Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria 8878960098, 9788878960091


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Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria
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Alan O’Leary

tragedia all’italiana Cinema e terrorismo tra Moro e Memoria

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Alan O’Leary

TRAGEDIA ALL’ITALIANA Cinema e terrorismo tra Moro e Memoria

Traduzione di Lucia Angelica Salaris

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Alan O’Leary Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e Memoria Traduzione dall’inglese di © Lucia Angelica Salaris Collana I Sottolio 2 © Alan O’Leary, 2007 © Angelica Editore, 2007 tutti i diritti riservati Progetto grafico Massimo Caria In copertina “Rolling People” di Massimo Caria Grafica e impaginazione Grafimedia Comunicazione - Sassari Stampa Genesi Gruppo Editoriale srl, via Luxemburg 4, Città di Castello (PG) Angelica Editore srl Via Municipale 43 – 07040 Tissi (SS) Telefono e fax: 079.3889038 [email protected] www.angelicaeditore.it I edizione: ottobre 2007 ISBN: 9 788878 960091 4

INDICE

Ringraziamenti Introduzione Il terrorismo Periodizzazione Prossimità (a): Tragedia all’italiana Prossimità (b): il modello edipico Il contesto del pentitismo La reintegrazione dell’alieno Il patrimonio del terrore Storie del presente Altri studi sull’argomento Il contenuto dei capitoli

Capitolo Primo Il cinema, i terrorismi, la memoria. Nati nella violenza Il cinema nazionale La Resistenza e l’iconografia

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alan o’leary - tragedia all’italiana

Terrorismi italiani I terrorismi e la memoria Gli anni di piombo Il testo sociale Tra storia e memoria

Capitolo Secondo Berlino, Hollywood, via Montalcini: tutti i luoghi di Moro. Moro a Berlino Il mito del rapimento Moro a Madrid Il capro espiatorio Dietro le quinte: Moro e la dietrologia La fuga di Moro Moro in America

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INDICE

Capitolo Terzo I generi del Terrore Tre fratelli e il genere In pieno fumetto: Bertolucci, il terrorismo e la commedia all’italiana Una realtà sfocata La tragedia di costume di Bertolucci La prossimità satirica Un’efficace obsolescenza? Il cinema e le stragi Lo “spettacolo” del terrore Il popolo I doveri e le modalità della memoria Storie interrotte La giustizia rinviata Lo strumento del genere Il sesso del terrore Filoni chiave “Una relazione centralmente sintomatica dei nostri tempi” Eros e Thanatos Women’s films? Terrorismo quotidiano L’amour fou del terrore Il terrorismo al femminile L’Italia del “post-terrorismo” Modalità efficaci

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alan o’leary - tragedia all’italiana

Capitolo Quarto Gli elettorati della memoria L’Italia dopo il terrorismo Commissioni per la verità? Riconciliazione e verità Le frontiere dell’Italia “Non se ne esce mai, dal passato” Il terrorista e l’Ulivo Impegno e sentimentalismo Definire l’impegno L’impegno come discorso nazionale La struttura dell’impegno L’elettorato engagè Numero tollerabile di morti Figli della politica Capitolo Quinto

Conclusioni: il fascino dei terrorismi

Filmografia Bibliografia

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RINGRAZIAMENTI

Questo studio è stato finanziato dall’Wolfson College di Cambridge, dall’Isaac Newton Trust, dal Cambridge European Trust, dal Trinity College di Dublino e dall’ Arts and Humanities Research Council del Regno Unito. Sono molte le persone che hanno facilitato la stesura di questo libro o che mi hanno aiutato a sviluppare le idee che vi sono contenute. Tra queste, vorrei ringraziare in particolare: Neil Archer, Ferzina Banaji, Elena Bellina, Francesco Caviglia, Leonardo Cecchini, Luciana D’Arcangeli, Adriana Duque-Hughes, Denis Flannery, Giulia Gentile, Patricia e Peter Glazebrook, Ruth Glynn, Robert Gordon, Patrick Hanafin, Max Henninger, Claire Honess, Ludmilla Jordanova, Giancarlo Lombardi, Kate MacNaughton, Isabelle McNeill, Carmine Mezzacappa, Mrs Beryl O’May, Catherine O’Rawe, Kelly Phelps, Julian Preece, Alicia Santovetti, Natalie Sheehan, Neelam Srivastava, Matthew Treherne, Chris Wagstaff, Emily Walch, Mary Wood, Laurence Wrenne e Paolo Zanotti. Portare a termine la stesura del libro non sarebbe stato possibile senza l’ospitalità di Gianni Caria e Lucia Angelica Salaris. Infine, i miei ringraziamenti speciali vanno a Reena Aggarwal, a Pierpaolo Antonello, a mia madre Marie O’Leary e a Zyg Bara ski per la sua pazienza e la sua guida.

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intr oduzione

Il “terrorismo” “Terrorismo” è un termine spinoso, ma è un argomento affascinante. Parte del suo fascino sta proprio nella controversa definizione del termine e nell’interrogativo su chi abbia facoltà di bollare un’azione o una persona come “terrorista”. Questa facoltà viene chiamata potere, e in qualunque lingua ci sono poche parole che siano altrettanto legate al potere (e al suo contrario) quanto lo è il termine “terrorismo”. È questa palese complicità con gli interessi del potere, presente nelle connotazioni peggiorative di “terrorismo”, che contamina qualsiasi uso accademico del termine, e ne rende sfuggente un impiego oggettivo come tema di ricerca. L’attributo “terrorista” implica sempre un giudizio negativo sui mezzi, e per estensione sui fini, degli individui o dei gruppi così descritti, per cui inevitabilmente la parola si porta dietro una zavorra retorica di sdegno morale.1 Ma chi ha il diritto, e il potere, di applicare una tale denominazione? L’entità che detiene questo potere solitamente sfrutta il termine per demonizzare gli antagonisti, fondendo allo stesso tempo i propri interessi con una norma morale che si suppone essere universale.2 Per un ricercatore utilizzare il termine “terrorismo” significa perciò rischiare di servire un programma politico che può risultare ripugnante e certamente demagogico. All’inizio della mia ricerca avevo del tutto evitato l’uso del termine, preferendo la goffa locuzione di “violenza con una motivazione politica” come descrizione, almeno apparentemente, più neutra. Speravo in questo modo, evitando le connotazioni pregiudizievoli del termine “terrorismo”, di ottenere un grado adeguato di oggettività e di distacco. Ogni volta, però, che ho presentato delle relazioni in conferenze in cui fosse contenuto il termine “terrorismo” nel titolo, ho parlato a sale piene di gente; l’espressione “violenza con una motivazione politica” si è rivelata meno attraente.3 Il terrorismo (da questo momento faccio a meno delle virgolette) sembra essere un tema dav11

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vero affascinante, e tale fascino lo subisco io stesso altrettanto quanto i miei lettori e i miei ascoltatori; fa parte del mio compito giustificare questa fascinazione comune, e il modo in cui essa ha influenzato anche più di trent’anni di cinema italiano. Tale fascino è reso ancora più intrigante dal fatto che il terrorismo non esiste. Questa affermazione può suonare grottesca dati gli avvenimenti degli ultimi anni, di cui gli attacchi dell’11 settembre spiccano come emblema spettacolare, anche se non rappresentativo. Tuttavia il terrorismo continua a essere una chimera; il fatto che la comunità internazionale non sia riuscita a concordare una singola definizione dà il via libera a una situazione in cui certe forme di violenza o, più comunemente, certi autori di violenza vengono giudicati illegittimi dalle autorità preposte, etichettati come terroristi e quindi colpiti da anatema.4 In tale situazione si è verificata una tendenza alla proliferazione delle definizioni strumentalizzate del termine. Gli autori di una pubblicazione datata ma autorevole elencano non meno di trentacinque “recenti definizioni governative e accademiche”;5 possiamo supporre che nei due decenni trascorsi dall’uscita del libro il loro numero si sia moltiplicato. Di fatto non c’è una definizione di terrorismo che sia soddisfacente, cioè una che sia allo stesso tempo precisa e comunemente accettata.6 Perfino le definizioni normative tendono a essere volutamente vaghe, e rivelano così in che misura sono formulate come strumento di sicurezza o di politica militare per l’entità preposta, facilitando la demonizzazione dell’antagonista del momento. Il problema, in ultima analisi, non è che chi perseguita qualcuno lo fa per la libertà di qualcun altro, secondo quanto suggerisce un frettoloso clichè; e non sta nemmeno nel semplice fatto che la parola terrorismo sia stata resa irrimediabilmente vaga dall’uso promiscuo che se n’è fatto nei notiziari e nella retorica politica. È semmai che dare del terrorista a qualcuno equivale a dare a qualcuno del nazionalista o del buddista: sottintende che la creazione del terrore sia qualcosa che gli autori vogliono al livello emotivo o irrazionale come fine a se stesso, quasi che il terrore potesse essere oggetto di fede allo stesso modo in cui può esserlo una nazione o una divinità. Ma il terrorismo non è né una fede né un’ideologia; è semmai un mezzo di comunicazione brutale, una tattica o una strategia al servizio di un’ideologia o di obiettivi politici o militari.7 E sebbene venga considerato per convenzione tipico di piccoli gruppi armati, è importante ricordare che il terrorismo è anche un’arma presente nell’arsenale delle strategie di uno stato ambizioso o frustrato.

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INTRODUZIONE

Non è comunque mia intenzione correggere i comuni pregiudizi sulla natura del terrorismo, né, sebbene più avanti descriva le varie forme di terrorismo in Italia, intendo chiarire in modo definitivo la violenza terroristica in Italia o in altro luogo. Questo non è un libro di storia. Non mi occupo di studiare i fatti o gli eventi, ma semmai la percezione e la memoria di tali eventi, così come sono codificate nel mezzo espressivo che è il film. Sarebbe perciò fuori luogo, in questa introduzione, stabilire una definizione di terrorismo o di terrorista per poi vedere fino a che punto i personaggi o gli eventi rappresentati in un singolo film corrispondano alla descrizione formulata. Dopo tutto, qui il tema non è la mia interpretazione normativa del terrorismo, né quella della comunità dei ricercatori, ma semmai un insieme più dispersivo o nebuloso di percezioni che entrano in gioco, sempre soggette a cambiamenti, nella cultura italiana in senso più ampio. Per questo motivo i termini terrorismo e terrorista in questo studio sono sempre usati in modo provvisorio, e le loro connotazioni mutano di volta in volta, così che le denotazioni rimangono sempre sospese. Tuttavia non è pensabile segnalare questa contingenza mettendo tra virgolette ogni uso dei due termini che si trova in questo libro; vorrei comunque chiedere al lettore di accostarsi ai termini come se davvero fossero sempre isolati da virgolette invisibili. Il corpus dei film trattati in questo studio può essere suddiviso a seconda del modo in cui ciascuno rappresenta la violenza degli anni di piombo. Possiamo identificare una prima categoria in cui la violenza politica è rappresentata esplicitamente o la sua eredità è trattata esplicitamente. Colpire al cuore (Gianni Amelio, 1982) rientra nel primo tipo; La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1996) è un esempio del secondo. Non bisognerebbe presupporre, comunque, che la violenza politica sia il tema centrale di tutti i film. A volte, come in Caro Michele (Mario Monicelli, 1976), tratto dal romanzo di Natalia Ginzburg, è presente come parte del ritratto più ampio del periodo e del destino della famiglia. Potremmo ulteriormente suddividere la prima categoria fra quei film che descrivono la violenza di sinistra (ancora una volta Colpire al cuore), quelli che parlano dello Stato (Cadaveri eccellenti, Francesco Rosi, 1976) e quelli che descrivono la violenza della destra tramite le stragi, oltre alla complicità dello Stato in quegli attentati (Le mani forti, Franco Bernini, 1997). Ci sono poi quei film che descrivono gli eventi reali; ad esempio, i film sul sequestro Moro, compresi Il caso Moro (Giuseppe Ferrara, 1986) e Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003). Una seconda categoria è costituita da quei film che rappresentano il terro13

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rismo degli anni di piombo in modo implicito. Questo accade in maniera allegorica in un film come Prova d’orchestra (Federico Fellini, 1979) o, calandosi in un contesto diverso, come in Ogro (Gillo Pontecorvo, 1979), che – sebbene parli della pianificazione di un sequestro e di un assassinio da parte di attivisti baschi nella Madrid falangista – può essere letto come un riferimento alla situazione italiana (ancora una volta, al sequestro Moro). Può verificarsi anche in film di genere come il giallo, in cui la paura della polizia o del potere dello Stato e della sua complicità con forme di criminalità politicizzata vengono riciclate in film di evasione “per un pubblico maschile” (La polizia ringrazia, Stefano Vanzina, 1972).

Periodizzazione Vorrei proporre ora una suddivisione cronologica degli oltre tre decenni di filmografia italiana sugli anni di piombo. Il corpus essenziale dei film presi in esame in questo studio può essere diviso in quattro gruppi, ciascuno dei quali corrisponde a un periodo diverso della storia recente del terrorismo in Italia (i film trattati in ciascuna sezione sono intesi come una scelta rappresentativa piuttosto che come un elenco esaustivo). Prossimità (a): Tragedia all’italiana Per gran parte degli anni ’70, sono le convenzioni della commedia all’italiana e del poliziesco a essere usate in prevalenza per rappresentare, in modo sarcastico ma diretto, la crescente disgregazione sociale e gli sconvolgimenti politici degli anni di piombo. Secondo Pergolari (2007: 160), “tutto il surplus di mistero che circonda la strategia della tensione sembra essere inserito perfettamente nel quadro di un genere codificato come poliziesco”, e descrive La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972) come “una fotografia autentica del clima di paranoia dell’epoca”. La commedia all’italiana risale agli anni ’50, e la domanda da porsi deve essere fino a che punto le sue modalità tipiche, considerando anche la sua capacità ampiamente provata di rispondere a preoccupazioni contemporanee, siano adeguate alla rappresentazione del periodo del terrorismo (Brunetta 1982: 509; Sorlin 1996: 123). Possiamo semplicemente notare che film come Mordi e fuggi (1973), Un borghese piccolo piccolo (1977), I nuovi mostri (1977) e Caro papà (1979) costituiscono parte delle opere di registi (rispettivamente Dino Risi, Mario Monicelli, Monicelli/Risi/Scola e Dino Ri14

INTRODUZIONE

si) e sceneggiatori (Sergio Amidei, Agenore Incrocci [Age], Ruggero Maccari, Giuseppe Moccia, Bernardino Zapponi) per lungo tempo associati alla commedia all’italiana. I personaggi di questi film sono, così come i loro registi, parte di una discendenza legata alla commedia, familiare alla maggioranza degli spettatori italiani. Così, Alberto Sordi nel ruolo dell’attempato aguzzino in Un borghese piccolo piccolo di Monicelli non solo fa riferimento al personaggio tipicamente opportunista alla Sordi, ma è direttamente tratto dalle file degli orrori umani (gli avidi mostri del boom economico) ritratti in I mostri di Risi del 1963.8 I terroristi sono figure marginali nella maggior parte di queste storie, come se l’origine della crescente violenza diffusa andasse trovata altrove. Come tali, queste storie sono parte di una più ampia denuncia satirica della società italiana e dell’apparato dello Stato italiano visibile in film come Vogliamo i colonnelli dello stesso Monicelli (una sorta di seguito farsesco di Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras, l’importante film d’essai del 1969 sugli eventi che portarono al colpo di stato militare in Grecia, con la sceneggiatura di Franco Solinas) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), diretto da Elio Petri. È stato un filone apprezzato tutt’altro che universalmente; un commentatore sfavorevole, Paolo Pillitteri (1997), parla de: i temi, i film, gli autori che hanno contribuito a rendere più spessa la caligine intorno a fenomeni gravissimi come il terrorismo e che hanno cercato di rovesciare il ragionamento logico […] – secondo cui la violenza non paga mai e il sistema migliore è comunque quello democratico occidentale – per instaurare una “Weltanschauung” a base di disprezzo della democrazia, odio per il nostro sistema, guerra al potere dominante, denunce di complotti o di golpe, descrizione di inestricabili quanto improbabili delitti di stato.

Secondo Pillitteri, il cinema satirico degli anni ’70 era un protagonista antidemocratico e maligno che alimentava il motore della lotta armata. Qualunque sia la validità della sua tesi per buona parte degli anni ’70, gli avvenimenti della primavera del 1978 cambiarono il tenore della lotta armata e qualunque atmosfera di simpatia che aveva potuto sostenerla. Prossimità (b): il modello edipico Gli eventi che separano il primo gruppo di film dal secondo sono quelli legati al sequestro Moro. Fu un’azione che privò i gruppi armati della sinistra di un’area significativa di supporto passivo o attivo, quel “denso brodo di coltu15

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ra”, secondo le parole di Silvio Lanaro (1992: 415), che lo aveva sostenuto prima.9 Dopo Moro il sorriso sarcastico della commedia all’italiana si contorce in una smorfia. La prossimità alla crescente gravità degli eventi tra il 1979 e il 1982 sembra incoraggiare interpretazioni psicanalitiche dei film girati in quel periodo, i quali tutti rappresentano gli anni di piombo in termini di conflitto edipico. Caro papà, La tragedia di un uomo ridicolo e Colpire al cuore rientrano tutti in questo modello, come anche l’allegorico Prova d’orchestra, in cui il desiderio rivoluzionario è reso con la voglia infantile di sostituirsi al padre, mentre in Maledetti vi amerò (un film sulla disillusione della sinistra dopo Moro) il padre assente dell’ex attivista Svitòl è sostituito da un poliziotto burbero ma bendisposto, che alla fine uccide Svitòl con un’inversione del mito.10 Questa caratterizzazione edipica può ben essere un’utile chiave di lettura delle origini del terrorismo italiano. Potrebbe essere, in altre parole, un modo di codificare la percezione che ci sia stato un blocco generazionale e che un’inamovibile gerontocrazia detenesse il monopolio del potere.11 D’altro canto, può essere semplicemente un sintomo di ciò che Sorlin (1996:136) chiama la “moda” di Freud nel cinema italiano. Angela Dalle Vacche (1992:15) colloca nel contesto degli sconvolgimenti del Sessantotto l’uso del mito edipico nel cinema italiano: nei film realizzati durante e dopo il maggio del 1968 l’unità tra le regioni e le classi si tramutò in disunità, e la continuità in discontinuità, con una generazione che contestava l’eredità di quella precedente. Poiché, sulla scia dello storicismo di Vico e sotto l’influenza del pensiero cattolico, supponevano che il passato fosse il padre, e che il corpo politico dell’Italia fosse maschio, gli autori dei film traducevano questa messa in discussione del passato nella trama del mito edipico.

Potremmo situare l’interpretazione psicanalitica in relazione alla prossimità di questi film con gli eventi che ritraggono. Renzo De Felice (1977: 160), scrivendo a proposito della storiografia e del Ventennio fascista, ha affermato che la vicinanza nel tempo conduce esattamente ad atti di “interpretazione-caratterizzazione” posti in termini che privilegiano l’aspetto psicologico piuttosto che lo sforzo della ricostruzione storica delle cause. Possiamo quindi dire che film come Caro papà e La tragedia di un uomo ridicolo sono esemplificativi non semplicemente di un approccio da luogo comune nel cinema italiano, perlomeno secondo quanto afferma la Dalle Vacche, ma della loro collocazione storica e del loro rapportarsi agli eventi storici che rappresentano.12 Un’altra ragione della prevalenza della struttura edipica potrebbe essere ricercata 16

INTRODUZIONE

nell’attrazione esercitata dalla dimensione mitologica della storia piuttosto che da quella freudiana. L’uso della configurazione edipica in un film sul terrorismo sarebbe potuto essere un modo per generalizzare i conflitti descritti; un tentativo di identificare un archetipo dietro a una violenza che altrimenti sembrava molto radicata nella storia. Si potrebbe persino sostenere che il ricorso al mito sia una sorta di evasione e che sia sintomatico di un’incapacità di spiegare in modo corretto gli eventi traumatici. Tuttavia, dovremmo ricordare che la configurazione figlio/padre (o figura paterna) è un aspetto presente da tempo nel cinema italiano, e si trova spesso in quei film che si costruiscono come un intervento nella vita della nazione: si potrebbe pensare a Vecchia guardia di Alessandro Blasetti (1934), o a Ladri di biciclette di De Sica (1948). Considerato come parte di questa tradizione, è chiaro che l’uso del modello edipico, se interpretato in termini mitici o freudiani, era un mezzo per rappresentare il conflitto piuttosto che l’armonia al centro della nazione, e un indice di una società decisamente fuori asse. Vale la pena ricordare un’eccezione importante allo schema edipico, Tre fratelli di Francesco Rosi del 1981, anche se, ancora una volta, si occupa dei problemi del terrorismo in un contesto familiare. Il film di Rosi può essere descritto in termini bakhtiniani piuttosto che freudiani o persino in termini marxiani, ed è costruito come un forum dialogico (anziché dialettico) e non secondo schemi narrativi aristotelici. Nella sua forma di forum di discorsi antitetici che non raggiungono una sintesi esso anticipa film successivi come La seconda volta. Tre fratelli, d’altro canto, collega questi film al cinema neorealista dell’immediato Dopoguerra per le sue allusioni specifiche a Paisà di Rossellini. Allo stesso tempo, esso anticipa anche film come La meglio gioventù, Piazza delle Cinque Lune e Romanzo criminale che, ugualmente, utilizzano immagini incantevoli dell’Italia che “devono altrettanto all’iconografia della pubblicità, del turismo e dell’industria del patrimonio artistico quanto all’eredità del neorealismo” (Wood 2005: 198). Il contesto del pentitismo Il terzo gruppo di film risale alla metà degli anni ’80, un tempo in cui lo Stato italiano era più o meno riuscito a reprimere l’attività terroristica di sinistra. Il periodo appena trascorso, i primi anni ’80, aveva visto lo spettacolo del pentitismo, quando i terroristi in carcere confessavano i loro crimini e davano informazioni sui loro compagni in cambio di pene detentive ridotte. I film di questo gruppo cercano di ritrarre l’atmosfera morale che circondava il pentiti17

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smo. Questo ritratto è ambivalente nel suo atteggiamento verso i terroristi all’epoca in carcere in quanto, se da un lato li accusa di infantilismo per aver intrapreso la lotta armata, dall’altro non mostra alcuna simpatia per il fatto che accettano lo zuccherino offerto dallo Stato, con pentimento e pronta scarcerazione. In Segreti segreti, la figura del terrorista è impersonata da una bambina viziata che gioca con la rivoluzione (ricordandoci la gioventù rivoluzionaria in scritti come la nota poesia di Pasolini Il Pci ai giovani). Quando viene presa si sottopone immediatamente a interrogatorio con una poliziotta e spiattella tutto ciò che sa sui suoi “bravi compagni”. Diavolo in corpo (Marco Bellocchio, 1986) racconta la storia dell’intensa relazione di uno studente di liceo con una giovane, il cui padre, un colonnello dei Carabinieri, è stato ucciso dai terroristi, ma che ciò nonostante ha deciso di sposare un pentito. Simbolicamente, il terrorista dovrebbe prendere il posto del padre ucciso: la deviazione verso la lotta armata ha solo ritardato l’assunzione da parte del terrorista del ruolo di patriarca, proprio come la socializzazione si raggiunge, come ci dice Freud, attraverso il superamento del complesso di Edipo. Con questa relazione, però, la giovane rifiuta implicitamente sia il padre che il marito, un rifiuto che nel film si traduce in un rifiuto della società e della famiglia, e di ciò che è politico in quanto tale: la scena finale (tra l’altro, ancora un “interrogatorio”, questa volta il colloquio orale di maturità dell’amante della giovane) invoca ideologie, cristiane e comuniste, per deriderle: -

Questa sua serietà, mi pare che attenga, ideologicamente anche, a certi giovani, per esempio di Comunione e Liberazione, è il suo caso? - No, non sono di Comunione e Liberazione. - Si è offeso? - No, affatto. - Non so… pacifista? [No.] Ecologista? [No.] Ha paura della bomba? - No, non in particolare. - Marxista? - No, mi dispiace. - Pazienza, si può anche sopravvivere senza essere marxisti. [dialogo trascritto dal film]

Questo rifiuto dell’ideologia è messo in evidenza anche in un altro film che risulta anomalo nei termini dello schema che sto proponendo. Il caso Moro, un docu-drama che racconta il sequestro e l’uccisione di Moro, riporta indietro alla tradizione del film-inchiesta cui appartengono Salvatore Giuliano e, 18

INTRODUZIONE

come suggerisce il titolo, Il caso Mattei (entrambi film di Rosi, il primo del 1962 e il secondo del 1972). Il caso Moro, però, è fondamentalmente una tragedia “umana”, con una virtuosistica interpretazione del ruolo centrale da parte di Gian Maria Volonté nei panni della vittima sacrificale. La reintegrazione dell’alieno Con i film del quarto gruppo facciamo un balzo di una decina d’anni: si tratta di film realizzati a partire dalla metà degli anni ’90. Il problema chiave per questo gruppo è quello dell’esilio letterale e figurato, e la reintegrazione (o la sua impossibilità) dell’ex terrorista nel corpo della nazione. Come scrive Beverly Allen (1997: 64): le frontiere geopolitiche dell’Italia letteraria negli anni di piombo hanno varie caratteristiche determinate da considerazioni politiche. Ad esempio, l’esilio di fatto, anche se indiretto, da parte dello Stato, di Antonio Negri.13

Di fatto lo Stato ha esiliato molti altri di entrambe le “parti”, con concessione della grazia, passaporti puliti e biglietti per la Svizzera nel caso dei pentiti, o con lunghe detenzioni negli altri casi. Proliferarono le frontiere del corpo politico. Alcune coincidevano con la cartina d’Italia; altre erano le strade di Parigi; altre ancora erano le mura di Rebibbia e di altre carceri speciali. In Vite in sospeso (Marco Turco, 1998), i terroristi subiscono un esilio in senso letterale a Parigi, dove si incontrano gli uni negli appartamenti degli altri a fare il tifo per la nazionale italiana. In La mia generazione, l’esilio del protagonista è rappresentato dalla collocazione remota del carcere siciliano. Il film è un road movie che racconta il lungo viaggio dall’isola alle grandi città del nord, ma alla fine è chiaro che il terrorista sarà restituito al suo esilio interno nel lontano sud. L’esilio del terrorista è analogamente interno in La seconda volta, dove si lascia intendere che il carcere alla periferia di Torino è oltre i confini metaforici dell’Italia: la prigioniera vive in esilio oltre il corpo della nazione, esclusa dallo Stato ma ancora soggetta alle sue leggi. Anche il terrorista di destra, benché sia stato forse un giorno al servizio dello Stato, deve affrontare la reintegrazione. In Le mani forti, l’agente dei servizi segreti coinvolto nell’attentato di Piazza della Loggia si trova in esilio da se stesso, oltre che dalla nazione, e va dallo psichiatra perché lo aiuti a fare i conti col suo passato.

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Un tema della critica sui film presi in esame in questo studio è la relativa assenza di ritratti cinematografici del terrorismo (vedi ad esempio Fittante 1996, Mauro 1996). Di fatto, Giuseppe Bertolucci ha commentato a proposito del suo Segreti segreti che è “conosciuto per essere uno dei pochissimi film sul terrorismo realizzati in Italia” (in Giraldi 2000: 11). Tuttavia, uno sguardo alla filmografia presente in questo libro dimostra che le fonti che parlano della sotto-rappresentazione cinematografica del terrore sono state eccessivamente enfatizzate14. Di fatto, arrivati agli anni ’90 e a questo gruppo di film possiamo parlare, se non proprio di un genere o di una tradizione filmica sul tema, perlomeno di un gruppo di filoni per i quali esistono persino dei testi chiave (parecchi dei film del quarto gruppo alludono a Colpire al cuore). Comunque, il tema-chiave dell’esilio suggerisce che i film del quarto gruppo siano costretti ad affrontare rappresentazioni del terrorismo e del terrorista in altri media. La rappresentazione del terrorista come “altro” è un processo a lungo attestato nel discorso politico e nell’informazione. Gli autori dei film di questo quarto gruppo, politicamente interessati alla reintegrazione del terrorista nel corpo della nazione italiana, sono perciò costretti ad affrontare un forte impulso contrario che emerge o che ha sede altrove. Le rappresentazioni dei mass media costituiscono, dunque, ineluttabilmente sia il tema che l’interlocutore per tutti questi film. Non ce n’è neanche uno che non si allinei all’immagine televisiva o giornalistica e, cosa più importante, ognuno deve misurare la propria rappresentazione di persone ed eventi con la versione imperante che emerge dalla stampa e dal piccolo schermo. Parlando del suo Segreti segreti del 1985, già Giuseppe Bertolucci aveva evidenziato: [la] impraticabilità – sul piano della finzione – di un soggetto totalmente inflazionato dal meccanismo infernale dei media: per alcuni anni infatti gli episodi di terrorismo hanno ininterrottamente occupato (come una interminabile telenovela) tutte le prime pagine di giornali e telegiornali. Quella realtà, ossessivamente “mostrata” nel suo tragico evolversi quotidiano era – in qualche modo – impresentabile. Immaginare un film sul terrorismo era altrettanto difficile che immaginare una partita di calcio (Giraldi 2000: 11).

Ma se la versione del terrorismo perpetuata dai giornali e dalla televisione deve essere evitata o respinta, accade anche che il film, nel periodo che stiamo analizzando, si trovò ad affidarsi sempre più alla televisione (e alle videocassette) come mezzo di diffusione, e gli autori dovettero perciò considerare l’idea di adottare mezzi formali compatibili con il piccolo schermo.15 Giuseppe Bertolucci, sopra, lascia intendere che le convenzioni, il palinsesto e persino i 20

INTRODUZIONE

generi della televisione avessero impiantato nel pensiero collettivo un’immagine fissa del terrore, dei suoi protagonisti e delle sue vittime. Da una prospettiva creativa, dice Bertolucci, l’ “immagine” del terrore era già stata definita e circoscritta (donde una certa, “necessaria” sostituzione della figura del terrorista nei film che abbiamo preso in considerazione) ma il correlativo politico di tutto questo non dovrebbe essere dimenticato: parlare di terrore nel linguaggio televisivo significa rischiare la riproduzione delle regole ideologiche che stanno alla base delle sue modalità. Il patrimonio del terrore Alcune correnti di studio del cinema e di critica culturale in generale, convinte della passività dello spettatore televisivo, sono state tradizionalmente intolleranti sull’estetica e sui generi televisivi; l’osservazione finale del paragrafo precedente potrebbe essere considerata tipica di quel pregiudizio.16 Critiche di questo genere, che biasimano le sue forme convenzionali e la lusinga sentimentalistica, sono state spesso espresse sulla mini-serie di sei ore La meglio gioventú, prodotta per la TV e (alla fine) trasmessa, ma che ha avuto anche un lancio di successo sul cinema internazionale. Il film è una saga familiare che si estende per trent’anni e che mette in scena un personaggio femminile che si unisce a un gruppo terroristico, trascorre molti anni in carcere e alla fine si riconcilia parzialmente con la famiglia attraverso la compassione della figlia. Una valutazione adeguata di questo film richiede criteri sofisticati che vadano incontro alle tipiche aspettative del pubblico dello sceneggiato televisivo. Essa non dovrebbe applicare criteri inappropriati di regola impiegati per valutare film realizzati per il cinema, o ricorrere a ciò che potremmo definire come modello del “capolavoro” che presuppone un testo filmico sigillato e autonomo. Un testo come La meglio gioventú è palesemente poroso e contingente nella qualità della sua ricezione; esso richiede quella ricezione per poter essere completo, e la natura della ricezione è parte del significato del film. Il lavoro di John Ellis, che ha cercato di descrivere il ruolo della TV nella società contemporanea, può essere di qualche aiuto per capire la funzione di un testo come La meglio gioventú. Ellis suggerisce che la metafora freudiana dell’“elaborazione” ci consente di spiegare le qualità specifiche dei format televisivi. La televisione, asserisce, mitiga il dolore degli eventi traumatici per un vasto pubblico con un’offerta ripetitiva ed esaustiva non solo nell’informazione, ma anche in generi come la soap opera, le cui trame fittizie inevitabilmente mettono in scena tematiche e preoccupazioni tratte dalla sfera pubblica contemporanea (Ellis 21

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2000: 102-129). Qualcosa del genere accade con La meglio gioventú, che ritrae la deviazione nella clandestinità terroristica di una madre per poter celebrare nel finale il rituale (ancora incompleto) del suo recupero all’interno della famiglia. Il film sta “elaborando” il trauma del terrorismo per conto dell’elettorato di sinistra a cui è rivolto. La meglio gioventú prosegue il lavoro incompleto di reintegrazione dell’alieno (che ora si riconosce essere in modo inquietante una figura appartenente alla famiglia) incominciato nei film descritti nel paragrafo precedente. L’estensione del racconto nega al personaggio della terrorista qualsiasi particolare preminenza, e tratteggia il suo destino come parte del ritratto familiare – proprio come Caro Michele aveva fatto trent’anni prima con quello del figlio militante. Si potrebbe dire persino che il terrorismo era diventato una parte necessaria anche se cupa di un’epopea nazionale in chiaroscuro, coerente nel fascino esercitato con le meravigliose immagini di apertura per ogni luogo del film, e che spaziano dalla vista del Foro Romano alle spettacolari inquadrature delle Eolie. Queste riprese consentono una visione di un’Italia pittoresca che rappresenta proprio quel patrimonio che il film sta lottando per conservare; paradossalmente, il terrorismo fa parte di questo patrimonio – un patrimonio infangato, certo, ma non privo del suo fascino. Sono le immagini a campo lungo di un Paese bellissimo ma in pericolo che uniscono un dramma per la TV come La meglio gioventú con un thriller per il cinema tecnicamente ambizioso come Piazza delle Cinque Lune (Renzo Martinelli, 2003), in cui è messo ugualmente in risalto l’aspetto visuale da cartolina. Questo film sul sequestro Moro è ambientato, in modo molto incongruente, a Siena; è un film sul “patrimonio infangato”, per analogia con film heritage inglesi come Elizabeth (Shekhar Kapur, 1998) che celebrano eroi nazionali e periodi mitizzati del passato inglese introducendo allo stesso tempo elementi cruenti presi da altri generi. Piazza delle Cinque Lune costruisce una teoria di cospirazione sul sequestro Moro sullo sfondo pittoresco del Palio, degli squisiti interni senesi e delle grandi distese di panorami toscani. Sembra si voglia suggerire che la fama dell’Italia per la sua corruzione e per la slealtà, simbolizzata dal sequestro Moro come il “mistero d’Italia” per eccellenza, sia ora addirittura un oggetto di desiderio turistico, e quindi un bene esportabile come i suoi bellissimi scenari e i suoi beni culturali.17 Piazza delle Cinque Lune fu girato venticinque anni dopo l’assassinio di Al22

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do Moro; la rappresentazione del terrorismo era a quel punto diventata oggetto di commemorazione e anniversari. Un altro film sul caso Moro, Buongiorno, notte, fu anch’esso dato agli schermi in occasione dell’anniversario. Nel film di Bellocchio, la memoria si spinge a diventare sogno quando il Moro che sappiamo essere morto cammina libero allontanandosi dalla “prigione del popolo”, appagando ironicamente una fantasia nazionale. Buongiorno, notte è un film che sa di essere arrivato tardi, e che con quella contrafattuale liberazione di Moro e l’inserimento di pezzi di altri film riconosce il proprio posto contingente (nel senso di non autorevole) nei filoni dei film sul terrorismo e nel discorso storico più ampio sugli anni di piombo (esso riprende, per metterla in discussione, la configurazione edipica che aveva caratterizzato i film precedenti). Con questo film si può dire anche che termini l’esilio simbolico del terrorista. Buongiorno, notte restituisce i figli terroristi erranti alla famiglia nazionale; di fatto, il film ritrae le persone che alloggiano nella prigione di Moro come un’unità familiare convenzionale italiana. Come commenta Bruno Fornara (2003: 6): basta [guardare i brigatisti] da vicino per vedere come siano anch’essi dentro il perimetro di un modo di pensare e di comportarsi che non li differenzia troppo dagli altri abitanti di questo paese. Sequestrano e uccidono, certo: ma comunque sono italiani fino in fondo.

Storie del presente Se l’ironica reintegrazione dei terroristi nella famiglia italiana in Buongiorno, notte suggerisce che la società italiana avesse finalmente deciso di chiudere con l’eredità degli anni di piombo, questa impressione è contraddetta in altri tre film più recenti sul terrorismo: Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), Arrivederci amore, ciao e Attacco allo stato (entrambi di Michele Soavi, 2006). Ognuno rappresenta un diverso elettorato con un proprio modo di sentire il terrorismo ed esprime una divisione culturale che potremmo definire, volendo, come una sorta di Guerra Civile simbolica tuttora in corso. Romanzo criminale, un gangster epic, parla per conto di coloro che sono frustrati dalla continua dissimulazione del grado di coinvolgimento dello Stato nelle atrocità degli anni di piombo. Esso assegna ai terroristi un ruolo marginale nella storia del terrorismo proprio come fa Piazza delle Cinque Lune, e per le stesse ragioni: per concentrare l’attenzione sulla colpevolezza dello Stato. Arrivederci amore, ciao e Attacco allo stato escludono entrambi ancora una volta il terrori23

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sta dalla famiglia nazionale: il giallo-horror Arrivederci amore, ciao dà voce a un senso di esasperazione che si suppone essere dominante per il fatto che molti dei protagonisti degli anni di piombo sono ormai stabilmente inseriti come parte del sistema. La mini-serie televisiva Attacco allo stato esprime l’idea secondo cui il terrorismo sarebbe un problema cronico di sicurezza, ed è l’equivalente audio-visivo del calendario ufficiale prodotto ogni anno dai Carabinieri; esso elabora (anche se nel contempo le rinforza) le ansie sul persistere del terrorismo. Tutti questi film recenti suggeriscono che gli anni di piombo, e il terrorismo stesso, restano una questione aperta.

Altri studi sull’argomento Il cinema ha svolto un ruolo preminente nell’esprimere l’impatto, tuttora in atto, degli anni di piombo e nell’individuazione dei vari modi in cui gli italiani hanno assimilato e ricordano gli eventi degli anni ’70. Come si è dimostrato nella parte precedente, quasi ogni anno che trascorre vede l’uscita di uno o più film che affrontano le atrocità e il trauma subiti dal Paese intorno agli anni ’70. Il particolare contributo reso dal cinema è stato riconosciuto da un numero sempre maggiore di critici: Paola Tavella, ad esempio, ha suggerito che i film che trattano degli anni di piombo “ci permettono di affrontare attraverso il cinema cose che non erano mai risolte in termini politici”.18 Mentre la ricerca accademica sugli anni di piombo ha dato origine a un’ampia gamma, seppure frammentaria, di interpretazioni e di valutazioni storiche (Panvini 2007: 1047), l’esplorazione delle rappresentazioni cinematografiche dell’esperienza italiana del terrorismo è stata fino a questi ultimi tempi limitata. La ricezione critica consiste soprattutto in un insieme sparso di recensioni di film e in una piccola quantità di articoli che trattano singoli testi (ad es. Lombardi 2000a; Orton 2000 – entrambi su La seconda volta), aspetti tematici (ad es. Bandirali e Terrone 2004; Cecchini 2005) o considerazioni di tipo tassonomico relative al corpus nel suo insieme (Fantoni Minella 2004; O’Leary 2005). Per quanto è di mia conoscenza, esistono due tesi di dottorato sul tema delle rappresentazioni della violenza con una motivazione politica in Italia (Henninger 2004; Tardi 2005), anche se entrambe limitano il loro campo di ricerca alle rappresentazioni della violenza di sinistra, ma analizzano anche la narrativa e la memorialistica e, nel caso di Tardi, il teatro, mentre Henninger prende in considerazione anche materiale tedesco. L’unico volume esistente interamente dedicato alle rappresentazioni cinematografiche degli anni di piombo è il recente Schermi 24

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di piombo di Christian Uva (2007), un lavoro validissimo che fornisce una panoramica molto completa del corpus nel saggio introduttivo scritto dallo stesso Uva (pp. 9-94), una serie di approfondimenti scritti da vari autori che trattano questioni relative ai generi e alla storiografia e alcune interviste a scrittori, autori di film ed ex terroristi. Nel mio studio ho tenuto conto, naturalmente, della bibliografia italiana disponibile, ma ho anche preso in attento esame una lunga serie di studi elaborati nell’ambito accademico anglosassone, in genere assolutamente sconosciuti in Italia, che testimoniano tra l’altro il grande interesse suscitato fuori da questo Paese dalle vicende politiche e dalla cultura dell’Italia repubblicana. Questa bibliografia non italiana è uno dei due aspetti che differenzia la presente pubblicazione dal libro di Uva; l’altro è l’analisi teoretico-storica, che permea lo studio nel suo insieme a partire da questa introduzione. Tale analisi dà origine alla forma della trattazione e al rilievo accordato ai singoli testi, così come determina il contenuto dei vari capitoli.19

Il contenuto dei capitoli Per chiarire il contesto della mia trattazione della rappresentazione del terrorismo nel cinema italiano, propongo nel primo capitolo una ridefinizione del concetto di cinema nazionale. Mi soffermo specialmente sul neorealismo e sui film sulla Resistenza (in particolare su Roma città aperta) e analizzo l’impronta lasciata sul cinema dei decenni successivi da questo violento capitolo della storia italiana e dalla sua rappresentazione sugli schermi nell’immediato Dopoguerra. Fornisco poi un breve studio dell’espressione “anni di piombo”, che ha origine dal titolo del film della tedesca Margarethe Von Trotta (1981), e della sua definizione cronologica. Dopo aver spiegato brevemente i concetti teorici che stanno alla base di tutta la mia trattazione, mi soffermo sulla stretta relazione tra storia e memoria, intesa principalmente come memoria collettiva, e sulla parte che il film può occupare all’interno di tale rapporto. In questo faccio particolare riferimento soprattutto alla commemorazione e all’elaborazione di episodi luttuosi come le stragi, e analizzo i problemi e i rischi, anche politici, legati alla commemorazione del terrorismo in genere. Il secondo capitolo contiene uno studio dei film che trattano della vicenda di Moro, e che conferma che il sequestro e l’assassinio costituirono l’episodio cruciale, perlomeno simbolicamente, degli anni di piombo. Si evidenzia anche come questo evento occupi uno spazio centrale nell’immaginario collettivo 25

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degli italiani. Dopo un preambolo che utilizza Kleinhoff Hotel per illustrare questi temi (il film fu girato prima del rapimento di Moro, ma vi fa riferimento nella versione doppiata in inglese del 1979), prendo in esame quei film che presentano il sequestro come un’esperienza “traumatica” per la sinistra italiana (Ogro, Gillo Pontecorvo, 1979, e Maledetti vi amerò, Marco Tullio Giordana, 1980); quelli che la presentano secondo le modalità del conspiracy film (Il caso Moro, Giuseppe Ferrara, 1986, e Piazza delle Cinque Lune, Renzo Martinelli, 2003) o che la commemorano in modi più ironici (Buongiorno, notte, Marco Bellocchio, 2003). Infine parlo di come la vicenda di Moro sia diventato un elemento disponibile per essere venduto fuori dall’Italia come patrimonio nazionale “infangato”, un’idea che nasce dall’uso del sequestro presente in L’anno del terrore (John Frankenheimer, 1991), e confermata dal recente Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), di cui si parla anche nella conclusione del libro. Il terzo capitolo analizza la questione del genere come strumento epistemologico utilizzato per capire il fenomeno del terrorismo, e all’interno di questo i vari filoni e modi di rivolgersi a un pubblico impiegati per rappresentare o rifrangere l’esperienza degli anni di piombo. Evidenzio la capacità della commedia all’italiana di affrontare gli effetti della violenza politica e del riconoscimento di questa capacità tributato da Bernardo Bertolucci con la sua scelta della cifra comica per il film sul terrorismo La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Prendendo come punto di partenza le idee di Guy Debord sullo “spettacolo”, analizzo poi due tentativi di commemorare le vittime delle stragi in Per non dimenticare (Massimo Martelli, 1992) e Le mani forti (Franco Bernini, 1997), tenendo presente quanto le esortazioni a ricordare debbano competere in un mercato della memoria. Successivamente indico i ruoli legati ai due sessi nella rappresentazione cinematografica e televisiva del terrorismo. Identifico in Ultimo tango a Parigi di Bertolucci il modello su cui si basa il filone dei film erotico-politici: Kleinhoff Hotel (Carlo Lizzani, 1977), Desideria: La vita interiore (Gianni Barcelloni, 1980), La caduta degli angeli ribelli (Marco Tullio Giordana, 1981) e Diavolo in corpo (Marco Bellocchio, 1986). Prendo in esame anche un filone che si sovrappone a quest’ultimo, e che associa il terrorismo alla donna come protagonista autrice di violenza (Segreti segreti, Giuseppe Bertolucci, 1984) o come vittima (Diavolo in corpo). Infine, presento una fiction televisiva stereotipica, Donne armate (Sergio Corbucci, 1991) come il primo film del “post-terrorismo”: un testo che tratta simbolicamente la donna con un passato da terrorista come meritevole della reintegrazione nella società e nella nazione. 26

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Nel quarto capitolo prendo in considerazione i film che tentano di negoziare l’eredità piuttosto che la realtà del terrorismo in Italia. Prendendo spunto da scrittori che hanno individuato nel cinema una funzione simile a quella che avrebbe potuto svolgere in Italia una commissione per la verità e la riconciliazione (Caviglia e Cecchini, prossima pubblicazione) riguardo agli anni di piombo, cerco di stabilire fino a che punto sia stato possibile costituire una memoria condivisibile di quegli anni in film come La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995), La mia generazione (Wilma Labate, 1996), Vite in sospeso (Marco Turco, 1998), I riconciliati, (Rosalia Piolizzi, 2001) e, infine, in La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003). Dedico buona parte di questo capitolo a un’analisi della tradizione dell’impegno nel cinema italiano, e allo spazio occupato da La meglio gioventù all’interno di questa tradizione, per stabilire fino a che punto la memoria del terrorismo è stata affrontata, o fino a che punto la sua assimilazione è contrastata per conto di un ampio elettorato interno alla sinistra. Nel quinto capitolo, la conclusione, analizzo due film più recenti, Romanzo criminale e Arrivederci amore, ciao (Michele Soavi, 2006), e la mini-serie televisiva Attacco allo stato (anche questa di Michele Soavi, 2006) allo scopo di individuare lo spazio occupato dal terrorismo nell’immaginario culturale dell’Italia contemporanea, e di porre ancora una volta le domande chiave riguardo ai generi, alla storia e alla memoria. Dietro alla satira, all’impegno e, occasionalmente, ai semplici interessi commerciali degli autori e dei produttori di questi film c’è la ricerca di una versione di un passato controverso e traumatico che possa essere condivisa o imposta, ma che finirà col prevalere. Se la fiction dei film può fornire una struttura valida per la comprensione di eventi storici, essa è anche sintomatica sia del suo tempo che di codici di rappresentazione o dello stesso mezzo – per quanto riguarda le elisioni, le omissioni e gli aspetti elusivi oltre che quelli che essa mette in evidenza. Il compito di questo studio è di individuare il meccanismo di tale dialettica nei singoli film e di suggerire in che misura le mie conclusioni possano essere utilizzate per generalizzare sulla memoria controversa degli anni di piombo. La mia ricerca sugli anni di piombo è necessariamente parziale, in quanto circoscritta allo studio dei film. È mia intenzione offrire un frammento dettagliato del ritratto più ampio della memoria storica italiana degli anni di piombo e del terrorismo, che di quel periodo fu un tratto così persistente.

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NOTE ALL’INTRODUZIONE

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Come fanno notare Schmid e Jongman (1988: 3), esiste una tacita percezione del terrorismo come “violenza che non approviamo”; secondo quanto afferma P. Taylor, l’uso del termine “è un giudizio valutativo di per sé” (citato in Thackrah 2004: 70). 2 Per un’analisi dell’importanza degli “enti preposti a definire” vedi Schmid e Jongman, 1988, pp. 26-27. R.F. Farnen (1990: 101) scrive sullo stesso tema: “Definendo il terrorismo, qualunque amministrazione è in grado di controllare e gestire il problema stesso, specialmente se i media ne ripropongono l’affermazione senza metterla in discussione e gli concedono una legittimazione come se si trattasse di un dramma sociale fuori dal comune rappresentato di fronte a un vastissimo pubblico. Sebbene il terrorismo sia più drammatico delle notizie sui reati quotidiani, entrambi assolvono a una funzione morale e ideologica che crea una solidità sociale. Oltre ad accettare le etichette poste dall’amministrazione, i media contribuiscono a bollare il terrorismo come un avvenimento estraneo, strano e maligno – un’anomalia priva di un contesto sociale e giudicata irrazionale secondo gli standard occidentali”. 3 Gli studiosi devono essere in ogni caso cauti con il temine “violenza”, solo apparentemente neutro. Raymond Williams, in Keywords, fa notare la natura tendenziosa della sua applicazione. La violenza, scrive, può avere un significato generale come “l’uso della forza fisica, che comprende anche l’uso a distanza di armi o bombe, ma dobbiamo poi aggiungere che il termine sembra destinato a usi ‘non autorizzati’: la violenza di un ‘terrorista’ ma non, a eccezione dei suoi oppositori, di un esercito, nel cui caso si preferisce ‘forza’ […] o l’analoga gamma faziosa di espressioni tra ‘mettere sotto controllo’ o ‘ristabilire l’ordine’, e ‘violenza della polizia’” (Williams 1988: 329). Ancora una volta ci troviamo a confrontarci con un termine comunemente recepito che si rivela, ad un esame più attento, espressione di prospettive tutt’altro che neutre.

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Ovviamente, esistono delle definizioni internazionali, in particolare quelle contenute nella Risoluzione dell’ONU n.1566 del 2004 e nella Convenzione Europea sulla Prevenzione del Terrorismo del 2005. Tuttavia, tutti gli studiosi autorevoli sono d’accordo nell’affermare che, come scrive Lord Carlile (2007: 47), “non c’è un’unica definizione di terrorismo che goda della piena approvazione internazionale”. 5 Schmid e Jongman (1988: 32f ). Farnen (1990: 104) lamenta che “durante gli anni ’80 avevamo il discutibile vantaggio di oltre 100 definizioni operative di terrorismo”. 6 La definizione cauta, seppure poco duttile, proposta da Schmid e Jongman (1988: 28) ha acquisito qualche credito nelle scienze sociali (vedi Engene 2004, cap. 1 “Definire il terrorismo”). La riporto qui per comodità del lettore, anche se, per ragioni spiegate nel testo, preferisco in ultima analisi lasciare irrisolto il problema della definizione: “Il terrorismo è un metodo di azione violenta ripetuta che induce ansia, usato da individui, gruppi, o agenti dello Stato (semiclandestini per ragioni idiosincratiche, criminali o politiche), mediante cui – a differenza dell’assassinio – i bersagli diretti della violenza non sono i bersagli principali. Le vittime umane dirette della violenza sono in genere scelte a caso (bersagli di opportunità) o in modo selettivo (bersagli rappresentativi o simbolici) tra una popolazione-bersaglio, e servono come generatori di messaggi. I processi di comunicazione basati sulla minaccia e sulla violenza tra terroristi (organizzazione), vittime (messe in pericolo) e bersagli principali sono usati per manipolare il bersaglio principale (il pubblico/i), trasformandolo in un bersaglio di terrore, un bersaglio di richieste o un bersaglio di attenzione, a seconda che si stia perseguendo principalmente l’intimidazione, la coercizione o la propaganda”. 7 L’affermazione secondo cui il terrorismo è un’ideologia è di solito espressa da coloro che hanno delle ragioni per liquidare i loro nemici come irrazionali, e quindi precludere qualunque argomentazione delle loro motivazioni o dei loro risentimenti. Ogni tentativo di spiegare le motivazioni o le strategie dei terroristi è quindi marchiato come apologia.

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Il personaggio di Sordi richiama specialmente il primo episodio del film più noto di Risi, in cui un padre interpretato da Ugo Tognazzi finisce in rovina per aver trasmesso a suo figlio il proprio cinico qualunquismo. 9 L’affermazione secondo cui il “processo” a Moro “divenne la tomba politica delle BR” (Rimanelli 1998: 248) è un luogo comune accademico. 10 Il disilluso protagonista è attratto, di fatto, da due figure paterne, il poliziotto e un vecchio partigiano. Si esaspera poi con quest’ultimo ed esplode durante uno degli interminabili racconti di storie della Resistenza del vecchio: un rifiuto emblematico. 11 L’esistenza di un blocco generazionale fu attribuita come motivazione all’inizio della lotta armata da Renato Curcio (Curcio e Scialoja 1993: 212). 12 Il produttore Renzo Rossellini ha sottolineato: “È bene promuovere i film sul terrorismo. Ritengo però che gli autori si invischino poco e poco volentieri in questo tema perché appartiene a una storia troppo vicina e troppo legata al nostro oggi per potere essere orchestrata per il cinema con vera cognizione, col debito distacco e quindi la giusta analisi” (in Faldini e Fofi 1984: 280). 13 Toni Negri era stato tra le persone arrestate e incarcerate il 7 aprile 1979, quando furono mandate in cella o costrette all’esilio vaste aree dell’estrema sinistra. Si affermò che Autonomia Operaia e le BR fossero la stessa organizzazione, e che Negri e altri “cattivi maestri” fossero i teorici dietro alla prassi terroristica. Quando fu eletto deputato per il Partito Radicale, Negri ottenne l’immunità parlamentare e si rifugiò in Francia. La Allen ne parla per via di un articolo da lui scritto come parte dello stesso volume in cui appare il suo studio (Allen e Russo 1997). 14 Vedi anche il saggio introduttivo in Uva (2007: 13-94) per un’indicazione della grande quantità di film dedicati all’argomento. 15 Secondo Pierre Sorlin (1996: 150), la televisione ha influenzato sempre di più i registi italiani, perlomeno in termini formali, in quattro modi principali: la preminenza delle parole sulle immagini, l’insistenza sui primi piani, la

scelta di colori chiari e l’impiego di uno stile di ripresa da reportage. In effetti, queste caratteristiche si riscontrano in maniera più estesa nei film degli anni ’90 che stiamo prendendo in esame in questo libro: sono quasi tutti drammi intimistici sovraccarichi di dialogo, persino minimalisti (vedi anche Wagstaff 1996: 229). Vedi, comunque, lo studio di Mary Wood (2005: 182201) sulla tradizione haptic (termine di recente coniazione che si riferisce alla sfera della percezione tattile integrata con gli altri sensi) e iperbolica dello spettacolo visuale nel cinema italiano (un fenomeno che ha bisogno del grande schermo per ottenere il suo effetto), che la Wood indica essere proseguito fino agli anni recenti, e che è certamente presente in film come Piazza delle Cinque Lune (Renzo Martinelli, 2003) e Romanzo criminale (Michele Placido, 2005). 16 Vedi ad esempio il commento della Marcus sulla deregulation nella televisione italiana, in cui parla di una “scorpacciata televisiva, con la nazione che si abbuffava in una dieta indiscriminata di qualunque offerta disponibile”. Per la Marcus, la deregulation e la conseguente importazione di spettacoli e format dall’estero creò una cultura televisiva che era “banale e artificiale”, da vedere in contrasto con una più autentica tradizione cinematografica locale. 17 Il fatto che questo tainted heritage italiano sia riconosciuto come genere internazionale è provato da libri come Midnight in Sicily di Peter Robb (1998), che alterna omicidi di mafia a panegirici della vita nel sud Italia, e The Dark Heart of Italy di Tobias Jones (2003), che inserisce racconti di terrorismo di destra, isterismo religioso, TV spazzatura e corruzione nel calcio di serie A in mezzo a piacevoli scorci della dolce vita dell’autore in una città della provincia emiliana. 18 Tavella è citata da Renato Venturelli, “Intervista a Paola Tavella, coautrice di Il prigioniero”, reperita su: http://www.feltrinelli.it/IntervistaInterna?id_int=1193 (accesso del 1° Settembre 2005). 19 Il rischio che si corre trattando un corpus così vasto come quello preso in considerazione in questo libro è che la trattazione diventi una raccolta di recensioni; ho cercato di

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evitarlo raggruppando i testi secondo sezioni tematiche, facilitando così un’analisi che fosse allo stesso tempo sincronica e diacronica, sebbene questo abbia comportato anche de-

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dicare inevitabilmente meno spazio a certi film che potrebbero essere considerati significativi (ad esempio, Prova d’orchestra o Colpire al cuore).

CAPITOLO PRIMO

Il cinem a, i terr orismi, l a memoria

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Nati nella violenza Succede spesso di ritrovarsi a riflettere sull’apparente paradosso secondo cui alcune nazioni democratiche alimentano la violenza terroristica, il che significa però dimenticare ciò che Terry Eagleton e ogni buon dizionario ci ricordano: “Il terrorismo e il moderno Stato democratico erano gemellati sin dalla nascita” nella forma del Terrore di Stato praticato dai rivoluzionari francesi (Eagleton 2005: 1). Si è perciò affermato che il terrorismo è intrinseco all’apparato della democrazia, ed è certamente vero che tutte le nazioni, compresa l’Italia, sono nate nella violenza. Eppure, per nazioni che si costruiscono come stati democratici questo fatto può risultare imbarazzante: dopo tutto la democrazia è concepita per esprimere la volontà del popolo, ma la delimitazione dello stato-nazione implica la soppressione della resistenza interna altrettanto quanto la liberazione dallo straniero. Nel caso dell’Italia la violenza viene negata identificandola con eroi dalla portata enorme come Garibaldi, il cui ruolo nella formazione dello Stato fu in realtà marginale, e la cui celebrazione maschera la ben riuscita imposizione dell’egemonia di classe da parte della borghesia piemontese e dei grossi proprietari terrieri (per seguire l’interpretazione gramsciana del Risorgimento). La violenza alla base della nazione è dunque qualcosa da ricordare in modo fuorviante e, infine, da dimenticare. Come scrive Terry Eagleton: all’origine di ogni nazione troviamo ribellione e usurpazione; è soltanto il tempo a “riconciliare gli uomini con una data autorità, e a far sembrare la cosa come giusta e ragionevole”. La legittimità politica, cioè, si fonda su una memoria labile e su una sensibilità attenuata, poiché ci affezioniamo ai crimini come fossero vecchi amici.

La legittimità rappresentativa della nazione democratica si basa su una repressione della violenza che ha assistito alla sua nascita; ma sta nella natura di 33

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ciò che viene represso la scomoda tendenza a ripresentarsi. Secondo Eagleton (2005: 60) “gli effetti traumatici del reprimere una violenza che all’origine era rivoluzionaria non potranno mai essere cancellati completamente; al contrario, essi si manifesteranno ancora di tanto in tanto in forma di nevrosi sociale o di terrore politico”. Jan Oskar Engene (2004) ha affermato che la presenza del terrorismo è strettamente legata ai problemi di legittimità vissuti da uno Stato; potremmo generalizzare quest’affermazione e suggerire che sia pressoché inevitabile che il terrorismo debba emergere in nazioni democratiche, costruite come sono su una presa del potere che da una certa prospettiva non può non apparire illegittima. Contrariamente ai miti di cui si nutrono, le nazioni non esistono da tempi immemorabili; sono costruzioni politiche piuttosto che realtà geografiche o persino culturali. Benedict Anderson (1991: 5-6) ha proposto un’autorevole definizione di nazione come “una comunità politica immaginata […] immaginata perchè nemmeno i membri della più piccola nazione conosceranno mai la maggior parte degli altri membri, non li incontreranno né probabilmente sentiranno nemmeno parlare di loro, e ciò nonostante nella mente di ciascuno è viva l’immagine della loro comunione”. John Dickie (1996: 22) riassume la definizione di Anderson descrivendo la nazione come una finzione sociale o una mappa concettuale che aiuta a dare un senso al mondo; Dickie suggerisce anche quattro meccanismi secondo i quali la comunione politica della nazione può essere immaginata: i racconti (storie che narrano le “inevitabilità” della nazione alla nazione stessa); i simboli (la bandiera, alcuni elementi della cucina, i monumenti e così via); gli spazi geografici (i limiti territoriali della nazione – a volte ovvi, come nel caso di un’isola, ma quasi sempre contestati da elementi esterni o interni); le esclusioni (la nazione si definisce sulla base di coloro che ne restano fuori fisicamente o anche simbolicamente). Il cinema, come la nazione, è un’invenzione moderna. Se le nazioni sono sempre nate nella violenza, il cinema è sempre venuto alla luce dentro la nazione, e ha manifestato sin dai suoi primi anni un’attrazione sia per la nazionalità che per la violenza. Dickie (1996: 24) osserva che “i singoli documenti culturali come i film possono dirci molto su ciò che l’essere una nazione comporta”. Questo perchè vengono utilizzati per immaginare la nazione secondo i meccanismi sopra riassunti. Se anche mettiamo da parte quei film che raccontano deliberatamente la storia della nascita di una nazione (basti pensare al film muto americano che ha proprio il titolo di Nascita di una nazione, o a 1860 di Blasetti), molti film realizzati nell’ambito di un “cinema nazionale” 34

IL CINEMA, I TERRORISMI E LA MEMORIA

possono essere letti allegoricamente come qualcosa che si applica alla nazione nella sua totalità, o forse trattano un problema cruciale nazionale; ad esempio, le conseguenze della guerra o del terrorismo. Qualsiasi film può contenere i simboli della nazione – come la bandiera nazionale o, ad esempio, il Colosseo (si veda la bandiera italiana sovraimpressa sul paesaggio sardo in Padre padrone di Taviani, o le inquadrature da cartolina in La meglio gioventú) – ma la maggior parte mostra di sicuro certi aspetti della vita che sono considerati tipici (e quindi simbolici) della cultura nazionale. Quasi tutti i film sono ambientati in un luogo preciso, e molti sono girati in esterni, mentre altri fanno il giro del paese (Paisá di Rossellini, 1945, o Il ladro di bambini di Gianni Amelio, 1992), offrendo così una visione geografica del territorio nazionale. È sorprendente quanto spesso un film stabilisca la nazionalità dei suoi protagonisti in relazione a uno straniero (oppure possa giocare ironicamente su questa situazione standard, come in Lamerica di Amelio), attivando così i meccanismi di esclusione essenziali alla costruzione della nazione. Se non vi è alcuna nazione, allora il cinema fa la sua parte nella costruzione e nel rafforzamento della comunità immaginata. Così facendo aiuta a sostenere la finzione sociale della nazione come comunione, indipendentemente dall’effettiva ineguaglianza e dallo sfruttamento che può prevalervi: la nazione, secondo Anderson (1991: 7), è concepita come “un cameratismo profondo e orizzontale”, una fraternità tra uguali in cui alcuni sono più uguali di altri. Per contro, il film può fare ricorso alla fiction sociale della fratellanza per consentire all’interno della nazione la critica della disuguaglianza – una delle procedure essenziali nel cinema d’impegno.

Il cinema nazionale Sopra ho utilizzato l’espressione “cinema nazionale”. Negli anni recenti gli studi sul cinema si sono mostrati tendenzialmente sospettosi verso l’idea di nazionalità di un film e verso la scrittura di storie del cinema nazionale, come questo libro (Vitali e Willemen 2006; Hjort e MacKenzie 2000). Le culture nazionali sono tradizionalmente servite come modo per demarcare aree accademiche di interesse e, perlomeno in Irlanda e in Gran Bretagna, gli studi sul cinema sono stati particolarmente battuti nei dipartimenti di lingue moderne delle università. Proprio come certi film possono, come sostiene Dickie, aiutare a immaginare una nazione, allo stesso modo i saggisti e gli editori hanno la loro parte nel conservare il nazionale come categoria descrittiva. 35

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Allo stesso tempo, la tradizione accademica e critica all’interno di una nazione come l’Italia investe nello stabilire e difendere le specificità di una presunta cultura nazionale. Ciò nonostante, l’idea di un cinema nazionale è stata messa in discussione: in primo luogo a causa di un riconoscimento correttivo della portata nazionale della produzione, della distribuzione e della proiezione cinematografica; e in secondo luogo perché la nazione come entità separata pare essere in discussione nell’era del tardo capitalismo e dell’azione politica e militare ostile che non riconosce più la sovranità nazionale come limite sull’intervento internazionale. Infine, è stato riconosciuto che il tentativo di identificare le specificità culturali di una particolare nazione elide il carattere frammentario della comunità immaginata. È proprio a questa linea di pensiero che è ispirato il rifiuto di Sorlin nel suo libro sul cinema italiano di annoverare il “tipico” come modo di definire il cinema nazionale italiano. Sorlin sostiene che sia impossibile verificare “che cosa sia peculiare di qualsiasi nazione. Tutte le nazioni sono probabilmente delle strutture incrinate e contraddittorie, sono sempre state meglio concepite come ammassi di gruppi di interesse piuttosto che come singole entità unificate” (Sorlin 1996: 5).1 Al posto di una definizione induttiva del cinema nazionale basata sulle tipiche modalità dell’ “italianità”, Sorlin offre due definizioni suggestive ma vaghe che sottolineano il contesto industriale, commerciale e legale: “L’intero processo di creazione, distribuzione e consumo dei film” (Sorlin 1996: 9); “la catena di rapporti e di scambi che si sviluppa in connessione con i film in un territorio delineato dalla propria politica economica e giuridica” (Sorlin 1996: 7-10). Anche Mary Wood, in un altro recente studio sul film italiano, sottolinea il contesto industriale e i “rapporti del potere culturale” nel suo tentativo di rispondere alla domanda “Che cos’è il cinema italiano?” (Wood 2005: 1-34). Per la Wood, il cinema italiano è un’industria cresciuta in risposta a certe condizioni interne allo Stato (alla nazione), ma costantemente influenzata da pressioni economiche esterne e in particolare dagli interessi predatori di Hollywood. La coproduzione internazionale, l’adozione di modelli e generi hollywoodiani per ragioni commerciali e l’impiego di attori e tecnici stranieri sembrano tutti suggerire che l’ “italianità” di un film italiano è un fattore elusivo. Tuttavia, qualcosa di nazionale resta nel modo di rivolgersi a uno spettatore che è presente in un film o in un gruppo di film, o che perlomeno viene loro attribuito dalla critica. Si potrebbe dimostrare questo punto prendendo l’esempio del neorealismo, una tipologia di film italiani del Dopoguerra che sfuggono a una definizione precisa ma che sono arrivati a rappresentare il modello per eccellenza di un cinema in grado di parlare a e per la nazione italiana: 36

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Un cinema nazionale, nel senso pieno del termine, non è semplicemente la produzione nazionale registrata in un dato paese, ma è un cinema che in qualche modo si fa percepire dal pubblico come il cinema tramite cui quella nazione parla. In questo senso, il neorealismo italiano tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50 era un cinema nazionale per eccellenza […]. La fama acquisita dal neorealismo presso la critica, in Italia e all’estero, e il modo inequivocabile in cui i film sviluppavano contenuti nazionali e popolari hanno comportato che per molti anni “cinema italiano” fosse sinonimo della produzione neorealistica di registi come Rossellini, De Sica e Visconti, mentre altre forme cinematografiche italiane, per quanto di successo da un punto di vista commerciale, erano relegate a un ruolo di secondo piano. (Cook e Bernink 1999: 76)

Di certo, due film girati da Rossellini immediatamente prima e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale dimostrano effettivamente quanto dei “singoli documenti culturali” possano immaginare la nazione italiana. Roma città aperta (1945) ha offerto una visione di un consenso post-fascista di sinistra e di centro, di cattolici e comunisti, che presentava una promessa di discolpa e collaborazione ai cittadini dell’incipiente democrazia; Paisà (1946) mette insieme un ritratto di un’Italia occupata durante la guerra man mano che il film si sposta dalla Sicilia attraverso la penisola fino al finale tragico nella valle del Po. Entrambi i film forniscono vari simboli della nazione (la cupola di San Pietro, il Colosseo), ritratti diversi del territorio nazionale e inoltre incontri comici e tragici con lo straniero. Entrambi i film forniscono un mito fondante per la nazione post-bellica basato su rituali di sacrificio e resistenza contro un nemico comune. La potenza di questo mito non va sottovalutata: David Forgacs (2000: 69) osserva come “la particolare forma di fronte unito popolare mostrata [in Roma città aperta], già mitica nel momento in cui fu creata, sarebbe diventata una fonte di nostalgia per gli spettatori futuri”; mentre Sorlin (1996: 90-91) ha sostenuto la centralità del neorealismo nella costruzione dell’identità dell’Italia post-bellica. Per i nostri scopi è utile osservare come il ruolo della violenza viene celebrato e rinnegato in ciascun film: in Roma città aperta, l’atto di violenza più rilevante della Resistenza è un atto di sabotaggio commesso dai bambini; la vera violenza è monopolizzata dal sadismo dei tedeschi. Il commovente episodio finale di Paisà mostra un gruppo di partigiani al lavoro nell’estuario del Po insieme agli americani. Come i tre eroi di Roma città aperta, questi eroi comuni muoiono per mano degli invasori (tedeschi), ma il nodo centrale del film non è quindi il “successo” della violenza della loro resistenza. Ciò che il film vuole conferire è il senso di condizione di vittima sacrificale che esonera la nazione dalle colpe del Ventennio fascista e della guerra: la nazione nasce dal sangue degli italiani, ma non sono gli italiani stessi a versarlo. 37

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Il neorealismo è perciò il punto di riferimento chiave per il cinema italiano successivo. È il luogo ideale in cui è riposta e messa in atto l’idea della nazione post-bellica. Il cinema neorealista diviene la sede in cui, tramite l’eco e i riferimenti contenuti nei film successivi, la problematica della nazione viene interrogata e rielaborata (si pensi al pastiche della scena sulla Resistenza in C’eravamo tanto amati del 1974 come mito neorealistico). Il film italiano dopo il neorealismo ha ereditato i mezzi per affrontare i temi della nazionalità e della violenza da un periodo in cui i problemi della violenza e della nazione dovevano essere trattati in modo strettamente congiunto. In film come Roma città aperta e Paisà troviamo già temi centrali che riguardano questo studio: l’interrogativo sull’Italia e su chi sia italiano, i temi della violenza e del terrorismo (in Paisà i partigiani vengono descritti dai loro nemici come “banditi”), il mito fondante di una Resistenza comune.

La Resistenza e l’iconografia Ho accennato a come l’agiografia della Resistenza nei film di Rossellini comporti una celebrazione della violenza partigiana pur negandola. La negazione di questa violenza di base non può essere costantemente sostenuta, comunque, benché il rito sacrificale della Resistenza conservi la sua potenza. Un film di Gianfranco De Bosio del 1963 dal titolo Il terrorista affronta direttamente la realtà della violenza della Resistenza nelle sue modalità più inaccettabili. Il film mette in scena il dibattito sulle tecniche terroristiche descrivendo le attività, in una Venezia occupata nel 1943, del partigiano di cui al titolo, e il disagio del comitato politico che sorveglia le sue attività. Il terrorista riveste l’agiografia neorealistica della Resistenza con una messa in discussione politica alla Brecht, e con le inquietudini spaziali ed esistenziali di un Antonioni. Vale la pena citare parte del dialogo, tratto da un’astiosa riunione del Comitato di Liberazione Nazionale, che affronta espressamente il problema della violenza:2 Ecco, il sabotaggio sì… oppure, come quando hanno bruciato la Capitaneria di Porto con tutti i fogli matricolari… azioni così hanno un senso… Ma prima di passare al terrorismo bisognava discutere, qui, due, tre, cento volte… e poi non farne niente, secondo me. A verbale! […] Terrorismo, Alvise? Proprio non vorrei questa parola in un nostro verbale. I morti che i tedeschi ci hanno fatto trovare in strada, verso lo Scalo, quello è terrorismo. E la responsabilità è del Platzkommandant. (De Bosio – Squarzina 1963: 26-27)

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Nonostante le obiezioni del secondo personaggio all’uso del termine terrorismo, è chiaro che il film presta il proprio supporto alle tattiche terroristiche de “l’ingegnere” (l’altro titolo antonomastico attribuito al protagonista) contro l’inefficace discorso del CLN, e che tale supporto è inteso come giudizio storico. Secondo quanto afferma Ferruccio Parri nella prefazione alla sceneggiatura pubblicata (De Bosio e Squarzina 1963: XI): “Per svegliare un paese cloroformizzato da venti anni di fascismo occorreva una scossa violenta. Il prezzo di sangue non contava. Il problema morale è insolubile. Il problema politico l’ha risolto la storia dando ragione al terrorista”. Il film non si interessa delle ideologie specifiche che possono aver ispirato una Resistenza terroristica (ognuno dei membri del CLN rappresenta un diverso partito politico, e tutti i partiti del Comitato sono implicitamente respinti dagli exploit di iniziativa del terrorista); si vuole semplicemente encomiare l’azione efficace. Il titolo del film è dunque un avviso di pericolo espresso con ironia ma anche con orgoglio. Pochi sono i film, se ve ne sono, tra quelli qui analizzati, che seguono Il terrorista nella sua presentazione del terrorista come un eroe, ma ciò nonostante il film fa parte del contesto in cui deve essere considerato l’intero corpus. Esso costituisce una sorta di punto centrale iconografico tra Rossellini e un cinema d’impegno intimistico più recente che ha a che fare con l’eredità del terrorismo anni ’70.3 Il ritratto del partigiano (maschio) in Il terrorista è un’evoluzione del personaggio del risoluto Manfredi di Roma città aperta. Manfredi è un combattente che resta parte integrante della propria società, mentre l’ingegnere, altrettanto risoluto, è separato e isolato dalla sua società. Il ritratto de l’ingegnere anticipa il ritratto del terrorista incarcerato, e tuttavia ancora risoluto, in esilio figurato dalla società italiana in un film come La mia generazione (Wilma Labate, 1996). Inoltre, Il terrorista allude a un dibattito tuttora in corso in sede accademica, in parlamento e nella cultura in senso più ampio sul patrimonio della Resistenza e sulla costruzione dell’identità nazionale italiana del Dopoguerra. Negli anni ’70 le Brigate Rosse credevano di essere detentrici dell’eredità partigiana: “Definendosi espressamente come gli eredi della Resistenza, le Brigate Rosse descrivono l’Italia come un paese occupato sotto il controllo effettivo dei capitalisti, con dei burattini democristiani che interpretano per i loro maestri americani lo stesso ruolo che il governo italiano fascista finì con l’interpretare per Hitler” (Drake 1989: XIV). Far parte della tradizione della Resistenza significa anche essere giustificati nell’uso dei suoi stessi mezzi; come sostiene Ginsborg (1990: 362), “i terroristi [delle Brigate Rosse] interpretavano la Resistenza come un esempio eclatante di una minoranza di giovani 39

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che usavano mezzi violenti per fini giusti”. L’esempio, l’iconografia e il mito della Resistenza sono inoltre di importanza centrale per i terroristi, altrettanto quanto lo sono per i cineasti. Il più ampio dibattito sul patrimonio della Resistenza e la costruzione dell’identità italiana post-bellica, fonte di controversie negli anni ’70 e poi di nuovo dopo la caduta della Prima Repubblica agli inizi degli anni ’90, prosegue fino ai giorni nostri. E, come nel caso de Il terrorista, il cinema italiano continua a contribuire a tale dibattito. In questo modo, il cinema italiano post-neorealista è praticamente costretto a confrontarsi con l’originaria rappresentazione cinematografica della Resistenza nel neorealismo. Questa è la ragione per cui troviamo scene da Paisà inserite in Buongiorno, notte di Bellocchio: il riferimento meta-cinematografico rafforza la sensazione che il “mito” della Resistenza sia stato costruito in gran parte attraverso il cinema del neorealismo. Per contro, si potrebbe dire che la scarsa attenzione ai modelli neorealistici conduce all’incoerenza. Tale fu il destino del Porzus di Renzo Martinelli, un ritratto della Resistenza revisionista e sopra le righe che era, secondo le parole di Fantoni Minella (2003: 23), “carico di un istrionismo tale da impedire qualsiasi ipotesi di lettura critica”. Cito ora altri due esempi dai film di cui ci occupiamo qui: i protagonisti di Caro papà e La tragedia di un uomo ridicolo sono vittime, piuttosto che autori, della violenza politica diffusa degli anni di piombo, tuttavia entrambi i personaggi vengono dipinti come amorali e persino corrotti. Essi sono mostrati, in realtà, come se fossero in parte responsabili delle circostanze a causa delle quali è nata la violenza politica. Paradossalmente, entrambi erano stati partigiani, e quindi (per ciò che li riguarda) strumentali alla ricostruzione dell’Italia democratica dopo il Ventennio fascista. A proposito della sua esperienza partigiana, il protagonista di Caro papà insiste: “Ho anche combattuto per fare un’Italia migliore. Sì. Se poi non è venuta tanto bene, mica è colpa mia”. Ma l’arco della sua carriera ha una funzione simbolica, rappresentativa del passaggio dall’idealismo al materialismo nell’Italia del Dopoguerra: il partigiano è ormai un servo corrotto del capitalismo multinazionale. Il protagonista di La tragedia di un uomo ridicolo fa credere ai dipendenti della sua fabbrica di salumi e formaggi che trasformerà la sua attività in crisi in una cooperativa per rivitalizzarla: la sua politica è opportunistica e ipocrita, calcolata per cambiare tutto perché tutto rimanga com’è. La minaccia alla sfera sociale negli anni di piombo non soltanto viene biasimata, in questi due film, sul piano della generazione che compie atti di terrore, ma viene anche mostrata come radicata in un’epoca antecedente e idealistica che serve da punto di riferimento sia per i terroristi che per le loro vittime.4 40

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Se il mito iconografico del combattente della Resistenza è evocato in Caro papà e in La tragedia di un uomo ridicolo, ma solo per rimpiangere la fine delle promesse in esso contenute, la stessa iconografia è però sufficientemente forte da sopravvivere in due film più recenti. Di nessuno dei film che prendiamo in considerazione si può dire che confermi l’autoritratto del terrorista degli anni di piombo come un partigiano contemporaneo, ma questo equivale a dire che nella maggior parte dei film il terrorista è una figura marginale alla storia – presa solo brevemente in considerazione (come in Colpire al cuore e Diavolo in corpo) o ritratta al femminile (Segreti segreti, Donne armate, La meglio gioventú, Buongiorno, notte). È come se l’iconografia del terrorista partigiano maschio, eroico e fatalista fosse troppo potente per essere messa in discussione e bisognasse semplicemente eluderla. In Il terrorista di De Bosio, le conseguenze delle sue stesse azioni non sono per il terrorista tanto morali quanto esistenziali: egli subisce un crescente isolamento (una sorta di clandestinità), e infine una morte fatta apparire allo stesso tempo come il punto estremo dell’alienazione e del sacrificio di sé. Quando il terrorista ricompare, come in Ogro di Pontecorvo (1979: un militante basco rifiuta di rinunciare alla lotta armata dopo la transizione verso la democrazia in Spagna) o in La mia generazione di Labate (un dissociato respinge la possibilità di rendere più comodo il proprio isolamento in un carcere siciliano in cambio di informazioni sui suoi compagni), l’iconografia del partigiano/terrorista come risoluto e fatalista, e decisamente maschio, riemerge più o meno intatta. In La seconda volta (1995), un film esplicitamente scettico sulla retorica della lotta armata, l’iconografia è in parte elusa rendendo al femminile la figura del terrorista. Il punto più forte da dimostrare, comunque, è che lo scoppio della violenza terroristica nell’Italia democratica sia stato un’eco della violenza fondante del Risorgimento e della Resistenza, altrettanto quanto delle varie forme di repressione e terrorismo di Stato esercitate nell’Italia liberale e fascista. Questi eventi trovano i loro corrispettivi rappresentativi nel cinema italiano nazionale (per quanto in modo incerto questo possa essere definito): a volte in forma di celebrazione, spesso come mitizzazione, e occasionalmente come riflessione scettica. Se le nazioni nascono nel sangue, e il terrorismo è un’esplosione di questa violenza originaria repressa, allora la rappresentazione cinematografica della violenza terroristica è anche una meditazione sulla condizione e perfino sulla legittimità della nazione stessa.

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Terrorismi italiani In Italia il terrorismo ha una storia lunga e gloriosa: molte delle tattiche repressive (incluso l’assassinio politico) praticate dal regime fascista possono essere indiscutibilmente catalogate come terrorismo di Stato; così come non possono sfuggire a questa definizione le varie attività dello squadrismo prima della dittatura, ossia l’intimidazione, l’umiliazione e l’omicidio sistematici degli oppositori. Allo stesso tempo (con tutto il rispetto per Croce e per la sua visione del Ventennio come un interludio storicamente aberrante), i metodi coercitivi e repressivi impiegati dallo Stato liberale che precedette il fascismo diedero origine nella cultura politica italiana a una tendenza autoritaristica che ha come eredi i futuri golpisti e i sostenitori del terrorismo di destra nell’apparato statale negli anni ’60 e ’70. Contemporaneamente, l’Italia unita ha sempre avuto i suoi oppositori interni, e molti hanno fatto ricorso a metodi che potremmo definire terroristici: il brigantaggio borbonico nel Sud; gli attentati anarchici, gli assassinii (compreso quello di Umberto I nel 1900) e i diversi tentativi insurrezionali dagli anni ’70 fino a buona parte del ventesimo secolo (Rimanelli 1998).5 La strategia di provocare una brutale reazione, nella speranza di fomentare l’insurrezione popolare, esercitata da gruppi di resistenza urbana nella Seconda Guerra Mondiale, possono anch’essi essere descritti come essenzialmente terroristici;6 essa anticipa l’approccio di tre decenni dopo delle Brigate Rosse, il cui scopo era di rivelare il “fascismo nascosto” della Democrazia Cristiana inducendola a mostrare la sua faccia brutalmente repressiva. Il terrorismo in Italia ha avuto anche un carattere nazionalista o regionalista: l’Italia del Dopoguerra ha visto movimenti per l’indipendenza in Sicilia e in Sardegna, e dalla seconda metà degli anni ’50 alcuni gruppi del Sud Tirolo hanno compiuto attacchi terroristici nel tentativo di ottenere un’autonomia regionale poi concessa nel 1969. Infine, dovremmo tenere a mente che alcune delle azioni della mafia e di altri gruppi di criminalità organizzata possono essere definiti terroristici (v. Engene 2004: 134-141; della Porta 1995; della Porta e Rossi 1984). Possiamo perciò essere d’accordo con Walter Lacquer (1987: 9), il quale ha scritto che “non c’è un terrorismo di per sé, se non forse a un livello astratto, ma diversi terrorismi”. Ciò nonostante, alcuni studiosi hanno sostenuto che si possono identificare due generi principali di terrorismo a seconda di come vengono scelti gli obiettivi dell’azione violenta: Il primo [tipo di terrorismo persegue] un obiettivo casuale o arbitrario, indirizzando l’azione terroristica verso chiunque sia presente quando si mette in atto

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l’attacco. L’esempio più tipico è la bomba in un centro affollato, un aeroporto o una stazione ferroviaria. In questi casi, i terroristi stanno cercando di approfittare dell’effetto creato dall’infliggere morte e lesioni a persone selezionate a caso. […]. In secondo luogo, gli obiettivi della violenza possono essere scelti per il loro valore simbolico o rappresentativo. In questo caso i terroristi rivolgono l’azione violenta verso persone che considerano rappresentative del nemico che vogliono combattere. In questo tipo di terrorismo si può anche arrivare a giustiziare deliberatamente un obiettivo, ma le vittime della violenza vengono comunque scelte principalmente per il loro valore simbolico. È importante sottolineare che gli obiettivi della violenza scelti in questo modo hanno solo un ruolo periferico nella lotta contro il terrorismo. Essi rappresentano il nemico per via del loro status politico o sociale, a causa della posizione che occupano in politica, negli affari o nell’apparato statale, o per l’appartenenza a un gruppo sociale o culturale. Le vittime non vengono scelte in modo talmente selettivo che quelle realmente colpite dalla violenza non sarebbero potute essere sostituite da altri membri della stessa categoria di persone. (Engene 2004: 13; vedi anche Schmid e Jungman 1988: 7-10)

Questi due tipi di selezione dell’obiettivo corrispondono alle forme principali di violenza terroristica praticate dalla destra e dalla sinistra durante gli anni di piombo. Il secondo corrisponde al modus operandi dei gruppi militanti della sinistra come Prima Linea e le Brigate Rosse, gruppi colpevoli per la maggior parte dei casi di omicidi con obiettivo designato, gambizzazioni, rapine e sequestri, azioni perpetrate nel tentativo di fomentare la rivoluzione e accelerare l’avvento di uno stato comunista. Il primo tipo, invece, corrisponde all’uso indiscriminato su larga scala delle bombe, o stragismo, dell’estrema destra. Lo stragismo era legato alla strategia della tensione, che, con una definizione riduttiva, fu messa in atto tra il 1969 e il 1974 come parte di una campagna volta a stabilire in Italia un sistema politico presidenziale o semi-autoritario; l’intenzione era quella di gettare lo Stato in una crisi dell’ordine pubblico e della legalità che avrebbe fatto apparire auspicabile una presa di potere da parte dei militari o dell’estrema destra. Lo stragismo fa riferimento all’uso più autonomo del massacro indiscriminato da parte di gruppi neofascisti che godevano della protezione dei servizi segreti, e che proseguirono ben oltre il 1974, fino a raggiungere la terribile apoteosi con la strage di Bologna.7 Si tenga presente, però, che la distinzione delle strategie terroristiche qui descritte è estremamente schematica: anche la destra usò, e spesso, la violenza su bassa scala e omicidi con obiettivo selezionato, mentre la sinistra usò saltuariamente l’incendio doloso e gli attacchi contro la proprietà privata (v. Rimanelli 1998: 236-252).

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I terrorismi e la memoria Alcuni studiosi hanno suggerito, e lamentato, dal loro punto di vista, il fatto che la maggior parte del discorso sul terrorismo italiano – sia nella forma di studi culturali o storici, che in quella di film, memoriali o narrativa – si occupi solo della violenza proveniente dalla sinistra. Qualcuno, come Tom Behan, si è espresso suggerendo che questo discorso sta al servizio di un progetto ambiguo che demonizza la sinistra italiana e rende un ritratto fuorviante della protesta di massa riducendo entrambe alla scelta minoritaria del terrorismo. Un’errata concentrazione sulla violenza terroristica di sinistra aiuterebbe inoltre lo Stato italiano a nascondere la propria complicità con i crimini terroristici degli anni ’70, e a mascherare la continuità dello Stato repubblicano con le strutture fasciste che lo hanno preceduto. Come minimo, si sostiene, il discorso che si concentra sulla sinistra terroristica rappresenta in modo gravemente errato l’equilibrio delle responsabilità sulle atrocità commesse negli anni di piombo, e trasmette una memoria falsata di quel periodo: Il tema della violenza politica in Italia negli anni ’70 ha subito enormi distorsioni storiche. Oggi la maggior parte dei giovani identificano i dieci anni di ribellione di massa giovanile e operaia seguita al 1968 con anni di terrorismo di sinistra. Il fatto che ci fossero decine di migliaia di attivisti coinvolti nelle azioni dell’estrema sinistra è stato dimenticato, insieme ai milioni di lavoratori che intrapresero ripetutamente azioni di sciopero oltre che dimostrazioni e campagne organizzate dal PCI, che all’epoca contava più di 1.500.000 iscritti. Confrontando queste statistiche, la verità delle cose è che il terrorismo di sinistra è stato, in termini numerici, un fenomeno di dimensioni molto piccole. Per tutto il periodo della loro esistenza il gruppo più numeroso, le Brigate Rosse, non ha mai avuto più di 500 attivisti […]. Fu il terrorismo di destra a essere ben più pericoloso per tutto quel periodo, per diverse ragioni. Non solo sezioni significative delle forze militari e dei servizi segreti simpatizzavano con l’idea di un colpo di stato, ma questo simpatizzare si estendeva anche alla quantità eccezionale di violenza di destra di quel periodo, che eclissava gli attacchi mirati dei terroristi di sinistra. […] Il fatto che quasi tutti questi attacchi [di destra] siano rimasti impuniti, mentre i terroristi di sinistra sono stati, quasi tutti, presi e portati a giudizio, costituisce una ferita aperta per la democrazia italiana. Lo Stato italiano è riuscito a conservare i propri segreti per ciò che concerne il suo supporto occulto al terrorismo di destra negli anni ’70. (Behan 2006: 168) 44

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È certo che, oltre a essere più casuale, il terrorismo di destra fu molto più devastante, in termini di numero di vittime, di quello praticato dalla sinistra. Basandosi sulle cifre raccolte da della Porta, Tardi (2005: 15) ha calcolato che il 56% dei fatti terroristici, il 60% delle morti e il 75% dei casi di lesioni tra il 1969 e il 1982 furono il risultato del terrorismo di destra. D’altro canto, non è ancora stato provato che gli studi accademici o di altro genere tendano a concentrarsi esclusivamente sulla violenza praticata dalla sinistra al punto da nascondere la colpevolezza della destra. Detto questo, sta di fatto che la maggioranza dei film e di altri testi da me presi in considerazione si concentra sul terrorismo di sinistra (ad esempio, i film Colpire al cuore e Segreti segreti; il memoriale della vittima Sergio Lenci Colpo alla nuca); comunque, alcuni film affrontano le oscure strategie della destra e qualche volta il loro rapporto con elementi interni allo Stato (Per non dimenticare, Le mani forti), mentre altri suggeriscono che entrambe le forme di terrorismo fossero controllate o manipolate da un apparato segreto che poteva persino essere stato espressione della volontà di poteri stranieri (Piazza delle Cinque Lune). Le ragioni per cui c’è una quantità molto maggiore di film che parlano del terrorismo di sinistra sono complesse. Nella Prima Repubblica la dedizione sociale o politica delle arti è stata di certo associata alla sinistra. Una dimensione dell’impegno è rappresentata dal rivolgersi a un elettorato preciso: il tentativo di articolare le preoccupazioni di un pubblico che si ritiene possa condividere i punti di riferimento politici e culturali dello scrittore o degli autori del film. Il terrorismo di sinistra rappresentava un problema preciso per gli autori impegnati, così come per il loro pubblico, e questi autori si sono presi la responsabilità di articolare il significato di questa forma di violenza (con una motivazione politica) praticata da membri del loro stesso elettorato. Come scrive Catanzaro: Parte della tradizione della sinistra consiste nel suo rapporto problematico o traumatico con la violenza. Questo è in forte contrasto con l’estrema destra, che concepisce la società come governata dalla violenza; [l’estrema destra] non si propone di cambiare questo stato di cose, ma piuttosto di portarlo all’estremo. Tradizionalmente, la sinistra rivoluzionaria, nei suoi successi come nei fallimenti, ha spesso affrontato il problema di riconciliare l’uso della violenza con il progetto di una società auto-regolamentata e libera dalla violenza. Possiamo però controbattere che il vero problema delle esperienze storiche della sinistra rivoluzionaria nel ventesimo secolo è stato proprio il suo rapporto con la violenza. (Catanzaro 1991b: 715)

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La natura “problematica” e “traumatica” della violenza per la sinistra può essere una delle ragioni per cui il cinema d’impegno ha tardato così tanto a occuparsi della questione del terrorismo di sinistra, ma è di certo una delle ragioni per cui, una volta che lo ha affrontato, è tornato più volte sul problema. Bisognerebbe ricordare che la sinistra ufficiale inizialmente rifiutò di riconoscere che il terrorismo potesse essere emerso dal suo stesso ambiente, per cui denunciò le prime azioni delle Brigate Rosse come l’opera di agenti provocatori. Quando questa visione divenne insostenibile, non fu una sorpresa che la sinistra (e i suoi autori di film) dovesse concentrare lo sguardo sulla propria colpa. I registi impegnati sono stati, quindi, obbligati a confrontarsi con la traumatica realtà del terrorismo di sinistra per conto del loro stesso pubblico di sinistra – più di recente, ad esempio, concentrandosi sul doloroso destino dei terroristi stessi, così da incominciare il processo del loro reinserimento nella “famiglia” nazionale. Allo stesso tempo, il terrorismo di destra rappresenta un problema formale oltre che politico per gli autori cinematografici. Se, come in Colpire al cuore e La mia generazione, la rappresentazione del terrorismo di sinistra, e dei terroristi di sinistra, si presta al dramma intimistico e alla saga familiare, il terrorismo di destra, a causa della sua natura oscura e spettacolare, sembra richiedere mezzi descrittivi più eclatanti, seguendo tipicamente il genere cospirativo, e spesso con risultati ambigui (Le mani forti, Romanzo criminale). Il problema delle modalità narrative del genere conspiracy è che il successo del complotto sembra sovradeterminato e irresistibile, e il rischio proveniente da una prospettiva politica è quello di lasciare lo spettatore con la sensazione di essere svuotato e politicamente impotente. Il conspiracy film conferma la concezione dell’estrema destra di una società dominata dalla violenza, e convalida implicitamente la visione secondo cui l’esercizio effettivo dell’autorità e del potere è l’unico vero problema importante. Il film di tipo cospirativo potrebbe tentare di introdurre problemi di etica, ma questi sembrerebbero inevitabilmente “inverosimili”, nel senso che sono irrilevanti rispetto alle “vere” questioni che riguardano la sopravvivenza politica e la forza nazionale. Un ulteriore problema nella rappresentazione dello stragismo è che, per ricordare allo spettatore le atrocità, ad esempio, della strage di Bologna, lo spettacolo dell’atto terroristico tende a essere riprodotto nei film stessi (come in Romanzo criminale), col rischio di pubblicizzare, e in un certo senso persino di celebrare, l’azione terroristica. C’è un suggerimento in ciò che scrive Behan e che ho citato sopra, secondo cui l’ingannevole riduzione a terrorismo dei vari tipi di militanza nella sinistra 46

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negli anni ’70 è stata in parte il risultato di una voluta rappresentazione errata da parte della destra e persino dello Stato. Comunque, se tale rappresentazione errata può star bene a chi desideri, contro ogni plausibilità, ritrarre la Prima Repubblica come un regime comunista, sta di fatto che l’identificazione della militanza nella sinistra extra-parlamentare col terrorismo fu per la prima volta espressa dalla stessa sinistra ufficiale. Come scrive Silvio Lanaro (1992: 405), [I comunisti] spendono anima e corpo, in verità, al fine di non vedere disperso – o anche semplicemente scemato – il gruzzolo di credibilità democratica che hanno racimolato dopo la morte di Togliatti (1964), soprattutto con la condanna della “normalizzazione” sovietica in Cecoslovacchia, e quindi non possono lasciar credere di aver figliato gli esaltati e gli “extraparlamentari” che usurpano linguaggi, dottrine e simbologie della tradizione marxista-leninista

Behan pecca forse di eccesso di generalizzazione quando identifica “i dieci anni di ribellione di massa giovanile e operaia” con le attività del PCI in quel periodo; come fa notare Enrico Palandri nel suo studio testimoniale sugli anni ’70 in Italia (pubblicato nello stesso volume che contiene le osservazioni di Behan), le attività della sinistra extra-parlamentare rappresentarono una sfida intellettuale e culturale al modello gerarchico del PCI e al suo debito verso i paradigmi sovietici. Palandri (2006: 119) parla del “lavoro incessante contro la sinistra extra-parlamentare condotto dal PCI negli anni ’70”, e può darsi che al PCI convenisse etichettare ampie fasce del “movimento” come irresponsabili e persino criminali. Questa caratterizzazione del movimento è sopravvissuta alla caduta del PCI nel ritratto degli anni di piombo in termini simili alla caratterizzazione di Croce del Ventennio fascista: come un interregno, un periodo abnorme estraneo al corso autentico di una storia italiana concepita in termini teleologici (Palandri 2006: 118). Si potrebbe aggiungere un’ulteriore ragione per cui il terrorismo di sinistra sia così tanto ricordato rispetto a quello di destra, cioè che la memoria e la storia sono state entrambe vittime dell’abilità delle BR nel pubblicizzare se stesse, nonché della natura essenzialmente misteriosa dello stragismo. Le BR sono state il più grosso, il meglio organizzato e il più longevo gruppo terroristico di sinistra; hanno praticato una politica demagogica ed efficace, servendosi di un simbolo memorabile, di slogan accattivanti e di un’astuta manipolazione dell’informazione per pubblicizzare i propri obiettivi e le proprie azioni. In certa misura, questo armamentario si è rivelato attraente per i cineasti: il titolo di Colpire al cuore di Gianni Amelio sposa due slogan delle BR fino all’ironia (“col47

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pirne uno per educarne cento”; “portare l’attacco al cuore dello Stato”), e Marco Bellocchio gioca sapientemente con una stella delle BR rosso sangue dipinta in un ascensore in Buongiorno, notte. I vari usi dei topoi del sequestro Moro in Il caso Moro o in Piazza delle Cinque Lune sono meno ironici: le foto iconiche di Moro (seduto davanti alla stella delle BR) nella “prigione del popolo” sono ricostruite in entrambi i film in un modo che rivela il fascino subito dagli autori. Forse l’unica icona equivalente del terrorismo di destra è l’orologio fermo alle 10.25 alla stazione di Bologna, che indica l’ora dell’attentato del 2 agosto 1980. È comunque significativo che sia il quadrante di un orologio fermo l’indice misterioso di un evento, e non il simbolo scelto di una organizzazione: gli autori dell’esplosione scelsero di restare anonimi. Questo anonimato e il carattere apparentemente senza senso del massacro portarono, si può osservare, alla classificazione dell’attentato “nella categoria delle ‘calamità naturali’, come l’atto di un dio o uno scherzo di natura – oggi c’è, domani è scomparso – privo di un’eco o di una ragione” (Farnen 1990: 123); in quanto tale, esso potrà trovare solo una collocazione ambigua nella memoria nazionale.8 Pur essendo un evento mostruoso e di massa, l’attentato era destinato a scomparire dai giornali, e di certo dalle prime pagine e dai titoli dei telegiornali, dopo solo pochi giorni. D’altro canto, la durata stessa del sequestro Moro (54 giorni) assicurò che l’evento rimanesse sulle prime pagine dei giornali nazionali, e ottenesse la massima attenzione per i sequestratori. Come scrive Farnen (1990: 117): Le BR fornivano regolarmente notizie sufficienti perché il caso Moro restasse per i media un evento internazionale per circa due mesi. Attraverso la loro selezione di un bersaglio di primo piano (Moro) in un luogo preminente (Roma), con un evento iniziale efficiente, cruento e ben organizzato (sequestro e uccisione), le BR riuscirono effettivamente a ottenere il massimo dell’effetto e detennero la più assoluta attenzione sui notiziari per cinquantacinque giorni [sic]. […] la stessa scelta se uccidere sul posto oppure rapire Moro ebbe sui media l’impatto voluto, poiché un martire politico meritava molta meno concentrazione sulla stampa rispetto a un eroe tenuto prigioniero che supplicava per la propria vita. Il risultato fu un black-out di quasi tutte le altre notizie culturali, politiche ed estere – e si creò l’impressione di un “paese tenuto in scacco”, come si espresse Sergio Zavoli (1992: 295). Questa esperienza mediata del sequestro (il primo esempio di notizie trasmesse ventiquattrore su ventiquattro in Italia) 48

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spiega in parte la persistenza traumatica della memoria del rapimento di Moro nella coscienza collettiva degli italiani. Per quanto sfortunato lo si possa trovare, una serie di eventi così prolungata e fotogenica come il sequestro di Moro è in ultima analisi più memorabile degli atti arbitrari e apparentemente inspiegabili caratteristici del terrorismo di destra. Behan sostiene che il problema della violenza politica in Italia ha subito un’ “enorme distorsione storica”, e afferma che la maggior parte dei “giovani” identifica gli anni ’70 con il terrorismo di sinistra, piuttosto che con la mobilitazione politica di massa, e ha dimenticato in blocco il terrorismo di destra. Alcune fonti sembrano confermarlo,9 e in questo libro, nella sezione “Gli anni di piombo”, vediamo come l’espressione stessa possa avere effetti ideologici e distorsivi sulla memoria storica dei lunghi anni ’70. Nondimeno, è necessario un maggiore approfondimento per confermare che “i giovani” sono stati realmente vittime di una amnesia forzata. (Le prove addotte dallo stesso Behan appaiono aneddotiche, basate su osservazioni di Dario Fo.) Di fatto, il movimento no global e il girotondismo, e le manifestazioni di massa contro le modifiche nella normativa sul lavoro sotto il secondo Governo Berlusconi, potrebbero sembrare suggerire che esista una tradizione ininterrotta, seppur a volte fragile, di mobilitazione politica sia all’interno che all’esterno della struttura partitica della sinistra italiana. Di certo, come sostiene Behan, molti attacchi terroristici di destra restano assolutamente senza una spiegazione, e lo Stato italiano non è riuscito a fare luce sulla misura del proprio supporto nascosto al terrorismo di destra. Lanaro (1992: 433) parla della sconfitta del terrorismo da parte dello Stato italiano come di una “vittoria a metà”, in quanto “le istituzioni della Repubblica non riescono a contrastare il lavorio dei roditori interni e l’avanzata del ‘governo invisibile’”. Qualcuno ha parlato dell’auspicabilità di una “commissione per la verità e la riconciliazione” in Italia, secondo il modello di quelle istituite in Sudafrica e in Cile, un processo che richiederebbe l’ammissione della portata del coinvolgimento dello Stato nel terrorismo, e i nomi e la confessione dei responsabili da ogni parte. Non è mai stata istituita una commissione di questo tipo; comunque, alcuni scrittori hanno affermato che i film e la narrativa possono sostenere una funzione analoga, che è in fondo quella di costruire una narrazione nazionale del passato che possa essere condivisa da tutte le persone dei diversi colori politici.

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Gli anni di piombo Forse non è ancora comunemente noto che l’espressione “anni di piombo” deriva dal titolo italiano dato a un film tedesco: Die bleierne Zeit di Margarethe Von Trotta – letteralmente “Il tempo di piombo” – in mostra al Festival del Cinema di Venezia del 1981. Il film della Von Trotta racconta la storia di due sorelle tedesche che vengono coinvolte in politica quando si confrontano con l’orrore delle immagini dei campi di concentramento e della carneficina in Vietnam: Marianne opta per la lotta armata e la clandestinità; Julianne per la protesta legale e il giornalismo radicale. Marianne viene infine catturata e apparentemente si suicida nel carcere in cui è detenuta in attesa del processo.10 Il resto del film racconta della battaglia di Julianne per dimostrare che la morte di sua sorella è stata in realtà un’esecuzione di Stato, e del suo obbligo di spiegare le scelte di sua sorella al figlio abbandonato di Marianne, il quale rappresenta un’altra generazione. La Von Trotta ha definito Die bleierne Zeit “un atto di lutto”; una funzione dell’inserimento nel suo film di estratti dal documentario sull’olocausto Nuit e brouillard di Alain Resnais del 1955 è quella di indicare che il film è inteso come un lavoro per la trasmissione della memoria storica. In Italia Die bleierne Zeit adempie in modo eccezionale a questa funzione di trasmissione, fino a essere parte dell’apparato tramite il quale possiamo capire i lunghi anni ’70 in Italia. Il film diventa un mezzo di caratterizzazione della memoria in quanto il suo titolo italiano, Anni di piombo, viene assunto nel linguaggio giornalistico, popolare e accademico come etichetta per questo periodo di circa dieci anni che sfugge a una periodizzazione precisa. Il titolo, nella sua traduzione italiana, diventa un “luogo comune” o persino un “luogo della memoria” (lieu de mémoire) nel senso figurato reso familiare dal lavoro di Pierre Nora (1992) e Mario Isnenghi (1997); in altre parole, diventa un luogo in cui le memorie collettive della nazione vengono immagazzinate, e in cui le diverse interpretazioni storiche vengono cristallizzate in un’interpretazione condivisa della storia. Infine, l’espressione è ancora traslata da una lingua a un’altra (dall’italiano all’inglese), e più avanti descrivo come si può affermare che questa versione “condivisa” della storia contenga un aspetto tendenzioso o persino coercitivo, che conferma in parte l’asserzione di Behan (2006: 168) secondo cui “il tema della violenza politica in Italia negli anni ’70 ha subito un’enorme distorsione storica”. Die bleierne Zeit fu proiettato due volte il 10 settembre 1981, il penultimo giorno di quell’edizione del Festival di Venezia, ed ebbe dalla critica europea e 50

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specialmente italiana un’accoglienza acclamante e piena di gratitudine, anche se i critici americani ne rimasero meno colpiti. Arrivò a ricevere il Leone d’Oro di quell’anno (assegnato da una giuria presieduta da Italo Calvino) e vari altri premi minori; fu immediatamente acquistato per la distribuzione in Italia. La reazione entusiastica dei critici italiani al film sembrò improntata a considerazioni tipo “finalmente un film decente sul terrorismo – cosa che i nostri registi non sono riusciti a fare”. In seguito a questo successo ottenuto al Festival, l’espressione “anni di piombo” incomincia a comparire sulla stampa, come mostrano questi esempi: “Gli anni di piombo milanesi quando la morte era un gioco” (La Repubblica 22/2/1982); “È il segno di quanto profondamente abbiano segnato le coscienze questi interminabili ‘anni di piombo’, iniziati una mattina di marzo di quattro anni fa in una tranquilla strada di Monte Mario” (Il messaggero 15/3/1982); “Il crescendo della violenza di marca PL [Prima Linea] va quasi di pari passo con quello brigatista. Così il 1978 e il 1979 diventano gli anni bui, gli anni di piombo” (Corriere della Sera 10/2/1983). (citato da Saulini 1987: 76)

Da notare, però, che sebbene Anni di piombo sia il titolo dato al film al momento della sua uscita in Italia, al Festival di Venezia fu presentato con due titoli in alternativa: Tempi di piombo e Gli anni plumbei. Il secondo è particolarmente interessante perché preserva l’aggettivo usato nel tedesco Die bleierne Zeit. Uno scrittore contemporaneo intese questo aspetto “plumbeo” così come lo aveva inteso la regista: “[Il film] deriva il titolo da un poema di Hölderlin e vuol dire appunto ‘tempi opprimenti’, di piombo, come sono stati gli anni del dopo ’68 in Germania” (Bruno 1981: 389). Il titolo con cui fu presentato al Festival, Gli anni plumbei, conserva quindi accuratamente le connotazioni metaforiche presenti nell’originale, che vengono però perse nella traduzione del titolo dato al momento dell’uscita in Italia. Come commenta Orioles, il titolo italiano e quello tedesco sono diversi: “non tanto per la scelta di anni in luogo di Zeit, quanto per l’enfasi posta sull’accezione materiale di piombo, con trasparente riferimento all’uso delle armi da fuoco” (Bruno 1981: 389). Dobbiamo essere consapevoli dell’effetto ideologico di questa variazione. In primo luogo, le diverse connotazioni metaforiche di “piombo” suggeriscono che il trauma degli anni ’70 – che derivò anche, dopo tutto, dal fallimento delle aspirazioni economiche, politiche e culturali – fosse un effetto del solo terrorismo, e individua quindi l’azione terroristica come causa piuttosto che come sintomo delle frustrazioni del periodo. In secondo luogo, si riferisce solamente alla violenza della sinistra, in quanto esclude gli attentati dinamitardi tipici del 51

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terrorismo di destra e della strategia della tensione. Questo effetto ideologico è ulteriormente amplificato quando l’espressione viene resa in inglese. In History of Contemporary Italy di Paul Ginsborg diventa, nel sottotitolo di un capitolo, non “years of lead”, cioè anni di piombo, ma, precisamente, “years of the bullet”, ossia gli “anni del proiettile”, e si perde ogni potenziale ambiguità della natura figurativa del “piombo”. L’arco di tempo più ristretto cui si riferisce Ginsborg con l’espressione “years of the bullet” richiama la restrizione dello spazio temporale suggerita nelle citazioni di sopra da Il messagero e dal Corriere della Sera, ma differisce dall’uso ormai standard secondo cui “anni di piombo” indica in italiano tutti gli anni ’70.11 Nel libro di Ginsborg, il periodo preso in esame nella parte titolata con l’espressione incomincia nel 1976 e finisce col 1979. Poiché esclude gli attentati di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, e persino la strage di Bologna, la cornice posta intorno a questo periodo “terroristico” ha l’effetto di concentrare esclusivamente sull’attività di una sinistra criminalizzata la responsabilità delle aspirazioni extra-parlamentari e della violenza politica. D’altro canto, la collocazione più convenzionale dell’ “origine” degli anni di piombo nella strage di Piazza Fontana, azione che causò sedici morti, ha il vantaggio di suggerire che l’azione terroristica non era appannaggio esclusivo della sinistra, e di attrarre l’attenzione sulla strategia della tensione. Comunque, anche questa segmentazione temporale più ampia può essere eccepita come troppo circoscritta. Come fa notare Paul Furlong: Le origini sociali e politiche del terrorismo italiano possono essere identificate nelle influenze contraddittorie che produssero la Costituzione Italiana e che sfociarono nelle speranze radicali generate dal movimento della Resistenza; nell’attenuazione degli elementi di populismo democratico presso l’Assemblea Costituente; e nei ritardi e nei vuoti temporali che accompagnarono l’attuazione della Costituzione. (Furlong 1981: 62)

Anche Furlong colloca queste “origini sociali e politiche” internamente all’Italia stessa; ma possiamo estendere la sua analisi, e asserire che la vanificazione delle speranze ispirate dalla Resistenza, la limitazione della democrazia popolare e l’attuazione, protratta all’infinito, della Costituzione ebbero anche delle cause esterne. Secondo questa affermazione, il terrorismo in Italia fu un fenomeno della Guerra Fredda: ebbe le sue origini a Yalta e nello stallo del Dopoguerra tra i due imperi americano e sovietico.12 Se la tradizione della violenza politica nell’Italia unificata era profondamente radicata e varia, il terrorismo dei lunghi anni ’70 può essere contestualizzato anche come conflitto locale-nazionale che costituì parte della “guerra civile globale” di cui parla 52

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Giorgio Agamben (2005: 2, sulla scia di Hannah Arendt e Carl Schmitt), e anticipata naturalmente dalla visione della guerra globale perenne (con il costante cambio di alleati e nemici che abbiamo imparato a conoscere) descritta in 1984 di Orwell. È così che il “luogo comune” o “luogo di memoria” degli anni di piombo contiene un aspetto fuorviante, e si può dire persino che contribuisca alla costituzione di una versione degli eventi storici coercitiva e condivisa. In questo aspetto, dunque, persino l’uso dell’espressione anni di piombo è, in chiave politica e storica, una mistificazione, e deve essere utilizzata con la stessa cautela che abbiamo raccomandato per l’uso del termine terrorismo e quelli da esso derivati. Per esprimerci con le parole di Pierre Sorlin, c’è una “logica politica” anche dietro la selezione e l’articolazione dei periodi storici e delle etichette a essi applicate (Sorlin 1980: 32). La tentazione di considerare questo periodo della storia d’Italia come contenuto in se stesso e superato – e quindi il trauma di quegli anni come riducibile al terrorismo – è analogo all’impulso di liquidare il fenomeno del terrorismo come privo di radici politiche e alla tendenza a demonizzare i suoi protagonisti.

Il testo sociale Questo studio incomincia col terrorismo (termine, come abbiamo visto, che elude una definizione precisa) e cerca di tracciare la sua rappresentazione in più di trent’anni di cinema italiano. Si presentano immediatamente due obiezioni a questo approccio. La prima, che proviene dalla dimensione di chi studia il cinema, è che trattare il film in questo modo significa rischiare di ignorare le sue caratteristiche formali nella semplice accumulazione di contenuto “significante”. La seconda obiezione viene dallo storico: il cinema non può essere altro che una forma di storiografia impoverita e semplifica inevitabilmente gli eventi trasformandoli in puro intrattenimento. Il “testo sociale”, il modello teoretico utilizzato in questo studio per mitigare i problemi associati alla prima obiezione, e per rispondere alla valutazione scettica del film nella seconda, è un modello che tiene conto degli aspetti reciprocamente determinanti degli eventi, dei discorsi e delle rappresentazioni. È un modello che ho preso in prestito da varie fonti, ma è parzialmente spiegato in un articolo della studiosa americana Beverly Allen sulla funzione del romanzo durante gli anni di piombo:

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Incomincio dalla premessa che i testi sociali e linguistici possono sempre co-implicarsi l’uno con l’altro, sebbene in modi ambigui, non congrui e confusi. Qui, naturalmente, il testo sociale è la violenza politica clandestina in Italia durante gli “anni di piombo”, e i testi linguistici sono i romanzi in italiano che rappresentano quella violenza […] Articolando i testi sociali e letterari di quella violenza, sovrapposti e connessi l’uno con l’altro, voglio attrarre l’attenzione sull’osmosi che esiste tra loro […]. (Allen 1997: 54)

La Allen non arriva a definire il “testo sociale”, un’espressione che è ambigua perchè è stata usata in due modi nello studio della letteratura e della sua relazione con la realtà.13 L’uso più ristretto è quello di uno studioso come Jerome McGann, che la utilizza per far notare come qualunque testo (sia esso un romanzo, una poesia o, possiamo aggiungere, in modo particolare un film) è meglio concepito, anziché come generato dalla creatività o dal genio individuale, secondo il modello romantico o auteuriste, come il prodotto di un nesso di relazioni sociali e funzioni produttive. In quanto tale il “sociale” della Allen include il suo testo “linguistico” ma non è riducibile ad esso. Visto così, il testo non può in alcun modo essere trattato come un artefatto ermetico disponibile solo per l’esegesi formale; invece McGann (1988: 21) scrive “che ricercare il significato del testo comporta la ricerca dell’intero campo sociale e storico del testo, che la portata di tale campo si estenderà a comprendere ampie zone di tempo e di spazio, e che il campo non può essere accostato in modo appropriato – non può nemmeno essere visto – se la nostra visione è circoscritta nei confini linguistici che hanno così tanto dominato l’ermeneutica del ventesimo secolo”. Prendiamo come esempio il cinema: la maggior parte dei film sono il lavoro di uno o più sceneggiatori, uno o più registi, produttori, attori etc., ma sono anche il prodotto dei discorsi che li racchiudono, cioè i dettami del genere, le aspettative del pubblico, il previewing, il reviewing (cioè le recensioni), la proiezione, il sistema della distribuzione (e quindi il mezzo tramite il quale essi vengono proiettati o trasmessi), i cambiamenti del titolo e della lingua effettuati oltre frontiera, e così via; tutte cose che determinano non solo il modo in cui un film viene percepito, ma anche il modo in cui è prodotto. Di conseguenza, più avanti sostengo che un testo come La meglio gioventú non può essere spiegato in termini puramente formali, ed elude prospettive di valutazione che ne considerino solo la conformità a un modello estetico privilegiato; qualunque spiegazione che manchi di considerare la ricezione estatica del film da parte di un pubblico e della stampa di sinistra trascura un aspetto essenziale – il riferimento retorico a un elettorato e alla sua memoria condivisa – che è in54

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ciso nel testo stesso. Come dimostra l’esempio di La meglio gioventú, i lavori letterari o cinematografici “sono dei prodotti fondamentalmente sociali piuttosto che personali o psicologici”, e “non raggiungono nemmeno una forma artistica finché non si determina un loro incontro con un pubblico” (MacGann citato in Murray 1999: 741). Il film è dunque prodotto collettivamente dall’interno e dall’esterno dell’opera: è un testo “sociale”. In questo studio il testo sociale è considerato anche in un senso più ampio di quello trovato in McGann. La chiave per questo senso più ampio è l’idea della permeabilità o dell’osmosi reciproca tra eventi e rappresentazioni. Come scrive la Allen (1997: 76), “con ‘testo sociale’ metto in evidenza il fatto che gli eventi producono significati”; cioè, gli eventi hanno uno status linguistico oltre che uno fenomenologico, ed entrano in un campo che possiamo descrivere come rappresentazionale. Nessun evento esiste come “fatto” fuori da un sistema di modelli testuali; ossia, nessun evento può essere indipendente dal contesto della sua interpretazione. Il film forma insieme agli eventi un continuum che non gli consente nessuna autonomia e non consente agli eventi alcuna indipendenza dalla loro rappresentazione. Il rapporto, benché a tratti sfuggente, è di simbiosi: gli eventi determinano la forma del film proprio nel modo in cui l’interpretazione è presente nel momento esatto dell’evento. È così che un film come La seconda volta incarna nella sua struttura irrisolta e nella narrazione interrotta l’impasse etico e politico del dibattito sull’indulto – il dibattito nella società in senso più ampio sul destino di coloro che sono in carcere per reati terroristici. (Il film mette in scena il “secondo” incontro e quelli successivi di una terrorista incarcerata con la vittima che non è riuscita a fare fuori.) I film reagiscono, e a loro volta vi lasciano il proprio segno, al mondo sociale e politico e all’interpretazione degli eventi. Le opere prese in esame in questo libro dovrebbero essere intese come se entrassero dentro un testo sociale che comprende una gamma di discorsi, eventi e loro rappresentazioni. Dovrebbero essere collocati all’interno delle circostanze e delle esigenze dell’industria cinematografica, secondo il contesto, la natura e il parametro di ricezione; all’interno del contesto più ampio dei mass media, della storiografia, dei memoriali e delle opere di narrativa. Dal punto di vista della metodologia, ciò implica che la scelta del film come unico argomento di ricerca è in certa misura arbitraria, ma è una scelta necessaria che consente come minimo un corpus di materiale da analizzare che è possibile gestire.14

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Tra storia e memoria La percezione che una società ha del proprio passato si costruisce attraverso una negoziazione (per quanto impari) tra interessi e linguaggi differenti; come si esprime Pierre Sorlin (1980: 17) in un libro sul film storico, “la maggior parte delle società […] creano la loro storia man mano che si evolvono. E in queste società certi gruppi, certe classi sociali, certi partiti politici e certe comunità socio-professionali definiscono la propria versione del passato”. L’auteur o il regista impegnato, che affronta un tema come il terrorismo, è tra coloro che intraprendono questa creazione della storia, ma lo è anche il produttore, il cui atteggiamento nei confronti delle circostanze storiche è manifestamente opportunistico. Per entrambi lo storico professionista può obiettare che il film è un mezzo troppo approssimativo e troppo dipendente dagli obblighi derivanti dal mercato e dal suo stesso genere per essere preso seriamente come storiografia. Ma applicare i criteri di una storiografia principalmente scritta e basata sui documenti a un mezzo visuale e commerciale come il cinema significa non capire che cosa il cinema (e il film per la TV) sia in grado di realizzare. I tentativi di criticare i film storici dalla prospettiva dello storico si fissano inevitabilmente su problemi di accuratezza dei fatti che il più delle volte non sono pertinenti, in quanto un’accuratezza dei fatti di tipo positivistico va oltre i mezzi del film commerciale ed è di rado parte delle intenzioni degli autori. Si potrebbe pensare alle critiche al film su Moro Buongiorno, notte per via della figura della protagonista come “terrorista pentita ante litteram”, quando invece nella realtà il modello a cui il personaggio si ispira, Anna Laura Braghetti, procedette all’assassinio di Vittorio Bachelet, professore universitario e Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, due anni dopo la morte di Moro (Bandirali e Terrone, 2004: 4; Pirani 2003: 19). Tale critica sorvola sull’auto-presentazione del film come un testo “palinsestico” che ricalca e fa riferimento ad altre versioni del sequestro (compreso il memoriale della Braghetti); essa inoltre non prende atto dell’elaborazione del lutto e dell’ammissione di colpa e di pentimento assolta dal film. In altre parole, Buongiorno, notte non aveva nessuna pretesa di ricostruzione storiografica, e non avrebbe senso considerarlo in questi termini; il film metteva invece in atto un rituale di confessione e commemorazione per conto del suo pubblico, e merita dunque di essere discusso in termini più vicini alla memoria che alla storia. Il rapporto tra memoria e storia non è lineare, e non è facile stabilire una distinzione semplice tra i due termini. Come ha scritto Pierre Nora (1996: 17), la memoria detta mentre la storia scrive. Sorlin (1980: 16) sembra risolvere la di56

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stinzione quando dice che “la storia è la memoria di una società del proprio passato” – per Sorlin, dunque, la storia è una sorta di memoria collettiva o condivisa. Sebbene questi e altri studiosi offrano diverse interpretazioni della storia e della memoria, noi potremmo proporre una distinzione provvisoria in questo modo: la storia è la versione accademica o ufficiale, ma certamente scritta, del passato. Anche se non rifugge dalla mitizzazione, dalla retorica o dal richiamo emotivo, essa tende a dissimularlo facendo ricorso all’autorevolezza dell’evidenza e dei documenti (che solitamente sono, ancora una volta, documenti testuali, cioè scritti). La memoria è l’insieme di percezioni non ufficiali, “prive di annotazioni”, su cui si può contare per diventare (o per essere sulla strada per diventare) fatto comunemente noto. Gran parte di essa sarà mitologica nei suoi contenuti, e costituirà il collante intersoggettivo che tiene insieme le comunità (comprese le nazioni); le identità – individuali, comunitarie o nazionali – sono possibili solo in quanto sono abilitate e sostenute dalla memoria. Il lavoro svolto dal film può essere collocato da qualche parte tra storia e memoria. Il film è un intervento all’interno della memoria. Esso può dichiararsi autorevole in riferimento ad altri media (compresa la fotografia, il materiale scritto, i monumenti e alcuni aspetti del documento storico) o tramite il tentativo di “assomigliare” all’aspetto visivo del passato, con costumi d’epoca etc. Tende però, in quanto segue le strutture di genere e i modelli di percezione, verso la mitizzazione.15 Robert Rosenstone (1995: 77) scrive che “il film non sostituisce la storia scritta, né la integra. Il film si colloca a fianco alla storia scritta, come fa con altre forme di trattazione del passato quali la memoria e la tradizione orale”, e come la tradizione orale tratta il passato in modo orientato verso le esigenze del presente. Gli antropologi ci dicono che in quelle culture che mancano di un sistema di scrittura la tendenza verso le tecniche di memorizzazione (canzoni, racconti, oggetti e siti simbolici) è quella di conservare solo ciò che è rilevante per il presente. Le culture dotate di sistemi di scrittura possono permettersi di scialacquare di più sull’energia mnemonica, ma in assenza di scrittura la memoria deve essere efficiente e pertinente. Il film funziona in modo simile: tende a eliminare l’inessenziale dal passato, rielaborandolo in modo da renderne possibile l’uso per gli scopi del presente. Prendiamo l’esempio dei film che emergono a metà anni ’90 nel contesto del dibattito sulla giustezza della clemenza per le persone incarcerate per reati terroristici (il dibattito sull’indulto) e della discussione sul destino dell’ex-terrorista in prigione o in esilio. Ciascuno dei tre film, La mia generazione, La seconda volta e Vite in sospeso, met57

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te in scena un ritorno nella memoria dalla parte degli ex-terroristi, che considerano ognuno il proprio rispettivo passato dal punto di vista avvantaggiato delle circostanze presenti. La memoria è perciò parte del tema di ciascun film, ma i film mettono in scena questo ritorno al passato per conto del pubblico e come contributo al dibattito politico contemporaneo; in questo modo essi eliminano (o “dimenticano”) gli elementi non essenziali dal magazzino della memoria. Che cosa omettono? Secondo Rachele Tardi (2005: 22-23), le rappresentazioni di fiction del terrorismo di sinistra mettono tipicamente in luce le vite personali dei militanti a spese dell’attività politica, compresa la lotta armata. Questi tre film sono conformi alla descrizione della Tardi: dal punto di vista di coloro che sono impegnati nella riumanizzazione dei terroristi demonizzati, nel contesto del dibattito sull’indulto, le cause o le ideologie del terrorismo erano elementi di distrazione e potenzialmente di irrilevanza imbarazzante. Di conseguenza, erano state “dimenticate”. La mia generazione, La seconda volta e Vite in sospeso postulano, attraverso un’amnesia necessaria, una possibile versione condivisa del passato che faciliterebbe la reintegrazione degli ex-terroristi nella comunità da cui sono stati esclusi, anche se essi riconoscono che la reintegrazione deve essere rinviata – gli ex-terroristi in ciascun film rimangono in carcere o all’estero. In questo senso, lo schieramento degli autori è ragionevolmente chiaro: i film si inquadrano nettamente dentro la tradizione del cinema d’impegno realista di sinistra, e possono essere considerati come interventi “seri” nel discorso sugli anni di piombo e sulla loro eredità. Lo “schieramento” di alcuni film, comunque, può apparire come dettato da ragioni più economiche che ideologiche, o quanto meno alla mercè dei dettami di un genere tanto da sembrare che sfruttino semplicemente gli eventi che ritraggono. Persino gli studiosi favorevoli alla rappresentazione cinematografica della storia sono inclini a liquidare tali film come non degni di essere studiati (vedi ad esempio Sorlin 1980: 18); una critica più comune è che tali film sono “irrealistici” e hanno quindi poco da dirci sulle circostanze che ritraggono. Questa non è la mia posizione. Piuttosto, sostengo che nessun film sfugge ai modelli della narrazione; nessun film sfugge, perciò, a un confronto, con le aspettative di chi guarda, il quale riconosce e utilizza i modelli prestabiliti, conosciuti come generi, per dare un senso a ciò che viene mostrato sullo schermo. Come scrive Steve Neale (1999: 35): La predominanza delle ideologie realistiche nella nostra cultura tende a comportare che, a meno che non siano indicati come arte di livello, molti generi di-

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IL CINEMA, I TERRORISMI E LA MEMORIA

chiaratamente non realistici vengono visti come frivolamente di evasione, come “pura fantasia” e in quanto tali adatti solo ai ragazzi, o agli adulti “superficiali” o “irresponsabili”. Questo, naturalmente, significa rifiutare di riconoscere lo status generico del realismo stesso, e l’elemento di fantasia inerente a tutte le forme di rappresentazione artistica.

Consideriamo l’esempio di Donne armate. In questo film per la TV trasmesso su RAI2 nel 1991, Nadia Cossa, una terrorista di sinistra non pentita interpretata da Lina Sastri, fugge dal carcere, ma l’ex-compagno che aveva architettato la sua evasione, ormai diventato un delinquente comune, cerca di ucciderla. Ancora in fuga, si assicura l’aiuto della giovane poliziotta, Angela Venturi, da cui era scappata, e le due cercano di smascherare un complotto criminoso che coinvolge sia ex-terroristi che la polizia. Il complotto viene debitamente smascherato e, anche se ferita mentre va in soccorso ad Angela, non curante di sé, Nadia si salva e viene riportata in carcere. Per diversi aspetti Donne armate è un rozzo film d’azione in cui è più evidente l’adesione al modello dei thriller americani per la TV che a qualunque volontà da parte degli autori di fare luce sul contesto italiano e sul problema dei terroristi in carcere. Il film risente di una certa debolezza di causalità nella trama e del comportamento non sufficientemente motivato dei protagonisti. Di conseguenza non è affatto “realistico”, ed è perciò destinato a esasperare chi vi cercasse notizie sull’esistenza di attività terroristiche dopo gli anni di piombo, o una qualche introspettiva sulla complicità dello Stato con le organizzazioni terroristiche. Tuttavia, il film adempie a un importante compito simbolico per conto del suo pubblico, compito che è reso possibile dalla struttura tipica del thriller, come vedremo più diffusamente a proposito di Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci. Per ora è sufficiente considerare la terrorista in fuga, Nadia. La scelta di Lina Sastri per il ruolo di Nadia richiama il personaggio della Sastri in Segreti segreti, una terrorista assassina presa in trappola dalla polizia alla fine del film. In Donne armate, d’altro canto, il personaggio della Sastri viene recuperato come fondamentalmente buono nel corso del film, dopo che la donna è stata inizialmente mostrata come fredda e spietata, ed essere stata esplicitamente descritta come un’ “irriducibile”. Influenzata dalla sua amicizia con la poliziotta Angela, Nadia collabora, e anche se viene riportata in prigione le viene concessa la riammissione simbolica nella società e nella nazione. Chiaramente, questo thriller di genere cerca di raggiungere qualcosa di simile rispetto ai tre film d’impegno più sopra citati: il recupero all’interno della famiglia nazionale del terrorista che ha sbagliato. Il problema del realismo e della plausibilità in Donne armate è in ultima analisi irrilevante; i diversi codici di genere utilizzati dai tre film 59

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d’impegno e dal giallo di due diversi pubblici.

RAI2

sarebbero stati leggibili allo stesso modo per i

Sto quindi suggerendo che il genere o le caratteristiche formali di qualunque film non dovrebbero escluderlo dall’essere preso seriamente, per quanto poco serio il film stesso possa sembrare al cineasta o allo storico. E sto suggerendo che il film di fiction non dovrebbe essere paragonato né al documentario né alla storiografia accademica per stabilire il grado di autenticità storica del film, ma che il contributo che un film dà alla nostra comprensione del terrorismo e delle sue eredità e memorie dovrebbe invece essere letto secondo i suoi criteri specifici. Prendendo in esame i film su un certo periodo non dovremmo tentare di fare l’elenco delle deviazioni né specificare il grado di fedeltà di ciascuno ai documenti storici ufficiali, o esplorarli in una ricerca positivistica del grado di accuratezza. Il cinema non funziona assolutamente così. E in realtà nemmeno la stessa storiografia, come ci ricorda acutamente Sorlin (1980: 32): Se stessimo studiando un testo storico scritto [in un particolare momento], non lo paragoneremmo con la versione cinematografica per vedere se è veritiero. Cercheremmo invece di capire la logica politica della versione data nel libro, chiedendoci perché sottolinei questa problematica o quell’evento piuttosto che altri. Dovremmo conservare la stessa preoccupazione quando analizziamo i film.

In questo studio si cerca di seguire la raccomandazione di Sorlin, e si tenta di tracciare la logica politica dei film presi in esame, e il significato delle elisioni e omissioni così come quello delle enfatizzazioni presenti in ciascuno

NOTE AL CAPITOLO PRIMO

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Questa opinione si ripete nello studio di Hjort e MacKenzie (2000: 4) sulla messa in discussione dell’omogeneità del nazionale: “È importante riconoscere i limiti di una concezione del cinema nazionale come totalità ininterrotta che in qualche modo esprime, descrive e specifica accuratamente le preoccupazioni e gli aspetti più salienti di una data cultura nazionale”.

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2 Vedi

anche l’analisi di questa scena in Uva (2007: 14). 3 Un altro film che dovremmo ricordare in questo contesto è La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966), una riflessione fondamentale da parte di un regista italiano e di uno sceneggiatore anch’egli italiano (Franco Solinas). 4 Questo ci rimanda alla critica alla Resistenza da parte della sinistra extraparlamentare negli anni ’70. Secondo quanto afferma Philip Cooke (2006: 177), per quest’area della sinistra la Resistenza fallì a causa della sua “incapacità di capire la natura del capitalismo e le

IL CINEMA, I TERRORISMI E LA MEMORIA

sue contraddizioni”. Come fa notare Cooke, l’interpretazione prevalente della Resistenza negli anni ’70 identificava il fenomeno come una guerra di classe, distinta dalle altre due dimensioni della guerra civile e della guerra di liberazione identificate da Claudio Pavone. In questo contesto, è il caso di ricordare anche Colpire al cuore di Gianni Amelio, che ha in comune con Caro papà e con La tragedia di un uomo ridicolo sia l’impiego della configurazione edipica che l’identificazione del padre come ex partigiano. Tale identificazione nel film di Amelio è molto marcata: un membro delle Brigate Rosse (che più tardi viene mostrato ucciso dalla polizia) sottolinea che una certa foto di suo padre da giovane con in braccio una mitragliatrice fu scattata dopo la liberazione. Si suggerisce così che avesse fatto parte di uno dei gruppi di resistenza eterodossa che, come rimarca Cooke (2006: 178), erano e continuarono a essere “di grande imbarazzo” per il PCI. Cooke fa notare che il libro Brigate Rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, pubblicato da Feltrinelli nel 1976, traccia una linea diretta tra le BR e questi gruppi partigiani eterodossi (ad es. “Stella rossa” a Torino e “Volante rossa” a Milano). Dovremmo infine notare che Gangsters di Massimo Guglielmi (1992), che parla delle attività di uno di questi gruppi, sembra fatto apposta per creare un’analogia tra i partigiani irriducibili del passato e i gruppi terroristici di costituzione più recente. 5 È interessante dare uno sguardo alle osservazioni di Rimanelli (1998: 224) sulla reazione dello Stato agli attentati anarchici, nel contesto del tentativo di identificare un unico “cattivo maestro” come responsabile dell’orchestrazione del terrorismo rosso negli anni ’70: “Le autorità reagirono al terrorismo anarchico con ulteriori attacchi repressivi, ‘criminalizzando’ allo stesso tempo l’opposizione (i sindacalisti anarchici, i Repubblicani e i Socialisti) nello sforzo di ‘provare un complotto monodiretto’”. 6 Vedi Rimanelli, 1998: 225. Ginsborg (1990: 64) fa riferimento a una sezione del movimento partigiano come ai “terroristi urbani del GAP”. 7 Per uno studio breve sulla strategia della

tensione, sul ruolo che vi ebbero alcuni elementi interni allo Stato e su certe influenze internazionali, vedi Bull e Newell 2005: 101-4. L’argomento è invece più ampiamente trattato in Ferraresi 1996. 8 Uno studio sull’attentato, sulle indagini e sul processo, e sulle condanne che alla fine furono emesse, si trova nel terzo capitolo nel paragrafo dal titolo “Lo spettacolo del terrore”. Per un approfondimento sulla posizione incerta che la strage di Bologna occupa nella memoria nazionale vedi Tota 2002 e 2003. 9 Secondo una ricerca riportata su Il sole ventiquattrore (Biacchessi 2005), molti giovani bolognesi credono che la bomba sia stata innescata non da elementi dell’estrema destra ma dalle Brigate Rosse. 10 Il film allude ai suicidi apparentemente collegati di diversi membri della Rote Armee Fraktion che ebbero luogo nel carcere di Stammheim nell’ottobre del 1977. Sebbene siano stati in molti a mettere in dubbio la versione delle autorità di questi eventi, ora gli storici concordano sul fatto che si trattò veramente di suicidi e non di esecuzioni mascherate. 11 “Anni di piombo: nel linguaggio giornalistico, il decennio successivo al 1970, caratterizzato soprattutto in Italia e in Germania da azioni terroristiche” (Battaglia, a cura di, Grande Diz. della Lingua Italiana XIII, Torino: UTET). 12 Rimanelli (1998: 225), in un articolo originariamente pubblicato verso la fine della Guerra Fredda, descrive l’Italia come un “Paese della NATO importantissimo dal punto di vista geostrategico nel turbolento bacino del Mediterraneo, al centro delle tensioni tra Oriente e Occidente, oltre che patria sia della Chiesa Cattolica che del più grande partito comunista occidentale (il PCI). Questa combinazione unica di debolezza [fragilità politica ed economica, e un debole senso dello Stato] e di rilevanza internazionale, insieme alla tradizionalmente forte politicizzazione, fornì terreno fertile per vari tipi di movimenti terroristici”. Comunque, non fu semplicemente l’importanza geostrategica dell’Italia a fornire il “terreno” per l’attività terroristica, ma piuttosto la mini-guerra civile italiana degli anni di piombo rappresentò una variante intrapresa tra i due

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blocchi imperiali. Vedi comunque anche Panvini 2007, pp. 103-104 per una critica dell’uso del termine “guerra civile” per descrivere il terrorismo italiano e il conflitto con lo Stato. 13 È anche il titolo di un’importante giornale di critica pubblicato dalla Duke University dal 1979, anche se i curatori di Social Text non fanno mai riferimento al loro uso del termine, nemmeno nei primi numeri. Sembra probabile che l’espressione fosse comune nel discorso accademico del periodo, usato specialmente dagli studiosi di letteratura in reazione alle metodologie formaliste da varie prospettive storiche. Una di queste prospettive era l’approccio marxista di Fredric Jameson, uno dei primi curatori di Social Text, sul cui lavoro si basa esplicitamente Beverly Allen nella metodologia utilizzata nell’articolo citato (Allen 1997).

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In questo studio includo anche i film per la televisione, perché la fusione tra i due generi è così dominante che i film fatti per il cinema verranno trasmessi in TV o messi in commercio in una versione da vedere in casa, mentre certi film per la TV hanno, a loro volta, una versione cinematografica – l’esempio più noto tra quelli presi qui in esame è La meglio gioventú. 15 Uso qui il termine “mito” nel significato specifico ereditato da scrittori come Roland Barthes (1993). La descrizione del “mitico” è intesa a significare che l’evento, la narrazione dell’evento e l’interpretazione di tale narrazione possono verificarsi, e si verificano, quasi simultaneamente, così che mentre l’evento ha uno status “fattuale”, esso è accessibile solo come forma particolare di narrazione e come una specie di patina su quella narrazione.

CAPITOLO SECONDO

B e r l i n o , H o l ly w o o d , V i a M o n ta l c i n i : tut ti i luoghi di Mor o

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Moro a Berlino Sin dal mattino dell’audace rapimento e del successivo assassinio dell’ex Presidente del Consiglio Aldo Moro la scorsa primavera, gli investigatori italiani sono stati attratti da alcuni indizi di un collegamento con la Germania Occidentale. Alcuni testimoni oculari hanno riferito di aver sentito parlare tedesco sulla scena del sequestro. La polizia ha inoltre notato che l’attuazione del rapimento e la precisa esecuzione dei cinque poliziotti della scorta di Moro presentavano uno stile curiosamente simile a quello del sequestro, avvenuto sei mesi prima a Colonia, dell’industriale tedesco Hans Martin Schleyer. Ora gli inquirenti italiani riferiscono di aver trovato ulteriori prove dei legami tra l’associazione terroristica delle Brigate Rosse italiane e quella più sofisticata della Rote Armee Fraction della Germania Occidentale. Tra gli indizi c’erano le dettagliate note di spesa trovate in un covo delle BR a Roma che secondo la polizia sarebbero state usate dalla banda degli assassini di Moro. Le note fanno riferimento a voli per Vienna e per quattro città tedesche effettuati da qualcuno indicato con il nome in codice di “Fritz”. Le targhe di due auto della Repubblica Federale Tedesca ritrovate nello stesso covo non sono risultate rubate né in Germania né in Italia, per cui si crede che presumibilmente siano state portate direttamente a Roma. La polizia della Germania Federale è incline a ritenere di essere a un passo dal provare un legame tra il caso Schleyer e il caso Moro, e hanno tenuto le Brigate Rosse sotto stretta sorveglianza. Si pensa che siano vicini all’arresto di due membri delle BR. Dopo il rientro di due giudici istruttori che sono stati in Germania per verificare le prove, le autorità italiane reputano ora che gli indizi messi insieme indichino la partecipazione diretta o per lo meno l’effettivo appoggio nel sequestro Moro da parte di organizzazioni tedesche. Gli italiani stanno lavorando sull’ipotesi che la banda di dieci-dodici uomini che hanno rapito Moro possa essere composta da stranieri, forse con l’inclusione di tedeschi, che poi avrebbero consegnato il politico a un secondo gruppo, probabilmente di italiani. Si pensa 65

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che un terzo gruppo abbia tenuto i regolari contatti che stabilivano i termini del rilascio di Moro. Torniamo ora ai programmi annunciati… Queste parole vengono lette da una voce su una radio tedesca nella versione doppiata in inglese di Kleinhoff Hotel, un film del 1977 diretto da Carlo Lizzani. Kleinhoff Hotel è una sorta di Ultimo tango a Berlino, in cui in uno squallido albergo una giovane donna che si trova lì per caso resta attratta dall’uomo della stanza accanto, un terrorista, probabilmente un membro della RAF senza più illusioni. Tra i due nasce un’appassionata relazione sessuale, mostrata esplicitamente. Mentre la sua amante sta dormendo, l’uomo, che sta ascoltando il comunicato citato qui sopra, rompe una bottiglia di vetro e si uccide tagliandosi le vene dei polsi. Kleinhoff Hotel è una bizzarria: una coproduzione internazionale con attori americani, tecnici italiani e un’ambientazione tedesca.1 Kleinhoff Hotel è un film che ritrae la violenza politica secondo i termini sessuo-politici proposti in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, e benché sia stato prodotto prima del rapimento di Aldo Moro contiene nella versione inglese, evidentemente doppiata dopo il rapimento, quel riferimento estraneo agli eventi narrati. Le recensioni italiane dell’epoca a partire dalla primavera del 1978 non nominano Moro (v. ad es. Conforti 1978), e le informazioni sulla stampa cinematografica mostrano chiaramente che era stato immesso sul mercato come un film erotico europeo rinforzato con una spruzzata di politica.2 L’uso che si fa in Kleinhoff Hotel delle informazioni sul rapimento di Moro e il sospetto che getta di un coinvolgimento internazionale – sospetti sorti all’inizio e non ancora risolti – costituiscono un motivo utile per l’inserimento del film in uno studio specifico sulla rappresentazione del rapimento di Moro. Per quanto opportunistico possa essere questo modo di trattare il terrorismo come tema e la vicenda di Moro come esca commerciale, dimostra quanto il suo rapimento e il suo assassinio fossero riconosciuti come centrali. Suggerisce il tema del coinvolgimento internazionale che sboccerà nella teoria del complotto in film successivi come Piazza delle Cinque Lune (Renzo Martinelli, 2003); rappresenta simbolicamente l’aspetto “traumatico” del sequestro per la sinistra (l’associazione suggerita nel film tra il rapimento e il suicidio del terrorista di sinistra, oltre all’essere l’opera di un regista di area PCI) che comparirà nuovamente in Maledetti vi amerò (Marco Tullio Giordana, 1980);3 sfrutta per fini commerciali l’elemento degli eventi legati a Moro come avrebbe poi fatto L’anno del terrore (John Frankenheimer, 1991). Film po66

Berlino, Hollywood, Via Montalcini: tutti i luoghi di Moro

co conosciuto, riesce però a far capire, con l’eccesso di scrittura nella sceneggiatura originale secondo le circostanze suggerite dall’informazione, come il cinema si inserisca in un dibattito sulla struttura della storia contemporanea. Lo stesso tema verrà sviluppato in modo elaborato e deliberato in Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003), un film che evidenzia un’autoconsapevolezza del fatto che nessun testo che abbia a che fare con l’interpretazione o la commemorazione di eventi del passato si possa proporre come un oggetto isolato. Tali testi si presentano inevitabilmente come palinsesti: assumono familiarità con i modi in cui la storia che rappresentano, commemorano o sfruttano è stata già scritta, e attivano nello spettatore, in modi più o meno intenzionali, una forma di conoscenza che potremmo definire come “intertestuale”. Più di tutti, l’uso che si fa di Moro in Kleinhoff Hotel indica come il suo sequestro fosse diventato l’argomento chiave da scandagliare per qualunque film con pretese di commentario politico girato dopo e, curiosamente, persino prima degli eventi che descrive.

Il mito del rapimento4 “Il caso Moro ha segnato in Italia l’inizio di una nuova era politica e culturale”. Le parole sono di Renzo Martinelli (Rodier 2003: 25), regista di Piazza delle Cinque Lune, un recente conspiracy thriller sul sequestro Moro (2003).5 La sua affermazione è ormai da tempo un luogo comune. L’eccessiva enfasi di Martinelli si adatta a un regista che sta decantando il significato del suo nuovo film per le esigenze del mercato, ma l’importanza del sequestro Moro – un insieme traumatico di ricordi, come lo ha definito Rossana Rossanda (1997) – è provata, o per lo meno suggerita, dal notevole volume del materiale che è stato pubblicato a partire dal rapimento e dall’assassinio del presidente della DC nel 1978. L’impressione è confermata dallo spazio riservato al sequestro in molte delle storie generali degli anni di piombo: tre capitoli su diciotto in La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, per citare un esempio italiano (alla strage di Bologna è dedicato meno di un capitolo); un quarto di The Heart Attacked di Alison Jamieson, per citare l’esempio di un autore non italiano (in cui il sottotitolo, Terrorism and Conflict in the Italian State, non necessariamente preannuncia questa enfasi). Ancora, diventa l’evento chiave con cui confrontarsi nelle memorie dei protagonisti degli anni di piombo; allo stesso modo, Il prigioniero di Anna Laura Braghetti (2003), un racconto della sua militanza nelle Brigate Rosse e dei destini del gruppo, dedica più di metà della sua lunghezza 67

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al sequestro di Moro e offre la base testuale per Buongiorno, notte, che si limita a sfruttare delle memorie il solo materiale riferito a Moro. È proprio questa percezione dell’importanza dell’assassinio di Moro per la coscienza collettiva degli italiani – il “trauma” che si può dire abbia provocato – che motiva uno studio specifico sulla rappresentazione cinematografica del sequestro. Pochi avvenimenti reali sono al centro di singoli film presi in esame in questo libro, e di certo il sequestro Moro è l’unico ad avere così tanti film dedicati o che vi facciano un riferimento significativo. Citiamo ora brevemente anche due film, I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000) e Romanzo criminale di Michele Placido (2005), che confermano o addirittura attivano questa percezione dell’importanza centrale del rapimento di Moro negli avvenimenti politici e sociali dell’Italia. I cento passi racconta la storia della ribellione e della morte violenta del personaggio di Peppino Impastato, figlio di un piccolo mafioso di Cinisi (vicino Palermo), ucciso dalla mafia per la sua opposizione satirica e piena di scherno al controllo dell’organizzazione criminale sulla vita siciliana. Per una tragica coincidenza la data del suo assassinio, il 9 maggio del 1978, fu la stessa del ritrovamento del corpo di Aldo Moro a Roma: il film mette a confronto i due omicidi, dopo aver dimostrato che il rapimento di Moro aveva favorito una tendenza popolare, per non dire reazionaria, a demonizzare il movimento non violento in senso più ampio (Impastato militava in Democrazia Proletaria). L’accostamento del suo destino a quello del presidente della DC costituisce nel film una mossa polemica: accetta come incontestabile che la morte di Moro sia un fatto culturale, ma, per contrasto, eleva quella di Impastato a un analogo livello di tragedia e di rilevanza, insistendo sul fatto che quell’omicidio un tempo ignorato dovrebbe rappresentare nella memoria collettiva degli italiani un punto di riferimento altrettanto cruciale. In questo senso, il film segue la piéce teatrale di Marco Baliani Corpo di stato – un monologo sull’esperienza personale del sequestro di Moro da parte dell’attore – che propone un’associazione simile (v. Baliani 2003: 10-16), e l’accostamento dei due omicidi nel libro giornalistico di Geoff Andrews sull’Italia contemporanea, Not a Normal Country (Andrews 2005: 10-11).6 Ciascuno di questi tre testi contiene un qualche tentativo di recuperare altre forme di protesta dal pozzo dell’amnesia e di porre rimedio alla riduzione da parte della cultura della sinistra negli anni Settanta all’odioso fenomeno del terrorismo. Il ricorso a Moro in I cento passi rimanda al sequestro come punto di riferimento fondamentale, proprio come in Kleinhoff Hotel e, come vedremo più avanti, in Ogro (Gillo Pontecorvo, 1979). Il rapimento e l’uccisione di Moro sono il dato culturale che consente le affermazioni espresse su 68

Berlino, Hollywood, Via Montalcini: tutti i luoghi di Moro

Peppino Impastato e l’elettorato da lui rappresentato, e allo stesso tempo costituiscono la garanzia che queste stesse affermazioni possano essere colte e capite dallo spettatore italiano e, di fatto, dal pubblico internazionale. Il dato culturale condiviso del sequestro Moro ricorre nuovamente nel libro di Giancarlo De Cataldo Romanzo criminale (2002), che utilizza un racconto epico della malavita romana per fornire al sequestro uno sfondo ormai familiare di complotto. Il film di Michele Placido del 2005 tratto dal romanzo di De Cataldo mantiene la figura del burattinaio che si serve della gang romana per scoprire gli spostamenti di Moro, per poi rifiutarsi di agire sulla base di ciò che scopre, consentendo così la morte del presidente. Il film conserva anche i riferimenti alla strage di Bologna, e a Moro e a Bologna viene attribuita una discutibile equivalenza, accordando a entrambi lo status inequivocabile di eventi maggiormente esemplificativi e “spettacolari” degli anni di piombo – cosa che è sottolineata dall’uso di documenti filmici originali. Perché il sequestro e l’uccisione di Moro hanno finito con l’essere percepiti come un evento così preminentemente significativo? La risposta a questa domanda deriva sia da circostanze storiche oggettive che da fattori culturali o intersoggettivi. I commentatori (compresi gli stessi membri delle Brigate Rosse) concordano sul fatto che l’evento abbia segnato l’inizio della fine per la lotta armata di sinistra in Italia; come scrive Paul Ginsborg (1990: 385), “la crisi del terrorismo italiano, come viene generalmente riconosciuto, risale alla morte di Moro”. Le ragioni non possono essere ridotte alle spiegazioni che vengono generalmente date: lo status dello stesso Moro come figura centrale e di grande visibilità per trent’anni di storia della vita pubblica italiana e il fatto che l’uccisione di Moro abbia privato i gruppi armati della sinistra di una parte significativa del supporto che li aveva sostenuti in precedenza.7 Non sono da sottovalutare la riorganizzazione delle forze antiterrorismo sotto la direzione del Generale Dalla Chiesa e la criminalizzazione e la repressione della sinistra extraparlamentare seguita all’assassinio di Moro. Secondo Mario Moretti, la repressione del movimento portò di fatto a un improvviso aumento nelle richieste di affiliazione alle Brigate Rosse che, paradossalmente, indicava il fallimento del progetto ideologico o utopistico delle BR e del movimento in senso più ampio: l’adesione alle Brigate Rosse era diventato ormai un sintomo di disperazione. In tali circostanze, era solo questione di tempo perchè la disaffezione distruggesse la presunta forza militare delle Brigate Rosse con defezioni e militanti che accettavano di diventare dei pentiti. 69

alan o’leary - tragedia all’italiana

Per il nostro scopo, comunque, sono più significativi i fattori culturali che portarono al sequestro di Moro, data l’importanza che esso riveste nell’immaginario collettivo degli italiani. Il sequestro di Moro dimostra, come nessun altro, che gli eventi non possono esistere come “fatti” indipendentemente dal contesto della loro interpretazione. Il modo di gestire la cosa – da parte dello stesso Moro (le sue molte lettere dalla “prigione del popolo”), delle Brigate Rosse (con i loro comunicati e altri atti, compresi gli omicidi compiuti durante il periodo del sequestro), dello Stato (col suo rigetto dell’autenticità delle lettere di Moro e il rifiuto di trattare per salvargli la vita) e infine dei mass media (impegnati per la prima volta in un servizio continuo, ventiquattrore su ventiquattro) – dimostra in modo enfatico l’osmosi bilaterale tra gli eventi e la loro interpretazione. Durante la prigionia di Moro, l’interpretazione e la rappresentazione furono in primo piano come mai era successo prima in Italia e, in quello stato di disorganizzazione e impotenza della polizia, divennero il campo su cui si disputarono il risultato del sequestro e le sue conseguenze sul sistema politico italiano e la coscienza collettiva degli italiani. Il significato sfuggente del sequestro Moro è una diretta conseguenza della centralità dell’interpretazione durante il periodo della prigionia, mentre il significato elusivo dell’evento ha a sua volta generato la vastissima letteratura su di esso. Il rinvio di un qualunque punto d’accordo generale sul significato del rapimento di Moro (si è trattato di un piccolo colpo di stato degli iscritti alla loggia massonica della P2? O di un incidente all’interno della Guerra Fredda manovrato dalla CIA? È stato semplicemente il più visibile atto di hybris di una sinistra rivoluzionaria lontana dalla realtà?) sta all’origine del suo impatto traumatico sulla psicologia italiana altrettanto quanto il fascino che esercita come fatto emblematico sugli studiosi italiani e stranieri. Il mare della rappresentazione e dell’interpretazione scandagliato per la prima volta nel giorno stesso del sequestro si è opposto alla giusta misura. Giuseppe Bertolucci ha ben evidenziato l’atteggiamento dei mass media nei confronti del terrorismo in Italia, “ossessivamente ‘mostrato’ nel suo tragico evolversi quotidiano” (Giraldi 2000:11). Questo mostrare o narrare ossessivo raggiunse l’apice a iniziare con il resoconto del rapimento di Moro e dell’uccisione della scorta il 16 Marzo del 1978: Dal mattino la radio e la televisione danno corso a trasmissioni continue e i giornali pubblicano edizioni straordinarie che contribuiscono a richiamare l’attenzione dei cittadini sull’estrema gravità del fatto e sulle conseguenze che può

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Berlino, Hollywood, Via Montalcini: tutti i luoghi di Moro

avere sulla stabilità politica (assicurata, peraltro, dall’immediato voto di fiducia al governo di unità nazionale presieduto da Andreotti); ma, nello stesso tempo, con la ripetitività delle pochissime immagini disponibili e in mancanza di notizie, queste ripetizioni incessanti possono alimentare lo smarrimento e il panico che hanno colpito un po’ tutti. […] È un accavallarsi frenetico di ipotesi spesso campate in aria, di voci, di scoperte senza conferme, di indiscrezioni interessate, mescolate alle pochissime notizie certe. (Murialdi 1995: 200/1)

Per noi, nell’era dei notiziari ventiquattrore su ventiquattro, questo processo è diventato molto familiare. Siamo abituati ad aspettarci che le speculazioni degli esperti e delle parti interessate prendano il posto dei fatti quando questi scarseggiano, o persino che li sostituiscano quando il commentatore possieda un particolare carisma. Ma la durata della prigionia di Moro fu il primo esempio di come questo processo si evolve in un contesto italiano. Quest’informazione posava su un paradosso: la vittima, centro dell’attenzione, era invisibile – Moro era un’assenza al centro della speculazione, e poteva essere visto solo dai suoi carcerieri fin quando fu trovato morto nel portabagagli di una macchina in Via Caetani cinquantaquattro giorni dopo.8 Una delle funzioni dei film su Moro – Il caso Moro (Giuseppe Ferrara, 1986) e Buongiorno, notte – è dunque quella di riportare Moro all’interno dell’immagine: di visualizzare l’incarcerazione che era stata così intensamente immaginata dalla stampa e dal pubblico del tempo. L’altissimo grado dell’attenzione dedicata al rapimento di Moro durante quei cinquantaquattro giorni è dunque una delle ragioni per cui il suo sequestro sembra investire un’importanza così centrale. Il suo significato, cioè, era affermato dall’attenzione stessa che gli veniva accordata, e dal fatto che gli italiani di allora non potevano fare a meno di sentirsi “coinvolti” – per quanto in modo mediato – negli sviluppi quotidiani; sviluppi che a loro volta prendevano principalmente la forma di parole rilasciate dal governo, dalle BR o dallo stesso Moro.9 Pochi libri scritti da allora resistono alla tentazione di raccontare la tensione o la suspense (o il trauma?) implicate in questo processo.10 Nei libri su Moro la suspense è creata da una narrazione meticolosa del rapimento che culmina con l’assassinio, e questo vale anche per il capitolo di Alison Jamieson sul sequestro – una cronaca mozzafiato scandita da giorni e date – così come per il racconto di Anna Laura Braghetti della realtà quotidiana nella prigione di Moro e del progredire inesorabile verso la morte.11 L’impulso che entra in atto in questo tipo di narrazione (e questo vale anche per trattazioni di tipo accademico come quella della Jamieson) è simile a quello intorno a cui si sviluppa la narrativa; ossia, c’è una sorta di compiacimento morboso nella ricostruzio71

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ne del procedere ineluttabile verso la morte dell’uomo dal destino segnato. Il racconto cronologico contenuto nei libri e nei film su Moro (specialmente Il caso Moro e Buongiorno, notte) costituisce una specie di omaggio, o un’imitazione, all’originale cronaca piena di tensione così come all’epoca venne proposta in tempo reale dai mass media italiani: In via Fani dopo mezz’ora arriva per il TGUNO Paolo Frajese. Inizia per le testate della RAI la prima autentica no-stop radiofonica e televisiva, con edizioni straordinarie praticamente ogni 10-15 minuti e lunghissime dirette senza interruzioni. […] Il paese era immerso in un incubo scandito dalle sigle dei giornali radio e dei telegiornali, di fronte ai quali la gente si poneva continuamente le stesse, ossessive domande: lo liberano o lo ammazzano? Stanno trattando o no? (Ferretti et al. 1997: 229/230)

Toby Abse (2003) divide in tre categorie la letteratura che ha fatto ossessivamente ricorso a questi eventi: i testi che seguono la versione “ufficiale” del sequestro di Moro, basandosi principalmente sugli atti giudiziari; quelli che sollevano un caso affine a quello suscitato dalla stessa famiglia Moro, che aveva la sensazione che lo Stato e lo stesso partito di Moro avessero abbandonato il Presidente al suo destino senza una ragione valida; e, infine, quei testi che sposano la lettura cospiratoria degli eventi. A queste tre categorie proposte da Abse se ne potrebbe aggiungere una quarta: il tipo di memorie scritte non dai commentatori, dai giornalisti o dagli storici, ma dagli stessi protagonisti degli eventi, come ad esempio Il prigioniero di Anna Laura Braghetti e Brigate Rosse: Una storia italiana di Mario Moretti (2000). I film presi in esame in questo capitolo seguono solo in parte questa divisione: Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune rientrano pienamente tra i conspiracy film, basati sui racconti del sequestro Moro rispettivamente di Robert Katz e di Sergio Flamigni. Buongiorno, notte, basato sulle memorie di Anna Laura Braghetti dei suoi anni di militanza nella lotta armata, rifiuta assolutamente la teoria del complotto per offrire invece una cronologia intima della vita quotidiana dentro la prigione del popolo e dei rapporti tra Moro e i suoi carcerieri. Infine, anche se cronologicamente vengono prima, Ogro e Maledetti vi amerò affrontano la crisi che il destino di Moro rappresentò per la sinistra italiana: innanzitutto per ciò che riguarda la validità della violenza politica, e poi per quanto riguarda il trauma che per la sinistra fu l’eredità del sequestro e dell’omicidio.

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Moro a Madrid Ogro di Gillo Pontecorvo (1979) è un film sulla validità dell’uso della violenza politica. Racconta due storie intrecciate con una struttura a flashback: la prima, quella del sequestro architettato e dell’uccisione finale a Madrid nel 1973 dell’ammiraglio Carrero Blanco, noto come Ogre, l’uomo designato come erede di Franco, da parte di un gruppo dell’ETA;12 la seconda storia, che fa da cornice alla prima ma alla quale è destinato molto meno spazio sullo schermo, racconta di come un elemento del gruppo rifiuta di rinunciare alla lotta armata durante il passaggio alla democrazia seguito alla morte di Franco, e di come viene infine ferito a morte in un conflitto a fuoco con la polizia (il film si conclude con i compagni di un tempo riuniti intorno al suo letto di morte). In Ogro i due contesti della dittatura e della nascente democrazia sono contrapposti per introdurre la domanda centrale: in quali situazioni è giustificabile il ricorso alla violenza come forma di lotta politica? Il film non presenta un semplice esempio a favore o contro l’uso della violenza in supporto a un’aspirazione politica. Asserisce invece che l’uso della violenza è giustificato se è rivolto contro i regimi fascisti o colonialisti, ma non contro i governi democratici o contro i loro servitori.13 Questa argomentazione è espressa in relazione alla Spagna e ai Paesi Baschi, ma è espressa in modo tale da suggerire un riferimento all’Italia e agli avvenimenti di Moro, e di fatto subisce nei temi, nei motif e nelle conclusioni l’influenza della gestione e dell’esito finale del rapimento del presidente della DC. È utile elencare le analogie che collegano il sequestro Moro e l’assassinio di Carrero Blanco così come esso è presentato in Ogro. Nel film si vede il gruppo clandestino di quattro attivisti dell’ETA prendere attentamente nota dei movimenti e delle abitudini della vittima designata, arrivando a seguirlo come un’ombra fino alla chiesa dove si reca ogni giorno per assistere alla messa. Si sa che anche Moro andava in chiesa ogni giorno, e certamente fu sottoposto a una sorveglianza analoga prima del rapimento. Anche se Carrero Blanco fu assassinato anziché sequestrato, è significativo il fatto che in quel momento stesse viaggiando sulla sua auto, proprio come Moro fu preso dalla sua propria macchina, e furono uccise le scorte di entrambi.14 Il piano dell’ETA di sequestrare anziché di uccidere Carrero Blanco, in ogni caso, si vede modificato solo quando egli viene nominato primo ministro e la sua protezione viene rafforzata. La stessa operazione Ogro viene rappresentata come se fosse stata messa a punto con un’efficienza che avrebbe ricordato il presunto valore militare delle Brigate Rosse nell’esecuzione del sequestro di Moro e nell’uccisione degli uo73

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mini della sua scorta.15 Viene inoltre suggerita un’identificazione dei personaggi dell’ETA con i gruppi armati clandestini italiani. È rimasta famosa la diagnosi di catto-comunismo espressa da Giorgio Bocca per questi ultimi, e uno dei membri dell’ETA è appunto un ex-prete: “Il personaggio di Txabi adombra un Curcio basco che nel suo integralismo cattolico-marxista sposta l’attenzione sulla problematica del terrorismo di casa nostra” (Natta 1979: 594). Nonostante tutte queste analogie, Ogro era già in preparazione da alcuni anni, e diverse parti della sceneggiatura erano già state scritte prima che Moro fosse sequestrato (Lucas 1980: 2-3; Faldini e Fofi 1984: 280). Secondo quanto afferma Finetti (1980), l’omicidio di Carrero Blanco in origine aveva offerto al regista e ai suoi collaboratori l’opportunità di fare un film sull’uso della violenza che avrebbe fatto presa su un certo elettorato che condivideva la sua prospettiva politica: “l’operazione Ogro […] può consentire la realizzazione di un film al tempo stesso spettacolare e politicamente impegnato, che nasce sul minimo comune denominatore più diffuso: l’antifascismo e la legittimità in questo caso della lotta armata”. Ma ecco che sopraggiunge il rapimento: Alla vigilia delle riprese avviene la strage di Via Fani e l’assassinio di Moro. E il film? Pontecorvo si preoccupa. Quel Carrero Blanco, uomo indispensabile per mediare e garantire la continuità del regime, non è più un politico così lontano e la Madrid del ’73 non ha le sembianze distanti di una Roma nel ’43. (Finetti 1980)

Il riferimento alla Roma del 1943 è ovviamente rivolto ai partigiani, e l’evocazione della Resistenza fu notata dal pubblico italiano di Ogro: Mario Militello (1980: 31) parla di un “autorevole dirigente del PCI [che] ha sostenuto che questi di Ogro assomigliano più ai partigiani di ieri, che non ai terroristi di oggi”. E non è esagerato dire che il film celebra l’assassinio di Carrero Blanco: i preparativi per l’attentato alla sua macchina, mentre gli attentatori scavano una galleria sotto una via della città spacciandosi per flemmatici elettricisti, sono recitati come una lugubre citazione di La grande fuga ( John Sturges 1963),16 con un moltiplicarsi dei momenti di suspense, in un insistente tentativo di ottenere la simpatia dello spettatore. Ma per gli autori del film fu proprio il fatto che lo shock causato dalla vicenda di Moro, e le molte analogie tra di esso e l’assassinio di Blanco, non potevano che prendere il posto, nella mente del pubblico, di quei mitici antenati partigiani: “Il delitto Moro butta per aria tutto l’impianto del film con il rischio fin troppo evidente di identificare gli indipendentisti baschi con le Brigate Rosse e di legittimare l’opera del terrorismo di casa nostra” (Natta 1979: 594). 74

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Per Enzo Natta, la preoccupazione di evitare questa identificazione getta il film in un freddo didascalismo: la narrazione degli eventi, celebrativa e da cinegiornale, sul tipo di La battaglia di Algeri, è sostituita dalla goffa struttura di “un film a due facce”: una è quella della scrupolosa ricostruzione documentaria, tagliente e serrata, l’altra quella del dibattito politico del quale si avverte subito la giustapposizione forzata e il tono didascalico che segue scrupolosamente le piste dell’ortodossia eurocomunista. (Natta 1979: 594)

Pontecorvo respinse l’accusa di aver seguito una linea da partito eurocomunista (Militello 1980: 32), ma di fatto l’accusa è confermata dalle parole finali del film, pronunciate dal leader del gruppo che ha assassinato l’Ogre, il quale rinuncia alla violenza per darsi all’azione politica democratica: “È duro aver pazienza, ma ci vuole anche questo coraggio”, una visione che non sarebbe suonata fuori posto se messa in bocca a un dirigente del Partito Comunista Italiano. Dovremmo ricordare tutto questo quando analizziamo la comparsa nel film di un personaggio comunista – un muratore, attivista sindacale privo di legami con l’ETA – infilato a forza nella storia quando incontra uno del gruppo di Ogro durante i preparativi per il sequestro. Dopo qualche esitazione, l’uomo acconsente a usare le sue competenze per effettuare le prove acustiche del sotterraneo che sarebbe dovuto essere la prigione di Carrero Blanco. Se ricordiamo che poi nel film, come nella realtà, il rapimento viene alla fine annullato (perchè troppo pericoloso e con la probabilità di coinvolgere troppi passanti) e sostituito dall’assassinio, ci appare chiaro che quel personaggio non riveste alcuno scopo narrativo; non serve cioè a mandare avanti l’azione, ma piuttosto a portare sullo schermo un aspetto del dibattito sull’uso della violenza e sulle forme corrette di lotta politica. Il personaggio del sindacalista quando appare per la prima volta sta richiamando i compagni di lavoro perché prendano parte a uno sciopero, e lo si vede attaccato da una polizia repressiva, in modo che siano chiare le sue credenziali anti-autoritaristiche: “La polizia mi conosce bene. Sono anni che entro e esco di prigione”. Il militante più fermo nelle sue convinzioni (Txabi, il personaggio che muore alla fine del film) gli viene in aiuto, e più avanti lo ritrova e chiede a sua volta la sua collaborazione. La risposta dell’operaio, parte di una sequenza ridondante da un punto di vista narrativo ma tematicamente centrale, è estranea al film e contemporaneamente ne costituisce un punto chiave: 75

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“Per me voi sbagliate. Sequestro di industriali. Una bomba gettata qui, un poliziotto ammazzato là. Secondo me sono stronzate”. “Perché, secondo te qual è la lotta giusta?” “Per noi la lotta è qualcosa di diverso. La lotta è il lavoro di tutti i giorni. È organizzazione. Ottenere sempre più consenso. Cambiare la testa della gente pezzo per pezzo, giorno per giorno. Insomma una fatica di merda che è fin troppo facile disprezzare. […] Il fatto è che io credo solo all’azione collettiva fatta da più gente possibile e che serva a più gente possibile”. [dialogo trascritto dal film]

Solo quando scopre, con grande shock, che l’obiettivo dell’ETA è Carrero Blanco – leader fascista e futuro erede del potere falangista – l’uomo accetta di dare il suo aiuto. Pontecorvo avrebbe potuto confidare sulla consapevolezza del suo pubblico del fatto che Carrero Blanco era l’uomo che avrebbe potuto probabilmente garantire un passaggio morbido verso il “franchismo senza Franco” dopo la morte del vecchio dittatore, e il suo assassinio da parte dell’ETA era stato di fatto in generale approvato: Qualunque possa essere il giudizio della storia, all’epoca l’assassinio fu largamente visto come la fine del franchismo. Il paese stagnante si sentì ravvivato, leader come Felipe Gonzàlez, il presidente dei comunisti e veterano della Seconda Repubblica Santiago Carillo e i leader baschi e catalani incominciarono a incontrarsi segretamente per programmare la transizione verso la democrazia. (Kurlansky 1999: 254)

L’accettazione generale della natura eccezionale ma necessaria di quell’assassinio consente una distinzione fondamentale proposta con insistenza nel film. In sostanza si può dire che questa distinzione implica un privilegiare la violenza strumentale rispetto a quella simbolica. La prima è rappresentata nel film da un’azione che si presuppone debba godere di ampio consenso (la funzione del personaggio del sindacalista sta a significare questo) ed effetti politici prevedibili – cioè, l’assassinio di Carrero Blanco comporterà la fine del fascismo. La seconda (la violenza simbolica) è rappresentata dalla spietata esecuzione di due poliziotti da parte di Txabi, che spara loro alle spalle in quanto rappresentanti dei servitori dello stato spagnolo. Il fatto ha luogo nei primi giorni vacillanti della democrazia, un’azione apparentemente inutile che porterà solo alla morte di Txabi. In contrasto con la scena ritardata dell’attentato all’auto di Carrero Blanco, allo spettatore non viene concessa nessuna preparazione per l’uccisione dei due poliziotti, che viene mostrata in modo secco e improvviso. Non ci possono essere dubbi sul fatto che l’azione di Txabi è vana e persino assurda. 76

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Va notato che, al contrario dell’evento storico dell’assassinio, la seconda azione è inventata, anche se non proprio atipica. In essa, Txabi e un compagno si avvicinano da dietro a due poliziotti che camminano e incominciano a sparare. Entrambi i poliziotti cadono a terra, ma uno riesce a far partire una raffica dal mitra. Txabi è ferito e cade sulla strada mentre il suo compagno fugge via. Nella scena successiva si vede Txabi su un’ambulanza che viene portato in ospedale. La sequenza farebbe venire in mente un episodio accaduto a Torino l’11 aprile del 1978 – cioè nei giorni della prigionia di Moro – in cui una guardia carceraria fu ferita a morte fuori dalla sua abitazione dalle Brigate Rosse, ma prima di morire riuscì a restituire il colpo ferendo uno dei due assassini, che fu poi abbandonato dai suoi compagni fuori da un ospedale (Calvi et al. 2003: 187). La funzione di una simile allusione è quella di rievocare l’atmosfera del periodo della vicenda di Moro, ma allo stesso tempo stabilisce un contrasto con il sequestro. Se il sequestro Moro è ricordato sia dalle circostanze della morte di Txabi che dal programmato rapimento e dall’assassinio a cui fa riferimento il titolo, il film ha ciò nonostante insistito sulla non comparabilità dei due contesti in cui si sono svolti i due omicidi di Moro e di Blanco. In seguito ai traumatici avvenimenti di Roma, la rappresentazione dell’uccisione di Carrero Blanco non può non essere messa sullo stesso piano con il rapimento e l’assassinio di Moro – ma questa equazione, in parte suggerita dal film, viene poi fermamente rinnegata: l’uso strumentale dell’assassinio politico sotto il fascismo, insiste il film, non è la stessa cosa rispetto all’omicidio politico simbolico in una democrazia. In Ogro, l’assassinio di Carrero Blanco è comparato, inevitabilmente, all’uccisione di Moro, ma alla fine è posto fortemente in contrasto con essa. È certo, e anche ovvio, che Ogro abbia a che fare in modo molto più diretto con la questione basca e con il problema, in quel contesto, dell’uso della violenza con una motivazione politica. Il messaggio del regista per gli attivisti baschi non potrebbe essere più chiaro: è ora di mettere da parte il mitra e di imbracciare le urne elettorali. Ciò nondimeno, gli autori hanno riconosciuto che la loro difesa della validità dell’omicidio politico in certi contesti sarebbe stata probabilmente generalizzata, interpretata e criticata alla luce di avvenimenti più recenti. Con i cambiamenti nell’atmosfera ideologica seguiti alla morte di Moro, non era più possibile vedere gli autori celebrare, in modo assoluto, le azioni dell’ETA del 1973, ed essi sentirono di dover costruire un film didattico che criticasse implicitamente le azioni delle Brigate Rosse. Fino a che punto, dunque, Ogro è un film sul sequestro Moro? La risposta a questa domanda è duplice: se da un lato non si occupa del rapimento del Pre77

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sidente in modo diretto e nemmeno, diciamo, allegorico, deve necessariamente assumere Moro come intertesto sociale chiave nello sviluppo delle tematiche che affronta. Se il riferimento al sequestro di Moro può sembrare opportunistico, ad esempio, in Kleinhoff Hotel o in L’anno del terrore (v. più avanti), in Ogro è invece inevitabile. Il rapimento di Moro era diventato la lente attraverso la quale guardare tutti gli altri avvenimenti, compreso l’assassinio di Carrero Blanco – evento accaduto prima del rapimento di Moro ma che, paradossalmente, ora sembra riportarci ad esso. Ogro, si può dire, non è sul sequestro di Moro; è sintomatico di questo evento.

Il capro espiatorio Sebbene sia uscito nel 1980 e faccia riferimento esplicito all’uccisione di Moro, Maledetti vi ameró era, come Ogro, già in gestazione da un po’ di tempo. Secondo il regista, Marco Tullio Giordana, la prima versione della sceneggiatura era già stata completata nel 1977 (Faldini e Fofi 1984: 618), ma a causa di problemi finanziari era stato girato più tardi, e aveva trovato distribuzione solo in seguito a una buona recensione ottenuta a Cannes. Le differenze tra la prima versione della sceneggiatura e il film compiuto possono essere attribuite al sopraggiunto sequestro e all’uccisione di Moro. Maledetti vi amerò è una dimostrazione del trauma che la vicenda ha rappresentato per la sinistra italiana, e costituisce un atto di lutto per la morte del politico e per le altre morti degli anni di piombo, per le quali la sua è una sineddoche; precedentemente, secondo quanto afferma Enrico Filippini (in Pellizzari 1980: 753) il lutto non era stato “pubblico” ma semplicemente “ufficiale”. Stranamente, Moro sarebbe dovuto comparire nel film secondo la sceneggiatura originale – sarebbe dovuto essere l’obiettivo di un tentato omicidio ad opera del protagonista, Svitòl, che a sua volta sarebbe stato spinto o manipolato da un commissario di polizia: “Il commissario decideva di strumentalizzarlo incoraggiandolo verso un attentato allo scopo di coglierlo con le mani nel sacco, ucciderlo e proclamare al mondo che i colpevoli e i violenti sono solo a sinistra” (Giordana in Faldini e Fofi 1984: 618-9). Nella versione finale del film il protagonista fa invece del poliziotto lo strumento del suo emblematico suicidio – che avviene dopo una visita in Via Caetani al luogo in cui fu ritrovato il corpo di Moro. È importante tirare fuori le implicazioni di questo cambiamento: l’intento iniziale di Giordana era di presentare la violenza terroristica dell’estrema sini78

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stra come se fosse in realtà uno strumento della destra, o dello stesso Stato. Questa era anche la posizione presa da buona parte dei media quando si erano verificate le prime azioni delle Brigate Rosse nei primi anni ’70 (Murialdi 1995: 198), ed è una posizione che anticipa le teorie del complotto sulla lotta armata che in anni più recenti hanno proliferato, specialmente in relazione al sequestro Moro, negli scritti di Sergio Flamigni e di altri – teorie illustrate nei film Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune. Ma Maledetti vi amerò, nella sua versione finale, contiene un messaggio o una funzione piuttosto diversi: Dopo il rapimento Moro […] e la sua spietata esecuzione mi chiesi che senso poteva avere rifare, sia pure in forma più esasperata e rabbiosa, con l’esperienza, diciamo, della mia età, un film politico classico, con la solita moralistica e paternalistica conclusione che l’estremismo di sinistra danneggia il movimento operaio e incoraggia la reazione dello stato! Forse era molto più interessante andare sino al fondo di una sorta di complicità, nella disperazione, col tuo nemico, una regressione non solo psicologica ma anche politica, indotta dall’assenza di prospettive e dalla propria inconsistenza. (Giordana in Faldini e Fofi 1984: 619)

Il film dunque non era tanto sulla manipolazione strumentale delle strategie armate della sinistra da parte di alcuni elementi di destra, quanto piuttosto una trattazione esaustiva degli ideali della sinistra, che avevano le loro origini all’interno della sinistra stessa. Come ha detto Giordana: “Questo, ovviamente, toglieva al film una sua dimensione politica in senso tradizionale e ne apriva una molto più disperata, come è avvenuto nel film che abbiamo girato” (Giordana e Caretti 1980: 27). In Maledetti vi amerò Moro diventa il padre distrutto, la vittima il cui sacrificio deve essere ripetuto da Svitòl, il protagonista, per espiare la propria complicità, e quella dell’elettorato da lui rappresentato, nell’omicidio del politico. Prevedibilmente, questo si rivelò essere l’aspetto più controverso di Maledetti vi amerò, ed ebbe l’effetto di guadagnarsi il rimprovero di quei critici di sinistra che non si erano sbagliati nel riconoscere l’apostasia: “Lo ‘scandalo’ (e il punto di forza o di debolezza) di Maledetti vi amerò è tutto contenuto nel teorema che enuncia e svolge: Moro come totem, la sua uccisione come sacrificio totemico” (Termine 1980: 44). Salvi l’orrore e la pietà per la sorte di Aldo Moro, non vorremo mica cedere alla debolezza di adottare lo statista pugliese come padre ritrovato della “generazione perduta”?17 Perché lasciarsi soffocare dall’ingiusto rimorso del parricidio quando il padre non era il padre ed è stato comunque ucciso da altri? (Tullio Kezich in Pellizzari 1980: 753) 79

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Nel primo capitolo ho già detto come il paradigma edipico (figli gelosi e padri risentiti) fosse tipico del cinema italiano a partire dagli anni ’60 e fino a tutti gli anni ’80. Per ciò che riguarda quei film che affrontano il terrorismo, ho suggerito che quel modello psicanalitico fosse, almeno in parte, il risultato della prossimità dei film con gli eventi che essi rappresentano o rifrangono. Può anche essere stato in qualche modo causato dalla percezione di un blocco generazionale nell’Italia dell’epoca: la sensazione, in altre parole, che ci fosse una gerontocrazia che deteneva il monopolio del potere all’interno degli ambiti politici italiani (compreso l’ambiente comunista) e della società in generale. L’esistenza di questo blocco generazionale, descritto da Renato Curcio come una motivazione per dedicarsi alla lotta armata, per citare un esempio,18 potrebbe essere o non essere dimostrato dalla ricerca storica, ma ciò di cui ci stiamo occupando ora è il modo in cui le cose venivano percepite. E il punto è che questa percezione era diffusa. Essa trova espressione nei noti articoli di Pasolini sul Corriere della Sera che denunciavano la Democrazia Cristiana e, in una forma diversa, in Todo modo di Leonardo Sciascia. È inoltre presente in un film come Maledetti vi amerò, dove comunque il confronto generazionale e il tentativo violento di risolverne il blocco (o perlomeno di punire un eminente rappresentante della gerontocrazia) vengono rimpianti: un lutto esattamente come quello per l’omicidio di un padre. Tullio Kezich ha ragione nel criticare come uno strafalcione politico la presentazione di Moro come il padre di una generazione perduta della sinistra.19 La configurazione edipica in Maledetti vi amerò sembra svuotare il periodo storico delle sue ideologie esplicite, cancellando le aspirazioni e i risentimenti sociali e politici. Per contro, reinserisce gli eventi in un modello nazionale familiare che è ideologico di per sé, ma lo è in un modo che risulta più insidioso perché dissimulato. (Moro è uno dei sostitutivi del padre per il protagonista, la cui madre si vede nel film ma il cui padre non compare né viene nominato.) Ma il punto su cui si potrebbe dire che Tullio Kezich sia in errore è la sua insistenza sul fatto che Moro fu ucciso non da “noi” – la sinistra e la sua intellighenzia – ma da “qualcun altro” (le BR) per cui la sinistra ufficiale non può essere ritenuta responsabile. Ciò nonostante si potrebbe controbattere, come è stato fatto, che per quanto imbarazzata la sinistra si sia potuta sentire per le azioni delle Brigate Rosse e gruppi simili, e per quanto sia stato politicamente urgente od opportuno insistere sulla scissione tra il comunismo riformista e quello rivoluzionario, entrambi sono nati dalle stesse radici che hanno dato nutrimento nell’Italia postbellica alle aspirazioni socialiste nel loro insieme. Come membro delle BR e come uno dei sequestratori di Moro, Anna Laura Bra80

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ghetti si esprime così nelle memorie dei suoi anni da brigatista: “La sinistra si ostinava a fingere che non fossimo dei loro. Solo Rossana Rossanda del Manifesto aveva coraggio e cervello, e sapeva guardare in faccia la realtà. Scrisse un memorabile articolo in cui suggeriva a tutti di riguardare le foto dell’album di famiglia del comunismo, dove c’eravamo anche noi” (Braghetti e Tavella 2003: 127).20 Secondo Maledetti vi amerò e commentatori come la Rossanda, Moro non fu ucciso da altri ma ucciso da noi altri, e il paradigma edipico diviene il mezzo con cui la colpa è ammessa e rimpianta. Il riferimento alle memorie della Braghetti ci danno occasione di introdurre il più recente dei film su Moro, Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, che si basa su di esse e che ha alcuni importanti aspetti in comune con il film di Giordana. Benché uscito più di vent’anni più tardi, esso riprende la configurazione familiare di Maledetti vi amerò e la rappresentazione di Moro come un padre. Bellocchio è stato esplicito sul modello edipico da lui riutilizzato e cerca di correggere: “È un film sull’assassinio di un padre. Ed è un film che dice come la separazione da un padre non passi attraverso il parricidio” (Mammì 2003: 114).21 Tutti e due i film collocano Moro come un totem nel senso freudiano. Entrambi rappresentano e scatenano sentimenti ambivalenti verso il leader democristiano, per il quale si provano invidia e ammirazione ma allo stesso tempo risentimento e che, alla fine, viene sacrificato. Come tutte le figure sacrificali, allo stesso tempo era e non era uno del gruppo che rappresentava (quello che Jacques Derrida definisce la logica del supplemento), da cui il suo accostamento in Maledetti vi amerò con Pier Paolo Pasolini, una figura centrale ma nel contempo imbarazzante per la sinistra italiana. Se Moro era il padre distrutto, allora era anche un “re” che suscitava ammirazione e allo stesso tempo risentimento. Marco Tullio Giordana insistette infatti perché il film presentasse la morte di Moro non come un “parricidio” ma come un “regicidio” (Pellizzari 1980: 753). Ma non c’è motivo di ritenere che ci sia una contraddizione; semmai si tratta di due modelli che coesistono e si sovrappongono, quello totemico su quello edipico. Dicendo questo non mi propongo di suggerire che le idee freudiane debbano essere prese alla lettera come lettura dei “fatti” relativi al sequestro di Moro o della situazione italiana e del posto che Moro vi occupava. Sto semmai facendo ancora una volta notare l’onnipresenza del modello freudiano nel cinema e nella cultura italiana in senso più ampio, un modello usato per interpretare e per caratterizzare la storia contemporanea. Marco Tullio Giordana e 81

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Marco Bellocchio sono due registi raffinati e consapevoli, che di sicuro sapevano di usare dei modelli tipici che rasentano il clichè. Voglio quindi suggerire che in Maledetti vi amerò e in Buongiorno, notte i modelli freudiani sono utilizzati come veicolo di critica: si ricorre alla struttura totemica e a quella edipica per consentire una critica proprio delle teorie freudiane, almeno come se queste fossero imbastardite all’interno di un discorso che forniva una motivazione per l’uccisione di Moro. Il film sottintende che il paradigma edipico era già insito nel conflitto generazionale che portò alla morte di Moro, e che il risentimento e l’invidia nei confronti del padre/re era, più che gli autentici ideali e le aspirazioni politiche, il motore del sequestro e dell’omicidio. Per dirla chiaramente, i due film sottintendono che la generazione che ha posto il seme delle BR non era altro che un’altra generazione di figli che voleva comandare.22 Tale messaggio era, come scrive Liborio Termine a proposito di Maledetti vi amerò, una “semplificazione polemica” il cui strumento è puramente freudiano: i giovani del ’68, nonostante le apparenze, non mirano a distruggere il Potere che si esprime attraverso il Sistema, per imporne uno diverso o alternativo; ciò a cui ambiscono è proprio il Potere del Sistema. Per essi, non a caso, Moro è il Padre primordiale, il modello temuto e invidiato, colui che si odia ma dal quale non si è dissimili. In quanto ostacolo al loro bisogno di potenza, essi lo uccidono e lo divorano. Si realizza così il processo di identificazione: ciascuno ha preso la sua parte della forza paterna. Ma un oscuro sbigottimento si impossessa ora dei figli, emerge un profondo senso di colpa ‘collettivo’, il quale si esprime attraverso l’obbedienza retrospettiva: non si infrange ciò che il Padre teneva unito, non si distrugge ciò che il Padre proteggeva: questo Sistema, appunto. Ciascuno rientra nell’ordine, riflettendo a suo modo l’immagine del Padre (è il caso del protagonista del film): farsi ammazzare, dal più ‘umano’ ed eccentrico rappresentante del Sistema (il poliziotto), perché nell’identità del ‘sacrificio’ del Padre emerge il massimo di differenza possibile. (Termine 1980: 44)23

Il paragone tra Moro e Pasolini come vittime emblematiche dell’Italia degli anni ’70 compare per la prima volta in L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (Sciascia 1989a: 467 e passim), e lo stesso Sciascia cita Pasolini quando descrive Moro come il meno corrotto nella Democrazia Cristiana (p. 484). Il racconto di Sciascia del sequestro e dell’omicidio fu scritto subito dopo gli eventi in un tentativo di riabilitare la reputazione, o meglio la persona, di Moro in seguito alla demolizione ad opera dei suoi ex colleghi di governo. L’interpretazione di Sciascia diventa il punto d’appoggio e la pietra di paragone per le successive versioni simpatetiche del destino di Moro, ed è significativo che lo stesso Sciascia tragga ispirazione proprio da Moro, basando il suo racconto sulle lettere 82

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di Moro dalla sua prigione, o almeno su quelle che erano state pubblicate. È dunque lo stesso Moro, in una delle prime serie di lettere (a Francesco Cossiga, allora Ministro degli Interni, datata 29 marzo), a identificare e criticare il meccanismo sacrificale innescato dalla sua incarcerazione: “Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile” (Spiezie, Moro, et al. 2000: 16-7; Sciascia 1989a: 489). Ciò nonostante, si tentò di preparare Moro al sacrificio. Sia le BR che la DC lo dipingevano come un uomo compromesso, le prime a causa della sua presenza al governo nei precedenti trent’anni, e il suo partito per il presunto abbandono di quella dedizione derivante dalle sue richieste di trattare per la sua vita. Il fatto che la sua morte fosse percepita come un atto sacrificale appare chiaro da un titolo sulla prima pagina del Corriere della Sera del 10 maggio 1978 : “È morto perché questa Repubblica viva” (Lumley 1981: 61). L’antica funzione del sacrificio era proprio quella di rinnovare la società in un periodo di crisi, ma le rappresentazioni “colpevoli” di Moro delle BR e della DC non furono sufficientemente persuasive, e l’umanità del capro espiatorio politico fu presto ristabilita con L’affaire Moro e molti altri scritti che vennero dopo. Moro fu usato come capro espiatorio, ma poi si dovette riconoscere che era stato usato in quel modo, per cui la sua morte non poté investire quella funzione catartica che questo genere di sacrificio dovrebbe avere (perché il meccanismo funzioni, coloro i quali beneficiano della morte del capro espiatorio devono restarne all’oscuro, o perlomeno rinnegarlo). Nelle lettere dalla prigione del popolo il capro espiatorio Moro si voltò indietro a parlare, dicendo di fatto: io sono un uomo, un uomo di famiglia, non una funzione né un simbolo; cosa credete di fare? E l’interpretazione di Moro del proprio sequestro, ironicamente, si è rivelata essere la versione che ha prevalso sulle altre, quella dei sequestratori e quella dei suoi colleghi di un tempo. Sciascia, in L’affaire Moro, si propone deliberatamente di chiarire la versione dei fatti della vittima, e i film hanno fatto altrettanto – persino quelli imperniati sulla teoria del complotto, che si affidano alla natura dell’identità politica di Moro per sostenere le loro speculazioni. La colpa, per niente cancellata – semmai accresciuta – dal fallimento della catarsi per via del malriuscito sacrificio di Moro, si diffuse nella società italiana in generale, e in particolare tra la sinistra, che si sentiva particolarmente implicata nella sua morte, per quanto potesse proclamare il contrario. Maledetti vi amerò è il sintomo di questa catarsi non riuscita e del fallito rinnovamento, e il film mette in atto il riconoscimento di questo fallimento nell’ulteriore sacrificio del protagonista Svitòl. Come Moro, anche lui è una fi83

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gura supplementare: appartiene alla “generazione perduta” del ’68 ma se n’è staccato fuggendo in Sudamerica. Ritorna per assumersi la colpa politica e generazionale dell’elettorato di cui fa e non fa parte, e si sottomette volentieri (al contrario di Moro) al proprio sacrificio nelle mani della figura paterna sostitutiva del commissario. Nel ritrarre tutto questo, Maledetti vi amerò celebra esso stesso una sorta di rituale, la cui funzione era, in primo luogo, quella di riconoscere la colpa della sinistra in senso più ampio, la sinistra italiana che “conteneva” le Brigate Rosse. Essendo il film controverso, e creando uno “scandalo”, si può affermare che sia in questo senso riuscito; reazioni scettiche come quella di Tullio Kezich furono anche quelle della sinistra che protestò troppo. Ma se il film aveva un’ulteriore funzione oltre alla prima – quella dell’espiazione attraverso il riconoscimento della colpa e l’emblematico suicidio di un rappresentante simbolico – allora è fallito. La prova di questo è il fatto che il fantasma di Moro continua a ripresentarsi nella cultura italiana e nel suo cinema. Questo è uno dei significati della scena che provoca sconcerto e commozione verso la fine di Buongiorno, notte in cui Moro cammina libero, come non è mai successo, lasciando la sua prigione in Via Montalcini. Il suo spirito è ancora libero per le vie di Roma. La parte che segue descrive una delle conseguenze di questa presenza: la proliferazione di teorie di complotto nate intorno al sequestro di Moro e la loro elaborazione nel cinema.

Dietro le quinte: Moro e la dietrologia La speculazione, talvolta incontrollata, avvolge la vicenda di Moro e il dibattito sugli obiettivi e sull’esito del sequestro. L’interpretazione unanime del significato del rapimento, come ho già suggerito, continua a sfuggire ai commentatori e agli storici. La letteratura sul sequestro è ampia e continua a crescere, e segue in gran parte il genere dei misteri d’Italia e il filone della dietrologia, o teoria del complotto. Il regista che decide di rappresentare direttamente quegli avvenimenti ha due opzioni quando si inoltra nell’oceano della letteratura e della dominante iconografia delle mani nascoste dietro alle BR. La prima è quella di lasciarsi sommergere dal mare del complotto – l’approccio scelto dagli autori di Il caso Moro (1986) e anche da Renzo Martinelli, il regista di Piazza delle Cinque Lune (2003): Contattiamo il senatore Sergio Flamigni, il massimo esperto del caso Moro in Italia e il più autorevole studioso del terrorismo in Europa. Grazie a lui riuscia-

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mo a consultare documenti ai quali altrimenti non avremmo potuto accedere. È iniziata così un’opera di ricerca non facile: scartabellando, recuperando, fotocopiando, abbiamo raccolto quante più informazioni possibili sulla storia che volevamo raccontare24 (Martinelli e Campus 2003: 11-12).

Nella sua precisione un po’ maniacale, questo primo approccio avanza delle pretese su un’autorevolezza e su una forma particolare di verità storica in cui la cura del dettaglio documentabile genera e sostiene una fantasia spettacolare. Il secondo approccio, d’altro canto, ha come obiettivo una forma diversa di interpretazione della storia – che io catalogo come palinsestica e autoriflessiva – e in quanto tale ignora semplicemente la teoria del complotto. Questa è l’alternativa scelta da Marco Bellocchio: Il merito indiscusso di Buongiorno, notte sta, a parer mio, nell’aver rifiutato e vanificato la versione dietrologica di quel crimine che aveva viceversa ispirato sia precedenti cinematografici sia una interminabile proliferazione mass-mediologica, cara a una parte non secondaria della sinistra (Pirani 2003: 1).

I film che Mario Pirani ha in mente sono quelli già citati, Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune, e questa parte è centrata su quei due film e sulla significatività del tentativo di mettere in scena il sequestro Moro e, per estensione, la storia recente d’Italia, secondo le modalità del complotto. Pirani procede elencando i soliti racconti basati sulla teoria del complotto nel rapimento di Moro, e cita una diagnosi ormai familiare delle ragioni dell’insistente dietrologia negli ambienti della sinistra: Secondo questa interpretazione, reiterata quanto priva del minimo elemento di prova, la mano dei brigatisti venne guidata da qualche Grande Vecchio, da Kissinger, da Andreotti, dalla CIA, dai servizi sovietici e dai nostrani, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta, a turno impegnati a manovrare il terrorismo in odio all’incombente compromesso storico. Tutto, pur di non riconoscere che il brigatismo e la scia di sangue che si lasciò alle spalle andavano purtroppo ricondotti a quell’album di famiglia, esattamente individuato da Rossana Rossanda, da cui era scaturita una delle giovani generazioni di sinistra, intossicate dal fallace mito della Liberazione tradita e da altri cascami ideologici, una devianza estremista parossistica. (Pirani 2003: 1)

Come ci ricorda Pirani, la malafede della negazione da parte della sinistra “ufficiale” dell’area interna ad essa che scelse la lotta armata è stata spesso denunciata dalla Rossanda: 85

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La tesi d’un complotto dei servizi, che avrebbero diretto o inquinato o surdeterminato le azioni delle Brigate Rosse, agisce soprattutto sulla memoria della sinistra, che senza di essa dovrebbe misurarsi con il problema di una eversione di radice operaia nata al suo fianco, la incapacità di prevenirla e di batterla. (Rossanda 1997: 508)

Se la sinistra è rimasta imbarazzata dal terrorismo emerso dalle sue file e ha quindi cercato di disconoscere una parte di se stessa, è anche vero che, come dimostra Maledetti vi amerò, essa si sentiva e si sente responsabile per varie ragioni (l’adesione del PCI alla linea di fermezza oltre al fatto che le BR erano comunque comuniste) e persino colpevole della morte di Moro. Si potrebbe affermare che ciò che Mario Moretti (2000: 113) chiama “le petulanti attenzioni dei dietrologi” siano un sintomo nevrotico di questo senso di colpa, un riconoscimento distorto del fatto che lo spettro di Aldo Moro continua ad aleggiare sulla nazione e a tormentare la coscienza della sinistra. Il concetto di “spettro” diventa probabilmente un luogo comune quando si scrive su Moro e sui film che lo riguardano. È proprio in questi termini che Nicoletta Marini-Maio ha di recente discusso la scena di Buongiorno, notte, descritta sopra, in cui Moro, contrariamente alla realtà, si allontana libero dalla prigione del popolo in Via Montalcini.25 Come fa notare la Marini-Maio, tale scena suggerisce una descrizione nei termini della continua presenza spettrale di Moro sulla coscienza degli italiani – la figura stessa di una colpa nazionale (anche se, come ho affermato, è percepita in modo particolarmente forte dalla sinistra). Moro appare qui come la figura totemica oggetto di ammirazione, e allo stesso tempo di risentimento, che rifiuta di restare morta e continua a tormentare i vivi. Ma si può andare oltre, e usare quest’idea della presenza spettrale che incombe per descrivere la preminenza nello studio della vicenda di Moro della teoria del complotto, in un modo che non è riducibile alla malafede o alla disillusione della sinistra ufficiale italiana. Il complotto, in altre parole, è un modello di interpretazione parziale e fuorviante che a stento si può limitare al caso Moro, o al solo contesto italiano (film come JFK di Oliver Stone, 1991, o Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, 2004, testimoniano l’ostinazione di ciò che Richard Hofstadter chiamava lo stile paranoico della politica americana). Remo Ceserani (2003) ha messo in relazione la prevalenza della teoria del complotto nella nostra epoca con quella che Jacques Derrida, in Spettri di Marx (Derrida 1994), chiama “hauntology”. Il libro di Derrida incomincia con una relazione etimologica della parola francese conjuration, dal latino coniuratio, che significa sia “cospirazione” che “evocazione”. Derrida sostiene che il 86

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fantasma della cospirazione nasca da questo nesso lessicale: nel contesto della discussione, si tratta del fantasma della “rivoluzione”, lo spettro che continua a “infestare” l’Occidente, nonostante la presunta fine della Storia teorizzata da Francis Fukayama et al. Da qui Derrida crea il neologismo hauntology per spiegare come un sistema di pensiero e i sistemi politici ad esso contingenti siano costruiti su una presenza ossessivamente repressa. Il concetto di hauntology di Derrida, suggerisce Ceserani, può essere usato per articolare la struttura della modalità della spiegazione parziale basata sul complotto. Per Ceserani noi possiamo identificarci nella modalità di pensiero paranoide o cospiratoria: [una] presenza ossessiva (hauntological) nel nostro mondo di una qualche essenza fantasmatica o spettrale, si tratti dei poteri occulti che governano il mondo da dietro la scena delle nostre istituzioni democratiche, o degli interessi e istinti egotistici che governano i mercati finanziari, o delle interpretazioni ideologiche della realtà che sfidano la convinzione, anch’essa ideologica, che tutte le ideologie siano ormai morte. (Ceserani 2003: 16)

L’haunting rappresentato in Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune, due conspiracy film, è perciò duplice. In primo luogo è la prosecuzione della presenza dello stesso Aldo Moro, che si aggira come un fantasma inquieto nella coscienza collettiva degli italiani. Come scrive Giuseppe Ferrara a proposito del suo Il caso Moro, “il film ha rimosso una colpa che era stata sapientemente nascosta, sepolta non solo in fondo alle scartoffie processuali e parlamentari, ma anche nel fondo dell’inconscio; sarebbe meglio dire in fondo all’anima” (Balducci, Ferrara e Katz 1987: 185). Come suggeriscono le parole citate, c’è un secondo aspetto della rappresentazione, un secondo aspetto dello spettro di Moro: il suo destino diventa un emblema, e la storia del suo sequestro un veicolo della sensazione che in Italia il potere ideologico, economico e politico sia controllato in modo invisibile dall’esterno dell’apparato democratico. Naturalmente non intendo con questo rigettare la possibilità che gli ingranaggi della democrazia italiana possano contenere dei lati oscuri e possano essere in gran parte dovuti al gioco di equilibrio dei poteri internazionali, attentamente conservato in Europa fino al crollo dell’impero sovietico (l’esistenza, successiva al 1945, della forza militare alleata “occulta” nota come Gladio, autorizzata dallo Stato italiano per l’eventualità di una presa di potere da parte dei comunisti, è uno di questi piani cospiratori e nascosti). Gli storici continueranno a discutere in che misura il sistema politico italiano – così come il fenomeno del terrorismo – sia stato espressione della volontà dell’elettore ita87

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liano o piuttosto una funzione della posizione chiave dell’Italia nello status quo della Guerra Fredda. Ma l’apprezzabile tentativo di tracciare la relazione tra le circostanze nazionali e le condizioni economiche e il potere internazionale è una cosa diversa dalla riduzione delle cause storiche alla volontà di qualche Grande Vecchio. Come fece notare Karl Popper (1963), la teoria del complotto tende a cancellare e allo stesso tempo a incorporare l’impenetrabilità degli eventi tramite il congiurare (per richiamare ancora una volta Derrida) di una figura oscura e onnipotente, piuttosto simile a una divinità maligna. Potrebbe trattarsi di Giulio Andreotti o di Licio Gelli, o di qualche altro nome ammantato di ambiguità, ma in ogni caso la figura oscura diventa un sostitutivo della mano di Dio, e quindi un modo di ammettere la propria mancata conoscenza della società, e allo stesso tempo di farsene scudo. Tale processo è anche un modo di rifiutare di prendersi la responsabilità di come quella società è fatta, proprio come la sinistra ufficiale ha negato la presenza delle BR nell’ “album di famiglia” immaginando uno dei suoi leader, Mario Moretti, come un inviato della CIA. Per Popper, la modalità del complotto “è affine alla concezione della società di Omero”: Omero concepiva il potere degli dei in modo tale che qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia fosse solo un riflesso delle varie cospirazioni sull’Olimpo. La concezione della società basata sul complotto non è che una versione di questo teismo, del credere in divinità i cui capricci e la cui volontà determinano ogni cosa. Deriva dall’abbandonare Dio e poi chiedersi: “Chi c’è al suo posto?” Il suo posto è allora riempito da vari uomini e gruppi di potere – gruppi che esercitano pressioni sinistre, che devono essere accusati di aver pianificato la Grande Depressione e tutti i mali che dobbiamo subire. (Popper 1963: 123)

In questa luce la teoria del complotto si rivela essere una funzione dell’impotenza umana e dell’ignoranza della natura degli eventi così come una negazione della propria complicità in essi. Ciò che si finge accesso privilegiato alla verità è in realtà il suo opposto: la proiezione di una percezione fantastica che rivela un’incapacità ad orientarsi in un sistema sociale complesso. La teoria del complotto è dunque una maschera gettata sull’incertezza, e in parte è stata proprio quest’incertezza a consentire a una forma di intrattenimento come il cinema di investire un’importanza così grande nell’interpretazione del sequestro Moro come il mistero assurto ad icona della Prima Repubblica. Come scrive Bartali (2006: 155), “l’avventura delle Brigate Rosse non può essere materiale per gli storici, perlomeno non fin tanto che i dati a nostra disposizione non riescono a colmare i vuoti della conoscenza che col88

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lega le azioni di questo gruppo terroristico a quelle dello Stato”. Quando i dati sono incompleti e la realtà dei fatti è sfuggente, intervengono i mezzi della fantasia per riempire le lacune dell’interpretazione; l’immaginazione esprime una verità che è percepita o presupposta, ma che è di per sé un sintomo di negazione o di ignoranza. Naturalmente il conspiracy può essere considerato come il genere della Guerra Fredda per eccellenza, e Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune devono essere inseriti all’interno di una famiglia di film e di altre forme di rappresentazione basate sull’idea di mani occulte che si nascondono dietro agli eventi. Basta pensare al modo in cui Hollywood ha codificato l’ansia della Guerra Fredda in un film come Va’ e uccidi del 1962 (parleremo ancora del regista John Frankenheimer alla fine di questo capitolo con una versione americana della vicenda di Moro). Analogamente, il complotto è stato la modalità dominante per la rappresentazione della violenza dello Stato e la violenza di destra nel cinema e nella narrativa italiana. Ho già parlato di Romanzo criminale di Placido (2005), che segue il romanzo poliziesco da cui è tratto (De Cataldo 2002) nel presentare la politica italiana tramite la figura di un oscuro burattinaio che manipola la malavita organizzata e persino i servizi segreti a vantaggio di un fanatico anticomunismo. Ma già negli anni ’70 in film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972), i rappresentanti dello Stato sono mostrati come intoccabili quando sono dei criminali o, quando sono persone integerrime, distrutti (cioè assassinati) su ordine di qualche Grande Vecchio. Entrambi i film su Moro qui presi in esame rientrano bene in questa tradizione. La tesi avanzata in Il caso Moro è che la loggia massonica P2 e i servizi segreti italiani, spalleggiati a parole se non di fatto dagli americani, si fossero assicurati che la linea di fermezza ufficiale dei partiti di governo avesse come conclusione la morte di Moro. Il film sostiene che l’intransigenza strumentalizzata della DC fosse altrettanto responsabile della morte di Moro quanto i suoi carcerieri che lasciarono il suo corpo nel cofano di una macchina (il pubblico democristiano si sentì, come è prevedibile, oltraggiato, e la sceneggiatura pubblicata – Balducci, Ferrara e Katz 1987 – contiene un resoconto dettagliato delle varie accuse mosse al film dalla stampa di area solidale alla Democrazia Cristiana). Il caso Moro si basa su un libro investigativo dello scrittore americano Robert Katz e presenta la sorte di Moro come una Via Crucis con un tragico epilogo preannunciato. Allo stesso tempo il film è organizzato come un documentario drammatico con molte delle caratteristiche dei telefilm basati su storie vere. In linea con la formula della “storia vera”, e elemento distintivo di Il 89

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caso Moro rispetto agli altri film sull’argomento, è la centralità accordata proprio al personaggio di Moro, interpretato da Gian Maria Volonté con un’umanità stanca che dà luogo a una verità rassegnata. La scelta dell’attore protagonista era significativa perché, a parte il suo noto impegno politico, Volonté aveva già impersonato Moro, due anni prima della morte del politico, in Todo modo (1976), film del regista Elio Petri tratto dal romanzo omonimo di Sciascia, una critica feroce della Democrazia Cristiana in cui peraltro il personaggio di Moro viene assassinato.26 Il cambiamento di tono dalla caricatura al ritratto simpatetico nelle interpretazioni di Volonté è un altro indice del senso di responsabilità della sinistra per il destino del leader democristiano nelle mani delle Brigate Rosse. Nonostante la politica, Il caso Moro è di fatto principalmente una storia “umana” – la storia di un uomo e della sua famiglia che soffre. (La prima apparizione di Moro non è in un contesto governativo e nemmeno pubblico, ma nel suo ruolo di pater familias, mentre parla piano nella sua casa al suo nipotino Luca.)27 Piazza delle Cinque Lune, come Il caso Moro, riprende il disegno di riabilitazione dell’umanità e della persona di Moro incominciato da Sciascia in L’affaire Moro. Come fa notare Joseph Farrell, Sciascia nel suo libro sospende la politica per un compassionevole approccio “umano” a Moro e agli eventi; è la pietà, non la politica a dominare: “Nessuno può fare a meno di restare colpito dalla quasi totale assenza, o rifiuto, della politica da parte di Sciascia in questa sua opera su un uomo politico. Il dibattito politico sugli elementi pro e contro il trattare con i terroristi armati non è né riferito né confutato” (Farrell 1995: 123). Paradossalmente, data la preoccupazione per la politica secondo il modello del complotto, Piazza delle Cinque Lune eredita questa enfasi e ripete l’omissione di qualsiasi discussione sul giusto o sbagliato del venire a patti con i rapitori di Moro. È implicito che la storia abbia già giudicato l’intransigenza del governo nel rapimento di Moro come insufficientemente motivata e che perciò richiede spiegazioni in altri modi, più speculativi e sovradeterminati. In Il caso Moro sono rappresentate le diverse posizioni nei confronti delle trattative – la linea di fermezza tenuta dal Vaticano, dal PCI e dalla DC, contro il tentativo di aprire una mediazione da parte di Craxi e dei socialisti, oltre che della sinistra extraparlamentare. Ma ancora una volta il film presenta la posizione del governo come artificialmente risoluta e in quanto tale con necessità di spiegazioni in termini che andassero oltre la discussione sulla sicurezza dello Stato e il tentativo di sconfiggere il terrorismo. C’è una logica nell’occuparsi dei limiti dell’approccio etico adottato da 90

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Sciascia in L’affaire Moro – perlomeno nel modo in cui viene ripreso nelle opere che si rifanno al testo di Sciascia, come i due film che stiamo analizzando. Sciascia naturalmente era interessato soprattutto ai “processi paralleli e bizzarri cui [Moro] fu sottoposto dal ‘tribunale del popolo’ delle Brigate Rosse e sui media attraverso le reazioni alle sue ‘lettere dal carcere’” (Gordon 2001a: 257). Era interessato, in altre parole, al modo in cui i processi della politica si ripercuotono sull’uomo reale (piuttosto che sulla figura simbolica del presidente della DC) e lo conducono verso una fine grottesca. Di molto meno interesse agli occhi di Sciascia – e del tutto irrilevante nel recupero morale di Moro come uomo – era la Realpolitik nascosta dietro la linea di fermezza, una Realpolitik a cui fece comodo la demolizione del personaggio di Moro quando le sue lettere furono analizzate cercando tracce della sindrome di Stoccolma. Ed è proprio alla posizione ferma dello Stato italiano, per quanto cinicamente sostenuta dai singoli componenti del governo e dall’informazione nazionale, che Paul Ginsborg accorda la propria approvazione storica nel suo racconto dell’Italia del Dopoguerra: La crisi del terrorismo italiano, come viene generalmente riconosciuto, risale alla morte di Moro. Con giudizio retrospettivo sarebbe perciò corretto asserire che i fautori dell’intransigenza erano nel giusto. Se Moro non fosse stato ucciso ma scambiato con uno o più terroristi incarcerati, le Brigate Rosse sarebbero apparse invulnerabili e inclini al compromesso, col risultato che il loro consenso si sarebbe quasi certamente allargato. (Ginsborg 1990: 385)

Questa valutazione non era accessibile a Sciascia – in parte, naturalmente, perchè scriveva in tempi così vicini agli eventi, ma anche perché il suo approccio in L’affaire Moro fuggiva la politica e non poteva quindi consentire che l’interrogativo sulla morte di Moro fosse posto in quei termini. La politica, comunque, non può essere omessa così facilmente nemmeno in nome dell’etica, e ritorna nei film nella forma distorta della teoria del complotto. Piazza delle Cinque Lune fu girato da Renzo Martinelli come un altro dei suoi episodi spettacolari tratti dalla storia oscura dell’Italia moderna. I suoi lavori precedenti comprendevano un film su un massacro di partigiani (Porzus, 1997) e un altro sul disastro del Vajont (Vajont, 2002). Piazza delle Cinque Lune è un thriller spettacolare che si serve di una trama inventata per dare forma alla sua versione del sequestro Moro visto come un complotto: vent’anni dopo i fatti a un giudice senese viene consegnato un filmato del rapimento di Via Fani, e ne segue un’indagine sulle tracce di quelli che si celavano “veramente” dietro al sequestro. L’espediente di affidare a Donald Sutherland il ruolo cen91

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trale del giudice autore dell’indagine è solo una delle tante allusioni a JFK di Oliver Stone, e il regista italiano non è meno speculativo di quello americano nella sua postulazione di spiegazioni per un evento così iconico e traumatico. Si può dire che la differenza tra Il caso Moro e Piazza delle Cinque Lune sia quella tra un impegno sincero e un impegno calcolato. Il tentativo un po’ maldestro di parlare al Paese de Il caso Moro si estende, con Piazza delle Cinque Lune, in un progetto che coinvolga un destinatario internazionale, un aspetto tratto dall’estroverso stile visivo e dall’onnicomprensività della struttura e degli elementi ricorrenti dei thriller. Attraverso una serie di rivelazioni offerte allo spettatore solo nel momento in cui le scopre il protagonista, nello stile dei libri thriller da manuale, il film suggerisce che Mario Moretti, leader delle Brigate Rosse e quindi principale artefice del sequestro, fosse una spia guidata da un complotto basato su diversi interessi che comprendeva la CIA. Quest’estensione di un presunto ruolo dell’America nell’uccisione di Moro – in confronto al ruolo marginale degli Americani in Il caso Moro – sembra ancora una volta escogitata per rendere il film più attraente dall’altra parte dell’Atlantico. È interessante notare come qui l’aspetto del riconoscimento del sequestro Moro sia stato addotto come parte di un patrimonio nazionale che può essere sfruttato: Piazza delle Cinque Lune è anche un film “da cartolina”. Il venticinque per cento dei costi di produzione furono coperti dal Comune di Siena (Rodier 2003: 25) e il film si apre con il Palio e contiene inquadrature, belle quanto irrilevanti, di interni senesi e del paesaggio toscano. Tale eccesso visivo conferma che Piazza delle Cinque Lune è un heritage film, cioè un film sul patrimonio culturale (come potrebbe essere un adattamento dei Promessi sposi), per quanto “infangato” possa essere il patrimonio in questione; si potrebbe persino affermare che si tratti di un film di “informazioni per turisti” che mostra un’Italia bella e al tempo stesso corrotta, ma onestamente dipinta per poter essere esportata. Ciò che i due film hanno in comune è la pretesa di autorevolezza e di veridicità proclamata per entrambi, specie in sede esterna al film, come ad esempio nei libri pubblicati per accompagnarli. Quello de Il caso Moro (Balducci, Ferrara e Katz 1987) è un voluminoso tomo di molte pagine che descrive diffusamente il ruolo della DC e degli altri gruppi rappresentati nel film. Comprende materiale raccolto dalla Commissione parlamentare per la P2 oltre a una didattica “bibliografia essenziale” con “testi e documenti di riferimento per il film”. La sceneggiatura di Piazza delle Cinque Lune (Martinelli e Campus 2003) è più patinata, ma cerca anch’essa di accreditare le proprie speculazioni con inserti 92

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sulla teoria del colpo di stato (anche qui l’ombra di JFK), di Gladio e della “paura” del comunismo, oltre a ciò che Martinelli definisce una “ricostruzione filologica” della scena del sequestro in Via Fani. Contiene anche due prefazioni, la seconda di Sergio Flamigni che offre il proprio supporto alla versione dei fatti proposta dal film, e la prima di Maria Fida Moro. Gli autori di entrambi i film citano le parole dei familiari di Moro per dare sostegno morale alla loro rappresentazione del sequestro. Il libro Il caso Moro riproduce in facsimile le annotazioni aggiunte dalla moglie di Moro, Eleonora, sulla sceneggiatura originale di Robert Katz. Il libro Piazza delle Cinque Lune riporta il testo di una canzone, scritta da Luca, l’amato nipotino di Moro, e cantata da lui sui titoli di coda: “Maledetti voi, Signori del potere, / che muovete la vita di persone coi vostri fili / da burattinai” (Martinelli e Campus 2003: 143). Mentre la metafora di Luca Moro ci riporta alla dietrologia, le annotazioni di Eleonora Moro al testo di Katz non sono speculazioni su qualche sfondo cospirativo del sequestro ma soprattutto piccole correzioni, ad esempio, su certi dettagli delle conversazioni telefoniche. La riproduzione in facsimile di queste correzioni enfatizza la loro pretesa di autenticità, e quindi di autorevolezza, in un modo che rasenta l’assurdo: avremmo per caso messo in dubbio l’autenticità delle note se fossero state scritte a macchina? Il ricorso all’imprimatur della famiglia ha, in relazione a questi film, anche un’altra funzione. Indica ovviamente l’intenzione di ripristinare il progetto della riabilitazione del personaggio di Moro intrapreso da Sciascia in L’affaire Moro – o indica come minimo che gli autori credono che le loro storie di complotto rendano onore alla memoria di Moro come uomo privato. Comunque, Martinelli ha descritto il proprio coinvolgimento nel film come inequivocabilmente inserito nella tradizione del cinema d’impegno, e più precisamente nella forma della cine-inchiesta, ma aggiornato per renderlo attraente per la generazione della MTV: “Ci rifacciamo alla tradizione di registi come Francesco Rosi, ma è nostra intenzione realizzare un thriller che possa prima conquistare il pubblico del multiplex” (Spagnoli 2003). Il pericolo di tale operazione è che la priorità possa essere rovesciata, e che il contenuto serva semplicemente da farina per il proprio mulino. È un rischio aggravato dagli ostentati mezzi tecnici e dagli effetti ultramoderni impiegati dagli autori, che sfociano facilmente nel kitsch. Tale rischio è ben illustrato dal caso di Vajont, la cine-inchiesta di Martinelli che racconta la storia del crollo della diga del Vajont nel 1963 con la perdita di circa duemila vite umane. In linea di principio il film vuole essere una denuncia dell’avidità e dell’arroganza dei costruttori, dei funzionari e degli ingegneri, e si 93

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propone di ritrarre le vittime in modo solidale; di fatto lo stile pomposo –soprattutto l’esibizionistica sequenza digitale che mostra la distruzione causata da un muro massiccio di acqua – rende gli abitanti del paese come tanti birilli da spazzare via, materiale umano al servizio dello spettacolo. È come Baudrillard (1994) commentò a proposito di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979): che non era un film contro la guerra, e neanche un film sulla Guerra del Vietnam; era un film che continuava la guerra, un’estensione dei mezzi tecnologici della campagna militare americana all’ambito della rappresentazione: Coppola non fa altro che questo: testare il potere di intervento del cinema, testare l’impatto di un cinema che è diventato un’incommensurabile macchina per creare effetti speciali. […] la Guerra in Vietnam “di per sé” forse di fatto non c’è mai stata, è un sogno […] la concentrazione eccessiva e sacrificale di un potere che già sta filmando se stesso man mano che si manifesta, nell’attesa forse di nient’altro che la consacrazione in un colossal che possa completare l’effetto spettacolare di questa guerra. (Baudrillard 1994: 59) [corsivo nell’originale]

In modo analogo, suggerirei, la ricostruzione pedante e spettacolare dei topoi del sequestro di Moro in Piazza delle Cinque Lune riutilizza la rappresentazione voyeuristica nell’informazione contemporanea: il massacro di Via Fani ripetuto come un simulacro, la fotografia ad opera delle BR che mostra un Moro con un’espressione di rassegnazione quasi ironica sovrapposto in digitale sul viso di un attore, le immagini apparentemente irresistibili di Moro rannicchiato nel portabagagli di un’auto mentre gli sparano una dozzina di colpi alle spalle. Tutto indica che Piazza delle Cinque Lune non è un film sul sequestro Moro ma piuttosto una sua continuazione, che subisce il fascino degli aspetti fotogenici più scontati del rapimento e che si stacca dalle immagini televisive dell’epoca solo per le dimensioni.28 Questi topoi – la sanguinosa scena del sequestro, gli iconici scatti Polaroid e le uccisioni – sono presenti e appropriati anche in Il caso Moro, sebbene lì siano tenuti insieme dal loro inserimento nel racconto più esteso del sequestro e dalla compassionevole interpretazione di Moro da parte di Gian Maria Volonté. Piazza delle Cinque Lune disinserisce i clichè visuali dal loro contesto e li mette al servizio del meccanismo del thriller. Infine, nonostante la pretesa di autorevolezza e di accesso alla verità da parte degli autori, Piazza delle Cinque Lune prosegue la reificazione di Moro incominciata dai suoi rapitori, dalla stampa e da molti dei suoi colleghi. Ho già affermato che Piazza delle Cinque Lune utilizza la memoria di Moro come motif per illustrare il patrimonio nazionale italiano infangato. Questo comporta un’opposizione tra le esigenze del mercato (e del genere stesso) e il 94

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dovere etico di una commemorazione appropriata dell’uomo assassinato. Si potrebbe forse eludere questa conseguenza collocando Piazza delle Cinque Lune (a ragione) nella tradizione iperbolica dello spettacolo visuale nel cinema italiano descritta da Mary Wood (2005: 182-201). Una sua osservazione incomincia col suggerire la funzione di un’opera di genere con aspirazioni storiche come Piazza delle Cinque Lune: Di fatto, i thriller politici italiani sono melodrammi al maschile che raccontano gli instabili rapporti di potere nella società italiana, nascondendosi dietro alla formula del giallo per raggiungere il pubblico di massa, e impiegando le convenzioni del noir per suggerire degli elementi disfunzionali nella vita italiana. (p. 189)

Considerandolo in questa luce, si può suggerire che Piazza delle Cinque Lune non sia affatto un film su Moro; esso invoca Moro sia come metafora (della condizione di vittima in quanto tale) che come metonimia (degli anni di piombo nel loro insieme), ma lo utilizza come un tropos staccato dalle sue circostanze storiche specifiche. Il film dimostra che l’immagine di Moro è diventata una “memoria schermo”: si evoca l’atmosfera di un periodo mentre si elidono i reali conflitti di massa e le aspirazioni che ne furono l’aspetto caratterizzante.29

La fuga di Moro Ho già parlato delle molte ricostruzioni cronologiche del sequestro, sostenendo che la loro modalità rappresenti un tipo di iterazione traumatica dell’esperienza, così come fu mandata in onda durante i cinquantaquattro giorni della prigionia, che ogni volta culmina con la morte di Moro. Comunque, un effetto dell’uso dei meccanismi tipici della narrativa in questo genere di racconto storico è quello di incoraggiare la fantasia a pensare che la tragedia può anche non finire, in un particolare racconto, nel modo in cui sappiamo che è finita. La suspense asseconda il desiderio del lettore o dello spettatore di avere un finale alternativo ideale: come se, solo per questa volta, Moro potesse camminare libero e l’ “incubo di un Paese tenuto in scacco” (Zavoli 1992: 295) potesse finire con l’alba di un risveglio. Questo effetto è riconosciuto e parodiato in Buongiorno, notte di Bellocchio, che conserva la cronologia tragica ma che nella penultima sequenza propone la scena di fantasia, già descritta, di Moro che lascia la sua prigione camminando libero. 95

Il significato di questa scena è complesso.30 Essa indica principalmente qualcosa che ho già suggerito: che un film come Buongiorno, notte è un palinsesto; il film presuppone la conoscenza da parte dello spettatore del sequestro di Moro e del suo epilogo, ma anche della grande varietà di rappresentazioni e delle teorie su di esso. Ciò che viene omesso è perciò significativo quanto ciò che viene incluso: non c’è nessuna ricostruzione della violenta scena del sequestro di Via Fani; non c’è nessun accenno di speculazione sul coinvolgimento effettivo della RAF, della DC, della P2 o della CIA;31 c’è ben poco persino delle ideologie che hanno motivato il sequestro; infine, la scena della morte di Moro viene discretamente tralasciata. Il film contiene invece una rete complessa di allusioni ad altri film e persino a se stesso (l’elemento autoreferenziale di una sceneggiatura, intitolata proprio Buongiorno, notte, scritta da un personaggio del film) che dimostrano che non c’è un diretto accesso alla comprensione della storia, ma che tale comprensione viene costruita tramite la narrazione e la rappresentazione.32 Le strategie allusive del regista ricordano che proprio il sequestro Moro ha dimostrato con particolare rilievo il truismo secondo cui la Storia viene sempre colta come vicenda. Sciascia, ancora una volta, racconta come i fatti del sequestro furono accolti con un senso di déjà vu: “Si adeguava all’invincibile impressione che l’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria” (Sciascia 1989a: 477). Per questo è appropriato che Buongiorno, notte non debba essere un film sulle vicende di Moro in quanto tali, ma sui mezzi rappresentativi attraverso i quali costruiamo la nostra comprensione di questi eventi. Alla sua uscita in Italia Buongiorno, notte fu molto discusso e criticato. Fu un evento che passò dalle pagine culturali alla cronaca della stampa italiana, e provocò critiche sia a destra che a sinistra.33 Un’osservazione particolarmente incisiva fu che Bellocchio sembra esonerare la protagonista Chiara, fatta vedere come stanca della lotta armata e presentata come una “terrorista pentita ante litteram”, per usare la descrizione di Luca Bandirali ed Enrico Terrone (Bandirali e Terrone 2004: 4; Pirani 2003: 19). Nella realtà, Anna Laura Braghetti, su cui si basa il personaggio di Chiara, restò membro attivo delle BR e procedette all’assassinio di Vittorio Bachelet, Vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel febbraio del 1980, quasi due anni dopo la vicenda di Moro (Calvi, Ceci, Sessa e Vasaturo 2003: 215; Braghetti 2003: 129-134). Il distacco prematuro di Chiara è quindi un altro aspetto contrafattuale di Buongiorno, notte; ma piuttosto che come un’imprecisione tipica dei film storici – e tipicamente deplorata – sarebbe meglio interpretarla come ulteriore indicazione del ruolo centrale che il sequestro e l’uccisione di Moro occupano nella cul96

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tura italiana. Il sequestro Moro è il terreno centrale nel “canone” del terrorismo italiano su cui l’iconoclastia può accampare le proprie pretese revisioniste. Allo stesso tempo, le letture più vecchie non sono mai completamente cancellate. Le teorie sul complotto non spariscono semplicemente perchè Bellocchio le ignora, e nessuno probabilmente si lascia ingannare dall’anticipazione in Buongiorno, notte della fine del periodo terroristico. L’efficacia del cambiamento di Chiara e la sua liberazione del prigioniero, esplicitamente fittizia, sono in sintonia con la dichiarata eventualità implicita nella ricostruzione dell’episodio. Per dirla in altre parole, la critica che ha accolto Buongiorno, notte alla sua uscita si basa su una cecità nei confronti della natura del film come testo palinsestico e allusivo. Le critiche mosse a Buongiorno, notte si basavano su un modello dell’opera d’arte come autonoma, il capolavoro che avrebbe espresso “l’ultima parola” e il verdetto finale sulla questione Moro. Buongiorno, notte non ha alcuna pretesa di esprimere l’ultima parola; semmai si sovrappone alle altre parole, e più specificamente indaga sul modo in cui le altre parole sono state enunciate. La presenza nel film di pezzi presi dalla TV e dal cinema – tra cui esempi di propaganda stalinista, una famosa scena di Paisà, pezzi del telegiornale e un filmato d’archivio del funerale di stato di Moro celebrato corpore absenti – serve per scomporre l’integrità, intesa come senso di solidità basata sull’uguaglianza con se stesso, del film come oggetto testuale. Buongiorno, notte è fatto per sembrare piuttosto un nodo centrale o un luogo di incontro in cui diversi discorsi in competizione tra loro si contendono l’attenzione dello spettatore e quella del protagonista. Questo è naturalmente proprio ciò che accadde durante lo svolgimento dei fatti, quando emerse una serie di rappresentazioni in conflitto tra loro, provenienti dai sequestratori, dal governo e dalle forze di sicurezza e dallo stesso Moro, tutti che cercavano di definire il significato e l’esito del sequestro. Si può quindi ancora una volta dire: Buongiorno, notte è, più che un film sul sequestro Moro, un film sui mezzi con cui siamo in grado di costruire la nostra interpretazione di quegli eventi. Proponendo una lettura di Buongiorno, notte legata ai processi di mitizzazione – e di metarappresentazione – che il film allo stesso tempo argomenta e a cui dà forma, non voglio suggerire che Bellocchio abbia rinunciato ad avere un programma e si sia limitato a lasciare che le varie rappresentazioni entrassero in competizione tra loro nel forum da lui stesso offerto nel film. Come già osservato, il film reitera l’auto-rappresentazione di Moro come vittima sacrificale della macchinazione politica, e inoltre prosegue il progetto di Sciascia di riabilitare Moro, e di distinguere l’uomo dai suoi due ruoli di simbolo detesta97

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bile (per i suoi sequestratori) e di uomo di Stato compromesso (per i suoi colleghi). Inoltre mette in atto una sorta di riabilitazione dei sequestratori, come hanno osservato i critici di destra di Bellocchio; ma come avviene questo esattamente? Di fatto, Buongiorno, notte sviluppa un progetto immaginato, ancora una volta, da Sciascia, e in certa misura inaugurato dalla rappresentazione poco demonizzante dei carcerieri in Il caso Moro, ma che in Buongiorno, notte diventa proprio la raison d’être: […] Di capire quelli di loro che stanno a guardia di Moro e che lo processano: in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce. Nello scambiare parole, colloquiali o di accuse e discolpe. Nel consumare insieme i cibi. Nel sonno del prigioniero e nella veglia del carceriere. Nell’occuparsi della salute di quell’uomo condannato a morte. Nel leggere i suoi messaggi e nel rischio corso ogni volta per recapitarli. Tanti piccoli gesti; tante parole che inavvertitamente si dicono, ma che provengono dai più profondi moti dell’animo; un incontrarsi di sguardi nei momenti più disarmati; l’imprevedibile e improvviso scambio di un sorriso; i silenzi – sono tante le cose, tanti i momenti, che giorno dopo giorno – per più di cinquanta – possono insorgere ad affratellare il carceriere e il carcerato, il boia e la vittima. E al punto che il boia non può più essere boia. (Sciascia 1989a: 530)

Le parole di Sciascia sono una descrizione ante litteram del film di Bellocchio. Ho detto che la repressione della politica in L’affaire Moro di Sciascia non è riuscita a evitare il ritorno distorto dell’elemento politico nei conspiracy film che devono così tanto al libro. Buongiorno, notte non fa riferimento al complotto; l’elemento politico rientra invece seguendo una strada diversa, annunciata dalle parole dello scrittore siciliano, ed è una strada tanto cara alla coscienza collettiva e alla struttura sociale dell’Italia: la famiglia. La maggior parte di Buongiorno, notte è proprio una rappresentazione di Moro e dei suoi sequestratori come parodia di un’unità familiare che vive in stretta intimità nell’appartamento di Via Montalcini. “La famiglia si riproduce dentro al covo, persino con un giochino lacaniano: c’è Moro e ci sono i suoi piccolini, i Moretti”: con queste parole Bruno Fornara (2003: 7) ci ricorda che l’indubbia rappresentazione della detenzione di Moro come un idillio familiare indica in primo luogo la sopravvivenza del tema di Moro come padre totemico ed edipico. Buongiorno, notte discende perciò direttamente da film come Maledetti vi amerò, oltre a costituire una rielaborazione delle scene “domestiche” di Il caso Moro, rendendo esplicita l’iconografia inespressa del film precedente. In secondo luogo, Fornara accenna a un aspetto della critica di Bellocchio alle BR: il loro rapporto speculare con 98

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lo Stato che volevano colpire al cuore. Come scrive Giorgio Cremonini a proposito della rappresentazione delle BR nel film: “Alla strutturazione borghese del mondo […] le BR oppongono non tanto un’idea o un ideale, quanto una speculare e altrettanto terribile visione dogmatica, rituale, chiesastica anch’essa” (Cremonini 2003: 9). La relazione speculare tra BR e Stato nel sequestro Moro era naturalmente già stata fatta notare prima di Buongiorno, notte: la replica, o la parodia, del sistema carcerario nella “prigione del popolo”, e l’autorità di emettere un verdetto di morte che normalmente può essere prerogativa solo dello Stato (e nello Stato italiano la pena di morte ha cessato di essere applicata con la fine del fascismo).34 Ciò che è unico nella versione di Bellocchio è l’intimità della rappresentazione – i figli premurosi anche se assassini, la sorella/madre/figlia che prepara la cena per i fratelli e i figli assenti, la televisione che sfarfalla in continuazione nel soggiorno, il vecchio padre tenuto come un moribondo in una stanza sigillata (la prima volta che compare, Moro è nella posizione fetale che assumerà da morto). È una famiglia disfunzionale, ma può venire il sospetto che sia piuttosto tipica. Sarebbe ingenuo sostenere che la rappresentazione della famiglia in qualunque film di Marco Bellocchio sia intesa in modo semplicisticamente positivo. Fin dalla sua prima opera, I pugni in tasca (1965), la famiglia è piuttosto un campo di battaglia dove si coltivano risentimenti e nevrosi (e, naturalmente, l’omicidio). Mario Pezzella fa notare una festa di famiglia (la sua altra famiglia) cui partecipa Chiara in Buongiorno, notte: “La festa familiare col suo misto di segni di croce, lasagne e moralismo parolaio è una rasoiata contro il cattocomunismo italiano” (Pezzella 2004: 195). Comunque sia, l’associazione delle BR alla famiglia italiana rimane pur sempre un gesto significativo, per non dire polemico, ed è condiviso da La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003), dello stesso periodo. Se in La meglio gioventù la reintegrazione del terrorista nella famiglia classica nazionale costituisce un evento catartico, pensato per rimarginare la ferita degli anni del terrore e di Tangentopoli, la funzione del tropos in Buongiorno, notte è politicamente più ambivalente e complessa. Con esso si intende rafforzare l’affermazione di Bellocchio, con tutto il rispetto per Paul Ginsborg, secondo cui “lasciare uccidere Aldo Moro fu un grave errore politico oltre che umano” (citato in Aspesi 2003: 14). Se il sequestro Moro fosse stato una questione di famiglia (anziché un faccia a faccia con un nemico incomprensibile e alieno) avrebbe veramente avuto senso incominciare a massacrare i membri della famiglia fino a riportare la pace domestica? Il contesto si presagisce già in un articolo di Beverly Allen (1997) che ho citato nel primo 99

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capitolo. Allen sostiene che l’escalation di fatti di sangue negli anni ’70 comportò l’esclusione dei “terroristi” dalla rappresentazione della famiglia italiana nella narrativa per tutto il decennio, e nella prima metà degli anni ’80 il romanzo italiano arriva a suggerire implicitamente che “gli autori [di atti terroristici] non sono nemmeno degli italiani” (Allen 1997: 64). Ognuna in modo diverso, opere come Buongiorno, notte e La meglio gioventù completano il ciclo, incominciato in certi film degli anni ’90, della reintegrazione del terrorista demonizzato nella famiglia letteraria e quindi anche in quella nazionale.35 Rifiutando la loro esclusione dalla famiglia – proprio tramite la loro rappresentazione come famiglia – Buongiorno, notte rifiuta la privazione della nazionalità dei rapitori di Moro, mentre consente una critica delle BR come figli che giocano un gioco futile e fatale. Sarebbe una forzatura suggerire che l’uso del tropos familiare in Buongiorno, notte sia di per sé un espediente autoreferenziale; è meglio considerarlo come l’uso di un motivo tipico della filmografia e della cultura italiana, sostenuto dall’inserimento nel contesto di un film con particolari implicazioni politiche. Voglio comunque tornare sul punto che Buongiorno, notte sia un film che non solo offre un’interpretazione politica del sequestro Moro, ma che argomenta i mezzi di rappresentazione attraverso i quali costruiamo tali interpretazioni. Questo si ottiene in parte tramite l’inserimento di brani di altri film, in parte tramite l’inserimento nella storia di un personaggio, Enzo, che scrive una sceneggiatura con lo stesso titolo del film che stiamo guardando, un espediente giudicato grossolano da molti critici. Per Guido Bonsaver, è “una dimensione metanarrativa un po’ gratuita e piantata in modo maldestro nel cuore della storia” (Bonsaver 2004: 29); per Bandirali e Terrone (2004), il personaggio di Enzo è “l’uomo che sapeva troppo”, una figura fuori del tempo che nel bel mezzo della storia in qualche modo sa già, o ha sempre saputo, come sarebbe andata a finire, e prevede (addirittura per iscritto) il fallimento del progetto rivoluzionario e del sequestro che sta a rappresentarlo: [Ha] il privilegio di uno sguardo retrospettivo e il dono di una consapevolezza che eccede i vincoli del presente/passato dei personaggi appartenendo piuttosto al presente/futuro del regista e dello spettatore. L’uomo che sapeva troppo conosce già sempre la morale della favola o il risultato della partita. […] Egli mostra di saper leggere il futuro alla luce del presente storico, mentre in realtà sta leggendo il presente storico alla luce del futuro. […] [Ha] la capacità di prevedere il fallimento di un progetto rivoluzionario trovandosi esattamente al cuore del progetto medesimo. (Bandirali e Terrone 2004: 4)

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Se i critici hanno ragione, Enzo è l’autoproiezione narcisistica di Bellocchio nel proprio film, che offre un giudizio didattico su eventi storici in un modo che risulta, a causa del suo anacronismo, profondamente antistorico:36 In Buongiorno, notte il bibliotecario Enzo […] non perde occasione per illustrare [a Chiara] appassionatamente gli errori che sta compiendo, indicandole la via della riconversione al quieto vivere. […] Qui l’uomo che sapeva troppo conosce e spiega persino il titolo del film in cui si trova,37 avendone scritto lui la sceneggiatura per consegnarla al protagonista dell’evento narrato [cioè lo stesso Moro nella cui borsa viene trovata la sceneggiatura] (se avesse letto il dattiloscritto venuto dal futuro, Moro avrebbe potuto sventare da sé il rapimento). (Bandirali e Terrone 2004: 4)

Mettendo da parte la questione se una prospettiva presente possa mai veramente essere lasciata in sospeso in un’opera storica, si può essere d’accordo con il contenuto delle osservazioni mosse dai critici senza necessariamente seguire il loro tono, né ci si deve sentire obbligati a scusarsi per la significativa presenza maldestra di un emissario intradiegetico dell’autore. La presenza dell’ “uomo che sapeva troppo” è un espediente maldestro – ed è tanto più lampante per questo. Enzo non è tanto un personaggio quanto una funzione: la sua presenza serve a segnalare allo spettatore l’opera di revisione intrapresa. La prospettiva didattica e privilegiata presente con, e attraverso, Enzo dovrebbe essere interpretata come un’ammissione e un’epigrafe della prospettiva autorevole sul testo, e sulla presenza di tale prospettiva si vuole mettere in guardia lo spettatore. La mise en abîme è un espediente “alienante” che fa parte dell’argomentazione del film dei suoi stessi mezzi di dibattito storico, e un invito al pubblico a stare in campana. Mi pare che questa confusione tra la ricostruzione poetica degli eventi e la loro reinterpretazione revisionistica in Buongiorno, notte sia voluta. Lo stridente inserimento di sequenze di altri film, mentre indica la soggettività del personaggio di Chiara, forza anche la nostra attenzione su come il film costruisce la nostra impressione della storia proprio attraverso un ricorso alla retorica e una rielaborazione dei fatti. (Alberto Soncini, 2003: 4, parla a ragione di montaggio alla maniera di Eisenstein.) Ma questo processo si ripropone sempre nel venire a patti o in dialettica con altri testi e discorsi – compresi, naturalmente, altri film. Così, se il filmato di Stalin che saluta benevolmente una folla adorante difficilmente oggi ci colpisce se non per la sua assurdità sinistra, il pezzetto dei partigiani che vengono annegati preso dalla fine di Paisà di Rossellini non ha perso niente della sua capacità di commuoverci o di mitizzare la 101

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lotta contro il nazifascismo in Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La sequenza viene usata in Buongiorno, notte per mostrare come Chiara sia arrivata a identificare il suo prigioniero con i partigiani e il loro destino; ma Paisà è un elemento intertestuale doppiamente appropriato in quanto i singoli episodi del film di Rossellini acquistano pieno significato solo nel contesto della cornice del film stesso, e poi nel contesto del dibattito e della conoscenza storica in senso più ampio. Nell’ambito di quell’episodio, il martirio dei partigiani appare come una perdita ripugnante e inutile; “fuori” dal film, sappiamo che la causa dei partigiani è stata vincente e che il sacrificio non è stato vano – ma abbiamo bisogno di questa conoscenza per capire il senso tematico della trama. La rappresentazione contrafattuale alla realtà della fuga di Aldo Moro nella penultima sequenza di Buongiorno, notte è simile alla morte di questi partigiani in Paisà, non tanto perché Moro è “come” i partigiani (come pare a Chiara), ma perché non è la fine vera del film o della storia: anche Paisà è un palinsesto che si basa su una sovrapposizione di ciò che è già noto. Buongiorno, notte, permettendo a Moro di allontanarsi in libertà, cede a una fantasia nazionale, ma Bellocchio non sta cercando di ingannare nessuno.

Moro in America L’anno del terrore è un thriller hollywoodiano in cui un giornalista americano che vive a Roma scrive un romanzo dove si predice il sequestro di Moro.38 Il manoscritto cade nelle mani delle Brigate Rosse e lo scrittore, insieme a una temeraria collega fotografa, si salva a stento dalla morte. In un certo senso, il sequestro di Moro è ciò che Hitchcock chiama un MacGuffin:39 Jonathan Romney ha scritto che “il sequestro di Moro è [servito] solo come indicatore storico, oltre che come un clamoroso pretesto per vendere di più” (Romney 1992). In altre parole, il rapimento di Moro è stato scelto come tema riconoscibile che fosse presumibilmente familiare a un pubblico internazionale, senza che avesse reale importanza per gli autori né che suscitasse di per sé alcun interesse. Ciò nonostante, L’anno del terrore ha molte delle caratteristiche che abbiamo identificato nei film italiani di cui ci siamo occupati. Come hanno fatto notare i critici, L’anno del terrore risente davvero dei thriller di fine anni ’70 – nello stile oltre che nella ricostruzione dell’epoca (Murray 1992, Rechtshaffen 1991). Questo thriller americano suggerisce che, all’interno del filone terroristico nel cinema italiano, si distingua una sottocategoria che comprende i film su Moro, e che ha i propri topoi, esportabili, tipici della true story. 102

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Primo tra questi è proprio la scena del rapimento, che qui è catapultata nella narrazione verso la fine del film in una sequenza che ricorda molto l’allestimento in Il caso Moro (al film di Ferrara si fa riferimento anche nel casting: Mattia Sbragia interpreta il ruolo del brigatista in entrambi i film). Gli autori ricorrono anche alla rappresentazione televisiva dell’epoca del sequestro che lasciò così tanto il segno sulla psicologia collettiva: “La scena del sequestro di Aldo Moro è stata molto difficile. Abbiamo svolto una grande mole di ricerca guardando tutti i filmati girati all’epoca” (John Frankenheimer in Pratley 1998: 211). Quest’affermazione suona ironica dato che il film è stato letto come critico nei confronti dei punti deboli dell’informazione televisiva. Il regista John Frankenheimer lo ha considerato non tanto un film sull’Italia o sul sequestro Moro quanto un film che affronta il problema della verità e della responsabilità dei mezzi di informazione, o quanto meno quello dell’inadeguatezza del punto di vista dell’informazione straniera proiettata su una situazione poco chiara in una nazione aliena (Pratley 1998: 210-211). Secondo Scott Murray (1992: 42), L’anno del terrore è insolito per essere un film americano in quanto il messaggio finale “è che gli stranieri non hanno proprio alcuna ragione per lasciarsi coinvolgere nelle vicende di altri paesi, specialmente di quelli i cui traumi non riescono a capire”. Questo è falso: la critica dei mezzi di informazione americani in quanto guerrafondai non equivale alla difesa dell’antinterventismo della così detta comunità internazionale in altri paesi; più di effetto e memorabile di qualunque critica ai media è il modo in cui viene ritratto nel film un paese in un tale caos che non si può pensare che possa governarsi da solo, e che richiede quindi “assistenza” dall’esterno.40 L’anno del terrore può perciò essere considerato interessante non tanto per quello che possa dire o non dire sul sequestro Moro, quanto per quello che ci rivela, in ritardo, sull’atteggiamento degli USA nei confronti dell’Italia ai tempi della Guerra Fredda. L’anarchia e la corruzione endemica della nazione italiana così come vengono ritratte nel film costituiscono una specie di giustificazione retrospettiva della politica americana in un periodo in cui il Partito Comunista Italiano muoveva una percentuale così alta di voti. Da questa prospettiva è significativo che il protagonista che scrive il romanzo sia un exrivoluzionario del Sessantotto americano (in altre parole, un poco americano apologeta dei Viet Cong). Nell’economia di un film che accampa pretese di realismo nel proprio ritratto dell’Italia secondo lo stereotipo di una repubblica latinoamericana alle prese con una rivoluzione violenta, difficilmente ci si potrebbe aspettare che una simile persona distingua fino a che punto il virus del comunismo fosse penetrato nella fibra della nazione italiana. Per questo gli 103

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sfugge l’appartenenza della sua ricca amante alle Brigate Rosse, e non si rende conto che un suo inetto amico intellettuale (naturalmente omosessuale) è anche lui uno dei loro seguaci. Ma nonostante le sue pecche, la cosa importante è che questo personaggio rimane l’unico eroe, e per giunta americano, del film, che serve da sostitutivo dello spettatore, spaventato dalle orde saccheggiatrici di quei poco razionali brigatisti che seminano disordine e morte. Per quanto esprima una visione caricaturale del film concordare con un critico che dice che “fa risorgere il vecchio concetto secondo cui un americano disarmato equivale a un qualunque numero di terroristi italiani” (Newman 1992), il film presuppone che l’americano in questione impari, attraverso l’esposizione forzata ai frutti acidi di quelli che erano stati i suoi ideali, a essere moralmente superiore a questi folli terroristi stranieri (le Brigate Rosse sono rappresentate grottescamente come una banda eccentrica di ladri meschini e di assassini per caso). Se L’anno del terrore è “involontariamente comico”, come afferma Kim Newman (1992), lo è perchè era un film non necessario fin dall’inizio: la Guerra Fredda era già stata persa e la sinistra italiana era già piombata in una crisi dalla quale si deve ancora riprendere. L’insieme di convenzioni e luoghi comuni che caratterizzarono il realismo nel periodo della Mutua Distruzione Assicurata e delle piccole guerre per conto di altri in paesi esotici era ormai poco convincente e superato, e il suo uso, se non in termini parodistici, provoca molto probabilmente solo ilarità.41 Moro, dunque, ha procurato agli autori di L’anno del terrore il brivido del “reale” come maschera per un intento ideologico ormai stanco. Nonostante questo, e le proteste (fondate) del regista che non si trattava di un film su Moro, tuttavia adduceva la morte del politico italiano come aspetto della propria pretesa di serietà politica.42 L’anno del terrore si conclude con l’assassinio di Moro: prima dei titoli di coda, sulle immagini di uno schermo televisivo interrotto accompagnate da un canto monacale medievale, si legge la didascalia: Cinquantaquattro giorni dopo il suo rapimento, il corpo di Aldo Moro crivellato di colpi fu trovato nel portabagagli di un’auto parcheggiata nel centro di Roma.

Questo corpo è stato ritrovato infinite volte nei libri di storia sull’Italia postbellica, proprio come il presidente della DC è stato rapito più volte nei film che raccontano il suo sequestro. John Frankenheimer ha affermato: “Mi trovavo a 104

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Parigi e a Londra quando ci fu la prima [di L’anno del terrore] e ho subito l’assedio della stampa, che pareva delusa che non si trattasse della storia di Moro. Credo che quel film dovrebbero farlo gli italiani” (Pratley 1998: 211). Come abbiamo visto, gli italiani hanno realizzato quel film, e lo hanno fatto diverse volte. E non c’è ragione per ritenere che non lo rifaranno più.43

NOTE AL CAPITOLO SECONDO

1 I primi film di Lizzani erano neorealisti di stampo decisamente di sinistra. Il regista è stato anche direttore del Festival del Cinema di Venezia per diversi anni, e ha presieduto la commissione che ha conferito il Leone d’Oro ad Anni di piombo. 2 Vedi l’articolo non firmato uscito sul Continental Film Review vol. 26, no. 5, del marzo 1979, pp.24-25, in cui si prende in esame la natura politica del plot, mentre le immagini di contorno ne illustrano l’aspetto sessuale e mostrano l’attrice Corinne Clery nuda. 3 L’acuta metafora del “trauma nazionale” sembra essere stata usata per la prima volta in relazione al sequestro da Alberto Arbasino (1978: 9), il quale paragonò il fatto al regicidio di Umberto I e all’assassinio di Matteotti. 4 Espressione usata da Alberto Soncini (2003: 4). 5 I commenti di Martinelli furono espressi e pubblicati in inglese. L’uso del termine “affair”, qui tradotto come “caso”, si riferisce ovviamente al titolo del noto L’affaire Moro di Leonardo Sciascia, un “testo paradigmatico” (Tardi 2005: 37) di cui parlo più avanti. L’uso che Sciascia fa del termine francese era sua volta inteso come un’allusione all’ “affaire Dreyfuss”, un ulteriore esempio di un uomo usato come capro espiatorio e diffamato, e più genericamente al genere poliziesco e ai suoi molti “affair” e “casi”. In questo senso si tratta di una metafora letteraria che cercherò di evitare nel mio studio, poiché la metafora è parte dell’oggetto dell’analisi piuttosto che dei mezzi in essa impiegati. 6 Andrews (2005: 185 n8) fa esplicito riferi-

mento al film di Giordana. Baliani metteva già in scena Corpo di stato alcuni anni prima che uscisse I cento passi. In un’intervista a Il manifesto (9/5/1998) ha osservato: “Quando racconto gli ultimi istanti di Moro, l’esecuzione nel garage, monto in parallelo gli ultimi istanti di vita di Peppino Impastato, un compagno di Democrazia Proletaria ucciso quello stesso giorno dalla mafia. Del primo abbiamo immagini che ci sono rimaste scolpite nella memoria, dell’altro nessuno sa nulla. Peppino era uno della mia generazione che non aveva deciso di prendere le armi ma era andato a combattere in Sicilia, come Rostagno, ed è finito così” (l’intervista è disponibile su h t t p : / / w w w. c a r m i l l a o n l i n e. c o m / a rc h i ves/2003/05/000249.htm, accesso del 30/7/06). 7 Lotta Continua e altri gruppi della sinistra extraparlamentare si erano espressi per la liberazione di Moro e contro la linea intransigente presa dallo Stato italiano, che rifiutò di trattare per la sua vita. 8 Come ha fatto notare Toby Abse in un intervento tenuto nel 2003 al convegno dal titolo “Assassinations, Murders and Mysteries in Modern Italy” presso l’Istituto di Cultura Italiana di Londra, un dettaglio peculiare della vicenda di Moro è la mancanza di accordo tra gli scrittori italiani e quelli di lingua inglese circa la durata del sequestro. Molti italiani – compresi i carcerieri di Moro – parlano di “55” giorni; ma di fatto la prigionia durò cinquantaquattro giorni, come ci ricordano Abse e Ginsborg (1990: 384). Forse non dovremmo farci troppo caso, ma viene da suggerire che l’esagerazione sulla lunghezza del sequestro indichi il senso della traumatica dilatazione del tempo dell’evento percepito dal pubblico e dai protagonisti

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che subirono l’effetto di suspense creato dagli eventi e dall’informazione. 9 Leonardo Sciascia descrive il senso di “vergogna” da lui provato nel leggere i rapporti e i documenti relativi al caso, come se la retorica e la stampa speculativa sporcassero il lettore (Sciascia 1989: 495). Altrove, Sciascia fa riferimento al senso di colpa provato dagli italiani alla morte di Moro: “Sì, Aldo Moro morendo – nonostante tutte le sue responsabilità storiche – ha acquistato una innocenza che rende tutti noi colpevoli, dunque anche me. […] Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa” (citato in Balducci, Ferrara e Katz 1987: 155). 10 David Moss, nel suo tentativo di identificare la struttura rituale del rapimento piuttosto che di ripetere il racconto arcinoto, si rifiuta di fornire una cronologia dei fatti (Moss 1989: 154-164). 11 Infatti il racconto della Braghetti, fortemente basato sulle impressioni individuali, termina con la scena dell’omicidio, ma è poi seguito da una cronologia “di riferimento” del sequestro più sintetica (di Andrea Colombo), che non evita comunque l’effetto drammatico. L’ultima voce della cronologia dice: “9 maggio Aldo Moro viene portato nel garage di via Montalcini e ucciso con due diverse armi da fuoco, nel portabagagli di una Renault rossa. Il cadavere verrà fatto ritrovare, nello stesso portabagagli, in Via Caetani, vicinissima alle sedi nazionali del PCI e della DC” (Braghetti e Tavella: 198). 12 Per un racconto sintetico del piano del sequestro e dell’uccisione vedi Kurlansky (1999: 253-4). 13 In un’intervista rilasciata a Neelam Srivastava (2005: 112), Pontecorvo mette in contrasto il suo precedente La battaglia di Algeri (1966) con Ogro, e ammette che quest’ultimo è appesantito dal tentativo di “non fare il lavoro dei terroristi al posto loro”. Con La battaglia di Algeri, afferma comunque lo stesso regista, “volevamo appoggiare il terrorismo”. 14 Ugo Finetti (1980) insiste sull’identificazione operata nel film: “L’automobile nera [di Carrero Blanco] diventa un’ossessione: non ci sarà dentro Moro? Il diavolo è tra noi”.

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Carlo Celli, in un’impietosa recensione del film, ha scritto: “Ogro ha la stessa prevedibilità costruita dei film di Hollywood sulle azioni degli alleati dietro le file nemiche durante la Seconda Guerra Mondiale” (Celli 2005: 100). 16 Uva (2007: 44) propone lo stesso paragone. 17 La definizione di Moro come “statista” è significativa: secondo il punto di vista di un commentatore come Leonardo Sciascia, Moro non era tale, ed era di fatto una definizione impropria ad uso e consumo della Democrazia Cristiana e della stampa. Con essa si voleva spostare l’attenzione dall’aspetto umano del personaggio per poter presentare la linea intransigente tenuta dal governo durante il sequestro come una valida difesa dello Stato, qualcosa che Moro, nelle sue vesti di “statista”, avrebbe approvato. 18 “Non abbiamo potuto vivere nel modo in cui ci sarebbe piaciuto perché la generazione precedente ha brutalmente bloccato il nostro cammino chiedendoci di sacrificare la nostra differenza o morire” (Curcio e Scialoja 1993: 212). La parte delle memorie di Curcio da cui è tratta quest’affermazione è citata in La seconda volta di Calopresti. 19 Nel film, alla “perdizione” metaforica di quella generazione viene attribuita una valenza letterale nella fuga disperata di Svitòl in Sudamerica e nel suo successivo rientro in Italia – naturalmente senza passaporto: cioè privato della sua identità nazionale. 20Lo spesso citato articolo della Rossanda, “Il discorso sulla DC”, fu pubblicato su Il manifesto del 28 marzo 1978, p.1. Pur attenendoci strettamente al sequestro Moro, possiamo identificare una simpatizzazione con le azioni delle BR, per lo meno nei primi 54 giorni. Paul Ginsborg (1990: 385) parla di “senso di disgusto generale” che accolse l’uccisione di Moro, ma fa anche notare la reazione dei lavoratori della FIAT dopo gli avvenimenti di Via Fani: “Per trent’anni abbiamo subito il terrorismo nelle fabbriche, con i capisquadra fascisti, il pagamento delle pensioni che impiegava dei mesi ad arrivare e l’emigrazione forzata e incontrollata… Io non condanno le Brigate Rosse né condan-

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no nessuno. Sono contrario al terrorismo, ma so che ciò di cui abbiamo immediato bisogno qui sono le riforme” (Ginsborg 1990: 384). Come si esprime la stessa Rossana Rossanda, nel lungo libro-intervista a Mario Moretti: “Fra l’altro nei movimenti c’era stata una simpatia al momento del sequestro, sembraste figure vendicatrici, i nuovi Robin Hood. Ma quando si parlò di esecuzione, tutti vi chiesero di fermarvi e lasciarlo libero” (Moretti, Rossanda e Mosca 2000: 174). 21 Bellocchio dedicò il film al proprio padre, che morì quando il regista aveva diciassette anni (Arie 2004: 11). 22 Come diremo nel prossimo capitolo, nell’opera di Bellocchio si trova un’affermazione simile in Diavolo in corpo (1986). In questo film una giovane donna decide di sposare un terrorista pentito benché suo padre sia stato ucciso proprio da un terrorista. È implicito che il passaggio attraverso la lotta armata per il pentito abbia semplicemente rinviato (e persino facilitato) la sua assunzione del ruolo di patriarca. 23 Il regista Guido Chiesa va oltre, e asserisce che la percezione della centralità di Moro nella coscienza collettiva degli italiani sia semplicemente un’espressione della delusa sete di potere per una parte della sinistra extra-parlamentare italiana in quegli anni. Moro sarebbe cioè un simbolo del potere a cui si aspirava ma che non poté essere conquistato (le sue osservazioni vennero espresse durante un dibattito presieduto da Millicent Marcus al convegno annuale dell’American Association of Italian Studies che si tenne a Chapel Hill nell’aprile del 2005). 24 Sergio Flamigni, ex senatore e membro del Parlamento italiano, è autore di vari conspiracy books sul sequestro Moro tra cui La tela del ragno: Il delitto Moro, quinta edizione, Milano, Kaos Edizioni, 2003, e Convergenze parallele: Le brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Milano, Kaos Edizioni, 1998. È possibile trovare informazioni su Flamigni e sul suo archivio personale di documenti sul sequestro Moro e altri argomenti su http://www.archivioflamigni.org/. Per un breve racconto, basato in gran parte sulle ricerche di Flamigni, dei fat-

ti contraddittori, delle strane coincidenze e degli episodi ambigui che hanno consentito le teorie del complotto sul sequestro Moro, vedi Roberto Bartali, ‘The Red Brigades and the Moro Kidnapping: Secrets and Lies’, in Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politics in Italy in the 1970s, a cura di Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (London: Legenda/Maney/MHRA, 2006; pp. 146-60). In particolare, si noti la sua franca ammissione del fatto che le varie speculazioni non riescono a contribuire a un racconto coerente dei fatti. “Teorie, deduzioni, supposizioni. Una sola verità emerge con chiarezza: non vi sono certezze. Alcune tracce portano verso un cammino preciso; ma non ci sono comunque prove sufficienti per confermare decisamente un’ipotesi” (155). 25 “Marco Bellocchio’s Good Morning, Night or Antigone Revisited”, saggio presentato il 15 aprile 2005 presso il convegno annuale dell’American Association of Italian Studies a Chapel Hill. Marco Belpoliti ha scritto a proposito di L’Affaire Moro di Sciascia: “Moro è il vero revenant di questo libro funebre, che ricapitola non solo una pagina decisiva della storia italiana […] ma anche ciò che nell’opera di Sciascia lega la morte alla scrittura” (Settanta, Torino, Einaudi, 2001; p. 5). 26 Il film era tratto dal romanzo di Sciascia con lo stesso titolo. Come è noto, lo scrittore disse che gli autori erano partiti da Sciascia solo per arrivare a Pasolini – riferimento al fatto che il tono del film sarebbe più vicino alla violenta polemica perseguita da Pasolini contro la DC sulle pagine del Corriere della Sera. 27 Vedi anche l’eccellente analisi dell’immagine divistica di Volonté, che presta particolare attenzione alle sue due interpretazioni del personaggio di Moro, in Catanea 2007: “È infatti attraverso queste due interpretazioni [di Moro] che l’attore diventa l’icona di un intera generazione, incarnando così radicalmente il protagonista politico degli anni di piombo da sostituirvisi nell’immaginario collettivo” (p. 150). 28 La Tardi (2005: 83) suggerisce un’interpretazione più generosa di Piazza delle Cinque Lune quando ammette la possibilità che il finto filmato in superotto del sequestro, deliberata-

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mente “addolorato”, potrebbe essere un espediente riflessivo, fatto per allertare lo spettatore sulla natura artefatta del racconto sul rapimento Moro in generale – compreso il servizio televisivo dell’epoca. Analogamente, Uva (2007: 72) vi fa riferimento come un “espediente metalinguistico”, e suggerisce che l’analisi del filmato da parte del giudice e dei suoi assistenti richiama alcune sequenze di Blow-up (Michelangelo Antonioni, 1966). Il problema di quest’interpretazione è che di per sé Piazza delle Cinque Lune non fornisce alcun consenso né incoraggiamento a mettere in dubbio che il filmato sia autentico, e non contiene alcun indizio autoriflessivo. Il film in superotto è presentato come un necessario elemento del thriller, un MacGuffin (vedi nota 39) che fa scattare l’indagine, ma il cui carattere ontologico non è mai messo in dubbio all’interno della diegesi, e la cura con cui gli autori ricostruiscono l’aspetto degradato della vecchia pellicola – processo che oltre tutto è reso oggetto di culto nella scenografia pubblicata (Martinelli e Campus 2003: 26) – suggerisce che il filmato sia semplicemente parte dell’aspetto retorico del film, e non invece un elemento inteso per incoraggiare nello spettatore la consapevolezza della natura ricostruita di tutta la rappresentazione. 29 Questo è possibile perché lo stesso Moro non ha lasciato alcuna eredità nella vita politica italiana. Come ha affermato David Moss, ben prima della dissoluzione della DC dopo Tangentopoli, la corrente del partito legata a Moro si dissolse effettivamente essa stessa. (Moss fece queste affermazioni in un paper dal titolo “Captain Cook and Aldo Moro: The Choreography of Violent Death and its Interpretative Aftermath”, presentato alla conferenza “Remembering Moro”, 10-11 novembre 2006, IGRS, London.) 30 Rachele Tardi (2005: 56n) suggerisce che la fantasiosa passeggiata di Moro si svolga nel quartiere dell’EUR, e ipotizza che possa essere un’allusione a Pasolini, che viveva nella zona. In realtà, ha luogo vicino alla via della prigionia di Moro, oltre il Tevere rispetto all’EUR, e segnata nelle cartine aggiornate come “via Montalcino” [sic], con vista sull’EUR, e più precisamente sul cosiddetto “Colosseo Quadrato”, il monumentale edificio costruito negli ultimi

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anni dell’epoca fascista. È un edificio che appare in una scena chiave di Roma città aperta di Rossellini (1945), quando i partigiani liberano un camion di compagni, e Bellocchio potrebbe aver voluto un’allusione, in particolare considerando i riferimenti alla Resistenza e l’uso di estratti da Paisà di Rossellini (1946) in un altro punto di Buongiorno, notte. Si potrebbe decifrare un’allusione ancora più esoterica: il Colosseo Quadrato – più precisamente il Palazzo della Civiltà Italiana – e la sede che si intende attribuire (dopo la ristrutturazione) al museo degli audiovisivi, attualmente ospitato presso la Discoteca di Stato in via Caetani – cioè il luogo dove fu ritrovato il corpo di Moro. 31 La Tardi (2005: 56) trova, comunque, una possibile allusione alle teorie del complotto nella scena in cui Chiara sogna di spiare la polizia fuori dalla porta dell’appartamento dov’è tenuto prigioniero Moro. 32 Mario Pezzella (2004: 196) ha fatto notare che Moro nel film è molto spesso osservato dallo spioncino sulla porta della cella – ovviamente una metafora dell’obiettivo fotografico e di come questo circoscrive la nostra visuale mentre ci consente di vedere. 33 Marco Bellocchio riassume così il ventaglio delle critiche (con l’implicazione che le diverse critiche provenivano rispettivamente dalla sinistra e dalla destra): “Sono stato accusato di essere troppo incriminante per aver detto che i terroristi erano dei piccoli fanatici religiosi. Oppure che sono stato troppo benevolo dal momento che di fatto erano dei criminali, degli assassini” (citazione da Arie 2004: 11). 34 Valerio Evangelisti ha notato questo aspetto conservatore delle Brigate Rosse: “Spegnevano lo spirito ribelle. Prendevano dei compagni dal movimento e li incravattavano, li vestivano in doppiopetto e li mettevano nella clandestinità. Questa era un’azione cosciente contro la ribellione, contro lo spirito della ribellione – razionalizzato, modificato, variato al punto da assomigliare tantissimo al modo di vita o agli schemi mentali di coloro che si voleva combattere”. Le sue affermazioni sono contenute in un’intervista nel documentario Fuori fuoco – Cinema, ribelli e rivoluzionari (2005), diretto da Federico Greco e Mazzino Montinari.

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Mi riferisco a film come La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995), La mia generazione (Wilma Labate, 1996), Vite in sospeso (Marco Turco, 1998) e La meglio gioventú (Marco Tullio Giordana, 2003), trattati nel quarto capitolo. 36 Ovviamente Enzo rappresenta anche la conoscenza da parte dello spettatore dell’esito degli eventi. 37 Il titolo è una traduzione approssimativa di un verso di Emily Dickinson, che nell’originale era “Good morning –midnight”. 38 Forse Bellocchio intendeva alludere al film quando ha inserito in Buongiorno, notte una sceneggiatura. 39 MacGuffin: è il termine coniato da Hitchcock per indicare un oggetto o un espediente che serve semplicemente per fare andare avanti il racconto. 40 Non è necessario ricorrere ai libri di storia per ricordarci che, all’epoca dell’uscita del film, tale tipo di assistenza era profusa con generosità dagli Stati Uniti in diversi luoghi del mondo. 41 In questo contesto è importante notare l’osservazione di Uva secondo cui l’attore nel ruolo di Moro, Aldo Mengolini, presenta una rassomiglianza impressionante con Leonid Brežnev, il premier russo all’epoca del sequestro (2007: 71).

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Frankenheimer ha osservato: ‘Per gli italiani, l’omicidio di Moro è molto simile all’assassinio di Kennedy. La stampa italiana era eccitata dal fatto che stavamo facendo questo film” (Pratley 1998: 211). 43 Un progetto del regista Aurelio Grimaldi, Trilogia Aldo Moro, a quanto pare concluso nel 2004 ma mai distribuito, è analizzato nel documentario Fuori fuoco – Cinema, ribelli e rivoluzionari (Federico Greco e Mazzino Montinari 2005) e in Uva (2007: 73-4). Le difficoltà di Grimaldi nel reperire i fondi per il suo progetto sono oggetto di lieve satira nella peculiare commedia Ladri di barzellette (Bruno Colella e Leonardo Giuliano, 2004), in cui Grimaldi interpreta se stesso. Una miniserie televisiva intitolata semplicemente Aldo Moro è attualmente in fase di produzione a cura di Taodue (la stessa società che ha prodotto Attacco allo stato di Michele Soavi, 2006, di cui parlo nella conclusione). Essa ha Michele Placido nel ruolo del protagonista, e un’immagine sul sito web della società (http://www.taodue.it/inpreparazione/in-preparazione.htm# [accesso: 2 August 2007]) mostra l’attore seduto davanti alla stella delle BR in una esagerata imitazione della smorfia sarcastica di Moro nella famosissima Polaroid scattata nella “prigione del popolo”.

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CAPITOLO TERZO

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Tre fratelli e il genere In Tre Fratelli (Francesco Rosi, 1981) i protagonisti fanno ritorno dalle tre città emblematiche di Torino, Roma e Napoli a un paesino remoto della Puglia per assistere al funerale della madre. Il tema del film si può sintetizzare come lo stato dell’Italia contemporanea, il cui campo d’azione emerge nettamente dalla chiarezza della sua allegoria, per ammissione dello stesso Rosi: ciascun fratello rappresenta una tematica diversa, e le loro età – un fratello sulla trentina, l’altro sulla quarantina e il più vecchio sulla cinquantina – vanno “oltre ciò che è possibile e plausibile” (Codelli 1981: 20). Le tre professioni dei fratelli – un operaio, un assistente sociale e un giudice – dovevano, secondo Rosi, “simboleggiare i tre problemi principali del paese, cioè l’impatto industriale, le privazioni sociali e il terrorismo” (Ciment 1981: 46). Il film presenta un uso complesso dei generi inserito nel dramma familiare. È regolarmente scandito da sequenze di fantasia o di sogno messe in scena in uno stile appropriato al contenuto di ciascuna, o in rapporto dialettico con essa (l’incubo surreale, il musical in Technicolor, il thriller e la soap opera). C’è anche un aspetto socio-realistico (scene del carcere minorile napoletano in cui lavora il secondo fratello) e un approccio esplicitamente didattico che è visibile nelle scene in cui il giudice discute la situazione dell’Italia con gli uomini al bar e con un insegnante del posto. La “poetica del discorso dialettico” da cui, secondo Schiavoni (1983: 536), nascono le modalità multiple del film non è tanto una questione che riguarda, per così dire, il disprezzo postmoderno per i limiti del genere, quanto un modo per assicurarsi la ricezione, un tentativo di trovare il mezzo comunicativo migliore per le tematiche presentate. Il film mostra un sanguinoso attentato terroristico, cioè l’assassinio su un autobus a Roma del fratello più vecchio, il giudice Raffaele Giuranna. L’assassinio, però, è in realtà sognato dallo stesso personaggio, un incubo che esprime le sue paure per il proprio ruolo nei processi per terrorismo. La sequenza inco113

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mincia con Raffaele che siede sul letto mentre studia con attenzione un fascicolo di indagine con foto di giudici assassinati, di poliziotti e di “sospetti terroristi” morti. Ci sono alcune dissolvenze tra una foto e l’altra mentre le facce di bei giovani (poliziotti o terroristi) si sovrappongono alle immagini dei loro cadaveri, che in questi momenti occupano l’intero schermo. L’immagine umanizza i terroristi, e le morti sia dei poliziotti che dei terroristi sono presentate come una tragedia generazionale oltre che sociale e nazionale. Intercalati a questa sequenza compaiono i frammenti del ricordo di una conversazione tra Raffaele e il suo fratello più giovane, Nicola, sull’uso della violenza come strumento di lotta operaia. Questa breve scena sembra motivare la visualizzazione di un’altra conversazione, tra il giudice e un collega, in cui Raffaele parla della loro responsabilità nell’impedire che altri giovani prendano la strada della violenza terroristica (non è chiaro se questo sia un ricordo o un dialogo immaginato). La conversazione a sua volta prosegue nel sogno dell’assassinio dello stesso giudice: si vede l’esterno di un autobus, si sente sparare e poi urlare. I quattro assassini, tra i quali c’è una donna, gridano e fuggono, mentre i passeggeri, che sembra non vogliano essere trattenuti come testimoni, abbandonano in fondo all’autobus un cadavere col viso rivolto a terra. Di seguito si vede la polizia che ha già finito il primo sopralluogo sulla scena del delitto, e solo quando gli uomini voltano il cadavere si accorgono che si tratta di Raffaele, mentre la musica della colonna sonora dà in un rapido crescendo enfatico contemporaneamente al senso di shock dello spettatore. Arrivano in macchina la moglie e il figlio del giudice, che vengono fotografati e ripresi dai fotoreporter mentre il corpo viene portato su una barella. Un match cut trasforma il lenzuolo bianco che ricopre il cadavere nel lenzuolo che è nel letto di Raffaele, e lui si sveglia con un grido. L’omicidio terroristico rappresentato è un attentato sognato e quindi, per definizione, soggettivo. Ciò che è lasciato intendere è che la “coscienza collettiva” risenta del terrore della violenza in misura che supera di gran lunga gli effetti sui singoli individui; e, per di più, esso è vissuto attraverso la rappresentazione fotografica e secondo modalità, già acquisite dal pubblico, di ricezione dei generi – in questo caso del thriller. Millicent Marcus (1996: 117) ha affermato che lo stile di quella scena rappresenta deliberatamente un’eco dello stile esplicito dei precedenti film di Rosi, anche se è altrettanto probabile che essa voglia evocare l’approccio del poliziesco che era, insieme alla commedia all’italiana, il genere più immediato per rappresentare il terrorismo degli anni ’70 (vedi Uva 2007: 11, 29-34). Inoltre, essa richiama la scena dell’assassinio del ministro degli interni in Italia: ultimo atto? (Massimo Pirri, 1977), un altro 114

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film in cui compare una donna in un gruppo di tre terroristi, e che Uva (p. 38) considera il primo film che rappresenta in modo diretto il terrorismo di sinistra. In altre parole, il giudice immagina la sua stessa morte secondo gli schemi propinati dal cinema di consumo in film che presentavano il terrorismo come il malessere principale di una società malata.1 La messa in scena da thriller dell’omicidio fa scattare in chi guarda una serie di aspettative che sono al tempo stesso appagate e disapprovate quando il cadavere viene identificato come quello di Raffaele. Si potrebbe proprio dire che la ritardata identificazione del corpo enfatizzi l’eccezionalità della vittima contro lo status puramente simbolico che rappresenta invece per i suoi immaginari esecutori. Inoltre, questo ritardo insiste sull’individualità dell’uomo nonostante sia evidenziato anche il suo ruolo allegorico. Allo stesso tempo, non c’è alcuna considerazione sulle origini, sulle motivazioni né sul destino degli esecutori. Le facce deformate degli assassini sono comparse anonime, create dall’inconscio di Raffaele, ma anche dall’inconscio collettivo, o dall’archivio comune di immagini fornito dall’informazione televisiva e dalle rappresentazioni di fiction dell’Italia dell’epoca. È dunque significativo che uno degli assassini sia femmina: statisticamente, le donne costituirono una minoranza dei partecipanti al terrorismo italiano, ma sono invece strarappresentate nei film sull’argomento. Abbiamo analizzato questa sequenza nel dettaglio perché dà forma in modo intenso ed efficace ad alcune domande chiave – sulla rappresentazione, sul genere, sui destinatari e persino sulla commemorazione – che si pongono in questo capitolo e che emergono nell’insieme di questo libro. Il cinema italiano ha affrontato il fenomeno del terrorismo in una gamma di generi e servendosi di varie modalità per rivolgersi ai destinatari,2 e in questo capitolo tale varietà è trattata in parti deliberatamente contrastanti. La prima parte si occupa del film di Bernardo Bertolucci che analizza gli effetti sociali del terrorismo. La tragedia di un uomo ridicolo (1981) costituisce un’esercitazione sulla commedia che offre un tributo alle potenzialità della commedia all’italiana nel descrivere la violenza degli anni di piombo. I temi della ricezione e della “ricevibilità” delle memorie degli eventi emergeranno sempre più evidenti quando il cinema italiano incomincerà a commemorare le vittime del terrore negli anni ’90. Questi temi saranno esaminati nella parte successiva con riferimento ai tentativi di perpetuare la memoria delle vittime delle stragi. Infine, nell’ultima parte ci occupiamo delle questioni di genere, cioè della costruzione dell’ideologia dei ruoli legati ai due sessi3 (in termini di rappresentazione e di destinazione verso un pubblico di un sesso preciso), e la questione della “femminilizzazione” del terrorismo in un certo numero di te115

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sti. La somma di queste analisi dimostra che non c’è un unico genere sul terrorismo, ma una varietà contrastante di approcci al fenomeno e all’esperienza del terrorismo in Italia; questo capitolo è un’introduzione a tale varietà.

In pieno fumetto: Bertolucci, il terrorismo e la commedia all’italiana Una realtà sfocata Quando uscì Tre fratelli (1981), Francesco Rosi fece notare il senso di confusione provato dall’intellettuale che cercasse di fare chiarezza sulle condizioni della società italiana contemporanea. Rosi riconobbe le differenze rispetto ai suoi lavori precedenti nell’approccio assunto in questo ultimo film: La situazione sociale e politica generale in Italia è molto meno chiara oggi di quando ho fatto i miei primi film. Vent’anni fa, quando girai Salvatore Giuliano e Le mani sulla città, il mio scopo era quello di partecipare alla vita pubblica realizzando dei film che si occupassero di problemi della collettività. La realtà allora era più chiara e più semplice, e potevo raccontare storie sulla collettività e sulla società usando semplicemente i fatti. La situazione ora è più complessa, e c’è bisogno di affidarsi maggiormente ai personaggi, alle interazioni tra di loro e alle loro reazioni agli eventi sociali per poter esprimere un’analisi. (Crowdus 1982: 42)

L’affermazione di Rosi secondo cui la realtà contemporanea era elusiva e accessibile solo indirettamente, e che i “fatti” non erano di aiuto nel capire le condizioni dell’epoca, è sintomatica di un più ampio senso di impotenza e di crisi riguardo al ruolo dell’intellettuale come commentatore durante gli anni di piombo.4 Gian Piero Brunetta fa notare che il conseguente distogliere lo sguardo diretto dal mondo contemporaneo era tipico non solo di Rosi, ma anche degli altri grandi cineasti italiani: I primi ad abdicare alla rappresentazione del presente sono gli autori più affermati, che, per la prima volta, dopo quasi un quarto di secolo, dichiarano conclusa l’esperienza mimetica e realistica e iniziano a praticare i sentieri dell’allegoria, della metafora dell’immaginario, della ricostruzione del passato. (Brunetta 1982: 796)

Non sono il cinema d’auteur o il cinema d’impegno, dunque, a fornire le prime reazioni cinematografiche al fenomeno del terrorismo e alle sue conse116

I generi del Terrore

guenze sociali nell’Italia degli anni ’70. Sono, invece, i generi del poliziesco (vedi Pergolari 2007) e della commedia all’italiana: Mordi e fuggi (Dino Risi, 1973), Caro Michele (Mario Monicelli, 1976), Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977), alcuni episodi di I nuovi mostri (Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, 1977), e Caro papà (Dino Risi, 1979).5 La critica si è scarsamente interessata a questo fatto; in realtà, i film della commedia all’italiana non riescono neppure a comparire nel capitolo “Schermi del terrorismo” del libro di Fantoni Minella sul cinema politico italiano (2004: 114-32).6 I critici contemporanei tendevano a bocciare i film ritenendoli eccessivamente alla mercè delle convenzioni di genere, come nei seguenti estratti di una recensione di Caro papà, la storia di un imprenditore di successo il cui figlio fa parte di un gruppo terroristico: Come il regista affronti il problema del terrorismo è presto detto scorrendo la fabula del film: se un ingegnere che si batte per la fortuna delle multinazionali e per la “stabilizzazione dell’ordine mondiale” tradisce una moglie, sofferente a ogni cambio di stagione di mania suicida, con un’amante-oggetto, nella miglior tradizione delle commedie all’italiana, non può che essere punito con l’aver covato la classica “serpe in seno”, rappresentata da un figlio in crisi esistenziale che, essendo stato per troppo tempo monetizzato per le carenze affettive sofferte, perde il senso del valore del denaro e diviene bieco terrorista, tanto da accettare di condurre un’operazione di azzoppamento del genitore. […] Come si può intuire siamo in pieno fumetto. (Guazzini 1979: 53)

È chiaro che questa osservazione finale è intesa come critica di condanna, un’indicazione della mancanza nel film di un impegno serio nelle tragiche circostanze che pretende di ritrarre. Mary Wood (2005: 47) ha scritto che mentre la commedia all’italiana è sempre stata impegnata nelle realtà sociali, “durante il periodo della ‘strategia della tensione’ e degli ‘anni di piombo’, la commedia non era considerata una forma adatta per indagare degli eventi così gravi come gli attentati dinamitardi e le stragi”. Le osservazioni di Guazzini suggeriscono che la commedia all’italiana fosse giudicata una forma inappropriata anche per la rappresentazione del terrorismo di sinistra. Può sembrare paradossale, dunque, che Bernardo Bertolucci dovesse adottare la modalità comica per il suo film “terroristico”, La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Tuttavia, il film di Bertolucci costituisce un tributo alla capacità della commedia all’italiana di rispondere prontamente alle circostanze degli anni di piombo, e alla sua capacità di cogliere l’atmosfera di quegli anni.7

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La tragedia di costume di Bertolucci La tragedia di un uomo ridicolo incomincia con Primo Spaggiari, un gaudente produttore emiliano di salumi e formaggi, che osserva dal tetto del suo stabilimento un misterioso alterco che potrebbe essere il rapimento di suo figlio (né il protagonista né lo spettatore vedono il viso del giovane). Il personaggio guarda l’incidente attraverso un paio di binocoli appena ricevuti come regalo di compleanno di quel figlio di cui ora sembra assistere al sequestro – il figlio che più tardi sospetterà di aver inscenato il suo stesso rapimento e che, si chiarirà, ha delle discutibili frequentazioni politiche. (Lo stesso Primo, credendo che suo figlio sia morto, spera di poter adoperare i soldi del riscatto, che lui e sua moglie hanno raccolto, per salvare la sua attività in crisi.) I binocoli usati da Primo servono come metafora, in primo luogo della difficoltà di vedere e di capire ciò che si vede, e in secondo luogo della mediazione dello stesso meccanismo cinematografico, e quindi dell’accesso problematico del cinema alla realtà del periodo.8 Alla fine del film, il figlio ricompare misteriosamente come era scomparso, e le parole finali del film sfidano esplicitamente lo spettatore a dare un senso a ciò che si è visto. Bertolucci ha affermato che: [La tragedia di un uomo ridicolo] rappresenta un’ambiguità che io percepisco come tipica della società italiana – e anche della vita in altri Paesi. […] Non ci sono più certezze. Nessuno sa più quale sia la verità – riguardo all’assassinio di Kennedy o agli scandali dei servizi segreti britannici o all’uccisione di Aldo Moro in Italia. […] Nel caso di Moro, e in quello di Mattei, non si sa assolutamente niente su come siano effettivamente morti. […] L’ambiguità oggi fa parte della nostra dieta quotidiana. Non c’è più alcuna certezza, compresa quella che riguarda gli eventi. (Ciment 1982: 12, 16)

La complessità dei tempi diventa nel film di Bertolucci un’ambiguità che può essere espressa ma non chiarita. La tragedia di un uomo ridicolo traspone questa ambiguità da un contesto politico a uno familiare; come ha detto Bertolucci, “il pubblico e Primo devono pensare che suo figlio sia morto. Soltanto Barbara [la moglie di Primo] crede che sia vivo. Adelfo [un prete amico del figlio scomparso] ha sentito dire in confessione che è morto. Ma questa confusione riflette le questioni politiche italiane” (Ciment 1982: 16). Se La tragedia di un uomo ridicolo prende il via dalla natura misteriosa degli eventi pubblici e dall’inquietante catasta di cadaveri italiani eccellenti, è anche vero che il film traduce queste ansie in una commedia familiare di costume. 118

I generi del Terrore

La commedia di La tragedia di un uomo ridicolo raramente viene presa in seria considerazione. Quei critici che registrano questo elemento del film tendono a vederlo come una caduta di gusto: “trovano posto imbarazzanti episodi comici” (Sola 1981: 679). Mentre altri critici hanno notato l’indebitamento del film con la tradizione della commedia all’italiana (Fink 1994; Deriu 1998), la maggior parte ha preferito vedere il film nei termini auteurist, persino strettamente biografici che costituiscono degli standard nella critica a Bertolucci. Per Brooke Jacobson, dunque, La tragedia di un uomo ridicolo è un “lavoro onirico mascherato da thriller”, decifrabile come un racconto del confronto di Bertolucci con i propri conflitti edipici (Jacobson 1984: 58; vedi anche Brunetta 1982: 664-5). Altri critici hanno preferito cogliere il miscuglio di elementi comici e drammatici in La tragedia di un uomo ridicolo come un indicatore dello “spirito postmoderno del film” (Loshitzky 1995: 85). Ma la sovrapposizione del tragico e del ridicolo non è nuova nel cinema italiano, e la modalità ironica della commistione dei generi indicata nel titolo del film di Bertolucci è tipica della commedia all’italiana – una modalità che risale almeno alla fine degli anni ’50. È utile elencare i punti di paragone tra La tragedia di un uomo ridicolo e Caro papà, che lo precede di due anni, per poter illustrare cosa hanno in comune il film di Bertolucci e la commedia all’italiana. Entrambi i film si concentrano sul padre, e la narrazione è quasi totalmente ristretta alla sua visuale; entrambi i padri dichiarano di essere stati membri della Resistenza, e rappresentano quindi il passaggio dall’idealismo al materialismo nell’Italia postbellica; i figli di entrambi gli uomini sono figure enigmatiche con sentimenti ambivalenti (come minimo) verso i loro progenitori; entrambi gli imprenditori tentano incontri sessuali, con esito infelice, con le ragazze dei rispettivi figli; entrambi i protagonisti sono interpretati da attori molto noti, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, meglio conosciuti per il loro lavoro nella commedia all’italiana; i finali ambigui di entrambi i film rifiutano il sollievo della conclusione nel modo tipico della tradizione della commedia all’italiana (Giacovelli 1995: 43); per concludere l’elenco senza esaurirlo, entrambi i film rappresentano le conseguenze sociali del terrorismo in termini che, per parafrasare la Dalle Vacche (1992: 15), traducono in mito edipico gli interrogativi del presente.9 Diversi scrittori hanno considerato La tragedia di un uomo ridicolo in relazione con Caro papà e altri film (specialmente Colpire al cuore) sulla base dell’uso in ciascuno di essi della configurazione edipica (Tardi 2005; Caldwell 2006).10 Come ho già osservato prima, l’indagine della relazione tra padre e figlio, in chiave edipica o di altro tipo, è un aspetto a lungo presente nel cinema 119

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italiano: viene in mente l’invocazione dell’archetipo nella versione di Pasolini della storia di Edipo (Edipo re, 1967); e viene immediatamente in mente anche Ladri di biciclette (Vittorio de Sica, 1948). Come in quest’ultimo film, Caro papà e La tragedia di un uomo ridicolo sono centrati sul rapporto tra un padre e un unico figlio. La frequenza con cui si ripresenta tale configurazione in questi film suggerisce che siamo in presenza di una topologia simbolica. È il riproporsi dell’organizzazione patriarcale della società italiana.11 Certamente, il fatto che tutti gli attori chiave della commedia all’italiana fossero maschi suggerisce che il genere fosse utilizzato per ridefinire la mascolinità nella società italiana (Günsberg 2005: 60-96). La frequente presenza, comunque, in questo genere così come nel cinema italiano nel suo insieme, di configurazioni padrefiglio, suggerisce che ci troviamo dinanzi a un confronto con quella forma di organizzazione sociale in cui il padre è il capofamiglia, e la discendenza e le parentele sono calcolate sulla base della linea maschile.12 Negli studi freudiani la forma patriarcale dell’organizzazione sociale è figurata in termini edipici, e il compito del figlio è quello di sostituire il padre come detentore dell’autorità e del potere. Interpretata in questo modo, la presenza del tema edipico in Caro papà e La tragedia di un uomo ridicolo suggerisce una lettura del terrorismo italiano come un altro modo per “uccidere il padre”. Ciò che è chiaro è che l’archetipo edipico, interpretato sia in chiave mitologica che in termini freudiani, raffigura il conflitto piuttosto che la concordia al centro della nazione in questo periodo, ed è indice di una società decisamente fuori asse. La prossimità satirica La commedia all’italiana fu per la prima volta riconosciuta come un fenomeno distinto nel cinema italiano alla fine degli anni ’50, anche se fu inizialmente definita come “commedia di costume” (Camerini 1986: 179-81). “Commedia all’italiana”, un’espressione che compare nel linguaggio dei critici l’anno successivo, e “commedia di costume” continuano a essere interscambiabili per tutti gli anni ’60, sebbene la locuzione più comune, “all’italiana”, sia quella che sopravvive fino al periodo dello sdegno critico nei confronti del genere agli inizi degli anni ’70: “passa a indicare una fase ormai esaurita del cinema italiano o semplicemente un modello ‘negativo’ di cinema” (Camerini 1986: 180). Vale la pena soffermarsi sulle implicazioni della definizione originale “commedia di costume”, e su ciò che potrebbe rivelare sulla capacità del genere di affrontare le condizioni sociali e politiche contemporanee, e quindi il fenomeno del terrorismo. Le preoccupazioni di una commedia di costume saranno 120

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con tutta probabilità rivolte al “comportamento e alla condotta di uomini e donne che vivono sotto codici sociali specifici” (Cuddon 1991: 170). In origine, la commedia teatrale di costume si occupava delle manie delle classi aristocratiche, e successivamente delle emergenti classi borghesi e dei loro servitori. I film che stiamo analizzando continuano a concentrarsi sulla borghesia, ma la commedia nel suo insieme ha preso anche una prospettiva più “popolare”, riflettendo le aspirazioni di una categoria sociale più ampia negli anni del boom economico durante i quali è nato il genere. La commedia di costume all’italiana diventa critica e allo stesso tempo sintomatica delle circostanze intorno alle quali nasce il boom economico. Si potrebbe parlare di una doppia faccia del genere, qualcosa che è proprio della commedia di costume e qualcosa che potremmo riconoscere nella definizione di “commedia all’italiana” del Dizionario Zingarelli: “genere cinematografico […] animato in parte da intenzioni di critica di costume, in parte da fini esclusivamente commerciali”.13 L’ambivalenza della commedia di costume all’italiana per quanto riguarda l’oggetto della sua satira, la sua “doppia faccia” di moralista e sfruttatore, indica che abbia un certo tornaconto nelle condizioni e nei mores che spera di denunciare. Donde la provenienza di buona parte del materiale utilizzato per le trame dei film, materiale che spesso deriva dai media popolari che ai film piaceva parodiare (Argentieri 1986: 95). Si è spesso osservato che l’ambivalenza della modalità, insieme al suo sfruttamento degli aspetti più grotteschi della realtà contemporanea, tende al cinismo, o alla sua variante ideologica che è il qualunquismo. La commedia all’italiana era “colpevole” di ambiguità e incorreva perciò nella convinzione secondo cui un testo che non bolla in modo esplicito i propri personaggi negativi deve necessariamente essere colpevole di approvare il loro comportamento. Possiamo trovare ingenua o bigotta una tale convinzione, ma essa ha il merito di indicare il lavoro interpretativo che deve essere svolto dallo spettatore della commedia all’italiana. Lo spettatore è l’ultimo arbitro morale delle azioni mostrate, ma è anche allo stesso tempo incoraggiato a riconoscersi nell’oggetto della satira. Si potrebbe ben controbattere che il tornaconto o la complicità della commedia all’italiana nell’oggetto della sua satira sia, di fatto, un vantaggio nella spiegazione delle condizioni sociali. La prossimità satirica (in contrapposizione alla distanza critica) consente il riconoscimento della complessità delle condizioni ritratte, e permette allo spettatore di apprezzare il fatto che un certo divo venga utilizzato come mezzo critico. Il genere contava sulla costruzione di un italiano (maschio) “tipico”, identificato con un insieme di facce iconiche. Come scrive Brunetta: 121

Passando attraverso un gruppo di attori (Tognazzi, Sordi, Mastroianni, Manfredi, Gassman) la commedia dà vita e voce a quel tipo di italiano che la storia ha mandato, suo malgrado, in prima linea e che, maestro nell’ “arte di arrangiarsi”, ma sostanzialmente vile, nonostante l’aspetto apparente da “miles gloriosus”, è in grado nei momenti decisivi di compiere le scelte giuste. Film dopo film si crea una folla, dove il singolo ritratto diventa emblema di una condizione generale, le voci individuali diventano voci collettive. (Brunetta 1982: 762)

La passione creata intorno a questi “maestri nell’arte di arrangiarsi” potrebbe essere descritta come un’altra forma di complicità con l’oggetto della satira, in questo caso con il pubblico stesso. Alcuni critici hanno visto la creazione di un così carismatico “italiano medio” come una forma di adulazione dello spettatore, il cui comportamento dovrebbe di fatto essere l’obiettivo della censura (Camerini 1986: 188-9). Si potrebbe piuttosto affermare che l’identificazione con l’attore, il senso di devota complicità con figure popolari come quella di Sordi, Manfredi o Tognazzi, fosse il modo più efficace di coinvolgere il pubblico nella critica del suo stesso comportamento. Come commedia di costume, la commedia all’italiana fu presto in grado di acquisire la realtà sociale della violenza terroristica. Mordi e fuggi di Dino Risi può permettersi di usare il tono faceto della commedia cinica anni ’60 per introdurre gli effetti più tragici del decennio successivo. Il film prende una figura comica di repertorio, un vanesio donnaiolo in un’automobile sportiva interpretato da Marcello Mastroianni, e lo fa rapire da un gruppo di anarchici in fuga dopo una rapina in banca; sia i sequestratori che la vittima saranno uccisi da una polizia dal grilletto facile. Il fatto che la violenza terroristica fosse ritratta in questo genere di film era di per sé una mossa polemica: si affermava così che tale violenza non era estranea ma anzi inerente alla società italiana, e caratteristica del suo “costume”. Tuttavia, la commedia di costume poteva spingersi solo fino a un certo punto nel descrivere le condizioni del momento, e i critici concordano sul fatto che essa non sopravvisse agli anni ’70. L’idea che il terrorismo abbia ucciso proprio uno dei generi che era stato il primo ad affrontarla è un luogo comune nella critica (Wood 2005: 47; Giacovelli 1995: 88). In ogni caso, il notevole merito della commedia all’italiana è stato di essere riuscita a collocare la violenza terroristica come una delle facce della violenza diffusa nella società italiana; è riuscito, in altre parole, a descrivere il terrorismo come un altro degli aspetti grotteschi del comportamento contemporaneo, e mettere così in discussione la demonizzazione dei terroristi insistendo sul carattere autoctono delle loro azioni. Per fare questo, comunque fu obbligata a filtrare il terrorismo attraver122

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so l’esperienza dei suoi stereotipi maschili. La commedia di costume riuscì a presentare le condizioni degli anni di piombo unicamente come sintomatici del qualunquismo o della goffaggine di questi personaggi ereditati: solo con difficoltà, e con pericolo mortale per se stessi, questi soggetti potevano essere immaginati a mettere una bomba in una stazione. Un’efficace obsolescenza? Entro la metà degli anni ’70 gli sceneggiatori e i registi delle commedie degli anni d’oro (1959-64) e gli attori così strettamente identificati con esse si erano lasciati alle spalle l’epoca in cui potevano fingere di essere i protagonisti del periodo. Di conseguenza, la rappresentazione dei giovani nei film degli anni ’70 mise in scena una generazione estranea agli attori e ai produttori della commedia all’italiana, e in molti dei film i giovani sono mostrati come stravaganti, taciturni e persino brutti e pericolosi. In Caro papà i giovani sono dei personaggi barbuti, imperscrutabili e minacciosi. Sempre in gruppo, osservano una festa lussuosa restandosene in un angolo, sprezzanti e silenziosi, o mettono in ridicolo un professore intimorito nei corridoi della Sapienza. Si tratta di una percezione dei giovani condivisa nientemeno che da Pasolini, e le opinioni da lui espresse negli articoli scritti nei suoi ultimi anni sono deliberatamente riprese in un pezzo chiave di un dialogo di La tragedia di un uomo ridicolo (Ciment 1982: 15). Primo Spaggiari dichiara: I figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi. Hanno occhi spenti. Trattano i padri con troppo rispetto oppure con troppo disprezzo. Non sono più capaci di ridere: sghignazzano. O sono cupi. E soprattutto non parlano più. E noi non sappiamo capire dal loro silenzio se chiedono aiuto o se stanno per spararti addosso. Sono dei criminali.14

La fusione del tipico personaggio della commedia rappresentato da Tognazzi con l’intellettuale radicale di cui parla Pasolini risulta curiosa e divertente. Tuttavia, significativamente, i due erano nati nello stesso mese del 1922 (anche se Pasolini era stato ucciso nel 1975) e il disagio di Primo rappresenta dunque le ansie di un’intera generazione di italiani del Dopoguerra. Abbiamo visto che intellettuali come Rosi e Bertolucci espressero perplessità e un senso di inadeguatezza di fronte alle condizioni degli anni di piombo. È questo senso di smarrimento e di impotenza che dovrebbe colpirci nel dialogo di Primo: smarrimento e impotenza di fronte a una generazione che nei film rappresenta l’evoluzione della società italiana che è andata oltre la comprensione dei 123

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protagonisti. Allo stesso tempo, La tragedia di un uomo ridicolo rappresenta il culmine di un processo nella carriera di Ugo Tognazzi in cui “la vecchiaia […] si trasforma da condizione anagrafica in uno stato di emergenza psicofisica e/o economica che costringe [il personaggio] a un radicale ripensamento delle proprie abitudini” (De Franceschi 2005: 307). Il “padre” che invecchia deve quindi essere letto in modo figurato come un avo in declino intellettuale: “Questo padre prende atto di non avere più gli strumenti per comprendere quanto accade intorno a sé e rinuncia a capire” (De Franceschi 2005: 307). Naturalmente c’è un aspetto generazionale che è sottinteso anche nell’adozione da parte di Bertolucci della modalità stessa della commedia all’italiana, la modalità dei “padri” che l’avevano preceduto: Possiamo allora azzardare l’ipotesi che Bertolucci, ne La tragedia di un uomo ridicolo, abbia voluto da un lato fare i conti con la tradizione della commedia cinematografica italiana (territorio da lui non frequentato, ma in qualche modo incombente, come la figura paterna) e, dall’altro, abbia anche voluto “giocare a fare il padre”, sperimentarsi per una volta dall’altra parte del rapporto che dà luogo al conflitto edipico così intensamente esplorato in altri film precedenti e, è lecito credere, nell’avventura dell’analisi. (Deriu 1998: 281)

Il legame tra l’uso della cifra comica e l’identificazione con il padre deve essere collocato nel contesto della situazione sociale e politica in Italia così come essa era percepita e sperimentata dagli intellettuali durante gli anni ’70 e i primi anni ’80. Identificandosi nel padre, e adottando la modalità espressiva dei padri, Bertolucci riconosce l’esaurimento dell’operato e delle certezze di una forma di cinema politico, e ammette il disorientamento dell’intellettuale che si confronta con le circostanze sconcertanti degli anni di piombo. Il paradosso che dà origine a La tragedia di un uomo ridicolo è che la commedia di costume aveva nella sua obsolescenza il suo punto di forza: era proprio per il fatto che la commedia all’italiana aveva esaurito il proprio potere esplicativo che essa conservava, per Bertolucci, la sua capacità di caratterizzare il tempo, e di illustrare gli effetti del terrorismo sulla società italiana.

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I generi del Terrore

Il cinema e le stragi Lo “spettacolo” del terrore Nel suo autorevole libro La società dello spettacolo (1997, pubblicato per la prima volta nel 1967), Guy Debord identifica la cifra del tardo capitalismo in quella della spettacolarità. Lo spettacolo, secondo Debord, costituisce uno sviluppo della mercificazione in cui tutto – la politica, le relazioni sociali, l’interazione umana – si traduce o si manifesta in immagine. Se interpretato in termini debordiani, il terrorismo – che altrimenti è un’attività che così tanto sfugge a una definizione – si rivela molto chiaramente come una modalità di azione politica che è propria del tardo capitalismo e che, come ha fatto notare Giorgio Agamben, è tipica dell’Italia nei tempi recenti: l’Italia è stata il laboratorio in cui, mentre il terrorismo forniva lo spettacolo di copertura che monopolizzava ogni attenzione, si è andato provando e attuando il trapasso delle democrazie occidentali verso l’ultima fase del loro sviluppo storico. (Agamben 1989: 1)

L’azione terroristica implica proprio l’impiego dello spettacolo per fini di coercizione politica: è politica intesa come singolo evento eclatante che dipende dall’apparato mediatico della società moderna. Gli attacchi del settembre 2001 a New York e a Washington, convenzionalmente chiamati nell’abbreviazione sloganistica da linguaggio pubblicitario “9/11”, non furono in questo senso niente di insolito – essi rappresentarono piuttosto il suggello posto su un modus operandi già consolidato. Non furono il numero o le nazionalità delle vittime del settembre 2001 a sancire le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, e a consentire la riorganizzazione del “noi e loro” globale intorno alla chimera della “Guerra al terrore”; il consenso per il riassetto del mondo venne invece dallo spettacolo degli aerei che si lanciavano sulle Twin Towers. Le azioni intraprese sulla scia del “9/11” furono legittimate dall’icona delle icone prese d’assalto (è questo lo “spettacolo” come vera moneta politica, trasmesso in tutto il mondo in immagini simultanee, e poi ripetute all’infinito, della distruzione delle torri – le fotogeniche Twin Towers hanno ovviamente preso totalmente il posto delle immagini del Pentagono, danneggiato in modo meno pittoresco). In ultima analisi i campi di Guantanamo, la rendition dei sospetti perché vengano torturati fuori patria, tutto l’apparato dello “stato di emergenza” identificato da Agamben (2005) sono stati giustificati alla luce di quelle im125

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magini, a ritardata conferma dell’affermazione sarcastica di Debord: “Tutto ciò che appare è bello; tutto ciò che è bello appare” (Debord 1995: 15). La distruzione delle Twin Towers ci sembra “bella” in quel senso: l’iconografia hollywoodiana (è un “bel” film) scatena le tattiche di esaltazione e l’etica manichea della politica estera di Bush. Il processo non è nuovo. Come fa notare Agamben, la moneta politica della spettacolarizzazione era già in circolazione in Italia durante gli anni di piombo, quando l’azione terroristica dominava la coscienza italiana. Lo spettacolo terroristico era il metodo che caratterizzava la strategia della tensione: il tentativo clandestino di far venire fuori un’Italia autoritaria sul modello greco, fomentando un disordine sociale che poteva così essere attribuito al comunismo e alla debolezza dello Stato democratico. Le vittime e le macerie degli attentati mai rivendicati dovevano servire come l’“immagine” stessa dell’irresponsabilità della sinistra, consentendo all’estrema destra di assumere il controllo in una presa di potere popolare. Il fenomeno dello stragismo era collegato a questa strategia della tensione, e il termine si riferisce all’uso più autonomo del massacro indiscriminato da parte di gruppi neofascisti che godevano probabilmente della protezione dei servizi segreti italiani. La tattica dello stragismo fu responsabile della bomba che causò la morte di otto partecipanti a una manifestazione antifascista in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974 (altre 103 persone rimasero ferite), un evento insolito per il fatto che le vittime appartenevano a un’area politica identificabile, così che il messaggio di odio fosse chiaro. La giustizia resta in sospeso per quanto riguarda la strage di Brescia: non è mai stato trovato nessuno che fosse colpevole di aver ideato la strage e innescato la bomba. L’atrocità più nota dello stragismo fu il massacro di Bologna del 1980. Alle 10.25 del 2 agosto una bomba esplose nella sala d’attesa della seconda classe alla stazione ferroviaria di Bologna, uccidendo ottanta persone e lasciandone ferite più di duecento.15 A causa del posizionamento della bomba le vittime probabili ed effettive provenivano da un ventaglio di classi sociali e di nazionalità. Ciò nonostante, l’importanza simbolica di Bologna come roccaforte della sinistra condusse presto alla conclusione che si trattasse di un atto terroristico della destra. Solo dopo molte false piste, però, seminate, parrebbe, dai servizi segreti italiani, e che portavano a organizzazioni con base all’estero, fu chiaro il coinvolgimento di elementi dell’estrema destra italiana. Nel 1995, dopo un processo interminabile, due neofascisti, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, furono dichiarati colpevoli di aver piazzato la bomba.16 I due continuano a dichiararsi innocenti riguardo alla strage, ammettendo però altri atti sovversivi e violenti; qualcuno ha suggerito che siano stati entrambi il 126

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capro espiatorio di un massacro più istituzionale, orchestrato da elementi usati dall’apparato di sicurezza dello Stato o comunque vicini a esso. L’associazione delle vittime della strage di Bologna (l’Associazione 2 agosto) sostiene la colpevolezza della Mambro e di Fioravanti, ma conserva molti sospetti sul grado di coinvolgimento delle istituzioni nell’attentato, proprio come i membri dell’Associazione dei caduti di Piazza della Loggia sono convinti del coinvolgimento dello Stato nel massacro dei loro cari. È chiaro, in ogni caso, che le vittime di queste e di altre atrocità erano persone comuni sacrificate all’idolo dell’anticomunismo a sprezzo del voto popolare. Il presidente dell’Associazione 2 agosto, Paolo Bolognesi, dichiarò nel 2004 nell’anniversario della strage di Bologna: Qualcuno, forse, pretende di annullare l’esistenza delle vittime? No, sappiate che c’è un dovere che noi familiari abbiamo: dare voce al silenzio dei nostri cari; una voce che denunci le ingiustizie, le illegalità, una voce che richiami la completa verità. Un impegno che abbiamo assunto da 24 anni, ma è anche l’impegno che la città di Bologna si è preso il 2 agosto del 1980 mentre ancora si scavava tra le macerie di questa stazione.1

Il dovere della giustizia è legato al dovere di commemorazione espresso nelle parole di Bolognesi. Il problema di tale progetto è che il suo lavoro rischia di cadere preda del pregiudizio “spettacolare”, secondo cui tutto ciò che è bello appare, e tutto ciò che appare è bello – anche se ciò che “appare” sono le macerie di una stazione e un cumulo di cadaveri. L’associazione delle vittime, in altre parole, deve essere consapevole della possibilità che lo spettacolo del luogo dell’attentato e dei morti possa diventare disponibile come immagine-moneta – ad esempio, nel tesoro dell’estrema destra. Lo spettacolo terroristico richiede naturalmente commemorazione; ma in qualche modo la richiede secondo modalità che evitino la capitolazione allo “spettacolo”. E questa commemorazione deve per forza avere luogo in una cultura dell’immagine in cui la memoria competa con la rappresentazione e la spettacolarizzazione di una miriade di altri simili eventi. Come scrive Paola Malanga (1997: 79): Le notizie viste velocemente in TV stanno diffondendo in modo subliminale la sensazione che tutte le stragi sono uguali, cioè che una vale l’altra […]. Invece è fondamentale che ogni strage sia riconoscibile nella memoria.

Nel caso di Bologna, le autorità locali e l’Associazione 2 agosto hanno sviluppato ciò che la Tota (2002: 295) definisce una “poetica dell’esibizione della 127

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memoria” che impiega necessariamente le “tecnologie della memoria” a disposizione su un mercato quanto mai competitivo. In termini linguistici che possono sembrare fuori luogo ma che indicano che la memoria è parte del mercato, la Tota (2003: 127) afferma che la trasmissione del ricordo della strage di Bologna è il lavoro di “imprenditori della memoria”: “l’Associazione [delle vittime] ha elaborato una sorta di progetto di marketing per la vendita e il ricordo del massacro, come una risorsa nazionale da preservare e da trasmettere” (Tota 2002: 295). La sede principale di questo “progetto di marketing” sarebbe la stessa sala d’attesa dove esplose la bomba. A una parete vi è una grande targa con i nomi e le età dei caduti. Lo stesso luogo conserva anche una piccola buca nel pavimento nel punto in cui la bomba fu collocata, e l’enorme squarcio provocato tra la sala d’attesa e i binari è stato mantenuto e messo sotto vetro. Una proposta di erigere un monumento alle vittime in cima a una delle colline che dominano la città è stato rifiutato a favore di questo “insieme commemorativo” (Tota 2002: 290) nella sala d’attesa. La collocazione nella sala garantisce autorevolezza e richiesta di verità. È una ferita elaborata e preservata sul luogo dell’atrocità, in modo tale che indipendentemente dalle lungaggini della giustizia, o dalle false piste seminate per distogliere dalla verità, il sito stesso rimanga come prova dell’evento che così non verrà negato né dissimulato. Ma tale insieme, nella sua fissità, non potrà mai bastare; anche supponendo che il luogo resti sempre in uso, un memoriale è sempre soggetto al disprezzo dell’abitudine e all’invisibilità dell’indifferenza. Di conseguenza, l’ente commemorativo, e chi solidarizza con esso, ha dovuto adottare un gran numero di altre misure per perpetuare la memoria del massacro e per generare supporto alla propria ricerca di verità. Inevitabilmente, uno di questi mezzi doveva essere l’immagine animata. Più avanti analizzeremo il tentativo paradossale di commemorare e di condannare lo spettacolo terroristico con un mezzo che è spettacolare di per sé, tramite un paragone tra i due film Per non dimenticare (Massimo Martelli, 1992) e Le mani forti (Franco Bernini, 1997). Il primo è un breve film di fiction in co-produzione con RAI3 che tenta di onorare le vittime della strage di Bologna; il secondo è una presentazione commerciale che utilizza alcuni elementi del conspiracy film e del thriller per chiedere giustizia per le vittime della strage di Brescia.

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Il popolo Nel libro Mezzi senza fine, Agamben (1996: 30-4) dedica un capitolo al duplice significato di “popolo”, parola che può denotare l’insieme dei cittadini come corpo politico unitario (Popolo), ma anche, viceversa, una parte ai margini della popolazione, coloro che appartengono alle classi inferiori, o che comunque sono esclusi dal corpo della nazione (popolo). Se il “Popolo” costituisce l’elettorato da cui presumibilmente il moderno stato democratico deriva la propria legittimità e per servire il quale esso esiste, il “popolo” è il raggruppamento su cui più probabilmente agirà quello stesso Stato – in quanto imbarazzante deviazione da eliminare, “migliorare” o punire, o persino in quanto portatore di messaggi indirizzati alla cittadinanza nel suo aspetto politico (Popolo). Le vittime degli attentati di Brescia e di Bologna, qualunque fossero la loro classe, o il loro status sociale, la loro età e la loro nazionalità, sono state in questo senso rese parte del “popolo”: gente comune che è diventata un ferito qualunque o un morto qualunque in eventi spettacolari orchestrati per far propendere per la dittatura un Popolo intimorito. In eventi come questi la gente comune viene fatta diventare il mezzo di trasmissione del messaggio. Tuttavia, la difficoltà stessa di attribuire la responsabilità di un attentato non rivendicato, e la difficoltà nel discernere le ragioni e i fini degli autori, portano alla perdita dell’identità delle vittime nell’indagine interpretativa del significato dell’evento. La Tota (2003: 60) scrive che: una strage che ha luogo in una stazione colpisce l’immaginario collettivo anche per il carattere di spersonalizzazione delle vittime che mette in gioco: è proprio il “chiunque avrebbe potuto essere lì” ciò che più la rende efferata agli occhi dei cittadini.

La spersonalizzazione è parte essenziale dello spettacolo – e lascia i sopravvissuti e i familiari delle vittime chiusi in una specie di gabbia: la ricerca della verità del massacro significa potenzialmente la reiterazione della spersonalizzazione delle vittime compiuta dagli attentatori. Come abbiamo visto, Tota (2003: 156-7) descrive l’associazione delle vittime di Bologna come “imprenditori morali” con l’impegno di mercificare la memoria della strage nell’ambiente competitivo della società dello spettacolo. Ricordarci lo spettacolo dell’attentato, ad esempio per mezzo di immagini di repertorio che mostrano i momenti immediatamente successivi, significa forse trasformare nuovamente le vittime nei latori anonimi del brutale messaggio degli attentatori. Questa è 129

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ovviamente una delle ragioni per cui i nomi e le età dei caduti occupano la maggior parte della lapide nella sala d’attesa ricostruita alla stazione di Bologna: la targa insiste sulle singole identità. Ma rimane sempre il pericolo di continuare inconsapevolmente il progetto degli assassini, che si imprime nel dovere di insistere sulla memoria del massacro, compito da portare avanti attraverso vari mezzi per poter avere qualche possibilità di successo. I doveri e le modalità della memoria Il film Per non dimenticare è parte dello sforzo della memoria e della commemorazione incominciato subito dopo la strage di Bologna. La Tota (2002: 297) descrive questo sforzo come composto da due fasi: la prima, un’espressione collettiva del lutto che durò dal giorno dell’attentato fino al 1994; la seconda, dal 1995, una fase di testimonianza morale e civica, e la reinvenzione del memoriale come un “monumento vivente” nella sala d’attesa della stazione – una sede per eventi culturali di vario genere. Un film di fiction della durata di quarantacinque minuti, Per non dimenticare, si colloca a metà tra queste due fasi: è un atto di lutto che anticipa il periodo di testimonianza civica. In Per non dimenticare, un immaginario sopravvissuto alla strage compie il suo pellegrinaggio annuale a Bologna per l’anniversario del massacro. Mentre è in viaggio (sempre voltato indietro nel vagone del treno, proprio come è rivolto indietro verso il passato) la pellicola mostra come in un flashback i suoi ricordi di vari personaggi alla stazione, la gente comune che non è sopravvissuta, mentre vive gli ultimi attimi della propria esistenza. Filtrato attraverso la coscienza del narratore, il film diventa una sorta di mediazione tra la soggettività e la storia sul tipo di quella descritta da Thomas Elsaesser (2001: 197): I film – alcuni destinati alla distribuzione nei cinema, altri prodotti con e per la televisione – si sono rivelati uno strumento quanto mai straordinario per dare forma, consistenza e voce alla “storia dal basso” o “storia di tutti i giorni”, autenticando “l’esperienza vissuta” attraverso il potere dell’immediatezza che è insito nell’immagine, e dimostrando allo stesso tempo la capacità del cinema di “simulare” tale autenticità attraverso le tecniche stilistico-narrative della manipolazione dei suoni e delle immagini.

Si potrebbe dire che la “simulazione”, ossia l’effetto fittizio di questi film, e di Per non dimenticare, sia paradossalmente ciò che li pone in vantaggio rispetto alle immagini di repertorio e alle sequenze prive di elaborazione. Può essere utile confrontare Per non dimenticare con le immagini della strage di 130

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Bologna trasmesse come parte della serie La notte della repubblica, una storia del terrorismo in Italia in 18 puntate mandata in onda da RAI2 alla fine degli anni ’80. Le sequenze mostrate furono riprese da due giornalisti locali immediatamente dopo l’esplosione e in La notte della repubblica sono mostrate senza commento per ben dodici minuti.18 Le immagini fanno vedere i volontari e le squadre di soccorso che cercano e scavano tra le macerie, e i corpi ritrovati e rimossi dalla scena. Le sequenze tremolanti sono state riprese da una telecamera mobile, e sono caratterizzate da una cinepresa tremante tenuta in mano, dai rumori indistinti e dall’uso funzionale dello zoom per mettere a fuoco un dettaglio particolare o per inquadrare un’attività. Il filmato viene fatto scorrere al rallentatore alla fine dell’estratto per soffermarsi sul viso di un uomo che piange e per guidare una corretta reazione di chi guarda. Le ultime immagini vengono fatte scorrere senza pause (in un punto il cameraman segue un uomo che gesticola tra due automobili, e la cinepresa viene indirizzata dove indicato da lui: verso un cadavere che giace a terra non ancora toccato), ma si inserisce un intervento significativo quando qualcuno che non si vede obietta sulla presenza della macchina da presa: “Via! Via con quella televisione!”19 Ciò che viene introdotto dall’obiezione del soccorritore, e dalla conseguente interruzione, è la questione etica di cosa sia opportuno rappresentare. Possiamo intuire che nell’obiezione dell’uomo ci fosse la consapevolezza che certe cose non dovrebbero essere mostrate. Ma la convinzione che certe scene non dovrebbero apparire deve essere accompagnata, e messa in discussione, dall’interrogativo su come assicurarsi la trasmissione e anche la ricezione della memoria degli eventi. In altre parole, la duplice problematica che ogni tentativo di commemorare un massacro deve affrontare riguarda il rispetto nei confronti della vittima, ma anche l’efficacia, che è legata alla necessità di comunicazione effettiva della memoria a un pubblico. Gli autori di Per non dimenticare e quelli di Le mani forti affrontano il problema della ricezione attraverso un uso consapevole dei generi. Il film sulla strage di Bologna coinvolge lo spettatore offrendogli un insieme familiare di tropoi tipici di certi generi – una storia di adulterio, tre amici che partono per una vacanza al mare, etc. – cui viene data la forma di piccole scene nella memoria del narratore. Le mani forti, invece, è strutturato come un film d’impegno secondo le modalità del conspiracy thriller. Claudia, una psichiatra all’inizio della sua carriera, arriva a sospettare che un suo paziente, Tancredi, abbia assistito alla morte di sua sorella nella strage di Brescia (anche se Brescia non viene mai nominata se non nei titoli di coda), e che possa addirittura aver partecipato all’attentato. Appare chiaro che l’uomo era, e forse è ancora, un agen131

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te segreto. Claudia consegna una relazione sulle sedute col paziente a suo marito (la determinazione di lei ad andare in fondo alla faccenda distruggerà il loro rapporto), al suo professore dell’università (il quale, si viene a sapere, ha egli stesso dei legami con i servizi segreti) e poi a un magistrato che si è occupato di indagini sulle stragi. Il resto del film racconta del tentativo di portare in tribunale la testimonianza di Claudia e di persuadere Tancredi a testimoniare contro lo Stato che lo aveva impiegato. Claudia, anche se vive nascosta, rimane ferita in un tentato omicidio, e subisce l’umiliazione degli avvocati della difesa che cercano di screditare la sua testimonianza. Il film si chiude in modo inconcludente con Tancredi che si presenta nel processo per rendere la propria testimonianza a sostegno dell’accusa. Le mani forti inserisce in una forma fittizia l’insistente ricerca di giustizia da parte delle associazioni dei parenti delle vittime di stragi, e costituisce un veicolo di commemorazione per i morti e i feriti dell’attentato di Brescia. L’aspetto meno convincente del film, anche se è stato probabilmente scelto per raggiungere un pubblico più esteso, sta proprio nell’utilizzo della formula del conspiracy thriller. Ho già affermato che lo stragismo presenta per gli autori dei film un problema formale. Il tentativo di trovare una cifra esteticamente adeguata alla rappresentazione della natura oscura e spettacolare dello stragismo sembra portare alla scelta del conspiracy. Un possibile problema di questo genere è che la riuscita della trama ordita dai cospiratori possa apparire irresistibile, e che i cospiratori stessi possano apparire come invisibili e invincibili al tempo stesso. Vale la pena riflettere, in questo contesto, su ciò che l’americana Judith Butler ha scritto a proposito delle teorie “paranoidi”, cioè di cospirazione, sugli attentati dell’11 settembre: Vi sono senza dubbio alcune forme di analisi di sinistra le quali si limitano a dire che gli Stati Uniti hanno raccolto ciò che hanno seminato. Oppure che gli Stati Uniti hanno causato essi stessi questi eventi che sono loro ricaduti addosso. Questi, come spiegazioni chiuse in se stesse, sono semplicemente altri modi di affermare l’egemonia degli U.S.A. e codificarne l’onnipotenza. Tali spiegazioni che partono dal presupposto che quelle azioni siano state originate da un unico soggetto, e che quel soggetto non sia ciò che sembra essere, cioè che sono gli Stati Uniti ad aver occupato il posto di un altro soggetto, e che non esiste nessun altro soggetto o, se ne esistono, il loro campo di azione è subordinato al nostro. In altre parole, una paranoia politica di questo genere non è che un’altra espressione della supremazia degli U.S.A. La paranoia si nutre delle fantasie di onnipotenza, e ne vediamo la prova in alcune delle spiegazioni più estreme di questo genere, cioè quelle secondo cui gli attentati dell’11 settembre furono architettati dalla CIA o dal Mossad, i servizi segreti israeliani. (Butler 2004: 9-10)

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Basandoci sull’affermazione della Butler, possiamo dire che il pericolo dell’interpretazione “paranoide”, ossia della modalità conspiracy, è quello di togliere il potere di azione non solo alle vittime della cospirazione, ma anche a coloro, implicitamente destinati al fallimento, che cercano giustizia e la dovuta commemorazione. Poiché catalizza una fantasia di onnipotenza, e attribuisce potere di azione soltanto ai cospiratori, la modalità conspiracy asserisce che gli autori della cospirazione siano onnipotenti e inafferrabili per le mani della giustizia (le mani forti del film di Bernini sono un riferimento al raggio di azione dei cospiratori, non dei giudici). Conseguenza di ciò è che la modalità del conspiracy conferma un fondamento chiave dell’ideologia che sta dietro alla strategia della tensione e allo stragismo, secondo cui la società è in ultima analisi regolata solo dalla violenza. Il successo irresistibile della trama cospirativa “dimostra” che l’effettivo esercizio dell’autorità tramite la violenza è l’unica cosa che conta, rendendo così irrilevante qualunque questione etica e il rispetto per l’integrità dell’individuo che l’autore di un film vorrà presumibilmente presentare. C’è qualcosa di simile a questa sensazione alla base di quelle critiche a Le mani forti che vedono l’energia etica contenuta nel film e lo sforzo di commemorazione dispersi dall’uso della formula thriller. Malanga (1997: 79) suggerisce che il film sia “un po’ troppo tendente al mystery”: “Le mani forti sembra un giallo psicologico suo malgrado […] si perde di vista il contesto generale e si concentra l’attenzione sulla vittima in pericolo di vita come appunto in un thriller qualsiasi”. Analogamente, Cammarano (1997: 15) afferma che l’ambientazione storica della strage di Brescia serve semplicemente come funzione narrativa, come motore per la trama: “Qualunque spettatore con un minimo di conoscenza dell’argomento sicuramente troverà insufficiente l’approccio del film a esso, e i giovani che poco ne sanno potranno saperne di più da qualsiasi manuale di storia del liceo”. Più avanti ci soffermeremo a valutare fino a che punto queste critiche al film siano meritate. Per il momento è sufficiente segnalare i problemi, sia estetici che etici, riguardo alla ricevibilità, e sottolineare le trappole insite nel tentativo di raggiungere un pubblico più ampio attraverso la scelta delle modalità tipiche di un genere. Storie interrotte Per non dimenticare incomincia ad affrontare il tema della ricevibilità attraverso i volti degli attori: fu realizzato con la partecipazione volontaria di attori (Giuseppe Cederna, Mariella Valentini e molti altri), i cui visi, se non i loro no133

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mi, sarebbero dovuti essere familiari allo spettatore italiano. La maggior parte di loro interpreta i ruoli delle vittime dell’esplosione rappresentate nelle piccole scene dei ricordi del narratore, ognuno con la propria storia dolce-amara di amori, di amicizie goliardiche o di incontri casuali. Le immagini del narratore assorto nel presente diegetico, e dei suoi flashback sulle persone (dai volti familiari) alla stazione in quella fatidica mattina, sono scandite in modo violento dalle immagini del paesaggio che scorre fuori davanti al treno. L’impressione creata è quella del correre inesorabile del tempo verso il momento dell’esplosione, cosa che è anche suggerita dalle immagini del quadrante dell’orologio sul binario della stazione – un espediente forse un po’ trito, ma anche un’allusione a un indice della bomba: l’orologio della stazione notoriamente rimasto fermo all’istante dell’esplosione. Ciò che non troviamo nel film è la benché minima considerazione sui motivi della strage, né sull’identità degli attentatori. Gli autori del film resistono alla speculazione e all’interpretazione, e l’evento viene lasciato intatto come inesplicabile. Questo fatto distingue il film da La notte della repubblica e da altre storie sugli anni di piombo. In questi testi, l’atrocità di Bologna è tipicamente inclusa come parte della narrazione degli anni dalla fine dei ’60 agli inizi degli ’80; ne risulta che l’esplosione è presentata come eccezionale nella sua portata piuttosto che nella qualità. Per non dimenticare è diverso: rifiutando di contestualizzare l’attentato, non chiedendosi perché è accaduto né chi fosse responsabile, il film insiste sulla singolarità dell’evento, sulla sua unicità come abominio. Se questa dislocazione dal contesto rischia di proiettare l’evento nel regno dello “spettacolo”, è altrettanto significativo il fatto che l’esplosione stessa non sia mostrata, né lo è il momento successivo. Come ha scritto Lombardi (2001: 300): “assistere al disfacimento dei corpi scossi e oltraggiati dall’esplosione sarebbe [...] inopportuno e, in un certo senso, osceno”. Il film si preoccupa di evitare proprio questo “disfacimento” dei corpi delle vittime per insistere invece sulla loro “integrità”: cioè sull’importanza delle loro vite, anche se quelle vite potrebbero sembrare assurde, come quella della donna malata di mente che è mostrata in uno dei racconti, o sprecate, come quella della tossicodipendente che si sarebbe prostituita che è raccontata in un altro. Il film tenta di far rivivere quello a cui i notiziari dell’epoca e le immagini di repertorio non hanno accesso: le storie quotidiane che non fanno notizia, ironicamente piene di piccoli drammi che si svolgono prima di quell’evento di primo piano sui telegiornali che fu l’esplosione. In contrasto con l’austera pragmaticità delle tecniche di ripresa e di montaggio delle sequenze che appaiono in La notte della repubblica, Per non di134

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menticare è un mix di strategie di montaggio moderniste – montaggio disgiunto, cronologia non-sequenziale, figure simboliche – e storie che potrebbero essere marcatamente banali se non fosse che lo spettatore sa che stanno per essere brutalmente interrotte. Ciascuna delle piccole scene rappresenta un esempio di un genere particolare: la commedia, il melodramma o il realismo sociale; la lunga sequenza dedicata a una coppia adultera di mezza età è pura soap opera, ambientata però nei veri dintorni della stazione di Bologna anziché negli scadenti interni che si vedono comunemente in TV durante il giorno. Riadattando le parole di Elsaesser: Per non dimenticare dà forma e voce a varie “storie di tutti i giorni”, autenticando così l’ “esperienza vissuta” attraverso la capacità del film di “simulare” l’esperienza reale con l’impiego di mezzi narrativi, tecnici e di genere. Come potrebbe suggerire questa commistione sofisticata di modi e di tecniche, Per non dimenticare costituisce una risposta complessa a un episodio traumatico. L’idea di trauma qui è citata a ragion veduta: è bene ricordare che l’uso del termine con riferimento a ferite della psiche, e ancora di più con riferimento a esperienze di shock e lutti intersoggettivi piuttosto che individuali, è un uso metaforico che deriva dalla descrizione di ferite fisiche visibili. Ma è un tropos che ha acquisito un potere particolare riguardo alla strage di Bologna: lo squarcio verticale aperto dalla bomba nella parete della sala d’attesa e lì conservato come parte del memoriale è una figura del trauma fisico causato all’edificio della stazione (e per estensione alla stessa città di Bologna) e ai corpi delle vittime. In Per non dimenticare la figura è fatta rivivere nel ritorno compulsivo all’evento traumatico caratteristico del nevrotico, che viene reso letterale nel ritorno annuale del narratore sulla scena originale dell’esplosione. Le intenzioni politiche che accompagnano il tentativo di una commemorazione etica in Per non dimenticare possono essere ravvisate nella modalità in cui nel film si comunica il trauma dell’esplosione. E. Ann Kaplan (2001: 204) ha individuato quattro modalità di comunicazione del trauma nei film, due delle quali risultano rilevanti nell’analisi di Per non dimenticare. La prima si presenta quando lo spettatore è posizionato come un voyeur di fronte allo spettacolo. Questo può succedere con il servizio giornalistico di routine di un disastro nel telegiornale o, suggerisce la Kaplan, in una serie televisiva come Olocausto; presumibilmente, nonostante le migliori intenzioni degli autori, potrebbe essere anche il caso di certe parti di La notte della repubblica. La seconda modalità si ha quando ci si rivolge allo spettatore come “testimone” del trauma stesso – per la Kaplan, questa è tra le quattro modalità la più utile da un punto di vista politico. Questa modalità è utilizzata in Per non dimenticare 135

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e, in certa misura, anche in Le mani forti. Lombardi (2001: 286) ha scritto di come entrambi i film chiedono allo spettatore di “farsi testimoni”. Nel caso di Per non dimenticare, il film pone lo spettatore, attraverso l’identificazione con il narratore, come osservatore/sopravvissuto, ma risparmia allo spettatore/testimone la scena dei cadaveri e dei corpi mutilati, negando l’allentamento della tensione che seguirebbe alla rappresentazione dell’esplosione stessa. In questo modo siamo resi consapevoli del trauma ma non lo subiamo; né ci è consentito di “goderne”: non c’è alcuna scivolata o caduta nella spettacolarità. Siamo chiamati a rendere testimonianza per conto di quegli individui devastati che non potranno più parlare, e a garantire il valore di queste vite così brutalmente stroncate. Per non dimenticare non è un documentario, e il testimone intradiegetico, che rappresenta noi, è un attore la cui condizione di vittima è un’invenzione. La sua testimonianza è perciò altrettanto fittizia; nei termini posti da Thomas Elsaesser, essa è “simulata”. Paradossalmente, una contraffazione così franca aiuta e non ostacola il progetto politico del film. L’autenticità della testimonianza è affidata alla nostra consapevolezza che una vittima costituisce un collegamento chiave privilegiato con la verità dell’evento stesso; quel collegamento è ciò che un testimone è chiamato a conseguire. Come fa notare Robert Gordon (2001b: 4), il termine “testimonianza” – nel senso di dichiarazione resa da chi ha assistito a un evento – è una metafora desunta dall’ambito giuridico e da quello teologico: La teologia della testimonianza costruisce la relazione fondante per il funzionamento della testimonianza stessa, quella tra il testimoniare e la verità, e pone anche un corollario che non è assolutamente ovvio ma che assume una risonanza rilevante nell’uso moderno, la relazione (redentrice) tra la sofferenza e la verità […] [Il testimone in un processo] produce la verità, giura proprio questo, e offre un racconto di un fatto o di un evento che ha visto e che è allo stesso tempo oggettivo – in quanto proviene da questa persona che ha osservato o assistito o partecipato, e che non è implicata ma è stata presente e ha visto – e soggettivo – in quanto proviene da una sola persona, e assume il valore di testimonianza grazie alla sua presenza individuale. (Gordon 2001b: 4)

Queste condizioni sono evidenziate anche dal narratore di Per non dimenticare, nonostante si tratti di un personaggio fittizio. Il narratore ha subito un trauma personale, e compie il suo ritorno traumatico alla stazione. Ma allo stesso tempo, nella costruzione (o simulazione) dei suoi ricordi, egli parla per quei morti che non possono più parlare per se stessi. Il pericolo è che possa 136

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sembrare che le vittime siano morte per lui. Come afferma Gordon (2001b: 6), “è il residuo redentivo che urta qui, la possibilità che il sopravvivere di pochi e la morte di molti si possano essere verificate con uno scopo, forse persino per la salvezza”. La testimonianza, dunque, deve destreggiarsi tra la memoria, la giustizia e il pericolo di fornire una “falsa catarsi” secondo l’espressione di Judith Woolf (Gordon 2001b: 7n). Se la “falsa catarsi” è evitata in Per non dimenticare è perché il film sottintende che sarebbe potuto esserci chiunque di noi alla stazione quando esplose la bomba. Le immagini del finale mostrano gente comune che guarda in silenzio dentro l’obiettivo – presumibilmente dei passanti nel momento in cui veniva girato il film. Queste immagini sono dei sostitutivi per noi, gli spettatori, che siamo contemporaneamente vittime potenziali e chiamati a partecipare in qualità di testimoni del massacro. Il film è un atto di lutto che si inventa le vittime individuali da compiangere così come il testimone sopravvissuto. Ma è comunque un atto di lutto indirizzato allo spettatore, che viene anch’egli trasformato in un testimone, cioè in un legame chiave privilegiato con la verità dell’evento stesso. La giustizia rinviata La giustizia, la testimonianza e il trauma sono temi palesemente evocati anche in Le mani forti. La giustizia è lo scopo narrativo ed etico della fabula. Uscito nel 1997, il film si conclude in un futuro diegetico, e le scene finali nell’aula di tribunale si svolgono nel “1998”. Si tratta di una giustizia sospesa ma ancora possibile, in quanto il verdetto della corte alla fine del film perlomeno non è negativo. Lo spettatore è un altro testimone in questo processo: ha osservato gli eventi del film e non ha alcuna ragione per dubitare della loro veridicità. E non ha alcuna ragione, una volta che il film ha dimostrato la credibilità di Tancredi (che all’inizio viene bollato come mitomane in modo che tale accusa possa poi essere ritirata), per dubitare del contenuto della testimonianza che sappiamo renderà mentre scorrono i titoli di coda, testimonianza in cui maledirà lo Stato e ne svelerà l’impiego dei criminali di destra. In questo senso, la rivelazione finale della “verità” del complotto, una svolta che in genere viene data come punto culminante del conspiracy thriller (come nel momento in Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli, 2003, in cui il giudice scopre che la sua fidata guardia del corpo è in collusione con i suoi nemici), è differita e allo stesso tempo già nota. Come afferma la Malanga (1997: 79), in Le mani forti il “complotto” non ha importanza: era da tempo diventato fatto notorio. 137

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La debolezza dell’elemento cospirativo, perciò, non è tanto una fonte di thrills (emozioni), quanto uno strumento della memoria: [Il film] si sforza con un certo successo di trovare delle soluzioni narrative nuove per raccontare cose in fondo note (non è una novità che i servizi segreti fossero deviati, implicati nelle stragi e coperti politicamente), ma mai abbastanza, e che comunque è meglio ricordare anche sul grande schermo.

La Malanga (1997: 79) aggiunge che nel ventesimo secolo lo psicanalista è la figura della memoria per eccellenza. Come psicologa, Claudia, che ha perso una sorella a causa del terrorismo, è perciò un emblema della memoria. Il fatto, comunque, che sia un’analista, e non un prete o un magistrato, ha un effetto affascinante e paradossale. Esso fa dell’autore – il “colpevole” la cui identificazione potrebbe essere più comunemente la finalità del racconto – un paziente piuttosto che un pentito, e un’altra vittima piuttosto che un semplice assassino. Sono il suo trauma e la sua testimonianza, la sofferenza e la prova attendibile da parte dello stesso autore, a costituire la vera essenza del film: la testimonianza di Claudia si riduce alla relazione di ciò che Tancredi le ha rivelato durante le sue sedute. In un certo senso, dunque, Le mani forti conferma la tesi di Mary Wood secondo cui i film recenti sulle circostanze degli anni di piombo spesso non sono centrati tanto sugli eventi espliciti che ritraggono quanto sulla mutata percezione della mascolinità nella società italiana: Il fiume di film che rielaborano quel periodo storico non si preoccupa tanto di promuovere una versione degli eventi che sia di sinistra, anche se in genere lo fa, quanto di indicare che il problema (la corruzione o la criminalità) su cui si indaga sia attribuito a forme tradizionali di mascolinità che sono in disaccordo con quelle necessarie per il successo nel mondo del nuovo millennio. (Wood 2005: 192)20

Tuttavia, su un altro livello, Le mani forti è la storia di una donna che decide di entrare nell’ambito pubblico. I due periodi di tempo che nel film si intrecciano in modo sconcertante stanno a indicare i due poli del domestico/privato e del politico/pubblico. Nel primo periodo, Claudia vive con il suo compagno, intrattiene relazioni sociali di amicizia e concepisce un figlio; nel secondo, come conseguenza della sua scelta di testimoniare contro lo Stato, ha rotto con il suo compagno, è costretta a rinunciare al proprio figlio, e vive nascosta, isolata dalla società comune; il suo stato di clandestinità e di maternità frustrata ricorda quello delle terroriste nei film. A un certo livello, il destino doloroso di Claudia è un elemento della critica contenuta nel film: è 138

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questo il prezzo inaccettabile da pagare per essere un buon cittadino, sembra dire il film, essere perseguitata dallo stesso Stato che ti dovrebbe proteggere. Ma c’è anche una sensazione che quel destino sia la conseguenza inevitabile per una donna per l’essere uscita fuori dall’ambito che le è “proprio”, che è la casa, il privato, forse un ruolo dietro le quinte, ma di certo non la politica. Come conseguenza Claudia subirà persino una defemminizzazione simbolica: nell’ultimo periodo ha i capelli tagliati corti e incomincia a fumare, proprio come succede al personaggio di Giulia in La meglio gioventù. L’inevitabilità della punizione per la donna che oltrepassa i limiti del suo regno naturale per entrare nella sfera pubblica è un aspetto dell’inesorabilità dei cospiratori di cui si è già parlato. In altre parole, possiamo dire che il film rappresenti la disperazione della resistenza e l’inutilità della ricerca di giustizia nella caduta ineluttabile verso l’isolamento dell’eroina colpevole di hybris. Presumibilmente, i mezzi impiegati dal film comportano una confusione etica e tematica. Le mani forti si serve del suo contenuto e del dialogo esplicito per denunciare i crimini dello Stato e per offrire sostegno al bisogno di giustizia delle vittime della strage di Brescia e dei loro familiari. I mezzi narrativi del film, però (quelli del conspiracy thriller), rischiano invece di sostenere l’onnipotenza dei poteri occulti dello Stato e persino la loro giustezza, in quanto la sfida a quei poteri è rappresentata secondo configurazioni contrarie agli archetipi legati ai ruoli di sesso Lo strumento del genere Le mani forti contiene un uso del genere meno riuscito rispetto a quanto si è detto a proposito di Per non dimenticare. Quest’ultimo film attiva nello spettatore una consapevolezza complessa dei tropoi che caratterizzano i vari generi, in cui le convenzioni, ad esempio, della soap opera, divengono un correlativo di esperienze ordinarie sottoposte a una straordinaria brutalità. Così, l’interruzione della vita rappresentata dall’esplosione di Bologna è tradotta in un’interruzione delle “trasmissioni programmate”, dato che alle tante ministorie è negato un seguito. Le mani forti trasgredisce anch’esso ai limiti di un genere, in questo caso per insistere sul lavoro etico di denuncia contro i piaceri seducenti del thriller. Questo succede soprattutto in una sequenza verso la fine in cui la cinepresa riprende una serie di panoramiche lente e interrotte su una deserta Piazza della Loggia mentre nello sfondo si sente un audio di repertorio con la registrazione della strage (l’esplosione, le urla, l’invito a mantenere la calma, l’arrivo delle ambulanze). L’eruzione del documentario nel thriller è un’aggiunta supplementare che attesta una carenza nel resto del film. 139

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Come Le mani forti, e nonostante il suo tono dimesso e un sentimentalismo che è presente soprattutto nelle musiche, Per non dimenticare aspira a essere un documento politico, una denuncia. Il programma che esso sostiene è lo stesso espresso da Paolo Bolognesi nella citazione riportata prima, e tenta, come sostiene Bolognesi, di adempiere al dovere della memoria e di insistere sulla ricerca della giustizia. Si tratta di un compito di testimonianza che il film chiede anche allo spettatore di assolvere, ed è reso possibile dall’identificazione con un narratore e con delle vittime che sono altrettanto fittizi quanto i testimoni virtuali che ci si chiede di diventare. In ultima analisi, Per non dimenticare tenta di servirsi dei mezzi della spettacolarità per condannare lo stesso spettacolo del terrorismo. Debord (1995: 12) scrive: “Lo spettacolo non è una raccolta di immagini; è piuttosto una relazione sociale tra persone mediata da immagini”. Per non dimenticare è costretto a usare questa mediazione, per costruire dei ruoli e delle relazioni virtuali per mezzo dell’immagine cinematografica, allo scopo di rifiutare lo spettacolo delle rovine della stazione e dei corpi delle vittime, e di frustrare ogni “bella” replica dello spettacolo del terrore.

Il sesso del terrore Filoni chiave L’argomento che pongo al centro di questa parte è il sesso del terrorismo secondo due diversi significati: il primo si riferisce al suo inserimento in un filone di film erotici che rifrange l’esperienza del terrorismo attraverso il motif dell’amour fou, e il secondo indica la rappresentazione del terrorismo in un filone sovrapposto che associa il fenomeno alla donna. Il primo di questi due filoni potrebbe non aver preso la forma che ha preso se non ci fosse stato Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972), un film che fornisce i termini eroticopolitici impiegati in altri successivi. Ultimo tango a Parigi non è un film sul terrorismo, ma senza di esso non esisterebbero, nella forma in cui sono stati realizzati, i seguenti film: Kleinhoff Hotel (Carlo Lizzani, 1977), Desideria: la vita interiore (Gianni Barcolloni, 1980), La caduta degli angeli ribelli (Marco Tullio Giordana, 1981), Diavolo in corpo (Marco Bellocchio, 1986). Il terrorismo può essere introdotto attraverso una donna come protagonista (la donna violenta) o come vittima. La figura della donna violenta emerge in Segreti segreti (Giuseppe Bertolucci, 1984) come sintomo della continuazione del trauma nazionale del 140

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terrorismo, e di un iperinvestimento nella panacea del pentitismo. La figlia di un colonnello dei carabinieri ucciso in Diavolo in corpo è un altro sintomo della questione in sospeso degli anni di piombo: la sua condizione appena abbozzata, ma fortemente eroicizzata, di vittima suggerisce quanto fosse prematura qualunque supposizione di porre una “fine” agli anni di piombo. La sua storia appassionata con un giovane studente (l’amour fou del film) dipende dalla continuità della “guerra al terrore” intrapresa dallo Stato. “Una relazione centralmente sintomatica dei nostri tempi” Ambientato in pochi giorni in una Parigi ancora fresca dei ricordi del ’68, Ultimo tango a Parigi mostra un americano, Paul (Marlon Brando), il quale, in lutto per la morte di sua moglie, che si è suicidata prima dell’inizio del film, intraprende una breve storia con una donna molto più giovane, Jeanne (Maria Schneider), in un appartamento vuoto. Quando Jeanne cerca di porre fine alla storia, Paul la segue fino alla casa dei genitori di lei, dove indossa il cappello militare appartenuto al padre, un colonnello francese rimasto ucciso nella guerra d’Algeria. Jeanne uccide Paul con la pistola del colonnello, e il film si conclude con lei che prova il racconto della versione dei fatti da rendere alla polizia. Bertolucci lo ha definito il più politico dei suoi film (Michalczyk 1986: 137); e forse lo spettatore di oggi non ha difficoltà ad accettare una simile affermazione, abituati come siamo ormai a pensare al politico nei termini del personale. Ma può essere utile cercare di ricostruire il contesto della sua affermazione, anche perché i termini del politico-come-erotico resi popolari dal film hanno avuto così tanta influenza sugli autori successivi. Yosefa Loshitzky (1995) sostiene in maniera convincente che Ultimo tango a Parigi dovrebbe essere letto nel contesto delle teorie della sessualità e della politica espresse in Eros e Civiltà di Herbert Marcuse (1963), che ebbe molta influenza nel fermento culturale degli anni ’60 nel mondo occidentale. Marcuse sosteneva che l’alienazione del lavoro sotto il capitalismo, sostenuta dalla struttura familiare borghese, reprime gli impulsi della libido, e proponeva come antidoto per questa repressione una prassi rivoluzionaria alla cui base c’era l’Eros. La Loshitzky (1995: 68) trova un’ “affinità ideativa” tra la rilettura di Marx operata da Marcuse e Freud come teorico utopico e “il tentativo di Bertolucci in Ultimo tango di analizzare il linguaggio della sessualità in termini rivoluzionari”. Per la Loshitzky, “Ultimo tango esplora gli estremi emozionali della storia d’amore solo per politicizzarla deviando l’attacco dall’ideologia borghese allo sfrutta141

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mento e alla distruzione dell’oggetto d’amore” (1995: 69). Questa sostituzione è particolarmente presente nella ben nota scena in cui Paul sodomizza Jeanne mentre la costringe a recitare una litania contro la famiglia borghese: Voglio farti un discorso sulla famiglia. Quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù. E adesso ripeti insieme a me. Ripeti, avanti… santa famiglia… avanti, ripeti… avanti… santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini. Ora ripeti…. dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia. La volontà è spezzata dalla repressione. La libertà è assassinata… la libertà è assassinata dall’egoismo. La famiglia… tu… tu… you… fucking … you fucking… Oh God, Jesus. [dialogo trascritto dal film]

Bertolucci parla del “modo di fare l’amore” di Paul come “pressoché didattico” (Gerard et al. 2000: 93). L’atto tabù del sesso anale è allo stesso tempo una dissacrazione dello scopo della “sacra famiglia” (poiché da esso non può derivare la riproduzione) e una rivelazione dei rapporti incestuosi di potere innati in quell’istituzione borghese.21 Paul è una sorta di padre che insegna a sua figlia un catechismo sadico. L’uccisione di Paul costituisce perciò una specie di parricidio necessario, un’uccisione simbolica del padre: Paul era diventato “la parodia demoniaca del padre oppressivo da lui stesso disprezzato […] Nonostante la sua retorica ribelle, [era diventato] il simbolo estremo dell’autorità fallica” (Loshitzky 1995: 76). Nei film successivi, l’autorità fallica è eliminata prima dell’inizio del film – l’uccisione dell’amante, ripetuta in molti di essi, assume perciò significati differenti. Un’altra differenza di Ultimo tango a Parigi rispetto a questi altri film è che in esso non vi è alcun riferimento (a parte la breve comparsa dei furgoni della polizia che richiamano indirettamente le recenti proteste per le strade e l’occupazione delle fabbriche) alle specifiche condizioni politiche e storiche. Kleinhoff Hotel, Diavolo in corpo e, in certa misura, La caduta degli angeli ribelli adottano i termini erotici di Ultimo tango, ma vi aggiungono la realtà del terrorismo; o meglio, inseriscono i termini erotici presi da Ultimo tango nelle circostanze storiche specifiche degli anni di piombo. Tali termini erotici comprendono i seguenti elementi. Ciascuno dei film presenta una relazione trasgressiva che costituisce una specie di vacanza della sessualità dai normali costumi sociali. In ognuno la donna è sposata o fidanzata, mentre l’uomo con cui intrattiene una relazione è romanticamente “libero”, anche se spesso limitato da altre circostanze. La relazione tra i due è spesso motivata dal dolore di uno dei due protagonisti: il lutto di Paul per la morte della moglie in Ultimo 142

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tango è riprodotto sul personaggio di Cecilia (in La caduta degli angeli ribelli) e quello di Giulia (in Diavolo in corpo), ognuna delle quali piange il proprio padre morto. Il “viaggio” erotico tende a culminare nella morte dell’uomo, qualche volta ucciso dalla protagonista femminile. Infine, ogni film contiene una o più scene di sesso rappresentato esplicitamente che è marchiato come “autentico” tramite l’uso di codici rappresentativi che non sono tipici del cinema convenzionale. Tale valorizzazione dell’ “autenticità” esprime, a un certo livello, quell’aspetto della narrativa che presenta l’esperienza della protagonista femminile come un viaggio di iniziazione e scoperta di sé attraverso il sesso – donde il modo “didattico” di fare l’amore di Paul, presumibilmente mirato a dare a Jeanne una lezione su se stessa. Notiamo che questa ricerca di autenticità è una messa in atto della politica sul corpo della donna: la donna è la tabula rasa su cui viene incisa la lezione (è questo il significato della giovinezza di Jeanne nell’economia simbolica di Ultimo tango). Ciò che è comune a tutti i film, e che costituisce l’aspetto chiave reso disponibile per gli altri dal film di Bertolucci, è l’idea dell’amour fou come sintomo che reca l’impronta delle circostanze storiche. In Ultimo tango, e nei successivi film dello stesso filone, la configurazione centrale della relazione sessuale illecita è il documento su cui vengono identificati e individuati gli effetti del terrorismo. L’approccio è quello descritto da Bertolucci: Quando si mostrano gli abissi, quando si annega, per così dire, in quel senso di solitudine e morte che accompagna una relazione nella nostra società occidentale borghese, e quando si incomincia a identificare le ragioni di questo senso di morte, si esprime inevitabilmente un’affermazione politica. […] Quando si descrive una relazione anelando all’autenticità, si scopre tutto ciò che la circonda, tutto ciò che ne ostacola l’espressione. […] Dal momento che ciò che esiste tra Marlon e Maria [sic] è una sorta di amour fou che si autodivora continuamente, avevo paura che sembrasse isolato. Invece è diventato una relazione centralmente sintomatica dei nostri tempi. (Gerard et al. 2000: 94)

Eros e Thanatos L’amour fou sintomatico individuato in Ultimo tango a Parigi è riprodotto in due film che formano una specie di coppia: Kleinhoff Hotel (Carlo Lizzani, 1977) e La caduta degli angeli ribelli (Marco Tullio Giordana, 1981). In Kleinhoff Hotel, una giovane donna sposata, Pascale, perde un aereo da Berlino e ritorna in un hotel in cui era stata una volta con un amante. Dopo aver spiato il terrorista che alloggia nella stanza accanto – apparentemente un membro del143

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la Rote Armee Fraktion senza più illusioni – incomincia una relazione breve ma appassionata, che termina con il suicidio di lui (vedi anche capitolo due).22 La storia illecita in La caduta degli angeli ribelli tra la moglie borghese, Cecilia, e il clandestino in fuga, Vittorio, si innesca nel momento in cui si incontrano e lei è sconvolta per la notizia dell’imminente morte di suo padre. Cecilia lascia suo marito e sua figlia a Milano per un viaggio sempre più carico di tensione con il terrorista (di cui non vengono mai chiariti né l’ideologia né il passato), e infine lo uccide in una squallida soffitta a Palermo. I due film hanno molti elementi in comune. Entrambi presentano la ricca moglie di un intellettuale (in Kleinhoff Hotel un architetto; in La caduta degli angeli ribelli un professore di filosofia); la razionalità rappresentata dal marito è in contrasto con la fisicità e con l’irrazionalità implicita dell’amante terrorista, il quale è corpo piuttosto che ideologia. Se l’amour fou è un segno della crisi di noia o di dolore della donna, è anche un segno della crescente disperazione del terrorista. La relazione offre al fuggitivo un’ultima opportunità (anche se sempre già destinata a un finale tragico) di scambiare la lotta con l’imperativo categorico tradizionale dell’unione eterosessuale. Il fatto che la donna non sia libera, comunque, e il topos, già noto dai film porno-soft, dell’autoindagine erotica intrapresa durante una “vacanza della sessualità” dalla vita di tutti i giorni, afferma fin dal principio che l’ordine (coniugale) verrà ristabilito. Allo stesso tempo, la raffigurazione del desiderio nella rappresentazione esplicita del rapporto sessuale diventa un corrispettivo dell’irruzione del terrorismo nella vita pubblica. Nell’uso dei codici rappresentativi espliciti per mostrare il rapporto sessuale, tipicamente associati alla pornografia, questi film trasgrediscono a una serie di regole sociali della fruizione. Tale trasgressione è associata alla trasgressione alle regole sociali rappresentata dal terrorismo, e il terrorismo viene a essere esso stesso codificato come un crimine passionale: una stagione di desiderio folle e impossibile che non può che estinguersi. Questi due film uscirono con quattro anni di distanza, e sono separati dagli eventi chiave dell’assassinio di Aldo Moro e della strage di Bologna. La caratterizzazione del terrorista in La caduta degli angeli ribelli è sintomatica della data successiva di questo film rispetto all’altro: Vittorio non si distingue da un qualunque criminale in fuga, e il suo “gruppo” (noi vediamo solo un altro dei membri) potrebbe benissimo essere una banda di criminali qualsiasi. Kleinhoff Hotel, girato prima del caso Moro, offre un ritratto più attento della militanza, e ne prende sul serio le motivazioni ideologiche, anche se non le spiega. Quando Pascale incontra per caso un amico giornalista, gli chiede che cosa sa dei “movimenti clandestini”. Lui ammette la propria partecipazione alla de144

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monizzazione (“Li ho diffamati; li ho descritti come paranoici o come delinquenti comuni”), ma anche la sua ammirazione: Io li ho conosciuti tutti quanti. Lucidi e al tempo stesso visionari. Cresciuti e allevati dal grande benessere tedesco. No: avevano immaginazione ed erano una generazione geniale. Ma difficile da trattare e capire. E noi li abbiamo distrutti tutti o almeno quasi tutti.

Il giornalista prosegue elencando le tragiche fini di questi militanti: l’incarcerazione, l’isolamento e il suicidio, destino che toccherà anche all’amante di Pascale. Simpatizzi o no con le motivazioni che lo hanno spinto, Kleinhoff Hotel ritrae il terrorista come un figura isolata dalla società e persino dai suoi compagni, ritratto che si ripete in La caduta degli angeli ribelli. I due film possono essere messi in contrasto con quelli che collocano il terrorista come parte della famiglia in senso letterale e figurato, da Caro Michele (Mario Monicelli, 1976) fino a La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003). In Kleinhoff Hotel e La caduta degli angeli ribelli il terrorista non è un membro della famiglia, ma un fuorilegge dotato di fascino erotico: il suo carisma distruttivo è parte della caratterizzazione attribuita dal film al fascino della lotta armata in quanto tale. Poiché questi sono women’s films (in quanto pongono al centro la soggettività dell’eroina), tale fascino è codificato in maniera romantica e interpretato come una funzione del desiderio della donna. Sorge la tentazione di leggere l’amour fou nei due film come un simbolo anziché come un sintomo: il sex appeal del terrorista rappresenta il carisma mortale del terrorismo, e la seduzione della donna (che è fatta intendere come un soggetto fuori dalla politica) rappresenta il fascino del terrorismo per chi è politicamente ingenuo. A proposito della storia d’amore in La caduta degli angeli ribelli, Franchi (1981: 50) suggerisce che essa sia vissuta da Vittorio, “sottoproletario e meridionale, come ‘profanazione’ dell’aura borghese di Cecilia”, e da Cecilia “come degradazione della propria persona e, indirettamente, della propria classe”. L’idea della degradazione della classe borghese come motivazione dietro al terrorismo italiano si trova in Desideria: la vita interiore. Il film è degno di interesse principalmente come illustrazione dell’analisi delle origini del terrorismo italiano di Alberto Moravia, contenuta nei suoi articoli e nel romanzo La vita interiore (1978), da cui è tratto il film. Ambientati negli anni ’70, sia il film che il romanzo coprono il periodo dell’adolescenza romana di Desideria, una ragazza attraente che subisce le attenzioni sessuali della sua madre adottiva, Viola, una ricca vedova con un background americano. Desideria disprezza il 145

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suo ambiente borghese ed escogita un piano di “dissacrazione” rivoluzionaria, che prevede l’uccisione (mai messa in pratica) di Viola, con l’aiuto di Erostrato, l’amante mantenuto di lei. Erostrato ha dei legami con un gruppo rivoluzionario di Milano e fa in modo che uno dei leader, Quinto, venga a Roma per aiutarli nel sequestro e nell’assassinio di Viola. Desideria perde la propria verginità con Quinto che, scoprendo i legami di Erostrato con la polizia, gli spara uccidendolo. Quinto, a sua volta, muore colpito da Desideria, la cui ultima comparsa la mostra mentre lascia la scena degli omicidi insieme a Viola. La ragazza è presumibilmente pronta a diventare altrettanto soddisfatta nella sua condizione borghese quanto la sua madre adottiva, in accordo con la convinzione di Moravia secondo cui le proteste studentesche, e il terrorismo che in retrospettiva era fuso con esse, si sarebbero limitate all’intento di ottenere “una riforma del costume, e quel che è peggio, del costume borghese, cioè del costume di quella classe dalla quale provengono in gran parte gli studenti” (Moravia in Wood 1990: 94-5). Come potrebbe suggerire la trama (e come certamente indicano i nomi dei personaggi), non si tratta di una storia di eventi esemplari presentati come tipici degli anni di piombo; essa presenta invece un insieme di circostanze intese a significare l’analisi psicosessuale del terrorismo espressa da Moravia. Il film è costretto a tralasciare due aspetti del romanzo di Moravia che ne costituivano un carattere particolare: prima di tutto, la costruzione come dialogo tra il personaggio di Desideria e una persona relativa all’autore indicata come “io”; in secondo luogo, il rapporto tra Desideria e una voce interiore, indicata semplicemente come “la Voce”, una specie di superego che detta a Desideria le sue azioni sulla base del suo “piano di trasgressione e dissacrazione” (Moravia 1978: 93). Moravia ci dice che entrambi gli aspetti gli erano stati ispirati dalla lettura dell’interrogatorio di Giovanna d’Arco (Moravia e Elkann 1990: 266-7). La rappresentazione del piano rivoluzionario di Desideria come ispirazione divina secolarizzata (in quanto resa nell’idioma psicanalitico del superego interiore), che fa riferimento alla convinzione di Santa Giovanna di essere ispirata dal divino, è una versione metaforica dell’interpretazione di Moravia della lotta sociale e del terrorismo negli anni ’70 come aventi un carattere mistico piuttosto che politico: “Ci troviamo di fronte ad una visione del mondo di tipo genericamente religioso” (Moravia 1980: 196). Come scrive Sharon Wood: L’intenzione di sopprimere Viola assume la connotazione di un sacrificio umano rituale, mentre Desideria ha preservato la propria verginità come dono per il

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movimento rivoluzionario nella persona di Quinto: la sua verginità ha assunto lo status simbolico sia della ribellione che della purezza in mezzo alla corruzione e alla decadenza che la circondano e che cercherebbero di intrappolarla. La terminologia della trasgressione e della dissacrazione, carica di religiosità, raggiunge l’apoteosi in questo sacrificio umano rituale, e Quinto è per Desideria il suo “sposo”, suo marito nei termini del Cantico dei Cantici. (Wood 1990: 95)

I termini mistico-sessuali sono conservati nell’adattamento, così come il registro erotico che rese il libro ben noto al tempo della sua pubblicazione (fu messo per due volte sotto sequestro). Luca Gervasutti (1993: 69) considera questo registro erotico come una modalità epistemologica: “Il sesso come mezzo, la realtà come fine”; Gervasutti cita le parole di Moravia secondo cui dopo Freud abbiamo assistito alla “trasformazione del fatto sessuale in qualche cosa di scientificamente noto e di poeticamente valido e per questo insignificante dal punto di visto etico” (p. 69). Una simile affermazione si potrebbe fare a proposito dell’intero filone che utilizza la rappresentazione del sesso come mezzo di discussione della politica e/o del terrorismo, con Ultimo tango a Parigi come testo paradigmatico che sarebbe stato esso stesso influenzato da Moravia (Bertolucci aveva precedentemente tratto un film da Il conformista di Moravia). Dobbiamo essere scettici, però, circa l’affermazione dell’efficacia epistemologica del “sesso come mezzo” se si presuppone che quel mezzo sia in qualche modo neutro: la rappresentazione della sessualità non è un modo di percepire la realtà che non si lasci influenzare dai ruoli di genere. Nel romanzo di Moravia, Desideria narra la sua storia a, e per, un interlocutore maschile, “quell’ ‘io’ privilegiato che come entità scrivente garantisce l’autenticità del testo” (Wood 1990: 87). La struttura del romanzo come dialogo tra questo “io” e Desideria significa, secondo la Wood (pp. 87-8), che “il discorso di Desideria, che si suppone essere discorso diretto, è sempre e comunque quello dell’Altro”, e che “lei viene fuori come oggetto del desiderio non solo per gli altri personaggi del libro, ma per lo stesso narratore di primo grado”. Ho già accennato al tema degli atti sessuali definiti “didattici” compiuti dal protagonista maschile sul corpo della sua giovane amante in Ultimo tango a Parigi; in Desideria: la vita interiore, la traduzione inter-semiotica del testo di Moravia nelle convenzioni visuali del cinema narrativo significa che il corpo nudo della giovane attrice (Lara Wendell) che interpreta Desideria è più volte presentato per la sua to-be-looked-at-ness,23 secondo l’espressione di Laura Mulvey. Desideria è quindi diventata un oggetto di desiderio per il destinatario implicitamente maschile – un sostitutivo per l’interlocutore “io” che non poteva, presumibil147

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mente per ragioni tecniche, essere preso dal romanzo originario. L’esplorazione psicosessuale delle origini del terrorismo è quindi eseguita sul corpo della donna, e la costruzione testuale della soggettività femminile è messa a punto solo in relazione a un interlocutore maschio, o spettatore, per il quale quella soggettività è per definizione “Altro”.

Women’s films? Terrorismo quotidiano Guardala da vicino. Attraversa una strada cittadina, destreggiandosi con la valigetta e il sacchetto della spesa. Oppure scende lungo un sentiero, tenendo una cesta in equilibrio sulla testa. O si affretta a raggiungere la sua auto chiusa, spingendo un bambino. O arranca verso casa al ritorno dai campi, con il bambino sulla schiena. D’improvviso si sentono dei passi dietro di lei. Pesanti, rapidi. I passi di un uomo. Lei lo capisce immediatamente, così come capisce che non deve guardarsi intorno. Affretta il passo al ritmo del suo cuore che pulsa più forte. Ha paura. Potrebbe essere uno stupratore. Potrebbe essere un soldato, un molestatore, un rapinatore, un assassino. Potrebbe anche non essere niente di tutto questo. Potrebbe essere un uomo che ha fretta. Potrebbe essere semplicemente un uomo che cammina al suo passo abituale. Ma lei ne ha paura. Ne ha paura perché è un uomo. Ha dei motivi per avere paura […] sono i passi di un uomo quelli che teme. Questo momento lo condivide con ogni essere umano che sia femmina. (Morgan 1989: 23-4) [Il] cinema, nel suo schierarsi con le fantasie del voyeur, ha articolato storicamente le sue storie attraverso una mescolanza del suo asse centrale vedere/essere visti con l’opposizione maschio/femmina. […] Il semplice atto di dirigere una cinepresa verso una donna è diventato l’equivalente di un atto terroristico. (Doane 1988: 216)

Queste due citazioni mettono in discussione ciò che intendiamo per terrorismo. Robin Morgan afferma nella prima che l’esperienza dell’essere “terrorizzata” è qualcosa che è sperimentato nel corso della sua vita quotidiana dalla maggior parte delle donne, le quali subiscono ciò che potremmo chiamare un topos della vita reale: quello dell’uomo che perseguita o segue (o potrebbe seguire) una donna su un sentiero o una strada. È significativo che la Morgan incominci con l’espressione “guardala”: forse inconsapevolmente con questa espressione fa riferimento proprio alla to-be-looked-at-ness che Mary-Ann 148

I generi del Terrore

Doane, seguendo Laura Mulvey, identifica come luogo di rappresentazione tipico della donna nella nostra cultura, soggetta alla terroristica cinepresa così come al terrorismo quotidiano della minaccia dell’altro sesso. Il topos della donna perseguitata è un aspetto del cinema narrativo, e ci sono diversi film che ne fanno uso anche tra quelli che prendiamo in esame qui. Come motif, è emblematico della stessa narrazione filmica. Esso contiene, in miniatura, tutte le componenti necessarie del racconto: l’eroe e l’eroina (o l’eroe/ina e la canaglia); un oggetto misterioso, che può essere la donna stessa, la sua destinazione o il suo scopo; la suspense e l’azione del suo inseguimento; e una componente di solleticamento. In una scena di Colpire al cuore (Gianni Amelio, 1982), si vede il giovanissimo Emilio che osserva la donna (la compagna del terrorista morto) per la quale prova un interesse sessuale adolescenziale, e la segue fino a casa. C’è una scena simile in La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1996), un film sull’incontro casuale tra il sopravvissuto a un tentato omicidio terroristico e la donna che aveva cercato di ucciderlo. L’uomo vede la sua mancata assassina e trascorre un pomeriggio a seguirla fino al posto in cui abita – che si scopre essere il carcere da cui ha il permesso di allontanarsi ogni giorno. Sia Colpire al cuore che La seconda volta fanno un uso deliberato di una tipica modalità di rappresentazione della donna vista come misteriosa e oggetto di investigazione. Nelle sequenze descritte il ragazzo e l’uomo sono in certa misura dei molestatori; ed entrambe le donne sono enigmi femminili da indagare voyeuristicamente. In La seconda volta le attenzioni dell’uomo si rivelano proprio essere sadiche, in quanto si mette a inseguire quella che sarebbe dovuta essere la sua assassina in uno strano corteggiamento che suona troppo formale. Siamo incoraggiati ad aspettarci una punizione della donna nei termini di un incontro sessuale che potrebbe essere persino una specie di stupro. Se ci può essere piacere da parte di un supposto spettatore, si tratta di un piacere di tipo sadico, come afferma Laura Mulvey (1992: 29) nella constatazione della colpa della donna: Il piacere [per lo spettatore] sta nella constatazione della colpa […] nell’affermazione del controllo e nel sottomettere la persona colpevole tramite la punizione o il perdono. Questo lato sadico si adatta bene alla narrazione. Il sadismo richiede una storia, dipende dal far accadere qualcosa, dal forzare un cambiamento in un’altra persona, una lotta di volontà e di forza, vittoria/sconfitta, tutto in un tempo lineare.

Raramente si parla del saggio della Mulvey per quanto riguarda il suo contributo alla teoria femminista della narrazione, ma è questo che ha in mente 149

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Teresa de Lauretis (1984: 103) quando si riferisce così alle famose pagine di Laura Mulvey: L’affermazione [secondo cui il sadismo richiede una storia], con il suo suggerimento insidioso di reversibilità, è vagamente minaccioso. (Può una storia, o possono tutte le storie, essere richieste dal sadismo?) […] Dobbiamo dedurre che il sadismo sia l’agente causale, la struttura profonda, la forza generativa della narrativa? O che perlomeno sia concomitante con essa?

Basandosi sulla Mulvey, la de Lauretis sostiene che il sadismo rivolto contro la donna costituisce una componente essenziale della narrazione: non solo una questione di contenuto, ma qualcosa che è presente anche a un livello strutturale. Prendendo come paradigma l’incontro di Edipo con la Sfinge, la de Lauretis identifica una coppia di equivalenze simboliche: maschio (Edipo) = eroe in movimento, latore della trama; femmina (La Sfinge) = ostacolo fisso, latore dell’enigma. In un lungo saggio la studiosa descrive questa coppia di funzioni che si attua in una sconcertante varietà di testi (de Lauretis 1984: 10357). Ma cosa succede in un film come Segreti segreti, in cui, come dirò, la figura edipica è eliminata fin dalla prima scena, insieme al rappresentante simbolico della Legge, e in cui è invece la donna il motore della trama? Segreti segreti incomincia con un duplice omicidio a Venezia, quando la terrorista Laura spara a un magistrato e anche a un compagno, Pietro, che ha fatto andare all’aria l’assassinio e si è ferito. Segreti segreti resiste ai luoghi comuni in quanto la donna è qui inseguitrice anziché preda, autore anziché vittima. Il film si concentra per la maggior parte sui personaggi femminili, e le figure maschili sono assenti, oppure ridicole, o marginali rispetto alla storia. La storia prosegue col mostrare le conseguenze dell’azione di Laura nel corso di tre generazioni di donne e attraverso due ambienti sociali molto diversi. Si scopre che Laura proviene da una famiglia agiata (come le eroine di Kleinhoff Hotel e La caduta degli angeli ribelli), mentre Pietro proviene da un ambiente povero (quando la sorellastra di Pietro, Rosa, ritorna in Irpinia per il funerale, scopriamo che la comunità vive nelle roulotte tra le rovine delle case distrutte dal terremoto del 1980). Segreti segreti è costruito intorno a una serie di enigmi, e formalmente è una sorta di labirinto testuale come la Venezia che ci è mostrata nella sequenza iniziale. L’organizzazione della trama è molto complessa cronologicamente, e strutturata attraverso flashforward e flashback che seguono i due vettori narrativi principali di Laura, la figura della terrorista, e Rosa. Il punto che occorre chiarire circa la complessa struttura del film è che essa è il risultato di una duplicazione e triplicazione della trama che di fatto maschera 150

I generi del Terrore

una serie di incontri banali: in particolare two-shots (inquadrature su due personaggi), che spesso mostrano due amiche o due membri di una famiglia che parlano tra loro in un interno. Nel suo livello di base, dunque, Segreti segreti è un women’s film: L’women’s film si distingue per avere per protagonista una donna, un punto di vista femminile e una narrazione che il più delle volte ruota intorno al realismo tradizionale dell’esperienza della donna: il familiare, il domestico, il romantico – tutte arene in cui l’amore, l’emozione e le relazioni hanno la precedenza rispetto alle azioni e agli eventi. Uno degli aspetti più importanti del genere è la preminenza da esso accordata alle relazioni interpersonali tra donne. (LaPlace 1987: 139)

Allo stesso tempo, Segreti segreti è chiaramente un film d’essai. Come scrive Annette Kuhn (1994: 232): In termini testuali [il cinema d’essai] tende a evitare la trasparenza, la linearità narrativa e la motivazione narrativa tipiche delle forme più comuni del cinema di fiction più convenzionale […]. Il cinema d’essai tende anche al privilegio dello stile visuale rispetto all’azione narrativa e un impiego diffuso dell’enigma, dalla caratterizzazione ai codici narrativi e all’enunciazione […]. La costruzione della femminilità come enigmatica non è semplicemente sanzionata, ma diventa quasi un sine qua non.

Ritornerò presto su questa questione della donna enigmatica; prima, però, propongo una breve considerazione su ciò che il film ha in comune con un altro dei generi su cui si basa, la soap opera. Come nell’women’s film, che è uno dei suoi precursori, i protagonisti centrali nella soap opera tendono a essere femminili, e il genere ha prevalentemente a che fare con la sfera privata e con la preminenza accordata all’ambientazione domestica. Come afferma Christine Geraghty, “l’essenza delle soap è la riflessione sui problemi personali e l’enfasi è posta sul parlare e non sull’azione, sullo sviluppo lento piuttosto che sulla reazione immediata, sulla punizione ritardata piuttosto che sull’effetto istantaneo” (Lacey 2000: 222). A questo scopo la soap opera, come Segreti segreti, ha una struttura ripetitiva, manca tendenzialmente di una conclusione narrativa e contiene molteplici personaggi e storie con improvvise aperture verso nuovi fili del racconto. In effetti, in Segreti segreti veniamo calati nel bel mezzo di una soap – e di conseguenza non ci viene dato accesso alle motivazioni dei personaggi. Di fatto, le motivazioni dell’assassino, Laura, sono vaghe, e i suoi vari sguardi diretti nella cinepresa – ad esempio, durante un altro pedi151

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namento, quando segue Rosa fino a un treno – servono per accentuare la sua impenetrabilità anche quando ricambia lo sguardo dello spettatore. Ciò che troviamo in Segreti segreti è una contaminazione del film d’essai europeo con elementi di genere tratti dall’women’s film e dalla soap opera. Questo serve per dimostrare, per dirla con le parole di Bertolucci, il “mistero dell’alterità femminile” (Canova 2005: 185), e in questo senso indica che il destinatario di Segreti segreti, in contrasto con l’women’s film e con il presunto pubblico delle soap, deve essere di sesso maschile – perché la donna può solo essere “altro” rispetto a lui. Potremmo suggerire qui un legame tra genere e struttura narrativa. Peter Brooks (1984: 39) ha proposto una tassonomia degli intrecci forse un po’ stereotipata ma utile, in cui l’intreccio “maschile” è singolare e teleologico, mentre quello “femminile” presenta molteplici fili narrativi e una struttura ripetitiva. In Segreti segreti, l’intreccio “femminile” ripetitivo e molteplice è inserito in un intreccio maschile da film d’azione, orientato verso una conclusione. Il personale in Segreti segreti è contornato dal pubblico e dal politico, incorniciato di fatto dai motif del thriller convenzionale, con la sparatoria da una parte, e l’interrogatorio e la confessione della donna colpevole dall’altra. Queste due scene che fanno da cornice sono segnalate esplicitamente come “supplementari” dalla loro collocazione sotto i titoli di apertura e di coda, come se fossero qualcosa fuori dal film. Ma se sono davvero supplementari, sono allo stesso tempo, analogamente alla panoramica sulla piazza in Le mani forti, un’aggiunta al film e una compensazione per qualche mancanza che ci si avverte. La “mancanza” riguarda ciò che potremmo definire la Legge del Padre – simbolicamente annullato nel personaggio del giudice nella sequenza di apertura. In Segreti segreti, al terrorista è attribuito il sesso femminile, e l’assenza di uomini nel film è un segno simbolico di una società che è completamente fuori asse: la donna deve essere nuovamente sottoposta alla Legge. La punizione della donna è dunque quella già nota della restrizione della sua mobilità – dal girovagare per Venezia dell’inizio al sottopiano di una questura romana nella scena finale dell’interrogatorio. Parafrasando Teresa de Lauretis, la donna ha oltrepassato i confini che le erano stati assegnati, ma alla fine la “protagonista [raggiunge] il luogo in cui la troverà un Edipo moderno. Non solo, dunque, la posizione femminile occupa una parte limitata dello spazio dell’intreccio; più precisamente, nel cinema, tale posizione rappresenta il movimento compiuto della narrazione verso quello spazio. Essa costituisce la conclusione della narrazione” (de Lauretis 1984: 139-40). Chi è il moderno Edipo che troverà la protagonista di Segreti segreti in questa parte conclusiva? 152

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Suggerirei che non si tratti di nessun personaggio maschile interno al film, ma lo spettatore implicito a cui il film è destinato, di sesso maschile, incoraggiato a intervenire oltre il film per ristabilire l’ordine “naturale” delle cose. L’amour fou del terrore Diavolo in corpo (Marco Bellocchio, 1986) è vagamente ispirato al romanzo Le Diable au corps (1923) di Raymond Radiguet, che racconta di un giovane studente che seduce la moglie di un soldato partito per la Grande Guerra. Il film traspone questo scenario di base nell’Italia dell’era terroristica: in termini ellittici, racconta la storia di uno studente liceale, Andrea, e della sua intensa relazione con Giulia, il cui padre – un colonnello dei Carabinieri – è morto vittima di un omicidio politico, ma che nonostante questo ha deciso di sposare Giacomo, un terrorista pentito. Il padre di Andrea è uno psicanalista che in passato ha curato Giulia e che ha egli stesso una fissazione sessuale nei suoi confronti. Il paradigma edipico già osservato in Caro papà e La tragedia di un uomo ridicolo è doppiamente presente in Diavolo in corpo. Come fa notare Yacowar (1989: 189), il fidanzamento di Giulia con un uomo che ha a che fare con l’uccisione di suo padre “presuppone una tensione edipica equivalente a quella tra Andrea e suo padre nel loro conflitto a causa di lei”.24 Diavolo in corpo è un film politico espresso in termini erotici, e discende direttamente dalla tradizione di Ultimo tango a Parigi (vedi Yacowar 1989 per uno studio delle molteplici allusioni al film predecessore in Diavolo in corpo) e di La vita interiore di Moravia con il suo tentativo di portare alla luce le origini nascoste della protesta e del terrorismo utilizzando il linguaggio della sessualità come strumento di investigazione. I due amanti di Bellocchio entrano in contatto per la prima volta in un’aula di tribunale dove si sta svolgendo un processo per atti di terrorismo (il fidanzato di Giulia è uno degli imputati). Giulia resta colpita dalla vista di una coppia di imputati che fanno sesso dentro la gabbia – mentre la loro azione illegittima è nascosta dai giornali dei loro compagni – e attira l’attenzione di Andrea sulla scena. I fotografi della stampa alla fine si accorgono della coppia, e anche le guardie, che cercano di entrare nella gabbia. Giulia e Andrea escono dall’aula di corsa, e la loro relazione è innescata da questo evento. Significativamente, nel film non si vede niente dell’attività illegale dei terroristi a parte quel rapporto sessuale dentro l’aula. Ciò che invece si vede è una scena di pentimento terroristico trasmessa in televisione. Giulia, sdraiata con Andrea su quello che dovrebbe essere il suo letto matrimoniale, guarda il 153

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suo fidanzato in televisione che parla compiaciuto del proprio cammino verso il pentimento: Ho scritto ai socialisti e non mi hanno risposto. Ho scritto al PCI e mi hanno chiuso la porta in faccia. Ho scritto all’arcivescovo, che si è presentato dicendo: “Mi avete chiamato? Eccomi qui”. Voglio dire che nella Chiesa, senza nessuna polemica, ho incontrato persone che dimostrano di vivere i valori cristiani senza fare nessun progetto su di te, senza volerti minimamente strumentalizzare e allora senti, forse, che dietro loro qualcuno ti guarda, con qualcosa a cui credevi da bambino e io oggi… in una società in cui tutto è violento… [dialogo trascritto dal film]

Giacomo sta per essere rimesso in libertà secondo le nuove sanatorie concesse ai terroristi che rinunciano al loro passato violento e rivelano gli spostamenti e l’attività dei loro ex compagni (nelle scene in aula si trova in una gabbia separata rispetto agli altri). La sua ambizione è quella di ritornare alla normalità e al bene; ma specialmente alla normalità: Voglio avere una vita normale. Normalissima. Non desidero altro. Essere la maggioranza. Ho capito una cosa, una cosa importante. Ho capito che sono un mediocre. Io sono mediocre e me ne vanto. Orgoglio della mediocrità. È questa la scoperta: essere come tutti gli altri. Ho scritto una poesia… [dialogo trascritto dal film]

Questo monologo è indirizzato a Giulia, che è andata a trovarlo in una situazione di debole sorveglianza che gli è consentita dal suo status di pentito. Mentre lui recita la sua poesia, un panegirico delle gioie della vita familiare senza sorprese, Giulia lo masturba distrattamente di nascosto – una scena creata per essere vista a confronto e in contrasto con la sua fellatio ad Andrea più avanti nel film. Simbolicamente, Giacomo ha sostituito il padre di Giulia ucciso dai terroristi, ma la deviazione per la lotta armata ha semplicemente differito la sua assunzione del ruolo di patriarca, proprio come la socializzazione si raggiunge, ci dice Freud, attraverso il superamento del complesso edipico. Diavolo in corpo offre un’analisi psicanalitica delle motivazioni del terrorista piuttosto che un’indagine delle condizioni socio-politiche che costituivano il contesto delle sue azioni. La versione proposta è notevolmente simile a quella data da Moravia, il quale aveva affermato che gli attivisti del Sessantotto e degli anni seguenti erano “principalmente interessati non a invertire l’ordine 154

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sociale ma a redimere la [loro] stessa classe borghese” (Wood 1990: 94). L’alternativa alla “disgustosa figura losca e ordinaria” di Giacomo (Bernardi 1998: 131) è offerta dalla passione condivisa da Giulia e Andrea. Il film sembra veramente aderire a un discorso piuttosto anacronistico di liberazione sessuale, sostenuto dall’impiego della “retorica del sesso autentico” (Krzywinska 2006: 45) che aveva costituito un aspetto anche di Ultimo tango a Parigi (la lunga ed esplicita scena della fellatio fu causa negli Stati Uniti di un “X certificate”: il film fu cioè bollato come pornografico). È da notare anche il fatto che un film così insolito nel modo in cui evita gli schemi narrativi convenzionali ricada ciò nonostante sugli archetipi dei ruoli di sesso, per non chiamarli stereotipi, della cultura (l’uomo intellettuale) e della natura (la donna sensuale, silenziosa o ansimante). Giulia parla appena, e Yacowar (1989: 192) scrive, senza nessuna ironia, che “è una forza naturale libera dalle corruzioni della lingua”. Il film disprezza le ideologie politiche convenzionali, come si è visto nel dialogo citato nell’introduzione, in cui Andrea nega qualunque appartenenza politica. Esso contiene però un’affermazione dell’“autenticità politica dell’erotismo personale” (Yacowar 1989: 189) – delle cui origini marcusiane abbiamo già parlato. Morando Morandini ha descritto Diavolo in corpo come il primo film “sull’Italia del post-terrorismo” (Natalini 2005: 185). Comunque, il paradosso centrale del film sta nel fatto che, per la relazione sessuale appassionata di cui celebra l’inizio, e forse la prosecuzione, gli anni del terrorismo non devono finire (proprio come la Guerra non deve finire per gli amanti del romanzo di Radiguet): una volta raggiunta la “conclusione” con i processi e il pentitismo, Giulia sarà probabilmente restituita al fidanzato rimesso in libertà e Andrea sarà relegato nel passato.25 Se Diavolo in corpo è davvero un film sul post-terrorismo, possiamo dunque diagnosticarvi una nostalgia per gli anni di piombo presumibilmente superati. Per quanto paradossale possa sembrare, si tratta di un aspetto che richiede certamente una spiegazione, che ci suggerisca oltre tutto di considerare il film non tanto come una cronaca, per quanto cinica, delle origini e degli esiti del terrorismo in Italia, quanto come un sintomo della continuazione del trauma che il terrorismo ha rappresentato. Il terrorismo al femminile In un articolo che prende in considerazione sia Segreti segreti che Diavolo in corpo, Ruth Glynn (prossima pubblicazione 2007) sostiene che la figura della donna violenta ha tutte le probabilità di comparire nel cinema nei momenti 155

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di crisi ideologica o culturale. Questo fatto non deriva da alcun “riflesso” dell’aumento della partecipazione femminile alla violenza nella società, di tipo terroristico o di altro genere.26 Esso è invece una reazione sintomatica alla prosecuzione del trauma collettivo del terrorismo, una reazione ai metodi impiegati per affrontarlo, e quindi al pentitismo. Questo spiega, scrive la Glynn, la conclusione fin troppo esplicita di Segreti segreti: la resa precipitosa di Laura a un garbato interrogatorio della polizia è un indice della fantasia culturale, articolata dal film, del pentitismo come una panacea per il terrorismo. Per la Glynn, l’“esagerata insistenza [del film] sul potere del pentitismo nell’eradicamento del terrorismo […] indica che la cultura italiana sta ancora cercando disperatamente di esorcizzare le paure, e di elaborare il trauma, degli anni di piombo”. Segreti segreti uscì nel 1985. Era cambiato qualcosa l’anno dopo, quando venne agli schermi Diavolo in corpo, definito da Morandini il primo film “sull’Italia del post-terrorismo”? Per la Glynn anche questo film “femminilizza” il terrorismo – anche se in questo caso la donna è vittima anziché autrice della violenza politica. Il problema, per la società italiana, è che le vittime dovettero tacere così come i terroristi perché la società potesse reprimere il trauma del terrorismo. Ma la vittima è in ultima analisi più minacciosa in quanto non può essere fatta tacere in modo legittimo. In questa luce, il personaggio di Giulia in Diavolo in corpo diventa un altro sintomo della questione aperta degli anni di piombo: la figlia del colonnello dei Carabinieri ucciso, “pazza” di dolore, vede riconosciuta la sua condizione di vittima in una scena breve e ambigua, condizione che è però esageratamente negata dal suo erotismo disinibito e dalla sua intenzione di sposare un pentito: La fragilità della vittima femminile […] diventa in Diavolo in corpo sia il centro che l’articolazione di ansie della società che sono troppo dolorose da affrontare. In realtà, sia la natura sovraccarica e dispersiva dell’intreccio di Diavolo in corpo che la mancata identificazione dello status di vittima di Giulia possono essere letti come sintomatici di quel processo più ampio; cioè come risultato di un’incapacità da parte dell’insieme degli autori di affrontare in modo coerente le ferite ancora aperte degli anni di piombo. (Glynn, prossima pubblicazione 2007)

L’abbraccio entusiastico della normalità borghese da parte del fidanzato pentito di Giulia, che sarà presto libero dal carcere, è quindi solo superficialmente rassicurante. Più accurato, nei termini della codificazione criptica delle ansie nazionali, è il desiderio implicito che gli anni di piombo non finiscano, presente nella situazione degli amanti. 156

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Come già si è detto, il paradosso centrale del film sta nel fatto che, perché la relazione celebrata nel film possa continuare così come è iniziata, la normalità non deve essere ripristinata, e gli anni del terrorismo non devono finire. In realtà, sia Segreti segreti che Diavolo in corpo dimostrano chiaramente che, perlomeno a metà degli anni ’80, gli anni di piombo non erano ancora finiti. L’Italia del “post-terrorismo” Per certi aspetti Donne armate (Sergio Corbucci), un film per la TV trasmesso per la prima volta su RAI2 nel 1991, è una specie di sequel di Segreti segreti. Entrambi hanno in comune Lina Sastri come protagonista – questa volta nei panni di Nadia Cossa, una (inizialmente) irriducibile terrorista di sinistra che evade di prigione per poi scoprire che il compagno che ha architettato la fuga è diventato un criminale comune che cerca di ucciderla. Mentre scappa si assicura l’aiuto della giovane poliziotta a cui è sfuggita, Angela Venturi, e le due cercano di sventare un complotto criminoso che coinvolge sia ex-terroristi che poliziotti. Anche se riescono a rivelare il complotto, Nadia resta ferita mentre va in soccorso ad Angela, rinunciando così alla propria libertà, e ritorna in prigione. La scelta di Lina Sastri come Nadia evoca il suo personaggio in Segreti segreti, ma in Donne armate il personaggio della Sastri viene “recuperato” come fondamentalmente buono nel corso della fiction, dopo essere stata inizialmente ritratta come una donna spietata e senza scrupoli (sul genere del personaggio di Laura in Segreti segreti), ed essere stata esplicitamente descritta come un’irriducibile. Attraverso la sua amicizia con Angela (il bel volto giovane della polizia in raffronto con quelli degli uomini grinzosi e corrotti che incontrano, compagni o carabinieri), Nadia si pente e, anche se viene riportata in carcere, le viene simbolicamente concessa la riammissione nella società e nella nazione. Donne armate è un road movie e un buddy movie al femminile. Forse è più che una coincidenza il fatto che sia stato trasmesso nello stesso anno in cui uscì Thelma e Louise (Ridley Scott, 1991), la storia di due donne che fuggono dalla violenza dei rapporti con gli uomini e dalla legge attraverso il paesaggio iconico dell’America dell’western. Entrambi i film impiegano una forma dozzinale di femminismo che suggerisce che le idee del movimento delle donne erano ormai infiltrate a sufficienza nella cultura popolare da poter essere sfruttate commercialmente. Entrambi i film offrono anche opportunità per una lettura in termini lesbici della relazione centrale. Come scrive Graham (1997), “è difficile dire in quale punto il buddy movie prosegua in realtà in un 157

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amore lesbico”.27 La tensione sessuale implicita in Donne armate si accumula fino a raggiungere un climax nella scena in cui Nadia e Angela condividono la cuccetta di un treno (e un paio di manette) – un’evoluzione della scena di Segreti segreti dove il personaggio della Sastri, Laura, e Rosa, la sorella del compagno terrorista che ha ucciso, condividono uno scompartimento di un treno e si scambiano sguardi silenziosi e carichi di tensione: “Hai degli occhi bellissimi”, dice Rosa alla fine. In Thelma e Louise, naturalmente, la coppia non ha futuro: Chiaramente, al tempo dell’uscita del film il cinema dominante non poteva concepire quel bacio [tra Thelma e Louise] come simbolico di uno sconfinamento in un ordine di significato differente, cioè lesbico, per cui le due donne sono semplicemente proiettate in uno spazio vuoto.28 In questo testo limite le donne sono semplicemente arrivate alla fine della strada. (Graham 1997; corsivo nell’originale)

Nemmeno alle amanti di Donne armate è concesso di vivere felici e contente; ma anche se arrivano alla fine della strada è loro concesso comunque di vivere. Lo spazio per un desiderio tra donne può sopravvivere proprio perché le differenze tra le due protagoniste vengono conservate intatte, e perché nessuna delle due muore.29 Il film rasenta, pur rifiutandolo, il finale più convenzionale facendo colpire Nadia nella sequenza finale ma senza che però resti uccisa. Il positivo ritratto omosociale al femminile dei rapporti tra la terrorista e la poliziotta in Donne armate può essere confrontato con la rappresentazione patologica dell’amour fou nei film precedenti, e con il ritratto sintomatico e negativo del terrorista come donna in Segreti segreti. In Donne armate, il rapporto principale, che è un rapporto tra donne, non è mostrato come qualcosa che deve essere punito, ossia il rapporto che coinvolge un terrorista non è necessariamente colpevolizzato. Questo differenzia il film da Kleinhoff Hotel e da La caduta degli angeli ribelli, in cui invece il terrorista, e il rapporto stesso, sono destinati a morire. Inoltre, in Donne armate l’aspetto malvagio e grottesco dei personaggi maschili non rappresenta un invito allo spettatore maschile a intervenire per ristabilire l’ordine in una società fuori asse, come accade in Segreti, segreti. Facendo andare la terrorista volontariamente incontro alla reincarcerazione, e assegnandole una condizione quasi di vittima prosciugata ormai da ogni possibilità di nuocere, Donne armate sembra anticipare film successivi realizzati a partire dagli anni ’90 in un registro molto diverso: La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995) e La mia generazione (Wilma Labate, 1996). Tutti questi film incominciano a suggerire che la società italiana debba 158

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trovare un modo per affrontare e risolvere il problema dei terroristi, o meglio degli ex-terroristi, che si trovano ancora in carcere, e quindi il fatto che gli anni di piombo devono essere ricollocati nel passato. Donne armate, e non Diavolo in corpo, è il primo vero film del “post-terrorismo”.

Modalità efficaci Non c’è un unico “genere del terrore”: il cinema italiano ha affrontato il fenomeno del terrorismo in una varietà di generi e utilizzando diversi modi di rivolgersi a un pubblico. Non ho cercato qui di proporre un’analisi completa di questa varietà, ma ho offerto una selezione che mettesse in luce le differenze nella gamma dei generi, e ho cercato di far emergere le implicazioni dell’uso di ciascuno di essi.30 La mia analisi si è basata sulla convinzione che il genere sia una modalità epistemologica: in altre parole, la forma dell’intreccio, il simbolismo e l’individuazione del destinatario caratteristici di un genere costituiscono tutti modi di rielaborare eventi e circostanze ancora in embrione. Quest’analisi ha confermato però che il genere non è uno strumento neutro: modalità e filoni hanno le loro priorità e le loro storie che possono predisporli per rifrangere o rappresentare certe situazioni, ma possono anche determinare le sottostrutture ideologiche e le connotazioni implicite di un dato testo. È possibile tracciare un racconto degli anni di piombo attraverso il prisma sintomatico dell’amour fou nello sviluppo del filone cinematografico erotico-politico; mentre la relazione amorosa sessualmente esplicita consentiva agli autori dei film di parlare di terrorismo nel potente linguaggio del politico come personale, essa si portava dietro anche inevitabili associazioni di passioni irrazionali e di breve durata. Bernardo Bertolucci fu in grado, in La tragedia di un uomo ridicolo, di utilizzare le caratteristiche della commedia all’italiana per ritrarre l’emarginazione e l’impotenza dell’intellettuale di fronte alla realtà del terrorismo, mentre l’impiego della modalità del conspiracy thriller in Le mani forti compromette presumibilmente gli scopi politici ed etici dei suoi autori. Forse l’uso dei generi più riuscito in relazione alla rappresentazione del terrorismo è quello incontrato in Per non dimenticare e in Tre fratelli. Questi testi richiedono la competenza dello spettatore nel riconoscimento dei topoi e dei clichè, inserendo nel contesto del film diversi generi chiaramente connotati. Essi incoraggiano quindi lo spettatore a costruire attivamente un significato del film che vada oltre quello che sarebbe determinato dall’impiego di un’unica modalità. 159

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NOTE AL CAPITOLO TERZO

1 In Tre fratelli, questa “immaginazione” della scena è inserita nel più ampio ritratto nazionale. Come scrive Marcus (1996: 117), “la decisione [di Rosi] di fare il film solo in parte sul terrorismo potrebbe riflettere una consapevole strategia antiterroristica – cioè, non collocare il fenomeno al centro della scena, non concedergli l’attenzione totale della stampa che serve solo a promuovere gli obiettivi terroristici e non isolarlo come sintomo privilegiato della politica malata degli anni ’70. […] Rosi cerca di demistificare e di delimitare il suo argomento piuttosto che arrendersi alla morsa tirannica del terrorismo sull’attenzione nazionale”. 2 Con “modo di rivolgersi ai destinatari” (in inglese mode of address) si intende qui il modo in cui il film è orientato verso uno spettatore implicito, di cui può essere specificato il sesso o che può essere configurato in qualche altro modo (come testimone, consumatore, adolescente etc.). 3 La parola “genere” è qui usata per rendere il sostantivo inglese gender, che esprime un concetto distinto da quello di sex (sesso) per riferirsi ai ruoli maschili o femminili nelle interrelazioni sociali. Il termine “genere”, tuttavia, compare più volte nel testo per tradurre l’inglese genre, che si riferisce al genere letterario o cinematografico (N.d.T.). 4 Vito Zagarrio (2005: 11) ha parlato delle mutate condizioni del cinema d’impegno in questo periodo: “I registi italiani erano abituati a una ‘trasparenza delle cose’, a una realtà dove ‘enunciare’ significava ‘denunciare’: il reale aveva la forza di parlare da solo, e quel reale aveva una carica talmente esplosiva che la sua rappresentazione poteva sembrare automaticamente la soluzione del problema. Negli anni ’70, invece, si complicano i nodi del reale, non basta più far vedere perché si veda davvero”. Lo stesso Rosi aveva detto che il terrorismo “è un problema su cui bisognerebbe fare tutto un film, e non è che non ci abbia pensato. […] Ma ho sempre arretrato perché mi sono trovato davanti a problemi di coscienza: se neanche io avevo capito be-

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ne la logica del terrorismo, la sua realtà umana e la sua realtà politica, in cosa potevo aiutare il pubblico?” (Marcus 1996: 135n). Vedi anche Carocci 2007 per un’analisi della risposta “tardiva” del cinema d’autore (Rosi, Amelio, Giordana, Bernardo Bertolucci) al terrorismo; Carocci sottolinea anche le difficoltà a “vederci chiaro” (p.120) in questo periodo. 5 Un borghese piccolo piccolo, in cui un burocrate interpretato da Alberto Sordi si trasforma in un aguzzino per vendicare la morte del figlio rimasto ucciso durante una rapina in una banca, non è un film sul terrorismo, ma sulla violenza e sulle sue conseguenze. Il film indugia sulle umiliazioni che il personaggio di Sordi subisce al lavoro, che lui traduce quando torna a casa in brutalità verbale nei confronti della propria moglie, e alla fine pone in risalto la violenza fisica di cui è capace dopo l’uccisione di suo figlio da parte di un gruppo che potrebbe essere terroristico ma che non viene mai identificato come tale. Tuttavia, i critici hanno analizzato Un borghese piccolo piccolo come un film sul terrorismo, e Bondanella (2004: 327) si riferisce senza ambiguità all’assassino del figlio come “terrorista”. È forse meglio, però, pensare al film come ritratto di una generale atmosfera di violenza degli anni ’70 piuttosto che come un testo centrato su un tipo specifico di violenza. 6 Uva (2007: 26-7, 41) incomincia, brevemente, a porre rimedio a questa lacuna, anche se il suo libro non contiene un capitolo dedicato alla commedia all’italiana, nella parte sotto il titolo “Approfondimenti”; esso contiene però un capitolo di Andrea Pergolari sul poliziesco (pp. 159-172). 7 La tragedia di un uomo ridicolo può anche non contenere bombe o sparatorie, eppure, come scrive Caldwell (2006: 73), il film usa il “terrorismo come parte del [suo] esame dell’Italia contemporanea e il luogo occupato dalla famiglia, simbolica e reale, nella sua cultura”. Tuttavia, Fantoni Minella fa a meno di citare La tragedia di un uomo ridicolo nel capitolo dal titolo “Schermi del terrorismo” del suo libro Non riconciliati (2004: 114-132), un’omissione significativa nel contesto della mia tesi secondo cui il film rientra nella tradizione della comme-

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dia all’italiana, che lo studioso non prende in considerazione. 8 Come suggerisce Kline (1987: 163), l’allusione a La finestra sul cortile di Hitchcock è sicuramente intenzionale. 9 Si potrebbe obiettare che, nonostante le molte analogie tra i due film, dovremmo distinguere tra un’opera come Caro papà, che rientra in un genere, e un’altra come La tragedia di un uomo ridicolo, che fa uso di alcune modalità di genere in modo deliberato, strategico e allusivo. La tragedia di un uomo ridicolo è, in questo senso, un esercizio metacinematografico a beneficio delle ragioni estetiche e politiche di Bertolucci. Tutti i film della commedia all’italiana, comunque, possono essere descritti in questo senso come metacinematografici (e metagenerici); il caso più estremo è rappresentato da C’eravamo tanto amati di Scola, del 1974. In altre parole, La tragedia di un uomo ridicolo è, in modo ambivalente ma enfatico, una commedia all’italiana, solo che è stato realizzato da un regista che è meglio noto per un altro tipo di film. Come scrive la Wood (2005: 111), il cinema italiano d’auteur non è tanto un’entità distinta quanto la parte intellettuale e/o più consolidata della produzione nazionale di genere. Esso mostra lo stesso interesse della commedia per la modernità, per le trasformazioni sociali e per i problemi politici. 10 Con l’espressione “configurazione edipica” mi riferisco qui al rapporto padre-figlio. Più avanti descrivo le risonanze simboliche di genere dell’incontro di Edipo con la Sfinge. 11 Dalle Vacche (1992: 15) si spinge a suggerire che “l’omoerotismo latente del mito edipico sembra applicarsi al cinema italiano, che impiega racconti ‘omosociali’ per rappresentare padri e figli nella storia e nella vita pubblica, relegando le madri all’ambito biologico e alla sfera privata. Con ‘omosociale’ mi riferisco qui a una cultura patriarcale che reprime il nucleo omoerotico dietro una forte facciata eterosessuale. […] Quest’ordine eterosessuale e omosociale ha bisogno di una donna per insinuare una discontinuità, per così dire, tra i due uomini, spesso un padre e un figlio, tenendo così a bada il pericolo dell’omosessualità. Secondo questo schema, la donna è anche un agente di

continuità biologica che consente le genealogie tra padri e figli, rafforzando così la facciata eterosessuale dei legami tra uomini e dell’eredità storica”. 12 Se la società è una questione che riguarda padri e figli, la donna diventa allora un segno di scambio tra uomini, ossia il mezzo attraverso il quale viene mediato il rapporto omosociale. È questa la ragione per cui sia in Caro papà che in La tragedia di un uomo ridicolo i padri cercano di sedurre le ragazze dei rispettivi figli. 13 Lo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, 12a edizione, Miro Dogliotti e Luigi Rosiello (curatori), Bologna: Zanichelli, 1996, p. 387. 14 Sentimenti simili vengono espressi in Pasolini 1976, pp. 7-8. 15 I dettagli sulle stragi di Bologna e di Brescia, le loro conseguenze e i relative processi sono presi dalle seguenti fonti: il sito dell’associazione delle vittime della strage di Bologna, www.stragi.it, e il sito del Centro di documentazione storico politica [sic] su stragismo, terrorismo e violenza politica (con sede a Bologna) www.cedost.it; un saggio di Anna Lisa Tota, “A persistent Past: The Bologna Massacre, 1980-2000” (2002) e un libro della stessa autrice, La città ferita (2003). 16 Un complice della Mambro e di Fioravanti, Luigi Ciavardini, fu condannato anch’egli a trent’anni per aver preso parte alla strage, sentenza confermata dalla Corte di Cassazione nell’aprile del 2007. 17 Discorso di Paolo Bolognesi alla stazione di Bologna, 2 agosto 2004. Il testo completo è disponibile su http://www.comune.bologna.it/primopiano/n otizie/2agosto_bolognesi.php (accesso del 22 marzo 2007). 18 ElleU Multimedia ha pubblicato sei episodi della serie, compreso quello dedicato all’attentato di Bologna, “Strage alla stazione di Bologna”. Ulteriore materiale dal filmato di Arcoiris utilizzato in questo episodio (trentotto minuti) è disponibile alla voce “strage di Bologna 02 Agosto 1980” alla pagina web: http://www.stragi.it/index.php?pagina=associazione&par=video (accesso dell’11 ottobre 2005).

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Nel filmato originale non c’è nessuna interruzione a questo punto; semmai l’obiettivo della telecamera viene spostato da un poliziotto. 20 La Wood (2005: 190-3) fa notare che i film che rivisitano gli anni ’70 tendono a riprendere i mezzi formali e spaziali tipici dei film politici di quel periodo. Questa osservazione è confermata in Le mani forti dall’uso della figura del panottico, impiegata in film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e Cadaveri eccellenti (Francesco Rosi, 1976). Secondo la Wood (pp. 190-1), il panottico suggerisce “un controllo onnipotente e occulto della società […] La figura del panottico rappresenta l’intrusione nel testo del decisivo livello di significato metadiscorsivo, che spiega come viene esercitato il potere, e l’ideologia di coloro che ne fanno uso”. Il panottico è, perciò, una figura appropriata del complotto, benché ancora una volta, da una prospettiva politica, il suo uso possa avere l’effetto, come in Foucault, di suggerire l’onnipresenza e l’irresistibilità del potere. 21 La sacra famiglia (Die Heilige Familie) è ovviamente il titolo dell’opera di Marx ed Engels del 1845, scritta in opposizione alla tendenza dei Giovani Hegeliani del momento (il titolo è un riferimento sarcastico a Bruno Bauer e al suo circolo). Marco Bellocchio ne mette una copia accanto al letto di Chiara, una dei carcerieri di Moro, in Buongiorno, notte, apparentemente per sottolineare il sostanziale conservatorismo della struttura nucleare della famiglia che viene parodiata ma comunque ricreata nella così detta prigione del popolo. È superfluo dire che né Bellocchio né Bertolucci avevano in mente i Giovani Hegeliani, ma volevano piuttosto evocare la critica marxiana della famiglia nucleare borghese come aspetto delle modalità di produzione capitalistiche, espressa, ad esempio, in Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels del 1884. 22 Il ruolo di Pascale è interpretato da Corinne Clery, già apparsa sugli schermi nella parte di “O” nel film erotico Histoire d’O (Just Jaeckin, 1975). 23 L’espressione, coniata appunto da Laura Mulvey, esprime il concetto secondo cui la

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donna è definita dal modo in cui appare agli altri (N.d.T.). 24 Natalini (2005: 187) e altri hanno suggerito l’interpretazione secondo cui il fidanzato di Giulia, il terrorista pentito Giacomo, sarebbe l’assassino del padre di Giulia, ma personalmente non trovo traccia di questa ipotesi nel film. 25 Il finale di Diavolo in corpo è ambiguo: Giulia non si presenta in chiesa per il suo matrimonio con Giacomo; il film si conclude con l’immagine di lei che piange in fondo a un’aula scolastica mentre Andrea sostiene l’esame di maturità. 26 La Glynn fornisce alcune statistiche, prese da Galli (2004: 205-6), che confermano che la partecipazione femminile alla violenza politica crebbe col progredire degli anni ’70, ma che comunque il numero delle donne si limitava a circa un terzo dei militanti in qualunque gruppo. 27 “Crossing the line: Thelma & Louise”, in Women watching women: Lesbian Subcultures and Popular Cinema disponibile su http://www.opengender.org.uk/node/48 (accesso dell’8 aprile 2007). 28 Thelma e Louise termina con un fotogramma nel momento in cui le due protagoniste si lanciano con l’auto a tutta velocità verso un burrone, un’allusione al famoso fotogramma nel finale di Butch Cassidy (George Roy Hill, 1969). 29 Queste idee sono ispirate al paper di Danielle Hipkins dal titolo “Why Italian Film Studies Needs a Second Take on Gender”, presentato alla conferenza annuale dell’American Association of Italian Studies, Genova, Maggio 2007. 30 La absentia principale nel capitolo è probabilmente quella del modo di trattare il terrorismo nel genere poliziesco, ma su questo argomento si possono trovare suggerimenti in Pergolari (2007) e in Wood (prossima pubblicazione 2007b). Per un’analisi del cinema d’impegno vedi il quarto capitolo di questo libro. Nel capitolo conclusivo rifletto anche sul grado in cui le ansie sul terrorismo possano essere state cripticamente presenti nel cinema horror degli anni ’70.

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C A P I T O L O Q U A RT O

G l i e l e t t o r at i d e l l a m e m o r i a

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L’Italia dopo il terrorismo Morando Morandini ha descritto Diavolo in corpo (Marco Bellocchio, 1986) come il primo film “sull’Italia del post-terrorismo” (Natalini 2005: 185; vedi anche Uva 2007: 63-7). Nel capitolo precedente abbiamo osservato che una tale onorificenza potrebbe essere attribuita, invece, al telefilm Donne armate (Sergio Corrucci, 1991). Quest’ultimo è stato il primo a porre la questione dei terroristi/prigionieri politici in termini di simpatia nei confronti degli incarcerati, e quindi a iniziare a fare i conti con un passato violento, caratterizzato non semplicemente in termini di punizione o di vendetta. La possibilità di rappacificarsi col passato, e di mettere un sigillo sugli anni di piombo, sembrò trovare conferma, nello stesso decennio, nelle condizioni politiche nazionali e internazionali: la fine della Guerra Fredda e la caduta della Prima Repubblica, sua espressione concreta dagli anni ’50 fino ai primi anni ’90. Se accettiamo il fatto che il terrorismo italiano negli anni ’70 fu, in parte, una varietà locale dello stallo globale tra i due imperi sovietico e americano, ne consegue che esso era un attributo della Prima Repubblica stessa, una forma di organizzazione politica che fu anche un fenomeno della Guerra Fredda. La caduta della Prima Repubblica avrebbe dovuto comportare la fine del terrorismo ideologico e del cosiddetto stato di emergenza, il regime di leggi punitive creato in risposta al terrorismo. Ciò nonostante, vorrei incominciare questo capitolo parlando dei film che cercano di risolvere la questione dell’eredità, piuttosto che quella dell’attualità, del terrorismo ideologico intranazionale, stabilendo immediatamente che in Italia non esiste ciò che viene chiamato “post-terrorismo”. Il terrorismo continua a operare come forza divisoria nella vita nazionale italiana. Vari fattori hanno assicurato che la memoria condivisa degli anni di piombo continuasse a essere elusiva: le risposte, genuine od opportunistiche, alla presenza in misura ridotta ma persistente delle “nuove” Brigate Rosse; le ramificazioni degli 165

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attentati di New York e di Washington dell’11 Settembre 2001 e i nuovi piani globali della cosiddetta “guerra al terrore”; il fatto che non si sia riusciti a identificare molti dei responsabili delle stragi in Italia né a raggiungere un accordo sul grado di coinvolgimento dello Stato nella perpetrazione di atti terroristici indiscriminati. Il dibattito diffuso negli anni ’90 sull’opportunità di concedere l’indulto agli ex-terroristi in carcere dovrebbe suggerire la presenza, almeno in quel decennio, delle condizioni per la fine del terrorismo e per una massiccia risposta giudiziaria. Come scrive Lombardi (2000a: 199), l’applicazione estensiva dell’indulto avrebbe comportato: […] la conclusione simbolica di uno stato di emergenza che era incominciato durante la fine degli anni ’60, aveva raggiunto l’apice alla fine degli anni ’70 ed era durato per buona parte del decennio successivo. Tale stato d’emergenza era incominciato con l’approvazione delle leggi che inasprivano le pene per i reati comuni commessi dai terroristi – era questo inasprimento che l’indulto avrebbe ridotto, dimostrando così la fine dell’emergenza stessa.

Comunque, non ci fu nessun provvedimento estensivo di indulto, il che deve suggerire che il terrorismo rimase una problematica (e una prospettiva) troppo “viva” per arrivare anche solo alla contemplazione di una fine simbolica dello stato di emergenza. Potremmo collegare questo fatto allo scetticismo mantenuto dagli studiosi su quanto la “Seconda” Repubblica rappresenti una rottura con la Prima: l’esercizio della corruzione è continuato; il beneficiario principale delle nuove condizioni è egli stesso un prodotto peculiare della Prima Repubblica; le riforme istituzionali si sono fermate e non è stato raggiunto alcun accordo su una riforma della Costituzione.1 Per James L. Newell, mentre la Prima Repubblica è certamente “morta”, la Seconda deve ancora nascere, e la sua nascita è contingente alla riforma istituzionale e costituzionale che deve ancora avere luogo: “Finché non si raggiunge questo la politica italiana rimane in uno stato di transizione” (Bull e Newell 2005: 2). Lo stesso si può dire della società italiana: lo stato di transizione significa che il terrorismo sia nella memoria che nella sua realtà rimane uno strascico delle condizioni della Prima Repubblica. Se non esiste ciò che viene definito “post-terrorismo”, allora quei testi che cercano di affrontare e integrare l’eredità della violenza terroristica riflettono probabilmente il disagio delle condizioni politiche attuali. Tuttavia, Caviglia e Cecchini hanno affermato che i testi di fiction possono offrire un esempio di discorso reciproco (tra vittima/comunità e terrorista/prigioniero) che serve come modello su come il trauma e la violenza degli anni di piombo potrebbe166

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ro finalmente essere superati (Caviglia e Cecchini, prossima pubblicazione; Cecchini 2005).2 I due studiosi utilizzano la metafora di una commissione per la verità e la riconciliazione, come quelle nate negli ultimi anni in Sudafrica, Argentina e Cile, per descrivere le aspirazioni, se non i successi, di tali testi, che presentano un modello “dialogico” in contrasto con “la condizione della memoria spaccata e il monologismo che affligge la comunicazione pubblica” (Caviglia e Cecchini, prossima pubblicazione). L’uso della metafora della commissione per la verità e la riconciliazione per descrivere i film di fiction potrebbe sembrare sopravvalutare l’influenza di tali testi, data la transizione non completa dalla Prima Repubblica, e dato che lo Stato stesso deve essere presente presso tale commissione per garantirne l’autorevolezza.3 Ciò nonostante, vale la pena verificare questa metafora, tra l’altro perché lo stesso sistema politico italiano (o almeno alcuni dei suoi attori significativi) ha riconosciuto le potenzialità di una tale commissione. Lo scopo di una commissione per la verità e la riconciliazione è, tra le altre cose, quello di stabilire una memoria condivisibile e nazionale di un periodo di violenza e della grave violazione dei diritti umani, in modo da limitare il danno causato alla società e alla nazione nel presente e nel futuro. Il grado in cui i film La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995) e La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003) possano aver cercato o siano riusciti a raggiungere questo scopo verrà analizzato più avanti. Questi due film occupano qui buona parte della nostra attenzione perchè sono stati causes célèbres: la reazione a entrambi i film traboccava dalle pagine culturali dei giornali tanto che i due film arrivarono a essere discussi essi stessi come eventi e non solo come rappresentazioni.4 La ricostruzione del passato attraverso la narrazione, nel tentativo di offrire una memoria condivisibile degli anni di piombo, è, in vari modi, un processo centrale in entrambi i testi. Tuttavia, è discutibile fino a che punto questa memoria condivisibile sia espressa per la nazione nel suo insieme, o per conto di un elettorato più ristretto all’interno della nazione. Lombardi (2000b: 191; in pubblicazione nel 2008) sostiene che un film come La seconda volta pratica per conto dell’ex terrorista ora in carcere una forma di supplica speciale che identifica nettamente il film, e altri come questo, come un discorso di parte; Lombardi conia l’espressione “cinema dell’indulto” per etichettare una categoria di testi che sostengono la liberazione anticipata dei prigionieri politici. Oltre a La seconda volta, i film che analizzeremo sono La mia generazione (Wilma Labate, 1996), Vite in sospeso (Marco Turco, 1998) e I riconciliati (Rosalia Piolizzi, 2001). È un luogo comune della critica cinematografica che il cinema politico italiano sia stato fatto genericamente da 167

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autori di sinistra, ma gli studiosi non hanno cercato spesso di contestualizzare accuratamente questo fatto. Lo faccio, qui sotto, in relazione a La meglio gioventù, collocando il film all’interno della tradizione dell’impegno civile e politico nella cultura intellettuale italiana più in generale, e all’interno della tradizione del film d’impegno in particolare. Per definire i termini della discussione, e stabilire così fino a che punto i film presi in considerazione costruiscano una memoria nazionale condivisa, ovvero siano risposte di parte alle condizioni politiche contemporanee, incominciamo con l’indagare ulteriormente sulla metafora della commissione per la verità e la riconciliazione proposta da Cecchini e Caviglia.

Commissioni per la verità? Riconciliazione e verità Secondo la definizione data da Chapman e Ball (2001: 2), “le commissioni per la verità sono degli apparati a tempo determinato, di solito con uno status ufficiale, istituiti per investigare sulla storia di un passato di violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo in un paese durante un periodo di tempo specifico”. Tipicamente, le commissioni per la verità sono state istituite in Paesi che passano da un sistema politico repressivo alla democrazia, o da una società basata su gravi sperequazioni a una organizzata in modo più equo. Il modello per queste commissioni è stata la Truth and Reconciliation Commission istituita in Sudafrica dopo lo smantellamento dell’Apartheid. La Commissione fu insediata secondo i termini stabiliti dalla Costituzione Sudafricana ad interim del 1993, che era creata per fornire: un ponte storico tra il passato di una società profondamente divisa, caratterizzata da conflitto, ostilità, sofferenze indicibili e ingiustizia, e un futuro fondato sul riconoscimento dei diritti umani […]. La ricerca dell’unità nazionale, il benessere e la pace di tutti i cittadini sudafricani richiedono la riconciliazione tra la gente del Sudafrica e la ricostruzione della società. L’adozione di questa Costituzione pone delle fondamenta sicure perché i sudafricani superino le divisioni e i conflitti del passato, che hanno generato enormi violazioni dei diritti umani, la trasgressione dei principi umanitari in violenti conflitti e un’eredità di odio, paure, colpe e vendetta. Ora si può guardare a queste cose sulla base di un bisogno di comprensione ma non di vendetta, un bisogno di riparare ma non di rappresaglie, un bisogno di ubuntu [compassione] ma non di vittimizzazione. Per promuovere tale riconciliazione e ricostruzione, si concederà l’amnistia rispetto 168

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ad atti, omissioni e reati associati a obiettivi politici e commessi nel corso dei passati conflitti. (Dalla Interim Constitution of South Africa, 1993, articolo 251)5

Lo scopo delle commissioni per la verità, come testimonia questo testo, è quello di stabilire lo spazio per una nuova identità nazionale riconoscendo la sofferenza delle vittime, e registrando i misfatti o le atrocità del regime cui è stata messa una fine (ma anche dei suoi oppositori) senza indulgere alla vendetta nei confronti dei suoi leader o dei suoi collaboratori, cui si può concedere l’amnistia purché “raccontino la verità”. L’operato della Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione fu portato a termine tramite il lavoro di tre sottocommissioni. Il compito di quella preposta alla Violazione dei Diritti Umani era di stabilire la natura e la gravità delle violazioni, basandosi sulle testimonianze delle vittime, e di verificare se tali violazioni fossero il risultato della politica di Stato o dell’azione pianificata da altri gruppi o individui. Le vittime di gravi violazioni dei diritti umani furono indirizzate verso la Sottocommissione per la Riparazione e la Riabilitazione, che aveva il compito di restituire la dignità alle vittime tramite la riabilitazione dei sopravvissuti e delle loro comunità. Il criterio dietro a questa sottocommissione era quello di assicurarsi che non ci fosse una reiterazione di gravi violazioni dei diritti umani. Infine, la Sottocommissione per l’Amnistia prendeva in considerazione le domande di amnistia in relazione ad atti che costituivano violazioni dei diritti umani, ma che fossero stati perpetrati con un obiettivo politico. La concessione dell’amnistia dava la possibilità ai colpevoli di evitare il procedimento giudiziario per gli atti commessi.6 A volte, l’operato di una commissione per la verità e la riconciliazione porta a un conflitto di interessi tra le necessità del nuovo Stato e quelle delle vittime di abusi che vogliono vedere giustizia fatta. Per questo si è detto delle commissioni per la verità che alla base di esse ci sia una “verità” svilita, che deve dimenticare molti dei fatti che consentirebbero alla giustizia di prevalere. Come scrive Rigby (2000: 14), “la storia delle commissioni per la verità negli anni recenti ha messo nettamente in rilievo la questione di quale verità, e quanto di essa, debba essere rivelata”. La verità “integrale” parrebbe dover essere cancellata a favore di una tregua pragmatica, un armistizio che è funzionale alle finalità del nuovo Stato. Tale processo è giustificato perlomeno nel significato etimologico in inglese, in quanto le parole true (vero) e truce (tregua) sono strettamente correlate: truce (trewes or triewes) è il plurale della versione medievale dell’inglese true (trewe or triewe). In realtà la parola true deriva dal gotico triggwa che significa “alleanza”, una parola che è confluita nel latino e che 169

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sopravvive nell’equivalente italiano “tregua”. Sembra dunque che la nozione di “verità” come accordo pragmatico sia storicamente giustificata. È appropriato per una commissione per la verità offrire il “vero”, non nel significato contenuto nei dizionari contemporanei di “attinente ai fatti o in accordo con la realtà”, ma nel senso di una prospettiva condivisa o imposta sugli eventi passati. Il rinnovo dell’identità nazionale raggiunto tramite l’operato di una commissione per la verità implica una memoria narrativa condivisa; come ha sostenuto Roberta Bacic in uno studio presentato a un seminario (2003), “una società non può riconciliarsi sulla base di una memoria divisa. Poiché la memoria è identità, essa avrebbe come risultato un’identità divisa”. Le memorie dei diversi individui e gruppi devono essere adattati alla memoria “nazionale”; i racconti delle vittime, così come quelli degli autori degli abusi, sono secondari alla narrazione più ampia richiesta dalla nazione, e sono necessari per la legittimazione dello Stato ricreato. Una dissonanza di racconti contrastanti (da parte sia degli autori che delle vittime) si risolve nell’armonia di una spiegazione approvata, e questa verità o tregua è la versione autorizzata; essa è dipendente dal potere, cioè dall’apparato giudiziario e dalla sicurezza del nuovo Stato, e grazie ad essa si può procedere alla concessione della riparazione e alla concessione o al rifiuto dell’amnistia. In Italia non è mai stato istituito un forum per la verità e la riconciliazione. La “Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” (o Commissione Stragi) non può essere definita come una commissione per la verità, per varie ragioni.7 In realtà, il documento sottoposto alla seduta conclusiva da uno dei suoi membri, Alfredo Mantica, un senatore di Alleanza Nazionale, con il sostegno del presidente della commissione, il senatore Giovanni Pellegrino, suggerisce una candida ammissione del fatto che la Commissione Stragi non aveva assolto a una funzione di unificazione; il documento era intitolato: “Il problema di definire una memoria storica condivisa della lunga marcia verso la democrazia nell’Italia post-bellica: un contributo dall’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica”.8 In assenza di una commissione per la verità che affrontasse il periodo degli anni di piombo, è possibile che la letteratura, la fiction televisiva, i documentari e il cinema abbiano svolto una funzione analoga? Certi testi sembrano rientrare nella definizione, o rivestire un ruolo che pare corrispondere alla prima e alla terza delle sottocommissioni della Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione. Il documentario sul terrorismo in più puntate La notte della repubblica di Sergio Zavoli, trasmesso su RAI1 nel 1989-90, mostra170

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va ex terroristi di destra e di sinistra in interviste lunghe, profonde e rispettose della dignità dell’ex terrorista. L’effetto era forte, in quanto tali rappresentazioni differivano intensamente dal ritratto demonizzante dei terroristi tipico della stampa e della TV. Per Caviglia e Cecchini le interviste di La notte della repubblica anticiparono il potente effetto delle sedute della Sottocommissione per l’Amnistia trasmesse in TV in Sudafrica. Già da prima si erano sentite le voci delle vittime, compresa quella dell’architetto Sergio Lenci che aveva pubblicato Colpo alla nuca nel 1988, un racconto dell’attentato subito da parte del gruppo Prima Linea nel 1980. Se fosse esistita una commissione per la verità e la riconciliazione, quella di Lenci sarebbe stata tra le storie sottoposte all’ascolto della sottocommissione per la violazione dei diritti umani. Allo stesso tempo, la sua è una narrazione che sarebbe stata necessariamente rivista secondo una più autorevole versione condivisibile degli eventi. Come ha affermato Bacic (2003): il racconto diventa una parte importantissima e sostanziale del processo [della commissione per la verità] riguardo all’input proveniente sia dalle vittime che dagli autori. Ma sarebbe ingenuo pensare che tali commissioni rispondano realmente alle esigenze e agli interessi delle vittime [...]. Ciò che è accaduto [alle vittime] rientra nel piano politico […]. La sofferenza diventa un tema “negoziabile”.

Nel suo testo centrale – scritto dallo stesso Lenci – Colpo alla nuca è una narrazione “eccentrica” che racconta la ricerca fallita o inconcludente di Lenci del significato del suo attentato e della motivazione dietro di esso: “Qui si tratta di fare luce sulla vicenda come è dovuto e possibile e di non accettare l’intrigo, la menzogna, l’omertà […] [l’] unica cosa che conta: sapere il vero retroscena dell’attentato” (Lenci 1988: 66). Prima del racconto di Lenci c’è una prefazione costituita da tre testi separati: il primo, una nota dell’editore che ci informa che il memoriale ha vinto un premio letterario, è seguito da una lettera scritta da un membro della giuria che ha attribuito il premio che riassume il testo di Lenci e rivolge alcuni interrogativi sul terrorismo al politologo Giorgio Galli. Segue la risposta di Galli, che a sua volta contiene abbondanti citazioni dal racconto dello stesso Lenci, per rifiutare, in definitiva, il senso dell’analisi della vittima. Questo materiale di prefazione costituisce una specie di “Guida alla lettura di Colpo alla nuca”. I testi si scusano per la natura esasperante e imbarazzante della ricerca ossessiva di Lenci, e cercano di incanalare la rabbia che emerge dal finale aperto della sua ricerca. Come una commissione per la verità, questi testi cercano di ricondurre l’eccentrica narrazione personale a 171

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una versione autorizzata e sancita; essi vogliono imporre quella tregua per la quale Lenci non ha tempo. Il film La seconda volta si ispira vagamente al libro di Lenci, e conserva il fatto straordinario, raccontato dall’autore, che la pallottola conficcata nel cranio dopo l’attentato fallito non è mai stata asportata. La seconda volta narra del “secondo” e dei successivi incontri di Alberto Sajevo, interpretato da Nanni Moretti, e Lisa Venturi, colei che avrebbe dovuto ucciderlo, nella quale si imbatte per caso mentre lei si trova in libera uscita dal carcere per andare al lavoro. Nel film, Alberto compra e legge un altro memoriale, A viso aperto (Curcio 1993): un libro-intervista non a una vittima ma a uno dei capi storici delle BR, Renato Curcio. Con il sottofondo della voce di Nanni Moretti che legge alcune parti del testo di Curcio, la vittima è rappresentata in atteggiamento statico, mentre si allena senza alcuna gioia su una cyclette, simbolicamente fissato alle circostanze che hanno portato al suo tentato omicidio, e alle ideologie dietro di esse.9 Nel film, le parole e la presenza dell’interlocutore di Renato Curcio sono cancellate. La seconda volta esagera dunque il grado di monovocalità (e l’impressione di arroganza o di autoinganno) del testo di Curcio (Bruni 1995: 48), per rafforzare il confronto tra le prospettive opposte della vittima e dell’autore messe in scena nel film, e anche per non sottovalutare le difficoltà di un simile incontro. In realtà, l’irrisoluzione narrativa del film suggerisce che non si può (ancora?) raggiungere una narrazione nazionale sopra le parti, né una tregua, che superi le versioni individuali della vittima e dell’assassino (Lombardi 2000a: 201, 210). Le frontiere dell’Italia L’attentato al personaggio di Alberto Sajevo risale a una decina di anni prima degli eventi descritti in La seconda volta (ambientato all’inizio degli anni ’90), quando Alberto si occupava dei licenziamenti alla FIAT. Dopo essere sopravvissuto all’attentato, non ha mai acconsentito alla rimozione della pallottola dal cranio – un fatto che necessita di una lettura allegorica. Come già detto, il film è in parte basato su un memoriale, Colpo alla nuca (1988) dell’architetto Sergio Lenci, cui era stato sparato un colpo in testa dal gruppo Prima Linea nel 1980, apparentemente a causa della sua attività come progettista di carceri (era stato il direttore dei lavori nella costruzione del carcere di Rebibbia). Lenci, come Alberto Sajevo, era un docente universitario (morto nel 2001), ma a differenza di Alberto non aveva avuto scelta per quanto riguarda la rimozione della pallottola dal cervello. Se, nel caso di Lenci, il consiglio medi172

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co era stato di lasciare la pallottola nel cranio, nel film è Alberto a non volerne la rimozione; il personaggio è emblematico di una società italiana che non ha superato i postumi degli anni di piombo (Orton 2000: 307). Gli eventi narrati da Sergio Lenci in Colpo alla nuca si svolgono a Roma; La seconda volta, invece, è ambientato a Torino. La città è fotografata prevalentemente nei suoi toni invernali dell’azzurro e del grigio che connotano il quotidiano della vita cittadina che verrà interrotto da un passato traumatico.10 L’eruzione del passato represso nelle vite dei protagonisti è associata all’esperienza della città stessa (o della città in quanto tale) nel cognome della vittima, Sajevo, che richiama Sarajevo, la città bosniaca che negli anni dell’uscita del film era sotto assedio da ormai quattro anni. Il dolore e il trauma individuali si identificano nell’esperienza traumatica di una città terrorizzata, ma l’associazione può anche essere invertita; il dolore individuale sta per quello della città: anch’esso porta le ferite nascoste di un trauma a malapena represso.11 Il trauma di Torino potrebbe essere descritto come la storia stessa, e in particolare gli scontri violenti, compreso il terrorismo, emersi dalle battaglie nelle fabbriche. Se Torino è il cuore del capitalismo italiano, e la FIAT stessa è stata descritta come “uno stato dentro lo Stato”, è anche vero che la città è stata centro di organizzazione e di pensiero socialista. Le lotte operaie presso la FIAT sono state spesso accompagnate da violenza spontanea come forma di protesta – un tipo di violenza che era stata tradizionalmente vista come autentica e valida da aree della sinistra italiana. Questo tipo di protesta violenta era uno dei contesti in cui verso il 1970 era nata la lotta armata. L’altro contesto da cui derivava questa lotta erano le tendenze estremiste nelle università; e Lisa, il personaggio della terrorista in La seconda volta, abbandona gli studi universitari per diventare una militante politica clandestina. Da questa congiunzione derivano le motivazioni per l’assassinio esemplare, cioè terroristico, di Alberto Sajevo. Il film, naturalmente, non presenta questo tentato omicidio come giustificabile, ma riconosce (con tutto il rispetto per il dietrologismo di Sergio Lenci nel suo memoriale) che la motivazione per l’attentato fosse la responsabilità di Alberto nei licenziamenti in un periodo di aspri conflitti alla FIAT, quando l’azienda lasciò migliaia di persone senza lavoro, assicurandosi che tra i licenziati ci fossero tutti gli attivisti di primo piano. Il fallimento della resistenza operaia ai piani della FIAT fu indice della sconfitta del movimento operaio in Italia (Ginsborg 1990: 402-5; 2001: X). Il passaggio dalla Roma di Colpo alla nuca alla Torino di La seconda volta permette di evocare questa storia di lotte e conflitti, e consente ai due protagonisti di essere immaginati come vittime di quella storia.12 173

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Un’ulteriore differenza tra il memoriale di Lenci e la storia presentata in La seconda volta è il sesso dell’assassino. Il gruppo che cercò di uccidere Sergio Lenci nel suo studio di architetto comprendeva una donna, ma non fu lei a sparare. Nel film, quella che sarebbe dovuta essere l’assassina non solo è una donna, ma le viene fatto dire espressamente che è stata lei a scegliere di brandire l’arma. Ci sono diverse ragioni per cui gli autori possono avere operato questo cambiamento. Una ha a che fare con l’iconografia ereditata del combattente della Resistenza: perlomeno in termini iconografici, l’eroe partigiano è invariabilmente maschio, e i membri della Resistenza erano in effetti designati come terroristi, anche se solo dai loro nemici. Il film Il terrorista (Gianfranco De Bosio, 1963) reclama questa etichetta per il suo stoico protagonista, interpretato da un risoluto Gian Maria Volonté, con una sorta di orgoglio paradossale. Una simile iconografia è sufficientemente forte da sopravvivere in film più recenti: in Ogro (Gillo Pontecorvo, 1979, con nuovamente Volonté nel ruolo del leader terrorista) o in La mia generazione (Wilma Labate, 1996), l’iconografia del partigiano/terrorista come risoluto e fatalista, e certamente maschio, riemerge più o meno intatta. Tale iconografia è elusa in La seconda volta rendendo il terrorista al femminile, evitando così allo stesso modo l’immagine di sé del terrorista degli anni di piombo come un partigiano contemporaneo.13 Allo stesso tempo, la convinzione diffusa che la violenza per mano di una donna sia meno “naturale” della violenza compiuta da un uomo dà nel film all’incontro tra l’ex terrorista e la sua vittima un corso particolare. Ruth Glynn (in pubblicazione nel 2008) scrive che “le terroriste capovolgono la norma sociale ampiamente accettata secondo cui le donne sono le vittime degli uomini violenti. Con le terroriste, invece, troviamo che se gli autori sono donne, le loro vittime sono quasi esclusivamente uomini”. La Glynn illustra “il significato psicologico di [tale] distorsione dell’ordine sociale” con una citazione da Colpo alla nuca in cui Sergio Lenci medita sulla propria percezione della donna che faceva parte del gruppo che cercò di ucciderlo: Una donna […] ti ferisce due volte rispetto all’uomo. In fondo la donna – sia essa madre, moglie, amante – per un uomo è sempre oggetto di dialogo, di scambio, di potenziale desiderio e integrazione […]. Una sconosciuta che ti vuole uccidere non si sa perché e senza nemmeno rivolgerti la parola […] offende l’uomo più di quanto non facciano gli altri aggressori maschi. (Lenci 1988: 130)

La Glynn sostiene che le parole di Lenci suggeriscano che la “doppia ferita” inflitta da una donna sia strettamente legata alla psicologia eterosessuale del174

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l’uomo: la donna, quindi, è “madre, moglie, amante” e oggetto dei suoi “desideri”. La studiosa suggerisce che l’uso della parola “offende”, “punti in direzione di qualcosa che Lenci non può arrivare a esprimere: una sorta di evirazione simbolica”. La sensazione, che è implicita in Lenci, che l’atto violento di una donna nei confronti di un uomo sia anche un atto di violazione sessuale è cautamente suggerita in La seconda volta. Possiamo, ad esempio, dedurre che il titolo del film voglia richiamare alla mente l’idea della “prima volta”, ossia della perdita della verginità. E che, naturalmente, la “seconda” volta del titolo possa ben richiamare l’idea di Lenci della “seconda” ferita inflitta dalla donna. Il fatto stesso che la violazione fisica dello sparo sia una sorta di penetrazione, con il proiettile ancora collocato nel corpo dell’uomo, indica una sottostruttura di violento simbolismo sessuale.14 A ragione, Fittante (1996: 52) inserisce La seconda volta nella tradizione di film come La morte e la fanciulla (Roman Polanski, 1994) e Il portiere di notte (Liliana Cavani, 1974), in cui l’intimità tra chi compie la violenza e chi la subisce è figurata in termini sessuali, e la relazione di potere è invertita nel loro “secondo” incontro (vedi anche Avellino 1995: 38). La seconda volta incoraggia sottilmente lo spettatore ad attendere una risoluzione della dialettica vittima/assassino nei termini della sintesi fisica del coito; in realtà, il film irride al nostro desiderio di una simile evoluzione nella scena in cui la sorella e il cognato di Alberto scherzano sull’idea che egli possa andare a letto con quella che sarebbe dovuta essere la sua assassina (Orton 2000: 310).15 Il suggerimento di una risoluzione di quel tipo è parte di una strategia narrativa che incoraggia aspettative generiche che alla fine vengono disattese, strategia che è essa stessa parte di una promessa più ampia di godimento che poi viene negato allo spettatore. Il film non contiene niente del sesso implicitamente promesso; esso ha una fine ambigua, che lascia persino perplessi; manifesta un atteggiamento ambivalente verso i due protagonisti, che si rileva anche in termini formali;16 inoltre, presenta un’agnizione anticipata, che ha luogo proprio a metà del film, dopo la quale la trama vira bruscamente e, dal punto di vista della godibilità per lo spettatore lasciato con un senso di anticlimax, in modo piuttosto frustrante. Secondo i termini aristotelici, che rimangono dominanti nella tecnica narrativa del cinema, La seconda volta rappresenta un cinema “brutto”, o perlomeno insoddisfacente. Non si tratta di inabilità, ma di una strategia formale e politica deliberata; gli autori disattendono o sovvertono intenzionalmente gli standard secondo cui un testo narrativo deve convenzionalmente essere giudicato bello o brutto.17 Per illustrare i mezzi e i fini di questo sovvertimento della narrazione cine175

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matografica convenzionale analizziamo la prima comparsa di Lisa e la scena del riconoscimento prematuro. Ho già affermato che La seconda volta ha in comune con Colpire al cuore (Gianni Amelio, 1982) una sequenza ritenuta archetipica del cinema narrativo, in cui un personaggio maschile “investiga” e segue una donna per la città (Mulvey 1992). Nel film più vecchio, l’adolescente Emilio segue la compagna di un terrorista morto fino alle case popolari di periferia dove lei abita. È probabile che gli sceneggiatori e il regista di La seconda volta avessero in mente questa scena quando ne crearono una simile.18 Alberto Sajevo, dopo aver visto Lisa Venturi, colei che avrebbe dovuto ucciderlo, passa un pomeriggio a seguirla fino a casa – che poi si scopre essere il carcere dal quale può uscire ogni giorno per andare al lavoro. Entrambe le sequenze terminano sul limitare della città: la sceneggiatura di La seconda volta (Bruni e Schleef 2005) parla del carcere come di “un’isola di luce nell’oscurità di quella periferia”; e in entrambe le sequenze il ragazzo e l’uomo diventano quasi dei detective e dei molestatori che investigano cercando di risolvere voyeuristicamente l’enigma della donna misteriosa. Quando Alberto vede per la prima volta e segue Lisa, lei ha indosso un soprabito vistosamente rosso che contrasta nettamente con le tinte blu e grigie che dominano nel film.19 La simbologia del colore stigmatizza il personaggio, lo caratterizza fuori da ciò che lo circonda come, in termini convenzionalmente cinematografici, oggetto colpevole e degno delle attenzioni di Alberto (Lombardi 2000a: 203). Tali attenzioni si rivelano essere sadiche, e sono rappresentate dall’intenso sguardo di Alberto alla tobe-looked-at-ness20 di Elisa, per usare la nota espressione di Laura Mulvey. Alberto si mette a seguire la sua mancata assassina in un corteggiamento reso sinistro dal fatto che noi, a differenza di lei, sappiamo che cosa li unisce (informazione che ci viene da un ritaglio di giornale sul processo a Lisa che Alberto consulta dopo averla seguita per la prima volta). Quando si parlano, lei non riconosce la sua vittima, e lui all’inizio non si identifica. L’effetto, come ho detto, è quello di rendere la vittima, Alberto, una figura sinistra di molestatore, e incominciamo ad aspettarci una punizione della mancata omicida nei termini di un incontro sessuale che si configuri come una sorta di stupro. Se c’è un godimento in questo per un ipotetico spettatore, esso è il godimento sadico, identificato dalla Mulvey (1992: 29), di verificare la colpevolezza della donna, e di “stabilire il controllo e assoggettare la colpevole attraverso la punizione o il perdono”. Ma il sadismo di Alberto, e il progredire della stessa narrazione, viene bruscamente interrotto quando, nella scena del riconoscimento prematuro, Alberto rivela a Lisa la propria identità mentre lei aspetta il treno che la porterà a Bologna dalla sua famiglia per un permesso del fine settimana, la 176

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prima visita di questo tipo che le viene concessa.21 Sconvolta, Lisa torna invece al carcere: il processo di reintegrazione nella famiglia e nella società è quindi arrestato dalle attenzioni sadiche della vittima originaria, e Lisa diventa in certo modo oggetto della nostra simpatia. Se gli autori di La seconda volta riescono a creare e poi a disattendere delle aspettative legate ai ruoli di sesso e alla struttura narrativa, sono naturalmente in grado di farlo perché tali ruoli, così come le convenzioni narrative, sono così familiari nell’ambito della tradizione letteraria e cinematografica. Queste convenzioni hanno anche le loro storie specifiche entro contesti nazionali diversi; il rifiuto di queste modalità è quindi un atto politico. In La seconda volta, il rifiuto dei modi convenzionali mette in discussione la caricatura stereotipata del terrorista; il film rifiuta un ritratto che tenta di negare le motivazioni politiche di coloro che praticano la violenza terroristica. La seconda volta si colloca criticamente in una tradizione italiana recente nei media e nella letteratura, se non nel cinema, di rappresentare la figura del terrorista come “altro”, e di rappresentare la terrorista donna in particolare come dotata di una “eterosessualità sempre disponibile” (Allen 1997: 68). In uno studio sulla letteratura degli anni di piombo, la Allen dimostra che i singoli terroristi tendevano a essere rappresentati come gli autori sessualizzati e psicanalizzati del terrorismo degli anni di piombo, piuttosto che come persone che vi hanno preso parte dall’interno con delle motivazioni politiche. È questo il contesto in cui Lisa Venturi è innanzitutto marchiata come sospetta e come “altra”, solo perché alla fine il film possa negare questo significato. Tale negazione è, per estensione, un rifiuto politico da parte degli autori dell’esclusione dell’ex terrorista dalla nazione, tipicamente consolidato nella tradizione come una specie di esule figurato.22 Alla fine dell’inseguimento iniziale di Lisa, la donna colpevole, da parte di Alberto, i protagonisti arrivano all’“isola di luce nell’oscurità della periferia”, la prigione oltre il limite della città.23 Questa prigione sta a indicare il suo esilio interno. Così, l’unico esempio di attribuzione di un nome a un luogo presente nel film – messa alle strette da Alberto, Lisa dice il nome della via dove si trova il carcere – è l’identificazione di uno dei confini metaforici della nazione. La prigioniera vive in esilio oltre il corpo della nazione, ma è ancora soggetta alle leggi dello Stato. Dopo un inconcludente ultimo incontro finale tra i due protagonisti, Alberto decide infine di partire per l’operazione che gli rimuoverà la pallottola dal cranio. L’ultimo paradosso del film è che l’operazione deve essere eseguita oltre i confini dell’Italia – oltre i suoi confini in senso letterale questa volta, in Germania. Ci possono essere diverse possibili interpretazioni di questo detta177

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glio, ma il dato “Germania” è meno importante del dato “non in Italia”: in altre parole, Alberto abbandona il suo ruolo di monumento fisico vivente agli anni di piombo, ma questo non è un punto d’arrivo condiviso dalla nazione da lui rappresentata. Lisa ritorna in carcere, avendo rinunciato a lavorare in città. Non c’è alcuna reintegrazione dell’ex terrorista nella società, né il raggiungimento di una terza lingua che superi il suo linguaggio e quello della vittima. Infine, nessuno dei due linguaggi, quello della violenta attivista né quello della vittima della violenza, ha una rappresentazione corretta nell’economia politica dell’Italia contemporanea: Alberto, come Lisa, è esiliato dalla nazione. “Non se ne esce mai, dal passato” Scrivendo sulle pagine de L’Unità nel dicembre del 1997, Carol Tarantelli, vedova di Ezio Tarantelli, l’economista ucciso dalle BR nel 1985, espresse un disagio che è importante nel contesto del dibattito: Io penso che, quando molti parenti dicono di aver paura che quel che è successo finisca nel dimenticatoio, essi evochino non solo una prospettiva possibile, ma addirittura si riferiscano ad una prospettiva verso la quale in Italia si sta già tendendo. Tutto il paese non ha cercato di elaborare quello che è accaduto. (Lombardi 2000a: 200)

Lombardi (2000a: 199) ha affermato che la concessione dell’indulto agli ex terroristi avrebbe rappresentato una fine simbolica dello “stato di emergenza” (e quindi anche degli anni di piombo), in altre parole del periodo in cui alle persone accusate di reati definiti come terroristici venivano comminate pene più aspre. Come dimostrano le parole della Tarantelli, comunque, una simile fine dello “stato di emergenza” avrebbe riguardato soltanto l’aspetto giudiziario. Le sue parole suggeriscono il bisogno sentito di un forum come una commissione per la verità, in cui le vittime potessero essere ascoltate e si potesse dare alle loro memorie un riconoscimento ufficiale e nazionale; invece, “il paese non ha cercato di elaborare quello che è accaduto”. Come abbiamo visto, alcuni studiosi hanno descritto i film di fiction nel loro tentativo di effettuare una simile elaborazione di un passato violento che altrimenti mancherebbe dalla sfera pubblica. Usare la metafora di una commissione per la verità per descrivere l’operazione dei testi di fiction equivale a lasciare intendere che tali testi contribuiscono a una narrazione condivisa di un passato traumatico che sia una forma di memoria nazionale, e che tale contributo è dato dal fatto che i film costituiscono una sorta di forum in cui si possano ascoltare diversi 178

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punti di vista. Nella sua descrizione di un gruppo di film, che comprende La seconda volta e La mia generazione (cui io aggiungo, in questa sezione, Vite in sospeso e I riconciliati), come “cinema dell’indulto”, Lombardi (2000b: 191; prossima pubblicazione 2008) sostiene, invece, che i testi menzionati forniscono un “unico” punto di vista al servizio di una memoria “settoriale”. La mia generazione è ambientato nel 1983 e racconta del tentativo da parte di un capitano dei Carabinieri di persuadere il terrorista in carcere Braccio a fornire informazioni sui suoi ex complici (si trova già in prigione da cinque anni). Braccio viene accompagnato su un furgone blindato dalla Sicilia a Milano dove per un mese la sua ragazza, che non vede da tre anni, potrà andare a trovarlo. Solo arrivato alla periferia della città scopre che queste visite sono funzionali all’eventualità che sia disposto a dare informazioni sui compagni; poichè rifiuta di collaborare, è chiaro che verrà riportato in Sicilia senza averla vista. Come sottolinea Uva (2007: 83), il film ha in comune con La seconda volta il motif dell’inganno a spese dell’ex terrorista, che in questo modo assume alcuni aspetti della vittima. In La mia generazione l’inganno può essere percepito come maggiormente riprovevole in quanto praticato dallo stesso Stato, e non da una vittima reale che abbia subito un trauma. La duplicità di coloro che lo tengono in detenzione sottolinea la nobiltà del terrorista, e c’è un orgoglio virile nel suo rifiuto del ricatto morale (Fantoni Minella 2003: 117). Non c’è modo di piegare il risoluto, anche se fatalista, personaggio di Braccio; né viene seriamente presa in considerazione la questione della sua “colpa”. Ci viene detto che non c’è stata nessuna prova durante il processo del fatto che abbia eseguito lui l’attentato per cui è stato incarcerato. La vera preoccupazione del film è il significato della condanna di Braccio a ulteriori venticinque anni fuori dalla nazione in un carcere siciliano. Il suo destino è associato a quello di altri come lui, considerati criminali comuni, e allo stesso Paese, presente attraverso il collage di cittadine e di periferie anonime man mano che il road movie procede verso il nord, rivelando in ogni punto una “trascuratezza della ‘patria’”(Wood 2005: 196).24 Il film è una storia intimistica costruita, per buona parte della sua durata, con primi piani e teste di gente che parla dentro il furgone blindato che trasporta Braccio e, per parte del viaggio, anche un altro detenuto, un ladro di nome Concilio. Vale la pena di analizzare la costruzione di una di queste scene, una discussione sulla politica e sulla lotta armata. Concilio apre il dialogo, mentre viene osservato dall’altra parte delle sbarre che lo separano dal capitano e da un suo giovane sottoposto. La cinepresa oscilla in una panoramica velocissima tra i due detenuti: 179

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Concilio: Il problema vostro è che non avete mai pensato al popolo. Il popolo non vi capisce, non sta con voi. Braccio: Il popolo non c’entra niente. In Italia c’è la gente e la gente non sta con nessuno. [dialogo trascritto dal film]

I due prigionieri sono visti, attraverso le sbarre, dalla prospettiva dei Carabinieri, cioè dello Stato (come dice Braccio, “non lo vedi che è un Carabiniere, non lo vedi che è lo Stato!”), mentre la whip pan25 stabilisce un legame tra il prigioniero politico e il detenuto comune. Il film infatti non pone l’accento sullo stato di incarcerazione degli ex terroristi, ma semmai sulle terribili condizioni di vita nelle carceri italiane. In un momento precedente, Braccio ascolta un compagno di cella (un altro ladro) lamentarsi per le condizioni dentro il carcere, e lo accusa sarcasticamente di parlare come un “politico”. Sembra che sotto lo sguardo dello Stato i due soffrano allo stesso modo. Man mano che va avanti lo scambio tra i detenuti e il capitano, vediamo varie inquadrature del giovane carabiniere che rimane zitto. Il suo è un bel viso aperto, anche se la sua impassibilità consente a chi guarda di leggerci le proprie reazioni. Il giovane militare (uno Stefano Accorsi agli esordi in una parte dove quasi non parla), visto da un’impossibile angolazione nell’angusto interno del furgone, rappresenta lo spettatore ed enfatizza il fatto che questo dialogo è indirizzato a un pubblico. Allo spettatore è richiesto di non essere uno degli indifferenti, uno tra “la gente” di cui parla Braccio, ma di farsi coinvolgere, come suggerisce Lombardi, nel dibattito sull’indulto. Lombardi (2000b: 194) ritiene che La mia generazione mostri i propri “limiti” in questo intento perlocutivo di “agire sullo spettatore”. Due dei cosceneggiatori, Paolo Lapponi e Andrea Leoni, prima attivisti di Potere Operaio e poi membri delle Unità Comuniste Combattenti, furono arrestati nel 1982 e condannati a trenta anni per reati con finalità terroristiche (Uva 2007: 83). Il film, comunque, non è un documento sulla vita del protagonista nella lotta armata; è invece il racconto malinconico dell’opinione dello Stato su quella vita. Il suo obiettivo è di persuaderci del fatto che il destino di Braccio è potenzialmente il nostro. Braccio è spesso indicato come un “politico”, ma la sineddoche contenuta nel suo nome suggerisce che sia uno strumento di forze più grandi di lui, e Braccio non descrive le sue motivazioni per essersi fatto coinvolgere nella militanza politica. Sandro Mauro (1996: 51) scrive: “Braccio è un ‘politico’ perché questo fa parte degli elementi dati del film, delle sue premesse-attese, ma la sua essenza politica è fiaccata fino alla sterilità”. Mauro vede questa sterilità come una debolezza del film stesso, ma si potrebbe suggerire che l’effetto sia 180

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intenzionale. Il film sostiene che Braccio e quelli come lui siano stati effettivamente allontanati dalla vita politica della nazione, dimenticati dallo Stato come dagli altri cittadini. Il tema è annunciato all’inizio del film nella conversazione tra Braccio e il suo compagno di cella. L’altro carcerato racconta di un piano di protesta che deve essere attuato semplicemente “per farci sentire”, nonostante il fatto che loro sappiano che la protesta non avrà alcun esito e sarà repressa brutalmente. Braccio commenta: “Io non ti capisco. Facevi il ladro, il rapinatore. E adesso parli come se fossi un politico”. Entro la metà degli anni ’90, quando fu girato La mia generazione, una persona come Braccio sarebbe stata chiusa in carcere per almeno dieci anni; e, così come il titolo insiste sull’identificare una generazione con l’isolamento di Braccio, il suo destino fu lo stesso di molti. La Sicilia, nella simbologia del film, è presentata come un luogo di esilio interno. Sull’isola, distante dalle grandi città del nord: la prigione sigillata. Dentro la prigione, un cancello di ferro dopo l’altro separano i militanti come i criminali comuni dalla società e dalla nazione. Il film è una protesta: un appello alla reintegrazione della “mia generazione” nella società italiana in generale, e di certo un appello all’indulto. Come scrive Lombardi (prossima pubblicazione 2008), il film sostiene che “non ci sono più terroristi, ma solo ex terroristi, dei quali non bisogna più aver paura”. Fantoni Minella (2003: 117) ha ragione a ravvisare in La mia generazione una “tesi pessimistica, tuttavia verosimile, dell’impossibilità di comunicazione tra figure diverse e politicamente contrapposte”. Per Marco Turco, regista e cosceneggiatore di Vite in sospeso (1998), il problema di La seconda volta e La mia generazione è esattamente che i terroristi non comunicano e non danno spiegazioni (Uva 2007: 250). Il film si basa, invece, sul far raccontare agli ex terroristi le loro azioni passate.26 Ambientato alla fine degli anni ’80, esso ritrae un gruppo di ex attivisti e protagonisti della lotta armata mentre vivono un difficile esilio tenendosi in stretto contatto tra loro nonostante le nuove vite convenzionali che si sono creati. Questo equilibrio precario è disturbato quando Jacopo, un giornalista, arriva da Roma con suo padre per assistere al matrimonio di Dario, il suo fratellastro maggiore che, come scopre Jacopo, aveva ucciso un industriale durante gli anni di piombo. L’ingenuo Jacopo decide di realizzare un documentario sul gruppo di esuli: Io voglio darvi l’occasione di parlare in prima persona in modo che la gente vi conosca come siete veramente. Io voglio raccontare come vivono delle persone che hanno un conto aperto con la giustizia e non possono più tornare nel loro paese e sono costrette a vivere in un altro.

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Le interviste realizzate da Jacopo (di cui vengono mostrati dei pezzi) ricordano non solo il documentario per la RAI dello stesso Marco Turco Vite sospese (1996), ma anche le interviste agli ex terroristi in La notte della repubblica. Gli attivisti e i militanti sono incoraggiati a raccontarsi sullo schermo, e il film cerca di riaffermare l’umanità del terrorista. Gli esuli diventano però paranoici e rifiutano di collaborare, sospettando che Jacopo sia una spia dello Stato italiano. La paura non consente loro di ritornare sul proprio passato e raccontare le proprie esperienze. Il loro esilio è dunque altrettanto simbolico quanto storicamente credibile: sono esiliati dalla loro stessa gioventù come lo sono dalla nazione in cui l’hanno trascorsa, e la richiesta di Jacopo di capire viene frustrata, persino rifiutata: l’elaborazione della memoria appare prematura per coloro che hanno “un conto aperto con la giustizia”. Caviglia e Cecchini (prossima pubblicazione) hanno suggerito che “la recente rinascita del terrorismo di sinistra potrebbe non essere estranea alla mancanza di una elaborazione collettiva, che ha reso possibile per alcune frange marginali considerare gli ex terroristi come eroi da imitare”. Questa potenziale romanticizzazione della lotta armata da parte delle generazioni più giovani sembra essere uno dei temi di I riconciliati, sebbene il film stesso ricada proprio in questa romanticizzazione. I riconciliati è ambientato in un weekend autunnale agli inizi del nuovo secolo, e si apre con la scena in cui un adolescente è inseguito tra la vegetazione da altri giovani, e pare che gli sparino. “Che gioco cretino”, commenta un gruppo di ragazzi più giovani che osservano, e scopriamo che è stato uno scherzo fra ragazzi con una pistola giocattolo. Ma l’arma finta riappare più avanti in mano a una delle ragazze più giovani, quando fa irruzione in una stanza affollata dove i suoi genitori e i loro amici stanno discutendo del loro passato comune come militanti politici (è la scena centrale del film): “Mani in alto!” grida all’assemblea gettandola nello sgomento. La ragazza è la figlia di Malena, una vittima della dittatura militare argentina, che è fuggita in Italia una ventina di anni prima, dopo che il regime aveva ucciso la sua famiglia e il suo compagno. Nella stanza è presente anche Roberto, cui è appena stata concessa la scarcerazione dopo aver scontato diciotto anni per l’omicidio di un giudice. Il contesto politico del film è reso esplicito quando Roberto, intervistato in TV l’indomani sera, viene presentato dal conduttore: Noi vorremmo che questa fosse un’occasione di parlare dei tanti che sono ancora in carcere a distanza di quindici e anche di vent’anni dalla condanna perché, in una società democratica come la nostra, il parlamento deve poter trovare una

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soluzione per loro. L’indulto di cui tanto si parla in questi giorni è un provvedimento che per essere realizzato ha bisogno della più ampia convergenza delle forze politiche.

I riconciliati è un film “tardivo” in quanto risponde a film realizzati nel decennio precedente – specialmente La seconda volta, che mostra l’esasperazione della vittima per il fatto che i terroristi sono diventati voci rispettate, autori celebri. Roberto, il terrorista rimesso in libertà, insiste sul fatto che parlerà, sì, ma che potrebbe persino scrivere un libro, e che la sua esperienza avvalora tale corso. Di fatto il suo ritorno è illustrato, senza ironia, come il ritorno a casa del “migliore di noi”. Malena è il centro morale del film grazie alla sua sofferenza e a un accesso privilegiato concesso alla sua soggettività, che non è consentito a nessun altro personaggio (il film visualizza uno dei suoi incubi): lei accusa suo marito e gli altri del loro circolo di parlare solo di ciò che Roberto ha effettivamente compiuto. Malena loda il coraggio di Roberto, ma afferma anche la responsabilità collettiva per le azioni commesse in passato. Fra i film di cui si è finora parlato in questo capitolo, I riconciliati è quello articolato secondo un’angolatura più ristretta e un punto di vista più settoriale. Questo aspetto si rivela nel paragone, pieno di autocommiserazione, della situazione della sinistra extraparlamentare italiana con quella dei desaparecidos e delle persone torturate dalla dittatura militare argentina.27 La nostalgia contenuta nel tema del film, così come è espressa da uno dei personaggi, costituisce anche una forma di autocongratulazione: “Il disagio di ciò che eravamo e il dolore di non esserlo più”. I riconciliati merita ancora di più l’osservazione di Uva (2007: 84) a proposito di La mia generazione, cioè che prende “la forma della lamentazione, della sterile autoflagellazione generazionale […]. Sembra di rivedere la grandiosa scena del ‘film italiano’ generazionale che Nanni Moretti ricostruisce in Caro diario”. In ultima analisi, I riconciliati è, nella sua presentazione narcisistica, altrettanto pessimistico quanto gli altri film di cui abbiamo parlato. Nessuna riconciliazione col passato, che consentirebbe a quel passato di decantare, pare probabile, e il gioco ambiguo della ragazzina con la pistola appare sinistro alla luce della domanda che Roberto rivolge a Malena e della sua cupa risposta: “Come si esce dal passato?” “Non se ne esce mai”. Tale affermazione non suona come sincera, comunque, se consideriamo che viene espressa in un film che mescola così tanti contesti in un mélange storico talmente indefinito. I titoli di testa e una sequenza che chiude il film sono immagini di archivio inserite che mostrano, tra le altre cose, manifestazioni nelle strade italiane, lo smantellamento del muro di Berlino, la Guerra del Vietnam, bambini africani denutriti, il ritrovamento di cadaveri di 183

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desaparecidos argentini e soldati-bambini palestinesi che si esercitano (l’ultima sequenza, e il film stesso, termina con il flash di un primo piano di quei bambini che puntano un fucile su una cinepresa, con il rumore dei proiettili nel sottofondo).28 Questa accumulazione di circostanze ed eventi sembra sperare di stabilire un legame tra di essi (il capitalismo internazionale? L’imperialismo?), ma in assenza di un’analisi o di un contesto le immagini di bambini armati possono apparire non tanto come un lamento o un’accusa quanto come un nuovo, anche se incoerente, richiamo alle armi.

Il terrorista e l’Ulivo Impegno e sentimentalismo La miniserie della durata di sei ore La meglio gioventù, girata per la RAI nel 2002 (ma trasmessa solo nel 2003), e successivamente mostrata sul grande schermo in due parti, è una saga familiare costruita intorno alla vicenda di due fratelli, e copre un periodo che va dalla metà degli anni ’60 alla fine del ventesimo secolo.29 In questo senso, come commenta Leonardo Cecchini (2005: 3024), non si tratta di un film “sugli” anni di piombo. Ma attraverso il personaggio di Giulia, la compagna di uno dei due fratelli, Nicola, madre di sua figlia, che scappa per unirsi alla lotta armata clandestina, La meglio gioventù affronta il tema del terrorismo nella famiglia (nazionale) della sinistra, e ne ritrae il recupero parziale all’interno della famiglia stessa negli ultimi anni della storia. Sul piccolo schermo italiano La meglio gioventù ha attirato quasi otto milioni di telespettatori, provocando ampia discussione e persino la celebrazione sulla stampa, con una rivista non specificamente di cinema, Il diario del mese, che ha dedicato un numero intero agli eroi della generazione rappresentata nel film.30 Ciò che mi riprometto di fare ora è di analizzare La meglio gioventù come film d’impegno per collocare il ritratto del terrorismo che esso propone in quanto parte del richiamo rivolto dal film a un elettorato – ossia a un pubblico concepito come gruppo politico. D’altro canto, sono stati in molti ad accusarlo di un sentimentalismo che potrebbe escluderlo dalla tradizione del cinema d’impegno, che ci rimanda indietro a Paisá (Roberto Rossellini, 1946) passando per Salvatore Giuliano (Francesco Rosi, 1961) solo per andare a smorzarsi, secondo alcuni critici, nell’era craxiana (Mazzola 1998: 111-114; Hope 2003: 11-13). David Forgacs (2004) ha commentato a proposito di La meglio gioventù: 184

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Se il film evita la trappola del semplice racconto basato sul fratello buono e il fratello cattivo, non riesce però a sfuggire a una scivolata, specialmente nella seconda parte, in un sentimentalismo che attenua il contorno politico del racconto di una generazione che si adatta a una società che non è riuscita ad essere all’altezza delle proprie aspirazioni.

Mettiamo ora in discussione l’affermazione di Forgacs secondo cui il sentimentalismo (peraltro innegabile) contenuto in La meglio gioventù, un aspetto che indica chiaramente il rivolgersi a un pubblico middlebrow,31 ritarda lo slancio politico che ha creato. Molti studi critici sull’impegno hanno messo in rilievo la difficoltà o la sfida che un testo politicamente impegnato dovrebbe rappresentare per lo spettatore (Eco 1962). La meglio gioventù non rappresenta una sfida di questo tipo; si potrebbe davvero sostenere che i mezzi convenzionali utilizzati indichino che il film si presenta come un testo consolatorio. Si potrebbe notare una correlazione tra quei testi “bestseller” (i romanzi di De Carlo e di Tondelli) studiati da Jennifer Burns nell’ambito della sua discussione sulla frammentazione dell’impegno negli anni 1980-2000 (vedi Burns 2001: 8, 116, 184-5), in cui afferma che gli scrittori coltivano deliberatamente la mediocrità. Per alcuni, questi testi middlebrow sono automaticamente esclusi dalla categoria dell’impegno perché appartengono a una tipologia di testi “che non rappresenta nelle sue forme e contenuti alcuna sfida seria alla percezione che un lettore può avere di essa e della società in cui vive” (Burns 2001: 8). Tuttavia possiamo forse creare un nesso tra la politica contenuta in La meglio gioventù e il suo sentimentalismo, e considerare le due cose come essenziali una per l’altra, e verificare in quale misura il progetto di recupero dell’ex terrorista è favorito o compromesso dall’associazione dell’elemento politico con quello sentimentale. Definire l’impegno Nel descrivere i contesti dell’impegno nella cultura letteraria italiana del Dopoguerra, Jennifer Burns (2001) individua nell’impegno un elemento che è costantemente presente nel processo di ridefinizione (pp. 1-10). Ciò nonostante, è utile incominciare con un paio di definizioni per collocare l’analisi di La meglio gioventù e dei suoi predecessori nel cinema d’impegno. Anche se io affermerei che la storia dell’impegno si racconta meglio come storia nazionale, Schalk (1979: 25) offre una definizione generica di “impegno” nel contesto francese che è utile per un raffronto con un’autorevole definizione italiana:

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Possiamo definire l’engagement come l’azione politica o civile di un intellettuale che si sia reso conto che l’astensione è uno stratagemma, un arrendersi allo status quo, e opta per la scelta consapevole e intenzionale di entrare nell’arena, senza mai abbandonare il proprio giudizio critico.

La definizione di Schalk deve molto al noto saggio di Sartre ([1947] 1978) sull’impegno nell’immediato Dopoguerra (un testo a cui ritornerò più avanti) e, attraverso Sartre, a Paul Nizan. È Nizan a formulare per primo l’idea (un tema del libro di Sartre) che tutta l’attività intellettuale è impegnata – quel “l’astensione è uno stratagemma” e l’attività intellettuale che non riesce a dichiarare il proprio impegno sostengono implicitamente le disuguaglianze esistenti. L’impegno di Schalk è palesemente un atteggiamento adottato, o una scelta operata, dal singolo intellettuale. Allo stesso tempo, vi è nell’insistenza sul fatto che l’intellettuale non abbandona mai “il proprio giudizio critico” un’utile distinzione tra un impegno politico o civile nel lavoro intellettuale e ciò che era stato qualificato come embrigadement (la fedeltà a una particolare linea di partito). Un corollario di questa distinzione è che Schalk non limita il concetto di engagement all’attività dell’intellighenzia di sinistra, e non considera quindi l’impegno, come vorrebbero certi stereotipi, una prerogativa esclusiva di un comunismo populista. Consideriamo ora un punto significativo ai fini della nostra analisi della voce “impegno” nel Grande dizionario della lingua italiana di Battaglia: IMPEGNO. Atteggiamento per cui l’uomo di cultura (e l’artista in partic.) è tenuto a prendere decisamente posizione (e si intende in senso progressista) circa i grandi problemi ideologici, politici e sociali del suo tempo e a dibatterne le esigenze nell’ambito del proprio lavoro o della propria opera creativa.32

Troviamo, ancora una volta, che l’impegno è ritenuto essere un atteggiamento adottato da un individuo. Con tutto il rispetto per Schalk, questa definizione insiste sul carattere tipicamente di sinistra dell’impegno – è questo, ovviamente, che si intende per “progressista” – qualcosa che può riflettere il momento in cui è stata scritta la voce del dizionario (le due citazioni esemplificative, da Montale e da Guido Piovene, sono della metà degli anni ’60)33 ed è certamente una conseguenza del posizionamento dell’Italia come campo di battaglia ideologico durante la Guerra Fredda. In altre parole, l’impegno si era esso stesso ristretto quando il sistema politico si era fossilizzato intorno ai due poteri speculari, quello cattolico e quello comunista, nell’Italia postbellica, in modo tale che l’atteggiamento dell’impegno sembrò esprimere in quel punto 186

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di stallo le aspirazioni solo di una parte (quella comunista), e sembrò inoltre essere un aspetto solo di quel periodo. È così che Bobbio (1986) descrive come “gli anni dell’impegno” il periodo che intercorre tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il sorgere del sistema della Prima Repubblica che rimase bloccato dalla nascita fino al 1951. Ma se la percezione era proprio che l’impegno fosse tipico solo di questo periodo, possiamo comunque tracciarne la storia sia più avanti che indietro nel tempo. L’impegno come discorso nazionale La definizione di impegno come implicitamente “progressista” corrisponde a ciò che si potrebbe indicare come definizione ristretta del termine. Essa comprende una serie di connotazioni che erano attuali durante la Guerra Fredda e che non erano esclusive dell’Italia. Graham Bartram ha messo in discussione la definizione “ristretta” di impegno in relazione al contesto tedesco e all’impegno di Bertolt Brecht. Nell’articolo che ripercorre l’impegno dello scrittore nell’ambito della letteratura nazionale e della tradizione filosofica tedesca, Bartram (1982: 83-4) scrive: “Impegno” quando è usato ai nostri giorni in un contesto politico-letterario è generalmente recepito nel significato di adesione attiva ai valori della sinistra o “progressisti”. […] se però desideriamo capire la politicizzazione [di Brecht] nel suo contesto storico […] sarebbe imprudente restringere l’analisi dell’impegno a una questione di fedeltà a un partito politico. L’insieme del problema è ben più ampio, con radici che affondano molto più indietro nel passato di quanto questa prospettiva ristretta tenda a suggerire.

Non c’è lo spazio qui per andare oltre il profilo dei contorni più ampi della storia di questo “problema” nel contesto italiano. Ma il primo passo nella ricostruzione della genealogia nazionale dell’impegno dovrebbe essere quello di invertire il modello convenzionale che vede l’impegno come qualcosa che è adottato, volontariamente o con riluttanza, da un determinato intellettuale; dobbiamo invece capire l’impegno come una delle condizioni all’origine della vita intellettuale italiana. Con ciò intendo qualcosa che è distinto dall’affermazione di Nazin e di Sartre secondo cui tutti gli intellettuali sono impegnati; vorrei suggerire piuttosto che l’intellettuale italiano è stato sempre definito attraverso il suo (e qui uso il pronome con cognizione di causa, per ragioni che spiego più avanti) occupare un ruolo civico-politico in relazione alla nazione italiana stessa. L’impegno può dunque essere visto non come un’etichetta per 187

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le preoccupazioni politiche o civili del singolo autore-regista, ma come un “discorso” nel significato in cui il termine è utilizzato nelle scienze sociali.34 David Ward (2001/2002: 81) incomincia col suggerire questo in una breve storia dell’intellettuale italiano: Sia come scrittori, che come accademici o giornalisti o registi, gli intellettuali italiani vengono corteggiati dai partiti politici di ogni credo per aggiungere lustro alle loro liste in periodo elettorale e lusingati dai media come opinionisti autorevoli. Il contatto che gli intellettuali italiani hanno con le istituzioni della società civile deriva da una lunga tradizione che risale al medioevo. La società italiana ha fatto ampiamente affidamento sui propri intellettuali, piuttosto che sulla sua classe politica, per fornire gli agenti nazionali per le trasformazioni sociali.

Il comune buon senso vorrebbe che gli intellettuali optassero (o no) per l’impegno; Ward qui sta suggerendo che gli intellettuali italiani abbiano l’impegno imposto su di sé – di fatto, diventano intellettuali nella misura in cui sono coinvolti nel processo di definizione della nazione e del suo corso. Naturalmente, il termine “intellettuale” è stato usato come sostantivo solo agli inizi del ventesimo secolo, e l’individuazione di una continuità nella funzione intellettuale nell’Italia pre-Novecento richiede prudenza. Ma è proprio per questo che è appropriato parlare di una genealogia dell’impegno.35 Tale genealogia può essere tracciata, come fa David Ward, da Dante a Manzoni nella loro capacità come curatori di una coscienza nazionale;36 passando per la coscienza di sé dell’intellettuale come parte di una classe sempre più professionalizzata che si evidenzia in La voce; e ancora, per il momento neorealista e le teorie del Gruppo ’63 fino ai nostri giorni, e a prodotti come La meglio gioventù.37 Due osservazioni si potrebbero fare sulla forma del discorso sull’impegno così come è stato tramandato fino ai tempi moderni. La prima è che, come ho già suggerito, esso non ha un carattere ideologico preciso. Robert Gordon (2005: 43-47) pone la problematica dell’impegno nei termini della questione dell’intervento culturale. Alcuni – singoli artisti, scrittori o intellettuali, o i movimenti in cui erano inseriti – sentivano il bisogno “di intervenire nella sfera della cultura, per definire e rinnovare la letteratura e l’arte italiane, come parte di una ridefinizione della nuova nazione e società italiana” (p. 45). Tale vocazione era condivisa da figure e scuole di colori politici quanto mai vari; si pensi al futurismo e al neorealismo. Il loro interventismo, qualunque fosse la posizione politica esplicitamente assunta, implicava una “visione vagamente utopistica del futuro” (p. 45), visione che è presente anche nel sentimentalismo della parte finale di La meglio gioventù. 188

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La seconda osservazione è che, se non è errato parlare di impegno come di un “discorso”, possiamo dedurre che il termine si basi su una serie di esclusioni, tra le quali spiccano la soggettività e le potenzialità dell’intervento femminili. È in questa luce che dovremmo leggere l’osservazione di Ann Caesar, in un articolo sulla narrativa postbellica, riguardo a come le donne erano escluse dalla letteratura della Resistenza, in quella svolta che essa rappresenta nella storia dell’impegno. Secondo la Caesar (1996: 251), i termini del discorso implicavano l’emarginazione femminile: La Resistenza, così come fu recepita nell’immaginario collettivo, aveva molti attributi in comune con il mondo dei racconti di avventura per ragazzi in cui la vita è vissuta, spesso in senso letterale, fuori dalla civiltà, lontano da casa e dalla famiglia. Bisogna compiere delle missioni, attraversare spazi aperti pericolosi e uccidere nemici. Le convenzioni del genere furono stabilite molto presto, ed escludevano le donne.38

D’altro canto, possiamo suggerire che l’impegno tende a una deformazione o a una metamorfosi quando si confronta con l’azione femminista: vedi ad esempio il calo dell’autorevolezza di Francesco Rosi di cui parla Mary Wood (1994; prossima pubblicazione 2007), quando la sua produzione manca di tenere conto delle preoccupazioni legate alle differenze di genere introdotte dal femminismo. Un modo di leggere il ritorno alla sfera del personale che certi critici identificano nel cinema italiano recente (Hope 2005: 13) è che non si tratti di un ritrarsi dal politico in quanto tale, ma un tentativo di integrare la preoccupazione femminista per il personale inteso come politico. Questa potrebbe essere una spiegazione per il cauto accostamento del personale e del politico in certi film di Nanni Moretti: l’impaccio della struttura tipica dei suoi film è sintomatico del tentativo ancora prematuro dell’impegno di riconfigurarsi in risposta alla sfida del discorso femminista. Visto da questa posizione, La meglio gioventù è un testo reazionario, strutturato secondo i clichè (cioè all’interno dei confini del discorso) di un impegno di tipo maschilista. Come ha affermato Danielle Hipkins, il film “presenta un continuum tra la storia e lo sguardo maschile come fossero un tutto unico”, con la donna, o la sua immagine, ancora una volta posta come oggetto di questo sguardo, e ridotta a un ruolo simbolico come “l’Italia malata” (il personaggio di Giorgia, che soffre di una malattia mentale) o a indicare il segno di uno scambio metonimico tra i due protagonisti maschili (Mirella che ama, prima l’uno e poi l’altro, entrambi i fratelli).39 Nei termini maschili del discorso sull’impegno, dunque, la definizione di 189

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Battaglia sopra citata dell’impegno come proprio dell’“uomo di cultura” è perfettamente corretta. Ed è significativo, alla luce di questo, che a Marco Tullio Giordana venga concessa la riammissione critica ai canoni del cinema politico solo in ritorno da una “eccentrica” incursione, vituperata dalla critica, nella rappresentazione del desiderio femminile (La caduta degli angeli ribelli, 1981) e da una rappresentazione onirica del lutto femminile (Appuntamento a Liverpool, 1988). L’autorevolezza del regista, e quindi la sua qualificazione per realizzare la storia di una generazione engagé in La meglio gioventù, è restituita da una versione più convenzionale del cinema d’impegno nel film-inchiesta Pasolini. Un delitto italiano (1995) e nella rielaborazione del mafia film in I cento passi (2000). L’ingenuità politica di quest’ultimo film, in particolare, gli ha consentito di meritare, da parte dei produttori e del pubblico, la celebrazione generale e il rituale catartico del lutto che avrebbe rappresentato La meglio gioventù, che con i primi due film aveva in comune gli sceneggiatori, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. La struttura dell’impegno Finora in questa parte ho analizzato la “storia”, cioè la genealogia nazionale, dell’impegno; è utile, però, prenderne in considerazione anche la struttura. Un autorevole studio della struttura dell’impegno è offerto da Jean-Paul Sartre nel suo libro Qu’est-ce que la littérature? del 1947. Il libro di Sartre è una sorta di manifesto, e in quanto tale è un testo prescrittivo piuttosto che descrittivo; ciò nonostante ne possiamo trarre un’idea della dimensione dell’impegno, che corrisponde alle tre domande poste dallo scrittore. Sartre articola la sua analisi come uno studio sul ruolo dello scrittore, e chiede: che cosa è scrivere? Perché si scrive? Per chi si scrive? La sua risposta alla prima domanda è che scrivere è una sorta di prassi, una specie di “azione per rivelazione” che mette in luce le condizioni della società contemporanea. La risposta alla seconda domanda è implicita nella risposta alla prima: se scrivere è una forma di prassi sociale, allora si scrive per rivolgersi al senso di impegno del lettore e coinvolgerlo nel progetto critico del miglioramento della società. Ancora una volta, la terza risposta nasce dalla seconda: si scrive, dice Sartre, non per un futuro immaginato ma per la gente della propria società e del proprio tempo. In ultima analisi, si scrive per fare appello nei propri contemporanei alla loro sensazione di essere un elettorato engagé. È proprio quest’ultima considerazione a essere espressa in modo denigratorio da Adorno (1977: 185) nella sua critica all’impegno in Brecht, che lui ac190

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cusa di limitarsi a “predicare ai convertiti”. La risposta a questa critica è implicita in Sartre, il quale afferma che è necessario rivolgersi ai convertiti, per fare appello al loro senso di sé come parte di una comunità e di un elettorato, e dare voce alle posizioni di quell’elettorato per suo conto. È un lato dell’impegno che viene spesso celato in quegli studi che enfatizzano l’aspetto della sfida che un testo impegnato si suppone lanci al proprio lettore o spettatore. Forse sono più adeguati e completi quegli studi, come quello fornito da Jennifer Burns (2001: 5), che evidenziano il carattere contrattuale della relazione produttore/ricettore: È chiaro che la parola impegno presuppone una relazione; e una relazione carica di un significato morale. Nel contesto della letteratura, questa relazione ha due rappresentazioni, che non sono necessariamente distinte l’una dall’altra: anzi, una è forse metafora dell’altra. Le due relazioni sono tra lo scrittore e il lettore e tra lo scrittore e la società in cui scrive. Il concetto di “impegno” prescrive che lo scrittore abbia qualche responsabilità nella risposta che produce nel lettore, e che questo reagisca con responsabilità all’impegno così profuso dallo scrittore.

Tale relazione contrattuale è evidente anche nei testi filmici analizzati qui e sopra in questo capitolo: in quei film del “cinema dell’indulto” che coinvolgono lo spettatore in un dibattito sul destino dei terroristi in carcere e sull’eredità degli anni di piombo; nella celebrazione dell’elettorato a cui il testo è rivolto in La meglio gioventù, intesa come uno stimolo ad assicurarsi la perpetuazione dell’impegno civile che rappresenta la raison d’etre e il tema del film. Burns fa notare che il modo di rivolgersi allo spettatore previsto da questo contratto deriva da un aspetto “postmoderno” degli ultimi decenni del ventesimo secolo, con la crescente importanza del ruolo del lettore e, più precisamente, della “comunità interpretatrice” (2001: 6), per la quale l’opera è prodotta e la quale influenza non semplicemente la ricezione, ma anche la stessa produzione del lavoro. Mentre Burns potrebbe vederlo come tipicamente postmoderno, in realtà il fatto che dovrebbe essere una costante strutturale è una conseguenza del carattere contrattuale dell’impegno. Un’altra obiezione che è spesso mossa riguardo allo studio di Sartre in Qu’estce que la littérature? è il fatto che si occupa del contenuto escludendo la forma. Non c’è niente in Sartre della tattica brechtiana, che ebbe tanta influenza sul cinema d’impegno degli anni ’60, della sfida alle tecniche narrative tradizionali come primo passo necessario per una critica impegnata della società contemporanea.40 Questo dibattito forma/contenuto presenta naturalmente delle ana191

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logie col contesto italiano: la controversia Vittorini/Togliatti, giustamente classificata da Ward (2001/2: 307) come un disaccordo estetico; anche il rifiuto del “contenutismo” da parte del Gruppo ’63, la cui posizione era in parte elaborata contro quella che Burns (2001: 1) ha definito come una “nozione monolitica di impegno in un programma solitamente comunista” e all’embrigadement dello zhdanovismo.41 Gli scrittori della neo-avanguardia sostenevano che il rinnovo della società, e quindi lo stesso impegno, fosse soprattutto una questione linguistica; parlare la lingua dello status quo significava, indipendentemente dall’effettivo contenuto critico dell’affermazione, favorire la riproduzione di quello status quo. Per facilitare la rivoluzione politica doveva prima verificarsi una rivoluzione nelle coscienze che fosse fondamentalmente linguistica. Le teorie del Gruppo ’63 trovarono qualche correlazione pratica nel cinema italiano – Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, ad esempio, era lodato per la struttura non lineare e per una deliberata alimentazione della frustrazione nello spettatore sentita come un preliminare necessario alla coscienza e all’azione politica. Nello stesso studio in cui loda Salvatore Giuliano in quei termini, Umberto Eco (1962) mette a confronto il film di Rosi con il quasi contemporaneo Rocco e i suoi fratelli di Visconti, e il paragone (per Eco) è a svantaggio di quest’ultimo film. Secondo Eco, il film di Visconti è un fallimento in termini di impatto politico e di impegno: Si comprende ora quale fosse […] l’ambiguità sostanziale di un film, peraltro pieno di meriti, come Rocco e i suoi fratelli: un problema attualissimo, assunto nel vivo delle sue contraddizioni (si pensi, l’inserzione dei meridionali nella civiltà industriale del nord; l’adattamento dei loro schemi etici a quelli di una civiltà urbana industriale...) veniva praticamente esorcizzato da un trattamento “melodrammatico” che riconduceva la tematica nell’ambito di una narrativa ottocentesca. Inizio, crisi e peripezie, finale con catarsi: il pubblico ne usciva pacificato e contento. Ma c’era in verità qualcosa di cui il regista gli chiedeva di essere contento? Non credo. Dunque la struttura narrativa aveva preso la mano all’autore e lo aveva portato a fare, sotto le mentite spoglie di un film di denuncia, un film di consumo e di pacificazione psicologica.42 (Eco 1962: 229n)

Eco qui sostiene che l’impegno di Visconti in Rocco e i suoi fratelli sia compromesso dalla sua adesione estetica a una forma melodrammatica e anacronistica. L’accusa di Eco è in ultima analisi analoga a quella espressa da Gramsci sul gusto italiano per il melodramma; ma Gramsci, benché lo deplorasse, dovette riconoscere il melodrammatico come la forma popolare della cultura nazionale. È proprio lì il nodo della questione: per comunicare (in realtà inter192

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pellare) nei termini descritti da Sartre, l’artista impegnato deve rivolgersi al suo elettorato nella stessa lingua che esso parla, nonostante il rischio della riproduzione dell’egemonia che questo modo di rivolgersi comporta (le osservazioni espresse sopra sulle configurazioni reazionarie dei ruoli di genere in La meglio gioventù illustrano questo rischio). Mentre Salvatore Giuliano poteva contare su una cultura di fruizione del film e su reti di distribuzione politicizzate che avrebbero offerto, in certa misura, un contesto interpretativo per un film difficile (sebbene, in ultima analisi, il suo spettatore ideale fosse Umberto Eco), Rocco e i suoi fratelli era comunque quello con la maggiore probabilità di successo popolare, dato l’impiego di un idioma familiare a una categoria più ampia di spettatori.43 L’elettorato engagé L’obiezione mossa da David Forgacs a La meglio gioventù, cioè che il sentimentalismo del film lo ha svuotato dalla sua carica politica, è paragonabile a quella di Eco secondo cui il melodramma di Rocco e i suoi fratelli offriva una fuga catartica dalle condizioni dell’Italia contemporanea. La meglio gioventù ha certe caratteristiche ovvie in comune con Rocco e i suoi fratelli: sono entrambi saghe familiari che coprono un certo numero di anni; in entrambi la narrazione si concentra su due fratelli; entrambi usano, inoltre, modelli narrativi convenzionali per fare appello ai rispettivi pubblici popolari. Nel film di Visconti questi modi convenzionali sono i mezzi melodrammatici ereditati dal romanzo e dall’opera lirica del diciannovesimo secolo; in La meglio gioventù sono invece il rivolgersi a un pubblico middlebrow, i motif tratti dalla memoria mediatica e le convenzioni derivate dalla soap opera e da altri generi televisivi – l’uso di immagini da cartolina delle varie località italiane, ad esempio, che funzionano come lo skyline di Manhattan all’inizio di ciascun episodio di Friends.44 I mezzi convenzionali di entrambi i film, comunque, non si limitano all’uso strumentale dei generi per accelerare il programma impegnato degli autori. C’è in certa misura un’immersione nei mezzi convenzionali che connota qualcosa che va oltre la semplice adozione di un linguaggio per persuadere un pubblico di una cosa o di un’altra.45 L’immersione nei mezzi convenzionali della narrazione televisiva in La meglio gioventù è insieme uno sforzo di interpellare o di convocare un certo elettorato della società italiana e, allo stesso tempo, costituisce un’espressione organica, per così dire, dell’appartenenza degli stessi autori a quell’elettorato. Questo è, in ogni caso, quanto suggerito da questa descrizione delle loro motivazioni da parte dei due sceneggiatori: 193

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La meglio gioventù l’abbiamo scritto per Carlo, per Gioia, per Stefano, per Giovanna, per Rico e Romeo, per Ely e Piero, per Sergio che non c’è più ma c’è, e per tanti altri che avevano vent’anni nel 1968. Sono i nostri amici di strada di allora: non fanno chiacchiere, non vanno in TV, non li conosce nessuno. Erano all’alluvione di Firenze, viaggiavano in autostop verso Capo Nord, leggevano furiosamente, e furiosamente discutevano, s’innamoravano, o andavano al cinema. S’indignavano e lo dicevano. Qualche volta lo gridavano. Perché – qualche volta – bisogna gridare per farsi sentire. Lo fanno ancora. Lavorano nelle scuole, nei consultori, nei tribunali, nelle biblioteche, negli ospedali, in fabbrica. Tengono in piedi il meglio di questo paese, a mani rimboccate, salvando dal fango – oggi come nel ’66 a Firenze – le cose belle: lealtà, coerenza, coraggio, e schiena dritta. L’abbiamo scritta per loro, La meglio gioventù. E per noi, tra loro. (Petraglia e Rulli 2004: 295)

“E per noi, tra loro”: queste parole dimostrano che La meglio gioventù era inteso come una celebrazione di un particolare elettorato che comprendeva tanto gli autori quanto i destinatari del film. È una celebrazione forgiata secondo la modalità postmoderna dell’impegno esemplificata da un “ritrarsi dell’impegno da ideologie macropolitiche, sinistra/destra, a favore di iniziative micropolitiche, basate sulla comunità” (Burns 2001: 1). La micropolitica del film è chiara – la preoccupazione per come vengono trattati i malati mentali, per il movimento antimafia, e per il fenomeno e l’eredità del terrorismo, che è il tema di cui ci stiamo occupando – ma l’attenzione è diretta in modo più specifico verso l’esperienza dei protagonisti piuttosto che verso le tematiche in cui sono coinvolti. Le tematiche e gli eventi presentati sono meno importanti dello sviluppo narrativo per tutta la durata del lungometraggio. Mentre La meglio gioventù, dunque, è una celebrazione di un elettorato che comprende gli autori, esso è anche, allo stesso tempo, una parte dell’ “elaborazione” dei traumi storici subiti da quell’elettorato negli anni a partire dal ’68.46 La meglio gioventù è un esempio molto calzante del “predicare ai convertiti” di cui parla Adorno: esso fa appello, celebra ed esprime speranze, in un certo senso, per riprodurre iconograficamente quei protagonisti della società civile, le classi medie autoriflessive, che sono anche gli eroi del secondo volume della storia dell’Italia postbellica di Paul Ginsborg: “Coloro i quali avevano attraversato le esperienze drammatiche della fine degli anni ’60 e dei primi ’70, venendone fuori né nella disperazione totale né nel totale cinismo” (Ginsborg 2001: 120). La natura della ricezione del film – i peana contenuti in Diario, le pagine dedicate alle testimonianze dei lettori ispirati dal film sul sito web di Repubblica – fanno pensare che La meglio gioventù sia stato, almeno in certa misura, un successo nel suo intento di riproduzione politica.47 In questi termi194

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ni, La meglio gioventù rappresenta una variazione dell’impegno e della cinematografia politica anche se, o proprio per questo, esprime tutto ciò in un idioma nostalgico e sentimentale. Numero tollerabile di morti La riproduzione dell’elettorato politico è rappresentata simbolicamente nel film dalla riconfigurazione della famiglia tradizionale intorno a Nicola, a Mirella e al figlio di lei, il ragazzino dagli occhi chiari che ha avuto dal fratello di Nicola dopo la sua morte. La riproduzione politica e la riconfigurazione familiare sono possibili grazie al suicidio purificatorio di questo fratello, Matteo, in cui la delusione politica è stata instillata per essere poi espulsa. La carriera che il personaggio sceglie (entra prima nell’esercito e poi in polizia) è fatta apparire nel film come patologica, una distorsione del suo idealismo iniziale verso un’evasione dalla responsabilità personale e politica.48 L’anaffettività di Matteo e la sua crescente alienazione sono parallele al destino di Giulia, la cui scelta della clandestinità e dell’azione terroristica è anch’essa fatta intendere come patologica. Giulia non viene fatta morire nel film, ma invecchia (in carcere) in un modo che non si verifica con gli altri personaggi. Di fatto, uno degli aspetti più goffi, forse intenzionalmente, del film è che i personaggi principali sembrano invecchiare appena nel corso dei trenta e più anni (rimanendo così letteralmente “la meglio gioventù”). I capelli di Giulia, però, che inizialmente sono biondi e fluenti, poi tinti di nero quando sceglie la clandestinità, diventano di un grigio metallico da un’inquadratura a un’altra. Benché questo punto possa sembrare secondario, lo sfacelo della sua bellezza è ovviamente inteso come parallelo alla condizione della sua anima politica. Analogamente, in contrasto con l’assoluta concentrazione del film sullo zelo riformista di Nicola, le scelte di Giulia non sono mai investigate a fondo, e il suo passaggio alla lotta armata sembra saltare tutta una fase intermedia di attività politica che sarebbe potuta essere tipica della sinistra extraparlamentare agli inizi degli anni ’70. È significativo che nella loro dedica, riportata sopra, a coloro che vengono celebrati in La meglio gioventù, Rulli e Petraglia non nominino affatto alcuna “Giulia” che possa aver scelto la lotta armata, e neppure la militanza nella sinistra extraparlamentare. In realtà, al personaggio è negata una spiegazione razionale dell’essere diventata un membro clandestino della lotta armata, e la sua cattura è orchestrata dal suo compagno ormai a lei estraneo, Nicola, per proteggerla da se stessa. Insieme alla scelta puramente emotiva e assolutamente non spiegata di Giulia dell’azione terroristica, la stessa lotta armata viene femmini195

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lizzata, e questa femminilizzazione va letta come indice della sua essenziale devianza. Il film immerge Giulia in una discutibile rappresentazione clichè della vita clandestina (Cecchini 2005: 304), durante la quale allo spettatore è consentito l’accesso alla soggettività del personaggio unicamente per constatarne la nostalgia per la figlia abbandonata. Tardi (2005: 165-6) di conseguenza colloca La meglio gioventù all’interno di una tradizione iconografica in cui: le donne che scelgono di impegnarsi nella lotta armata sono caratterizzate, innanzitutto, dagli effetti devastanti che il rifiuto di essere madri ha su di loro. In un momento successivo la presa di coscienza da parte della terrorista dell’ “errore” che ha fatto, la porta [...] a tentare di riacquisire quelle norme da lei precedentemente rifiutate e, in questo modo, di avere la possibilità di ricominciare. Nei termini della forma narrativa dominante di La meglio gioventù, il rifiuto della maternità da parte di Giulia comporta che lei non può far parte della “famiglia”. Il tropos della famiglia come nazione – che ci è noto, ad esempio, da un testo come I Buddenbrook di Thomas Mann (1901) – ha una forza particolare in Italia dove, come scrive Ginsborg (2001: XIII): la famiglia è estremamente importante sia come metafora che come realtà. In termini metaforici è onnipresente […], è sorprendente con che frequenza la famiglia sia presa come metafora di altre forme di aggregazione sociale o politica, piuttosto che il contrario. In altre parole, non è lo Stato o un’altra organizzazione della società a fornire esempi per la famiglia, ma è la famiglia a fornire metafore e modelli di ruoli per la società e per lo Stato.

Naturalmente, l’impiego di una tale metafora non è assolutamente neutro; esso ha effetti ideologici e conseguenze sulla rappresentazione del terrorismo in La meglio gioventù. Rifiutando la maternità, e quindi la metafora privilegiata della famiglia che è il principio organizzativo sia della nazione che della fiction stessa, Giulia si rivela non essere “nemmeno italiana”, per usare le parole di Beverly Allen (1997: 64). Il recupero di Giulia è perciò un atto di magnanimità che suggerisce il conseguimento catartico di La meglio gioventù, e il processo di “elaborazione” assolto dal film si basa sulla continuata percezione della violenza del terrorista come inestricabilmente estranea ai valori dell’elettorato.49 Non è inappropriato descrivere questa esclusione simbolica continuata in termini di impegno e di nostalgia per una forma di dedizione totalizzante, che era una sorta di retaggio sottoculturale della sinistra prima del crollo del gran196

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de consenso comunista nella frattura generazionale di fine anni ’60. Luperini (1981: 380-1) descrive così la cultura di sinistra dell’impegno nel periodo postbellico: La lotta per il “rinnovamento della cultura” […] che è il risvolto a livello culturale dell’ideologia dell’“impegno” e della “ricostruzione”, viene assunta da tutti i settori più significativi della cultura nazionale. Si forma, cioè, un blocco ideologico omologo al blocco sociale determinato dall’alleanza politica fra le varie classi in nome della “ricostruzione”. Per la prima volta nella storia del nostro secolo una cultura che voleva essere “nuova” e “progressiva” e genericamente orientata a sinistra non solo imponeva le proprie scelte e le proprie poetiche nel campo delle arti, ma conquistava le università […] annoverava fra le proprie file gli intellettuali militanti più famosi e popolari, diffondeva le riviste più serie e autorevoli: diventa insomma la cultura.

Come si esprime Gordon (2000: 199), “essere allineati con la sinistra in questo periodo di governo di centrodestra e di Guerra Fredda significava per definizione essere antiegemonisti, e l’élite culturale traeva davvero molta della sua autorevolezza e vitalità dal proprio status di cultura dell’opposizione o critica”. La caratteristica della nostalgia in La meglio gioventù è che essa aspira alla propria autorevolezza antiegemonista, ma non può ricrearla se non in una celebrazione post-ideologica di un elettorato che è convalidata dalla sua indiscutibile esclusione di certi gruppi, un’operazione che è facile per la mafia, ma molto più complicata per i terroristi. Ho scritto prima che l’autorevolezza di Giordana nella realizzazione della cronaca celebrativa di La meglio gioventù derivava dal film antimafia I cento passi (2000). L’uso che questo film fa dei clichè di riferimento storico (immagini di Aldo Moro morto, foto di famiglia del vero Peppino Impastato sovrapposte al viso dell’attore che ne interpreta il ruolo) anticipa l’evocazione stenografica dell’uccisione di Falcone in La meglio gioventù. Il riferimento sintetico all’omicidio Falcone è sottomotivato dal punto di vista della trama e ha un’altra funzione: è una sorta di minimo comune denominatore dell’atrocità storica davanti alla quale quasi tutti gli spettatori si troveranno uniti nella costernazione. Tali momenti permettono un consenso facile che smaschera le esclusioni che i film sono costretti a operare per garantire la concordia dell’elettorato a cui si rivolgono. Il lavoro di unificazione ideologica che portano avanti è l’equivalente di ciò che cerca di fare l’intera gamma della sinistra nelle nuove condizioni della Seconda Repubblica. La coalizione dei partiti sotto l’ombrello dell’Ulivo dovette stabilire dei punti di accordo per una gran varietà di posizioni che spaziavano da elementi dell’ex De197

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mocrazia Cristiana a Rifondazione Comunista. Ma che cosa escludono questi punti di accordo? I cento passi elimina l’omosessualità del vero Peppino Impastato, a cui non si fa mai riferimento nel film, se non in termini più indiretti, esattamente come viene minimizzata la sua militanza in Democrazia Proletaria. La meglio gioventù mantiene l’esclusione di coloro che praticarono la militanza extraparlamentare e la lotta armata, guardati di sfuggita ma poi omessi dall’ “album di famiglia” della sinistra di cui parla la Rossanda. Ho già suggerito la possibilità di associare la politica di La meglio gioventù al sentimentalismo del testo, e questo si rivela vero più di quanto ci si possa aspettare. La cifra sentimentalistica è funzionale alla negazione del progetto di cancellazione di un patrimonio di violenza, un progetto necessario per trasformare la sinistra in un centrosinistra con legittime velleità di potere (anziché un’opposizione con un ruolo semplicemente morale) nella Seconda Repubblica. Tuttavia, La meglio gioventù è considerato da Cecchini come il testo che illustra meglio di tutti la sua tesi secondo cui il film e la narrativa fornirebbero un modello per una memoria condivisa in un paese che è passato attraverso gli anni di piombo: È evidente, a mio avviso, nel film, l’intento di offrire una rappresentazione condivisibile della storia di una generazione; l’intento di fare i conti con noi stessi, non solo in senso individuale (le varie storie dei personaggi del film), ma in senso collettivo, di fare i conti con il nostro passato. E di fare la pace con questo passato. Il film non vuole erigere monumenti, ma suggerire sommessamente alcuni possibili modelli di comportamento: il primato delle rivendicazioni concrete rispetto a quelle fondamentaliste astratte; l’affermazione della solidarietà, del rispetto per l’altro, la centralità della famiglia. (Cecchini 2005: 304)

Ma la centralità della famiglia nel film non è un’affermazione facile di un bene ovvio: è una figurazione della nazione che definisce la stessa nazione attraverso ciò che essa deve escludere. Il film offre certamente una “rappresentazione condivisibile della storia di una generazione”, e ci restituisce alla metafora di una commissione per la verità e la riconciliazione. La memoria condivisibile offerta da La meglio gioventù è parte di un progetto ideologico di legittimazione di questo centrosinistra – proprio come una commissione per la verità legittimerebbe il nuovo Stato – e di affermarla come la vera anima della nazione, il “meglio di questo paese” di cui parlano Petraglia e Rulli. La natura prolissa della miniserie televisiva costituisce una forma adatta alla risoluzione di una dissonanza di racconti contrastanti nell’armonia di un racconto autorizzato: nel film le memorie di diversi individui e gruppi (“le varie storie 198

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dei personaggi”) sono incluse sotto una memoria settoriale che si presenta come memoria nazionale. La verità, o la tregua, offerta da La meglio gioventù aspira a essere versione autorizzata del passato nazionale, così come aspira a integrare in modo definitivo la storia traumatica e recente di violenza e terrorismo dell’Italia.

Figli della politica Il cineasta Guido Chiesa ha suggerito che il corpus dei film italiani sul terrorismo sia sempre stato condizionato dalle circostanze politiche presenti al momento della produzione dei singoli testi. Negli anni ’80 e ’90, sostiene, questi film: diventano quasi tutti figli della politica condotta dai partiti della sinistra, che utilizzano la questione del terrorismo per legittimarsi come partiti di governo, legalitari, prendendo le distanze dalla loro stessa matrice violenta ed armata, che comunque è parte integrante della storia della sinistra. […] Si pensi, ad esempio, al film di Calopresti [La seconda volta] o a quello di Giordana, La meglio gioventù, tutti influenzati dalla necessità di riscrivere la storia secondo le traiettorie ideologiche dei partiti della sinistra. (Uva 247-8)

I due film menzionati da Chiesa sono quelli su cui mi sono concentrato principalmente in questo capitolo, e la mia analisi conferma in certa misura la sua affermazione, sebbene suggerisca anche che il cineasta sia un po’ troppo sbrigativo. La meglio gioventù è di certo il veicolo di un’operazione storicoideologica che nega l’eredità della militanza extraparlamentare per mitizzare il patrimonio del centrosinistra nella Seconda Repubblica. D’altro lato, il film rappresenta un tentativo di guarire le ferite e di superare le divisioni nella società italiana, pur compiendo questa operazione dall’interno di un elettorato sentimentalizzato della sinistra moderata. Trovo la descrizione di Chiesa di La seconda volta molto meno appropriata: pare che abbia confuso la prospettiva della vittima arrabbiata ritratta nel film con quella dello stesso film o del regista. La seconda volta è più ambivalente, e più ambiguo: in termini formali e nella modalità narrativa impiegata dà forma concreta all’ancora prematura integrazione di un passato traumatico per la società italiana. Questi e gli altri film analizzati in questo capitolo dimostrano ciò che ho affermato all’inizio: che il terrorismo continua a operare come una forza che crea discordia nella vita nazionale italiana. Dall’interno di schieramenti politici ben definiti conti199

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nuano a emergere versioni parziali del passato terrorista, ma la produzione di una memoria nazionale condivisibile degli anni di piombo continua a essere differita.

NOTE AL CAPITOLO QUARTO

1 Vedi Bull e Newell, 2005, capitoli uno (pp. 4-19) e sei (pp. 98-114). 2 I testi presi in considerazione sono: in Caviglia e Cecchini, prossima pubblicazione, La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1996) e il testo dell’intervista di Sergio Zavoli a Silveria Russo in La notte della repubblica (Zavoli, 1992: 373-85); in Cecchini, 2005, La seconda volta, La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003) e Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003). 3 Come scrivono Caviglia e Cecchini (prossima pubblicazione), “i testi e i programmi televisivi non possono da soli, siano essi lavori di fiction o documentari, con il loro semplice potere rovesciare le limitazioni del discorso pubblico dominante. Inoltre […] il dialogo nella sfera pubblica presuppone che le parti siano in grado di passare all’azione, ad esempio attuando o influenzando delle politiche, come accade in una ‘commissione per la verità e la riconciliazione’”. 4 Per una carrellata di reazioni a La seconda volta, vedi Fulvia Caprara, “Ex-terroristi, dovete stare zitti”, La Stampa, 25 ottobre 1995: 10; Gloria Satta, “Nanni e i ‘danni di piombo’”, Il Messaggero, 25 ottobre 1995; Alberto Franceschini, “Ma io invece voglio parlare”, L’Unità 2, 25 ottobre 1995: 1-3; G. Grassi, “Le Br? Omicidi e scemenze”, Corriere della Sera, 25 ottobre 1995: 15; Carlo Mastelloni, “Terroristi e narcisisti”, Panorama, 23 novembre 1995: 87; Erri De Luca e Mimmo Calopresti, “Terrorismo senza ragioni”, Micromega, 5 (1995): 159-165; Natalia Aspesi, “Terrorismo, un successo da star”, La Repubblica, 2 settembre 1996: 23; Fabio Bo, “La mia generazione, ritratto di un’Italia stremata dal terrorismo”, Il Messaggero, 2 settembre 1996: 16. Le reazioni più interessanti a La meglio gioventù hanno usato il film e la sua cifra

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nostalgica come punto di partenza per celebrare le conquiste di una generazione; vedi Il diario del mese, 11/5 (5 dicembre 2003), e il materiale raccolto sul sito di Repubblica a http://www.repubblica.it/speciale/2003/appello_gioventu/firme_raccolte.html (accesso del 15 Maggio 2006). 5 L’intero testo della Costituzione ad interim è disponibile sulla pagina http://www.info.gov.za/documents/constitution/93cons.htm (accesso del 23 maggio 2007). Il testo del Promotion of National Unity and Reconciliation Act (26 July 1995) che istituì la commissione è disponibile alla pagina http://www.doj.gov.za/trc/legal/act9534.htm (accesso del 5 giugno 2007). 6 Queste informazioni sono state tratte dal sito ufficiale della South African Truth and Reconciliation Commission, http://www.doj.gov.za/trc/ (accesso del 5 giugno 2007). Per ulteriori informazioni sull’istituzione delle sottocommissioni, e per i link alle trascrizioni e alle relazioni vedi http://www.doj.gov.za/trc/trccom.htm (accesso del 5 giugno 2007). Il periodo su cui si svolsero le indagini della Commissione andava dal marzo del 1960 al maggio del 1994. 7 La Commissione Stragi fu inizialmente insediata nel 1988 e avrebbe dovuto completare le indagini entro diciotto mesi. Fu ricostituita più volte, ebbe il proprio organico aumentato nel 1996 e alla fine lavorò fino al marzo del 2001 (vedi http://www.parlamento.it/bicam/terror/n.i/n ota.htm [accesso del 5 giugno 2007]). Attraverso un forum interpartitico, il numero delle pubblicazioni dei sottogruppi e le polemiche interne dimostrano che in realtà servì per scopi di parte (per un racconto aneddotico vedi Jones 2003: 29-32). Anche se non fosse andata così, il fatto che non si potesse comunque procedere all’azione sulla base delle conclusioni

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raggiunte la distinguono dalle vere commissioni per la verità e dall’autorevolezza di cui sono investite. Il sito ufficiale della commissione è http://www.parlamento.it/bicam/terror/home.htm (accesso del 5 giugno 2007). 8 Giovanni Pellegrino ha scritto più di recente dell’impossibilità di una riconciliazione in Italia a seguito di quella che definisce come la “guerra civile a bassa intensità”: “Una riconciliazione, cui pure avevo pensato, non è purtroppo possibile, perché l’Italia continua ad essere un Paese diviso nel bipolarismo manicheo, che caratterizza la così detta Seconda Repubblica” (Caprara e Semprini 2007: 7). 9 Nel film si sfiora spesso l’identificazione con la persona di Moretti nel personaggio da lui interpretato. Le opinioni sul terrorismo di sinistra espresse pubblicamente dall’attore ricordano parte del dialogo da lui recitato nei panni di Alberto Sajevo: “Il terrorismo si è sconfitto da solo. I brigatisti non solo hanno sbagliato perché hanno ucciso impunemente, ma perché tutto ciò che dicevano era errato. I loro comunicati erano un cumulo di scemenze, politicamente dicevano e scrivevano cose assolutamente insensate e stupide” (De Bernardinis 2001: 138). Il testo letto nel film, anche se lì non viene identificato, è tratto da Curcio, 1993, pp. 211-2. 10 Fantoni Minella (2003: 121) parla della “descrizione di una città anonima dove la causalità irrompe nella vita degli uomini obbligandoli a ricordare, a testimoniare il proprio passato di vittime e di carnefici. La storia irrompe nella quotidianità ridisegnando i vecchi ruoli solo apparentemente dimenticati”. 11 Una simile associazione con la situazione dei Balcani è presente in Le mani forti (Franco Bernini, 1997). 12 Se Torino è “per definizione la città dell’automobile” (Giovannini 1969: 136), è uno degli aspetti dell’ironia voluta nel film il fatto che nessuno dei due protagonisti ne guidi una. Nella città in cui regna l’auto, si incontrano solo perché entrambi devono prendere l’autobus: “[l’autobus] passa, e nessuno guarda […] scoppietta dietro, prendendo su tutta quella gente che non rientrerà mai nella ‘Storia’ né nel ‘Domani’” (Bonnett 2000: 27).

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Secondo Uva (2007: 82), il personaggio di Lisa Venturi manca totalmente di “quell’alone romantico che di solito, nella pubblicistica sul terrorismo, attornia i protagonisti di quella stagione”. 14 Wood (2005: 176) colloca La seconda volta nella scia del cinema italiano che discute la “mascolinità problematica” e la “perdita di controllo” (pp. 174-6). 15 In questo senso, La seconda volta può essere visto come un’allusione al filone erotico dei film di cui abbiamo parlato nel terzo capitolo, ma che rifiuti i termini erotico-politici impiegati in Kleinhoff Hotel (Carlo Lizzani, 1977). 16 Il film fa un uso molto moderato di primi piani, e contiene diversi esempi insoliti di carrellate in avanti interrotte, in cui la cinepresa incomincia ad avvicinarsi a uno dei protagonisti solo per fermarsi e mantenersene a distanza. Questo movimento apparentemente senza scopo del fotogramma è parallelo al suscitare e poi rifiutare in maniera retorica le aspettative praticato dagli autori. È un espediente alienante che scoraggia l’identificazione con i personaggi; siamo invece incoraggiati a essere arbitri della narrazione piuttosto che a farci coinvolgere emotivamente in essa. 17 Parlando con un intervistatore che esprimeva in relazione al film un senso di insoddisfazione, lo sceneggiatore Bruni (1995: 49) rispose: “La delusione che tu provi tecnicamente corrisponde alla delusione che il protagonista prova e al senso di vuoto, di tristezza, di malinconia che come spettatore la storia ti deve lasciare”. 18 Colpire al cuore pare essere stato riconosciuto come film chiave dagli autori che hanno affrontato successivamente il tema del terrorismo; ad esempio, Vite in sospeso di Marco Turco del 1998 contiene allusioni specifiche al film di Amelio, in cui Turco aveva lavorato come assistente. 19 Il film pone particolare rilievo sull’intensità dello sguardo di Alberto; come nota di lui un altro personaggio, “c’ha uno sguardo… Non so, ti mette in imbarazzo” [trascrizione del dialogo dal film]. Mazzola (1998: 117) osserva che le prime sequenze del film si identificano esclusivamente con il punto di vista di Alberto,

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così che lo spettatore è incoraggiato a condividere il suo voyeurismo: “La cinepresa è dalla sua parte, impone cioè il punto di vista di Alberto: pedina e osserva l’ex-terrorista richiedendo, e ottenendo, dallo spettatore, un coinvolgimento emotivo. Anche quando, in assenza di Alberto, l’occhio curioso e analitico della cinepresa invade la privacy di Lisa all’interno del carcere, lo fa dando allo spettatore la netta sensazione non di ‘vedere’ Lisa, ma bensì di spiarla e osservarla come se il nostro punto di vista coincidesse con quello di Alberto”. 19 Vedi nota 23, capitolo terzo. 20 In questa scena il film gioca sulla destigmatizzazione di Lisa. Il personaggio indossa un soprabito più anonimo che le è stato regalato da una compagna di cella e che lei, prima di lasciare il carcere, ha indossato di fronte alle amiche, in una scena che contiene elementi comici. 21 “Seguendo dei processi di progressiva demonizzazione e di delegittimazione […] il romanzo giunge durante gli ‘anni di piombo’ a rappresentare il terrorista come un anormale, un deviato, una malattia che invade la vita politica piuttosto che i suoi membri. Per continue allusioni, il genere del romanzo […] lascia di fatto intendere che i colpevoli non sono neppure italiani” (Allen 1997: 64). 22 Dalla sceneggiatura si apprende che si tratta del carcere Le Vallette di Torino. 23 La Wood parla di questa trascuratezza che fa il paio con lo stesso atteggiamento di Braccio nei confronti della sua donna a Milano, ma il ritratto benevolo del personaggio suggerisce che anche lui subisca la trascuratezza di cui soffre la “Patria”. 24 Whip pan: movimento velocissimo della cinepresa da un’inquadratura a un’altra (N.d.T.). 25 Come suggerisce la somiglianza tra i due titoli, Vite in sospeso trae origine dall’esperienza come documentarista di Turco, che aveva realizzato per RAI3 Vite sospese (1996), un film sulla vita degli esuli politici a Parigi (Lombardi 2002: 419). 26 Il paragone implicito dell’Italia degli anni di piombo con il contesto brutalmente oppressivo della dittatura argentina è saggiamen-

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te poco sviluppato nel film. Esso è reso esplicito solo nella scena in cui i vecchi compagni si riuniscono nella stanza da pranzo di Malena. Roberto affronta l’amico che l’ha tradito denunciandolo alla polizia, e questi risponde: “Ero quasi innamorato di te come di tutti voi altri, più grandi, più coraggiosi, più colti di me. Mi hanno massacrato di botte. Mi sembrava quasi di stare in Sud America. Mi hanno riempito di calci ai coglioni. Semplicemente ho fatto il nome di una via e il numero e sono tornato a vivere”. 27 Le immagini non portano alcuna didascalia, per cui la mia identificazione della loro provenienza potrebbe essere inesatta. 28 La meglio gioventù si colloca all’interno di una tradizione cinematografica di saghe e di storie di rapporti tra fratelli (o configurazioni analoghe) che comprende Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960) e Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976), film che impiegano entrambi mezzi estetici che derivano da forme popolari di narrazione. Per ragioni di spazio analizzo solo, più avanti, Rocco e i suoi fratelli, per affrontare il problema dei mezzi popolari e middlebrow (vedi nota 31) che si possono ravvisare in esso come in La meglio gioventú. Ma Novecento avrebbe rappresentato comunque un paragone altrettanto valido e, avendo lo spazio per svilupparlo, forse persino più adeguato. 29 Il diario del mese, 11/5 (5 Dicembre 2003). 30 Le immagini a campo lungo di un’Italia bellissima ma in pericolo collocano La meglio gioventù all’interno di una tradizione del cinema italiano che Gordon (2000: 213) definisce come “una sorta di equivalente degli heritage film inglesi” in opere come Nuovo cinema paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988). Ma se Gordon (pp. 212-3) stabilisce un’opposizione tra il “nuovo vigore politico” di un film come Aprile di Moretti e i prodotti di genere di “qualità elevata” come Nuovo cinema paradiso, Mediterraneo (Gabriele Salvatores, 1991) e, implicitamente, La meglio gioventù, io ritengo che la carica politica contenuta nella mini-serie di Giordana derivi in parte proprio dal suo ricorso all’heritage, un aspetto dell’individuazione

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di un pubblico middlebrow in una classe media autoriflessiva (Ginsborg 2001: 120) che è orgogliosa dell’apparenza e dell’eredità del meglio dell’Italia. Il termine middlebrow, che si riferisce a un concetto dispregiativo che risale quanto meno a Nietzsche, è stato teorizzato da Pierre Bourdieu (1993: 125-31). Per Bourdieu, la middlebrow art (l’art moyen) è “indirizzata a un pubblico che viene spesso definito come ‘medio’ ed è completamente definito da [quel] pubblico” (p. 125). Bourdieu sostiene che l’imperativo economico dell’accessibilità implica l’uso di mezzi tecnici e di genere banali, e porta all’“esclusione sistematica di tutti i temi potenzialmente controversi, o di quelli che potrebbero sconcertare questa o quella parte del pubblico” (p. 126). Un testo come La meglio gioventù conferma in parte l’analisi di Bourdieu e si può affermare che si tratti, in un certo senso, di un testo reazionario, anche se sarebbe più preciso dire che il film “elabora” gli eventi sconvolgenti del passato per conto di una sezione particolare del pubblico. 31 Battaglia (ed.) Grande dizionario della lingua italiana vol. VII, p.430. 32 Entrambi propongono una visione polemica degli obblighi dell’impegno. Montale ne accetta le connotazioni politiche limitate, mentre Piovene è esplicito nel lamentare la funzione puramente ideologica concessa alla letteratura sotto la voce “impegno”. Montale scrive che “quando si parla dell’impegno o dell’ ‘engagement’ dell’artista […], si intende […] alludere all’indicazione nettamente ‘progressiva’ che un’opera d’arte attuale dovrebbe almeno suggerire”. Piovene parla dell’essere “ancora alla fase paleozoica dell’ ‘impegno’, per cui la letteratura è politica e basta” (Grande Dizionario della Lingua Italiana vol.VII, p. 430). 33 Nel mio uso del termine “discorso” mi baso principalmente sull’opera di Michel Foucault. Il concetto di discorso si trova in tutta la sua opera, ma è espresso specialmente in L’archeologia del sapere e nei saggi “Che cos’è un autore” e L’ordine del discorso. Gli aspetti produttivi o positivi del discorso, che ci interessano in questo capitolo altrettanto quanto le sue caratteristiche limitative o coercitive, sono

maggiormente evidenziati nelle opere successive di Foucault, ad esempio nel primo volume di La storia della sessualità. 34 “Intellettuale” fu usato per la prima volta come sostantivo nel 1905 (Palazzi Folena, Dizionario della Lingua Italiana, Torino: Loescher Editore 1992), probabilmente seguendo l’uso francese introdotto durante il caso Dreyfuss, quando una famosa lettera di protesta fu firmata da sedicenti intellectuels (v. Schalk 1979: 6). Ciò nonostante, come scrive Lepenies (1992: 9), “anche in questo caso bisogna riconoscere che la questione esiste indipendentemente dalla parola giusta per definirla”. 35 Come scrive Gordon (2005: 22), “prima dell’unificazione, l’‘Italia’ sembrava quasi esistere solo nei lamenti patriottici dei grandi scrittori italiani da Dante, Petrarca e Machiavelli a Leopardi e Manzoni, e nelle glorie dell’Impero Romano e dell’arte rinascimentale”. 36 A rischio di anacronismo, possiamo descrivere l’articolo di David Ward come una breve storia dell’impegno: la sua è implicitamente un’analisi non dell’intellettuale di per sé, ma della natura dello scrittore-intellettuale italiano come una funzione civica. 37 Ci sono, naturalmente, delle scrittrici che si occupano della Resistenza – tra le più note Renata Viganò e Giovanna Zangrandi – ma, come ha scritto Myriam Trevisan (2000), “un primo approccio agli scritti [di donne] del periodo della resistenza incontra una contraddizione sorprendente: se da un lato c’è una grande quantità di materiale, dall’altro c’è una totale mancanza di nomi nell’orizzonte letterario italiano. Questa cospicua produzione è stata infatti ignorata in quanto non rientrava dentro i confini dei parametri letterari del neorealismo italiano”. Come esempio più noto di queste scrittrici, la Viganò è vista anche da Caesar (2000: 205) come un caso eccezionale: “La scrittura femminile tra il 1945 e il 1965 è peculiare: la divergenza è presente sin dall’inizio del periodo in questione, quando molti scrittori maschi italiani si volsero (o in certi casi tornarono) alle pratiche del neorealismo, mentre le scrittrici, con rare eccezioni – la più nota delle quali è rappresentata da Renata Viganò nel suo romanzo popolare sulla resisten-

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za, L’Agnese va a morire […] – non sono attratte né dalla sua estetica né dall’argomento”. 38 Le osservazioni della Hipkins furono espresse durante l’workshop “Thinking Italian Film”, tenuto presso il Leeds Humanities Research Institute, Università di Leeds, il 17 marzo 2006. 39 Il rifiuto del piacere narrativo convenzionale in La seconda volta è un esempio di questo tipo di sfida. 40 Andrey Aleksandrovich Zhdanov fu l’autore della dottrina culturale “anti-imperialista” emanata dall’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale, che insisteva su forme culturali conservatrici (e anti-moderniste e anti-sperimentaliste) mentre allo stesso tempo prescriveva il corretto contenuto “progressista” e la stretta aderenza ideologica alle linee di partito. 41 Questa citazione, esclusa dalle successive ristampe dell’articolo di Eco, è resa nota da Vital Crises di P. Adams Sitney (1995), in cui viene tradotta alla pag.200. 42 Allo stesso tempo, non dovremmo sottovalutare il modo in cui la sfida potenziale allo spettatore di un film come Salvatore Giuliano potrebbe celare una retorica del modo di rivolgersi al suo pubblico, che non era tanto una sollecitazione all’azione politica quanto un appello, e un contributo alla costruzione, alla percezione di sé come un elettorato definibile. In altre parole, la funzione del testo non era di persuadere l’elettorato che avrebbe visto il film a credere a questa o quella versione degli eventi, o a intraprendere questa o quell’azione sulla base dell’analisi offerta; era semmai quella di dare al suo pubblico il senso di possedere un’identità politica e di avere quindi titolo all’azione politica. 43 Con “memoria mediatica” mi riferisco alle immagini che ci sono familiari dai giornali e dai servizi televisivi di alcuni eventi significativi rievocati in La meglio gioventù – ad esempio, le foto degli “angeli del fango”, i giovani volontari che nel novembre del 1966 confluirono a Firenze insieme ai militari per aiutare a salvare i tesori messi in pericolo dall’alluvione. Mary Wood dà un’interpretazione diversa delle immagini a

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campo lungo nel film, che variano dai panorami urbani alle vedute spettacolari delle isole Eolie: secondo la Wood (2005: 78) c’è uno schema prestabilito “che suggerisce che la loro diversità contribuisce all’unità che è l’Italia”. Potremmo aggiungere che esse consentono una visione di un’Italia pittoresca che rappresenta quel patrimonio che “la meglio gioventù” sta lottando per preservare. Vedi anche la nota n 31. 44 Vedi Rohdie 1992 per un’analisi convincente dell’“eccessivo” impiego di modalità melodrammatiche da parte di Visconti in Rocco e i suoi fratelli. 45 “Elaborazione” è la metafora freudiana adottata da Ellis (2000: 102-129) nel suo lavoro sul ruolo della televisione nella società contemporanea. Per Ellis, il nostro senso di essere “testimoni impotenti” di fronte agli eventi traumatici può essere “elaborato” tramite l’immediatezza oltre che la natura ripetitiva ed esaustiva dei servizi giornalistici televisivi insieme con generi come la soap opera. Vedi anche l’Introduzione, paragrafo “Il patrimonio del terrore”. 46 Il materiale web di Repubblica è reperibile su http://www.repubblica.it/speciale/2003/appello_ gioventu/firme_raccolte.html (accesso del 15 maggio 2006). 47 La sua presunta delusione politica simbolica è confermata dalle modalità della sua fine: si suicida gettandosi dal balcone su cui si affaccia la finestra del suo appartamento. Le finestre sono gli emblemi cinematografici per eccellenza della compenetrazione del pubblico e del privato – il suo suicidio indica il significato emblematico e pubblico dell’atto di disperazione privato. Il suicidio per defenestrazione è un topos del cinema politico: vengono in mente la morte emblematica del disoccupato all’inizio di Kuhle Wampe di Slatan Dudow e Bertold Brecht (1932) o il salto nel vuoto della madre della terrorista in Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci (1985). 48 “È arrivato il momento di essere generosi”, dice Nicola alla figlia ormai grande quando le propone di incontrare sua madre, che ora lavora fuori dal carcere.

CAPITOLO QUINTO

Conclusioni: il fa scino dei terr orismi

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Le condizioni nazionali e internazionali indicano che il terrorismo come fenomeno e come preoccupazione non è semplicemente un ricordo, ma una realtà dell’Italia contemporanea. Per questa ragione preferisco terminare, anziché con una conclusione convenzionale, con una breve analisi di tre film piuttosto recenti: Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), Arrivederci amore, ciao e Attacco allo stato (entrambi di Michele Soavi, 2006). Tale analisi vuole offrire una rapida visione conclusiva del ruolo del terrorismo nell’immaginario culturale dell’Italia contemporanea. Suggerisco che ognuno di questi tre testi rappresenti una diversa area di percezione del terrorismo e della sua eredità, mentre l’insieme dei tre può persino dimostrare che la cultura cinematografica ha “bisogno” del terrorismo, esattamente come la polizia in uno dei film presi in esame ha “bisogno” delle Brigate Rosse: il terrorismo non è soltanto la raison d’être materiale e narrativa del film, ma è parte del patrimonio culturale italiano. Romanzo criminale racconta la storia della Banda della Magliana, che dominò la criminalità romana per un certo periodo tra gli anni ’70 e gli ’80, e il film offre una reinterpretazione della condotta di coloro che furono responsabili delle atrocità degli anni di piombo, mettendo in secondo piano il terrorismo di sinistra persino mentre si rievocano il sequestro e l’assassinio di Moro. Le Brigate Rosse non compaiono nel film; però una figura di burattinaio che rappresenta gli elementi più reazionari dello Stato si serve della Banda della Magliana per scoprire dove si trovi la prigione di Moro.1 Alcuni membri della banda vengono impiegati dallo stesso personaggio per celare la complicità dello Stato con gli autori della strage di Bologna. Romanzo criminale conferma l’analisi di Guido Panvini (2007: 104-6), secondo cui la concentrazione dell’attenzione sulla verifica della veridicità di eventi particolarmente salienti ha avuto la precedenza rispetto all’analisi storica dei movimenti e dei processi sociali negli anni di piombo. Secondo Panvini, siamo ancora in attesa di un lavoro storiografico ad ampio raggio sulle cause e i contesti della violenza di 207

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quel periodo, “che riordini il materiale a disposizione e lo ricolleghi ai diversi contesti politici e culturali, problematizzandolo e relativizzandolo”. In assenza di un tale lavoro prevale un’ossessione per gli eventi spettacolari, sostiene Panvini, che cita l’inevitabile esempio del sequestro Moro per illustrare il fenomeno (p. 106). Arrivederci amore, ciao (Michele Soavi, 2006) racconta del ritorno, agli inizi degli anni ’90, dell’ex militante Giorgio Pellegrini al benessere del Nord Italia dal suo autoimposto esilio in America Latina (come Svitòl in Maledetti vi amerò). Il film propone un correttivo del ritratto nobilitante dell’ex terrorista contenuto in film come La mia generazione e I riconciliati, “figure di duri ma puri in grado di fare i conti col proprio passato senza necessariamente rinnegarlo in toto o rimuoverlo” (Uva 2007: 91). Pellegrini, invece, viene identificato sin dall’inizio come una “carogna” secondo il significato popolare dispregiativo del termine, ma anche nel senso che il personaggio rappresenta la carogna in putrefazione degli anni di piombo, che sembra continui ad appestare l’aria dell’Italia contemporanea.2 Il suo nome porta la connotazione ironica di un pilgrim’s progress, rappresentato dalla lotta per sfuggire al proprio passato di militante abbracciando una normalità borghese che ricorda il personaggio del fidanzato pentito in Diavolo in corpo. Parte dell’ironia del film deriva dal confronto del carcame non del tutto morto di un passato recente con l’emblema della sua aspirazione alla normalità, la ragazza carina e pia che gli chiede: “È vero quello che dicono di te?” “Cosa dicono?” “Che eri un terrorista”. “Ero molto giovane e volevo cambiare il mondo”. “Giurami che sei pentito! Giurami che non sei più comunista!” “Te lo giuro”. [dialogo trascritto dal film]

Lo scivolamento da “terrorista” a “comunista” nelle domande di lei segna il discorso come tipico dell’era Berlusconi (ricorda infatti l’abitudine dell’ex premier di usare il termine comunista per stigmatizzare i suoi oppositori), con le due parole messe sullo stesso piano come termini di abuso e persino di orrore. La paura che trapela dalle sue parole annuncia in realtà che il film si trasformerà in un horror movie, o più precisamente in un giallo con tendenza all’horror: nella sequenza in cui viene uccisa da Pellegrini, la ragazza striscia lungo il corridoio del loro appartamento con la macchina da presa che indugia sulla 208

Conclusioni: il fascino dei terrorismi

vista del corpo eroticizzato nel momento della morte, proprio come in un film di Argento o di Bava degli anni ’70.3 L’analisi del ritorno del terrorista secondo modalità da giallo in Arrivederci amore, ciao può persino suggerire, in retrospettiva, che il giallo degli anni di piombo, con il suo caos e gli omicidi violenti, rappresentasse una codificazione criptica delle ansie causate dalla violenza presente nella società italiana, e forse dalla presenza del terrorismo. Panvini (2007: 109) scrive che: negli anni Settanta […] il grande favore incontrato presso il pubblico italiano dai film western, dai polizieschi, dai film d’azione sulle arti marziali orientali può dirci molto sulla ricezione della violenza da parte di quella generazione impegnata nella contestazione al Sistema […] .

Se tali generi riflettevano un fascino per la violenza, forse i gialli del periodo, altrettanto popolari, rispecchiavano l’opposto: le ansie legate alla presenza della violenza nella società italiana, percepita come uno scoppio di irrazionalità, una follia che affligge la collettività. Di certo il personaggio di Pellegrini in Arrivederci amore, ciao sembra richiamare tali ansie ma anche rinnovarle nel presente per il fatto che i terroristi possano essere un elemento di disturbo nella società italiana – ansia che trova espressione nelle parole piene di rabbia di Giampaolo Pansa (2006: 43): Chi è stato un terrorista, rosso o nero non importa, e chi è sentito dalla loro parte, ogni giorno può alzarsi strillando: allegria! Poteva andargli meglio di così? Assolutamente no, madama la marchesa! Siamo il paese del perdonismo. Sotto lo stellone repubblicano, dovrebbe esserci il motto: chi muore giace e chi vive si dà pace.4

Il terrorista di Arrivederci amore, ciao è diventato una figura di genere: un assassino da horror-movie e uno zombie sopravvissuto ai conflitti del passato. La sinistra sopravvivenza del terrorista nel film è accostata in modo appropriato alla rappresentazione delle “nuove” Brigate Rosse nella miniserie televisiva Attacco allo stato, mandata in onda nel 2006, lo stesso anno dell’uscita di Arrivederci amore, ciao, anch’esso diretto da Michele Soavi, anche se con un diverso gruppo di sceneggiatori e una regia molto differente. Il legame che si può tracciare tra i due testi riguarda lo “scoppio” imprevedibile del “terrore” sotto forma di mostro-terrorista (il pericoloso Pellegrini) o nelle azioni di un manipolo di terroristi clandestini con radici nella storia violenta dell’Italia. Attacco allo stato è un police procedural che trae spunto dalle indagini reali 209

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che portarono alla cattura degli assassini di Massimo D’Antona e di Marco Biagi.5 In contrasto con la rappresentazione dei componenti del gruppo investigativo, che vengono mostrati solo nel contesto del loro lavoro, le vite familiari delle vittime delle BR, compreso un poliziotto che compare poco prima di essere ucciso in una sparatoria, sono messe in primo piano e idealizzate. Il ritratto zuccheroso delle vite familiari di questi uomini ricorda il modo in cui viene rappresentata la famiglia in La meglio gioventù e fa pensare che, come nella fiction più vecchia, la famiglia venga intesa sia come simbolo che come modello dello Stato. Il titolo del film, che fa riferimento al vecchio slogan delle BR, trova una contraddizione nel contenuto, che mostra degli attacchi a uomini di famiglia il cui status istituzionale è accuratamente minimizzato. In una complessa operazione ideologica, il film rappresenta le BR come contro natura e non italiane nel loro disprezzo per la famiglia,6 mentre gli investigatori sono ritratti come una casta di guerrieri incorruttibili o di preti, che lavorano instancabilmente per proteggere la famiglia/le famiglie della nazione.7 Attacco allo stato non è un film sugli anni di piombo, ma sulla loro eredità, e i legami delle nuove Brigate Rosse con il terrorismo del passato sono rappresentati da un unico personaggio – un irriducibile incontrato in carcere, i cui occhi piccoli e il cui piglio denotano il male nei termini più stereotipati. Come Pellegrini in Arrivederci amore, ciao, ma in una cifra meno criptica, la sua presenza nel film rappresenta la minaccia che non vuole scomparire, e che, perciò, richiede sempre un apparato di sicurezza che la controlli. Come rimarca l’eroe del film, l’investigatore capo interpretato dal sex symbol Raoul Bova, dopo la cattura dell’ultimo terrorista: “Anche se non è finita, noi saremo sempre qui, ad aspettarli” [trascrizione dal film]. Durante l’interrogatorio di uno dei brigatisti catturati, il personaggio di Bova insiste: “La lotta armata è finita vent’anni fa […]. Non c’è nessuno dietro di voi. Siete soli. Soli!” L’affermazione è interessante perché deve non essere vera.8 Tuttavia sarebbe una ricerca vana in questi tre film recenti quella di un’espressione delle aspirazioni o delle frustrazioni che possono aver condotto alla recrudescenza di sentimenti e azioni rivoluzionari. Però esistono altri film che vi danno voce: testi come Carlo Giuliani, ragazzo (Francesca Comencini, 2002) o Lavorare con lentezza (Guido Chiesa, 2004) forniscono qualcosa di simile al punto di vista di un “centro sociale”,9 espresso in opposizione all’ethos neoliberale che pare determinare la politica e l’economia italiane contemporanee. Non intendo dire, ovviamente, che gli autori di questi film volessero promuovere la lotta armata. Suggerisco, però, che le divisioni che sussistevano durante gli anni di piombo, e che nutrivano la violenza di quegli 210

Conclusioni: il fascino dei terrorismi

anni, continuano a esistere; e che tali divisioni si manifestano nella forma di una guerra civile a bassa intensità – per usare una metafora degli stessi anni di piombo – intrapresa al livello di espressione culturale. Guido Chiesa ha parlato di come, nella realizzazione di Lavorare con lentezza, ha deliberatamente evitato di occuparsi del terrorismo.10 Una differenza significativa tra Lavorare con lentezza e un film come Romanzo criminale, che si concentra sullo stesso periodo (anche se a un livello diverso), sta in questa tendenza verso la rappresentazione della violenza. Lavorare con lentezza ritrae invece la violenza politica: mette in scena gli scontri per le strade tra la polizia e i giovani di sinistra nella Bologna del 1977, contiene una “ricostruzione filologica” (espressione di Chiesa) dell’attacco mortale da parte dei carabinieri all’attivista di Lotta Continua Francesco Lorusso, un evento che ha assunto per la sinistra uno status mitico. Il film, comunque, si preoccupa di contestualizzare questa violenza nelle strade con un ritratto più ampio della creatività e dei conflitti culturali del movimento negli anni ’70. Per contrasto, il sequestro Moro e gli eventi di Bologna sono impiegati in Romanzo criminale per fornire alla narrazione dei riferimenti storici e per garantirne l’autenticità. L’uso di immagini del cadavere di Moro e i filmati di repertorio sui momenti successivi alla strage di Bologna (di cui abbiamo parlato nel terzo capitolo) vogliono garantire alla fiction il suggello della verità storica,11 ma Moro e Bologna restano come metonimie dei conflitti del periodo, conflitti che sono essi stessi elisi. L’uccisione del politico e l’esplosione alla stazione sono diventate dei tropoi staccati dalle loro circostanze storiche precise: si sono trasformate in ricordi da schermo che evocano l’atmosfera degli anni di piombo mentre oscurano la politica, le proteste e le mobilitazioni di massa dell’epoca. Il mio scopo nel proporre questo raffronto non è quello di criticare Romanzo criminale, ma semmai quello di definirne in modo preciso la natura. Nell’uso della struttura da crime story per delineare la colpevolezza della destra e dello Stato, il film rappresenta un revival del modo di trattare il terrorismo nei polizieschi degli anni ’70 (Uva 2007: 90; Wood, prossima pubblicazione 2007b) e, più di recente, in Piazza delle Cinque Lune. E come Piazza delle Cinque Lune, anche Romanzo criminale è una sorta di heritage film: gli eventi storici “reali” sono incastrati in un contesto italiano di arte, moda, design e personaggi affascinanti che cita questi eventi come aspetti di un passato il quale costituisce una gradevole esperienza per i sensi e un bene esportabile. Ho incominciato questo libro parlando del fascino esercitato dal terrorismo; Romanzo criminale, Arrivederci amore, ciao e Attacco allo stato mostrano e confermano questo fascino. Inoltre essi confermano, come senza dubbio 211

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succederà con certi film italiani che usciranno l’anno prossimo e quello dopo ancora, il ruolo del terrorismo come un aspetto essenziale e avvincente dell’epopea nazionale in chiaroscuro. Infine, dimostrano che l’analisi della memoria storica del terrorismo e degli anni di piombo proposta in questo libro non è solo frammentaria, come ho ammesso nell’introduzione, ma è anche essenzialmente provvisoria, perché la coinvolgente storia del terrorismo in Italia non è giunta essa stessa a una fine.

NOTE AL CAPITOLO QUINTO

1 L’informazione viene fornita come richiesto, ma non viene utilizzata; siamo portati a dedurre che alcuni elementi dello Stato fossero contenti di vedere Moro morto, pur non essendo coinvolti direttamente nel sequestro. 2 Il film si apre con un’inquadratura dall’angolo visuale del cadavere di un alligatore che galleggia su un fiume; il punto di vista del film, in senso narrativo e a tratti anche visuale, viene poi trasferito al personaggio di Pellegrini. 3 Il regista Michele Soavi è un cineasta che opera consapevolmente nella tradizione del giallo italiano. (Questo è vero perlomeno per il lavoro che svolge nel cinema; la sua produzione televisiva, che costituisce la maggior parte della sua opera, attinge alle convenzioni della fiction di serie e dell’action drama.) Il virtuosismo visivo della realizzazione di Arrivederci amore, ciao rappresenta un omaggio alla varietà del giallo: riprese lunghe che si alternano a inquadrature cortissime e sequenze di montaggio; angolazioni sconcertanti della macchina da presa accompagnano le immagini al rallentatore; inquadrature soggettive vengono filmate sia dalla macchina da presa a mano sia dalla steadycam: c’è addirittura una scena in cui la macchina da presa si schianta più volte a un orinatoio per simulare ciò che accade alla testa del protagonista. 4 La circostanza dell’indignazione di Pansa era l’elezione alla Camera dei Deputati dell’ex leader di Prima Linea Sergio D’Elia. 5 Massimo D’Antona fu assassinato a Roma nel maggio del 1999. La stessa pistola fu ado-

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perata per uccidere Marco Biagi a Bologna nel marzo del 2002. Entrambi gli omicidi furono rivendicati dalle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente. 6 Come in La meglio gioventù, uno dei membri femminili del gruppo è mostrato come lacerato tra la militanza e la maternità. Poiché si capisce che è sul punto di rinunciare alla devozione alla causa, sta per essere “punita” dal gruppo quando i suoi esecutori vengono catturati (e uno di loro viene ucciso) in un conflitto a fuoco con i carabinieri. 7 In questo senso, Attacco allo stato ha in sé il segno delle sue origini come instant movie riadattato dalle pagine di cronaca e dai telegiornali, e contiene un appello per ottenere maggiori poteri e risorse migliori per la polizia, in un modo che rimanda ai polizieschi come La polizia ringrazia che, per la Wood (2007: 258), “mostrano la reazione conservatrice di attribuire maggiori poteri alla polizia”. 8 Al momento, la polizia italiana ha arrestato un gruppo di quindici persone ritenute membri delle “nuove” Brigate Rosse. Sarà interessante vedere quali testi in futuro saranno ispirati dalle azioni e dalla cattura delle nuove BR. Guido che sfidò le Brigate Rosse di Giuseppe Ferrara (2006), sull’omicidio del 1979 del sindacalista Guido Rossa da parte delle vecchie Brigate Rosse, è visto probabilmente come una reazione alla persistenza di un gruppo terroristico le cui azioni costituiscono motivo di imbarazzo per i sindacati e per i movimenti di protesta. 9 Le indagini della polizia hanno suggerito un legame tra alcuni centri sociali e il riemergere del terrorismo di sinistra.

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I commenti di Chiesa sono contenuti in una presentazione che accompagna il film nella versione DVD (Medusa Home Entertainment 2005). 11 Uno dei personaggi è sovraimpresso, co-

me Zelig o Forrest Gump, sulle immagini del filmato sulla strage di Bologna. Per Black (2005: 36), questo è un tipo di processo in cui “la trasformazione in fiction della storia pubblica è apparentemente legittimata”.

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Filmografia

Anni di piombo. Reg. Margarethe Von Trotta. Bioskop Film. 1981. L’anno del terrore. Reg. John Frankenheimer. Yog Productions. 1991. Aprile. Reg. Nanni Moretti. Sacher Film. 1998. Apocalypse Now. Reg. Francis Ford Coppola. Zoetrope Studios. 1979. Appuntamento a Liverpool. Reg. Marco Tullio Giordana. Reteitalia. 1988. Arrivederci amore, ciao. Reg. Michele Soavi. Studio Urania. 2006. Attacco allo stato. Reg. Michele Soavi. Taodue. 2006. Battaglia di Algeri. Reg. Gillo Pontecorvo. Casbah Film. 1966. Blow-Up. Reg. Michelangelo Antonioni. Bridge Films. 1966. Un borghese piccolo piccolo. Reg. Mario Monicelli. Auro Cinematografica. 1977. Buongiorno, notte. Reg. Marco Bellocchio. Filmalbatros. 2003. Butch Cassidy. Reg. George Roy Hill. Campanile Productions. 1969. Cadaveri eccellenti. Reg. Francesco Rosi. Produzioni Europee Associate. 1976. La caduta degli angeli ribelli. Reg. Marco Tullio Giordana. Filmalpha. 1981. Carlo Giuliani, ragazzo. Reg. Francesca Comencini. Luna Rossa Cinematografica. 2002. Caro Michele. Reg. Mario Monicelli. Flag. 1976.

Caro papà. Reg. Dino Risi. Dean Film. 1976. Il caso Mattei. Reg. Francesco Rosi. Vides Cinematografica. 1972. Il caso Moro. Reg. Giuseppe Ferrara. Yarno Cinematografica. 1986. I cento passi. Reg. Marco Tullio Giordana. Titti Film. 2000. C’eravamo tanto amati. Reg. Ettore Scola. Dean Film. 1974. Colpire al cuore. Reg. Gianni Amelio. RAI. 1982. Il conformista. Reg. Bernardo Bertolucci. Mars Film. 1970. Desideria: la vita interiore. Reg. Gianni Barcelloni. Medusa Produzione. 1980. Diavolo in corpo. Reg. Marco Bellocchio. L.P. Film. 1986. Donne armate. Reg. Sergio Corbucci. RAI Due. 1991. Elizabeth. Reg. Shekhar Kapur. Polygram Filmed Entertainment. 1998. Fahrenheit 9/11. Reg. Michael Moore. Westside Production Services. 2004. Forrest Gump. Reg. Robert Zemeckis. Paramount Pictures. 1994. Fuori fuoco – Cinema, ribelli e rivoluzionari. Reg. Federico Greco e Mazzino Montinari. Flying Padre Productions. 2004. Gangsters. Reg. Massimo Guglielmi. A.M.A. Film. 1992. La grande fuga. Reg. John Sturges. Mirisch Corporation. 1963.

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Histoire d’O. Reg. Just Jaeckin. S.N. Prodis. 1975. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Reg. Elio Petri. Vera Films. 1970. Gli invisibili. Reg. Pasquale Squitieri. Vidi. 1988. JFK. Reg. Oliver Stone. Warner Bros. 1991. Kleinhoff Hotel. Reg. Carlo Lizzani. Trust International Films. 1977. Kuhle Wampe. Reg. Slatan Dudow. Prometheus-Filmverleih und Vertriebs. 1932. Il ladro di bambini. Reg. Gianni Amelio. Erre Produzioni. 1992. Ladri di barzellette. Reg. Bruno Colella e Leonardo Giuliano. Italgest Video, Grand Bleu. 2004. Ladri di biciclette. Reg. Vittorio De Sica. Produzioni De Sica. 1948. Lamerica. Reg. Gianni Amelio. Cecchi Gori Group. 1994. Lavorare con lentezza. Reg. Guido Chiesa. Fandango. 2004. Maledetti vi amerò. Reg. Marco Tullio Giordana. Cooperativa Jean Vigo. 1980. Mamma Roma. Reg. Pier Paolo Pasolini. Arco Film/Cineriz. 1962. Le mani forti. Reg. Franco Bernini. Fandango. 1997. Le mani sulla città. Reg. Francesco Rosi. Galatea Film. 1963. Mediterraneo. Reg. Gabriele Salvatores. Penta Film. 1991. La meglio gioventù. Reg. Marco Tullio Giordana. RAI Cinemafiction. 2003. La mia generazione. Reg. Wilma Labate. Compact. 1996. 1860. Reg. Alessandro Blasetti. Cinès/Steffano Pittaluga Films. 1934. Mordi e fuggi. Reg. Dino Risi. Compagnia Cinematografica Champion. 1973. La morte e la fanciulla. Reg. Roman Polanski. Mount/Kramer. 1994. 216

Nascita di una nazione. Reg. D.W. Griffith. Epoch Producing Corporation/ David W. Griffith Corporation. 1915. La notte della repubblica. Reg. Sergio Zavoli et al. RAI. 1989-1990. Notte e nebbia. Reg. Alain Resnais. Argos-Films. 1955. Novecento. Reg. Bernardo Bertolucci. Produzioni Europee Associate. 1976. Nucleo Zero. Reg. Carlo Lizzani. Diamante Films. 1984. I nuovi mostri. Reg. Mario Monicelli, Dino Risi ed Ettore Scola. Deam Films. 1977. Nuovo cinema paradiso. Reg. Giuseppe Tornatore. Cristaldi Film. 1988. Ogro. Reg. Gillo Pontecorvo. Vides Cinematografica. 1979. Padre padrone. Reg. Paolo e Vittorio Taviani. RAI. 1977. Paisà. Reg. Roberto Rossellini. O.F.I./Foreign Film Productions. 1946. Pasolini. Un delitto italiano. Reg. Marco Tullio Giordana. Cecchi Gori Group. 1995. Per non dimenticare. Reg. Massimo Martelli. Legami! 1992. Piazza delle Cinque Lune. Reg. Renzo Martinelli. Martinelli Film Co. Ltd. 2003. La polizia ringrazia. Reg. Stefano Vanzina (Steno). Primex Italiana. 1972. Il portiere di notte. Reg. Liliana Cavani. Lotar Film. 1974. Porzus. Reg. Renzo Martinelli. Videomaura. 1997. Prova d’orchestra. Reg. Federico Fellini. RAI. 1979. I riconciliati. Reg. Rosalia Polizzi. Technovisual. 2001. Rocco e i suoi fratelli. Reg. Luchino Visconti. Titanus. 1960. Roma, città aperta. Reg. Roberto Rossellini. Excelsa Film. 1945. Romanzo criminale. Reg. Michele Placido. Cattleya Films. 2005.

Filmografia

Sacco e Vanzetti. Reg. Giuliano Montaldo. Jolly Film. 1971. Salvatore Giuliano. Reg. Francesco Rosi. Lux Film. 1962. La seconda volta. Reg. Mimmo Calopresti. Sacher Film. 1995. Segreti segreti. Reg. Giuseppe Bertolucci. A.M.A. Film. 1984. Il terrorista. Reg. Gianfranco de Bosio. Galatea Film. 1963. Thelma e Louise. Reg. Ridley Scott. Pathé Entertainment Inc. 1991. Todo modo. Reg. Elio Petri. Cine Vera. 1976. La tragedia di un uomo ridicolo. Reg. Bernardo Bertolucci. Fiction Cinematografica. 1981. Tre fratelli. Reg. Francesco Rosi. Iter Film. 1981. Trilogia Aldo Moro. Reg. Aurelio Grimaldi. Gruppo Pasquino. 2004.

Ultimo tango a Parigi. Reg. Bernardo Bertolucci. Produzioni Europee Associate. 1972. Va’ e uccidi. Reg. John Frankenheimer. M.C. Productions. 1962. Vajont. Reg. Renzo Martinelli. Martinelli Film Co. Ltd. 2001. Vecchia guardia. Reg. Alessandro Blasetti. Fauno Film. 1934. Vite in sospeso. Reg. Marco Turco. RAI Cinemafiction. 1998. Vite sospese. Reg. Marco Turco. RAI. 1996. Vogliamo i colonnelli. Reg. Mario Monicelli. Dean Film. 1973. Zelig. Reg. Woody Allen. Orion Pictures Corporation. 1983. Z-L’orgia del potere. Reg. Costa-Gavras. Reggane Films. 1968.

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