contesterebbe il contestualismo femminista, proprio perché comporta la sociologizzazione, e, quindi, la naturalizzazione della giustificazione (per un discorso più ampio sulle proposte femministe di naturalizzazione dell’epistemologia cfr. Garavaso 1998 e Vassallo 2000): per esempio, Kant, Frege, il primo Wittgenstein, Reichenbach concorderebbero sul fatto che l’epistemologia vada nettamente separata dalla sociologia.

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de’ Medici è nata nel 1573 senza averla mai incontrata di persona. Tuttavia, si potrebbe obbiettare che qualcuno deve aver visto Maria de’ Medici nascere e avere poi formato conoscenze proposizionali del tipo «Maria de’ Medici è nata nel 1573», per essere in grado di trasmetterle a noi che non abbiamo mai visto Maria de’ Medici. Questi sono argomenti a favore della tesi che tutta la conoscenza proposizionale (di tipo empirico o storico) si basa in ultima analisi sulla conoscenza diretta8. Anche se alcuni filosofi (basti pensare a Russell 1911) prestano particolare attenzione alla conoscenza diretta proprio nel tentativo di ricondurre a essa la conoscenza proposizionale, è qui più urgente cercare di evidenziare l’importanza della conoscenza delle altre persone, trascurando il problema del rapporto tra conoscenza diretta e conoscenza proposizionale. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, nella filosofia tradizionale si parla molto della conoscenza di se stessi, ma poco della conoscenza delle altre persone; in ambito femminista questo tema viene invece discusso estesamente (cfr. Code 1991 e 1993, e Baier 1986). Le donne sono solitamente considerate esseri sociali, ed esseri più sociali degli uomini: hanno facilità nello stabilire contatti con gli altri, svolgono da sempre lavori di cura nei confronti dei bambini e degli anziani, coltivano amicizie intime9. La loro sensibilità e capacità empatica, la loro predisposizione a mettersi nei panni degli altri rappresentano sicuri prerequisiti al fine di stabilire buone re8 Eccezioni a tale tesi rimarrebbero proposizioni universali come «ogni evento ha una causa» – se si fa eccezione per il primo evento della storia – o «una contraddizione non può essere vera», che non possono essere basate sulla conoscenza diretta di alcun oggetto particolare. 9 Occorre però notare che paradossalmente per molti pensatori non può esistere l’amicizia tra donne. Questa convinzione, che si trova per esempio in Aristotele e in Cicerone, è ben espressa da Montaigne stando al quale la passionalità e l’irrazionalità femminili privano le donne della possibilità di coltivare quell’amore disinteressato e spirituale che è alla base dell’amicizia (cfr. Montaigne 1580, trad. it. 1992).

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lazioni interpersonali. Questa «socialità» delle donne viene riportata a ragioni sia educative (le bambine sono più incitate dei bambini a stabilire relazioni intime) sia biologiche (la potenzialità della donna di essere madre, o il suo essere di fatto madre, la pongono di fronte a un altro essere umano, il figlio, che ella deve conoscere bene per allevarlo ed educarlo nel rispetto dei suoi bisogni e della sua personalità; su cliché e ipocrisie che riguardano la maternità, cfr. Abécassis 2005. Sembra allora inevitabile insistere sulla conoscenza degli altri quando si affronta il tema della conoscenza delle donne. Si potrebbe tuttavia ribattere che ci sono donne ben poco materne, donne che alle relazioni amicali preferiscono le relazioni di potere, donne che amano dominare – basti appunto pensare a Maria de’ Medici. Non si può negare che vi siano donne di questo tipo e che esse «falsifichino» la tesi della socialità femminile. Che questa tesi sia vera o meno, siamo spinte ad approfondire la conoscenza degli altri dalla constatazione che l’appartenenza al genere femminile incide sulle modalità di conoscenza degli altri: tale fatto viene messo in evidenza per esempio dalle etnografe che, in quanto donne, hanno spesso accesso a «spazi» sociali e a conoscenze intime differenti rispetto agli etnografi (cfr. Bell, Caplan e Karim 1993). La conoscenza delle altre persone è essenziale per la nostra esistenza. Da bambini, ci consente di fidarci di coloro che si prendono cura di noi e di apprendere da questi credenze sul linguaggio e sul mondo. Per lo sviluppo infantile risulta fondamentale interagire con il mondo, entrando in contatto con gli oggetti di ogni giorno, riconoscendoli e manipolandoli per poi acquisire conoscenza proposizionale su di essi; d’altro canto, risulta forse ancor più basilare interagire con gli altri. Nell’infanzia dipendiamo per la nostra sopravvivenza dai genitori: conoscerli, al fine di capire cosa possiamo aspettarci da loro e richiedere loro, è vitale. I nostri genitori possono assicurare la cura, l’affetto e l’istruzione di cui necessitiamo per scoprire 67

il mondo che ci circonda e per accedere al linguaggio. Come ci hanno mostrato molti studi psico-pedagogici, se cura, affetto e istruzione ci vengono a mancare, o risultano deficitari, ne fa irrimediabilmente le spese il nostro sviluppo epistemico, oltre che emotivo, e si incrina la nostra capacità di interagire armoniosamente con il mondo e di conoscerlo in modo appropriato, non solo a livello diretto, ma anche a livello proposizionale. Lungi dall’essere circoscritta al periodo infantile, l’importanza della conoscenza degli altri è però evidente anche nella fase adolescenziale e nell’età adulta. A meno di non rinchiuderci in un triste isolamento o pericoloso disadattamento, i rapporti sociali fanno parte integrante della nostra quotidianità e del nostro benessere psichico e contribuiscono al nostro sviluppo e alla fiducia che riponiamo nell’esistenza. Non solo scegliamo un partner, ma abbiamo anche relazioni parentali, amicali, lavorative; ci confrontiamo regolarmente con coloro che ci offrono servizi. Dalla panettiera alla bancaria, dall’elettricista alla postina, dalla farmacista alla ginecologa, è importante capire di chi ci possiamo fidare e di chi dobbiamo invece diffidare. Solo conoscendo gli altri siamo in grado di farlo. Conoscere gli altri non è però cosa facile. È più semplice conoscere gli oggetti e conoscere le proposizioni. Per esempio, in «conosco la mia moto» (conoscenza oggettuale) e in «so che la mia moto è veloce» (conoscenza proposizionale) vi sono un tipo di stabilità e una garanzia di fissità maggiori di quelle che presenta la conoscenza degli altri. «Conosco la mia moto» e «so che la mia moto è veloce» non richiedono il continuo e costante relazionarsi e l’assiduo e incessante apprendimento che invece richiede «conosco bene la mia amica Ipazia». Non siamo forse sempre intenti a chiederci chi è l’altro da noi, quali emozioni ci suscita e quali suscitiamo in lui, come possiamo o dobbiamo comportarci nei suoi riguardi, quali pensieri gli passano per la testa, e così via? Questo anche, ma non solo, perché l’io non è unitario (almeno secondo il postmoder68

nismo) ed essere se stessi non è uno stato immediatamente trasparente (almeno secondo la psicoanalisi). Dobbiamo quindi anche domandarci: se l’altro è frammentato e molteplice, come faccio a conoscerlo? se l’altro-da-me è per lo più inconscio come faccio a conoscerlo? Code (1993, p. 34) risponde che sono proprio «le fluttuazioni e le contraddizioni della soggettività» a rendere la conoscenza degli altri un processo «continuo, comunicativo e interpretativo». La conoscenza degli altri si sviluppa a vari livelli. Per esempio, può essere intima (come accade nel caso di quella della nostra migliore amica) o superficiale (come accade nel caso di quella della vigilessa Cristina che abbiamo incontrato solo una volta), può essere decisiva (come accade spesso nel caso di quella del nostro partner) o superflua (come accade il più delle volte nel caso di quella del giardiniere che sta ora tagliando l’erba di un giardino ignoto di una casa sconosciuta in Nuova Zelanda, mentre noi stiamo passeggiando sulle rive del Tamigi), lieta (come accade nel caso di persone simpatiche) o dolorosa (come accade quando l’altro ci dice «non ti amo più»), semplice (come quando le altre persone sono disponibili a farsi conoscere) o difficile (basti pensare alla conoscenza di persone diffidenti e introverse, o di persone che hanno una scarsa consapevolezza di sé), e così via. Tutti questi diversi livelli si riscontrano più raramente nella conoscenza degli oggetti e nella conoscenza proposizionale. La conoscenza delle altre persone è articolata e complessa: è una questione di gradi (mentre non ha tanto senso dire «so più di te che la Cappella Sistina si trova a Roma», è consueto dire cose del tipo «conosco Ipazia più di te»); non è mai stabilita una volte per tutte, dato che man mano che la persona cresce, si sviluppa, muta e si rivela a noi, la conosciamo meglio (oppure, si nasconde a noi, e la conosciamo peggio); non può essere assoluta e definitiva, a causa non solo delle fluttuazioni e dei mutamenti della soggettività, ma anche dei limiti dell’auto-consapevolezza; 69

è aperta «a un tipo di negoziazione tra soggetto conoscente e ‘conosciuto’ dove le posizioni del ‘soggetto’ e dell’‘oggetto’ sono sempre, in via di principio, interscambiabili» (Code 1991, p. 38); e infine è evidentemente intersoggettiva e sociale. A questo punto è opportuno soffermarsi su qualche aspetto delle «relazioni» tra conoscenza degli altri e conoscenza proposizionale. Da una parte, dobbiamo capire che possiamo conoscere molti fatti (proposizioni vere) che riguardano una determinata persona, senza conoscere direttamente quella persona: la lettura di tutte le biografie su Virgina Woolf ci conduce innegabilmente a conoscere la maggior parte dei fatti (delle proposizioni) che riguardano la nota scrittrice inglese, e tuttavia possiamo non averla mai incontrata e pertanto non averla mai conosciuta di persona. Per conoscere Virginia Woolf di persona non è sufficiente nemmeno aver letto tutti i suoi scritti (tutte le proposizioni che Virginia Woolf ha scritto), anche se con «conosco Virginia Woolf» possiamo, con una metonimia, intendere «ho letto i libri di Virginia Woolf». Per conoscere Virginia Woolf di persona, per poter dire realmente «conosco Virginia Woolf», un requisito minimo è senz’altro averla incontrata. Per poter dire però «conosco (bene) Virginia Woolf» occorre aver avuto con lei almeno una discreta interazione emotiva estesa nel tempo (condizioni che non sembrano particolarmente necessarie alla conoscenza proposizionale), che ci consenta di cogliere la sua soggettività in continuo sviluppo, fluttuante e non esente da contraddizioni, in un processo intersoggettivo senza fine che si misura costantemente con i mutamenti e le idiosincrasie della soggettività di Virginia Woolf e della nostra soggettività. Tuttavia, anche quando possiamo dire «conosco (bene) Virginia Woolf», questa conoscenza non sarà mai una conoscenza definitiva. Lo comprende in modo drammatico Vita Sackville-West e così ne scrive a suo marito Harold: «Ho appena avuto il più terribile colpo: Virginia si è uccisa. Non c’è niente nei giornali, ma ho rice70

vuto lettere da Leonard e anche da Vanessa per avvisarmi... Lui dice che nelle ultime settimane non stava bene, era terrorizzata dall’idea di impazzire di nuovo... Non riesco a capacitarmene. Quella mente stupenda, quello spirito stupendo. L’ultima volta che l’ho vista sembrava stare così bene...». Ancora molti anni dopo il suicidio di Virginia Woolf, Vita Sackville-West scrive a Harold: «Insisto a credere che avrei potuto salvarla se solo fossi stata sul posto e avessi saputo lo stato mentale in cui stava affondando» (cfr. Sackville-West 1984, trad. it. 1985, p. 452). Si può conoscere intimamente una persona e amarla (magari anche appassionatamente), e tuttavia non conoscerla del tutto, non conoscere lo stato mentale in cui l’altra persona sta affondando. D’altro canto, anche se possiamo conoscere molti fatti (proposizioni vere) che riguardano una determinata persona senza conoscere direttamente quella persona, non possiamo invece conoscere una persona senza avere una qualche conoscenza proposizionale su di lei. Se abbiamo incontrato anche solo una o due volte Virginia Woolf, dobbiamo avere su di lei una qualche conoscenza proposizionale, per esempio del tipo: Virginia Woolf è alta o bassa, ha gli occhi di questo o quel colore, l’ultima volta che l’ho incrociata indossava un bel cappello. Contrapporre, in quanto maschile, la conoscenza proposizionale alla conoscenza degli altri, che sarebbe invece femminile, ha quindi poco senso proprio alla luce del fatto che la conoscenza degli altri comporta spesso conoscenza proposizionale a proposito degli altri. C’è poi da considerare come acquisiamo la conoscenza degli altri: possiamo metterci nei panni degli altri (empatia), possiamo osservare e interpretare il comportamento degli altri, possiamo sentire emotivamente gli altri (guardandoli negli occhi, sfiorandoli, abbracciandoli, baciandoli, facendoci l’amore), possiamo ascoltare quanto gli altri ci raccontano su se stessi (testimonianza). Abbiamo buone ragioni per credere che Vita Sackville-West e Virginia Woolf si conoscessero in tutti questi modi, ma uno dei modi privilegiati 71

che ha caratterizzato la loro amicizia è stato senz’altro quello della comunicazione parlata e scritta: Virginia e Vita si sono conosciute reciprocamente bene (anche o soprattutto) in virtù del fatto che l’una ha testimoniato all’altra i propri sentimenti, i propri pensieri, le proprie azioni con grande sincerità e con la chiara intenzione di offrire all’altra un ritratto onesto, profondo e veritiero di se stessa. Acquisiamo infatti conoscenza degli altri anche o soprattutto attraverso le proposizioni che l’altro ci testimonia a proposito di se stesso, ovvero tramite la conoscenza proposizionale che l’altro ci trasmette su se stesso. 4. Testimonianza La testimonianza (significativa anche in passato e oggi esemplificata nelle conversazioni faccia a faccia o telefoniche, nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, negli scambi epistolari o via e-mail, attraverso la stampa, sui siti internet, e così via) è fonte conoscitiva trascurata dalla storia della filosofia. Paradigmatiche, in proposito, risultano le affermazioni di Locke: Non che mi manchi il dovuto rispetto alle opinioni degli altri. Ma, dopo tutto, si deve la maggior reverenza alla verità; e spero che non mi si crederà arrogante se dico che forse faremmo maggiori progressi nella scoperta della conoscenza razionale e contemplativa se la cercassimo alla fonte, cioè nella considerazione delle cose stesse e se per cercarla facessimo uso del nostro pensiero piuttosto che di quello altrui. Nella misura in cui noi stessi consideriamo e comprendiamo la verità e la ragione, possediamo una conoscenza vera e reale. Le opinioni altrui che vengono a galleggiare nel nostro cervello, anche se per caso sono vere, non ci rendono di un briciolo più dotti. Ciò che in loro era scienza in noi non è che ostinatezza (Locke 1690, trad. it. 1971, p. 127).

L’epistemologia contemporanea ha origine con il solipsismo metodologico cartesiano, all’insegna di un princi72

pio, poi condiviso da molti (oltre che da Locke; non da tutti però – basti pensare alle voci discordanti di Hume e Reid): per essere autonomo e rispettabile in campo epistemico, il soggetto deve fare a meno della conoscenza che gli viene da altri soggetti. Indiscusso rappresentante del razionalismo, Cartesio, come i suoi successori, conferisce priorità alla ragione su qualsiasi altra fonte conoscitiva. Avversari del razionalismo, gli empiristi, a differenza di Cartesio, prediligono la percezione e, tuttavia, convengono (Locke per primo) con Cartesio nel rifiuto tradizionale della testimonianza. Alla base di questo rifiuto c’è quella concezione individualistica e isolazionista del soggetto conoscente, cui abbiamo già avuto modo di accennare. Nel solipsismo cartesiano, il soggetto è una mente ontologicamente distinta dal proprio corpo e indipendente epistemicamente dagli altri (cfr. par. 1 del presente capitolo). È stata senz’altro l’identificazione del soggetto conoscente con il soggetto maschile a far sì che la tradizione abbia privilegiato un soggetto che non conta sulle interazioni con gli altri al fine di acquisire conoscenza; se si fosse identificato il soggetto conoscente con il soggetto femminile, si sarebbe privilegiato un soggetto che conta invece sulle interazioni sociali. Ci può venire obiettato che occorre considerare il fatto che certi sistemi politici, o economici, o religiosi tendono a manipolare la testimonianza e a esercitare una censura su di essa, in modo tale da renderla inservibile a fini epistemici: sarebbero state le circostanze storiche, quindi, non il maschilismo, a determinare l’ostilità di molti filosofi nei confronti della testimonianza. È facile ribattere che chi tende a manipolare, censurare, controllare è spesso un soggetto maschile e chi comunque vuole manipolare, censurare, controllare la testimonianza, lo fa perché teme che la testimonianza possa rappresentare una fonte conoscitiva; questo timore non può che essere nutrito da un soggetto che è ansioso di essere autonomo e che deve contare solo su stesso: un soggetto maschile. 73

Tuttavia, possiamo davvero rinunciare alla testimonianza come fonte delle nostre conoscenze? Se facessimo assegnamento solo sulla ragione e sulla percezione, il numero delle proposizioni conosciute decrescerebbe in grande misura: non potremmo conoscere la maggior parte degli eventi passati, o gli eventi presenti che non percepiamo in prima persona, o le teorie scientifiche che esulano dalle nostre competenze raziocinative. Se Nicla e Pieranna non confidassero su quanto è stato loro testimoniato da altri, non potrebbero sapere, per esempio, che Saffo era una poetessa, o che Caterina II ha avuto un matrimonio infelice, o che Mary Wollstonecraft è la madre di Mary Shelley, o che la National Federation of Women’s Institutes è stata fondata nel 1897, o che Greta Garbo e Marlene Dietrich si amavano, o che Hillary Clinton era a New York l’altro giorno, o che womb significa «utero». Non saprebbero cosa sono gli ormoni, o cos’è la ionosfera, o che 42=16, o che l’esperanto è una lingua artificiale. Ci sarebbe interdetta anche la conoscenza delle proposizioni più comuni, che diamo invece per assodata: difatti, per quanto ci riguarda, proposizioni come «Nicla ha un cuore e un cervello», «Pieranna ha un cuore e un cervello», «Nicla è nata nel 1963», «Pieranna è nata nel 1949», «i genitori biologici di Nicla sono Renata e Luigi», «i genitori biologici di Pieranna sono Rina e Guido» ci sono state testimoniate. Ci sarebbe interdetta in gran parte anche la conoscenza del linguaggio, dato che l’acquisizione di quest’ultimo, sebbene possa essere spiegata, così come vuole Chomsky, solo postulando l’esistenza di una speciale facoltà mentale innata, si deve sia alla nostra percezione del comportamento linguistico altrui, sia all’ascolto della testimonianza degli altri soggetti. Per esempio, da bambini possiamo apprendere la parola «barca a vela» sia osservando che c’è una barca a vela ogni qualvolta qualcuno pronuncia la parola «barca a vela», sia perché qualcuno ci dice «questa è una barca a vela», quando ci troviamo in presenza di una barca a vela, o perché ci illustra cos’è una barca a vela per mezzo di descrizioni definite. 74

È, quindi, ovvio che se rinunciassimo ad affidarci alla testimonianza, la nostra conoscenza si impoverirebbe in modo sostanziale e non solo riguardo a noi stessi e al mondo esterno, ma anche ovviamente riguardo agli altri. La conduzione della nostra vita pratica ne risulterebbe poi compromessa; ci si limiti, per esempio, a considerare una situazione abituale come un viaggio da Genova a Londra: per riuscire a giungere a Londra e visitarla, accettiamo per testimonianza quanto ci viene detto dal nostro agente di viaggio, da ferrovieri o compagnie aeree, albergatori e camerieri, popolazione locale, guide turistiche, e così via. Rinunciando ad affidarci alla testimonianza, sarebbe davvero arduo per noi viaggiare. Considerando, invece, contesti specialistici, occorre rilevare che i progressi della stessa conoscenza scientifica ne risulterebbero irrimediabilmente ostacolati: dato che non può verificare tutto direttamente, uno scienziato deve accettare teorie sulla base di quanto altri scienziati sostengono e gli testimoniano in prima persona o in articoli su riviste specialistiche, o nel corso di convegni. È assai improbabile che uno scienziato conduca in isolamento tutti gli esperimenti fondamentali per acquisire i dati che gli servono o possa procedere da solo all’analisi degli stessi; sprecherebbe infatti troppo tempo per svolgere queste operazioni in solitudine e deve, di conseguenza, affidarsi a quanto gli viene testimoniato in proposito da altri (cfr. Hardwig 1991). Non è solo che la maggior parte delle nostre conoscenze o, volendo essere più cauti, delle nostre credenze giustificate, proviene da quanto gli altri ci testimoniano, è anche che accettare la testimonianza altrui rappresenta una nostra basilare inclinazione psicologica, spesso all’opera nella nostra vita quotidiana. Basti pensare a quante conoscenze riteniamo (consapevolmente o meno) di procurarci grazie a quanto ci viene testimoniato dagli altri nel corso di una sola giornata. Stamattina, per esempio, Nicla e Pieranna hanno ascoltato un giornale-radio e, in virtù di quanto è stato trasmesso, ritengono di conoscere tutta una 75

lunga serie di proposizioni nuove che si riferiscono a politica, economia, cronaca, cultura, previsioni del tempo. Hanno poi ricevuto un’e-mail, in base a cui ritengono ora di sapere che stasera sono invitate a un vernissage. Nella buca delle lettere hanno trovato una comunicazione da parte della loro banca, in virtù della quale ritengono ora di sapere che le università hanno accreditato loro gli stipendi sul conto. Hanno scambiato quattro chiacchiere al bar davanti a un caffè apprendendo che la cameriera era in vacanza in Gallura la scorsa settimana. In biblioteca, la lettura di una rivista d’economia ha arricchito la loro conoscenza a proposito della disoccupazione femminile italiana, mentre da un quotidiano hanno tratto l’informazione che stasera sarà proiettato Volver di Almodóvar. Sebbene assai contenuto rispetto a quello che potrebbe essere, questo inventario è sufficiente per comprendere quante testimonianze accettiamo in modo spontaneo e come altrettanto spontaneamente siamo inclini a ritenere che conosciamo delle proposizioni vere attraverso le testimonianze di altre persone. È giunto il momento di tirare qualche somma dal nostro discorso sulla testimonianza. Vista la caratterizzazione tradizionale del soggetto conoscente come agente epistemico autonomo e autosufficiente, viene innanzitutto da chiedersi se è prettamente femminile quest’inclinazione psicologica che conduce ad accettare la testimonianza altrui e a pensare che conosciamo grazie a essa. Considerata la grave perdita epistemica che, se l’inclinazione fosse solo femminile, deriverebbe dal rifiuto della testimonianza, potremmo dire che il supposto modello maschile di agente epistemico è gravemente incompleto; infatti è possibile rinunciare alla testimonianza solo a patto di rinunciare a conoscere molte delle proposizioni che riteniamo invece di conoscere. Alla vecchia premessa «se come soggetti conoscenti dobbiamo essere individualisti, allora possiamo fare a meno della testimonianza» possiamo quindi aggiungere la premessa «non possiamo fare a me76

no della testimonianza» al fine di giungere per modus tollens alla conclusione «non dobbiamo essere individualisti», almeno come soggetti conoscenti. Ne consegue infine che, se a essere individualista è il soggetto maschile, non dobbiamo in questo essere maschili (sulla salienza epistemica della testimonianza in relazione alla concezione del soggetto conoscente cfr. anche Code 1991, cap. 4; sulla testimonianza come fonte conoscitiva cfr. invece Vassallo 2005). La conoscenza competenziale, la conoscenza diretta degli altri e la testimonianza sono temi cruciali insufficientemente discussi nell’epistemologia tradizionale. Ci rivolgiamo ora alla discussione di tre temi su cui sono spesso costruite critiche alle epistemologie femministe. Nella sezione finale indicheremo come, qualunque sia il giudizio su queste critiche, un contributo specifico delle epistemologie femministe ha significativamente arricchito il dibattito tradizionale sulla conoscenza. 5. Oggettività Torniamo al tema della conoscenza delle altre persone. Abbiamo fin qui dato per scontato che si tratti di una conoscenza possibile. Se però la conoscenza dovesse essere solo oggettiva, ovvero una conoscenza in cui vi sia una netta separazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, conoscere oggettivamente le altre persone diventerebbe un’impresa ardua. Infatti una netta separazione tra soggetto e oggetto implica che non possiamo conoscere oggettivamente gli altri attraverso l’empatia e l’interpretazione, «moti dell’animo» che presuppongono (tra l’altro) una buona conoscenza di se stessi: come si fa a mettersi nei panni di un’altra persona e/o a interpretare correttamente i suoi comportamenti se non si proietta in modo epistemicamente consapevole se stessi nell’altra persona? Se la conoscenza può solo essere conoscenza oggettiva e se l’oggettività richiede separazione, dato che empatia e inter77

pretazione portano alla fusione, non ci può essere conoscenza oggettiva degli altri, né evidentemente quel tipo di negoziazione tra soggetto conoscente e «conosciuto» cui accennavamo (cfr. il par. 3 del presente capitolo). Allo scopo di evitare distorsioni, pregiudizi ed errori epistemici, la tradizione assume che c’è conoscenza oggettiva quando un soggetto afferra cognitivamente gli oggetti e i fatti in modo neutro, decontaminato dalla propria soggettività e dai propri desideri. Come se la soggettività costituisse necessariamente un ostacolo rispetto alla conoscenza oggettiva, come se la soggettività non presentasse alcuna dimensione sociale, o in ogni caso intersoggettiva, in grado di condurla verso l’oggettività. Inoltre, uno dei risultati che sortisce la separazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto è una completa «oggettificazione» dell’oggetto che, nel caso specifico della conoscenza degli altri, si traduce nel tentativo di concepire l’altro da sé negandogli la sua soggettività. È, per esempio, evidente che quando il soggetto conoscente uomo esercita una conoscenza con pretese di oggettività sulla donna, uno dei risultati a cui può approdare, e a cui è senz’altro approdato, è l’oggettificazione della donna e la sua identificazione con il corpo femminile (sull’oggettificazione in rapporto all’oggettività cfr. Haslanger 1993 e MacKinnon 1987). Più che di conoscenza, si tratta quindi di un rapporto di potere nel quale i desideri del soggetto conoscente, l’uomo, producono un’idea del corpo femminile frutto di fantasie maschili. Ben lungi dal generare una conoscenza oggettiva della donna, questa oggettivazione produce per lo più falsità sul corpo femminile (si pensi per esempio all’idea che esso tragga piacere dalla violenza come ci suggeriscono molte immagini di pornografia «hard core»). La biologa Barbara McClintock ha mostrato che non è impossibile accorciare le distanze tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, per dedicare un’attenzione amorevole all’oggetto, impostando un rapporto più relazionale e meno dominante, in cui svaniscano i rigidi confini tra sog78

getto e oggetto: le differenze tra conoscenza oggettuale e conoscenza degli altri diminuirebbero così in modo sensibile (cfr. Keller 1983). Non è impossibile perché queste distanze, per nulla intrinseche alla natura del soggetto e dell’oggetto, sono dettate da bisogni maschili (cfr. Keller 1985 e Bordo 1987). È il preponderante bisogno di autonomia, e pertanto di separazione dagli altri e dagli oggetti, e di controllo su di essi, a contrassegnare l’esperienza esistenziale del genere maschile e a fare sì che da questa scaturisca la nozione tradizionale di oggettività. Una visione più femminile conduce a considerare la conoscenza oggettiva come una forma di interazione tra l’esperienza emotiva e l’esperienza cognitiva; come una tensione del soggetto, non spogliato delle proprie caratteristiche soggettive, verso un oggetto che non si pone in contrapposizione; come una continuità tra soggetto e realtà fisica. A un’oggettività priva di ogni dimensione emotiva viene così sostituita un’oggettività che non può fare a meno delle componenti emotive. Sorge in proposito subito un dubbio lecito: se queste componenti sono soggettive, la nozione di oggettività non precipita irrimediabilmente in quella di soggettività? Va contro le nostre comuni intuizioni pensare che possa essere considerato oggettivo un giudizio tradizionalmente soggettivo come «mi piace che la Gallura si trovi in Sardegna», al pari di un giudizio tradizionalmente oggettivo come «la Gallura si trova in Sardegna». Eppure i due giudizi hanno il medesimo diritto all’oggettività, una volta che questa possa presentare componenti emotive che nello specifico caso sono rappresentate dal «mi piace». Alcune epistemologie femministe propongono di soppiantare l’oggettività che mira solo a separare soggetti e oggetti con un’oggettività che cerca di catturare in sé l’idea di accordo intersoggettivo. Se si accetta il fatto che le credenze di un soggetto conoscente non possono essere genuinamente oggettive, e trasformarsi pertanto in conoscenze, perché ancorate alle limitazioni isolazioniste e sog79

gettivistiche del punto di vista del singolo (cfr. Anderson 1996 e Solomon 2001), allora bisogna anche accettare il fatto che, nell’accumulare giustificazione a favore di una certa credenza e/o di una certa teoria, il soggetto individuale necessariamente utilizza assunzioni di sfondo che includono valori soggettivi e non epistemici. La comunità può però bloccare l’interferenza della soggettività, criticando i valori in questione ed eliminandoli grazie a un impegno intersoggettivo. Si ottiene così a livello comunitario una reale conoscenza oggettiva, che incamera e supera le componenti soggettive. L’oggettività viene assicurata dal carattere sociale dell’indagine. 6. Valori Non tutti concordano circa la possibilità e la necessità di rimuovere i valori non epistemici dall’impresa epistemica, se si tratta di valori politici, economici, morali o religiosi. Per esempio, epistemologhe empiriste come Longino (1990) e Nelson (1990) traggono ispirazione dal problema della sottodeterminazione delle teorie rispetto all’evidenza disponibile, ovvero dal fatto che l’evidenza a sostegno delle teorie scientifiche non sia mai sufficiente al fine di scegliere una teoria rispetto alle altre, per affermare che le osservazioni riescono a giustificare un’ipotesi solo in congiunzione con alcune assunzioni che precedono le osservazioni stesse. In modo approssimativo ma chiarificatore, il problema è formulabile come segue: la sola evidenza empirica è più o meno impotente rispetto alla possibilità di determinare quale, tra tante ipotesi rivali, occorre scegliere; sarebbero allora valori non epistemici a guidarci nella scelta, come vorrebbero le epistemologhe empiriste, oppure è preferibile concludere che la scelta non è possibile e rifugiarci in una qualche forma di scetticismo? La domanda è mal posta perché dà per scontato che la sottodeterminazione sia ineliminabile nel senso che nessuna osservazione possibile sia capace di fornire l’evidenza neces80

saria per determinare quale ipotesi scegliere. A nostro avviso occorre invece distinguere tra sottodeterminazione permanente e temporanea. La storia della scienza ci insegna infatti che i casi più frequenti sono di sottodeterminazione temporanea, non permanente, così come attestano le controversie tra copernicani e tolemaici nel Cinquecento, o tra atomisti e antiatomisti nell’Ottocento. Pertanto, di fronte a una certa sottodeterminazione, il consiglio epistemico non deve essere «impiega pure valori non epistemici per scegliere tra ipotesi rivali o diventa scettico», ma «cerca di acquisire una maggiore evidenza». È possibile però ribattere che nella maggior parte dei casi l’evidenza ci viene fornita dall’osservazione: ogni osservazione è theory-laden («carica di teoria»), ossia dipendente dalla teoria. In tal caso, ogni teoria contiene valori non epistemici e l’impresa epistemica è impregnata di essi. Per illustrare l’idea che ogni osservazione sia carica di teoria si ricorre normalmente al caso di Keplero e Tycho Brahe: Keplero, che crede che la terra si muova attorno al sole, e Tycho Brahe, che crede il contrario, vedono il medesimo evento quando osservano il sole sorgere? Keplero e Tycho Brahe si trovano nella condizione in cui ci troviamo tutti quando osserviamo immagini ambigue e vediamo cose diverse: in una stessa immagine possiamo vedere un’anatra o un coniglio; in un’altra immagine, una donna anziana o una giovane avvenente, e così via. Questo suggerisce che l’osservazione sia un’impresa theory-laden, condizionata dalla conoscenza anteriore di quanto osserviamo (cfr., per esempio, Hanson 1958). Per capire se ogni teoria accoglie in sé valori non epistemici è bene considerare brevemente una proposizione osservativa di una nostra possibile esperienza, quale «Aiuto, Ipazia sta inciampando nella corda!». L’affermazione è chiaramente legata a una teoria che implica l’esistenza di una persona chiamata Ipazia, la quale possiede la proprietà di inciampare, e l’esistenza di un oggetto chiamato «corda» su cui si può inciampare. Inoltre, l’espressione 81

«aiuto» trasmette un bisogno di assistenza, legato al fatto che una persona chiamata Ipazia stia inciampando e si trovi, quindi, in una condizione di pericolo. L’affermazione, dunque, deriva sì da un’osservazione, ma dipende, a sua volta, da una teoria complessa e composta da proposizioni, o credenze, o conoscenze, in chi parla o in chi ascolta, relative all’esistenza delle persone, delle cose, delle proprietà, delle richieste e degli eventi. In questo esempio potrebbe sembrare che manchino i valori non epistemici, ma, a dire il vero, ci sono, anche se non ovviamente apparenti: il termine «aiuto» suggerisce l’urgenza di dover assistere chi non sta bene e questo senso di dovere può essere un esempio di un valore non epistemico. In contrasto con l’asserto menzionato prima, la semplice osservazione «Ipazia sta inciampando nella corda» è senz’altro priva di valori non epistemici. La questione dei valori è particolarmente sentita nelle epistemologie femministe e non (cfr. Harding 1991; per una prospettiva non femminista, cfr. Putnam 1981). Ci sono scienze, come l’antropologia, la biologia, la medicina e la psicologia, che, per il loro specifico oggetto di studio, gli esseri umani, risultano più aperte di altre ad «assorbire» valori e/o pregiudizi che riguardano il genere femminile. Se si crede che non esistano fatti «bruti» passibili di indagine scientifica e che di conseguenza i valori e/o pregiudizi non siano sradicabili dalla scienza, si può giungere ad affermare che tali valori incidono nell’acquisizione di evidenza e di giustificazione e/o nella loro valutazione. Ciò conduce a sostenere approcci anti-individualisti, perché sono le comunità o i gruppi sociali, piuttosto che i singoli individui, a svolgere un ruolo attivo nel sostenere certi valori e/o pregiudizi piuttosto che altri, e nel poter promuovere un tipo di scienza ove i valori «cattivi» siano sostituiti da quelli «buoni». Vi sono infatti valori «buoni» e valori «cattivi», valori che conducono a una migliore indagine epistemica e valori che conducono invece a una peggiore indagine epistemica: per esempio, i valori democratici so82

no senz’altro «buoni», mentre i valori antidemocratici sono certamente «cattivi»; lo stesso vale rispettivamente per i valori antimisogini e i valori misogini. Sostenute a vario titolo da diverse epistemologhe (cfr., per esempio, Harding 1986, 1991 e 1998), strategie simili vanno incontro a una grande difficoltà: in che modo riuscire a escludere che vi siano comunità (come, in effetti, esistono) che tra i valori cosiddetti buoni annoverano premesse o metodologie antiscientifiche (si pensi all’astrologia e alla magia) o premesse e metodologie aberranti (si pensi alla biologia e all’antropologia di matrice nazista, o alle sperimentazioni naziste sugli internati nei campi di concentramento)? Si può ricorrere al concetto longiniano di «interazione dialogica» per sostenere che, grazie all’interazione sociale, discorsiva e pluralistica, gli approcci antiscientifici e aberranti vengono eliminati. Queste soluzioni ricordano analoghe soluzioni volte a garantire una conoscenza oggettiva. Tuttavia, il concetto stesso di «interazione dialogica» non riscuote alcun consenso generale e la sua realizzazione pratica viene sicuramente osteggiata, se non vietata, dalle comunità anti-democratiche ove è più facile che l’indottrinamento elimini la possibilità di una discussione libera e aperta e che valori «cattivi» siano ideologicamente scambiati per «buoni». Non è allora preferibile pensare e desiderare un’impresa epistemica priva di valori politici, economici, morali, religiosi? Un’impresa del genere non è un traguardo impossibile se si tiene salda la classica distinzione tra «contesto della scoperta» e «contesto della giustificazione», cioè tra il modo in cui si giunge di fatto a una scoperta scientifica (o a una credenza) e il modo in cui si offrono ragioni a sostegno della correttezza di essa (sulla distinzione, cfr. Reichenbach 1938, pp. 5-7). Nel contesto della scoperta, quando lo scienziato o il soggetto conoscente scelgono i problemi da considerare e generano le ipotesi per risolverli, può verificarsi che alcuni valori giochino un ruolo più o meno rilevante. Questi valori vanno però lasciati ca83

dere nel momento della giustificazione, ove a contare devono essere solo i metodi scientifici e le verifiche empiriche; se ci si trova di fronte a un caso di sottodeterminazione, occorre confidare nel fatto che il suo carattere sia temporaneo e cercare quindi di acquisire una maggiore giustificazione. È poco efficace ribattere con Anderson (1996) che la ricerca scientifica è sempre impregnata di valori, a causa di aspetti di ordine pragmatico, come il fatto che ogni ricerca si sviluppa a partire da problemi la cui motivazione può essere non epistemica: si pensi, per esempio, a programmi di ricerca scientifica motivati da credenze religiose o da programmi politici o sociali. Problemi come questi, infatti, appartengono al contesto della scoperta, non al contesto della giustificazione, ed è a partire dalla giustificazione, non dalla scoperta, che possiamo iniziare a parlare di impresa epistemica: aspiriamo a conoscere i fatti e i fatti non sono né «buoni», né «cattivi». È senz’altro più efficace ribattere che, se la conoscenza scientifica può essere priva di valori, la conoscenza tecnologica non può esserlo: per esempio, se le nostre conoscenze scientifiche sull’energia nucleare non sono in se stesse né buone, né cattive, lo stesso non si può dire della costruzione delle bombe atomiche. Se la conoscenza tecnologica è buona o cattiva, occorre rivalutare questa conoscenza per privilegiare le tecnologie buone. Abbiamo già accennato al fatto che questa rivalutazione non piace a chi crede che ogni tecnologia sia in qualche modo cattiva perché danneggia comunque le donne. Da parte nostra, crediamo che questo sia palesemente falso: basti pensare a come alcuni prodotti tecnologici – pentole a pressione, forni, frigoriferi, lavapiatti, lavatrici – hanno alleviato il carico di lavoro domestico delle donne, o a come i contraccettivi consentano alle donne di evitare gravidanze indesiderate. Non vogliamo tuttavia nasconderci che non è sempre facile stabilire quali sono per le donne le tecnologie «buone» e quali le tecnologie «cattive»: basti pensare ai dibattiti sulla fecondazione assistita, sulla chirurgia estetica, 84

sull’infibulazione. È forse il punto di vista femminile a poter decretare quali sono le tecnologie buone e quali quelle cattive? Ma ha un qualche senso parlare di un punto di vista femminile? 7. Punti di vista Quando si guarda il mondo da punti di vista o da prospettive diverse, che sono frutto di precise posizioni sociali, si conseguono esperienze e osservazioni diverse. Se le loro differenti posizioni sociali in ogni cultura conducono il maschile e il femminile a occupare differenti posizioni epistemiche, la posizione epistemica del genere oppresso (il genere femminile) è, almeno in linea di principio, superiore alla posizione del genere oppressore (il genere maschile). Questo perché il genere oppressore deve inventare una teoria che giustifichi la sua posizione di oppressore, e deve credere che questa teoria sia vera e/o imparziale, nonostante il più delle volte risulti di fatto falsa e/o parziale, mentre il genere oppresso, per mere ragioni di sopravvivenza, deve sì comprendere la teoria in questione, ma non si trova nella necessità di autoingannarsi ritenendo la teoria vera e/o imparziale. In termini più generali, possiamo dire che occupare una posizione socialmente marginale comporta trovarsi in una posizione epistemicamente proficua, mentre occuparne una dominante significa trovarsi in una posizione epistemicamente sfavorevole. Nel caso specifico, c’è un punto di vista sulla realtà peculiarmente femminile, che è distinto dal punto di vista maschile ed epistemicamente privilegiato rispetto a esso. Le teorie del punto di vista (il locus classicus è Hartsock 1983; cfr. anche Hartsock 1998) presentano affinità con il marxismo. Il punto di vista del proletariato viene considerato talmente distinto, rispetto a quello delle classi dominanti, da costituire una posizione epistemica privilegiata: in virtù di una conoscenza particolare del sistema capitalistico, il proletariato ha una consapevolezza della realtà so85

ciale che è più accurata rispetto a quella di altre classi sociali. Che cosa garantisce questo punto di vista? L’esperienza lavorativa e manuale, che fonda una prospettiva distinta sulla realtà. In effetti le teorie del punto di vista applicano l’impianto marxista alla riflessione sulla conoscenza femminile, anche con l’obiettivo di evidenziare che la sola appartenenza al genere maschile può tradursi in esercizi di arroganza epistemica (come quando la conoscenza delle donne viene denigrata) mentre la sola appartenenza al genere femminile si concretizza nella capacità di cogliere il punto di vista più significativo sulla realtà. Il marxismo presenta però alcuni limiti. Innanzitutto, non è necessario né sufficiente trovarsi in una posizione epistemica marginale per poter comprendere il punto di vista di chi vive una qualche specifica condizione di discriminazione. Non è necessario essere una donna per assumere il punto di vista femminista, perché altrimenti non ci potrebbero essere uomini femministi – lo stesso Marx riesce a estrinsecare e rivendicare il punto di vista del proletariato, senza essere lui stesso un proletario. Del resto, non è sufficiente essere una donna perché ci sono, o comunque ci possono essere, donne che accettano acriticamente valori maschilisti, che interiorizzano ideologie oppressive, che sono inconsapevoli del punto di vista femminista: quest’ultimo è una conquista che richiede una riflessione critica sull’essere donna e sull’esperienza dell’emarginazione sociale. A questo proposito occorre però essere cauti. Anche se non è necessario essere una donna per assumere il punto di vista femminista, non è affatto desiderabile che l’oppressore si appropri indebitamente dell’esperienza epistemica dell’oppresso – per esempio, non solo che l’uomo si appropri dell’esperienza della donna, ma anche che la donna bianca si appropri dell’esperienza della donna di colore, la donna ricca dell’esperienza della donna povera, la donna eterosessuale dell’esperienza della donna lesbica, e così di seguito. Nel caso in cui l’accesso alla riflessione 86

critica sia consentito solo ad alcune donne – per esempio, alle donne con un’istruzione sufficiente – è difficile evitare che queste donne finiscano con l’appropriarsi dell’esperienza delle altre donne. Secondo i critici, ciò in effetti è realmente accaduto, almeno nel senso che le principali esponenti del femminismo degli anni settanta, quasi tutte bianche, provenienti dalla classe media, eterosessuali, hanno (seppur forse inconsapevolmente) utilizzato una superiorità di razza, classe, preferenza sessuale per interpretare e/o mascherare i punti di vista di donne di colore, donne provenienti da classi inferiori, lesbiche. Non ci può essere un solo punto di vista femminile degno di essere epistemicamente privilegiato: se il privilegio epistemico dipende dalla posizione che si occupa e se donne diverse occupano posizioni diverse a seconda della loro razza, della loro classe sociale, della loro preferenza sessuale, e così via, occorre riconoscere che i punti di vista femminili sono parecchi (cfr. Collins 1990 e 2000, e Lugones e Spelman 1986). Contro il fatto che tutte le donne condividano uno stesso punto di vista esperienziale dovuto all’«essere donna», è opportuno ricordare anche che l’essere donna fa magari un certo effetto a te, un altro effetto a Nicla, un altro effetto ancora a Pieranna, e così via, almeno nel senso che l’essere donna può risultare comprensibile solo da un punto di vista soggettivo, da una prospettiva di prima persona. Per capire meglio, proviamo a metterci nei panni di un pipistrello, che ha tra l’altro un apparato percettivo assai diverso dal nostro e basato sull’ecolocazione, ovvero sulla capacità di localizzare gli oggetti esterni non con la vista o il tatto ma con la riflessione delle onde sonore. Saranno sempre vani i nostri tentativi di avere le esperienze soggettive del pipistrello: potremo magari percepire che effetto fa a noi immaginarci di essere un pipistrello, ma non sapremo mai che effetto fa al pipistrello stesso. Occorre partire da una prospettiva in prima persona per capire che effetto fa essere un certo essere vivente e quindi si può comprendere che effetto fa es87

sere un certo essere vivente solo se si è quell’essere vivente (cfr. Nagel 1974). Parallelamente, per comprendere che effetto fa essere donna a te, a Nicla, a Pieranna, occorre essere te, Nicla, Pieranna: ogni nostro tentativo di capire che effetto fa a te essere donna è destinato al fallimento. In secondo luogo, il marxismo non presta attenzione alle divisioni di genere che regolano la nostra società, si concentra sui sistemi di produzione e rimane silente sui sistemi di riproduzione, che sono invece spesso al centro dell’esistenza femminile. C’è un netto rifiuto del corpo e della corporeità delle donne, e in questo il marxismo si trova in sintonia con gran parte della tradizione filosofica occidentale. Per capire il punto di vista femminile, però, occorre prestare attenzione all’esperienza della riproduzione. Peculiare del genere femminile, attività sociale complessa che include la gestazione, il parto, l’allevamento dei figli, il lavoro di cura (che oggi si prolunga per le difficoltà dei giovani a inserirsi nel mondo del lavoro), e dove il corpo non può essere separato dalla mente (si pensi per esempio all’allattamento), l’esperienza della riproduzione consente alle donne una particolare comprensione di quel mondo sociale e naturale che ruota attorno alla procreazione e che è, al contempo, all’origine della differenza di vissuti tra uomini e donne. In effetti, gli uomini interpretano spesso ed erroneamente l’allevamento dei figli come un’attività individuale e semplice che richiede solo una buona dose d’istinto materno, mentre le donne lo sperimentano concretamente e correttamente come un’occupazione sociale difficile e articolata, dove la maturità emotiva e cognitiva deve unirsi a grandi doti relazionali, organizzative e razionali (questo fatto piuttosto banale attesta tra l’altro quanto sia sbagliato identificare la donna con l’irrazionalità). Tuttavia, sottolineare la questione della riproduzione quale unica differenza concreta tra uomini e donne può condurre a pensare che le donne posseggano una conoscenza privilegiata solo relativamente al mondo sociale e 88

naturale legato ai meccanismi riproduttivi. Anche l’epistemologia tradizionale non ha difficoltà ad ammettere che le donne possiedano questa conoscenza. Alcune epistemologie femministe, con l’intento di riconoscere una più vasta conoscenza di tipo prettamente femminile, giungono ad affermare che le donne dispongono di uno stile cognitivo di sperimentazione della realtà diverso da quello posseduto dagli uomini (cfr. Hartsock 1983 e Rose 1983). Questo stile non viene del tutto dissociato dalle capacità riproduttive femminili nel senso che alla capacità di allevare viene associato un modo tipico di ragionare delle donne (cfr., per esempio, Gilligan 1982), in cui a importare sono la cura degli altri, il mantenimento delle relazioni, la negoziazione, il confronto dialogico, piuttosto che processi (maschili) come quelli deduttivi e induttivi. In altre parole, lo stile cognitivo di sperimentazione della realtà tipico delle donne sarebbe collegato alla sfera affettiva e, più in generale, a emotività, relazionalità, calore, in opposizione a uno stile cognitivo maschile che privilegia razionalità, dominio, aggressività (cfr. Hartsock 1983). Affermare una differenza significativa tra uomini e donne a proposito dello stile cognitivo significa però imboccare una via retrograda, per rivalutare le vecchie e inconsistenti dicotomie di origine patriarcale che vogliono l’uomo razionale, attivo, oggettivo, e la donna emotiva, passiva, soggettiva; significa ritornare allo spettro di Santippe. Perché mai poi le donne dovrebbero pensare in un modo conforme con stereotipi di tipo sessista (sui quali si basano discriminazioni penalizzanti, nonché valutazioni impari dei ruoli delle donne e degli uomini in campo epistemico) e perché mai le donne dovrebbero comunque pensare tutte nello stesso modo (cfr. Lloyd 1984)? Che il privilegio epistemico venga riportato a uno stile cognitivo o all’esperienza condivisa dell’emarginazione sociale e/o della procreazione, alla biologia o alla sociologia, si sottovaluta il fatto che ogni donna ha una sua pro89

pria peculiare identità e si corre così il pericolo di assumere che sussista un’unica natura o essenza femminile (riproduttiva, personale, cognitiva) (cfr. Harding 1986 e 1991, e Bar On 1993). Infatti, asserire che vi sono punti di vista, contenuti, stili esperienziali unicamente femminili significa da una parte ritenere che tutte le donne condividono caratteristiche essenziali e dall’altra ignorare le differenze che intercorrono necessariamente tra di esse e che possono condurre a rivedere ampiamente il concetto stesso di donna, anche per decostruirlo o addirittura per «frantumarlo». Abbiamo già visto i pericoli dell’essenzialismo (cfr. il par. 4 del secondo capitolo). Vi ritorneremo tra breve. 8. Riflessioni critiche Le riflessioni critiche che ci interesseranno in questa sezione prendono spunto da una domanda cruciale: che senso hanno le epistemologie femministe? Stando ad alcuni, nessuno, perché, mentre il femminismo è un movimento di uno specifico gruppo sociale con tendenze verso il separatismo e il particolarismo, fare epistemologia significa invece capire che cos’è la conoscenza per l’essere umano in quanto essere umano. Le epistemologie femministe non hanno quindi più senso di quello che potrebbe avere «un’epistemologia nera o gay o degli anziani o delle organizzazioni sindacali o dei club calcistici o dei media» (Hesse 1994, p. 445). È senz’altro vero che c’è stato e c’è un femminismo che tende a essere particolarista e separatista, ma non è l’unico tipo di femminismo. Le riflessioni femministe sono molte (ci sono il femminismo afro-americano, essenzialista, evolutivo, islamico, liberale, marxista, radicale, separatista, psicoanalitico, socialista, esistenzialista, postmoderno) e non sono strutturate in una disciplina capace di offrirci teorie tra loro coerenti (basti ricordare che al suo interno convivono posizioni che rivalutano le proprietà e 90

le mansioni delle donne di un tempo con posizioni che vogliono decostruire la stessa nozione di «donna»). Tuttavia, questo non è un problema perché l’eterogeneità di idee, approcci e argomentazioni viene ben rappresentata dalle epistemologie femministe: l’omogeneità invece va evitata perché con l’omogeneità si rifiutano le molteplici diversità che rappresentano importanti risorse per le nostre esistenze epistemiche. Tra gli scopi delle epistemologie femministe vi è quello di mettere in luce l’ottica «politica», «opportunistica», «sessista» che guarda la conoscenza delle donne con disprezzo e con pregiudizi. Questo scopo ha generato e continua a generare una pletora di orizzonti per ricostruire approcci epistemologici su piattaforme nuove e auto-consapevoli, lontane dall’approccio tradizionale (cfr. Alcoff e Potter 1993, p. 3; e Longino 1999, p. 331). Si tratta di uno scopo sensato in quanto, come attestano la storia e lo stato attuale delle nostre società, non attribuiamo conoscenza all’essere umano in quanto essere umano, bensì a soggetti sessuati, che appartengono al genere maschile o femminile, utilizzando spesso stereotipi di tipo sessista. Se così non fosse, la nostra società vedrebbe percentuali più o meno simili di uomini e donne nelle posizioni lavorative che richiedono conoscenze non solo specifiche, ma anche «elevate»: primari in ospedali, magistrati, professori universitari, deputati, senatori, manager e così di seguito. Abbiamo scritto «elevate», oltre che «specifiche», perché nessuno nega alle donne conoscenze specifiche: nessuno nega che le donne sappiamo cucinare in media meglio degli uomini, e forse da ciò segue che debbano in media farlo comunque più degli uomini. Ma quando la conoscenza, oltre che specifica, diventa «elevata», si attribuisce più conoscenza agli uomini che alle donne: di che sesso o genere sono i migliori chef al mondo? E se anche la conoscenza dei neri, dei gay, degli anziani, e così via, viene guardata con disprezzo e pregiudizi, ben vengano allora epistemologie che lo evidenziano e che vi pongono rimedio. 91

Le epistemologie femministe hanno però senso solo a patto che il genere rappresenti l’ingrediente determinante sotto il profilo epistemico. I fattori che sono stati affiancati al genere (storia personale, razza, classe sociale, preferenza sessuale, cultura, età) potrebbero essere alla base di qualsiasi epistemologia, mentre le epistemologie femministe, proprio per poter essere «femministe», hanno bisogno di contare sul fatto che il genere sia l’ingrediente di primaria importanza, o perlomeno uno dei principali, nelle affermazioni di conoscenza. Conferire un significato epistemologico al genere equivale però a negare la tesi tradizionale dell’interscambiabilità, stando alla quale i soggetti conoscenti sono «interscambiabili» nel senso che non sussistono variazioni epistemiche rilevanti tra di loro (cfr. Antony 1995, p. 63). Negare questa tesi potrebbe essere inteso come cedere alla tesi sessista che donne e uomini pensano e conoscono in modo differente. Se poi al fattore «genere» si aggiungono altri fattori, come la razza, la classe sociale o la preferenza sessuale, potrebbe significare cedere alla tesi razzista che le differenti razze pensano e conoscono in modo differente, alla tesi classista che classi sociali diverse pensano e conoscono in modo differente, alla tesi eterosessista che eterosessuali e omosessuali pensano e conoscono in modo differente. Che sessismo, razzismo, classismo, eterosessismo ci ripugnino o meno, è necessario affrontare correttamente questo problema a partire dalla considerazione del fatto che i soggetti conoscenti risultano epistemicamente interscambiabili se dispongono sostanzialmente delle medesime capacità cognitive. Occorre quindi chiederci se i soggetti conoscenti condividono le medesime capacità cognitive, senza l’assurda pretesa di essere in grado di dirimere la questione a tavolino: la risposta va affidata alle scienze empiriche e, in particolare, alla psicologia. Ricercare una risposta empirica al quesito sulle supposte differenze di capacità cognitive di diversi gruppi sociali non significa però né accettare ciecamente i dati ottenuti dalle scienze, 92

né supporre che il processo di produzione di questi dati sia perfettamente immune da condizionamenti sociali e politici. Anche questi dati vanno letti con una mente critica (cfr. Lloyd 1997; per una difesa della scienza da parte di un’epistemologa che si dichiara femminista, ma che critica le epistemologie femministe, cfr. Haack 2003). Di fronte ai molti studi psicologici che affermano di aver inequivocabilmente dimostrato l’esistenza di differenze decisive tra le capacità cognitive maschili e quelle femminili (per uno studio ormai classico cfr. Belenky, Clinchy, Goldberger, Tarule 1986), occorre tenere presente tre punti. Innanzitutto, quando la letteratura in questione viene sottoposta a un vaglio critico, si finisce con il dover ammettere che sono in realtà scarsi gli elementi scientificoempirici a favore di uno stile conoscitivo tipicamente femminile, diverso e/o contrapposto a quello maschile (cfr., per esempio, Brabeck e Larned 1997, Fausto-Sterling 1985 e Tavris 1992). In secondo luogo, nell’ipotesi che trovassimo davvero questi elementi, dovremmo valutarli con grande serietà, senza trincerarci dietro la richiesta di eguaglianza tra donne e uomini – una richiesta a volte foriera di quei noti atteggiamenti acritici che identificano tutta la cognizione con la cognizione maschile. Infine, se vogliamo sostenere che il genere deve assumere un’influenza determinante nella riflessione epistemologica, dobbiamo fare i conti sia con l’approccio costruttivista, sia con quello essenzialista. Chi è costruttivista sostiene che il ruolo epistemico che occupiamo sul piano sociale è connesso al nostro sesso biologico e/o al nostro genere solo in un senso contingente: per esempio, l’idea che i soggetti conoscenti di sesso maschile siano più adatti e/o bravi a riparare una tubatura, a decidere la strategia di una guerra, a studiare in modo approfondito logica e matematica, e così via, è solo socio-culturale (socio-culturale nel senso che i soggetti vengono maggiormente incoraggiati da un certo tipo di educazione) e quindi reversibile. Chi è essenzialista sostiene invece che il ruolo epistemico che occupiamo sul piano 93

sociale è legato al nostro sesso biologico e/o al nostro genere in un senso inevitabile: per esempio, è intrinseca (biologicamente, ma non solo) all’essenza maschile, e quindi irreversibile, l’idea che i soggetti conoscenti maschi siano più adatti e/o bravi a riparare una tubatura, a decidere la strategia di una guerra, a studiare in modo approfondito logica e matematica. Il contrasto tra essenzialismo e costruttivismo si radica nella differenza tra un approccio biologico e uno sociologico, capace di spiegare la differenza sessuale (cfr. anche il par. 4 del secondo capitolo). È opportuno però ricordare che il contrasto tra questi approcci non è così assoluto come viene talvolta prospettato. Riguardo al sesso biologico, infatti, dobbiamo tener presente che la sua «naturalità» non è affatto scontata: se, infatti, con «sesso biologico» ci si riferisce a una divisione biologica in due soli sessi, occorre ricordare che essa è poco giustificata sotto il profilo empirico perché incapace di rendere conto di tutti quegli esseri umani che sono intersexed (cfr. Fausto-Sterling 2000) e sotto il profilo teorico perché incapace di rendere conto dei «soggetti eccentrici» (cfr. De Lauretis 1990). Ciononostante, alcune supposte differenze tra le capacità cognitive (ed emotive) degli uomini e delle donne (cfr. anche Daly 1978, Griffin 1981 e Jaggar 1983) vengono considerate alla stregua di un «destino» biologico da alcune ricerche che fanno riferimento alle difformità ormonali o alle difformità nella struttura e nelle funzionalità cerebrali – ricerche che presentano peraltro parecchie similarità con quelle alla caccia del gene dell’omosessualità, per sostenere che l’omosessualità è geneticamente determinata. Mentre alcuni ritengono che, sebbene esistano, non è affatto chiaro cosa queste differenze comportino, altri sostengono che esse sono alla base di stili cognitivi differenti che vedono le donne prevalere in compiti che richiedono memoria, competenze linguistiche e numeriche, coordinazione meccanica, percezioni rapide e precise, e gli uomini prevalere in compiti che richiedono abilità motorie, 94

attitudini spaziali, competenze logico-matematiche, percezioni di figure geometriche (cfr., per esempio, Hines 2003). Se non si è costruttivisti, affermare che la conoscenza tipicamente femminile è diversa e/o contrapposta alla conoscenza maschile comporta fare proprie tesi essenzialiste come quelle che seguono: il soggetto di genere femminile è culturalmente collettivista, dipendente e correlato agli altri; le donne sono tradizionalmente esseri sociali, e comunque più sociali degli uomini e, in quanto tali, stabiliscono facilmente contatti con gli altri e coltivano amicizie intime; le donne sono empatiche e sensibili; la conoscenza delle altre persone è per lo più femminile; c’è un punto di vista sulla realtà che è peculiarmente femminile; una visione femminile considera la conoscenza oggettiva come una forma di interazione tra esperienza emotiva ed esperienza cognitiva. L’essenzialismo risulta però criticabile sotto vari aspetti. Innanzitutto, è opportuno ricordare che non ci sono solo donne «femminili», ma anche donne «mascoline», così come ci sono uomini «mascolini» e uomini «femminili». Ne segue che i generi non possono essere solo due, ma devono essere perlomeno quattro; potrebbero poi moltiplicarsi, se si considerano omosessuali, lesbiche, androgini, ermafroditi, travestiti, transessuali, transgender. A quel punto si potrebbe parlare di molteplici essenze: essenza della donna femminile, essenza della donna mascolina, essenza della donna lesbica, e via di seguito. Le cose si fanno però più complicate se consideriamo che non si può parlare in astratto di una donna femminile o di una donna mascolina o di una donna lesbica, e che, infatti, le epistemologie femministe prendono in considerazione storia, razza, classe sociale, cultura, età, eccetera, della donna. Se consideriamo tutto e vogliamo ancora parlare di essenza, non possiamo fare altro che moltiplicare le essenze, violando il cosiddetto rasoio di Ockham: il rasoio è un invito alla parsimonia nelle questioni metafisiche, condensato in 95

un principio generale, o in un assunto metodologico, secondo il quale non dobbiamo postulare entità inutili o moltiplicare le entità oltre il necessario. Solo se le differenze tra genere femminile e maschile prevalgono su storia individuale, appartenenza a razze e a classi sociali, preferenze sessuali, opportunità culturali, età, diventa doveroso essere essenzialisti. È noto che una delle convinzioni più incisive contro l’essenzialismo si deve a Lacan: se prendiamo in considerazione «la donna» e se l’articolo definito che precede «donna» sta a indicare la donna universale, allora la donna non esiste. L’essenzialismo sembra appellarsi a una misteriosa essenza femminile, dentro cui forzare a tutti i costi le tante differenze tra donne, per negarle o renderle inspiegabili (cfr. Young 1990) – basti pensare a come le donne di colore e le donne lesbiche sono maggiormente discriminate rispetto alle donne bianche e alle donne eterosessuali (cfr. Collins 1990 e 2000, e Lorde 1984). Secondo la critica più convincente e più nota dell’essenzialismo (cfr. Butler 1990 – ma vedi anche Dworkin 1974, West e Zimmerman 1987, Wittig 1992), l’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali è solo normativa e serve a costringere gli esseri umani a comportarsi in determinati modi, a legittimare determinate pratiche e a delegittimarne altre. Serve, ad esempio, a legittimare il fatto che agli uomini e alle donne vengano riservati ruoli sociali e sessuali distinti sotto il profilo epistemico, che gli uomini e le donne debbano rispettare norme epistemicamente diverse, che gli uomini debbano ad esempio conoscere con la ragione e le donne con il cuore. Ricerche psicologiche permettendo, queste contrapposizioni possono venire rifiutate (biologicamente e culturalmente) in quanto insensate, ingiuste, superflue (cfr. anche Hekman 1990). Una volta rigettato l’essenzialismo, si potrebbe tentare di identificare il soggetto conoscente con un soggetto androgino, che nel mito greco viene prima del contrasto tra 96

maschile e femminile, il cui sesso di appartenenza – nell’ipotesi che la categoria del sesso goda ancora di qualche consistenza e/o valore – non avrebbe alcuna incidenza sul piano epistemico (sull’androginia come ideale cfr. Ferguson 1977). Oppure, si potrebbe abbracciare un’epistemologia à la Popper, in cui il soggetto conoscente viene eliminato, perché a contare non è «il mondo dei soggetti», bensì il mondo delle teorie, dei problemi e delle argomentazioni che circoscrive la conoscenza oggettiva. In questi due casi verrebbe però a cadere la domanda cardine delle epistemologie femministe: di quale conoscenza stiamo parlando e di chi è questa conoscenza?; ovvero, stiamo parlando della conoscenza delle donne? Delegittimando «a priori l’esplorazione della continuità esperenziale e della base strutturale comune tra le donne» (Bordo 1990, p. 142), idee come quelle appena proposte potrebbero decretare la fine delle epistemologie femministe, oltre che di ogni pratica e filosofia femminista (cfr. Stanley e Wise 1993, p. 205). Perché non ribadire invece che, nonostante siano differenti, le donne rimangono accomunate dal fatto di vivere in società sessiste, maschiliste, patriarcali? Se da una parte è vero che donne diverse hanno esperienze cognitive diverse (immaginate quanto distanti possano essere il vissuto epistemico di una bambina thailandese costretta a prostituirsi e quello di una bambina inglese destinata a diventare regina), è altrettanto vero che ogni donna sperimenta su di sé una qualche forma epistemica di sessismo, maschilismo e patriarcato. Non occorre peraltro appellarsi a istanze essenzialiste per rivendicare, così come abbiamo inteso fare, la socialità del soggetto conoscente: ogni soggetto, femminile o maschile, richiede interazioni con altri soggetti a fini conoscitivi, e difatti abbiamo visto che non può fare a meno di conoscere in senso competenziale, di contestualizzare le proprie pretese conoscitive, di conoscere le altre persone, di contare sulla testimonianza, di fare assegnamento sull’intersoggettività per cogliere un punto di vista oggettivo, di 97

confrontarsi con i valori e/o i pregiudizi della società in cui vive. In realtà gli aspetti sociali del conoscere riguardano ogni soggetto, al di là non solo del suo genere, ma anche di razza, classe sociale, preferenza sessuale, cultura, età. Sottovalutare l’interdipendenza epistemica, considerarla una caratteristica superflua del soggetto conoscente, pensare di poter isolare quest’ultimo dal proprio gruppo sociale e dalla propria cultura, così come ha fatto l’epistemologia tradizionale, significa costringerlo a conoscere poco e destinarlo a una difficile «sopravvivenza» epistemica. Anche nell’ipotesi che venisse decretata la fine delle epistemologie femministe, rimane così fermo e plausibile un loro importante risultato: i soggetti conoscenti sono epistemicamente dipendenti ed è quindi falsa la tesi tradizionale dell’autonomia e dell’autosufficienza, secondo la quale essi «non necessitano di interazioni con altri esseri umani per acquisire conoscenze» (Antony 1995, p. 63). Riflettendo su conoscenza competenziale, contesti, conoscenza degli altri, testimonianza, oggettività, valori e punti di vista femminili, è emerso un soggetto conoscente che non può essere individualista. Riflettendo su identità delle donne, su conoscenza di sé e trauma è emersa la necessità di una concezione del sé relazionale e narrativa perché solo questa è in grado di garantire una nozione di identità personale che integra i mutamenti anche radicali a cui talvolta ci sottopone la vita (cfr. parr. 8 e 9 del secondo capitolo). In conclusione, nell’epistemologia così come nella metafisica, il contributo originale che una filosofia delle donne può apportare alla filosofia tradizionale consiste in una difesa più argomentata e in una comprensione più profonda della dimensione sociale dell’esistenza umana.

Una stanza tutta per sé

Ma io sostengo che ella arriverà, se lavoriamo per lei; e che lavorare così, sia pur nella povertà e nell’oscurità, vale la pena. Virginia Woolf

1. Status quo Cosa si dirà di Filosofia delle donne? Lo stato d’animo di Nicla e Pieranna assomiglia a quello di Virginia Woolf, prima della pubblicazione di Una stanza tutta per sé: È un po’ di cattivo augurio che Morgan non voglia recensirlo. Mi fa sospettare che abbia dentro una stridula nota femminile che non piacerà ai miei intimi amici. Prevedo quindi che non avrò critiche – se non del genere evasivo-scherzoso – da Lytton, Roger e Morgan; che la stampa sarà benevola e dirà che ha fascino e brio; e inoltre mi accuseranno di essere una femminista e insinueranno vagamente che ho delle tendenze lesbiche (Woolf 1954, trad. it. 2005, p. 205).

Nicla e Pieranna non sono Virginia Woolf. A differenza di Woolf, hanno frequentato l’università e ottenuto il titolo di dottore di ricerca. Al pari, però, di Woolf hanno 99

«una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» e pertanto soddisfano le condizioni minime per essere scrittrici; Nicla e Pieranna scrivono di filosofia: entrambe professori universitari, guadagnano a sufficienza, non soffrono di «anonimità», possono manifestare una «forza creativa», la loro mente è androgina, così come deve essere per Woolf la mente dell’artista e dell’intellettuale. Pur essendo trascorsi quasi ottant’anni dalle conferenze di Cambridge su cui si basa Una stanza tutta per sé, Nicla e Pieranna devono ancora essere considerate donne privilegiate. La maggioranza delle donne continua a non avere «una stanza tutta per loro». Dacia Maraini ce lo ricorda in modo lucido, in pagine che ci piace riportare per intero: Purtroppo, nel nostro oggi, è spesso ancora presente il retaggio dei limiti imposti nel tempo alla libertà femminile, ancora presenti sono discriminazioni e misoginie... Basta dare uno sguardo anche distratto alle statistiche sulla depressione; basta pensare all’assenza per le donne di una vera libertà del desiderio sessuale, rappresentata in un sistema di segni e di immagini tutto al maschile... Le ingiustizie continuano e il mondo inventa costantemente nuovi modi di discriminare le donne. Anche nei paesi più avanzati e che si pretendono evoluti dal punto di vista del rapporto fra i sessi. Non sto parlando dell’Africa con i suoi 2 milioni di bambine infibulate ogni anno, o dei paesi dell’Est che esportano schiave sessuali come fossero beni di scambio dei più comuni quali patate e pomodori, o anche di quei paesi arabi che impongono il velo e la segregazione alle loro donne, e si tengono fedeli a una legislazione razzista e sessista come quella che permette la lapidazione delle adultere. Parlo dell’Europa e delle sue donne emancipate e ormai partecipi a pieno diritto di tutte le professioni. Il fatto è che, a detta dei più, le donne nei paesi europei hanno conquistato parità di fronte alle leggi. Lo si dichiara in ogni occasione. E in effetti di parità si tratta, ma sulla carta. Nella vita quotidiana questa parità è spesso un sogno. Nonostante i diritti civili conquistati: il diritto di famiglia, il diritto agli studi, il diritto alla carriera, ci sono ancora moltissime discriminazioni che vengono imposte da una parte e subite dal-

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l’altra come «naturali». Molte ingiustizie, cacciate dalla porta, sono rientrate dalla finestra sotto altre forme più subdole, più nascoste e mascherate. Da noi non si impone il burqa per rendere invisibile e silenziosa la donna, ma si trasforma il corpo femminile in linguaggio pubblicitario, togliendole, con l’illusione della libertà sessuale, la parola... Siamo libere di spogliarci, di esibirci, di suscitare pubblicamente il desiderio maschile: non è davvero una conquista? Ma in questa luccicante libertà esiste una trappola che spesso le donne non distinguono: il corpo femminile si è trasformato in puro linguaggio di scambio. Il venditore parla al compratore attraverso un codice che è fatto di immagini di corpi femminili più o meno svestiti, più o meno esibiti, più o meno deificati. È il linguaggio della seduzione interessata: quella che ti fa sognare paradisi dell’eros per venderti un dentifricio, un’automobile, una birra... Così scopriamo che la discriminazione sessuale, cacciata via dal sistema legislativo, dalla pratica scolastica, dalla deontologia familiare, ritorna in forma di fantasia erotica della compravendita. Lì dove i ruoli sono duri a morire, lì dove il razzismo trionfa nutrendosi dei fantasmi di una femminilità arbitraria e mistificatoria, irreale e disprezzata (Maraini 2005, pp. 49-54).

Viviamo in piena raunch culture, in una cultura oscena e volgare, così come ci conferma Levy (2005). Molte donne fanno tutto il possibile per rendersi desiderabili, si esibiscono in modo sguaiato, conferiscono al proprio corpo valenze porno-soft, indossano magliette di Playboy, si concepiscono alla stregua di oggetti sessuali, mercificano il loro corpo e quello di altre donne, desiderano essere amate solo per le loro caratteristiche fisiche, non anche per quelle mentali, disdegnano i libri e trascorrono ore in palestra. Molte donne sognano di essere veline, letterine, troniste, modelle. È questo uno dei risultati femministi? Oppure si trova in contraddizione con ogni femminismo? Le donne continuano a voler essere le migliori nemiche di se stesse? Che libertà è quella che consente di sabotare il proprio diritto all’eguaglianza (intesa come assenza di discriminazioni economiche, etiche, legali, politiche, sessuali, socia101

li) e all’equità (intesa come giusta distribuzione di benefici e responsabilità)? In Sex and the City, c’è un dialogo che concerne la libertà e scatena la risata: Charlotte: The women’s movement is supposed to be about choice and if I choose to quit my job, that is my choice. Miranda: The women’s movement? Jesus Christ, I haven’t even had coffee yet1.

Pochi di noi hanno riflettuto su questo scambio di battute, e sul perché hanno riso, mentre molti sono rimasti incollati al piccolo schermo a seguire le vicende delle quattro single disinibite e fashion victim; o a seguire le vicende delle casalinghe frustrate, che non disdegnano gesti estremi, di Desperate Housewives. Queste single e queste casalinghe meritano di assurgere a icone dei femminismi, perché sono trasgressive o perlomeno desiderano trasgredire, e smascherano l’idea della donna perfetta, tutta casa, famiglia, lavoro? Oppure la loro libertà sessuale, il loro denaro, controllo e potere, la loro perfidia sono l’ennesima affermazione di una raffigurazione maschile della donna che puzza troppo di cliché? Oppure Sex and the City ci restituisce l’idea di una donna indipendente, ben vestita, ben pagata e sessualmente gratificata che non ha più alcun bisogno dei femminismi, mentre Desperate Housewives dipinge le casalinghe così come sono, immerse in un’epoca forse pre-femminista, forse post-femminista? Oppure è solo che i femminismi non sono stati abbastanza radicali? (in proposito, cfr. Hirshman 2006).

1 Charlotte: Il movimento delle donne dovrebbe riguardare proprio la libertà di scelta: se scelgo di lasciare il mio lavoro [dopo il matrimonio, N.d.R.], vuol dire che quella è una mia scelta. Miranda: Il movimento delle donne? Cristo, non ho ancora bevuto il caffè.

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2. Angeli del focolare Angeli del focolare, relegate nella sfera privata, escluse dalle questioni pubbliche per secoli, in alcuni paesi, oggi, le donne possono votare2, studiare nelle scuole pubbliche e iscriversi alle università, accedere alle professioni più diverse (benché i luoghi di «potere» rimangano ancora saldamente in mani maschili), possedere beni propri ed ereditarli, ottenere la custodia dei figli, denunciare le violenze domestiche. E possono fare anche altro: uscire di sera, guidare motociclette, fumare, abbronzarsi in topless, diventare terroriste. Sono i femminismi che hanno garantito tutto questo alle donne occidentali, ma alle donne italiane non è stato garantito molto altro. Una recente statistica colloca infatti il nostro paese solo al sedicesimo posto nell’Unione Europea per la parità tra donne e uomini sulla base della considerazione di tasso di disoccupazione, tasso di impiego, scarto di remunerazione tra i due sessi, rappresentanza in parlamento (nella primavera del 2006 si è insediato un parlamento composto per l’87% da uomini e un governo di centrosinistra in cui la presenza femminile non supera il tetto del 20%: dove sono le nostre Michelle Bachelet, Hillary Clinton, Angela Merkel, Nancy Pelosi, Condi Rice, Ségolène Royal?). Peggio ancora se prendiamo in considerazione il mero tasso di occupazione femminile, che su scala mondiale ci colloca addirittura al trentaduesimo posto. Basterebbero questi dati italiani a suggerire che c’è bisogno di femminismi, nonostante questi vengano continuamente dichiarati morti. Forse è solo che eguaglianza ed equità reali, a differenza di quelle formali, incutono timore: è quindi preferibile decretare la fine di ogni femminismo che condanna lo scarto costante tra il ri2 Per inciso, vogliamo ricordare che il percorso italiano che porta le donne alle urne è stato lungo e non privo di assurdità. Per esempio, nel 1912 il suffragio «universale» garantiva il diritto di voto a tutti gli uomini, analfabeti inclusi, e continuava a negarlo alle donne, anche a quelle istruite. Sul percorso, cfr. D’Amelia (2006).

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conoscimento de jure del diritto all’equità e all’eguaglianza, e la sua effettiva realizzazione. Il timore è tale da condurre alcune donne a fare affermazioni contraddittorie come «Non sono femminista, ma le donne dovrebbero avere di fatto opportunità identiche agli uomini», «Non sono femminista, ma mi piacerebbe un marito che si occupasse con me dei lavori domestici», «Non sono femminista, ma biasimo il turismo sessuale (maschile e femminile) », «Non sono femminista, ma la supposta frigidità femminile è una conveniente invenzione maschile», o «Non sono femminista, ma mi infastidisce il fatto che il barista si riferisca ai miei colleghi con ‘professore’ e a me con ‘signora’». Pur non volendolo, queste affermazioni sono femministe e avanzano richieste di pari opportunità, mariti con cui condividere i lavori domestici, messa al bando del turismo sessuale, vissuti erotici appaganti, baristi non sessisti. Stiamo parlando di femminismi, e non di femminismo, perché, come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, ci sono il femminismo afro-americano, essenzialista, evolutivo, islamista, liberale, marxista, radicale, separatista, psicoanalitico, socialista, esistenzialista, postmoderno. Alcuni di questi possono anche risultare inconciliabili; basta mettere a confronto una possibile visione liberale, secondo la quale l’oppressione delle donne consiste nella mancanza di equità politica e può essere superata concedendo alle donne gli stessi diritti politici degli uomini, e una visione separatista, secondo la quale l’oppressione femminile deriva dalla subordinazione sessuale delle donne e può essere superata solo in società esclusivamente femminili3. Tuttavia, i femminismi nel loro complesso ci 3 La prima visione è riportabile a François Poulain de la Barre, che a partire da De l’égalité des deux sexes (1673) ha teorizzato un tipo di femminismo unito a un qualche razionalismo di derivazione cartesiana (cfr. Stuurman 2004), la seconda a Charlotte (Anna) Perkins Gilman (1860-1935), che nel racconto Herland immagina una società popolata esclusivamente da donne, capaci di riprodursi per partenogenesi (cfr. Perkins Gilman 1915).

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conducono a riflettere in modo ricco e articolato sull’oppressione delle donne. Oppressione nel ruolo, anche biologico, che svolgono nell’ambito della famiglia (cfr. Okin 1989 e Firestone 1970), sul mercato del lavoro (cfr. Bergmann 2005), nei rapporti sessuali (cfr. Brownmiller 1975 e MacKinnon 1987), nell’oggettificazione (cfr. MacKinnon 1989). Se è importante individuare i luoghi reali e metaforici in cui le donne vengono oppresse e/o svantaggiate, è altrettanto importante capire perché: c’è chi pensa che sia per ragioni solo sessiste, chi per ragioni di classismo, chi per ragioni di razzismo. Che non sia una questione di mero sessismo viene confermato dalle tante donne che subiscono violenze non solo a causa del loro essere donne: per quanto riguarda il classismo, ad esempio, un uomo che vuole abusare di una donna lo crederà più lecito nei confronti di una colf che di un’aristocratica; per quanto riguarda, invece, il razzismo, basti ricordare che le bosniache sono state stuprate anche perché bosniache. Oltre a sessimo, classismo e razzismo, occorre non dimenticare gli svariati pregiudizi su preferenza sessuale, età, nazionalità, colore della pelle, religione: non si impiega forse il termine «lesbica» come insulto, e non si dicono forse cose come «una donna dopo i quarant’anni è da buttare via»? A quest’ultimo proposito è significativa la testimonianza di Isabella Rossellini, licenziata a quarant’anni da una nota azienda produttrice di cosmetici: È la crema la star, dicevano, non Isabella Rossellini. Mi mandarono tanti di quei fiori per il mio quarantesimo compleanno. Mi resi subito conto di essere morta... Avevo quarant’anni. Ero nel mio momento migliore. Sapevo chi ero. Era questo che le donne volevano più che un rossetto o un ombretto o una crema. Mi hanno licenziata perché ero forte (cfr. Ensler 2004, pp. 65-66).

È opportuno opporsi ai diversi tipi di oppressione e/o discriminazioni subiti dalle donne in quanto gratuiti e il105

legittimi. Stando alle rivendicazioni illuministe e liberali, forse quelle cui è più semplice aderire, l’unico rimedio è contrastare le differenze per sostenere che le donne sono razionali tanto quanto gli uomini, e che, in quanto razionali, sono capaci di ricevere tutta l’istruzione possibile e di essere a pieno titolo cittadini; tra l’altro, il fatto che le donne siano cittadini, razionali e istruite è necessario per ogni società realmente civile (cfr., per esempio, gli scritti di Wollstonecraft, Mill e Taylor; sulla problematicità del concetto di cittadinanza cfr. Boccia 2002 e Mancina 2002). Ma anche il concetto di «essere cittadino», una volta riconosciuti alcuni diritti fondamentali, può venire interpretato: ci possono essere cittadini e cittadini, cittadini deputati a svolgere le loro mansioni prevalentemente in casa (le donne) e cittadini deputati a svolgere le loro mansioni prevalentemente fuori casa (gli uomini), cosicché ci possono essere giudici, come ci sono effettivamente stati, che si rivolgono in tribunale alla donna stuprata (fuori casa) più o meno con le seguenti parole «se fosse stata accanto al caminetto a fare la maglia...». Già, se solo fosse stata l’angelo del focolare. Vale allora la pena di riportare qualche dato relativo a fatti che riguardano il «focolare» e che appartengono purtroppo alla cronaca nera di paesi «civilissimi». In Francia un terzo delle donne dichiara di essere stata picchiata e ogni quattro giorni una donna muore per mano del proprio partner, mentre in Spagna sono state assassinate negli ultimi cinque anni quattrocento donne per mano di mariti, conviventi e fidanzati. La situazione italiana non è migliore. In Lombardia tra il 2000 e il 2005 settantaquattro donne sono state uccise dal marito o dal convivente, e, stando a un’indagine Istat del 2002, nel nostro paese più del 50% delle donne ha subito almeno una molestia a sfondo sessuale, e sono più di mezzo milione le donne vittime di stupro. Gli stupri consumati avvengono in prevalenza dentro le «mura domestiche»: si devono per il 20,2% a mariti o ex mariti, per il 23,8% ad amici, per il 106

17,4% a fidanzati, e solo per il 3,5% a estranei. È però una minoranza di donne (il 10%) a denunciare le violenze subite e più del 30% delle donne non riesce neanche a parlarne. Queste donne non permettono che la loro esperienza venga conosciuta, nonostante siano state costrette a conoscerla subendola. C’è il trauma (cfr. il par. 8 del secondo capitolo), unito al senso di umiliazione, di colpa, di impotenza. Ci sono vergogna e timore di ritorsioni. Ma ci sono anche un sistema di potere e una cultura compiacenti, come attesta il fatto che la legge italiana abbia riconosciuto solo di recente che la violenza sessuale è reato contro la persona, e non contro la morale. Il privato è difficile da denunciare e anche nella sfera privata sono ancora lontane equità ed eguaglianza tra donne e uomini. È senz’altro una strana faccenda quella del pubblico e del privato. Se con il termine «pubblico» ci riferiamo alla sfera in cui vige la legge dello Stato e con il termine «privato» alla sfera in cui lo Stato non può intervenire, quando il pubblico è identificato con il razionale, e il privato con l’emozionale, non abbiamo alcuno strumento per combattere le violenze che avvengono nel privato. Potrà così venir detto, senza suscitare clamore, che l’uomo violenta una donna in preda alle emozioni, al proprio istinto animale, ai propri bisogni primari, ai dettami irrefrenabili del testosterone, o per attestare la propria superiorità. E verrà forse anche detto che l’emancipazione femminile non ha fatto che inasprire il problema: la donna autonoma e indipendente scatena la violenza maschile, perché questa donna non si confà allo stereotipo che vuole la donna sottomessa e condiscendente. Oltre ad aderire al vecchio credo «il privato è pubblico», non sarebbe allora preferibile ribadire la necessità di razionalità per ogni essere umano, donna o uomo? Nei capitoli precedenti abbiamo visto che ci sono femminismi che affermano che le donne sono diverse dagli uomini col proposito di rivalutare le qualità femminili e contrapporle alle capacità razionali maschili. Non vogliamo 107

offrire di questi femminismi un’immagine caricaturale. Essi partono dalla convinzione che, se c’è una supremazia illegittima del maschile sul femminile, occorre opporvisi difendendo un modo di pensare femminile contrario a quello maschile. Vogliamo però ricordare che altri femminismi propongono rimedi differenti, sostenendo che non sono le donne, ma gli uomini, a essere «inferiori» (l’uomo cacciatore, l’uomo predatore, l’uomo dominatore è intellettualmente, razionalmente ed eticamente inferiore, perché è per natura biologica un oppressore, o perché viene educato in modo da diventare tale), o sostenendo che occorre sì difendere un modo di pensare femminile, in contrapposizione a quello maschile, ma senza rivalutare il vecchio stereotipo delle donne irrazionali in contrapposizione a quello degli uomini razionali. È infatti plausibile concettualizzare – la via non è peraltro nuova – una razionalità che incorpori componenti emotive: le emozioni possono essere cognizioni, o essere causate da cognizioni, o causare le cognizioni in quanto parte di processi motivazionali che conducono a conoscere e ad agire. Perché però mettere sempre e solo al centro della discussione il problema femminile? Non solo le donne, ma anche gli uomini subiscono discriminazioni: basti pensare al problema della custodia dei figli, o alla sottovalutazione delle mutilazioni genitali maschili rispetto a quelle femminili, o allo sfruttamento degli immigrati clandestini, o ad alcuni ordinamenti giudiziari che prevedono per lo stesso reato periodi di reclusione più lunghi per gli uomini e più brevi per le donne, o a quegli ambienti che esercitano vere e proprie forme di misandria. A rivendicare i diritti degli uomini (cfr., per esempio, Farrell 1993 e Thomas 1993) ci sono oggi progressisti e conservatori. Secondo i progressisti, i ruoli tradizionali sono fonte di pregiudizi, opprimono entrambi i sessi e vanno superati: si tratta del resto di argomenti proposti anche da alcune filosofie femministe. Secondo i conservatori, le discriminazioni esistono e non devono essere superate: non solo riguardano en108

trambi i sessi in misura più o meno simile, ma si fondano su specificità di genere che hanno garantito (almeno nella cultura occidentale del Novecento) un assetto equilibrato alla famiglia e alla società, con una ripartizione equa tra uomini e donne di diritti e doveri – diritti e doveri peraltro differenti. Occorre rivalutare una sorta di patriarcato responsabile per considerare la vera natura della virilità e restituirle il giusto peso: azione, sacrificio, combattività maschili, motivate dagli ideali dell’onore e della gloria, testimoniano che gli uomini sono predisposti a comandare, mentre le donne dovrebbero recuperare il loro ruolo di angeli del focolare, accettando di essere più deboli rispetto agli uomini (cfr. Mansfield 2006). 3. Morte dei femminismi I femminismi vengono messi sotto accusa. Secondo una delle critiche più recenti (cfr., per esempio, Zemour 2006), che rivisita il vecchio stereotipo dell’Occidente «debole» e «decadente», la femminilizzazione dell’uomo contemporaneo, costretto a gettare via le sue vesti di predatore sessuale, sembra ormai irreversibile, anche se impensabile fino a qualche anno fa. Sono le femministe a trasformare e a voler trasformare gli uomini in donne, con la collaborazione degli omosessuali che mettono sottosopra le specificità di genere, e il risultato è sotto i nostri occhi tutti i giorni con un’Europa ormai effeminata e impotente di fronte a un Islam virile e dominante. La sostanza del ragionamento è ovvia: se non avessimo avuto i movimenti femministi, non ci troveremmo di fronte a uno scontro di civiltà; li abbiamo avuti e per fortuna sono giunti irrimediabilmente al capolinea. Per verificarne, perlomeno in Italia, la morte, basta domandarci quante donne sono oggi disposte a dichiararsi femministe: le poche che lo fanno vengono considerate anacronistiche, o ridicolizzate senza indugio. Questo è perché tutti, o quasi tutti, gli obiettivi femministi sono stati conseguiti? 109

A rispondere negativamente è una «femminista immutata», Catharine MacKinnon, che si chiede nel suo ultimo libro (2006) se le donne sono esseri umani, per concludere seccamente che non lo sono. Il ragionamento non fa una piega. Se le donne fossero esseri umani, non sarebbero spedite in container dalla Thailandia ai bordelli di New York, o rapite in sperduti villaggi nigeriani e gettate poi sulle strade di Genova; non sarebbero trattate come schiave sessuali; non lavorerebbero tutta la vita senza salario o con salari indecenti, costrette a svolgere mansioni pesanti, pericolose o avvilenti per troppe ore al giorno; non verrebbero infibulate, picchiate, stuprate; non si pretenderebbe che sposino il proprio stupratore, né sarebbero accusate di rapporti sessuali fuori del matrimonio quando denunciano l’uomo in questione; non sarebbero indotte a suicidarsi per riparare l’onore della propria famiglia; non dovrebbero nascondersi dietro i burqa; non sarebbero costrette nelle loro case come in prigioni; non subirebbero molestie sessuali e mutilazioni genitali (stando a dati dell’Onu, sono oltre 130 milioni le donne che presentano mutilazioni di questo genere); non verrebbero messe a tacere, torturate, lapidate, decapitate, o uccise appena nate (l’infanticidio delle figlie femmine è ancora praticato). La lezione che occorre ricavare da questo elenco è semplice: gli obiettivi femministi non sono stati conseguiti. «Una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» rimangono un miraggio. Se il genere non è però una categoria naturale, se la donna non esiste, rimane poco da dire sulla donna in quanto tale, e occorre prestare maggiore attenzione alle molte e diverse concezioni di femminilità di cui le varie tradizioni si fanno portatrici. Questa istanza anti-essenzialista ha riaperto il dibattito sulla natura, l’identità e la conoscenza delle donne, conducendo a una svolta multiculturalista che chiede tolleranza, apprezzamento, rispetto per le diversità, correttezza politica per i tanti modi di rispondere alla domanda «cosa sono le donne?» e «cosa co110

noscono le donne?» (cfr. Zack 2005). Ed è forse qui che un certo femminismo muore, nel pensare che le proprie istanze siano compatibili con quelle multiculturaliste e quindi nel coltivare una vera e propria indifferenza rispetto alle condizioni di oppressione (esistenziali ed epistemiche) in cui si trovano ancora molte donne. Lo ha sottolineato con forza Chesler (2005), denunciando la situazione nei paesi islamici – vissuta dall’autrice sulla propria pelle, in quanto giovane moglie in Afghanistan – in cui si viola in pratica ogni diritto umano e civile delle donne con il pretesto di difendere la loro dignità. Ci sono anche donne musulmane che sono regine, pilotano aerei e auto da corsa, non si sposano, scrivono, sfidano gli imam: questi sono chiari segni di emancipazione. Ma non bisogna dimenticare che si tratta di un’esigua minoranza di donne, e che l’emancipazione può costare cara. Un solo esempio eclatante: l’algerina Hassiba Boulmerka ha conquistato un oro alle Olimpiadi di Barcellona correndo i 1500 metri a «gambe scoperte» e per questa ragione è stata condannata a morte dal Gruppo islamico armato. I femminismi multiculturalisti tacciono (e non solo riguardo all’Islam)4, nel timore di essere accusati di razzi4 Da parte nostra crediamo che occorra fare attenzione a non concentrarsi solo sull’Islam. Puntare il dito contro la condizione in cui si trovano le sole donne musulmane può infatti venire usato a fini propagandistici, come è stato fatto per l’invasione americana dell’Afghanistan, e può condurre erroneamente a credere che la situazione delle donne non islamiche sia migliore. In proposito basti ricordare che la violenza fisica rappresenta la prima causa di morte delle donne nel mondo, e quindi non nei paesi musulmani, o non solo nei paesi musulmani. Occorre poi rilevare che i fondamentalismi sono presenti in ogni religione. È, per esempio, san Paolo a scrivere: «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia» (1 Tm 2, 11-15).

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smo e di imperialismo culturale se pretendessero per ogni donna diritti umani e civili simili a quelli di cui godono le donne occidentali, o di cui potrebbero di fatto godere, se eguaglianza ed equità fossero sostanziali, oltre che formali. Ci si convince che occorre attenersi scrupolosamente a ciò che le donne non occidentali dicono di volere. Per fare un esempio, un recente sondaggio Gallup, condotto su ottomila donne in otto diversi paesi, rivela che la maggior parte delle donne musulmane non si considera oppressa, né crede che le disuguaglianze di genere rappresentino un problema: chiedono sì il diritto di votare, lavorare fuori casa, partecipare alla vita pubblica, ma considerano al contempo degradante il ruolo della donna occidentale – un ruolo che, come ci è noto, comporta non solo l’emancipazione, ma anche la mercificazione e lo sfruttamento della corporeità e della sessualità femminili. Anche questa posizione riflette un punto di vista delle donne e, come tale, va rispettato. Sarebbe però auspicabile verificare di quale effettiva conoscenza dispongono le donne musulmane a proposito dei diritti di cui godrebbero se fossero donne occidentali: se conoscessero davvero i diritti in questione, cosa direbbero di volere? Rimanere in silenzio, come accade, di fronte a visioni tradizionali del femminile che non appartengono alla nostra attuale cultura potrebbe comportare una rivalutazione di schemi sessisti che le donne hanno subito troppo a lungo. È poco parlare, ribellarsi, manifestare solo per ciò che ci riguarda da vicino (la legge sulla fecondazione assistita, gli attacchi contro la 194, gli elogi della donna nel suo ruolo esclusivo di moglie e madre), mentre al contempo ci limitiamo a constatare con impassibilità gli effetti disastrosi che le battaglie contro l’uso degli anticoncezionali sortiscono sulla popolazione femminile dei paesi in via di sviluppo – donne che muoiono di Aids, o per le conseguenze di aborti praticati senza garanzie sanitarie. Non dobbiamo forse ammettere che sono troppe le conquiste (in termini di salute, dignità, lavoro, benessere, risorse, po112

tere) che non toccano tante donne, i cui diritti vengono sistematicamente calpestati? Si pensi al tipo di infibulazione più brutale in cui vengono asportati integralmente clitoride, piccole labbra e gran parte delle grandi labbra, per poi cucire la vulva. Gli strumenti utilizzati sono coltelli, rasoi, pezzi di vetro, spine. Lo scopo è garantire la verginità e la fedeltà della donna al suo sposo, esercitando un controllo efferato sulla donna stessa e sulla sua sessualità. Gli effetti psicologici, fisiologici e sessuali sulle donne sono tragici: impossibilità quasi totale di provare piacere sessuale, infezioni genitali, ritenzione urinaria, setticemia, shock di vario tipo, tetano – solo per citarne alcuni. La pratica nelle sue diverse forme (la più «innocua» è la circoncisione) e motivata nei modi più bizzarri (per alcuni, fungerebbe da stimolo per la sessualità femminile) è attualmente presente in società africane, arabe e asiatiche, di religione politeista, islamica, cristiana. Società primitive? Prima di bollarle automaticamente come tali, non dimentichiamo che l’infibulazione ha goduto di una qualche diffusione nelle nostre «progressiste» società occidentali su un lungo arco di tempo: nell’antichità greca e romana erano le schiave a subirla, nel Medioevo è stata sostituita con la cintura di castità, mentre nell’Ottocento è stata impiegata in Europa e negli Stati Uniti per impedire la masturbazione femminile e curare non solo epilessia e isteria, ma anche «disturbi» come la ninfomania, o «deviazioni» come il lesbismo. Retaggi di un lontano passato? Neanche tanto: anche se rappresenta una palese violazione dei diritti umani (cfr. www.amnesty.org/ ailib/intcam/femgen/fgm1.htm e www.fgmnetwork.org/), la pratica dell’infibulazione su donne immigrate è stata tollerata in Italia per parecchio tempo. È importante conoscere non solo cosa i nostri stati emancipati offrano alle loro cittadine (abbiamo visto che il livello di opportunità non è ancora sufficiente), ma anche cosa promettano alle donne straniere: quasi nessuna cognizione dei loro diritti, né particolari attenzioni per 113

problemi come i matrimoni forzati o la poligamia, né specifiche protezioni rispetto alle violenze che subiscono. Vengono invece garantiti lavori non solo come babysitter, colf e badanti (il che aiuta noi donne occidentali a intraprendere carriere considerate tradizionalmente maschili), ma anche come prostitute. Secondo l’Unicef, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale riguarda un milione di donne; il 35% di loro è minorenne; in Italia si contano venticinquemila donne extracomunitarie sulle strade. Quanto interessa e quanto conosciamo la sofferenza di queste donne? Poco. Si sostiene che la prostituzione femminile (ma occorrerebbe ragionare anche su quella maschile) sia il mestiere più antico del mondo e sembra scontato che gli uomini vi facciano ricorso: relativamente all’Italia, pare che la fascia d’età dei clienti parta dai sedici anni per arrivare agli ottant’anni, che il 70% sia sposato, mentre il 40% esiga rapporti non protetti. Perché non reagire? Negli Stati Uniti si è cercato di porre rimedio al fatto che le rivendicazioni di Betty Friedan non riguardavano le donne delle classi operaie, le donne lesbiche, le donne di colore (cfr., sul problema, hooks 1984); allo stesso modo i femminismi devono oggi rivalutare la necessità di estendere le loro rivendicazioni a ogni donna. Le condizioni brutali in cui si trovano molte donne non possono essere spiegate con un generico «è nelle tradizioni», quando queste tradizioni sono patriarcali e non fanno altro che perpetuare la sottomissione delle donne a «valori» ed economie sessiste. Dobbiamo evidentemente porci delle domande. C’è qualcosa di «femminile» che va oltre il sesso di appartenenza – sempre che la categoria «sesso» abbia un qualche valore? C’è una conoscenza tipicamente femminile? Siamo individui, prima e più che essere donne e/o uomini? O siamo donne e/o uomini, prima e più che essere individui? Conosciamo in quanto individui, o come donne e uomini? Quanto contano davvero le identità e le conoscenze? Identità e conoscenze non sono solo sessuali e 114

di genere, ma anche economiche, etiche, geografiche, religiose, sociali, storiche. Sono identità reali che ci appartengono in modo essenziale, o costruzioni che introiettiamo? Sono conoscenze effettive o imposizioni di comodo? Apparteniamo a società e solo i diritti di queste vanno salvaguardati, o siamo sostanzialmente persone con le nostre libertà individuali e i nostri diritti fondamentali? Esiste un sé radicalmente autonomo o siamo veramente e integralmente noi stessi solo nel sociale? L’epistemologia individuale ha ancora un senso o deve essere soppiantata da quella sociale? Se ogni epoca è travagliata da grandi problemi, i problemi che concernono l’identità e la conoscenza sono caratteristici della nostra. Sono stati sollevati e affrontati da donne pensanti, in modi che non sono né autoreferenziali, né ripetitivi, né ideologici, né lobbistici. Queste donne hanno preso sul serio il monito di «pensare in modi nuovi sul pensare» (cfr. Spelman 1982, p. 126) e hanno creato una filosofia delle donne. Oggi, queste donne non solo appartengono a generazioni e culture diverse, ma hanno anche alle spalle percorsi capaci di sollevare nuovi interrogativi e concretizzarsi in un movimento di trasformazione culturale, alla volta di una società migliore, una società delle donne (cfr., per esempio, Touraine 2006). È ancora vero quello che scrive Virginia Woolf: Ci troviamo qui... per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci... e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre... È nostro dovere, ora, continuare a pensare... Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che «civiltà» è questa in cui ci troviamo a vivere? (Woolf 1938, trad. it. 2004, pp. 91-93).

In questo volume abbiamo tentato di farci carico di questo dovere. 115

Cos’altro leggere

La prospettiva che abbiamo adottato è quella della filosofia di matrice anglosassone e, in particolare, della filosofia analitica: per questo i riferimenti alle filosofie femministe continentali sono assai rari sia nel testo, sia nei suggerimenti di lettura che ci apprestiamo a fornire. Sono quindi senz’altro utili le voci Analytic Feminism, Approaches to Feminist Philosophy, Continental Feminism e Intersections between Analytic and Continental Feminism nella Stanford Encyclopedia of Philosophy (http://plato.stanford.edu). Sempre sulla stessa enciclopedia, è opportuno consultare le voci Feminist Aesthetics, Feminist Ethics, Feminist Philosophy of Language e Feminist Philosophy of Religion perché riguardano discipline filosofiche che qui non abbiamo avuto modo di affrontare. In proposito, particolarmente valido e aggiornato è Alcoff e Kittay (2007). Necessaria è poi la lettura di Restaino e Cavarero (1999), che offre una vasta e articolata panoramica su ogni approccio filosofico femminista, insieme a una raccolta antologica di testi e indicazioni bibliografiche fondamentali; interessante è anche il volume di Zamboni (1997). Di seguito ci limiteremo a consigliare un numero contenuto di titoli, prediligendo quelli che non abbiamo menzionato in precedenza.

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La tela di Penelope Se un volumetto di agile lettura che presenta una visione contemporanea del femminismo è Fortuna, Giuliani e Pasquino (2003), con frequenza appaiono studi che portano alla luce i contributi di donne pensatrici, artiste e scienziate. In traduzione italiana (2005) con prefazione di Zamboni è uscito Ménage (o Ménages) (1690), opera dedicata al pensiero di filosofe appartenenti soprattutto all’antichità. Per approfondire il tema della condizione delle donne, e non solo delle filosofe, nell’antichità, il rimando d’obbligo è alle opere di Eva Cantarella (1981, 1985 e 1996). La monografia di Brezzi (1998) esamina il pensiero di tre mistiche appartenenti ad ambiti storici e geografici diversi. L’antologia di Dabbs (200X) renderà accessibili le biografie di cinquanta artiste europee vissute dal 1550 al 1800: alcune furono studiose erudite e molte furono italiane. Alic (1986) ricostruisce nel dettaglio il pensiero di filosofe e scienziate dall’antichità al diciannovesimo secolo, mentre Lolli (2000) mostra quanto si è perduto con l’esclusione delle donne dalla matematica. Kersey (1989), Barth (1992), Atherton (1994), Warnock (1996), Broad (2002) e Conley (2002 e 2006) arricchiscono le conoscenze disponibili sul pensiero di filosofe di diversi periodi storici. Altri studi utilizzano l’analisi della differenza sessuale come una proficua chiave di lettura della riflessione filosofica tradizionale. Tuana (1992) ripercorre la storia della filosofia discutendo il pensiero di figure centrali come Platone, Aristotele, Cartesio, Rousseau, Kant, Hume, Locke e Hegel, mentre Sautet (1998) affronta in modo divertente e utile il pensiero dei filosofi sulle donne. L’articolo di Bordo (1988) rimane un classico nella discussione della supposta «maschietà» della filosofia. Dal numero di convegni, iniziative e pubblicazioni raggiungibili dal sito http://www.women.it/scienziate/pres. htm sembra che grande attenzione sia dedicata in Italia al rapporto tra donne e scienza. Per informazioni e statistiche 118

sul rapporto fra donne e filosofia, si possono invece visitare alcuni siti internet. Dalla home page della Society for Women in Philosophy si accede al sito http://www.uh. edu/~cfreelan/SWIP/stats.html, che fornisce informazioni sulle cattedre universitarie di filosofia occupate da donne sia bianche sia di colore. Sul sito http://www.apa.udel. edu/apa/governance/committees/women/woman.pdf si trova il rapporto del Comitato per la condizione delle donne dell’American Philosophical Association per l’anno accademico 2003-2004; sulle docenti ordinarie si veda invece http://www.apa.udel.edu/apa/governance/committees/w omen/1994specialreport.html. Il sito http://www.csulb. edu/~jvancamp/doctoral_2004.html contiene statistiche sul numero di donne docenti in novantotto istituti accademici tra i migliori del Nord America. Parecchi siti offrono dati utili sulla scarsa rappresentanza femminile nei vari campi scientifici. Per esempio, http://www.nsf.gov/statistics/showpub.cfm?TopID=2&S ubID=45 riporta i dati sulle percentuali di lauree, masters e dottorati conferiti a donne e persone di colore nelle differenti materie scientifiche. Relativamente al problema dell’esigua minoranza di donne impegnate in campi scientifici, si veda, per esempio, http://www.awg.org e http: //www.awg.org/gendereq.html#wwgp. L’identità delle donne Sia Di Francesco (1998), sia Bottani e Vassallo (2001) offrono dettagliate panoramiche del pensiero storico nonché dei dibattiti contemporanei sulla nozione del sé e sull’identità personale. Grazie a un approccio interdisciplinare, Gallagher (2006) mostra come sia il corpo a modellare la mente, e non viceversa. Prendendo l’avvio dalle tradizioni esistenzialiste e psicoanalitiche, Bartky (1990) analizza il ruolo del corpo e della sua alienazione nella formazione del sé femminile con una particolare attenzione per la funzione della vergogna, un’emozione tipica delle don119

ne a causa della loro incapacità cronica di misurarsi con gli inconseguibili modelli sociali della femminilità. La nozione di autonomia è al centro della problematizzazione femminista del sé; in proposito si trova un’ottima e rappresentativa raccolta di saggi in Mackenzie e Stoljar (2000). Sulla discussione da un punto di vista continentale dell’identità e della differenza sessuale, raccomandiamo la lettura di Irigaray (1974 e 1984), Kristeva (1979 e 1988), Diotima (1987) e Muraro (1991); per un dialogo proficuo con diverse ottiche europee contemporanee, si veda Braidotti (1991 e 1994). Più che sulla differenza sessuale, Pulcini (2003) insiste sulla differenza emotiva e su un sé relazionale, a fondamento della possibilità di andare oltre la dicotomia sé/altro da sé per congiungere fedeltà a se stessi e apertura verso l’altro, autonomia e dipendenza, libertà e consapevolezza della propria vulnerabilità. L’identità femminile è stata e continua a essere al centro di alcuni studi sociologici; segnaliamo Saraceno (1988) in cui si esamina la varietà dei fattori che influiscono sulla formazione del sé e Davis (2005) che discute gli effetti del trauma e della violenza sessuale sul sé. Tra i lavori più recenti sul corpo e sul suo ruolo nella formazione dell’identità, non solo femminile, ricordiamo Arthurs e Grimshaw (1999), Brook (1999), Weiss e Haber (1999) e Proudfoot (2003). Per un discorso polemico nei confronti sia di quanto emerge dalle posizioni anti-abortiste, che trasformano la donna in un «sistema uterino di approvvigionamento», sia di un altro tipo di «decorporeizzazione», quello causato dalla pillola anti-concezionale, dall’ecografia, dalla diagnosi prenatale, e così via, rimandiamo a Duden (1994 e 2002). La conoscenza delle donne Alcuni articoli, testi e volumi collettanei risultano adatti sia per introdurre le epistemologie femministe, sia per approfondire il problema delle donne come soggetti cono120

scenti e come oggetti di conoscenza: Anderson (1995), Anderson (2004), Antony (2002), Crowley e Himmelweit (1992), Garavaso (2001), Garry e Pearsall (1996), Harding e Hintikka (1983), Lennon e Whitford (1994), Rooney (2006). Si vedano invece Tuana (2004) circa orgasmo e ignoranza, Flax (1989) e Mills (1987) riguardo a femminismo e psicoanalisi freudiana, Vegetti Finzi (1992) sulle diverse letture psicoanalitiche dell’universo femminile, Rooney (1991 e 1994) per le interpretazioni della ragione. Sui tipi e sulle forme di conoscenza tradizionalmente femminili, suggeriamo Belenky, Clinchy, Goldberger e Tarule (1986), Boella e Buttarelli (2000), Code (1995), De Monticelli (1999), Goldberger, Tarule, Clinchy e Belenky (1996), Jaggar (1989), Lugones (1987), mentre per riflettere sulla conoscenza competenziale e sulla tecnologia rimandiamo a Tiles e Oberdiek (1995). Il tema delle emozioni cui qui abbiamo solo accennato è davvero vasto, anche sul piano della bibliografia; ci limitiamo a indicare quattro testi: Cates (1997), De Sousa (1987), Greenspan (1988), Nussbaum (2001). Per quanto riguarda l’amicizia (e non solo l’amicizia tra donne), sono utili Friedman (1993), Goering (2003) e Vernon (2005). Sulla naturalizzazione femminista dell’epistemologia, una soluzione interessante viene prospettata da Code (1996), soluzione poi integrata con le teorie ecologiche e post-coloniali in Code (2006); sulla testimonianza il riferimento imprescindibile da cui partire è Coady (1992). Può forse risultare opportuno mettere a confronto gli approcci femministi con quelli tradizionali, così come fa Vassallo (2001), o vedere con Vassallo (2003) come l’epistemologia femminista possa essere considerata uno sviluppo recente di quella tradizionale. Venendo ai temi dell’oggettività e dei valori, essi sono particolarmente sviluppati e analizzati in relazione alla conoscenza scientifica, conoscenza che è bene considerare più di quanto ci sia stato qui possibile: Bleier (1984 e 1986), Haraway (1989), Keller e Longino (1996), Tuana 121

(1989). Per quanto riguarda le discussioni sull’oggettività anche in relazione alla ragione è ottimo Antony e Witt (1993), mentre sulla questione specifica se la scienza possa essere indagine priva di valori non epistemici si veda Lacey (1999). Un’introduzione recente alla filosofia femminista della scienza è Potter (2006), dove si ragiona in modo chiaro e accessibile non solo sui valori e sull’oggettività, ma anche su temi, come il relativismo, che qui abbiamo avuto modo solo di sfiorare. Parlando di valori, abbiamo accennato alla possibilità che siano gli aspetti di ordine pragmatico a rivelare la loro ineluttabilità nell’impresa scientifica. In proposito sarebbe bene approfondire sia il pragmatismo femminista americano, sia le sue intersezioni con il femminismo continentale attraverso Whipps (2004) e Sullivan (2004). Sulle teorie del punto di vista, segnaliamo Collins (1990 e 2000), Haraway (1988), Harding (2004), Janack (1997), Smith (1974), mentre sul tema del marxismo a esse legato si veda Nicholson (1986). Venendo ai temi che abbiamo toccato nelle riflessioni critiche, una valutazione sfavorevole e severa delle epistemologie femministe si trova in Haack (1993); lo stesso si può dire della raccolta di saggi (peraltro eccellente) in Pinnick, Koertge e Almeder (2003); sulla possibilità di fare epistemolologia come femministe si veda invece Wylie (1995). Se le connessioni tra la biologia e il ruolo di genere in relazione alla cognizione vengono negate, tra gli altri, da Connell (1987), Baron-Cohen (2004) si è recentemente espresso a loro favore. Sulle (supposte) differenze sessuali e/o di genere, una panoramica psicologica si trova in Burr (1998) e una panoramica psicoanalitica in Arcidiacono (1994), Carotenuto (2001), Panepucci (1995); si veda anche però Hollway (1989) a proposito dei metodi psicologici applicati al genere. Una bella e nuova difesa dell’idea che le suddette differenze siano naturali viene da Stone (2006) che sviluppa l’essenzialismo di Irigaray nel tentativo di renderlo compatibile con l’antiessenzialismo di Butler. Circa il carattere sociale della sessualità si veda in122

vece Seidman, Fisher e Meeks (2006). Per una discussione recente sulla capacità della teoria politica femminista – discussione che potrebbe risultare efficace anche in ambito epistemologico – di fare a meno delle teorie che riguardano il genere, si consideri Baehr (2004). Infine, quanto agli aspetti sociali del conoscere, che le epistemologie femministe riescono comunque a evidenziare, essi emergono con forza in Nelson (1993); sulla loro estensione è nondimeno utile leggere Webb (1995). Una stanza tutta per sé Per Nussbaum (2000) le discriminazioni che riguardano tutte le donne, anche quelle che vivono in paesi progressisti, sono talmente radicate e resistenti da imporre un’analisi filosofica dei principi costituzionali elementari in grado di garantire dignità umana alle donne, e questi principi dovrebbero essere rispettati e fatti rispettare da ogni governo di ogni Stato. La realtà di ingiustizia e sfruttamento che subiscono le donne in molti settori viene bene alla luce in Greer (2000), un volume da considerarsi ormai un classico. Veron (1997) sottolinea, invece, il fatto che le disuguaglianze non siano solo tra uomini e donne, ma anche tra donne, sotto angolazioni che concernono istruzione, legislazione, mercato del lavoro, partecipazione politica, religione, salute, violenze sulle donne, mentre Brunelli (2006) si concentra sul rapporto tra donne e politica per evidenziare che il cammino da compiere è ancora lungo e la sua natura è anche culturale e sociale. Sul sessismo e sui diversi sessismi che le donne sono costrette a subire è ancora (purtroppo) valida la bella raccolta di saggi contenuti in Gornick e Moran (1971), la cui traduzione parziale in italiano (1975) è corredata da un’introduzione di Saraceno; una raccolta più recente, e in cui il sessismo viene confrontato con il razzismo, è curata da Brittan e Maynard (1984). Per capire quanto sia raccapricciante il quadro delle violenze di cui le donne sono vittime, consigliamo di 123

cercare su internet sia «International Day for the Elimination of Violence Against Women», sia «Giornata internazionale contro la violenza sulle donne». In proposito sono interessanti anche il sito di “Equality Now” e Società italiana delle storiche (2002). Sul problema dell’essere oggetti sessuali e della possibilità di diventare soggetti sessuali suggeriamo Moscovici (1996), mentre per le diverse ottiche su pornografia e prostituzione rimandiamo a Shrage (2004). Per le prospettive, invece, su potere, classi e lavoro (con una bella discussione a proposito del problema pubblico/privato), famiglia e riproduzione (con un’ovvia attenzione per il problema della scelta riproduttiva), si vedano rispettivamente Allen (2005), Ferguson (2004), Satz (2004). Ci piace segnalare tre volumi su J.S. Mill (Himmelfarb 1974, Pyle 1995, Restaino 1986) e uno su Mary Wollstonecraft (Falco 1996) anche per sollecitare la lettura di questi due grandi pensatori. Per quanto concerne da vicino la situazione italiana relativamente all’emancipazione femminile, rimandiamo a Mafai (2006). Infine, sui possibili errori di un certo femminismo, vogliamo citare Badinter (2003), anche se troviamo il volume carente dal punto di vista argomentativo; ben più solido è Halley (2006).

Bibliografia

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Ringraziamenti

Se ancora non è scritta in molti libri, la filosofia delle donne vive e fiorisce nelle loro conversazioni. Le nostre vite di donne e di filosofe sono state e sono arricchite da donne cui siamo affettivamente e intellettualmente debitrici, e che desideriamo ringraziare di cuore: Adele, Adriana, le Alessandre, Annagrazia, Annalisa, le Anne (con un grazie particolare a chi ci ha costretto a scrivere questo volume), le Antonelle, Antonietta, le Angele (con un grazie particolare alla baby-sitter di Nicla e a un’amica fedele di Pieranna), Camilla, Caterina, Chiara, Claudia, Cristina, Daniela, Elisa, Emi, Eva, le Fiorelle, Franca, le Francesche (un grazie particolare da Pieranna a una donna solare che sa parlare anche di morte), Ginevra, le Giuliane, Graziella, Irene, Ivana, le due «zie» Jenny, Judy, Julia, le Laure, Lavinia, le Luise, Maddalena, Maddy, Maretta, Maria, Maria Antonietta, Mariantonietta, le Margherite, Marina, Martina, Martine, Mimi, Mimma, Mine (con un grazie particolare per i tanti anni di chiacchiere poetiche con Nicla), Monica, Nanda, le Paole, Pia, Piera, Renata, Roberta, Rosaria, Rosmarie, Rosa, Rossana, le Rosselle, le Simone, Silvana, Sonia, le Stefanie, Titti, le Tiziane (con un grazie particolare da Pieranna per i consigli di letture intelligenti e per un’ospitalità sempre discreta e generosa). Le preziose osservazioni critiche e gli attenti suggerimenti stilistico-contenutistici di Anna, Claudia Bianchi, 149

Lory Lemke e Tito Magri sono stati indispensabili. A Claudia Bianchi va un ringraziamento speciale perché ha visto il volume svilupparsi e ne ha discusso diverse versioni, incoraggiandoci costantemente a migliorarlo. Pieranna è debitrice nei confronti del personale della biblioteca della University of Minnesota, Morris, per gli aiuti bibliografici e per averle garantito un paradiso di silenzio in cui scrivere, mentre Nicla nei confronti di chi continua a donarle spazi vitali per poter «respirare». Grazie, infine, alle nostre famiglie più o meno allargate per l’amore e la pazienza dimostratici. Il volume è da considerarsi sostanzialmente pensato assieme e scritto a quattro mani: né Nicla, né Pieranna sarebbero riuscite a terminarlo l’una senza l’altra. Tuttavia, la concezione e la stesura del primo e del secondo capitolo si devono a Pieranna, mentre quelle del terzo e del quarto capitolo si devono a Nicla. Solo a quest’ultima si devono invece l’ultima stesura dell’intero volume e di conseguenza l’omogeneità del suo stile.

Protagoniste e protagonisti

BARBARA MCCLINTOCK (1902-1992), tra le più famose scienziate nordamericane, ha ricevuto il premio Nobel in Medicina nel 1983 per la scoperta della trasposizione genetica. CATERINA II (1729-1796), imperatrice di Russia e moglie dello zar Pietro III, credeva nella cultura e la promosse per quanto le fu possibile. CHARLOTTE E MIRANDA (nate forse a metà degli anni Settanta del secolo appena trascorso), due delle quattro trentenni protagoniste di Sex and the City: Charlotte è mercante d’arte, Miranda avvocato. CRISTINA DI SVEZIA (1626-1689), interessata alla filosofia, invitò Cartesio alla sua corte per discutere con lui. Non si sposò mai e per questo rinunciò al trono, stabilendosi a Roma. ELENA LUCREZIA CORNARO PISCOPIA (1646-1684), la prima donna al mondo a ottenere una laurea in filosofia nel 1678. Nel Palazzo del Bo a Padova ci sono una statua e una lapide a lei dedicate. ELISABETTA DI BOEMIA (1596-1662), principessa del Palatinato e regina di Boemia dal 1619 al 1620. La sua fama è legata allo scambio epistolare che intrattenne, dal maggio 1643 al dicembre 1649, con Cartesio.

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EMILY DICKINSON (1830-1886), poetessa nordamericana. La maggior parte delle sue poesie venne pubblicata dopo la sua morte dalla sorella Vinnie. GRETA GARBO (1905-1990), di origine svedese, una delle attrici più affascinanti del Novecento; si ritirò dalla vita pubblica nel 1941. HARRIETT A. JACOBS (1813-1897) visse come schiava nella Carolina del Nord fino al 1830, anno in cui divenne una fuggitiva. La sua autobiografia Incidents in the Life of a Slave Girl, pubblicata sotto pseudonimo nel 1861, documenta le sue atroci condizioni di vita insieme alla sua lotta per conquistare la libertà. HILLARY RODHAM CLINTON (1947-), moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, è senatrice dello Stato di New York dal 2000. IMMANUEL KANT (1724-1804), figura centrale dell’Illuminismo tedesco, sostenne l’universalità della legge morale espressa nell’imperativo categorico. Le sue opere principali, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica, costituiscono un’appassionata difesa delle capacità e dei limiti della ragione umana. IPAZIA visse ad Alessandria d’Egitto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C. Studiosa e insegnante di filosofia e di matematica, morì nel 415 d.C. lapidata dai fondamentalisti del tempo, seguaci del vescovo Cirillo di Alessandria. JODIE FOSTER (1962-), attrice nordamericana, ha vinto per due volte l’Oscar come migliore attrice. È anche regista e produttice di film di successo. MARIA DE’ MEDICI (1573-1642) sposò il re di Francia Enrico IV e fu reggente per il figlio, il futuro Luigi XIII; alleata della monarchia spagnola, trovò in Richelieu un avversario. Al Louvre si possono oggi ammirare ventidue grandi tele a lei dedicate da Rubens.

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MARLENE DIETRICH (1901-1992) non solo ebbe una lunga e gloriosa carriera come attrice, ma svolse anche un’attività pubblica intensa contro il nazifascismo e a sostegno dell’emigrazione clandestina dei perseguitati. MARTINA NAVRATILOVA (1956-), grande tennista nata a Praga, ha vinto numerosi e importanti tornei internazionali. MARY SHELLEY (1797-1851), scrittrice inglese famosa per il romanzo Frankenstein, è stata la moglie del poeta romantico Percy Bysshe Shelley. MARY WOLLSTONECRAFT (1759-1797), scrittrice inglese autrice di un celebre trattato sui diritti delle donne, moglie del filosofo William Godwin e madre di Mary Shelley. PENELOPE, emblema della fedeltà coniugale femminile, attese a lungo Ulisse dopo la caduta di Troia, evitando il matrimonio, grazie al noto stratagemma della tela: aveva promesso che sarebbe andata in sposa a uno dei Proci solo dopo aver terminato il lenzuolo funebre per Laerte, che ella tesseva di giorno e disfava di notte. RENÉ DESCARTES (1596-1650), chiamato «Cartesio» in Italia, matematico e filosofo razionalista francese. Il suo pensiero ha influenzato molti sviluppi della filosofia moderna e contemporanea, soprattutto per quanto riguarda il dualismo metafisico e lo scetticismo epistemico. SAFFO (ca. 650 a.C.-590 a.C.), poetessa greca di famiglia aristocratica, insegnò nel «tiaso» di Lesbo a giovani fanciulle, cui dedicò molte poesie d’amore. SANTIPPE, per il folklore filosofico, è la moglie di Socrate. Non si hanno dati storici sulla sua esistenza, ma la leggenda vuole che fosse fastidiosa e bisbetica. SOCRATE (470/469-399 a.C.), filosofo ateniese, maestro di Platone e di Senofonte, famoso per il suo metodo, chiamato in greco

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elenchos. È il personaggio principale dei dialoghi di Platone e da qui nasce il problema di capire chiaramente quali dottrine si debbano a Socrate e quali invece a Platone. SOJOURNER TRUTH (1797-1883), nata come Isabella Baumfree in una famiglia numerosa di schiavi, fuggita al Nord, lottò per l’abolizionismo e per l’emancipazione femminile. Analfabeta, dettò le sue memorie che apparvero nel 1850 con il titolo The Narrative of Sojourner Truth: A Northern Slave. VANESSA BELL (1879-1961), sorella maggiore di Virginia Woolf e pittrice affermata. VIRGINIA WOOLF (1882-1941), romanziera, critica letteraria, saggista ed editrice inglese, è stata una figura centrale del movimento modernista. VITA SACKVILLE-WEST (1892-1962), poetessa, romanziera e biografa inglese, ci ha lasciato un’ampia corrispondenza epistolare con Virgina Woolf, a cui fu intimamente legata.

Le autrici

Pieranna Garavaso (Verona, 1949; http://www.mrs.umn.edu/ academic/philosophy/pieranna.html) è professore ordinario di Filosofia presso l’Università del Minnesota, Morris, Usa, dove insegna logica, metafisica, epistemologia e filosofia del linguaggio. Ha pubblicato come autrice Filosofia della matematica. Numeri e Strutture (Milano 1998) ed è curatrice di P. Hugly e C. Sayward, Arithmetic and Ontology. A Non-Realist Philosophy of Arithmetic, Poznan Studies in the Philosophy of the Sciences and the Humanities, vol. 90 (Rodopi, Amsterdam 2006). È membro del comitato di redazione del dizionario online Foldop e del comitato scientifico di «2R–Rivista di Recensioni Filosofiche». Tra le sue pubblicazioni di articoli in inglese e in italiano sulla filosofia della matematica e sulla filosofia di Frege e di Wittgenstein ricordiamo: Frege and the Analysis of Thought, in «History and Philosophy of Logic», 12 , 1991; The Argument from Agreement and Mathematical Realism, in «Journal of Philosophical Research», 17, 1992; On Frege’s Alleged Indispensability Argument, in «Philosophia Mathematica», 13, 2005. Ha scritto il capitolo Filosofia della matematica nel volume Storia della filosofia analitica a cura di N. Vassallo e F. D’Agostini (Torino 2002). Tra i suoi saggi recenti che discutono dell’influsso delle filosofie femministe sul dibattito analitico tradizionale sia metafisico, sia epistemologico, vogliamo menzionare: The Quine/Wittgenstein Controversy: Any Role for Feminist Empiricism in It?, in «Epistemologia», 22, 1999, e Mens una in corpore uno, in Identità personale. Un dibattito aperto, a cura di A. Bottani e N. Vassallo (Napoli 2001). Nicla Vassallo (Imperia, 1963; http://www.dif.unige.it/epi/hp/ vassallo/) è professore ordinario di Filosofia della conoscenza

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presso l’Università di Genova e professore invitato di Epistemologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove fa parte del Cresa (Centro di ricerca in epistemologia sperimentale e applicata). Oltre che di epistemologia e di filosofia delle donne, si occupa di scetticismo, naturalismo filosofico, metafisica e filosofia della logica. Book Review Editor di «Epistemologia», membro del comitato di redazione di «Iride», membro del comitato scientifico di «Onda» (Osservatorio nazionale sulla salute della donna), di «Readings», la collana di E-Book dello Swif, e di «2R–Rivista di Recensioni Filosofiche», collabora regolarmente al supplemento culturale de «Il Sole-24 Ore». Tra le sue numerose pubblicazioni scientifiche, ricordiamo i volumi in italiano: La depsicologizzazione della logica (Milano 1995); La naturalizzazione dell’epistemologia (Milano 1997); Teorie della conoscenza filosofico-naturalistiche (Milano 1999); Conoscenza e natura (Genova 2002); Teoria della conoscenza (Roma-Bari 2003) in qualità di autrice; Filosofie delle scienze (Torino 2003), La filosofia di Gottlob Frege (Milano 2003), Filosofia delle conoscenze (Torino 2006) in qualità di curatrice; George Boole: filosofia, logica, matematica (Milano 1998), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo (Milano 1998), Identità personale: un dibattito aperto (Napoli 2001), Storia della filosofia analitica (Torino 2002) e Filosofia della comunicazione (RomaBari 20062) in qualità di co-curatrice.

Indici

Indice dei nomi

Abécassis, E., 67. Agnesi, M.G., 52. Alcoff, L., 59, 91, 117. Alic, M., 118. Allen, A., 124. Almeder, R., 122. Almodóvar, P., 76. American Psychiatric Association, 42. Anderson, E., 80, 84, 121. Antony, L., 92, 98, 121, 122. Arcidiacono, C., 122. Arendt, H., 41. Aristotele, 11, 16, 18, 28, 60, 66, 118. Arthurs, J., 120. Atherton, M., 118. Babbage, C., 51. Bachelet, M., 103. Badinter, E., 124. Baehr, A.R., 123. Baier, A., 66. Banti, A., 3. Bar On, B.-A., 90. Baron-Cohen, S., 122. Barth, E.M., 118. Bartky, S., 38, 119. Bassi, L., 51. Beauvoir, S. de, 23, 25.

Belenky, M., 93, 121. Bell, D., 67. Bell, V., 155. Bell-Burnell, J., 51. Benedict, R., 52. Bennett, J., 31. Bergmann, B., 105. Bianchi, C., 149, 150. Bleier, R., 121. Boccia, M.L., 106. Boella, L., 61, 121. Bordo, S., 38, 55, 79, 97, 118. Bottani, A., 119, 155. Brabeck, M.M., 93. Brahe, S., 51. Brahe, T., 51, 81. Braidotti, R., 120. Bran, P.Z., 38. Brezzi, F., 118. Brison, S.J., 39, 42-44. Brittan, A., 123. Broad, J., 118. Brook, B., 120. Brown, L.M., 51. Brownmiller, S., 105. Brunelli, G., 123. Buck, L., 52. Burr, V., 122. Butler, J., 26, 27, 38, 39, 96, 122. Buttarelli, A., 121.

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Byron Lovelace, A., 51, 52. Cannon, A., 52. Cantarella, E., 118. Caplan, P., 67. Carotenuto, A., 122. Carter, W.R., 34. Cartesio (Descartes), R., 8, 18, 19, 33, 42, 55, 56, 73, 118, 151, 153. Caterina II di Russia, 74, 151. Cates, D.F., 121. Cavarero, A., 38, 40, 41, 117. Châtelet, G. du, 51. Chen Ning Yang, 51. Chesler, P., 111. Chien-Shiung Wu, 51. Chodorow, N., 39, 48. Chomsky, N., 74. Churchill, W., 37. Cicerone, 66. Cirillo di Alessandria, 152. Cixous, H., 54. Clinchy, B., 93, 121. Clinton, H., 74, 103, 152. Coady, C.A.J., 121. Code, L., 66, 69, 70, 77, 121. Collins, P.H., 87, 96, 122. Conley, J.J., 118. Connell, R.W., 11, 122. Cornaro Piscopia, E.L., 6, 151. Crick, F., 51. Cristina di Svezia, 5, 7, 17, 2325, 56, 151, 241. Crowfoot-Hodgkin, D., 52. Crowley, H., 121. Cudd, A.E., 53. D’Agostini, F., 155. D’Amelia, M., 103. Dabbs, J.K., 118. Dalmiya, V., 59. Daly, M., 94. Davidson, D., 31. Davis, J.E., 120.

De Lauretis, T., 48, 94. De Monticelli, R., 121. De Sousa, R., 121. De Vecchi, F., 61. Delbo, C., 42. Dennett, D.C., 29, 30, 40. Deutsch, H., 52. Di Francesco, M., 119. Dickinson, E., 15, 47, 152. Dietrich, M., 74, 153. Diotima, 120. Duden, B., 120. Dworkin, A., 96. Einstein, A., 51. Elion, G., 52. Elisabetta di Boemia, 17, 23-25, 55, 56, 151. Ensler, E., 105. Ewish, A., 51. Fairfax Sommerville, M., 52. Falco, M.J., 124. Farrell, W., 108. Fausto-Sterling, A., 93, 94. Feldman, F., 34. Ferguson, A., 97, 124. Fichte, J.G., 40. Firestone, S., 105. Fisher, N., 123. Flax, J., 121. Fortuna, S., 118. Foster, J., 65, 152. Foucault, M., 26, 41. Frankfurt, H., 30. Franklin, R., 51. Freedman, K.L., 42, 53. Frege, G., 10, 65, 155. Freud, A., 52. Freud, S., 48. Friedan, B., 23, 24, 114. Friedman, M., 39, 121. Gallagher, S., 119. Garavaso, P., 65, 121, 155.

160

Garbo, G., 74, 152. Garrett, B., 34. Garry, A., 121. Gatto Trocchi, C., 52. Germain, M.S., 52. Gilligan, C., 10, 39, 89. Giuliani, F., 118. Godwin, W., 153. Goeppert-Mayer, M., 52. Goering, S., 121. Goldberger, N., 93, 121. Goldman, A.I., 61. Gornick, V., 123. Greenspan, P., 121. Greer, G., 123. Griffin, S., 94. Griffiths, M., 38. Grimshaw, J., 120.

Hornsby, J., 54. Hume, D., 33, 73, 118. Ipazia di Alessandria, 5, 7, 8, 16, 17, 20-25, 29-31, 34-36, 39, 54, 57, 58, 65, 68, 69, 81, 82, 152. Irigaray, L., 52, 120, 122. Jacobs, H.A., 152. Jaggar, A.M., 49, 94, 121. James, S., 54. Janack, M., 122. Johnston, M., 34. Joliot-Curie, I., 52.

Haack, S., 93, 122. Haber, H.F., 120. Hack, M., 52. Hahn, O., 51. Halley, J., 124. Hanson, N.R., 81. Haraway, D., 121, 122. Harding, S., 9, 28, 82, 83, 90, 121, 122. Hartsock, N., 85, 89. Haslanger, S., 78. Hegel, G.W.F., 11, 16, 18, 40, 118. Hekman, S., 96. Herman, J., 42. Herschel, C., 52. Hesse, M., 90. Hesse-Biber, S.J., 38. Himmelfarb, G., 124. Himmelweit, S., 121. Hines, M., 95. Hintikka, M.B., 121. Hirshman, L., 102. Hoffman, E., 45. Hollway, W., 122. hooks, b., 114.

Kant, I., 9, 16, 18, 19, 65, 118, 152. Karim, W.J., 67. Keller, E.F., 48, 49, 79, 121. Keplero (Johannes Kepler), 81. Kersey, E.M., 118. King, M.L., 6. Kittay, E.F., 117. Klein, M., 52. Koertge, N., 122. Kovaleskaja, S., 52. Kristeva, J., 120. Lacey, H., 122. Lakoff, G., 57. Langer, L.L., 42. Langton, R., 54. Larned, A.G., 93. Lemke, L., 150. Lennon, K., 121. Levi-Montalcini, R., 52. Lévi-Strauss, C., 26. Levy, A., 101. Lewis, D., 34. Lloyd, G., 18, 89, 93. Locke, J., 30, 43, 72, 73, 118. Lolli, G., 118. Longino, H.E., 28, 47, 63, 64, 80, 91, 121.

161

Lorde, A., 96. Lugones, M., 87, 121. Luigi XIII di Francia, 152. Mackenzie, C., 120. Mackie, D., 34. MacKinnon, C.A., 78, 105, 110. Mafai, M., 124. Magli, I., 52. Magri, T., 150. Mancina, C., 106. Mansfield, H.C., 109. Maraini, D., 100, 101. Maria de’ Medici, 66, 67, 152. Maric´, M., 51. Marx, K., 11, 40, 52, 86. Maschietto, F.L., 6. Maury, A., 52. Maynard, M., 123. McClintock, B., 78, 151. Mead, M., 52. Meeks, C. 123. Meitner, L., 51. Ménage (o Ménages), G., 118. Merkel, A., 103. Meyers, D.T., 37. Mill, J.S., 9, 10, 17, 106, 124. Mills, P., 121. Mitchell, J., 52. Mitchell, M., 52. Montaigne, M. de, 41, 66. Montessori, M., 52. Moran, B.K., 123. Morgan, E.S., 7. Moro, L., 52. Moscovici, C., 124. Muraro, L., 120. Murdoch, I., 41. Musgrave, A., 61. Nagel, T., 88. Navratilova, M., 59, 153. Nelson, J., 48. Nelson, L.H., 48, 80, 123. Nicholson, L., 122.

Nietzsche, F.W., 17. Noddings, N., 10. Noether, E., 52. Noonan, H., 34. Nozick, R., 34. Nuccetelli, S., 10. Nussbaum, M.C., 27, 121, 123. Nusslein-Volhard, C., 52. Oberdiek, H., 121. Ockham, W., 95. Okin, S.M., 105. Olson, E., 32, 34, 39. Panepucci, A., 122. Paolo di Tarso (san Paolo), 111. Parfit D., 36, 41. Pasquino, M., 118. Paulze Lavoisier, M., 51. Payne Gaposchkin, C., 52. Pearsall, M., 121. Pelosi, N., 103. Penolope, 3, 12, 13, 118, 153. Perkins Gilman, C.A., 104. Perry, J., 34, 36. Pietro III di Russia, 151. Platone, 11, 21, 22, 24, 118, 153, 154. Popper, K.R., 97. Potter, E., 91, 122. Poulain de la Barre, F., 104. Proudfoot, M., 120. Proust, M., 41. Pulcini, E., 120. Putnam, H., 82. Pyle, A., 124. Quine, W.V.O., 42. Quinton, A., 35, 37, 43. Radnitz-Cori, G., 52. Rainone, A., 61. Reichenbach, H., 65, 83. Reid, T., 73. Restaino, F., 117, 124.

162

Rice, C., 103. Richelieu, A.J. du Plessis de, 152. Richmond, S., 54. Ricoeur, P., 41. Rooney, P., 121. Rose, H., 89. Rossellini, I., 105. Rothblatt, M., 64. Royal, S., 103. Rubens, P.P., 152. Russell, B., 66. Sackville-West, V., 70, 71, 154. Saffo, 24, 57, 74, 153. Santippe, 15, 17, 18, 23, 25, 89, 153. Saraceno, C., 120, 123. Satz, D., 124. Sautet, M., 118. Sayre, A., 51. Schechtman, M., 40. Scheman, N., 48. Scherer, M., 42. Schopenhauer, A., 17. Searle, J., 31. Seidman, S., 123. Sesti, S., 52. Shay, J., 42, 45. Shelley, M., 74, 153. Shelley, P.B., 153. Shiva, V., 20. Shrage, L., 124. Sklodowska Curie, M., 52. Smith, D.E., 122. Socrate, 5, 7, 15, 17, 18, 25, 36, 153, 154. Solomon, M., 80. Solomon, R.C., 56. Sorensen, R.A., 41. Spelman, E.V., 22, 87, 115. Spinoza, B., 18. Stanley, L., 97. Stendhal, 41. Stone, A., 122. Strawson, G., 40.

Stuurman, S., 104. Sullivan, S., 122. Summers, L.H., 52. Sussman-Yalow, R., 52. Swan Leavitt, H., 52. Syfers, J., 52. Tanesini, A., 63. Tarule, J., 93, 121. Tavris, C., 93. Taylor, C., 106. Teone di Alessandria, 30. Thomas, D., 108. Thomson, J.J., 34. Tiles, M., 121. Tolomeo, 30, 31, 35, 54. Tommaso d’Aquino, 16, 28. Tong, R., 10. Touraine, A., 115. Truth, S., 23, 24, 29, 30, 154. Tsung Dao Lee, 51. Tuana, N., 118, 121. Unger, P., 34. Van Inwagen, P., 34. Vassallo, N., 65, 77, 119, 121, 155. Vegetti Finzi, S., 121. Vernon, M., 121. Veron, J., 123. Vetterling-Braggin, M., 10. Vivaldi, A., 3. Voltaire, F.M.A. de, 51. Waithe, M.E., 6. Warnock, M., 118. Warren, K.J., 20. Watson, J., 51. Webb, M.O., 123. Weiss, G., 120. Wendell, S., 38, 39. West, C., 96. Whipps, J., 122. Whitford, M., 121.

163

Wilkes, K.V., 42. Williams, B., 34, 36, 37. Wise, S., 97. Witt, C., 122. Wittgenstein, L., 40-42, 63-65, 155. Wittig, M., 96. Wollstonecraft, M., 74, 106, 124, 153. Woolf, L., 23.

Woolf, V., 41, 70, 71, 99, 100, 115, 154. Wylie, A., 122. Young, I.M., 18, 38, 49, 96. Zack, N., 111. Zamboni, C., 117, 118. Zemour, E., 109. Zimmerman, D., 96.

Indice del volume

La tela di Penelope

3

1. Che cos’è una filosofia delle donne p. 3 2. C’è bisogno di una filosofia delle donne? 5 3. Quando la ragione è donna e le donne hanno ragione 8 4. Scienza dell’essere e scienza del sapere 11

L’identità delle donne

15

1. Lo spettro di Santippe 15 2. Vivacità della ragione e passività della natura 18 3. «Foemina sive natura» 20 4. Il dibattito sull’essenzialismo 21 5. «Donna non si nasce» 24 6. L’ubiquità del genere 26 7. Il sé nella filosofia tradizionale 29 7.1. Persone, esseri razionali ed esseri umani, p. 30 - 7.2. Conoscenza di sé, p. 32 - 7.3. Identità personale, p. 34

8. I sé nelle metafisiche femministe 37 9. Il trauma 41

165

La conoscenza delle donne

47

1. Soggetti conoscenti e oggetti di conoscenza 47 2. Conoscenza competenziale 58 3. Conoscenza degli altri 65 4. Testimonianza 72 5. Oggettività 77 6. Valori 80 7. Punti di vista 85 8. Riflessioni critiche 90

Una stanza tutta per sé

99

1. Status quo 99 2. Angeli del focolare 103 3. Morte dei femminismi 109

Cos’altro leggere

117

Bibliografia

125

Ringraziamenti

149

Protagoniste e protagonisti

151

Le autrici

155

Indice dei nomi

159