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Italian Pages 144 [189] Year 2013
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Tra memoria, racconti e rovine: un sottosuolo dell'anima a cura di Gian Luca Grassigli e Jelena Reinhardt
Liguori Editore
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La poetica del dettaglio. Per un'introduzione al Satyricon di Fellini Jelena Reinhardt La ricezione dell'antico tra Ottocento e Novecento Giuseppe Nava «È un film sui marziani, un film di fantascienza» Mauro Menichetti Nel tempo, tra le rovine. Stupori freudiani e stratigrafie oniriche: la morte, i frammenti, la narrazione Gian Luca Grassigli Fellini. L'immagine, il sogno e la decadenza Jelena Reinhardt Fellini-Satyricon. Contesti storici di un viaggio in un tempo estraneo Roberto Cristofoli Dentro la «lumaca-labirinto»: Fellini visto da Pasolini Matteo Pascoletti Il bambino e la farfalla: immagini reali in un mondo inautentico
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Giovanni Falaschi Gli Autori
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Romeo: «Ho fatto un sogno, stanotte.» Mercuzio: «Anch'io ho sognato.» Romeo: «E che hai sognato?» Mercuzio: «Che spesso i sognatori mentono.» Romeo: «Quelli che sono addormentati a letto sognano cose vere.»' W.Shakespeare A proposito di Federico Fellini G.Bachman ha fatto notare come non ci siano due persone che dicano la stessa cosa di lui, anche perché il regista stesso si adoperava ad alimentare sempre le contraddizioni: difatti, non raccontava mai la medesima storia due volte2. Proprio per questa sua attitudine Fellini si è guadagnato l'etichetta di «gran bugiardo», tanto più che è stato lui stesso a definirsi talea, nel senso però di grande affabulatore. Sempre sullo stesso tono Fellini ha confessato: «Ho inventato tutto, inclusa la mia nascita. E questo io inventato è l'unico vero io che vedo riflesso nello specchio dei miei film» 4. Esprimendo un punto di vista apparentemente opposto, P.Citati ha scritto, ricordando il grande regista: «Parlava; e avevo l'impressione che mi rivelasse ogni cosa di sé: stava 8
aperto davanti a me, senza segreti, mentre io - non so per quale ragione - qualcosa gli nascondevo. Non mentiva mai. Aveva una dote rarissima: la tenerezza o, come diceva SainteBeuve, il "vellutato del cuore"»5. Sapere se Fellini fosse un bugiardo o meno non è poi così importante, se non nella misura in cui, tra le sue mani, la menzogna diventava quasi una cifra stilistica, nel senso che si faceva espressione della molteplicità dei punti di vista e di quei frammenti di realtà, che attraverso la sua opera sembrano riflettersi in una serie infinita di specchi. Ciò nonostante, costituisce un dato di fatto che le dichiarazioni del regista siano spesso contrastanti, apparendo sempre diverse nei dettagli. Non c'è da stupirsi, tuttavia, poiché in fondo per Fellini «ricordare è mentire», vale a dire che la memoria, dovendo ricostruire il vissuto reale, non riesce a rifletterlo né a riprodurlo fedelmente, ma può solo frantumarlo, trasformarlo e deformarlo attraverso l'immaginazione'. Pertanto i dettagli cambiavano sull'onda della fantasia creativa e visionaria di Fellini, e proprio quei dettagli diventano espressione di una verità più profonda, nel senso, cioè, di un amore immenso per la realtà in tutte le sue diverse declinazioni. D'altro canto Pasolini, che ebbe con Fellini un rapporto piuttosto travagliato, fatto di sentimenti spesso contrastanti, non potendo dare una descrizione definitiva del regista, ha posto l'accento sulla sua incredibile capacità metamorfica e sulla sua assoluta inafferrabilità, caratteristiche queste che si esprimono prima di tutto relativamente alla sua persona, per poi estendersi anche alla sua opera'. Di Fellini scrive, infatti, Pasolini: 9
[...] Fellini è una savana piena di sabbie mobili, per penetrare nella quale necessita o la guida nera della malafede o l'esploratore bianco della razionalità; ma poi né l'uno né l'altro basterebbero, e il territorio resterebbe inesplorato se Fellini stesso non mandasse, distrattamente, e come per caso, a guidarti un uccellino magico, un grillo sapiente, una pascoliana farfalla...'. Difatti, come accortamente nota Pasolini, è Fellini stesso che sparge degli indizi che, pur presentandosi nelle forme più varie, «un uccellino magico, un grillo sapiente, una pascoliana farfalla» e quanto altro, ci permettono di accostarci di più all'uomo e al regista, in una vicinanza di fondo al suo stesso modo di osservare le persone: egli possedeva uno sguardo attento e penetrante che tutto sapeva vedere; non a caso egli amava spiare gli uomini negli interstizi delle loro apparenze, vale a dire nei momenti in cui non si controllavano. A tal proposito Citati ricorda ancora di Fellini: Nutriva un'immensa curiosità per tutti gli esseri umani: anche per quelli insignificanti e noiosi. Ogni cameriere o tassinaro costituiva, per lui, un universo. Pensava che in ognuno di noi si nasconda una luce, o una scintilla: o un lato divertente e assurdo, o un'altra persona, o una semplice possibilità di qualcosa o persino un barlume di genio. A lui qualcuno aveva affidato il piacevolissimo compito di portare alla luce tutte queste cose nascoste. Tentò ogni strada9. Mentre, quindi, Fellini adorava portare alla luce ogni caratteristica inaspettata di un universo tutto da disvelare, mal tollerava, invece, la rappresentazione di una realtà stereotipata e 10
scontata, ma soprattutto mostrava una forte insofferenza nei confronti di coloro - soprattutto critici e produttori - che sentivano il bisogno impellente di definire la sua persona o, ancora peggio, la sua arte all'interno di coordinate note e precise. A tal proposito diceva Fellini: Il modo in cui faccio i film terrorizza i produttori perché non do mai una sceneggiatura: vado semplicemente nel loro ufficio, porgo loro alcune foto di un attore, e gli racconto una storia mentre loro sbuffano col loro sigaro cubano10 E così Fellini si ritrovava, il più delle volte, a inventare. Egli non sapeva e non voleva raccontare un film nella sua fase progettuale, poiché il processo creativo coincideva per lui semplicemente con la sua realizzazione, vale a dire con la parte di lavoro propriamente artigianale. Per lui le parole costituivano un intralcio: esse mascherano la realtà, la infettano". Sono, invece, molto più eloquenti le immagini che riescono a rendere meglio il senso di indefinitezza, di ambiguità e d'inafferrabilità della realtà stessa. Peraltro, da un certo momento in poi quando cioè il regista si allontana vieppiù da un'impostazione poetica prettamente realistica di impronta rosselliniana sino ad arrivare alla pressocché totale dissoluzione dell'intreccio -, la produzione filmica di Fellini si concentra ancora con maggiore forza sull'immagine, diventando nei fatti essenzialmente onirica e visionaria. Perciò egli dà sempre più spazio al sogno in qualità di medium, capace cioè di attingere all'interiorità attraverso le immagini. Fellini stesso spiega il suo interesse per i sogni proprio per la «loro concentrazione d'immagini indipendenti 11
dalle parole»`. Ricordiamo, inoltre, che nel Novecento il sogno non è più il sogno fantastico dei romantici, ma ha assunto un valore del tutto nuovo, soprattutto dopo la lettura che ne propone Freud13. A ben vedere, una delle grandi intuizioni del medico viennese è stata proprio quella di saper colpire l'immaginario popolare mediante il ricorso ai miti greci per spiegare e per dare corpo alle sue teorie14; in particolare i sogni, in quanto espressioni dell'inconscio moderno, erano da lui analizzati impiegando, molto spesso, strumenti d'interpretazione tratti principalmente dal mondo antico, che venivano, pertanto, resi nuovamente attuali. Da un punto di vista per lo più artistico, anche Fellini si misura con l'antichità e insieme dà ampio spazio alla riflessione sulla dimensione onirica, come dimostra anche il suo Libro dei sogni, una sorta di diario in cui egli per diversi anni registra disegnando e annotando i suoi sogni e incubi. Questo interesse di Fellini, che esiste a seconda dei casi con maggiore o minore evidenza in tutta la sua produzione artistica, è assolutamente centrale nel Satyricon, un film tratto liberamente dal romanzo dello scrittore latino Petronio Arbitro`. Qui però Fellini, più che ispirarsi in senso stretto all'antichità, pare avervi proiettato le inquietudini del mondo moderno, vale a dire che il mondo antico «proprio attraverso la mediazione grafica, è rivisitato nella temperatura di un sogno febbricitante: come un universo perduto e ritrovato unicamente mediante un rapporto di fantasia, totalmente libero da qualunque tipo di informazione e conoscenza storica»16. Tuttavia il discorso non è così semplice 12
e, infatti, il dibattito intorno al film è stato davvero acceso: basti pensare anche soltanto alla sua ricezione da parte dei critici che, completamente spiazzati all'indomani della proiezione, il 4 settembre 1969 al Festival di Venezia, non sapevano bene come commentare e come analizzare l'opera`. In verità neppure oggi l'argomento può considerarsi esaurito, infatti risultano esservi questioni ancora aperte che permettono di formulare riflessioni molteplici come, d'altra parte, intende testimoniare il presente lavoro. Con ogni evidenza il Satyricon risulta un film di difficile interpretazione, anche perché il regista si è particolarmente adoperato a renderne ardua la lettura, dando vita a una vera e propria «nebulosa»18, tanto per dirla con Fellini stesso. Effettivamente al film sono state attribuite le definizioni più disparate, alimentate, peraltro, dal regista in persona; l'atteggiamento principale di Fellini, tuttavia, consisteva in un'insistita presa di distanza del suo Satyricon dal mondo a lui coevo: doveva essere un film lontano nel tempo e nello spazio, come se fosse un film sui marziani o sulle trote. Dice, infatti, Fellini per spiegare l'estraneità assoluta delle vicende ivi rappresentate: «La vita delle trote è ben diversa dalla nostra: ma nessuno pensa che le trote facciano delle stravaganze»19 Ed è così che il film sfugge a un tentativo di definizione univoca, proprio come un pesce guizzante che resta inafferrabile a una presa sicura. Tuttavia, nonostante la pretesa estraneità nei confronti di riferimenti precisi, uno dei temi che ha suscitato non poco interesse e che, come già accennato, si presenta ancora oggi come spunto di riflessione, è proprio il rapporto del Fellini13
Satyricon con il mondo antico, che si delinea come molto forte, nonostante le posizioni del regista che, però, vanno in senso contrario, dal momento che inevitabilmente «ognuno guarda al passato coi filtri della cultura che lo separa da esso» 20. A ben vedere, infatti, il mondo antico, così come, in maniera analoga, il passato personale di ogni singolo individuo, si presenta attraverso un processo di ricostruzione e di recupero che è per sua natura frammentario; e nel Satyricon Fellini richiama con forza la dimensione della frammentarietà, facendola diventare la chiave di lettura predominante, dal momento che la innalza ad esperienza centrale nell'approccio umano alla realtà e nell'ambito della percezione identitaria stessa. L'idea del frammento è, difatti, pervasiva nel film e vi si presenta sotto molteplici spoglie: frammentari sono i ricordi del passato, i resti archeologici, i brandelli di sogno di una visione onirica, i sentimenti, le immagini, i dialoghi, il racconto21. Tutti questi elementi, che, per l'appunto, compaiono nel film sotto forma di frammenti e che rischiano di sparire per la loro inconsistenza, riconducibile all'assenza di un costrutto logico forte che possa tenerli assieme, sopravvivono invece grazie ad un'attenzione insistita per il dettaglio22. Quindi, da un lato si coglie un mondo lontano, estraneo, incomprensibile, intangibile; dall'altro, però, i dettagli ce lo avvicinano, rendendolo quasi a portata di mano. Ed è così che di fronte a un film apparentemente incomprensibile si comincia a fare un po' di luce, quando si iniziano cioè a raccogliere finalmente i particolari. Alla luce di quanto detto si evidenzia che, se dunque il 14
quadro del passato appare per frammenti, poiché è lontano nello spazio e nel tempo, tuttavia è possibile tentare una sua ricostruzione, basandosi su quei resti che sono sopravvissuti al cambiamento; vale a dire che, mediante la ricerca di ciò che è ormai assente, si viene a creare un rapporto dialettico tra ciò che ha una sua consistenza concreta e ciò che non l'ha più, favorendo, così, la mobilità del pensiero e insieme l'atto creativo. In fondo, nel Satyricon Fellini indaga lo spazio vuoto tra un frammento e l'altro, che diventa lo spazio della libertà del pensiero, nonché della creazione artistica. Non a caso, dunque, egli insiste sulla distanza del Satyricon rispetto a ogni riferimento preciso, cercando di disancorarlo quanto più possibile dalla contemporaneità, per potersi finalmente esprimere liberamente. Non è difficile immaginare, infatti, che bruciassero ancora intensamente nella sua memoria le critiche feroci che erano state mosse nei confronti de La dolce vita (1960), proprio per aver trattato la decadenza del suo tempo in maniera - a dire di molti moralisti indignati - irriverente. Fellini, quindi, pare concentrare nel Satyricon innanzitutto il bisogno personale di ritagliarsi uno spazio di libertà, di quella libertà, cioè, che a suo avviso dovrebbe essere concessa all'artista, così come accade al circo per l'«augusto», il quale può comportarsi senza censure e fare tutto quello che comunemente è proibito: «vestirsi da donna, fare le boccacce, gridare in una piazza, dire ad alta voce ciò che pensa»23. A questo punto, sapere se il Satyricon sia un film «in 15
costume», sul mondo pagano precristiano, su una Roma lunare, sui marziani oppure sulle trote, costituisce un aspetto secondario rispetto all'idea di rappresentare un contesto che non sia immediatamente riconducibile al suo tempo presente e che sia, pertanto, un esempio di libertà artistica. A tal fine Fellini avvia un procedimento che si potrebbe definire «per sottrazione» e che consiste nel togliere dal film «tutto ciò che si è costruito nel tempo a proposito e in nome della romanità» e cioè nel sottrarre «tutto ciò che viene identificato come cultura e erudizione, tutto ciò che sa di archeologico e di letterario»24. Tuttavia, quando si pensa continuamente a ciò che non dovrebbe essere, se ne resta irrimediabilmente influenzati. Ed è per questo che ancora oggi ci interroghiamo su quello che nel film sembra mancare.
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Dal concetto umanistico di «docta aemulatio», inteso a far rivivere i modelli di umanità e di forma del mondo antico e a gareggiare con i «maestri», si passa, tra Settecento e Ottocento, alla sempre maggiore consapevolezza d'una frattura irreparabile tra quel mondo e la modernità. La cesura è segnata non più dall'avvento del Cristianesimo, come per il Medioevo, ma dalla diffusione della ragione scientifica e tecnologica, che relega le «belle favole antiche» nel mondo della pura immaginazione, e le trasforma in oggetto di rimpianto di un'età del genere umano ormai perduta per sempre, o di quella stagione della vita che più non ritorna, l'infanzia. In questa prospettiva convergono, seppure con accenti diversi, le antropologie poetiche di Vico e di Leopardi e il saggio di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale, mentre si profila all'orizzonte lo spettro della «morte dell'arte», che nell'estetica hegeliana trova una formulazione rassicurante, come fase finale dello sviluppo dello Spirito verso la conoscenza pura, ma che assilla poeti e artisti, vieppiù angosciati dalla paura d'un inaridimento delle energie creative nell'economicismo della società borghese e nell'automatismo della civiltà delle macchine. Il «disagio» della civiltà industriale, la «globalizzazione coloniale», il comparatismo e la tesi d'una lingua e d'una civiltà indoeuropee originarie, le scoperte archeologiche, sono tutti fattori che modificano l'accostamento all'antico nel secondo Ottocento, secondo una direzione che va dall'oggettività di 17
contenuti e forme condivise da una comunità, sia pure anche solo intellettuale, alla soggettività del filologo ricostruttore del passato o dell'artista elaboratore di miti personali. La nostalgia del mondo preindustriale si manifesta in ambito letterario come ritorno dall'«arido vero» al recupero dell'immaginazione e della metafora, e alimenta una sorta di esotismo temporale dell'antico. Così il Simbolismo vede nella mitologia un deposito di simboli: non è un caso che Mallarmé traduca nel 1880, sia pure per ragioni alimentari, l'opera dell'inglese G.Cox, Les Dieux antiques. Origine et développement de la mythologie. La conquista coloniale pone sempre più il problema dello studio e del confronto con le civiltà extraeuropee, sia pure in un'ottica di superiorità dell'osservatore europeo, suscita il miraggio di possibili analogie tra mondi coloniali e mondo antico, e approda all'equiparazione di selvaggio, primitivo e fanciullo attraverso la teoria delle «sopravvivenze», presente in Tylor e Frazer. Lo studio delle etimologie e dei miti nei loro tratti comuni ai popoli cosiddetti indoeuropei sembra dare un solido fondamento alla tesi di un'origine unica delle religioni dagli antichi culti solari, come è adombrato nelle Quattro letture d'introduzione alla scienza delle religioni di Max Mùller, tradotte nel 1874 per Sansoni da Gherardo Nerucci. A loro volta le scoperte archeologiche, in particolare gli scavi di Schliemann nella Troade (1878), offrono una base materiale ai poemi omerici, e in genere al mondo antico, con immediati riflessi nella poesia (l'ode carducciana Alla Vittoria, nelle Odi barbare, che reca il sottotitolo Tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia, l'asclepiadea dannunziana A Bacco Dionisio nel Museo archeologico della Marciana in Venezia, nella raccolta Primo 18
vere, i primi Carmina pascoliani), e soprattutto nel romanzo (da Bulwer Lytton, The last days of Pompei, 1834, al cardinale Wiseman, Fabiola, 1854, al polacco Sienkiewicz, Quo vadis?, 1894-1896). Vanno nella stessa direzione i continui ritrovamenti di tavolette e di papiri, che, portando alla luce nuovi testi e nuovi autori, come per esempio Bacchilide, le cui Odi, edite da F.G.Kenyon a Oxford nel 1897, ispirarono i Vecchi di Ceo dei Poemi conviviali pascoliani, danno l'impressione d'un ritorno anche fisico dell'antico e modificano il panorama letterario della grecità. La Germania, con la sua scienza filologica e antiquaria, imitata in tutta Europa, fa del suo classicismo scientifico, non meno che dei suoi ritrovati tecnologici, un vessillo delle sue pretese egemoniche, e l'Inghilterra la segue da vicino. L'attualizzazione dell'antico nel secondo Ottocento, epoca in cui gli studi di psicologia tendono ad occupare, accanto alla sociologia, un posto privilegiato, comporta anche un processo costante di comparazione tra psiche dei moderni e psiche degli antichi, ricostruita con audacia induttiva da testi letterari, storici, etnografici. Non occorre aspettare Jung e la sua «teoria degli archetipi»: già Freud nei primi anni del Novecento battezza con i nomi di personaggi del mito le sindromi nevrotiche da lui studiate sui pazienti, a partire da quella di Edipo. All'origine della psicologizzazione dell'antico, e dell'infiltrazione di fantasmi erotici e/o mortuari del soggetto interpretante o poetante nel mito, si può collocare La nascita della tragedia (1872) di Nietzsche, con la sua concezione pessimistica del mondo greco, che rompe definitivamente con la visione edenico-formalista dell'antichità, propria d'una tradizione secolare del classicismo. L'opposizione di apollineo e dionisiaco 19
apre la via all'irruzione delle pulsioni del soggetto nella dimensione del tempo e nella lettura delle opere: Al Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovè porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici». La psicologizzazione del mito apre le porte al manifestarsi d'una sensibilità esistenziale, che lo utilizza per il racconto di situazioni «archetipiche» della condizione umana, come farà Pascoli nei Poemi conviviali: la fedeltà al dovere e la premonizione della morte (La cetra d'Achille), il fantasma del desiderio amoroso (Anticlo), la tentazione nichilistica che fa desiderare di non essere mai nati (L'ultimo viaggio), la colpa e gli incubi che ne conseguono (Poemi di Ate), il fallimento dell'iniziazione a una vita ultraterrena e l'anelito al ricongiungimento con l'anima universale (Psyche), lo sdoppiamento narcisistico (I gemelli), la senilità (I vecchi di Ceo). Altre possibili funzioni si dischiudono al territorio del mito: la funzione utopica d'un mondo riconciliato, in cui l'uomo viva in armonia con l'uomo e la natura in una novella età dell'oro, o, all'opposto, quella ideologica della legittimazione di patrie imperiali o di eroi superomistici, della guerra e della conquista, funzione esperita soprattutto dal D'Annunzio di Maia o delle tragedie; e, ultima ma non minore, la funzione metapoetica, che si avvale del mito per parlare della natura visionaria, e non mimetica, dell'arte, e dell'uffizio e del destino del poeta, come fa il Pascoli nel Cieco di Chio e nel Sileno. Sospensione del tempo quantitativo e ripetizione degli eventi, epifanie e circolarità (la tecnica della «Ring-komposition») sono i meccanismi rappresentativi più utilizzati nella fruizione del 20
mito come genere letterario nella modernità ottocentesca, insieme con i procedimenti di nobilitazione epicizzante a fini di esemplarità (epiteti, nomi di luoghi e di cariche, strumenti di guerra e di lavoro, voci e grafie arcaiche) e con gli effetti fonosimbolici. Di queste modalità di rappresentazione Pascoli fa un uso nel complesso controllato, mentre D'Annunzio ne abusa con effetti di ornamentazione carica di vero e proprio «horror vacui», fino a provocare l'insofferenza del lettore odierno. D'altra parte per i moderni il mito confina con il sogno, sentito come il suo equivalente nell'ambito della psiche per i comuni processi di condensazione e di traslazione e per la sua pretesa di originarietà: in questo le tre «corone», Pavese e lo stesso Pasolini convergono, in accordo più o meno consapevole con le opere di psicanalisti e storici delle religioni, come Jung, Kerenyi, Rank e Otto. È Carducci, con i sonetti su Omero, con l'ode Ad Alessandro D'Ancona, di Rime nuove, che saluta nello studioso della scuola storica il comparatista, «de' cognati e de i dispersi miti/per la selva d'Europa indagatore», e soprattutto con le Primavere elleniche, opere tutte dei primi anni Settanta, a riportare nella «nuova Italia» la grecità, sia pure idealizzata letterariamente, all'origine della civiltà e dell'arte europea. Non che al Carducci manchi la coscienza della cesura operata dalla modernità con quel mondo, e dell'avvenuto esaurimento del filone neoclassico. Lo attestano la lettera a Lidia del 23 giugno 1874 («in certe vie oramai non si può fare, non dico meglio, ma approssimativamente bene, come il Monti il Foscolo il Leopardi. Bisogna cercar vie nuove») e l'altra al Chiarini del 1 gennaio 1874, in cui Carducci scrive: «Io leggo, nelle ore di 21
riposo, a questi giorni, i colloqui di Goethe con Eckermann, e le Elegie romane, e queste letture mi fan ritornare con tutta l'anima e la persuasione alla grande poesia greca. In fondo, confessiamolo, fu la più gran poesia della terra: Omero, Pindaro, Sofocle, Aristofane, Teocrito sono gli ultimi confini del bello di primo getto, giovenile, florido, sereno. Dopo viene il riflesso, il contorto, il vecchio. Noi abbiamo dei "frissonements" d'inverno e crediamo che siano i brividi dell'ispirazione». Carducci però, parlando di «rosea sanità dei Greci» in una nota alla prima edizione di Rime nuove (1887), mostra di essere rimasto a prima della nietzschiana Nascita della tragedia. È qui il discrimine che lo divide dalla Grecia di D'Annunzio e Pascoli. A sua volta Pascoli muove dai giovanili Miti, ora in Poesie varie, ispirati alla divinizzazione dei fenomeni naturali, come il sorgere e il tramontare del sole, per arrivare ai Poemi conviviali, che disegnano un'antropologia poetica dell'umanità in una prospettiva platonizzante: una sorta di Légende des siècles in veste greca. Attraverso la successione dei poemi, si profila una storia dell'evoluzione morale dell'uomo sotto il segno di Eros (Anticlo) e Thanatos (l'uomo differisce dal bruto per la «coscienza d'essere mortale», scrive Pascoli nell'Era nuova, IX), dagli eroi omerici ad Alessandro, questo Ulisse rovesciato, fino all'avvento di Cristo e della «buona novella», eventi peraltro sentiti più come un rinnovarsi del ciclo che come una rottura, un salto di qualità. Contemporaneamente, sul piano metapoetico, i Conviviali tracciano un disegno della letteratura greca, dai poemi omerici ai lirici a Platone.
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Quanto a D'Annunzio, risulta evidente a una prima lettura l'influsso giovanile delle Odi barbare sulla sua raccolta d'apertura Primo vere. Sono gli anni in cui il poeta compie la traduzione di alcuni degli Inni omerici, a testimonianza del suo interesse per il mondo greco sulla scia di Carducci. Più tardi, nell'estate del 1895, ci sarà la crociera in Grecia, che alimenterà le liriche di Maia, in un clima tra lo Schuré di Les grands initiés (1889) e il primo Maurras. Per D'Annunzio il dionisiaco moderno è costituito dal vitalismo delle pulsioni e degli appetiti: di qui i miti della Vita e del Desiderio (Maia, I e III), e di Ulisse (Maia, IV), elevato a eroe della forza e della vendetta (il suo distintivo infatti è «l'arco dell'allegra vendetta», IV, 51-52), e non più della volontà di conoscenza. In questa direzione D'Annunzio predilige la figurazione plastica da un lato, l'illusionismo metamorfico e lo smarrimento dei sensi dall'altro, collocandosi tra l'ideologizzazione dell'arcaico come luogo dell'istinto e della violenza, e il decorativismo liberty. In particolar modo, nella tragedia Fedra (1909) risaltano la «voce» implacata dentro Fedra («ma chi parla entro me/non può esser placato con offerte», atto I), figura del «profondo»; il «titanismo» di Teseo, eversore di città («E superò gli squilli/la sua voce di bronzo./E simile era fatto/egli, al Titano impresso/nell'orbe del suo scudo», dice di lui il messo nell'atto I); e la cecità dei «mortali», che non sanno o non possono vedere con gli «occhi della mente» («ognuno dei mortali parla/in vano, e in vano piange,/e in vano si rallegra, ché l'evento/lo trasmuta e la colpa lo scolora», lamenta il coro delle Supplici, sempre nell'atto I). Sotto il segno del binomio Eros Thanatos, acquista rilievo la dimensione del sogno, con una 23
valenza subliminale, che l'allontana dalla sfera romantica del «fantastico» e l'avvicina al mondo freudiano, anche se mistificata da un processo d'idealizzazione. Accanto al sogno vero e proprio si colloca lo stato di trasognamento, in cui il personaggio è agito dalla forza oscura delle pulsioni («negli atti come/per entro a un velo flammeo di sogno/io era», atto II), mentre risuona il richiamo dell'Ignoto, che è poi la nobilitazione del freudiano «Es»: «E sente il fascino dell'Ignoto ondeggiare immenso attorno alla breve isola della sua propria vita», avverte la didascalia a proposito di Ippolito nell'atto Il, e più oltre: «Velata come da una interna lontananza è la voce del sognante, soave come un canto sommesso». Nel Novecento letterario italiano i casi più originali di rapporto con l'antico sono costituiti, a mio avviso, da Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini. Con Pavese entra nel mito l'autobiografia, secondo un'acuta osservazione di Guido Guglielmi. A lui si debbono la traduzione della Teogonia di Esiodo (1947-1948), i Dialoghi con Leucò (1947), e il saggio sul Mito, uscito sulla rivista «Cultura e realtà» nel maggiogiugno 1950. Gli interessi antropologici di Pavese lo inducono a tentare nell'immediato dopoguerra, nell'ambito della casa editrice Einaudi, l'esperienza della «Collana viola», in un difficile rapporto, continuamente oscillante tra accordo e contrasto, con Ernesto De Martino. A Pavese, internamente diviso tra l'adesione al marxismo come volontà di oggettivazione e impegno politico, e il richiamo d'un destino di solitudine, d'un «io profondo» mortuario, l'antropologo rimprovera di confondere il mito col simbolo. Che l'accusa di De Martino avesse un qualche fondamento, lo conferma la 24
definizione pavesiana di mito, ridotto a sinonimo di fantasma artistico: «quell'interiore immagine estatica, embrionale, gravida di sviluppi possibili, che è all'origine di qualunque creazione poetica». Inoltre l'attrazione della dimensione archetipica su Pavese, il richiamo esercitato su di lui dal ritorno alle origini, al luogo dove tutto è già stato deciso in partenza, non potevano non entrare in conflitto con la mentalità storicistica di De Martino. Scrive Pavese: «Le varie usanze quotidiane e festive, il linguaggio, le tecniche, le istituzioni e le passioni, tutto si modella su fatti accaduti una volta per sempre, su divini schemi che in un senso non soltanto temporale sono all'origine di ogni attività»; e ancora: «Dalla fanciullezza, dall'infanzia, da tutti quei momenti di fondamentale contatto con le cose e col mondo che trovano l'uomo sprovveduto e commosso e immediato, da tutte le "prime volte" irriducibili a razionalità, dagli istanti aurorali in cui si formò nella coscienza un'immagine, un idolo, un sussulto divinatorio davanti all'amorfo, sale, come da un gorgo o da una porta spalancata, una vertigine, una promessa di conoscenza, un avangusto estatico». Allo scrittore l'antropologo obiettava: «In fondo anche Pavese è alla ricerca dell'esperienza zero, dell'origine della storia, di un assoluto il cui ricordo restituisca senso al mondo che rischia in ogni momento di "finire" nella sua umana operabilità. Ora questa esperienza zero non esiste, e per quanto il pensiero possa risalire nella storia (individuale o genericamente umana) non trova mai una storia che, in modo assoluto, comincia». De Martino definisce con severità questa ricerca: «la mala infinità del regresso». In effetti, nei Dialoghi con Leucò, sotto la forma della «operetta morale» e la struttura dialettica che la innerva, s'avverte la nostalgia 25
nichilistica della disindividuazione. Nel dialogo d'apertura, La nube, questa annuncia ad Issione: «La sorte dell'uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L'acqua, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C'è una legge». La polarità di caos e ordine, di ferinità e di legge, pare una riproposta dell'opposizione nietzschiana di dionisiaco vs. apollineo. Quanto a Pasolini, il suo rapporto con l'antico, e con la dimensione ad esso intrinseca del mito, sviluppatosi nel corso degli anni Sessanta con la traduzione dell'Orestea di Eschilo e del Miles gloriosus di Plauto, raggiunge il suo culmine nei film Edipo re (1967) e Medea (1969), coevi al Satyricon di Fellini, realizzato tra il 1968 e il 1969. Anche per Pasolini, come per Pavese, vale la dissociazione tra impegno politico e richiamo dell'«io profondo». Per uno scrittore e regista sperimentale, anche se non in senso avanguardistico, come Pasolini, il mito è in primo luogo una matrice di racconti: «Edipo è morto (...) La conclusione della sua vita è la condizione necessaria e insostituibile per fare della sua vita una storia. Ossia per poter "montare" un film della sua vita». La storia di Edipo è, freudianamente, la storia di ognuno di noi, e in primo luogo del regista stesso, come indicano esplicitamente l'inizio e la fine del film. Medea mette in scena la perdita del sacro e le sue conseguenze, come il transito dal mito alla religione positiva della tecnica, che è anche il passaggio dal sacrificio rituale all'assassinio. La rottura con ogni sorta di classicismo o di decorativismo illustrativo avviene attraverso l'ambientazione dei due film in paesi premoderni extraeuropei, come il Marocco, o 26
in un meticciato di luoghi: Cappadocia - laguna di Grado - Pisa. Scrive Pasolini: «Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale con il mondo di Giasone, un mondo invece razionale, pragmatico. Curiosamente quest'opera poggia su un fondamento "teorico" di storia delle religioni: Mircea Eliade, Frazer, Lévy Bruhl». Negli Appunti per un'Orestiade africana Pasolini accosta ai cori greci quelli africani, vede le Erinni rappresentate «in vesti e orridi tatuaggi africani», e istituisce un confronto tra la veggenza profetica di Cassandra e «quella specie di "trance" che prende spesso i negri quando cantano». È la fine dell'identificazione della cultura come valore con la cultura europea, e l'apertura alle culture del cosiddetto Terzo Mondo (africane, asiatiche, amerinde), anche e soprattutto in quanto portatrici di sensi «altri», istintuali, collettivi, creativi: operazione che per Francesco Della Corte equivale alla fine dell' «identificazione perversa tra antico, greco o latino che sia, e "civiltà del bianco"». Su questa linea Pasolini arriva a recuperare la teoria delle «sopravvivenze»: «Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è intessuta di sopravvivenze». Sbaglierebbe però chi interpretasse questa affermazione di Pasolini come mossa da una volontà di ritorno al passato, al mondo contadino, disattendendo le sue stesse dichiarazioni: «Non ho neanche un po' di nostalgia. Mai, in nessun momento, né della mia vita personale, né della vita del mio Paese. Non vorrei rivivere neanche cinque minuti del passato. Il passato mi dà sempre angoscia, mi dà un senso di imprigionamento. Nel passato non saprei delle cose che adesso so. Nel passato siamo morti, perché dovrei rimpiangerlo?». Per 27
Pasolini il recupero della dimensione mitica è piuttosto la condizione di narratività della storia, contro la sempre incombente perdita di senso: una strategia in primo luogo estetica, quindi. Per lui infatti, almeno all'altezza dei primi anni Sessanta, «l'irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (ché poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione (...) L'incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria dell'angoscia esistenziale e della fantasia nella società evoluta» (Lettera del traduttore premessa alla versione dell'Orestea nel 1960). Il Satyricon di Fellini aggiunge una nuova modalità alla tipologia delle interpretazioni novecentesche dell'antico fin qui esaminate: l'antico come luogo dello «straniamento» e della surrealtà, accessibile soprattutto attraverso immagini frammentarie, decontestualizzate e allusive, atte ad evocare fantasmi della mente o libere associazioni, come nell'arte figurativa novecentesca (le piazze e i porticati vuoti o i manichini di De Chirico, le sculture africane o il Minotauro di Picasso, i ritratti arcaizzanti rosso marrone di Campigli). Sul piano dei contenuti questo comporta una messa in rilievo dell'effetto metafisico del Tempo sulla realtà, coerentemente con la sensibilità esistenziale di Fellini. Sul piano della forma si assiste al predominio del visivo sul narrativo, come risulta dalla impostazione orizzontale delle inquadrature, dall'assenza di profondità di campo, dalla sintassi narrativa sincopata, dal montaggio delle scene per contiguità e non per sviluppo: tutti elementi che stanno a indicare una tecnica da affresco seriale più che da racconto cinematografico. Infine non si può non rilevare la contraddizione che emerge dalle interviste a Fellini 28
sul film, tra la Roma «lunare, come guar data attraverso l'oblò di un'astronave», secondo una felice definizione dello stesso regista, e l'attualizzazione forzata della tematica petroniana, quasi una «strizzata d'occhio» al mondo degli «hippies». È una contraddizione forse spiegabile come frutto della scaltrezza di un uomo di spettacolo «navigato», quale era indubbiamente Fellini, preoccupato dell'accoglienza da parte del pubblico d'un film difficile, come il Satyricon, che nulla concede agli effetti spettacolari del genere «peplum». In effetti la metafora della «visione psichedelica», riferita al film, poteva servire a ingraziarsi il pubblico dei giovani del tempo.
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È lo stesso regista a ribadire più volte che Fellini-Satyricon è un film di fantascienza, sui marziani. È pur vero, come più volte segnalato dalla critica, che non bisogna credere in tutto e per tutto alle dichiarazioni di F.Fellini e dei suoi collaboratori che spesso sembrano divertirsi in un gioco ingannevole di ammiccamenti e di apparenti contraddizioni in merito agli obiettivi e alle fonti di ispirazione del film'. Pur con la cautela che deriva da tale consapevolezza, unitamente alla constatazione che si tratta di un'opera assai complessa e stratificata, tale da escludere ogni chiave di lettura univoca ed esclusiva, tuttavia la definizione di film di fantascienza sembra assai utile per intendere alcuni aspetti importanti del film. Se proviamo a seguire questa possibile chiave di lettura del film, dobbiamo necessariamente fare riferimento, seppur sommariamente, a due motivi che sono sempre risultati centrali nella discussione critica del film, vale a dire il rapporto con il testo di Petronio e il tipo di uso delle fonti letterarie e archeologiche fatto dal regista. In merito al primo aspetto, si può subito ricordare che il Satyricon di Gian Luigi Polidori uscito in anticipo nello stesso anno 1969 costrinse a cercare un altro titolo che, alla fine, venne individuato in Fellini Satyricon2. Il nuovo titolo, scelto tra diverse opzioni, non appare affatto una soluzione di ripiego poiché sembra in grado di rivelare immediatamente - alludendo alla forma inglese Fellini's Satyricon - l'orizzonte entro cui si muove il film: il 30
Satyricon di Petronio è sullo sfondo mentre in primo piano compare la rappresentazione che ne offre lo stesso Fellini3. La sintesi recente di N. Pace4 mette bene in risalto la diversità di opi nioni - esemplificata dalle posizioni di E.Segal e di L.Canali che, come noto, prese parte alla lavorazione del film' - così come l'impossibilità di una pretesa fedeltà al testo tanto più impossibile, visto lo stato frammentario in cui il testo stesso ci è giunto. Assai utile in questa prospettiva è la comparazione sinottica tra il testo e la sceneggiatura del film proposta da E.Gagetti'. Altrettanto dibattuta è la questione circa l'uso di altre fonti letterarie da parte di Fellini e dei suoi collaboratori, così da spiegare almeno in parte le diverse soluzioni adottate nel film. Secondo Dario Zanelli il rimaneggiamento e la profonda rielaborazione del testo non sarebbero dovuti alla immissione e rilettura di altri episodi e temi ricavati dall'Asino d'oro di Apuleio o dai carmi di Orazio e Ovidio o da Suetonio, come inducevano a credere diverse dichiarazioni e interviste', quanto, invece, alla libera reinterpretazione e fantasia di F. Fellini e dello sceneggiatore B. Zapponi8. Il dibattito tra gli studiosi è assai aperto e una serie di studi muove nella direzione di rintracciare citazioni e motivi tratti, ad esempio, da Tacito, Marziale, Giovenale, Virgilio9. In questa prospettiva si inserisce anche il problema della lingua, in primo luogo il latino, ma anche il ruolo essenziale svolto da altre lingue e dialetti nella struttura del film10 Perché Fellini è ricorso a lui [Luca Canali]? Perché gli serviva, a quanto mi risponde Canali, del materiale - brani in latino e in greco - da utilizzare in modo non inerte nel contesto del film. Perché aveva un problema di fedeltà, di 31
esattezza, ma anche di libertà, nel senso che gli premeva di evitare assolutamente le cadenze cui siamo abituati dal latino di Cicerone studiato a scuola o da quello, ormai abbandonato, della Messa. Un latino irto di monosillabi (hic, nunc, sus...) e da recitarsi secondo quella pronuncia scientifica, o pseudo-scientifica, tuttora molto discussa, che è presumibilmente la più vicina alla pronuncia dura dei romani fino a Nerone. Quello che il regista vuole ottenere, col concorso del latinista, è un pastiche parlato che dovrebbe corrispondere al pastiche visivo, in modo da accentuare nello spettatore un senso di distacco, di estraneità". M. «In che lingua parleranno i personaggi?» F. «In latino. Questo accrescerà il senso di estraneità. È una lingua che ci è completamente straniera, anche se la studiamo a scuola. Una lingua morta, pietrosa, ben diversa dall'italiano così dolce, così musicale. Ma il latino degli italiani è, ormai, senza rimedio quello della Chiesa. Un latino da preghiere, da litanie. Farò venire dalla Germania una trentina di attori per doppiare i miei interpreti con il latino quale lo si pronunzia in Germania, oggi, appunto alla maniera pietrosa e dura dei tedeschi»`. Il latino dei personaggi del film deve corrispondere, nelle intenzioni del regista, ad una lingua frammentata, dura, che evita la continuità dei suoni a favore dei monosillabi, ad una lingua ancora una volta lontana da Cicerone e dai modelli della scuola, vale a dire lontana da ciò che viene identificato come vuota erudizione priva di ogni capacità di comunicazione.
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La seconda questione concerne l'uso delle fonti archeologiche. Possiamo partire dalla seguente dichiarazione del regista rilasciata nel periodo di lavorazione del film: Ho veduto e studiato più che potevo - spiega Fellini - ; ma non perché abbia preoccupazioni culturali in senso libresco. Non è certo un film storico quello che voglio fare; né mi propongo di ricostruire con devota fedeltà gli usi e costumi dell'antica Roma. Ciò che mi interessa è tentar di evocare medianicamente, come sempre fa l'artista, un mondo sconosciuto di duemila anni or sono, un mondo che non è più. Tentare, cioè, di ricomporlo, mediante una struttura figurativa e narrativa di natura quasi archeologica. Fare un po' come fa, appunto, l'archeologo, quando con certi cocci, o con certi ruderi, ricostruisce non già un'anfora, o un tempio, ma qualcosa che allude ad un'anfora, ad un tempio; e questo qualcosa è più suggestivo della realtà originaria, per quel tanto di indefinito e di irrisolto che ne accresce il fascino, postulando la collaborazione dello spettatore. Le rovine di un tempio non sono forse molto più affascinanti del tempio stesso? Un'anfora ricomposta pazientemente pezzo per pezzo racchiude in sé significati e risonanze che non poteva certo avere allorché nacque: è una cosa passata attraverso il fiume del tempo, e perciò immersa in un'atmosfera metafisica che la rende più misteriosa, più ineffabile. I surrealisti, del resto, lo sanno bene: la corruzione, la lebbra del tempo rendono tutto più arcano, ambiguo, indecifrabile, e perciò pieno di malia13 Il brano sopra riportato è di grande importanza per almeno
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due motivi. La ricostruzione storica, per Fellini e i suoi collaboratori, non aspira ad alcuna completezza ma risulta possibile solo attraverso frammenti o «cocci» che, immaginati in mano ad un archeologo, permettono non di ricostruire ma di «evocare medianicamente» il mondo antico. L'antichità non è conoscibile se non mediante un'esperienza emozionale e fascinosa di cui i surrealisti sono chiamati a rendere testimonianza. La distanza tra una concezione del genere e i metodi e le finalità che noi siamo soliti riconoscere alle scienze filologiche storiche e archeologiche sono state ben colte e sottolineate anche di recente14; nella prospettiva di Fellini e dei suoi collaboratori i frammenti che possediamo sono del tutto insufficienti per conoscere il mondo antico così da renderlo per noi sconosciuto, estraneo, irrimediabilmente diverso. L'archeologia, con i suoi cocci e frammenti15, può al più evocare quel mondo rendendolo simile a un sogno peraltro destinato ad essere consumato dal tempo. Ecco qualche altro esempio dell'insistenza con cui ritorna lo stesso concetto: Ho letto, studiato; ma resto un ignorante. Quindi niente di erudito, nessun aneddoto prezioso. Un film è un'altra cosa, deve vivere. Voglio che si senta l'aria di quel mondo sconosciuto, così diverso, e che stava per finire senza che nessuno lo sospettasse. Ecco il punto. Quello che mi affascina, in questa storia, a parte le analogie col mondo d'oggi, è la possibilità di raccontare, rappresentare dei personaggi con una psicologia precristiana, e quindi fuori dei nostri concetti, o modi di giudicare16
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Niente di niente so dei romani: essi mi sembrano sconosciuti e più lontani da noi di quanto può esserlo un gatto o un granchio. Le cose che ho visto al Museo Capitolino non mi dicono niente: la loro splendida inerzia ha soltanto la familiarità delle nozioni scolastiche o la casualità delle suggestioni personali. Per esempio, ad un certo punto, mi è parso di riconoscere in un busto di marmo dagli occhi vuoti il musetto patito di una mia cugina di campagna. Jole si chiamava, aveva i capelli rossi ed io l'ho sempre vista a letto ammalata''. Le intenzioni del film non sono né storiche né archeologiche. E tutto sommato non sono nemmeno di natura letteraria: non s'è voluto, cioè, tradurre il testo di Petronio, per quanto esso sia illuminante, fertilissimo. Lo sforzo maggiore che ho dovuto affrontare è proprio uno sforzo ottico: tentare di mettere a fuoco e far nascere una serie di personaggi che non fossero schiacciati né dalla cultura né dall'erudizione, da tutto quello che di archeologico e di letterario abbiamo appreso a scuola e che ci pesa addosso in modo paralizzante (...) Ho sempre detto che questo è un film di fantascienza e questo è il tipo di film che vorrei fare18. Lo stesso regista dichiara, come abbiamo visto, di aver consultato una bibliografia e di aver fatto visite ai musei come nel caso esplicitamente richiamato e relativo ai Musei Capitolini. Dario Zanelli, che segue e descrive la lavorazione del film, testimonia di visite agli scavi di Pompei e di Ercolano e di letture su Roma antica utilizzate soprattutto per capire ciò che si deve evitare19: in particolare sul tavolo del regista ci sono diversi volumi tra cui La vita quotidiana a Roma di 35
J.Carcopino, I detectives dell'archeologia di C. W. Ceram, The Decline of Rome di J.Vogt, Les peuples de l'antiquité di R.Ménard e C.Sauvageot, La questione petroniana di E. V.Marmorale. Inoltre troviamo anche una Storia dell'amore libero, Erotismo sui Sette Colli, Roma Amor. L'ultimo volume si riferisce ad un lavoro di J. Marcadé20 apparso in due edizioni, rispettivamente in inglese (1965) e francese (1975), che riporta una ricca documentazione, anche a colori, relativamente a scene erotiche tratte soprattutto dalla pittura etrusca e romana ma anche da altri oggetti e monumenti del mondo romano. Alcune ricerche recenti hanno finalmente permesso di rintracciare con precisione diverse pubblicazioni, a carattere divulgativo, da cui dipende un buon numero di monumenti e opere d'arte inserite nel film: si tratta della Pittura pompeiana pubblicata a fascicoli in edicola nel 1965 da SadeaSansoni, dei due volumi dedicati rispettivamente alla pittura greca (1959) e romana (1953) facenti parte della serie «Les grand siècles de la peinture» pubblicata da Albert Skira e, soprattutto, del Musée imaginaire de la sculpture mondiale di A.Malraux pubblicata nel 195221.
La mia discussione cercherà di dimostrare che il procedimento che Fellini applica non per ricostruire ma per suggerire il mondo antico si basa su una visione che potremmo definire «per sottrazione» che si cercherà ora di chiarire partendo da alcune testimonianze che sembrano rivelarsi utili in tale prospettiva: 36
Film in costume? In realtà, il regista - felicemente assecondato in ciò dai valorosi collaboratori di cui ha voluto circondarsi, lo scenografo e costumista Danilo Donati e l'architetto Luigi Scaccianoce - non intende certo aggiungere una nuova perla all'ormai lunga, ma non molto preziosa collana dei film che il cinema d'ogni tempo ha dedicato alla romanità, da Quo Vadis? a Ben Hur, da Scipione l'Africano ad O.K.Nerone. Il regista si è documentato, certo: ha visitato gli scavi di Pompei ed Ercolano, ha letto libri di dotti romanisti, ha sfogliato decine e decine di volumi d'arte antica; ma lo ha fatto per prendere coscienza non tanto di ciò che potrà mettere nel film, quanto di ciò che dovrà assolutamente evitare22. [Il film] È una nebulosa. Nutrita poi di niente: perché non voglio fare un film archeologico, né storico, né di memoria. Noi abbiamo della romanità una visione contorta dai testi del liceo, siamo vittime di suggestioni estetizzanti. Amiamo i ruderi: ma il loro fascino appartiene, appunto, alla civiltà dei ruderi, che è una cosa molto diversa. Non voglio fare neanche Petronio, d'altra parte: come potrei mettere in satira un mondo che non conosco? La satira ha un senso solo se applicata al mondo che si ha davanti. Si può fare della satira sui marziani? Niente satira, dunque. Niente romanticismo, né culto della tradizione, né storia, né archeologia. Niente ricordi, niente autobiografismo (...) È un film sui marziani, un film di fantascienza (...) Poter descrivere la vita dei romani come la vita delle trote: ecco l'ideale. La vita delle trote è ben diversa dalla nostra: ma nessuno pensa che le trote facciano delle stravaganze. Fellini vorrebbe dare al pubblico, insomma,