Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 8833890899, 9788833890890

Clint Eastwood è l'unica star del cinema americano che abbia modellato la propria carriera attraverso film da lui p

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Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011
 8833890899, 9788833890890

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CLINT EASTWOOD

FEDELE A ME STESSO INTERVISTE 1971-201 1

A CURA DI ROBERT E. KAPSIS E KATHIE COBLENTZ

TRADUZIONE DI ALICE CASARINI

Cinema

25

Clint Eastwood

Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz Titolo originale: Clint Eastwood: Interviews

Traduzione di Alice Casarini © University’ Press of Mississippi, 2013 Published by arrangement with University Press of Mississippi,

3825 Ridgewood Road. Jackson (MS) 39211 www.upress.state.ms.us © minimum fax, 2019

Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax

via Giuseppe Pisanelli, 2 - 00196 Roma tel. 06.3336545 j 06.3336553 [email protected] WWW.minimumfax.com

I edizione: ottobre 2019 I edizione digitale: ottobre 2019 ISBN 9788833891354

CLINT EASTWOOD

FEDELE A ME STESSO INTERVISTE 1971-2011

a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz

traduzione di Alice Casarini

minimum fax

INDICE

Introduzione

Cronologia

Filmografia

/ Non solo stivali da cowboy per Clint di Rex Reed

/ Eastwood a proposito di Eastwood di Stuart M. Kaminsky

/ Eastwood regista di Richard Thompson e Tim Hunter

I Clint Eastwood regista: attenzione ai dettagli e coinvolgimento del pubblico di Ric Gentry

/ Eastwood: un autore di cui tenere conto di Charles Champlin

/ Un poliziotto in bilico su una Corda tesa di David Thomson

/ «Che io abbia successo o no voglio che la responsabilità sia soltanto mia»

Da Brivido nella notte a Honkytonk Man di Michael Henry Wilson

/ Clint Eastwood: l’intervista di Rolling Stone di Tim Cahill

I Eastwood a proposito di Eastwood di Christopher Frayling

/ Sulle note di Clint di Nat Hentoff

/ Intervista a Clint Eastwood di Michel Ciment

I Intervista a Clint Eastwood di Thierry Jousse e Camille Nevers

/ Eastwood «fa come gli pare» di Peter Biskind

I L’America sull’orlo del baratro di Henri Béhar

I Botta e risposta con un’icona western di Jerry Roberts

I «La verità, così come l’arte, è nell’occhio di chi guarda»: Mezzanotte nel giardino del bene e del male e Iponti di Madison County

di Michael Henry Wilson / Conversazione con Clint Eastwood su Mystic River

di Charlie Rose

I Mystic River: Eastwood, senza rabbia né perdono di Samuel Blumenfeld

/ Staying Power di Amy Taubin

/ Lettere da Iwo «lima di Clint Eastwood di Terry Gross

/ Un americano tranquillo di GeoffAndrew

/ Ti contiene rischiare, Monk? di Nick Tosehes

/ Clint Eastwood, il regista d’America sui sentieri selvaggi di Scott Foundas

/ Eastwood sul campo: a settantanove anni, Clint affronta Mandela in Invictus - L'invincibile

di Scott Foundas

/ Intervista a Clint Eastwood: prima di tutto, credi in te stesso di Michael Henry Wilson

/ Con J. Edgar Eastwood torna a sbandierare la sua libertà di Scott Bowles Per approfondire

INTRODUZIONE

Il presente volume è la traduzione della seconda edizione di Clint

Eastwood: Interviews, la cui prima edizione è uscita nel 1999. Negli anni trascorsi da allora, la trentennale carriera registica di Eastwood è diventata più che quarantennale e i film da lui diretti, che già

superavano la ventina, ora sono più di trenta. Questa introduzione, scritta originariamente per la prima edizione, è stata rivista e ampliata, così come i contenuti del volume. Clint Eastwood è divenuto una star internazionale a metà degli anni

Sessanta grazie a un insolito progetto attoriale, una trilogia di western realizzati in Europa. Una volta tornato negli Stati Uniti, ha intrapreso una carriera di regista praticamente senza eguali. Per quarant’anni,

pur essendo un attore leggendario, ha recitato quasi esclusivamente in film di cui era produttore o coproduttore, e ancora più spesso regista.

Ha diretto ventitré film in cui è anche protagonista, un numero mai raggiunto da alcun attore-regista, a eccezione di Woody Allen. Inoltre

è uno dei registi in attività più prolifici. Nel corso della sua carriera Eastwood ha ottenuto ampi riconoscimenti per il suo stile registico, caratterizzato allo stesso tempo da una freddezza classica e un irriducibile tratto personale. Pur essendo pienamente integrato

nell'establishment hollywoodiano. ha mantenuto una prospettiva esterna attraverso il rifiuto di seguire le tendenze culturali ed

estetiche della produzione cinematografica. «Seguo il mio istinto e faccio i film in cui credo», ha dichiarato a Michael Henry Wilson nel

1984. Come attore, Eastwood è spesso ricordato principalmente per due dei suoi primi ruoli: «l’Uomo senza nome» dei tre western europei

che hanno dato il via alla sua carriera e Harry «la Carogna» Callaghan, Pinflessibile poliziotto di San Francisco con la voce bassa e

una grande pistola nella fondina, protagonista di cinque film, quattro dei quali diretti da altri registi (ma non senza suggerimenti di

Eastwood, come riportato in diverse delle interviste di questo volume). L’Eastwood regista ha tuttavia creato un corpus più variegato. Nello specifico, i suoi primi film hanno esplorato la iuta

dell’artista (Honkytonk. Man, Bird, Cacciatore bianco, cuore nero); hanno messo in discussione l’ethos della virilità e la sua stessa immagine come star (L'uomo nel mirino, Bronco Billy. Corda tesa.

Gunny, Gli spietati, Gran Torino); e hanno sfruttato il western, il più tradizionale dei generi cinematografici americani, come eloquente mezzo di espressione personale (Lo straniero senza nome, Il texano

dagli occhi di ghiaccio. Il cavaliere pallido, Gli spietati). In anni più

recenti sono emersi altri temi, come i traumi dell’infanzia e della perdita dell’innocenza (Un mondo perfetto, Mystic River,

Changeling, Hereafter); la natura dell'eroismo (Gunny, Flags of Our

Fathers, Lettere da Iwo Jima. Gran Torino); e la «difficile condizione delle donne in un mondo patriarcale profondamente imperfetto», nelle parole di Geoff Andrews (Gli spietati, I ponti di Madison County, Million Dollar Baby, Changeling).

Come produttore-regista, Eastwood ha mantenuto un raro livello di indipendenza aU’intemo del sistema hollywoodiano. Il suo status di star e la sua lunga reputazione di regista parsimonioso ed efficiente

sono garanzie economiche per gli studios che distribuiscono i suoi

lavori. Nel 1993 Frank Wells, ex presidente della Warner Bros., ha raccontato a Peter Biskind: «Una volta firmato l’accordo, non lo vederi più fino all’anteprima, e il film costava sempre meno del budget. Facevamo sempre quello che voleva lui». Eastwood, ancora

sulla cresta dell’onda dopo sessantanni nel mondo del cinema, continua a selezionare i progetti sulla base dell’unico criterio citato

ripetutamente nelle interriste: la storia deriessere qualcosa che lui

stesso vorrebbe vedere sullo schermo.

«Ho diretto questo film, lo sto montando io stesso e penso che sia un signor lavoro».

Così, intervistato da Rex Reed nel 1971, Eastwood commentava il suo stesso esordio registico, Brivido nella notte, manifestando un’insolita sicurezza per essere al primo lavoro dietro la macchina da

presa. Del resto aveva già maturato diciassette anni di esperienza in televisione e nel cinema. Prima era diventato famoso come coprotagonista di una serie televisiva western, Gli uomini della

prateria, durante la cui lunga vita (1959-65), aveva acquisito

competenze preziose nell’ambito della recitazione e dall'osservazione del lavoro dì realizzazione dei film. Come lui stesso racconta in diverse interviste, fu proprio sul set delle infinite transumanze del bestiame negli Uomini della prateria che emersero le sue prime

ambizioni registiche, che tuttavia furono ostacolate dai produttori. Gli uomini della prateria gli consentì di svoltare la carriera nel 1964, allorché uno sconosciuto regista italiano di nome Sergio Leone

cercava un cowboy convincente come protagonista di un remake in stile western e a basso budget della Sfida del samurai di Kurosawa, da girare a Roma e in Spagna. Il giovane mandriano degli Uomini della

prateria decise di cimentarsi con quello strano progetto tagliato su misura per lui. Per un pugno di dollari (.4 Fistful of Dollars) divenne un successo inaspettato in tutta Europa e diede il via a un nuovo genere, lo «spaghetti western».

Eastwood e Leone raccontano in modo diverso i rispettivi ruoli nel

decidere l’aspetto e la natura del misterioso pistolero che Eastwood ha interpretato in Per un pugno di dollari e nei due seguiti. Per qualche dollaro in più e II buono, il brutto, il cattivo. Sembra comunque fuori

discussione che sia stato Eastwood, nonostante le proteste iniziali di

Leone, a ridurre il più possibile la caratterizzazione del personaggio rispetto alla sceneggiatura originale, eliminando ogni accenno al suo

background e spogliandone le azioni di ogni prevedibilità, così come avrebbe poi fatto con i protagonisti di molti dei suoi film successivi.

Eastwood ha raccontato questo aneddoto a Tim Cahill di Rolling Stone: «Continuavo a dire a Sergio: “In un vero film di serie A, è il

pubblico da solo a farsi un’idea mentre guarda il film; in un B-movie viene spiegato tutto”».

Grazie all’apertura di Leone nei confronti dei suggerimenti del suo

attore protagonista, Eastwood potè maturare la prima vera esperienza di collaborazione alla creazione di un film, anche se, come lui stesso

lamenta con Stuart Kaminsky, il regista «non mi ha mai riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme». Tuttavia la

Trilogia del dollaro fece di Eastwood una star internazionale, con

tutto il potere che ne derivava. Negli Stati Uniti l’uscita della trilogia fu rimandata fino all’inizio del 1967. quando Per un pugno di dollari approdò nelle sale, seguito dagli altri due film l’anno successivo. Tutte e tre le pellicole ottennero

un enorme successo di pubblico, ma nondimeno è sorprendente che quello stesso anno Eastwood potesse già dettare le condizioni alla

United Artists per il suo primo ruolo da protagonista in patria. Propose il progetto (Impiccalo più in alto, western modesto ma dalle

tematiche impegnative) e impose il proprio regista (Ted Post) con il quale collaborò alle revisioni della sceneggiatura durante le riprese. Per poter rivestire de facto il ruolo di coproduttore, Eastwood fondò

la propria casa di produzione, la Malpaso. All’epoca era uno

stratagemma aziendale nel quadro degli accordi con gli studios, ma a partire dal 1970 sarebbe diventata lo strumento indipendente da

sfruttare all’interno della struttura degli studios per garantirsi il controllo totale sui propri progetti. Impiccalo più in alto fu un successo: la singolare carriera di

Eastwood era ormai avviata. All’inizio Eastwood alternava produzioni di basso profilo e a budget ridotto (nelle quali, attraverso la Malpaso,

manteneva un certo controllo sulla sceneggiatura, sulla regia e sul

casting) ai progetti con un grosso budget che potevano dargli sufficiente prestigio e profitti da garantirgli la possibilità di continuare a operare in modo indipendente nel settore. I primi tre

film di questo genere furono quelli diretti da Don Siegei: L’uomo dalla cravatta di cuoio, Gli avvoltoi hanno fame e La notte brava del

soldato Jonathan. L’incontro con Siegei, regista veterano dei film d’azione,

rappresentò una pietra miliare nella carriera di Eastwood. I due capirono subito di essere sulla stessa lunghezza d’onda registica. In un’intervista realizzata da Patrick McGilligan (non inclusa nella

presente edizione), Eastwood ha dichiarato: «[Siegei] è un regista

molto essenziale: di solito sa cosa ’vuole, si mette all’opera e gira quello che ha in mente di girare, senza reti di protezione al contrario di molti altri». Il metodo di Siegei era quindi perfettamente in linea

con l’approccio di Eastwood spesso descritto in termini analoghi:

sappi cosa vuoi, gira in fretta e passa oltre appena hai finito. Inoltre Siegei era aperto alla collaborazione; come ha lui stesso spiegato a Stuart Kaminsky" «Trovavo Glint molto competente nella realizzazione dei film, molto bravo nel capire come gestire la macchina da presa [...] Spesso faceva proposte sulle inquadrature [...]

e anche se decidevo di non accoglierle, mi davano comunque altre idee». Parlando con lo stesso Kaminsky’, Eastwood ha ricambiato gli elogi di Siegei: «Don [...] crea una sorta di atmosfera di

partecipazione».

Tutto il contrario rispetto agli altri tre film di Eastwood di quegli anni. Dove osano le aquile, La ballata della città senza nome e I

guerrieri. Lo spreco di tempo, risorse e denaro durante le riprese lo

fecero infuriare e si sommarono alla frustrazione di non avere voce in capitolo al di là del ruolo di attore. Ciò lo rese ancora più determinato

a prendere il controllo della propria carriera attraverso la Malpaso e infatti da quel momento divenne il produttore di se stesso. Successivamente Eastwood convinse Siegei a dirigerlo nella loro

quarta collaborazione, che avrebbe rappresentato una nuova e differente tappa nella sua carriera: Ispettore Callaghan: il caso

Scorpio è tuo.' (1971). In un’era polarizzata a livello politico, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! toccava un tasto dolente con la sua posizione dichiaratamente contraria al diritto di difesa degli indagati e la sua indulgente rappresentazione del poliziotto interpretato da

Eastwood, che segue una deontologia tutta sua, esercita violenza nei

confronti dei presunti colpevoli, esprime disprezzo per i vincoli burocratici e una totale inosservanza del protocollo. Alcuni definirono l’ispettore Callaghan «un fascista». Il pubblico, tuttavia, accolse

benissimo il film, che incassò più di ogni altro film di Eastwood fino a

quel momento e diede vita a quattro sequel. Il ruolo di Callaghan si rivelò tuttavia un’arma a doppio taglio: come attore, Eastwood era ormai diventato una superstar, ma per anni fu considerato persona

non grata da molti critici liberali influenti e altri maitre à penser per

il messaggio politico colto in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Eastwood ha spesso risposto bruscamente agli attacchi politici al film, definendoli impropri o infondati e sostenendo che lui e Siegei

non stavano facendo alcuna dichiarazione politica, ma soltanto «raccontando una storia». Se l’interlocutore insisteva. Eastwood

difendeva Callaghan definendolo un paladino ante litteram dei diritti delle vittime, in un’epoca in cui i difensori dei diritti degli indagati

dominavano il dibattito pubblico. In diverse interviste Eastwood descrisse l’aderenza di Callaghan a una «moralità superiore» come

«l’opposto del fascismo». Nei decenni successivi talvolta Eastwood minimizzò quegli

attacchi sostenendo che fossero caratteristici della retorica dell’epoca. Nel 1993, tuttavia, diresse un altro film (Un mondo perfetto) in cui un

uomo in divisa spara a un rapitore senza rimorso e senza rispettare gli ordini ricevuti. Era però ormai chiaro che la simpatia di Eastwood non andava al giustiziere; in un’intervista uscita su Positif nel marzo

del 1994 (non inclusa in questa edizione), lo stesso attore e regista ammise che «Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! offriva soluzioni semplici a problemi terribilmente complicati». Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! fu il primo film di

Eastwood per la Warner Bros. Segnò l'inizio di un rapporto quasi esclusivo ma mai formalizzato, a beneficio tanto dello studio (i film di Eastwood in genere registravano incassi molto elevati) quanto del

produttore-regista-attore (al quale era praticamente concessa carta bianca per i suoi progetti). Inoltre la Warner Bros, favoriva volutamente l’ambizione di Eastwood di diventare un cineasta

rispettato, aiutandolo a ottenere visibilità sui media più prestigiosi e sostenendo i suoi tour promozionali internazionali e la sua partecipazione ai festival. Eastwood ricambiava il favore alla Warner Bros, tramite le produzioni Malpaso: per ogni film «personale» con

scarso potenziale commerciale di cui curava la regia, Eastwood dirigeva 0 interpretava un progetto che mirava più chiaramente al pubblico di massa e al botteghino. Tuttavia, Eastwood nega che si trattasse di «un processo consapevole» sostenendo di non aver mai cercato di individuare il pubblico potenziale dei suoi film. Nel 1992

dichiarò ai Cahiers du cinema: «Se ti domandi continuamente quale

sarà la reazione del pubblico, smetti di preoccuparti di come dovrebbe essere il film». Del resto anche nelle sue pellicole «commerciali» non è difficile individuare i suoi temi personali e la sua cifra stilistica.

Nello stesso anno di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo.’,

Eastwood fece il passo decisivo verso il controllo totale della propria carriera, dirigendo se stesso in Brivido nella notte. Fu Don Siegei a firmargli la tessera della Directors Guild. A giudicare dalle dichiarazioni fatte all’epoca dell’uscita di Brivido nella notte,

Eastwood stesso non si rendeva conto dell’influenza fondamentale che l’essere passato dietro la macchina da presa avrebbe avuto sulla sua

carriera. Ancora nel 1976 diceva a McGilligan: «Non ho intenzione di dirigere tutti i miei film, anzi, vorrei mettere da parte la regia per un

po’. A livello mentale è estremamente stancante essere sia attore, sia regista». Tuttavia Eastwood continuò ad alternare regia e recitazione, mostrando però una crescente riluttanza nel lavorare con registi su cui non poteva esercitare la stessa forma di controllo a cui

sottoponeva collaboratori di lunga data della Malpaso come James

Fargo e Buddy Van Horn. Con il tempo sviluppò una vera e propria avversione a essere diretto da chiunque. Nel decennio successivo a Brivido nella notte, Eastwood apparve in sette film diretti da altri registi, e da allora soltanto in altri cinque. Di nuovo in gioco, uscito

nel 2012, è il primo film in cui ha recitato per una regia altrui, dopo

ventanni. La Malpaso è rimasta una casa di produzione piccola e funzionale, perfettamente adatta a sfornare film a costi ragionevoli e prodotti in modo efficiente come piace a Eastwood. Inoltre le dimensioni circoscritte dell’azienda fanno sì che il controllo dell’intero percorso

resti in mano a una sola persona, che a scanso di equivoci è Eastwood stesso. In due occasioni, quando il regista scelto si è rivelato incapace

di realizzare il film come l’aveva immaginato Eastwood, è stato lui

stesso a sostituirli alla regia, realizzando per altro due dei suoi più grandi successi dei rispettivi decenni.

Nel 1975 Eastwood licenziò lo sceneggiatore-regista Philip Kaufman e curò lui stesso la regia del Texano dagli occhi di ghiaccio.

Così disse a David Thomson: «Non [...] volevo che fosse fatto nel modo in cui lo vedeva lui. E lui non voleva farlo come lo volevo io». La

Directors Guild reagì stabilendo la cosiddetta Eastwood rule che vietava la sostituzione di un proprio iscritto impegnato in un film da parte di chiunque altro lavorasse allo stesso film, in qualsiasi ruolo.

Nel 1983 tale regola impedì a Eastwood di sostituire formalmente Richard Tuggle come regista di Corda tesa. Pare che lo sceneggiatore, al suo esordio nella regia, si fosse presentato sul set senza avere un’idea chiara di ciò che voleva e senza essere adeguatamente

preparato dal punto di vista tecnico, due peccati capitali per

Eastwood, sempre sul pezzo ed efficientissimo. La regia fu attribuita a Tuggle e Eastwood non l’ha mai espressamente sconfessato. Tuttavia la storia viene raccontata per intero in Clint Eastwood di Richard

Schickel (1996): «Trovarono un compromesso. Lo sceneggiatore

sarebbe rimasto sul set, avrebbe contribuito per quanto possibile e in modo collaborativo alla realizzazione del film e gli sarebbero stati riconosciuti i credit della regia, ma [Eastwood] avrebbe diretto la maggior parte delle scene».

Anche se Eastwood insiste per mantenere il controllo definitivo sui suoi progetti, molti di coloro che hanno lavorato con lui lo descrivono

come un capo benevolo che esercita questo controllo con spirito di

cooperazione; il profilo che ne offre Peter Biskind su Première include diverse testimonianze di questo tipo. Eastwood raggiunge i risultati a cui ambisce scegliendo collaboratori che sa che si innoveranno

liberamente entro i parametri della sua prospettiva e mantenendo le

proprie idee su ciascun film sufficientemente elastiche da incorporare i suggerimenti creativi di tutte le persone coinvolte nella lavorazione.

Questo vale tanto per gli attori, che spesso elogiano l’atmosfera calma e rilassata dei suoi set, quanto per i membri della troupe, molti dei quali sono limasti con lui per anni, quando non per decenni.

Eastwood non ama la definizione di «autore», preferisce paragonare il proprio ruolo nel lavoro di gruppo a quello di una «forza trainante», di un «tenente del plotone», e i suoi film non si aprono mai con il suo nome, ma con quello della casa di produzione: «Un film della Malpaso

Company», «Una produzione Malpaso». A lungo la popolarità di Eastwood come star del cinema ha oscurato il suo talento come regista, soprattutto nella stampa popolare, in cui gli intervistatori tendevano a concentrarsi sui

personaggi che interpretava sullo schermo. Quanto ai critici seri, molti lo consideravano soltanto il co-creatore «politicamente

scorretto» della serie dell’ispettore Callaghan. Dalla fine degli anni Settanta, avendo già diretto una dozzina di film. Eastwood cercò l’approvazione di coloro che potevano rafforzare la sua reputazione di regista, analizzando a fondo le proprie opere in interviste per le riviste

di cinema e le pubblicazioni di settore. Molte di queste interviste sono

inserite in questo volume: Film Comment, Millimeter, American Film, Sight & Sound, Daily Variety. In queste conversazioni Eastwood evidenzia di frequente tratti spesso trascurati dei suoi film,

come la presenza costante di personaggi femminili forti, oppure sottolinea che la sua immagine da macho è stata messa in discussione in molti dei ruoli che ha interpretato, come nel caso del poliziotto con

turbe sessuali di Corda tesa 0 del protagonista di Bronco Billy, che

sopporta in silenzio un'umiliazione per pura lealtà nei confronti di un

membro della sua compagnia. Queste dichiarazioni si riflettono nelle opere dei critici che, a partire dai primi anni Ottanta, hanno iniziato a rivalutatela reputazione di Eastwood.

Nei 1980 Eastwood presentò Bronco Billy alTAmerican Film Festival di Deauville, in Francia: fu la sua prima partecipazione a un

festival europeo. Da allora per i suoi film più prestigiosi Eastwood ha sempre previsto un tour promozionale in Europa. Spesso i critici europei sono stati più rapidi di quelli americani a riconoscere il

merito artistico di registi che esplorano i confini tra i generi esprimendo un’estetica personale in film pensati per il grande

pubblico. Nel caso di Eastwood, l’effetto fu decisamente marcato. Nel 1985 la Cinémathèque franqaise di Parigi gli dedicò una

retrospettiva di quattro settimane, mentre il primo omaggio ricevuto

da una grossa istituzione culturale americana era stato nel 1980 un tributo di un giorno al Museum of Modern Art di New York. Nelle

riviste europee di cinema abbondano le sue interriste. La rivista francese Cahiers du cinema ne ha pubblicate otto nel corso degli armi, mentre l’eterna rivale Positi/quindici. Tre dei film di Eastwood, Il cavaliere pallido. Bird e Cacciatore bianco, cuore nero andarono in concorso al Festival del cinema di Cannes prima del 1990 (seguiti poi

da Mystic River e Changeling negli anni Duemila) e nel 1992 Gli spietati, poi premiato con diversi Oscar, fu accolto in Europa con un

entusiasmo forse ancora maggiore che negli Stati Uniti: almeno nove riviste europee di cinema dedicarono la copertina al film. In questo periodo i lavori alla regia di Eastwood ottennero sistematicamente un’accoglienza critica migliore all’estero che in patria. Nel dicembre

del 1992, Camille Nevers dei Cahiers du cinema definì esplicitamente Eastwood «il più grande regista americano vivente», valutazione che Serge Toubiana, sempre dei Cahiers, ribadì nel settembre 1995. Nel

marzo del 1998, sul quotidiano parigino Le Monde, Jean-Michel

Frodon descrisse Mezzanotte nel giardino del bene e del male, uscito nel 1997 e ampiamente criticato negli Stati Uniti, come «il lavoro più ricco, complesso e coraggioso del regista». Eastwood apprezzò molto l’elogio. Nel 1992, nell’intervista per i Cahiers, dichiarò: «In realtà, dopo il primo film che ho diretto,

Brivido nella notte, gli europei mi hanno incoraggiato molto più degli

americani, che hanno fatto fatica a convincersi che potessi essere un regista perché avevano fatto altrettanta fatica a riconoscermi come

attore». Mentre curavamo la prima edizione di questo volume, abbiamo

notato che gli intervistatori europei tendevano a porre domande più profonde sullo stile e le tecniche di regia di Eastwood rispetto ai colleghi americani, che spesso si concentravano sul suo ruolo da star

cinematografica all’epoca sulla cresta dell’onda, più che sui suoi

risultati registici. Nel 1999, infatti, negli Stati Uniti Eastwood veniva ancora percepito dai più come un attore-icona che si dilettava con la

regia, anche se aveva già diretto più di venti lungometraggi.

Nemmeno i quattro Oscar vanti dagli Spietati riuscirono a far molto per modificare quella percezione. Di conseguenza dieci delle ventidue interviste dell’edizione originale provenivano da pubblicazioni

europee come Sight & Sound, Positi/ Cahiers, Le Monde e Steadycam, rivista di cinema controcorrente fondata a Colonia. In anni più recenti, tuttavia, la situazione ha cominciato a

cambiare, in parte perché vedere Eastwood nel doppio ruolo di attore e regista è diventato più l’eccezione che la norma, ma anche perché la

sua reputazione come regista è cresciuta enormemente in patria. Nei tredici anni trascorsi dalia prima edizione, Eastwood ha diretto altri

undici film (e un dodicesimo è ancora in fase di sviluppo mentre scriviamo). Queste pellicole hanno ottenuto sette Oscar in totale, oltre

a decine di altri premi della critica e dell’industria cinematografiche. Eastwood adesso vanta due Oscar come migliore regista e due come miglior film e si colloca fra i più premiati registi viventi tanto negli

Stati Uniti, quanto in Europa. In virtù della maggiore considerazione

negli Stati Uniti per l’Eastwood regista, questa edizione verte principalmente sulle interviste americane. Abbiamo mantenuto cinque dei pezzi europei della prima edizione, compresa una fondamentale intervista per Positi/in cui Eastwood spiega il legame tra la filosofia del personaggio in stile John Huston

che interpreta in Cacciatore bianco, cuore nero e la propria visione registica. Abbiamo poi tenuto dieci dei dodici pezzi americani della prima edizione. Infine abbiamo aggiunto undici nuovi profili e

interviste. Sette di questi, per un totale di circa due terzi del nuovo

materiale, provengono da pubblicazioni statunitensi. I restanti quattro attingono da fonti europee, e includono un tributo a Eastwood pubblicato su Sight & Sound nel 2008 con il sottotitolo: «Il più

grande regista americano vivente?» Tranne uno, tutti i pezzi aggiunti in questa nuova edizione si

concentrano principalmente sui lavori di Eastwood dopo il 1999. Il presente volume copre dunque oltre quarantanni della sua carriera

concentrandosi, come nella prima edizione, sugli aspetti pratici della direzione dei film e sulla filosofia registica di Eastwood, ma raccogliendo anche materiali che illustrano la visione di Eastwood su

questioni politiche e sociali. Negli anni trascorsi dalla prima edizione. Eastwood ha realizzato film su una stupefacente varietà di temi. Ci sono ancora due

polizieschi drammatici piuttosto convenzionali in cui recita come

protagonista, Fino a prova contraria e Debito di sangue, ma nei quali emerge come una figura più debole e disfunzionale rispetto ai suoi cop movie precedenti. Troviamo però anche una commedia su un team di

astronauti richiamati dalla pensione (Space Cowboys/ un ambizioso psicodramma sulle cicatrici che la violenza ha lasciato nelle vite di tre ex amici d’infanzia della working class (Mystic River); una pellicola

drammatica sulla boxe con un finale tragico e un sottotesto profondamente sentito sull’amore tra un padre e una figlia (Million

Dollar Baby); e due film drammatici sulla seconda guerra mondiale (Flags o/Our Fathers e Lettere da Iwo Jima), il secondo dei quali

nato sulla scia delle ricerche che Eastwood aveva effettuato per il primo. Si tratta rispettivamente della storia vera di coloro che issarono la bandiera nell’emblematica fotografia di una delle battaglie

decisive della guerra e della storia della stessa battaglia dal punto di vasta giapponese, che secondo Eastwood meritava ugualmente di essere raccontata. I suoi ultimi tre film degli anni 2000 sono un drama in costume basato sulla storia vera di una madre che lotta per ritrovare il figlio

rapito (Changeling); un film contemporaneo su un veterano di guerra anziano e intollerante che vive in un desolato sobborgo di Detroit e fa suo malgrado amicizia con il giovane vicino asiatico (Gran Torino); e

Invictus — L'invincibile, che racconta il tentativo di Nelson Mandela di

riconciliare le fazioni razziali nel Sudafrica post-apartheid attraverso

l’unione di bianchi e neri per sostenere la nazionale ai mondiali di rugby, sport in precedenza detestato in quanto «bianco». Eastwood ha inaugurato il decennio successivo con un film drammatico di

respiro internazionale con elementi soprannaturali, Hereafter, e un biopic su una delle figure più complesse della vita pubblica americana del recente passato, J. Edgar. Il suo prossimo progetto alla regia è una versione musical di una storia classica del mondo dello spettacolo, .4 Star Is Bom. «È più vicina alla versione di Wellman che

a quella di Cukor», ha dichiarato il regista a Michael Henry Wilson, che l’ha intervistato nuovamente per Positi/nel 2011. Ma, prima di

questo progetto, Eastwood ha deciso di tornare a recitare per un altro regista (in questo caso, il collaboratore di lunga data della Malpaso

Robert Lorenz, all’esordio dietro la macchina da presa), nel film sul baseball Di nuovo in gioco. Come ha spiegato a Wilson, «è la storia di

un padre e una figlia, come Million Dollar Baby, ma non è così deprimente!» Alcune delle nuove interviste selezionate per questa edizione esplorano l’evoluzione e l’approfondimento delle tematiche affrontate

da Eastwood, in particolare della sua visione dell’eroismo e del ruolo pervasivo della violenza e della discriminazione di genere nella vita americana (cfr per esempio Taubin 2005). Abbiamo inoltre incluso alcuni profili recenti che offrono uno scorcio di Eastwood al lavoro (si

vedano i due pezzi di Scott Foundas) e altre interviste che comprendono discussioni approfondite riguardo i migliori lavori di

Eastwood del decennio scorso: si vedano Rose 2003 (Mystic River), Taubin 2005 (Million Dollar Baby), Gross 2007 (Flags 0/Our Fathers e Lettere da Iwo Jima), Andrew 2008 (Changeling) e Wilson

2011 (Hereafter). Un altro aspetto straordinario della carriera di Eastwood è il suo

crescente coinvolgimento nella realizzazione delle colonne sonore dei

suoi film. Un lungo studio che non ci è stato possibile inserire qui, il

profilo realizzato da Lillian Ross per iLVew Yorker (24 marzo 2003), sottolinea la passione di Eastwood per la musica ed esplora il suo

lavoro per il documentario Piano Blues, concludendo con uno sguardo al lavoro di Eastwood sulla colonna sonora di Mystic River: «Stavo improvvisando una melodia e giocherellando con un’altra [...]

Poi Dina è entrata a sentire quello che suonavo e ha detto che le piaceva la prima [...] l’ho inserita nel film [...] se dovessi descriverla, direi che è dolceamara. È come la vita, bisogna costantemente adattarsi a tutto. È tutta improvvisazione». L’abitudine di contribuire alle colonne sonore risale agli anni Ottanta, ai temi che Eastwood aveva composto per Corda tesa e II cavaliere pallido, ma si è

accentuata con il tempo; adesso compone regolarmente uno o due

temi e a volte l’intera colonna sonora, spesso lavorando con il figlio Kyle, musicista jazz. È un altro dei modi per apporre un marchio personale ai propri progetti. Per uno sguardo al Clint Eastwood

musicista e appassionato di musica, si veda Tosches 2008.

Alcuni intervistatori hanno riferito che Eastwood ricordava loro i suoi personaggi laconici e indomiti. David Thomson racconta: «Non ci

vuole una grande immaginazione pervadere che alcune delle tue domande si infrangono contro una roccia. Resti sconvolto e intimidito

davanti a un attore che ha così poco bisogno del tuo sostegno e il fatto che voglia comunque il tuo rispetto non serve molto a indorare la pillola». È evidente che Eastwood preferisce mantenere il controllo assoluto delle interviste che concede e a volte pare che risponda a

un’altra domanda con cui è più a suo agio invece che a quella effettivamente posta dall’intervistatore. Talvolta schiva domande che ritiene inappropriate, per esempio su alcuni aspetti della sua vita

privata, reagendo con risposte secche o con il suo tipico sguardo. Può capitare che sia ugualmente restio a parlare degli eventuali cambiamenti percepiti nella sua visione politica. Tuttavia, la maggior

parte degli intervistatori lo descrive come rilassato e piuttosto

disponibile a parlare di una certa gamma di argomenti. Coloro che si sono concentrati sul suo lavoro da regista e hanno condotto le interviste con competenza in genere sono stati ricompensati con risposte altrettanto ben documentate e dettagliate sugli strumenti

tecnici che Eastwood utilizza per ottenere i risultati che desidera e sui dettami filosofici e stilistici che guidano la sua prassi creativa.

Attraverso le interviste raccolte in questo volume è possibile tratteggiare alcuni elementi della filosofia registica di Eastwood, quello che Pascal Mérigeau (in un profilo non inserito in questa edizione) ha definito «il tocco alla Eastwood»: Sul ruolo del regista: «Devi avere il film bene in mente ancora prima di realizzarlo. Se non ce l’hai, non sei un regista, sei uno che tira

a indovinare» (Gentry' 1980).

Sull’importanza della storia: «Cerco di concentrarmi soprattutto sulla storia, perché è quella che tiene tutto insieme [...] Poi cerco di

capire quale tipo di immagine si adatta meglio alla storia, in quale forma voglio raccontarla, con quali emozioni e quali sonorità» (Jousse

e Nevers 1992). Sulla spontaneità: «A volte è l’imperfezione a rendere le cose reali [...] Perciò dico sempre di provare tranquillamente e io tengo la cinepresa in funzione. Si ottengono dei risultati molto belli perché gli attori recitano tranquilli, non stanno li a pensare che stanno recitando

davanti a una macchina da presa. Lo fanno in modo realistico» (Hentoff 1989). Sul ruolo del pubblico: «Gli spettatori devono partecipare a ogni scena, a tutto. Do loro quello che penso sia necessario che sappiano

per seguire la storia, ma non spiego tanto da insultare la loro intelligenza. Cerco di lasciare un certo margine alla loro immaginazione» (Thompson e Hunter 1978).

Sull’ambiguità: «Nel cinema c’è la tendenza a trattare gli spettatori come se ci fosse il rischio che escano dal cinema se non gli

si spiega ogni minimo dettaglio man mano [...] personalmente preferisco che i film lascino un margine di riflessione. Sono attratto da quel genere di cose (...) Non occorre arrivare al punto in cui

l’ambiguità diventa noiosa, ma se a volte non si dice tutto esplicitamente, l’effetto nella mente dello spettatore è molto più

pittoresco che se si descrive tutto per filo e per segno, magari creando

delusione perché lo spettatore se l’aspettava completamente diverso» (Taubin 2005). Sulle luci: «L’uso di luci e ombre nel cinema per me è molto

importante [...] cerco di adattare la luce e il colore al pathos della

storia». (Taubin 2005) Sulla facilità della regia: «Quando si fa un film, credo che si abbia

tutto in mente, in un modo quasi subliminale, e che non occorra fare altro che trasformare tutto in realtà sullo schermo» (Mérigeau 1998,

intervista non inclusa nella presente edizione).

Eastwood è una celebrità da più di cinquant’anni e la mole di materiale disponibile su di lui è immensa. È stato difficilissimo scegliere fra decine e decine di interviste quelle che ci parevano degne di essere incluse nella prima edizione, e ancora più difficile compilare una selezione rappresentativa dell’ultimo decennio per questa

seconda edizione. Se abbiamo preferito interviste tratte da riviste specializzate e di settore, è perché in esse abbiamo trovato i materiali più esaustivi ampi e più interessanti sull’Eastwood regista. Ci dispiace

non aver trovato spazio per alcuni profili usciti sulla stampa popolare nel primo periodo della sua carriera, nei quali Eastwood si assicurava

che gli intervistatori capissero quanto era coinvolto nella produzione dei suoi film anche quando non li dirigeva in prima persona. Per l’articolo di copertina di Judy Fayard per Lift (23 luglio 1971), Eastwood concesse l’intervista in una sera in cui stava dirigendo se stesso in una scena di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo.' di Siegei. La Fayard lo guardò «saltare su e giù da una gru, fare a botte con gli stuntmen a sei piani di altezza e strisciare carponi sul

cornicione di una finestra» per diverse ore e raccontò che il tecnico del suono aveva commentato: «Sarà un regista con i controfiocchi».

Per il profilo scritto da Chris Hodenfield per Look, nel luglio del 1979, Eastwood volle che parte dell’intervista fosse condotta nel laboratorio audio dove lui stesso stava supervisionando il missaggio

finale di Fuga da Alcatraz di Siegei, il quale era impegnato con un altro film. Hodenfield rimase giustamente colpito: «Sullo schermo

passavano continuamente gli stessi dieci minuti di pellicola, ancora e

ancora, finché ogni gorgoglio e ogni rumore metallico non sono stati perfetti [...] Clint Eastwood ha già diretto sei film e si cimenta con tutti gli aspetti [...] segue persino il montaggio finale, direttamente nel

laboratorio, per poter stare seduto di fianco al tecnico che stabilisce i tempi di sviluppo. A Eastwood piace che la pellicola sia stampata un po’ scura, quindi si assicura che sia così». Eastwood ha riassunto il suo impegno registico in un articolo per

Action, la rivista della Directors Guild of America (marzo-aprile 1973),

che si concludeva così: «Adoro recitare e ho intenzione di continuare a farlo, ma devo ammettere che la soddisfazione della regia è più profonda di quella derivata da qualsiasi altro aspetto della

realizzazione di un film [...] Immagino però die il mio coinvolgimento vada persino oltre la recitazione o la regia. Adoro ogni aspetto della

creazione di un film, e credo che sia qualcosa a cui consacrerò la mia intera esistenza».

Da allora, e fino al momento della compilazione di questo volume,

Eastwood ha realizzato una quarantina di film come produttore, regista o protagonista (più spesso tutte e tre le cose). Se gli si chiedesse se ama il suo lavoro, probabilmente risponderebbe come il

suo personaggio nei Ponti di Madison County (1995): «Sì, a dire il vero ne sono ossessionato». È inevitabile che in questa antologia ci siano alcune ripetizioni. La visione della regia di Eastwood è cambiata pochissimo negli anni e lo

stesso cineasta ripropone frequentemente le stesse riflessioni e gli stessi aneddoti su specifici film e aspetti della regia. Così come in altri volumi della collana Conversazioni con i registi, le interviste sono

presentate in ordine cronologico e in versione integrale, con

l’eccezione di quella di Rose del 2003, da cui abbiamo omesso gli ultimi minuti del programma per ragioni di spazio. In alcuni casi è stata eliminata l’introduzione dell’intervistatore. Alcuni evidenti

errori fattuali sono stati corretti. Come curatori, siamo grati a tutti coloro che hanno concesso l’autorizzazione a rendere disponibili questi materiali. Vorremmo

inoltre ringraziare i colleghi e gli amici che ci hanno fornito assistenza per la prima edizione, nello specifico: Amy Stoller, per l’infaticabile

professionalità e versatilità; Stephan Miiller, per l’aiuto nelle ricerche sulla ricezione di Eastwood in Europa; e Seetha Srinivasan, Elizabeth

Young e Anne Stascavage della University’ Press of Mississippi. Per la presente edizione ringraziamo inoltre Leila Salisbury, Valerie Jones, e Walter Biggins della stessa casa editrice per i consigli e il sostegno e

dedichiamo un ringraziamento particolare al curatore della collana, Gerald Peary’, per i numerosi, utilissimi suggerimenti.

Siamo inoltre grati al Queens College per il provvidenziale sostegno economico. Infine vorremmo dedicare questo volume alla

memoria di Peter Brunette, che nel 1998 era redattore della collana Conversazioni con i registi e che ci ha proposto questo progetto, e a Mary’ Lea Bandy, ex curatrice del Museum of Modern Art, per il

generoso aiuto concessoci per la prima edizione.

Nota alla traduzione inglese: tutte le interviste sono state originariamente realizzate in inglese o con l’ausilio di interpreti. Nel

tradurre quelle inizialmente pubblicate in francese, si è cercato di mantenere l’aderenza ai testi pubblicati, preservando comunque un tono colloquiale coerente con la voce di Clint Eastwood così come la

conosciamo. Ci scusiamo tuttavia per le distorsioni che si saranno

inevitabilmente verificate. Michael Henry Wilson (che scrive anche in

francese con il nome di Michael Henry) ci ha generosamente concesso di attingere alle versioni inglesi di due delle interviste inserite nel suo volume Eastwood on Eastwood. REK

KC Luglio 2012

1. In seguito ai recenti pronunciamenti su questo tema da parte della Corte Suprema. [n.d.t.]

2. Il sindacato registi. [n.d.t.] 3. Per una discussione di questo tema, cfr Robert Kapsis, «Clint Eastwood’s Politics of Reputation», in Society, vol. 30, n. 6, settembre-ottobre 1993, p. 70.

CRONOLOGIA

Le date dei film si riferiscono all’uscita negli Stati Uniti, se non diversamente specificato. Se non è indicato un altro regista, la regia è di Eastwood; se non sono indicati altri attori, Eastwood è protagonista

o coprotagonista. 1930 Clinton Eastwood Jr. nasce il 31 maggio a San Francisco.

1930-40 La famiglia Eastwood si sposta in vari luoghi della California per

seguire Clinton Sr., che accetta qualsiasi lavoro durante la Depressione.

1940-48 Gli Eastwood si stabiliscono a Piedmont, in California; Eastwood

frequenta la scuola a Piedmont e a Oakland. 1946 Ascolta Charlie Parker per la prima volta a Oakland. Da amatore

comincia a suonare il jazz al pianoforte dell’Omar Club di Oakland. 1948 Si diploma presso la Oakland Technical High School; si trasferisce

a Seattle con la famiglia. 1948-51 Svolge diversi lavori nella zona Nordovest degli Stati Uniti:

bagnino, taglialegna, operaio di una cartiera, metalmeccanico, ecc.

1951 Presenta domanda d’iscrizione alla Seattle University con l’idea di laurearsi in musica, ma viene chiamato per il servizio militare a Fort Ord, sulla penisola di Monterey. Per poco non resta disperso in mare

quando precipita con un aereo a due posti; nuota per tre miglia per raggiungetela riva.

1951-53 Servizio militare a Fort Ord. 1953 Viene congedato; incontra e sposa Maggie Johnson; si iscrive al

Los Angeles City College. Frequenta corsi di teatro; fra i suoi docenti

c’è George Shdanoff, discepolo di Michail Cechov. 1954-55 Ammesso al talent program degli Universal-International Studios. Ottiene ruoli minori in sette film Universal prima di lasciare il

programma nel tardo 1955. 1956-58 Piccoli ruoli in altri tre film; ruolo da coprotagonista in un western

minore, L’urlo di guerra degli apaches (Jodie Copelan, 1958); lavori occasionali in televisione; scava piscine per arrotondare. 1959-66 Appare come coprotagonista in buona parte dei 217 episodi della serie western Gli uomini della prateria. Gli Eastwood si trasferiscono

a Carmel-by-the-Sea, vicino a Fort Ord. 1964 Interpreta un western di Sergio Leone girato in Spagna e in Italia. Il film esce in Italia con il titolo Per un pugno di dollari e ottiene un

successo inaspettato in tutta Europa. Nascita della figlia Kimber

(avuta da Roxanne Tunis). 1965-66 Ruolo da protagonista in altri due film di Leone: Per qualche

dollaro in più e II buono, il brutto, il cattivo; anche questi ottengono

un grande successo in Europa. 1966 Recita in una parte di Le streghe (Italia, 1967) per la regia di

Vittorio De Sica. La United Artists acquisisce i diritti statunitensi per i

film di Leone. 1967-68 I tre film di Leone escono negli Stati Uniti, ottenendo un enorme

successo. 1967 Fonda la propria casa di produzione, la Malpaso, per partecipare alla produzione del primo film americano che interpreta da

protagonista, Impiccalo più in alto (Ted Post, 1968), girato nel New Mexico per la United Artists. Firma un contratto per tre film con la Universal, poi esteso (i film realizzati fino al 1975 sono produzioni

Malpaso per la Universal, se non diversamente specificato). Prima collaborazione con Don Siegei per il dramma poliziesco L’uomo dalla cravatta di cuoio (1968), girato a New York e nel deserto del Mojave. 1968 Si reca in Austria e a Londra per il thriller MGM sulla seconda guerra mondiale Dove osano le aquile (Brian G. Hutton, 1969).

Nascita del figlio Kyle. Si reca in Oregon per il musical a tema western della Paramount La ballata della città senza nome (Joshua Logan, 1969). Escono Impiccalo più in alto e L’uomo dalla cravatta di cuoio;

entrambi ottengono un grande successo. 1969-70 Gira altri due film con Don Siegel: il western Gli avvoltoi hanno fame (1970) e il dramma ambientato durante la guerra civile La notte

brava del soldato Jonathan (1971), rispettivamente in Messico e nei pressi di Baton Rouge, in Louisiana. 1969 Si reca in Jugoslavia per il film d’avventura MGM I guerrieri (Brian

G. Hutton, 1970) ambientato durante la seconda guerra mondiale; è l’ultimo suo lavoro in cui non è coinvolta la Malpaso, tranne Nel

centro del mirino (1993).

1970 Morte del padre. Eastwood gira il primo film da regista a Carmel e dintorni, Brivido nella notte (1971), su un dj (Eastwood) perseguitato da una fan impazzita. 1971 Gira il controverso poliziesco Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! a San Francisco per Don Siegei e la Warner Bros., dando inizio

a quello che diventerà un rapporto quasi esclusivo con quest’ultima. Uscita di Brivido nella notte, con un successo modesto. Gira il

western Joe Kidd (John Sturges, 1972) nel New Mexico. Uscita di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuoi; nonostante alcune

critiche decisamente negative per via del messaggio politico sotteso, il film è il più grande successo di Eastwood fino a quel momento. 1972 Nascita della figlia Alison. Gira il primo western da regista, Lo

straniero senza nome (1973), al lago Mono, in California. Nominato al National Council for the Arts. Dirige William Holden nel film

romantico Breezy (1973).

1973 Quigley’ Publications lo nomina Star Numero Uno del Box Office per il 1972, titolo che Eastwood otterrà altre quattro volte (1974,

1984-85,1994). Interpreta il primo sequel dell’ispettore Callaghan, Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan (Ted Post, 1973). Recita nel lungometraggio d’esordio di Michael Cimino, il caper/buddy

drama Una calibro 20 per lo specialista (United Artists 1974). 1974 Dirige e interpreta il film di spionaggio Assassinio sull’Eiger

(1975), girato nella Monument Valley e sulle alpi svizzere. Gira tutte le scene di alpinismo senza controfigura.

1975 Trasferisce la Malpaso dalla Universal alla Warner Bros. (I film successivi sono prodotti dalla Warner Bros., se non diversamente

specificato.) Dirige il western epico II texano dagli occhi di ghiaccio in

Arizona, Utah e California; sostituisce il regista Philip Kaufman dopo una settimana, curando lui stesso la regia. La Directors Guild reagisce con la Eastwood rule, che vieta la sostituzione di un membro della

DGA impegnato in un film da parte di chiunque altro lavori allo stesso film. 1976 Uscita del Texano dagli occhi di ghiaccio; recensioni miste, comprese alcune fra le migliori mai ricevute. In Cielo di piombo,

ispettore Callaghan (James Fargo), un altro sequel dell’ispettore Callaghan, a Harry viene affiancata una donna (Tyne Daly). 1977 Dirige se stesso e Sondra Locke nel poliziesco-commedia

romantica L’uomo nel mirino, girato in Nevada e in Arizona.

1978 Gira il suo film più popolare fino a quel momento, una pellicola sull’amicizia tra un uomo e un orango. Filo da torcere (James Fargo), nella San Fernando Valley e in altre location dell'Ovest americano. Ultima collaborazione con Siegei, Fuga da Alcatraz (1979), girato per

la Paramount sull’isola-carcere nella baia di San Francisco, 1979 Separazione da Maggie. Dirige Bronco Billy (1980), una commedia

in stile Frank Capra, nella zona di Boise, nell’Idaho. 1980 Partecipa al Deauville American Film Festival (Francia) con Bronco Billy. Retrospettiva al Museum of Modem Art (MoMA) di

New York. 1981

Dirige il thriller ambientato durante la guerra fredda Firefox -

Volpe difuoco (1982), girato in parte a Vienna. 1982 Gira nella California centrale la pellicola ambientata durante la Depressione Honkytonk Man, il suo progetto più «personale» di

questo periodo; all’uscita, il film «non riesce a trovare un pubblico», ma viene accolto positivamente dalla critica, soprattutto in Europa. 1983 Gira Coraggio... fatti ammazzare, l’unico film dell’ispettore

Callaghan da lui diretto, nonché quello con i maggiori incassi della saga. A New Orleans gira la pellicola Corda tesa, su un poliziotto

tormentato e un serial killer; compone un tema per la colonna sonora,

abitudine che manterrà per diversi dei film successivi. Sostituisce Richard Tuggle dietro la macchina da presa, ma la regia verrà

comunque attribuita a Tuggle perché Eastwood non può prenderne il

posto proprio a causa della «Eastwood rule» della DGA. Opziona la sceneggiatura western di David Webb Peoples The Cut-Whore Killings del 1976.

1984 Divorzio definitivo da Maggie. Gira il terzo western da regista, Il cavaliere pallido, nell’Idaho. Corda tesa è il film d’apertura del

Montreal Film Festival e riceve recensioni positive all’uscita negli Stati Uniti. 1985 Retrospettive alla Cinematheque franchise di Parigi, ai

Filmmuseum di Monaco di Baviera e al National Film Theatre di Londra. Insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle

Lettere in Francia; tiene una conferenza per il Guardian a Londra. Prima partecipazione al Festival del cinema di Cannes con II cavaliere

pallido. La Malpaso produce il film d’esordio alla regia di Sondra Locke, Ratboy (1986). Eastwood dirige «Vanessa», un episodio della

serie di Steven Spielberg Storie Incredibili («Vanessa in the

Garden»).

1986-88 Eletto sindaco di Carmel; porta a termine un mandato di due anni. Nascita del figlio Scott e della figlia Kathryn (avuti da Jacelyn Reeves).

1986 Dirige se stesso in Gunny, in cui interpreta un sergente in là con

gli anni che si trova a dover lasciare i Marine. 1987 Dopo lunghe ricerche per acquisire materiali musicali originali,

gira il biopic di Charlie Parker Birci.

1988 Vince il premio alla carriera Cecil B. DeMille ai Golden Globe. È produttore esecutivo di Thelonious Monk: Straight No Chaser (Charlotte Zvverin), un documentario sul pianista jazz. Interpreta

l’ultimo film deU’Ispeftore Callaghan, Scommessa con la morte (Buddy Van Horn). Porta Bird a Cannes: Forest Whitaker vince il

premio come miglior attore per il ruolo eponimo; il film vince un Gran Premio Tecnico. Anteprima privata americana di Bird al MoMA, che segna la fondazione della Collezione Cinema Clint Eastwood. Bird

viene proiettato al New York Film Festival; riceve recensioni generalmente positive, ma ha un pubblico ridotto.

1988-90 Compare in due film «commerciali», la commedia-avventura Pink Cadillac (Buddy Van Hom, 1989) e il poliziesco drammatico La recluta (1990) di cui cura anche la regia; entrambi vanno male al botteghino. 'OJ

1989 Vince il Golden Globe come miglior regista per Bird. Gira

Cacciatore bianco, cuore nero, in cui interpreta un regista in stile John Huston, a Londra e in Africa.

1990 Partecipa a Cannes con Cacciatore bianco, cuore nero, che all’uscita negli Stati Uniti sarà accolto da un pubblico sparuto e recensioni miste.

1991 Dirige e interpreta The Cut-Whore Killings, ora intitolato Gli

spietati, girato principalmente in zone remote dell’Alberta, in Canada. 1992 Uscita degli Spietati, che trionfa al botteghino e frutta a Eastwood

le migliori recensioni mai ricevute; il film viene rifiutato dalla Mostra del cinema di Venezia, ma proiettato a Deauville. Eastwood appare nel thriller Nel centro del mirino (Wolfgang Petersen, 1993) per

Castle Rock e Columbia. Gli spietati vince numerosi premi della

critica e di fine anno.

1993 Gli spietati vince il Golden Globe per la miglior regia e il premio della Directors Guild of America per il miglior regista

cinematografico. Agli Oscar totalizza nove nomination e quattro statuette, fra cui miglior regia e miglior film. Eastwood dirige il road

movie sulla fuga da una prigione Un mondo perfetto, girato nel Texas

rurale, in cui interpreta un ruolo da non protagonista accanto a Kevin

Costner. Nascita della figlia Francesca Ruth (avuta dall’attrice Frances Fisher). Tributo a Eastwood al MoMA; retrospettiva dei suoi film. Nel centro del mirino ottiene un grande successo. Un mondo perfetto

ottiene buone recensioni ma scarsi incassi negli Stati Uniti, raggiungendo però ottimi risultati all’estero. 1994 Produce Nel Texas cadevano le stelle (James Keach, 1995). girato

in Texas, con Frances Fisher. Presidente della giuria al Festival del cinema di Cannes. Viene nominato commendatore dell'ordine delle

Arti e delle Lettere. In Iowa dirige e interpreta il mid-life romance con Meryl Streep I ponti di Madison County, basato sul libro di Robert

James Waller.

1995 Alla cerimonia degli Oscar riceve l’Irving G. Thalberg Memorial Award per i film realizzati come produttore. Uscita dei Ponti di Madison County negli Stati Uniti, con recensioni generalmente positive e incassi rispettabili; il film verrà poi proiettato a Deauville, 1996 Riceve il premio alla carriera dell’American Film Institute. Sposa

Dina Ruiz, giornalista televisiva. Tributo alla Film Society’ del Lincoln Center. Gira il thriller politico Potere assoluto per la Castle Rock e la

Columbia; nel film interpreta un ladro gentiluomo testimone di un omicidio. Concerto «Eastwood After Hours» alla Carnegie Hall; un tributo al suo amore per il jazz e all’uso che ne fa nei suoi film. Nascita

della figlia Morgan.

1997 Uscita di Potere assoluto, con recensioni generalmente negative; film di chiusura (fuori concorso) a Cannes. A Savannah, in Georgia, dirige Mezzanotte nel giardino del bene e del male, basato sul

bestseller di John Berendt e interpretato da Kevin Spacey e John Cusack; recensioni miste. Entrambi i film totalizzano incassi scarsi al

botteghino. 1998 Riceve il premio Cesar ad honorem dall’Académie des arts et

techniques du cinema e il premio alla carriera cinematografica ai

Golden Laurel Awards della Producers Guild of America. Dirige e interpreta un reporter poco raccomandabile nel thriller Fino a prova

contraria, ambientato nel braccio della morte. 1999 Uscita di Fino a prova contraria, con recensioni generalmente

negative e scarsi risultati al botteghino. Dirige se stesso. Tommy Lee Jones, Donald Sutherland e James Garner nella commedia-avventura Space Cowboys, su un team di astronauti ormai anziani in missione per salvare la Terra. 2000 Uscita di Space Cowboys con recensioni generalmente positive e un buon successo al botteghino; il film apre la Mostra del cinema di

Venezia, dove Eastwood riceve il Leone d’Oro alla carriera e viene

proiettato anche a Deauville. Eastwood ottiene anche il Premio Kennedy per il contributo all’arte e alla cultura. 2001 Dirige Debito di sangue, basato sul thriller di Michael Connelly, in cui interpreta un personaggio reduce da un trapianto cardiaco che si

mette sulle tracce di un assassino. 2002 Uscita di Debito di sangue; fiasco di critica e botteghino. Eastwood riceve il premio alla carriera della Screen Actors Guild. Dirige Sean

Penn e Tim Robbins in Mystic River, basato sul thriller psicologico di

Dennis Lehane ambientato nella zona Sud di Boston; compone anche la colonna sonora del film.

2003 Mystic River viene proiettato a Cannes, dove Eastwood riceve il premio «Carrozza d’Oro» come regista. Dirige «Piano Blues» perla miniserie di documentari della Public Television The Blues. Mystic River è film d’apertura del New York Film Festival; all’uscita in sala ottiene recensioni eccellenti e un buon successo al botteghino; vince

numerosi premi della critica. 2004 Penn e Robbins conquistano i premi come migliori attori sia ai

Golden Globe, sia agli Oscar. Mystic River vince il César come miglior film straniero. Eastwood dirige se stesso, Hilary’ Swank e Morgan Freeman nel film drammatico sulla boxe Million Dollar Baby, che lui

definisce una storia d’amore tra padre e figlia e di cui compone anche la colonna sonora. All’uscita del film si apre la controversia sul tema

dell’eutanasia, ma l’accoglienza del pubblico e della critica è buona. 2005-10 Eastwood è produttore esecutivo di quattro documentari di Bruce

Ricker, sul regista Budd Boetticher e sui musicisti Tony Bennett, Johnny Mercer e Dave Brubeck. È inoltre produttore esecutivo e

narratore di un documentario della Warner Bros. 2005 Million Dollar Baby vince due Golden Globe (miglior regia e

miglior attrice in un film drammatico alla Swank) e quattro Oscar (miglior regia, miglior film, miglior attrice protagonista alla Swank, miglior attore non protagonista a Freeman). Ottiene inoltre il premio

per il miglior regista cinematografico della Directors Guild of America

e il premio come miglior film straniero dall’Aceademia del cinema francese e da quella italiana (Cesar e David di Donatello), seguiti nel

2006 dal premio dell’Accademia Giapponese per il miglior film straniero. Eastwood dirige il film epico sulla seconda guerra mondiale Flags of Our Fathers, sugli uomini immortalati nella celebre fotografia di Iwo Jima; girato a Iwo Jima, in Islanda e negli Stati Uniti

(Paramount), ne compone anche la colonna sonora. 2006 Morte della madre a novantasette anni. Eastwood riceve il premio

alla carriera della Directors Guild of America. Dirige il film complementare a Flags of Our Fathers per mostrare la battaglia dalla prospettiva giapponese; Lettere da Iwo Jima è girato in giapponese, a

Iwo Jima, in Islanda e in California (Paramount). I due film su Iwo Jima escono a poche settimane di distanza l’uno dall’altro; nessuno

dei due attira un grande pubblico, anche se il secondo ottiene il plauso della critica e vince diversi premi di fine anno.

2007 Flags of Our Fathers vince il premio dell’Accademia Giapponese come miglior film straniero. Lettere da Iwo Jima ottiene il premio come miglior film in lingua straniera ai Golden Globe e quattro nomination agli Oscar (dove conquista la statuetta soltanto per il Montaggio sonoro). Eastwood è nominato cavaliere della Legion

d’Onore dal presidente della Francia. Compone una nuova colonna sonora per Grace Is Gone (James C. Strouse) dopo la proiezione del film al Sundance Film Festival. Dirige Angelina Jolie in Changeling (Universal), basato sulla storia vera del rapimento di un bambino e della corruzione della polizia negli anni Venti a Los Angeles; ne compone anche la colonna sonora. 2008 Lettere da Iwo Jima vince il premio dell’Accademia Giapponese

come miglior film straniero. Eastwood dirige e interpreta Gran Torino, su un intollerante operaio automobilistico in pensione che impara ad apprezzare i suoi vicini Hmong. Changeling è il film

d’apertura a Cannes (Eastwood vince un Premio speciale Ex-aequo) e viene poi proiettato a Deauville e al New York Film Festival. Recensioni miste e pubblico deludente. Gran Torino, uscito a fine

anno, riceve buone recensioni e totalizza gli incassi più alti della carriera di Eastwood fino a quel momento.

2009 Gran Torino vince i premi come miglior film straniero delle Accademie del cinema francese (Cesar), italiana (David di Donatello)

e giapponese. Eastwood riceve la Palma d’Oro onoraria alla carriera al Festival del cinema di Cannes. Viene nominato comandante della Legion d’Onore. Dirige Morgan Freeman e Matt Damon in Invictus — L’invincibile, sulla promozione da parte di Nelson Mandela dello

sport «bianco» del rugby’ per sciogliere le tensioni razziali nel Sudafrica post-apartheid. Il film riceve buone recensioni, ma uno

scarso successo di botteghino. 2009-10 Dirige Matt Damon in Hereafter, una storia in tre parti su un medium, un’esperienza di premorte e il lutto di un ragazzino, girato a

Parigi, Londra, San Francisco e alle Hawaii; ne compone anche la colonna sonora. 2010 Retrospettiva completa dei film diretti da Eastwood alla Film

Society di New York. Anteprima di Hereafter al Toronto International

Film Festival e al New York Film Festival. Recensioni contrastanti, incassi scarsi. 2011 Hereafter vince il David di Donatello come miglior film straniero. Eastwood dirige J. Edgar, con Leonardo DiCaprio nei panni del

direttore dell’FBI Hoover, e ne cura la colonna sonora. Annuncia un

remake di A Star Is Born con Beyoncé Knowles. Quando questo progetto viene rimandato, Eastwood rivela che reciterà in un film sul

baseball, Di nuovo in gioco, che verrà diretto dal suo collaboratore della Malpaso Robert Lorenz: per la prima volta dopo vent’anni

Eastwood torna a lavorare per un altro regista. Uscita di J. Edgar, con recensioni miste e scarsi risultati al botteghino; accoglienza migliore

da parte dei critici europei. Retrospettiva completa alla Cinematheque fran9aise.

2012 Fa da narratore a uno spot del Super Bowl per la Chrysler Corporation, «Halftime in America», il cui messaggio «sulla crescita

dell’occupazione e sullo spirito americano» sì rivela politicamente

controverso. Eastwood dichiara che lui e la moglie Dina hanno aiutato a comporne il testo e che il suo compenso è stato devoluto in

beneficenza. Compare in Di nuovo in gioco di Lorenz in uscita in autunno. Continua il lavoro di preproduzione per A Star Is Born, all’epoca previsto per il 2013.

FILMOGRAFIA

Regia

1971

The Beguiled: The Storyteller [Id.]

Cortometraggio di dodici minuti su Don Siegel a volte citato come l’esordio registico di Clint Easbvood. Brivido nella notte [Play Misty For Me] Produzione: Malpaso / Universa! Produttore: Robert Daley

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Jo Heims, Dean Riesner

Fotografia: Brace Surtees Montaggio: Carl Pingitore

Scenografia: Alexander Golitzen Musiche: Dee Barton Cast: Clint Easbvood (Dave), Jessica Walter (Evelyn), Donna Mills

(Tobie), John Larch (sergente McCallum) Technicolor, 102 minuti 1973

Lo straniero senza nome [High Plains Drifter} Produzione: Malpaso / Universal Produttore esecutivo: Jennings Lan:'g

Produttore: Robert Daley

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Ernest Tidyman Fotografia: Brace Surtees

Montaggio: Ferris Webster

Scenografia: Henry Bumstead Musiche: Dee Barton

Cast: Clint Eastwood (lo Straniero), Verna Bloom (Sarah Belding), Mariana Hill (Callie Travers), Mitchell Ryan (Dave Drake), Jack Ging (Morgan Allen) Technicolor, Panavision, 109 minuti Breezy [Id.] Produzione: Malpaso / Universal

Produttore esecutivo: Jennings Lang Produttore: Robert Daley

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Jo Heims Fotografia: Frank Stanley

Montaggio: Ferris Webster Scenografia: Alexander Golitzen Musiche: Michel Legrand Cast: William Holden (Frank Harmon), Kay Lenz (Breezy), Roger

C. Carmel (Bob Henderson), Marj Dusay (Betty), Joan Hotchlds (Paula) Technicolor, 109 minuti 1975

Assassinio sull’Eiger [The Eiger Sanction] Produzione: Malpaso / Universal Produttori esecutivi: Richard D. Zanuck, David Brown

Produttore: Robert Daley

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Hal Dresner, Warren B. Murphy, Rod 'Whitaker; basata sul romanzo di Trevanian

Fotografia: Frank Stanley Montaggio: Ferris Webster Scenografia: George Webb. Aurelio Gragnola Musiche: John Williams

Cast: Clint Easbvood (Jonathan Hemlock), George Kennedy (Ben Bowman), Vonetta McGee (Jemima Brown), Jack Cassidy (Miles Mellough), Heidi Bruhl (Mrs. Montaigne)

Technicolor, Panarision, 129 minuti 1976

Il texano dagli occhi di ghiaccio [The Outlaw Josey Wales] Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttore: Robert Daley

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Phil Kaufman, Sonia Chernus; basata sul romanzo

Gone to Texas di Forrest Carter Fotografia: Brace Surtees

Montaggio: Ferris Webster

Scenografia: Tambi Larsen

Musiche: Jerry- Fielding Cast; Clint Easbvood (Josey Wales), Capo Dan George (Lone

Watie), Sondra Locke (Laura Lee), Bill McKinney (Terrill), John Vernon (Fletcher)

DeLuxe, Panarision, 135 minuti Nomination agli Oscar; miglior colonna sonora originale (Fielding) 1977

L’uomo nel mirino [The Gauntlet] Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore: Robert Daley-

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Michael P. Butler, Dennis Shryack Fotografia: Rexford Metz Montaggio: Ferris Webster, Joel Cox

Scenografia: Allen E. Smith Musiche: Jerry- Fielding Cast: Clint Easbvood (Ben Shockley), Sondra Locke (Gus Maliy),

Pat Hingle (Josephson), William Prince (Blakelock), Bill McKinney (Constable)

DeLuxe, Panavision, 109 minuti 1980 Bronco Billy [Id.] Produzione: Warner Bros., [Malpaso], Second Street Films /

Warner Bros. Produttore esecutivo: Robert Daley Produttori: Dennis E. Hackin, Neil Dobrofsky

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Dennis E. Hackin

Fotografia: David Worth Montaggio: Ferris Webster, Joel Cox Scenografia: Gene Lourie Supervisione musiche: Snuff Garrett Cast: Clint Easbvood (Bronco Billy), Sondra Locke (Antoinette Lily), Geoffrey Lewis (John Arlington), Scatman Crothers (Doc

Lynch), Bill McKinney (Lefty- LeBow)

DeLuxe, 117 minuti 1982

Firefox — Volpe di fuoco [Firefox] Produzione: Warner Bros., [Malpaso] ! 'Warner Bros. Produttore esecutivo: Fritz Manes Produttore: Clint Easbvood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Alex Lasker, Wendell Wellman; basata sul

romanzo di Craig Thomas

Fotografia: Brace Surtees Montaggio: Ferris Webster, Ron Spang Scenografia: John Graysmark, Elayne Ceder Musiche: Maurice Jarre Cast: Clint Easbvood (Mitchell Gant), Freddie Jones (Kenneth

Aubrey), David Huffman (Buckholz), Warren Clarke (Pavel Upenskoy), Ronald Lacey (Semelovsky)

DeLuxe, Panavision, 136 minuti Honkytonk Man [Id-] Produzione: Warner Bros., [Malpaso] / Warner Bros.

Produttore esecutivo: Fritz Manes

Produttore: Clint Easbvood Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Clancy- Carlile, basata sul suo romanzo Fotografia: Brace Surtees

Montaggio: Ferris Webster, Michael Kelly, Joel Cox

Scenografia: Edward Carfagno Supervisione musiche: Snuff Garrett Cast: Clint Easbvood (Red Stovall), Kyle Eastwood (Whit), John

McIntire (nonno), Alexa Kenin (Marlene), Verna Bloom (Emmy) Technicolor, 122 minuti 1983

Coraggio... Fatti ammazzare [Sudden Impact] Produzione: Warner Bros., [Malpaso] / Warner Bros.

Produttore esecutivo: Fritz Manes

Produttore: Clint Easbvood Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Joseph C. Stinson Soggetto: Earl E. Smith, Charles B. Pierce

Fotografia: Brace Surtees Montaggio: Joel Cox Scenografia: Edward C. Carfagno Musiche: Lalo Schifrin

Cast: Clint Easbvood (Harry Callaghan), Sondra Locke (Jennifer Spencer), Pat Hingle (capo Jannings), Bradford Dillman (capitano

Briggs), Paul Drake (Mick)

Technicolor, Panarision, 117 minuti

1984 Corda tesa [Tightrope] Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttori: Clint Eastwood, Fritz Manes Regia: Richard Tuggle Sceneggiatura: Richard Tuggle Fotografia: Bruce Surtees

Scenografia: Edward Carfagno Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Easbvood: «Tema di Amanda» Cast: Clint Eastwood (Wes Block), Genevieve Bujold (Beryl

Thibodeaux), Dan Hedaya (Detective Molinari), Alison Easbvood

(Amanda Block), Jennifer Beck (Penny Block), Marco St. John

(Leander Rolfe) Technicolor, 114 minuti 1985

Il cavaliere pallido [Pale Rider} Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Fritz Manes

Produttore: Clint Eastwood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Michael Butler, Dennis Shryack Fotografia: Brace Surtees

Montaggio: Joel Cox Scenografia: Edward Carfagno

Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Easbvood: «Tema di Megan» Cast; Clint Easbvood (Preacher), Michael Moriarty- (Hull Barret),

Carrie Snodgress (Sarah 'Wheeler), Christopher Penn (Josh LaHood),

Richard Dysart (Coy LaHood), Sydney Penny (Megan Wheeler) Technicolor, Panavision, 116 minuti Vanessa [Vanessa in the Garden, serie televisiva Storie incredìbili / Amazing Stories]

Produzione: Amblin Entertainment / NBC Produttore esecutivo: Steven Spielberg Produttore: David E. Vogel

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Steven Spielberg Fotografia: Robert Stevens

Montaggio: Jo Ann Fogle

Scenografia: Rick Carter Musiche: Lennie Niehaus (dai temi di John Williams e Richard Wagner) Cast: Harvey Keitel (Byron Sullivan), Sondra Locke (Vanessa). Beau Bridges (Ted)

Colore, 25 minuti

1986 Gunny [Heartbreak Ridge] Produzione: Jay Weston Productions. Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Fritz Manes

Produttore: Clint Easbvood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: James Carabatsos e Joseph C. Stinson, non

indicato Fotografia: Jack N, Green

Montaggio: Joel Cox

Scenografia: Edward Carfagno Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Easbvood: «How Much I Cétre» Cast: Clint Easbvood (Highway), Marsha Mason (Aggie), Everett

McGill (maggiore Powers), Moses Gunn (sergente Webster), Eileen Heckart (Little Mary), Mario Van Peebles (Stitch)

Technicolor, 130 minuti Nomination agli Oscar: miglior sonoro (Dick Alexander, Les Fresholtz, William Nelson, Vern Poore)

1988

Bird [Id.] Produzione: Malpaso I Warner Bros. Produttore esecutivo: David Valdes Produttore: Clint Easbvood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Joel Oliansky

Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox Scenografia: Edward C. Carfagno

Musiche: Lennie Niehaus; con musiche originali di Charlie Parker Cast: Forest Whitaker (Charlie «Bird» Parker), Diane Venora

(Chan Parker), Michael Zelniker (Red Rodney), Samuel E. Wright (Dizzy-), Keith David (Buster Franklin), Anna Levine’ (Audrey-)

Technicolor, 160 minuti

Premio Oscar: miglior sonoro (Dick Alexander, Willie D. Burton,

Les Fresholtz, Vern Poore) 1990

Cacciatore bianco, errore nero [White Hunter, Black

Heart] Produzione: Malpaso, Rastar / Warner Bros. Produttore esecutivo: David Valdes Produttore: Clint Easbvood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Peter Viertel, James Bridges, Burt Kennedy;

basata sul romanzo di Viertel

Fotografia: Jack N. Green

Montaggio: Joel Cox Scenografia: John Graysmark Musiche: Lennie Niehaus Cast: Clint Easbvood (John Wilson). Jeff Fahey (Pete Verrill),

George Dzundza (Paul Landers), Alun Armstrong (Ralph Lockhart), Marisa Berenson (Kay Gibson), Boy Mathias Chuma (Kira) Technicolor, 112 minuti

La recluta [The Rookie] Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttori: Howard Kazanjian, Steven Siebert, David Valdes Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Boaz Yakin, Scott Spiegel

Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox Scenografia: Judy Cammer Musiche: Lennie Niehaus Cast: Clint Easbvood (Nick Pulovski), Charlie Sheen (David Ackerman), Raul Julia (Strom), Sonia Braga (Liesl), Tom Skerritt (Eugene Ackerman)

Technicolor, Panarision, 121 minuti 1992

Gli Spietati [Unforgiven] Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: David Valdes

Produttore: Clint Easbvood Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: David Webb Peoples

Fotografia: Jack N. Green

Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry’ Bumstead

Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Easbvood: «Tema di Claudia» Cast: Clint Easbvood (William Munny), Gene Hackman (Little Bill Daggett), Morgan Freeman (Ned Logan), Richard Harris (Bob

«l’inglese»), Jaimz Woolvett (Schofield Kid), Saul Rubinek (W.W. Beauchamp), Frances Fisher (Strawberry Alice), Anna Thomson'6

(Delilah Fitzgerald) Technicolor, Panavision, 131 minuti Premi Oscar: miglior film; miglior regia (Clint Easbvood); miglior

attore non protagonista (Hackman); miglior montaggio (Cox). Nomination agli Oscar: miglior attore protagonista (Clint Eastwood); miglior scenografia (Bumstead, Janice Blackie-Goodine);

miglior fotografia (Green); miglior sonoro (Dick Alexander, Les

Fresholtz, Vern Poore. Rob Young); miglior sceneggiatura originale

(Peoples) 1993 Un mondo perfetto [A Perfect World] Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttori: Mark Johnson, David Valdes Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: John Lee Hancock

Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox, Ron Spang Scenografia: Henry- Bumstead Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Easbvood: tema «Big Fran’s Baby» Cast: Kerin Costner (Butch Haynes), Clint Easbvood (Red Garnett), Laura Dern (Sally Gerber), T. J. Lowther (Phillip Perry),

Keith Szarabajka (Terry Pugh) Technicolor, Panavision, 138 minuti 1995

I ponti di Madison County [The Bridges ofMadison County] Produzione: Amblin, Malpaso / Warner Bros.

Produttori: Clint Easbvood, Kathleen Kennedy Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: Richard LaGravenese, basata sul romanzo di Robert James Waller Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox

Scenografia: Jeannine C. Oppewall Musiche: Lennie Niehaus

Composto da Clint Easbvood: tema «Doe Eyes» Cast: Clint Easbvood (Robert Kincaid), Meryl Streep (Francesca Johnson), Annie Corley (Carolyn), Victor Slezak (Michael), Jim

Haynie (Richard)

Technicolor, 135 minuti

Nomination agli Oscar: miglior attrice protagonista (Streep)

1997 Potere assoluto [Absolute Power] Produzione: Castle Rock Entertainment, Malpaso / Columbia Pictures Produttori: Karen Spiegel, Clint Easbvood

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: William Goldman; basata sul romanzo di David Baldacci Fotografia: Jack N. Green

Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry Bumstead Musiche: Lennie Niehaus

Composti da Clint Eastwood: «Power Waltz» e «Tema di Kate!» Cast: Clint East wood (Luther Whitney). Gene Hackman

(presidente Richmond), Ed Harris (Seth Frank), Laura Linney (Kate Whitney), Scott Glenn (Bill Burton), Judy Davis (Gloria Russell)

Technicolor, Panavision, 121 minuti

Mezzanotte nel giardino del bene e del male [Midnight in the Garden of Good and Evil] Produzione: Malpaso, Silver Pictures / Warner Bros.

Produttore esecutivo: Anita Zuckerman

Produttori: Clint Easbvood, Arnold Stiefel

Regia: Clint Easbvood Sceneggiatura: John Lee Hancock; basata sul libro di John Berendt Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox

Scenografia: Henry Bumstead Musiche: Lennie Niehaus, con canzoni di Johnny Mercer Cast: Kerin Spacey (Jim Williams), John Cusack (John Kelso),

Jack Thompson (Sonny Seiler), Irma P. Hall (Minerva). Jude Law

(Billy Hanson), Alison Eastwood (Mandy Nicholls), The Lady Chablis

(Chablis Deveau)

Technicolor, 155 minuti

1999

Fino a prova contraria [True Crime] Produzione: The Zanuck Company, Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Tom Rooker

Produttori: Clint Eastwood, Richard D. Zanuck, Lili Fini Zanuck Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Larry7 Gross, Paul Brickman, Stephen Schiff; basata sul romanzo di Andrew Klavan

Fotografia: Jack N. Green

Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry Bumstead Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Eastwood: «Why7 Should I Care» Cast: Clint Eastwood (Steve Everett), Isaiah Washington (Frank

Beechum), Dennis Leary7 (Bob Findley), Lisa Gay7 Hamilton (Bonnie Beechum), Diane Venera (Barbara Everett), Bernard Hill (Luther Plunkitt), James Woods (Alan Mann), Francesca Fisher-Eastwood

(Kate Everett) Technicolor, 127 minuti Space Cowboys [Id.]

Produzione: Malpaso, Mad Chance Productions, Village Roadshow Pictures, Clipsal Films / Warner Bros. Produttore esecutivo: Tom Rooker

Produttori: Clint Eastwood, Andrew Lazar Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Ken Kaufman, Howard Klausner Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox

Scenografia: Henry7 Bumstead

Musiche: Lennie Niehaus Composto da Clint Eastwood: «Espacio»

Cast: Clint Eastwood (Frank Corvin), Tommy Lee Jones (Hawk Hawkins), Donald Sutherland (Jerry7 O’Neill), James Garner (Tank Sullivan), James Cromwell (Bob Gerson), Marcia Gay Harden (Sara

Holland) Technicolor, Panavision, 130 minuti Nomination agli Oscar: Sound Editing, Alan Robert Murray, Bub

Asman 2002 Debito di sangue [Blood FVbrfc] Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Robert Lorenz

Produttore: Clint Eastwood Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Brian Helgeland; basata sul romanzo di Michael

Connelly

Fotografìa: Tom Stem Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry7 Bumstead Musiche: Lennie Niehaus Cast: Clint Eastwood (Terry McCaleb), Jeff Daniels («Buddy»

Noone), Wanda De Jesus (Gradella Rivers), Tina Lifford (Jaye Winston), Paul Rodriguez (Detective Ronaldo Arrange), Anjelica Huston (Dr. Bonnie Fox)

Technicolor, Panavision, 110 minuti 2003

Piano blues [documentario; serie televisiva The Blues]

Produzione: Road Movies Filmproduktion, Vulcan Productions, Cappa Productions, Jigsaw Productions / PBS

Produttori esecutivi della serie: Martin Scorsese, Ulrich Felsberg, Paul G. Allen, Jody Patton Produttore: Clint Eastwood, Bruce Ricker

Regia: Clint Eastwood Fotografia: Vic Losick

Montaggio: Joel Cox, Gary Roach

Con: Marcia Ball, Pinetop Perkins. Dave Brubeck, Jay McShann, Ray Charles, Dr. John, Clint Eastwood

Colore, bianco e nero, 92 minuti Mystic River [Id.] Produzione: Malpaso, Village Roadshow7 Pictures, NPV Entertainment / Warner Bros.

Produttore esecutivo: Bruce Berman Produttori: Robert Lorenz, Judie G. Hoyt, Clint Eastwood

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Brian Helgoland, basata sul romanzo di Dennis Lehane Fotografìa: Tom Stem

Montaggio: Joel Cox Scenografìa: Henry7 Bumstead

Musiche: Clint Eastwood Cast: Sean Penn (Jimmy7 Markum), Tim Robbins (Dave Boyle),

Kevin Bacon (Sean Devine), Laurence Fishburne (Whitey Powers), Marcia Gay Harden (Celeste Boyle), Laura Linney7 (Annabeth

Markum)

Technicolor, Panavision, 138 minuti Premi Oscar: miglior attore protagonista (Penn); miglior attore non protagonista (Robbins) Nomination agli Oscar: miglior attrice non protagonista (Harden); miglior sceneggiatura non originale

(Helgoland); miglior regia (Clint Eastwood); miglior film (Lorenz, Hoyt, Eastwood) 2004

Million Dollar Baby [Id.] Produzione: Malpaso, Lakeshore Entertainment / Warner Bros. Produttori esecutivi: Gary Lucchesi, Robert Lorenz

Produttori: Clint Eastwood, Albert S. Ruddy, Tom Rosenberg, Paul Haggis

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Paul Haggis, basata su un racconto di Rope Burns

di F.X. Toole

Fotografia: Tom Stem Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry7 Bumstead Musiche: Clint Eastwood Cast: Clint Eastwood (Frankie Dunn), Hilary Swank (Maggie

Fitzgerald), Morgan Freeman (Eddie «Scrap-Iron» Dupris), Anthony7 Mackie (Shawrelle Berry), Jay Baruchel (Danger Batch), Lucia Rijker

(Billie «The Blue Bear»)

Technicolor, Panavision, 132 minuti Premi Oscar: miglior attore non protagonista (Freeman); miglior attrice protagonista (Swank); miglior regia (Eastwood); miglior film

(Eastwood, Ruddy, Rosenberg) Nomination agli Oscar: miglior attore protagonista (Eastwood);

miglior montaggio (Cox); miglior sceneggiatura non originale (Haggis) 2006

Flags of Our Fathers [Id.] Produzione: Malpaso, Amblin Entertainment / DreamWorks,

Warner Bros. Produttori: Clint Eastwood, Steven Spielberg, Robert Lorenz

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: William Broyles, Jr., Paul Haggis; basata sul libro

di James Bradley e Ron Powers

Fotografia: Tom Stem Montaggio: Joel Cox Scenografia: Henry7 Bumstead

Musiche: Clint Eastwood Cast: Ryan Phillippe (John «Doc» Bradley), Jesse Bradford (Rene

Gagnon), Adam Beach (Ira Hayes), John Benjamin Hickey (Keyes

Beech), John Slattery (Bud Gurber), Barry Pepper (Mike Strank)

Technicolor, Panavision, 132 minuti Nomination agli Oscar; miglior montaggio sonoro (Alan Robert Murray, Bub Asman); miglior sonoro (John Reitz, Dave Campbell,

Gregg Rudloff. Walt Martin)

Lettere da Iwo Jima [Lettersfrom Iwo Jima] Produzione: Malpaso, Amblin Entertainment / DreamWorks, Warner Bros. Produttore esecutivo: Paul Haggis

Produttori: Clint Eastwood, Steven Spielberg, Robert Lorenz

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura (giapponese): Iris Yamashita

Soggetto: Yamashita, Haggis; basata sul libro Picture Letters from the Commander in Chief di Tadamichi Kuribayashi Fotografìa: Tom Stem Montaggio: Joel Cox, Gary7 D. Roach

Scenografia: Henry7 Bumstead. James J. Murakami

Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens Cast: Ken Watanabe (generale Kuribayashi), Kazunari Ninomiya (Saigo). Tsuyoshi Ihara (barone Nishi), Ryo Kase (Shimizu), Shidou Nakamura (tenente Ito)

Technicolor, Panavision, 141 minuti Premi Oscar: miglior montaggio sonoro (Alan Robert Murray, Bub

Asman) Nomination agli Oscar: miglior regia (Eastwood); miglior film

(Eastwood, Spielberg, Lorenz); miglior sceneggiatura originale

(Yamashita, Haggis) 2008

Changeling [Id.] Produzione: Imagine Entertainment, Malpaso, Relativity Media j

Universal Produttori esecutivi: Tim Moore, Jim Whitaker

Produttori: Clint Eastwood, Brian Grazer, Ron Howard, Robert Lorenz Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: J. Michael Straczynski Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach

Scenografia: James J. Murakami Musiche: Clint Eastwood Cast: Angelina Jolie (Christine Collins), John Malkovich (rev.

Gustav Briegleb), Jeffrey Donovan (capitano J.J. Jones), Michael Kelly (detective Lester Ybarra), Colm Feore (capo James E. Davis),

Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Amy Ryan (Carol Dexter) Technicolor, Panavision, 142 minuti Nomination agli Oscar: miglior attrice protagonista (Jolie);

miglior scenografia (Murakami, Gary Fettis); miglior fotografia (Stern)

Gran Torino [Id.] Produzione: Double Nickel Entertainment, Malpaso, Village Roadshow Pictures / Matten Productions Warner Bros., Matten Productions Produttori esecutivi: Jenette Kahn, Adam Richman, Tim Moore, Bruce Berman Produttori: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Bill Gerber

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Nick Schenk Soggetto: Dave Johannson, Schenk

Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gary’ D. Roach Scenografia: James J. Murakami

Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens Composto da Clint Eastwood: «Gran Torino» Cast: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Bee Vang (Thao), Ahney

Her (Sue), Christopher Carley (Father Janovich). John Carroll Lynch (Barber Martin) Technicolor, Panavision, 116 minuti 2009

Invictus — L’invincibile [Invictus] Produzione: Malpaso, Spyglass Entertainment, Revelations Entertainment, Man Company7 / Warner Bros. Produttori esecutivi: Morgan Freeman, Tim Moore, Gary7 Barber,

Roger Birnbaum Produttori: Clint Eastwood, Lori McCreary7, Robert Lorenz, Mace

Neufeld Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Anthony Peckham, basata sul libro Ama il tuo nemico di John Carlin

Fotografia: Tom Stern Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach

Scenografia: James J. Murakami Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens Cast: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (Francois

Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko) Technicolor, Panavision, 134 minuti Nomination agli Oscar: miglior attore protagonista (Freeman);

miglior attore non protagonista (Damon)

2010 Hereafter [Id.] Produzione: Malpaso, Amblin Entertainment / Warner Bros.

Produttori esecutivi: Steven Spielberg, Frank Marshall, Peter

Morgan, Tim Moore Produttori: Clint Eastwood, Kathleen Kennedy, Robert Lorenz

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Peter Morgan

Fotografia: Tom Stem Montaggio: Joel Cox, Gary7 D. Roach Scenografia: James J. Murakami Musiche: Clint Eastwood Cast: Matt Damon (George Lonegan), Cécile de France (Marie

Lelay), Jay Mohr (Billy), Bryce Dallas Howard (Melanie), George McLaren (Marcus/Jason), Frankie McLaren (Marcus/Jason)

Technicolor, Panavision, 129 minuti Nomination agli Oscar: migliori effetti speciali (Michael Owens, Bryan Grill, Stephan Trojansky7, Joe Farrell)

2011 J. Edgar [Id.]

Produzione: Imagine Entertainment, Malpaso I Warner Bros. Produttori esecutivi: Tim Moore, Erica Huggins

Produttori: Clint Eastwood, Brian Grazer, Robert Lorenz Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Dustin Lance Black Fotografia: Tom Stem

Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach

Scenografia: James J. Murakami

Musiche: Clint Eastwood Cast: Leonardo DiCaprio (J. Edgar Hoover), Naomi Watts (Helen Gandy), Judi Dench (Annie Hoover), Armie Hammer (Clyde Tolson), Josh Lucas (Charles Lindberg)

Technicolor, Panavision, 137 minuti A Star Is Bom (originariamente previsto per il 2013; cast

artistico e tecnico ipotetico) Produzione: Malpaso, Thunder Road Pictures, Wonderful Films /

Warner Bros. Produttori: Basil Iwanyk, Jon Peters, Bill Gerber, Clint Eastwood

Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Will Fetters, Pamela Gray

Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox Scenografia: James J. Murakami Cast: Beyonce Knowles Solo attore Televisione

Clint Eastwood debuttò in televisione in uno speciale di Steve

Allen, Alien in Movieland (1955). Apparve poi in un episodio di ciascuna delle seguenti serie televisive: La pattuglia della strada {Highway Patrol, 1956); Death Valley Days (1956); West Point

(1957); Navy Log (1957); Maverick (1959); Mister Ed, il mulo parlante (.Mister Ed; 1962).

Gli uomini della prateria [Rawhide], 1959-65 217 episodi, CBS Produttore esecutivo della serie: Charles Marquis Warren

Produttori: Warren. Vincent M. Fennelly, Endre Bohem e altri Sceneggiatura: Louis Vittes, John Dunkel, Charles Larson e altri

Regia: Thomas Carr, Ted Post, Christian Nyby e altri Fotografia: John M. Nickolaus Jr. e altri

Montaggio: George A. Gittens e altri Cast: Eric Fleming (Gii Favor), Clint Eastwood (Rowdy Yates), Paul Brinegar (Wishbone), Steve Raines (Jim Quince), James

Murdock (Mushy) Lungometraggi

A inizio carriera Clint Eastwood interpretò ruoli minori in dieci film, che elenchiamo brevemente; tutti i titoli sono prodotti da

Universal-International, se non diversamente specificato.

La vendetta del mostro [Revenge of the Creature], Jack Arnold, 1955: Clint Eastwood (non accreditato) nel ruolo di Jennings Francis in the Navy [id.], Arthur Lubin, 1955: Clint Eastwood nel ruolo di Jonesey Lady Godiva [Lady Godiva of Coventry], Arthur Lubin, 1955: Clint Eastwood (non accreditato) nel ruolo del primo Sassone Tarantola [Tarantina]. Jack Arnold, 1955: Clint Eastwood (non

accreditato) nel ruolo del pilota che guida la pattuglia di jet

Come prima... meglio di prima [Never Say Goodbye] Jerry Hopper, 1956: Clint Eastwood (non accreditato) nel ruolo di Will

Esecuzione al tramonto [Star in the Dust], Charles Haas. 1956: Clint Eastwood (non accreditato) nel ruolo di un mandriano del ranch

Scialuppe a mare [Away All Boats], Joseph Pevney, 1956: Clint

Eastwood (non accreditato) nel ruolo di un marinaio Vita di una commessa viaggiatrice [The First Traveling Saleslady], Arthur Lubin. RKO, 1956: «E per la prima volta sullo schermo, Clint Eastwood» nel ruolo di Jack Rice

Due gentiluomini attraverso il Giappone [Escapade in Japan], Arthur Lubin, KKO, Universal-International, 1957: Clint Eastwood nel ruolo del pilota di un aereo di salvataggio

La squadriglia Lafayette [Lafayette Escadrille] William A. Wellman, Warner Bros., 1957: Clint Eastwood nel ruolo di George Moseley Ruoli da protagonista / coprotagonista

L’urlo di guerra degli Apaches [Ambush at Cimarron

Passi, 1958 Produzione: Regal / 20th Century7 Fox

Produttore: Herbert E. Mendelson

Regia: Jodie Copelan Sceneggiatura: Richard G. Taylor, John K. Butler Fotografia: John M. Nickolaus Jr.

Montaggio: Carl L. Pierson

Scenografia: John Mansbridge.

Musiche: Paul Sawtell, Bert Shelter Cast: Scott Brady (sergente Matt Blake), Margia Dean (Teresa), Clint Eastwood (Keith Williams) Bianco e nero, RegalScope, 73 minuti

Per un pugno di dollari [A Fistful of Dollars], 1964; Stati Uniti 1967 Produzione: Jolly Film, Constantin, Ocean Film / United Artists

Produttori: Arrigo Colombo (come Harry Colombo), Giorgio Papi (come George Papi)

Regia: Sergio Leone Sceneggiatura: Leone, Duccio Tessaci, Victor A. Catena, G. Schock Fotografia: Massimo Dallamano (come Jack Dalmas) Montaggio: Roberto Cinquini (come Bob Quintle)

Scenografia: Carlo Simi (come Charles Simons) Musiche: Ennio Morricone (come Dan Savio) Cast: Clint Eastwood (Joe, lo Straniero), Gian Maria Volonté

(come Johnny7 Wels) (Ramon Rojo), Marianne Koch (Marisol), José Calvo (Silvanito), Wolfgang Lukschy (John Baxter), Josef Egger

(come Joe Edger) (Piripero)

Technicolor, Techniscope, 96-100 minuti Per qualche dollaroinpiù [For a Few Dollars More},

1965; Stati Uniti 1967 Produzione: Produzioni Europee Associate, Constantin, Arturo Gonzales / United Artists Produttore: Alberto Grimaldi

Regia: Sergio Leone Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Sergio Leone Fotografia: Massimo Dallamano Montaggio: Giorgio Serralonga, Eugenio Alabiso

Scenografia: Carlo Simi

Musiche: Ennio Morricone Cast: Clint Eastwood (Manco, lo Straniero), Lee Van Cleef

(colonnello Douglas Mortimer), Gian Maria Volente (Indio), Klaus Kinski (Wild), Josef Egger (Profeta) Technicolor, Techniscope, 128-130 minuti Il buono, il brutto, il cattivo [The Good, the Bad, and the

Ugly], 1966; Stati Uniti: 1968; versione integrale restaurata: 2003 Produzione: Produzioni Europee Associate / United Artists

Produttore: Alberto Grimaldi

Regia: Sergio Leone Sceneggiatura: Age [Agenore Incrocci], [Furio] Scarpelli, Luciano

Vincenzoni, Sergio Leone; versione inglese: Mickey Knox Fotografia: Tonino Delli Colli Montaggio: Nino Baragli, Eugenio Alabiso

Scenografia: Carlo Simi Musiche: Ennio Morricone Cast: Clint Eastwood (il Biondo, ovvero il buono). Eli Wallach

(Tuco, il brutto), Lee Van Cleef (Sentenza, il cattivo), Aldo Giuffré

(capitano nordista), Rada Rassimov (Maria), Mario Brega (caporale Wallace) Technicolor, Techniscope, 180 minuti (Italia), 161 minuti (Stati

Uniti); versione integrale: 179 minuti

Le streghe [The Witches], 1967; non uscito sul mercato degli Stati Uniti Produzione: Dino de Laurentiis Cinematografica, Productions Artistes Associés ! United Artists Produttore esecutivo: Alfredo De Laurentiis

Produttore: Dino De Laurentiis Fotografia: Giuseppe Rotunno Scenografia: Mario Garbuglia, Piero Poletto

Musiche: Piero Piccioni, Ennio Morricone Technicolor, 106 minuti

Part Five, «Una sera come le altre» [«An Ordinary7 Evening»]

Regia: Vittorio De Sica Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Fabio Carpi, Enzo Muzii Montaggio: Adriana Novelli

Cast: Silvana Mangano (Giovanna), Clint Eastwood (Carlo)

25 minuti

Impiccalo più in alto [Hang Em High], 1968 Produzione: Leonard Freeman Productions, Malpaso / United

Artists Produttore: Leonard Freeman

Regia: Ted Post Sceneggiatura: Freeman, Mel Goldberg Fotografia: Richard Kline, Leonard South Montaggio: Gene Fowler, Jr.

Scenografia: John Goodman

Musiche: Dominic Frontiere Cast; Clint Eastwood (Jed Cooper), Inger Stevens (Rachel), Ed Begley (capitano Wilson), Pat Hingle (giudice Fenton), Bruce Dern

(Miller), Dennis Hopper (profeta) DeLuxe, 115 minuti

L’uomo dalla cravatta di cuoio [Coogan’s Bluff], 1968 Produzione: Malpaso / Universal Produttore esecutivo: Richard E. Lyons Produttore: Donald Siegei

Regia: Siegei Sceneggiatura: Herman Miller, Dean Riesner, Howard Rodman

Fotografia: Bud Thackery

Montaggio: Sam E, Waxman Scenografia: Alexander Golitzen, Robert C. MacKichan Musiche: Lalo Schifrin

Cast: Clint Eastwood (Coogan), Lee J. Cobb (tenente McElroy), Susan Clark (Julie), Tisha Sterling (Linny Raven), Don Stroud (Ringerman)

Technicolor, 94 minuti Dove osano le aquile [WTiere Eagles Dare], 1969; Regno Unito 1968 Produzione: Winkast Film Productions / Metro-Goldwyn-Mayer

Produttori: Elliott Kastner, Jerry Gershwin Regia: Brian G. Hutton Soggetto e sceneggiatura: Alistair MacLean Fotografia: Arthur Ibbetson Montaggio; John Jympson

Scenografia: Peter Mullins

Musiche: Ron Goodwin Cast: Richard Burton (Smith), Clint Eastwood (Schaffer), Mary

Ure (Mary), Patrick Wymark (Turner), Michael Hordern (Rolland), Ingrid Pitt (Heidi) Metrocolor / Panavision, 155 minuti

La ballata della città senza nome [Paint Four WajyonJ, 1969 Produzione: Paramount

Produttore: Alan Jay Lerner

Regia: Joshua Logan Sceneggiatura, testi canzoni: Lerner Adattamento: Paddy Chayefsky Fotografia: William A. Fraker Montaggio: Robert C. Jones

Scenografia: John Truscott Musiche: Frederick Loewe, André Pre™ Cast: Lee Marvin (Ben Rumson), Clint Eastwood («Pardner»),

Jean Seberg (Elizabeth), Ray Walston («Mad Jack» Duncan), Harve

Presnell («Rotten Luck Willie») Technicolor, Panarision, 166 minuti

Nomination agli Oscar: miglior colonna sonora - Adattamento con canzoni originali (Nelson Riddle)

Gli avvoltoi hanno fame [Two Mulesfor Sister Sara], 1970 Produzione: Malpaso, Sanen Productions / Universal

Produttori: Martin Rackin, Carroll Case Regia: Don Siegel Sceneggiatura: Albert Maltz Soggetto: Budd Boetticher

Fotografia: Gabriel Figueroa Montaggio: Robert F. Shugrue, Juan José Marino

Scenografia: José Rodriguez Granada Musica: Ennio Morricone Cast: Shirley MacLaine (Sara), Clint Eastwood (Hogan), Manolo Fàbregas (Colonel Beltran), Alberto Morin (General LeClaire)

Technicolor, Panarision, 114 minuti

I guerrieri [Kelly’s Heroes], 1970 Produzione: The ‘Warriors Company / Metro-Goldwyn-Mayer Produttori: Gabriel Katzka, Sidney Beckerman Regia: Brian G. Hutton Sceneggiatura: Troy Kennedy Martin Fotografia: Gabriel Figueroa Montaggio: John Jympson

Scenografia: Jonathan Barry

Musiche: Lalo Schifrin Cast; Clint Eastwood (Kelly), Telly Savalas (Big Joe), Don Rickles

(Rubamazzo), Carroll O’Connor (generale Colt), Donald Sutherland (Testamatta) Metrocolor, Panarision, 145 minuti La notte brava del soldato Jonathan [The Beguiled], 1971 Produzione: Jennings Lang, Malpaso / Universal

Produttore: Donald Siegel

Regia: Siegel Sceneggiatura: Albert Maltz (come John B. Sherry), Irene Kamp (come Grimes Grice); basata sul romanzo di Thomas Cullinan

Fotografia: Bruce Surtees Montaggio: Carl Pingitore

Scenografia: Ted Haworth Direzione artistica: Alexander Golitzen Musiche: Lalo Schifrin

Cast: Clint Eastwood (John McBurney), Geraldine Page (Martha),

Elizabeth Hartman (Edwina), Jo Ann Harris (Carol), Mae Mercer (Hallie), Pamelyn Ferdin (Amy)

Technicolor, 105 minuti

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! [Dirty Harry], 1971 Produzione: Malpaso/Warner Bros.

Produttore esecutivo: Robert Daley

Produttore: Don Siegei Regia: Siegei Sceneggiatura: Harry' Julian Fink, Rita M. Fink, Dean Riesner

Fotografia: Brace Surtees Montaggio: Carl Pingitore Direzione artistica: Dale Hennesy

Musiche: Lalo Schifrin Cast: Clint Eastw’ood (Harry Callaghan), Harry’ Guardino (Bressler), Reni Santoni (Chico), Andy Robinson (assassino/Scorpio), John Larch (capo), John Vernon (sindaco)

Technicolor, Panarision, 103 minuti Joe Kidd [Id.], 1972 Produzione: Malpaso I Universal Produttore esecutivo: Robert Daley

Produttore: Sidney Beckerman

Regia: John Sturges Sceneggiatura: Elmore Leonard Fotografia: Bruce Surtees

Montaggio: Ferris Webster Direzione artistica: Alexander Golitzen, Henry Bumstead

Musiche: Lalo Schifrin Cast: Clint Eastwood (Joe Kidd}, Robert Duvall (Frank Harlan), John Saxon (Luis Chama), Don Stroud (Lamarr), Stella Garcia (Helen

Sanchez) Technicolor, Panarision, 88 minuti

Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan [Magnum

Force], 1973 Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore: Robert Daley Regia: Ted Post Sceneggiatura: John Milius, Michael Cimino Fotografia: Frank Stanley'

Montaggio: Ferris Webster Direzione artistica: Jack Collis Musiche: Lalo Schifrin Cast: Clint Eastwood (Harry Callaghan), Hal Holbrook (tenente

Briggs), Mitchell Ryan (McCoy), David Soul (Davis), Felton Perry’

(Early Smith) Technicolor, Panarision, 123 minuti

Una calibro 20 per lo specialista [Thunderbolt And Lightfoot], 1974 Produzione: Malpaso / United Artists

Produttore: Robert Daley

Regia: Michael Cimino Sceneggiatura: Cimino

Fotografia: Frank Stanley Montaggio: Ferris Webster Direzione artistica: Tambi Larsen

Musiche: Dee Barton Cast: Clint Eastwood (l’Artigliere), Jeff Bridges (Caribù), George

Kennedy (il Rosso), Geoffrey Lewis (Goody), Catherine Bach (Melina)

DeLuxe, Panarision, 115 minuti Nomination agli Oscar: miglior attore non protagonista (Bridges) Cielo di piombo, ispettore Callaghan [The Enforcer], 1976 Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttore: Robert Daley

Regia: James Fargo Sceneggiatura: Stirling Silliphant, Dean Riesner Soggetto: Gail Morgan Hickman, S. W. Schurr

Fotografia: Charles W. Short Montaggio: Ferris Webster, Joel Cox Direzione artistica: Allen E. Smith

Musiche: Jerry' Fielding Cast; Clint Eastwood (Harry Callaghan), Tyne Daly (Kate Moore),

Harry Guardino (tenente Bressler), Bradford Dillman (capitano

McKay), John Mitchum (DiGiorgio), Albert Popwell (Mustapha)

DeLuxe, Panarision, 97 minuti Filo da torcere [Every Which Way But Loose], 1978 Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore: Robert Daley

Regia: James Fargo Sceneggiatura: Jeremy Joe Kronsberg Fotografia: Rexford Metz

Montaggio: Ferris Webster, Joel Cox Direzione artistica: Elayne Ceder Supervisione musiche: Snuff Garrett Cast: Clint Eastwood (Philo Beddoe), Sondra Locke (Lynn Halsey-

Taylor), Geoffrey Lewis (Orville), Beverly D’Angelo (Echo), Ruth Gordon (Ma)

DeLuxe, 115 minuti Fuga da Alcatraz [Escape From Alcatraz], 1979 Produzione: Malpaso / Paramount Produttore esecutivo: Robert Daley

Produttore: Donald Siegel Regia: Siegel Sceneggiatura: Richard Tuggle, basata sul libro di J. Campbell Bruce Fotografia: Brace Surtees Montaggio: Ferris Webster

Scenografia: Alien Smith Musiche: Jerry' Fielding Cast: Clint Eastwood (Frank Morris), Patrick McGoohan

(Warden), Roberts Blossom (Doc), Jack Thibeau (Clarence Anglin), Fred Ward (John Anglin), Paul Benjamin (English). Larry' Hankin (Charley Butts) DeLuxe, 112 minuti Fai come tipare [Any Which Way You Can], 1980 Produzione: Warner Bros., [Malpasoi] / Warner Bros. Produttore esecutivo: Robert Daley

Produttore: Fritz Manes

Regia: Buddy Van Horn Sceneggiatura: Stanford Sherman Fotografia: David Worth

Montaggio: Ferris Webster, Ron Spang

Scenografia: William J. Creber Supervisione musiche: Snuff Garrett Cast: Clint Eastwood (Philo Beddoe), Sondra Locke (Lynne Halsey- Taylor), Geoffrey Lewis (Orville), William Smith (Jack

Wilson), Harry Guardino (James Beekman), Ruth Gordon (Ma)

DeLuxe, 115 minuti Per piacere... non salvarmi più la vita [City Heat], 1984 Produzione: Malpaso, Deliverance / Warner Bros.

Produttore: Fritz Manes

Regia: Richard Benjamin Sceneggiatura: Blake Edwards (con lo pseudonimo «Sam O.

Browm»), Joseph C. Stinson Fotografia: Nick McLean

Montaggio: Jacqueline Cambas

Scenografia: Edw'ard Carfagno Musiche: Lennie Niehaus

Cast: Clint Eastwood (tenente Speer), Burt Reynolds (Mike Murphy), Jane Alexander (Addy), Madeline Kahn (Caroline Howley), Rip Torn (Primo Pitt), Irene Cara (Ginny Lee)

Technicolor, 97 minuti Scommessa con la morte [The Dead Pool], 1988 Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttore: David Valdes

Regia: Buddy Van Horn Sceneggiatura: Steve Sharon Fotografia: Jack N. Green

Montaggio: Ron Spang

Scenografia: Edward C. Carfagno Musiche: Lalo Schifrin Cast: Clint Eastw'ood (Harry Callaghan), Patricia Clarkson

(Samantha Walker), Liam Neeson (Peter Swan), Evan C. Kim (Al Quan), Jim Carrey (come James Carrey) (Johnny' Squares)

Technicolor, 91 minuti

Pink Cadillac [Id.J, 1989 Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Michael Gruskoff Produttore: David Valdes

Regia: Buddy Van Horn Sceneggiatura: John Eskow Fotografia: Jack N. Green Montaggio: Joel Cox

Scenografia: Edward C. Carfagno Musiche: Steve Dorff Cast: Clint Eastwood (Tommy Nowak), Bernadette Peters (Lou

Ann McGuinn), Timothy Carhart (Roy McGuinn), John Dennis

Johnston (Waycross), Michael Des Barres (Alex), Jim Carrey (come James Carrey) (imitatore di Elvis per intrattenimento) Technicolor. 121 minuti

Nel centro del mirino [In The Line OfFire], 1993 Produzione: Apple / Rose, Castle Rock Entertainment / Columbia Pictures Produttori esecutivi: Wolfgang Petersen, Gail Katz, David Valdes

Produttore: Jeff Apple Regia: Wolfgang Petersen Sceneggiatura: Jeff Maguire Fotografia: John Bailey

Montaggio: Anne V. Coates

Scenografia: Lilly Kilvert Musiche: Ennio Morricone Cast: Clint Eastwood (Frank Horrigan), John Malkovich (Mitch

Leary), Rene Russo (Lilly Raines), Dylan McDermott (Al D’Andrea), Gary* Cole (Bill Watts), Fred Dalton Thompson (Harry Sargent)

Technicolor, Panarision, 128 minuti Nominations agli Oscar: miglior attore non protagonista

(Malkovich); miglior montaggio (Coates); miglior sceneggiatura originale (Maguire) Di nuovo in gioco [Trouble With The Curve}. 2012 Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore esecutivo: Tim Moore

Produttore: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Michele Weisler Regia: Lorenz Sceneggiatura: Randy Brown Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gan' Roach Scenografia: James J. Murakami Musiche: Marco Beltrami

Cast.* Clint Eastwood (Gus Lobel), Amy Adams (Mickey), Justin Timberlake (Johnny Flanagan), John Goodman (Pete Klein), Matthew Lillard, Scott Eastwood (Billy Clark) Solo produttore

Nel Texas cadevano le stelle [The Stars Fell On Henrietta], 1995 Produzione: Malpaso / Warner Bros.

Produttori: Clint Eastwood, David Valdes

Regia: James Keach Sceneggiatura: Philip Railsback Fotografia: Bruce Surtees Montaggio: Joel Cox

Scenografìa: Henry Bumstead

Musiche: David Benoit Cast: Robert Duvall (Mr. Cox), Aidan Quinn (Don Day), Frances Fisher (Cora Day), Brian Dennehy (Big Dave), Billy Bob Thornton (Roy) Technicolor, Panavision, no minuti Tony Bennett: The Music Never Ends [Id.], documentario,

serie tv American Masters, 2007

Produzione: Rhapsody Films, RPM Music Productions. Thirteen/WNET New York / PBS, Red Envelope Entertainment Produttore esecutivo: Ted Sarandos

Produttori: Clint Eastw’ood, Bruce Ricker Regia: Ricker Sceneggiatura: Nick Tosches, Ricker

Fotografia: Scott Sinkler, Jerry Hogrewe Montaggio: Joel Cox Narratore: Anthony Hopkins

Colore, bianco e nero, 87 minuti Altri documentari

Clint Eastwood è stato accreditato come produttore esecutivo dei

seguenti documentari, che elenchiamo brevemente. Ha anche

partecipato come attore a tutti tranne Thelonious Monk: Straight No Chaser.

Thelonious Monk: Straight No Chaser, Charlotte Zwerin, Warner

Bros., 1988 Monterey Jazz Festival: Forty Legendary Fears, William Harper; MJF Productions, 1998

Budd Boetticher: A Man Can Do That (tv), Bruce Ricker, Rhapsody Films / Turner Classic Mories, 2005

You Must Remember This: The Warner Bros. Story (miniserie televisiva, parte della serie American Masters) (Richard Schickel; narratore: Clint Eastwood; Lorac Productions, Thirteen / WNET New York / PBS, Warner Bros., 2008)

Johnny Mercer: The Dream’s on Me (tv), Bruce Ricker, Rhapsody Productions / Turner Classic Mories, BBC Arena, 2009

Dave Brubeck: In His Own Sweet Way (tv), Bruce Ricker, Rhapsody Productions / Turner Classic Mories, BBC Arena, 2010 Inoltre i seguenti titoli sono rispettivamente «Una produzione Malpaso» e un film realizzato in buona parte da membri della troupe

Malpaso:

Ratboy, 1986 Produzione: Malpaso / Warner Bros. Produttore: Fritz Manes Regia: Sondra Locke Sceneggiatura: Rob Thompson

Fotografia: Bruce Surtees

Montaggio: Joel Cox Scenografia: Edward Carfagno Musiche: Lennie Niehaus Cast: Sondra Locke (Nikki Morrison), Robert Townsend (Manny),

Christopher Hew ett (Acting Coach), S. L. Baird (Ratboy)

Technicolor, 105 minuti

Rails & Ties — Rotaie e legami, 2007 Produzione: Warner Bros. I Warner Bros. Produttori: Robert Lorenz, Peer J. Oppenheimer, Barrett Stuart Regia: Alison Eastwood Sceneggiatura: Micky Levy

Fotografia: Tom Stem

Montaggio: Gan* D. Roach Scenografia: James J. Murakami Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens Cast: Kerin Bacon (Tom Stark), Marcia Gay' Harden (Megan

Stark), Miles Heizer (Davey Danner) Technicolor, Panarision, 101 minuti Solo compositore

Grace is Gone, 2007 Produzione: Plum Pictures, New Crime Productions I The Weinstein Company Produttori esecutivi: Paul Bernstein et al.

Produttori: John Cusack, Grace Loh, Galt Niederhoffer, Celine

Rattray, Daniela Taplin Lundberg

Regia: James C. Strouse Sceneggiatura: Strouse

Fotografia: Jean-Louis Bompoint Montaggio: Joe Klotz Scenografia: Susan Block Musiche: Clint Eastwood Cast: John Cusack (Stanley Phillips), Shélan O’Keefe (Heidi

Phillips), Gracie Bednarczyk (Dawn Phillips)

Technicolor, 85 minuti

NB I cinque film di Clint Eastwood usciti tra il 1980 e il 1983 non recavano il marchio Malpaso, ma erano stati girati dalla solita troupe della casa di produzione. La maggior parte delle filmografie li

inserisce come produzioni Malpaso.

4.

Attribuita a Tuggle, anche se di fatto è di Eastwood. Cfr introduàone.

5.

Indicata come «Anna Thomson» negli Spietati

6.

Indicata come «Anna Levine» in Bird.

NON SOLO STIVALI DA COWBOY PER CLINT DIREXREED (1971)

Era al telefono e parlava di matrici, loop e di tutte le altre cose

insondabili di cui parlano i registi quando chiamano la Costa. «La

traccia audio è venti frame più avanti rispetto alla musica e l’elaborazione del colore non è venuta bene sulla copia-lavoro».

Hitchcock? Minnelli? Beh, non ridete. Ci credereste? Si tratta di Clint Easbvood. Era a New York per promuovere il suo nuovo film, La notte brava del soldato Jonathan, un horror gotico sulla guerra civile in cui un

gruppo di donne predatrici gli dà da mangiare dei funghi avvelenati per aver calpestato la tartaruga di una bambina. Ma era chiaro che

quello che gli interessava realmente era un altro film intitolato Brivido nella notte, che segnava il suo esordio alla regia. «Dopo diciassette anni passati a sbattere la testa contro il muro,

ad aggirarmi per i set, magari a influenzare il posizionamento della

cinepresa con le mie opinioni, a guardare gli attori che subivano di

tutto senza alcun aiuto e a lavorare con registi bravi e scadenti, sono arrivato al punto in cui sono pronto a girare i miei film. Ho messo da parte tutti gli errori che ho fatto e tenuto tutte le cose buone che ho

imparato e ora so abbastanza cose da avere il controllo sui miei progetti e ottenere ciò che voglio dagli attori. Perciò ho diretto questo film, lo sto montando io stesso e penso che sia un signor lavoro.

«Quando facevo la fame, conoscevo una ragazza che bussava a tutte le porte cercando di farsi assumere come sceneggiatrice mentre lavorava come segretaria. Aveva scritto un trattamento di sessanta pagine su un dj di provincia che una sera incontra una ragazza in un

locale; quando lui torna dalla fidanzata, l’altra impazzisce, comincia a perseguitarlo, gli uccide la donna delle pulizie e trasforma la sua vita in un incubo.

«Ci sono un sacco di azione e di suspense e ho usato una troupe

ridotta e un budget basso, solo ottocentomila dollari, ma credo di aver fatto un film che ne vale di più. Ma se si rivelerà un fiasco, saprò almeno che la colpa è solo mia e non di altri. Ho già partecipato ad

abbastanza fiaschi in cui la colpa era di qualcun altro».

Per un attore che alcuni considerano di vecchio stampo hollywoodiano «vero cowboy, voce da Gary Cooper, un metro e

novantatré, perfettamente telegenico», questo atteggiamento può sembrare spiazzante. Ma quando si parla con Clint Eastwood, si comincia a scoprire che la sua niente e il suo cuore non sono legati

agli stivali con gli speroni. Finora la sua carriera non è stata presa molto sul serio dai giudici e dalle giurie che definiscono il confine tra divi del mercato e artisti seri,

ma almeno lui è sincero su questo aspetto. «Il successo che posso

avere avuto deriva in buona parte dall’istinto e un po’ dalla fortuna», dice. «Faccio semplicemente ciò che sento». E questo gli ha regalato una vita niente male: le donne gli si

accalcano attorno, rifiuta una decina di sceneggiature alla settimana e,

sommo riconoscimento, ovunque ti giri spuntano imitatori di Clint Eastwood come erbacce. Sogghignando come un ragazzino, distende braccia e gambe sul mobilio imbottito della sua suite all’hotel

Regency, dà un morso a un sandwich al pollo e comincia a filosofare.

«Hollywood è strana. Tutti cercano la formula magica. Un anno sono due tizi in moto, l’anno dopo una ragazza che sta morendo di

cancro, e il mercato viene inondato di imitazioni. Per anni ho vagato in cerca di un lavoro ed era sempre la stessa storia: avevo la voce

troppo bassa, dovevo farmi incapsulare i denti, strizzavo troppo gli occhi, ero troppo alto... questo continuo tentativo di demolire il mio

ego doveva per forza farmi diventare una persona migliore, oppure un perfetto stronzo. «E so che se in questo istante entrassi in un ufficio casting dove

nessuno sa che sono Clint Easbvood, mi ripeterebbero le stesse cose. La mia voce è ancora troppo bassa, ho ancora bisogno delle capsule ai

denti, continuo a strizzare gli occhi e di recente mi hanno paragonato a una piccola sequoia. Ma dopo i western che ho fatto in Spagna, all’improvviso sono diventato Clint Easbvood e adesso sono gli altri uomini troppo alti e che strizzano troppo gli occhi a maledirmi! Vai a capire».

In realtà aveva già tentato quella strada prima dei film western di

Sergio Leone. Aveva fatto un’incursione a Hollywood per frequentare il college grazie alla borsa di studio dell’esercito dopo due anni di addestramento di base a Fort Ord passati a insegnare nuoto. Aveva fatto il taglialegna nell’Oregon e cambiato una lunga serie di lavori saltuari, dalle acciaierie alla Boeing.

Al Los Angeles City College conobbe un fotografo che lo convinse a fare un provino, grazie al quale ottenne un contratto con la Universal.

«Facevo sempre il secondino che porta il criminale dal procuratore distrettuale. Prendevo settantacinque dollari a settimana, quaranta settimane all'anno, ma dopo un anno e mezzo mi hanno licenziato; ormai però ero deciso a tentare la carriera. Mi hanno rimbalzato da un ufficio di collocamento all’altro per un bel po’, ma alla fine sono approdato in televisione interpretando un sacco di delinquenti in motocicletta e assistenti di laboratorio, ma mai qualcuno che

indossasse un completo elegante. «Ero quasi pronto a smettere quando è arrivato Gli uomini della

prateria. Ero andato a trovare un amico alla CBS e uno dei manager

mi ha notato mentre bevevo un caffè alla mensa, è venuto da me e mi ha chiesto di fare un provino. È stato un colpo di fortuna che è durato sette anni e mezzo. Al sesto anno avevo ormai esaurito tutto quello

che si poteva fare a cavallo, quindi mi sono preso una pausa e sono andato in Spagna a girare Per un pugno di dollari. Non avevo niente da perdere. Avevo un lavoro in b che mi aspettava e sapevo che se il

film fosse stato un fiasco non l’avrebbe comunque risto nessuno». E invece lo riderò in tantissimi. Per un pugno di dollari, Per

qualche dollaro in più e II buono, il brutto, il cattivo, meglio noti come «la trilogia della paella», divennero un’istituzione camp. «Non

erano film per cui si viene acclamati dalla critica», spiega Easbvood,

serissimo, «ma sono stati molto più difficili da girare di tanti dei ruoli migliori che ho interpretato di recente. Col senno di poi li considero

delle satire, difficilissime da interpretare senza scadere nell’effetto

slapstick-, e poi osservando gli italiani ho imparato a far sì che pochi dollari sembrassero dieci volte tanti sullo schermo». I western italiani erano remake di film epici giapponesi sui samurai, girati in Spagna con attori americani da un regista italiano, ma sono stati i mattoni delle fondamenta del fenomeno da botteghino noto come Clint Easbvood. Per essere un simbolo di Holl5fwood,

stranamente non ci ha mai girato un film. Dei dodici della sua carriera, dieci sono stati girati nelle varie location e gli altri due hanno utilizzato teatri di posa solo per alcune scene di interni. E poi Easbvood non conduce una rifa hollywoodiana. Estremamente riservato, quand’è a Los Angeles si rintana su

un’altura con vista sulla San Fernando Valley, mentre a Carmel in un

piccolo rustico a strapiombo sul mare, con la moglie Maggie e il figlio Kyle, di due anni e mezzo. «Sono sposato con la stessa donna da diciassette anni. Meglio che mi controlli il battito cardiaco. Ha vissuto tutti i miei cambiamenti e non mi ha ancora cacciato di casa, quindi

penso che resterò nei paraggi. Solo adesso sto cominciando a capire chi sono e cosa sono in grado di fare. So che non sarò mai Laurence Olivier. «Con la mia corporatura e la mia voce, non interpreterò mai certi

ruoli, ma posso comunque fare cose di una certa qualità. Non ho mai studiato recitazione. Vivere e fare film equivalgono a studiare. Ci sono due tipi di attori: uno che se ne sta seduto nel camerino in attesa di una chiamata e l’altro che si butta nell’ambiente e affina la tecnica assorbendo tutto. Non so abbastanza e non imparerò mai tutto quello

che ho bisogno di imparare. Se si pensa di aver già imparato tutto, si può solo regredire». Clint Easbvood stacca i tronchi d’albero che ha per gambe dalla sedia raffinata su cui è piazzato e fa quel sorriso da cowboy che Tha

reso una star. «Pensavo che Geraldine Page fosse fuori dalla mia portata, visto che è una grossa star di Broadway e tutto il resto, ma

quando abbiamo iniziato a girare La notte brava del soldato Jonathan, mi ha detto che era una mia grande fan ai tempi degli Uomini della prateria. Non ho rimpianti, proprio nessun rimpianto». (Intervista pubblicata sul Los Angeles Times il 4 aprile 1971.

Ripubblicata su autorizzazione dell’autore.)

EASTWOOD A PROPOSITO DI EASTWOOD DI STUARTM. KAMINSKY (1971)

Clint Eastwood si muove veloce. Sono stato agli Universal Studios, dove si trova la sede della sua casa di produzione, la Malpaso, per tre settimane prima di riuscire a parlare con lui. Qualche sera prima di cercare per la terza volta di intercettarlo nel suo bungalow alla

Universal, avevo visto l’anteprima di Brivido nella notte, il suo

esordio alla regia. Sono riuscito a mettere in mezzo il suo produttore e socio Bob

Daley, che ha chiamato Eastwood e gli ha chiesto se riusciva a

incastrarmi prima di salire sulla sua Sting Ray e tornare a Carmel, dove vive. Ho ottenuto un’intervista per quella sera stessa, alle 18:30. Il nome di Eastwood non compare sul Bungalow 64, che si trova a una trentina di metri da quello del suo amico Siegei. Il salottino

davanti al suo ufficio è coperto difoto tratte dai suoifilm e da un enorme poster di lui in un film di Sergio Leone. C’è anche una foto di

Don Siegei nel ruolo del barista di Brivido. Eastwood, con addosso una felpa blu, mi saluta chiamandomi per nome e mi porta nel suo ufficio. Con il suo metro e novantatré di

altezza, mantiene una postura perfettamente eretta e parla piano proprio come nei suoifilm.

L’ufficio è grande, con la moquette e un comodo tavolo da

riunione da una parte, un divano appoggiato alla parete e un'ampia scrivania dall'altro lato. Sulla parete sopra il divano è appesa una grande locandina italiana di Dove osano le aquile. Su un’altra parete

si trova il ritratto tagliuzzato di Eastwood che compare in Brivido

nella notte. Il noto dj Dave Garver (Eastwood) si ritrova senza nulla dafare quando lafidanzata, Tobie Williams (Donna Mills), parte senza

preavviso. Una sera, sorseggiando un drink nel suo locale preferito, incontra Evelyn Draper (Jessica Walter), un’avvenente bruna che lo invita nel proprio appartamento e poi gli rivela di essere la ragazza

che chiama sempre in radio per chiedere la canzone «Misty». Il

mattino dopo però Dave capisce che quella che lui considerava una storia di una notte in realtà per Evelyn è un'ossessione amorosa; corteggiandolo apertamente, la donna comincia a presentarsi a casa

sua senza invito e a un certo punto interrompe lui e il collega Al Monte mentre stanno preparando una presentazione per la proprietaria della radio, Madge Brenner. Quando poi Tobie ritorna

e Dave riprende la relazione con lei, Evelyn manifesta una gelosia incontrollabile: spia la coppia durante le passeggiate romantiche e arriva persino a tagliarsi le vene in un disperato tentativo di attirare

l’attenzione di Dave. Dopo aver affidato Evelyn alle cure di Frank Dewan, un amico medico, Dave va a discutere un’offerta di lavoro

con Madge; ma Evelyn interrompe il pranzo e insulta Madge in modo talmente isterico da mandare infumo l’accordo. Dave torna a casa e trova la domestica, Birdie, ferita quasi a morte con un rasoio, l’appartamento distrutto e Evelyn in stato confusionale che viene

interrogata dal sergente di polizia McCallum. Evelyn viene mandata in casa di cura e Dave rivede Tobie e scopre che quest’ultimo ha una

nuova coinquilino di nome Annabelle. Non molto tempo dopo però Evelyn chiama Dave alla radio per dirgli che è guarita e sta

andando alle Hawaii e gli chiede di mettere «Misty» per lei. Quella stessa notte Dave viene svegliato dallo stereo che suona «Misty» e

trova Evelyn in piedi accanto al letto. All’improvviso Evelyn si lancia verso di lui e tenta di accoltellarlo, ma non ci riesce e scappa via.

Qualche giorno dopo, a Dave torna in mente che Evelyn una volta gli aveva citato due versi di «Annabelle Lee» di Poe al telefono;

ricordandosi che il nome della nuova coinquilino di Tobie è

Annabelle, Dave chiama McCallum e gli chiede di correre

all’appartamento di Tobie. All’arrivo di Dave, McCallum giace a terra morto, con un paio diforbici conficcate nelpetto; Tobie è

legata e imbavagliata e la folle Evelyn è di nuovo pronta ad accoltellarlo. Nel difendersi dal violento attacco, Dave scaraventa

Evelyn sulla terrazza; lei, barcollando allindietra, scivola e trova la morte sugli scogli acuminati sottostanti. Mentre Dave slega Tobie e

la aiuta a lasciare l’appartamento, la radio trasmette di nuovo «Misty». Mentre dietro il bungalow cala la notte sulle alture della San

Fernando Valley, l’attore (e ora regista) si siede a chiacchierare con

me per qualche ora davanti a un paio di birre. Ha interpretato quattro film diretti da Don Siegei, il cui unico

ruolo da attore è nel primo film di cui lei ha curato la regia, Brivido nella notte. L’unica altra cosa da lei diretta è un cortometraggio su Don Siegei. Cos’è che evidentemente le piace così tanto di lui? È una questione di ammirazione reciproca. Gli piacciono molte

mie idee e a me piacciono le sue. Apprezzo il suo approccio registico, è

molto diretto. I suoi film hanno sempre una grande energia. Ne ha lui stesso come persona, si muove rapidamente e cerca di andare dritto al

punto quando dirige. Ho avuto a che fare con certi registi indecisi che non sapevano bene cosa volevano. Don non comincia mai a girare

finché non ha un’illuminazione. Cambiamo un sacco di cose durante la lavorazione, ma anche i cambiamenti sono positivi, danno slancio al film. Credo che sia questo che mi piace di lui: è sempre proiettato in avanti. Non rimane mai impantanato, neanche se succede un disastro.

Lo trovo fantastico. Abbiamo lavorato molto insieme e probabilmente continueremo a farlo in futuro. Credo che abbia un enorme talento e

che se Hollywood non avesse attraversato la fase in cui i premi andavano ai grossi film e a chi spendeva un sacco di soldi, avrebbe raggiunto la fama molto prima. Chi faceva tanti film con grande impegno e pochi soldi non veniva considerato, perciò Don ha dovuto

aspettare molti anni prima di riuscire a fare film con dei budget all’altezza. Ci vorrebbero più registi come lui. Se le cose non vanno

secondo i piani, non si ferma a piangere pensando che tutto sia perduto, come fanno certi registi.

Quali sono le differenze tra lavorare con Siegei e lavorare con Sergio Leone? Don ascolta volentieri le idee degli altri. Ha un ego come tutti, ma

se a un custode viene in mente qualcosa, lui non rifiuta il suggerimento. Accetta consigli da tutti. Crea una sorta di atmosfera di

partecipazione. Sergio Leone, che rispetto moltissimo, non mi ha mai

riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme. Don invece sì. Questo anche se io e Sergio ragionavamo insieme sulle nostre idee, ce le rimbalzavamo. Voglio che sia chiaro che Sergio mi

piace e mi è piaciuto lavorare con lui. Realizzare un film è un lavoro di squadra. Un regista con un’idea chiara del film e dello stile a cui ambisce, ma che sappia comunque ottenere un contributo creativo da tutti i collaboratori, crea un’atmosfera che alla fine genera film di livello superiore. Il regista è comunque la forza trainante, il capitano.

Ha cambiato prospettiva diventando regista? Adesso, dopo

Brivido nella notte, percepisce meglio i problemi dei registi?

No, sapevo già in cosa mi stavo imbarcando. Negli ultimi diciotto

anni ho passato un sacco di ore davanti alia cinepresa. In tv ho risto un sacco di cose che non avrei mai fatto da regista. Mi sentivo

preparato.

In Brivido, so che la prima scena che ha girato era quella

dell’esordio di Don Siegei come attore. L’hafatto apposta per mettergli pressione?

In realtà è successo così e basta. Dico a tutti che l’ho fatto perché era il mio primo giorno di set e volevo che qualcuno fosse più teso di

me, ma in realtà ho semplicemente iniziato da quella sequenza perché volevo partire da qualcosa di moderato, non troppo forte. Avevamo

preristo tre giorni, risto che era la prima volta che Don si cimentava con la recitazione, ma l’abbiamo girata in poco più di un giorno. Don

era molto agitato durante i primi ciak, ma la mattina dopo era già un professionista esperto. Quando lavora come regista, le pare di lavorare come lui o come qualche altro regista? No, lavoro a modo mio, anche se sicuramente sono stato

influenzato dai registi con cui ho lavorato negli anni. Siegei ha certamente avuto un'influenza sul mio modo di dirigere, ma lo stesso vale per Sergio, e anche per Ted Post [Impiccalo più in alto], E anche per gli altri registi con cui ho lavorato durante gli anni in televisione e per altri ancora che non ho conosciuto personalmente, ma di cui ho risto i film.

Quali altri registi ammira?

Beh, mi piaceva molto Hitchcock, alcuni dei suoi primi lavori. Perché ha deciso di partecipare alla Notte brava del soldato Jonathan, che era diversissimo da tutto quello che aveva fatto

prima? Lo studio ne possedeva i diritti e io ero attratto da quella storia

incredibile. Ne ho parlato con Don e gli ho detto che pensavo fosse il

genere di cosa che poteva schizzare in orbita... o finire nel cesso. Poi ha letto la storia e gli è piaciuta, e a quel punto i dubbi sono venuti a

me. Alla fine è stato lui a convincermi a farlo. Mi ha detto: «Potrai sempre fare un western o un film d’avventura, ma magari non avrai più la possibilità di fare una cosa del genere». Lo studio voleva farlo,

quindi l’abbiamo fatto. Sentiva di correre un rischiofacendo qualcosa di così diverso dai

suoi lavori precedenti?

Soltanto perché non era un tipico film commerciale, ma

pensavamo che potesse essere un ottimo film, e quello era l’importante. Come lo descriverebbe in rapporto agli altri film che ha fatto? Credo che sia un film molto ben realizzato, il miglior lavoro di Don

come regista, un film molto emozionante. Se possa piacere al pubblico di massa, non so dirlo.

Com'è approdato a Gli avvoltoi hanno fame? Ho letto la sceneggiatura, che mi aveva dato Elizabeth Taylor mentre giravo Dove osano le aquile con suo marito. Volevamo farlo

insieme e allo studio l’idea non dispiaceva, ma lei era in una fase in cui non voleva lavorare se non coincideva con le riprese di Richard, quindi avevamo programmato di girarlo in Messico mentre Richard

era là a girare un’altra cosa, ma poi ci sono stati altri problemi e credo

che quelli dello studio preferissero comunque Shirley MacLaine perché all’epoca avevano grandi aspettative su di lei in Sweet Charity - Una ragazza che voleva essere amata. È stato necessario riscrivere alcune parti e la scelta di Shirley richiedeva uno sforzo di immaginazione. Sarebbe stato un ruolo perfetto per Sophia Loren.

Un commento sui diversi stili di Leone e Siegei? Leone è un bravissimo montatore e ha un bel modo di dare risalto

alle cose. Quando crea l’escalation verso una scena d’azione, è

sempre... boom, emozionante, e poi si toma a un ritmo rilassato. Don

è un po’ più impaziente. Gli americani sono abituati a film più corti. In compenso Don è più diretto, anche se La notte brava del soldato Jonathan è stato un po’ più lento. È stato molto scorrevole, tutto si dipanava con una certa grazia.

Si riferisce a qualche sequenza in paidicolare o a tutto ilfilm?

A tutto il film, perché era diverso dagli altri. Di solito Don fa film

polizieschi. Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! avrà bisogno di quel tipo di energia, Don sarà molto importante per quel film. Non credo che sarà il più emozionante fra quelli che ho interpretato, ma ho

ottime aspettative.

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! ha pochissimi dialoghi. È un film che si basa molto sulla fisicità. Non vedo l’ora di guardare la prima versione. Di solito Don completa la prima versione,

poi la guardiamo insieme e facciamo qualche altra ipotesi; dopo che ci

siamo scambiati le idee, ne discutiamo, proriamo e vediamo come va

e alla fine diciamo allo studio che il film è pronto. Parliamo di Brivido nella notte. Prima di tutto perché ha continuato a volere quella specifica canzone, «Misty», nonostante tutti i problemi per averla? Il problema di una canzone nuova era che avremmo dovuto farla

ascoltare più volte durante il film e per come era strutturata la

sceneggiatura non si poteva fare. Non potevo usarla come colonna sonora. Io e Bob Daley’ avevamo progettato la sceneggiatura perché la maggior parte della musica fosse diegetica. Quindi mi serviva una canzone che non fosse tanto vecchia da essere sconosciuta alle nuove

generazioni. Doveva essere vecchia e nuova insieme, qualcosa che tutti dai diciotto anni in su potessero riconoscere. Lo studio voleva

che usassi «Strangers in the Night», di cui deteneva i diritti, ma non è

un classico, anche se è stato un successo, e poi c’è quel dooby-doobydo alla fine. Ho pensato che non avrebbe funzionato. E poi era già stata usata in un’altra pellicola e non mi piaceva affatto il titolo

«Strangers in the Night» come titolo del film. Era proprio da hit musicale. Il suo rapporto con il dj di colore nel film è molto interessante. A

un certo punto mi aspettavo che si confidasse con lui e gli chiedesse di aiutarla a risolvere ilproblema con la ragazza. Ho capito che non

sarebbe successo nella scena in cui lei era seduto davanti al giradischi e gli parlava mentre lui si drogava senza essere visto. È

stato intenzionale? No. anche se forse avevo un'idea del genere a livello subconscio. Ho solo pensato che visivamente ed emotivamente avesse più senso che il personaggio riflettesse ad alta voce, che avesse qualcuno con cui

parlare. Era decisamente meglio togliere l’altro dj dall’inquadratura che continuare a passare dall’uno all’altro. Dave, il personaggio che

interpreto, parla a ruota libera, pensa ad alta voce. Come si fa a farlo mentre si guarda un’altra persona? L’altro tizio è lì e lo ascolta, ma

non lo aiuterà. Ovviamente non si rende conto di quanto sia grave il problema, dato che Dave si confida solo fino a un certo punto. Se si fosse confidato di più e avesse ricevuto dei consigli profondi, avrei

mostrato di più l’altro tizio nella scena. Ricordiamoci che Dave non

racconta mai a questo tizio dei tentativi di suicidio e omicidio. L’unico commento che l’amico fa uscendo è una battuta, un’allusione sessuale: «Chi di spadaferisce, di spada perisce». In effetti leifinisce quasi per essere ucciso da una spada [tecnicamente

un coltello] in Brivido. Beh, ho scritto io quella battuta. Anni fa. Avevo un amico

completamente perso per una ragazza, cercava di convincerla ad

abortire e mi ha chiesto un consiglio al telefono. Gli ho detto quello

che pensavo che dovesse fare e lui ha risposto: «Chi di spada ferisce, di spada perisce». E così l’ho inserito nel film. Come ha creato il gioco a cui giocate lei e Don Siegei nella scena del locale?

Se l’è inventato lo sceneggiatore, Dean Riesner. Le mosse erano semplicemente improvvisate. Fra l’altro avevo chiamato Dean Riesner

perché lavorasse al mio personaggio, che era un po’ sottotono nelle

versioni precedenti. Si scusava con la sua fidanzata per un sacco di

cose e non corteggiava l’altra nel locale. Era lei ad abbordarlo. Non mi sembrava naturale. Pensavo che i problemi con la fidanzata avessero bisogno di una motivazione di qualche genere, magari il fatto che lui

ogni tanto usciva con una fan... sa, nelle piccole cittadine i dj sono un

po’ i galli del pollaio, e si danno parecchio da fare. Ho pensato che fosse meglio che lui pensasse di stare stringendo un accordo con la ragazza del locale. Comunque è stato Riesner a inventare il gioco. Di certo era una cosa interessante. In realtà quel gioco non esiste, è solo

una cosa che Dave e il barista hanno inventato per attirare

l’attenzione delle donne.

Com’è arrivato a scegliere Jessica Walter per la psicopatica?

Passando sul cadavere dello studio. No, stavo visionando altre

pellicole con diverse attrici e ho visto il film II gruppo, del 1965, in cui

casualmente c’erano tre ragazze che gli agenti spingevano per Brivido nella notte. Una era Jessica Walter. È molto brava in quel film. Interpreta una ragazza frigida che parla di sesso ma in realtà non è per niente eccitata; è con un tizio tedesco che ci prova, ma lei lo manda in bianco e lui di punto in bianco la riempie di sberle. E

l’espressione di lei, la transizione, la storia che si vedeva sul suo viso mi ha convinto a prenderla. Ho parlato con lo studio, che mi ha fatto un paio di nomi più noti, gente che poteva procurarci degli accordi in

un periodo in cui gli affari andavano a rilento, ma io ho detto: «Non voglio accordi, voglio solo qualcuno giusto per la parte». Jessica ha certe caratteristiche come attrice che mi hanno fatto capire che

sarebbe stata la persona giusta. Credo che sia stata bravissima in Brivido nella notte. Perché Dave alla fine entra nell’appartamento dopo aver visto il

cadavere del poliziotto? Beh, penso che la scelta sia giustificata dal fatto che là dentro c’è la

sua fidanzata e lui pensa: «Se al poliziotto è andata così, cos’è successo a lei?» Quando la domestica viene accoltellata dalla tizia psicopatica, mi

aspettavo che morisse. Perché ha scelto difarla sopravvivere? Beh, se [Jessica Walter] avesse ucciso qualcuno, dimetterla

sarebbe stato troppo. Avremmo dovuto inventare qualche altro motivo perché fosse dì nuovo a piede libero e semplicemente preferivamo che fosse dimessa e non per esempio che scappasse. Cose del genere succedono davvero: a Palo Alto c’è stato il caso di uno che è salito fino alla porta di un appartamento e ha accoltellato la ragazza che gli ha aperto. Lei è sopravvissuta, lui è stato in cura per circa sei mesi e poi è stato dimesso, ma la ragazza non è stata informata. Un

giorno l’ha incontrato per caso al supermercato ed è andata nel

panico. È interessante che la ragazza psicopatica non abbia una sua

storia. Molte persone mi hanno suggerito di aggiungere la storia del suo

passato, ma sa, il pubblico la incontra quando la incontra il protagonista e segue la sua storia come la segue lui. Non vedevo il motivo di inserire una scena in cui si scopriva che la madre la trattava

male, il padre se n’era andato e via dicendo. Quando scopri che una persona è pazza, quando ti accoltella la domestica e tutto il resto, a meno che tu non sia particolarmente appassionato di psichiatria, non

ti interessa sapere perché è pazza; vuoi solo scappare. Credo che il pubblico sia molto più intelligente di come lo reputano molti produttori e che sia in grado di seguirti.

Voleva suggerire l’impressione che questa persecuzione fosse in qualche modo una punizione per la condotta sessuale disinvolta che il protagonista aveva avuto in passato?

No, non credo che si tratti di una punizione divina. Semplicemente

si è trovato in determinate situazioni, e proprio mentre cerca di darsi una regolata, gli succede tutto questo, il che ha qualcosa di ironico.

Magari sarebbe riuscito a gestire meglio la situazione se la fidanzata non fosse tornata proprio in quel momento. I problemi per lui si complicano quando lei continua a ripresentarsi mentre lui vorrebbe solo stare con la fidanzata.

Ha volutamente limitato gli scontri fisici con Jessica Walter? L’unico gestofisicamente violento che compie nei suoi confronti è

verso la fine, quando la colpisce, e ovviamente funziona perché

anche il pubblico ce l’ha a morte con lei. A una delle anteprime dei tizi del pubblico dicevano: «Colpiscila,

colpiscila». Hanno commentato anche tutto il resto, dicendo cose come: «Non entrare». È una bella soddisfazione, ma sì, per rispondere alla domanda, è la goccia che fa traboccare il vaso. Lei ha ucciso un poliziotto, sta cercando di far fuori anche lui... siamo al dunque. Brivido nella notte si basa su una storia vera. Il tentativo di

suicidio, i vestiti tagliuzzati, il tentato omicidio di Dave durante la notte sì basano tutti su eventi reali (non però l’accoltellamento della domestica, l’omicidio del poliziotto 0 il fatto che le due ragazze

vivessero insieme). La parte sulla nuova coinquilina è nata dal fatto che la donna protagonista degli eventi reali si travestiva, si metteva delle parrucche e andava nei locali dove il tizio se ne stava a bere per controllarlo e verificare che non abbordasse nessuna. Era una storia che conosceva, che aveva letto?

L’ha scritta Jo Heims, che l’ha resa più incisiva e ha aggiunto le parti inventate. Quello che mi piaceva della sceneggiatura era che conteneva problemi che in una certa misura abbiamo tutti nella vita, per esempio l’interpretare bene o male un legame. Una ragazza può

dire: «Sì, vale anche per me, non mi interessa il matrimonio». Ma la settimana dopo, lentamente, comincia a stringere le maglie.

La costrizione si percepisce molto bene. È una parte molto importante del film, perché è ciò che coinvolge personalmente il pubblico, al contrario di un semplice film horror.

Probabilmente nella nta hai avuto una qualche esperienza del genere,

con l’altra persona che correva troppo o non riusciva a staccarsi; credo che qualcosa di simile sia successo a tutti. È una cosa che potrebbe capitare. Sì, una distorsione psicologica di qualcosa che sentiamo tutti.

Spesso con le storie sugli psicopatici non c’è un fattore di identificazione. In un film come Psycho, gli elementi fondamentali sono soltanto lo shock e la suspense. Ovviamente la scena in cui lei vede lo scheletro nel seminterrato è fantastica, ma poi hanno quasi

rovinato tutto con quelle spiegazioni non necessarie. Certo, quel film è di undici anni fa, all’epoca si spiegava molto di più. Ovviamente il suo film verrà paragonato a Psycho, come del

resto ha appena fatto lei stesso. Pensava ai parallelismi mentre girava ilfilm? No. non stavo sicuramente cercando di rifare Psycho in nessun modo. Non l’ho malvista così, se non per le aggressioni. Pensavo che potessero essere gettate in faccia al pubblico all’improvriso, con lo stesso tipo di suspense e di energia che ha usato Hitchcock, ma a

parte quello, la vedevo come una storia di costrizione, le maglie che si

stringono e le cose di cui abbiamo parlato prima, il senso di oppressione, la frustrazione del tentare di risolvere il problema e non riuscirci, del dover calmare la persona da cui si vuole fuggire. Dopo quello, non serve spiegare nulla. Ho sentito dire da qualcuno che la spiegazione su Tony Perkins fornita dallo psichiatra alla fine di

Psycho fosse stata inserita per non dare l’impressione che il

protagonista avesse motivazioni omosessuali. Oggi non fregherebbe a nessuno.

Il montaggio con il mare e le scogliere, che in un certo senso ci

conduce alfinale, era parte del progetto iniziale?

Beh, Los Angeles ha cento dj e stazioni radio. Innanzitutto, conosco la zona dove abbiamo girato. Vivo da quelle parte e conosco uno dei dj della zona. I dj conoscono tutti nelle cittadine. Sono grandi star nel loro territorio. Quindi nel film c’è un tizio che ha abbastanza

successo nel suo lavoro per una piccola stazione radio di una cittadina, ma vorrebbe lavorare in televisione e fare cose migliori, e

anche tutto questo viene distrutto per colpa di quella relazione. E il paesaggio marittimo, nello specifico? Nel montaggio

continua a tornare sul mare, sugli uccelli e sulle scogliere. È perché il mare è parte integrante di tutto il film, non solo perché è il luogo dove muore [Jessica Walter]. Ilfilm contiene due pause. La prima, quando Jessica Walter

viene ricoverata in casa di cura, è una sequenza d’amore con l'altra ragazza, la seconda è la scena delfestivaljazz. Entrambe, suppongo, sono utilizzate per mostrare il passare del tempo, ma si protraggono più a lungo di quanto sarebbe servito allo scopo. È perché le

piacevano le sequenze, stava cercando difarci dimenticare la ragazza mentalmente disturbata o cos’altro? Una combinazione delle due cose. Il vero motivo era distogliere temporaneamente l’attenzione da Evelyn [Jessica Walter]. Mi avevano poi suggerito di rinforzare la parte dell’altra ragazza, Tobie, e

di inserire una qualche scena romantica. Beh, detestavo l’idea di una scena d’amore basata su un dialogo stupido e cercavo un modo visivo per mostrare che la vita di quelle due persone si stava sistemando sul

serio. Un giorno, andando al lavoro, su una stazione radio FM ho sentito la canzone «The First Time» e mi sono detto: «Oddio, racconta tutta la storia», quindi sono andato a comprarla, anzi, non solo quella, ma tutto l’album; ho preso la cassetta e l’ho ascoltata e poi ho montato la scena su quella base, perché mi pareva che raccontasse la storia per intero. In quella sequenza non c’è nient’altro, né altre

persone, né aerei, né automobili e via dicendo. La scena mostra che le cose stanno andando per il verso giusto per quei due. È l’unica musica non diegetica che ho usato. Poi c’è il festival jazz e si torna al mestiere

del protagonista con un po’ di musica più vicina al ritmo del film, e lì

mi è venuta l’illuminazione: poteva tornare alla radio e ricevere la telefonata. Bingo, ecco il modo per mandare all’aria un lieto fine. C’è anche una delle inquadrature più belle che abbia mai visto, il mare che vira all’arancione mentre il sole tramonta. Ma a livello di

trama, in quelle due sequenze scopriamo solo che la ragazza di Dave

ha una nuova coinquilina. Beh, è una cosa che a lui dà fastidio. È stato molto difficile inserire il particolare della coinquilina senza caricarlo troppo per non fornire

indizi. Se ne avessi parlato troppo, avrei finito per farmi scappare qualcosa. Quindi ci doveva essere un primo dialogo sull'argomento, poi bisognava vedere una di loro, poi il festival jazz, che è l’ultima

occasione in cui si parla di coinquiline. Ho dovuto farlo in modo molto rapido. Non dubito che una buona percentuale del pubblico abbia capito cosa sarebbe successo.

Credo che la reazione normale, quando Tobie chiama la coinquilina dicendo «Annabelle», sia aspettarsi che non arrivi

nessuno perché Evelyn ha ucciso Annabelle, ma non è quello che succede. Arriva Evelyn e si capisce che è lei Annabelle. Sì, è lì che tutti cominciano ad accendersi le sigarette.

Ho visto ilfilm senza sapere di cosa si trattasse. Crede che la

pubblicità e il passaparola lo danneggeranno? Ci ha pensato mentre lo girava? Ovviamente anche i critici rovineranno tutto rivelando la trama e la direzione che prende ilfilm. Sì, devo solo sperare che il film abbia un suo valore di

intrattenimento a prescindere. Se funziona, lo guarderà anche chi sa già cosa succede.

Psycho ne è un esempio: tutti sanno cosa succede, ma è comunque emozionante. Sì, la prima cosa di cui parlano tutti è la scena della doccia.

Ho guardato attentamente le scene degli accoltellamenti nel suo film; lei mostra soltanto un paio difendenti, al contrario di Psycho,

ma il senso di repulsione e dolore è simile. Beh, ho preferito farlo un po’ più... forse non sono così sottile

come Hitchcock. Quanto ci è voluto per realizzare il film? L’abbiamo girato in quattro settimane e mezzo. Ne avevamo previste cinque, eravamo due giorni e mezzo in anticipo.

Lo definirebbe costoso o economico? Economico. L’abbiamo girato totalmente in location esterne, mai sul set Affittavamo delle case, ci trasferivamo e ci mettevamo a girare.

Per esempio abbiamo affittato una casa per Dave e l’abbiamo arredata un minimo, perché c’erano alcune cose che dovevano essere tagliate e rotte. Bob Daley è molto attento ai costi e non ha inserito nulla che

richiedesse spese inutili. Lo studio avrebbe quasi preferito spendere di

più, ma noi volevamo dimostrare che si può fare un prodotto di intrattenimento valido anche senza spese esorbitanti. Ho avuto carta

bianca sul film, quindi se non funziona, è colpa mia, e va bene così. Ho avuto la possibilità di farlo bene o male. Fa come Don, cerca di ottenere un risultato utilizzabile al primo

ciak? Beh, faccio le prove. Uso una tecnica diversa rispetto a Don, una tecnica Video West. Abbiamo usato attrezzature Panavision, che

sfruttano la stessa lente della cinepresa e mi permettono di riguardare subito la scena. Jerry Lewis usa un metodo simile, una telecamera televisiva posizionata parallelamente alla cinepresa. Il mio metodo è

ancora migliore, dato che anche l’inquadratura è identica, quindi se l'addetto alla messa a fuoco fa un errore, lo vedi subito. E in bianco e nero, ma vedi tutta l’inquadratura della scena. È fantastico per gli

zoom. Ho anche notato che usa gli stessi professionisti che usa Don

Siegei, per esempio Carl Pingitore come montatore, Dean Riesner come sceneggiatore, Bruce Surtees come cameraman. Beh, per quanto riguarda Bruce, avevo già lavorato tre volte con luì

come operatore e io e Don l’avevamo proposto per La notte brava del soldato Jonathan, che ha poi fatto mentre eravamo già in parola per Brivido: ne avevamo parlato e lui aveva letto la storia. Ha diretto diverse sequenze di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! È stata quella la sua prima vera esperienza di regia?

No, avevo già diretto Brivido nella notte e anche un cortometraggio su Don Siegei. In realtà non posso prendermi tutto il

merito della regia di quest’ultimo. Lo sceneggiatore-montatore era la vera mente dietro quel progetto. Secondo me è venuto piuttosto bene.

L’abbiamo messo insieme più o meno in un giorno. Abbiamo dovuto usare immagini fisse e tutto il resto.

Le recensioni di Brivido nella notte sono state fra le migliori mai ricevute da Eastwood come attore e il suo esordio registico in genere è stato apprezzato, anche se non sono mancati alcuni detrattori convinti.

Andrew Sarris di The Village Voice ha definito il film «un esordio alla regia sorprendentemente propizio per Clint Eastwood [...] uno deifilm di paura più efficaci di quest’anno e in assoluto».

Joseph Gelmis ha scritto su Newsday.' «Il primo tentativo registico di Eastwood è di un’efficacia notevole [...] Per tutto il tempo Eastwood resiste alla tentazione di strafare [e] non perde mai il

controllo da entrambi i lati della macchina da presa».

La maggior parte dei recensori ha però criticato la sequenza idilliaca in cui Eastwood e la signorina Mills passeggiano sulla note di «The First Time Ever I Saw Your Face». Ironia della sorte, la

canzone, che era di qualche anno prima, è diventata una delle hit del 1971 e del 1972 dopo che Brivido nella notte l’ha riportata alla ribalta. (Intervista pubblicata come capitolo 7 di Stuart M. Kaminsky, Clint

Eastwood, New American Library, New York 1974, pp. 80-100. Ripubblicata su autorizzazione.)

EASTWOOD REGISTA DI RICHARD THOMPSON E TIM HUNTER (1976-77)

(Questa intervista è stata realizzata nell’estate del 1976 e nel

dicembre del 1977. Jack Shafer ha gentilmente contribuito con preziosi suggerimenti. Dick Guttman ha organizzato le interviste. Gii autori sono grati a entrambi.) Com’è approdato alla regia? Ho cominciato a interessarmi alla macchina da presa mentre recitavo negli Uomini della prateria. Stavamo girando la scena di una

mandria di bovini lanciati in una corsa impazzita: io cavalcavo in mezzo a tremila mucche, la polvere volava ovunque e l’effetto era

davvero straordinario. Sono andato dal regista e gli ho detto: «Dammi una macchina da presa. Là in mezzo c’è della roba stupenda che tu,

stando fuori dalla calca, non riesci a vedere». Se ne sono usciti con tutta una serie di problemi sindacali. Come al solito, hanno tutti paura di provare qualcosa di nuovo. Alla fine mi hanno dato un contentino:

ho diretto alcuni trailer. Sono rimasto così deluso da tutta la faccenda che ho lasciato perdere. Perché la regia era così importante per lei? È un percorso naturale se si è interessati ai film. Il concetto di film in generale per me era più importante della semplice recitazione. Avevo lavorato come regista di seconda unità per Don Siegei e

l’esperienza mi era piaciuta molto. Non al punto da volerla ripetere per ciascuna pellicola, ma solo nel caso in cui mi restava

particolarmente impressa una sceneggiatura. Lei ha un'incredibile percezione del suo materiale, molto più

oggettiva rispetto alla maggior parte degli attori. Intende nel saper scegliere i film da interpretare? E quelli da dirigere.

Semplice istinto. Se ci stessi troppo a pensare, probabilmente cambierei idea e farei qualcosa di sbagliato. Cerco di ragionare in

termini di risultato finale, non del personaggio che interpreto. La speranza è che la storia prenda il sopravvento e ti rapisca, così come vuoi che succeda per il pubblico. Se ho un pregio, è la risolutezza:

prendo in fretta tutte le decisioni, giuste o sbagliate che siano.

Le bastano pochi ciakper girare una scena? Cerco sempre di portare a casa la scena al primo tentativo, una tecnica di Don Siegei. Dopo un po’ di esperienza dietro la macchina da

presa, si sviluppa un certo istinto, ma bisogna imparare a fidarsene. A due terzi della lavorazione c’è sempre un momento in cui ti viene da dire: «Gesù, questo film è una vaccata! Cosa diavolo ci avevo visto di buono?» Allora devi spegnere la mente e andare avanti comunque,

perché in quel momento è come se ti avessero fatto il lavaggio del cervello. Una volta che mi impegno a realizzare un film, lo devo

portare fino in fondo, a prescindere dalle motivazioni e dall’epilogo. Ha un difetto principale come regista? Ne ho a bizzeffe, probabilmente. A volte, quando recito in una scena, mi distacco troppo. È difficile passare dalla regia

all’interpretazione di una stessa sequenza. Lei ha avuto un ruolo chiave nella messa in discussione del concetto di eroe avvenuta in questo decennio: cosa pensa degli eroi?

Sono fra coloro che hanno portato gli eroi ancora più lontano dal

classico personaggio sul cavallo bianco. In Per un pugno di dollari

non si scopre chi è l’eroe fino a un quarto del film, e neanche allora se

ne ha la certezza; si presume che sia il protagonista, ma solo perché tutti gli altri sono peggio di lui. Mi piacciono i nuova eroi. Mi piace che abbiano punti di forza, lati deboli, mancanza di virtù... E che abbiano il senso dell’umorismo?

Esatto. E anche una punta di cinismo ogni tanto. Ai vecchi tempi, con le regole di ingaggio del Codice Hays, non potevi tirare fuori

l’arma se non te ne puntavano una contro. Ma se un tizio cerca di uccidere il personaggio che interpreto, io gli sparo alle spalle. Pauline Kael le ha lanciato diverse frecciate antimachismo. Be', erano fuori luogo. Sono d’accordo con alcuni dei punti che ha

sollevato, come l’evoluzione dei film nel corso degli anni e il Vietnam. Continua a parlare della necessità di mostrare il lato debole degli

uomini, e quello va bene, c’è spazio per farlo. Ma perché allora non dovrebbe esserci spazio per rifugiarsi nell’epoca di personaggi

immaginari di cui vorremmo avere l’astuzia? La Kael è ossessionata da qualcos'altro; lo si vede nei film che le piacciono. Ne ho parlato con

lei. Si è costruita un’immagine di schiettezza, perciò deve trovarsi qualcosa su cui esercitarla. Ha scelto il machismo perché è la questione del momento. Negli anni Sessanta era il razzismo; chissà di

cosa si tratterà in futuro. Non mi crea problemi, perché quello che

dice lei non ha effetto sul successo dei miei film. Il texano dagli occhi di ghiaccio incasserà più di Nashville.

John Milius sosteneva che Pauline Kael fosse innamorata di lui perché non faceva altro che parlarne. Oh, l’ho detto anch’io. Giusto per farmi due risate, ho chiamato uno psichiatra e gli ho letto l’articolo. Mi ha detto: «È ciò che si

definisce “formazione reattiva”, un meccanismo di difesa. La signora vuole farsi una scopata con lei». E io ho risposto: «Non penso proprio». E lui allora: «Beh, forse non è così, ma è comunque

divertente pensarlo». Il machismo è decisamente sotto tiro in questo periodo. Oh, sì. Il modo in cui Jack Nicholson interpreta il tizio del Nido del cuculo è estremamente macho, eppure lui è uno degli attori che la Kael apprezza, ed è fantastico in quel ruolo. Questione di stile. Fra un paio di mesi la Kael se la prenderà con qualcos’altro. Fra un anno o

due tutti ripenseranno a questa pellicola e diranno: «Dio, magari si facessero ancora film del genere». Ovviamente io non sono come quei

personaggi. Non sparo alla gente per strada. Cosa rimane oggi all’eroe?

Non lo so. Prenda Josey: al contrario dello Straniero senza nome o degli altri personaggi che vanno e vengono, trovando una motivazione o qualcosa di cui vendicarsi lungo il percorso, nel suo caso si vede cosa lo rende così com’è, cosa lo fa crescere gradualmente. Ma non lo considero un eroe, bensì una persona. Diventa eroico, tanto eroico quanto l’ho voluto io. Secondo Anthony Mann, il pubblico preferisce vedere personaggi

che raggiungono gli obiettivi, non personaggi che vanno incontro al fallimento. Credo che sia vero. L’unico film in cui il mio personaggio non trionfa è La notte brava del soldato Jonathan. È stato utile per me a livello personale e apprezzato dalla critica, ma un disastro per la casa

produttrice che ci aveva investito. Forse non poteva avere successo proprio perché l’eroe falliva. Tentava una scorciatoia per tutto. Non era una cattiva persona, cercava solo di esistere. Il film mostrava gli

effetti devastanti della guerra sulle persone. Ma credo che gli spettatori preferiscano comunque un protagonista che ottiene qualcosa. Penso che oggi vogliano che lo ottenga in un modo diverso, forse non così pseudovirtuoso, se esiste il termine.

Brivido nella notte (1971), esordio registico di Eastwood, rivela un

notevole senso dello spazio, un occhio attento al design degli interni

- specialmente quelli moderni -eia capacità di caratterizzare i personaggi attraverso la descrizione visiva di un ambiente. Il talento di Eastwood nell’adattare il paesaggio all’atmosfera e al tema del

film non ha rivali tra i registi americani degli ultimi tempi. I suoi

film inoltre hanno un ritmo perfetto: mai affrettato, disinvolto e in grado di trasmettere un forte senso dell’azione in tempo reale, a

prescindere dalla velocità della narrazione. Ifilm di Eastwood sono girati da un punto di vista maschile, ma è

proprio questa visione a senso unico che dà loro una certa credibilità e un senso di convinzione al di là della politica. Di tutte le sue pellicole, Brirido nella notte è quella che meglio rivela la necessità di

Eastwood di mettere alla prova la sua stessa immagine fino a rischiare di comprometterla, portandola al limite dell’onore

personale. La trama si dipana in modo semplice: mentre Eastwood tenta di riconquistare la fair lady Donna Mills (con cui si trova a suo agio senza esprimere molte emozioni), la dark lady rifiutata Jessica

Walter diventa sempre più folle fino a tentare di ucciderlo. Secondo

Eastwood la storia è «l'interpretazione errata di un legame» e il suo

personaggio è sostanzialmente presentato come una vittima - ma Brivido nella notte opera su livelli più cupi.

La Walter è l’esatto opposto di Eastwood: impulsiva laddove lui è controllato, impetuosa laddove lui è condiscendente. Di conseguenza finiamo per ammirarla un po’, perché nel suo attacco alla base della

vita compiaciuta di lui percepiamo un senso di giustizia. La Walter è quasi il suo alter ego, una proiezione della sua furia repressa e della sua paura di amare - una pulsione di morte e autodistruzione che

Eastwood deve affrontare ed esorcizzare nel suo intimo. In questo senso, Brivido nella notte forma una sorta di dittico con lapellicola di Siegei La notte brava del soldato Jonathan (in cui l'antieroe si arrende al lato oscuro della passione e alla fine muore). Ifilm

rappresentano le due meditazioni di Eastwood sul sesso; entrambi mostrano le donne come gli archetipi dell’innocente o della Corruttrice. In Brivido nella notte la violenza è equiparata al sesso e

le donne alla vita (quando tirano fuori gli uomini dall’isolamento) 0 alla morte. Il film si inserisce nel filone principale della tradizione

romantica americana maschile ed esercita un fascino che va ben oltre la trama. Brivido nella notte trae sicuramente beneficio da queste implicazioni subconscie, ma allafine funziona proprio perché la Walter è un’antagonista meravigliosa: un demone personale che

Eastwood deve affrontare paragonabile soltanto allo spettacolare psicopatico interpretato da Andy Robinson in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! di Siegei. A proposito di alter ego, occorre

ricordare che ilfilm e la relativa campagna promozionale sottolineavano le somiglianze tra eroe e antagonista; in Brivido nella notte, così come in tutti ifilm di Eastwood, il bene trionfa nella lotta

contro il male - ma raramente il male si era insediato così vicino al bene. Ha la possibilità di lavorare con un’ampia gamma di ottimi

registi. Come sceglie ifilm da dirìgere?

Avevo opzionato il trattamento cinematografico di Brivido nella notte. L’aveva scritto [Jo Heims], una ragazza che conoscevo dai

vecchi tempi in cui lei era solo una segretaria e io un attore. Non

riuscii a venderlo. La United Artists non si lasciò convincere: secondo David Picker il film non era abbastanza commerciale. Provai con Gordon Stulberg del CBS-Studio Center; tentai con la Fox, che rispose:

«No, stiamo facendo una cosa molto simile con Liza Minnelli». A me non pareva affatto simile, ma quella fu la motivazione che mi diedero. Poi partii, persi l’opzione e me ne dimenticai. Fu allora che lo comprò

la Universal.

A un certo punto ho cominciato a chiedermi cosa potesse essere successo a quel progetto. Non conoscevo nessun regista in particolare, Don Siegei era impegnato. Chiunque avrebbe potuto girarlo, in un

sacco di modi diversi. Era una produzione abbastanza ridotta, con un cast limitato, non era esageratamente complicato - non si trattava di

un’impresa enorme. Così sono andato alla Universa! e gli ho detto che avrei voluto realizzare il film e interpretarlo. Poi sono andato da Don Siegei e gli

ho fatto: «Ho un’idea abbastanza buona di cosa fare di questo film; voglio dirigerlo. Cosa ne pensi?» E lui rispose: «Sì, fallo, ti firmo io la tessera della Directors Guild of America», L’ho detto alla Universal, con cui avevo un accordo per tre film, e loro mi hanno risposto: «Ok,

se lo fai gratis». Gli ho detto che mi andava bene. Alla fine in realtà ci

ho guadagnato di più che se mi avessero dato uno stipendio fisso, perché il film è andato bene. Come si è preparato, una volta assodato che avrebbe diretto il film?

Ho lavorato sulla sceneggiatura: ho chiamato Dean Riesner, con

cui avevo già collaborato. Non volevo un cast di grandi nomi: senza contare le spese fisse, il budget del film era di circa settecentoquarantamila dollari, forse poco più. Ci sono stato

ampiamente dentro. Ho confrontato mentalmente tutte le inquadrature, predisposto tutta la struttura, annotato indicazioni per me stesso, guardato altri film dello stesso genere, scritturato Jessica

per il ruolo principale, scelto il resto del cast; poi sono andato al festival jazz e ho ottenuto l’autorizzazione a girare gratis. Una

preparazione normale, una sequenza logica. Quando si approda alla regia dalla recitazione, si è abituati a lavorare sul set con un sacco di gente, mentre quando ci si arriva dalla sceneggiatura o dal montaggio si è abituati a lavorare da soli. Questo mi dà un vantaggio nella risoluzione dei problemi. È interessante che abbia opzionato Brivido nella notte cosi tanto

tempo prima di girarlo; che aspetto della storia l’aveva attratta?

L’idea del soffocamento. Avevo visto un sacco di film su

psicopatici, tipo Psycho. Ma se pensi a Psycho, non pensi mai alla

trama. Pensi alle scene più terribili: Marty Balsam che viene fatto fuori sulle scale, 0 Janet Leigh nella doccia. Se chiedi a qualcuno di

raccontarti la storia, farà fatica. Questa era un’opportunità di girare un film che avesse quel tipo di

componente, ma anche una storia che tutti potessero ricordare: non è polarizzato in modo sessuale, né in un verso, né nell’altro; potrebbe essere un uomo contro una donna o una donna contro un uomo... si tratta di soffocamento, dell’interpretazione errata di un legame. Una persona lo vive come una relazione occasionale, l’altro come un «per sempre felici e contenti». Ho pensato che molti ci si sarebbero identificati. È successo anche a me quand’ero più giovane, anche se

non fino a quel punto. La ragazza che ha scritto la sceneggiatura si è

ispirata a una persona reale che non ha commesso omicidi, ma ha fatto tutto il resto che si vede nel film, e anche di più. Si metteva

parrucche, si travestiva e andava nei locali sperando che entrasse il tizio, così l’avrebbe potuto beccare con un’altra. Gli ha tagliuzzato tutti

i vestiti nell'armadio. Cose davvero folli. Lo studio le ha detto che non avrebbe funzionato perché non era il

suo tipico personaggio?

All’inizio lo studio ha detto: «Chi diavolo vuole vedere Clint

Eastwood nei panni di un dj?» Io ho risposto: «Chi diavolo racle vederlo nei panni di chiunque? A me pare semplicemente una buona idea». E loro: «Perché mai vuoi recitare in un film in cui la donna ha il ruolo migliore?» «Non me ne frega un cazzo», ho risposto. «Ci penso

io a me stesso. Il personaggio maschile reagisce a tutto ciò che gli succede, quindi che differenza fa?»

La scena del ristorante all’aperto, quando la Walter arriva e fa una scenata, mi ha completamente spiazzato. Fino a quel momento, sai che è una cosa razionale, che si può risolvere parlando; è in quella scena che pensi: «Oh, Cristo, non lo lascerà mai in pace».

Non riesci a crederci. Il mio personaggio non ci riesce, e il pubblico non riesce a credere che ci sia gente così fuori di testa. Quella combinazione era un’idea interessante da esplorare, e poi ho pensato

che avrei potuto girare tutto il film nelle varie location senza mai mettere piede in studio, e così ho fatto. Come ha scelto l’arrangiatore jazz Dee Barton per le musiche?

Semplicemente mi è capitato di sentirlo e gli ho chiesto se gli andava di interpretare vecchie musiche di cui la MCA aveva i diritti; abbiamo dorato seguire tutti i loro standard per rientrare nel budget; l’unica spesa grossa è stato il compenso di Errol Garner.

Ho anche dovuto discutere con la Universa! su quello. Volevano

chiamare il film Strangers in the Night, perché avevano i diritti di quella canzone. Però era già stata usata in un altro film [M 5 codice

diamanti] e non era stato un successo. Mi serviva uno standard che

unisse diverse generazioni. Non volevo usare «Stardust»: è troppo vecchia e le nuove generazioni non la conoscono. Alla fine li ho

costretti ad accettare «Misty». Per Brivido nella notte si è attenuto a un procedimentoformale come per esempio lo storyboarding?

Ho solo pianificato le inquadrature, segnando ciò che volevo sul mio copione. L’unica tabella che ho è l'ordine del giorno fatto

dall’aiuto regista.

Parliamo di composizione. Fa degli schizzi? Ho un’idea di quello che voglio, ma devo sempre adattarlo a ciò che succede. A volte vai sul set e ti accorgi che le luci fanno schifo,

quindi decidi di spostarle dall’altra parte per avere la scena in controluce. Possono esserci milioni di motivi diversi per voler

modificare le luci. Quindi vado sul set e mi faccio un piano mentale,

mi guardo intorno per farmi un’idea generale. Poi, se l’attore ha un intoppo nell’andare in quella direzione, posso adattare tutto. Ho scoperto che se spieghi agli attori cosa stai cercando di fare, non hai

mai problemi con nessuno. Li tengo sempre aggiornati su come voglio realizzare il film. La vera ispirazione dello Straniero senza nome (1973) è la concezione della città, una strada principale tirata a lucido che ricorda

contemporaneamente un nuovo condominio nel nord della California e le cittadine dei western di una volta. Questa città, costruita su un lago tipo oasi nel mezzo di un deserto rovente,

rappresenta efficacemente l’allegoria del film. Tanto la cittadina quanto l’eroe senza nome di Eastwood appaiono completamente

tagliatifuori dal mondo. Questo è il migliorfilm di vendetta di Eastwood, e l’aspetto più incisivo è che non sappiamo mai veramente di cosa si vuole vendicare, neanche dopo la fine delfilm. Gli abitanti della cittadina

però sono così corrotti, degni della Mahagonny di Brecht e Weill, che ci si gode il momento in cui Eastwood li uccide quasi tutti. I richiami

a Sodoma e Gomorra sono voluti, così come la connotazione diabolica dell’antieroe di Eastwood, per tacere dell’omaggio ai melodrammi giapponesi sulle vendette deifantasmi. Il contrasto tra gli interni marrone scuro e il bianco accecante della luce esterna sottolinea l’aspetto straordinariamente insolito della cittadina e conferisce allo Straniero senza nome un’originalità

visiva stilizzata che va oltre le inquadrature espressionistiche in Cinemascope influenzate da Sergio Leone e Don Siegei. Il ritmo

costruisce con naturalezza la maggior parte dell’azione. Di tutti i film diretti da Eastwood, Lo straniero senza nome offre la migliore stilizzazione della violenza, con una laconica sparatoria da una

vasca da bagno che risulta particolarmente memorabile. Quando è uscito Breezy, gestivo un’associazione di cinema del college. Un giorno sono andato a prendere delle stampe in una sede

della Universal e lì mi hanno detto che adoravano ilfilm ed erano furiosi perché la casa madre non l’aveva promosso. Non so se sapeva di avere l’appoggio dei dipendenti. Lo sapevo, si capiva. È uno dei motivi per cui non faccio tutti i film

con la Universal. Non hanno promosso neanche Brivido nella notte, ma il film è andato bene comunque. I manager mi chiamavano e mi dicevano: «Maledizione, il film sta andando bene». E io: «Perché non

dovrebbe?» Al che loro rispondevano: «Beh, non so, non è un western

e tu non fai il poliziotto». Avevano una visione davvero limitata. Il successo di Brivido nella notte ha aumentato il suo margine di contrattazione quando ha deciso di dirigere un altro film? Sì, per il secondo mi hanno lasciato carta bianca. Ma era un

western, Lo straniero senza nome. Hanno avuto pochissimo da obiettare. La loro prima proposta è stata girarlo nel backlot, cosa che

suggeriscono sempre, dato che è di proprietà della Universal. Con lo smog. Io ho risposto: «No, ce ne andiamo a costruire una cittadina

western economicissima, dall’aspetto essenziale». Quindi io e Ferris Webster [il montatore della casa di produzione di Eastwood] siamo

andati su al lago Mono e l’abbiamo girato, abbiamo fatto là anche il premontaggio; quello definitivo l’abbiamo fatto a Los Angeles,

All’epoca sapeva che Lo straniero senza nome sarebbe stato il suo secondofilm da regista?

No. Hanno mandato alla Universa! un trattamento di nove pagine

intitolato Mesa o qualcosa del genere. Mi sono accordato con Ernest Tidyman per trarne una sceneggiatura. Volevo che avesse un aspetto insolito, non quello convenzionale da

western. Era stato scritto per una tipica cittadina della Monument

Valley, in mezzo al deserto. Ho cercato di trovare un luogo vicino all’acqua: ho considerato il lago Powell, il lago Pyramid e il lago Mono. Il Iago Mono ha un’aria strana, un sacco di colori insoliti...

cambia continuamente aspetto durante il giorno. E ha un tasso di

salinità così alto che nessuno ci andrebbe mai in barca, quindi non c’era da preoccuparsi che spuntasse qualcuno che faceva sci nautico

sullo sfondo. Ho scelto un posto laggiù e ci abbiamo costruito una cittadina, con

interni ed esterni. Abbiamo girato il film in cinque settimane. Una cittadina dall’aspetto astratto: nienteferrovia, niente attività, nessun motivo perché la città esista.

Soltanto il fatto che è su un lago, e la maggior parte delle cittadine è vicino all’acqua, al contrario dei western convenzionali in cui la

cittadina si trova sempre nel mezzo di una zona dove nessuno

vorrebbe mai vivere. Secondo molti questofilm era un omaggio a Leone. No, non credo. Non l’ho girato come lui; ho usato uno stile diverso. Il protagonista potrebbe ricordare il suo eroe. Ha scelto lo stile in anticipo? Che genere di stile voleva?

Avevo semplicemente un’idea molto chiara del film. Per questo ho deciso di dirigerlo. All’epoca avevo due western in preparazione. Lo straniero senza nome e Joe Kidd. Non mi piaceva particolarmente la

storia di Joe Kidd, quindi ho lasciato che lo dirigesse qualcun altro [John Sturges]; aveva dei begli elementi, ma non lo visualizzavo così

nettamente come Lo straniero senza nome. Avevo un’immagine così ■s1 chiara delio Straniero senza nome che ho pensato fosse meglio che

curassi io la regia; è brutto chiamare un altro regista e poi imporgli la tua idea, non è corretto nei suoi confronti. L’ho scoperto allora. Raccoglie immagini, idee per le inquadrature?

Intende prima di avere una storia? A volte. Per esempio l’altro

giorno ero in una fattoria, e stavo facendo vedere il pollaio a mio

figlio. I polli si beccavano tra di loro, tutti stipati uno sull’altro. Ho pensato: «Oddio, che inquadratura fantastica». Non so cosa ci farò, ma un giorno mi servirà, e allora dovrò tornare in quel pollaio.

Lo straniero senza nome mi ricorda ifilm giapponesi sulle storie difantasmi, soprattutto per il finale che lascia la porta aperta a

quella lettura, quando l’eroe lascia la città a cavallo e il nano che gli fa da spalla gli chiede chi è. Ha mai preso una decisione sulla sua

identità?

Sì, per me era il fratello dello sceriffo ucciso. Ma l’ho presentato come... [si interrompe, fa una pausa]. La città era un po’ strana, senza

bambini: una situazione insolita. Se devo spiegare io il suo ruolo, era

il fratello. Se però il pubblico vuole immaginarselo come qualcosa di più, mi sta bene.

Breezy (1973) è l'unico film di cui Eastwood è regista e non attore e il suo fiasco commerciale riduce la possibilità che questa soluzione venga ripresentata. Come Lo straniero senza nome, Breezy è un’allegoria, Eastwood si occupa nuovamente dell’ipocrisia e della perdita dei valori della classe media, in questo caso degli indolenti

nouveau riche di Los Angeles. In modo diretto, senza sforzo, Eastwood trasmette (e converte in satira) l’impotenza di questo

mondo da cocktail e dolce vita e questa inequivocabilità conferisce alla sua semplice, tenera storia d’amore una grazia speciale piuttosto diversa dalla sfilza difreddifilm romantici usciti

successivamente. Breezy ha l’ironia pungente e moralistica di questa fase delle opere di Eastwood; si ha l'impressione che qui, nello Straniero senza nome e in Brivido nella notte si diverta a demistificare la classe

agiata. Breezy evoca lo spirito del luogo dove Eastwood vive, Carmel, più di quanto non faccia il paesaggio in cui è ambientata la

storia, tra ilLaurel Canyon, Hollywood e laparte ovest di Los

Angeles. Sifa un uso abbondante della scenografia. La casa elegante ma solitaria di William Holden, in legno naturale, con muri in pietra

grezza e una giungla dentro e fuori, rispecchia perfettamente la sua anima in bilico. La messinscena è di una semplicità talmente trasparente, e così affine a Brivido per lo stile, che fa di Breezy una

vera e propria vetrina per gli attori. Probabilmente proprio perché non recitava nelfilm, Eastwood ha lasciato più spazio alla sua vena sentimentale; una delle molte delizie delfilm è il livello di autocommiserazione concesso al personaggio di Holden, oltre alla

sfacciata stucchevolezza hippie della Breezy di Kay Lenz.

Cosa la attirava della storia? L’ha sceneggiata Jo Heims, che ha scritto anche Brivido nella notte. Ha tratteggiato così bene il personaggio maschile e quello

femminile che ho pensato: «Non so se lo interpreterò, ma di certo mi piacerebbe dirìgerlo». Mi è piaciuto il modo in cui dipinge il ringiovanimento di un cinico che vive in giro per L.A., è divorziato, guadagna abbastanza ma detesta il vii denaro, poi scopre la vita grazie

a una diciassettenne. Breezy' gli insegna più di quanto lui insegni a lei. È uno scambio reciproco, ma non continua all’infinito e lei non muore

di una qualche malattia esotica. Si tratta solo di esistere e vedere cosa succede. Che c’è di male nell’esistere? Breezy era un grosso rischio all’epoca, nel senso che sapevo che lo stavo girando alla Universal, che mi stava facendo un favore. Non era

un film costoso, quindi non rischiavano di perderci molto, ma non lo trovavano commerciale come trama. E costato settecentoventicinquemila dollari sull’unghia, poi ci hanno aggiunto la

cifra per le spese generali. Non sono molto bravi a promuovere i film, specialmente di quel tipo. Credo che qui alla Warner Bros, il film

avrebbe potuto avere una chance. Quando abbiamo noleggiato direttamente le sale, sembrava andare bene; il passaparola

funzionava, la gente lo apprezzava. Quelli della Universa! l’hanno dato per perso prima ancora che uscisse, come fanno ogni tanto. Com’è stato Holden?

Fantastico. Tecnicamente è molto astuto come attore, ha capito perfettamente il ruolo, quindi per lui è stato facile interpretarlo.

Quando ha firmato il contratto (e io l’avevo appena incontrato) mi ha detto: «Sai, mi è capitato di comportarmi come questo personaggio».

E io ho risposto: «Sì, lo immaginavo». A molte persone è capitato di

comportarsi come lui in qualche momento della vita. L’attrice, Kay Lenz, era molto giovane, ho dovuto lavorare un po’ di più con lei. Holden è stato sempre gentilissimo con lei, anche durante il provino.

Ho fatto provini a dieci ragazze e lui ha partecipato a tutti; la maggior parte degli attori non si sarebbe prestata a partecipare a tutti i provini per il ruolo femminile. Con Holden si lavora benissimo.

Le dimensioni della produzione erano adattissime al materiale: era un film perfetto per gli attori. Già. Non aveva nulla che potesse oscurare le persone. Il compito principale del regista è creare un’atmosfera in cui lavorare, procedere

e tenere tutti dentro la trama. Le scene più complicate a livello tecnico le faccio provare, altrimenti improvviso. Dipende anche dall’attore o

dall’attrice: Jessica Walter amava improvvisare e fare le cose al primo ciak. Il grande vantaggio del cinema è che si può sempre rigirare una scena se non va bene. Ma se funziona durante le prove e tu non l’hai girata, magari non ti ricapita per altri sei, otto o dieci ciak, e sempre

che ricapiti. Negli anni ho visto sprecare troppe buone scene nelle prove. Parliamo di Assassinio sull’Eiger: l’hapotuto girare a condizione di interpretarlo? Lo studio ne aveva i diritti e me l’ha offerto. Ho detto che ne avrei

tratto una sceneggiatura, ma poi gli agenti non sono riusciti ad accordarsi sul prezzo, quindi è andato a un altro regista. Neanche lui è riuscito a mettere insieme una sceneggiatura e il progetto è tornato a

me. Quando ho cominciato a pianificarlo, sono andato a fare alpinismo. Quando lo provi, ti rendi conto che non c’è spazio per la troupe, non c’è letteralmente spazio sulla montagna. Quindi ho capito

che avrei dovuto girare io almeno le sequenze di alpinismo.

Non ho visualizzato interamente Assassinio sull’Eiger. Era difficile collocare la storia nel modo in cui andava raccontata, decidere se puntare totalmente sull’effetto esagerato, tipo James Bond, o scegliere

una via di mezzo. C’era un sacco di spazio per la parte di avventura,

che per me era la sfida più grande. Mi sono fissato sul fatto che volevo essere il primo regista (esclusi quelli dei documentari, ovviamente) a

girare totalmente sul fianco di una montagna, senza rocce di cartapesta. Abbiamo girato tutto appesi nel vuoto, a seicento metri dal terreno sottostante.

C’è una splendida sequenza di lei che precipita letteralmente

nell’inquadratura e la caduta viene arrestata dalla corda di sicurezza.

Ci siamo sporti dal dirupo e abbiamo costruito una scala per la ripresa dall’alto. Ho dovuto tagliare la mia stessa corda. Una cosa che

ti crea danni psicologici.

Perché psicologici?

Semplicemente va contro la tua natura. Una volta che lo fai, per tre giorni rimani a fissare il vuoto, praticamente senza parlare. Parte dell’enorme appeal di Eastwood è il suo non voler scendere a

patti con la società. Incarna un sogno: elevarsi oltre la routine della burocrazia e agire secondo la propria legge. Ma il prezzo di questa

indipendenza è l'isolamento. Ifibn di Eastwood si concentrano

spesso su questo tema, come a dire che il bene può trionfare nel mondo solo distaccandosene. Leone e Siegei hanno alimentato l’immagine di Eastwood come un antieroe spietato che gioca più sporco di chiunque altro se ilfine giustifica i mezzi. Camminando sul confine tra eroe e diavolo nei

personaggi che interpreta, Eastwood sceglie storie di cacciatori di

taglie, poliziotti e vendicatori - tutti personaggi mossi da

motivazioni oscure e paradossali. In un quadro di valori morali così compromessi, Eastwood non devefare altro che mantenere un barlume di purezza in modo che il pubblico possa identificarsi con la

sua presunzione di sentirsi al di sopra del resto del mondo e di agire in base ai propri istinti predatori. A prescindere dal regista, tutti i

suoi film migliori procedono verso la dicotomia tra il personaggio di

Eastwood da una parte e, al polo opposto, tutti gli altri, I suoi ultimifilm hanno in parte attenuato questa polarità,

esplorandola in un’interazione più ampia con altri personaggi e una fiducia continua nel potenziale romantico. Da quanto si può dedurre, Phil Kaufman avrebbefatto un Texano dagli occhi di ghiaccio più

corale di quello che alla fine hafatto Eastwood, nel quale il personaggio di Eastwood sarebbe stato più integrato nel tutto. La

crisi indubbiamente si è verificata perché Eastwood, consapevole di «asciugare» la propria recitazione quando si autodirige, ha ritenuto

che il suo personaggio non fosse ben esplorato. La versione definitiva punta verso la tipica dicotomia dei suoifilm in modo

ancora più marcato rispetto alle pellicole che la sostengono più esplicitamente. Iprimi piani di Eastwood nel ruolo di Josey Wales si fondono meno bene del solito con il tono generale. La stilizzazione

della violenza sempre più astratta non si armonizza con il tema del film nel suo desiderio di fungere da arazzo o una rivisitazione bruegheliana del Far West, Nonostante una certa mancanza di

tensione, Il texano dagli occhi di ghiaccio è un ammirevole tentativo di ampliare la sua prospettiva e, senza alcuna offesa, la cosa

migliore di questo film visivamente magnifico sono le spettacolari

inquadrature totali Panavision e la dimestichezza con il medium che sifa sempre più sicura mentre cerca nuove sfide e nuove direzioni nella scelta degli argomenti. EASTWOOD: Ogni film sviluppa il proprio stile. Una volta iniziate le riprese capisco come deve apparire man mano che lo giro, lo

preferisco ad avere uno stile costante che attraversa ogni pellicola

come un marchio di fabbrica. Credo che ogni film debba avere il proprio marchio distintivo. Com’è arrivato al Texano dagli occhi di ghiaccio?

Mi hanno proposto il volume di un indiano Cherokee che non aveva mai scritto libri prima, ma era un poeta noto nei circoli indiani. Il mio socio, Bob Daley, è rimasto così conquistato dalla lettera di presentazione che si è portato a casa il libro per leggerlo e non

riusciva a staccarsene. Era scritto in modo molto onesto. Il protagonista sembra destinato a diventare un perdente. È una sorta di

storia a episodi. Scorreva benissimo, i dialoghi schizzavano fuori dalla

pagina. È divertente fare un film del genere saga: presenti un sacco di personaggi... con la speranza che il pubblico ci si affezioni e ne abbia

nostalgia quando non ci saranno più. Quando muore il ragazzino, credo che il pubblico rimanga smarrito per un minuto, così come il personaggio del texano che cavalca nella foresta tra rampicanti e

pioviggine. Quanto ci è voluto per girare II texano dagli occhi di ghiaccio? Circa otto settimane e mezza. È stato difficile perché abbiamo

girato nello Utah, in due location diverse in Arizona e poi in California; ci siamo dovuti spostare spesso, perché è una saga,

bisogna restituire il senso del viaggio. Il ribaltamento delle aspettative convenzionali nelle varie scene è una tecnica che ricorre in tutto ilfilm. Per esempio, quando entra il cacciatore di taglie e lei dice «Visto che nessuno ti costringe, continua per la tua strada», e lui torna fuori. Era tutto ne! libro, che è scritto in modo molto intelligente. Il mio

scambio preferito del film è quello in cui uno dei cacciatori di taglie

dice «Bisogna pure fare qualcosa per sopravvivere», e Josey’ risponde:

«E tu stai facendo qualcosa per morire». [Forrest Carter, l’autore] capisce perfettamente il personaggio. Tanti hanno portato Quantrill e

i guerriglieri del Missouri sullo schermo, ma nessuno ha fatto un film sui Kansas Redleg, che erano più 0 meno gli equivalenti nordisti.

Dopo la fine della guerra, sono sempre stati visti come eroi, anche se in realtà erano dei fuorilegge tanto quanto Quantrill, Come regista, ha limitato il suo ruolo di attore in diverse scene per dare spazio a Chief Dan George che è molto divertente e caustico. Come quando si pensa che sarà Josey a conquistare la ragazza indiana e invece lei si lega a Chief. Il nostro eroe continua a perdere su

tutta la linea. Non che sia lui a voler essere coinvolto; lo dice perfino, più avanti, che sono i guai a seguirlo. Chief è stato fantastico in quelle

scene. Quando ho letto il libro, ho capito subito che Chief Dan George era l’unico in grado di interpretare quel personaggio. Ha un viso che non ci si stanca mai di guardare. Lo inquadri e non puoi sbagliare. Un

attimo prima sembra un cucciolo, quello dopo un re aristocratico. Un volto magnifico. Adoro l’ultima scena, quando si avvicina a Josey; non dice altro che «Sei mattiniero, a quanto vedo», ma sa che Josey se ne

sta andando, capisce tutta la situazione. Tanti attori professionisti non riescono a trasmettere quello che trasmette lui. La sua performance è

davvero preziosa. Dice una cosa semplicissima che sembra subito una

frase importante; tutto acquisisce importanza. (Sondra Locke, che ha recitato nelfilm ed era presente durante

questa parte dell’intervista, ha aggiunto: «Ho fatto notare che non avevo battute nelfilm e Bruce Surtees [il direttore della fotografia]

ha risposto: “Beh, è molto meglio così. Se ci fai caso, Chiefparla così lentamente che ti tiene colfiato sospeso fino alla parola successiva, perché non sai quando arriverà. Lo stesso vale per te: se non parli,

staranno tutti in trepidazione aspettando che parli!"») EASTWOOD: L’ho fatto anch’io per quattordici film, poi alla fine ho

aperto la bocca e ho rovinato tutto.

Se abbiamo capito bene, Phil Kaufman doveva dirigere II texano dagli occhi di ghiaccio e ha persino cominciato le riprese. Sì, ha girato per una settimana. Ha fatto un lavoro fantastico sulla

sceneggiatura. Era solo questione di come stavano andando le riprese, quindi ho rilevato la regia e rigirato le scene. È stato terribile, il

momento peggiore della mia vita. Non ho mai licenziato nessuno.

Semplicemente non ci trovavamo d’accordo... Lui aveva scritto una sceneggiatura splendida. Avevo visto i suoi primi due film [La banda di Jesse James e The White Dawn] e avevo pensato che sarebbe stato

perfetto per dirigere II texano dagli occhi di ghiaccio-, ma quello era

un film più ampio, meno documentario, più a episodi, un film molto

difficile già per qualcuno che aveva fatto molti film, ancora di più per chi ne aveva fatti pochi. È stata colpa mia: dovevo prepararlo e farlo io, ma dopo Assassinio sull’Eiger mi sentivo un po’ stanco a livello

mentale e volevo che lo facesse qualcun altro. Poi, man mano che mi ci sono immerso, ho cominciato a visualizzarlo diversamente. Ha lavorato con Bruce Surtees, il direttore della fotografia, a cinque film [La notte brava dei soldato Jonathan, Brindo nella notte,

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuoi, Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccioj; cosa l’ha spinta a chiamarlo per

questo film? L’ho voluto in questo film perché la sua fotografia ha una luce molto dura ed era quello che volevo. Volevo girare tutto il film in

controluce e non è facile trovare qualcuno disposto a farlo. E Surtees fa anchefilm più scuri degli altri. Sì, non volevo puntare le luci dritte in faccia agli attori. È quello che si fa di solito, ma io volevo girare in controluce. È molto facile se si gira in autunno. È il momento migliore per girare un western: il

sole resta basso e la luce è laterale, non verticale e piatta per tutto il

tempo.

Si perde il fattore glamour del film quando non si vedono i lineamenti, quando i volti non sono illuminati per dare l’effetto

patinato. Sei tu a protenderti in avanti per avvicinarti a loro, non loro a bombardarti. Adoro quella luce laterale; in novembre il sole rimane sempre basso, non arriva mai sopra la testa. E ha piovuto ogni volta che mi serrava, ho evocato la pioggia. Soprattutto per il montaggio

iniziale della guerra, non volevo la luce del sole. L’effetto è molto più cupo. La prima parte del film ha una luce quasi idilliaca, poi

all’improvviso si passa a un tono molto cupo. Infine si torna

progressivamente a un tono più caldo man mano che la vita del personaggio migliora, quando arriva al ranch e comincia a vincere, da

perdente diventa vincente. Era così che l'avevamo pianificato, e per fortuna il Capotecnico delle Luci lassù ci ha assistiti.

Siamo colpiti dall’audacia della sua composizione in widescreen e

della sua costruzione libera e disinvolta delle sequenze.

Mi ci sentivo a mio agio. Ci sono molte scene con due persone, e molte altre che mostrano quello che succede nelle cittadine. La cosa più facile è girare campi lunghi e primi piani; la parte difficile è tutto ciò che c’è in mezzo, il tessuto connettivo. È come si collegano le scene

con la macchina da presa, come si lega il tutto. Io giro totali dai due lati: totale da una parte, totale dall’altra. A volte faccio impazzire gli attori, ma mi piace passare da

un’inquadratura totale a quella inversa senza farmi tanti problemi, mentre molti registi più anziani hanno paura di spostare gli attori da

un lato all’altro dell’inquadratura; per loro si comincia da un lato e si rimane lì, a meno che non si passi all’altro durante la ripresa. Ma io salto di qua e di là, da una parte e dall’altra, inverto l'inquadratura,

spezzo la composizione. E nel mio girato ci sono tutti gli errori che vanno bene se sono fatti apposta; se però li fai senza rendertene conto, è come se dipingessi il pavimento fino a rimanere bloccato in

un angolo.

Una delle cose più importanti in questo film, una volta finito tutto, è stato il color grading, che Spanky Surtees non supervisiona. Sono io a supervisionarlo in laboratorio per essere certo che vada tutto bene

con i tempi. Ci sono un sacco di cambi di luce tra un’inquadratura e

l’altra. Bisogna modificare la luce in modo che sia uniforme e poi bilanciare tutto. Ai vecchi tempi la gente come George Stevens

aspettava anche un anno per avere la luce perfetta. Io non posso

permettermi un anno, né me lo prenderei mai. Nove settimane vanno bene, otto sono perfette, sei sono ancora meglio perché mi piace essere sempre in movimento. Ci è parso che ilfilm per certi versifosse più democratico dei suoi

precedenti. Ha cercato di dividere di più la scena con gli altri personaggi, anche se lei resta il soggetto principale.

So cosa posso fare e che peso posso avere, credo; ma allo stesso tempo sono il cast corale e tutto il corollario, i personaggi minori, persino quelli che vanno e vengono dall’inquadratura, tipo i ratti di

fiume, a creare uno scenario ricco invece di una cosa tirata via in cui si

presenta la trama e si chiude il discorso. Mi piacciono gli altri personaggi del Texano dagli occhi di ghiaccio. E poi più gente del solito le salva la vita in questo film.

Esatto.

Eastwood ha appena diretto L’uomo nel mirino, un'uscita natalizia (così come Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuoi, Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan e Cielo di piombo, ispettore Callaghan). È un film paranoico su una coppia in fuga. Con un

budget di cinque milioni di dollari, spese generali incluse, è il più costoso che Eastwood abbia realizzato finora, e il più complesso dal punto di vista tecnico: 1,25 milioni di dollari per gli effetti speciali. Il

cast comprende Eastwood, Sondra Locke, Pat Hingle e Bill McKinney. .4 giudicare dalle foto di produzione, L’uomo ne! mirino si allontana dall’elegante stile visivo post-pittura di genere che strizza

l’occhio alla Brandywine School del Texano dagli occhi di ghiaccio per collocarsi all'interno di una tendenza losangelina

contemporanea basata su idee artistiche cinetiche, ambientali e legate alla performance art, in cui le icone familiari sono trasfigurate da una raffica di violenza, un movimento ovviamente

derivato dai demolition derby. Lo scopo di questo genere di arte non

è esibire l’oggetto finito, ma permettere agli spettatori di assistere alla crudeltà progressiva inflitta metodicamente al soggetto finché

questo non è totalmente privato di potenziale superficiale o materico per assorbire ulteriori azioni. Questo processo è stato preservato su pellicola come unica traccia significativa dell’opera d’arte, così come

i lavori di Tinguely o di tanti altri esponenti della performance art. Nell’Uomo nel mirino, i due momenti di performance art sono: 1. La polizia circonda un bungalow e ci spara contro fino a farlo

implodere, lasciando soltanto un metro cubo di trucioli (l'idea che la

casa diventi il suo stesso spazio negativo). 2. Un pullman Greyhound SceniCruiserfinisce in mezzo a una sparatoria della polizia nel

centro di Phoenix guadagnandosi un posto nel Guinness dei Primati

(quantifori di proiettili di grosso calibro può contenere un autobus?). Eastwood ci ha fatto la gentilezza di prendersi una pausa dalla

preparazione della versione definitiva perii laboratorio per parlare con noi dellUomo del mirino al telefono; il film non era ancora stato proiettato.

Film Comment vuole pubblicare l’intervista. Metteranno la sua faccia in copertina.

Accipicchia! Ha chiesto a Dean Riesner di lavorare alla sceneggiatura?

No. L’hanno scritta Dennis Shryack e Michael Butler. Era già

ottima. Ci sono state pochissime riscritture e molte eliminazioni; me ne sono occupato io stesso. Un poliziotto deve riportare una testimone estradata da Las Vegas

a Phoenix per il processo. Tutto va per il verso sbagliato, c’è un gruppo di persone che vuole impedirgli di tornare. Lei è una prostituta e lui un poliziotto che odia le prostitute, ma i due crescono insieme durante il viaggio (in macchina, a piedi, in moto, in treno, in autobus e chi più ne ha più ne metta). Sono semplicemente in fuga. È

un ruolo femminile forte, come ai vecchi tempi, in Accadde una notte. La donna tiene testa all’uomo e questo rende più interessanti

entrambi i personaggi. Sopravvivono entrambifino alla fine? Sì, sopravviviamo tutti e due.

Sembra che lei eviti difare lo stesso tipo difilm due volte. Esatto. Questo qui non somiglia a niente che abbia già diretto. È

un poliziesco, ma molto diverso dal personaggio dì Harry Callaghan,

Questo detective. Ben Shockley, ha la stessa determinazione di Harry, ma non è onnisciente e ha una componente di vulnerabilità che

Callaghan non ha... Oddio forse ce l’ha, ma in minima parte, in un modo molto sottile. Nella sua cupa difesa delle vittime e delle persone indifese? Sì. Ha un alone di tristezza, per la sua vita personale e la sua lotta un po’ spaccona alla burocrazia: è molto divertente, ma cela anche

tanta tristezza.

Ben Shockley neU’Uomo nel mirino è uno a cui non sono mai stati assegnati i casi importanti che ha avuto Callaghan. Il primo caso

grosso è quello di cui si occupa nel film; ecco perché i due personaggi sono diversi. Shockley annaspa in alcune situazioni che Callaghan

avrebbe gestito molto più facilmente. Quello che mi ha attirato della storia è che racconta bene i rapporti. È un film d’azione che ha appunto un sacco di azione, ma anche delle belle relazioni tra i personaggi. Il ruolo della ragazza è

fantastico, non è solo un manichino messo lì per bellezza come in tanti film d’azione. Ha un ruolo equivalente a quello maschile, se non più importante. Segue la tradizione della Regina d’Africa: un

rapporto di amore e odio che diventa una storia d’amore e in un certo senso anche un’avventura sconcia.

Tutti i suoifilm hanno ruoli femminili importanti; il rapporto tra

eroe ed eroina è utilizzato per definire ciascuno dei due personaggi. I ruoli femminili ben scritti sono sempre importanti; Brivido nella notte, Breezy... è un bel modo per caratterizzare i personaggi.

Cosa voleva enfatizzare dei personaggi? Ci sono brevi momenti, piccoli gesti fra loro mentre sviluppano il

loro legame, che diventano simbolici senza per questo essere plateali.

Lui non va mai a letto con lei anche se lei interpreta una prostituta,

sarebbe stato uno sviluppo troppo ovvio. Il loro rapporto si costruisce su un altro livello. Un poliziotto che ha avuto un sacco di delusioni, non si è mai tolto grosse soddisfazioni nella vita personale... si

sviluppa un amore molto puro, una grande amicizia e un grande rispetto reciproco. Nasce qualcosa fra loro durante la lotta per la sopravvivenza? Sì. Sognano una vita insieme attraverso queste discussioni molto

idealistiche su come dovrebbe essere. Si lanciano in una missione suicida da cui loro stessi non credono che usciranno vivi; e poi non si

sa cosa faranno dopo, potrebbero anche prendere strade diverse.

Decide consciamente di proteggere dal pubblico alcuni aspetti privati della vita dei suoi personaggi? Oh, certo, senza dubbio. Lo faccio consciamente: per gli spettatori

è molto più interessante partecipare alla scrittura, al tratteggio dei personaggi assieme a te. Perlo Straniero senza nome potevano inventarsi tanti finali diversi. Alla fine del Texano dagli occhi di ghiaccio, chissà cosa può succedere? Il pubblico fa il tifo perché lui

torni indietro, ma io non faccio vedere se torna fra le braccia della

ragazza che ha lasciato. Semplicemente cavalca in quella direzione, più verso l’alba che verso il tramonto. Spero che trasmetta quella

sensazione. Il pubblico vuole assolutamente che torni da lei, è così che partecipa.

Quando progetta un film, dove colloca il ruolo del pubblico? Credo che gli spettatori debbano partecipare a ogni scena, a tutto.

Do loro quello che penso sia necessario che sappiano per seguire la storia, ma non spiego tanto da insultare la loro intelligenza. Tento di lasciare un certo margine alla loro immaginazione. Cerco di giocare apertamente con il pubblico. Non mi piacciono le scene che esplicitano troppo, a meno che non ci sia un motivo importante. Detesto le scene in cui ci si ferma, ci si

siede e si spiega agli spettatori cos’è successo fino a quel punto, come

se non fossero abbastanza intelligenti da capirlo. Significa sottovalutare il pubblico. Di norma evito sempre di dire troppo.

C’è un film che sogna di dirigere, mettiamo che le diano carta bianca, senza restrizioni? No. Dorrei comunque, prima leggerlo. Vorrei avere la capacità di

sedermi alla scrivania e dire «Scriverò questo, quello e quell’altro», ma non ne sono capace.

Quali sono le forche caudine del titolo originale, The Gauntlet?

Alla fine ci finiscono in mezzo. Il loro autobus attraversa il centro della città e viene fatto a pezzi, da qui il titolo.

Questa è la strategia di spostamento dalla violenza contro le persone alla violenza contro gli oggetti costosi come le automobili che la televisione ha lanciato qualche anno fa? Sì. Non è un film violento di quelli con le scene raccapriccianti. C’è molta azione, ma non ci sono tante vittime.

Quando ha cominciato a progettare L'uomo nel mirino aveua uno

stile visivo particolare in mente? Sì, ma non era niente di paragonabile ad altro. Dovevamo girare molte scene in notturna e se c’era una cosa che non volevo era usare troppe luci forzate. Nella sequenza di notte nella caverna, quando la scena non era illuminata, volevo che lo schermo fosse nero,

veramente nero. Con la luce forzata è tutto grigio: con la

sottoesposizione si ha uno sviluppo forzato che rende tutto lattiginoso.

Bruce Surtees l’ha viziata. Sì, gli piace la luce dura. Frank Stanley invece preferisce le luci

soffuse, e va bene, ha funzionato bene per un film come Breezy, mi piace quell’effetto. Per il Texano dagli occhi di ghiaccio però la luce dura era molto più adatta. Cercavo un effetto molto naturale, volevo

che i set non sembrassero illuminati. Quando costruisco un film, lo faccio molto anche pensando al sonoro. Mentre giro, ho sempre un’idea chiara di come verrà il sonoro. Non me ne sto lì seduto come un tecnico di laboratorio a dire:

«Oddio, il colore non va bene, le luci sono troppo basse, non si vedrà

niente di questa scena, nessuno capirà cosa succede». Beh, la

sentiranno e la percepiranno: ci sono tanti altri elementi oltre a fotografare un’inquadratura vuota. Bisogna sempre tenere in mente il risultato finale mentre si gira. (Intervista pubblicata con il titolo «Clint Eastwood, Auteur» in Film

Comment voi. 14, n. 1, gennaio-febbraio 1978, pp. 24-32. Ripubblicata su autorizzazione degli autori.)

CUNT EASTWOOD REGISTA: ATTENZIONE AI

DETTAGU E COINVOLGIMENTO DEL PUBBLICO DI RIC GENTRY (1980)

«Per fare un bel film servono un buon cast, una buona storia e tutto il

resto», esordisce Easbvood. «Ma alla fine il fatto che venga bene o no dipende da quanto si è disciplinati nel restare fedeli al concetto generale durante il montaggio. Ed è difficile, perché si guarda il film mille volte e bisogna sempre tornare all’istinto originale per prendere

le decisioni necessarie».

E questo è il motivo principale per cui Clint Eastwood preferisce lavorare in fretta una volta che ha iniziato un film, per minimizzare la distanza tra l’«istinto originale» e il montaggio finale. Il secondo

motivo, ovviamente, è di natura economica; la combinazione delle due cose gli permette di finire ciascun progetto in anticipo sulla tabella di marcia e rientrando ampiamente nel budget. Se il budget eastwoodiano è basso, il guadagno tuttavia è estremamente elevato.

La cifra relativamente ridotta di 3,5 milioni di dollari necessaria per produrre Filo da torcere, per esempio, ha generato incassi per oltre ottantasette milioni di dollari, mentre i 6,5 milioni di dollari investiti in Bronco Billy hanno già portato ricavi per ventotto milioni che

continuano a crescere mentre il film viene distribuito oltreoceano con grandi riconoscimenti. Non è soltanto l’attrattiva implicita di Eastwood al botteghino a contribuire al successo dei suoi lavori e della sua casa di produzione, la Malpaso Films (di recente rinominata Robert Daley Productions,

per motivi legali). La realizzazione economicamente vantaggiosa è

soltanto una parte, integrata dalla consapevolezza di ciò che vuole il

pubblico. «Devi affidarti all’istinto per essere in sintonia con gli

spettatori», sostiene Eastwood. Si tratta di un artista che ragiona in modo principalmente intuitivo, come suggeriscono quel commento e i suoi metodi di lavoro. Quando dirige un film o sceglie un progetto in cui recitare, ha «emozioni» (non ragioni) molto salde che gli indicano come procedere. Lavorare rapidamente le mantiene intatte.

«Questo perché a metà di ogni film ti chiedi sempre: “Ma ha senso

che lo faccia?”, 0 persino: “Mi piace davvero?” Ma devi riprendere il

controllo e risponderti: “No, questo rispecchia le prime emozioni che ho provato per questo film. Ho deciso che volevo questo finale e questo sviluppo della storia e terrò fede a queste decisioni”. Perché si tratta di un’arte emotiva, un mezzo visivo con una logica tutta sua, quindi stai raccontando una storia con questi strumenti a disposizione. Il cinema è soprattutto l’espressione di ciò che sentiamo

e pensiamo. Perciò, se ti metti ad analizzare perché ti vengono quei pensieri, ti stai allontanando dalle emozioni. Devi semplicemente fidarti di quelle prime emozioni». Quando Eastwood legge una sceneggiatura, la visualizza in termini di inquadrature e di composizione. Ma a prevalere è il mood suscitato dal materiale, l’effetto sensoriale generale degli ambienti, dei movimenti e dei loro echi emotivi imphcitì. Perciò Eastwood non

trasferisce le sue impressioni su una sceneggiatura tecnica, un archivio intermedio che potrebbe indurlo a riconsiderare quelle immagini mentali mentre le organizza neUa struttura della trama. Cerca invece una conferma del mood, o dell’approssimazione più

vicina a esso, in una location adeguata. Non è quindi una coincidenza

che una delle sue caratteristiche principali come regista sia la propensione per il paesaggio, per la concentricità più ampia possibile del fulcro drammatico. Inoltre la sua conoscenza approfondita della

topografia degli Stati Uniti, e in particolare del West, contribuisce a farlo spiccare come regista dai gusti americani certificati. «Cerco le location in modi diversi», spiega. «Per Lo straniero

senza nome ho fatto le ricerche da solo, eravamo solo io e il mio pick­

up in giro per l’Oregon e poi di nuovo giù nel Nevada e in California [...] Ma bisogna trovare dei luoghi che esprimano davvero la storia. A volte occorre continuare le ricerche perché ci sono sempre milioni di

altri posti in cui potresti girare un film, alcuni forse migliori, altri magari no. La location deve semplicemente corrispondere al concetto del film, all’atmosfera creata dalla storia».

Per Brivido nella notte, l’esordio registico del 1971, Eastwood ha scelto il territorio irregolare e variegato di Cannel e Monterey, in

California, vicino a casa sua, in quanto adatto alla psicologia instabile dei personaggi. Nel Texano dagli occhi di ghiaccio (1975) erano il nord dell’Arizona e il sud dello Utah a trasmettere i toni cupi, talvolta

gotici della saga ambientata dopo la Guerra civile. Per la sua più recente avventura da regista, Bronco Billy (1980), la storia di un moderno impresario di uno spettacolo in stile Wild West Show, ha

scelto di girare in Idaho per diversi motivi.

«Era scritto per l’Oklahoma o il Kansas», spiega, «ma chi conosce la zona sa che è tutta uguale. E io ero stato a Boise, nell’Idaho, e a Ontario, nell’Oregon, in quella zona, e poi anche sulle montagne vicine mentre ero in vacanza a McColl. Mentre guidavo nelle pianure

orientali dell’Oregon, a poche miglia di distanza, mi sono reso conto che il paesaggio era come quello della parte centrale degli Stati Uniti. E poi c’erano le montagne vicino, quindi ho scelto Boise come location

principale perché ci offriva una grande varietà di paesaggi nel raggio

di poche miglia. Anche se si trova a ovest, poteva essere un qualsiasi

luogo degli Stati Uniti centrali, le pianure del Kansas, dell’Illinois o dell’Oklahoma». Boise era prima di tutto una scelta pratica che permetteva di

cambiare sfondo ogni volta che era necessario per trasmettere l’effetto

di movimento dello spettacolo itinerante. Ma c’era anche una motivazione tematica: gli spazi aperti riflettono il bisogno di libertà del protagonista, la fuga di Billy dal monolocale nelle case popolari del New Jersey dove viveva quando era un venditore di scarpe frustrato. Un altro fattore cruciale per creare l’atmosfera è ovviamente la

fotografia. Ma, al contrario dalla maggior parte dei registi, Eastwood

non scegUe un direttore della fotografia per il suo stile specifico, ma preferisce piuttosto un tecnico abile e creativo e con la stessa capacità di adattamento che ha lui come regista. «Cerco di coinvolgere il

direttore della fotografia nella storia, gli dico cosa vogEo ottenere e cerco di trasmettergli il senso dell’aspetto che secondo me dovrebbe avere il film, perché lo stile si sviluppa dal materiale, e quindi in realtà cambia con ogni film». Di conseguenza Eastwood mantiene lo stesso direttore della fotografia per diversi film. Per esempio pare che David Worth, che ha curato i colori accesi, a volte sgargianti di Bronco Billy, stia facendo

qualcosa di molto diverso per Fai come ti pare, il sequel di Filo da

torcere (in uscita a breve) diretto da Buddy Van Horn. Forse un esempio ancora migliore è la collaborazione di Easbvood

con Bruce Surtees per cinque film, che ha prodotto una vasta gamma di innovazioni e una straordinaria varietà visiva, grazie a una fotografia di volta in volta talmente aderente a ciascuna storia da non

essere nemmeno vagamente simile a quella degli altri film. La notte brava del soldato Jonathan, diretto da Don Siegei e con Eastwood

come protagonista, si compone di distorsioni del colore quasi espressionistiche, con il rosso come tinta predominante. In Ispettore

Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, un altro film diretto da Siegei, Surtees eEmina ogni traccia di stilizzazione per evidenziare meglio fi crudo realismo della storia.

Ma è con II texano dagli occhi di ghiaccio che Easbvood e Surtees hanno realizzato alcune deUe loro sequenze più creative. «Bruee mi ha fatto una proposta che ho trovato molto innovativa», ricorda

Easbvood. «All’epoca un certo tipo di pellicola, molto più lenta di quella che si usa adesso, stava per uscire di produzione. Dovevamo cominciare a girare nell’autunno di quell’anno, che è un ottimo

momento per un western perché il sole resta basso, anche se effettivamente c’è il rischio che l’inverno arrivi in anticipo. Ma Bruee

ha detto: “Perché non usiamo questa pellicola lenta? Ci servirà un po’ più di luce per certe scene, ma per gli esterni ci darà dei neri più

intensi. L’unico problema è che non ce ne hanno quasi più”.

«Adoro i neri intensi nei film, non sopporto quando il nero diventa grigio ed esce tutto lattiginoso. Mi è capitato di lavorare con un direttore della fotografia che forzava sempre la luce, ma io mi

spazientivo per quei neri cagliati che diventavano lattiginosi. Brace invece non lo fa. Lui utilizza luci dure e io volevo girare tutto il film in controluce. Sapeva che mi piacciono i neri e il contrasto e voleva usare quella pellicola. Perciò ho detto: “Ok, compriamone abbastanza per il

film”. E così abbiamo fatto». Hanno comprato la pellicola necessaria e

l’hanno sistemata nel seminterrato dell’ufficio di Easbvood sul set di Burbank. «Erano le ultime scorte della pellicola alla vecchia velocità»,

spiega. «Se dovessimo riprodurre adesso quell’effetto, dolemmo

usare una tecnica completamente diversa». Ma c’era anche un altro problema perii texano dagli occhi di ghiaccio. «Siamo arrivati alla sequenza finale del film, che doveva essere girata all’alba; è la scena in cui Josey vede per l’ultima volta il capo Cherokee (Chief Dan George) prima di cavalcare via verso il sole

che sorge. Brace ha detto: “Forse dovremmo girarla a tranche, un pezzo alla volta per un po’ di giorni sempre all’alba”. Io ho risposto: “È semplicemente infattibile. Prima di tutto, durante una sequenza, voglio restare in quella sequenza. E poi non ho abbastanza roba da riempire il resto della giornata”. Perciò ho proposto: “Ecco cosa ti

chiedo di fare. Non ho mai risto un film ambientato di notte ma girato di giorno che sembrasse davvero ambientato di notte. Al massimo

sembrava ambientato all’alba. Quindi gira queUa sequenza come se la

volessi ambientare di notte, e verrà fuori ambientata all’alba”. Ed è così che abbiamo fatto».

Eastwood ha girato un’altra scena in modo simile, quella dello scontro finale tra Josey e il cacciatore di taglie che lo insegue da tutto

il film, «al tramonto come se fosse stata l’alba. Al tramonto sì ha una luce laterale molto intensa che ricorda la prima luce del giorno. L’ho

fatto nell’ordine inverso, in modo che il sole fosse a una certa angolazione in un dato momento, cosa molto difficile per cui serve

una certa preparazione, dato che è un istante rapidissimo e poi le

ombre si allungano invece di accorciarsi». Un’altra abitudine pratica di Easbvood è quefia di definire quali scene hanno bisogno del maltempo e poi girarle soltanto quando il maltempo arriva sul serio, interrompendo la continuità deUa tabella

di marcia delle riprese per sfruttare le condizioni meteorologiche

avverse. Nella parte iniziale di Bronco Billy c’è una scena in cui serve la pioggia per sottolineare l’umorismo e il pathos di una discussione

tra Billy e i cinque membri della compagnia, lungo la strada, in mezzo al nulla. «Era dall’inizio che volevo giocare con la pioggia in quella

sequenza», ricorda Easbvood, «e quel giorno faceva un freddo del diavolo. Tutti gli attori neUa scena pregavano di non dimenticarsi le

battute per non costringerci a ricominciare, ma l’abbiamo girata

davvero rapidamente, con una sola macchina da presa, spostandoci da un allestimento all’altro più in fretta che potevamo. «L’ho organizzata inquadratura per inquadratura, per sicurezza, come si fa normalmente per i giorni di pioggia, tenendola da parte per girarla quando avesse effettivamente piovuto. E pioveva, ma più che altro piovigginava, quindi abbiamo aggiunto dell’acqua presa da un torrente vicino per dare l’idea di un temporale. Abbiamo rovesciato un’enorme quantità d’acqua, e la luce era coerente perché il cielo era

davvero nuvoloso, quindi c’era una luce piatta. Era tutto bagnato non solo ricino alla cinepresa, ma tutto intorno, comprese le strade in

lontananza. In questo modo tutto ha giocato a nostro favore. Ed è un’ottima cosa avere una sequenza in cui il maltempo è necessario,

perché il tempo sarà inevitabilmente bratto prima o poi. Abbiamo solo continuato così finché non è sembrato che stesse per arrivare un

temporale». Una volta definito il mood, Easbvood si concentra moltissimo sulla sceneggiatura, «finché non visualizzi il film intero e il punto di rista di ogni personaggio». Nell’Uomo nel mii-ino ha riscritto diverse scene e in Bronco Billy ha aggiunto un’intera sequenza. Con addosso le sue

sei pistole da tiratore scelto, Billy è in fila per incassare queUo che sicuramente è un assegno misero, quando due uomini mascherati fanno irruzione per rapinare la banca. Uno dei due urta un ragazzino,

che lascia cadere i risparmi per terra. Ed è in quel momento che Billy prende in mano la situazione, sventa la rapina e diventa istantaneamente un eroe locale.

«Mi sembrava che la sceneggiatura avesse bisogno di quella sequenza per spiegare la scena successiva in cui lo sceriffo umilia Billy

che sta cercando di far uscire il suo amico dal carcere pagando la cauzione. Lo sceriffo lo prende in giro chiedendogli chi è più veloce a

premere il grilletto; a quel punto è già chiaro che Billy sa mantenere la calma, ragionare in fretta e sparare bene, così il pubblico fa davvero il tifo perché faccia saltare in aria lo sceriffo. Però è importante che Billy non lo faccia, perché in quel momento gH interessa più l’amico che non il suo stesso orgoglio. In un film più commerciale avrebbe dorato puntare la pistola contro lo sceriffo, ma qui non era una scelta adatta

allo spirito del film. Magari i fan di Clint Easbvood diranno: “Dai, fallo fuori”. Ma in rapporto al messaggio del film sulla lealtà e fi sacrificio, molto presente in queUa scena, BiUy non poteva sparargH. Il

suo compito principale, a prescindere da quanto lo sceriffo lo avesse umiliato, era far uscire di prigione il suo amico». È tuttavia più frequente che Easbvood elimini alcune parti deUa

sceneggiatura, piuttosto che aggiungerne di nuove. Una delle strategie principati dei suoi film è ridurre al minimo le informazioni sulla storia

personale dei personaggi e lasciare che siano i loro gesti a comunicarne il carattere al pubblico. Meno si rivela, sostiene

Easbvood, più il pubblico partecipa. La tecnica è nata con la sua

creazione defi’«Uomo senza nome» nel film di Sergio Leone Per un pugno di dollari, la pellicola che ha portato all’attore una fama internazionale. «Inizialmente conteneva pagine su pagine di dialoghi», spiega Easbvood, «tutti mirati a spiegare la storia personale dei personaggi.

Ma io volevo interpretarlo con dialoghi molto più stringati e costruire

il mood con il comportamento e i movimenti. Così ho detto a Sergio: “Manteniamo i personaggi nel mistero e facciamo solo qualche allusione a quello che è successo in passato”. Sergio ha contestato la

mia idea, anche se in parte concordava, ma era molto più difficile da accettare per la mentalità italiana. Gli italiani sono abituati a spiegare molto di più e io gli stavo dicendo di non farlo. Alla fine ha accettato, ma poi i produttori hanno pensato che ci fosse qualcosa che proprio

non andava. Hanno detto: "Cristo, questo tizio non fa niente. Non dice niente. Non ha neanche un nome! E il sigaro sta solo lì a bruciare”. Non capivano cosa diavolo stesse succedendo. Ma quando hanno risto il film montato, si sono resi conto di com’era, dell’effetto che avrebbe

arato sul pubblico. Ben presto il tizio "senza nome" è stato imitato da un sacco di gente». E l’alone di mistero si trasmette alla struttura narrativa, perché,

così come vengono eliminate tutte le spiegazioni tranne le più pertinenti, lo stesso succede al destino dei personaggi di Easbvood.

L’azione finisce, gli elementi drammatici si risolvono, ma resta il senso del protagonista con un futuro ancora da definire. «Mi piace

lasciarli così» spiega Easbvood, «ancora alla ricerca della loro strada. Non si finisce con la morte di una persona e non si racconta la storia di una vita intera. Forse non farlo è nella natura dei film. In un romanzo di Francis Scott Fitzgerald si può coprire un’intera vita,

magari cominciando con un flashback, poi tornando al presente e

proseguendo da lì. Ma questi film in realtà sono solo episodi. Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! è solo un episodio nella vita di un uomo. Il texano dagli occhi di ghiaccio è più una saga, copre un periodo più ampio, ma si ha l'impressione che lui torni dal

gruppo di persone che ha messo insieme durante il percorso». Easbvood ricorda una discussione arata con il montatore a proposito del finale aperto del Texano dagli occhi di ghiaccio.

«Secondo lui dovevo letteralmente mostrare l’eroe che tornava dalla ragazza e dagli altri dopo il dialogo conclusivo con il Capo. Ma io ho

risposto: “No, non serve far vedere che torna indietro. Lo vediamo

cavalcare verso l’alba, e tanto ci basta”. E lui: “Sì, ma come faranno gli spettatori a sapere che torna dalla ragazza e dagli altri?” Al che io ho

risposto: “Perché sono loro a volere assolutamente che torni da lei, e quindi sono loro che lo riporteranno lì”. Sono l'immaginazione e la partecipazione del pubblico che fanno funzionare un film. Non c’è bisogno di dire tutto».

Forse la più vivida dimostrazione della tecnica di evitare le spiegazioni per intensificare la partecipazione del pubblico è Lo straniero senza nome. Il film inizia con uno degli artifici visivi più

incredibili di Eastwood. Un cowboy solitario emerge dal deserto attraverso una danza di luci e foschia; l’uso di un teleobiettivo

estremo e l’effetto miraggio delle ondate di calore danno l’impressione

che stia planando nel cielo. Praticamente è l’arrivo di uno dei cavalieri

dell’Apocalisse. Quando arriva al villaggio isolato di Lago, il cowboy pian piano sottomette la popolazione alla propria autorità e alla fine

scatena l’inferno contro di loro per ragioni che non scopriremo mai

davvero. Poi lo Straniero senza nome se ne va misteriosamente com’è

arrivato, attraversando di nuovo il deserto fino a scomparire. «Inizialmente la sceneggiatura diceva che lo Straniero era il fratello dello sceriffo ucciso, ma io l’ho interpretato come se fosse una

sorta di apparizione. Non se ne ha la certezza, ma si sa che il suo

obiettivo è far pagare al villaggio i propri peccati e la propria

compiacenza nei confronti dell’omicidio. Ma l’unico indizio si ha quando lo Straniero si sdraia (più avanti, nell’albergo) e ha un incubo in cui lo sceriffo viene frustato a morte, e da lì si capisce che c’è un qualche legame con lui, ma non si sa di che tipo. Così si mantiene l’alone di mistero e tutta l’atmosfera rimane enigmatica. Secondo me,

se lo Straniero arrivasse in paese e dicesse immediatamente: “Sono il fratello dello sceriffo ucciso”, si tirerebbero subito le conclusioni. Invece così, una volta che ha sconfitto il paese e ha umiliato gli

abitanti con i suoi metodi, ci si chiede: “Ma chi è? Perché lo fa?”

«Il modo tradizionale di fare un film del genere», continua

Eastwood, «era di esplicitare chiaramente tutto. Da subito, fin da quando il personaggio arriva al paese a cavallo (se usiamo il western come esempio, ma può essere qualsiasi tipo di film) e vede un uomo

che picchia un cavallo. Si mette in mezzo, stende il tizio con un pugno e così si capisce subito che quello è l’antagonista con cui l’eroe dovrà risolvere il conflitto più avanti. Poi vede la maestra della scuola sulla veranda, lei lo fissa o qualcosa del genere, e si capisce anche che ci

sarà una storia d’amore fra loro. E si può quasi indovinare la fine,

anche solo dai primi cinque minuti. Gli spettatori non dovrebbero mai potere capire con tanto anticipo che direzione prenderanno i

personaggi, perché altrimenti non faranno altro che stare lì ad aspettare che il film si metta in pari con le loro ipotesi».

Lo straniero senza nome, che in sostanza è una morality play, trae un vantaggio notevole, se non addirittura decisivo, dall’ambientazione nel distretto del lago Mono, nel nordest della

California. Inizialmente la storia era ambientata nella Monument

Valley, l’imponente location scelta per tanti dei film di John Ford, ma, come spiega Eastwood, «quel luogo non avrebbe creato lo stesso mood che mi aveva trasmesso la storia. Mi serviva un posto che corrispondesse a quell’atmosfera e il lago Mono è quello che ho trovato alla fine. È un lago ad alto tasso salino. Ha degli affioramenti

molto interessanti e i colori cambiano quasi ogni minuto, perciò la

location dava al film una connotazione elusiva. «Gli elementi visivi iniziali servivano a definire il mood del cavaliere. Ho preso una parte dell’onda di calore dall’angolo dell’inquadratura e l’ho estesa in modo da avere lo stesso effetto in

tutta l’inquadratura. All’inizio non riuscivo a tornare abbastanza indietro con l’obiettivo per far sparire il cavaliere, quindi sono partito con uno schermo bianco e ho usato la dissolvenza, che non si nota grazie all’onda di calore. Cose come quella stabiliscono l’atmosfera del

film, ma io avevo da subito una visione chiara della pellicola, è per

quello che ho deciso di dirigerla».

A fianco del solito Bruce Surtees, Eastwood ha girato Lo straniero senza nome con aperture insolitamente ampie per intensificare la luminosità degli esterni, in modo che ogni particolare della cittadina

apparisse visibilmente arroventato dalla luce, quasi in fiamme. (E l’effetto accelera il successivo episodio in cui lo Straniero costringe la gente a dipingere l’intera cittadina di rosso e a ribattezzarla

«Inferno».) Per contrasto, gli interni si compongono di marroni scuri, terra di Siena bruciata e arancione bruciato, con una tendenza alla sottoesposizione per trasmettere un senso di decadimento. Eastwood descrive le difficoltà (e l’importanza) di stabilire una continua relazione spaziale tra gli interni e gli esterni e viceversa. «Era di nuovo parte dell’elusirità, perché ciò che vedevi non dava mai

un senso di stabilità. I colori cambiavano, le nuvole cambiavano e la diversità di esposizione ti travolgeva. In un caso abbiamo cominciato

con lo Straniero nel saloon, una stanza molto scura, e poi l’abbiamo fatto uscire dalla porta, verso la piena luce, quindi c’è stato un enorme cambio di esposizione. Man mano che ti avvicini alla porta principale, devi cominciare a cambiare esposizione per l’esterno, altrimenti ti

ritrovi con un enorme bagliore. Non è insolito, ma è stato un po’ complesso da realizzare, e nel film ha funzionato in modo piuttosto efficace».

Oltre alla decifrazione della trama e alla distillazione dei

personaggi, Eastwood cerca di coinvolgere il pubblico anche attraverso un uso completo dello spazio per focalizzarsi sull’azione. Non ha remore a infrangere la regola dei 180 gradi per il

posizionamento della macchina da presa, una scelta stilistica che si può accostare solo ai registi giapponesi. «Non ho paura di girare inquadrature totali inverse, per riprendere gli attori dai due lati. Molti registi più anziani e più tradizionalisti non lo farebbero mai. Per loro la cinepresa resta sempre da un solo lato degli attori, a meno che non siano questi ultimi a spostarsi dall’altra parte durante un’inquadratura. Ma a me piace spezzare la composizione. Credo che

si coinvolgano di più gli spettatori cambiando prospettiva liberamente, senza legarli alle poltrone. Uno dei motivi per cui mi piace girare in location è che non devi preoccuparti di dove ti trovi rispetto agli attori in un dato momento e non sei limitato dal set, che detta la posizione della cinepresa».

E in effetti Eastwood sfrutta appieno i vantaggi delle riprese nelle varie location, avvalendosi degli stimoli dell’ambiente e

improvvisando in base all’ispirazione. In Bronco Billy il momento cruciale del film è la scena in cui Billy decide di rapinare da solo un

treno diesel. L’assurdità dell’idea risulta evàdente mentre il treno sfreccia via rombando con Billy che lo insegne, ma quel momento non

è soltanto il culmine della sua frustrazione nei confronti della crisi del Wild West Show, è anche l’esempio più lampante della sua fedeltà

all’etica romantica delle sue fantasie da cowboy. Perciò la scena

stessa, come suggerisce Eastwood, andava costruita con molta cautela senza caricarla troppo. «Può essere pericolosissimo girare una scena

del genere», spiega, «perché se non lo si fa bene, si rischia di rovinare

l’intero slancio del film». Quella scena doveva far ridere e suscitare empatia al tempo stesso. Ma invece di andare sul sicuro. Eastwood vi ha aggiunto qualcosa

che fa ben più che riassumere le intenzioni tematiche stravolgendo la nostra prospettiva della scena. Gli è venuto in mente circa mezz’ora prima di girarla. «È andata così: fuori faceva freddo», spiega. «C’era

molto sole, ma faceva davvero freddo. Ero sul treno con le comparse e ho visto un ragazzino molto estroverso seduto lì con la madre. Continuava a farle domande e io ho iniziato a pensare che forse avrei dovuto inserire una prospettiva dal treno. Quindi ho fatto un patto

con il ragazzino: “Quando mi vedi arrivare a cavallo, guardi fuori e dici ‘Cowboy e indiani’”». Sono riuscito a farlo entusiasmare all’idea e poi ho chiesto alla madre di adottare l’approccio opposto, “Oh, sì, ok”,

come se non gli facesse caso. Questo però dava il tocco ironico

definitivo alla scena, perché l’immaginazione del ragazzo va a ruota libera proprio come quella di Billy. Sono entrambi attratti dal vecchio West, perché in fondo anche Billy è come un bambino». Sondra Locke, ormai al quinto film con Eastwood, racconta che, nel dirigere gli attori, il regista comunica le intenzioni dei personaggi attraverso la posizione e l’angolazione della cinepresa invece che

tramite sproloqui verbali. «Lascio che gli attori si creino i loro ruoli»,

dice lui, «e trovino un appiglio nella storia che significhi qualcosa per loro, che li coinvolga emotivamente. Del resto il casting è già una caratterizzazione del personaggio. E ho già lavorato con quasi tutti

loro, quindi so che cosa sono in grado di fare.

«Ma il lavoro con la cinepresa è un po’ come la scrittura; il modo in cui uno scrive esprime tanto quanto il contenuto. E quindi la macchina da presa lavora con gli attori per ottenere un effetto d’insieme. La cinepresa non è un occhio neutro, né gli attori

costituiscono la totalità della scena». Ciò che crea la scena più di

qualsiasi altra cosa è il momento in cui essa viene girata, con il ronzio della cinepresa che intensifica l’attività come una scarica di

adrenalina, e il senso dell'atmosfera preparato cosi a lungo viene finalmente ripreso con la massima cura.

«Credo che dirigere un film significhi vederlo, vederlo dal vivo,

mentre si svolge proprio sotto i tuoi occhi. Entra il ragazzo, entra la ragazza e si crea subito la scena, proprio all'inizio del primo ciak.

Spesso è uno shock. Dici: “Cristo, è andata benissimo”. Ma devi essere in grado di dire: “È quello che volevo”, e poi andartene. E se non va, devi continuare a lavorarci finché non funziona, anche se è il decimo

tentativo. Ma se funziona subito, devi avere abbastanza coraggio da dire: “Ce l’abbiamo. Ottima. È quello che volevo”. Devi avere il film bene in mente ancora prima di realizzarlo. Se non ce l’hai, non sei un regista, sei uno che tira a indovinare». È significativo che i film di Eastwood abbiano un ritmo estremamente ben bilanciato, rilassato e mai affrettato, con un forte

senso del tempo reale, a prescindere dalla forza dell’azione o dalla

velocità della narrazione. Secondo lui ciò dipende principalmente

dalla «giusta punteggiatura» tra le scene durante il montaggio, ma suggerisce anche una fedeltà al ritmo delle cose come sono state

vissute durante le riprese, in modo che il montaggio sia in armonia

con il momento della registrazione visiva e non lo manipoli. Ovviamente lo stile è il risultato della padronanza tecnica, dell’uso

spontaneo degli elementi di produzione in modo coerente con la

propria visione del materiale. Eastwood non si è mai accontentato di esprimersi soltanto come attore, e già una ventina d’anni fa, quando aveva un ruolo fisso nella serie televisiva Gli uomini della prateria,

lottava per aumentare il proprio contributo creativo. Quei canali tuttavia si rivelarono limitati e il massimo che gli fu concesso fu di

dirigere alcuni trailer. Ma lavorare alla serie settimana dopo settimana gli diede l’opportunità di familiarizzare con la tecnologia e poi di imparare a ragionare con il regista, soppesando le sue decisioni

e valutando le sue strategie. «Mi chiedevo sempre: “Io come lo farei?” Se si trattava di problemi pratici, mi segnavo mentalmente di non

arrivare mai a trovarmi in quella situazione, ma piuttosto che criticare ed essere semplicemente in disaccordo con il regista, cercavo di proporgli un’alternativa percorribile, una soluzione vera, non soltanto

una lamentela.

«Ma credo che si impari dagli altri in corso d’opera, allo stesso modo in cui si sviluppano le proprie idee. Ho sempre detto che si impara qualcosa da quasi tutte le persone con cui si lavora, ogni

regista, attore 0 attrice ha qualcosa da insegnarti. Magari fanno qualcosa di particolarmente interessante o che non hai mai visto prima e da allora te lo ricordi per sempre. E viceversa, se vedi un regista fare qualcosa che ti colpisce negativamente, ti ricorderai sempre anche di quello. Penserai: “Cazzo, non fare mai una cosa del

genere”». Eastwood è particolarmente critico nei confronti dei registi troppo meticolosi nei loro metodi oppure incapaci di prendere decisioni e dunque praticamente privi di metodo, quelli che ripetono una singola inquadratura fino a sfiancare gli attori e azzerare l’energia del film. Inoltre queste abitudini controproducenti, che oggi secondo lui si

stanno diffondendo a livelli epidemici, fanno schizzare alle stelle i costi e pregiudicano il potenziale di altri elementi. «Chiunque può fare un film girando quaranta o cinquanta volte ogni scena. Se non si

ha abbastanza materiale, si può mettere insieme tutta quella roba e tirarne fuori qualcosa. Ma il fatto che sia decente o abbia un’anima è un altro discorso. È come sparare con un fucile a pompa. Puoi colpire

molte più cose che con un fucile normale, ma ci vuole molta meno abilità e l’impatto è molto inferiore. «Di recente c’era un pezzo sull’Hollpmood Reporter, nella rubrica su cose successe nella data di oggi quarantanni fa, che mostrava

l’ironia insita nel fatto che tutti questi registi girino le scene mille volte usando centinaia di chilometri di pellicola per ogni film. C’era

scritto che John Ford aveva appena finito Furore usando il

quantitativo più basso di pellicola per un film fino a quel momento, intorno agli undici chilometri. Lui però ha girato un classico che la gente non si stancherà mai di vedere. Anche molto tempo dopo la sua morte, la gente continuerà a vederlo per anni e anni e Ford l’ha girato

con la quantità minima di pellicola esposta per l’epoca, perché sapeva esattamente cosa voleva e sapeva riconoscere quando l’aveva

ottenuto. Non ha fatto durare le riprese per sei o otto mesi, rifacendo ogni scena cinquanta volte. Quando vedeva le stampe che gli piacevano, passava oltre... Furore ha un’energia pazzesca ed è un classico da tutti i punti di vista. Cosa ti fa pensare che riuscirai a fare qualcosa di ancora più classico usando cinquanta volte la quantità di

pellicola che ha usato lui? Semplicemente non ha senso». Un altro modo in cui Eastwood facilita la celerità e l’economia della produzione è assemblando una troupe adattabile alle decisioni

rapide e ai cambi di allestimento. «Devi poter spostare tutti, e tutti devono potersi spostare con te», spiega. «Ma la maggior parte delle

persone con cui lavoro è in sintonia con me su questo». Ha lavorato

praticamente con la stessa troupe per gli ultimi cinque film. Inoltre, senza dubbio memore degli anni in cui sul set degli Uomini della prateria venivano tarpate le ali al suo talento, Eastwood è molto

ricettivo ai suggerimenti della troupe sul set. Rimuove infatti tutti i simboli esteriori della sua autorità come regista e come star per

promuovere lo spirito di gruppo e l’uguaglianza. Non ci sono sedie da regista, niente stravaganti trattamenti preferenziali per gii attori, niente cerehie esclusive per stratificare la comunità, cosa che un’unità

di produzione completa inevitabilmente comprende. «È senza dubbio una democrazia» dice Eastwood. «Se ho qualche pregio come regista, è che cerco di stimolare tutti a essere più creativi

che possono. Preferisco che contribuiscano al film e non facciano solo

il loro lavoro a memoria. Così si crea un’atmosfera migliore e alla fine anche il film è migliore. Dire: “Voglio che sia fatto così, fate così e basta. Tu azioni il ciak, tu ti occupi del sonoro. E non voglio sentire

niente al di là di quello che vi dico io” è davvero miope. Credo che

molta gente pensi che l’autorialità registica consista in questo. Ma nella mia mente non esiste nessuna figura autoriale. È un lavoro di gruppo. Certo, qualcuno guida il gruppo, come un tenente guida il plotone o roba del genere, ma non significa che tutti gli altri non siano

creativi. Piuttosto che lasciare che prendano il loro mattoncino e lo posino nel film, contribuiscono tutti in un certo modo alla progettazione. E finché questo non deria troppo, è ottimo, perché

rifiuto tanti suggerimenti quanti ne accetto, ma me ne arrivano di veramente validi». Allo stesso modo, nessuno nel settore può dire di

aver fornito a così tanti nuovi talenti delle opportunità di far progredire la loro carriera. Michael Cimino, Philip Kaufman, Bruce

Surtees, John Milius, la sceneggiatrice Jo Heims, David Worth e molti

altri della sua stessa casa di produzione hanno tratto beneficio dalla fiducia e dall’incoraggiamento di Eastwood. Buddy Van Horn, veterano del coordinamento degli stuntmen, sta per esordire come regista nell’imminente Fai come ti pare, un passo avanti che ha portato ad altre offerte prima ancora che iniziassero le riprese del

film.

Ma tutto questo coincide con la filosofia di Eastwood di scegliere

da sé ruoli e storie. «Deri correre dei rischi. Deri e basta. Se non corro rischi, allora in un certo senso non merito di essere dove sono, perché altrimenti che senso ha arrivare a una posizione in cui puoi decidere

quali film fare? Non potrei scorrere le sceneggiature e dire: “No, non è commerciale”, oppure: “Non corrisponde all’immagine che mi sono

costruito”. Quando volevo fare Filo da torcere, il mio agente, il mio

avvocato e tante altre persone non erano d’accordo. Dicevano: “Questo non è Clint Eastwood”. E io: “In che senso non sono io?

Nessun altro di questi tizi sono io”. Magari ci sono certi elementi, ma lo fai per motivi diversi. Puoi fare un film con l’idea di realizzarlo per puro intrattenimento, ma del resto ho anche dimostrato che so fare

pellicole che qualche soldo lo tirano su. Ma ci sono altre cose che devo dimostrare nella mia vita, anche solo a me stesso come persona, per fare commenti di altra natura». Prosegue dicendo addirittura che

prenderebbe in considerazione progetti contrari alla sua posizione politica o su temi molto controversi se questi gli offrissero una lettura alternativa di un argomento pubblico o di una storia generalmente

accessibile. «Devi continuare ad allargare i tuoi orizzonti e a sperimentare

altre cose», aggiunge. «Avrei potuto scegliere un sacco di sceneggiature diverse da Bronco Billy, sfide molto meno impegnative.

Ma valeva la pena di tentare con Bronco Billy. Se non funziona, non funziona, ma vale la pena provare». Gli incassi di Bronco Billy, uno dei film più insoliti e complessi di Eastwood, indicano certamente che il film funziona. Ma ancor più di quelli, l’abbondanza di saggi critici

ispirati dal film suggerisce che si tratta di una pellicola a cui si farà riferimento per lungo tempo. «Lo spero», conclude Eastwood. «È davvero gratificante fare un

film come II texano dagli occhi di ghiaccio o Lo straniero senza

nome, per cui la gente provi un interesse a lungo termine. Ci sono un sacco di gruppi di cinefili che mi contattano per parlarne, e la cosa mi

piace molto. Quando la gente vuole tornarci su dopo anni per capire

cosa ha funzionato e come si è evoluto, significa che hai fatto qualcosa di buono. Ma devi fidarti di te stesso, dei tuoi istinti». (Intervista pubblicata su Millimeter, dicembre 19S0, pp. 127-33. Ripubblicata su autorizzazione.)

EASTWOOD: UN AUTORE DI CUI TENERE CONTO DI CHARLES CHAMPLIN

(1981)

Il successo genera potere, ma il potere non produce necessariamente

ulteriore successo, altrimenti la vita aziendale sarebbe decisamente monotona. Nel mondo del cinema, la questione di cosa possa ottenere la persona di successo con il potere che ha acquisito è in qualche

modo ancora più ricca di suspense che in qualunque altro settore perché le risposte sono così visibili... pesanti fiaschi o balzi arditi e fantasiosi verso il successo. Clint Easbvood, con quel suo modo di fare ingannevolmente

sobrio e rilassato, ha usato il potere da star, ottenuto inizialmente grazie a film di altri registi, per creare una società di produzione indipendente con margini di successo che, in termini di ritorno

sull’investimento, non sono secondi a nessuno. Scegliendo di fare quello che voleva, Eastwood alla fine ha fatto esattamente quello che il pubblico si aspettava da lui, a volte confondendo la critica, compreso il sottoscritto.

Dopo essere stato un laconico uomo d’azione, è diventato un uomo d’azione slapstick dal cuore d’oro, che fa da spalla a un orango imboccandogli banane e battute in Filo da torcere, un’agile farsa che il pubblico ha subito abbracciato in un impeto di gioia. In Bronco

Billy, uscito l’anno scorso, Easbvood ha fatto fare un grosso passo in

avanti alla commedia interpretando un idealista gentile e delicato, un

uomo talmente innamorato del mito eroico del West e di una tale bontà da non tentare nemmeno di vendicarsi dello sceriffo corrotto e cattivo che lo ha umiliato. Con un’ironia che di certo non è sfuggita a Easbvood, è stata la

critica, in precedenza pronta tanto a schernire quanto a lodare, ad

accogliere Bronco Billy in un delirio di ammirazione. Piuttosto all’inizio erano gli spettatori a tentennare (forse scoraggiati da una campagna pubblicitaria ingegnosa ma ambigua). Ma alla fine la virtù ha trionfato e Bronco Billy ha totalizzato incassi buoni e costanti

(finora quindici milioni di dollari lordi solo a livello nazionale) che ormai, secondo Easbvood, hanno ampiamente ripagato le spese. Fai come ti pare, il sequel di Filo da torcere, è uno dei pochi, immediati successi di botteghino della fine di quest’anno. Secondo gli

ultimi conteggi, più di cinquanta milioni di dollari. C’è sempre lo

stesso Easbvood, ma con un altro orango, più giovane. «Due anni sono molti nella vita di un orango», ha detto l’altro giorno Easbvood. Il primo cominciava a somigliare a King Kong, non aveva più la stazza per fare la spalla.

La sceneggiatura di Filo da torcere girava da molto tempo, ed era rifiutata da tutti, ricorda Easbvood. Il copione stesso aveva le pagine

macchiate di cibo e con le orecchie. «La maggior parte delle persone sane di mente si mostravano scettiche; nemmeno nel mio team erano

tutti d’accordo. Dicevano che era pericoloso. Dicevano: «Non sei tu».

Ma io rispondevo: «Certo che sono io». Tutto quello che è passato sullo schermo finora non è mai stato me. Quando ti dicono: “È lui”, è solo in parte un complimento. Se fai si che la gente la pensi così, hai

già fatto molto». Bronco Billy è arrivato in modo inaspettato, su raccomandazione

di un amico, non da un agente. Easbvood stava per rispedirlo all’autore, Dennis Hackin, quando è stato colpito dal titolo; ha dato una scorsa a un paio di pagine e non è più riuscito a rimetterlo giù.

«Il mio primo pensiero è stato che avrebbero potuto farlo Frank

Capra o Preston Sturges all’apice della loro fama. Presentava dei valori interessanti da esplorare, in contrasto con gli anni Sessanta, la guerra del Vietnam, il Watergate e via dicendo.

«Ecco un perdente che si rifiutava di ammettere di esserlo e

poteva opporre resistenza al cinismo. Non era proprio alla vecchia maniera, ma in qualche modo sì. «È stato divertente interpretare questo tizio, perché lo si doveva privare di ogni dignità, come il personaggio di La vita è meravigliosa,

perché potesse fare la transizione verso il lieto fine».

Tra le fila della Malpaso di Easbvood c’era del nervosismo, per non dire dissenso, riguardo a Bronco Billy, in particolare per quell’umiliazione lasciata impunita. «Sapevo che non sarebbe stato un film commerciale», dice

Easbvood. «Ci suggerivano di aggiungere azione e sesso, ma io sono rimasto fedele alle intenzioni dello sceneggiatore. Se questo era quello

che dovevamo fare per sbancare, io non volevo proprio. A questo punto della mia carriera non ho bisogno di dimostrare il mio valore commerciale. Non gliel’ho fatta pagare allo sceriffo cattivo. Suppongo

che invece una “normale" pellicola di Clint Easbvood lo avrebbe fatto».

Se il budget fosse stato di dodici milioni di dollari, ammette

Easbvood, la questione sarebbe stata diversa; non è uno spendaccione, né con i soldi suoi né con quelli degli altri. Ma è riuscito a portare a termine Bronco Billy con soli cinque milioni di dollari, una miseria di questi tempi.

«Quando ho cominciato la carriera di regista, nel 1970, chi mai

avrebbe detto che cinque milioni di dollari sarebbero stati un budget modesto?», chiede. Tuttavia, l’aumento vertiginoso dei costi è un’esperienza che Easbvood ha già fatto. Vedendo che La ballata della città senza nome

era arrivato a venti milioni di dollari già nel 1969, Easbvood decise che così non poteva andare e creò la sua compagnia di produzione, la Malpaso, per poterlo girare in modo più efficiente.

«In quest’epoca di budget gonfiati e di scarso rispetto per i

finanziatori», ricorda Easbvood, «portare a termine Bronco Billy non

è stato né difficile né costoso. Mi domando sempre, che cosa avrebbe detto Jack Warner in una situazione come questa? Potete dire quello

che volete, ma quei ragazzi monitoravano tutto e quando era necessario staccare la spina, la staccavano. Mi dicono che i costi di produzione sono sfuggiti di mano perché alcuni dei dirigenti sanno di

tutto meno che di cinema. Quello che mi chiedo è: ma se non sanno fare cinema, a cosa servono?» Easbvood mantiene la Malpaso piccola e indipendente. «Nessuno

ti guarda male se dai un suggerimento o hai da ridire su qualcosa. Dite quello che pensate, è tutto quello che chiedo».

Ha creato una specie di compagnia di repertorio di attori non protagonisti, come il meraviglioso veterano Scatman Crothers che ha

interpretato il direttore del circo in Bronco Billy e che si è esibito davanti alla folla di comparse a Boise per permettere a Easbvood di

filmarne le reazioni. Anche Geoffrey Lewis, un altro caratterista, lavora sempre con Easbvood, e Sondra Locke è la sua coprotagonista anche fuori dal set.

Quello che Easbvood desidererebbe di più fare adesso sarebbe un altro western. Il texano dagli occhi di ghiaccio sembra essere stato l’ultimo veramente di successo - tranne forse Mezzogiorno e mezzo di fuoco, che era un po’ fuori dai binari tipici dei western. Il recente

destino di questo genere non è incoraggiante, ma del resto in quei film non c’erano né Easbvood, né la qualità mitica dei western classici che Easbvood, da bravo, laconico lupo solitario, porta sempre con sé come fosse un sottosella.

Se il western è rivo e vegeto nella sua mente (è in lavorazione una sceneggiatura, uno dei suoi tre progetti in corso), al contrario l’ispettore Callaghan è morto.

«Non so bene cosa si potrebbe fare con l’ispettore Callaghan adesso», spiega Easbvood. «Non so dove altro potrei portarlo. Forse si potrebbe fare un altro film per ottenere una soddisfazione commerciale, ma non di certo personale. È per questo che vorrei fare un western; mi piacerebbe sfidare chi dice che non si può più fare».

In una dei suoi primi ruoli, Easbvood ha interpretato uno dei piloti della Squadriglia Lafayette di William Wellman (gli altri erano Tab Hunter e Tom Laughlin), Il suo rimpianto, da cinefilo di lungo corso,

è non esser riuscito a lavorare con Raoul Walsh, King Vidor, William Wyler e altri grandi registi. «Sono arrivato appena troppo tardi», dice. La sua carriera, non ha dubbi, continuerà in ambito registico. Ha diretto Brivido nella /lotte divertendosi un sacco. «Uno dei dirigenti della Universa! gli aveva detto: “Chi diavolo vuole vederti nei panni di

un dj?” Io ho risposto: “Chi diavolo vuole vedermi nei panni di chiunque?’» A Easbvood è piaciuto fare sia il regista, sia l’attore, e racconta: «L'altro giorno stavo parlando con George Lucas e so che a

lui non piace dirigere. Mi ha detto che poco prima di Star Wars stava pensando di abbandonare del tutto la regia. Io invece mi ci trovo benissimo. Ti riduce uno straccio, ma ne vale la pena».

Di recente Easbvood ha avuto l’onore di una retrospettiva al Museum of Modem Art. «Di solito scelgono qualche grande regista jugoslavo. Stavolta hanno scelto un regista almeno parzialmente

commerciale. Ed è stato Bronco Billy a dar loro la spinta definitiva».

Un pubblico giovane è impazzito per Brivido nella notte durante una proiezione pomeridiana, racconta Easbvood. «Quei ragazzi

analizzano tutto quello che noi all’epoca davamo per scontato. Riescono a sbalordirti con tutte le loro nozioni e le loro domande. E

riescono anche a trovare più cose di quante ce ne siano davvero in un film, come hanno fatto i critici con Ispettore Callaghan: il caso

Scorpio è tuo' Ma i giovani sono appassionati di cinema, ed è una cosa notevole». Easbvood ha imparato a dirigere guardando i film dei maestri, leggendo cose su di loro e infine lavorandoci, a partire da Don Siegei.

«Altri registi diranno: “Proviamo a farla in una”. Don diceva sempre: “Per me la seconda non esiste proprio. Cerco sempre di far andare

bene la prima”. De Sica dava lo stop a metà di un dialogo. Aveva già quello che gli serviva, perché sapeva cosa gli serviva. Poi ti diceva: “Ti lascio un po’ di spazio all’inizio della prossima scena"».

Non molto tempo fa, nella rubrica «Quarant’anni fa», Easbvood ha letto che John Ford aveva usato solo undici chilometri di pellicola per Furore, un quantitativo incredibilmente basso. «Allora ho pensato ai circa seicento chilometri che Mike Cimino aveva usato per I cancelli del cielo. Ho dato a Mike la prima occasione dietro la macchina da

presa con Una calibro 20 per lo specialista e mi sembrava che avesse fatto un ottimo lavoro. Ma uno è un regista, l’altro è uno che tira a

indovinare». Easbvood segue il suo istinto per capire cosa vuole fare e cosa

funzionerà e si gode il privilegio di poter seguire l’intuizione, ma non è certo uno che tira a indovinare, e nel suo modo silenzioso è diventato un autore di cui tenere conto. (Intervista pubblicata sul Los Angeles Times, 18 gennaio 1981. Los

Angeles Times. Ripubblicata su autorizzazione.)

UN POLIZIOTTO IN BILICO SU UNA CORDA TESA DI DAVID THOMSON (1984)

Clint Eastwood ha sempre lo stesso vecchio bungalow alla Warner

Bros., con le luci soffuse e l’arredamento marrone, dove può rilassarsi sul divano in t-shirt, jeans e scarpe da ginnastica, chiacchierando per

un paio d’ore della realizzazione dei suoi film. Tutto si svolge in modo

amichevole, tranquillo, non pretenzioso e rilassato: ehi, entra pure,

facciamo due chiacchiere. Certo è più probabile che Eastwood si rivolga in questi termini a Norman Nlailer che a Time o a Newsweek. Negli ultimi due anni. Mailer ha scritto di Clint per Parade e ha

realizzato un lungo articolo su di lui per la New York Review of Books. Qualcosa nell’alto e slanciato lupo solitario anela alla rispettabilità.

Non ci vorrà molto prima che vinca un Oscar grazie ai traguardi

che ha raggiunto, o anche il premio alla carriera dell’American Film Institute. Ne frattempo deve accontentarsi di essere la star cinematografica più famosa e di maggior successo degli ultimi

ventanni. Alla Warner Bros, gira una voce, rivelata all’improvviso da Joe Hyams - un dirigente «con il compito speciale di assicurarsi che Clint sia sempre felice» - secondo cui, dal Texano dagli occhi di

ghiaccio a oggi, Clint avrebbe portato ottocento milioni di dollari in

diritti di noleggio. Eastwood è troppo cool per mettersi a fare i conti,

anche se si dice che ogni sera controlli i registri contabili («Coraggio­ fatti ammazzare, mostrami un errore»). E se ci si mette a fare i conti, allora bisogna aggiungere il periodo alla Universal (con Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, Lo straniero senza nome, Brivido nella notte e Una calibro 20 per lo

specialista1) più gli spaghetti western (e Clint aveva il dieci per cento del Buono, il brutto, il cattivo), per tacere della lunga permanenza dei suoi film tra le repliche televisive e della sua ritrovata supremazia nel

settore delle videocassette. Quasi tutti suoi lavori sono prodotti dalla

sua Malpaso. che significa «passo falso, come se stessi per inciampare su qualcosa». Eastwood ha sempre spiegato che la Malpaso gli permette di fare i suoi errori, ma è anche il coltello con cui si taglia via

una bella fetta dei diritti di noleggio. Ma lui com’è?

Lasciamo che risponda Norman Mailer, nel formato del dialogo

con se stesso dell’articolo uscito su Parade: «Lui ti piace? «Per forza. La prima volta che lo vedi, è una delle persone più

gentili che tu abbia mai incontrato. Ma non posso dire di conoscerlo bene. Abbiamo parlato un paio di volte e pranzato insieme. Mi è piaciuto. Credo che dovrei passare almeno un anno con lui per

scoprire il suo lato negativo, sempre che ce l’abbia.

«Ci vorrebbe così tanto? «Beh, è molto sulle sue. Se non lo disturbi, lui non verrà mai a disturbare te. In quel senso è come i personaggi che interpreta nei

suoi film».

Mailer ha bisogno di eroi. Credo che in realtà quella illusione possa infrangersi un po’ più in fretta, tipo 364 giorni prima. Eastwood non può non piacerti: ha un fascino enorme, a livello fisico colpisce

moltissimo - adesso che si avvicina ai cinquantacinque, la sua

bellezza si fa più dura, segnata dai capelli bianchi più che dall’abbronzatura. È molto naturale, molto forte e sempre molto deciso. Non ci vuole una grande immaginazione per ’.'edere che alcune

delle tue domande si infrangono contro una roccia. Resti sconvolto e intimidito davanti a un attore che ha così poco bisogno del tuo sostegno e il fatto che voglia comunque il tuo rispetto non serve molto

a indorare la pillola. Eastwood gestisce un team piccolo e compatto alla Malpaso, e dubito che lì si facciano troppi errori o ci sia troppa tolleranza di stampo latino. Negli anni si è detto più volte che il suo cerchio magico,

capeggiato dai produttori Bob Daley e Fritz Manes, guardasse ai nuovi registi giovani come per dire: «Dimostra quanto vali». È ugualmente leggendario il fatto che Eastwood non faccia prove e preferisca portare

a casa il risultato al primo ciak, tutti aspetti che contribuiscono all’economicità della sua attività (Honkytonk Man è stato girato in cinque settimane con due milioni di spese below the line ), Il segno più evidente dell’inflessibilità di Eastwood, nonché il suo più grande limite sullo schermo, è il suo rifiuto di andare oltre il

proprio istinto. Se per Clint andava già bene, il regista poteva faticare molto a cercare di ripetere la scena. Inoltre i suoi modi spicci sullo schermo a volte danno l’impressione che Eastwood non si sforzi di pensare troppo a un momento o a una situazione, ma voglia solo

concluderla. Allo stesso modo, il celebre sguardo a occhi stretti e il

sibilo della voce - che lo si chiami intensità o «Coraggio— fatti ammazzare» — rifiutano ogni sottigliezza tanto quanto le battute

fulminee che zittiscono gli interlocutori. Eastwood sa essere ironico a proposito del suo atteggiamento, ma nonostante ciò continua a fare

così. Che sia per noia, irrequietezza, creatività o per una sfacciata

fiducia in se stesso, Eastwood continua a sondare i limiti del suo stesso antieroismo. Bronco Billy e HonkytonkMan erano notevoli ampliamenti dell’autoironia emersa nel Texano dagli occhi di

ghiaccio e nei film sull’orango. Mostravano Clint come un impostore destinato ad autodistruggersi, e Honkytonk Man si è rivelato il suo più grande fiasco, nonché la spinta a fare Coraggio... fatti

ammazzare, che l’ha riconfermato come numero uno agli occhi di

tutto coloro che vogliono essere numeri uno. A parte questo, oggi come allora Eastwood rimane il magnate più interessante di Hollywood, sempre nascosto dopo tutti questi anni.

La tendenza a correre rischi persiste. Con gli occhi fissi sul botteghino natalizio di Per piacere... non salvarmi più la vita con Burt Reynolds (inizialmente si trattava di un progetto di Blake

Edwards, riassegnato a Richard Benjamin con l’arrivo di Eastwood), nel frattempo ha completato una versione dark di Harry Callaghan in

Corda tesa, uscito in agosto. Si tratta di un film imprevedibile, realizzato troppo in fretta e con troppa approssimazione per il bene del suo stesso materiale di partenza. Scritto e diretto da Richard

Tuggle (autore della sceneggiatura di Fuga da Alcatraz), Corda tesa è spesso sgradevole. Nessun’altra grande star avrebbe corso questo rischio, credo. È infatti la storia di un poliziotto di New Orleans sulle tracce di un maniaco sessuale omicida; l’agente stesso però è soggetto a molti degli istinti contorti e violenti che potrebbero trasformare un

uomo da poco divorziato (come Eastwood) in un killer. Inoltre la figlia

maggiore del poliziotto, interpretata da Alison Eastwood, è uno dei ruoli più ambigui per il modo in cui smonta la figura della star.

Corda tesa potrebbe avere scioccato alcuni dei puristi di

Eastwood. Potrebbe aver spaventato chiunque, e con una sceneggiatura più indagatrice e una maggiore disponibilità a esplorare

i personaggi nel profondo, sarebbe potuto essere molto migliore, sul genere del Diritto di uccidere. Il problema di Eastwood potrebbe essere la comfort zone del gruppo della Malpaso che non gli permette di mettersi veramente alla prova. Ha fatto notevoli incursioni nella

vulnerabilità, ma i film sono assemblati in un modo talmente sicuro,

efficiente e a prova di intoppi che priva Eastwood della genuinità dei suoi personaggi. Servirebbero un regista molto deciso e un ottima

storia, ma Eastwood potrebbe interpretare una gamma di ruoli più ampia di quanto abbia fatto finora, anche senza il distacco vagamente

brutale che mantiene nei confronti dei suoi film. E un cauto conservatore, ma Harry- Callaghan è un eroe in cui le nostre fantasie di autosufficienza si trasformano in psicosi - in realtà non tanto lontano

da Gary Gilmore nella Ballata della sedia elettrica, un ruolo per cui Eastwood era perfetto, come ha capito lo stesso Mailer. Cosa pensa che succeda a Wes Block, protagonista di Corda tesa, dopo lafine delfilm? Beh, si possono abbozzare moltissime sottotrame, ma penso che

porti avanti la relazione con la ragazza [Genevieve Bujold]. E la prima

donna per cui prova qualcosa di più del desiderio sessuale en passant,

da una notte e via, di cui è più volte testimone nell’ambiente malfamato del suo lavoro come agente della polizia di New Orleans, Credo che abbia voglia di stabilità. E magari potrà lenire il trauma

delle sue figlie e rifarsi una vita normale con qualcuno.

Wes frequentava prostitute durante il primo matrimonio? Questo poteva avere a chefare con la rottura?

Forse, ma nella sceneggiatura sostiene di non aver mai avuto

questo genere di amiche prima che la moglie lo lasciasse. Credo che il matrimonio l’abbia deluso molto. Penso che ci avesse investito

tantissimo a livello emotivo. Quando è andato a rotoli, qualunque ne fosse il motivo, lui è rimasto molto deluso e si è buttato su quello che

ha trovato. Visto il lavoro che fa, ha incrociato un sacco di signore bizzarre.

Ma prova nei loro confronti strane 0 perverse emozioni, e chiaramente nelfilm c’è un momento in cui si chiede se potrebbe

essere un maniaco sessuale omicida. E ci sono anche momenti in cui non si è del tutto sicuri che non lo sia.

Cercavamo proprio quell’ambiguità. Nel film l’ho accentuata ancora più che nella sceneggiatura, ma mi è sempre piaciuto

quell’aspetto: è lui o no? Che ruolo ha nella faccenda? Nelle scene iniziali ho anche doppiato le battute dell’attore che interpreta il killer,

cambiando un po’ la voce. Non che volessi interpretare tutti i ruoli, ma volevo un po’ di effetto «È Eastwood? È lui?» Si capisce che non sono io, ma in compenso la gente mi conosce così bene da fare il collegamento così da avere quell’effetto. E poi, più avanti, quando scopri che non è lui... ...Capisci anche che poteva benissimo esserlo. Sì. Poteva benissimo essere lui, è lui stesso in un’occasione in cui

parla del poliziotto a dire: «Questo tizio è fuori di testa quanto me». Chissà come stanno davvero le cose? Ha avuto storie con così tante di

quelle ragazze che magari gli è venuto quell’istinto. Sono sicuro che il pubblico dirà: «Clint Eastwood non potrebbe mai essere il cattivo». Ma fino a che punto Clint Eastwood è attratto dall’idea di provocare il pubblico? È un film per molti versi

coraggioso. Alcuni dei suoifan più sfegatati potrebbero restare scioccati.

Quanto ai fan sfegatati, potrei semplicemente martellarli con lo stesso tipo di personaggio per il resto della mia carriera, ma non sarebbe altrettanto interessante. Credo che i fan più perspicaci (e spero che ce ne siano) troveranno provocatorio questo film, perché, in confronto al poliziotto ossessivo, Harry’ Callaghan, Wes ha un altro

genere di pulsioni. Non solo risolvere il problema da cui è ossessionato e le ingiustizie della professione legale, dei tribunali e tutto il resto. È anche uno che fa il suo lavoro cercando di farlo il meglio possibile e ha tutti questi personaggi secondari.

Pensava che sarebbe stato audace o rischioso in confronto a Coraggio... fatti ammazzare? Sì, penso che se chiedessi a qualunque studio di scegliere tra i due,

loro direbbero Coraggio... fatti ammazzare. Ha fatto un sacco di soldi. Ma io l’ho trovato audace. Se è audace ed emozionante, bene; se

invece è coraggioso e noioso, allora è un altro discorso. Spero che gli spettatori che amano i film di suspense e d’azione apprezzeranno il climax... ma nel frattempo dovranno sopportare questo personaggio.

In questo film lei ha anche un aspetto più cupo che mai. Beh, non deriva da un trucco particolare o roba del genere, ma solo dall’atteggiamento. È esattamente l’aspetto che dovrei avere. Se

mi sedessi a pensare: «Che aspetto ho?», starei pensando alle cose

sbagliate. Devo pensare al personaggio. Bisogna donarsi al personaggio. Non puoi dire: «Accidenti, sarò elegante come in altri

film?» In Honkytonk Man, in cui interpreto un malato di tubercolosi,

mi avevano fatto volutamente un trucco tipo kabuki. Ma di solito non mi faccio truccare per i film, quindi il personaggio di Corda tesa è così

semplicemente per via delle sue emozioni e del suo comportamento. Corda tesa è il caso più estremo, ma ce ne sono stati altri in anni

recenti in cui pareva che dicesse ai suoifan: «Beh, non fantasticate troppo sull’essere Clint Eastwood. Anche lui invecchia, ha problemi personali, non vive come Harry. A volte perde». Quanto è cosciente di dire queste cose aifan?

Beh, non so se è una cosa cosciente. Credo che nasca dall’amore per la storia. Mi danno la storia, mi appassiono al personaggio e sento che è una sfida. A dispetto di alcuni fan, non posso fare sempre il tizio misterioso che ha tutto sotto controllo. È divertente da interpretare, ma l’ho fatto tante volte. Probabilmente lo rifarò, ma devo ampliare i

miei orizzonti. Però ha avuto successo. Tutti quanti mi consigliavano di lasciar perdere Filo da torcere. Dicevano: «Non è un film da Clint Eastwood: la ragazza ti molla, tu ti arrendi e poi c’è questo ridicolo orango», cose del genere. Io rispondevo: «Sì, ma per certi versi è interessante». È una commedia, ma molto particolare. E se non fossi stato in una

fase di sperimentazione, magari avrei detto: «È vero, avete ragione,

non sono io. Meglio che faccia un altro Harry, o un cowboy». Il che è divertente, mi piace, ma bisogna espandersi.

A volte non funziona. La notte brava del soldato Jonathan, anni

fa, non è stato un successo. Ha deluso il pubblico. Purtroppo la promozione era mirata a un pubblico a cui piaceva un altro tipo di

Clint Eastwood. Corda tesa, spero, piacerà ai fan perché l’eroe alla fine vince, ma per lui arrivare alla vittoria è più difficile che per Harry Callaghan. Questo tizio non è un inetto, è solo più vulnerabile, più

segnato dalla vita personale. Voleva che gli ammiratori di Harry Callaghan ripensassero a lui? Mi sono chiesto quanto l’ossessività di Harry abbia a che fare con il fatto che in sostanza non abbia una vita sessuale. Sì, la moglie di Harry’ è morta. Diversi dei suoi film fanno brevi accenni alla sua sfiducia nell’amore e Harry' è decisamente un

personaggio solitario e solo. Ma Wes è solo per via della sua vita

superficiale, anche se ama le figlie. La sera soccombe a molte cose e ha

relazioni con tante ragazze con cui Harry' non vorrebbe avere niente a

che fare. Non che Harry' sia asessuato o chissà che, semplicemente non sono le ragazze che sceglierebbe. Si troverebbe una segretaria carina o roba del genere e uscirebbe con lei... una ragazza che lavora. Invece questo tizio non sa cosa vuole. C'è mai stato un momento nella pianificazione di questo film in

cui qualcuno ha detto: «E se decidessimo che è lui il killer?»

No, non ci ho mai pensato, ma nella prima sceneggiatura facevamo sicuramente molte più allusioni. [Richard] Tuggle l’ha scritta e poi ci ha ripensato. Mi piaceva il parallelismo tra lui e il killer e il fatto che non si capisse. A mio parere, più riuscivamo a spingere il pubblico a pensare che forse era davvero lui, più davamo loro una direzione. Gli

spettatori partecipano alla sua insicurezza e alla sua lotta, ma alla fine

si arriva a dire: Okay’, basta, adesso fai questo, arresta il tizio. Wes diventa determinato quanto lo è normalmente Harry'.

Anni fa, probabilmente dopo L’uomo dalla cravatta di cuoio, Don Siegei ha detto che non aveva mal incontrato qualcuno così ossessionato dall’idea di interpretare un antieroe. È ancora così?

Credo di sì. In Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, dopo aver sparato al tizio, gli estorco una confessione sotto tortura (e questa è stata una mia idea); secondo Don, molti attori troppo consapevoli di voler preservare una certa immagine avrebbero avuto

paura di farlo. Ma per me si trattava dell’immediatezza del personaggio. A quel punto non mi interessano le sue motivazioni.

E se c’è un segreto per il mio successo, anche se non mi sono mai

messo lì ad analizzare la questione, credo sia che il pubblico mi segue. Gli spettatori si protendono sulle poltrone in base a quello che fai e

all’intensità con cui lo fai, oppure, se capiscono che ti stai protendendo tu verso di loro, che stai quasi guardando in macchina, si appoggiano allo schienale. Ho sempre pensato che fossero come

davanti a una finestra. Non è che voglio che mia zia di Des Moines mi creda un sadico. Credo sia abbastanza intelligente da sapere che sono solo un attore che interpreta un ruolo. Se gli spettatori non sono così

brillanti, se pensano che sia davvero io, allora ovviamente c’è qualcosa che non va in loro.

Pare che lei tenga meno all'affetto del pubblico rispetto alla maggior parte degli attori. Sì. È questo che colpiva Don.

Vuole che la disprezzino?

Non voglio che disprezzino me nel complesso, ma un certo aspetto del personaggio. In Corda tesa magari Clint Eastwood non farebbe

alcune delle cose che fa il suo personaggio. Io sono solo un attore che interpreta un ruolo.

Sullo schermo dà l'impressione di essere molto più sicuro di sé

degli altri attori. È così che mi sento. Non recito pensando: «Cosa penseranno quelli dietro la macchina da presa, o quelli al cinema?» Penso invece: «Cose devo fare qui? Non sono abbastanza sveglio da essere cosciente di tutte queste cose insieme. Non ho una concentrazione così

diversificata. Devo fare quello che il ruolo mi impone.

Se cinque o sei suoifilm andassero male uno dopo l’altro e

nessuno volesse più fare un film con Clint Eastwood, sarebbe un problema per lei?

No, non lo sarebbe. E le darebbe fastidio non poter dirigere?

Mi darebbe fastidio non poter più lavorare. Ma credo... che il pubblico sia più intelligente di quanto si pensi, anche se non sempre

risponde come vorresti. Per esempio, nei due film in cui il mio personaggio è morto, La notte brava del soldato Jonathan e Honkytonk Man, la gente non si è mai veramente goduta la scena. E

anche se sapevo che in Honkytonk Man sarebbe stato molto, molto rischioso, perché la volta prima non era andata così bene... e alla fine

non è andata bene neanche in quello! Ma in certi paesi, certi

spettatori, per esempio in Francia, l’hanno accolto bene. Eppure

nessuno è corso a vederlo, mentre tutti sono corsi al cinema per Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! 0 uno qualsiasi degli altri film. E non so come andrà neanche per Corda tesa.

Mi è parso che circa un anno fa con Bronco Billy e Honkytonk Man

lei avesse cercato difare cose diverse, e a suo modo anche Firefox Volpe di fuoco era diverso: non aveva mai fatto un film con gli effetti

speciali. Quelle tre pellicole hanno segnato una fase di stallo al botteghino. Le hannofatto pressione perchéfacesse un altro film dell'ispettore Callaghan? È così che è andata con Coraggio... fatti

ammazzare? (Ridacchia) Beh... non proprio. Firefox — Volpe difuoco è andato

piuttosto bene. C'è stato una sorta di consenso sul fatto che Bronco Billy non sia stato un successo, ma è costato pochissimo e io adoravo

la storia e ho adorato girarlo. Credo che sia uno dei film migliori che abbia mai fatto. È uno dei più piacevoli da guardare. È andato

abbastanza bene, solo che non giocava nello stesso campionato di Filo

da torcere. Nel settore lei ha fama di essere molto attento ai costi, a volte persino taccagno. Ne è orgoglioso? Sì. Però non mi considero taccagno. Paghiamo piuttosto bene. È solo che cerchiamo di organizzare e girare i film nel minor tempo

possibile. Parliamo di un settore in cui si verificano tantissimi sprechi e si ripone troppa fiducia in gente che ha pochissima esperienza. Anche a livello manageriale, non sono in molti ad avere le conoscenze

del cinema delle generazioni passate. Una volta firmato l’accordo, danno tutto in mano a qualcuno che si occupa di film, che può avere esperienza oppure no.

Ma il budget dei suoifilm è straordinariamente basso. Immagino di sì, ma è dovuto alla pianificazione. Usiamo i professionisti migliori e tutti sono d’accordo sull’ottenere il massimo

dal budget. Se un film costa cinque milioni di dollari, spero che sullo

schermo sembri un film da dieci milioni. Se ne costa cinque e sullo schermo sembra un film da tre, allora per me è un fallimento. Ci sono tantissimi film che sono costati venti-trenta milioni ma per me hanno l’aspetto di pellicole da sei-sette milioni.

Fa anche parte del suo desiderio di non apparire

accondiscendente?

Non lo so. Forse deriva da un certo orgoglio nel far bene il proprio mestiere o dal rispetto per le persone che ci mettono i soldi, con cui voglio comportarmi correttamente. Uno studio come la Warner Bros, farà Honkytonk Man anche sapendo che Clint Eastwood non

prenderà a botte nessuno e non sparerà a destra e a manca. Hanno comunque fiducia che farò il miglior film che riesco a fare. Quindi cerco di mostrare loro un po’ di rispetto. È facile rimanere troppo

ancorati a uno schema, l’ho visto succedere, una volta che sei risucchiato nel film è troppo tardi. Jack Warner avrebbe detto: «Rimettiti in pari con la tabella di marcia».

Le è mai capitato, da attore o da regista, che le venisse in mente una scena completamente nuova che non c'era nella sceneggiatura? Oh, sì. Cambio i film man mano che li giro. Uso la sceneggiatura

come base. Spesso mando a tutti le pagine che modifico. Si ritiene un attore ragionevole da dirigere o si trova ad avere

idee che non riesce a tenersi per sé? Ho diretto così tanti dei film in cui ho recitato che non mi sono

mai trovato nella situazione che descrive. Ma mi capita di dare suggerimenti, e se l’altro non li apprezza, per me non fa alcuna differenza, sono appunto suggerimenti. Se lavoro con un regista e c’è qualcosa che va aggiunto alla sceneggiatura, cerco di chiarirlo ancora

prima di stringergli la mano per chiudere l’accordo, in modo che non

ci siano sorprese. Non voglio che uno si giri e mi dica: «Ora interpreta un travestito!» Mi capita di avere idee durante le riprese e la speranza è che si discuta sempre di tutto. Sul set di Per piacere... non salvarmi

piti la vita, Richard Benjamin sembrava apprezzare i contributi. Don

Siegei adora la partecipazione. Oggi cosa determina se lei dirigerà un film o lo interpreterà

soltanto? È solo una questione di atmosfera. In alcuni casi ho una visione vivida del film, vuoi perché mi piace molto la storia e voglio dirigerla vuoi perché ne ho già un’immagine chiara e non voglio dover lavorare

con qualcun altro e spiegargli tutto. Poi ci sono altre sceneggiature per cui mi capita di dire: «Beh, qualcun altro potrebbe avere un approccio

altrettanto buono». O magari c’è un problema di produzione. In Filo

da torcere e Fai come ti pare dovevo allenarmi e fare molta pratica e semplicemente non volevo fare anche il regista. Preferivo che qualcun altro facesse il capitano della nave, così io avrei potuto lavorare con gli

animali e fare tutto quello che dovevo fare.

Cos’è successo con Phil Kaufman nel Texano dagli occhi di

ghiaccio?

Beh, avevo... mi piaceva come scrittore. Ho comprato il libro io stesso, avevo investito personalmente nel progetto; quando gliel’ho

dato, a lui è piaciuto e io ho pensato che sarebbe stato interessante

averlo come regista. E lui ha dato un ottimo contributo

nell’adattamento del libro. Eravamo in perfetta sintonia durante tutta quella fase. Ma quando si è trattato di girare, lui aveva idee un po’ diverse sullo stile del film. E io ci avevo investito i miei fondi

personali, avevo preso questo libro da zero e sentivo che non volevo vederlo trasposto in quel modo. Quindi era puramente una questione di punti di vista. Nessuno lo scoprirà mai, ma per quel che ne

sappiamo, le sue idee potevano anche essere migliori. Semplicemente avevo una mia idea in mente, adoravo il progetto e non volevo che fosse fatto nel modo in cui lo vedeva lui. E lui non voleva farlo come lo volevo io. Non c’è stato nessun risentimento, nessuna mancanza di

rispetto nei suoi confronti, di nessun tipo. Può descrivere a parole il suo stile, il suo modo di raccontare una

storia e girare? Beh, non c’è uno stile particolare. La maggior parte dei miei film ha un’estetica diversa, a seconda delle sue specifiche necessità. È una

combinazione di ritmo e occhio per la composizione. Non posso

spiegare esattamente cos’è perché non c’è un vero e proprio stile nei miei film, uno stile individuale tipo quello dei film di Don Siegei. I miei variano. Brivido nella notte è molto diverso da Breezy, dal Texano dagli occhi di ghiaccio e da Bronco Billy.

Credo che ultimamente un sacco di gente abbia preso a dirigere i

film con lo stile con cui dirigerebbe gli spot. Sono sempre presenti, si mettono sempre in mezzo. Essere un attore ha un vantaggio: non devi sottolineare la tua presenza, perché è già evidente. Quindi io cerco di non usare trucchi da regista. Direi che due registi molto bravi sono Sidney Lumet e Martin Ritt, che non cercano mai di intromettersi. Cercano di rappresentare la storia, perché la regia è un’arte

interpretativa, al contrario della sceneggiatura, che è un’arte creativa.

Loro sì che sanno raccontare bene le storie.

La prima volta che ha visto ifilm di Sergio Leone ha provato un grosso shock? Oppure sapeva che sarebbero stati così stilizzati? Sì, credo di aver interpretato il mio personaggio in sintonia con lo

stile. Ho preso spunto da Sergio e lui ha preso spunto da me. Penso che abbiamo lavorato bene insieme. Mi piacciono le sue composizioni, ha un grande occhio. Non aveva molta esperienza come regista. Aveva

girato un solo film, Il colosso di Rodi, che non ha nulla del suo stile se lo guardi bene. Sergio mi piaceva, mi piaceva il suo senso dell’umorismo. Non posso parlare per lui, ma credo che fosse un

sentimento reciproco. Gli piaceva avere a che fare con il tipo di personaggio che stavo creando. Era stato scritto in modo piuttosto diverso, io l’ho reso più essenziale, cercando di spiegare il meno possibile. Nella sceneggiatura si spiegava moltissimo. La teoria che ho

esposto a Sergio era: «Non credo che si debba spiegare tutto. Lasciamo spazio all’immaginazione del pubblico». Ho cercato un po’

di spingerlo nella direzione dei film di serie A. E lui ci è andato sul

serio. Non che sia stato costretto, a lui quello stile piaceva. Credo che i produttori del film siano rimasti un po’ scioccati. Non capivano cosa stesse succedendo. Hanno detto: «Cristo, questo tizio

non fa niente, non dice niente, se ne sta lì con il sigaro e basta». Erano abituati ai film italiani, come Divorzio all’italiana, una pellicola molto

movimentata in cui succedono un sacco di cose. Ma Sergio in qualche modo è rimasto fedele al nuovo stile e l’ha perfezionato nell’arco dei

tre film.

Mi ha proposto altre pellicole dopo II buono, il brutto, il cattivo, ma io mi sono reso conto che cercava qualcosa di diverso nei film da quello che cercavo io. Volevo uno sviluppo maggiore del personaggio e

magari un film più ridotto, mentre lui cercava più panoramiche, in stile David Lean. Quindi le nostre strade si sono divise, ma in modo

amichevole.

Le ha mai chiesto se le interessava C’era una volta in America? Sì. Aveva cominciato a pensare a quel progetto mentre facevamo II

buono, il brutto, il cattivo. Gli era venuta l’idea di fare un gangster moine. Ha detto: «E se ci mettessimo dei gangster irlandesi? Tu potresti interpretare un gangster irlandese». Molto prima che

uscissero II padrino e tutte le pellicole di quel genere. Ma non ha mai

avviato il progetto, che è rimasto sempre lì in sospeso. E molte volte Sergio voleva semplicemente partire con un’idea. Ma negli anni della televisione avevo letto quella storia troppe volte, anche se in effetti ho accettato II buono, il brutto, il cattivo basandomi solo sul

trattamento. Però man mano che passava il tempo mi sembrava una cosa sempre meno saggia da fare, con lui o chiunque altro. Mi piace sapere la barzelletta per intero. Non voglio che mi si racconti una barzelletta senza la battuta finale. Mi piace sapere dove sto andando; e quindi

improvviso e faccio tutte le follie del caso, ma in testa voglio avere un’idea chiara di dove sto andando. Sergio mi ha proposto C’era una

volta il West e quello che poi è diventato Giù la testa, ma erano soltanto variazioni di quello che stavo già facendo. Non volevo più interpretare quel personaggio. Perciò ho fatto un film a budget ridottissimo, Impiccalo più in alto, che aveva un personaggio un po’ più sviluppato. E poi forse era anche ora di fare un film americano

perché, anche se quelle pellicole avevano avuto un grosso successo, il cinema per qualche motivo mi considerava ancora un attore da film

italiani. Ricordo che quelli della Paramount anni fa mi dissero che avevano pensato di scritturarmi, ma si erano sentiti dire: «È solo un

attore televisivo». Non avevo il marchio d’approvazione. C’erano tanti

altri attori a cui si riconosceva il diritto al successo più che a me. Lo stesso vale per la stampa. Non ero nel loro radar. Non sono mai stato

un loro beniamino. Oggi la gente passa da uno studio all’altro. Sono otto anni che lei

è il prodotto di maggior successo della Warner Bros. Loro vogliono tenerla a tutti i costi e lei sembra a suo agio qui. Ricorda un po’gli

anni Trenta. La situazione dell’epoca non mi sarebbe andata bene, almeno a livello di recitazione. Quegli attori avevano contratti che li costringevano a fare un sacco di film che non volevano fare. Non

potevi prenderti due anni di pausa e non avevi controllo su nulla. Il primo motivo per cui ho fondato la Malpaso è che vedevo un sacco di

inefficienza e ho pensato che potevo sbagliare così come tutti ma preferivo essere io la causa del mio fallimento.

Però le piace anche avere un teamfisso. Sì, mi piace lavorare con le stesse persone. Negli anni ho fatto molti film con altre persone e a volte richiamo attori che ho già usato

tre o quattro volte. Come per Bronco Billy: avevo già lavorato con tutti

gli attori che ci recitano. Ed è stato molto divertente. Anche dietro la macchina da presa ci sono molte persone che lavorano con me da tanto tempo. È molto rilassante sapere che certe persone sono

davvero brave nel loro lavoro. Mi piace molto quell’aspetto dei vecchi tempi. Tutti si muovevano a una buona velocità. I capi degli studios erano tosti e ostinati, ma conoscevano il cinema. Però allora non c’era

competizione. Tutti i film davano profitti, più o meno. Un attore di cinema oggi è soggetto a una competizione incredibile. Pensa che il pubblico la veda come un attore che interpreta ruoli

diversi o come una figura immaginaria di nome Clint Eastwood?

Credo che il pubblico capisca che interpreto ruoli diversi. Però in

quest’epoca di burocrazia, iuta complicata, tasse sul reddito e politicizzazione di qualunque cosa, si fantastica su un personaggio che sa fare certe cose da sé. Quella fantasia esisterà sempre, credo che

susciti una sorta di ammirazione. Magari certi gruppi cercheranno di

sopprimerla o vi si opporranno, ma quella fantasia rimarrà sempre. Ci crede anche lei? Sì, penso di sì. Mi piace l’individualismo. Credo di preferire le

persone individualiste.

Nel corso della storia, crede che le persone così trionferanno o

verranno sconfitte? Chi lo sa? Potrebbe diventare più di una fantasia man mano che soccombe alla civiltà e alle masse. Se un personaggio di 1984 di Orwell avesse insto un mio film, sarebbe morto per lo shock.

C’è chi obietta che lafigura immaginaria che lei rappresenta insegni alla gente che la forza e frasi come «-Coraggio... fatti ammazzare» siano un modo per affrontare la vita. Beh, penso che abbiano una certa attrattiva. Tutti vorrebbero

farlo, uscirsene con battute del genere. Ma è assurdo: chi è che ti si

avvicina e ti chiede quanti proiettili ha sparato e se ti conviene rischiare? Tutti vorrebbero essere così cool in qualche momento.

Quante volte qualcuno ti ha detto qualcosa di sagace e la risposta perfetta ti è venuta in mente mezz’ora dopo? «Avrei tanto voluto

rimetterlo al posto suo». Ma non lo fai, perciò lo fa la figura immaginaria. Lui sì che ha sempre la frase giusta da dire e compie

l’azione giusta al momento giusto. Certo, è una fantasia, e credo che la

gente ne abbia bisogno, ma allo stesso tempo mostra che c’è speranza per il singolo.

Non sono certo che tutti nel pubblico colgano quell’assurdità, e io

stesso credo di preferire i dubbi e la vulnerabilità di film come II texano dagli occhi di ghiaccio. Beh, quello è uno dei miei preferiti. Anch’io ho emozioni del genere, ovviamente, altrimenti non mi sarei mai messo a fare qualcosa come Corda tesa. Avrei potuto modificarlo, renderlo come

Harry Callaghan, un po’ più sicuro di sé, con qualche battuta tipo

«Coraggio... Fatti ammazzare» in più, e saremmo partiti. Ma sarebbe stato un film commerciale. A proposito di Honkytonk Man, qualcuno mi ha chiesto: «Perché non lo fa sopravvivere?» Ma

l’autodistruzione... quel ragazzo è così, non puoi cambiare tutto di colpo nell’ultima scena. Si spera che insegni qualcosa al ragazzo. Per Bronco Billy invece mi hanno suggerito di tornare indietro, andare dallo sceriffo (che l’aveva umiliato mentre lui cercava di aiutare l’amico) e in qualche modo stenderlo come in Superman II, in cui il protagonista manda il tizio al tappeto con un pugno nel finale. Ma

questo avrebbe sminuito la scena in cui Bilty sopporta l’umiliazione per liberare l’amico, e sarebbe stato impuro. Quanto alle frasi che diventano così importanti in alcuni dei suoi film, come «Coraggio... Fatti ammazzare», le inventa lei? Quella frase specifica l'ha ideata lo sceneggiatore, Joe Stinson.

L’unica cosa che ho fatto io è stata riprenderla nel finale, ecco il mio contributo. La vedevo come un bonus, quindi ho deciso di inserirla lì, in modo molto simile a quello che avevamo fatto con Ispettore

Callaghan: il caso Scorpio è tuo e «Avrà sparato tutti e sei i colpi o soltanto cinque? Per dirti la verità, non lo so neanch’io, in tutta questa baraonda. Però questa è una pistola eccezionalmente potente e precisa...» Così ho pensato, usiamola nell’ultimissima scena,

chiudiamo con quella. Perché ovviamente sarà qualcosa di speciale. E

ho detto a Don [Siegei] che all’inizio potevo pronunciarla in modo più sciolto, con un tono umoristico, per avere una certa ironia, mentre alla fine potevo pronunciarla con un atteggiamento completamente

diverso. Con una specie di massima prontezza. Ma la frase era stata scritta originariamente da Harry Julian Fink, nella sceneggiatura.

Quando ho letto il copione, mi è balzata subito agli occhi e ho pensato:

«Oh, sì, sarà piuttosto insolita». Si percepisce la differenza di queste battute. «Smith, Wesson e me» l’ho inventata io. «Con chi? Con voi tre?» «Con Smith, Wesson e me».

Perché si è spostato così tanto durante l’infanzia? Beh, erano gli anni Trenta, era dura trovare un lavoro. I miei genitori, mia sorella e io dovevamo spostarci per trovarne uno. Mi

ricordo che ci siamo trasferiti da Sacramento a Pacific Palisades solo per un posto da benzinaio. Era l’unico lavoro disponibile. Tutti vivevano nelle roulotte, quelle con una sola ruota che si attaccavano alle macchine, e noi abitavamo in una vecchia casa vera in mezzo alla campagna. La gente viveva anche nei pollai. Ed era un bene, potevi

scoprire un certo lato della vita che adesso non vedi a meno che tu non sia... Adesso ci sono molte più opportunità. Mio padre era uno

che lavorava sodo, era cresciuto secondo il motto «Nessuno ti regala niente». Ottieni ciò per cui ti impegni e lavori per ciò che vuoi ottenere. Un’etica vecchio stampo, ereditata dalla famiglia.

Alla fine la sua famiglia ha trovato una sistemazione stabile? Beh, ci spostavamo molto, ma eravamo molto uniti. Poi per buona

parte del tempo in cui ho frequentato le superiori, entrambi i miei genitori hanno lavorato. Siamo tornati a Oakland. Mia madre lavorava

alla IBM. Avremmo dovuto comprare delle azioni all’epoca! Mio padre invece lavorava alla Bethlehem Steel, partivano con due macchine, una Chevrolet del ’31 e una del ’32, e riuscivano a sbarcare il lunario

così. Abitavamo in una zona abbastanza rispettabile di Oakland. Erano gli anni Quaranta, gli anni della guerra, e c’era molto più lavoro. La stazione di benzina esiste ancora, all’angolo tra la Highway

101 e Sunset Boulevard. Ha un tetto in stile spagnolo. Ho ancora delle foto di mio padre che ci lavora.

Lo ammirava molto? Sì, decisamente. Quando mi guardo indietro, da adulto, rivedo le

difficoltà che lui e mia madre hanno dovuto affrontare: si sono davvero fatti in quattro per noi. Ha conosciuto la vera povertà.

Non era come quella in cui si trovano tante persone. Non voglio farla suonare come quella di chi ha subito le tempeste di sabbia. Ci sono persone in quella situazione ancora oggi, speriamo che se ne tirino fuori. Mio padre se ne sarebbe tirato fuori comunque, prima o

poi, perché era quel genere di persona. Alla fine ne sarebbe uscito vincitore. E verso la fine degli anni Quaranta è stato assunto da un’azienda, ha fatto carriera ed è diventato molto rispettato. Suonava

un po’ di chitarra e cantava, aveva una piccola band. E gli piacevano le

tecniche teatrali. Quando ho fatto Gli uomini della prateria, mi ha detto: «È bello che tu abbia messo da parte qualche soldo già da giovane».

(Intervista pubblicata su Film Comment, voi. 20, n. 5, settembre-

ottobre 19S4, pp. 64-73. Ripubblicata con il permesso dell’autore.)

7. Costi tecnici. [n.d.t.J

«CHE IO ABBIA SUCCESSO O NO VOGLIO CHE LA RESPONSABILITÀ SIA SOLTANTO MIA» : DA

BRIVIDO NELLA NOTTE A HONKYTONKMAN DI MICHAEL HENRYWILSON (1984)

Cosa pensa di aver imparato dai cineasti con cui ha collaborato prima di diventare regista? Ho imparato molto, ma non sarei in grado di distinguere il contributo di ciascuno di loro. I film di Don Siegei, così come quelli di

Sergio Leone, erano veri e propri modelli di risparmio. Non

superavano mai il budget previsto. Sono stati la mia scuola. Ho fatto pochissimi film senza tenere conto delle spese, e anche quando è successo, è stata comunque una lezione utile perché ho imparato cosa non dovevo fare. Ognuno dei registi con cui ho lavorato mi ha

insegnato qualcosa di nuovo, o quantomeno mi aiutato a definire me stesso. Quando era diretto da altri, era cosciente del lavoro di

produzione intorno a lei?

Non credo di esserne stato cosciente, ma immagino che il mio subconscio abbia assimilato tutto. Ricordo che fin dai tempi degli Uomini della prateria volevo cimentarmi con la regia. Il mio

contratto con la CBS prevedeva anche che dirigessi diversi episodi della serie. Ma dopo aver avuto dei problemi per altre serie in cui gli

attori-registi avevano superato il budget, la CBS cambiò politica da un giorno all’altro. Non mi sena a nulla lamentarmi, all’epoca non avevo scelta. Non rispettarono mai il contratto. Feci qualche trailer e qualcosina qua e là, ed ero furioso, ma mi convinsi ad aspettare una

chance migliore. Se è d’accordo, torniamo ai suoi primi passi nella produzione dei film. In che circostanze ha fondato la Malpaso alla fine degli anni

Sessanta? Ero appena tornato dall’Italia, dove avevo girato II buono, il

brutto, il cattivo. Il mio agente spingeva perché facessi L’oro di Mackenna, un grosso western spettacolare, ma non era il genere di cose che cercavo. Volevo qualcosa di più maturo, che mi mettesse più alla prova. È stato allora che è arrivato Impiccalo più in alto, un progetto molto più modesto. Mi piaceva l’idea di soppesare i pro e i contro della pena di morte nel contesto di un western. Mi ha spinto a fondare una mia casa cinematografica per partecipare alla produzione di quel piccolo film.

Stava già pensando di dirigere film? Si può dire che la fondazione

della Malpaso fosse un passo verso il dirigere se stesso?

Non proprio... o forse in modo subconscio. Dopo Impiccalo più in alto ho recitato in diversi film senza essere coinvolto attivamente nella produzione. Poi mi sono trovato a fare il mio esordio registico dirigendo la seconda unità in un film di Don Siegei, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Don si era preso l’influenza e io l’ho sostituito per la sequenza in cui Harry cerca di convincere l’aspirante suicida a non buttarsi dal tetto. Ha funzionato bene, perché, a causa della mancanza di spazio sul cornicione della finestra, l’unico posto

dove potevo appendermi era la gru. Ho girato quella scena, poi

un’altra, e ho cominciato a pensare più seriamente alla regia. Un’amica, Jo Heims, aveva scritto una sceneggiatura che mi piaceva molto. Brivido nella notte. L’avevo anche opzionata. Mi avevano

appena offerto Dove osano le aquile quando lei mi ha chiamato per

chiedermi un consiglio. La Universa! le aveva offerto di acquisire la sceneggiatura, ma lei aveva degli scrupoli a rapportarsi con loro,

anche se io non ero in grado di rinnovare l’opzione. Ovviamente l’ho incoraggiata a vendere la sceneggiatura. È stato solo qualche anno dopo, quando ho avuto un contratto con la Universal per tre film, che ho potuto dire: «A proposito, in archivio avete un progetto che mi piacerebbe fare. Vorrei anche dirigerlo». Me l’hanno approvato

perché non era una produzione molto costosa.

Perché ha scelto questo progetto in particolare per il suo primo film?

Per via della storia. Avevo vissuto un’esperienza simile, anche se meno drammatica. Mi era familiare anche il personaggio interpretato

da Jessica Walter, per eui Jo Heims si era ispirata a una sua conoscente. È una persona che si inventa una storia d’amore. Per il mio personaggio, il dj, è solo una storia di una notte, ma per lei è una passione logorante. Questo equivoco mi interessava molto: com’è

esattamente che ci si ritrova coinvolti in una storia d’amore? Fino a

che punto siamo responsabili dei rapporti che creiamo? I responsabili della Universal con cui ha parlato non sono rimasti

sorpresi che avesse scelto una storia in cui il personaggio dominante è una donna? Sì, certo. Continuavano a chiedermi: «Perché ci tieni tanto a fare un film in cui una donna ha il ruolo migliore?» La loro seconda argomentazione era che non sarebbe stato credibile: «Come può un

omone forte come te essere minacciato fisicamente da una donna giovane e fragile?» Per me invece era il contrario: la dimensione

ossessiva della relazione avrebbe solo reso più interessanti le

dinamiche tra i due e avrebbe funzionato ancora meglio. E poi è un tipo di comportamento che si osserva in entrambi i sessi. Ho

conosciuto uomini possessiva quanto le donne quando si trattava dell’oggetto della loro passione.

La storia era ambientata dall’inizio a Carmel e a Monterey? 0 è

stato il suo legame con quella zona a dettare la scelta delle location? La sceneggiatura era ambientata a Los Angeles, ma un mio amico aveva alcuni tratti in comune con il mio personaggio e faceva il dj in una stazione radio di Carmel. E in un paesino come Carmel è molto più facile che un dj diventi una celebrità piuttosto che a Los Angeles. E poi quella zona è spettacolare, e io ci vivo e la conosco bene.

Per questa prima esperienza ha avuto problemi tecnici? No, nessuno, a parte la sfida di dirigere me stesso mentre

controllavo l’intera produzione. H più nervoso era Don Siegei. Gli

avevo assegnato il ruolo del barista e lui continuava a dire: «Hai fatto un grosso errore, dovevi chiamare un vero caratterista. Non sarò mai all’altezza». E io rispondevo: «Don, sarai sensazionale. E poi capirai

meglio cosa devono affrontare gli attori. E se qualcosa va storto, avrò a disposizione un regista pronto a tirarmi fuori dai guai». In realtà, quella sera, dopo il primo giorno di riprese. Don mi ha confessato che aveva il terrore del palcoscenico e non sarebbe stato assolutamente in

grado di aiutarmi!

Come si è preparato per il suo esordio registico? Ha disegnato degli storyboard prima di girare? No, Firefox — Volpe difuoco [1982] è l’unico film per cui ho usato degli storyboard. Gli ultimi quindici minuti richiedevano degli effetti

speciali e quindi ho fatto una serie di schizzi, che poi ho dato a un progettista professionista perché li rifinisse. Visivamente alcune delle sue scene d’azione richiedono una

coreografia complessa. Neanche in quei casi disegna prima le inquadrature? Odio essere prigioniero di uno schema. Le idee migliori mi vengono quando la cinepresa è posizionata e pronta a girare. È in quel

momento che sono più carico. Ovviamente ho un’idea generale della sequenza, ma cerco di rimanere più flessibile che posso, tento sempre di lasciare agli attori il margine necessario per modificare i loro

movimenti, se hanno un motivo valido. Per le riprese in esterna tengo sempre in considerazione il modo in cui cambia la luce durante il

giorno, perché potrebbe richiedere un cambio di posizione della cinepresa. A livello visivo e tematico, Lo straniero senza nome evoca i western di Sergio Leone, ma sospetto che lei volesse spingersi ancora

oltre in termini di eccessi e crudeltà. Nei film di Leone la storia era più frammentata. Erano una serie di

vignette vagamente collegate. Nello Straniero senza nome tutti gli elementi si sovrappongono, anche se ci sono diverse sottotrame. Tutto è collegato al linciaggio che perseguita il protagonista. E c’è una prospettiva morale che appariva soltanto occasionalmente nei film di

Leone. Penso alla scena di Per un pugno di dollari in cui l’eroe aiuta la famiglia a scappare e paga quel raro momento di compassione con

un pestaggio... dopodiché deve tornare in città a vendicarsi. Lo straniero senza nome è un’allegoria barocca che infrange tutte le regole dei western classici.

Ho deciso di farlo basandomi su un trattamento di appena nove pagine. È l’unica volta che mi è capitato. Il punto di partenza era:

«Cosa sarebbe successo se lo sceriffo di Mezzogiorno di fuoco fosse stato ucciso? Cosa sarebbe successo dopo?» Nel trattamento di Ernest Tidyman, il fratello tornava a vendicare lo sceriffo e gli abitanti erano

detestabili ed egoisti come in Mezzogiorno difuoco. Ma io alla fine ho scelto un approccio un po’ diverso: non si scopre mai se il fratello in

questione è un essere diabolico o una sorta di arcangelo. Sta al pubblico trarre le proprie conclusioni. Tidyman ha scritto la

sceneggiatura da questa prospettiva, ma mancavano diversi elementi, così io l’ho riscritta con l’aiuto di Dean Riesner, che aveva collaborato diverse volte con Siegei.

Le piacciono i personaggi che fanno parte del sistema, o almeno sembrano fame parte, ma non ne seguono le regole e alla fine ne

rivelano la corruzione. Lo Straniero senza nome esercita il suo

potere in modo sovversivo, come un Caligola del West. Sono cosciente dell’attrazione che esercitano su di me questi

personaggi. Perché? Forse perché ho sempre odiato la corruzione del sistema, in qualsiasi forma. In questo senso, Lo straniero senza nome si spinge oltre rispetto a Mezzogiorno di fuoco. Quando l’eroe aiuta i

cittadini a organizzarsi, loro credono di poterlo controllare e

manipolare. Appena lui se ne va, ricadono nei loro errori. Il loro fallimento è evidente, la loro crudeltà è senza speranza. Alla fine non imparano niente, ma restano traumatizzati per sempre. Nel Cavaliere

pallido, il western che ho appena finito, la situazione è simile, ma stavolta l’eroe è davvero un arcangelo. Aiuta la piccola comunità di

minatori a organizzarsi contro il consorzio dei proprietari; dà loro il coraggio di resistere e difendere i propri diritti.

Sente delle affinità con un regista come Kurosawa? Mi piacciono molto i suoi film, specialmente quelli del primo

periodo, dai Sette samurai a Barbarossa. E stato La sfida del samurai, come sa, a spingermi a fare Per un pugno di dollari.

Lo schema cromatico dello Straniero senza nome ha una connotazione infernale, tonalità di sangue, fuoco e terra bruciata. Dipende in parte dal luogo dove l’abbiamo girato, sul lago Mono in

California. Nella sceneggiatura il paese si trovava in mezzo al deserto, come nella maggior parte dei western, ma questa convenzione mi

dava fastidio perché, persino nel West, una cittadina non poteva

svilupparsi in assenza di acqua. Ho scoperto il lago Mono per caso, girando in macchina da quelle parti, e sono rimasto subito colpito dalla stranezza del posto. Il tasso di salinità è così alto che nessuna

imbarcazione può solcarne le acque. Ho camminato in quella zona per due ore. Niente barche, niente esseri viventi, solo i rumori naturali del deserto. Dal paese più vicino ho chiamato subito il mio direttore artistico [Henry Bumstead] e l’ho fatto salire sul primo aereo. Quando

è arrivato, ha esclamato: «Sembra di essere sulla luna!» E io ho risposto: «È un posto strano, ma è esattamente così che voglio che sia questa storia». Lafotografia di Bruce Surtees era estremamente elaborata,

soprattutto il chiaroscuro per le scene notturne. Com’è diventato uno dei suoi collaboratorifidati? Aveva lavorato come operatore della cinepresa a diversi film di Siegei, in particolare all’Ubmo dalla cravatta di cuoio. Mentre giravamo Gli avvoltoi hanno fame in Messico, Don l’ha chiamato

perché aveva problemi di comunicazione con Gabriel Figueroa [il

direttore della fotografia]. La specialità di Figueroa sono le luci, quella di Bruce la composizione. L’aiuto di Brace si è rivelato preziosissimo. Quindi una sera io e Don abbiamo deciso che l’avremmo promosso a direttore della fotografia appena si fosse presentata l’occasione.

Durante quale fase della preparazione discute lo stile della fotografia? In generale cerco di dare la sceneggiatura a Brace solo quando è

finita. Poi gli spiego cosa voglio. Per esempio, le luci e i colori

dell’autunno sono stati fattori determinanti nel Texano dagli occhi di ghiaccio e poi anche nel Cavaliere pallido. Ho una predilezione per gli esterni, mi ci sento molto più a mio agio che in studio. Non c’è niente come l’atmosfera di una location reale per ispirare te e la troupe. È lì che prendiamo la maggior parte delle decisioni.

Con Breezy probabilmente ha sorpreso molti dei suoifan. Non poteva ideare un film più lontano dal tipo di pellicole con cui il grande pubblico la identifica. È stato un progetto diffìcile da far

passare? No, non particolarmente. È stato un film molto economico, girato in location [a Los Angeles]. Mi piaceva molto la sceneggiatura di Jo

Heims, credo che fosse alla sua seconda. Parlava della rigenerazione

di un cinico, un uomo avanti con gli anni, divorziato, che ha successo nel lavoro ma non ha più una vita emotiva. Ringiovanisce grazie all’aiuto di una teenager che alla fine si rivela molto meno ingenua di quanto sembrava.

Pare che lei provi una particolare simpatia per i suoi personaggi che imparano qualcosa durante le loro avventure. Il pubblico segue una storia adottando il punto di vista di uno dei protagonisti, che si tratti di un adulto o di un bambino. E se questo

protagonista impara qualcosa, ci si identifica di più con lui se si ha l’impressione di maturare insieme a lui. In Breezy volevo dimostrare

che anche un borghese affermato ha qualcosa da imparare da qualcuno che non ha niente. Questa ragazza non ha molto in generale, ma in realtà ha tantissimo. Vede e sente quello che lui ha smesso di

vedere e sentire, tutte le cose della vita che lui non si prende il tempo di godersi. È una favola molto semplice, sempre valida. A tutti noi

capita di andare avanti senza guardare, perdendoci i colori del prisma.

In Assassinio sull’Eiger, l’amicizia è più forte della corruzione del sistema, anzi, è l’unico valore che resiste in un mondo di intrighi e

complotti machiavellici. Il suo personaggio e quello di George Kennedy alla fine si riconciliano, mandando all’aria i piani dell’Agenzia. Nel Texano dagli occhi di ghiaccio, l’amicizia che la lega

a John Vernon sembra essere più forte delfemore politico, nonostante tutto. Sì, l’amicizia è un valore importante, soprattutto quella senza

secondi fini. In Assassinio sull’Eiger è compromessa dalla pressione dell’Agenzia, mentre nel Texano dagli occhi di ghiaccio soccombe alle

psicosi della guerra. Josey Wales è un uomo perseguitato dai fantasmi del passato, che non lo lasciano andare neanche quando pensa di stare iniziando una nuova vita. Neppure il soldato ferito e le donne

nella Notte brava del soldato Jonathan, relegati ai margini della guerra, riescono a sfuggire a questa corruzione dei sentimenti.

Potrebbe essere che la stranezza di Assassinio sull’Eiger sia il risultato dell’insolita struttura della trama, che si sviluppa in tre fasi

quasi indipendenti lima dall'altra? Di fatto sono tre storie in una, è stato un film molto difficile da realizzare. È stato un bene che avessimo un numero limitato di gadget

o avremmo rischiato di virare verso i film di James Bond. E in particolare le sequenze di alpinismo ci hanno dato enormi problemi. Abbiamo dovuto girare con due team: una troupe di tecnici e una di

esperti di arrampicata. Ogni mattina, in base al bollettino meteo, dovevamo decidere chi mandare sulla montagna. Io e i tre attori abbiamo dovuto seguire un addestramento intensivo. Il secondo

giorno delle riprese abbiamo perso uno dei nostri alpinisti, e mi creda,

mi sono chiesto mille volte se valesse la pena continuare.

In Assassinio sull’Eiger manda di nuovo in cortocircuito le convenzioni di genere attraverso il black humor.

Era un umorismo apertamente sardonico, ma credo che fosse coerente con la storia. Non avrei potuto pensare di gestirla diversamente. Per contro, questo tipo di umorismo è quasi assente in Firefox -

Volpe di fuoco. Probabilmente il film avrebbe tratto beneficio da un

po’più di ironia. Firefox -Volpe difuoco era più «canonico», più tradizionale. Non parlava di cattivi con gli occhi rosa, ma di personaggi normali con una

missione impossibile. Per via del suo naturalismo, Firefox — Volpe di fuoco è

ugualmente in contrasto con Assassinio sull’Eiger, che ha i toni barocchi e stravaganti dello Straniero senza nome e del Texano dagli

occhi di ghiaccio. Probabilmente mi trovo in mezzo ai due stili. Non credo che mi si

possa etichettare o incasellare nell’uno o nell’altro. I miei film hanno tutti un «aspetto» diverso. Dipende dalla storia, dalla struttura, dai legami che si creano tra i protagonisti e probabilmente anche da ciò

che penso dell’argomento. Quando Josey Wales dice: «Siamo morti un po’ tutti in quella maledetta guerra», non si può non pensare al Vietnam. Lo si può interpretare così, ma non è un sentimento valido

soltanto per le guerre odierne. Nel caso della guerra civile, dev’esserci stato qualcosa di particolarmente traumatico in quel senso. Americani

che combattevano contro altri americani. Un popolo solo, ma diviso a metà. E in base allo Stato o alla contea di residenza, venivi arruolato da una parte 0 dall’altra. Èia stessa assurdità che si verifica oggi

nell’Irlanda del Nord, dove una comunità si sta distruggendo da sola in nome di Dio e della religione.

Ha sostituito Phil Kaufman alla regia dopo pochi giorni. Cos’è

successo? Ero stato io ad assumerlo perché riscrivesse la sceneggiatura e dirigesse il film. Ha fatto un lavoro di scrittura eccellente, ma quando

si è trattato di girare, ci siamo accorti che avevamo punti di vista completamente diversi. Avevo investito fondi personali per acquisire i

diritti del libro, avevo dedicato un sacco di tempo allo sviluppo del progetto e mi ero fatto un’idea precisa di come doveva essere il film. L’approccio di Phil era probabilmente valido, forse anche migliore,

ma non era il mio, e mi sarei infuriato con me stesso se il risultato non fosse coinciso con quello che speravo.

Josey Wales, così come l‘«arcangelo» dello Straniero senza nome, prova simpatia solo per i gli emarginati, gli svantaggiati, i

diseredati... L’ironia è che Josey Wales eredita una famiglia. Dopo essere fuggito da tutto ciò a cui era legato, perché tutto quello che amava era stato distrutto, si ritrova a raccattare questi emarginati lungo il

percorso; l’indiano, la nonna e la nipote, alcuni messicani, persino un

cane randagio. E ben presto questo gruppo eterogeneo diventa una sorta di comunità.

Nell’Uomo nel mirino la relazione si crea in un modo ancora più

inaspettato. Il poliziotto scopre la solidarietà umana grazie alla sua prigioniera, che fra l’altro è una prostituta. È stato lo stesso carattere improbabile della storia d’amore ad attirarla? Quello, ma anche il contrasto con la serie dell’ispettore Callaghan.

Harry Callaghan aveva sempre il controllo della situazione ed era perennemente in conflitto con il sistema burocratico. Il poliziotto

dell’Uòmo nel mirino è uno che segue semplicemente la routine, non è particolarmente brillante, è facile da manipolare. Dalla vita si aspetta soltanto cose semplici: fare bene il suo lavoro, trovare una moglie, sistemarsi. E quando confessa i suoi desideri, si trova a farlo a

una donna che normalmente avrebbe trattato come una puttana, ma che è molto più intelligente di lui. E lei che gli apre gli occhi, perché lui è troppo irreggimentato per capire cosa sta succedendo. Non riesce

a credere che i suoi superiori possano ingannarlo deliberatamente. Nell’Uomo nel mirino, che è un film noir, ha rielaborato il tema del tradimento che era già fondamentale nello Straniero senza nome,

in Assassinio sull’Eiger e nel Texano dagli occhi di ghiaccio. Il tradimento è dappertutto, no? Ed è universale. Da Giuda in poi,

non è stato uno dei grandi temi della letteratura e di buona parte del

teatro? Ha rifiutato la parte poi interpretata da Martin Sheen in

Apocalypse Now, un film che esplorava quel tema in modo molto provocatorio. Perché? Principalmente perché non volevo passare mesi e mesi in quelle

location. Mi piacevano il personaggio e tutti gli aspetti del libro di Conrad, Cuore di tenebra. C’erano delle scene d’azione incredibili. Ma non ero sicuro che giustificassero la mia permanenza nella giungla

delle Filippine per due anni di riprese. Nessun film la

giustificherebbe. Dovrebbe avere la sceneggiatura più bella mai scritta, basata sul libro più bello di sempre, e lo stesso... Non mi

piacciono le riprese che durano a lungo. Mi piace lavorare sodo e in

fretta, anche venti ore al giorno, se serve, ma per sei settimane, piuttosto che per sei mesi. È la scarica di adrenalina che ti permette di dare il meglio di te stesso. Altrimenti ti spremi le meningi, ti addormenti e ci sono grosse probabilità che il pubblico faccia lo stesso al cinema. Si può interpretare Bronco Billy come un’analisi delle sue attività

e responsabilità come regista?

Mi sono divertito molto a farlo. Quando Dennis Hackin mi ha mandato la sceneggiatura, credevo che fosse su Bronco Billy Anderson, la star dei film muti. L’ho letta tutta d’un fiato e ho pensato

subito che fosse il genere di film che farebbe Capra oggi se girasse

ancora.

C’è di nuovo la microsocietà di cui parlavamo prima... Sì, ma in una versione contemporanea. Certo, si potrebbe anche

dire che quegli emarginati in un certo senso appartengono a un’altra era. Oggi non ci sono molte persone interessate a uno spettacolo come il Wild West Show.

Bronco Billy permette agli altri membri della compagnia di interpretare il ruolo che vogliono in un mondo di illusioni, di esprimere la loro verità diventando ciò che scelgono di diventare. Il

tendone del circo è una sorta di metafora della realizzazione di un film... 0 magari persino della Malpaso Productions? Non l'avevo mai visto da questa prospettiva, ma forse ha ragione: in fondo non è così diverso dal cinema! Io sono in costante movimento, non posso analizzare quello che faccio in modo così

consapevole e obiettivo come può farlo un osservatore esterno al progetto. Lei supervisiona attentamente il casting. Dice spesso che è il momento chiave della sua preparazione.

Se la sceneggiatura è buona e il casting è giusto, non devi fare altro

che mantenere la rotta. Viceversa, se è il casting è sbagliato, non hai nessuna chance di raggiungere il tuo obiettivo. Non voglio dire che c’è

un solo modo di assegnare un ruolo, ma ho troppo rispetto per gli attori, sono troppo sensibile alla dimensione particolare che possono

donare al proprio ruolo per non controllare personalmente il casting dall’inizio alla fine.

Bronco Billy dà l’impressione di essere un film sulla famiglia e

sugli amici. Sta magnificando un certo stile di vita. Quasi tutti gli attori avevano già lavorato con me varie volte. Formavano un gruppo molto omogeneo. L’aver avuto esperienze condivise era perfettamente in linea con la storia. Il rapporto tra i

personaggi e Bronco Billy non era molto diverso da quello che gli attori avevano con me, e credo che questo sia stato d’aiuto al film. Per

contro, in Fuga da Alcatraz abbiamo adottato l’approccio opposto: abbiamo assunto solo persone con cui non avevamo mai lavorato. Per

certi film mi circondo della mia famiglia, per altri cerco facce nuove.

In Bronco Billy, così come in Honkytonk Man, ci offre delle

splendide scene di vita di provincia, ma ilfilm è spesso ambivalente: questa America rurale è ben lontana da una dimensione idilliaca; anch’essa è profondamente segnata dalla corruzione. Pensiamo per

esempio all’episodio del crudele sceriffo di Bronco Billy. Mentre giravamo quella sequenza, qualcuno ha suggerito: «Perché non aggiungiamo una scena in cui Billy torna in città e si vendica dello

sceriffo?» Ho risposto: «Non possiamo. Sarebbe un altro film». Billy sopporta gli insulti dello sceriffo per far uscire di prigione il giovane membro della sua troupe. Questa umiliazione volontaria dice tutto sul

suo personaggio. Magari è anche il messaggio del film. Se si vendicasse, torneremmo a Hany Callaghan.

Quanto è coinvolto nella stesura della sceneggiatura definitiva dei suoifilm?

Una volta facevo spesso modifiche durante le stesse riprese.

Adesso cerco di farle prima, in modo da non perdere tempo ed essere perfettamente organizzato. Se lo sceneggiatore originale non è

disponibile, faccio io le modifiche. Ma perii cavaliere pallido, ad esempio, gli sceneggiatori [Dennis Shryack e Michael Butler] hanno voluto essere coinvolti fino alla fine e si sono occupati di tutte le modifiche che ho richiesto. Per Bronco Billy ho aggiunto alcune scene

io stesso, per esempio la rapina alla banca. Avevo assistito a un match di Muhammad Ali; dopo la sua rittoria, i giornalisti l’avevano bombardato di domande tipo: “Come ha fatto ad assestare quel gancio

sinistro fulmineo nell’ultimo round?” Ma lui ha detto soltanto; ‘Voglio solo salutare i miei amici, e ci tengo a ringraziare mio padre, mio zio, il reverendo tal dei tali, eccetera’’. Quell’episodio mi ha dato l’idea

della sequenza in cui Billy, tempestato di domande sulla rapina [che

ha sventato], pensa solo a promuovere il suo circo. E poi volevo

mostrare che anche questo antieroe era capace di compiere un’azione eroica.

Nella scelta dei progetti, ultimamente sembra seguire una regola

basata sull’alternanza di un progetto piccolo, intimo e personale che mette in discussione la sua immagine e una produzione più importante con un potenziale commerciale garantito. E quindi dopo Bronco Billy è passato a Firefox - Volpe di fuoco e dopo Honkytonk

Man a Coraggio... fatti ammazzare. loo' Forse è solo una coincidenza. Non credo che sia un processo cosciente. Anche se fossi stato certo che non avrebbero avuto successo, niente mi avrebbe impedito di girare Bronco Billy e

Honkytonk Man.

Cosa l’ha attratta di Firefox — Volpe di fuoco? Di tutti i suoifilm, è quello in cui la confusione di valori e ideologie è meno evidente. Mi piacevano la storia e la sceneggiatura. Iniziava come un classico film di spionaggio, ma poi offriva delle riflessioni puntuali sulla corsa agli armamenti e sullo squilibrio di potere causato dalle nuove

scoperte tecnologiche. Mi preoccupavano un po’ gli effetti speciali, ma per fortuna sono serviti soltanto nell’ultima parte del film. Il problema nello specifico era che gli effetti speciali si innestavano sullo

sfondo dell’atmosfera del nostro pianeta, e non in una galassia lontana nel futuro. Devo confessare che non vado pazzo per gli effetti

speciali. Preferisco mille volte dover gestire gli esseri umani e i loro problemi.

Si dice spesso che il film sia ispirato al clima da guerra fredda creatosi dopo che Reagan è diventato presidente. Era solo un'ipotesi: «Cosa succederebbe se...» Non credo che

abbiamo manipolato le paranoie del pubblico. Abbiamo solo fatto

notare che c'era una guerra fredda. E anche se non ci fosse stata, ci

sarebbe stato bisogno di un antagonista 0 di un certo tipo di conflitto. E per quanto riguarda i conflitti, anche se non si tratta di quello fra gli

Stati Uniti e l’URSS, ce ne sono a sufficienza in tutti gli angoli del pianeta. L’eroe non mette in discussione né la sua missione, né il sistema. Neanche quando scopre che i dissidenti russi devono sacrificare la loro vita per lui. È un professionista, e prima di andare laggiù non ha idea di cosa

implichi la sua missione per i dissidenti. Non sa niente dei retroscena

delle macchinazioni politiche. E quando arriva là, non c’è un solo momento in cui si senta a suo agio. A parte quando prende il comando del prototipo, perché finalmente è nel suo elemento. Lei suggerisce una possibile amicizia tra il pilota americano e la

sua controparte sovietica, un’amiciziafra tecnici contrapposta al famigerato gioco dei politici. È un po’ come II texano dagli occhi di ghiaccio: questi due uomini

sarebbero potuti essere amici in altre circostanze, se non fossero appartenuti a tipologie diverse di società.

In termini logistici, Firefox - Volpe di fuoco è stato complicato quanto Assassinio sull’Eiger?

Sì e no. Abbiamo dovuto trovare un luogo per rimpiazzare la città sovietica - alla fine abbiamo scelto Vienna. La base russa è stata allestita sulle alpi austriache. Le scene londinesi le abbiamo girate qui

e via dicendo. La sequenza in cui vado verso l’hangar è stata girata in Austria, ma il controcampo è stato girato qui, perché non siamo riusciti a trasportare quell’aggeggio da un continente all’altro. Honkytonk Man è l’unico dei suoifilm, a parte La notte brava del soldato Jonathan, in cui il suo personaggio alla fine muore. Ha avuto

problemi a proporre alla Warner Bros, un progetto così in contraddizione con la sua immagine tradizionale?

No, nessuno. Era un film piccolo e poco costoso, ma dopo La notte

brava del soldato Jonathan, sapevo esattamente quali rischi correvo. La storia mi piaceva e meritava di essere raccontata. Speravo che il

pubblico provasse abbastanza simpatia per il ragazzo da interessarsi al film. C’è una grossa fetta del mio pubblico che da me si aspetta

sempre imprese eroiche e che forse è rimasta delusa da Honkytonk

Man. Non posso fare tutti i miei film per uno specifico segmento della

società, né posso difendere sempre gli stessi valori. Un regista degno di questo nome non può fare sempre lo stesso film. Ho bisogno di nuove variazioni, 0 di temi completamente nuovi, altrimenti perdo

interesse, non è più una sfida. Se c’è un vantaggio nell’essere una

«star», o meglio, nel passare per una «star», è poter fare progetti che normalmente non vedrebbero mai la luce... film che nascono solo grazie al tuo interessamento, com’è stato per La notte brava del

soldato Jonathan, Bronco Billy e Honkytonk Man. D’altra parte, prendiamo per esempio Filo da torcere. Nessuno voleva saperne nulla. La sceneggiatura era stata rifiutata quarantasei volte! Alla fine

l’ho fatto io e il film ha incassato una fortuna. Quello che lo studio ha perso con un film, l’ha recuperato con un altro, e ria dicendo. Oggi, quando fai un film, deri davvero volerlo fare. Non puoi focalizzarti sul

botteghino. Non ci penso mai, e non l’ho mai fatto, neanche per i film che hanno avuto più successo. Non sono abbastanza arrogante da pensare che il pubblico corra a vedere un mio film. Ogni volta tocco

ferro fino all’ultimo... perché non si sa mai. Ilfulcro del suo pubblico probabilmente si sarebbe riconosciuto in

Honkytonk Man, ma quel genere di pubblico non va al cinema per ritrovarsi difronte ai suoi problemi quotidiani.

A meno che non si tratti di un caso puramente inventato, come in

Filo da torcere. Ma la storia di un musicista morente come quella di

Red Stovall in Honkytonk Man non è necessariamente una storia che vogliono vedere sullo schermo. Io però sì. Red Stovall si ispira a un cantante reale?

No, è un collage: un misto di Hank Williams, Red Foley, Bob Wills,

praticamente tutti i cantanti country’ che bevevano un sacco, si sono

bruciati la vita per strada e hanno finito per autodistruggersi. Com’è il suo rapporto con la musica country? L’ho scoperta a diciannove anni, quando facevo il taglialegna

nell’Oregon. All’epoca mi piaceva solo il jazz, in particolare quello della West Coast di Dave Brubeck e Geny Mulligan. Volevo

rimorchiare e sono finito nell’unico locale notturno della città. C’era un concerto di Bob Wills e della sua band. Dato che non conoscevo

nessuno e non sapevo come si ballasse quella musica, ho passato ore ad ascoltare la band, dimenticandomi di provare ad abbordare qualcuna! Da quel momento ho cominciato ad ascoltare regolarmente

le piccole stazioni radio country7 della zona. Per Honkytonk Man sì è ispirato alla sua infanzia negli anni della

Grande Depressione? Sì, sono cresciuto in quegli anni bui. Ho avuto qualche contatto

con famiglie come quella nelle mie peregrinazioni da una città all’altra

e sicuramente ho conosciuto personaggi come Red Stovall. Quello probabilmente mi ha aiutato a ricreare l’atmosfera. Ma come sa, è stato amore a prima insta tra me e il libro di Clancy7 Carlile, e anche se

l’abbiamo sfrondato un pochino, gli siamo rimasti molto fedeli. A partire da Bronco Billy e Honkytonk Man, sembra sempre più interessato ai legamifamiliari e all’interno delle comunità. L’eroe solitario arriva solo fino a un certo punto. Se gli dai dei

legami familiari, puoi attribuirgli una nuova dimensione. Costruisci dei conflitti che arricchiscono la storia. In Honkytonk Man ha una

famiglia, ma è condannato ad autodistruggersi. In Corda tesa sembra autodeg radarsi, trascinando la famiglia con sé. Nel Cavaliere pallido,

anche se non appartiene alla comunità, si avvicina inconsciamente a due dei suoi membri perché loro si legano a lui. È ilfatto di essere diventato il regista di se stesso che le ha permesso di modificare così la sua immagine? È vero. Mi ha permesso di ampliare il mio registro e controllare

meglio la mia carriera. Ricordo un film che ho girato in Jugoslavia, si intitolava I guerrieri. Era una curatissima sceneggiatura

antimilitarista; aveva cose importanti da dire sulla guerra, sulla

tendenza dell’uomo ad autodistruggersi. Durante il montaggio hanno deciso di eliminare le scene che esprimevano il dibattito in termini filosofici e hanno continuato ad aggiungere scene d’azione. Alla fine il film aveva perso la sua anima. Se azione e riflessione fossero state

bilanciate meglio, la pellicola avrebbe raggiunto un pubblico molto più ampio. Non so se lo studio avesse fatto pressione sul regista o se il regista stesso avesse perso l’idea originaria durante le riprese, ma so

che il film sarebbe stato molto migliore se non ci fosse stato questo tentativo di soddisfare gli appassionati di azione a ogni costo, e

sarebbe stato comunque ugualmente spettacolare e interessante. Non

è un caso che certi film d’azione funzionino e altri no. Quello che fa la differenza è la qualità della scrittura.

Honkytonk Man è un viaggio picaresco nelle terre dimenticate del Sud degli Stati Uniti. Erano zone a leifamiliari? No. ma ho aiuto molte occasioni di attraversare il paese in macchina, osservando le cittadine e mandando a mente quelle scene.

Per Bronco Billy ho attraversato l’Ontario, l’Oregon, lo stato di Washington e Tldaho. La prima sceneggiatura era ambientata in

Oklahoma, ma poi ho scelto la zona di Boise, nell’Idaho, perché lì si percepisce l’atmosfera da «Stati Uniti centrali» che cercavo. Per

Honkytonk Man ho preferito la California centrale alle pianure

dell’Oklahoma, dove non si vedevano più gli effetti delle tempeste di

sabbia degli anni Trenta. A volte la fotografia di Bruce Surtees evoca gli scatti di Walker

Evans. Durante le sue ricerche ha consultato foto e documenti dell’epoca? Certo, ho sfogliato pile su pile di libri sugli anni Trenta e sulla

Grande Depressione. Anche gli album di foto della mia famiglia sono stati fonte d’ispirazione. Purtroppo questo tipo di stile americano sembra stare svanendo

dallo schermo. Lei è uno dei pochi a restarefedele al genere. Vorrebbe portare avanti l’esplorazione del cuore degli Stati Uniti? Sì, vorrei tornarci di quando in quando. Anche regolarmente, se posso! Oggi l’unica cosa che interessa a Hollywood sono le avventure nello spazio, perché quelle vanno per la maggiore. Io invece mi affido

al mio istinto e faccio i film in cui credo. Se il pubblico mi segue, è

meraviglioso. Se non lo fa, c’est la vie. Si può descrivere Coraggio... fatti ammazzare come una

commedia dark? Certo. Ci sono molti elementi comici in tutta la serie dell’Zspetrore Callaghan, anche solo perché il cinismo del personaggio richiede un umorismo altrettanto cinico.

Alcuni critici americani l’hanno accusata di aver screditato il sistema giudiziario e inneggiato al vigilantismo e alfarsi giustizia

da sé. Non posso farci niente se alcuni non colgono il mio senso dell’umorismo. Uno dei miei ristoranti preferiti di Carmel si chiama Hog’s Breath Inn. Quando ho chiesto al proprietario perché avesse scelto un nome così brutto, lui mi ha risposto: «Vogliamo essere sicuri di avere solo clienti con il senso dell’umorismo». Qualche mese prima

della sua morte, ho pranzato con Hitchcock e poi abbiamo cominciato a filosofare sul cinema. All’improvviso lui ha esclamato: «Non dimenticarti che è solo un dannato film!» Aveva assolutamente ragione su quello. Nessun film potrà mai cambiare il mondo o renderlo più giusto, anche se contiene un messaggio importante.

L’ispettore Callaghan ha toccato un nervo scoperto perché il paese stava sprofondando nell’inefficienza burocratica. Ma il suo personaggio è totalmente inventato. Nella società odierna nessun poliziotto sarebbe in grado di attaccare il sistema mantenendo la

stessa intransigenza. Anche se alcuni di loro vorrebbero avere un potere del genere e aggirare la legge in caso di necessità,

semplicemente non possono farlo. Dopo tutto, Harry Callaghan non ha mai deciso volutamente di ignorare la legge; gli è successo solo quando il tempo stringeva o quando la situazione si faceva

particolarmente urgente. Per tornare alla sua domanda: non posso

preoccuparmi di problemi del genere. Faccio del mio meglio, posso solo sperare che il pubblico apprezzi il film e che i critici siano più

ricettivi nei confronti degli aspetti positivi che di quelli negativi.

È rimasto sgradevolmente sorpreso dalle accuse di razzismo rivolte a Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Quando ho assunto persone di colore, l’ho fatto per offrire loro un lavoro. Prima di girare la sequenza della rapina in Ispettore

Callaghan: il caso Scorpio è tuoi, una scena scritta per attori bianchi,

ho detto a Don Siegei: «Sono stufo divedere sempre le stesse

controfigure in questo tipo di ruolo. E se cercassimo delie facce nuove?» Si era appena formato un gruppo di stuntmen di colore e quindi ho suggerito quello. Il fatto che fossero tutti neri è soltanto logico: ci sono tante gang nere quante gang bianche 0 asiatiche. È

assurdo trarne la conclusione che solo i neri commettono crimini. Allo stesso modo, in Per piacere... non salvarmi più la vita abbiamo cambiato tutto il cast e adesso ci sono attori di colore che interpretano due terzi dei ruoli scritti per attori bianchi. Funziona benissimo per l’atmosfera reale di Kansas City, in cui negli anni Trenta regnava il

jazz. Dio solo sa che conclusioni ne trarranno certi critici!

Diversi dei suoifilm, in particolare Coraggio... fatti ammazzare, esprimono la frustrazione dell’America contemporanea e la rinascita del populismo.

Forse mi si può accusare di essere vecchio stampo, di sognare un’era in cui le cose erano più semplici, più oirie e più oneste. Il

potere della burocrazia continua a crescere mentre il pianeta si restringe e i problemi della società diventano sempre più complicati.

Ho paura che l’indipendenza individuale stia diventando un sogno obsoleto. I moduli, i lunghi iter amministratili, i comitati e i

sottocomitati ci sommergono. Siamo arrivati al punto in cui i nostri politici, per essere eletti, devono promettere di interferire solo in minima parte con la iuta dei cittadini. È la retorica dominante della recente campagna elettorale per le presidenziali. Quello che dice

Harry Callaghan sostanzialmente è: «Se devi compilare quindici copie

di ogni rapporto, il malvivente avrà tempo di commettere un altro

crimine prima che tu abbia finito. Arriva un momento in cui bisogna smettere di tergiversare». È una posizione estrema, ma è lì che torna

l’ironia, senza la quale il pubblico non ti seguirebbe. È una cosa che mi dice il mio istinto. Da parte mia, sono riuscito a restare abbastanza

indipendente, ma per arrivarci ho doluto lottare, e continuo a farlo ogni giorno. Nei suoifilm l'ironia è spesso legata a qualcosa di eccessivo, che

si tratti di una situazione improbabile o delle reazioni parossistiche dell’eroe. L’uomo nel mirino è un buon esempio. Avevo visto in televisione il terrificante conflitto a fuoco dopo il rapimento di Patty Hearst a opera dell’Esercito di Liberazione Simbionese. Una sparatoria tremenda nel bel mezzo della città. Le pallottole schizzavano ovunque e almeno tre

edifici hanno preso fuoco. Ho immaginato cosa sarebbe successo nel

centro di una città di media importanza come Las Vegas, dove la

polizia non ha nulla da fare se non arrestare ogni tanto qualche ubriaco. Se venisse annunciato all’improvviso che il Nemico Pubblico

Numero Uno ha preso in ostaggio un autobus e un agente, tutti i poliziotti della città vorrebbero partecipare all’azione. È molto probabile che le loro reazioni sarebbero eccessive. La vita offre ogni giorno esempi degli eccessi bizzarri da lei citati. La realtà a volte

diventa surreale. E comunque per un regista gli eccessi sono ottimi

materiali drammatici. Al pubblico interessa lo straordinario, no? Corda tesa si basa sul transfert di colpa, un tema caro a Hitchcock. È stato questo ad attrarla della sceneggiatura di Richard

Tuggle? Quello che mi ha colpito è stato il poliziotto abbandonato dalla moglie che ha ottenuto I’affidamento dei bambini ed è attratto da

Genevieve Bujold, ma non vuole iniziare una relazione con lei perché ha già abbastanza problemi. Può essere più efficiente dell’eroe dell’ Uomo nel mirino, ma non è il tipo di uomo che attacca apertamente il sistema come Harry’ Callaghan. Vuole solo fare bene il

suo lavoro. Ma man mano che i criniini si sommano e si fanno sempre più vicini a lui, cominci a chiederti: «E se fossero opera sua? Che

rapporto ha con il criminale? Chi è il suo alter ego?» E poi si scopre

che anche il criminale è un poliziotto. L’interazione tra tutti questi elementi mi interessava molto.

Perché non ha diretto lei stesso ilfilm? Richard Tuggle voleva assolutamente farlo. Aveva scritto lui la sceneggiatura, che era eccellente. È l’autore di quella di Fuga da

Alcatraz. Perché non lasciarglielo dirigere? Ho un enorme rispetto per chiunque sappia scrivere un libro o una sceneggiatura. È quello il vero lavoro creativo. Il resto è tutta interpretazione o rappresentazione.

Ha mai scritto un primo soggetto per poi affidarlo a uno sceneggiatore professionista? Non un soggetto completo, ma a volte mi capita di chiamare uno sceneggiatore e dirgli: «Questa è l’idea. Sta a te svilupparla». È andata

così per II cavaliere pallido. Gli sceneggiatori hanno sviluppato la

storia, poi io ci ho aggiunto qualche scena scritta di mio pugno. Si spera che II cavaliere pallido contribuisca alla resurrezione del

genere, ma non è un azzardo girare un western al giorno d'oggi?

Non so se il genere sia veramente scomparso. C’è un’intera generazione, la più giovane, che conosce i western solo perché li ha visti in televisione. Però ho notato che gli ascolti dello Straniero senza nome e del Texano dagli occhi di ghiaccio continuano a essere ottimi.

Quando mi chiedono: «Perché girare un western oggi?», mi viene la

tentazione di rispondere: «Perché no? Il mio ultimo western è stato accolto benissimo». È anche possibile che II texano dagli occhi di ghiaccio sia stato l’ultimo western ad avere un successo commerciale.

Ma poi i film di Star Wars non sono western ambientati nello spazio?

A parte il genere western, le interessano il West e la sua storia?

A livello personale, ovviamente sì, ma nei miei film ho sempre

usato un approccio che appartiene alla mitologia. Il cavaliere pallido non fa eccezione; ha moltissimi riferimenti biblici. Tuttavia, dato che parla di minatori, ho dovuto leggere un sacco di lavori sull’argomento

e sull’epoca della corsa all’oro. Abbiamo girato anche questo nell’Idaho, nella zona delle Sawtooth Mountains. È una regione magnifica, una delle più belle degli Stati Uniti. Così come per Lo straniero senza nome, abbiamo costruito un’intera cittadina da zero.

Quali dei suoifilm le hanno dato più soddisfazionifinora? Il texano dagli occhi di ghiaccio, Bronco Billy e Honkytonk Man

mi hanno dato più soddisfazione perché erano film piccoli. Erano anche i suoi più personali? Più personali, meglio gestiti e più indipendenti perché sono stati girati in zone remote, lontane da Hollywood.

Qual è la fase più emozionante per lei? La scrittura? Le riprese? Il montaggio? Il montaggio. È la fase in cui hai meno vincoli, perché sei da solo

con il montatore a mettere insieme i pezzi del puzzle. Mentre giri, devi rapportarti con sessanta 0 ottanta persone che ti bombardano di

domande; in ogni momento devi saper trovare una risposta adeguata. Non c’è speranza di prendere tempo. Ovviamente è estenuante ed emozionante insieme, perché è in quella fase che si gioca tutto. Sai che

se i pezzi non avranno la forma giusta, non riuscirai mai ad

assemblarli. Quando penso al numero e alla complessità dei fattori in gioco, sono sbalordito che esistano bei film.

Alla luce della maturità e dell’esperienza che ha acquisito come regista, cosa pensa dell’evoluzione del suo personaggio?

Non vedo i miei personaggi come un’entità unica, ma come una serie di variazioni. È vero che sullo schermo, da un film all’altro, ci sono sempre la stessa faccia e lo stesso fisico, ma con la maturità si cambia prospettiva. Questo vale specialmente per la scelta delle storie. È probabile che adesso io stia scegliendo sceneggiature che non

mi avrebbero attratto quindici 0 ventanni fa, o che all’epoca non avrei avuto il coraggio di girare. Non posso immaginare di rifare costantemente quello che ha funzionato una volta. La maturità deve

spingerti a progredire, a svilupparti e, si spera, a migliorare. Nel corso della sua carriera è riuscito a modificare

profondamente la sua immagine. La rimette in discussione praticamente in ognifilm. Ma non è difficile vivere con un alter ego che regge un’intera mitologia, che è stato oggetto di innumerevoli articoli e analisi e su cui adesso vengono scritti dei libri? So che non si tratta di me. So che c’è ciò che sono come persona e ciò che sono come attore. E questa seconda immagine esiste soltanto

nella mente e negli occhi del pubblico. Faccio molta attenzione a non pensarci. Quando monto un film, non penso a proteggere 0 favorire me stesso. Penso solo al personaggio e al suo ruolo nella storia,

altrimenti tutto risulterebbe decentrato. E immagino che sia lo stesso nella vita. Se la gente scrive di me. non la prendo come una cosa

personale. Se l’articolo è positivo, mi dico: «Perfetto. Ha capito cosa

cercavo di fare». Se è negativo, mi dico che il mondo è bello perché è

vario. Ma quando prende in mano un nuovo progetto, non è costretto a prendere in considerazione l’immagine che ha trasmesso neifilm

precedenti? Intende come faccio a evitare di ripetermi?

Di ripetersi o di aggiungere consciamente delle variazioni a un'immagine preesistente. Per esempio, in Honkytonk Man Red Stovall è un personaggio completamente nuovo per lei, mentre il

poliziotto di Corda tesa sembra sviluppato da alcuni dei suoi ruoli precedenti.

Non credo che sia così. Nel caso di Corda tesa, non sono stato influenzato né da Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! né dall’Uomo nel mirino. Per quel personaggio sono ripartito da zero, anche se alcuni tratti generali, come il mio comportamento

professionale, possono apparire simili. Ovviamente sono sempre io,

posso mascherarmi solo fino a un certo punto. Non posso acquisire l’aspetto di Quasimodo di punto in bianco. Ma interiormente mi

rapporto con ogni nuovo personaggio in modo diverso. Vale anche per la serie dell’ispettore Callaghan. Mentre mi preparavo per uno dei

sequel, mi sono imposto di non riguardare il primo. Anche Harry Callaghan è cambiato in quattordici anni. È cambiato quanto me. Non

vorrei arrivare a imitare me stesso. Conosciamo entrambi registi e attori che si sono ridotti a farlo. Non ho questo problema, ma a volte

mi chiedo se verrà un giorno in cui mi ritroverò a dirmi: «Accidenti,

non so più cos’altro fare. Forse dovrei tornare alle cose che hanno funzionato così bene all’epoca?» Sarebbe triste. Quando ho

cominciato a lavorare al Cavaliere pallido, per un attimo ho avuto la tentazione di riguardare II texano dagli occhi di ghiaccio e i miei

primi western. Poi mi sono detto: «No, non posso farlo. Non c’è nessun legame. L’unico collegamento è che è un western e a questo

genere si associa una certa mitologia. Ma non voglio ripetermi, non voglio lasciarmi influenzare dal passato».

La mitologia a cui dà vita nei suoifilm riprende i valori fondamentali di questo paese. Di conseguenza a volte i suoi lavori

vengono trattati come fenomeni sociologici. Questo la mette a disagio? Non ci penso... mi farebbe paura rifletterci! Non mi piacciono le persone che si prendono troppo sul serio e non vorrei mai essere inserito in quella categoria. Se mi mettessi ad analizzare l’impatto dei miei film o quello che rappresento per l’America di oggi, resterei paralizzato, sarei incapace di andare avanti. Non spetta a me

esaminare me stesso, non avrei l’obiettività necessaria.

Qual è l'antidoto migliore al prendersi troppo sul serio?Forse il black humor? Non c’è niente di meglio!

Come vede il futuro della Malpaso? Prenderebbe in considerazione l’idea di sviluppare e produrre progetti in cui lei non è coinvolto né come regista, né come attore? È possibile. Magari è quello che farò più avanti, ma adesso voglio

che la Malpaso mantenga le sue dimensioni ridotte. Non voglio avere un ruolo di rappresentanza. Ci tengo a dare un tocco personale a tutto quello che faccio. Il motivo per cui è nata la Malpaso inizialmente era «Che io abbia successo 0 meno, voglio che la responsabilità sia

soltanto mia». Rimane il mio motto. (Intervista realizzata il 19 novembre 1984 e pubblicata con il titolo

«Entretien avec Clint Eastwood» a firma di Michael Henry in Positif, n. 287, gennaio 1985, pp. 48-57, traduzione inglese di Michael Henry Wilson in Eastwood on Eastwood, Cahiers du cinema, Parigi 2010.

pp. 24-52. Ripubblicata con il permesso dell’autore.)

8. «L'alito del inaiale». [n.d.t.J

CLINT EASTWOOD: L’INTERVISTA DI ROLLING

STONE DI UM CAHILL (1985)

Esattamente vent’annifa un'amica insistette perché andassi a vedere un film sul IVest americano, un film fatto in Italia e girato in parte in Spagna. All’epoca era intellettualmente accettabile essere

appassionati di pellicole italiane che dipingevano l'anima malata dell’Europa; l’idea di un western italiano era un ossimoro, quasi quanto...perbacco, una commedia romantica tedesca, come minimo.

Inoltre in America il genere western sembrava ormai crollato e andare a vedere Per un pugno di dollari, con un cast di illustri sconosciuti internazionali capitanato da Clint Eastwood, uno che faceva il cowboy coprotagonista in una serie televisiva americana intitolata Gli uomini della prateria, prometteva di offrire un tipo di

intrattenimento che il regista, un altro sconosciuto di nome Sergio Leone, probabilmente non aveva affatto previsto. La mia amica

stava facendo il dottorato in filosofia e aveva già visto il film tre volte perché lo trovava «esistenziale». Ilpersonaggio di Clint Eastwood si chiamava iTJomo senza nome e andava in giro a

salvare la gente senza un motivo dichiarato e a fulminare con la sua pistola i cattivi brutti e sudati che insultavano il suo mulo. Buona parte della violenza era stilizzata, ironica, caotica e

fumettistica; non la si poteva prendere molto sul serio, anche se diversi critici lofecero comunque, descrivendo ilfilm come «semplice, rumoroso, rozzo». Questo genere di reazione critica non tenne lontano il pubblico, ma riuscì a smorzare abbondantemente

l’entusiasmo dei laureandi infilosofia che nell’Uomo senza nome avevano individuato echi sartriani. Clint Eastwood interpretò altri duefilm di quel genere che prese il nome di spaghetti western, poi tornò a Hollywood nel 196'/per fare Impiccalo più in alto, un altro successo di pubblico in barba alle

critiche che lo definirono «emetico e interminabile». Nei primi anni Settanta fra gli appassionati di cinema l’interesse per ifilm di Clint Eastwood era considerato un vizio segreto e

riprovevole, come la masturbazione. Nel 1971 Don Siegei diresse Eastwood in Ispettore Callaghan: il

caso Scorpio è tuoi, un film incredibilmente popolare che alcuni critici accolsero con una raffica di insulti. «Fascista» fu una delle descrizioni più gentili.

In quello stesso anno Eastwood diresse il suo primo film. Brivido nella notte. Lo studio gli aveva sconsigliato di dedicarsi a quel progetto. La Universal era restia persino a pagarlo per un film in cui

avrebbe interpretato un dj alla mano, con la voce bassa e la passione per iljazz che senza rendersene conto ha una storia con una psicopatica. All’uscita ilfilm ottenne recensioni tiepide ma favorevoli, che concordavano sulfatto che si trattasse di un discreto

esordio registico per un dannato cowboy.

Eastwood ha recitato poi in tre sequel dell’ispettore Callaghan, tutti campioni di incassi al botteghino, e ha diretto nove altrifilm, compreso il western classico II texano dagli occhi di ghiaccio (1976J. E anche se poteva contare su incassi assicurati anche solo

bisbigliando «Harry Callaghan», spesso ha fatto scelte che hanno

confuso gli studios, i critici e ifan. Il film del 1978 Filo da torcere, una commedia con un orango di nome Clyde (per la quale si consigliava la visione ai minori solo se

accompagnati), era un altro film per cui lo studio aveva previsto un fiasco istantaneo. La previsione si è avverata a metà: il film non è piaciuto a nessuno tranne che agli spettatori. Chiaramente Clint Eastwood conosceva il suo pubblico meglio di chiunque altro e i successi di botteghino gli hanno sempre permesso di dirigere quelli

che lui definisce i suoi «film più piccoli». In Bronco Billy (1980) Eastwood stesso interpreta un personaggio non troppo brillante, proveniente dall’Est degli Stati Uniti, che dirige un anacronistico Wild West Show. Nella scena clou, Bronco Billy si lascia umiliare da

uno sceriffo con la pistola piuttosto che tradire un amico. Il messaggio potrebbe essere che la lealtà supera il machismo nella classifica delle moderne virtù cui anelare, un concetto che alcuni

critici interpretarono come «una presa in giro del proprio personaggio». Forse dopotutto, parevano voler dire i critici, Clint Eastwood non è davvero Harry Callaghan. Un altro film piccolo, Honkytonk Man (1982), è lo studio di un personaggio, un cantante country destinato all’autodistruzione, sullo sfondo della Grande Depressione. Corda tesa (1984), la rappresentazione eastwoodiana

di un tormentato poliziotto di New Orleans, è stato un successo tanto di critica quanto di pubblico.

A metà degli anni Ottanta i criticifaticavano a definire

Eastwood. Coraggio... fatti ammazzare (1983), il quartofilm dell’ispettore Callaghan, ha ricevuto recensioni stranamente miste. «Ilfilm è una versione vagamente psicotica di un vecchio telefilm del sabato pomeriggio, con Harry che sogghigna osservando la feccia e la maledice prima di spararle con la sua enorme “44 Auto Mag" fatta apposta per lui», sbuffò un recensore, mentre un altro sostenne

che «molti di coloro che hanno sempre etichettato ifilm di Eastwood come brutali cartoni animati all’improvviso capiscono che la

violenza è sempre stata utilizzata con autoironia e intelligenza

morale».

La bilancia critica è parsa pendere verso questo secondo punto di vista. Iti un articolo sulla rivista Parade, Norman Mailer ha espresso

la sua totale ammirazione: «Eastwood è un artista [...]Nei suoi lavori si percepisce la sua persona con la stessa chiarezza con cui si

vede Hemingway in Addio alle armi [...]I critici lo attaccano da anni perché ha fatto poco sullo schermo, ma forse Eastwood sapeva qualcosa che a loro sfuggiva». Il Los Angeles Times ha sottolineato

che neifilm di Eastwood le donne, buone o cattive che siano, hanno sempre avuto ruoli forti e che «Eastwood potrebbe essere non solo fra i migliori, ma in assoluto il regista femminista più importante e

influente (per le dimensioni del suo pubblico) attivo oggi in America». La rivista francese di cinema Cahiers du cinema ha

evidenziato la «sottigliezza autoparodica» deifilm di Eastwood, mentre il London Daily Mail ha sottolineato come l’Europa stesse

scoprendo «profondità nascoste» in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Il New York Times Magazine ha messo in copertina un servizio sull’Eastwood artista dall’appropriato titolo «Clint Eastwood, sul serio». Sarebbe piacevolmente ironico se questa rivalutazione critica della carriera di Eastwoodfosse arrivata sull’onda del suo declino al

botteghino, ma l’uomo che prima era Senza nome adesso, secondo

alcuni, è oggi la star del grande schermo più famosa al mondo. I proprietari dei cinema l’hanno nominato l’attore più redditizio del 1984 e del 1983, un riconoscimento che gli era già stato attribuito nel 1972 e nel 1973. Dal 1955 in poi, i suoi quaranta film hanno

totalizzato più di 1.5 miliardi di dollari, una cifra che gareggia con il prodotto interno lordo di intere nazioni (come Malta, la Mauritania,

le Antille Olandesi, il Ruanda, le Isole Tonga, il Togo, il Ciad e il Lesotho, fra gli altri). Inoltre un recente sondaggio Roper ha rilevato

che gli americani tra i diciotto e i ventiquattro anni scelgono Clint

Eastwood come eroe numero uno. Ronald Reagan arriva terzo, a distanza (dietro Eddie Murphy), e questo potrebbe spiegare perché il

presidente degli Stati Uniti abbia cominciato a citare ifilm di Clint Eastwood quando sfida il Congresso. Nonostante la popolarità, di persona Clint Eastwood è affabile,

un uomo gentile che parla sussurrando. Un metro e novantatré di altezza per ottantacinque chili, è un uomo fisicamente imponente,

ma non ha nulla della tensione repressa che si percepisce in Harry Callaghan. Di tutti i ruoli che ha interpretato, dal vivo Eastwood ricorda più il mite djjazz californiano di Brivido nella notte, un uomo felicemente non al passo con i tempi e sicuro di sé nei suoi

entusiasmi privati. Eastwood vive da solo a Monterey, in California,

dovefajogging, si allena in palestra, pianifica i prossimi progetti e a volte sifa vedere in compagnia dell’attrice Sondra Locke. Ha due figli dalla ex moglie, Maggie: Alison, quattordici anni, apparsa in Corda tesa, e Kyle, diciassette, coprotagonista di Honkytonk Man.

Come ha sottolineato Norman Mailer, Eastwood è «un tipo gentile», un uomo di cinquantacinque anni che ha corso i suoi rischi e sembra vagamente divertito da questo improvviso riconoscimento da parte

della critica dopo essere stato ignorato e bistrattato per trent’anni. Quest’anno Eastwood è stato invitato al Festival di Cannes a

presentare il suo undicesimo lavoro registico, Il cavaliere pallido, un western di cui è anche protagonista. Ilfilm è stato ben accolto e nelle

conferenze stampa successive le domande sembravano quelle che la

mia amica filosofa avrebbe potuto fare ventannifa.

Un giornalista ha chiesto se alla fine del Cavaliere pallido Eastwood non stesse in realtà uccidendo Sergio Leone, il suo padre

artistico. L’attore ci ha riflettuto bene, è il tipo di domande a cui bisogna

rispondere quando la gente comincia a prenderti sul serio; alla fine ha risposto che pensava di no, perché lui e Leone erano coetanei.

Clint Eastwood capisce che una buona battuta muore se viene analizzata troppo a fondo, e, come molti dei personaggi che ha portato sullo schermo, spesso risulta più interessante per quello che

non dice che per quello che dice.

Sentite: Secondo alcuni, lei è la star del cinema più famosa al mondo. Le capita mai di svegliarsi al mattino, guardarsi allo specchio e dire:

«Sono davvero io?» Intendo dire, di rimanere sorpreso dal suo stesso riflesso? Se stessili a pensarci, potrebbe sorprendermi. Sì, immagino di sì. Se mi guardo indietro, mi chiedo: «Come ha fatto un ragazzino di

Oakland a fare così tanta strada?» Sono sicuro che anche gli altri si pongono le stesse domande, chi più, chi meno. È come svegliarsi con una prostituta e chiedersi: «Come diavolo sono finito qui?» Cominciamo da Per un pugno di dollari. Com’é arrivato a quel film? Beh, all’epoca facevo Gli uomini della prateria da circa cinque

anni. L’agenzia mi ha telefonato e mi ha chiesto se fossi interessato a fare un western in Italia e in Spagna. Ho risposto: «Non

particolarmente». Ne avevo già abbastanza dei western a causa della serie. E loro: «Perché non dai un’occhiata veloce alla sceneggiatura?» Beh, un po’ ero curioso, così l’ho letta e ho riconosciuto subito La sfida del samurai, un film di Kurosawa che mi era piaciuto molto.

Quando l’avevo \usto, anni prima, avevo pensato: «Ehi, questo film in realtà è un western». Nessuno negli Stati Uniti aveva avuto il coraggio

di farlo, e quando ho visto che invece altrove qualcuno il coraggio l’aveva, ho pensato: «Ottimo».

Sergio [Leone] aveva diretto solo un altro film, ma mi avevano

detto che aveva un grande senso dell’umorismo e mi piaceva il modo in cui aveva interpretato la sceneggiatura della Sfida del samurai. E

non avevo niente da perdere, perché potevo comunque tornare alla serie una volta finita la pausa. Quindi ho pensato: «Perché no?» Non ero mai stato in Europa, e quello era già un motivo sufficiente per andarci.

Ha detto che nella sceneggiatura originale l’Uomo senza nome sparava più parole che proiettili.

La sceneggiatura spiegava moltissimo, sì. Era una storia pazzesca e mi sembrava che attorno al personaggio dovesse esserci un alone di mistero. Continuavo a dire a Sergio: «In un vero film di serie A. è il pubblico da solo a farsi un’idea mentre guarda il film; in un B-movie

viene spiegato tutto». Quello era il mio modo per convincerlo. Per esempio c’era una scena in cui il personaggio decide di salvare la

donna e il bambino. Lei gli chiede perché lo fa. Nella sceneggiatura lui parlava all’infinito, citando sua madre e mille sottotrame uscite dal

nulla, e non si fermava più. Secondo me non era essenziale, quindi ho riscritto la scena la notte prima di girarla.

Ok, quindi la donna gli chiede perché lo fa e lui risponde... «Beh, è una storia troppo lunga da raccontare». ' Quindi è riuscito a esprimere dieci pagine di dialogo in una sola

frase. L’abbiamo lasciata ambigua in modo che il pubblico si chiedesse:

«Aspetta un attimo, cos’è successo?» Bisogna lasciare che la gente esplori la storia, ci trovi dei riferimenti, dei piccoli elementi specifici di suo gusto. È come se trovasse cose per cui ha lavorato e che ha

cercato, ed è molto più piacevole che vedersi sbattere in faccia una spiegazione pronta.

Dunque ha molta fiducia nel suo pubblico.

Bisogna averla. Non bisogna sottovalutare la gente pensando: «Meglio renderlo più comprensibile, meglio spiegare di più». Per

esempio, nel Texano dagli occhi di ghiaccio, quando il personaggio se ne va a cavallo alla fine del film, il mio montatore voleva mettere in

sovraimpressione il viso della ragazza. Ha detto: «Vogliamo che il pubblico capisca che sta tornando da lei». Beh, sappiamo tutti che sta tornando. È il pubblico che lo porta indietro. Se se ne andasse dal lato opposto della città, il pubblico direbbe: «Beh, girerà a sinistra». Dire

agli spettatori qualcosa che già sanno o imboccare loro elementi che

possono benissimo delineare da soli per come la storia si sviluppa significa sminuirli.. Io invece questo lavoro preferisco farlo fare a loro. Perché... Perché ci riflettano un po’. Ha fatto altri due western italiani con Leone: Per qualche dollaro

in più e II buono, il brutto, il cattivo. Sì. Gli altri due erano produzioni più patinate, più raffinate. Le

storie non erano granché significative. Erano solo serie di vignette messe insieme. Mi sono piaciuti, è stato divertente farli. Escapismo. E

il western americano in quel periodo era in una fase di stallo. Ma quando Sergio mi ha proposto di fare ancora altri western, ho pensato

che fosse troppo. Quindi sono tornato a Hollywood e ho fatto Impiccalo più in alto. Sergio voleva espandere le dimensioni e gli

obiettivi dei suoi film, mentre io ero più interessato alla gente e alla narrazione. Immagino anche per motivi egoistici, perché, essendo un attore, volevo fare qualcosa con uno studio più approfondito dei

personaggi.

Lei si è descritto come introverso. Pensa che sia perché da bambino si spostava così tanto? Sì, forse. Ci siamo spostati molto per tutta la California. Abbiamo

vissuto a Redding, Sacramento, Hayward. I miei genitori si sono sposati intorno al 1929, proprio all’inizio della Depressione. È stato un periodo difficile per tutti, specialmente per un giovane come mio

padre, che stava cominciando a farsi una vita. In quel periodo si

faticava a trovare lavoro. A volte i lavori non andavano bene, oppure chi ti aveva assunto non poteva permettersi di tenerti. Ci spostavamo su una vecchia Pontiac, 0 un’auto del genere, tirandoci dietro una roulotte a una ruota. Non eravamo davvero nomadi: non era come in Furore, ma non era neanche fare la bella vita.

Crescere in un’epoca in cui tutto scarseggia ti rende prudente. Mi ricordo che una volta ci siamo trasferiti da Sacramento a Pacific Palisades perché mio padre aveva trovato lavoro come benzinaio. La

stazione di servizio è ancora là, all’angolo tra la Highway 101 e Sunset

Boulevard. Si dedicava a qualche attività extrascolastica? Sì. Giocavo un po’ a basket. Un po’ di football alle medie. Non sono

mai stato tanto coinvolto negli sport di squadra perché ci trasferivamo

di continuo. Ho fatto un po’ di nuoto agonistico e una delle scuole che

ho frequentato aveva un ottimo programma di ginnastica artistica, quindi mi sono cimentato con quella per un po’. Non ero

particolarmente adatto perché ero troppo alto, ma mi piaceva. Immagino che una delle attrazioni maggiori quand’ero ragazzo...

mi è sempre piaciuto il jazz. Un’ampia gamma di musica jazz. Negli anni Quaranta e Cinquanta ascoltavo Brubeck e Mulligan e adoravo

Ellington e Basie. Mi procuravo dei libri su tutti: Bix Beiderbecke, King Oliver, Buddy Bolden. Una volta ero espertissimo. All’epoca, per tutti gli anni Quaranta, ho continuato ad andare agli eventi «Jazz at the Philharmonic». Una volta c’erano Coleman

Hawkins, Lester Young, Charlie Parker e un intero gruppo di musicisti classici. Oggi, quando parlo con compositori che magari hanno dieci anni meno di me, sono tutti invidiosi di quel concerto: «Li hai visti dal

vivo!»

Anche lei suona il pianoforte jazz. Sì, da ragazzo suonavo. Giocherellavo anche con qualche altro

strumento, ma ero pigro. Non mi ci sono impegnato sul serio. Ho ripreso negli ultimi anni. Mi sono cimentato con la composizione. Cinque o sei pezzi. Ne ho usato uno per il tema di mia figlia in Corda

tesa, e poi ho curato il tema della ragazzina nel Cavaliere pallido. Un po' rimpiango di non aver continuato con la musica, soprattutto quando sento gente che suona bene. Ho suonato in una traccia dell’album di Per piacere... non salvarmi più la vita. Dopo la

sessione, io. Pete Jolly e Mike bang ci siamo messi a parlare di come abbiamo iniziato a suonare il piano. Abbiamo cominciato tutti allo

stesso modo, solo che loro hanno continuato e si sono messi a suonare sul serio. Abbiamo iniziato suonando il blues: pezzi blues alle feste. All’epoca ero indietro su tutto il resto, ma alle feste mi sedevo al

pianoforte e suonavo il blues. E le ragazze venivano attorno al piano e all’improvviso trovavi compagnia per la serata. Ha composto una hit, «Barroom Buddies», un duetto con Merle

Haggard. Quando ha cominciato a interessarsi alla musica country?

Beh, credo si possa dire che Merle Haggard ha composto una hit e mi ha trascinato con sé. Non sono mai stato molto esperto di musica country. Il primo vero assaggio è stato quando avevo diciotto o diciannove anni e lavoravo in una cartiera a Springfield, nell’Oregon. Pioveva sempre, era davvero deprimente. Era inverno, sempre umido. Non conoscevo nessuno e qualcuno mi ha detto di andare in questo

locale dove si suonava un sacco di musica country’. Non che fossi così interessato, ma il tizio mi aveva detto che c’erano un sacco di ragazze, così ci sono andato. Ho visto Bob Wills e i suoi Texas Playboys. Al contrario della maggior parte delle band country, avevano ottoni e

strumenti ad ancia e suonavano country swing. Erano bravi. Sono rimasto un po’ sorpreso dalla loro bravura. E poi c’erano molte

ragazze là, cosa che invece non mi ha sorpreso affatto. Quindi si potrebbe dire che è stata la voglia di conoscere ragazze ad allargare i

miei orizzonti musicali. Perché non ha continuato con la musica? Volevo. Ho cercato di iscrivermi alla Seattle University, che aveva

un buon programma di musica, ma mi hanno chiamato per il servizio militare prima che riuscissi a entrarci, così sono finito a Fort Ord

[California], E inevitabilmente mi sono allontanato dalla musica. Ho fatto i miei due anni di servizio militare e sono andato al Los Angeles City’ College, dove mi sono iscritto a economia aziendale. A

Fort Ord avevo conosciuto due ragazzi che facevano gli attori, Martin Milner e David Janssen, e quando siamo stati congedati un direttore della fotografia mi ha procurato un provano. Mi hanno offerto un

contratto con la Universal, con una paga iniziale di settantacinque dollari alla settimana. Mi hanno cacciato un anno e mezzo dopo. Ma

era una occasione per un ragazzo giovane, avevamo corsi di recitazione tutti i giorni.

È stato allora che si è reso conto che essere introverso poteva essere un pregio per un attore? Che poteva sfruttarlo per i personaggi? Non so se l’ho sfruttato consciamente. So che per molti anni,

prima di diventare noto per come recito adesso, ho interpretato personaggi che non erano molto loquaci. Personaggi che

risparmiavano sulle battute. Certi libri, persino quelli che seguono il metodo Stanislavskij, sostengono che a volte parlare meno sia meglio. A volte si riesce a dire di più con poche battute che non con eccessivi

giri di parole. La serie degli Uomini della prateria è stata un’ottima palestra.

All’improvviso ogni giorno potevo mettere in pratica quello che avevo studiato sul mestiere di attore. Un conto è lavorare per una settimana a Francis il mulo parlante, cioè la mia situazione all’epoca, e un altro è recitare tutto il giorno per otto anni. È come la storia del grande trombettista classico che un giorno

viene beccato a suonare in un’orchestra da baseball al Wrigley’ Field. Qualcuno lo riconosce e gli dice: «Oh mio Dio, Maestro, cosa ci fa il più grande trombettista classico del mondo in una band da baseball?» E lui: «Bisogna suonare tutti i giorni».

Negli Uomini della prateria ho potuto recitare ogni giorno. Mi ha

insegnato a cogliere gii spunti, a inventare le cose, a cavarmela. Di recente la New York Review of Books ha pubblicato un articolo su di lei che dice: «Il tratto più distintivo di Eastwood [...] è la sua

fruttuosa battaglia contro Fincasellamento in un genere, in un mero stile, anche se, con la sua nonchalance da spilungone e la sua presenza ipnotica, sembra essere nient'altro che stile». Vuole

commentare? Beh, sì, lo stile. Prendiamo gente come Kirk Douglas e Burt Lancaster. Sono attori fantastici, ma il loro stile è più aggressivo.

Entrambi hanno fatto cose meravigliose e alcuni film che non hanno

avuto grande successo ma erano comunque bellissimi: Douglas ha fatto Solo sotto le stelle e Orizzonti di gloria-, Lancaster Trapezio. Ma il loro stile era un po' diverso da quello di gente come Gary' Cooper o

Henry Fonda, che erano più tranquilli, più introversi, e ti costringevano a protenderti verso lo schermo per capire i loro

pensieri. Con la scuola Lancaster-Douglas non c’era mai alcun dubbio. Con Fonda e Cooper non si era mai sicuri di nulla. Avevano un alone

di mistero.

Che è una cosa a cui lei ambisce: un tocco di ambiguità. Esatto.

Parliamo di alcuni dei suoi film. Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! In quel film c’era qualcosa che secondo me ad alcuni è sfuggito. Un critico ha detto che tanta è la soddisfazione dell'ispettore Callaghan

quando alla fine spara al tizio che anche lui si è goduto il momento. Ma non c’era alcuna soddisfazione, anzi, c’era un senso di tristezza.

Riguardi il film e lo noterà. Parliamo di Filo da torcere. All’improvviso spunta Norman Mailer che dice che il film gli è

piaciuto e, dato che lui è uno scrittore estremamente rispettato, la

gente pensa: «Aspetta un attimo, forse non era poi un film così brutto». Io stesso ho pensato che la sceneggiatura fosse originale quando l’ho letta. C’è un tizio che apre il suo cuore a uno scimmione e perde la ragazza. E poi mi piaceva la correlazione con alcuni dei miei western. Alla fine il protagonista perde volutamente la battaglia più

importante perché non vuole essere la pistola più veloce del West. Bronco Billy. È un film sul sogno americano, un sogno per cui Billy ha lottato moltissimo. Ed è tutto nel contesto di un obsoleto Wild West Show che non ha alcuna chance di successo. Ma è tenero. È puro. Nella scena clou, Billy si lascia umiliare dallo sceriffo piuttosto

che far arrestare il suo amico. Una scelta diversissima dall’immagine che lei si è costruito, dev’essere stata divertente da

girare. Divertentissima. Mi hanno suggerito di far tornare là Billy' alla fine

per fargli stendere il tizio con un pugno, ma quello avrebbe rovinato il

film e tutto il tema della lealtà. Billy non approva che il ragazzo sia un

disertore, e non sa abbastanza cose da razionalizzare ciò che prova il suo amico per la guerra in Vietnam. Sa solo che non approva, ma lo difenderà comunque. Se Bill}’ fosse tornato a prendere a botte lo

sceriffo alla fine, avrebbe rovinato tutte queste dinamiche. Avere abbastanza successo come attore non è una scusa per fare quello che ti pare e svenderti. Bisogna farlo in modo puro, senza cercare di adattarlo o renderlo commerciale. Non è Bronco Billy

Callaghan. E invece Honkytonk Man?

Red Stovall si basa in parte su alcune persone autodistruttive che ho conosciuto. È folle e divertente, ma a suo tempo è stato un

codardo. Non segue le sue ambizioni. Non è un grande cantante, ma

scrive cose interessanti. Quando arriva il suo momento, si è già

distrutto da solo. E lo studio le ha detto che sarebbe stata una buona idea non far

morire Red alla fine? Ma io mi sono opposto. Il suo ultimo film, Il cavaliere pallido. È un western. Uno dei primissimi film americani era un western:

The Great Train Robbery. Se si considera il cinema una forma d’arte,

come fanno alcuni, allora il western sarebbe una forma d’arte profondamente americana, proprio come il jazz. Negli anni Sessanta i western americani erano in fase di stallo, probabilmente perché i grandi registi come Anthony Mann, Raoul Walsh e John Ford non

stavamo più lavorando molto. Poi sono arrivati i western italiani e con quelli abbiamo lavorato bene ma sono morti per cause naturali.

Adesso penso che sia ora di analizzare il western classico. Si può

ancora parlare di sudore e di duro lavoro, dello spirito, dell’amore per la terra e dell’ecologia. E credo che si possano dire tutte queste cose in un western, nella forma mitologica classica.

In genere non le attribuiscono un senso dell’umorismo, eppure alcuni dei suoifilm suscitano grosse risate nei punti giusti. Per esempio la prima metà di Honkytonk Man era divertentissima. È pensata per essere così, una storia divertente che si trasforma in una tragedia. Buona parte dell’umorismo non sta in ciò che dici, ma

nella tua reazione. I comici sono espertissimi in questo. Prendiamo Jackie Gleason in The Honeymooners: Alice gli lancia una frecciatina e lui, con la sua reazione, anche solo con la sua espressione, ti fa

morire dal ridere. Anche Jack Benny ci riusciva benissimo. La commedia non si basa necessariamente solo sul dialogo. Pensiamo a

Buster Keaton, con la sua faccia sempre impassibile nonostante tutto il caos che gli succede intorno. A volte è una questione di tempismo, del ritmo giusto. La diverte ilfatto che il presidente citi «Coraggio... fatti

ammazzare» ? Sì, è stato piuttosto divertente. Sapevo che la battuta «Coraggio...

fatti ammazzare» avrebbe avuto un certo impatto nel film, ma non immaginavo che diventasse una sorta di «Suonala ancora, Sam». Ho letto che ogni tanto parla al telefono con Reagan.

Beh, non so da dove sia saltato fuori, credo che l’abbia detto qualche segretario o qualcuno del genere. Ho parlato con lui un paio di volte, ma lo raccontano come se fossi stato un grande consigliere.

Le presento il mio segretario di stato, Harry Callaghan... Sì, certo. (Ride.) Allora non mi racconterà di cosaparla con il presidente?

Non è che ci siamo detti tanto. Sono stato a Washington non molto tempo fa e sono andato a pranzo alla Casa Bianca. Non abbiamo

parlato di niente in particolare, se non delle medaglie del National Endowment for the Arts che dovevamo assegnare. C’erano alcuni membri della NEA, compreso il sottoscritto. È stato un pranzo

tranquillo, con qualche risata.

Non mi chiede certo consigli, altrimenti gli suggerirei qualche posto migliore dove andare invece di quel cimitero in Germania. E non ha intenzione di candidarsi in politica.

Non c’è pericolo. Ha la fama di girare i suoifilm in fretta e di completarli

rimanendo molto al di sotto del budget previsto. Pensa che abbia a

che vedere con ilfatto che è cresciuto durante la Grande

Depressione? Mi piacerebbe dire che è soltanto organizzazione professionale, ma potrebbe dipendere anche da quello. Potrebbe essere che sono cresciuto detestando gli sprechi.

Si dice che la gente lavori in fretta sui suoi set perché lei non fornisce sedie. Quella voce è partita da un commento che ho fatto. Qualcuno mi aveva chiesto se preferivo girare in location piuttosto die in studio.

Ho risposto: «In studio tutti si guardano intorno cercando una sedia,

mentre in location lavorano tutti». Ma ci sono sedie sia sul set, sia nelle location.

Lei hai anche la fama di reclutare professionisti giovani o

sottovalutati. Una calibro 20 per lo specialista, per esempio, è stato il primo film di Michael Cimino. Alcuni potrebbero dire che lo fa perché costano poco. Niente costa poco, e non credo di essere il tipo che si dà la zappa sui piedi. Non penso che chiamerei qualcuno che costa poco solo perché costa poco. Vorrei comunque che il film fosse il migliore

possibile. Altrimenti ci si sminuisce. Ci sono tantissimi registi costosi, ma non sai mai come sono arrivati a quei compensi. A volte è solo

questione di capacità di vendersi e di lavoro dell’agente. Non ho lavorato con molti grossi nomi della regia, sono arrivato in un’epoca in cui stavano tutti andando in pensione: non ho mai

lavorato con Hitchcock, Wyler, Stevens, Capra, Hawks 0 Walsh. Me li sono persi tutti. Immagino che il regista più costoso con cui ho lavorato sia Don Siegei. Sulla regia credo di aver imparato più da lui che da chiunque

altro. Mi ha insegnato a correre rischi. Gira in fretta e gira quello che

vuole. Capiva quando aveva ottenuto il materiale che gli servava e non

aveva bisogno di pararsi il culo con una decina di angolazioni diverse. Ho imparato che devi fidarti del tuo istinto. C’è un momento in cui

l’attore esegue la performance perfetta, e lui lo sa. Dietro la macchina da presa si percepisce quel momento ancora più chiaramente. E una volta che ce l’hai, che lo senti, non puoi dubitare di te stesso. Se andassi in giro per il set a chiedere a tutti come hanno trovato la scena, alla fine qualcuno direbbe: «Beh, in effetti non so, c’era una

mosca sullo sfondo a duecento metri di distanza». Ci sarà sempre qualcuno che trova un difetto, e ben presto quel difetto verrà ingigantito e tu ti ritroverai a rifare la scena. Ma intanto tutti si sono

dimenticati che la cinepresa si concentra su altre cose e che nessuno

vedrà quella mosca perché stai usando una lente da 100 mm. Ma ecco

cosa puoi fare tu: decidere se una cosa va bene o no. Puoi trovare un

milione di motivi per cui non va bene. Ma se ti sembra giusta, se ha l'aspetto giusto, allora va bene. Senza voler sembrare una testa di cazzo pseudointellettuale, è responsabilità mia essere fedele a me stesso. Se funziona per me,

allora va bene. Se inizio a fare scelte sbagliate, allora mi tiro indietro e lascio che ci pensi qualcun altro.

I critici cominciano a dire che ha fatto scelte decisamente valide. Alcune. Ma è fortuna. È istinto. Nasce dal lato animale del cervello, quello istintivo e intuitivo. La parte analitica del cervello può distruggerti come artista. È bene essere ricettivi all’istinto più

profondo. Secondo lei perché i critici hanno cominciato a rivalutare la sua carriera?

Credo che siamo finalmente arrivati al punto in cui la gente ha

cominciato a dire: «Beh, fa un buon numero di cose diverse. Magari non erano solo i cowboy o i poliziotti che funzionavano». È facile sottovalutare quel tipo di film se non stai consapevolmente cercando di trovarne i lati migliori. E poi sono cambiato anch’io. Ho fatto film,

tipo Bronco Billy, che erano insoliti per me e per chiunque. A una retrospettiva al Museum of Modern Art di New York hanno apprezzato Bronco Billy e sono andati a ritroso partendo da quello. I francesi sono andati a ritroso partendo da Honkytonk Man, che là è uno dei film anglofoni con le recensioni migliori dell’anno. Al

Montreal Film Festival hanno apprezzato Corda tesa. Tutti quei film si accumulano e dopo trent’anni la gente comincia ad analizzare una

certa mole di lavori.

Ma lei cosa pensa di questa rivalutazione critica? È gratificante. (Intervista pubblicata su Rolling Stone, 4 luglio 1985, pp. 18-23.

Ripubblicata su autorizzazione.)

9. Nella versione inglese risponde: «Perché una volta conoscevo una persona come lei e non c’era nessuno ad aiutarla». [n.d.t.]

EASTWOOD A PROPOSITO DI EASTWOOD DI CHRISTOPHER FRAYLING (CIRCA 1985)

Possiamo parlare dell'origine dello «stile Eastwood» negli spaghetti western della metà degli anni Sessanta? Con il senno di

poi, hanno cambiato l'estetica e lo spirito dei western tradizionali. Sì, penso che abbiano cambiato lo stile, l’approccio al western.

L’hanno reso «operistico», se così si può dire. Hanno volutamente

esagerato la violenza e le sparatorie, e poi avevano una grande musica e colonne sonore innovative. All’epoca non mi occupavo delle musiche, ma poi ci siamo avvalsi dello stesso compositore, Ennio

Morricone, in Gli avvoltoi hanno fame, e in quel caso ho lavorato un

po’ con lui. Erano colonne sonore mai utilizzate prima nei western. Semplicemente quei film avevano un’estetica e uno stile un po’ diversi

da come si usava a quei tempi: non credo che le storie fossero migliori, anzi, forse erano persino meno valide. Credo che nessuna di

esse possa essere considerata una storia classica, come Sentieri selvaggi o film di quel tipo. Erano più frammentate, a episodi,

seguivano il personaggio centrale attraverso diversi piccoli episodi. Una volta qualcuno ha scritto che ifilm di Sergio Leone sono delle «opere in cui le arie non vengono cantate ma guardate fisse» (ride).

Ma con «un’estetica e uno stile» intende dire che il loro contributo principale sia stato soprattutto tecnico? Già. Penso che l’effetto tecnico sia quello più importante:

l’immagine e il suono. Un film deve avere delle sonorità proprie e gli italiani, che non registrano la traccia audio mentre girano, ne sono molto consapevoli. Sergio Leone riteneva che il sonoro fosse molto

importante, che un film dovesse avere una sua dimensione sonora specifica, oltre a quella visiva. E sono d’accordo... Leone ha prodotto

una colonna sonora operistica, molte trombe e poi. all’improvviso, «boom!» Silenzio assoluto e solo lo sbuffo dei cavalli, cose così. È

davvero di grande impatto. Perciò, sì, penso che lei abbia ragione quando dice «tecnico»... gli accorgimenti tecnici: quelli erano le vere

star. Anche le luci erano diverse. Non era un’illuminazione piatta. Aveva un po’ più di... stile.

Ho letto da qualche parte che mentre si stava preparando per il

ruolo dell’uomo senza nome, subito prima di lasciare il set degli

Uomini della prateria presso gli studios della Universal per andare a Roma e ad Almeria, è stato lei a comprare il costume da cowboy in un negozio di Santa Monica e a prendere in prestito il cinturone di

cuoio, la pistola egli stivali scamosciati che usava per Gli uomini della prateria. Eppure Sergio Leone mi ha detto che la

trasformazione di Rowdy Yates nell'Uomo senza nome, il fondamentale cambiamento di «estetica e stile» da cui è derivato tutto, è stato una sua idea.

(Eastwood strizza gli occhi per un attimo) Non ha mai accettato che... Beh, anch’io l’ho sentito dire, e poi ho sentito voci secondo cui si diceva che lui mi metteva una corda per terra per indicare dove

dovevo camminare e roba del genere, ma io ho pensato: «Buffo che sia l’unico regista che abbia mai dovuto farlo». Ma immagino che per lui

sia normale, all’improvviso io torno in America e lui fa degli altri film

sullo stesso filone, poi si ferma per un po’ e vede che io faccio cose diverse e forse questo gli ha dato fastidio. Chi può sapere perché la gente dice cose non vere? (Frayling non si azzarda a insistere) Di chiunque fosse l’idea, il senso estetico dello stile del personaggio, il poncho in Per un pugno

di dollari (1964), il gilet del Buono, il brutto, il cattivo (1966), erano lontani anni luce dalla pelle di daino con lefrange di Alan Ladd nel Cavaliere della valle solitaria, o di tutti quegli scout ripuliti dei

western anni Cinquanta.

(Eastwood si rilassa visibilmente) Già, a quel tempo, negli anni Sessanta, era uno stile accettato, mentre adesso quei capi sembrano un po’ un abbigliamento da vecchio emporio. Ma abbiamo fatto cose simili nello Straniero senza nome e nel Cavaliere pallido, dove il

personaggio principale è abbastanza stilizzato, ma con un look un po’

diverso: cappelli, cappotti lunghi e altre cose. Ma la differenza stava soprattutto in chi indossava quei vestiti. Gian Maria Volonté aveva un

viso interessante, e tutte quelle facce di zingari spagnoli... era tutto

l’aspetto generale... era tutto collegato, e tutto contribuiva a creare un film interessante. Se chiedi alle persone di che parlano quei film, la maggior parte di loro non lo sa. Ma tutti sapranno parlarti del «look»

(mima il movimento di gettarsi il poncho sulla spalla), del «da-da-

da-da-dum» (canticchia le prime battute del tema del Buono, il brutto, il cattivo), del sigaro e della pistola e di tutti quei piccoli dettagli che colpiscono il pubblico, ed ecco che torniamo all’aspetto

«tecnico», agli accorgimenti tecnici. Forse qui ho dato un qualche contributo, 0 magari no... ricordo che, prima e durante le riprese, abbiamo tagliato insieme gran parte dei dialoghi di Per un pugno di

dollari.

Non so se si ricorda, ma nel 1964, a proposito di Per un pugno di dollari, la stampa italiana parlava di lei come di un «consulente sul

genere western». Ah sì? (risata e sguardo interrogativo) Mi sembra che molte delle lezioni tecniche deifilm italiani siano state messe in pratica nel suo primo film da regista, Lo straniero

senza nome; gli effetti sonori, le inquadrature marcate, il modo in

cui viene presentato l’eroe...

Già. lo non associo Lo straniero senza nome a quei film così tanto come probabilmente fanno altri, se non perché l’attore è lo stesso e per il personaggio vagabondo e misterioso che entra in scena dal nulla come in Per un pugno di dollari. Del resto è anche un classico del

western, è stato fatto diverse volte, con Shane, con William S. Hart,

con... (pausa) Non c’è veramente niente di nuovo sotto il sole in quei film, è soltanto questione di stile. E c’era anche lo stesso attore. Alcuni elementi che contraddistinguono quel personaggio finiranno prima o poi anche in altri personaggi che interpreto. Ognuno adatta i propri

ruoli a se stesso... Prendiamo il personaggio di Per un pugno di dollari: per me è stato divertente infrangere tutte le regole. Per anni a Hollywood è stato in vigore il Codice Hays, c’erano dei tabù nei

western, ancora più che in altri ambiti. Uno di questi era che non potevi mostrare insieme una persona che sparava e una che veniva colpita. Bisognava girare due scene separate, mostrare la persona che cadeva... era così senza senso, ma in televisione facevamo sempre

così... Lo facevamo negli Uomini della prateria... ne parlavano tutti,

era come una cosa che rimaneva lì in sospeso. Invece a Sergio nessuno

l’aveva mai detto e quindi ha legato le due scene: è stato fantastico. Vedi la pistola che spara, il proiettile che parte e il tizio che cade, e non era mai stato fatto in quel modo prima. Mi sembrava una scelta pessima per la televisione, dove tutti giravano delle scene

standardizzate: la scena tipica perla televisione mostrava una persona sulla porta. STACCO sull’altro personaggio che dice qualche battuta. STACCO sull’altro che gli si avvicina. Due primi piani delle teste. Non si vedono mai i due personaggi insieme. In tv si faceva così.

Passiamo al Texano dagli occhi di ghiaccio (1976, dodici anni dopo Per un pugno di dollari), che secondo me è uno deifilm più belli

che ha fatto come regista finora: c’è molta meno enfasi sullo «stile»,

sugli aspetti distaccati efumettistici degli spaghetti western, e molto di più sul tipo di cose a cui possono pensare gli americani dopo la guerra del Vietnam. Riguarda la ricostruzione di una piccola

comunità dopo il sanguinoso sconvolgimento della guerra civile americana, ma potrebbe essere ambientato anche nell'America post­

Vietnam. Fino a che punto è stata una scelta consapevole?

Giusto. Era implicito nella storia e penso che sia stato questo a colpirmi, ma non mi sono messo lì a pensare: «Bene, lo faccio adesso per il parallelismo tra la situazione storica di allora e quella del

Vietnam». Credo che lo sconvolgimento possa essere lo stesso dopo ogni guerra... è lo stesso.

In qualche modo, Josey Wales riporta la moralità, la moralità americana, nel personaggio dell’Uomo senza nome. Josey è deciso a

vendicarsi dei Kansas Redleg: «Non voglio che nessuno mi appartenga», dice, eppure viene sempre sviato dalla sua missione da diversi vagabondi che rifiutano di prendere sul serio la sua

immagine di macho. Nemmeno il segugio che raccoglie lungo la

strada si lascia abbindolare dalla sua immagine. Il succo è che, per quanto scarse possano essere le probabilità di successo, dovremmo

scegliere «la parola di pace» invece che «la parola di guerra». La

gentilezza invece della violenza... Beh, la cosa che mi piace di più del film è che è un western con una storia molto bella e un personaggio centrale, e poi mi piacciono le conseguenze su questo personaggio e le cicatrici che gli ha lasciato la vita, la sua ricerca di qualcosa da cui sia più facile scappare e il fatto

che casualmente le cose capitino tutte a lui; tutto questo lo rende una persona migliore. Comincia come contadino, poi diventa un killer, e alla fine toma a fare l’agricoltore, credo, anche se questo lo deve

decidere lo spettatore. Perché, come ho già detto, i film che ho fatto con Sergio, se fossero stati fatti con meno stile, sarebbero stati dei

film scadenti, perché non contenevano delle storie davvero valide, invece a me piacciono le storie. Non è che ci siamo veramente allontanati, penso che siamo solo diventati filosoficamente diversi.

Io stavo virando (com’è ovvio, dato che sono un attore) verso storie più reali, più personali. E lui, in quanto regista, puntava su ciò

che poteva dar valore alla produzione, quindi cercava scene sempre più sterminate, con treni che esplodevano, ancora più indiani sulle colline, o cose così... faccio solo degli esempi, niente di specifico... mentre io cercavo delle storie più personali. Lui cercava film più grandi, più epici, e io invece volevo film più intimisti. Nel Texano

dagli occhi di ghiaccio c’era una storia molto personale che però prevedeva anche scene di ampio respiro e questo per me era l'ideale.

Dev’essere un caso unico nella storia che un intero genere cinematografico dipenda dallefortune di un singolo individuo;

eppure, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, ilfuturo del genere western è dipeso in gran parte dalla performance al botteghino dei suoi lavori. Secondo lei, come mai negli anni Settanta il western è

praticamente crollato? Perché, per esempio, un western di Arthur Penn con Jack Nicholson e Marion Brando, che agli esperti del settore dev’essere sembrato diprim'ordine, è andato così male?

Non do tanto la colpa tanto al genere, quanto al materiale... quel lavoro con Nicholson e Brando, il film Missouri, per esempio, era

ridicolo. La sceneggiatura non era buona e naturalmente loro lo

sapevano, altrimenti per quale motivo uno dovrebbe accettare di vestirsi come sua nonna? Brando ovviamente avrà pensato che già che non c’era niente di buono, tanto valeva divertirsi. Quindi ha mandato

tutto in vacca e si è levato di torno. Credo che se avesse pensato davvero che il materiale era buono e che lui avrebbe potuto contribuire a fare un buon film, avrebbe gestito la cosa diversamente.

O almeno mi piace pensarla così. E dunque quale pensa che sia stato il suo particolare contributo

al western americano negli anni Settanta e Ottanta? Beh, forse la risposta è quella che ha dato lei. Forse sono stato abbastanza fortunato da fare alcuni dei pochi successi di quel periodo. Non ho nessuna rivelazione illuminante in proposito. Semplicemente

penso che il genere western faccia parte dell’eredità culturale americana; come lei sa, il primissimo film americano è stato The Great Train Robbery. Non esistono molte forme d’arte che siano veramente americane: la maggior parte proviene dall’Europa o da

altre aree. Le uniche due forme d’arte veramente americane a cui riesco a pensare sono il western e il jazz. Ma mi sono divertito a girare Lo straniero senza nome, mi piaceva l’ironia di fare una versione

stilizzata di cosa sarebbe successo se in Mezzogiorno difuoco lo sceriffo ucciso fosse tornato nelle vesti simboliche dell’angelo

vendicatore o qualcosa del genere; penso che fosse molto più originale

che fare un western puro e semplice o riproporre ancora una volta i vecchi conflitti lineari che vediamo da sempre. Il texano dagli occhi di ghiaccio aveva una storia molto più forte perché toccava la sfera personale e individuale; inoltre il protagonista era davvero interessante. Bronco Billy non era veramente un western... più un

film di Frank Capra che un western.

Il cavaliere pallido è una specie di allegoria, più nello stile dello

Straniero senza nome: più simile a quello, anche se il protagonista non è la reincarnazione di niente; tuttavia cavalca un cavallo chiaro come i quattro cavalieri dell’Apocalisse e potrebbe benissimo essere uno di loro. È una storia classica che parla di grandi eroi contro esseri

meschini, o di esseri meschini contro grandi eroi, di società minerarie che finiscono per sfruttare macchinari idraulici e spazzano letteralmente via delle montagne, tirano giù gli alberi e tutto il resto...

tutta roba che è stata vietata alcuni anni fa in California, ma che si fa ancora in Montana e in qualche altro posto. Era stato vietato per legge parecchio tempo fa, ancora prima che le preoccupazioni di carattere

ecologico fossero in primo piano come succede adesso. E noi nel film trattiamo questo argomento. Prendiamo una specie di posizione ecologica: questa società vuole fare in fretta prima che spuntino delle nuove leggi che vietino queste procedure, quindi sobilla delle persone

perché distruggano le proprietà dei minatori. E a un certo punto una

ragazzina prega perché arrivi questa figura che effettivamente spunta dalle montagne. Il cavaliere scende in città e, superati una serie di ostacoli, riesce ad aiutarli! Mi piacciono le storie di cui non si riesce a

immaginare il finale. Nella maggior parte dei western il finale si

indovina facilmente. Quindi secondo lei esiste ancora un pubblico per i western?

Questo genere può ancora farsi portatore di temi validi al giorno

d’oggi? Penso che un mercato ci sia, se si riesce a fare un buon film... perché in America, in tv, i western vanno davvero bene. Molti dei miei film vengono ritrasmessi di continuo; Bob Daly, il direttore della

Warner Bros., dice che riuscirà a vendere II texano dagli occhi di ghiaccio per dieci anni. È possibile che vadano bene in tv pervia del pubblico adulto. Ma se si riuscisse a portare queste persone al cinema

e magari se si trovasse un gruppo di persone che ultimamente non hanno visto western... Voglio dire, se facessi un sondaggio, come devono fare gli studios, che mettono tutti i dati in una raccolta dati, in un computer, cosa che io personalmente non farei... penso che il

risultato sarebbe positivo. Ma non ne sono sicuro... Di certo la musica country e western, «vecchia» e «nuova», non è mai stata popolare come adesso; Willie Nelson e Kenny Rogers hanno fatto entrambi dei western (Barbarosa, The Gambler) sulla

scia del successo come cantanti. Perciò, forse il modo migliore di

procedere potrebbe essere quello difare dei western moderni. Cowboy urbani, cavalieri elettrici... Beh, penso che il western debba essere in costume. Non credo che

possa essere moderno. Non penso che ci sia qualcuno di veramente

interessato a dirigere un western ambientato al giorno d’oggi... o forse sì, dipende dal film... non voglio essere categorico. Forse un film su un

rodeo o cose del genere potrebbe entusiasmare qualcuno. Forse. Ma

penso che il western in costume offra sempre quel genere di evasione... un’altra epoca, un tempo in cui le cose erano più semplici...

(.Intervista pubblicata come sesto capitolo di Christopher Frayling, Clint Easbvood, Virgin, Londra 1992, pp. 61-67. Ripubblicata su autorizzazione.)

SULLE NOTE DI CLINT DINATHENTOFF

(1988)

Avevo sentito dire che Clint Eastwood era appassionato dijazz; altrimenti, perché mai avrebbe diretto Bird, ilfilm biografico sul grande jazzista Charlie «Bird» Parker? Ma, a quanto pare,

Eastwood è molto di più che un appassionato, è un vero e proprio

fan. Quando parla dijazz, e in particolare di Parker, la voce gli si colora di entusiasmo. Come la maggior parte degli spettatori, mi immaginavo che nella vita reale Eastwoodfosse un uomo taciturno.

Eppure, quando parla del suo nuovo film, non ha nulla della «star». Il jazz è un argomento che lo spinge ad aprirsi. Uh tempo suonava il piano nei club di Oakland, in California; ancora adesso scrive musica e ha collaborato alla composizione dei temi di molti suoi film,

tra cui Corda tesa e II cavaliere pallido. Poiché ascoltare musica jazz fa parte integrante della vita di Eastwood, Bird è un film molto

personale. Eastwood ha temporaneamente messo da parte le pistole e gli schianti in auto per portare avanti lo studio di un personaggio. È chiaro che vuole che Bird sia un ritratto di quel musicista esplosivo e delle sue sonorità. Il suo orgoglio per questo progetto probabilmente non risentirebbe nemmeno di un’eventuale

accoglienza tiepida: Eastwood mi ha detto che, se Bird non dovesse

decollare, alla fine ci riuscirebbe qualche altro film sul jazz. In quale momento ha deciso difare un film sul jazz e in particolare su Charlie «Bird» Parker? Ho fatto molti film con delle colonne sonore jazz, da Brivido nella notte a Cielo di piombo, ispettore Callaghan, ma non avevo mai diretto un film su una personalità del jazz. E perché Charlie Parker? Quando avevo quindici o sedici anni l’ho visto in due o tre occasioni e

ne sono sempre rimasto affascinato. C’era qualcosa di speciale nel suo

modo di suonare, un suono molto sicuro di sé. La sua presenza era travolgente. Era come Gary Cooper o Clark Gable accanto a un tizio qualunque. Emanava un grande magnetismo. Un altro motivo per cui ho fatto il film è che sono affascinato dagli

anni Quaranta e Cinquanta. E volevo che la musica fosse proprio di

quell’epoca. Troppo spesso, quando si fanno dei period drama, si dice: «Dai, modernizziamoli un po’», e si perde tutta la purezza.

E quindi per la colonna sonora delfilm Bird ha estrapolato degli

assoli di Parker dalle registrazioni originali? Sì, abbiamo usato le registrazioni originali di Bird. Non delle cover. In quelle registrazioni originali i suoi assoli spiccano sempre e

sembra quasi che tutti gli altri scompaiano. Perciò abbiamo chiesto ai suoi vecchi compagni di suonare su quegli assoli e abbiamo affiancato loro dei musicisti equivalenti tra i jazzisti moderni. Dall’epoca di Bird

e da quella attuale abbiamo preso Walter Davis, Barn- Harris. Ray Brown, Jon Faddis, Ron Carter e Red Rodney. Red conosceva bene Bird. Come lei sa bene, c’è chi prova a farsi un’idea della sua posizione politica partendo dai suoi film. Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! potrebbe far pensare che lei abbia Io stesso concetto di legalità del procuratore generale Edwin Meese. Invece ifilm come Bronco Billy omaggiano un tipo di indipendenza più delicato. Crede che Bird

confonderà ulteriormente il pubblico?

Non capisco perché qualcuno debba vedere delle ramificazioni politiche in un film. Dopotutto, se ti piace fare dei film, se ti piace

coprire tutto lo spettro, non c’è nessun film in particolare che rispecchi quello che pensi nella vita reale.

Per esempio, ho sempre detto che Adolf Hitler dev’essere un personaggio affascinante da interpretare in un film. Probabilmente interpretarlo sarebbe il sogno di ogni attore. Ma ciò non significa che

quell’attore sia un nazifascista. Io sono solo un regista. Tuttavia Bird affonda le sue radici nella mia esperienza personale. Sono cresciuto a Oakland, in California, circondato da quel tipo di musica.

Molta di quella musica nasce dalla cultura nera che penso di conoscere non meno di qualsiasi altro bianco.

Lei è uno dei pochi registi/produttori che abbia la levatura, artistica e commerciale, per tentare di girare un film serio suljazz.

Come mai il jazz è sempre stato così snobbato dalpiccolo e dal grande schermo? È un'eresia, in un certo senso. Hollywood ha spesso evitato di fare

una trattazione seria della musica e dei musicisti, perché qui si seguono le mode. Pensiamo alla cultura in termini europei, la musica

europea, l’arte europea. Ma quando si tratta di jazz, un’innovazione

che ci arriva direttamente dal ventre delle città americane e che è amata e ammirata in tutto il mondo da un pubblico molto sofisticato,

non vogliamo perderci troppo tempo. E la maggior parte delle volte, quando ci occupiamo di jazz, ci concentriamo sul lato commerciale. Il suo metodo registico mi ricorda Duke Ellington, un grande

jazzista che certamente non è commerciale. Ellington era solito dire che se avesse dovuto ripetere una registrazione più di due volte, si sarebbe preoccupato, perché, se la musica fosse sembrata perfetta,

sarebbe sembrata una musica morta. Ed è noto che lei preferisce

dichiarare «buona la prima» ogni volta che può. Beh, certe volte è proprio l’imperfezione che rende le cose reali. Ho visto diverse volte dei film concepiti molto bene, ben strutturati, ma

che contengono qualcosa di morto. E la mancanza di vita dipende

proprio dal fatto che il film è stato rielaborato in modo eccessivo, che

gli attori hanno dovuto ripetere le scene fino allo sfinimento. Quello che tento di fare, ed è solo questione di tecnica, è di far sì

che i miei attori si calino nella parte ancora prima di iniziare le prove. Dico loro: «Volete che vi filmi mentre provate?» Perché certe volte fai una prova e ti viene da dire: «Accidenti, questa era proprio bella. Quanto vorrei averla filmata».

Perciò dico sempre di provare tranquillamente e io tengo la cinepresa in funzione. Si ottengono dei risultati molto belli perché gli attori recitano tranquilli, non stanno lì a pensare che stanno recitando

davanti a una macchina da presa. Lo fanno in modo realistico. Un personaggio che mi è sembrato estremamente realistico è

quello di Chan Parker, probabilmente la donna più importante nella

vita di Bird. Nei suoifilm lei ha inserito molte donne forti, sia in ruoli di primo piano, sia come personaggi secondari, e anche Chan

rientra nella categoria. Ha deciso questo approccio ai ruoli femminili in modo consapevole? No, penso di essere sempre proteso verso quell’approccio. Anche

se è vero che il primo film che ho diretto è stato Brivido nella notte, con un ruolo femminile travolgente. È venuto subito dopo La notte brava del soldato Jonathan. Quel film aveva sette ruoli femminili importanti, Geraldine Page, Elizabeth Hartman e altre attrici

meravigliose. Ma eravamo ai primi tempi del femminismo, e alcune

femministe durante qualche presentazione si sono alzate e hanno chiesto: «Perché è così oppressivo nei confronti delle donne?» Io spiegavo che continuavo a sentir dire che non c’erano ruoli abbastanza buoni per le donne. Cercavo solo di dare una mano. È ironico che, cinque anni dopo, mi si definisca un regista femminista.

In realtà la mia preferenza per i ruoli femminili forti nei film

deriva dalla mia infanzia. Sono cresciuto con film in cui le donne avevano sempre dei ruoli importanti. Barbara Stanwyck, Bette Davis. E il ruolo di Clark Gable in Accadde una notte funzionava solo perché era contrapposto a quello dì Claudette Colbert. Quei film erano molto più veritieri di molte pellicole di adesso, in cui la storia si incentra

sugli uomini, mentre le donne sono relegate nei ruoli secondari.

Non ha tentato di fare di questo film una pellicola commerciale. Ma potrebbe diventarlo?

Non lo so. Se si guarda alla storia dei film sul jazz, nessuno è mai diventato davvero commerciale. Però volevo comunque fare un film

così e sono grato alla Warner Bros, che mi ha permesso di girarlo. Ho detto alla Warner Bros, che non avremmo usato un attore famoso e loro sono stati d’accordo con me. Prima di loro avevo

mandato il copione alla Columbia, ma loro avrebbero voluto Richard

Pryor: penso che sarebbe stato un errore. Ha fatto molte cose meravigliose, ma con lui si sarebbe visto Richard Pryor, non Bird. Il pubblico si sarebbe aspettato un sacco di gag. Io invece volevo degli

attori bravissimi, ma che il pubblico potesse vedere nei panni dei personaggi. È stato difficile trovare gli attori protagonisti?

No. Mi era sempre piaciuto Forest Whitaker nei film che aveva

fatto. Aveva avuto dei ruoli secondari, ma si era sempre distinto. Anche il provino girato che ha fatto è risultato molto buono. Per cui ho detto: «Prendiamo lui!» Per quanto riguarda Chan, io non l’avevo

mai incontrata, ma avevo parlato di lei con delle persone e avevo letto

su di lei, mi è sembrato che Diane Venora avesse il giusto look e le qualità più adatte. È stata la primissima ragazza che ho preso in considerazione. L’ho vista in una registrazione, da cui risultava che

sarebbe stata proprio perfetta nel ruolo di Chan. Perciò ho esclamato: «Eccola qui!»

La serie dell’ispettore Callaghan è molto apprezzata dagli spettatori di colore. Come mai, secondo lei?

Prima di tutto il pubblico ha sempre le stesse emozioni e le stesse frustrazioni, indipendentemente dal colore della pelle o dal

background etnico. E, per quanto riguarda il crimine, le persone di colore hanno le stesse preoccupazioni di tutti gli altri. Inoltre Harry è un lupo solitario e. riguardo alle risorse dei singoli, ai diritti dei singoli, i neri la pensano esattamente come i bianchi.

Harry Callaghan piace a molti perché è sempre in lotta con la burocrazia. Cerca di portare a termine le cose, e non è facile, perché non si combatte solo contro il crimine, ma anche contro la burocrazia

di una società. Per vari motivi, la maggior parte dei suoifilm è un po’ un’estensione deifilm di Frank Capra eon Jimmy Stewart e Gary Cooper. L'eroe solitario che tenta di combattere il sistema. È un tema

che non muore mai. È l’eterno tema dell’essere diversi. Sia che si tratti di È arrivata la felicità, in cui Mr Deeds arriva e in città e distribuisce denaro a tutti,

per cui la gente pensa che sia matto, oppure di Mr. Smith va a Washington, in cui il protagonista vuole mostrarsi diverso dalla concezione di un politico normale. Qualunque sia la filosofia politica

implicita nel film, il punto principale è che il fatto che una persona sia diversa non significa che sbagli per forza. E nei film di Capra la

persona diversa è sempre quella che ha ragione. E corretto dire che il tema fondamentale dei suoifilm, con tutte le

varianti possibili, è lo stesso tema deifilm di Capra; il singolo contro il sistema? Bird ne sarebbe un buon esempio.

Penso che il tema di fondo sia proprio quello. Già. All’inizio

nessuno capiva cosa stessi facendo e nemmeno adesso sono in tanti a capirmi. Alcuni, per esempio, sono ancora attaccati all’idea che i film dell’ispettore Callaghan siano una specie di manifesto di destra. Certo,

se si vuole etichettare qualcuno, si possono considerare quei film in

quel modo. Ma possono essere interpretati anche in modo diverso. Se ci si prende la briga di pensarci su. Di sicuro si può considerare

l’ispettore Callaghan come un singolo che si mette contro il sistema. E adesso che ha finito Bird, cosa farà?

Ho alcuni progetti. Alcuni sono dei film di avventura, alcuni invece sono ancora diversi. Ogni tanto mi piace fare qualcosa di insolito. Un personaggio come quello di Bronco Billy. È uno dei miei preferiti, per

via deli’idealismo. Non ha nessun contatto con il mondo di oggi, ma ha un sogno ben preciso sul mondo che vorrebbe: andare in giro con un piccolo, sgangherato circo western, totalmente obsoleto.

Lei ha detto: «Più mi diversifico, più il pubblico si diversifica con

me, e questo mi piace». Ci sono mai state delle eccezioni? Ti seguono fino a un certo punto, e certe volte non sono del tutto convinti. Ma tu speri che ti accompagnino in uno dei tuoi viaggi e che apprezzino dei personaggi un po’ diversi da quelli più commerciali che

hai interpretato. Certe volte, però, non ti seguono per niente. Certe parti di Honkytonk Man. per esempio, hanno avuto una

buona accoglienza in Francia e in altri paesi e ad alcuni critici il film è

piaciuto molto. Ma il pubblico non mi ha seguito. Non gradisce che io mi autodistrugga e quello in un certo qual modo era un film

sull’autodistruzione. Anche La notte brava del soldato Jonathan era un film sull’autodistruzione e il pubblico non ha gradito neanche quello. Ma io mi sono divertito a farli e non ne sono affatto pentito.

Quando gira un film, ha una qualche percezione del suo pubblico? No, per niente. Vedo solo il progetto. Non mi piace pensarlo in

termini di pubblico. Faccio il film, punto e basta. E agli spettatori può piacere oppure no. Dipende da loro. Speri sempre che vedano nella narrazione quello che ci hai visto tu, ma una volta che il film è fatto lo deri lasciar andare. Lo devi fare per te stesso, altrimenti non resti

fedele a quello che ti sei ripromesso di fare. Se fai un film avendo in

mente un certo pubblico, oppure un determinato critico, ti freghi da solo ogni volta.

T.S. Eliot diceva che è probabile restare fregati qualunque cosa si faccia, che una volta che un’opera è uscita la gente la interpreterà come tu non l’hai mai voluta intendere e che non puoifarci niente. È vero. Ho tenuto lezioni di cinema in tutto il mondo e a volte la gente dà alle tue opere le interpretazioni più strampalate. Qualunque cosa dicano, io rispondo: «È vero!» Voglio che partecipino. Quello che

conta è ciò che dà loro più soddisfazione. E Bird le ha dato questo tipo di soddisfazione?

Sì, il jazz è parte di me fin da quando ero bambino. Ricordo quando, a diciannove anni, lavoravo a Springfield, nell’Oregon. Ero abituato a vivere nella baia di San Francisco, dove c’era jazz

dappertutto. Nell’Oregon invece esisteva soltanto la musica country,

tranne un programma jazz trasmesso da San Francisco a tarda notte. Cavoli, solo per il gusto di sentirlo, restavo alzato fino a tardi anche se il giorno dopo mi dovevo alzare presto per andare a lavorare.

Ascoltavo un pezzo o due e, wow, mi sentivo bene. È l’effetto del jazz e spero che il pubblico di Bird provi la stessa

cosa. Sto già ricevendo reazioni positive da parte di musicisti di tutto

il paese. Vengono da me, sono persone giovani, appassionate di jazz, e dicono; «Grazie per aver fatto un film sul jazz, grazie per aver girato questa storia». Anche se non sanno di che storia si tratti. Tutto questo

mi fa sentire bene.

Come regista, e questo è solo il secondo film che ha girato senza esserne anche il protagonista, lei sembra concordare con quei musicistijazz che sostengono che suonare è solo un modo di

raccontare una storia. Esattamente. Creare un’atmosfera, raccontare una storia e lasciare alla gente delle emozioni, dei pensieri sulle persone ritratte nel film,

su quell’epoca, e magari farle capire cosa faceva andare avanti le

persone in quel particolare periodo. E con Bird spero che si godranno la musica di quell’epoca sia quelli che al tempo la conoscevano sia quelli che non la conoscono affatto. E forse quelli che non la

conoscevano, dopo aver visto il film, capiranno quanto fosse divertente fare e ascoltare quella musica. Al giorno d’oggi il jazz viene preso molto più sul serio, come una

forma d’arte americana. Ma al tempo di Bird non ci pensavano nemmeno a queste cose. Erano semplicemente felici di suonare quello

che volevano suonare e contenti di tirar fuori cose nuove. E facevano una musica calda. Sa, nessuno ha mai fatto davvero vedere fino a che punto il bebop potesse essere caldo. È quello che abbiamo tentato di fare con Bird. Abbiamo tentato di farlo rivivere per quello che era

veramente. (.Intervista pubblicata su American Film, settembre 1988, pp. 24-31. Ripubblicata su autorizzazione dell’autore.)

INTERVISTA A CLINT EASTWOOD DI MICHEL CIMENT (199°)

Qual è stata la genesi di Cacciatore bianco, cuore nero?

Un certo Stanley Rubin, che avevo incontrato molto tempo prima

allinizio degli anni Cinquanta quando era produttore alla Universal, in quel momento lavorava per Ray Stark e mi chiese se mi interessava

leggere una sceneggiatura che, insieme ad altre, era ferma da un bel po' negli uffici della Columbia. Penso di averla letta in aereo tornando dalla Francia, dove avevo presentato Bird, Rimasi affascinato dal

soggetto. Poi lessi alcune sceneggiature successive, che erano state ritoccate,

e infine il libro originale. Seppi a quel punto che la Columbia si trovava in un periodo di transizione, stava per essere venduta alla

Sony; alla fine il contratto lo feci con la Warner Bros. Poi incontrai Peter Viertel che mi raccontò l’intera storia del romanzo, come aveva

cominciato a scriverlo e le disavventure durante il periodo di preproduzione della Regina d’Africa. Ne rimasi affascinato, come spesso mi succede con i comportamenti ossessivi. Il romanzo descriveva una personalità con una dicotomia evidente. Un uomo pieno di fascino e generosità, che si preoccupava dei più poveri, ma

che allo stesso tempo riusciva a essere crudele con il suo entourage, se

era dell’umore sbagliato. Un personaggio molto interessante da esplorare.

La sceneggiatura è cambiata da quando lei ha deciso difame un film?

Ho preso l’ultima sceneggiatura di Peter Viertel, Burt Kennedy’ e

James Bridges, ho tolto qualcosa e aggiunto qualcos’altro, ma più che altro si è trattato di limare qua e là. Quel copione mi piaceva perché

era rimasto fedele al romanzo, al contrario di altre versioni precedenti, in cui erano stati eliminati alcuni elementi che invece

secondo me andavano mantenuti. Tra tutti i film da lei diretti, quelli che riguardano uomini d’azione mostrano una struttura narrativa molto rigida e un ritmo

veloce, mentre ifilm sugli artisti, come Honkytonk Man, Bird, o Cacciatore bianco, cuore nero, tutti con personaggi portati

all’autodistruzione, hanno un andamento più sciolto, un ritmo più rilassato.

Non mi metto mai a cercare delle connessioni tra i film che ho diretto. Quello che so è che, come ho detto, mi interessano i comportamenti ossessivi. Il comportamento del personaggio del

Cacciatore bianco è molto diverso da quello di Honkytonk Man, un cantante che non aveva raggiunto la fama, anzi, si era quasi opposto al

successo perché ne aveva paura. D’altro canto, Bird era un uomo di

grande successo da un certo punto di vista, ma autodistruttivo

dall’altro. Non penso che il personaggio di Wilson, così come viene descritto nel film, sia completamente autodistruttivo, anche se può essere distolto dal suo obiettivo. L’ironia è che, pur allontanandosi così tanto dal suo scopo, riesce a fare ancora delle cose molto interessanti.

Su Hollywood sono state girate decine difilm. Adesso che ne ha fatto uno anche lei, quali sono i limiti che riscontra in questi film e in che senso, secondo lei, si mostrano invece fedeli allo spirito del

luogo? Mi sono lasciato guidare non tanto da quello che ho visto in altri film, quanto da quello che ho percepito nella mia vita professionale.

Ho assistito spesso a dei conflitti tra produttori e registi. Ho sentito

spesso ripetere le stesse discussioni sul budget e visto gente

commettere stupidaggini, anche se non ho mai conosciuto qualcuno come Wilson, che è un amalgama di persone diverse. Non ho mai

conosciuto nemmeno Huston, quindi non so come fosse veramente.

In base alle testimonianze di persone che l’hanno conosciuto, sospetto che Wilson gli somigli parecchio da svariati punti di vista. Ammiro molto i lavori di Huston e penso che abbia fatto alcuni film meravigliosi. Certe volte è preferibile non conoscere una persona, se si

vuole tenere una distanza maggiore rispetto all’argomento che si sta trattando. Ho parlato a molte persone che l’hanno conosciuto: Peter Viertel, sua figlia Anjelica, e altri. Quando ho iniziato il film, lui era

già morto. Se avessi potuto fare una chiacchierata con lui, forse mi

avrebbe dato qualche spunto, oppure avrei potuto ascoltare le riflessioni di un uomo che raccontava le sue esperienze passate, mentre io ero più interessato al dramma del momento attuale. Ha fatto delle ricerche per capire meglio il personaggio? Sì. Ho guardato dei documentari su di lui, ho ascoltato diverse

suoi voice-over per altri film e naturalmente avevo visto le sue performance come attore. Peter Viertel le ha raccontato le ragioni che l’hanno spinto a

scrivere il romanzo?

Mi ha raccontato che, durante le riprese, Huston era diventato ostile nei confronti di Sam Spiegel, anche se in precedenza aveva già lavorato con lui. Nella sua autobiografia, Huston racconta che aveva

cercato di ritagliarsi un periodo di tre settimane per fare dei safari mentre si trovava in Africa. Fu questo che spinse Peter Viertel a

scrivere il romanzo. Si trovava di fronte a qualcuno che in teoria era là con tutto lo staff tecnico per cercare delle location e prepararsi a

girare un film, e invece se n’era andato a uccidere degli elefanti! Che

cosa succede quando avviene questa tragedia e in quale modo un gruppo di persone può venirne colpito? Nel ritrarre Huston, lei è riuscito a evitare due rischi: quello di

non essere in grado di suggerirne la presenza e quello di tentare di imitarlo. La trappola principale sarebbe stata fare una specie di imitazione,

come quelle che si vedono nei locali di stand-up. Ho invece cercato di pensare come lui, di sfruttare quella concezione molto particolare che

lui stesso aveva sviluppato, a volte con un deliberato senso di

superiorità. Aveva un modo tutto suo di chiedere agli altri di starlo ad ascoltare. Ho voluto ricreare quell’atteggiamento. Anch’io sono alto, aU’incirca come Huston: ho studiato il suo comportamento e la sua

dizione nei suoi film, ho cercato di ricostruire il suo modo di pensare. Dopodiché è diventato tutto naturale. Ho voluto analizzare le

sensazioni interiori, la filosofia, condividere il suo stesso atteggiamento riguardo al mondo. Non ho tentato di imitarne i gesti, anche se spesso ho recitato con una sigaretta in mano, perché lui era un fumatore incallito. Ma, dato che il personaggio si chiama John

Wilson, nel film c'è anche un lato di fantasia e non volevo che lo spettatore fosse sopraffatto dalle analogie.

Il personaggio rispecchia molto da vicino Huston, a parte il fatto

che quest'ultimo, durante la guerra, non ha girato documentari a Londra, ma nel Pacifico e in Italia. Quando sono stato reclutato, al tempo in cui Huston girava La

regina d’Africa, uno dei miei lavori supplementari, oltre a fare l’istruttore di nuoto, era proiettare dei filmati di addestramento per i

soldati. Continuavo a far vedere San Pietro, uno dei miei preferiti. Devo averlo visto una cinquantina di volte, nei due anni che ho passato sotto le armi! La voce narrante era dello stesso Huston e ascoltarlo quando ero ancora giovanissimo mi ha reso familiare la sua

cadenza. Ha mai pensato di affidare la parte a un altro attore? No. La parte mi piaceva e non appena ho letto il copione ho pensato che l’avrei interpretato io. È stato solo in seguito che ho

pensato anche a dirigerlo. Ovviamente lei è attratto dagli artisti (cantantifolk, musicisti jazz, registi), e dal rapporto tra la vita e l’arte. Ogni volta che si vuole filmare una storia, è sempre interessante

riprenderne gli aspetti più insoliti, e Huston aveva una personalità

davvero insolita, così come Charlie Parker.

La pellicola, poi, non è la storia della realizzazione di un film. E anche questo è insolito. Gli stessi personaggi di Humphrey Bogart e Katharine Hepbum sono come delle sagome sullo sfondo.

Perché non è quella la storia che voglio raccontare. La gente ha già

visto La regina d’Africa. Cacciatore bianco, cuore nero è un altro film. Racconta di come il regista sia arrivato a girare La regina

d’Africa e come, pur essendo ossessionato da cose che non hanno niente a che fare con il cinema, sia comunque riuscito a dirigere il film. È la storia di uno che cade sempre in piedi.

Al di là delle due scene sul razzismo, lei riporta, a turno, il punto

di vista di tutti i personaggi. Dà una chance a ciascuno, come ad esempio nella conversazione sull’essenzialità nell’arte. Certo. Nel film lo sceneggiatore interpreta un po’ il ruolo della

coscienza, ha la sua filosofia e si attiene a essa anche se il regista, Wilson, travolge tutti quando passa perché il capo del progetto è lui. È quello che mi è piaciuto di questa storia, che non si limitava a presentare le idee di un solo personaggio. Ognuno ha le sue ragioni. Anche Paul Landers, ispirato a Sam Spiegel, dice alcune verità. Non è il «cattivo». Si prende le sue responsabilità. Il libro e il romanzo si

basano sull’interazione tra filosofie personali diverse. L’unico

«cattivo» della storia è proprio l’ossessione di Wilson. Quello che mi ha attratto non è solo l’aspetto drammatico, ma anche lo scambio di

idee. Anch’io credo nell’essenzialità dell’arte, ma credo anche che non esistano regole.

Pensa che gli artisti, man mano che invecchiano, tendano

all’essenzialità? Lepore di notare un’evoluzione simile nelle sue opere dai tempi di Brivido nella notte e Lo straniero senza nome?

Tutto dipende dal progetto. Tuttavia penso che, una volta che un artista ha acquisito maggior fiducia nelle sue capacità e maggior esperienza, per lui sia più facile essere essenziale. Una volta che ti sei affermato, il pubblico conosce meglio le tue opere e quindi puoi

tracciare delle linee più semplici invece di lavorare a macchia di leopardo. Molti giovani registi che vengono dalla televisione credono

di dover far sentire la loro presenza sullo schermo, di aver bisogno di muovere continuamente la cinepresa. Se faccio anche l’attore, non ho bisogno di imporre la mia presenza come regista e quindi il pubblico

può rimanere attaccato alla storia senza essere distratto dalle angolazioni «interessanti» proposte dall’uomo dietro alla cinepresa. C’è anche una discussione sull’arte in rapporto al pubblico in cui Wilson sostiene che non si deve stare a pensare agli spettatori, mentre Peter rifiuta ifilm senza lieto fine. Anche in questo senso credo che entrambi abbiano dei punti di vista molto validi. Wilson è in una fase della sua vita d’artista in cui ritiene di dover essere totalmente onesto riguardo all’argomento che sta trattando e al fatto che non gli interessi sapere se la gente vuol

vedere il suo film 0 meno. Sono d’accordo con lui. Se, da regista, pensi

che un’auto debba sfasciare la vetrina di un negozio perché al pubblico piacerà, farai un film con poca sostanza. Quando credi in un progetto, devi andare avanti e, se avrai fortuna, il pubblico ti seguirà.

Sono stati in molti a consigliarmi di non girare Cacciatore bianco, cuore nero perché non corrispondeva alle ricerche di mercato sui gusti del pubblico e, sebbene non abbia usato gli stessi termini di

Wilson, io ho sempre risposto che non ci si può occupare a priori di quelli che si suppone siano i gusti del pubblico. Io sono come una guida turistica: guido il tour e la gente può abbandonarlo a metà se

non lo apprezza. Con i film, la gente ha sempre la possibilità di uscire

dalla sala. Perciò, alla fine, saranno sempre loro ad avere l’ultima parola su quello che vogliono vedere! Sono di questo parere fin dai tempi della Notte brava del soldato Jonathan. Albert Maltz aveva

scritto un copione con un lieto fine: l’eroe che aveva perduto una

gamba andava verso il tramonto con la ragazza. Io e Don Siegei

pensavamo invece che, come dichiarazione pacifista, il finale del romanzo fosse molto più convincente. Già allora adottammo il punto

di vista di John Wilson: decidemmo di andare avanti e di rimanere fedeli alle nostre convinzioni. D’altro canto, riesco a capire lo sceneggiatore del nostro film quando dice che nel mondo ci sono già abbastanza disgrazie e che il progetto a cui stanno lavorando può consentirgli di portare un po’ di

felicità. E infatti è proprio quello che è successo in particolare in quel film, La regina d’Africa. Ma era dovuto al Codice Hays. La conclusione del copione era pessimista, così come l’aveva voluta Huston. Nel libro c’è un’idea moltoforte, e cioè che per un artista la vita

(in questo caso la caccia all’elefante) può venire prima della sua arte. Era tipico di Huston, al contrario di Hitchcock, per il quale il cinema

era tutto. E un altro aspetto di questo personaggio che mi è piaciuto: oltre alla sua arte si interessava anche ad altre cose. Gli piacevano le donne,

il gioco, fare la bella vita, viaggiare. Riusciva ad avere una vita parallela al lavoro. Mi potevo identificare con questo tipo di comportamento. Ma, proprio per questo motivo, la sempre maggior

attrazione per i vari aspetti della vita lo allontanò dalla sua arte finché lui stesso non rimase quasi travolto da una tragedia. E la tragedia lo riportò alla realtà.

Passando in rassegna la vita di Huston, ci si rende conto che all’età di diciannove anni pensava che non sarebbe tèssuto a lungo perché, a causa di una diagnosi errata, un medico gli aveva comunicato che aveva un problema cardiaco. Questo lo portò a elaborare una sua personale filosofia, e cioè quella di trarre il massimo vantaggio dalla

vita. Non si preoccupava di se stesso, era un fumatore incallito e un grande bevitore, eppure risse fino a più di ottant’anni. Paul Newman

mi parlò di lui una volta, mentre eravamo impegnati a recitare a Tucson, in Arizona, in due film diversi. Lui era il protagonista dell’ Uomo dai sette capestri e io recitavo in Joe Kidd con John

Sturges. Huston beveva martini e fumava il sigaro tutta la notte, dormiva

dall’una alle quattro di mattina perché soffriva di insonnia, faceva tutto quello che non si deve fare se si vuole rivere a lungo, eppure è morto a un’età avanzata! La stessa cosa era successa con John Wayne,

che era l’esatto contrario di un salutista. Lo stile dei suoi due ultimi film è molto legato al soggetto. Bird aveva una concezione estremamente libera, come un’improvvisazione jazz. Cacciatore bianco, cuore nero, al contrario,

ha una narrazione lineare, esattamente come un film di Huston o di Hawks: l’odissea di un uomo che, alla fine, trova se stesso. Ho sempre pensato che ogni film imponga la propria vita, il proprio ritmo. Suppongo che fosse così anche per Huston, perché anche lui ha fatto delle tipologie di film molto differenti. Anche

Hawks poteva dirigere II fiume rosso da una parte e La signora del venerdì dall’altra con ritmi e punti di rista quasi opposti. La mia filosofia registica mi è sempre sembrata molto simile. Ogni film assume il controllo del proprio regista, non

necessariamente dal punto di rista intellettuale e qualche volta

esclusivamente a un livello emotivo. Ti ritrovi a portare avanti regia e montaggio in un modo magari diverso da qualunque cosa tu abbia fatto fino ad allora. Ma forse ci sono dei registi che fanno i loro film

sempre allo stesso modo...

Naturalmente lei ha aggiunto molti elementi al copione: per esempio l’abitudine di John Wilson di disegnare mentre parla con le persone. Mentre parlavamo delle caratteristiche particolari di Huston, Peter Viertel mi svelò che era bravissimo a disegnare e che, come

passatempo, gli piaceva fare degli schizzi. Ho pensato che potevo

usare questo dettaglio e che sarebbe stato interessante vederlo rappresentare la donna come Hitler. È il tipo di idea che ti viene mentre stai girando.

Come ha concepito lo schema cromatico delfilm, insieme a Jack. Green? VAfrica ha un aspetto tutto particolare, così come i suoi cieli. E

anche l’Inghilterra. Non ricordo con precisione quale idea avessimo elaborato per la fotografia, tranne il fatto che io volevo mantenere un determinato ritmo nel film e contrapporre l’Inghilterra all’Africa, anche se non si tratta di un grande film di avventura Sull’Africa ma di una storia molto personale che si svolge in Africa. Ma il continente

africano ha gli stessi cieli del Montana e non volevo trascurare questa dimensione. Volevo ottenere un bel connubio tra una storia intima e la dimensione del paesaggio. La fotografia non doveva essere scura

come in un film notturno tipo Bird ma, al contrario, doveva essere molto luminosa. Per la sequenza di apertura delfilm, attraverso i movimenti di macchina e il montaggio, lei crea una bella dinamica che trascina lo

spettatore verso la casa di Wilson. Era già stato previsto nella

sceneggiatura? Sì, e le scene sono state filmate di conseguenza, in modo da creare quel tipo di slancio. Volevo entrare molto rapidamente nel film e dare al pubblico un assaggio dei personaggi senza dare troppe spiegazioni:

ecco come sono, questo è quello che fanno, ecco un’idea della loro filosofia, adesso passiamo al seguito...

Come ha trovato Jeff Fahey, che interpreta Peter? È un attore a cui avevo già pensato due o tre anni fa per un altro film, ma che all’epoca non era libero. Lo consideravo un giovane attore di grande talento. Poi mi sono reso conto che sarebbe stato

perfetto per Cacciatore bianco, cuore nero. Quando interpreta una parte e contemporaneamente dirige il

film, il suo rapporto con gli altri attori cambia? È indubbiamente difficile ma, d’altro canto, l'ho fatto così tante

volte che so di esserne capace. Quando sono in scena, recito con tutta la concentrazione possibile. È vero che durante le prove mi concentro forse solo per il cinquanta per cento su quello che sto facendo e che dedico il resto dell’attenzione alla preparazione della sequenza. La

prima volta che ho fatto da regista e da interprete insieme, per Brivido nella notte, nel 1970, mi è sembrato un po’ schizofrenico, ma dopo i primi due o tre giorni di riprese mi ci sono abituato. Per quanto

riguarda gli altri attori, posso dedicargli più tempo perché conosco molto bene il mio personaggio, dato che ci ho già lavorato su nel copione e ho già pensato a come dirigerlo. Se ti interessa davvero il progetto nel suo insieme, si vede, e tutta la troupe se ne rende conto. D’altro canto, se ti interessa solo il tuo personaggio, se ne accorgono

tutti... Il tema del film è una ricerca metafisica come quella di Moby Dick — La balena bianca, che Huston girò alcuni anni dopo La regina

d’Africa. È un riflesso della personalità di Huston. Aveva degli interessi talmente diversificati, che potevano entrare in conflitto con la sua pratica registica. In certi suoi film si può capire quale fosse la parte

che preferiva. Per esempio, in Riflessi in un occhio d’oro c’è ima sequenza con un cavallo nel bosco e ti rendi conto che a Huston è piaciuto molto girarla. In altre sequenze, invece, non ti pare che ci

abbia messo l’anima allo stesso modo. Da questo punto di tasta era un

impulsivo. Nella sua autobiografìa parla della propria ossessione per

gli elefanti e può essere che Peter Viertel avesse provato una certa emozione di fronte a quello sterminio. Probabilmente, nel 1953, non

era questa la sua preoccupazione principale mentre, a mio avviso, ai giorni nostri è diventata una questione importante. O almeno lo è per me. E probabilmente è uno dei sottotesti che mi hanno attratto verso

questo progetto. Questo animale, l’elefante, è un legame tra la preistoria e oggi. Ma non trova ci sia una contraddizione tra il suo violentissimo

attacco alla donna antisemita e la sua invettiva contro Paul, il produttore, che definisce «mercante di tappeti dei Balcani» e a cui dichiara: «È un argomento troppo difficile perché il tuo cervellino ci possa arrivare... accidenti, dovrei spiegarti il suono del vento e il

profumo del bosco. Dovrei ricrearti da zero ed estirpare tutti quegli

anni che baipassato su un marciapiede sporco con le scarpe strette»? A quanto pare, secondo lui, un ebreo non può capire l’etica

WASP degli Hawks e degli Hemingway. Non credo che, quando lo ha definito «mercante di tappeti dei

Balcani», si riferisse necessariamente al fatto che era ebreo. Alludeva

all’atteggiamento di uno che è stato un trafficone per la maggior parte della vita. È un altro degli aspetti interessanti di questa sceneggiatura. Da una parte John Wilson ammette che anche lui è stato un trafficone

e probabilmente anche lui ha vissuto una vita che gli stava stretta, e dall’altra perseguita Paul per lo stesso motivo. Penso che in generale la sua crudeltà nei confronti di Paul Landers sia dovuta alla mancanza di sensibilità, e non fa nessuna differenza che sia ebreo oppure no. Per

quanto riguarda l’ironia della scena con la donna inglese antisemita, Peter Viertel mi ha raccontato che non aveva avuto bisogno di

scriverla: era successa davvero. Viertel era stato presente alla conversazione tra Huston e questa donna e la scena aveva stuzzicato a tal punto la sua curiosità che era salito immediatamente in camera

per prendere nota dello scambio di vedute parola per parola. Il suo atteggiamento verso i neri è più coerente rispetto a quello

che ha nei confronti di Paul. Lotta per difendere l’onore di un nero,

vuole bene a Kivu e si sente colpevole della sua morte. Wilson, così come Huston, aveva un grande trasporto verso le vittime della società, se ne sentiva attratto. D’altro canto poteva essere molto brutale con le persone che lavoravano fianco a fianco con lui.

Durante le riprese della Regina d’Africa ci fu un vero antagonismo tra lui e Spiegel. È una difficoltà in cui mi sono imbattuto anch’io, ho visto registi litigare con i produttori solo perché se li trovavano

davanti.

Don Siegei è un buon esempio di questo tipo di comportamento. Don non aveva nessun rispetto per i produttori, faceva parte del suo carattere. Mentre giravamo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuoi, gli ho detto; «Don, questa volta sei regista e produttore allo stesso tempo. Non avrai più nessuno da odiare sul set!» Era solito dire: «Non riesco a capire che cosa faccia un produttore». È vero che alcuni produttori non fanno niente, ma altri

lavorano tantissimo. Sam Spiegel era uno di quelli e ha prodotto alcuni film notevoli. Per un qualche motivo che non conosco c’era dell’ostilità tra lui e Huston sul set della Regina d’Africa.

La sceneggiatura della Regina d’Africa è di James Agee. Che ruolo

ha avuto Peter Viertel? Era stato ingaggiato per riscrivere alcune scene e adattare la

sceneggiatura nella direzione richiesta da Huston. Ma in realtà era più

che altro un amico. Come dice Wilson: «Non ti preoccupare per la sceneggiatura. Andiamo in Africa a divertirci!» Si era portato dietro l’amico per fare qualche ritocco e per andare a caccia. In questo film le donne vengono trattate particolarmente male,

dalla segretaria all’amante con il cagnolino e, naturalmente, la donna antisemita. Più che nei confronti dell’universo femminile, il film è ancora meno indulgente con il personaggio di Wilson e con il modo in cui lui tratta le donne in generale! È crudele nei confronti di una segretaria

che in realtà è molto efficiente. Ancora una volta, è perché si sente molto vicino a lei.

Le sembra più facile girare delle scene d'azione piuttosto che gli scontri tra i personaggi? In una certa misura, sì. Per esempio, è stato difficile filmare la sequenza in cui i personaggi scendono lungo il fiume su una barca,

perché nell’acqua c'erano i coccodrilli e abbiamo dovuto girare da un elicottero. Ciò ha creato dei problemi tecnici ma, se si è disposti a

prendersi il tempo necessario, sono cose che si possono risolvere. Ma quando ti ritrovi con due persone in una stanza, devi tirar fuori tutti gli elementi costitutivi della scena, altrimenti non riesci a catturare

l’attenzione del pubblico. L’intera sequenza può andare in frantumi per delle cattive interpretazioni da parte degli attori 0 per un ritmo

inadeguato e in quel caso il pubblico ti abbandonerà più facilmente che in una scena d’azione. Wilson dichiara che l’Africa gli ha rivelato degli aspetti della sua personalità. Quali sono state le sue reazioni quando si è trovato in

quel continente? Prima di fare quel film, non ero mai stato in Africa e devo dire che l’ho adorata. C’è qualcosa di speciale nel sentirsi così lontano da casa; anche con i mezzi di comunicazione di oggi, è sempre lontanissimo.

Ma se pensiamo che Huston e il suo team hanno dovuto raggiungere le location in un DC3, quella sì che dev’essere stata una spedizione

vera e propria! Mi sono piaciuti molto gli africani, in particolare quelli dello Zimbabwe, lì paesaggio ha una tranquillità tutta sua e ti porta a considerare il mondo in termini diversi. Abbiamo fatto delle riprese

presso il lago Kariba, poi a Tiger Bay e infine nel parco di Hvvange,

dove abbiamo girato le scene della caccia agli elefanti. Poi siamo

tornati alle cascate Vittoria. Abbiamo girato sette settimane in Africa e due e mezza a Londra. La musica è molto discreta. Non volevo una tipica colonna sonora africana, e non volevo che la

musica prendesse il sopravvento sul film. Mentre giravo la scena della partita di calcio, le comparse erano così brave che si sono lasciate

prendere la mano, mettendosi a cantare e a ballare. Ho deciso di continuare a girare. Dopo aver montato la sequenza, ho pensato che

sarebbe stato bello riproporla alla fine. Ho chiesto a Lennie Niehaus di prepararmi una colonna sonora molto scarna. Lui ha avuto l’idea di contattare Emil Richards, un esperto di percussioni e batterista jazz. La sua passione è collezionare strumenti a percussione provenienti da

tutto il mondo. Ci ha portati in una grande sala piena di migliaia di

tamburi, dove abbiamo passato l’intera serata a raccogliere tutto il materiale audio di cui avevamo bisogno per la colonna sonora.

L’unico altro strumento che ho usato è stato il flauto contralto per alcune sequenze, e basta. Lennie Niehaus era l'arrangiatore di Jerry

Fielding, con cui avevo lavorato. Dopo la morte di Jerry, cercavo

qualcuno che avesse lo stesso tipo di creatività. Con Bird è stato più complicato che con Cacciatore bianco, cuore nero, per il quale cercavamo solo delle sonorità diverse. Per Bird avevo chiesto a Charles McPherson di seguire le riprese, di usare i temi musicali

corrispondenti agli stati d’animo di Parker e di eseguirli come se

fossero stati nella sua mente. In compenso il montaggio è molto complesso. Quando concepisco un’idea, ho in mente il film già montato. Certe

volte una sequenza è più lunga del necessario. Per esempio, in questo film, le scene con l’aeroplano. Di solito ho un’idea del montaggio nel momento stesso in cui comincio a girare una sequenza e quindi so già di quale materiale avrò bisogno. Quando poi ho finito di girare, non sto un’eternità al tavolo di montaggio. Assemblo gli elementi così

come li avevo concepiti all’inizio, do alcune dritte al mio montatore capo e poi sarà lui a fare il lavoro. Se, per un qualche motivo, il film

non sembra corrispondere alla tua idea iniziale, puoi ritoccarlo, fare degli aggiustamenti. Certe volte tutti i pezzi combaciano alla

perfezione e allora è meraviglioso.

Il film stesso sembra un po' un blocco per schizzi, come quello che Wilson porta sempre con sé. È una serie di disegni con delle pennellate non troppo marcate. Non evito totalmente gli artifici che evidenziano il pathos, ma

questo film in particolare mi sembrava più che altro un frammento della vita di una persona. Wilson aveva una vita prima e avrebbe avuto una vita dopo, ma in quel momento ha avuto un’esperienza che avrà un impatto sul resto della sua esistenza. Ho in cantiere per la primavera un progetto che sarà pieno di azione. È un altro film

poliziesco, molto diverso da questo. Ha un carattere tutto suo e, se sarà fatto bene, potrà diventare qualcosa di buono. Si tratta di una sceneggiatura originale, intitolata La recluta. Charlie Sheen interpreterà il novellino mentre io sarò il poliziotto maturo (ride). Qual è il suo debito nei confronti di Don Siegei, che in un certo

senso è stato il suo mentore e che lei ha potuto osservare al lavoro, mentre recitava nei suoifilm? È una domanda che mi hanno già fatto in passato, ma non sono

mai riuscito a trovare una risposta soddisfacente. So che ha avuto un’influenza su di me, ma non riesco a dire quale di preciso, tranne

che aveva una personalità simile a quella dei suoi predecessori Walsh,

Ford, Hawks e Wellman (per il quale, detto per inciso, ho interpretato

un piccolo ruolo), delle personalità che al giorno d’oggi è difficile trovare nel mondo del cinema. Erano uomini molto diretti sotto tanti punti di vista. Don era

dotato di grande coraggio e il motivo per cui andavamo così d'accordo

era che ci spingevamo a vicenda a mettere alla prova la nostra audacia, come ad esempio nella Nòtte brava del soldato Jonathan. Ho sfruttato la mia influenza nei confronti dello studio per portare avanti l’impresa e perché potessimo rimanere il più possibile fedeli al

romanzo. Ha avuto delle difficoltà a far produrre Cacciatore bianco, cuore

nero? Penso che alla Warner Bros, il materiale e la sceneggiatura piacessero davvero ma che probabilmente avrebbero preferito che

facessi un altro film d’azione. E sebbene Bird non sia stato un successo paragonabile a quello ottenuto da Chi ha incastrato Roger Rabbit? penso si siano resi conto, grazie alle reazioni positive che il film ha ricevuto da molte parti, che potevano esserne orgogliosi. È un altro aspetto della cinematografia. Ho sempre cercato di convincere lo

studio che è bello fare dei film che fanno soldi a palate e far felici gli

azionisti ma che è anche possibile scoprirsi orgogliosi di un film a posteriori. In passato gli studi hanno prodotto molti film che

probabilmente non hanno avuto successo al botteghino, ma sui quali sono ben felici di aver stampato il loro marchio. (Intervista pubblicata con il titolo «Entretien avec Clint Eastwood»

su Positif, n. 351, maggio 1990, pp. 5-xx, traduzione dalfrancese di Kathie Coblentz. Ripubblicata su autorizzazione.)

INTERVISTA A CLINT EASTWOOD DI THIERRYJOUSSE E CAMILLE NEVERS

(1992)

Dopo aver visto Gli spietati, ci è sembrato indispensabile incontrare Clint Eastwood. Lo abbiamo fatto alla fine dello scorso agosto,

durante un intenso tour promozionale. Riservato, spiritoso,

perspicace: il vero Clint Eastwood.

Gli spietati è un western relativamente diverso da quelli che ha

diretto 0 interpretato in precedenza. Come mai ha voluto riprendere

questo genere e quale pensa che sia la differenza rispetto agli altri? Non so dirle esattamente perché ho voluto fare un altro western,

perché non avevo nessun motivo per farlo o non farlo; non è stata una decisione dovuta a qualche particolare tendenza, anzi, non c’era proprio nessun motivo predeterminato, ed è per questo che il progetto

è stato ancora più entusiasmante per me: preferisco portare avanti i miei lavori senza darmi una direzione iniziale. Allora, perché proprio un western? Sembrava l’unico genere con cui si potesse presentare quella storia, in realtà è dipeso tutto dalla storia. Non ho mai pensato di portare avanti un progetto perché era di moda-, al contrario, ho

sempre sentito il bisogno di andare in controtendenza. E comunque mi sento anche un po’ in colpa per aver cercato di andare ogni volta contro le mode, contro il successo assicurato. Riguardo a cosa renda questo western diverso dagli altri, mi

sembra che il film tratti la violenza e le sue conseguenze in modo molto più approfondito di quanto io abbia mai fatto prima. In passato,

nei miei film ci sono state molte morti gratuite; quello che mi è

piaciuto di questa storia è che la gente non viene uccisa, né ci sono atti di ■violenza, senza che ci siano determinate conseguenze. È un problema che mi sembra molto importante prendere in

considerazione al giorno d’oggi, credo che stia assumendo delle

proporzioni che in passato non aveva, anche se, nel corso della storia,

è sempre stato presente. Gli spietati è dedicato a Sergio Leone e a Don Siegei. Che rapporto ha il suofilm con il loro modo difare cinema?

Per quel che mi riguarda, il film non ha molto a che fare né con Sergio né con Don. Ma è altrettanto vero che non sappiamo mai in che misura le vicissitudini della nostra vita, le persone con cui abbiamo 0

non abbiamo lavorato avranno un peso in quello che facciamo, che si tratti di John Ford, tanto per fare un esempio, o di chiunque altro.

Sergio e Don sono due persone con cui ho lavorato in momenti importanti della mia vita e, per uno scherzo del destino, sono morti entrambi negli ultimi due anni. Per questo ho voluto rendere omaggio

a questi due uomini, che hanno avuto una così forte influenza su di me, al di là che abbiano o meno avuto a che fare con questo film. Mi

piace pensare che avrebbero apprezzato la storia. Forse no, ma penso che a Don sarebbe piaciuta tantissimo. Ha modificato la sceneggiatura, per esempio per quanto riguarda il tema della violenza? Nella sceneggiatura il tema della violenza era già presente, come pure le sue ripercussioni sui personaggi, sia i carnefici, sia le vittime. È un tema particolarmente interessante in un western, perché i

western sono sempre stati costruiti intorno a dei comportamenti violenti, a una frontiera di violenza insita nell’uomo. E questo film ha

messo in discussione certe cose, in particolare riguardo al tema della giustizia. Si potrebbe pensare che se all’inizio il personaggio di Little

Bill [Gene Hackman] avesse reso giustizia a quelle donne, la storia

sarebbe stata tutta diversa. Ed è proprio il fatto che non se ne sia preoccupato, anzi, la sua indifferenza di fronte a un atto violento, che mette in moto tuttala storia... portandolo dritto alla morte.

C’è un legame tra l’attuale situazione politica negli Stati Uniti e il suo film? Sì, penso che si potrebbero fare dei paralleli. Ma non era la mia

intenzione iniziale. In fondo sono preoccupazioni eterne, che non sono tipiche di una sola epoca. Tuttavia, se consideriamo l’attuale situazione degli Stati Uniti, mi è sembrato che fosse il momento giusto per fare questo film. Anche se la sceneggiatura degli Spietati è stata scritta molto tempo fa, al momento di girare il film sono stato

influenzato da molti eventi recenti.

Come la guerra del Golfo, per esempio? No. non ho pensato alla guerra del Golfo più di quanto abbia

pensato ad altri conflitti internazionali, ma piuttosto a dei conflitti

interni di cui attualmente l’America è in balia. Lei si è impegnato direttamente nella politica americana

diventando sindaco di Carmel... Sì, sono stato sindaco di Carmel, ma solo per due anni. E durante quei due anni ho fatto anche due film, Bird e Gunny... Sono

repubblicano perché ho scelto quel partito al tempo del servizio militare all’inizio degli anni Cinquanta, quando ho votato per Eisenhower, ma tendo a considerarmi più che altro un «libero

pensatore». In realtà le mie scelte politiche non collimano completamente con nessuna delle due fazioni, io mi considero un po’

un libertario, nel senso che ritengo che si debba permettere alla gente

di ■vivere in pace, rispettando le libertà individuali. Pensa che sarebbe possibile ricostruire la sua traiettoria personale attraverso i suoifilm, che, in una certa misura, raccontano la storia di un uomo, la sua?

Beh, direi piuttosto che, da un certo punto di vista, c’è un po’ di me in tutti i miei personaggi mentre, sotto altri aspetti, non c’è niente di me in nessuno dei personaggi di cui ho indossato i panni. Dopotutto non devo necessariamente essere d’accordo con nessuno dei personaggi che ho interpretato. Alcuni di questi non corrispondono

assolutamente alla mia filosofia di vita, altri mi somigliano sicuramente di più. Ho interpretato alcuni bei personaggi che erano dei «perdenti», come il protagonista di Honkytonk Man, per esempio,

uomini destinati all’autodistruzione. Ma ho scelto di rappresentarli

perché conosco molte persone come loro e in qualche modo ne sono affascinato. Perciò, anche se nel profondo non mi somigliano affatto,

ho conosciuto molte di queste persone votate all’autodistruzione, che non hanno utilizzato il loro talento... ammesso che l’avessero... non lo so. Alcuni di questi film, più di altri, trasmettono un messaggio che mi

vede pienamente d’accordo. E alia fine ci vedo sempre un messaggio

implicito che corrisponde a come sono fatto io. È vero che Gli spietati sarà l’ultimo film in cui è anche attore e che

infuturo reciterà solo sotto la direzione di altri registi?

Ho iniziato a dirigere i miei film nel 1970. In quel periodo l’unica

possibilità che avevo di dirigere un film era di farne parte anche come

attore... A quel tempo era una questione pratica. In seguito ha cominciato a piacermi. C’è stato uno dei miei film, il secondo o il

terzo, in cui non recitavo [il terzo, Breezy, con William Holden, che dal punto di vista finanziario fu un disastro, n.d.r.J. Poi ho continuato a ricoprire entrambi i ruoli ogni volta che mi sentivo particolarmente

attratto da un progetto. Ma non penso che continuerò a farlo regolarmente anche in futuro. Recitare in un film di cui si è anche

registi è un lavoraccio. Per cui, da adesso in poi, penso che per me sarà più semplice lasciare fare il regista a un altro quando recito e

viceversa. E lei è anche produttore... Sì. Ma è più facile essere attore e produttore insieme che attore e regista.

Trova una differenza tra film come Pink Cadillac e La recluta da

un lato e film come Bird, Cacciatore bianco, cuore nero e Gli spietati dall’altro, oppure secondo lei derivano tutti dallo stesso percorso

evolutivo? Li considero tutti diversi, perché nessuno di loro è veramente

legato agli altri, mi sembra... potrebbero esserci delle analogie tra alcuni personaggi, nei problemi che affrontano, ma non mi sembra

che ci sia un rapporto vero e proprio. E se anche ce ne fosse uno, non credo di aver fatto nulla in modo ripetitivo.

Considera ifilm del primo gruppo delle pellicole commerciali e gli altri dei film meno accessibili?

Non faccio film pensando all’aspetto commerciale. In questo senso concordo pienamente con la frase di John Wilson in Cacciatore bianco, cuore nero: «Perché da quei mangiapopcorn di spettatori tu ti fai sbattere di qua e di là come una banderuola»... Se ti domandi continuamente quale sarà la reazione del pubblico, smetti di

preoccuparti di come dovrebbe essere il film, perché l’opera

comincerà a girare intorno a dei preconcetti, ipotetiche aspettative di come il pubblico reagirà. Con idee come queste in testa, è impossibile raccontare una storia. E la maggior parte delle volte il tuo lavoro risulterà svilito dal contatto con questi compromessi. L’essenziale è

rimanere aderenti a quello che si •mole dire, alle impressioni che si vogliono esprimere in un film. Dopodiché, spetterà al pubblico

accettarlo o meno. Dato che ho conosciuto entrambe le esperienze, alla fine mi sembra che tutto quello che si deve fare sia affidarsi al

destino. Il pubblico sembra essere consapevole di ciò che vuole vedere

oppure no, sembra percepire se un film incontrerà 0 meno il suo

favore. Sono anni che la sua società di produzione, la Malpaso, collabora

con la Warner Bros., che distribuisce anche il suo ultimo film. Ma lei

è completamente indipendente? Sì, sono indipendente. La Warner Bros, ha distribuito la maggior parte dei miei film, che ha anche contribuito a finanziare. Ma io

lavoro in totale libertà. La Warner Bros, mi ha dato grande sostegno in altri progetti personali, come ad esempio Bird, senza forzarmi a

renderli commerciali, cosa che avrebbe cambiato la natura stessa della

pellicola. Non era Batman Returns... E penso che alla fine si siano

convinti anche loro che fosse un film valido. Non tutti i film possono diventare dei grandi successi commerciali. Tuttavia bisogna provarci,

altrimenti le società di produzione non sarebbero in grado di prendersi la libertà di lavorare con mezzi adeguati. Naturalmente non sempre i film migliori sono quelli che hanno più successo. Certe volte sei fortunato, il tuo film fa centro e il pubblico si accalca nei cinema. È un po’ come un «fuoricampo», per usare un termine del baseball... Lei ha lavorato in particolare con due direttori della fotografia,

Bruce Surtees e Jack Green, e nei suoifilm sembra attribuire grande importanza alla luce. Man mano che il tempo passa, le luci sifanno

sempre più scure. Perché? Jack Green faceva il cameraman in Corda tesa e ha sostituito Bruce Surtees come direttore della fotografia quando lui si è

ammalato. Ha fatto un buon lavoro e ho deciso di dargli un’opportunità continuando a lavorare con lui. Alcuni miei film li ho immaginati più luminosi, come Cacciatore bianco, cuore nero, che ha le luci che avevo chiesto a Jack per non fare un film particolarmente

scuro. Gli spietati è semplicemente un film «tempestoso»... Bisogna tenere presente che si riferisce a un’epoca in cui non c’era una grande illuminazione e l'unica luce artificiale proveniva dalle lampade a olio. Perciò se, nel girare una scena, avessimo deciso di inondarla di luce, il

pubblico avrebbe avuto ragione a chiedere da dove venisse tutta quella luce...

Sotto molti aspetti, Gli spietati mi ricorda Sfida infernale di John Ford, un film che già di per sé aveva quello schema luci scuro.

Inoltre, la sua recitazione presenta delle analogie con quella di Henry Fonda. Ha visto quelfilm? Certo, e anche se non sono sicuro che Gli spietati somigli a Sfida

infernale, capisco che cosa intende dire. Il film di Ford ha parecchie scene notturne, è vero. Forse, inconsciamente, ho portato avanti un’idea simile a quella di John Ford. Ho tentato di dare al film... o

meglio, ho chiesto a Jack Green di usare le luci come se si trattasse di

un film in bianco e nero. Anche i costumi e le scene sono concepiti in

funzione di questo particolare schema luci, come per un film in bianco e nero. A quanto sembra, vuole rimanere fedele alle persone con cui ha

già lavorato, ad esempio Bruce Surtees, e poi Jack Green, che compaiono nei titoli di coda della maggior parte dei suoifilm, oppure Joel Cox, il suo tecnico del montaggio dai tempi di Coraggio...

fatti ammazzare. Corrisponde a un desiderio di avere una «famiglia cinematografica», fatta di persone di cui si può fidare ciecamente?

Certamente, alcune delle persone con cui ho lavorato godono della mia fiducia. Naturalmente è più comodo, quando si lavora con qualcuno, riuscire a comunicare, spiegargli in poche parole come vedi

le cose. E con le persone che lei ha nominato ci riesco benissimo. Non

ho difficoltà a far capire a Jack Green come immagino una scena e come dovrebbero essere le luci. Se mi trovassi con un nuovo direttore della fotografia per ogni film, qualcuno che non conosco da prima,

dovrei ricominciare tutto daccapo. La stessa cosa vale per Joel Cox, il mio montatore: gli posso parlare anche al telefono, perché so che capirà subito e alla perfezione quello che mi aspetto dal montaggio di

quella scena. I suoi film sembrano indifferenti a quanto sta accadendo adesso

nel cinema americano, e danno l'idea di basarsi esclusivamente su di lei. Non si sente un po’il «cavaliere solitario» del cinema così come

lo concepisce lei? Nel cinema americano mi sono sempre sentito un po’ «altrove»

(ride) ... In qualunque paese ci deve essere necessariamente spazio per molte tipologie di cinema. Ma è vero che al giorno d'oggi in

America ogni cosa è a tal punto soggetta all’influenza delle statistiche e dell'informatica, sotto forma di dati che ti dicono chi vedrà cosa, dove e quando, e che ti viene imposto di fare un certo tipo di cinema

con il pretesto che la fascia di età che va al cinema è esclusivamente

tra i sedici e i ventun anni... io non potrei assolutamente lavorare in

questo modo, mi sembrerebbe impossibile dover fare un film

esclusivamente per persone tra i sedici e i ventun anni. Con un po’ di fortuna, un sedicenne potrebbe apprezzare un mio film allo stesso modo di uno spettatore di quarantanni o più. Perché dovremmo costringere gli adulti a restare a casa insistendo a produrre film che

non sono concepiti per loro? Ricordo l’ultima volta che sono stato in Francia, credo che fossero i Cahiers du cinema, mi domandarono come mai negli Stati Uniti si producevano ormai solo film per bambini... è una domanda che mi mette a disagio: perché mai dei temi importanti devono essere trattati in modo infantile? Se è così difficile far uscire di casa la gente per farla andare al cinema, bisognerebbe essere all’altezza della sfida. Invece le tipologie di film che si fanno

adesso sono sempre più limitate. E quindi cosa pensa della Hollywood di oggi e di quelli che ne

lamentano l’eccesso di violenza? Suppongo che ci sia spazio per quelli che chiamano B-movie, i film

che riempiono le sale grazie alle scene d’azione, in base al pregiudizio che senza una scena di azione ogni cinque minuti, il film sembrerà noioso e il pubblico si alzerà e uscirà dalla sala... ma io invece penso, forse mi sbaglio, che il pubblico sia più intelligente di quanto crediamo e che sia sufficiente presentargli una bella storia perché

rimanga incollato alla poltrona, per vedere come si evolverà un personaggio, come procederà una narrazione, anziché dire: «Resto qui seduto perché tra cinque secondi ci sarà un’auto blindata che si

schianta contro un muro»...

Attribuisce un'importanza olfatto che in Europa la riconoscano come autore? Sì, tantissima. Questa volta gli Stati Uniti hanno apprezzato molto Gli spietati e hanno cominciato a riconoscere che, chissà, potrei anche essere un regista. Ma è cominciato tutto qui in Europa, diversi anni fa.

In realtà, dopo il primo film che ho diretto, Brivido nella notte, gli europei mi hanno incoraggiato molto più degli americani, che hanno fatto fatica a convincersi che potessi essere un regista perché avevano fatto altrettanta fatica a riconoscermi come attore. Si chiedevano: «Ma perché lo fa? Chi si crede di essere?», cose così. Invece gli

europei mi hanno sostenuto moltissimo fin dall’inizio e hanno cercato di individuare un valore in quello che stavo facendo. Ma questo è un

processo storico, che non riguarda solo me. Diversi altri registi hanno subito lo stesso tipo di reazione in passato. Specialmente qui in Francia, ci sono quelli che chiamate cinéphiles... si dice così? Quelli che non si interessano ai film solo come spettacolo di intrattenimento durante il quale mangiare popcorn. Adesso il resto del mondo sta cominciando a sostenere questo tipo di approccio. La nascita di scuole

di cinema nelle università e in altri luoghi fa sì che la gente cominci a pensare a un film in termini di valore artistico. La Francia è stata

pioniera in questo senso, con la creazione di cineteche, per esempio, ma credo che adesso come adesso questa influenza si senta un po’ dappertutto. Una delle mie pellicole preferite è un film di William Wellman che

risale agli anni Quaranta, Alba fatale [1943]. Una volta ho lavorato con questo regista, ho avuto un piccolo ruolo in uno dei suoi film, non

uno dei migliori [La squadriglia Lafayette, diretta da Wellman nel 1958, n.d.r.]. Gli ho fatto parecchie domande su Alba fatale, che

secondo me era un gran bel film. Lui mi ha raccontato che a quel tempo, durante la prima proiezione, la moglie di uno dei boss dello studio aveva odiato il film... pensava che fosse la peggior schifezza mai finanziata da uno studio, così i produttori se ne erano più o meno liberati distribuendolo come un B-movie. Ma quando poi fu lanciato in Francia, il film ottenne il favore dei critici, che ne sottolineavano il

grande valore per quello che aveva da dire sulla pena di morte, la

violenza di massa, la giustizia: il film di Wellman meritava le recensioni estremamente favorevoli che ricevette. Poi tornò a New

York dopo la tappa francese e anche gli americani cominciarono a

notarne le qualità, ma era troppo tardi, il film era già alla fine della corsa e uscì di distribuzione. Fu un grandissimo fiasco, totalmente immeritato. Oggi il pubblico lo rivede con un occhio differente e spero

lo faccia anche negli Stati Uniti e in altre parti del mondo... Ci può spiegare perché ha scelto il titolo inglese Unforgiven, che

non ha equivalente in francese? Inoltre c’era già un film di John Huston con lo stesso titolo. Sì, mi è stato fatto notare che il termine unforgiven non ha una traduzione in francese, motivo per il quale il film è stato intitolato «Im... Impitoyable». Huston fece un film con lo stesso titolo, credo negli anni Cinquanta [Gli spietati, i960, n.d.r.]. Beh, è un bel titolo,

mi sembrava che si adattasse perfettamente al mio film e siccome penso che quello di Huston non sia uno dei suoi film migliori, come II tesoro della Sierra Madre o altri classici, non ci trovo niente di

sbagliato a usarlo anche per il mio film.

Al momento di iniziare un film, qual è la prima cosa su cui si concentra? Cerco di concentrarmi soprattutto sulla storia, perché è la base di tutto, il «nucleo», per così dire. Poi cerco di capire come le immagini

si possano armonizzare con la storia, sotto quale forma deve apparire la storia, con quali emozioni, quali sonorità. Negli Spietati c’è una tempesta che diventa essa stessa un

personaggio, un fattore determinante; man mano che si fanno più vicini, i tre protagonisti sembrano portare con sé la tempesta. Questo aspetto non è scritto nella sceneggiatura, è stato inserito dopo. Ma la base di tutto il dramma, la questione della giustizia e della violenza,

era già presente. Nei suoi film l'arte è spesso collegata alla distruzione e all’autodistruzione, come in Bird, Honkytonk Man e Cacciatore bianco, cuore nero... è un argomento che l’affascina?

Bird e Cacciatore bianco, cuore nero trattano appunto questo argomento, e anche Honkytonk Man, il cui protagonista è dotato di

un vero talento, ma «si uccide» prima ancora di riuscire ad esprimerlo. Per me è difficile spiegare che cosa mi affascini di questo

aspetto, sono cose che si incontrano così spesso nella vita reale, probabilmente è questo che mi attrae. Prendiamo Charlie Parker, per esempio, è una tale perdita, un tale spreco quando una persona così creativa, così dotata, così piena di idee nuove, si autodistrugge come ha fatto lui. Nessuno può veramente capire come sia possibile che una persona con un talento simile e che provava un tale piacere nel suonare possa allo stesso tempo pianificare la propria

autodistruzione. Resta un mistero e di sicuro io sono sempre stato affascinato dai misteri.

Diversi mesifa abbiamo intervistato Jodie Foster in occasione del suo primo film da regista. Ci ha confidato che secondo lei gli attori sono probabilmente più adatti a dirigere un film perché riescono a essere naturali tanto a livello emotivo, quanto a livello intellettuale. Lei cosa ne pensa? In effetti ci sono molti precedenti di attori che hanno recitato nei

propri film. Possiamo tornare indietro nel tempo fino a William S. Hart o Charlie Chaplin, Welles e via dicendo. La regia sembra essere il

naturale prolungamento della performance di un artista. Quando ti trovi coinvolto in una storia davanti a una cinepresa, è un attimo che

ti ritrovi dalla parte opposta della lente. Se vieni dal montaggio, o

dalla sceneggiatura, il gap è maggiore perché sei abituato a lavorare

da solo e non hai nessuna esperienza con la troupe. E poi un attore ha indubbiamente una maggiore comprensione del linguaggio cinematografico, delle sue difficoltà, dell’insicurezza, tutte cose inerenti alla produzione di un film. Ma, allo stesso tempo, non posso dire che sia una regola. È una questione individuale. È possibile che

un attore abbia l’attitudine a fare un film che ho descritto, ma dipende anche dalle capacità di ognuno. Ci sono montatori e direttori della fotografia che diventano dei registi formidabili...

Cosa pensa di come si comporta Little Bill Daggett (Gene Hackman) nel suo film? Lo considera una sorta di dittatore? Credo che lo sia in senso buono, almeno in apparenza. Ha un certo

fascino... credo che pensi di stare facendo la cosa giusta, di essere una persona che sta facendo il suo lavoro. Probabilmente ha avuto un passato riolento, lo stesso di William Munny, il mio personaggio, ma lui lo nasconde dietro un’apparenza razionale. Lui rappresenta la

legge, perciò sta dalla parte del Bene... ma non è in preda ai sensi di

colpa riguardo a ciò che ha fatto in passato, come invece succede a Munny. È profondamente convinto di essere nel giusto quando decide per la messa al bando delle armi e crede che gli atti di violenza che commette per dare l’esempio siano una lezione capace di scoraggiare

chiunque dal venire in città a procurare guai. Nel profondo è un sadico e non è dato sapere se questo sadismo sia innato in lui 0 se sia nato dalle azioni commesse nel corso della sua vita. Ma se, come fa

lui, si incoraggia la violenza, una violenza che chiama altra violenza, entra in gioco anche la sua responsabilità. Nel profondo Daggett si considera un essere umano valido, costruisce una casa per potersi

sedere in veranda ad ammirare il tramonto. Vorrebbe una bella vita, una vita tranquilla... ma non riesce in alcun modo a fermare la ruota del destino. Con Gli spietati lei intendeva raccontare la verità su ciò che era

veramente il West oppure una favola? Penso che sia per lo più una favola, ma una favola che, in qualche

modo, demistifica il West, ricorrendo a degli elementi diversi da quelli dei western classici. Come per esempio il fatto che non sia facile fare

determinate cose, che la gente non abbia davvero una gran mira, che le armi non sempre funzionano come dovrebbero. Non so se la verità sul West sia questa, ma probabilmente il film ci si avvicina. Stranamente, contiene due storie che coesistono in parallelo, quella

del giornalista che vuole descrivere la leggenda del West e quella che

lo contraddice completamente e che percorre tutto il film. Quello che

mi è piaciuto del copione è proprio l’incrociarsi di queste due linee narrative. Nel corso della storia cambiano tutti, ognuno dei personaggi comincia da una parte per finire da un’altra, proprio come nella ruta reale impariamo ogni giorno qualcosa che modifica il nostro

modo di vedere le cose. Tutti i personaggi, o almeno la maggior parte di essi, imparano una lezione in maniera tragica. E tutti hanno da

imparare qualcosa dalla tragedia.

Ritiene di aver raccontato una storia di vendetta? Non so se sia veramente una storia di vendetta, anche se nel film il tema è presente, pervia del personaggio di Morgan Freeman che

viene ucciso. Qualcuno potrebbe vederci il trionfo della vendetta ma, nel profondo, in questa storia non esistono vincitori, in un modo 0 nell’altro perdono tutti qualcosa, che sia una parte di sé... oppure la

vita. E questo è quello che succede a chi ricorre alla violenza per

ottenere giustizia. Un’ultima domanda di rito: quali sono i suoi prossimi progetti? Mi sto preparando per un film in cui farò solo l’attore e nel quale

non sarò coinvolto neppure a livello di produzione: sarò un umile dipendente. Il film sarà diretto da Wolfgang Petersen e prodotto dalla

Castle Rock-Columbia; come attori ci saranno, tra gli altri, John Malkovich e Rene Russo, anche se il cast non è stato ancora completato. Come regista, sto lavorando a un progetto che potrei portare avanti l’anno prossimo. Ma al momento è ancora in fase di

programmazione... D’altro canto, sto progettando di fare questa parte,

come attore e solo come attore, per la prima volta dopo tanto tempo; ci sono buone possibilità che riceva una bella accoglienza, penso,

spero. In ogni caso, questa volta lascerò a qualcun altro tutte le responsabilità e tutti i mal di testa (Ride)... (Intervista pubblicata con il titolo «Entretien avec Clint Eastwood»

su Cahiers du cinema n. 460, ottobre 1992, pp. 67-71, traduzione dal francese di Kathie Coblentz. Ripubblicata su autorizzazione.)

EASTWOOD «FA COME GLI PARE» DI PETER BISKIND (1993)

Sei Clint Eastwood, superstar al botteghino e icona del cinema. In quarantanni non hai mai vinto un Oscar. Perciò provi a dirigere un bel film... e a fregartene totalmente.

Sono le 18 di un sabato sera nell’Alberta, in Canada, sul set degli Spietati. Clint Eastwood ama girare i western in autunno, perciò la

produzione è approdata alla cittadina di Longview proprio quando le foglie cominciavano a cambiare colore. Ma adesso sono passate

quattro settimane. Gli alberi sono spogli e la produzione va incontro

all’inverno. Il cast e la troupe si aspettano una pausa per il giorno di riposo, la

domenica, ma c’è un temporale in arrivo. Il servizio meteorologico di Calgary dice che lunedì dovrebbero cadere trentacinque centimetri di neve e che il resto della settimana sarà freddissimo, il che significa che la neve non si scioglierà. Hanno ancora metà giornata di riprese in città. Poi lunedì e

martedì, secondo la tabella di marcia, dovrebbero girare una scena cruciale in esterna, quella sotto il pino in cui la prostituta arriva a cavallo e dice al personaggio di Eastwood, William Munny, che Little Bill Daggett ha picchiato a morte il suo socio Ned, e Munny beve il

primo, lungo sorso dalla bottiglia di whisky che lo spingerà a compiere una carneficina. Sono otto pagine e mezza di dialoghi.

Eastwood vuole che si veda il paese in lontananza... senza neve per terra. Il produttore esecutivo David Valdes tira fuori un’idea folle: girare

fino a notte fonda il sabato, fermarsi alle due di mattina, tornare

all’hotel (a un’ora di distanza), concedere alla troupe quattro ore di

sonno e poi, la domenica, tornare sulla collina, senza pause per i pasti, a girare fino al tramonto la sequenza prevista per il lunedì e il martedì; poi girare per tutta la notte, fino alle prime ore del lunedì, la scena in cui Munny emerge dal bar nella pioggia. Se Valdes chiamasse

lo studio, i dirigenti darebbero di matto. Eastwood e i suoi stanno per infrangere tutte le regole del mestiere: doppi turni per la troupe la

domenica e una grandinata di penali per non aver rispettato gli orari dei pasti. È già capitato che le previsioni meteorologiche si rivelassero

sbagliate. Valdes non sarà molto popolare a Longview (e nemmeno a Burbank) se il temporale passerà un po’ più a est 0 un po’ più a ovest.

Ma l’alternativa è rischiare di dover girare la scena in California più avanti, cosa che costerebbe centinaia di migliaia di dollari in più e significherebbe perdere il legame con la cittadina. Completano le otto pagine e mezza la domenica e vanno avanti

fino a notte fonda, per ventuno ore filate. Fa così freddo che l’acqua

delle macchine da pioggia congela, rendendo infido il terreno fangoso. I cavalli scivolano ovunque sul ghiaccio e le persone non se la cavano molto meglio. Fa così freddo che Eastwood batte i denti. Verso le due di notte i membri della troupe, infuriati, pretendono della pizza.

«Siamo a Buco di Culo, in Alberta», grida Valdes per tutta risposta, «non c’è mica Domino’s dietro l’angolo». Verso le 5.30 di lunedì mattina, Jack Green, il direttore della fotografia, si gira verso Eastwood e gli dice che c’è tempo solo per

un’altra scena prima dell’alba. Un quarto d’ora dopo hanno finito. I

primi fiocchi di neve cominciano a cadere... e non smettono fino alla

sera dopo. Arrivano trenta centimetri di neve, come preristo. Nell’Alberta è iniziato l’inverno. Clint Eastwood non va agli Oscar dal 1973, quando gli hanno

chiesto di presentare il premio al miglior film e ha finito per sostituire

il conduttore Charlton Heston, bloccato in autostrada. «Howard Koch mi ha detto: “Ecco il copione”», ricorda Eastwood. «Era una parodia di Mosè, I dieci comandamenti, "fai questo”, “non fare quest’altro”,

tutto riferito ai film. Materiale pessimo, persino per Mosè. Ho risposto: “Stiamo scherzando. Non provate più a invitarmi”. “Tornerai se riceri una nomination?” “Sì, quello sì”. E Koch: “Allora non devo preoccuparmi”».

Beh, Eastwood ci sarebbe anche potuto tornare con II texano dagli

occhi di ghiaccio, e di sicuro con Bird, ma alla fine è rimasto lontano dagli Oscar per diciannove anni. Nel ventesimo finalmente l’Uomo senza nome è arrivato in città a cavallo con una sfilza di nomination

per Gli spietati nella bisaccia appesa alla sella: miglior film, miglior

regista, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura

originale. Non male per uno che veniva considerato soltanto un cowboy, tanto che uno dei suoi film era stato deriso da Rex Reed come un «esercizio demente di cinema d’accatto hollywoodiano». È stato un cammino lungo e tortuoso da Per un pugno di dollari, il

primo spaghetti western che Eastwood ha fatto per Sergio Leone nel 1964, quando alla Casa Bianca c’era Lyndon Johnson, fino al Dorothy

Chandler Parilion in questa che è la primavera della presidenza

Clinton: trentanove film, con un quarantesimo, Nel centro del mirino, già completato e previsto per l’estate, e un altro ancora in cantiere, Un mondo perfetto, in cui Eastwood è regista e coprotagonista con Kerin Costner. La regia di sedici di quei film è di Eastwood stesso. L’artista, sempre filosofico sugli Oscar, una volta ha dichiarato: «Immagino che per quando sarò davvero vecchio a qualcuno dell’Academy verrà la

brillante idea di darmi una qualche sorta di targa. Sarò così vecchio

che mì dovranno portare di peso sul palco... “Grazie a tutti per questo premio ad honorem" e SPLAT. Addio, Harry Callaghan». Al Westin Bonaventure Hotel, nel centro di Los Angeles, mentre osserva il regista Wolfgang Petersen che gira alcuni inserti per Nel centro del mirino, Eastwood non è a suo agio a discutere le sue

probabilità di vincere qualche Oscar. Gli spietati, dopo aver ottenuto

una serie di premi della critica, è il favorito e questo lo rende nervoso.

O magari sono gli inserti, le aggiunte, i dettagli di lavoro 0 qualsiasi altra cosa a renderlo impaziente. È diventato leggendario il suo modo di lavorare in fretta e finire prima del tempo e al di sotto del budget.

Per lui è un punto d’orgoglio, o meglio, uno stile di vita. Ricorda Frank Wells, che è stato presidente della Warner Bros, negli anni Settanta: «Il suo momento preferito era l’ultimo giorno di

realizzazione. Mi chiamava e io dovevo indovinare quanto aveva risparmiato sul budget». Eastwood ama dire cose come questa: «Più tempo hai per riflettere sulle cose, più ne hai per rovinarle».

Nel centro del mirino vanta un’ottima sceneggiatura di Jeff Maguire, un po’ sul genere di Corda tesa, 0 anche degli Spietati - film in cui il personaggio interpretato da Eastwood più che un supereroe, è

un uomo normale con un passato che gli ha lasciato delle cicatrici, uno costretto a convivere con qualcosa che preferirebbe dimenticare. È un agente dei servizi segreti che sta invecchiando ed è convinto che

sia colpa sua se John F. Kennedy è morto, tanti anni prima nella Dealey Plaza, perché lui non si è mosso abbastanza in fretta, forse paralizzato da un carattere debole. È una storia di respiro conradiano; resta solo da vedere se la realizzazione sarà all’altezza dell’ambizione.

Come Un mondo perfetto. Nel centro del mirino rappresenta una scelta più commerciale e meno personale per Eastwood rispetto agli

Spietati. Eastwood, che aveva la facoltà di scegliere il regista, ha voluto Petersen, noto soprattutto per U-Boot 96. Chi può vantare già da tempo lo status di superstar spesso assume professionisti scadenti per il preciso scopo di criticarne il lavoro e rendere loro la vita impossibile. Ma Eastwood, si dice, non si comporta così. Quando

decide che i professionisti sono in grado di svolgere i compiti per cui sono stati assunti, li lascia fare, si fida del loro giudizio, e se lavorano

bene, li assume ancora e ancora. Glenn Wright, il suo costumista, lavora con lui sin dai tempi degli Uomini della prateria. Eddie Aiona

è il suo responsabile degli oggetti di scena da circa venticinque anni. Joel Cox, il suo montatore, ha cominciato a lavorare per lui diciotto

anni fa. Valdes ha iniziato come aiuto regista tredici anni fa. Fidandosi delle persone che lavorano per lui, Eastwood risparmia

un sacco di tempo. Non fa i provini agli attori; esamina le registrazioni che gli presenta il direttore del casting. Quando Valdes o lo scenografo

scelgono una location, spesso lui non la vede nemmeno fino al giorno prima dell’inizio delle riprese. La riunione sull’estetica dell’opera di solito dura dieci minuti perché Clint può contare sull’aiuto del

direttore della fotografia Jack Green (ventidue anni di

collaborazione), che troverà l’aspetto visivo adatto alla sceneggiatura come solo lui sa fare. Eastwood fa fare a Cox il primo montaggio a partire dai giornalieri selezionati da Cox stesso. A cinque o sei

settimane dalla fine delle riprese, il montaggio è completo. I collaboratori di Eastwood hanno un approccio meravigliosamente tranquillo alla lavorazione dei film. «Ci divertiamo», dice Valdes, «e sappiamo tutti che non stiamo cercando la cura per il cancro al cervello». Bruce Surtees, il direttore della

fotografia, che ha lavorato con Eastwood in molti dei suoi film, una

volta ha detto: «Non c’è nessun trucco per la scelta delle luci. Ne accendi una e se questa dà un buon effetto, la usi. Se invece non funziona, la spegni e la posizioni da un’altra parte». Sui set di Eastwood non c’è nessuno seduto ad aspettare che il sole

si nasconda dietro le nuvole o rifaccia capolino. Nell’ambiente, la sua fortuna con il meteo è leggendaria. Se in luglio, nel deserto del Mojave, gli serve la neve, nericherà. Tuttavia non è solo questione di

fortuna: si muove estremamente in fretta e non ha bisogno di preoccuparsi di far combaciare una scena con un’altra. «Quando lavori a quella velocità, improvvisamente il tempo atmosferico non ha più importanza», dice il tecnico delle luci Tom Stern, l’ultimo arrivato

nella troupe, che lavora con Eastwood solo da otto anni. «Invece di chiamarla avversità, la chiamiamo coincidenza fortunata». Eastwood detesta le luci eccessive, che associa alla televisione, e in particolare le detesta nei suoi thriller. Preferisce un effetto noie, di

chiaroscuro. Una volta Pauline Kael, a proposito di Bird, ha scritto: «Sembra che in questo film [Eastwood] non abbia pagato la bolletta della luce». In Firefox — Volpe difuoco, già di per sé piuttosto tetro,

c’è un’inquadratura così scura che si vede solo il gomito di Eastwood. Il cameraman voleva girare di nuovo la scena, ma Eastwood ha ribattuto: «Ma io sono inquadrato?» «Sì». «La mia voce si sente?»

«Sì». «Lo sanno tutti chi sono. Stampiamolo e andiamo avanti». In un settore in cui il primo ciak è quasi sempre una prova e gli attori non si impegnano sul serio fino al quarto o quinto tentativo, e dove non è raro girare trenta, quaranta, cinquanta volte la stessa

scena, Eastwood è famoso perché filma direttamente le prove... addirittura le prime prove in assoluto. Fa muovere in scena le

controfigure, per farsi un’idea approssimativa dell’azione, del posizionamento delle luci e ria dicendo. Poi, racconta Green, chiama

gli attori. «Recitano la loro parte per la prima volta e noi giriamo. Devono parafrasare 0 usare gli oggetti di scena improvvisando. Se

azzeccano la performance, siamo fortunati; se restano dentro

l’inquadratura, siamo anche molto grati». D’altro canto, ricorda Jeff Fahey, che in Cacciatore bianco, cuore nero impersonava lo scrittore, «Eastwood non si ferma mai finché non ha ottenuto quello che

vuole». Di solito Eastwood non fa mai più di tre*cinque ciak e ne stampa due. In Bronco Billy, Scatman Crothers aveva appena finito Shining, in cui Stanley Kubrick gli aveva fatto ripetere una cinquantina di volte

la stessa scena, ed era praticamente paralizzato dal terrore. Eastwood

fece un unico ciak e lo stampò; per poco Crothers non scoppiò a

piangere. Il metodo di Eastwood funziona. Conferisce ai suoi film un sapore

fresco, realistico, estemporaneo. La prima, straordinaria scena degli Spietati, nel bordello dove la donna viene sfregiata, era la prima prova. Ha l’impatto della vera violenza; finisce in un attimo, e non

sappiamo cosa sia successo veramente. Ci sentiamo dei voyeur, come se, passando per un corridoio, avessimo sbirciato attraverso una porta aperta e risto qualcosa di orribile. Al contrario di Sam Peckinpah, Eastwood non ha mai creduto

nell’utilità di soffermarsi a lungo sulla violenza, estetizzandola, e infatti questi due maestri del western non hanno mai lavorato insieme. «Una volta stavo tenendo una lezione alla University of Southern California e qualcuno mi chiede: “Perché non ha mai

lavorato con Peckinpah?”», ricorda Eastwood. «Io rispondo: “Beh, non me l’ha mai chiesto”. All’improvviso si alza una voce: “Allora te lo chiedo adesso!" Guardo in quella direzione e vedo che, seduto in aula,

c’è Peckinpah. Era cosi scatenato; se ne andava a vivere nei bordelli. Alcuni di quei ragazzi erano proprio particolari... John Huston restava sveglio fino a tardissimo a bere whisky e il giorno dopo dirigeva i film.

Io non ce la farei. Mi devo sempre allenare, correre, come se si trattasse di una gara». L’hotel Bonaventure, dove il presidente in pericolo fa una tappa durante la campagna elettorale, ha una lobby fredda e inospitale

costituita da un atrio cavernoso punteggiato da colonne di calcestruzzo. Devono aver speso un bel po’ di soldi per creare una serie di piccole piscinette in cemento piene di acqua stagnante coperta

da una pellicola grigiastra. Ci si ritrova a cercare inutilmente dei preservativi che galleggiano. Mentre guarda Petersen fare un ciak dopo l’altro del suo inserto, è evidente quello che pensa Eastwood,

anche se luì non lo direbbe mai. E nemmeno Petersen, un ometto

vivace con i capelli biondi sempre scompigliati e un sorriso coinvolgente, ammetterebbe mai di essere intimidito dalla presenza

della star, che potrebbe vincere un Oscar per la regia. O forse non lo è

proprio. «Se sto girando io un film, Clint sa che mi deve lasciare tranquillo», dice Petersen. «Non è certo quello che salta su e dice: “Giralo così”. Eppure, certe volte, quando dico: “Clint, era ottima, ma per favore rifacciamola”, lui risponde: “Se era ottima, perché

dobbiamo rifarla?”» Anche se Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! è stato girato più di ventanni fa, Eastwood è costantemente assediato dai fan, che

gli chiedono di «farsi ammazzare». A Carmel, in California, una volta un poliziotto si appostò per una settimana ricino all’Hog’s Breath Inn dj proprietà di Eastwood, in attesa dell’attore. Alla fine Eastwood

comparve; il poliziotto entrò tirando fuori con un movimento rapido e improvviso un’enorme magnum calibro 357 da dietro la schiena. I clienti si buttarono tutti a terra. Ma lui voleva solo l’autografo di

Eastwood sulla canna; si era portato un attrezzo per inciderlo.

Eastwood firmò, poi rimase un attimo a pensare e infine disse: “Non lasciarla in giro”, come se il tizio potesse rapinare un negozio di

liquori e lasciar cadere la pistola sul pavimento. Adesso una donna alta e piuttosto in carne si fa strada tra la folla di spettatori e turisti che circonda Eastwood sul set di Nel centro del

mirino. Grida: «Clint, Clint, lasciatemi andare da lui». Si issa soprala

folla e urla: «East Clintwood! Ho tutti i tuoi dischi!» Eastwood nacque il 31 maggio del 1930 a San Francisco, giusto in

tempo per la Depressione. Suo padre si arrabattò facendo i lavori più

svariati prima di finire all’acciaieria Bethlehem Steel a Oakland. Dopo le superiori, Eastwood cominciò a viaggiare, per lo più nel Nordovest, lavorando alla Boeing, alla Bethlehem, spegnendo incendi per il

servizio forestale, caricando il legname nella cartiera di Weyerhaeuser, ammucchiando balle di fieno, e così ria. Una volta si

descrisse come un «barbone e un vagabondo», ma in seguito attribuì la sua percezione istintiva del pubblico operaio proprio a queste

esperienze.

Dopo il servizio militare a Fort Ord come bagnino durante la guerra di Corea, Eastwood si trasferì a Los Angeles per cercare lavoro

come attore. Ogni giorno, racconta oggi, era come beccarsi un asciugamano fradicio in faccia.

Nel 1954 ottenne l’incarico di guidare un camioncino all’interno dell’area degli Universal Studios, che alla fine gli offrirono un

contratto da attore da settantacinque dollari a settimana. Recitò in un paio di film a basso costo che poi divennero classici trash, Tarantola e La vendetta del mostro (della Laguna nera). Alla fine la Universal lo

licenziò (perché aveva il pomo d’Adamo troppo grosso, scherzò una

volta l’amico Burt Reynolds).

Per due anni Eastwood si arrangiò scavando piscine e facendo il benzinaio. Poi nel 1958, grazie a un incontro casuale, ottenne il ruolo di Rowdy Yates, la spalla di Gii Favor (Eric Fleming) negli Uomini della prateria, un western televisivo trasmesso dalla CBS per sette anni. Nel 1965 Fleming lasciò il set (e un anno dopo fu ucciso da un

coccodrillo mentre girava in una location sudamericana, secondo una leggenda metropolitana messa in giro dal regista Ted Post) e

Eastwood ebbe la serie tutta per sé. Nel 1964 il suo agente gli chiese se fosse interessato a recitare in un 'western che un italiano di nome Sergio Leone voleva girare in Spagna e in Italia. «Avevo delle domande, domande normali come: “E chi sarebbe Sergio Leone?” Non era come se me l’avesse proposto Feilini». Per quindicimila dollari accettò di andare in Spagna durante

una pausa dagli Uomini della prateria. Si portò persino i sigari, comprati a una tabaccheria di Beverly Hills. «Erano lunghi più 0 meno così», spiega Eastwood, allargando le mani a circa trenta centimetri di distanza. «Mi sono detto: “Li taglierò in tre parti”.

Facevano davvero schifo, ti mettevano dell’umore giusto per uccidere. «Leone sapeva dire "goodbye” e io sapevo dire "arrivederci”», spiega Eastwood; i due comunicavano a gesti e tramite interpreti. La

sceneggiatura era molto prolissa e Eastwood sfrondò ampiamente i dialoghi. «Ogni volta che avevo un problema, usavo la mia psicologia

da strada. Dicevo semplicemente: “Beh, Sergio, in un western di serie B, dovresti spiegare tutto, ma in uno di serie A lasci che il pubblico riempia gli spazi vuoti”. E lui rispondeva: “Ok”». Eastwood fece due sequel di Per un pugno di dollari. Quando il

primo dei suoi spaghetti western arrivò in America, nel 1967, la critica ebbe reazioni contrastanti. I film furono acclamati, ma anche denigrati, per il loro cinismo surreale e di tendenza.

La trilogia definì la formula per i western di Eastwood: l’Uomo senza nome che strizza gli occhi nel sole spietato dì mezzogiorno,

laconico, sicuro di sé e rilassato, ma allo stesso tempo senza rimorso,

spietato e vendicativo; non si sa da dove venga, non va da nessuna

parte, non ha passato, non ha futuro. Era l’antitesi dell’eroe western, liberale e freudiano, degli anni Cinquanta... il Billy the Kid di Paul

Newman, in Furia selvaggia (.Billy Kid) di Arthur Penn, tanto per fare un esempio. «Ero il re dell’imperturbabilità», dice Eastwood. Il western era il genere americano per eccellenza, come lo ha definito il critico J. Hoberman, l’unico genere in cui l’America poteva

specchiarsi per porsi le grandi domande: Che cos’è il bene? Che cos’è il male? Che cos’è la legge? Che cos’è l’ordine? I western di Eastwood

non fanno eccezione. Gli spaghetti western costituivano l’accompagnamento culturale dell’era post-kennediana. L’Uomo senza nome divenne la versione di John F. Kennedy per il grande schermo,

colui che aveva costretto Kruscev a cedere sul Muro di Berlino e sulla crisi dei missili di Cuba, aveva varato l’operazione della Baia dei Porci

e aveva curato lo sviluppo dei Berretti Verdi. Insieme a quelli di James Bond, i film di Eastwood diedero il via a una nuova era di violenza cinematografica. In Per un pugno di dollari venivano uccise

circa cinquanta persone. La linea di demarcazione tra il buono e il cattivo si stava facendo meno nitida. Con 1’escalation della guerra in

Vietnam, non c’era tempo per sottilizzare.

«Nel Texano dagli occhi di ghiaccio, il mio montatore mi ha detto: “Accidenti, ma gli hai sparato alla schiena”», ricorda Eastwood. «Ho risposto: “Già, si fa quello che si deve fare per portare a termine il

lavoro”. Penso che l’epoca in cui si restava in piedi a discutere su chi dovesse tirare fuori la pistola per primo sia ormai morta. Non ti

restano grandi chance se lasci che sia l’altro a estrarla per primo. Bisogna cercare di essere realisti, e quindi io sparavo sempre alla schiena ai nemici». Eastwood e Leone hanno letteralmente cambiato la storia del cinema, ma si conoscevano a mala pena. Dopo II buono, il brutto, il

cattivo, Leone avrebbe voluto che Eastwood facesse C’era una volta il

West, ma Eastwood ne aveva abbastanza. «Sono tornato a casa e non l'ho più insto per parecchi anni. Penso che ne fosse risentito... avevo

cominciato ad avere successo. Lui invece non faceva molti film. Molti anni dopo, quando tornai in Italia per Bird, mi chiamò. Uscimmo insieme una sera e ci trovammo meglio di tutte le altre volte che

avevamo lavorato insieme. Me ne andai e poi lui morì. Era stato quasi

come se mi avesse chiamato per salutarmi per sempre». Il primo film western americano di Eastwood, Impiccalo più in

alto, girato per la United Artists nel 1968, era in stile spaghetti. La sua pellicola successiva, L’uomo dalla cravatta di cuoio, diede il via a una lunga collaborazione e amicizia con il regista Don Siegei. «All’inizio il nostro rapporto era piuttosto scorbutico», ricorda Easbvood. «"Questo tuo suggerimento non mi piace”. “E a me non piace il tuo”. Alla fine affrontammo il problema e cominciammo a concordare su

alcune cose, dopodiché diventammo amici in fretta». Easbvood aveva sempre voluto cimentarsi con la regia. Come

primo lavoro, scelse una storia piccola, Brivido nella notte. Lo studio, la Universal, avrebbe preferito che continuasse a sfoderare la pistola.

Il film era una sorta di antesignano di Attrazione fatale in cui un dj rimane coinvolto in una relazione con una donna psicotica. Easbvood

si preparò bene, forse anche troppo. La notte prima di iniziare le riprese, «ero steso a letto e ripassavo mentalmente le inquadrature.

Le avevo pianificate tutte. Ho spento la luce e ho pensato: “Ecco, ci sono”. All’improvviso mi sono reso conto che dovevo anche recitare

nel film! Ho acceso la luce e ho cominciato a ripetere le scene dal punto di vista dell’attore. Inutile dire che non ho dormito molto». Il

film non fu molto apprezzato dalla critica, ricorda Easbvood. «Hanno

detto che non erano pronti a vedermi come attore, figuriamoci come regista». Brivido nella notte ebbe un successo modesto. Poi però venne

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Il tenore del film risultava evidente da una tag line che non venne mai usata: «Harry la carogna e il Maniaco omicida. Harry è quello con il distintivo». Ma i critici non

apprezzarono l’umorismo. Nel clima politico altamente polarizzato del 1971, molti pensarono che il film intendesse sostenere che i poliziotti, per combattere la criminalità, avessero il diritto di calpestare le libertà

civili. Inoltre Scorpio, l’omicida, aveva addosso il simbolo della pace, come se Siegei e Easbvood avessero trasformato un’intera

generazione di ragazzi che lottavano per la giustizia sociale e per

fermare la guerra in Vietnam in emuli di Charles Manson. Pauline Kael fu particolarmente esplicita. Scrisse che Harry Callaghan era un uomo che «appoggia la giustizia dei vigilantes» e definì il film «fascista». Easbvood rispose alle critiche insistendo che voleva solo

difendere i diritti delle vittime. «Il pubblico in genere non si preoccupa dei diritti di un killer; vogliono solo che venga tolto dalla circolazione». Sul simbolo della pace dichiarò che «era un’idea

dell’attore e tutti Parevano considerata una forma di ironia, visto che molte persone si nascondono dietro la pretesa di essere pacifisti, ma poi sono i primi a difendere la violenza».

Dopo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, la Warner Bros, concesse molta libertà a Eastwood. «Aveva un senso narrativo della sua immagine pubblica che nessun altro riusciva ad avere», ricorda

Wells, ora presidente della Walt Disney Company. Una volta firmato

l’accordo, non lo vedeva più fino all’anteprima, e il film costava

sempre meno del budget. Facevamo sempre quello che voleva lui». Tranne che con Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Easbvood non voleva fare un sequel, ma lo studio era inflessibile. Ironicamente, Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan si basava su un’idea nata

dalla mente febbrile di John Milius. Easbvood lo considerava una risposta liberale a Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! «Mostrava che il fatto che venissero uccise persone che meritavano di

morire non significava che fosse quello il modo in cui la società doveva affrontare la questione». «Eastwood fu ben presto etichettato come uno che avrebbe potuto

interpretare un personaggio solo, Harry Callaghan, ripetendolo all’infinito; di tutti quanti, lui era l’unico a pensare: “Posso fare di

meglio”», ricorda Dennis Shryack, co-sceneggiatore dell’Ubmo nel mirino e del Cavaliere pallido.

Nella vita reale Easbvood era molto diverso dal personaggio con cui veniva identificato. È vero che collezionava armi, ma non era molto interessato alla caccia. Si dice che ima volta abbia impedito alla

figlia di calpestare uno scarafaggio. «Non mi piace uccidere», spiega.

«Una cosa è farlo per finta in un film, ma non riesco a capire chi considera uno sport sopprimere delle vite». Nel 1976 diresse e interpretò II texano dagli occhi di ghiaccio, un’altra storia di vendetta, nonché il suo western migliore fino a quel

momento. Anche se i critici lo paragonavano costantemente a John Wayne, Easbvood. e anche lo stesso Wayne, la pensavano diversamente. Una volta Wayne gli scrisse una lettera, dopo aver visto Lo straniero senza nome (1973). «Diceva: “Non c’entra nulla con il

vero West. Questi non sono gli americani che hanno fondato la nazione”», ricordò Easbvood in seguito. I western di Easbvood erano più simili a una tragedia elisabettiana sulla vendetta che a John Ford.

«Non sono mai stato l’erede di John Wayne», dichiarò una volta

Easbvood. Ford credeva fermamente nell’influenza civilizzatrice della società,

nella trasformazione della giungla in un giardino. Nelle città polverose dei suoi film c’è sempre una chiesa o una scuola, con la struttura prefabbricata che si erge in contrasto con il paesaggio naturale. I western di Easbvood parlano di oscurità e di dolore, e anche quando

ci si vendica del cattivo, è raro che le ferite guariscano. Negli Spietati Little Bill Daggett, lo sceriffo sadico interpretato da Gene Hackman, ha avviato la costruzione di una casa. Alla fine, quando Munny gli punta la pistola alla testa, Daggett dice: «Non me lo merito... di

morire in questo modo. Stavo costruendo una casa». Munny ribatte: «I meriti non c’entrano in questa storia», e poi preme il grilletto. Nei

western di Ford tutti hanno diritto a qualcosa e una scena come

questa non sarebbe mai esistita. Fino al 1976, a parte la serie dell’ispettore Callaghan, Eastwood aveva lavorato principalmente per la Universal, ma da tempo non era

più soddisfatto di come lo studio promuoveva i suoi film. Il tour della

Universa! per i visitatori fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Avevo un bungalow molto carino, un posto confortevole per

lavorare», ricorda Easbvood. «Ma quando uscivo dall’ufficio, c’era

sempre un bus fermo con della gente che gridava. Alla fine chiamai Frank Wells [della Warner Bros.] e gli dissi: “Se avete un posto per me, vengo da voi, ma, se anche voi fate 'visitare gli studios ai turisti, me ne vado”. E lui rispose: “Noi non facciamo tour”». Inoltre Eastwood aveva voglia di cambiare. La sua carriera era sempre andata controcorrente. Faceva film di genere in un periodo in cui i film più interessanti si basavano sul ribaltamento dei generi, in

particolare il western, che più o meno morì con i suoi film. Cavalcava

alto sulla sella in un’epoca di antieroi; era la stella laconica della maggioranza silenziosa di Nixon. Se Ispettore Callaghan: il caso

Scorpio è tuo.' era in anticipo sui tempi di dieci anni, quando lo Zeitgeist dell’era Reagan lo fece suo, nel 1980, Easbvood era ormai passato ad altro. Mentre George Lucas e Steven Spielberg si occupavano di reinventare le vecchie formule che Penn. Scorsese, Altman e altri avevano ormai sepolto, si sarebbe detto per sempre,

Easbvood cominciava a giocherellare con il proprio personaggio,

esplorando il lato oscuro della sua stessa immagine pubblica. Disse agli sceneggiatori Shryack e Michael Butler che considerava

il loro copione dell’Ubmo nel mirino, in cui aveva il ruolo di un poliziotto senza macchia, come un ponte verso un nuovo genere di personaggio. Nel 1980, all’inizio dell’era Reagan, continuò a smantellare l’immagine che gli era stata cucita addosso attraverso l’autoironico Bronco Billy, in cui il cowboy Billy è un venditore di

illusioni. Mentre Reagan usava i simboli del West per promuovere

l’illusione di un’America eroica che non esisteva più, Easbvood era sempre più ossessionato dai limiti della condizione umana. «È girando film come Bronco Billy che ho cominciato a esplorare il lato oscuro», spiega. «Ho interpretato dei personaggi vincenti e dei vinti

che in realtà erano vincitori, tipi tosti, ma mi piace vedere le cose come sono, e nella realtà le cose non vanno affatto così. Nell’essere umano c’è una sorta di fragilità che è interessante esplorare. Gli eroi

sono pochi e si incontrano di rado».

L’uomo nel mirino non ottenne il successo sperato e la Warner Bros, cominciò a domandarsi se Easbvood non stesse facendo le scelte

sbagliate. Si portava dietro un alone di umorismo grossolano alla Burt Reynolds; quando decise che voleva recitare con un orango in Filo da

torcere, la Warner Bros, fece delle ricerche di mercato che indicarono reazioni negative al titolo, alla presenza dell'orango e perfino all’idea

che Harry Callaghan facesse una commedia. Ma Easbvood non

badava affatto alle ricerche di mercato, così andò avanti con il progetto. Filo da torcere costò circa otto milioni di dollari e ne incassò

ottantacinque (corrispondenti a centocinquanta milioni di dollari odierni), diventando il film easbvoodiano di maggior successo. Persino Bronco Billy incassò trentatré milioni di dollari.

Alla fine anche l’establishment della East Coast saltò sul carro. Nel 1980 il Museum of Modera Art di New York gli dedicò una retrospettiva. Due anni dopo, Robert Mazzocco scrisse un popolare

encomio per la New York Review ofBooks, definendo Easbvood «la

star del supply-side ». Il saggio sottolineò che Eastwood era stato ufficialmente accolto dai «neo» dell’Upper West Side, che si trattasse

di neoliberali o di neoconservatori. Poi, nel 1985, i francesi, che avevano sempre promosso i registi di Hollywood ignorati in patria,

dedicarono a Easbvood una retrospettiva alla Cinémathèque e gli conferirono il titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere. Mazzocco aveva ragione. Easbvood aveva indubbiamente batto

vantaggio dalla svolta culturale reaganiana. Ma lo elogiavano anche i

liberali, che si impegnavano al massimo per trovare il cuore sanguinante dietro la patina «fascista». La sua recitazione, un tempo

definita «rigida», fu ribattezzata «sobria e stilizzata». Honkytonk

Man veniva paragonato a Furore. Il Los Angeles Times, senz’altro pensando a Coraggio... fatti ammazzare, lo definì «il regista

femminista [...] più importante e influente attivo oggi in America». Tuttavia, così come Easbvood non era mai stato fascista,

nemmeno le sfumature liberali che gli venivano attribuite gli corrispondevano del tutto. Pare che all'inizio della presidenza Reagan,

Easbvood avesse dato a un ex tenente-colonnello delle Forze Speciali di nome James «Bo» Gritz 30.000 dollari per avviare un’«incursione» nel Laos, e che poi avesse accettato di fare da intermediario tra Reagan e Gritz. «Dissi: “Se ci fosse la possibilità di salvare anche una sola persona,

certamente investirei tutto il tempo e gli sforzi necessari”», ricorda Easbvood. «Ma non era La sporca dozzina. Penso che abbiano speso

la maggior parte dei soldi andandosene in giro per Bangkok. Riportarono indietro un mucchietto di ossa, alcune delle quali non

erano nemmeno umane. Resti per cui non valeva proprio la pena di rischiare la vita». (Gritz nega di aver speso i soldi a Bangkok e insiste nel dire che i resti fossero umani.) Easbvood, che per la maggior parte della sua vita è stato iscritto al Partito repubblicano, ha criticato Reagan per aver visitato un cimitero

militare a Bitburg, in Germania, dov’erano sepolti soldati delle SS. Nel

1986 si è candidato a sindaco di Carmel ed è stato eletto... ma ha speso venticinquemila dollari per ottenere un incarico che gliene ha fruttati duemilaquattrocento all’anno. Sebbene Easbvood pensi che il mandato di due anni fosse più che sufficiente, il suo montatore, Joel Cox, sostiene: «Credo che sia la cosa migliore mai successa a Clint. È

sempre stato un solitario. Si è semplicemente aperto un po’». Easbvood ha rifiutato la richiesta di George Bush di appoggiarlo

nelle ultime elezioni, «Penso che quello che i conservatori di estrema

destra hanno fatto ai Repubblicani sia stato davvero autodistruttivo,

assolutamente stupido». Ha votato per Ross Perot. «Perot era un po’ stravagante, con i suoi trucchetti sporchi e tutto il resto. Ma in ultima analisi, è l’unico a cui credo. Avrei voluto vedere quell’omino del Texas stare lì per quattro anni ad alzare gli occhi al cielo, a gridare e urlare: “È ora di stringere i denti”».

Negli ultimi dieci anni Easbvood ha scelto progetti più personali,

basati sui personaggi: Honkytonk Man; Bird; Cacciatore bianco, cuore nero; e Gli spietati. Può permetterselo perché dal punto di rista finanziario è incredibilmente accorto. Chiedere a Terry- Semel,

presidente della Warner Bros., di parlare di Easbvood è come chiedere a un bambino di parlare di Babbo Natale o della mattina del 25 dicembre: «Clint è il miglior produttore con cui abbia mai lavorato. È più prudente con i nostri soldi che con i suoi». Nessun film di

Eastwood, di qualunque progetto si tratti, farà mai perdere molto alla Warner Bros. Sostiene Valdes: «Credo che se Clint Easbvood volesse fare un programma di cucina, chiamerebbe [il direttore della Warner

Bros.] Bob Daly oppure Terry Semel e ci ritroveremmo a farlo». Bird è

un period drama su un musicista jazz nero, alcolista e drogato che picchia la moglie e che alla fine muore. Ma Easbvood sapeva che

poteva girarlo stando sotto i dieci milioni di dollari, compreso il suo

compenso, in un periodo in cui il costo medio di un film si aggirava sui diciotto milioni di dollari. E l’ha fatto.

Allo stesso tempo, la Warner Bros, contava sul fatto che Easbvood

sfornasse dei prodotti commerciali. Il problema era che Gunny,

Scommessa con la morte, Pink Cadillac e La recluta non lo erano affatto. Per la prima volta sembrava che la carriera di Easbvood

potesse essere a rischio. Poi arrivò Gli spietati, un film che, a giudicare dalle apparenze, non era da botteghino più di quanto non lo fosse Bird, un progetto rischioso per uno che non otteneva un vero

successo da quasi dieci anni. Tuttavia, come per Bird, Eastwood riuscì

a realizzarlo con un budget contenuto. Lo fece in cinquantadue giorni spendendo 14,4 milioni di dollari, a parte il suo compenso. Con rare eccezioni, Easbvood aveva sempre avuto difficoltà a trovare dei nomi famosi per i suoi film, che erano sempre visti come pellicole «sue».

«Si partiva considerando Meryl Streep e si finiva con Patty Clarkson», dice Marco Barla, il coordinatone di progetto di Easbvood. Hackman inizialmente non voleva fare Gli spietati. «La violenza dei personaggi

che interpretavo cominciava a pesarmi», spiega l'attore. Ma Easbvood lo convinse che il film prendeva posizione contro la violenza. «Fu molto esplicito riguardo alla sua volontà di demitizzare la violenza», aggiunge Hackman. In seguito l’attore scherzò: «Sono molto felice che Clint mi abbia convinto che non si trattava di un film alla Clint Eastwood», «Quando Gli spietati è uscito e ha cominciato a totalizzare incassi,

sono rimasto sbalordito», racconta Easbvood. «Perché non cerco mai

di corteggiare il pubblico. Devi dimenticare che là fuori c’è qualcuno

che mangia popcorn e caramelle. Ho pensato che se il pubblico l’avesse voluto vedere, sarebbe andato a vederlo. Altrimenti, al diavolo». Easbvood, seduto nella sua roulotte tra una ripresa e l’altra di Nel centro del mirino, è vestito con un abito grigio formale, da membro dei Servizi Segreti, con i segni evidenti del lavoro svolto in

nome della sicurezza nazionale. Sembra stanco. Sul tavolo c’è un

cartone da un quarto di litro di latte. «Meglio buttarlo», dice piano a Frances Fisher, che frequenta da un po’ di tempo e che chiama «Bad

Fran». «Altrimenti diventi “Big Bad Fran”». Eastwood dice che non sa se Gli spietati, che in tutto il mondo ha incassato più di cento milioni di dollari, sarà il suo ultimo western, ma

sarebbe il caso. Ha chiuso il cerchio. Gli spietati è Harry Callaghan a testa in giù. Dopo due decenni, Harry, ancora al di sopra della legge, è diventato lo sceriffo sadico, il Daggett di Hackman, mentre Scorpio è diventato Munny, il killer ormai redento. Uccidendo Daggett,

Easbvood si libera dell’identità che lo ha tenuto prigioniero per tutta la carriera.

Una volta Richard Schickel ha detto che Easbvood è un uomo che recita nel vernacolo americano, un artigiano la cui arte emerge dal

mestiere. Come sostiene Barla, è come un meccanico che da trent’anni

ripara carrozzerie e che alla fine si costruisce un’auto tutta per sé. Tutti si meravigliano e l’auto finisce in un museo. Naturalmente

Easbvood non farà mai dichiarazioni stravaganti sul suo lavoro. «Faccio quello che mi viene naturale e giro dei film e l’elenco si allunga anno dopo anno», ha detto. «Prima o poi finisci per fare

qualcosa che qualcuno considera accettabile».

Anzi, più che accettabile, ma la parte migliore è che lui continua a lavorare. Nel centro del mirino non è Gli spietati, ma non lo è nemmeno Ispettore Callaghan; il caso Scorpio è tuo.' Eppure i

dirigenti della Columbia Pictures non riescono a togliersi dalla testa Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Il killer di Nel centro del mirino (interpretato da John Malkovich) continua a tormentare il personaggio di Easbvood, Frank Horrigan,

insistendo che la storia sta per ripetersi. C’è una scena in cui Horrigan

è in piedi accanto alla tomba di Kennedy, fissa la fiamma e borbotta fra sé e sé: «Non succederà».

Quando i dirigenti l’hanno sentita, gli si è accesa una lampadina:

quel «Non succederà» sputato fuori dai denti, poteva essere il nuovo «Coraggio... Fatti ammazzare». Potevano usarlo nel trailer. Così hanno chiesto allo sceneggiatore, Jeff Maguire, di aggiungere la battuta durante la battaglia cruciale tra Easbvood e il suo Doppelganger. Non c’era modo di farlo, a meno che Maguire non

avesse costretto il killer (uno furbo, di certo non un cattivo monodiraensionale che spara imprecazioni tonanti) a gridare qualcosa come «Ti uccìderò» oppure «Sei un uomo morto». Maguire

non voleva farlo, ma era l’unico sceneggiatore e, ancora peggio, quello

era il suo primo copione. Quindi stava a Easbvood definire il limite, dicendo alla Columbia: «Non succederà». Ma non era il suo film. Messo alle strette, Maguire ha riscritto il dialogo. Malkovich ha

guardato le nuove pagine e ha chiesto: «Perché mai dovrei dirlo?» Un giorno, mentre giravano lo scontro, Easbvood ha sentenziato: «Facciamolo». Girano la scena. Quando Malkovich lo minaccia,

Easbvood lo fìssa con il suo sguardo gelido e ribatte: «Non succederà». Ma senza la pausa a effetto. Lo dice in fretta, si mangia le parole. Sono quasi impercettibili (tanto che hanno dovuto registrare

di nuovo quella battuta per poterla usare nel trailer). Ma nessuno

potrebbe dire che è difficile lavorare con Easbvood, o che lui sfrutta il proprio ruolo, si dà arie da star o si comporta come Harry' Callaghan. Non lo fa. E non lo è. (Intervista pubblicata su Première, aprile 1993, pp. 52-60. Ripubblicata su autorizzazione dell’autore.)

10. Dottrina cardine della Reaganomics, basata sugli intenenti governatili sul lato dell’offerta piuttosto che su quello della domanda. [n.d.t.]

L’AMERICA SULL’ORLO DEL BARATRO DI HENRIBÉHAR (1993)

In Un mondo perfetto i protagonisti sono un bambino e il suo

rapitore (Kevin Costner) in fuga. Ilfilm descrive una relazione profonda e complessa che permette a Clint Eastwood di riflettere sul

rapporto tra padri e figli, ma porta anche sugli schermi una delle ferite della società americana e certamente anche di quellafrancese: l'irruzione della violenza. Inoltre ilfilm è un’occasione per mettere a confronto due tipi di morale, due tipologie di eroe puramente

americane, due generazioni di attori. Tutto ciò presenta molti rischi, come spiega Clint Eastwood in questa intervista.

Dopo Gli spietati e gli Oscar, è stato difficile affrontare un progetto nuovo? Aspetti, mi faccia pensare... È già passato un sacco di tempo...

Un solo anno sarebbe un sacco di tempo? (Ride) Vediamo... Nel centro del mirino è durato fino agli Oscar... Sì, Un mondo perfetto era già in lavorazione.

Il tema della paternità, dell’assenza del padre...

...era già definito molto chiaramente nella sceneggiatura originale, a cui il film è rimasto aderente.

Sembra che lei ritenga che molti problemi sociali siano da

attribuire alfallimento della figura paterna, a una scarsa comprensione dei concetti di machismo e di virilità... Su questo argomento è stato scritto molto, è un grosso problema

della società contemporanea, specialmente negli Stati Uniti.

Tuttavia Un mondo perfetto si svolge alla fine del 1963, appena

prima dell’arrivo a Dallas del Presidente Kennedy, di cui lei era

guardia del corpo nelfilm Nel centro del mirino. Questa «Kennedy connection» era già presente nella sceneggiatura di John Lee Hancock. Non ne ho discusso con lui, ma mi è sempre sembrato interessante trattare il presente nel contesto del passato. Gli spietati si svolgeva nel 1880, ma si occupava di

violenza armata, un problema che non potrebbe essere più contemporaneo. Un mondo perfetto si svolge in un preciso momento di un anno specifico, proprio sull’orlo di una svolta tremenda verso un

baratro che sta per inghiottire l’America. Questo getta un’ombra tragica su tutto ilfilm... Sì. Non si sa veramente a che punto questo elemento sia entrato nel film, e nemmeno se sia utilizzato in modo diretto nella pellicola.

Ma lo si percepisce come eco del disincanto di Red e della sua

ribellione nei confronti del sistema politico. Mi è sembrato giusto

collocare questo film in quel periodo particolare, un periodo strano, come un perpetuo stato di trepidazione. E poi Un mondo perfetto si svolge attorno a Halloween... Halloween è una festa in cui i bambini si travestono da mostri e da

streghe. Questo mi ha dato la possibilità, nel bel mezzo dell’inseguimento, di giocare con il costume del fantasmino Casper,

che il bambino indossa per la prima volta nella vita.

...mantenendo così una costante presenza della morte... Scheletri, maschere, sì... ...in un film in cui c’è quasi sempre il sole. Esattamente.

Le scene tra Kevin Costner e il bambino, che si svolgono quasi sempre su un’auto in movimento, comunicano un grande senso di libertà, quasi di anarchia. Le sue scene, invece, la vedono spesso bloccato in una roulotte di metallo che le fa da quartier generale. È stata una scelta voluta. Butch cerca la libertà, anche se non si fa

illusioni sulla sua «nuova frontiera», l’Alaska. La conosce solamente

attraverso una cartolina speditagli tanto tempo prima da suo padre,

che probabilmente non esiste e che, se esiste, non ha niente a che fare con lui. Poi c’è Red, con il suo guscio di acciaio, che forse, in un momento precedente, avrebbe potuto aiutare Butch, ma che ha incasinato un sacco di cose nella sua vita. Tra cui, nello specifico,

l’essere padre. Entrambi i personaggi hanno dei lati interessanti, ma anche dei limiti. Nella lotta morale non c'è vincitore.

No. Salvo, forse, il bambino... 0 almeno la speranza che, nonostante le ferite emotive, possa trarre vantaggio dall’avventura e possa crescere, maturare e invecchiare serenamente.

Siete stati voi a contattare Costner o è stato lui?

Siamo stati noi. Lui però presentava un doppio rischio: poteva puntare sul sentimento, come hafatto nell’uomo dei sogni, e poteva usare il suo incontestabile carisma per fare di Butch un eroe. Raramente cedo al sentimentalismo e Butch non poteva essere del

tutto un eroe. Ho cercato di mantenere in Kevin una certa durezza. Non volevo che avesse un atteggiamento «paterno» verso il bambino.

Butch non sa niente di bambini, ha passato troppo tempo in prigione... Volevo che trattasse il bambino così come trattava

chiunque altro. Kevin non è abituato a mostrare questa durezza interiore, tanto più che è molto attaccato ai suoi figli. Ma è un attore molto determinato ed è stato sufficiente riportarlo in carreggiata di

tanto in tanto.

Di conseguenza, lei ha portato il personaggio di Costner vicino a quelli interpretati da Bogart, Cagney, Mitchum o Gary Cooper negli

anni Quaranta. Sì. Gli attori di quella generazione non avevano paura di

rapportarsi con questo tipo di ruolo. Quelli dell’attuale generazione hanno... una certa immagine di sé. Un’immagine incoraggiata dal modo in cuifunziona oggi

Hollywood? Sì,

Quindi Costner, coccolato e venerato dall'industria cinematografica, tende ad andare sul sicuro? Non posso rispondere per lui. Ma se l’ha fatto in certi film, come nel suo primo ruolo importante qui no, non è andato sul sicuro. Butch

non è il classico «uomo che ama i bambini e i cani», non è un eroe romantico dietro cui ripararsi, È più Bogart in Una pallottola per Roy

0 II tesoro della Sierra Madre; quelli non erano né film né protagonisti convenzionali... ma quei ruoli hanno permesso agli attori di costruirsi una carriera duratura... Allo stesso modo, le donne dei film degli anni Quaranta erano molto più interessanti di quelle degli

anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta. Ed è in questa direzione che abbiamo lavorato sul personaggio di Laura Dern. Volevo che

partecipasse attivamente alle indagini, non volevo che fosse una

figura insulsa, un elemento decorativo, o l’unica donna sul posto di lavoro, che fa errori su errori e si mette in situazioni da cui solo gli

uomini sono in grado di tirarla fuori. Volevo che avesse un proprio

punto di vista, delle opinioni, un conflitto aperto con il mio personaggio, ma soprattutto non una storia d’amore.

Ha mai preso in considerazione l’idea di interpretare Butch?

Quel personaggio avrebbe potuto avere qualunque età, ma mi pareva un po’ ridicolo che un sessantenne andasse in cerca del proprio padre ottantenne. Mi pareva più giusto che Butch fosse sulla trentina.

Dunque mifaccia cinque nomi, o anche tre, di attrici di Hollywood nella sua fascia d’età...

(Ride) Capisco dove vuole arrivare... ...che siano in grado di sostenere un film tutto da sole, 0 almeno

di condividerlo con lei.

Se la sceneggiatura lo permette, sono il primo a esserne contento.

Parlando di Simone Signoret in La vita davanti a sé una volta un produttore ha scherzato: «Èfortunata a essere europea. Qui alla prima ruga lefarebbero fare la nonna in una soap opera difascia diurna». È orribile, angosciante, idiota, ma purtroppo non manca di verità. In Europa attrici del calibro di Jeanne Moreau o Sophia Loren sono sempre in auge. Negli Stati Uniti, per quanto mi concentri, non ne trovo nessuna. Capita qualche volta che un’attrice sugli ottanta abbia

un bel ruolo, come Jessica Tandy in A. spasso con Daisy, ma non ci sono più parti decorose scritte per donne di cinquantanni o oltre. Forse è per questo che gente come Jane Fonda, se proprio non pensa di andare in pensione anticipata, se ne sta un po’ in disparte...

Oppure ricorrono alla chirurgia estetica. Vi sono quasi costrette dal mondo della moda, dove tutti devono

avere diciotto anni, dove chiunque abbia più di trentanni è finito,

esaurito, un cavallo sbattuto fuori dalla stalla, se posso esprimermi

così. E poi non è una questione di genere: la stessa cosa vale anche per gli uomini, quasi quanto perle donne. Il sistema ti spinge a essere qualcosa che non sei, e se tu rifiuti, ti distruggi. A meno che tu non

chiuda completamente gli occhi. Per me una donna che sta

maturando e invecchiando con grazia è più sexy, più eccitante di una

che vuole dimostrare sempre ventanni. Sia Gli spietati sia Un mondo perfetto mostrano una violenza

priva di ogni attrazione. La violenza non è mai bella.

L’uscita degli Spietati negli Stati Uniti ha coinciso con la

controversia sulla canzone «Cop Killer» e sulla rottura tra il rapper Ice-T e la Time Warner. Analogamente, all’uscita di Un mondo

perfetto, abbiamo assistito, appena due settimane fa, a un attacco indiscriminato all’industria cinematografica, alla televisione e ai media in generale, da parte del ministro della Giustizia, Janet Reno,

e del presidente Clinton. A dire il vero comincio a essere infastidito dai politici che all’improvviso si mettono ad accusare la tv, il cinema e ria dicendo.

Puoi dire che la tv è riolenta, o che i film sono troppo riolenti. Si può

semplicemente dare tutta la colpa alla cattiva televisione e ai brutti film. Ma quando un politico è coinvolto in questo tipo di diatriba, non so mai se lo fa per il suo paese o per se stesso. Quando si cercano dei capri espiatori, l’industria del cinema e quella della televisione

diventano bersagli preferenziali: non possono mai ribattere. La televisione apre l’ombrello e Hollywood si batte il petto... Janet Reno sta probabilmente cercando di farsi perdonare l’enorme fiasco

dell’assedio di Waco, la cosa più riolenta che abbia risto in televisione negli ultimi tempi! E non conosco molti programmi tv che siano violenti quanto i notiziari. Di recente nel nord della California è stato arrestato un uomo che aveva rapito e poi ucciso una ragazzina. È risultato che era già stato

due volte in prigione per lo stesso reato! Lo stato di Washington sta prendendo in considerazione l’approvazione di una legge in base a cui la terza condanna per lo stesso reato importante comporta

automaticamente l’ergastolo. Ma quante persone moriranno prima di questa terza sentenza? In questo paese tutti i valori hanno subito un grosso cambiamento. Io sono cresciuto con l’idea che il crimine non paga. Ma l’apparato giudiziario è diventato incredibilmente infido, e la condanna media

per omicidio di fatto oggi è di cinque anni e mezzo...

In un recente dibattito a cui partecipava il regista Steven

Soderbergh, sono stati evidenziati dati eloquenti: in Francia, in Italia e in Germania, ogni anno vengono uccise con armi

automatiche o semiautomatiche meno di cinquanta persone. Negli Stati Uniti più di diecimila.' È vero. Per Soderbergh il motivo era semplice: il possesso di queste armi

è proibito in Europa. Le sembra che la recente adozione della legge

Brady, che prende il nome da James Brady, addetto stampa di Ronald Reagan al momento del suo tentato assassinio da parte di John Hinckley, possa costituire un primo passo nella giusta

direzione? Ho sempre sostenuto quel progetto di legge. Istituisce un tempo di attesa di cinque giorni, su mandato federale, tra la richiesta di acquistare un’arma da fuoco e l’effettiva consegna all’acquirente. In

California però il periodo di attesa è già di quindici giorni. D'altra parte, quasi tutte le famiglie svizzere con un familiare nella guardia nazionale hanno in casa delle armi d’assalto. Per dirla in modo

semplice, la società svizzera non incoraggia la gente a usarle. Non

potrebbe forse essere che, nella nostra società, il colpevole passi

attraverso il sistema così rapidamente che niente viene più preso sul

serio? Nel suo film sono presenti diversi tipi di violenza: quello brutale, a cui Costner cede in una scena cruciale che è una reazione al nonno... ...che prende a schiaffi il nipote quasi di routine, come se fosse una

cosa normale schiaffeggiare un bambino, sì. E poi c’è un’altra violenza, più sottile: quella esercitata sul

bambino dalla madre che, da Testimone di Geova, gli impedisce di indossare un costume di Halloween come fanno gli altri bambini... Non era mia intenzione attaccare i Testimoni di Geova. È vero che

non festeggiano Halloween e nemmeno il Natale, ma tra di loro ci sono tanti bambini che non ne soffrono affatto. Ogni religione ha i

suoi comandamenti e i suoi vincoli... ma a parte questo, il gruppo

familiare, la società, ha sempre giocato con punizioni del tipo: «No, non puoi andare a giocare con i tuoi amici, sei in punizione, hai fatto

una cosa davvero brutta...»

A breve sarà diretto da Steven Spielberg nei Ponti di Madison

County. Io e Spielberg ci conosciamo da parecchio tempo, ho diretto un episodio di Storie incredibili per lui, con Harvey Keitel. Abbiamo avuto un breve colloquio su questo progetto, ma poi abbiamo deciso di riprendere la discussione dopo l’uscita dei rispettivi film. Il mio è

già uscito e il suo, Schindler’s List, uscirà negli Stati Uniti la prossima settimana.

Ed è vero che ha intenzione di dirigere anche un film sul golf, con Sean Connery? Dopo aver fatto Gli spietati, Nel centro del mirino e Un mondo perfetto praticamente di fila, prima di tutto voglio prendermi una vacanza con la mia famiglia!

(Intervista pubblicata con il titolo «L’Amérique au bord du vide» su

Le Monde, 16 dicembre 1993, traduzione dalfrancese di Kathie

Coblentz. Ripubblicata su autorizzazione.)

BOTTA E RISPOSTA CON UN’ICONA WESTERN DI JERRY ROBERTS (1995)

Dopo aver diretto quasi venti film e aver recitato in decine di altri, Eastwood ha ottenuto grandi successi di botteghino e mietuto

riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui, nel 1992, l’Oscar per la miglior regia per Gli spietati, premiato anche come miglior film. Per

quell’apprezzato western ha ricevuto la statuetta anche come produttore, mentre l’ultimo riconoscimento dell'Academy è l’Irving G. Thalberg Memorial Award, attribuitogli per i successi ottenuti in

quasi trentanni di produzione. Da quando si è messo l’abito della

Malpaso Productions per Impiccalo più in alto nel 1968, l’«Uomo senza nome» ha indossato tre cappelli. Questa intervista esclusiva a Eastwood è stata condotta dal critico cinematografico Jerry Roberts per Daily Variety.

È raro che l’Irving G. Thalberg Award venga attribuito a

produttori ancora in attività. E non è mai stato concesso a qualcuno che è noto soprattutto come attore. È rimasto sorpreso quando è

stato scelto? Sì, certo. Ma io ho creato la Malpaso Productions a metà degli anni

Sessanta, quindi sono trentanni che sono direttamente coinvolto nell’intero processo di produzione di un film. Se vogliamo sostenere che sono una figura contemporanea, posso rispondere che sono quello che si potrebbe definire un contemporaneo di lunga data. È uno di quei casi per cui sono sopravvissuto a tutti gli altri. Ho cominciato con

i western italiani nel 1963 e nel 1964, poi sono tornato qui e ho creato la Malpaso per Impiccalo più in alto. Per quel film non risultavo

ancora produttore nei credit, ma poi ho cominciato a mettermici. All’inizio lavoravamo soprattutto per la Universa! e, dopo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, per la Warner Bros. Abbiamo

progressivamente spostato la società verso la Warner Bros, fino a trasferirci definitivamente lì nel 1976.

Perché ha lasciato la Universal? La Universa! ha finito per impegnarsi soprattutto nel business dei tour, più che in quello cinematografico. Non potevi uscire dall’ufficio senza sbattere contro i visitatori. E poi la Warner Bros, aveva più

spazio, più risorse e un reparto marketing davvero buono. Il primo film che abbiamo fatto alla Warner Bros, è stato II texano dagli occhi di ghiaccio. A eccezione di un film per la Paramount (.Fuga da Alcatraz') e uno per la Columbia (Nel centro del mirino), abbiamo sempre lavorato con la Warner Bros. Non è un rapporto esclusivo. È

una specie di gentlemen’s agreement. Se qualcun altro ha un grosso

progetto per cui mi vuole, come ATel centro del mirino per la Castle

Rock, posso farlo.

La definizione della parola produttore dipende dalla persona con cui si parla. Qual è la sua definizione di questo lavoro, per come lo

svolge lei? I produttori sono quelli che, per un film, ricevono la quota minima di attenzione e di gratificazione. Non sono coinvolti in modo tanto diretto come i registi e gli attori. Tuttavia, concepiscono il progetto nel

complesso e lo finanziano. Il produttore è quella persona che mette insieme i vari elementi e poi passa la palla al regista. Com’è cambiata negli anni la professione del produttore?

Un tempo i produttori conoscevano bene tutti gli aspetti della produzione cinematografica, inoltre erano i presidenti delle rispettive società. Alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, molti produttori si limitavano a confezionare il prodotto per poi farsi da

parte. Ai vecchi tempi, produttori come Hal Wallis erano coinvolti in modo un po’ più diretto. Si intendevano di luci. Capivano quando il regista diceva loro una cretinata. Per i conti si affidavano al

responsabile della troupe, ma tenevano d’occhio tutto il progetto. Come si adatta la mia figura a tutto questo... sono piuttosto bravo

a osservare. Se sei una persona responsabile e hai capito di cosa hai bisogno, non c’è motivo per superare il budget o fare errori di calcolo in fase avanzata. Basta ingaggiare tipi in gamba che faranno sembrare in gamba anche te. È come montare un cavallo. Può farti apparire

nobile ed elegante oppure può farti sembrare un vagabondo. Un produttore deve essere anche il venditore del progetto, per

riuscire a finanziarlo deve suscitare entusiasmo. Deve riuscire a venderlo agli attori, se vuole avere un cast con interpreti famosi. Bisogna vendere i vari elementi a un regista. È un processo difficile ma, se hai dei buoni precedenti, se in passato lo studio ha già

condiviso le tue fortune, si fiderà ancora di te. E se di recente hai prodotto un film di successo, anche questo può aiutare.

Gestione deifondi, entusiasmo e capacità di persuasione e di confezionare il prodotto sembrano quindi le caratteristiche più

importanti di questo lavoro. Per diventare produttore, non si va a scuola. Si possono frequentare scuole di cinema e imparare la fotografia e il montaggio.

Ma non si può insegnare a qualcuno a diventare un buon produttore. È piuttosto un apprendistato. David Valdes è un buon esempio, un produttore fantastico. Ha fatto carriera con me. Da aiuto regista è diventato responsabile della troupe e poi, dopo aver rivestito quel

ruolo in alcuni film, è diventato produttore. Lei ha dichiarato di aver imparato alcuni aspetti della regia da Sergio Leone e Don Siegei. Ricorda qualcuno che può avere influenzato il suo stile di produttore?

Ho lavorato con dei produttori davvero bravi e anche con alcuni che si limitavano a chiudere accordi. Ma ammiravo molto Hal Wallis, un professionista davvero scaltro e intelligente. Sembrava che sapesse

sempre come tenere insieme tutto il team, che conoscesse ogni

singolo aspetto del settore. Non ho mai lavorato con lui. E non ho mai

lavorato nemmeno con Billy Wilder, ma ne sono stato un ammiratore a distanza.

Alcuni dei registi più indipendenti hanno sempre provato avversione per i produttori. Don Siegei era solito dire: «Il problema con i produttori è che non sanno quello che fanno». Aveva creato una sorta di antagonismo tra

se stesso e il produttore, come se il produttore fosse un esattore delle tasse grande e grosso, o una cosa del genere. Per cui, in un paio di progetti, gli ho detto: «Questa volta sei produttore e regista allo stesso

tempo e non avrai più nessuno da odiare».

Probabilmente non è una coincidenza che, tra i registi, uno dei più noti denigratori dei produttori fosse Sam Peckinpah, che aveva

lavorato per Siegei. Quelli erano gli ultimi registi irascibili, nella tradizione di Ford e Raoul Walsh.

Io prendo le cose in maniera più rilassata rispetto a loro. Ho

cominciato come attore, un percorso particolare per arrivare alla

produzione. La maggior parte degli attori pensa alla produzione come a un mal di testa. Io invece ero interessato a quello che mi succedeva intorno, mi sono reso conto che più capivo come agivano gli altri nel

mondo del cinema, più cognizione acquisivo e più mi piaceva.

Cosa le dà più soddisfazione nella produzione? Leggi una sceneggiatura che ti piace e dici: «Ok, ho in mano solo

un mucchietto di fogli»... ma il nucleo è quello. Per me l’elemento più

importante è il progetto. Poi metti insieme la squadra: chi sarà il regista? Chi farò entrare nel cast? Chi si occuperà della scenografia, della fotografia, del sonoro? Tutti questi elementi sono parti integranti del film e mi piace adattarli al progetto.

Sembra che lei scelga di lavorare sempre con la stessa gente. Jack N. Green, per esempio, è il suo abituale direttore della

fotografia. Ho fatto far camera ad alcune persone. Ti senti sempre più fiducioso se hai intorno dei bravi collaboratori che ti capiscono al

volo. Perché c’è intesa, c’è una storia comune. Sono persone che capiscono perfettamente cosa vuoi, a volte senza bisogno di parlare. Fino a che punto l'esperienza televisiva negli Uomini della

prateria ha contribuito a formarla come produttore? Gli uomini della prateria è stata una grande palestra per me.

Durante quei sette anni ho gradualmente imparato diversi stili di

regia, di tecniche di illuminazione, e così via. Ho assorbito molti dettagli inconsciamente, poi ho cominciato a prestare attenzione. Nel corso degli anni abbiamo avuto diversi produttori. Ho tentato di imitare le cose che andavano bene e di scartare i metodi che non funzionavano.

Diversi suoi collaboratori hanno sostenuto che l’essere figlio della Depressione nel nord della California abbia influenzato la sua

capacità di gestione deifondi come produttore.

Per i miei genitori e per gli altri vissuti in quel particolare periodo

è stata davvero dura. Alcuni di loro non se la cavavano per niente bene. Mio padre se ne rendeva perfettamente conto. Era una lotta e

non c’erano molte possibilità di lavoro. Diceva: «Nessuno ti regala

mai niente» e «Se guadagni un dollaro, mettilo da parte». Finivamo

tutto quello che avevamo nel piatto e non sprecavamo mai niente. Tutto questo porta ad avere un certo rispetto per i bilanci. Se qualcuno ti chiede di occuparti dei finanziamenti, deri avere rispetto per luì e per i soldi. Alla Warner (i copresidenti e direttori

esecutivi) Terry Semel e Bob Daly non vogliono guardare il film finché non l’ho finito. Io gli dico: «I finanziatori siete voi. Dovreste poterlo guardare in qualunque momento vogliate». C'è una storiella famosa riguardo a Jack Warner, Un giorno entrò

nella sala di registrazione dì un set grande e costoso, alzò gli occhi e, notando degli imbianchini che stavano dipingendo il soffitto, esclamò:

«Cosa stanno facendo?» Qualcuno gli rispose che stavano

ridipingendo il soffitto. «Beh», rispose lui, «allora assicuratevi che si veda nel film». Gira una battuta sul «meteo della Malpaso», e cioè che le sue produzioni abbiano la fortuna di girare e finire le riprese prima che

arrivi una qualche bufera. In alcuni film è stato necessario cambiare

location per via di qualche nevicata, per esempio per Pink Cadillac e Il cavaliere pallido. Lei ha usato una inattesa spolverata di neve per creare un effetto negli Spietati.

Certe volte bisogna pensare in fretta. Se arriva un uragano, cosa fai? Calci la palla in tribuna per evitare rischi peggiori. Fai tutto quello

che puoi umanamente fare per tenere tutto sotto controllo con il minor dispendio di denaro possibile. Alcune volte sono stato fortunato.

Una cosa che emerge dalle conversazioni con i suoi soci alla Malpaso è che i suoi set in genere sono piuttosto tranquilli.

Siamo lì per lavorare, è importante sentirsi tutti a proprio agio. Sul set degli Spietati c’era un clima molto rilassato. Ogni giorno era un

piacere andare a lavorare. La stessa cosa è successa sul set dei Ponti di Madison County. Era bello e gradevole. Se tutto questo si percepisce

anche nel risultato finale del film, lo vedremo. (Pubblicato su Daily Variety, 27 marzo 1995. Ripubblicato su

autorizzazione.)

«LA VERITÀ, COSÌ COME L’ARTE, È NELL’OCCHIO DI CHI GUARDA»: MEZZANOTTE NEL GIARDINO

DEL BENE E DEL MALE EI PONTI DI MADISON COUNTY DI MICHAEL HENRYWILSON (1998)

Molti critici americani le hanno contestato la scelta di un materiale così ambiguo, ironico, polifonico come Mezzanotte nel giardino del bene e del male.

Quello che mi diverte è lo stato confusionale in cui si trova la critica in questo paese. Continuano a lamentarsi che non facciamo film incentrati sui personaggi come negli anni Trenta e Quaranta, ma allo stesso tempo si entusiasmano per i film d’azione privi di ogni

complessità. Penso che l’influenza della tv abbia cambiato la percezione dei film. C’è tutta una generazione, quella di MTV, che

vuole che le cose siano sempre in movimento. Non ci si ferma mai, non si torna mai sui propri passi. Mezzanotte nel giardino del bene e del male non è l’unico film ad aver sofferto di questa sindrome

quest’anno; potremmo fare diversi altri esempi. Ad ogni modo, io non

posso preoccuparmene. Ho girato il film che volevo girare, tutto qui. Quello che mi ha guidato è stato il desiderio di farlo. Quando ho cominciato a fare il film sapevo che non sarebbe stato per tutti i tipi di palato; ad alcuni sarebbe piaciuto, altri l’avrebbero odiato, mentre ci

sarebbero state pochissime reazioni intermedie. Il libro di John Berendt non era un’opera di narrativa, ma un

saggio antropologico mascherato da diario. Qual è stato l’aspetto che l’ha colpita all’inizio? John Lee Hancock, lo sceneggiatore di Un mondo perfetto, me ne aveva parlato due anni fa. Mi era sembrato interessante già dal titolo e mi piaceva anche il fatto che fosse ambientato a Savannah. Me ne ero

dimenticato, ma poi l’anno scorso John mi ha chiamato perché voleva

sottopormi la sceneggiatura, a cui stava lavorando da parecchio tempo. Sì diceva che il libro non fosse adattabile, ma lui riteneva di aver trovato una soluzione. Ha aggiunto che lo studio lo avrebbe

scaricato perché preferiva trattare l’opera come una semplice commedia. Dato che non conoscevo il libro, ho letto la sceneggiatura senza nessuna idea preconcetta; mi è piaciuta e questo mi ha spinto a

leggere il libro; a quel punto ero in grado di capire le difficoltà che John aveva dovuto superare. Personalmente non avrei saputo da che parte cominciare! Allora ho chiamato Terry Semel, il grande capo alla

Warner Bros., e gli ho detto che era una buona sceneggiatura e che avrei voluto girare io il film, se nessun altro avesse mostrato interesse

per il progetto. Semel mi ha confidato che non sapevano proprio come impostare quel lavoro. Io ho risposto che poteva essere uno studio

interessante sui personaggi, perché parlava di un gruppo di persone particolari. Poco dopo, tornando da New York, mi sono fermato a

Savannah. Mi sono guardato intorno, ho incontrato alcune delle persone a cui i fatti sono ispirati, mi sono fatto un’idea della città e ho

effettuato una specie di indagine personale. Sono tornato a casa e ho detto: «Ok, sono pronto».

Ma il suo interessamento non ha portato a una revisione o una ristrutturazione della sceneggiatura? Qualcosa è stato riscritto. Ho chiesto a John di reinserire alcune scene del libro che aveva tolto. Una di queste era l’episodio in cui Jim

Williams [Kevin Spacey] è in prigione e descrive al cronista una seconda ricostruzione dell’omicidio. Era una delle scene del libro che

preferivo, l’idea che un episodio si possa raccontare da diversi punti di vista, come in Rashomon. Abbiamo tolto delle scene e ne abbiamo aggiunte altre. Per esempio abbiamo discusso all’infinito su quella del club di bridge per donne sposate. Alla fine, invece di eliminarla del tutto, ne abbiamo tenuta una versione più ridotta. Avremmo potuto

eliminare il ballo delle debuttanti in nero, ma per me questi dettagli creano un’atmosfera e fanno del film qualcosa di più di un semplice

dramma che si svolge in un’aula di tribunale. Mi piacciono i court drama, ma non volevo che il film fosse tutto là.

Ci sono state delle sequenze girate e poi cancellate durante il

montaggio? Sì, e per alcune è stato un peccato. Avevo materiale sufficiente per

un film di tre ore e tre quarti o anche di cinque ore. Ho dovuto togliere alcune scene buone, anche molto buone perché avevamo bisogno di mantenere un certo ritmo. 11 rapporto tra Kelso [John

Cusack], lo scrittore, e Mandy [Alison Eastwood], la cantante, era più sviluppato, come pure quello tra Mandy e Joe, il suo amico pianista. Mandy era un personaggio articolato già nel libro, ma John Hancock

ne ha aumentato ulteriormente la complessità attribuendole alcune caratteristiche di Nancy, la partner di Joe, e anche della sua prima moglie. Inoltre ne ha fatto un personaggio più giovane per accennare al fascino e all’attrattiva che la città e i suoi abitanti trasudano. Anche

Minerva è un personaggio complesso. Il romanzo si ispirava a diverse sacerdotesse voodoo, ma la principale sacerdotessa del film, quella consultata da Jim Williams, è basata su un personaggio che Hancock

ha effettivamente conosciuto. Vive a un centinaio di chilometri da Savannah e si rifiuta di parlare di qualsiasi cosa. È una dei veri protagonisti della storia che non hanno tentato di trarre vantaggio dal

successo del libro. Ha mai pensato di chiedere a John Berendt, l’autore, di adattare

il libro?

Non ha voluto. Gliel’abbiamo chiesto, non ricordo quando. Era convinto che il libro non si potesse adattare. Non era mai stato concepito come un film e lui non riusciva a immaginare come

adattarlo. Dopo aver risto il film finito, Berendt ci ha fatto un sacco dì complimenti sia per la sceneggiatura, sia per la regia. Per come la

vedo io, una delle decisioni più indovinate è stata quella di ridurre i quattro processi riportati nel libro a uno solo. John Hancock è riuscito

a sintetizzare l’essenza di tutta la questione in un solo processo mentre, in realtà, i giurati non riuscivano a raggiungere un verdetto e ci erano voluti anni per riuscirci. Il film, più del libro, si concentra sull’ambiguità del personaggio

principale, Jim Williams. La sua astuzia ricorda quella del

famigerato Claus von Billow. Era quello che avevamo in mente. Quell’idea era più diluita nei libro, che è pieno di aneddoti e digressioni. Noi dovevamo mettere l’accento soprattutto sui punti drammatici, mentre il libro è fatto

essenzialmente di atmosfera. Volevo che Jim Williams fosse più vivace, più presente; lo stesso valeva per il giornalista. Nel libro non si

sa molto di lui. La sua è la voce di un osservatore distaccato. Nella

sceneggiatura è diventato John Kelso, un personaggio intenso che interagisce di più con Williams, ne diventa quasi amico e resta doppiamente deluso quando l’altro gli mente. Kelso è l’outsider con cui il pubblico si può identificare nel suo tentativo di entrare in quel mondo. L’interpretazione di John Cusack è stata sottovalutata. Può essere meno effervescente di quella di Kevin Spacey, ma è con lui e grazie a lui che riusciamo a intraprendere questo viaggio.

Lei è riuscito a disseppellire un tema familiare: Kelso è un

forestiero che approda in una città infestata dalla corruzione e

diventa l’arbitro dei giochi di potere tra i diversi clan. Mezzanotte nel giardino del bene e del male si può leggere come una variazione bizzarra e spensierata della premessa di tanti suoi western.

La differenza è che questo forestiero non entra veramente in conflitto con gli abitanti di una città peccaminosa, ma si pone mentalmente delle domande, perché le persone con cui interagisce sono ambigue. Il film parla anche di tolleranza... tollerare stili di vita diversi, imparare a giudicare meno. È un aspetto importante del film,

ed è sorprendente che i critici lo abbiano a malapena citato. È un mondo in cui tutto finisce per relativizzarsi. Dice Kevin

Spacey: «La Verità, così come l’Arte, è nell’occhio di chi guarda». Non sapremo mai la verità, e a me quest’ambiguità piace. Williams ci mostra due ricostruzioni differenti [dello stesso crimine] con la stessa convinzione. Lascia Kelso senza risposte, ma la vita è così. Uno dei detective che hanno condotto le indagini preliminari mi ha detto

che non reputava vera nessuna delle due ricostruzioni. Quando venne chiamata la polizia, un’ora o poco più dopo l’uccisione dell’amante,

Williams era lì che l’aspettava insieme al suo avvocato. Secondo loro il ragazzo doveva aver schiacciato la sigaretta sulla scrivania

d’antiquariato di Williams, che si era infuriato, aveva tirato fuori una delle sue vecchie Luger e fatto fuoco. Dopodiché aveva sistemato la stanza in modo tale da far sembrare di aver agito per legittima difesa. Ognuno è libero di scegliere la propria versione di quel crimine.

Il personaggio di Kevin Spacey è rappresentato in modo ambiguo, come un gentleman sofisticato che è probabilmente

colpevole di un crimine. La sua eleganza fa pensare agli eroi di Otto

Preminger, specialmente il dandy interpretato da Clifton Webb in Vertigine. Come in Vertigine, l’orologio del nonno costituisce un

dispositivo drammatico e simbolico in un momento cruciale della storia.

A Savannah si sentono mille storie diverse su Jim Williams, ma anche coloro che hanno interagito con lui e hanno frequentato le sue feste concordano nel descriverlo come un personaggio misterioso.

Quelli a cui piaceva erano affascinati dal suo alone di mistero; quelli a

cui non piaceva lo vedevano come un pericoloso pervertito. Era un

tipo intraprendente, intelligente, cauto e attento. Berendtlo comunica molto bene quando paragona gli occhi di Williams ai vetri oscurati di una limousine; lui può vedere fuori, ma noi, da fuori, non possiamo

vedere lui dentro. Rimane impenetrabile. Non sai mai cosa possa nascondere il suo sorriso. Nel libro la morte di Jim Williams viene raccontata in un solo paragrafo. Nelfilm viene espressa come una forma di giustizia

poetica. Lei ha concepito una sequenza molto elaborata che ci costringe a reinterpretare una serie di eventi. È come una terza versione del delitto. Gli intrighi di Williams

tornano a perseguitarlo e distruggerlo. Il ritratto che ne fa Kevin Spacey è incredibile. Ne avete discusso

insieme? Sì, all’inizio del progetto. Ma non abbiamo fatto prove: a lui non

piacciono, è uno che si butta. John Cusack la vedeva nella stessa maniera. Però tutti gli attori hanno fatto delle ricerche approfondite. Kevin ha incontrato la famiglia e gli amici di Williams; è diventato amico di sua sorella Dorothy. Jack Thompson, che è australiano, ha trascorso un bel po’ di tempo in compagnia di Sonny Seiler per assorbire il suo accento del Sud e il suo stile come avvocato e anche

per conoscere il suo punto di vista riguardo al caso. Cusack ha avuto

lunghi colloqui con Berendt. Tutti si sono formati ima propria idea di quello che era successo quella sera in casa di Jim Williams, proprio

come hanno fatto gli abitanti di Savannah nella vita reale. Savannah era destinata ad affascinarla con il persistente ricordo di Johnny Mercer.

Diciamo che era un aspetto che si aggiungeva al suo fascino. Il suo bis-bisnonno aveva costruito la Mercer House di Monterey Square. Ma, nonostante fosse il figlio prediletto di Savannah, Mercer non ha

mai vissuto in quella casa e non ha alcun rapporto con la nostra storia. A parte il fatto che Joe e Mandy1 sono entrambi musicisti blues, il che mi ha dato la possibilità di usare i brani di Mercer in tutto il film!

John Berendt descrive Savannah come una vestigia del vecchio Sud, «remota come le isole Pitcairn». È un mondo poco conosciuto, fuori dalle rotte aeree. Non ci sono

voli diretti né da New York né da Los Angeles. Anche i cittadini di Atlanta considerano Savannah qualcosa di estraneo alla Georgia. Già al tempo della guerra civile, Savannah aveva un modo di fare tutto suo. Quando le truppe dell’Unione si avvicinarono, i padri fondatori

della città aprirono dei negoziati e riuscirono a dissuaderle

dall’incendiaria offrendo loro del bourbon e organizzando dei grandi ricevimenti. Così Savannah fu risparmiata. Il generale Sherman arrivò addirittura a telegrafare a Lincoln: «Le offro il gioiello del Sud come

regalo di Natale». Da allora la città ha in qualche modo resistito ai cambiamenti e alle ondate di immigrazione. Ciò vale in particolare per la città vecchia, costruita attorno alle ventuno piazzette progettate da

James Oglethorpe sul modello degli accampamenti militari romani.

Alcune delle sue chiese e sinagoghe sono tra le più vecchie del paese. Jim Williams era appassionato di restauri, era da questo che derivava la sua popolarità. Li faceva però a modo suo. Quando volle restaurare

un vecchio edificio, la Pink House, per aprire un bar-ristorante e il

consiglio comunale si oppose al progetto, lui minacciò di sostituirlo con un parcheggio e il giorno successivo posizionò una squadra di demolitori pronti a buttarlo giù. La ebbe subito vanta! In qualche

misura, Savannah è una città liberale che tollera stili di vita diversi,

ma è anche una piccola cittadina di provincia dominata dalle gelosie e dai pettegolezzi. Le chiacchiere sono il passatempo preferito degli abitanti. È incredibile, per esempio, quali e quante voci siano riusciti a

diffondere e quali scenari abbiano costruito sulla produzione del film ancor prima che arrivassi io.

In tutto ilfilm lei si prende il tempo di osservare e apprezzare i rituali di quella microsocietà. Vediamo una tribù in via di estinzione. Oggi la maggior parte delle volte i film si accontentano di storie

sintetizzate. Forse il pubblico è più impaziente 0 forse lo sono i registi, non so. Certe volte mi verrebbe da dire che ho fatto il film esclusivamente per chi è interessato ai dettagli. Gli altri, quelli della generazione di MTV, si faranno un pisolino o si annoieranno per tutto il film. Quelli che lei chiama «rituali» sono esattamente l’aspetto che

mi interessava e a cui volevo dedicare tempo. Secondo alcuni ha dedicato troppo spazio alla transessuale Lady Chablis.

Era un personaggio pittoresco, sia nella vita reale sia sullo

schermo. La sua esuberanza faceva parte dell’atmosfera generale di

Savannah. Inoltre mi piacciono i personaggi che forse non hanno niente a che fare con il finale ma che comunque fanno parte della storia. Lady Chablis spinge John Kelso a vedere le cose in modo un

po’ diverso. Torniamo alla questione della tolleranza. Mi piace molto

come si evolve il loro rapporto, sono il Cary Grant e la Rosalind Russell degli anni Novanta! Da un po’ di tempo lei si sente sempre più attratto da storie incentrate sull'evoluzione di un personaggio, o di diversi personaggi,

come in MezzanotteQuando ho iniziato, diciamo quando avevo venti o trent'anni, i film d’azione erano divertenti. Qualche volta il materiale aveva anche una buona storia; qualche volta c’era molta azione, molto movimento

e colore. Ma a un certo punto della vita ci si stufa. Si cerca piuttosto di studiare i personaggi, anche se il prodotto sarà meno commerciale. Mentre giravo Gli spietati, pensavo che non sarebbe stato un

successo. Non era pieno di sparatorie come II mucchio selvaggio o i western di Sergio Leone. Si allontanava dalla tradizione di cui facevo parte. Gunplay era triste. Si vedevano bambini uccisi per un nonnulla. Pensavo che, per tutti questi motivi, il film sarebbe stato accolto male.

Nelfrattempo ha sorpreso tutti scommettendo su un «film al femminile» come I ponti di Madison County. È stato un altro tentativo di rinnovamento?

Cosa posso dire? Dopo quarantanni, stanno ancora tentando di

etichettarmi. Quando recitavo nella serie Gli uomini della prateria, mi identificavano con il western televisivo; quando ho fatto i film con Sergio Leone, mi identificavano con il western anticonformista europeo; quando sono diventato Harry Callaghan, con il dramma poliziesco urbano. Più tardi, quando ho cercato di intraprendere un

progetto stravagante come Filo da torcere, ricordo che mi hanno

messo in guardia e si sono opposti ferocemente: «Non ci sono

sparatorie. Non è il tuo tipo di storia. Ti troverai tutti i tuoi fan contro». Ma qual è «la mia storia»? Io non lo so. Racconto tanti tipi di

storie diverse; tutto qui. Quando ero giovane, mi piacevano tutte le tipologie di film, da Furore a Governante rubacuori. Perché dovrei continuare a fare gli stessi film con cui ho iniziato? Perché mai Dustin Hoffman dovrebbe continuare a interpretare II laureato per tutta la vita? Non so se questa sia una cosa che riguarda specificamente l’America. Ma nel caso di Mezzanotte nel giardino del bene e del

male, non lo voleva fare nessuno. Lo stesso con Bird; la sceneggiatura

era rimasta ferma per anni. Nessuno voleva fare Gli spietati. Si potrebbe pensare che io fossi il regista più improbabile per questi tre progetti, ma in realtà ero l’unico che li trovava interessanti!

L’Iowa rurale dei Ponti di Madison County' è agli antipodi del

microcosmo urbano e leggermente decadente di Mezzanotte nel giardino del bene e del male. Ma non ci sono delle analogie tra i due

film, entrambi adattati da bestseller? Sono state entrambe esperienze piacevoli. Grazie a Dio nessuno mi ha chiesto di indossare un sombrero per farli! Devo dire che il libro di John Berendt era molto più intelligente e scritto meglio di quello di

Robert James Waller, la cui prosa tendeva a essere un po’ troppo elaborata. Però sono stato rapito dalla geniale semplicità del tema. Non c’era una soap opera, né una malattia incurabile, né un deus ex

machina come in Magnifica ossessione [diretto da Douglas Sirk];

c’era soltanto l’incontro tra due outsider: un fotografo giramondo e una casalinga frustrata. I due scoprono che la loro vita non è finita,

che possono ancora provare delle emozioni che pensavano di non sperimentare mai più. La storia possedeva una sorta di magia; non somigliava a niente che si stesse facendo in quel momento nella

letteratura e nel cinema. Ha ricalibrato il romanzo. Non è più la storia «dell’ultimo

cowboy» voluta da Waller. Il romanzo era stato scritto dal punto di vista dell’uomo, quello di

Robert Kincaid. Abbiamo preferito narrare la storia dal punto di vista della donna, di Francesca. E abbiamo reso molto più semplici i protagonisti e le loro aspirazioni. È stato lei a scegliere Meryl Streep come sua coprotagonista. È come Gene Hackman e Morgan Freeman. È sempre pronta e ti

dà tutto quello che ti aspetti da lei. Non era particolarmente innamorata del libro, dove la donna non era in primo piano, ma le piaceva la sceneggiatura [di Richard LaGravenese] per la descrizione sincera dei comportamenti e delle emozioni.

In Mezzanotte nel giardino del bene e del male le emozioni sono trattenute o nascoste sotto le apparenze ingannevoli. Nei Ponti di Madison County invece affiorano in superficie. Vediamo addirittura l’eroe spargere delle lacrime. Jim Williams non è il tipo d’uomo che rivela le proprie emozioni.

Deve conservare un certo alone di mistero. Al contrario, non ci sono misteri in Kincaid, che è molto aperto e che, a dispetto dei suoi modi a volte frivoli, si lascia coinvolgere profondamente. È una romantica storia d’amore. Inizia in modo abbastanza innocente: i due si stimano

e diventano prima amici e poi amanti, fino a essere ossessionati l’uno dall’altra. La loro sincerità non è mai messa in discussione. Ha riscontrato degli aspetti del suo carattere nel personaggio del fotografo?

Forse. Tanto tempo fa andavo in giro su un pick-up, come Kincaid. Quando ho cominciato a fare il regista, per Lo straniero senza nome,

per esempio, lo facevo per trovare le location. Mi mettevo al volante del pick-up, da solo, salivo sulle Sierras, mi imbattevo in una location

che mi piaceva e stringevo degli accordi per poterla usare in seguito per la produzione. Quindi in un certo senso ero un po’ come lui. Non

ho mai incontrato casalinghe italiane, ma mi sarebbe potuto

succedere. Devo ammettere che in Kincaid c’è sicuramente qualcosa di me, mentre non mi identifico con nessuno dei personaggi di

Mezzanotte... anche se lì ho trovati tutti interessanti. Nonostante la forte dimensione sensuale, lei affronta quel breve

incontro con una compostezza ormai rara nel cinema. Volevo raccontare la storia un po’ come si faceva una volta, senza inserire una sessualità esplicita, anche se al giorno d’oggi è d’obbligo.

La casalinga commette adulterio e tu prori simpatia per lei; ma allo stesso tempo lei ha dei dubbi, delle ansie, come chiunque si ritrovi in quella situazione. Francesca e Kincaid sono entrambi emarginati. Non

sono tipi «emancipati» che hanno voglia di divertirsi. Man mano che la loro relazione si evolve, sì rendono conto che a entrambi mancava qualcosa. Non hanno mai conosciuto un sentimento come quello e

probabilmente non avranno occasione di provarlo di nuovo. Quando ha pensato di dirigere lui il film, Steven Spielberg

riusciva a pensare solo a lei per il ruolo di Kincaid. E vero. Ma dopo Schindler’s List, voleva riposarsi per un anno,

quindi il film l’ho ereditato io. Confesso che quel personaggio mi piaceva. Mi piacevano la sua indipendenza e la sua integrità. È uno

che si appassiona a quello che fa, ma non è affatto un irresponsabile. È autosufficiente. Inoltre ha la fortuna di potersi dedicare a un’attività creativa.

Dai suoi film tendono a scomparire gli uomini d’azione, in favore di artisti, musicisti, scrittori o personalità dello show business.

Prima del Kincaid dei Ponti di Madison County c'erano stati il Red

Stovall di Honkytonk Man, il Charlie Parker di Bird, il regista cinematografico di Cacciatore bianco, cuore nero. In Mezzanotte nel

giardino del bene e del male Jim Williams colleziona e restaura

oggetti d’arte. In Potere assoluto Luther si dedica alla pittura. Questi personaggi coltivano tutti una passione artistica che li contraddistingue.

Si può aggiungere anche Nel centro del mirino, in cui l’eroe è appassionato di musica anche se fa parte dei servizi segreti. E non è tutto! Nel mio prossimo film, Fino a prova contraria, adattato da un libro di Andrew Klavan, interpreto uno scrittore-reporter che si

occupa di indagini penali e ha un sacco di cattive abitudini. Una volta è stato demansionato per aver contribuito a far uscire un tizio che riteneva innocente ma che poi era risultato colpevole. Quando si

ripresenta una situazione analoga, il suo passato toma a

perseguitarlo. È possibile considerare gli artisti come gli ultimi individualisti? Qualche volta, forse. Sì, se si parla di artisti come John Steinbeck.

Ha sempre parlato dell’individuo e delle sue lotte. Storie affascinanti. Dai suoi romanzi sono stati tratti alcuni grandi film, come Furore e Uomini e topi, nella prima versione. Erano storie che si prestavano a diventare bei film perché parlavano dell’uomo comune, di individui

che lottavano per la propria sopravvivenza. Nei Ponti di Madison County, anziché usare musica country, ha inserito del jazz. Non ha addirittura inventato di sana pianta la scena al Blue Note?

Nel romanzo i due si incontravano nei ristoranti di Des Moines, ma mi sembrava poco probabile che una coppia clandestina si

mostrasse così apertamente in pubblico. Dato che il Kincaid di Waller suonava la chitarra ed era appassionato di bluegrass, ho pensato: «Perché non farli andare in un piccolo jazz club, una locanda

frequentata da neri, dove nessuno potrebbe riconoscerli? Probabilmente sarebbero l’unica coppia bianca e avrebbero in comune quella musica». Su questo sfondo ho usato registrazioni di jazzisti

sottovalutati o dimenticati come i cantanti Johnny Hartman e Irene

Kral. Perché Hartman piuttosto che Sinatra, Nat King Cole o Tony’ Bennett? Perché Hartman non si sente tutti i giorni. Inoltre le sue

ballate sono legate ai miei ricordi di gioventù. L’ho visto in concerto

con la band di Dizzy Gillespie a San Francisco. Ricordo ancora una festa da ballo con una ragazza, io indossavo la giacca di uno smoking bianco ed entrambi eravamo affascinati dalla voce unica di Hartman.

Come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, I ponti di Madison County trasmette la sensazione di un romanzo. Le emozioni sono orchestrate con una modulazione lenta. Quella lentezza è essenziale per dare ai personaggi il tempo di cambiare e di

maturare. Questi sono film che non funzionano se la storia non viene

raccontata in tempo reale. Se in un film come I ponti di Madison County si accelera il ritmo, non ne resta che lo scheletro. Si perde il

conflitto interiore della donna sposata, le sue esitazioni, i suoi desideri contraddittori, e non rimane niente di quello che mi ha colpito

all’inizio, come attore e regista. I personaggi devono crescere gradualmente. Altrimenti, quando si lasciano, non te ne importa

niente. Questo breve incontro può essere banale, potrebbe accadere a chiunque, ma volevo che il pubblico tifasse per loro, si identificasse con loro, e trovasse dei paralleli con la propria vita. È un risultato più

difficile da ottenere perché il pubblico che vuole ritmi veloci spesso è infastidito da questa lentezza. Sono i film più difficili da portare a

termine. (Intervista realizzata il 21 gennaio 1998 e pubblicata con il titolo

«Clint Eastwood: “Personne ne me domande plus de porter un

sombrero, Dieu merci!”», afirma di Michael Henry in Positi!, n. 445, marzo 1998, pp. 19-23; in inglese in Michael Henry Wilson, Eastwood on Easbvood, Cahiers du cinema, Parigi 2010, pp. 130-41.

Ripubblicata su autorizzazione dell’autore.)

CONVERSAZIONE CON CLINT EASTWOOD SU

MYSTIC RIVER DI CHARLIE ROSE

(2003)

Se la caratteristica distintiva di un grande regista è ottenere interpretazioni straordinarie dai suoi attori, Clint Eastwood è decisamente arrivato a quel livello. Lui stesso ha dichiarato: «È la

cosa migliore che abbia mai fatto». Mystic River ha aperto il quarantunesimo New York Film Festival il 3 ottobre. Ho il piacere di ospitare in questo programma Clint Eastwood, per la sua prima intervista faccia a faccia. Benvenuto. Grazie.

Quando ha letto il libro, ha pensato immediatamente: «Devo

averlo, devo farlo, è il film che stavo aspettando»? Sì. Certo, avevo letto la trama nella rubrica di un giornale;

conoscevo Dennis Lehane e il romanzo mi incuriosiva. Dunque, ho letto la sinossi e ho pensato: devo averlo io, penso di poterne tirar

fuori un film interessante. Sentivo una vocina nei recessi della mia mente. Quando poi ho letto il romanzo, mi sono convinto ulteriormente che avrei potuto fare... che sarebbe potuto diventare un

film interessante. Che cosa l’ha colpita in particolare? La storia? Ipersonaggi? Era una storia complessa. Avevo già trattato alcune storie complesse. Ma questa era... cerca di risolvere un mistero che copre

diverse generazioni; si comincia con dei ragazzini di undici anni che giocano a hockey su strada, e poi si verifica quell’episodio, uno di loro

viene rapito. Poi, molti anni dopo, il gruppetto si riunisce in seguito a

un evento tragico e i protagonisti, ritrovandosi, scoprono un sacco di cose. Vediamo com’è stata la loro vita e che effetto ha ancora su tutti loro un rapimento avvenuto trent’anni prima.

La violenza sui minori e la vittimizzazione dei bambini sono cose che hanno sempre suscitato il suo interesse; è perché ne conosce le

conseguenze? Penso che quella fosse una delle parti più interessanti, una vita rubata, il furto dell’innocenza. Credo sia il crimine più deplorevole che si possa immaginare. Penso che sia da pena capitale. Se c’è un crimine degno della pena di morte, è senz’altro questo. L’innocenza dei... Già, si strappa ria la vita a qualcuno, gli si ruba la giovinezza.

Credo che il personaggio interpretato da Tim Robbins... penso che

Tim sia riuscito a esprimere perfettamente questo concetto nel film,

che si colga in tutti gli aspetti del suo personaggio, in ogni scena, che è stato derubato della giovinezza e dell’innocenza, della possibilità di crescere e imparare le cose a un ritmo normale. È un argomento

davvero interessante, soprattutto portando avanti questo film, dipanando la storia, dal punto di rista di uno di quei tre ragazzi che nel frattempo è diventato agente di polizia, interpretato da Kerin Bacon. E lui e il suo collega, Lawrence Fishburne, devono sbrogliare tutta la matassa mentre Jimmy, il personaggio di Sean Penn, è in lutto. Da una parte c’è una famiglia che soffre e dall’altro queste

persone che devono cercare di risolvere il mistero, e le due cose

procedono in contemporanea e si incrociano. Ci sono persone secondo cui lei, avendo esplorato la violenza in tutta una serie difilm, in questo lavoro starebbe commentando i suoi film precedenti e questa sarebbe un’evoluzione. Lei è d’accordo? Fa parte del suo...

Credo che sia un’interpretazione che qualcuno potrebbe dare o avrebbe potuto dare, ma io non la penso così. Ritengo di essere stato

una persona diversa quando ho fatto i precedenti lavori. Ero più

giovane. Un ragazzo che aveva avuto fortuna; nel mondo del cinema, come attore, le cose mi andavano piuttosto bene. Facevo quello che mi capitava. Alcune cose sono state molto divertenti, all’epoca. Ma

sarebbero divertenti anche adesso, se le rifacessi? No, probabilmente

no. Perché sono maturato, ho opinioni diverse sulle cose. Ho cambiato filosofia, come penso che dorrebbero fare tutti.

Se non si cresce, non ci si evolve e non si va avanti, si resta fermi. Se non vai verso l’alto, significa che vai verso il basso, 0 che resti immobile. E io non voglio restare immobile. Ed è questo che a lungo andare mi ha aiutato, penso, perché con il passare degli anni ho esplorato cose diverse. Alcune sono andate bene, altre forse no, ma

almeno le ho provate per ampliare i miei orizzonti. Potevo accontentarmi di dire che ero una star dei film d’azione, ho fatto un

sacco di cose in quell’ambito, e se la gente voleva che sparassi, allora...

Dava loro ciò che volevano. Sparavo sei colpi, o solo cinque, cose così. Ma allora era allora, e adesso è adesso. Forse non posso diventare un intellettuale come qualcun altro che stia in una posizione più oggettiva. Faccio solo le cose come mi... prendiamo per esempio le ramificazioni del dibattito

sullTspettore Callaghan: io e Don Siegei l’abbiamo sempre considerato un bel poliziesco e poco più. E Gli spietati? Beh, avevo acquisito la sceneggiatura degli Spietati dieci anni

prima, forse anche di più, dieci o undici. Quando l’avevo letta, a quel tempo, mi era piaciuta molto e avevo sempre pensato che dovevo

maturare prima di realizzarla. Misono sempre chiesto perché avesse aspettato dieci anni prima difare quelfilm. Non era la pellicola adatta a lei nel momento in cui

l’ha acquisita?

L’avrei potuto fare anche allora, ma per me era... qualcosa che sapevo che avrei potuto fare più avanti. Sentivo che sarebbe stato meglio se l’avessi fatto più avanti. È per questo che l'ho tenuto da parte. Un giorno, all’inizio degli anni Novanta, così, d’impulso, mi

sono detto: «Ok, è ora di ritirarlo fuori». E così l’ho ritirato fuori, l’ho

riletto, mi sono entusiasmato e ho iniziato. Pensa che sia il miglior film che lei abbiafatto?

Non so quale sia il miglior film che ho fatto. Io li faccio e basta. Sono gli altri che devono giudicare. Io sono soddisfatto di quello appena uscito. E ha ragione a esserlo, si dice che sia allo stesso livello degli

Spietati.

Beh, spero di sì. Riguardando il film, penso che sia esattamente come lo intendevo io. È venuto proprio come lo volevo. Ora, che sia bello o brutto, o che lasci indifferenti, devono essere gli spettatori a dirlo. Questa creatura adesso è là fuori e dovrà essere giudicata in base ai suoi meriti.

Mi parli della scelta di Sean Penn, la cui performance è stata elogiata in lungo e in largo, così come quella degli altri attori del film. L’interpretazione di Sean è semplicemente straordinaria.

Beh, Sean è il primo attore che ho scelto per il film. Perché voleva proprio lui? Semplicemente sentivo che era molto, molto difficile trovare gli interpreti adatti. I personaggi dovevano essere tutti tra i quaranta e i

quarantacinque, quindi avevo bisogno di attori in quella fascia d’età.

Ma Sean aveva anche un fascino particolare. Lo avevo ammirato molto in Accordi e disaccordi e in altri film che aveva fatto. Penso che

tutti considerino Sean... sono felice di dire che tutti considerano Sean

un attore di grandissima levatura e credo che sia ancora più bravo di come viene considerato. È... semplicemente fantastico. E quello che

per me è stato ancora meglio è che quando è arrivato sul set, ho scoperto che lavorare con lui è molto facile, è un grande professionista

ed è sempre disponibile. Beh, è la stessa cosa che dicono di lei.

Beh, può darsi, spero di avere fatto qualcosa per meritarmelo. Lei non è uno che rifa venti volte la stessa scena, la gira tre o quattro volte al massimo. Beh, sono un tipo veloce, cerco di fare le cose il più rapidamente

possibile. E tutti gli attori del film condividevano lo stesso spirito.

Avevo già collaborato con Laura Linney e Marcia Gay Harden, due attrici meravigliose; il film ci ha permesso di ritrovarci e i loro ruoli sono splendidi. Con gli attori non avevo mai lavorato, ma alcuni anni

fa. a Deauville, avevo incontrato Kevin Bacon che mi aveva detto: «Oddio, quanto mi piacerebbe lavorare con te»; io avevo risposto: «E

a me piacerebbe lavorare con te», una cosa così. All’improvviso mi è tornato in mente che ne avevamo parlato. Lui è un attore fantastico e Tini... ho sempre pensato che fosse bravissimo, ha fatto delle ottime cose... è anche un bravo regista. Fra l’altro, tutti e tre hanno diretto dei film, e tutti con ottimi risultati. Perciò è stata una grande

esperienza. Il soggetto era piaciuto a tutti. Avevano apprezzato il libro e il copione ed erano pronti a cominciare. Dunque aveva un grande copione, una grande storia, grandi

attori. E lei cosa ha fatto? Niente (risate). Mi sono solo presentato sul set. Quando hai tutto questo, quando hai già il cast... l’ho sentito dire anche da altri registi. Li ho sentiti dire che se hai una bella storia e trovi gli attori giusti, sei già al novanta per cento del lavoro, e penso che non abbiano tutti i torti. Naturalmente ci sono molti dettagli e molte cose da fare, ma è

un bene minimizzarne l’importanza perché sei tu che sei lì. Tocca a te andare avanti. Hai in mano una cosa e sei tu che puoi mandarla a

rotoli. Ed è così che mi sono sentito con questo film e con Gli spietati e anche con molti altri lavori. Ho il cast che voglio, ho la storia che voglio, adesso sono solo io che posso sbagliare. Questo è il cast corale migliore che lei abbia avuto dagli Spietati. Beh, penso che sia uno dei migliori che abbia mai avuto in assoluto. È uno dei più validi che abbia avuto, sì.

Non c’è... Negli Spietati c’era anche l’attore Clint Eastwood. In Mystic River no... Stavolta questo problema non c’è stato. (Risate). No, Gli spietati aveva davvero un ruolo adatto a me. È stato un altro tipo di soddisfazione, ma in questo caso è stato più facile, perché non avevo bisogno di recitare.

Più facile?

Già. Con Gli spietati, nella costruzione del film c’erano molte sequenze in cui io non ero presente, perciò ogni tanto avevo un po’ di

respiro. Ma in Mystic River è stato bello stare dietro la macchina da presa.

Riguardo alfilm, qualcuno ha detto... perché sono stati in molti a

vederlo quando è stato proiettato, se non ricordo male, alfestival di Cannes... ne hanno parlato, hanno detto che in questo film lei si è

come trattenuto. Le interpretazioni erano talmente straordinarie...

che lei si è quasi tenuto a freno. La regia é molto lineare perché le interpretazioni sono spettacolari. Eastwood: Non intromettermi troppo è una mia filosofia.

«Intromettersi» è proprio una delle parole che hanno usato. Non si può... Se io comincio a intromettermi, a impormi e a tentare di abbagliare la gente con tutti i trucchetti che posso avere 0

non avere come regista, all’improvviso il mio intervento diventa

pericoloso. Dato che vengo dal lato attoriale di questo business, o forma d’arte o comunque la vogliate chiamare, ho grande rispetto per la recitazione. Voglio che il mio cast corale dia il meglio di sé. Faccio

un sacco di cose, ma non voglio che il pubblico se ne accorga, che immagini una macchina da presa, un cameraman, un aiuto regista e un’altra persona dietro. Non voglio che il pubblico immagini tutto quello che fa la troupe fuori dall’inquadratura. Perciò faccio tutto il più in sordina possibile, ma allo stesso tempo enfatizzo tutto quello che si deve enfatizzare.

Quindi il suo intervento si vede soprattutto in sala di montaggio? Beh, l’impatto più grande si ha nella strutturazione, quando si

mettono insieme i pezzi. Una volta che si hanno in mano tutti i pezzi, una delle parti più piacevoli del lavoro di regia si fa nella sala di montaggio: a quel punto non hai più una troupe numerosa, spese elevate e poi gente e attori e roulotte, e la mattina ti svegli, vai in una stanza con il montatore e magari il suo assistente, ti siedi e cominci a

riguardare le sequenze.

Si comincia a mettere insieme le varie parti. Si hanno in mano tutti gli elementi. Esatto. E non ha mai pensato difare lo sceneggiatore?

Beh, ho scritto molto. Ho scritto sequenze e riscritto copioni, ma non ho mai avuto un vero talento. È un talento, non è... non le è mai parso di averne le competenze.

O il talento. Che cosa vuol dire, poi? Beh, è un talento naturale. È un processo molto interessante,

riuscire a mettersi alla scrivania e concepire una storia dal nulla. Pensi a una storia, una storia complicata come questa, già solo

scrivere il libro. Bisogna pensarci su molto e ci vuole una grande immaginazione. E lo stesso vale per lo sceneggiatore quando parte da zero; se fa un adattamento, logicamente lavora su materiale già

esistente. Ma se parti da zero, se ti inventi una sceneggiatura dal nulla, è un lavoro pazzesco... e se si considerano quelle scadenti, e io

ne ho viste un bel po’ nel corso degli anni, soprattutto in televisione, dove sembra che le taglino con l’accetta, beh, cominci ad apprezzare quelle buone quando ne trovi una, perché apprezzi lo sforzo e il talento che servono per un buon copione. A quel punto il regista, e

anche gli attori, diventano chiavi di interpretazione, interpreti, artisti

interpretativi, o come li si voglia chiamare. È stato difficile arrivare a realizzare questo film? Quando ha portato il copione alla Warner Bros, e ha detto «Questo è quello che

voglio fare», loro hanno avuto il solito atteggiamento «Qualunque

cosa Clint voglia fare, noi lo sosterremo perché ha sempre fatto delle cose buone per noi»? Beh, la maggior parte delle volte. In un paio di occasioni, anni fa, quando ho portato loro... quando Frank e John Calley...

Frank Wells e John Calley...

L’ho portato a Frank, Lenny Hirshan gli ha portato un copione che

mi piaceva intitolato Thunderbolt and Lightfoot. E loro hanno risposto che non volevano farlo a quel prezzo e via dicendo; circa venti

minuti dopo avevamo un accordo con la United Artists, quindi siamo andati da loro e abbiamo fatto il film. È stato un successo. E naturalmente alla Warner Bros, non sono stati molto contenti.

Tuttavia, sono stati sempre molto bravi a lasciarmi lavorare in pace. Con loro lavoro un po’ come se si trattasse di una produzione

indipendente. Avevano apprezzato il copione, ma sapevano che era piuttosto spietato, e aveva... non era... dopotutto loro sono lo studio che ha prodotto II signore degli anelli, Harry Potter e Matrix e tutti quei film che loro definiscono «di alto concetto», pieni di azione, una grande quantità di azione... e all’improvviso arriva uno che dice: ho

questa cosa su un bambino rapito e dopo, sapete, questi ragazzi si

ritrovano... E poi ci sono l’abuso di minore e la vendetta e si tratta di un film molto cupo...

Già, è molto, molto cupo e alla fine succede questo e succede

quello. E quelli della Warner Bros, stavano lì seduti e mi dicevano: «Certo, proprio emozionante...» (Risate) Probabilmente non avrei

potuto presentarlo peggio di così. Comunque, Alan Horn ha detto: «Lo faremo, ma solo a un determinato prezzo».

Ovvero venticinque milioni di dollari, a quel che si dice; un costo

abbastanza contenuto per un film al giorno d’oggi. Già, beh, in realtà avrebbero potuto pagare di più, un pochino di più, ma avevamo... beh, sono tornato al punto a cui ero trentatré anni

fa. Ho detto, beh, voi mi date il minimo sindacale della Screen Directors Guild e andiamo avanti. Lei ha percepito il minimo sindacale della Directors Guild e probabilmente anche gli attori avranno lavorato per un minimo...

No. in realtà gli attori hanno avuto un trattamento un po’ migliore, perché non puoi costringere gli attori... non è giusto per loro, ma io

posso accettarlo, perché si tratta di un progetto di cui sono anche il venditore. Ma gli attori li deri pagare, e Sean. Tim, Kerin. Lawrence, Marcia Gay e Laura se lo meritano... non vorrei mai tirare sul prezzo

con gli attori. Mi piacerebbe pagarli anche il doppio, ma non sempre ci si riesce, quindi si fa quel che si può. Si ricorda cos’ha detto Donald Sutherland al Premio Kennedy?

Donald Sutherland è salito sul palco a presentare unfilm su di lei e

ha detto: «Sapete, ogni attore vorrebbe ricevere una telefonata da Clint e sentirsi dire “Voglio fare un film con te”». Poi Sutherland racconta che lei lo ha chiamato dicendo: «Voglio fare un film con te e il compenso è di centomila dollari», e lui immediatamente ha

risposto: «A chi devo mandare l’assegno?» (Risate) È vero, ha detto: «Dammi qualche giorno per raccogliere la somma». Geniale. (Risate) Don adora questa battuta.

Piace anche a me. È la tipica battuta da attori, farebbero qualsiasi cosa per lavorare.

Compreso dire «Ti pago io». Sono stati apportati molti

cambiamenti al copione o in sostanza la storia sullo schermo è rimasta come nel libro?

Dopo che la sceneggiatura è stata completata? Sì. È rimasta quasi tutta com’era. Io cerco di essere sempre flessibile e

mi immagino un copione come un progetto architettonico, ma non un progetto a cui deri restare totalmente fedele. Se spunta un particolare

migliore o un dettaglio che rafforza una sequenza, lo accolgo volentieri. Quindi posso fare delle deviazioni dal percorso. Ma questo

materiale era così valido che non abbiamo dovuto apportare molte

modifiche, e agli attori... a tutti piaceva così com’era, e quindi è rimasto sostanzialmente così. Certe volte ho completamente

improvvisato... lo faccio ancora, e anche in questo film abbiamo improvvisato alcune cose.

Ci sono due aspetti straordinari che si colgono guardando questo film. Ce ne sono molti, in realtà. Ma all’inizio c’è la scena con i

ragazzini, la prima scena che si vede; mi hanno detto che per lei era

importantissimo che fosse la sequenza di apertura. La primissima. Non so se sia vero. L’altra è che alla fine c 'è una sequenza in cui si collegano tutti i pezzi della storia. E la presa di coscienza di come si è arrivati a quel punto. Si vedono entrambe le cose durante la parata,

i personaggi, il rapporto tra di loro, una perfetta chiusura del cerchio. Tutti i personaggi scendono a patti con ciò che è successo, con quello che significa e capiscono che la vita va avanti. Sì, certo, ritroviamo ogni singolo personaggio e l’impatto che la

storia ha avuto su ciascuno. E naturalmente Marcia Gay prova una certa emozione, e il personaggio di Kevin Bacon ne prova una diversa, e alcuni dei personaggi provano una sorta di speranza, ma anche il senso di una terribile perdita, una perdita struggente per alcuni, e uno

di loro ha trovato la sua Lady Macbeth che gli dà forza, gli fa cominciare una nuova vita e nasconde il suo crimine. [Charlie Rose mostra una scena con Tim Robbins e Sean Penn]

Adesso vorrei parlare di Tim Robbins, perché Sean, anche negli

altri film in cui l’abbiamo visto, interpreta dei personaggiforti.

Anche Tim ha interpretato personaggiforti e con un certo codice

morale. Qui invece lo vediamo... come ha detto lei, completamente trasformato.

Certamente, e ci hanno chiesto che cosa gli abbiamo fatto per farlo diventare così, se era stato il trucco o che cos’altro. Ma non è stato così. Tim è entrato da solo in quella dimensione, gli sembrava di capire come doveva essere un personaggio del genere. Uno che ha

subito un crimine durante l’infanzia e ne porta ancora l’enorme peso. Era stato vittima di pedofili, nella scena di apertura si vede il

rapimento. Attraverso il modo in cui tiene le spalle e l’abitudine di

guardare in basso, Robbins fa capire che è perseguitato da quell’esperienza. Esattamente, è tutta opera sua. Penso che in questo sia stato straordinario. E come le ho già detto, il casting... sarebbe stato facile

scegliere un attore più minuto, che sarebbe apparso più vulnerabile, mentre Tim è un omone. È alto un metro e novantacinque ed è... ma in qualche modo funziona ancora meglio così, perché è un ragazzino

che, anche se gli è stata rubata la vita, ha raggiunto dei traguardi, è

riuscito a diventare interbase di baseball alle superiori e via dicendo.

Quindi una sorta di vita l’ha avuta, anche se continua a portare quel macigno. E adesso è padre di un figlio, ma non è l’uomo che sarebbe

dovuto diventare. Con tutta l’esperienza che ha maturato, attinge sempre a lavori precedenti? Voglio dire, in qualche modo le scene hanno sempre

degli elementi classici, vendetta, gelosia, amore, che lei ha espresso in modi differenti. Mentre lavora a un film, fa riferimento ad altre pellicole, magari che ha visto, mentre ne costruisce una nuova?

No, in realtà no, almeno non a livello conscio. Tutti siamo il prodotto di quello che abbiamo risto nella vita. Io sono cresciuto guardando dei film in un’epoca in cui la televisione non c’era e non

c’era nientaltro da ascoltare in casa... Quindi lei è stato formato da John Ford, Sturges e Howard

Hawks. Senza dubbio. Sono stati sicuramente loro, più molti altri di cui

non sappiamo il nome, che facevano tutti quei B-movie che andavano all’epoca. Certamente sono le cose significative che vediamo a formarci. Dici: «Accidenti, bello questo», oppure: «Mi piace il modo in cui è stata rappresentato». Ma non ho pensato a un film in

particolare. Io penso solo in termini di quello che voglio

rappresentare in ogni singola scena.

L’idea di girare una scena senza tergiversare, ilfatto che lei, in

un certo senso, è famoso per l’essenzialità e per riuscire a concludere rapidamente... dipende dalfatto che lei è convinto che gli attori

dovrebbero essere in grado difarlo, di recitare una scena, e che

girarla venti, venticinque volte lascia quasi intendere un’insicurezza da parte del regista oppure di un attore? Certe volte sì. Già, certe volte rivela l’insicurezza dell’attore, o del

regista, 0 di entrambi. A me piace provare... secondo me quello che il pubblico deve provare e quello che piace provare a me come primo spettatore di una scena è che questa scena stia succedendo per la

prima volta. L’idea di sentire quelle parole per la primissima volta. Ed

è quello che voglio trasmettere al pubblico. Voglio che il pubblico esca dal cinema pensando: «Wow, era così realistico, evidentemente quella

era la prima ripresa». Perciò cerco di riuscirci al primo ciak. Non è

che succeda sempre, certe volte è più difficile. Certe volte occorre girare inquadrature di riserva. La scena che ha appena fatto vedere con Sean e Tim sui gradini. Sean doveva recitare una scena molto, molto difficile, perciò ho agito in questo modo: ho preparato tutto e

ho girato tutte le inquadrature fino a quella scena. Ho mostrato Tim sulla veranda; si accende la... si guarda intorno e si accorge che c’è

Sean; poi ho spostato la cinepresa dal retro, focalizzando l’inquadratura su Sean per stabilire come cambiare la prospettiva man mano che la sequenza proseguiva, e poi abbiamo girato. Senza

mettergli fretta. Non volevo stressarlo, perché so che ripetere otto,

dieci o dodici volte la stessa scena è una cosa che prosciuga. E non parlo solo di esaurire le lacrime, parlo di sfinimento mentale. Ad ogni modo è una scena intensissima. Ogni padre chela guarderà, salterà sulla sedia con una sequenza così, e proverà... ma anche ogni madre,

se è per questo. Staranno tutti dalla sua parte. Ma volevo solo dargli l’opportunità di dirlo per la primissima volta. E ci sono riuscito, con

pochissime inquadrature extra, ho spostato la cinepresa dall’altra parte, e Tim è stato molto collaborativo, molto accondiscendente, ha recitato per ultimo, perché doveva più che altro reagire a Sean. Sospetto che sia perché lei è anche un attore. Si mette nei loro

panni e questo influenza la sua consapevolezza. Beh, sì, certo. Perché io dirigo nel modo in cui mi piacerebbe essere diretto. Quindi mi piace arrivare su un set e offrire quello che

posso offrire, e se non va bene, o c’è qualcosa di sbagliato o se il

regista aggiunge un’interpretazione o qualcos’altro, qualche altra allusione che io posso inserire, allora va bene, ma prima mi piace dimostrare sul set quello che so fare. Non voglio che arrivi qualcuno e

ti dica «Metti le mani qui, e per favore, di’ la battuta in questo modo», e poi ti dica come deri interpretarla. Anni fa ho lavorato per un regista

che era davvero meraviglioso... (Risate) Avrei tanto voluto essere presente.

...Vittorio De Sica. Lui ti diceva come dire le battute, ripeteva «Look, me, look me», poi entrava in scena, ti accompagnava e faceva anche lui la stessa azione. Mi faceva sempre ridere perché era un tipo molto gioviale, un po’ robusto, e saltellava qua e là... E io rispondevo

«Ok» e non mi opponevo mai. Ora. se si fosse trattato di un regista

americano, probabilmente avrei detto: «Ehi, piantala. Lascia che faccia da me, lasciami entrare in scena e ti mostrerò cosa so fare». Ma

lui lo faceva in modo così incantevole che mi divertivo un sacco. Di solito, però, voglio vedere l’insieme, vedere com’è tutto l’armamentario e scomporlo io. Dopo spetta a me creare una bella

atmosfera in cui tutti possano lavorare, vale a dire rilassata e con la minor quantità di adrenalina possibile prima di girare la scena, in

modo tale da conservarla interamente per la scena stessa invece che

sprecarla con gesti nervosi e cazzate varie da parte mia.

(Dal Charlie Rose Show, 8 ottobre 2003. Ripubblicata su autorizzazione.)

11. Una calibro 20per lo specialista. [n.d.t]

MYSTIC RIVER: EASTWOOD, SENZA RABBIA NÉ PERDONO DI SAMUEL BL UMENEELD

(2003)

Mystic River esce appena prima di Matrix Revolutions, un’altra

produzione Warner Bros, con un budget enorme. Che cosa pensa la

Warner Bros, del suo film?

Non sono particolarmente interessato ad arrivare primo al botteghino. Conto sul passaparola. Sul set di Mystic River scherzavo spesso sul fatto che il mio più grande alleato fosse Matrix. La Warner

Bros, stava producendo le ultime due parti della trilogia e si era dimenticata del mio film. Mi hanno lasciato solo. Per loro era un film

a basso costo. Mystic River è molto vicino alle serie difilm su questioni sociali

prodotta dalla Warner Bros, negli anni Trenta. La Warner Bros, dovrebbe essere particolarmente orgogliosa di lei... Ho fatto Mystic River rispettando la tradizione, ma dubito che la maggior parte dei dipendenti della Warner Bros, conosca la storia

della società. Sono stato molto influenzato da alcuni attori simbolo della Warner Bros., in particolare James Cagney e Humphrey Bogart. Non avevano paura di essere coinvolti in progetti fuori dalla norma. Il

taglio di capelli di Bogart nel Tesoro della Sierra Madre è sorprendente, i ciuffi gli volano da tutte le parti. In quel film non c’era

niente che lo rendesse affascinante. Cagney, sullo schermo, poteva

commettere gli orrori più ripugnanti. Sembrava disposto a fare qualunque cosa e si faceva una risata di ciò che pensava il pubblico.

Che cosa ha attirato la sua attenzione nel romanzo di Dennis Lehane?

L’insieme di generi. Non si sa se sia un libro poliziesco o drammatico. Ci sono due storie parallele che alla fine si fondono e la

complessità della struttura narrativa mi ha davvero entusiasmato. Ho chiesto a Brian Helgoland, con cui avevo già lavorato, di adattare il romanzo. Lui viene da Boston, dove si svolge il libro, e quello per me

era un aspetto fondamentale. La città è spesso protagonista nei suoifilm... Una città è un personaggio. Altrimenti avrei potuto girare Mystic River alla vecchia maniera, come mi aveva suggerito la Warner Bros., in uno studio a Toronto, dove i costi di produzione sono più bassi. Ma

non avrebbe avuto senso. Prima di cominciare le riprese, Tim Robbins, Sean Penn e Kerin Bacon hanno girato tutta Boston per assorbire l’atmosfera della città. Li ho fatti incontrare con Dennis

Lehane. Kerin Bacon ha trascorso del tempo con la polizia locale. Il modo in cui Boston appare in questofilm, divisa da un fiume, ci

riporta alfilm La morte corre sul fiume, a una maledizione ancestrale che incombe sui personaggi.

Molti degli abitanti di Boston non hanno idea che esista davvero

un Mystic River, ma i veri bostoniani lo sanno, c’è tutto un quartiere denominato Mystic intorno al fiume. Il nome ha un peso e un simbolismo e io ne ero cosciente. C’era una ragione per andare a

esplorare quelle zone. Man mano che la storia va avanti, le luci sifanno sempre più cupe. L’idea era di arrivare a dei colori desaturati. C’è voluta un’enormità di tempo in laboratorio, molto più del solito. Ricordo una

proiezione in cui dicevo che lo schema di colori del mio film non

doveva sembrare quello di Dorothy e Toto nel Mago di Oz. Volevo

colori freddi, senza alcun calore. Il cinema si è spesso interessato alla figura del sadico e del killer. A partire da Coraggio... fatti ammazzare, i suoi film hanno costantemente esplorato il tema del bambino traumatizzato. La perdita dell’innocenza mi ossessiona. In Mystic River gli stupratori e gli assassini non sono importanti. D’altra parte, Tim

Robbins mostra un’ovvia vulnerabilità che mi interessa più di qualunque altra cosa e che ha un’enorme risonanza nel film. Nella sequenza della parata finale per il Columbus Day ci rendiamo conto

che questo trauma non finirà con la morte di Tim Robbins. Suo figlio

non saprà mai perché suo padre è scomparso. Sua moglie non saprà mai che cosa è successo al marito o al figlio.

In quella scena, che significato ha il gesto dell’ispettore di polizia interpretato da Kevin Bacon, che punta il dito come se fosse una pistola? È un’immagine molto forte.

E anche molto ambigua. Ho cercato di inquadrarla in modo da lasciarne aperto il significato. È comprensibile che l’ispettore si senta

colpevole nei confronti della moglie del personaggio di Tim Robbins. Non è riuscito a risolvere in tempo il mistero. Allo stesso modo, il suo gesto si può interpretare come un avvertimento nei confronti di Sean

Penn, a significare che è possibile che applichi la legge in qualunque momento, oppure come un’accettazione del codice di silenzio e solidarietà che risale ai tempi della loro infanzia. Inoltre volevo sottolineare anche un’altra dimensione. Per tutto il film Sean Penn è in lutto per la figlia assassinata. È segnato dall’ingiustizia tanto

quanto gli altri personaggi. Il linguaggio del corpo di Kevin Bacon richiama quello del suo

personaggio nella serie dell’ispettore Callaghan. Questo riferimento è

stata un’idea sua? No, di Kerin. Mi ha chiesto se mi dava fastidio se si metteva degli

occhiali da sole come quelli di Harry Callaghan. A me andava bene, perché con quelli la sua performance acquisiva una certa finezza. Se avessi avuto quarantacinque anni, forse avrei interpretato io stesso il

detective. Anche Tim Robbins e Sean Penn sono registi. Questo le ha

facilitato il lavoro? È una cosa che ho apprezzato molto. Gli attori con esperienza dietro la macchina da presa capiscono molto meglio le responsabilità

del regista. Sono sempre puntuali e riescono a vedere il film nel suo insieme. Per Mystic River è stato essenziale, perché era un film

d’insieme, in cui gli attori dovevano adattare la loro interpretazione a quella degli altri membri del cast.

Cosa pensa dell'elezione di Arnold Schwarzenegger a governatore della California?

I politici devono prendere decisioni impopolari. Schwarzenegger capirà quale sia veramente la natura del suo incarico. Gli auguro buona fortuna; ne avrà bisogno, sarà un percorso difficile.

Lei è stato sindaco di Carmel, in California, per un periodo breve. Perché non ha continuato la carriera politica? Sapevo di essere stato eletto per due anni e non avevo nessun desiderio di ripresentarmi. Durante il mio mandato sono riuscito a

girare due film senza venir meno ai miei doveri di sindaco. Tutti

pensavano che mi sarei candidato alla Casa Bianca, specialmente perché un altro ex-attore, Ronald Reagan, era in carica in quel

momento. Ma mi piace troppo il cinema per tentare un’impresa del genere. (Intervista pubblicata con il titolo «Mystic River.- Eastwood, sans

colere ni pardon», Le Monde, 15 ottobre 2003, traduzione dal francese di Kathie Coblentz. Ripubblicata su autorizzazione.)

STAYING POWER DIAMYTAUBIN

(2005)

Gli anni hanno segnato il viso di Clint Eastwood ormai duro come una pietra, ma lui non è mai stato cosi tenero, vulnerabile e con il cuore spezzato come in Million Dollar Bab)’. Non sorprende che la

cinepresa continui ad amare il suo volto, a trovarne la bellezza immutata sotto la pelle tirata. Gli zigomi, se possibile, sembrano

ancora più scolpiti che in gioventù. Ma i muscoli che sorreggono la pelle assottigliata si sono contratti, tendendo le sopracciglia e gli occhi verso il basso e verso l’interno, tanto che l’inconfondibile sguardo a occhi stretti risulta più profondo e meno incline ad

ammorbidirsi, anche solo per una risata. Eastwood non ha mai avuto un viso espressivo, facile da decifrare. Ha fatto una virtù della

sua impenetrabilità, adattando sottilmente un tratto naturale del suo volto a decine di personaggi e storie. Tanto come regista, quanto come attore, ha sempre applicato un unico stile (il realismo spogliato di ogni artificio) a un’enorme varietà di generi; western, thriller

polizieschi, biopic, commedie screwball, psicodrammi, persino una storia d'amore strappalacrime. All’inizio giocava con le formule dei

vari generi, poi ha preso a ribaltarle del tutto. La perdita, i rimpianti e ciò che si impara e non si impara

dall’esperienza sono i temi degli ultimi film di Eastwood,fra cui

Million Dollar Baby è uno dei migliori. Gli spietatipotrà anche essere

più solenne, ma Million Dollar Baby è un’opera d’arte più impegnativa tenendo conto che è più facile alimentare un film con la

rabbia e il desiderio di vendetta, come nel caso degli Spietati, che non

con un lutto che non troverà mai pace. Million Dollar Baby comincia in modo dolceamaro (potrebbe trattarsi di un film hollywoodiano

degli anni Trenta su un allenatore di boxe alla deriva che ottiene una seconda chance quando prende sotto la sua ala una giovane e

ambiziosa pugilatrice), ma finisce in modo simile a Re Lear. E buona parte della potenza emotiva del film deriva dalla performance di

Eastwood. Forse in passato l’Eastwood regista ha trattato l’Eastwood attore come un semplice sottoposto. Dal momento che

un’ampia percentuale della popolazione mondiale ama vederlo sullo schermo, la strategia non è stata poi così sbagliata. Ma qui, per la

prima volta, Eastwood si concede il tipo di libertà che ha sempre

concesso generosamente agli altri attori: quella di esplorare un personaggio in tempo reale, con la cinepresa in funzione.

Eastwood interpreta Frankie Dunn, un uomo distrutto fisicamente ed emotivamente che ha passato la vita nel mondo della boxe e adesso gestisce unapalestra sgangherata e ogni tantofa da

agente a qualche pugile. Il suo corpo collabora a malapena, ma

quello che l’ha davvero trascinato a fondo è l’allontanamento dalla figlia (Eastwood lascia che siamo noi a immaginare le cose terribili

che possono essere successe fra loro) e ilfatto che uno dei suoi pugili

sia rimasto gravementeferito sul ring. Quel pugile, Scrap (Morgan Freeman), adesso è l’unico dipendente di Frankie, nonché il suo unico amico. Scrap incoraggia Frankie a seguire Maggie Fitzgerald

(Hilary Swank), che sta cercando di riscattarsi da quel teatrino dell’orrore che è la sua famiglia e crede che una carriera nella boxe sia la strada per emanciparsi dall’assoluta indigenza. Frankie non vuole saperne nulla, ma Maggie riesce a convincerlo con la sua

tenacia, il suo coraggio e la sua passione per la boxe.

«Bisogna proteggersi, sempre», è la lezione fondamentale di boxe che Frankie cerca di inculcare a Maggie. Ma Frankie non è bravo a capire quando la protezione (di se stessi e delle persone care)

impedisce di vivere appieno la vita. Più che un film sulla boxe, Million Dollar Baby si concentra sul rapporto tra genitori e figli, nello specifico tra padri e figlie. Maggie offre a Frankie una seconda

chance genitoriale e sa bene, proprio come lo sappiamo noi del

pubblico, che Frankie è il miglior padre che una ragazza potrebbe desiderare. Ciò che spezza il cuore è che Frankie, quasi senz’ombra di dubbio, non si vedrà mai in quel modo.

Questo è il più musicale dei film di Eastwood: buona parte del significato e dell’emozione è veicolata dai cambiamenti di ritmo e di tonalità. I cambiamenti che si verificano durante i dialoghi sono estremamente delicati: i tre attori principali combinano i rispettivi

talenti con lafinezza e la spontaneità dei musicistijazz. Le scene di lotta invece sono esplosive e brutali. Le riprese con due telecamere e

la sostanziale assenza di coreografia conferiscono loro una crudezza

che le rende spaventose da guardare, soprattutto perché è evidente che la Swank combatte senza controfigure. L’attrice è meravigliosamente coraggiosa e pronta alle sfide, dentro e fuori dal ring. Il suo spirito luminoso ed entusiasta fa da perfetto contraltare

a Eastwood; insieme, i due disegnano una complicata mappa di

lealtà, fiducia e amore. La sua voce al telefono è molto più giovane di quella delfilm. Anzi, è diversa da quelle di tutti i suoifilm. Dipende dal personaggio che interpreto questa settimana, ma di

solito si tratta sempre del solito, vecchio me stesso.

Questo è uno dei suoifilm piùforti e più dolorosi allo stesso tempo. In parte sembra affrontare il tema della delusione e

dell’incapacità di capire che, tutto sommato, ce la siamo cavata discretamente, abbiamo fatto del nostro meglio. Sono un po’

combattuta perché non vorrei rivelare la conclusione delfilm, ma il

finale è importante. Cosa vorrebbe che portassero a casa gli spettatori dopo la visione? Probabilmente rispondere a questa domanda è difficile come lo è stato realizzare questo film o trovare qualcuno che lo finanziasse. È un

altro di quei progetti, e ora ne ho fatti due, in cui ho dovuto fare un po’ di pressione per partire. Ma allo stesso tempo c’è qualcosa di

affascinante nel senso delle delusioni della vita e nell’assenza di sentimenti spirituali che si ritrovano in quest’uomo e anche nella

ragazza che diventa per lui una sorta di figlia sostitutiva. Il modo che ha la ragazza di lottare per diventare qualcuno, per arrivare in alto, ricorda molto la stessa Hilary Swank. Anche lei si è risollevata da una situazione di povertà e voleva assolutamente diventare un’attrice, perciò ha capito perfettamente il personaggio. È la scelta meno ovvia, voler diventare una pugilatrice per trovare il proprio posto nel mondo.

Anche il personaggio di Morgan, Scrap, aveva avuto quel sogno. Non è

riuscito a realizzarlo per se stesso, ma si prodiga per aiutare gli altri, anche il ragazzino ritardato che ovviamente non ha alcun talento per la boxe. Quindi ci sono l’empatia di Scrap nei confronti degli altri e la

delusione di Frankie nei confronti della figlia e della famiglia, da cui

deriva il rifiuto di costruire legami duraturi con chiunque. Eppure

Frank ringiovanisce grazie a questa ragazza. E poi, ovviamente, quando accade la tragedia, per lui si prospetta la lotta più difficile che potrebbe mai combattere, che chiunque potrebbe mai affrontare. E dove porterà non ci viene detto. Nessuno sa cosa farebbe in quella situazione. Non c’è modo di deciderlo prima. Potrebbe chiedermi se

questo significa che credo nell’eutanasia. Non necessariamente, ma chi lo sa? Si possono solo fare supposizioni, a meno che non ci si sia trovati in una posizione simile. È stato un film difficile da realizzare, con queste persone che vivono ai margini della società, almeno per

come la conosciamo noi e per come la conosce la maggior parte della gente che vedrà il film. Ecco, è tutto quello che so in proposito.

Come hafatto a dar vita al personaggio di Frankie? Lei non vive ai margini della società e, come ha detto, non ha mai dovuto fare

una scelta come quella che deve fare lui alla fine. Come ci è riuscito,

da attore? Le è sembrato di scavare dentro se stesso?Ho capito subito come aveva fatto Hilary Swank a trovare il suo personaggio, a lasciare che la vita fisica dell’aspirante pugilatrice prendesse il controllo. Non lo faceva in modo razionale, si lasciava più

controllare dal personaggio fisico. Quando succede, è una grande

fortuna per un attore. Bisogna solo liberare la mente e lasciare il comando al personaggio. Ma il suo ruolo è diverso perché Frank ha sepolto impulsi e desideri davvero in profondità. Ha detto di no a così tante cose. Può spiegare il procedimento che ha seguito come

attore? È lo stesso procedimento di sempre, solo che gli ostacoli e gli obiettiva sono diversi ogni "volta. Non ci è voluto molto per immaginare come dovesse sentirsi questa persona. Credo che basti l’immaginazione umana per mettersi nei panni di chiunque. Alla mia

età, ho visto abbastanza alti e bassi da poterli sfruttare per questo e

dieci altri ruoli simili. Ma quando ho letto la sceneggiatura, ho capito

che volevo dirigere il film, e poi pensato fosse meglio che interpretassi io Frankie. Molte delle decisioni che prendo non sono ragionate. Le prendo al volo e basta. Sapevo che Morgan non avrebbe avuto alcun problema con il suo ruolo. Non conoscevo Hilary-, ma ammiravo i suoi lavori, anche i ruoli non così imponenti come quello di Boys Don’t

Cry. Trasmette un certo tipo di personalità e di credibilità. Sapevo che

sarebbe stata pronta per questo ruolo, se fosse stata disposta a impegnarsi per diventare quell’atleta. E lei lo era. È una persona estremamente determinata. Ha lavorato incessantemente, allenandosi

quattro ore al giorno per quattro mesi; ha messo su dei bei muscoli e circa una decina di chili. È diventata il suo personaggio. Ognuno di noi è diventato il proprio personaggio. Sul suo set gli attori restano sempre nei panni dei personaggi? E

lei?

Io faccio avanti e indietro, perché ormai sono stato contemporaneamente regista e attore un sacco di volte. Porto sempre

con me una certa parte del personaggio, ma riesco anche a vivere e a pensare ad altre cose. Il personaggio ti si installa nella mente prima di

iniziare le riprese. E come uno spettacolo teatrale. Ce l’hai in mente, ma puoi anche avere una vita, uscire a cena e poi calarti di nuovo nel personaggio. L’unica differenza è che nel cinema lo fai cento volte al giorno. È una tecnica che si sviluppa negli anni. Per alcuni è

difficilissima, per altri meno, anche se non è mai facile.

Le piace recitare?

Beh, alla fine sì. Ho minacciato di smettere, ma forse è un meccanismo di difesa, perché non ci sono abbastanza ruoli

interessanti alla mia età. Probabilmente è vero, e se è così, resterò dietro la cinepresa. Il motivo per cui trentasette anni fa ho cominciato

a fare il regista era che pensavo che un giorno io o il pubblico probabilmente avremmo guardato lo schermo e avremmo detto: «Ne abbiamo abbastanza». Dirigere l'ultimo film [Mz/sric River] senza essere nel cast è stata una bellissima esperienza. Resto sempre

sbalordito quando osservo gli altri attori che superano le difficoltà delle diverse sequenze. Ma in questo caso ho pensato che Frankie Dunn fosse interessante e che sarei stato in grado di interpretarlo

come chiunque altro. Avendola osservata in ruoli diversi nel corso degli ultimi dieci o quindici anni, si riconoscono tutti quei personaggi nel contesto della sua intera carriera di attore, chefin dall’inizio si è basata molto sulla

sua imponente presenza fisica. E credo che sia straordinariamente commovente e importante vedere l’effetto degli anni sull’icona Eastwood. Rende unfilm come Debito di sangue molto più di un

semplice thriller. Se avesse esordito come caratterista più avanti con l’età, non ci sarebbe questo effetto. È un po’ la teoria dell auteur, applicata non alla sua carriera da regista ma a lei come attore: ogni

ruolo è parte di un corpus. Ci pensa mai? Credo che ci voglia un enorme coraggio per rimettersi in gioco sapendo che tutti faranno il confronto con l’icona che hanno in mente. Coraggio 0 stupidità. No, non ci penso e basta. Immagino di essere diventato abbastanza realista, questo è quello che sono in questa fase della vita. Sono sempre stato convinto che si dovesse progredire. Se

c’è un lato positivo dell’età avanzata, sono la conoscenza e

l’esperienza, e fino al giorno in cui subentrerà una sorta di presenilità, suppongo che andrò avanti a esplorare. Ma non lo si può fare se non si è disposti ad accettare la propria età. Si resta lì seduti a dire: «Beh, quarant’anni fa entravo in scena di corsa con la pistola in mano». Non che non possa farlo anche adesso, fino a un certo punto (ride), ma

semplicemente non è giusto. Mi pare più giusto interpretare ruoli adatti alla mia età. Ho preso in giro l’invecchiamento in Nel centro del mirino, ma adesso è ora di accettare che questo è ciò che sono e ciò

che sarò. Potrei tingermi i capelli e dire che ho di nuovo trentacinque anni. Ma non ce li ho, quindi non lo faccio. Sfrutto la grande opportunità di interpretare una persona come Frankie con la saggezza dell’esperienza sul campo.

Ma se ascolto la sua voce al telefono, lei non sembra affatto avere l’età di Frankie, e sospetto che si muova anche più agilmente di lui. Quanto ha dovuto lavorare sul suo personaggio per dargli vita? Naturalmente modifico la voce in base alla mia idea del personaggio e la cosa prende il controllo assoluto. Quando ho iniziato,

ci sedevamo in cerchio a parlare di performance e razionalizzare tutto, ma a un certo punto ti rendi conto che devi recitare a livello istintivo. E una volta che superi la tensione legata alla tecnica e il fatto che devi

recitare battute scritte per il personaggio, ti rendi conto che devi tirarlo fuori da dentro di te. È una forma d’arte istintiva. Non significa

che gli attori non siano intelligenti, niente affatto. Ma devi essere disposto a lavorare in modo viscerale per ottenere una performance efficace. Sì, interpreto uno più vecchio di me. La voce cambia,

cambiano i movimenti. E poi la parte fisica cambia man mano che la storia procede. Frankie è così distrutto per gli ostacoli che deve affrontare e le decisioni che deve prendere che diventa quasi un altro personaggio. Prendiamo per esempio la breve sequenza in cui l’infermiera dice «Abbiamo dovuto sedarla»: è una situazione patetica

e non devi neanche dire niente, l’effetto lo trasmetti già con la tua presenza, e se c’è davvero, si spera che arrivi al pubblico.

In questo caso è l’Eastwood attore che parla, ma come gestisce il rapporto con l’Eastwood regista, che probabilmente si chiede se lei

come attore stiafacendo abbastanza per quella scena? Come si trattiene dall’osservare la scena da fuori mentre la interpreta? Quella è la cosa più difficile, osservare un altro attore quando sei nel personaggio senza poterlo criticare da regista per certe cose che fa:

perché fa così con la bocca? Cos’è quest’espressione? Devi riuscire a raggiungere una certa intensità, ma anche a rispettare il programma, altrimenti ottieni un effetto patinato senza riuscire a scavare a fondo come dovresti per una sequenza difficile. Ma ogni scena è diversa. A volte è giusto intervenire e preoccuparsi come nella vita reale, in altre scene devi calarti nel bel mezzo della situazione con gli altri attori e non puoi permetterti di pensare a cosa fa la cinepresa. Ma lo impari

con anni di esperienza. Quando ho iniziato a fare il regista, dovevo anche recitare nel film per riuscire a farlo. E continuavo a recitare

perché le persone che volevo non erano disponibili o erano passate a miglior vita. Le circostanze mi hanno portato a costruire questa

filmografia, ed eccomi qui, a settant’anni. a dire: «Beh, sono ancora in piena attività». Ho ancora delle idee e delle cose che voglio esplorare. Forse dovrei essere grato per questo.

In questo film gli attori combinano splendidamente le proprie performance. Il tempismo e il senso di spontaneità di presenza e di verità nei dialoghi è meraviglioso.

Grazie. Ognuno dirige i film alla sua maniera, il mio modo per ottenere quell’effetto è farlo e basta. Faccio le prove per alcune scene

se ci sono difficoltà tecniche di luci e macchina. Fortunatamente ho

un team di operatori ben collaudato, die sa cosa voglio senza che debba dare molte spiegazioni. E poi, quando arriviamo al punto in cui si gira, nessuno mi fa domande mentre cerco di calarmi nella parte.

L'obiettivo è dare l’impressione che sia la prima volta che pronunciamo le battute, quindi l'unica cosa che posso fare è cercare di portare a casa la scena al primo ciak. Faccio spesso così. So che ad alcuni non piace. E se non viene bene la prima, bisogna continuare e

migliorare la resa. Ma sarebbe sorpresa dai risultati interessanti che si ottengono al primo ciak se gli attori sono bravi. E a volte il ritmo o i tempi non vanno bene, quindi bisogna dire di ripetere la scena con un

po’ più di ritmo, o di non sottolineare un momento che non va sottolineato o viceversa di evidenziarne uno che va messo in risalto. Credo sia questo che mi spinge a continuare anche a questa età. Ogni sequenza ha le sue piccole sfide e non ci sono regole, l’unica regola è fare tutto il necessario. Non esiste uno stile che vada bene per ogni

scena. Si fa tutto ciò che occorre per quella scena specifica. Bisogna capire la gente, creare un’atmosfera in cui tutti possano sentirsi estremamente rilassati e non ci sia nessuna tensione a ostacolare

quello che si cerca di fare. I risultati che si possono ottenere sono incredibili.

Fino a che punto considera la recitazione in termini di

performance musicale? Mi ha colpito che parlasse di ritmi. Lei è un

musicista. In realtà questa domanda ne contiene due. Mi sono anche chiesta perché le ci sia voluto così tanto per comporre un’intera colonna sonora da solo. L’ha fatto solo per gli ultimi duefilm. Ho composto dei temi per Gli spietati e prima ancora per Corda tesa e Iponti di Madison County. E sì, ho sempre pensato al ritmo

delle scene, che stessi componendo la colonna sonora o meno, e se chiamavo un musicista che se ne occupasse, sceglievo sempre qualcuno che capisse il ritmo del film quando glielo mostravo. Se invece sceglievo qualcuno prima delle riprese, gli dicevo come immaginavo il ritmo. Compongo un tema in base all’atmosfera del film. Non lo faccio per prendermi un ulteriore incarico, ma perché a volte sento di poterlo comporre meglio di come potrei spiegarlo. Per esempio per Mystic River mi sono semplicemente seduto al

piano e ho cominciato a suonare una triade, perché pensavo ai tre

personaggi, e poi ho cominciano a costruirci sopra gli accordi e ho pensato: «Beh, potrebbe andar bene qualcosa di semplice come

questo». Ho scritto un tema e un breve ponte. Per questo film invece stavo suonando un pezzo blues in stile Floyd Cramer e ho pensato che se fossi riuscito ad aggiungerci un tocco rurale, sarebbe stato un tema interessante, e poi volevo che il ponte magari fosse un po’ più

melodico, come se venisse da un altro luogo e rappresentasse la ragazza e tutto quello che la riguarda. I due pezzi si fondono cosi. Ho fatto tutto in varie parti. Ho fatto il montaggio qui a Carmel dove conosco un chitarrista jazz e quindi sono andato nel suo studio e gli

ho suonato il tema. Lui l’ha imparato sulla chitarra, poi ci siamo messi lì e l’abbiamo suonato tutto circa quattro volte, con tempi diversi, una volta con arpeggi lenti, un’altra suonando le singole corde, una a tempo e una fuori tempo, e alla fine sono uscito da lì con il tema finito. Il chitarrista ha pensato che fosse solo provvisorio, ma io invece

pensavo di usarlo così. Poi sono andato da un altro amico che vive

dall’altra parte della città e ha un bel sistema informatico; mi ha creato una base con archi, oboe e chi più ne ha più ne metta, fatti al

computer - una colonna sonora molto semplice basata su quel tema. E poi ho chiesto a Lennie Niehaus di aggiungere le parti per violino, violoncello, basso e oboe e suonarlo davvero. Non mi dà troppo

fastidio se c’è un po’ di musica prodotta elettronicamente, ma niente

può sostituire quella suonata dal vivo. Quindi ho assemblato la colonna sonora così. E ho usato la base provvisoria per il montaggio. Io e Joel Cox inserivamo i brani per

vedere come andavano. Quando capivamo il punto giusto dove

collocarli, inserivamo le vere registrazioni; ci siamo sempre riusciti al primo colpo e non siamo mai dovuti tornare indietro. È un modo un

po’ strano di fare le cose, ma quello strano è l’unico modo che conosco. Quello che mi è piaciuto della colonna sonora è che influenzava il

significato in modi molto sottili. Per esempio allafine, quando Frankie percorre il corridoio ed esce dalla porta. Ti dà un barlume di consapevolezza che anche se lui non saprà mai se ha fatto la cosa

giusta, in qualche modo l’universo saprà che l’ha fatta. Ecco cosa trasmette la colonna sonora in quel momento. Benissimo, è proprio quello che cercavamo di fare. Non lo

sappiamo mai per certo. L’ambiguità finale è la stessa che Frankie ha vissuto per tutto il tempo. Ma con l’ultima inquadratura capiamo che Morgan stava scrivendo una lettera alla figlia [di Frankie]. E

arriviamo a quel ristorantino, ci sembra familiare; e il dolly* avanza fino a mostrare una baita, potrebbe essere quella di cui hanno parlato. E quando arriviamo davanti alla finestra, vediamo che dentro c’è qualcuno, ma è un po’ scuro e non sappiamo se si tratta di Frankie. Forse sì, o forse no. Non lo sappiamo. Quindi se ne va e diventa

un'anima perduta come gli aveva predetto il prete, cosa più che probabile? O forse torna davvero in quel piccolo ristorante con una grande nostalgia per quel pezzo di vita che hanno condiviso.

Cosa pensa della boxe femminile? E della boxe in generale?

Quand’ero ragazzo, il campione era Joe Louis e io lo ammiravo, mi pareva che facesse cose incredibili. Quando ho iniziato a fare film, ho preso ad allenarmi. Un mio amico, Al Silvani, era un allenatore famoso. È uno sport interessante, mi piace se è fatto bene. Per quanto

riguarda la boxe femminile, non lo so. Penso che la gente dovrebbe

poter fare ciò che vuole. Suppongo di non avere tutti i pregiudizi di Franlde Dunn, ma per un po’ ho pensato che forse le donne non dovrebbero dedicarsi a cose come il pugilato. Però una volta ho

conosciuto una ragazza che faceva boxe. Viveva a Las Vegas, io lavoravo lì e ho detto a Silvani di andare a darle una mano, e lui l’ha fatto. Lei si è allenata per un po’, poi ha lasciato perdere, e immagino

che sia stata una scelta saggia. Non lo so. Lucia Rijker, che nel film interpreta «Blue Bear»... Lei sì che fa paura! Già. È di ferro. Nel film c’è una scena che mi ha fatto dire:

«Dobbiamo chiamare Lucia per questa». E ho un amico che è arbitro,

campione di karate e tutta quella roba. Gli ho chiesto: «Sei un bravo

arbitro? Beh, sali sul ring, fai il bravo arbitro e separale». Lui ci ha

provato, ma Lucia ha mandato al tappeto sia lui, sia la sua avversaria. Lui si è rialzato rosso come un peperone e io ho lasciato la scena nel film. Ma la Rijker è così, ed è una donna incredibile: ha raggiunto il

culmine del successo e della venerazione tra le persone che ammirano quello che fa, è molto in forma e si allena un sacco per acquisire ancora più potenza. Sul set scherzavo sempre: «Vi immaginate un poveretto sul Sunset Boulevard che le afferra la maniglia della

portiera e cerca di infilarsi in macchina? Lo aspetta una bella sorpresa». È una ragazza incredibile e sta studiando recitazione,

quindi si è rivelata la scelta perfetta. Ha interpretato il suo ruolo e ha aiutato un sacco Hilary mostrandole cosa significa essere una pugilatrice e spiegandole alcuni dettagli specifici dello sport. È un film molto scuro a livello visivo, a volte è così scuro che

quasi non si vede. È davvero fantastico, ma è raro vedere un film americano che corre il rischio di essere così scuro dall’inizio allafine.

L’uso di luci e ombre nel cinema per me è molto importante.

Volevo che il film potesse sembrare ambientato in qualsiasi epoca, che se si fosse svolto negli anni Trenta o Quaranta si sarebbe capita

l’epoca solo dalle auto o da quello che diceva la radio. E poi cerco di

adattare la luce e il colore al pathos della storia. Tom Stern, che è il mio tecnico delle luci da anni ed è bravissimo, mi ha detto che pensava di poter entrare nella Cinematographers Guild e mi ha

chiesto se avrei pensato di usarlo come direttore della fotografia nel caso ci fosse riuscito, lo ho risposto: «Facciamolo». Gli abbiamo

trovato un avvocato, abbiamo manipolato un po’ di cose e l’abbiamo fatto entrare nella Guild. Quindi l’abbiamo chiamato per Mystic River

e lui ha fatto un lavoro splendido. Quando faceva il tecnico delle luci, potevo dire a lui e ai direttori della fotografia per cui lavorava. Jack Green e Bruee Surtees, come immaginavo l’aspetto del film. E spesso uso il vecchio trucco delle luci di John Ford. Vado in giro per il set e

spengo le luci. Siamo arrivati al punto in cui Tom lo sa e mi dice:

«Ecco qui, guarda questa inquadratura». E me la mostra con le luci accese e con le luci spente. Io dico: «Ok, lasciamo le luci spente».

Avrei potuto tergiversare e girarla una volta con le luci accese e una

con le luci spente, ma no, ho preso quella decisione, e lui ha osato sempre di più, il che ha spinto anche me a osare di più, immagino, e così siamo arrivati a questo. Mi piace l’aspetto in stile noir, soprattutto per questo film. E non è

diverso da un pittore che dice: «Aggiungo un po’ di colore qui e un po’ lì», e poi si accorge di avere esagerato. Il motivo per cui mi piace così

tanto Tom è che è rapido, silenzioso ed efficiente, e lo stesso vale per i suoi due operatori, sono sempre pronti. Tutti sono pronti. Per me è

fondamentale che sappiano che posso cominciare in qualsiasi

momento. Anche il tecnico del suono. Faccio un gesto con la mano e loro capiscono. È importante soprattutto se ci sono dei bambini: sono bravissimi, ma se gli dici che stai riprendendo, si imbarazzano. E il set di solito è così silenzioso che possiamo partire con le riprese e basta.

L’ho fatto anche con attori esperti, e non c’è bisogno che qualcuno urli «Silenzio, silenzio», suoni un allarme o roba del genere.

Mi ricordo che una volta sono entrato sul set di Nel centro del mirino alla MGM. Era da un po’ che non recitavo per un altro regista. Suonavano degli allarmi e io ho chiesto: «Per cosa sono? Non c’è un

incendio». L'assistente continuava a urlare e io gli ho detto: «Rilassati

e basta. Se gridi, tutti quanti urleranno per farsi sentire sopra le tue grida. Quindi parla piano e tutti gli altri ti seguiranno». Questi sono piccoli trucchi che si imparano con tanti anni di lavoro

a un certo livello. E tutti sanno che non si scherza. Non facciamo gli straordinari perché quando siamo lì lavoriamo sul serio. E poi chiamo

sempre un buon servizio di catering, così tutti possono farsi un buon pranzo. L’esercito va avanti con la pancia piena. È un modo di fare le cose, anche se non è l’unico. Quando ha cominciato a lavorare al film, ha fatto molte modifiche alla sceneggiatura originale? È rimasta più o meno com’era. Ho chiamato Paul Haggis. Non lo

conoscevo, ma gli ho fatto i complimenti e gli ho detto che la sua sceneggiatura era molto buona. Mi ha chiesto se volevo che ne

riscrivesse alcune parti e io ho risposto: «No, ma se ho bisogno di qualcosa, ti chiamo. Mi capita di fare modifiche durante le riprese».

Al che lui ha detto: «Le faccio io». E io: «Beh, a volte sono fatte sul momento, per adattare il testo agli attori o ad altre cose». Come quando si arriva sul set e ci si accorge che sarebbe meglio seia luce venisse da un’altra parte. Sono modifiche fatte in corsa. Per la sceneggiatura è lo stesso. È una struttura architettonica, ma non

definita in tutti i dettagli. Ci vuole un margine di libertà.

Riflettevo su un aspetto del personaggio di Frankie. È cattolico e

si impegna un sacco per essere un buon cattolico. Va a messa tutti i giorni. Trascina il prete nell'esplorazione della sua anima, e questo colloca ciò che succede alla fine in un contesto particolare. Significa

che Frankie va contro la Chiesa con la sua decisione. Ma anche a persone non cattoliche o non religiose in generale può capitare di trovarsi nella sua posizione, ed è una situazione lacerante e

complicata tanto quanto lo è per lui. Mi chiedevo se ha mai pensato a come sarebbe stata la storia se la religione non avesse avuto un ruolo così importante nella vita di Frankie, o se questa fosse stata semplicemente la storia che le avevano mandato e lei l’avesse seguita

e basta. Mi sembrava molto logico. Frankie Dunn... ho immaginato che fosse irlandese e cattolico. Io non sono cattolico, ma capisco i loro

dogmi su questo tipo di temi. La cosa creava semplicemente una

situazione complicata. Credo che il suo rapporto di amore e odio con la fede e le sue incertezze lo perseguitino, ma penso che il punto

cruciale sia che quando è nella disperazione più totale, va dal prete e gli chiede conforto. E il prete dice: «Lascia fare tutto a Dio». E Frankie: «Ma lei non sta chiedendo aiuto a Dio». E allora il prete dice,

e credo che sia la chiave di tutto: «Lascia perdere Dio, o l’inferno e il paradiso. Se tu fai una cosa del genere, ti perderai. Finirai in un

abisso. Non riuscirai mai più a ritrovarti». Quindi anche il prete porta tutto a livello emotivo e spirituale, non in base ai dogmi della Chiesa. Sta dicendo che il danno psicologico sarà irreversibile. Lascia persino perdere la solita discussione che hanno sempre quando si parla di queste cose, di aborto o roba del genere. E credo che questa sia una

delle cose che rendono tutto così interessante. Mi ha fatto capire che, sì, Frankie doveva assolutamente essere un irlandese cattolico. E

penso che anche F. X. Toole [l’autore del racconto su cui si basa la sceneggiatura] sia un irlandese cattolico. Nella scrittura c’è un senso di comprensione che ha funzionato benissimo per me. E poi mi

piacevano il prete e il suo modo di fare. [Brian O’Byrne] è un attore

fantastico. Quelle scene le abbiamo girate tutte una volta sola, lui era pronto e le ha fatte tutte. Può raccontarmi com’è stato affrontare un argomento così controverso proprio in un momento in cui il clima nel paese è quello che è e sembra che il governo ritenga di dover prendere decisioni su quelle che io considero questioni estremamente personali? Ha

pensato a cosa significa fare uscire il film adesso?

Sa, non ci penso affatto. Immagino di essere abbastanza ostinato da... Se si crea una controversia, per me non è un problema, perché

penso che sia una cosa che spinge a riflettere a prescindere dall’epoca storica o dalla propria identità. Non mi interessa se voti per i democratici o per i repubblicani. Chiunque nella vita ha vissuto un’esperienza che l’ha spinto a riflettere su queste cose, sulla vita e sulla morte. È poi c’è un motivo per cui occorre un dogma contro questa scelta? Beh, ci sono dogmi su un sacco di cose, ma quando si comincia a ragionarci su, più o meno chiunque si rende conto che

sarebbe una decisione difficilissima, a prescindere da cosa si sceglie. Per Frankie sarebbe durissimo anche stare ad aspettare che lei muoia. È straziante quando dice al prete che per egoismo vorrebbe tenerla con sé.

Non è una situazione alla Kevorkian, in cui fai un favore a qualcuno che incontri e che te lo chiede. Qui si tratta di una persona a cui Frankie tiene moltissimo. Egoisticamente vorrebbe averla accanto, ma lei vuole solo andarsene, e quindi cosa si fa? Ecco il dilemma.

A eccezione di Mystic River, i suoifilm hanno sceneggiature

sempre più sfrondate, in cui alcune risposte che uno si attende non arrivano, come ilfatto che non scopriamo mai cos’ha causato la

rottura tra Frankie e sua figlia. Le piacciono le sceneggiature di

questo tipo? Sì. Nel cinema c’è la tendenza a trattare gli spettatori come se ci fosse il rischio che escano dal cinema se non gli si spiega ogni minimo

dettaglio man mano. Non sa quante volte mi hanno chiesto cosa

significa la scena finale di Mystic River in cui Kevin Bacon punta il dito verso Sean Penn. Vuol dire che lo farà arrestare o che entrambi sanno cos’è successo e manterranno il segreto per tutta la vita? Quando melo chiedono, io domando: «E lei cosa pensa che

significhi?» A prescindere da quello che rispondono, io dico: «Sì, qualunque cosa pensi che sia, ha ragione». Personalmente apprezzo i film che ti lasciano qualcosa su cui riflettere, è una cosa che mi attira.

Ma molte sceneggiature spiegano fin troppo, oppure arrivano al punto in cui pensano di dover spiegare qualcosa, o magari interviene un

dirigente che dice: «E qui cosa succede? Dobbiamo saperlo». Beh, non devono sapere niente. Devono pensare, e perché non dovrebbero

farlo con te? Scateni certe emozioni e lasci che l’immaginazione prenda il sopravvento. Per me è molto più divertente. Certo, è una mia idiosincrasia, magari gli altri non la pensano così, e va bene

comunque. Non occorre arrivare al punto in cui l’ambiguità diventa noiosa, ma se a volte non si dice tutto esplicitamente, l'effetto nella mente dello spettatore è molto più pittoresco che se si descrive tutto per filo e per segno, magari creando delusione perché lo spettatore se

l’aspettava completamente diverso. Ricordo sempre la parte di Sentieri selvaggi in cui John Wayne torna dopo aver trovato il corpo della sorella maggiore e dice: «Non chiedetemi mai cosa ho visto». E quindi ovviamente lo spettatore passa il resto del tempo a cercare di immaginarlo. È una delle sue performance più geniali e coraggiose, perché non ha avuto paura di esprimere il razzismo senza mezzi termini. E

quando lo guardi negli occhi in quel momento, capisci che quello che ha visto non era bello. E ti darebbe quasi fastidio se cominciasse a

spiegartelo. Un film come Million Dollar Baby è solo un frammento di vita, e gli altri aspetti vanno lasciati all’altra vita. (Intervista pubblicata su Film Comment, voi. 41, n. 1, gennaio-

febbraio 3005, PP- s^-33> ampliata come «esclusiva web» su

Filmlinc.com. Ripubblicata con il permesso dell’autrice.)

LETTERE DA IWO JIMA DI CLINT EASTWOOD DI TERRY GROSS

(2007)

Benvenuti su Fresh Air. Sono Terry Gross. Il nostro ospite Clint Eastwood ha diretto due film su una delle battaglie più sanguinose della seconda guerra mondiale, quella di

Iwo Jima. Il primo film. Flags of Our Fathers, mostrava la battaglia dal punto di vista americano, raccontando la storia della famosa fotografia vincitrice del Pulitzer in cui cinque Marine issano la bandiera statunitense. Il nuovo film di Eastwood, Lettere da Iwo Jima, descrive la battaglia dalla prospettiva dei soldati giapponesi.

Alle truppe giapponesi a Iwo Jima era stato detto di aspettarsi di

morire lì, cosa che la maggior parte di loro effettivamente fece. Circa

ventimila dei ventiduemila soldati giapponesi stanziati sull’isola

rimasero uccisi durante la battaglia. Vi morirono anche settemila americani. Il generale giapponese scelto per guidare la battaglia, Tadamichi Kuribayashi, ideò la strategia di scavare caverne sotterranee in tutta l’isola, collegandole tra loro attraverso circa venticinque chilometri di tunnel; così al momento dell’invasione i soldati avrebbero potuto attaccare le truppe americane senza essere

visti. Ma i giapponesi erano in netta inferiorità numerica rispetto agli oltre settantamila Marine che arrivarono su più di ottocento

navi. La battaglia durò trentasei giorni. Lettere da Iwo Jima è nella top ten di molti critici cinematografici, compreso il nostro David

Edelstein, che ha messo in classifica anche Flags of Our Fathers dello

stesso regista. Clint Eastwood, bentornato su Fresh Air. E congratulazioni per il

nuovofilm. Era già nei piani iniziali realizzare due film su Iwo Jima, uno dal punto di vista americano e l’altro dal punto di vista giapponese? Oppure il secondo film, che è appena uscito, le è venuto

in mente durante la produzione del primo?

Mi è venuta l’idea durante la realizzazione del primo. Mentre ci preparavamo per Flags of Our Fathers, mi sono reso conto che il generale che aveva difeso l’isola era considerato parecchio in gamba

da diversi generali americani. Quindi mi sono incuriosito sul suo conto e ho chiesto a un amico che vive in Giappone di mandarmi tutti

i libri che trovava in proposito. Non esistevano libri in inglese, ma

c’era un libretto con le lettere inviate da Kuribayashi alla famiglia quand’era delegato negli Stati Uniti e nel Canada alla fine degli anni Venti e nei primi anni Trenta. Scriveva a casa e disegnava piccole illustrazioni per i figli, un maschio e una femmina, per mostrare loro

com’era il luogo dove si trovava.

Così ho pensato: «Ecco una persona interessante», non solo per l’umanità che mostrava nei confronti dei figli, ma anche per il fatto che stesse imparando l’inglese e molte cose sulla nostra cultura

dell’epoca.

Ilfilm si basa sulle lettere che il generale scrisse durante la battaglia di Iwo Jima? Sì. Il libro arriva fino alle lettere scritte da Iwo Jima, prima che si perdessero le sue tracce. E poi ho studiato tutti gli articoli che

abbiamo trovato su riviste e cose del genere: anche se la storia di questa battaglia non viene insegnata in Giappone, c’erano articoli che facevano ipotesi su alcune delle persone che si trovavano all’epoca

sull’isola. Persone di ogni genere, dai campioni olimpici ai comuni

lavoratori, mandati laggiù con le seguenti istruzioni: «Non pensate di fare ritorno».

Non viene insegnata in Giappone perché la battaglia fu una sconfitta clamorosa per il paese?

Credo di sì. Credo che dopo la guerra non abbiano insegnato molto degli ultimi giorni. Si parla un po’ di più di Okinawa perché là ci sono

state molte vittime civili. Ma su Iwo Jima, il primo territorio

giapponese invaso dai Marine durante... perché in tutto il Sud del Pacifico avevano ripreso isole già conquistate e controllate dal Giappone. Quello era il primo territorio giapponese, quindi per loro divenne una battaglia difensiva molto importante. Cercavano di

scoraggiare gli americani daD’invadere il resto del Giappone. Questo film, beh, pone lo spettatore americano in una situazione

quasi imbarazzante. Di solito neifilm di guerra la storia è raccontata dal punto di vista del proprio paese, soprattutto se si tratta di un film americano. E ovviamente uno fa il tifo per i soldati

perché sconfiggano i nemici e in questo film ci si affeziona molto ad

alcuni dei soldati e dei comandanti - non a tutti, ma ad alcuni sì. E non vuoi che muoiano, ma allo stesso tempo non vuoi che uccidano gli americani contro cui combattono. Perciò guardando questo film è

impossibile avere la tipica reazione dafilm di guerra. Decisamente no. Non è pensato per prendere le loro parti nella

storia, ma per mostrare che erano in una posizione difficilissima, dato che si trovavano a difendere una causa persa. E all’epoca i giapponesi erano influenzati da una struttura militare estremamente aggressiva. Era stata aggressiva in tutto il mondo e quello era il momento della difesa finale. E quindi il film serve semplicemente a mostrare la loro reazione e com’erano le persone tra le loro schiere. Ma il succo è che

quando ci sono madri che perdono i figli, che siano giapponesi o

americane o di qualsiasi altra nazionalità, la reazione ha sempre lo stesso pathos.

Mi ha detto che Lettere da Iwo Jima si ispira alle vere lettere

inviate dal tenente generale a capo delle truppe giapponesi durante la battaglia, che nel film è interpretato daKen Watanabe. Anche lei

ha letto quelle lettere? Beh, sì. Ho letto quelle che si trovavano in tutti i libri e negli altri materiali che siamo riusciti a trovare e la famiglia ci ha dato un bel po’

di informazioni. Il contenuto delle lettere che legge Ken Watanabe è

per la maggior parte esattamente quello delle lettere originali.

Cosa l’ha colpita maggiormente di quelle lettere?

Beh, l’emozione di un padre che scrive ai figli e alla moglie raccontando che è in guerra, che fa il suo lavoro e che vorrebbe essere

con loro; vorrebbe anche aver riparato il pavimento della cucina prima di partire e si scusa per non essersi occupato di tante cose.

Parla con i figli del loro uso della grammatica nelle lettere che gli inviano. È un padre come tutti gli altri padri di qualsiasi società. È stato davvero interessante osservare la rappresentazione

dell’esercito giapponese nelfilm. Immagino che la maggior parte degli americani sappia dell’esistenza dei cosiddetti kamikaze durante la seconda guerra mondiale, soldati che pilotavano gli aerei dritti

fino al bersaglio e sostanzialmente si suicidavano nel corso dell’attacco. E lei ha saputo rappresentare quell’enfasi sull’onore e sulfatto che agli occhi dei comandanti giapponesi suicidarsi fosse

meglio che arrendersi e in certi casi anche meglio che ritirarsi. Nel film c'è una scena (e spero non pensi che stia rivelando troppo) in cui diversi soldati giapponesi, sapendo di aver perso la battaglia, si

fanno saltare in aria uno dopo l'altro con delle bombe a mano che hanno conservato. Vederli uccidersi in questo modo è scioccante e

inquietante. Può parlarci un po’non solo delle riprese di questa

scena, ma di quando ha letto o sentito di questi episodi?

Beh, era una cosa piuttosto comune, la filosofia di quello specifico momento storico era quella di fare «seppuku», come lo chiamano loro, o «harakiri», come lo chiamiamo noi. Ma se legge... c’è un libro pubblicato anche in inglese che si intitola Kamikaze Diaries ' e contiene lettere di giovani studenti arruolati nell’aviazione.

Sceglievano giovani studenti universitari in modo che bastasse dare loro un’infarinatura sul volo affinché imparassero solo ciò che servava loro per il viaggio di andata. Ma la maggior parte delle lettere è

commovente perché i ragazzi scrivono alle madri che non vorrebbero

proprio essere lì e non vorrebbero morire, ma non possono opporsi.

La catena di comando dell’esercito giapponese era estremamente rigida e brutale, se non la rispettava eri in guai grossi. Può parlarci un po’delle riprese della scena in cui diversi soldati

giapponesi sifanno saltare in aria con le bombe a mano? Sì. Beh, è successo sul serio, e ne abbiamo rappresentato le conseguenze in Flags of Our Fathers. Ma sul monte Suribachi c’era

un punto in cui i giapponesi di stanza in quella parte dell’isola si sono

sentiti soverchiati, senza speranza, e hanno cominciato a farsi esplodere. E questo è davvero, davvero difficile da capire secondo la

filosofia americana. Eppure l’hanno fatto sul serio, e nel libro Flags of Our Fathers si spiega quella sequenza. Se ne fa una cronaca, e ne

viene fuori una cosa incredibile. Quindi nell’altro film mostriamo l’escalation che porta al suicidio di massa e il fatto che sia successo per un equivoco, perché il generale Kuribayashi non credeva in quella filosofia.

La cosa interessante che mi ha fatto venire voglia di raccontare la sua storia è che lui non credeva davvero negli attacchi suicidi e banzai

e in tutte quelle cose che all’epoca erano comunissime peri soldati giapponesi. Credeva che un soldato morto non avesse alcuna utilità,

era un tipo molto pratico. Fu lui a inventarsi l’idea di scavare i tunnel comunicanti in tutta l’isola per permettere ai soldati di scappare e differire il combattimento.

Ilfilm inizia con la riesumazione delle lettere del tenente generale

a Iwo Jima nel 2005. Le lettere sono state davvero prima sepolte e poi riesumate in quel luogo?

Beh, alcune sono state trovate lì, ma non siamo sicuri che fossero state nascoste in quel modo. Sono ipotesi, perché nessuno sa veramente come sia morto il generale Kuribayashi. Si ipotizzava che...

c’erano tante versioni. Una secondo cui si sarebbe suicidato sull’isola sotto gli occhi di un soldato semplice, e un’altra secondo la quale

sarebbe semplicemente scomparso. Ma nessuno lo sa per certo. Stessa cosa per il barone Nishi, campione di equitazione alle olimpiadi di Los Angeles del 1932. Nessuno sa esattamente come sia morto, anche se sono state fatte delle ipotesi, sono state scritte anche delle storie,

secondo cui sarebbe stato accecato e lasciato indietro, da solo in una caverna.

Ilfilm si apre con delle immagini dell’odierna Iwo Jima. Può

descrivere com’è il posto adesso e come si è sentito laggiù, sapendo quante vittime ha mietuto quella battaglia? Sì, è come visitare un qualsiasi campo di battaglia, andare a Utah

Beach o a Omaha Beach in Normandia, o qualunque altro teatro di battaglia. Quasi si percepisce il fermento che deve esserci stato allora. La prima volta che cammini sulla nostra Green Beach, come l’hanno battezzata gli americani, proprio ai piedi del Suribachi, quando

cammini su quella sabbia nerissima, cominci a guardarti intorno e a visualizzare un’armata di navi americane in avvicinamento, ti senti sopraffatto. E pensi ai Marine morti o feriti su quell'isola. È un’esperienza che ti travolge.

Ci siamo stati durante il primo viaggio laggiù. E poi, più avanti, quando siamo tornati a girare, siamo scesi nelle caverne, dov’erano

stati costruiti degli ospedali sotterranei e dove vivevano le truppe; ti chiedi come diavolo abbiano fatto, è incredibile. Sull’isola c’è una forte

attività geotermica, perciò queste caverne sono tremendamente calde,

con un’enorme umidità. Addirittura, se ci vai adesso, ti consigliano di non starci dentro più di quindici o venti minuti, ma quei soldati ci

dovevano rimanere per interi giorni. Lafotografia è davvero... «bella» non mi pare il termine giusto, perché stiamo parlando di una guerra. Non è esteticamente piacevole. Ma il tono e l’atmosfera sembrano assolutamente perfetti.

Molte delle sequenze sono girate con colori così attenuati da sembrare bianco e nero, anche se in realtà è più una combinazione di

blu e grigio. Ma le esplosioni sono totalmente a colori. Potrebbe spiegarci come ha capito quale aspetto voleva dare alfilm e come l’ha ottenuto?

Beh, il film è stato girato a colori, ma li ho desaturati fino al punto in cui non sembravano più colori accoglienti. Non volevamo certo che

il film fosse in Technicolor nel senso di una volta, come Dorothy e Toto nel Mago di Oz o roba del genere. Quindi abbiamo scelto di

desaturare i colori fino a portarli quasi al bianco e nero. I colori erano molto attenuati e ovviamente le esplosioni dovevano essere un po’ più luminose perché erano appunto esplosioni. Quindi è stata tutta una

questione di scelte che abbiamo fatto per ottenere il senso dell’angoscia della guerra. Dato che ilfilm è narrato dal punto di vista giapponese, gli attori

che lo interpretano sono in buona parte giapponesi. Certo, vengono mostrati anche alcuni americani. E ilfilm è girato in giapponese. I personaggi parlano in giapponese e ci sono i sottotitoli. La maggior parte degli attori che ha scelto parlava anche inglese? Riuscivate a comunicare in inglese? Sì, diversi attori parlavano l’inglese, ma avevamo anche degli

interpreti per chi non lo conosceva. E la maggior parte non lo parlava

comunque molto bene perché abbiamo scelto attori che venivano da... ce n’erano alcuni di Los Angeles o di New York, ma la maggior parte venivano da Tokyo. E avevamo gli interpreti, ma le emozioni sono

uguali in tutte le lingue, quindi non è stato difficile. Non mi sembrava giusto girare il film in inglese, facendo parlare in inglese gli attori giapponesi: sarebbe risultato troppo artefatto. Secondo me dovevano

parlare in giapponese, escluse le scene in cui l’inglese era la lingua predominante. Ha conosciuto sopravvissuti alla battaglia di Iwo Jima di

entrambi gli eserciti? Si. Non tanti giapponesi, non ce ne sono molti. Dei venti-

ventiduemila uomini di stanza sull’isola, ne erano rimasti solo un migliaio, e non sappiamo quanti di loro fossero soldati veri e propri e quanti lavoratori coreani coscritti. Ma ce n’erano pochi, molto pochi. E non siamo riusciti a parlare con molti di loro, anche se ho letto articoli scritti da loro, tutti molto validi. Invece ho parlato con un

buon numero di sopravvissuti americani. C’è un’immagine che l’ha davvero aiutata a creare Flags of Our

Fathers partendo dalle conversazioni con i sopravvissuti? Beh, sì. C’è un’immagine piuttosto comune, cioè che la maggior

parte di coloro che erano là a combattere non ne parlava mai tanto. Si ritrovano e magari vanno alle celebrazioni dei Marine o fondano organizzazioni dei Marine, ma non ne parlano mai davvero... non c’è quell’entusiasmo bellico che ci si aspetterebbe. È solo che... è stata

una battaglia tremenda. Doveva durare tre o quattro giorni, invece è durata un mese. E sono rimasti bloccati lì per buona parte del tempo.

Quando vedi tanti dei tuoi amici restare feriti o uccisi, non lo

dimentichi facilmente.

Ha già avuto notizie sulle reazioni degli spettatori giapponesi di

Lettere da Iwo Jima? Sì. Beh. il film è uscito da quattro settimane e sta andando

davvero, davvero bene, ha un successo incredibile in Giappone. Gli

spettatori e i critici giapponesi l’hanno accolto molto bene. Credo che

lo apprezzino dal punto di vista dell’intrattenimento, ma anche a livello della ricostruzione storica. Penso che le nuove generazioni ci

trovino un sacco di risposte ai dubbi che avevano sulla battaglia e sulle condizioni dei soldati e dei civili giapponesi in tempo di guerra.

E Flags of Our Fathers? È uscito in Giappone? Sì, anche quello è uscito in Giappone. Per primo, e anche quello è

andato bene laggiù. Ma ovviamente Lettere da Iwo Jima sta riscuotendo un successo incredibile. Flags of Our Fathers parte da un'immagine davvero eroica. la

fotografia dei soldati che piantano la bandiera americana a Iwo

Jima, e mostra cos’è successo davvero e quanto più ambigua risulti

la storia una volta che si scopre com’è andata. La scena della foto in

realtà è stata ricreata dopo che la bandiera originale era stata data

a un membro del Congresso che l'aveva chiesta, se non ricordo male. Sì, credo che il segretario generale della Marina l’avesse chiesta... è il massimo che siamo riusciti a scoprire in proposito. E poi gli uomini nella foto, almeno secondo ilfilm, si sono sentiti

degli impostori perché la posa era stata ricreata e l'immagine è vista come un momento di grande eroismo, mentre per loro non era

affatto un momento eroico. Cosa l’ha attratta di questa storia?

Beh, la posa non è stata ricreata, ed è questo che la rende così importante: le persone ritratte stavano davvero cercando di issare una bandiera, ma era la seconda, prima ne avevano piantata una più

piccola che poi hanno deciso di cambiare, più o meno come ha spiegato lei. Ma era tutto diverso. Semplicemente non diedero troppa

importanza alla cosa, e tre dei sei uomini che issano la bandiera nella celebre foto rimasero uccisi entro una settimana, insieme al cameraman che aveva ripreso la scena con una cinepresa, quindi non si sentivano eroici. Sentivano di stare soltanto eseguendo un compito, ma all’improvviso sono stati riportati in patria e accolti come eroi,

trattati come superstar e romanzati dai politici e dalla società in generale perché andassero a fare i tour per la vendita dei titoli di guerra. Quindi per loro è un po’ dura da accettare. È un bel fardello da

appioppare a ragazzi di diciannove o vent’anni, che all’improvviso si ritrovano sotto i riflettori.

Ha visto molti film sulla seconda guerra mondiale negli anni

Quaranta e Cinquanta? Hanno avuto un grosso impatto su di lei? Sì, ne ho visti molti da ragazzo, sicuramente mi hanno influenzato.

Erano emozionanti da guardare, a quell’età: si faceva sempre il tifo

per qualcuno, in genere per le nostre truppe, e il nemico era sempre rappresentato come malvagio, mentre i nostri erano sempre dipinti come eroi. Ma quell’epoca è finita. Allora era tutto bianco o nero a

proposito della guerra, ma non è così che la vedono gli altri, perciò è

interessante guardarla da prospettive diverse. I film di guerra dell’epoca erano essenzialmente propagandistici. Vendevano l’idea di un’America potentissima, che aveva e avrà sempre grande successo

tra il pubblico.

La sua visione della violenza neifilm è cambiata moltissimo negli anni; alcuni dei suoi primi lavori erano molto violenti, in particolare

i western di Sergio Leone, come II buono, il brutto, il cattivo. Quelle pellicole provano quasi piacere a mostrare la violenza cinematografica. Gli ultimifilm che ha fatto invece... alcuni parlano delle perdite dovute alla violenza, che si tratti della guerra o della

strada. C’è stato un momento di svolta in cui ha rivisto la sua idea di violenza cinematografica e il modo in cui voleva affrontarla? Credo

che questa svolta possa essere stata ai tempi del Cavaliere pallido e degli Spietati, ma nei termini di ciò che voleva fare del suo talento

quando doveva rappresentare la violenza sullo schermo. Sì, probabilmente ero interessato all’argomento; credo che sia una

naturale maturazione, a un certo punto della vita cominci a pensare alle cose in modo un po’ diverso, ma è parte del processo di crescita, e

anche adesso che ho una certa età, mi considero ancora una persona in crescita. Si cambia sempre e si vedono le cose da una prospettiva

sempre diversa, così si cercano storie che raccontino le vicende da quel nuovo tipo di prospettiva. Gli spietati, che ha citato, parlava di un uomo perseguitato dalla violenza, abbiamo potuto esplorare

l’effetto che ha su noi stessi e sulla nostra anima. Oggi per esempio ci ritroviamo a osservare la seconda guerra mondiale non più solo dal

mero punto di vista fattuale ma anche prendendo in considerazione l’effetto che ha avuto sulle anime dei reduci, il fatto che per alcuni di loro sìa stato difficilissimo riabituarsi alla vita chile dopo che, giovanissimi e impressionabili, erano stati mandati al fronte e

avevano dovuto affrontare la violenza. Vorrei chiederle di parlare del suo Million Dollar Baby, in cui

interpreta un allenatore di boxe che lavora in una palestra di

quartiere e accetta con riluttanza di allenare una pugilatrice, finendo poi per affezionarsi a lei come a una figlia; come tutti sanno, alcune persone di destra hanno accusato ilfilm di promuovere

l’eutanasia, ma io penso che chiunque l’abbia visto davvero farebbe fatica a pensarla così, considerato il peso enorme - senza entrare troppo nei dettagli della trama - che la cosa comporta per la

persona che offre questo aiuto. Com’è stato scoprire che un suo film era stato interpretato in modo completamente sbagliato e usato per scopi politici?

Ha centrato il punto dicendo «chiunque l’abbia visto davvero».

Chi ha risto il film lo guarda in modo diverso. Di certo non promuovo l’eutanasia. Non credo nel suicidio, neanche in quello assistito, ma capisco perché ci si può arrivare. A livello di immaginazione, si può capire come faccia la gente ad arrivare a quel punto, e questo era un

caso estremo, ma non significa che promuoviamo una campagna per sostenere il suo utilizzo in ogni situazione. Si raccontano sempre casi estremi negli spettacoli teatrali o nei film. Si raccontano sempre storie

con dinamiche estreme; in questo caso è la storia di una persona che ha perso il legame con la figlia e non ha... ne soffre moltissimo; poi si crea un legame con una sorta di figlia sostitutiva e all’improvviso

capita una tragedia, e lui come l’affronta? Non l’affronta, non

mostriamo il personaggio (il mio personaggio) che rive felice e

contento dopo quell’evento. Ovviamente si sentirà lacerato nel profondo per il resto della vita. Ma il dramma è proprio lì, e si sta raccontando una situazione estrema.

Cosa pensa delfatto che il suo film sia stato usato per sostenere cose che lei non credeva neppure di aver suggerito, delfatto che sia

diventato un argomento di cui parlano tutti?

Beh, la gente interpreta le cose come vuole e tu non ci puoi fare niente. La maggior parte ha capito quello che volevo dire, e la maggior parte, che sia di destra o di sinistra... non credo che nessuno

spettatore intelligente possa pensarla diversamente, a lungo andare. Il nostro ospite di oggi è Clint Eastwood. All'inizio della sua carriera

ha interpretato una trilogia di western leggendari: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, e II buono, il brutto, il cattivo. Tutti e tre questifilm italiani avevano la colonna sonora curata da Ennio Morricone. Morricone ha composto le musiche di diversi altrifilm diretti da Eastwood ed è considerato uno dei più importanti e influenti compositori cinematografici della nostra epoca. Quest’anno riceverà l’Oscar alla carriera. Il mese prossimo terrà il suo primo concerto americano: dirigerà l’orchestra al Radio City Music Hall e terrà anche un concerto privato alTOnu. Prima di chiedere a

Eastwood di parlarci del compositore, ecco il tema di Morricone per Il buono, il brutto, il cattivo. [Brano della colonna sonora del film II buono, il brutto, il cattivo} Le colonne sonore deifilm che ha fatto con Sergio Leone erano di Ennio Morricone; in quale momento della realizzazione delfilm la musica ha fatto il suo ingresso per lei? Prendiamo II buono, il brutto, il cattivo. In che momento ha sentito l’incredibile tema scritto da

Morricone? Aveva già finito il suo lavoro quando l’ha sentito?

Beh, la prima volta che l’ho sentito è stato in Per un pugno di dollari, che ero andato a fare durante una pausa degli Uomini della praterìa; ho fatto il film in Europa, sono tornato e poi mi hanno chiesto di tornare là a girare il sequel l’anno dopo, e io ho detto: «Beh,

perché non mi mandate prima questo? Vediamo com’è venuto», perché avevo letto che stava andando bene ai botteghini stranieri e

tutto il resto, ma non avevo idea di come fosse. Mi vedo entrare in scena e all’improvviso parte la colonna sonora; ho pensato: «Wow,

questa musica è davvero insolita». E insolito è l’aggettivo che userei per Ennio Morricone; non so se sia solo lui o la combinazione con

Sergio Leone, ma Sergio era sempre stato interessato alla musica e alla contestualizzazione degli effetti sonori e della musica nei film. E

Morricone è stato parte di quei tre film, Il buono, il brutto, il cattivo e

Per qualche dollaro in più. e poi l’abbiamo usato anche per Gli avvoltoi hanno fame e Nel centro del mirino. Perciò nel corso degli

anni abbiamo passato un sacco di tempo con le colonne sonore di

Morricone. Vedersi sullo schermo con la sua musica le ha mostrato

chiaramente in che modo questa può cambiare l'impatto di un'immagine sullo spettatore? Sì, decisamente. I film di Leone eremo molto operistici e Morricone

ha potuto esagerare con quei fantastici assoli di trombe e tutti i diversi

tipi di suoni e inserti sonori, ed è molto intelligente, molto innovativo, soprattutto per quell’epoca specifica; da allora l’hanno imitato in

tanti.

Se è una domanda troppo personale, me lo dica tranquillamente. Lei ha circa settantacinque anni e ovviamente sta ancora dirigendo grandifilm. Com’è invecchiare sul serio rispetto all’idea che si era fatto dei suoi settantacinque anni? Beh, è molto meglio di quello che pensavo. Credo che invecchiare

sia bello se si impara qualcosa di continuo, purché si sia in buona salute e si abbia tutto quello che desiderano tutti. Si sanno più cose, e cambiano le prospettive su di esse; nella vita si è risto tanto e se uno riesce a goderselo, può essere una bella esperienza. Molti ci scherzano

su. Henry Bumstead, un mio ex socio scomparso di recente a più di

novant’anni, diceva sempre: «Ah, se potessi averne di nuovo ottanta». Quindi è tutto relativo. Quando hai quarant'anni, dici: «Oh, trenta

non sarebbero male». Se ne hai ottanta, i settanta ti sembrano belli. Ma è una grande esperienza di apprendimento della vita, e se si continua a considerarla un’occasione di apprendimento, allora ci si

diverte sempre. Lei ha un viso inconfondibile per via deifilm che ha interpretato.

Credo che tutti, invecchiando, ci guardiamo allo specchio e studiamo

com’è cambiato il nostro volto con gli anni, e sa, alcuni decidono: «■Oh, beh, sta cambiando. Non voglio che cambi, perciò ricorrerò alla

chirurgia estetica o roba del genere». E se non lofai, esamini il tuo viso che cambia e fai le tue considerazioni. Lo trovi interessante, o rimpiangi quello di una volta o magari te ne freghi. Com’è stato per

lei, che ha un viso così unico, vederlo cambiare con gli anni? (Eastwood ride). E vederlo cambiare sul grande schermo, oltre che allo specchio. Non credo che ci si faccia tanta attenzione, sa, perché è un

processo graduale, e in questo momento della vita sei così e hai questo aspetto. Sei così, ti senti così in questo momento, di qualunque

momento si tratti, e vai avanti e ti godi il viaggio. Se stai lì a preoccuparti e dici: «Beh, ricorrerò alla chirurgia estetica e cercherò

di riavere l’aspetto che avevo a ventotto anni», non succederà. Servirà solo a darti l’aria di una persona con un problema di vanità, e non

sarà bello quando la gente verrà a dirti: «Ma una volta non eri così o cosà?» Sarebbe un momento imbarazzante, quindi credo che la gente

debba semplicemente accettare le cose come sono e andare avanti,

passare oltre dicendosi che esistono fasi diverse. I trenta sono una fase, i quaranta un’altra, si va semplicemente avanti.

La chirurgia estetica è un problema per lei come regista, perché tantissimi attori si sono fatti o si stanno facendo ritoccare, e si vede

bene guardandoli sullo schermo. È un problema, perché se scegli una persona per un ruolo e dici: «Ok, vorrei assegnare questo ruolo al tale attore», adesso deri

chiedere: «Potete farlo venire qui?» Prima bastava dire: «Beh, so come lavora perché l’ho visto in tanti film, quindi non importa che venga qui, so che è bravo». Adesso invece magari dici: «Mmh,

vediamo prima che aspetto ha oggi», perché, come sostiene lei

velatamente, potrebbe avere un aspetto molto diverso. Così li fai venire e ti viene da dire: «Cristo, sono tutti cosmetizzati», se si può dire così, ed ecco il problema. Non è il look che mi aspettavo. Non è

quello che avevo in mente quando ho pensato a quella persona per quel ruolo. Sta già lavorando a un altro film? No, non in questo preciso momento. Sto cercando di astenermi.

Di prendersi una piccola pausa? Sì, esattamente.

Probabilmente non si aspettava che questi due film uscissero così in fretta, uno dopo l’altro. Beh, in un certo senso erano complementari, perciò quello era un

bel modo per farli uscire. Sì.

Bene, Clint Eastwood, vorrei ringraziarla per essere stato con

noi. Grazie a lei, Terry. (Intervista trasmessa originariamente su Fresh Air con Terry Gross,

io gennaio 2007. Ripubblicata su autorizzazione di WHYY, Ine.)

12. In italiano La vera storia dei kamikaze giapponesi, Bruno Mondadori, Milano 2oog.[n.d.t.]

UN AMERICANO TRANQUILLO DI GEOFFANDREW (2008)

L’ultima volta che ci siamo incontrati, le avevo detto che i suoi

lavori sembravano avvicinarsi sempre di più aifilm di Howard

Hawks per l’interesse per le relazioni, i luoghi, l’atmosfera, piuttosto che la trama.

Beh, adoro Hawks; siamo sempre stati interessati ai suoi personaggi. E al suo ritmo: La signora del venerdì, ma come c'è riuscito? Però lui aveva Cary Grant e Rosalind Russel, che erano abituati a parlare in quel modo, mentre al giorno d’oggi gli attori

tendono a essere più realistici. A quei tempi gli attori recitavano in

modo molto caricato. Dà molte indicazioni agli attori?

Cerco di dirigerli nel modo in cui vorrei essere diretto io. Da attore, mi piace mostrare quello che so fare e poi farmi eventualmente

dire dove ho sbagliato. Perciò, mentre dirigo, mi piace vedere quello

che gli attori sanno fare e vederli sbocciare. Certe volte dico che il ritmo 0 qualcos’altro non va bene e lo adattiamo di conseguenza.

Parliamo anche delle cose concrete. Per Changeling gli ho dato del materiale sul vero caso, ho raccontato quello che era successo... molte delle cose dette dai personaggi sono quelle che avevano detto i veri protagonisti. In Mystic River gli attori volevano fare le prove. Io ho

dato l’ok. Non volevano cambiare le caratterizzazioni, perciò non ci ho dato importanza. In quel modo erano pronti per i dialoghi e per quel particolare dialetto di Boston con le vocali trascinate!

Changeling è stato girato in quarantadue giorni; è pochissimo per un grande period movie. Preferisce ancorafare in fretta?

Mi piace velocizzare le cose. Tutti i registi che mi piacevano da

ragazzo erano rapidi, a quanto pare. Ho lavorato solo con pochi di loro, come ad esempio Stuart Heisler, che è venuto a dirigere Gli

uomini della prateria negli ultimi anni. Ho avuto una partìcina in un film di William A. Wellman; anche lui era piuttosto rapido. Per quel

che so, lo erano anche John Ford e Hawks. Uh regista con cui ho parlato paragonava la sua essenzialità a quella di Ford.

Cerco di non infiocchettare troppo. Per gli standard di oggi, Ford non ha fatto tantissime inquadrature eclatanti. Ma quando ti trovavi Fonda seduto in veranda con i piedi sulla ringhiera in Sfida infernale, o Wayne che usciva nella prateria in Sentieri selvaggi, quell’unica inquadratura ti rimaneva in mente e rendeva la scena memorabile. Oggi c’è la tendenza a farlo con sei o sette inquadrature invece di

mostrare una sola immagine da ammirare, come un bel quadro di Velazquez o di qualunque altro artista.

Non ho seguito un regista in particolare, almeno non in modo conscio. Orson Welles una volta disse a Merv Griffin, durante il suo show, che gli piaceva molto II texano dagli occhi di ghiaccio perché gli ricordava un film di Hawks, e Welles ammirava Hawks. È bello

quando un regista di un’altra epoca guarda i tuoi film. E Welles sapeva veramente come ingannare l’occhio.

A partire da Bird, molti dei suoifilm sono diventati nettamente

più scuri rispetto a quelli di altri suoi colleghi. Come mai?

Molto dipende dalla natura della storia: Lettere da Iwo Jima, per

esempio, parla di uomini che vivono come animali in gallerie

sotterranee. Ma è anche il mio modo di vedere le cose... un modo noir, credo! Lavoro fianco a fianco con il direttore della fotografia e mi capita spesso di dire: «C’è troppa luce!» Voglio solo un abbozzo, non voglio che si veda tutto. Il pubblico deve costruire quello che vede. Ai vecchi tempi tenevano delle speciali lueine puntate sugli occhi degli attori, ma certe volte non vuoi vedere gli occhi. Sei tu che deri guardare dentro un film, non il film che deve guardare fuori verso di te: il pubblico deve spingersi dentro il film, deve farne parte. È come

con gli attori. Ho risto molti attori lanciarsi verso il pubblico, mentre altri li devi avvicinare tu, sei tu che devi andare verso di loro. Questo rende il film molto più riflessivo. Anche come attore si è sempre tenuto afreno, una caratteristica

che ha trasferito alla regia. Mi piace che il pubblico venga a fare un riaggio con me. Se non vuole, non mi interessa pregarlo di venire. Se non vogliono fare il viaggio che gli stai offrendo, possono andare nel multisala accanto e vedere cosa proiettano lì.

Alla fine del Texano dagli occhi di ghiaccio il mio personaggio se

ne va a cavallo verso l’alba. Il mio montatore avrebbe voluto sovrapporre l’immagine della famigliola che Josey aveva raccolto intorno a sé, in modo che il pubblico capisse che stava tornando da

loro. Ma io dissi no, no, non ce n’è bisogno. Dentro di sé il pubblico sa già che alla fine tornerà dalla nonna, la ragazza, l’indiano e gli altri; lo sa perché è quello che vuole che succeda. E se non lo è, non fa nessuna

differenza! Sono cresciuto con la radio, che uno ascolta solo, mentre si forma le immagini nella mente. Poi arrivarono le versioni tv delle serie che

da bambini avevamo solo sentito, ma le trasmissioni radio era sempre molto più interessanti perché con quelle potevamo farci dei film da soli. Cosa di cui tutti sono capaci. Non sembra che lei si senta imbrigliato nei vari generi. Non ha

paura di infrangere le regole, eppure non lo fa notare. Si sente diverso dalla maggior parte dei registi di oggi?

Non ci penso; odio guardare dentro di me, perché significa che non guardo fuori. Ma è vero che probabilmente sono più influenzato dalla tradizione passata, quando si facevano film più vari. Al giorno d’oggi molte decisioni sui film si basano su quello che c’è già in giro, sulla moda del momento.

Ho dovuto elemosinare la possibilità di fare Mystic River e Million

Dollar Baby. Ho portato Mystic River a gente che conoscevo, ma perfino la Warner Bros, mi ha detto: «È così cupo». Sono tornato con Million Dollar Baby. «Ma parla di una donna che vuole fare la pugilatrice! Non vorrà vederlo nessuno!» Allora ho provato con la

Universa! e loro hanno risposto: «Abbiamo già un film sulla boxe». Io

ho puntualizzato: «Non è un film sulla boxe, quella è solo l'ambientazione. C’è molto di più; è una storia d’amore tra un padre e una figlia». Poi è rispuntata la Warner Bros, che mi ha detto: «Non vogliamo che tu lo faccia con nessun altro, ma riesci a farlo con un budget davvero basso?» Ho risposto che non sarebbe costato molto e

che l’avrei fatto senza compenso, come per Brivido nella notte: mi avrebbero pagato una percentuale se avesse fatto incassi, altrimenti peggio per me. Lo stesso accordo di trentotto anni prima. Ad ogni modo, il film è partito piano, ma poi è andato molto bene, e quindi quella volta abbiamo avuto ragione noi. Avremmo anche potuto avere

torto, credo, ma almeno non avevamo fatto un film solo perché era di

moda o perché c’era un altro studio da qualche altra parte della città che faceva qualcosa di simile. Non dovrebbe essere importante. Bisognerebbe fare quello che si ha voglia di fare. Quando abbiamo

girato Gli spietati, i western non erano affatto di moda, ma io ho detto: «È una storia speciale, avrà un suo carattere». Devi portare avanti le cose in cui credi.

Diversi suoifilm hanno dei personaggi femminiliforti, da Brivido nella notte e Breezy a I ponti di Madison County e Changeling.

Girare I ponti di Madison County è stato molto divertente. Un’amica mi aveva chiesto di leggere il libro perché pensava che io somigliassi al personaggio principale; ma quando l’ho letto, l’ho

trovato molto sdolcinato. Allo stesso tempo però ho pensato che ci fosse anche qualcosa di interessante. Nei film strappalacrime di una

volta, come ad esempio quelli di Sink, c’era spesso qualcuno con qualche malattia o qualche problema grosso. Questo invece no. Per me parlava solo di una donna che conduceva una vita noiosa e che alla

fine riscopriva un po’ di emozioni. Il libro parlava più di lui, ma noi ci occupammo più di lei perché era lei quella posta di fronte al dilemma: lasciare la famiglia oppure no. Il pubblico è rimasto sorpreso quando ha fatto quelfilm, ma del

resto lei ci ha ripetutamente sorpresi nel corso degli anni, da Breezy in poi.

Beh, anche quando ho portato Brivido nella notte alla Universa! (ne avevano acquisito i diritti, ma lo tenevano lì su uno scaffale). Jennings Lang ha detto: «Chi diavolo vuole vedere Clint Easbvood nella parte di un dj?» E io ho risposto: «Può darsi che tu abbia

ragione, ma è un bel ruolo e c’è qualcosa di molto interessante riguardo la mentalità di uno stalker e il fraintendimento delle intenzioni dell’altro in un rapporto. Cosa volete che faccia? Altri dieci

western?» Se avessi continuato a fare i film con cui ero diventato

famoso, adesso non lavorerei più. Fare tre film di un certo tipo va bene; fanne sette e hai chiuso. Alla conferenza stampa di Cannes mi

hanno chiesto se avrei interpretato di nuovo Harry Callaghan. Ho risposto: «A settantasette anni? A un certo punto ti sbattono fuori dal dipartimento di polizia!» È stato divertente interpretare Harry e se

dicessi che ne voglio fare un altro, probabilmente la W;arner Bros, direbbe: «Ok, fallo! Ecco l’assegno». Ma io non voglio solo il compenso. Voglio fare qualcosa che sia adatto a me, non qualcosa di ridicolo.

Di recente ha fatto un sacco difilm. Sì, è vero, e non so neanche il motivo; forse è solo perché mi sono trovato in un periodo fortunato. Nel caso di Mystic River avevo letto

una delle prime recensioni del libro, così ho letto il romanzo e

l’abbiamo acquisito subito. Million Dollar Baby in realtà mi era stato proposto quattro anni prima, mentre ero impegnato con altro, quindi alla fin fine in qualche modo si è tutto incasellato. Lettere da Iwo

Jima può essere un altro esempio: stavamo preparando Flags of Our Fathers e, a un incontro con [i produttori] Rob Lorenz e Steven

Spielberg, mi è capitato di dire: «Sto pensando a quest’altra cosa, su

un generale giapponese...» Un’amica mi aveva inviato un libro su di

lui. Per ovvie ragioni, su Iwo Jima c’era veramente poco materiale giapponese. Ma siamo riusciti a ottenere quello che era disponibile e

io ho chiesto alla mia amica di scrivere la sceneggiatura. Lei ha studiato degli articoli scritti nel dopoguerra e ha messo insieme la

storia. Mi ha mandato la sceneggiatura mentre stavamo girando Flags in Islanda; quindi potevo lavorarci nel weekend e, mentre continuavamo le riprese, mi sono ritrovato con l’immagine completa

della storia dai due punti di vasta. Adesso praticamentefa solo quello che vuole. Ripensa mai a

quando faceva delle porticine alla Universal e alla RKO, domandandosi come ha fatto ad arrivarefin qui?

Eccome! Quando recitavo negli Uomini della prateria, pensavo: «Cosa succederà se questo sarà l’unico lavoro che mi daranno?» Il classico piagnisteo dell’attore: ogni lavoro è l’ultimo. Mettevo da parte buona parte dei soldi che mi davano per quella serie perché pensavo che probabilmente per un po’ non sarei più riuscito a lavorare. Ma ho

seguito 1’istinto e accettato Per un pugno di dollari e Leone perché mi

piacevano Kurosawa e La sfida del samurai. Quando sono tornato negli Stati Uniti, un regista si è ritirato da un progetto, ed è così che

ho conosciuto Don Siegei. Semplicemente da una cosa ne è derivata un’altra; non è che fosse stato tutto pianificato.

Rimpiange mai di non aver portato avanti la carriera politica?

Per niente. Probabilmente sarei morto tanto tempo fa. Ho sempre pensato che avrei fatto un solo mandato. Ero lì che mi bevevo un bicchiere divino con un gruppo di amici, ci domandavamo come arammo fatto a liberarci dell’amministrazione di Carmel: uno di loro

mi ha proposto dì candidarmi per un mandato. I seggi al Consiglio erano per quattro anni, mentre il mandato del sindaco ne durava due, così ho detto: «Il mandato del sindaco dura meno, potrei anche farlo». Ma contemporaneamente ho continuato le riprese di Bird e

Gunny, ho solo avuto un secondo lavoro per un paio di anni. Ha delle ambizioni non soddisfatte o dei rimpianti riguardo alla

sua carriera? Direi proprio di no, tranne che ho sempre amato la musica e vorrei essere stato più disciplinato da bambino e aver suonato di più. Ma le

circostanze non erano proprio le migliori in quel periodo, perciò lo faccio adesso. Compongo e suono per divertimento e mi piace.

Quando ero giovane avevo un certo talento: fino a che punto sarei arrivato, se lo avessi coltivato? Nathan Hale ha detto: «Mi dispiace di avere una vita sola da dare al mio paese». Beh, a me dispiace di avere una vita sola da dare a me

stesso! Ma è solo una fantasia, perché non riusciresti a fare tutte le altre cose senza impararle bene prima. Guardando al passato si può fantasticare: «Perbacco, se quando avevo sei anni... o venti, o una qualunque età... avessi saputo quello che so adesso!» Ma in realtà tu

sai solo quello che sai in un particolare momento, impari e cambi continuamente. Ed è un bene, è quello che ti spinge ad andare avanti.

Se pensi di non aver più niente da assorbire, la tua mente entra in uno stato di senilità. Prendiamo il caso di Manoel de Oliveira; ha

cent’anni, ma è come se ne avesse sessanta. Che corredo genetico deve avere? Quando l’ho incontrato in occasione del tributo in suo onore, avevo voglia di chiedergli: «Ma qual è la sua dieta, signore? Che marca di whisky beve?» Changeling Man

In Changeling Clint Eastwood crede di aver trovato una delle storie più scioccanti di brutalità e corruzione in America, come racconta a

GeoffAndrew. Brian Grazer mi ha portato il progetto; l'ho letto senza nemmeno sapere che fosse una storia vera e l’ho trovato affascinante. Quando ho saputo che era successo tutto realmente, ho chiamato J. Michael

Straczynski, lo scrittore, per chiedergli fino a che punto la storia fosse vera e fino a che punto fosse frutto della sua immaginazione. Mi ha

risposto che era tutto vero. Perciò Robert Lorenz, il mio produttore, ha recuperato l’L.4 Times e vari altri giornali dell’epoca e ci siamo resi

conto che molte dichiarazioni del capo della polizia, dei medici, del

consiglio comunale riportate nella sceneggiatura corrispondevano a quelle realmente rilasciate. Se al giorno d’oggi un capo della polizia dicesse: «Spazzeremo via i criminali dalle strade, gli spareremo a vista», noi penseremmo: «Pazzesco!» Eppure è esattamente quello

che ha detto quel tizio! In quel periodo vivevo proprio a Los Angeles; i miei genitori vi si erano trasferiti nel 1934, quando io avevo quattro anni. Mio padre lavorava in una stazione di servizio all’incrocio tra la Highway 101 e

Sunset Boulevard. Vivevamo in una casetta bassa con nient’altro intorno, a parte altre casette basse. In quel periodo non c’era granché a Pacific Palisades, mentre adesso hanno costruito di tutto. Abbiamo fatto grande attenzione a riprodurre la città esattamente com’era a quel tempo; c’erano molte fotografie. Il centro di Los

Angeles era molto più trafficato e il municipio, che compare nel film, in quel periodo era l’unico edificio veramente alto. Adesso il centro è

sommerso dai grattacieli, se ne pentiranno se arriverà un terremoto. Hollywood, Beverly Hills e Pasadena a quel tempo sembravano vere e

proprie periferie, ma la rete dei tram rossi era molto efficiente. Quei tram arrivavano fino a Pasadena e Santa Monica e attraversavano

tutta una serie di zone. La rete era ancora in funzione quando sono tornato a Los Angeles, nel 1953, per frequentare il City College dopo il servizio militare, ma poi qualcuno ha avuto la brillante idea di

eliminarla e di sostituirla con dei bus diesel: proprio ciò di cui la città non aveva bisogno! Ancora più smog! Perciò abbiamo dovuto ricreare la rete dei tram rossi. Per fortuna alcuni nostalgici ne avevano conservati degli esemplari e li avevano restaurati.

Los Angeles è sempre stata immaginata come il paradiso del glamour. Abbiamo inserito questa dimensione nella nostra storia, con un bambino che voleva andare a Hollywood. Ha letto 0 sentito qualcosa alla radio e pensa di poterci andare e magari incontrare Tom

Mix per strada! Questa ingenuità sembra così bizzarra oggi, specialmente in rapporto alla corruzione, di cui parla anche il nostro film. E come se laggiù la corruzione fosse nell’aria. Los Angeles ha

passato diversi periodi di grande corruzione e, per raddrizzare la situazione, è dovuto intervenire qualcuno dal di fuori.

Ho già parlato di crimini contro i bambini, e non inconsciamente:

per me questi sono i reati più orribili... rubare rite umane, rubare l’innocenza. Ma quando abbiamo trattato quello che succedeva nel ranch, non ho voluto essere troppo esplicito e quindi abbiamo usato

delle ombre. Non volevo che fosse un film horror... quelle scene

rappresentano l’impatto di quei crimini su un bambino che racconta a un detective una storia incredibile.

Anche adesso ci vuole circa un’ora per andare da Los Angeles al posto dove sorgeva il ranch, perciò immaginiamo come doveva essere

arrivarci attraverso strade sterrate. Ci siamo andati anche noi. Adesso la casa si trova in un quartiere urbanizzato e per molti aspetti è

rimasta com’era. Non abbiamo risto nessuno in giro, ma anche se

avessimo incontrato qualcuno, non avremmo potuto chiedergli se era a conoscenza di quello che era successo, perché arammo rischiato di

rovinargli la vita! Abbiamo esaminato le foto d’archivio dei due ragazzi coinvolti

nella vicenda e Arthur, che secondo la polizia doveva essere Walter, il figlio di Christine, non gli somigliava affatto. Non so come ci fossero

riusciti, ma per un lungo periodo si erano dati un gran da fare per convincerla che aveva delle allucinazioni! C'è una foto di Arthur in

braccio a Christine; si sorrìdono e sembra che stiano molto bene insieme. Evidentemente la polizia li aveva fatti fotografare in uno studio di posa. Fecero davvero di tutto per convincerla del ritorno di

Walter, ma lei sentiva che c’era qualcosa di falso e finì per negare che quello fosse veramente suo figlio. La cosa affascinante però è che lei si lasciò convincere a portarsi a casa il bambino!

Per montare la storia, la polizia chiese l’aiuto della stampa. Eravamo molto lontani dall’era digitale di adesso, ma c’erano il Los

Angeles Times, ì’Herald, l’Examiner e i giornali delle città più piccole, come il Citizen News di Hollywood. Adesso è una città con un solo giornale, naturalmente, e ci si può chiedere come si potrebbe

manipolare la storia al giorno d’oggi. Ci sarebbero occhi molto più attenti, quindi forse sarebbe più difficile. Ma anche oggi succedono cose stupefacenti. La mente umana ha un’enorme creatività, ma molti la usano in maniera sbagliata, per capire come manipolarci. Viene da chiedersi come dei politici come Eliot Spitzer a New York abbiano solo

pensato di fare tutto quello che hanno fatto senza che nessuno se ne accorgesse. E di solito sono quelli sempre pronti a dipingersi migliori

di noi... che ipocrisia! (Intervista pubblicata su Sight & Sound, voi. 18, n. 9, settembre

2008, pp. 17,21-22. Ripubblicata su autorizzazione del British Film Institute.)

TI CONVIENE RISCHIARE, MONK? DI NICK TOSCHES (2008)

È uno degli aspetti curiosi della natura umana. Indipendentemente da

quello che riusciamo a ottenere in questo mondo, indipendentemente

da quello che la vita ci regala, abbiamo sempre qualche rimpianto, un senso di fallimento.

«Se ho un rimpianto nella vita, è non averlo studiato abbastanza e non essermi esercitato, esercitato, esercitato». A parlare è Clint Eastwood, a proposito del pianoforte. Perini, prima che ci fossero i film, c’era il piano. Nasce a San Francisco nel 1930. Suo padre lavora in un’acciaieria e

sua madre in fabbrica. Però hanno un piano. «Ho cominciato a suonare in casa, quando ero ancora un bambino

piccolo. Mia madre lo strimpellava. Era in grado di leggere la musica. Quindi imparavo qualcosina qua e là. E poi ho cominciato a imitare i

dischi, perché lei non sapeva suonare bene il jazz o il blues. Dunque

ho iniziato a interessarmi ai musicisti bravi in quel campo, e una cosa tira l’altra». I musicisti che lo colpiscono a quel tempo sono «Fats Waller, Art Tatum e quelli come loro. E poi molti pianisti blues che arrivarono più

tardi. Ascoltavo anche dei pianisti Dixieland. Sa, James P. Johnson,

quelli che suonavano in quel periodo. E poi ascoltavo molto i pianisti

di boogie-woogie degli anni Trenta e Quaranta. Meade Lux Lewis, Albert Ammons, Pete Johnson, gente così. Poi arrivò Oscar Peterson. Era ancora un bambino, o forse un ragazzo molto giovane, che aveva

cominciato a suonare di nascosto. Negli anni Trenta e Quaranta

George Shearing e Oscar Peterson diventarono molto famosi e tutti cercavano di imitarli». È solo nel 1955 che Clint fa la sua prima comparsa (non

accreditata) in un film, impersonando un tecnico di laboratorio nella

Vendetta del mostro. Ma negli anni precedenti e successivi a quell’esordio infausto, non pensa mai di suonare il piano per guadagnarsi da vivere, anche se probabilmente avrebbe potuto essere altrettanto bravo con il piano su un palcoscenico o in un piano-bar

quanto lo è stato sul set nel camice da laboratorio. «No, non ci ho mai pensato. Sa, quando ero molto giovane avevo

un po’ di talento, ma mi mancava la disciplina. Non ho mai preso

lezioni di piano né di nient’altro. Eravamo in ristrettezze, perciò la maggior parte dei soldi che prendevo portando le mazze da golf o imbustando la spesa me la tenevo per andare al cinema ogni tanto o

cose così». Al momento del debutto di Clint sullo schermo, la prima ondata di rock’n’roll è già arrivata e pare non avere alcuna intenzione di passare. Clint, che è appassionato di Robert Johnson e di altri

bluesman del passato, si appassiona anche alle nuove sonorità. «Seguivo il rhythm and blues. Mi piace il rhythm and blues, quando è fatto bene. Joe Hunter e Lowell Fulson. Joe Turner, e

Wynonie Harris. Ma non mi sono mai veramente innamorato del rock’n’roll, a quanto pare». «Parla della fine degli anni Cinquanta, della musica dei bianchi?»

«Sì, la musica bianca: mai. Era una specie di furto della musica nera, che aveva più il sapore delle origini». Il suo amore per il flusso e lo scorrere di questa musica si evince

anche in «Piano Blues», l’episodio che Clint dirige per The Blues, la serie PBS di Martin Scorsese del 2003. Qui i maestri del pianoforte coprono gli anni dal boogie-woogie al rhythm and blues, da Jimmy

Yancey, nato a Chicago alla fine del diciannovesimo secolo, a Fats Domino, nato a New Orleans all’inizio del ventesimo.

Il tecnico di laboratorio non accreditato della Vendetta del mostro

compare, svanisce e torna nei panni dell’uomo senza nome, diventando infine un regista dal potere assoluto. Uno degli esempi più affascinanti dell’autonomia di Clint è Honkytonk Man, del 1982, che

lo vede regista e protagonista allo stesso tempo e che trae lo spunto da certi aspetti della vita di cantanti country’ classici come Jimmie Rodgers e Hank Williams. È stata una delle sue imprese più

coraggiose, come il recente film Lettere da Two Jima, una scommessa

voluta contro ogni probabilità di riuscita commerciale; una di quelle sue imprese che hanno definito la sua carriera tanto quanto il suo perpetuo successo. Sei anni dopo Honkytonk Man, Clint si interessa nuovamente alla

musica e ai musicisti, quando dirige Forest Whitaker nei panni del profeta del jazz Charlie Parker in Bird. Per prepararsi a girare quel film, nel 1979 ha guardato un documentario intitolato The Last of the

Blue Devils. Era una celebrazione e una reunion di Count Basie, Big Joe Turner, e molti altri personaggi dell’età d’oro, quando il jazz aveva sposato il rhythm and blues, ed era stato girato con filmati di archivio

su Charlie Parker e altri. Come quasi tutti quelli che hanno visto The Last of the Blue Devils, Clint se ne innamora. Scopre che il regista, Bruce Ricker, in quel momento sta producendo un documentario sul

pianista jazz Thelonious Monk, diretto da Charlotte Zwerin, e che ha finito i soldi. «Beh, Monk mi è sempre piaciuto», mi spiega Clint. «È comparso sulla scena e diventato famoso quando avevo dodici o tredici anni.

Nessuno riusciva nemmeno a capire cosa stesse facendo, ma tutti lo trovavano interessante. Thelonious Monk, Bud Powell, Lennie

Tristano e gli altri suonavano tutti in quel periodo. Suonavano in un sacco di posti. Quando erano in tour, li potevi andare a sentire praticamente dappertutto».

Nell’estate del 1987 Clint finanzia Thelonious Monk: Straight, No

Chaser di Ricker, poi completato nel 1988, lo stesso anno in cui Clint finisce Bird. È l’inizio di un lungo sodalizio tra Clint e Ricker, che porterà a collaborazioni per documentari quali Clint Eastwood: Out of the Shadows e Tony Bennett: The Music Never Ends. La migliore tra queste collaborazioni è Eastwood After Hours: Live at Carnegie

Hall.

Come ricorda lui stesso, Clint non si è esercitato, esercitato, esercitato. Tuttavia riesce comunque a salire sul palco della Carnegie Hall, grazie a Ricker, una sera d’autunno del 1996. Quella sera va in scena uno dei raduni più interessanti della musica moderna, da Jay

McShann a Thelonious Monk Jr., a Phil Ramone e a Joshua Redman;

lo show si chiude con lo stesso Clint al piano. Gli dico che sembrava che si divertisse un sacco. «Certo che mi divertivo. Avevo ripreso un motivo che avevo suonato durante un’assemblea quando facevo le superiori, "After Hours’ di Avery Parrish, e avevo detto a Jay McShann: “Senti, non so

quanto ricordo di questa roba, perciò devi farmi un favore. Fammi fare un paio di strofe e poi attacca tu. Ti faccio un segno quando mi

trovo a corto di idee”. E lui: “Nessun problema”.

«All’improvviso siamo lì che suoniamo, io vado avanti e alla fine mi rendo conto che forse mi sono dilungato più del dovuto. Cerco Jay

con lo sguardo, ma lui è nel backstage a chiacchierare. Non mi guarda

neanche. Gesticolo come un pazzo, ma lui non esce. Alla fine, dopo un bel po’, gli ho chiesto “Jay, ma dove diavolo ti eri cacciato?” E lui: “Beh, sembrava che te la cavassi proprio bene. Ho pensato che potevo

lasciarti continuare a suonare”».

Attualmente Clint e Ricker stanno lavorando a un documentario su Dave Brubeck, che Clint aveva ascoltato la prima volta al Burma Lounge di Oakland negli anni Quaranta, in un trio che comprendeva

anche il percussionista Cai Tjader e il Lassista Ron Crotty. Non sorprende che Clint ascolti musica ogni giorno. «L’ascolto in macchina, andando e tornando dal lavoro; certe volte metto della

musica che voglio utilizzare nel film a cui sto lavorando. Oppure mi viene l’ispirazione, mi siedo e invento qualcosa che poi inserisco nel

film come base provvisoria pei' la colonna sonora». Il tema degli Spietati è nato così. Anzi, sono nati così i temi della maggior parte dei suoi film degli ultimi anni, facendo avanti e indietro

dalle location. Da venticinque anni lavora alle musiche e colonne

sonore dei suoi film fianco a fianco con Lennie Niehaus, sassofonista, arrangiatore e compositore; Clint stesso contribuisce alla produzione di questi temi fin dall’inizio degli anni Ottanta, quando ne scrisse uno

per la figlia Alison che interpretava sua figlia in Corda tesa. Seguirono

i temi per Un mondo perfetto e I ponti di Madison County negli anni Novanta. Da allora Eastwood ha scritto pezzi musicali per quasi tutti i suoi film, tra cui la colonna sonora del recente Changeling e il tema del successivo Gran Torino, entrambi candidati ai Golden Globe. Clint si sente affine anche ad altri compositori classici: Brahms,

Wagner, Beethoven, specialmente la terza e la nona sinfonia, e poi

Chopin. «Molti dei pezzi che scrivo richiamano un po’ Chopin. Penso che sia uno dei compositori che mi influenza di più». Quando è in viaggio, spesso porta con sé un piano elettrico. «Altre volte mi faccio mettere un piano in camera. Sì, mi piace averne uno in

camera». Lui stesso possiede due pianoforti, un Bluthner a Los Angeles e un vecchio Chickering a Carmel. Ha scoperto per caso che i Chickering erano i preferiti di Thelonious Monk.

«Una sera l’ha suonato Diana Krall. Era venuta a trovarmi e si è messa a suonarlo, e a un certo punto ha raccontato che quello era lo

strumento preferito di Monk. Il piano che ho io è molto vecchio e

richiede molta cura».

Sembra che stia tentando sempre di più di compensare l’esercizio che non ha fatto da bambino. «Di solito suono tutti i giorni, e tutti i giorni scrivo qualcosa. Non

suono per esibirmi, anche se penso che qualcosa da mettere insieme

ce l’avrei se proprio dovessi. Lo faccio per me stesso e anche per trovare del materiale. Adesso sto lavorando a una cosa e non so

quando la userò, ma intanto ci sto lavorando». (Intervista pubblicata online come «Esclusiva web», Vanity Fair, 12

dicembre 2008. Ripubblicata su autorizzazione dell'autore.)

CUNT EASTWOOD, IL REGISTA D’AMERICA SUI

SENTIERI SELVAGGI DI SCOTT FOUNDAS (2008)

«Ha fatto il primo film della generazione Obama!», ha esclamato un membro del pubblico precipitandosi verso Clint Eastwood dopo una

recente proiezione di Gran Torino. «Beh», ha risposto il settantottenne attore-regista, senza scomporsi, «in realtà io sono nato sotto la presidenza Hoover». Una contrapposizione ironica, dato che il

personaggio di Eastwood in Gran Torino. Walt Kowalski, un vedovo

veterano della guerra di Corea ed ex operaio di una fabbrica automobilistica di Detroit, è stato paragonato ad Archie Bunker,' ' sia per gli epiteti razziali politicamente scorretti sia per la sua generica

ostilità nei confronti del mondo moderno che sembra averlo abbandonato insieme ai valori dell’America di una volta. «Ci farebbe comodo riavere uno come Herbert Hoover», canta Bunker all’inizio di

ogni episodio di Arcibaldo. Ma è il cambiamento, non la nostalgia, che dà il tono a Gran Torino, mentre il bellicoso Walt prima si avventura oltre il confine della proprietà e poi entra nella vita della famiglia di

migranti Hmong della porta accanto. Il film, mi racconta Eastwood dopo la proiezione di Gran Torino,

era in linea con la sua personale filosofia «non smettere mai di imparare. Se non smetti mai di imparare, non smetti nemmeno di crescere come persona, non smetti mai di assorbire nuove informazioni e di cambiare. La gente mi chiede: “Sei cambiato?”, e io

rispondo: “Spero proprio di sì”, perché si suppone che nel corso di dieci, venti, trenta, quaranta anni si cambi sempre. Bisogna

espandersi».

Detto questo, Gran Torino è tutt’altro che una di quelle lezioni di

tolleranza verso tutti che i registi americani ben intenzionati ma ingenui tendono a sfornare almeno un paio di volte a stagione, come quelle su un improbabile gruppo di sconosciuti di etnie diverse che fa

un viaggio nel Grand Canyon, o su un impettito economista newyorkese che torna alle origini e si mette a suonare il tamburo

africano. Eastwood non farebbe mai un film così didascalico sulla nostra identità culturale in evoluzione, così come non affronterebbe direttamente gli effetti della chiusura delle fabbrica in quelle che un

tempo erano le capitali operaie, come Detroit, anche se questa è

comunque una parte fondamentale di Gran Torino. Come ha sottolineato di recente Manohla Dargis sulNem York Times: «Ormai pochi americani fanno film sul nostro paese a parte il signor

Eastwood». Ma anche se l’America è indiscutibilmente l’argomento

principe dei film di Eastwood, così come lo era per il suo mentore

spirituale, John Ford, è raro che il regista affronti di petto una questione americana, che sia sociale, economica o di altra natura. «Cerco di mostrarne gli effetti in modo indiretto, piuttosto che dire: “Ok, siamo qui nella fabbrica che sta per chiudere», spiega

Eastwood. «Le storie ovvie, alla Norma Rae, sono ostacoli piazzati di fronte a noi. Ma secondo me sono gli ostacoli che hai dentro quelli che devi affrontare per rendere i personaggi interessanti». Intervistare Eastwood è come fare un corso accelerato sulle

manovre segrete e sulle tattiche di retroguardia. Se gli si fa una domanda diretta su un tema apparentemente ricorrente nel suo lavoro, come ad esempio i numerosi suoi film sul conflitto tra

moralità personale e sociale, al massimo si ottiene un riluttante

«Immagino di esserne attratto».

Dopo aver diretto ventinove lungometraggi e aver recitato in almeno il doppio, Eastwood sostiene che non ci sia uno schema generale nel suo modo di lavorare, se non semplicemente leggere una

sceneggiatura e decidere: «Okay, è adatta a quello che voglio fare adesso. Voglio andare a fare visita a questo personaggio, vedere come vive». Eastwood ammette però che spesso questi personaggi che sceglie

di andare a trovare sono figure tormentate con un passato oscuro e

persino pericoloso, uomini che hanno fatto o visto fare cose che nessuno dovrebbe fare o vedere. Paragona Walt Kowalski, traumatizzato dalle atrocità commesse mezzo secolo prima in Corea, a Sanford Clark, il nipote adolescente e complice inconsapevole del serial killer Gordon Northcott, i cui omicidi multipli negli anni Venti

hanno ispirato l’altro film di Eastwood uscito nel 2008, Changeling. «Ho visto una foto della sua tomba (è morto a novantadue anni),

la lapide dice: Un padre e un nonno amorevole», racconta Eastwood. «E tu ti chiedi come diavolo ha fatto questo tizio a diventare un padre e un nonno amorevole? Come ha fatto a seppellire tutta quella roba? È

una storia di per sé, come dev’essere stato tornare alla sua vita dopo aver collaborato all’omicidio di vari bambini. Ti chiedi: “Cristo,

cos’altro potrebbe perseguitare una persona più di questo?”»

Tutti noi, aggiunge Eastwood, «siamo costretti a vedere un sacco di cose orribili nella vita e dobbiamo affrontarle e seppellirle. A volte qualcuno ci aiuta, altre no. I soldati di Flags of Our Fathers: non so

cos’abbiano fatto. Si sono semplicemente sentiti dire: “Ok, siete

congedati. La guerra è finita. Andata a casa. Superate la cosa. Dimenticatevene”». Perciò, anche se è contento dalla reazione dei fan che non vedono

l’ora che esca Gran Torino fin da quando la locandina, con un Clint

dall’aria vendicativa che imbraccia un M-i, ha cominciato a circolare

un paio di mesi fa, Eastwood spera che gli spettatori attratti dalla promessa del ritorno di un vigilantismo in stile Harry Callaghan capiscano che nel film c’è molto più di quello che appare a prima vista. «Chissà se quelle persone resteranno deluse, quelle che vogliono solo la roba tosta, il fucile puntato in faccia, le armi e cose del

genere», si chiede. «Spero che sia quello per cui la gente va al cinema, non quello che si porta a casa dopo la visione. Spero che capisca anche il senso più profondo». È quel senso più profondo che ha dominato la seconda metà della

carriera registica di Eastwood, in cui raramente le scene di violenza compaiono solo come stimolo superficiale o emozione viscerale. Eastwood cita la scena degli Spietati, premiato con l’Oscar, in cui il

pistolero in pensione William Munny (interpretato dallo stesso Eastwood) e l’ex socio Ned (Morgan Freeman) sparano a un giovane con una taglia sulla testa che ha aggredito una prostituta di una

cittadina di frontiera. «Dopo c’è un momento da “Cristo, non voglio

farlo mai più”», spiega Eastwood. «Ha fatto voto di restare lontano da quella vita, eppure eccolo lì, solo perché hanno deciso di guadagnare qualche soldo con la taglia; i due razionalizzano la cosa dicendo: “Se lo meritava”. È la vita».

Come esempio della vita reale, Eastwood cita il recente episodio in

cui un dipendente di un Walmart di Long Island è morto calpestato da

diverse centinaia di clienti esagitati per i saldi del Black Friday. «Quella gente probabilmente direbbe: “Beh, non doveva mettersi sulla nostra traiettoria”, oppure: “La folla si stava muovendo e io dovevo seguirla”. Le persone riescono a razionalizzare più 0 meno qualsiasi

cosa, ma quando li guardi da vicino, il loro comportamento è rivoltante». In una delle sequenze più memorabili di Gran Torino, Kowalski dà consigli su «come essere un vero uomo» al timido teenager Hmong (l’esordiente Bee Vang), vittima di una gang di bulli. È un tema molto appropriato, perché nei quarant’anni trascorsi dalla prima volta in cui

ha indossato il poncho da deserto dell’Uomo senza nome, per diverse generazioni di appassionati di cinema Eastwood ha rappresentato il

vero uomo, il macho impermeabile a tutto, con gli occhi stretti e la

voce bassa; persino oggi, nonostante la cultura giovanile sia estremamente volubile, lo si vede sulle copertine delle riviste maschili di lifestyle come Esquire. È uno status che Eastwood, come lo stesso Gran Torino, abbraccia e deride delicatamente allo stesso tempo,

perfettamente consapevole deH’anacronisnio dell’essere un «vero uomo» nella nostra società apparentemente gender neutral.

«L’idea che gli uomini e le donne siano uguali è una follia, perché non lo sono», dice Eastwood con una risatina. «Sono uguali per la

legge e anche in un sacco di altri modi, o meglio, le donne sono superiori per molti aspetti e gli uomini lo sono per altri. Più ce ne rendiamo conto, più possiamo sfruttare le superiorità di ciascun

sesso. Ma essere un uomo oggi è strano, specialmente un uomo bianco. Chi sono i più stronzi? Gli uomini bianchi. Puoi attaccarli

senza ferire i sentimenti di nessuno, sono i buffoni della società di oggi. Ma io penso sempre: “Che diavolo, possono sopportarlo"».

E come c’era da aspettarsi, Eastwood, che ha vinto quattro Oscar

ed è ben oltre l’età a cui quasi tutti i grandi attori e registi vanno in pensione, non ha intenzione di andarsene da nessuna parte. In

primavera avvierà la produzione sudafricana di The Human Factor,

un dramma sportivo ambientato durante il primo anno della presidenza di Nelson Mandela; l’amato leader sarà interpretato da Morgan Freeman, amico di lunga data di Eastwood. «Il film inizia quando Mandela è appena stato eletto presidente e racconta la storia di come ha unito la nazione», spiega Eastwood. «Il paese all’epoca era completamente allo sbando. I vari gruppi si facevano la guerra fra loro. Mandela si era preso a cuore una pessima

squadra di rugbj’ composta di bianchi. I neri non riuscivano a capire

che diavolo avesse in mente. Ma lui li ha motivati a vincere il mondiale, e loro ci sono riusciti. È una sorta di favola, ma è uno di

quei casi in cui la verità è più incredibile della finzione. E in un certo senso mostra quanto era brillante Mandela. Sapeva che, se fosse

riuscito nell’impresa, bianchi e neri si sarebbero uniti sull’onda di un

entusiasmo sincero». E questo sembra proprio il secondo film della generazione Obama. (Intervista pubblicata su L.A. Weekly, xS dicembre 2008. Ripubblicata su autorizzazione delULA. Weekly e dell’autore.)

13. Il protagonista della serie N Arcibaldo. [nd.t.j 14. Titolo provvisorio di Invictus - L'invincibile. [n.d.t.J

EASTWOOD SUL CAMPO: A SETTANTANOVE ANNI, CUNT AFFRONTA MANDELA IN INVICTUS - L’INVINCIBILE DI SCOTT FOUNDAS

(2009)

In una tarda mattinata di marzo, il sole, altissimo nel cielo di Città del Capo, illumina in lontananza il monolito trapezoidale della Table Mountain, mentre sul lungomare trafficato della città i giocatori della

squadra nazionale di rugby del Sudafrica, gli Springbok, stanno

facendo una corsa di allenamento. Solo un osservatore attento potrebbe accorgersi che in quella particolare mattinata le divise verde-oro della squadra non sono del modello più recente e che nessuna delle macchine che passano sul riale del lungomare è posteriore al 1995. Guardando meglio, si potrebbe notare una figura

familiare, anche se fuori posto, che se ne sta da una parte, alta e snella in pantaloni di cotone e maglietta da golf, a osservare la scena su un

piccolo monitor portatile. Un attimo dopo la figura alza gli occhi e segnala la sua approvazione in modo quasi impercettibile, non con il tradizionale «Stop! Buona!» ma piuttosto con un piccolo cenno della testa e una frase sussurrata: «Andava bene. Passiamo alla prossima». È il ventiquattresimo giorno di riprese di Invictus — L’invincibile, il trentesimo film diretto da Clint Eastwood in una carriera che ormai

supera il mezzo secolo; com’è normale su un set di Eastwood, se uno non fosse al corrente che si sta girando un importante film di Hollywood, non si accorgerebbe di nulla. Non ci sono roulotte né camion pieni di macchinari lungo la strada; sono parcheggiati in un

«campo base» ad alcuni chilometri di distanza; quando comincia a formarsi una piccola folla di curiosi. Eastwood ha ormai ottenuto

quello che voleva e si sta spostando nella location successiva. Parlando della leggendaria velocità e della sua storica efficienza - la disciplina di un attore consumato che sa che le lunghe attese sfiniscono gli attori - Eastwood dice che si tratta solo di fidarsi del

proprio istinto. «Se in un test a risposta multipla puoi scegliere tra

cinque risposte, di solito la risposta giusta è la prima che scegli», mi

dice durante una pausa delle riprese. Più tardi, Matt Damon, con naso finto, molti più muscoli del solito e un azzeccatissimo accento afrikaner per interpretare Francois Pienaar, il capitano degli Springbok, dice che lavorare con Eastwood è «il massimo in ogni

campo». Poi scherza dicendo che si diverte così tanto che si sentirà in colpa quando incasserà l’assegno.

«Mi aspetto una percentuale», brontola bonariamente Eastwood

dalla sedia del regista. Il ritmo a cui Eastwood si muove in un film è lo stesso con cui affronta la vita stessa, come se avesse sempre presente il vecchio adagio secondo cui l'ozio è il padre di tutti i rizi. Nel gennaio di

quest’anno, alla vigilia del settantanovesimo compleanno e meno di

due mesi prima di cominciare le riprese di Invictus - L'invincibile, si dava da fare a promuovere Gran Torino, diventato poi il film con maggiori incassi di tutta la sua carriera di attore o regista. Questa primavera, quando sono venuto in Sudafrica, Eastwood era in

anticipo di diversi giorni sulla tabella di marcia di Invictus L’invincibile. All’inizio dell’autunno, prima che finisse la postproduzione di Invictus - L’invincibile, stava già girando un nuovo

film a Parigi e Londra. Stare dietro a Clint Eastwood, scopro, può essere un lavoro spossante per chiunque, tranne che per lo stesso

Eastwood. Basato su un interessantissimo saggio del giornalista John Carlin, Ama il tuo nemico. Nelson Mandela e la partita di rugby che ha fatto

nascere una nazione, il film di Eastwood ci riporta in un momento del

passato recente del Sudafrica, quando il paese muoveva i primi passi come nazione libera dopo quarantasei anni di apartheid e di segregazionismo. Fu un momento festeggiato in tutto il mondo e

simboleggiato, nel 1994, dall’elezione di Mandela (che in Invictus -

L’invincibile è impersonato da Morgan Freeman), primo presidente liberamente eletto della nazione. Tuttavia all’interno del paese c’era ancora molto da fare. Come racconta Carlin nel suo resoconto denso e accurato, l’elezione di Mandela costituì il culmine di una serie di

trattative segrete, durate un decennio, tra il futuro presidente, il Partito Nazionale di F.W, de Klerk, allora al governo, e i leader dell’African National Congress, espressione della popolazione nera,

per porre fine all'apartheid e impedire lo scoppio di una guerra civile tra gruppi estremisti da entrambe le parti dello spettro politico.

Tuttavia, quando Mandela entrò in carica, c’erano ancora dei membri

della classe dominante precedente che lo sospettavano di essere un «terrorista» intenzionato a «buttare a mare l’uomo bianco». Viceversa, alcuni sostenitori di Mandela avrebbero voluto che facesse esattamente quello. «Non rivolgeteri alla loro mente, ma al loro cuore» era il credo

personale di Mandela quando doveva trattare con i suoi carcerieri o

con i suoi oppositori politici. Negli anni Ottanta, mentre era detenuto nel carcere Pollsmoor, Mandela aveva imparato tutto il possibile sul rugby, il passatempo preferito dagli afrikaner, per esercitare il proprio

charme collaudato nei confronti di una guardia carceraria anziana, e rimediare un tanto agognato fornello all’interno della cella. Dando sfoggio della sua prodigiosa preveggenza e della conoscenza della natura umana che hanno sempre definito la sua carriera politica, Mandela si affidava di nuovo alla religione laica dello sport per unificare la nascente «Nazione Arcobaleno». La coppa del mondo di

rugby si sarebbe tenuta in Sudafrica da lì a poco più di un anno e Mandela si era convinto che gli Springbok, che erano stati messi al

bando dai tornei intemazionali durante l’apartheid, avrebbero potuto vincere il mondiale e, insieme a quello, conquistare i cuori e le menti

del paese. Il risultato fu un’intersezione tra atletica e politica tanto

emozionante quanto le gare di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936, 0 la sconfitta della squadra di hockey degli Stati Uniti da parte della Russia nel cosiddetto «Miracolo sul ghiaccio» del 1980. «Aveva un vero e proprio istinto... come se qualcuno gli toccasse la

spalla e gli dicesse “Funzionerà”», dice Eastwood, con la riverenza che

traspare dalla voce di tutti quando nominano Mandela. «Come abbia fatto a inventarsi una cosa del genere, non lo so proprio».

Vista dalla costa di Città del Capo, Robben Island si potrebbe

confondere con una riserva naturale (e, a dire il vero, ospita diversi pinguini, conigli e gatti selvatici autoctoni) oppure un centro turistico

particolarmente spartano. Tuttavia, man mano che ti avvicini, percepisci qualcosa di minaccioso nell’ex colonia per lebbrosi e nelle rocce frastagliate di arenaria che la circondano formando una barriera

naturale.

Il giorno successivo alla mia prima visita sul set di Invictus L’invincibile, il traghetto per turisti che trasporta Eastwood e tutta la

troupe dalla terraferma è dipinto con figure umane a colori vivaci che alzano la mano in un gesto di libertà, ma la ventina di comparse sedute vicino a loro, già vestite con la divisa color kaki della prigione di Robben Island nel periodo dell’apartheid, offrono un’immagine

vivida dei «nemici dello stato» che fecero questo stesso riaggio nella stiva della nave, con gli oblò oscurati che li nascondevano alla rista.

La struttura sull’isola non è più usata come carcere, ma è conservata come museo storico con personale formato perlopiù da ex detenuti, e una piccola scuola elementare che mostra l’unica prova di una popolazione locale in calo; Robben Island trasuda l’aria spettrale di un campo di battaglia di una guerra civile o di un campo di concentramento nazista, un monumento alla disumanità. È qui, in

una delle lunghe baracche che punteggiano l’arido paesaggio, che il

prigioniero numero 46664, altrimenti noto come Nelson Mandela, ha passato i due terzi dei suoi ventisette anni di carcere. La prima giornata di riprese riproduce una visita alla prigione che

gli Springbok fecero realmente nel maggio del 1995, il giorno dopo aver sconfitto i campioni uscenti dell’Australia nella prima partita della coppa del mondo. Gli attori entrano in fila indiana; quasi tutti,

esclusi Damon e il figlio ventitreenne di Eastwood, Scott (che

interpreta il mediano di apertura Joel Stransky), sono veri giocatori di rugby ingaggiati in loco, ma non è necessario recitare per esprimere lo

stupore per ciò che si vede. Le celle spartane in cui erano reclusi Mandela e i suoi compagni di prigionia misurano circa quattro metri quadrati, appena sufficienti perché un uomo della stazza di Mandela

(era alto più di un metro e ottanta) potesse allargare le braccia. La cella di Mandela, che è stata mantenuta nelle condizioni originarie, contiene solo un tavolino, alcune ciotole di metallo, un secchio per i

bisogni e una coperta ripiegata. (I Ietti furono introdotti solo nel 1974, dieci anni dopo la sua incarcerazione.) Fuori, nel cortile della prigione, Eastwood, il direttore della fotografia Tom Stern (che ha ricevuto una nomination all’Oscar per Changeling nel 2007) e il supervisore agli effetti speciali Michael

Owens stanno in piedi in semicerchio a discutere diversi approcci per la scena in cui Pienaar vede l’immagine trasparente, quasi spettrale di

Mandela, seduto da solo nella sua cella, a leggere il poema di William Ernest Henley che alla fine darà il titolo al film (il quale, per il

momento, si chiama ancora Untitled Mandela Project). Nel frattempo, lo scenografo James J. Murakami (ugualmente candidato

agli Oscar per Changeling) sta preparando il cortile di sabbia e calcare della prigione per un flashback in cui Mandela e altri prigionieri sono

seduti a lavorare le rocce grandi per ricavarne di più piccole, il tormento di molti prigionieri di Robben Island. Lo aiuta Derrick

Grootboom, attivista dell’ANC ed ex detenuto a Robben Island, arrestato nel 1986 su accusa di sabotaggio per aver lanciato una molotov attraverso la finestra di un ufficio governativo per gli sfratti

nella città di Dysselsdorp. Condannato a sette anni, rimase a Robben Island fino a che non furono liberati gli ultimi prigionieri politici, nel 1991. «In mezzo a noi ci sono sempre delle persone buone», mi dice

allegro Grootboom mentre sediamo sulle grandi lastre calcaree, ricordando un compleanno passato dietro alle sbarre. Sebbene non gli

fossero stati dati dei regali, una delle guardie gli aveva cantato una canzone: «Jesus Is Love» dei Commodores. «Mi ha tirato su di

morale», ricorda Grootboom, con lo sguardo perso nel vuoto. Adesso ha quarantadue anni ed è appena stato eletto giudice presso l’Alta corte del Capo; nel 1995 svolgeva le funzioni di procuratore privato

quando gli Springbok giocarono la finale della coppa del mondo contro gli All Blacks della Nuova Zelanda, ancora imbattuti. Grootboom ricorda di aver visto la partita in tv con i suoi colleglli.

«Non eravamo bianchi, neri, indiani o meticci», dice, ripetendo

velocemente i quattro gruppi razziali dell’apartheid. «Eravamo solo

sudafricani». Poi arrivò il momento leggendario, descritto da Eastwood nel film, in cui Mandela entrò in campo per salutare entrambe le squadre, con il berretto degli Springbok e una

riproduzione della maglia numero 6 di Pienaar. «Quando entrò in campo, con quella maglia», ricorda Grootboom, «Mandela era l’epicentro di dove stava andando il paese». A quel punto, si potrebbe

dire, gli Springbok avevano vinto qualcosa di più prezioso di un trofeo in similoro.

Mentre il mattino cede il passo al pomeriggio, Freeman arriva sul set già in costume; la sua somiglianza a Mandela è stupefacente.

Dopotutto era stato il presidente stesso a proporre Freeman, a una

conferenza stampa in cui gli avevano chiesto chi l’avrebbe dovuto interpretare in un film. Iniziano le riprese, Freeman e le comparse

lavorano diligentemente di piccone. Quando Eashvood chiede di

rifare la scena, Freeman si finge indignato. «Hai mai spaccato delle pietre?», domanda al regista. «È l’ultima volta che lavoro per Eastwood!» Da dietro la macchina da presa. Eastwood lancia un sorriso ironico al vecchio amico, che ha già diretto in altri due film.

Mentre Eastwood cerca di ottenere la scena che vuole, la troupe va in pausa per il pranzo e io mi ritrovo seduto di fronte a una comparsa

che interpreta uno dei carcerieri di Robben Island, un uomo dal collo robusto e dall'accento afrikaner ancora più marcato, che mi racconta che può ricostruire l’albero genealogico della sua famiglia fino ai primi coloni olandesi del Sudafrica. Poi salgo sul furgoncino sbagliato

e invece di essere riportato al set, mi ritrovo dall’altro lato dell’isola, al centro visitatori, dove, in compagnia del suo agente di lunga data Fred Specktor, Freeman si sta rilassando in attesa che ci sia bisogno di lui

per la prossima scena. (Specktor, un tipo molto pragmatico della vecchia scuola hollywoodiana, porta un solo orecchino d’oro

all’orecchio destro, simile a quello che porta Freeman: è il risultato di una promessa che l’agente ha fatto all’attore quando cercava di

inserirlo nella sua scuderia.) Cortese e affabile, Freeman mi racconta i lunghi tentativi, poi risultati inutili, attraverso cui lui, la sua socia di produzione Lori

McCreary e una serie di scrittori avevano cercato di distillare il succo del lunghissimo memoir di Mandela del 1994, Lungo cammino verso

la libertà, per farne una sceneggiatura trattabile. Poi Freeman ha incontrato John Carlin, che era venuto in Mississippi (dove vive Freeman) per un reportage sulla povertà in America per il quotidiano

spagnolo El Pais. Carlin, che sapeva del desiderio di Freeman di fare un film su Mandela, gli ha raccontato la storia di Ama il tuo nemico,

che non era ancora stato pubblicato. Freeman, a cui chiaramente piace essere un passo avanti a tutti, aveva già letto la proposta editoriale di Carlin, che stava facendo il giro di Hollywood. Lo

sceneggiatore Anthony Peckham, nato in Sudafrica, è stato poi assunto perché ne traesse un copione. Quando si è trattato di scegliere

il regista, «le mie due prime scelte erano Clint Eastwood e Clint Eastwood», racconta Freeman, che nel 2005 ha vinto il premio Oscar come miglior attore non protagonista per il ruolo di un ex pugile con

un occhio solo in Million Dollar Baby di Eastwood. Se gli si chiede di motivare la sua scelta, Freeman spiega che mentre molti registi più giovani e meno sicuri di sé dubitano di se stessi e tergiversano all’infinito davanti al combo, discutendo con i produttori, Eastwood

semplicemente «fa entrare gli attori, cerca di capire come adattarsi a ciò che fanno e basta». Torniamo al set per l’ultima scena di Freeman della giornata: un

altro flashback, stavolta ambientato nell’enorme cava di calcare dove le particelle di polvere erano penetrate così a fondo negli occhi di

Mandela che lui, una volta scarcerato, si era dovuto far ripulire chirurgicamente i dotti lacrimali. Mentre il sole cala verso l’orizzonte, Freeman scende nella cava, prende una pala — mossa piuttosto

difficile, dato che i nervi del braccio sinistro si stanno ancora rigenerando dopo le ferite riportate nell’incidente d’auto dell’agosto 2008 - e comincia a scavare. Quando Eashvood gli fa segno che per

oggi hanno finito, Freeman alza gli occhi, si asciuga la fronte e dice con un sorriso: «Quando si fa quello per cui si è nati, ci si sente bene. Io sono nato per lavorare con Clint Eashvood»,

A inizio agosto, a neanche due mesi dal ritorno dal Sudafrica, Eastwood e il suo storico montatore, Joel Cox (premiato con l'Oscar per Gli spietati), hanno già finito il montaggio di Invictus L’invincibile, a parte circa seicento inquadrature alle quali Michael

Owens aggiungerà gli effetti speciali prima dell’uscita del film, in

dicembre. Alla Warner Bros., a Burbank, nella sala per la registrazione che porta il nome di Eastwood, una grossa orchestra sta

registrando la colonna sonora di Invictus - L'invincibile, una semplice melodia per pianoforte, più della musica corale tradizionale africana e un paio di canzoni originali, il tutto in buona parte scritto dal figlio di Eastwood, Kyle, e dal suo socio Michael Stevens (che

hanno lavorato alle musiche degli ultimi cinque film di Eastwood). Nel rispetto dell’atmosfera familiare sia letterale sia metaforica

costantemente presente alla Malpaso Productions di Eastwood, il pianista dell’orchestra di Invictus - L’invincibile è un certo Michael Lang, figlio del leggendario Jennings Lang, che nel 1971 aveva

prodotto l’esordio registico di Eastwood. Brivido nella notte. (Sul set in Sudafrica ho anche scoperto che l’assistente operatore di Eastwood,

Bill Coe, è sposato con la microfonista, Gail Carroll-Coe, e che anche il loro figlio, Trevor, lavora nel reparto riprese come addetto al

caricamento delle pellicole.)

Verso il fondo del set, Eastwood senior, affiancato da Cox e dal suo produttore, Rob Lorenz, dà qualche indicazione sul posizionamento dei bollini di sincronizzazione, ma più che altro annuisce per segnalare la sua approvazione mentre suoni e immagini si combinano

davanti ai suoi occhi. Si parla già moltissimo del suo prossimo progetto, Hereafter, che Eastwood conta di iniziare a girare a inizio autunno. Il film si basa su una sceneggiatura originale di Peter Morgan (già autore di The Queen — La regina e Frost/Nixon - Il

duello’) e collega tre storie che, ciascuna a suo modo, esplorano il confine tra la vita e morte, tra questo e l’altro mondo. (Matt Damon

tornerà a lavorare con il regista di Invictus - L’invincibile, interpretando un operaio di una fabbrica di automobili che ha un passato da medium.) «È un terreno inesplorato», mi dice Eastwood quando gli chiedo

che cosa lo ha spinto ad affrontare l’argomento; in effetti, anche se si è messo in gioco due volte come una specie di angelo della morte, nei western esistenziali Lo straniero senza nome eli cavaliere pallido,

non ha mai fatto un film su un soggetto dichiaratamente soprannaturale. «Mi è piaciuto il modo in cui Peter Morgan inserisce

eventi reali come lo tsunami [nell’Oceano Indiano nel 2004] e gli attacchi terroristici di Londra in una storia immaginaria», continua. «Certo, in Hereafter c’è un lato ciarlatano, quelli che lucrano sulle

credenze della gente che ci sia una vita ultraterrena, e il genere umano

non sembra voler accettare che la nostra vita è questa e che dovremmo fare del nostro meglio e godercela finché siamo qui, e che

quello basta e avanza. Dev’essere! per forza l’immortalità o la vita eterna 0 una certa religiosità da abbracciare. Io invece una risposta

non ce l’ho. Forse un aldilà c’è davvero, ma io non lo so, quindi mi ci avvicino senza saperlo. Racconto solo una storia». Due settimane più tardi, un venerdì mattina presto, Owens porta

una serie di inquadrature con effetti speciali della scena clou di

Invictus — L’invincibile, la finale della coppa del mondo, per farle controllare a Eastwood. Mentre visionano il materiale in una sala di

proiezione della 'Warner Bros., con Owens che usa un puntatore laser

per mostrare alcuni dettagli, quello che appare sullo schermo non sembra affatto generato dal computer. L’apparizione spettrale di

Mandela a Robben Island naturalmente lo è, ma la maggior parte di

tutto quello che Owen ha creato, come il miglior montaggio cinematografico, si amalgama perfettamente con il film finito e

sfuggirà all’occhio dello spettatore medio. Sulle maglie degli Springbok sono stati aggiunti sporco e sudore, come pure il sangue e i lividi sui volti dei giocatori. «Sporcali tutti»,

commenta Eastwood entusiasta, rendendosi conto che questa magia digitale ha ridotto la necessità di ritocchi del make up durante le riprese, che fanno perdere un sacco di tempo. Inoltre, un errore di sviluppo della pellicola, che aveva fatto sembrare marroni le maglie

verdi degli Springbok, è stato corretto e l’Ellis Park Stadium di

Johannesburg, dove si è svolta la finale della coppa del mondo 1995, è stato invecchiato digitalmente per rimuovere i segni del restauro dell’impianto, effettuato nel r.. a. Owens, un veterano della Industriai Light & Magic di George Lucas, che aveva lavorato per la prima volta con Eastwood nel 2000 per Space Cowboys, riconosce che è stato

piuttosto complicato portare il regista nell’era della CGI (Eastwood

non faceva un film con molti effetti visivi dai tempi di Firefox - Volpe difuoco, uscito quasi ventanni prima). Eppure Eastwood ha fatto il

grande salto e Owens è diventato un membro ancora più indispensabile dei team della Malpaso. «C’è anche un lato egoistico», risponde Eastwood quando gli

chiedo della sua ben nota lealtà verso i collaboratori. «Sono tutte persone di cui posso fidarmi. Non devo cominciare da zero solo per trovarmi sulla stessa lunghezza d’onda. Hanno già un’idea di dove voglio arrivare, perciò bastano poche parole tra noi, per le discussioni

intellettuali riusciamo a essere abbastanza minimalisti». La volta successiva che incontro Eastwood, sul set di Hereafter a

Londra, è una frizzante mattina color ardesia di inizio novembre. Un

piccolo auditorium a Red Lion Square, vicino a Bloomsbury, è stato convertito in un immaginario Centro per la crescita psichica, per una delle scene in cui Marcus, un ragazzo di dodici anni di un complesso residenziale nel centro della città, cerca di prendere contatto il suo

gemello, Jason, morto in un incidente d’auto, in un passaggio

precedente della sceneggiatura. Anche se Eastwood sembra rilassato come al solito, nell’aria c’è una sottile tensione per via delle

strettissime restrizioni temporali che regolano l’utilizzo di minori sui set cinematografici, Marcus e Jason sono interpretati, rispettivamente

e a volte a parti invertite, da due gemelli identici, Frankie e George McLaren, con un pallore che conferisce loro una saggezza superiore alla loro età, un po’ come Haley Joel Osment nel Sesto senso, prodotto, come il nuovo film di Eastwood, dai coniugi Frank Marshall

e Kathleen Kennedy. Tuttavia, al contrario di Osment, che all’epoca del film di M. Night

Shyamalan era già un attore professionista con un buon numero di film e serie tv alle spalle, i gemelli McLaren sono dei neofiti e imparano mentre recitano. Eastwood, che ha già diretto molte volte

dei bambini, dice che certe giornate sono andate più lisce di altre e, in contrasto con lo stile registico distaccato e taciturno che usa con attori del calibro di Damon e Freeman, questi attori non professionisti gli

tirano fuori un lato nuovo, quello del mentore paziente e dell’educatore. È un’immagine davvero curiosa, la rude leggenda settuagenaria con il braccio attorno alle spalle dei due ragazzini, che

letteralmente accompagna Frankie durante un’inquadratura e, subito dopo, stando appena fuori campo, spezza il momento più intenso di

un primo piano in cui Georgie deve mostrare, senza l’aiuto del dialogo, che sta perdendo la fiducia nell’ennesimo finto sensitivo.

«Stai cominciando a pensare che questo tizio è un altro imbroglione», sussurra Eastwood; poi, quando ha ottenuto la reazione che desidera:

«Ti senti come se volessi alzarti e correre via». Mentre a Londra la giornata sta per finire, Eastwood e il

produttore Lorenz sono davanti a un computer a guardare dei video QuickTime sulle ultime inquadrature con effetti speciali inviate da

Owens da Los Angeles, dove il sole è appena sorto. Negli Stati Uniti Invictus - L’invincibile è in fase di rifinitura per le prime proiezioni

stampa. Quando, più o meno una settimana dopo, vedo Invictus L’invincibile nella sua versione finale, mi colpisce l’efficacia con cui Eastwood è riuscito a catturare il senso del genio diplomatico di Mandela pur evitando decisamente i trabocchetti in cui sono

inciampati molti film di Hollywood sul Sudafrica. Alla fine degli anni Ottanta e all'inizio degli anni Novanta, mentre cresceva lo sdegno per le politiche di apartheid, film come La forza del singolo (anche questo con Freeman come protagonista), Grido di libertà (sull’assassinio dell’attivista Steve Biko) e Un’arida stagione bianca (con Marion

Brando nella parte di un carismatico avvocato difensore dei diritti

umani) avevano già affrontato l'argomento, affidandosi per lo più alle

tirate di oratori bianchi e offrendo una visione fortemente stereotipata della lotta contro l’apartheid, che Peter Wilhelm, critico del Financial Mail nato in Sudafrica, definì con la frase memorabile «Adolf Hitler contro IRobinson».

Nonostante la presenza del personaggio di Pienaar (e l’abbondanza di azioni spaccaossa del vero rugby), Invictus -

L’invincibile è inequivocabilmente raccontato attraverso gli occhi di Mandela, con grande attenzione per lo scetticismo provocato dalle sue

politiche in entrambe le fazioni della divisione razziale sudafricana (rappresentate da una magnifica scena in cui il presidente rimprovera

i membri del suo partito per aver complottato per abolire i colori e il logo della squadra degli Springbok, che la maggior parte dei neri

sudafricani vedeva come un simbolo del patriarcato dell’apartheid). Allo stesso tempo, il film di Eastwood non soffre di quella corsa sfrenata alla canonizzazione che pervadeva diversi film minori su

Mandela girati per la tv. Anche se il film non è un biopic esaustivo,

Eastwood e lo sceneggiatore Peckham fanno di tutto per mostrare la distanza tra il volto pubblico di Mandela e quello privato, quello di un uomo che si sente molto più a suo agio a casa a versare il tè a un ex nemico che non a comunicare con la moglie e i figli da cui si è allontanato. È proprio in questa zona grigia che la performance di

Freeman, giustamente elogiata dall’ex corrispondente dal Sudafrica

del New York Times Bill Keller come «non tanto un’interpretazione, quanto un’incarnazione», diventa immensa. Freeman riesce a portare

sullo schermo uno dei grandi della storia senza mai perdere di rista il fatto che, come lo descrive una delle guardie del corpo, Mandela «non è un santo. È un uomo, un uomo con i suoi problemi».

«Ha fatto il primo film della generazione Obama!», ha esclamato verso la fine dell’anno scorso un fan entusiasta, precipitandosi verso Eastwood dopo un’anteprima di Gran Torino (in cui Eastwood

interpretava un veterano della guerra di Corea che, inizialmente

razzista, finisce per impegnarsi a difendere i suoi ricini Hmong, presi di mira). Il regista ha delicatamente risposto che lui era nato durante la presidenza di Herbert Hoover. Eppure in quello scambio è

custodita una verità particolare su Eastwood, i cui ultimi film sembrano inequivocabilmente ancorati alla contemporaneità, anche quando il regista sfrutta il passato per spiegare il presente. Lungi da

questo regista intrinsecamente classico e modesto affrontare di petto le guerre in Iraq e in Afghanistan, eppure da lui ci giungono Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo-lima, una cartolina a due facce della guerra «buona», dei giovani che l’hanno combattuta e delle atrocità

commesse da entrambe le parti. Anche se sarebbe sicuramente altrettanto poco interessato a realizzare un film che parlasse

esplicitamente del clima attuale alla Casa Bianca. Eastwood potrebbe comunque farne uno su un altro paese diviso e in difficoltà economiche che ripone le proprie speranze di «cambiamento» nel suo

primo leader nero. E questo rende Invictus - L’invincibile il secondo film della

generazione Obama? Potrebbe, anche se Eastwood, che tende a tenersi per sé le proprie opinioni politiche, sminuisce subito i

paralleli. «Il materiale mi ci ha fatto pensare, ma non stavo cercando di piazzarci nessun aspetto della politica americana», mi dice al

telefono poco prima del giorno del Ringraziamento. «Tuttavia»,

continua, «Obama è giovane e carismatico ed effettivamente ha parlato di cambiamento e di un sacco di cose del genere che sembravano fantastiche. Cioè, è con quelle che si è guadagnato la

fiducia della nazione. Che poi sia in grado di mantenere le promesse è un altro discorso». Eastwood fa poi riferimento a una scena della parte iniziale di

Invictus — L’invincibile in cui Mandela, uscito per una passeggiata

mattutina nei suo primo giorno da presidente, vede un quotidiano in afrikaans che reca il titolo: Può vincere le elezioni, ma saprà governare il paese? Nel film Mandela risponde: «È una domanda

legittima». Al telefono Eastwood mi dice: «Probabilmente è la stessa domanda che ci facciamo a proposito di ogni candidato che vince le

elezioni presidenziali. Finora Obama ha faticato a convincere tutti. Personalmente faccio il tifo per lui. Non l’ho necessariamente appoggiato durante la campagna, ma mi piacerebbe che andasse bene

perché voglio che il paese vada bene. Sarebbe da masochisti volere il contrario». Anche se è inevitabile che ci siano persone che accuseranno

Eastwood di aver indorato la pillola raccontando una delle poche storie di ottimismo selezionata ad hoc da un Sudafrica che rimane in preda alla disperazione, la controprova è proprio qui nello stesso

Invictus - L’invincibile. Nonostante l’atmosfera festosa della finale

della coppa del mondo, il film non finisce con la cerimonia in pompa magna all’Ellis Park Stadium o con la folla in festa che riempie le strade di Johannesburg, ma con la semplice, tranquilla immagine del

presidente, sul sedile posteriore della sua limousine, che si toglie gli

occhiali e si massaggia il ponte del naso. «Lo vedi tutto solo in macchina», dice Eastwood. «Si capisce che è

stanco. Questo è solo il primo ostacolo e hai la sensazione che la strada sia ancora lunga. Sa, aveva settantacinque anni quando è stato eletto presidente, era già molto vecchio, anche per gli standard di

oggi». Curioso che queste parole vengano da un uomo che fra sei mesi compirà ottant’anni e sembra deciso a lavorare a un ritmo più serrato

che mai. «In Sudafrica c’è ancora molto da fare dopo l’apartheid. Ci sono ancora tensioni, un alto tasso di criminalità e altre cose. Quello era solo l’inizio. Non so come sarà questo Zuma», dice del nuovo leader del Sudafrica, Jacob Zuma, entrato in carica durante le riprese di Invictus - L’invincibile dopo un’accesa lotta di potere con il

presidente uscente (nonché successore di Mandela) Thabo Mbeki. «Si spera solo che arrivi qualcuno a raccogliere il testimone».

Le parole di Eastwood mi fanno tornare in mente una cosa che mi aveva detto a Robben Island Derrick Grootboom, l’ex detenuto

diventato giudice, che, come molte delle persone con cui ho parlato in

Sudafrica, descriveva una nazione ancora profondamente divisa per questioni razziali ed economiche, in cui il male dell’apartheid era stato sostituito da una forma ugualmente insidiosa di guerra politica intestina. Come suggerito quest’anno dall’allegoria fantascientifica

appena velata di District 9. buona parte della popolazione nera del paese vive ancora nella povertà assoluta delle township, è in corso un’epidemia di AIDS e i riolenti attacchi agli immigrati sono sempre più all’ordine del giorno. Tuttavia Grootboom, fissando le acque

azzurre della Table Bay in quello splendido giorno di marzo, con le spalle alla prigione che gli aveva rubato cinque anni di gioventù, aveva

un barlume di speranza negli occhi. «Questo è il nostro periodo del selvaggio West», mi ha detto. «Ma stiamo arrivando rapidamente al

periodo in cui ci renderemo conto che non esiste il concetto di “libertà per tutti”. Vedrete che cominceremo a rafforzare le leggi e a ritenere la gente responsabile».

Da qualche parte dietro di noi, quasi a completamento del

pensiero di Grootboom, si è levata la voce di Eastwood, che con gentilezza ha detto a Freeman e alla troupe: «Azione». (Intervista pubblicata su LA. Weekly, 10 dicembre 2009.

Ripubblicata su autorizzazione di LA Weekly e dell’autore.)

INTERVISTA A CLINT EASTWOOD: PRIMA DI

TUTTO, CREDI IN TE STESSO DI MICHAEL HENRY WILSON (2010)

Cosa l’ha spinta a fare Hereafter?

La sceneggiatura di Peter Morgan e la struttura intelligente. Mi piaceva il fatto che in una storia inventata venissero inseriti eventi

reali, come lo tsunami di sei anni fa e gli attacchi terroristici nella metropolitana di Londra. E mi piaceva il fatto che le tre storie procedessero indipendentemente per poi fondersi alla fine, come per

opera del destino. Non avevo mai tentato niente del genere. E poi la sceneggiatura affronta il fenomeno della chiaroveggenza in modo serio e sottile, senza nascondere che la cosa attira un buon

numero di ciarlatani e svitati che fingono di trasformarla in una scienza. Il personaggio di Matt Damon è davvero un medium, ma invece di trarre profitto dal suo dono, ne soffre al punto da non

riuscire a vivere una vita normale.

In termini di struttura drammatica, una delle sfide è che ilfilm

ha un inizio di grande impatto, per poi diventare via via più intimo e riflessivo. Chi si aspettava un thriller non è necessariamente pronto a seguirla sui cammino tortuoso del lutto e del dolore.

La storia mi piaceva così com’era. Non è il primo film che inizia con il botto, anche se il grosso lo riserva nel finale. Comunque non stavo cercando di fare qualcosa di spettacolare. È una storia intima.

Lo tsunami è solo uno degli elementi. Penso che Peter Morgan abbia scelto questo evento, che ha mietuto più di duecentomila vittime,

perché ci sono tante persone che sono state a un passo dalla morte e sono sopravvissute solo per miracolo, per esempio perché si sono aggrappate a un albero mentre tutto il resto intorno a loro veniva spazzato via. In un disastro di questa portata ci sono sempre numerosi drammi personali e alcune persone che sopravvivono a un’esperienza di premorte, come Marie [Cécile de France],

Un altro fraintendimento deriva dalfatto che il pubblico si aspetta una dimensione soprannaturale che in realtà è completamente assente nelfilm.

Non è un film sull’occulto, è sulla dimensione spirituale. Quello è

uno degli aspetti che mi hanno subito affascinato quando ho letto la

sceneggiatura... in particolare perché la dimensione spirituale non è affatto legata alla religione, cosa che avrebbe potuto dare fastidio ad alcuni. Il film pone delle domande, ma non pretende di fornire risposte. Nessuno sa cosa succede nell’aldilà. Nessuno lo sa prima di

arrivarci. Perciò lo spettatore deve riflettere e valutare come si

rapporta tutto quanto al suo credo o alle sue esperienze. Quanto a me,

non sono sicuro di nulla. Non so se ci sia un dopo, un «hereafter». Aspetto di vederlo con i miei occhi. Sono il tipo di persona che dice:

«Ci credo solo quando lo vedo». Ha scelto di non usare la paura come meccanismo drammatico.

Alcuni recensori hanno criticato questa decisione, persino il New

Yorker.' Avrei potuto fare un film di paura, se avessi voluto, ma non era nelle mie intenzioni. Certo, lo tsunami è terrificante; ma dopo quelle

scene, il film parla di cose completamente diverse: il bambino che

perde il gemello, la giornalista che si vede sfuggire di mano la carriera,

il medium che non riesce a rapportarsi con gli altri... Mi ricorda molto Million Dollar Baby. Lo studio [Warner Bros.] era riluttante perché pensava che un film su una pugilatrice non avrebbe funzionato al

botteghino, ma in realtà era la storia del rapporto tra un padre e una figlia, che fra l'altro non era molto più commerciale, perché finiva in

tragedia e non dava un giudizio morale sull’eutanasia. L’eroe aveva ragione 0 no? È scomparso, portandosi dietro il suo mistero, e la domanda è rimasta senza risposta.

Quando il ragazzo fa ricerche su internet, trova soltanto il linguaggio dogmatico dei predicatori cristiani e musulmani. La religione non riesce a fornire risposte ai suoi personaggi. Era già chiaro in alcuni dei suoifilm precedenti, in particolare in Million

Dollar Baby e Gran Torino. I personaggi hanno bisogno di conforto spirituale, ma non riescono a trovarlo nelle istituzioni religiose. A volte lo trovano nelle

interazioni con gli altri. Qui lo trovano quando incontrano il personaggio di Matt. È qualcosa che ha vissuto personalmente?

Le religioni organizzate non mi hanno mai aiutato. Non le sminuisco, non sminuisco niente. Ho il massimo rispetto per le persone che vi trovano conforto. La cosa importante è che ciascuno trovi ciò che funziona meglio per lui e lo aiuta a vivere. Ma sono

sempre divertito dalla certezza di quelli che pensano di avere tutte le risposte. Da parte mia, non credo che l’umanità abbia il privilegio di avere tutte le risposte. Se ti senti travolto a livello spirituale, non

perdere il contatto con la realtà. Non cercare di capire tutto. La nostra

grande fortuna è tutto quello che è capace di concepire la nostra immaginazione. Prima di tutto, credi in te stesso.

Le sono sempre piaciute le storie in cui i personaggi si incontrano senza che nulla li abbia preparati per quel momento, o non si sarebbero addirittura nemmeno dovuti incontrare. È vero, mi sono sempre piaciute. Qui abbiamo una donna francese

con una posizione privilegiata nel settore dei media, mentre i gemelli

vivono a Londra in un quartiere di ceto medio-basso e hanno una madre che si droga. Poi c’è il medium che lavora a San Francisco come

magazziniere e non ha idea del suo posto nel mondo. A ciascuno di questi personaggi corrisponde una città diversa, con un ambiente

molto specifico... finché non si incontrano e cercano di comunicare ciò

che hanno vissuto. Per citare solo alcuni dei suoi incontri improbabili: chi poteva

immaginare che in Gran Torino Walt Kowalskifinisse per legare con

i vicini Hmong che detesta? O che in Million Dollar Baby Frankie

accettasse di allenare una cameriera aspirante pugilatrice? Si tratta sempre di eroi reticenti. In Hereafter è Matt Damon che non vuole aiutare gli altri perché la cosa gli rende la vita impossibile.

In Million Dollar Baby l’ultima cosa di cui il vecchio allenatore ha

bisogno è un’atleta giovane, non ha mai voluto che le donne si dedicassero alla boxe. In Gran Torino Kowalski odia tutto e tutti; odia i vicini e la sua stessa famiglia; non gli piace il modo in cui stanno

cambiando il suo quartiere e il mondo in generale. Fin da Mezzanotte nel giardino del bene e del male, lei ha sostenuto di non fare film per la generazione di MTV o per ifan dei

videogiochi. In questa pellicola si prende di nuovo tutto il tempo necessario per sviluppare il contesto di ciascuna storia, per

modulare le emozioni di ognuno dei personaggi. Ovviamente il film non piacerà molto a chi si aspetta un sacco di

effetti speciali. Dopo la fine dello tsunami, non c’è più nulla che faccia al caso loro. Niente montagne russe alla fine! È un film per chi vuole essere trasportato in un mondo diverso e riflettere su ciò che accade ai

personaggi. Probabilmente è più europeo che americano. Mi è già capitato. L’esempio più lampante è Un mondo perfetto, in cui si crea

un legame inaspettato tra il criminale e il bambino che ha rapito. Era strano e ironico, ma anche con Kerin Costner al culmine della

carriera, non ha attratto molti spettatori in questo paese. Quello che

mi interessa sempre è vedere come si verificano questi incontri, come

si sviluppano i legami, come maturano i personaggi. Se qualcuno oggi volesse fare Sentieri selvaggi, probabilmente non sarebbe per niente facile. Lo studio gli direbbe che l’azione non procede, che non ci sono

abbastanza sparatorie, che ci mettono troppo a trovare la ragazza rapita dagli indiani, che bisogna eliminare gli aspetti razziali... Lo trasformerebbero in un corto!

In effetti il bambino di Hereafter ricorda davvero quello di Un

mondo perfetto. Com'è stato dirigere i gemelli McLaren?

Non ho avuto nessun problema. Quei due ragazzini sono stati fantastici, si sono trasformati nei loro personaggi. Venivano dallo stesso ambiente. Non erano attori, non erano mai stati davanti alla cinepresa. A livello tecnico questo ha implicato qualche piccola difficoltà, ma per contro ha anche portato un certo senso di realtà, I

ragazzini non erano stati influenzati dai manierismi che avrebbero potuto insegnargli. Non avevano nessuna brutta abitudine da eliminare. Con loro il primo ciak andava sempre bene. I bambini sono

attori nati. Se li lasci recitare in modo naturale, andrà tutto benissimo. È stato così anche con il bambino di Un mondo perfetto [T. J.

Lowther]: non aveva nessuna esperienza, ma l’ho scelto subito dopo il provino perché recitava in modo naturale. Dopo la mòrte del gemello, la cinepresa si alza verso il cielo, come

in Mystic River quando viene scoperto il cadavere dellafiglia di Sean Penn. È un parallelismo voluto? Diciamo che è una transizione voluta dopo un evento tragico, non solo per stabilire una certa distanza, ma anche per collegare la scena

all’aereo che riporta la coppia francese a Parigi. Ci permette di tornare alla storia di Marie.

Quanto spazio di manovra ha lasciato a Cécile de France, che recita in francese? Nella sceneggiatura il suo ruolo era scritto in inglese. Abbiamo tradotto le sue battute in francese, ma le ho detto che poteva

modificarle come voleva purché non cambiasse le dinamiche della scena. Per esempio, nella sequenza in cui cerca di promuovere il suo progetto di un libro [su Francois Mitterand] agli editori, l’ho incoraggiata a esprimersi a modo suo e con il suo ritmo. Le avrei detto la stessa cosa anche se la scena fosse stata in inglese: non avere paura di improvvisare, purché i contenuti e il senso della scena siano

rispettati. I bravi attori ci riescono.

Come ha creato l’aspetto visivo dell’aldilà, con le sagome sfumate in un vortice di luce intensa?

Non era descritto in modo preciso nella sceneggiatura. Ci siamo lasciati guidare dalle testimonianze di persone che hanno avuto esperienze di premorte. Ho letto molte cose su di loro nel corso degli anni e ho conosciuto parenti di persone che avevano vissuto

esperienze del genere. Parlano tutti di una luce bianca intensa e di una soglia oltre cui non c’è più paura. Nella fantascienza si può creare

l’universo che si vuole, ma è molto più complicato quando bisogna riprodurre delle esperienze reali. Perciò i nostri effetti speciali sono stati realizzati in parte nello studio e in parte attraverso la computer grafica. C’era un sacco di CGI anche in Space Cowboys, ma in questo film è stato molto più complicato. È vero che ha diretto le riprese dello tsunami stando su una

tavola da surf? Stavamo girando a Maui [una delle isole Hawaii]. La strada

principale di Lahaina era il nostro asse di riferimento. Giravamo da tutte le angolazioni per avere più punti di vista per quando avremmo

aggiunto l’onda in postproduzione. Poi ho portato Cécile nell’oceano per girare le scene in cui cerca di restare a galla e ho fatto qualche

altra inquadratura con la bambina e il suo orsacchiotto. Tom [Stern] e Stephen [Campanelli] spingevano le cineprese su delle tavole da surf e io li ho seguiti per vedere come andava. Le inquadrature in cui Cécile

viene trascinata sott’acqua sono state girate in una vasca al Pinewood Studio. Ci ha passato dentro nove ore. Poi la sequenza è stata

completata con l’aiuto della computer grafica. Tutto ciò ha richiesto una preparazione enorme. Gli effetti speciali sono così costosi che

abbiamo dovuto pianificare tutto prima, fin nei minimi dettagli.

L’esperto era Michael Owens. Insieme a lui ho stilato un elenco di tutte le inquadrature indispensabili e poi un altro con tutto quello che

era necessario per realizzarle. I numerosi video amatoriali fatti da turisti durante Io tsunami nell’Oceano Indiano [nel 2004] ci sono stati di grande aiuto. Abbiamo potuto studiare ogni angolazione e questo ci

ha permesso di capire meglio cosa significa trovarsi in mezzo a un disastro naturale del genere.

Lei stesso ha visto la morte da vicino durante il servirio militare [nel 1951], quando l’aereo su cui si trovava è precipitato nell’oceano. Ci ha pensato durante le riprese?

Forse un po’, ma più che altro ero concentrato su tutte le cose che

dovevo fare per realizzare questo film! All’epoca dell’incidente di cui parla, ho visto una luce che brillava sulla riva e ho deciso che dovevo nuotare fino alla spiaggia per salvarmi... e farmi una birra con la gente di lì. Ma quand’ero piccolo sono quasi annegato sul serio. Dovevo

avere quattro o cinque anni. Un giorno, nel Sud della California, mio padre mi ha portato nell’acqua e un’onda mi ha scalzato dalle sue spalle. Devo essere rimasto sott’acqua per un momento. Non ricordo

molto di quel periodo della mia vita, ma ricordo con precisione il colore dell’acqua e la terrificante sensazione dell’essere portato ria

dalla corrente.

Nel quadro II sogno di Dickens l’autore è circondato da tutti i personaggi che ha inventato. Le capita mai, in sogno 0 da sveglio, di sentirsi perseguitato da tutti i personaggi che ha creato nella sua

carriera? Forse, a volte, ma in sogno. Però non sono necessariamente i miei personaggi. Una delle cose che mi sono piaciute di più di questa

sceneggiatura è che il personaggio americano è un operaio, ma invece di leggere dei thriller, legge i romanzi di Dickens. È interessante. Mi ricorda una persona che ho conosciuto da giovane, quando facevo il taglialegna neU’Oregon. Eravamo un gruppo di ragazzi che lavoravano nei boschi. Erano tutti degli omoni possenti, ma uno aveva la passione

per i fiori. Il proverbiale elefante nella cristalleria! Adorava parlare di fiori, di tutti i tipi. Mi ha anche chiesto di trovargli della musica per un

filmato amatoriale sulle rose che stava girando. Così gli ho dato un collage musicale, una compilation di canzoni che parlavano di fiori! Com’è arrivato a inserire un brano per pianoforte di Rachmaninov nella storyline inglese? Avevo composto due temi io stesso, uno per il personaggio di Cécile e l’altro per quello di Matt. Per i gemelli, io e Gennady

[Loktionov] cercavamo qualcosa di diverso e lui ha trovato il brano giusto nel Concerto per pianoforte n. 2 di Rachmaninov; un pezzo molto semplice e delicato che abbiamo inserito subito.

Jacques Tourneur, che aveva davvero doti da sensitivo, diceva che ogni regista dev’essere un po'un medium, anche solo per condividere l’angoscia dei personaggi. Aveva ragione. Deri essere in grado di identificarti profondamente

con tutti i personaggi, che siano importanti o meno, e persino con quelli più sgradevoli. Credo che ne abbiamo già discusso in abbondanza all’epoca degli Spietati: volevo che la gente riuscisse a identificarsi con Little Bill, il personaggio di Gene Hackman. Ci si

affezionava a lui quando lo si vedeva costruire la casa dei suoi sogni, anche se nel frattempo si comportava sempre peggio come sceriffo. Era simile al mio personaggio [William Munny], che, nonostante tutti

i crimini commessi, non era divorato dal rimorso. Si era convinto che la moglie l’avesse reso un brav’uomo, al punto che le era rimasto fedele anche dopo che lei era morta. Presto affronterà un personaggio storico controverso, quasi

mostruoso; J. Edgar Hoover. È stato Brian Grazer [coproduttore di Changeling] a mandarmi il progetto. La sceneggiatura [di Dustin Lance Black] mi ha colpito perché ho rissato l’epoca in cui la gente non faceva altro che parlare di Hoover e delle sue imprese. È stato a capo dell’FBI per quarantotto

anni. Era un personaggio incredibile già da giovanissimo. Ha

cominciato a lavorare per il dipartimento di Giustizia a ventiquattro anni, e ne aveva ventotto quando è stato nominato direttore del

Bureau. La sceneggiatura si muove avanti e indietro nel tempo fra i suoi vent’anni e i suoi sessanta. Fra gli attori ci saranno Leonardo

[DiCaprio], che interpreterà Hoover, e spero Judi Dench, nel ruolo di sua madre. È una storia molto interessante. Diventerà un bel film? Il pubblico andrà a vederlo? Non ne ho idea! (Intervista realizzata il 30 novembre 2010 e pubblicata con il titolo

«Entretien avec ClintEastwood; Ilfaut d'abord croire en soi-mème» a firma di Michael Henry su Positif n. 599, gennaio 2011, pp. 9-13, traduzione dalfrancese di Kathie Coblentz e Michael Henry Wilson.

Ripubblicata su autorizzazione dell’autore.)

CON J. EDGAR EASTWOOD TORNA A SBANDIERARE LA SUA LIBERTÀ DI SCOTT BOWLES (2011)

Ogni tanto la moquette dell'ufficio di Clint Eastwood si ricopre di gusci di arachidi. Non è Eastwood a mangiarle, né il suo staff, che mantiene assolutamente immacolati i suoi spari alla Warner Bros. La

colpa è di Lola, uno scoiattolo che Eastwood lascia libero nel suo ufficio e che spesso si rifornisce dal sacchetto di arachidi tenuto

aperto apposta sullo scaffale basso della libreria. Entra dalla porta principale, che Eastwood tiene ugualmente aperta.

La sicurezza ha cercato di sfrattare Lola con trappole e pistole ad aria compressa, racconta Eastwood a cui nessuno ha ricordato che la politica dello studio non prevede animali a meno che non compaiano nei film. «Se fai una cosa abbastanza a lungo», spiega Eastwood, controllando l’ufficio che adesso è ripulito dai gusci, «alla fine te la lasciano fare».

Questo vale anche per i film, specifica il regista ottantunenne. A Hollywood Eashvood si è guadagnato la libertà, che pure gli hanno concesso con riluttanza, di fare i film a modo suo, in genere

rimanendo al di sotto del budget, lasciando perdere gli effetti speciali

elaborati, e facendoli scorrere al ritmo di una colonna sonora

composta da lui stesso. Tutte e tre le cose sono valide anche per J. Edgar, la controversa biografia dell’ex direttore dell’FBI J. Edgar Hoover che esce oggi in anteprima prima di approdare nelle sale di

tutto il paese questo venerdì. «Immagino che il nostro stile sia fare degli antiblockbuster», dice.

«Non è sempre quello che vogliono gli studi, ma ce la cariamo discretamente».

Discretamente? Quest’uomo ha vinto due Oscar, ha interpretato più di sessanta film e serie tv e rimane il più leggendario cowboy e poliziotto vivente di Hollywood. Eppure Eastwood, che sta pensando

di riprendere a recitare, nel 2003 è riuscito a fatica a girare Mystic River. Nel 2004 ha dovuto lottare per fare Million Dollar Baby e non

è sicuro «di cosa penserà la gente di questo nuovo film. Ma finché ne parlano, ho fatto comunque il mio lavoro». E la gente ne parlerà di sicuro. Il ritratto di Hoover come un personaggio dalla sessualità conflittuale ha già irritato diversi ex

agenti. Due gruppi hanno lanciato campagne contro l’allusione a una relazione sessuale tra Hoover e il vicedirettore dell’FBI Clyde Tolson, anche se Eastwood sostiene di essersi avvalso della collaborazione del

governo e di alcuni veterani dell’FBI. J. Edgar è anche il film con più carica sessuale che il regista,

l’incamarione del macho che vanta titoli come Gli spietati e Gran Torino, abbia mai realizzato dal suo esordio dietro la macchina da presa nel 1971, con Brivido nella notte.

J. Edgar, pensato per concorrere agli Oscar e interpretato da Leonardo DiCaprio nei panni del fondatore e direttore deU’FBI, più

che un biopic è la storia di un amore gay non corrisposto. Esamina il lungo mandato di Hoover come poliziotto supremo d’America e il suo

legame con il vicedirettore Tolson (Annie Hammer). Eastwood è cresciuto con i fumetti sui Junior G-Men che Hoover

stesso aveva aiutato a fondare negli anni Trenta; per prepararsi per il film, ha indagato su Hoover come un detective, riesumando

trascrizioni, intervistando i suoi amici e consultando un membro dell’FBI che non si è espresso sulla sessualità di Hoover. Ma alla fine, spiega Eastwood, si è affidato all’istinto, chiedendo

persino a DiCaprio di improvvisare per rendere più intensa la storia d’amore. «A volte segui semplicemente l'istinto e dici: “Non mi interessa

cosa penserà la gente”», spiega Eastwood. «Non so se J. Edgar Hoover fosse gay. Non mi interessa affatto. Ma era un uomo avvolto dal mistero, e quello l’ho sempre trovato affascinante».

Se Eastwood lo troverà anche remunerativo è un’altra faccenda. Anche se Gran Torino e Gli spietati hanno avuto un enorme successo, Eashvood, che ha diretto anche Flags of Our Fathers e Invictus —

L'invincibile, non è noto per essere un regista attento ai focus group. Anzi, dice che ci sono troppe voci che influiscono su quali film

realizzare e quali no. «Lo capisco, perché è diventato un settore costoso», spiega Eashvood, che vi ha fatto il suo ingresso nel 1955 con un ruolo minore

nella Vendetta del mostro, un film della serie sul Mostro della laguna nera. «La gente ci investe molto», continua. «Ma recuperare quei soldi, fare film dal successo assicurato, è diventato importante quanto

raccontare una bella storia. Io non sono così complicato, continuo ad amare le belle storie e basta». Durante l’infanzia a Piedmont, in California, con i propri genitori

Eashvood parlava di tutto, mentre Hoover si faceva un nome arrestando gangster e contrabbandieri. «Adoravo i G-Men e leggevo tutti i fumetti che riuscivo a

procurarmi», racconta Eastwood. Ma la famiglia non ha mai discusso le notizie sulla presunta omosessualità di Hoover che hanno cominciato a circolare negli anni Quaranta.

«E non abbiamo mai parlato di cose come il cross-dressing», spiega Eashvood a proposito delle voci secondo cui Hoover avrebbe apprezzato i vestiti da donna. «Non erano cose di cui si parlava a cena, a quei tempi». Comunque l’eredità di Hoover continuava ad affascinare

Eashvood, un lettore famelico e un appassionato di storia. Perciò,

quando ha ricevuto il copione di J. Edgar da Dustin Lance Black, che aveva vinto l’Oscar per la sceneggiatura di Milk, Eashvood ha risposto

come fa sempre quando vede un copione che gli piace: ha ingranato

l’ipervelocità. Pochi registi sanno girare film così in fretta e con budget così ridotti come Eashvood. noto per la tendenza a dichiarare «buona la prima», a fare poche prove e a chiedere poche modifiche alla

sceneggiatura. Ha girato il suo J. Edgar in trentanove giorni con un budget di trentacinque milioni di dollari, metà del tempo e delle spese di una grossa produzione hollywoodiana. «È molto fedele; lavora sempre con la stessa troupe ridotta», dice

DiCaprio, trentasei anni. «Questo permette di procedere incredibilmente in fretta. A me capita di chiedere di rifare le scene più volte, ma in questo caso non mi è mai successo di sentire di doverne

rifare una quando lui la dava buona. Ci si sente artisticamente al sicuro nelle sue mani».

Anche DiCaprio era affascinato da Hoover. Aveva fatto ricerche per mesi per il biopic su John Dillinger Nemico pubblico - Public Enemies, prima di rifiutare il ruolo che poi era stato assegnato a Johnny Depp. Dopo aver saputo che Eashvood aveva acquisito la

sceneggiatura di Black, DiCaprio ha chiamato il regista e gli ha chiesto di prenderlo in considerazione. Eashvood ammette di aver esitato. «È un bravo ragazzo, ma ormai

per me sono tutti dei ragazzi», spiega. «Azzeccare l’età, in modo da

poterlo rendere più giovane o più vecchio, era fondamentale, e non ero sicuro che Leo sembrasse abbastanza vecchio. Ma passava cinque ore al reparto trucco quand’era necessario. È un vero professionista. E non è male avere una bella storia e una star come Leo. È più difficile

che ti dicano di no». Gli studi hanno detto di no a offerte che Eashvood credeva non potessero rifiutare. Dopo aver trovato per caso il libro di Mystic River in un supermercato Costco nel 2002, Eashvood era riuscito ad

acquisire i diritti per il film dopo due settimane ed era pronto a girare dopo sei. All’inizio la Warner Bros, aveva detto di no. Quel film da

venticinque milioni di dollari, dicevano i dirigenti, era troppo cupo e

violento e aveva un finale troppo deprimente. Il film ha ottenuto sei

nomination agli Oscar, fra cui miglior film e miglior regista, e ha fruttato premi come migliori attori a Sean Penn e Tim Robbins. Ha guadagnato novanta milioni di dollari, collocandosi al quinto posto fra

i film più redditizi della carriera di Eastwood. Il regista dice di aver incontrato ulteriori resistenze nel 2004 per

Million Dollar Baby, che ha ottenuto sette nomination agli Oscar ed è valso a Eashvood le statuette per il miglior regista e il miglior film. La pellicola ha poi permesso a Hilary Swank di vincere il premio Oscar

come miglior attrice e ha totalizzato centouno milioni di dollari al botteghino. «Se Mystic River non avesse funzionato, non sono sicuro

che sarei riuscito a fare Million Dollar Baby». Anche J. Edgar ha lasciato perplessa la Warner Bros., la cui

strategia era concentrarsi su film ad alto profilo e alto budget come la saga di Harry Potter e Lanterna Verde. Ovviamente Harry Potter è finito e Lanterna Verde quest’estate ha faticato al botteghino. «Non sono sicuro che i film da cento milioni

di dollari funzionino sempre», dice Eashvood. «Se paghi cento milioni di dollari per una casa, avrai una gran bella casa. Ma non sono sicuro

che avrai un buon film». Black dice di essere rimasto sbalordito da quanto poco abbia voluto intervenire Eashvood sulla sceneggiatura, che comprendeva un

bacio sulle labbra tra Hoover e Tolson e una scena commovente in cui Hoover stringe gli abiti della madre defunta. «Lance non le ha trattate

come scene gay», spiega Eastwood. «Ma c’era chiaramente un legame

forte fra quei due uomini. Volevamo che le interazioni fra loro fossero naturali, specialmente per quell’epoca».

Una delle scene più controverse di J. Edgar è un’accesa discussione tra Hoover e Tolson, il quale nella realtà viveva con Hoover e ne era l’erede. Dopo una lite sullo schermo, Tolson se ne va

sbattendo la porta e Hoover ammette tra le lacrime di essere innamorato di lui.

Quella battuta non esisteva nella sceneggiatura. Prima di girare la scena, ricorda Black, Eastwood è andato da DiCaprio e gli ha

suggerito: «Di’ a Clyde che lo ami. Rendiamo la scena davvero

commovente». DiCaprio l'ha accontentato. Le voci sulla rappresentazione dei personaggi hanno fatto infuriare alcune associazioni di ex membri dell’FBI, fra cui la

Fondazione J. Edgar Hoover e la Society of Former Special Agents of the FBI, che hanno subito scritto a Eashvood. «Una simile rappresentazione del signor Hoover è priva di

fondamento», diceva la lettera del presidente della fondazione William Branch. Il gruppo degli ex agenti speciali ha invece scritto a

Eashvood che la scena del bacio «li aveva spinti a riconsiderare la loro tacita approvazione del suo film». Eastwood non è sorpreso dalle critiche, ma spiega: «Molti non l’ha

ancora visto, quindi è difficile discutere con loro. E comunque non si

può fare contenti tutti con un film, anche se certi dirigenti ci provano». Eashvood sapeva che avrebbe dovuto fare il film in fretta e a un costo contenuto per competere con la valanga di film in uscita per le

feste per via della stagione dei premi. Ha chiesto agli attori e alla

troupe di aderire alla sua scelta di accettare una riduzione del compenso la cui entità non è però stata resa nota.

La troupe e il cast hanno accettato, compreso Hammer, che ha un legame personale con il film. Bisnipote del magnate del petrolio e

filantropo Armand Hammer, l’attore ricorda le dure lotte tra la sua

famiglia e l’FBI di Hoover, che considerava il clan degli Hammer una minaccia per la società.

«Mi sono goduto particolarmente il momento in cui ho baciato sulle labbra J. Edgar Hoover», racconta Hammer. «Ricordo [Armand Hammer] che rideva perché aveva letto sul giornale che Hoover lo

riteneva una spia. Non riuscivo a non pensare a quanto fossero simili per certi versi. Sono sicuro che mio nonno abbia abusato del suo potere così come Hoover, che impazziva per l’impossibilità di

arrestarlo. Quei due erano più simili di quanto pensassero». Anche se Eashvood mostra la determinazione da pitbull con cui Hoover dava la caccia ai comunisti e alla mafia, è come al solito più interessato ai demoni interiori piuttosto che al personaggio pubblico. Il trucco, spiega, è stato rapportarsi al film nello stesso modo in cui si rapporta allo scoiattolo, che un giorno l’ha sorpreso piazzandosi a una trentina di centimetri da lui, sul divano del suo ufficio. «Puoi

mettere in discussione ciò che fai fino alla morte, oppure puoi fare le

cose come ’vuoi e sai», spiega. Eastwood si stiracchia e va verso la porta dell’ufficio, dove Lola ha portato un altro scoiattolo. «Torna sempre», spiega Eashvood. «Sa

che sono qui a fare le mie cose». (Da Usa Today, una divisione della Gannett Co., Ine., 9 novembre 2011. Ripubblicata su autorizzazione.)

PER APPROFONDIRE

Articoli

Bogdanovich, Peter. «Hór mir mit dem Showbusiness auf! Die Sache hat mich fast umgebracht», in Siiddeutsche Zeitung Magazin,

26 agosto 2005, pp. 6-23. Versione inglese ridotta: «The

Undefeated», in The Word, dicembre 2005, pp. 72-76. French, Philip, «“I figured I’d retire gradually, just ride off into the

sunset...”», in The Observer, 25 febbraio 2007. Versione audio

integrale: Blogs.guardian.co.uk Gilbert, Andrew. «Mise en Swing», in Jazz Times, settembre 2007,

pp. 42-46.

Headlam, Bruce, «The Films Are for Him. Got That?», in New York Times, 10 dicembre 2008. Macklin, Tony, «Plant Your Feet and Tell the Truth», in Bright Lights Film Journal, n. 47, febbraio 2005.

Parkinson, Michael. «Guardian NFT interview: Clint Eastwood», Guardian. 7 ottobre 2003. Ross, Lillian. «Nothing Fancy», in New Yorker, 24 marzo 2003,

PP- 40-47Saada, Nicolas, e Serge Toubiana. «Entretien avec Clint Eastwood: L'Homme de nul part», in Cahiers du cinema, n. 549, settembre

2000, pp. 26-47, Schickel, Richard, «The Burden of Heroes», in Time, 23 ottobre 2006, pp. 44-47. Volumi

Beard, William, Persistence ofDouble Vision: Essays on Clint Eastwood, University of Alberta Press, Edmonton 2000.

Bénoliel, Bernard, Clint Eastwood. Revised English edition, Cahiers du cinema, Parigi 2010. Cornell, Drucilla, Clint Eastwood and Issues ofAmerican

Masculinity, Fordham University- Press, New York 2009. Eastwood. Clint, e Paul Nelson, Conversations with Clint: Paul

Nelson’s Lost Interviews with Clint Eastwood 1979-1983, Continuum International Publishing Group, New York 2011. Eastwood, Clint, e Michael Henty Wilson, Eastwood on Eastwood. Revised English edition. Cahiers du cinema, Parigi 2010.

Engel, Leonard, editor. Clint Eastwood, Actor and Director: New Perspectives, University of Utah Press, Salt Lake City 2007. Foote, John H., Clint Eastwood: Evolution of a Filmmaker,

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Work, Abrams, New York 2012. Plaza, Fuensanta, Clint Eastwood: Malpaso, Ex Libris, Carmel Valley 1991.

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Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids (MI) 2012.