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Italian Pages 248 [260] Year 2004
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TESTI E STUDI 174
ETNOGRAFIA DELL'EDUCAZIONE IN EUROPA Soggetti, contesti, questioni metodologiche a cura di : Francesca Gobbo
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Biblioteca di Antropologia ed Etnografia diretta da U. Fabietti
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DELL'EDUCAZIONE
IN EUROPA
Soggetti, contesti,
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Francesca Gobbo
EDIZIONI
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UNICOPLI
In copertina: Guido Turus, “Dopo la manifestazione” occhi aperti, Esedra, Padova 2002.
(2002), da Ad
Prima edizione: dicembre 2003
Copyright © 2003 by Edizioni Unicopli, via R. Carriera, 11 - 20146 Milano - tel. 02/42299666 http://\www.edizioniunicopli.it Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall'accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000. ISBN 88-400-0906-X
INDICE
Premessa
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1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo, di Peter Woods 2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”: ordine e disordine nelle scuole medie della periferia francese, di Agnès van Zanten 3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni? Analisi preliminare dei risultati di un follow up di ricerca, di Ghazala Bhatti 4. Creatività e competenze nella vita scolastica quotidiana. Verso una prospettiva pragmatica
e dinamica sull'educazione interculturale, di Ruth Soenen Racconti dall'interfaccia: la pubblicizzazione della ricerca etnografica per la politica educativa, di Geoff Troman Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica, di Bob Jeffrey Costruzione e applicazione del metodo etnografico: analisi di un'esperienza di ricerca, di Ana Vasquez Bronfman Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi di una quarta elementare di Praga, di David Doubek C'è una giostra nel futuro? Esperienza scolastica e processo d'inculturazione in una minoranza occupazionale nomade, di Francesca Gobbo
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Nota su autori e autrici
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Introduzione
Questa antologia riprende — estendendolo allo scenario europeo — il percorso di ricerca e riflessione incominciato con Antropologia dell'educazione (Gobbo, a cura di, 1996), continuato con Etnografia nei contesti educativi (Gobbo, Gomes, a cura di, 1999', 2003’), e intrecciato poi con il discorso pedagogico interculturale (Gobbo, 2000; Gobbo, a cura di, 2003b). Lungo questo percorso, le ragioni per intraprenderlo si sono fatte sempre più specifiche: se inizialmente lo scopo era stato far conoscere il contributo che la prospettiva antropologica può dare allo studio dei problemi educativi nelle società multiculturali attraverso una panoramica delle teorie e delle ricerche etnografiche più significative a livello internazionale, successivamente esso era diventato quello di documentare i risultati di indagini originali svolte in contesti educativi italiani e l'elaborazione teorica che ne era conseguita. Dal canto suo, Etnografia dell'educazione in Europa! ha l’obiettivo di presentare ricerche, ancora una volta originali, condotte in contesti educativi europei. Esse affrontano e approfondiscono, da un lato, le pressanti questioni (uguaglianza d'opportunità nella scuola multiculturale, valorizzazione della diversità, identità culturale e scolarizzazione, scolarizzazione, educazione familiare e prospettive future dei soggetti, fra le altre) che i cambiamenti demografici, sociali e istituzionali, avvenuti in tempi diversi nelle diverse ‘società europee, hanno spinto in primo piano; dall'altro, ' Originariamente
i saggi di cui si compone
questa
antologia
(eccetto
quello di F. Gobbo) sono stati conferenze organizzate dal Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell’Università degli Studi di Padova tra il 1999 e il 2000 e sono stati riscritti perla pubblicazione italiana.
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F. GoBBO
esaminano e discutono i modi, e i nodi, della ricerca etnografica, con l'intento di mettere in evidenza sia il valore dell'approccio antropologico ai problemi sia la qualità dei risultati e dell’interpretazione. Quando tale approccio è rivolto ai processi educativi e all'istituzione scolastica, l'obiettivo è quello di individuare come, e in qual misura, le decisioni politiche prese in anni recenti abbiano influito sulla percezione della scuola e sul significato di educazione. Si tratta di cambiamenti rilevati perfino da quelle indagini che, avendo la classe scolastica come unità
d'analisi, si situano al cosiddetto livello “micro”. E tuttavia, anche a tale livello, lo sforzo di comprensione dell'etnografo non prescinde dal più ampio contesto di senso storico, sociale e politico, sia perché in esso emergono i temi o i problemi che verranno poi studiati nel quotidiano scolastico sia perché quest'ultimo, con le tensioni e contraddizioni che l’attraversano, indica come la storia e la tradizione educativa delle scuole risenta dei cambiamenti decisi dalla politica. A quel più ampio contesto di senso sopra menzionato rimanda ogni saggio di questa antologia, sia attraverso la discussione dei problemi e delle vicende della ricerca sia attraverso la riflessione sul metodo etnografico. Di quest'ultimo, il saggio di Peter Woods, che apre la raccolta, esamina criticamente i molteplici caratteri distintivi: per questo ricercatore, l'etnografia è una “risorsa potente”, una modalità d'indagine progressivamente interiorizzata fin nell'intimo delle personalità dei ricercatori, un “atto di fede” ma anche un “progetto ambizioso e non facile” che procede su un “terreno incerto” grazie a quella “bussola” che sta in ogni ricercatore. Effettivamente, nella tradizione etnografica lo strumento di ricerca più importante è proprio il ricercatore con la sua disposizione ad accogliere i punti di vista inattesi, a mettere a fuoco i contesti naturali e spesso familiari (occuparsi “della vita così come è vissuta") cercando di renderli “estranei”, a individuare le “lenti” culturali con cui i soggetti interpretano la realtà in cui vivono, a riconoscere la dimensione processuale di comportamenti, situazioni, ruoli e significati, a elaborare una teoria generandola dai dati, “proprio nell'attività sociale che ha la pretesa di spie-
gare”. E tuttavia — avverte lo studioso inglese - non dobbiamo immaginare che “l'etnografo convinto” sia a tal punto preso
Introduzione
JO
dalla propria soggettività da risultare incapace di problematizzare quanto impara dai suoi temporanei e occasionali “insegnanti”. Al contrario, il fatto che l'etnografia sia stata spesso considerata avere “una base troppo debole per poter fare delle generalizzazioni” offre a Woods l'opportunità di elaborare la distinzione tra validità interna ed esterna, di sottolineare l'importanza, rispettivamente, della comparazione, della teorizzazione, dell'indispensabile conoscenza della letteratura scientifica e dell’altrettanto indispensabile capacità di lettura e scrittura, dall'autore collegata a quella che definisce “la sfida post-moderna?”. A tali considerazioni, Woods affianca quelle sulla “serendipità”: di questa sottolinea il ruolo che può svolgere in una ricerca (come effettivamente è avvenuto in quella sull’insegnamento creativo),
dove
rappresenta
la “svolta
predominante
ma
non
prevista o prevedibile”. Per Woods la serendipità comporta che il ricercatore “segua la corrente” e, al tempo stesso, si accorga
degli eventi “critici”, distinguendosi, insomma, per una particolare sensibilità che unisce la massima disponibilità a un'acuta attenzione. Impossibile da programmare, la serendipità può essere tuttavia facilitata “cercando di mantenere una condizione mentale disponibile alle eventualità” e aperta all'immaginazione, proprio come avviene nell’'osservazione partecipante (e cioè secondo la tradizione etnografica più consolidata), di cui un'indagine di questo tipo non può fare a meno. Nell'invitare il ricercatore a guardare al mondo insieme ai soggetti della ricerca, Woods è consapevole che ciò può renderlo vulnerabile ed è anche tenendo conto di questo che occorre leggere le sue considerazioni a favore del lavoro di gruppo. Questo,
se incentrato
su interessi
metodologici
comuni,
rappresenta una forma di “triangolazione” e soprattutto un sostegno al rigore scientifico, ma può anche aprire nuovi orizzonti di ricerca e favorire lo sviluppo di ogni ricercatore. Agnès van Zanten, attraverso la sua ricerca, ha esplorato il ruolo della scuola nel processo di formazione di “carriere devianti” tra gli studenti di una scuola francese di periferia. Pur riconoscendo l’indubbia importanza del contesto culturale extrascolastico (quartieri difficili, alti tassi di disoccupazione, storie familiari dolorose), la ricercatrice sostiene che una interpretazione più convincente di comportamenti negativamente
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F. GOBBO
valutati dalla scuola mette in evidenza come le modalità organizzative dell'istituzione, la consapevolezza, tra insegnanti e studenti, del processo di stigmatizzazione che tali modalità mettono in atto, e il disimpegno dei giovani nei confronti del lavoro scolastico richiesto, determinino non solamente la devianza ma anche l'insuccesso scolastico. Per van Zanten, sociologa di formazione, l'approccio etnografico sembra il più adatto a studiare un contesto multiculturale ancora poco esplorato, soprattutto perché consente una “scommessa metodologica”, ovvero descrivere una realtà dall'interno, “mostrando la coerenza logica di un certo numero di pratiche ubbidienti a regole riferibili a un contesto locale, senza pertanto abbandonare il postulato del parziale predominio del centro e delle relazioni di interdipendenza con esso”. L'indagine sulla devianza dei giovani studenti (e quelli con differenti origine etniche rappresentano un'altissima percentuale) ha al tempo stesso costituito un'occasione per mettere in rilievo la progressiva pressione del gruppo dei pari, che si rivolge contro l'istituzione e gli insegnanti. Al gruppo, i singoli giovani non sembrano capaci di resistere, nonostante sappiano che questa loro “deriva” porterà a ulteriori problemi di disciplina e rendimento scolastico. La classe diviene allora il luogo dove gli insegnanti si trovano a combattere una specie di battaglia che prevede periodiche tregue, e dunque a dover tollerare comportamenti turbolenti, mentre gli studenti, dal canto loro, sono impegnati in “una lotta continua tra il desiderio di studiare e il desiderio di divertirsi”, vivendo l'esperienza scolastica sotto forma di “resa” e scivolando verso l'insuccesso o l'abbandono scolastico. Infatti, anche se la sua interpretazione assegna al comportamento giovanile una considerevole parte di responsabilità, van Zanten riconosce che le norme scolastiche potrebbero avere senso per gli studenti soltanto se essi riuscissero a decentrarsi intellettualmente e affettivamente dal contesto della loro vita quotidiana. Il tema che Ghazala Bhatti affronta nel suo saggio riguarda le vicende di vita e di studio di un numero di giovani, protagonisti della ricerca originaria (Bhatti, 1999). Di questi, l'autrice mira a comprendere come riescano a realizzare l'aspirazione di raggiungere una qualificazione educativa superiore sullo sfondo del grande cambiamento sociale e produttivo che ha
Introduzione
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avuto luogo nel Regno Unito, di famiglie dalla limitata scolarizzazione, e d'insegnanti dalle altrettanto limitate aspettative nei confronti di studenti immigrati. Come altri saggi di questa raccolta, anche quello di Bhatti punta a mettere in discussione un'interpretazione del successo, e dell'insuccesso, scolastico esclusivamente in termini di origine etnica o culturale degli studenti, facendo contemporaneamente rilevare come il sostegno emotivo e finanziario delle famiglie, le loro speranze di un futuro migliore per i figli, e le esperienze di lavoro di questi ultimi, siano determinanti per il compimento di un percorso di qualificazione professionale che tuttavia è molto aspro sia dal punto di vista dell'impegno di studio sia di quello degli affetti. Dalle interviste emerge un quadro sociale e culturale complesso, in cui, ad esempio, non è possibile predire l'incidenza che variabili come il genere e la classe sociale avranno sul progetto di mobilità sociale e culturale, anche perché esse risultano bilanciate dal sostegno offerto dai genitori. Non diversamente da quanto avviene nella minoranza religiosa sikh (cfr. Bhatti, 1999; Gibson, Bhachu, 1991)?, anche in queste famiglie c'è la convinzione che il successo può essere raggiunto se una persona è preparata a impegnarsi duramente, nonostante la persistenza del razzismo nella società e nella scuola inglesi, ma anche delle molteplici realtà culturali cui i giovani intervistati fanno riferimento e della pluralità delle loro identificazioni, spesso acuita dalla tensione tra un senso d'appartenenza culturale e la pressione della condizione di dipendenza familiare. Anche il testo di Ruth Soenen riguarda contesti scolastici multiculturali, poiché presenta una parte dei risultati di una ricerca condotta in tre diverse scuole del Belgio fiammingo: nelle prime due è concentrata un'alta percentuale di studenti immigrati o figli d'immigrati (ma vi sono anche allievi rom e autoctoni socialmente svantaggiati), mentre nella terza gli studenti immigrati sono molto meno numerosi. Partendo dall'ipotesi che la scuola sia una comunità dove le interazioni tra le persone creano nuove esperienze che danno “significato e forma ulteriore alle loro vite”, Soenen, attraverso l'osservazione
partecipante,
individua
tre modalità
? Per il contesto italiano, ‘cfr. Galloni (2002).
d'interazione
(filiale,
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F. GoBBO
scolastica e giovanile) che non soltanto distinguono chi frequenta le scuola ad alta concentrazione migratoria da quelle a bassa concentrazione,
ma arricchiscono ciascun giovane sog-
getto di competenze, interessi, abilità e modi comunicativi molteplici. Per chi si occupa d'educazione interculturale, la ricerca di Soenen è di particolare interesse, poiché scegliendo di guardare alle interazioni che si stabiliscono tra compagni la ricercatrice riesce a mettere in discussione lo stereotipo, diffuso an-
che tra insegnanti ed educatori, secondo cui gli scolari sono “determinati dalla frattura tra la cultura familiare e la cultura della scuola”, mentre la loro identità sarebbe modellata esclusivamente dal processo d’inculturazione. Conta, invece, nella vita di questi bambini, la relazione con i compagni e il fatto che essa diventi parte integrante della loro esperienza, mostrandoceli come soggetti attivi e creativi, capaci di dare “significato alla vita quotidiana a scuola”, grazie all'interazione con i genitori, gli insegnanti e il gruppo dei pari. La riflessione di Geoffrey Troman prende avvio da una considerazione critica sullo stato e l'autorevolezza della ricerca sociale ed educativa nel Regno Unito, i cui risultati non sembrano in grado d'ispirare le politiche di settore. Si tratta di un problema che tocca anche la ricerca di cui egli parla in questo saggio,
poiché questa
era stata condotta
con
il proposito,
e
l'ambizione, di avere un impatto sulle politiche scolastiche. Se la capacità di produrre cambiamenti significativi e informati è stata finora limitata — riconosce l'autore — ciò non diminuisce l'importanza delle indagini etnografiche, più di altre in grado di fornire dati complessi, raccolti attraverso la determinante collaborazione con gli “utenti”. Più in particolare, il ricercatore illustra la relazione problematica tra ricerca educativa e politiche scolastiche facendo riferimento all'indagine, cui partecipava, sullo stress tra gli insegnanti, durante la quale egli accetta di occuparsi di uno studio di caso, inizialmente non previsto, su un gruppo d'auto-aiuto organizzato da insegnanti con esperienze di stress e rivolto a chi, nel lavoro, era stato oggetto di bulli-
smo. Seguendo l'impostazione teorica scelta per l'indagine collettiva sullo stress, anche nello studio di caso Troman utilizza una prospettiva multidimensionale, ricercando le interrelazioni, e i collegamenti, tra i fattori personali (livello micro),
Introduzione
lo
situazionali o istituzionali (livello meso), e strutturali (livello macro). Lo scopo è quello di capire come si esercitino, e con quali conseguenze, gli effetti dei livelli meso e macro sulle persone. Dopo aver ripercorso il modo in cui l'indagine principale è stata svolta, l’autore illustra e discute quanto ha appreso nel gruppo d'auto-aiuto, passando poi a esaminare le vicende della pubblicizzazione dei risultati. A questo riguardo, egli riconosce nei diversi aspetti problematici che hanno accompagnato tale pubblicizzazione e nei differenti interessi e ruoli degli attori sociali coinvolti le ragioni delle difficoltà incontrate e del limitato successo della sua interpretazione; tuttavia Troman sottolinea anche che l’imprevista “deviazione” dalla ricerca principale ha rappresentato un'occasione importante per approfondire la comprensione del fenomeno dello stress, da un lato, e, dall'altro, per poter in futuro (se non nel presente) ispirare le politiche scolastiche. Bob Jeffrey prende in considerazione i due aspetti che costituiscono un'etnografia, e cioè come parlare di quello che il ricercatore osserva e ascolta, così che quanto ha appreso, e interpretato attraverso alcune “chiavi di lettura” esplicitamente dichiarate, mantenga la sua ricca complessità. Il contesto della ricerca — su cui egli ha più ampiamente scritto insieme a Peter i Woods - è costituito da due scuole inglesi dove nel 1998 viene condotta, per la seconda volta, una ispezione Ofsted per valutare il lavoro degli insegnanti e l'appetibilità “di mercato” delle scuole. L'autore, in particolare, affronta la questione di come spiegare comportamenti, strategie e punti di vista, tra di loro in contraddizione, che una medesima persona può esprimere. Scontento della tipologia d'insegnanti inizialmente elaborata dal gruppo di ricerca — perché incapace di dare ragione di quella contraddittoria diversità — Jeffrey avanza un'interpretazione alternativa che, da ùn lato, utilizza “lenti” o “chiavi di lettura” molteplici per rendere la complessità del quotidiano scolastico; dall'altro, coglie l'esigenza degli insegnanti di rispondere in qualche modo agli effetti spesso devastanti che l'ispezione ha su di loro, sia a livello personale che professionale. Prestare attenzione alle cosiddette “strategie di coping” permette infatti di dar “conto sia delle reazioni alle costrizioni presenti nelle
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F. GOBBO
situazioni sia della relazione tra queste ultime e le più ampie strutture sociali”. Il testo di Ana Vasquez-Bronfman è esplicitamente dedicato ad analizzare un'esperienza d'indagine etnografica, condotta in una scuola media francese, in cui l’uso della videocamera ha spinto il gruppo di ricerca — di cui Vasquez fa parte — a riflettere e discutere non soltanto le modalità del lavoro scientifico ma anche i concetti impiegati nella progettazione del medesimo. L'autrice ripercorre con attenzione i passi lungo i quali la
ricerca è stata “messa in cantiere” e le difficoltà che l'hanno accompagnata, evidenziando (attraverso gli equivoci e i malintesi di cui Vasquez racconta di essersi via via resa conto) come
l'entrata nel campo di ricerca e l’accesso ai soggetti richieda tempi e strategie differenti. Peraltro, la videocamera - inizialmente osteggiata dagli studenti — si rivela anche come strumento che permetterà a Vasquez di essere accolta dai soggetti della ricerca, proprio grazie alla condivisione delle scene girate e montate e alla discussione che ne segue. Analogamente, riflettere insieme all'équipe di lavoro la rende consapevole delle proprie “disattenzioni” e delle ragioni — di carattere gerarchico — che le hanno facilitate. Proseguendo nella sua disamina delle condizioni del lavoro etnografico, Vasquez rileva che, oggi, chiunque si imbarchi in una ricerca etnografica non può evitare di interrogarsi sulle motivazioni, i pregiudizi, le ambizioni e le reticenze così spesso presenti nei ricercatori (spesso a livello inconsapevole). In ogni caso — nota Vasquez non senza una punta di
umorismo — contemporaneamente a questo lavoro su se stessi occorre anche convincere gli altri a diventare “soggetti d'indagine”. Lo scritto di David Doubek si caratterizza per uno stile sui generis, ma condivide con i precedenti saggi l’attenzione per quell'universo complesso, e talvolta imprevedibile, che è la scuola elementare,
in questo caso una “scuola di quartiere” a
Praga. Partendo dalle interviste condotte da una collega a un gruppo di ragazzini da lui osservati in aula, Doubek individua “isolette” d'amicizia i cui contorni sfumati non permettono di considerarle come entità solidamente costituite, quanto piuttosto come punti d'incontro e frequentazione di alcuni ragazzini che condividono una certa visione sul presente scolastico, Su se stessi, i loro compagni e il loro futuro. Il concetto di “cultura” qui si mostra in una dimensione minimalistica; la
Introduzione
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scena culturale è costruita da, e su, pochi elementi, ma è sostenuta da una ragione esterna potente, quella dell’avversione. Infatti, gli “amici” (denominati dal ricercatore “bulletti”, “igienisti” e “giovani marmotte”) sono fermissimi nel non volere — di più, nel temere — rapporti con un ragazzino la cui goffaggine comunicativa può essere ipotizzata come responsabile
del suo isolamento a scuola e della percezione di lui come pericoloso che gli altri hanno. Nelle interviste si disegna un complesso mondo infantile, dove ci si distingue — nel caso dei “bulletti” — per la spavalderia che s'accompagna al piacere del divertimento, all'interesse per i mass media, la moda e la musica pop; oppure — nel caso degli “igienisti” — per un considerevole investimento nella condotta e nel profitto scolastici, un'attenzione allo status sociale, e per gusti musicali e del tempo libero più “appropriati” a bambini di nove anni. Le “giovani marmotte”, infine, sembrano condividere molti aspetti e gusti dell'uno e dell'altro gruppo (con l'eccezione della “violenza”, che rappresenta il marchio di fabbrica dei “bulletti”) ed entrano più facilmente in relazione con i rispettivi membri. Nella ripulsa di Ivan da parte di questi ragazzini, si vede al lavoro il pregiudizio e la diceria, di cui Doubek ci mostra il funzionamento a livello cognitivo e affettivo, tra i bambini, per mantenere una propria identità e proteg-
gersi dall'altro, anche nel caso in cui quest'ultimo non sia uno straniero, ma il vicino di casa o il vicino di banco. Lo scritto di Francesca Gobbo parte da un interrogativo — qual è l'esperienza scolastica di una minoranza occupazionale nomade come gli attrazionisti viaggianti — con l'intento di esplorare il significato delle esperienze di educazione e scolarizzazione tra le famiglie di giostrai e circensi il cui circuito lavorativo si svolge nei paesi e città di alcune province venete. Il saggio dapprima analizza e discute la letteratura europea e internazionale sull'esperienza di scolarizzazione delle minoranze occupazionali nomadi e successivamente presenta i risultati parziali di un “lavoro sul campo” durato circa due anni. L'obiettivo era individuare e comprendere sia l’esperienza della scolarizzazione nel contesto di una vita in movimento sia‘il processo educativo (l'inculturazione) che permette alle giovani generazioni di “partecipare alla vita della famiglia e del gruppo, identificandosi con lo stile di vita e di lavoro che li
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F. GoBBO
caratterizza”, da un lato. Dall'altro, dare un contributo al dibattito sull'identità di minoranza e su ciò che — per ragioni storiche, culturali, materiali e politiche — ne favorisce la continuità o, al contrario, ne promuove la trasformazione fino a renderla una categoria residuale. Nel concludere, l'autrice rileva che, pur insegnando gli adulti “una filosofia della vita centrata su valori come autonomia, impegno individuale, dedizione alla famiglia e all'impresa familiare”, passione per il mestiere, questi aspetti e valori rimangono, nella maggioranza dei casi, “ignorati dalla scuola e dalla riflessione pedagogica che non si confronta con processi di trasmissione e acquisizione cosiddetti extrascolastici”. Tutti gli autori di questi saggi si collocano in un quadro di ricerca e dibattito etnografici (cui molti di loro hanno precedentemente dato un contributo sostanziale) che si caratterizza non soltanto per il ragguardevole e stimolante corpus di conoscenze sulle realtà scolastiche ed educative europee, ma anche per la scelta di intrattenere con le medesime una fattiva collaborazione impegnata a sostenere le ragioni di un'educazione democratica. È, questa, una presa di posizione che anche altri etnografi europei hanno di recente esplicitamente promosso, nella convinzione che “la ricerca etnografica possa mettere in discussione la disuguaglianza grazie ad analisi critiche dei processi sociali e culturali, delle pratiche e dei significati nei contesti educativi” (Beach, Gordon, Lahelma (eds.), 2003, p. 2) centrate sulla capacità di ascoltare e di far sentire le voci degli insegnanti, degli studenti, del personale scolastico, di esplorare il cambiamento e la sua assenza, sul “riconoscimento della responsabilità del ricercatore” e su un'acuta riflessività rispetto al processo di scrittura etnografica (ivi, p. 4)?. Peraltro, si tratta di un orientamento e di un impegno che sicuramente
rappre-
sentano uno degli elementi di base nella costituzione del settore dell'antropologia dell'educazione (cfr. Ogbu, 1974, 1978, 1996, 2003; Berube, 2000; Gobbo, 2003a), ma che sono parte di
? Tale posizione è ripresa sia nella problematizzazione del rapporto tra giustizia sociale, identità ed educazione (Vincent (ed.), 2003) sia nella maggior parte dei testi letti agli annuali convegni della European Educational Research Association, in particolare nelle sessioni sull'educazione interculturale e sull'etnografia. Di tale associazione — forse non casualmente — sono membri alcuni degli autori qui presenti, come Bhatti, Gobbo, Jeffrey e Troman.
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quella più ampia tradizione antropologica per la quale il lavoro dell’etnografo (Hymes, 1996, p. 14) è non soltanto “appropriato ad una società democratica”, ma anche potenzialmente capace di “superare la divisione sociale tra chi ha le conoscenze e chi è oggetto di conoscenza”, poiché riconosce a quest'ultimo una competenza “complessa e sottile” e lo rispetta.
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F. GOBBO
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I METODI ETNOGRAFICI NELLA RICERCA SULL'INSEGNAMENTO CREATIVO" Peter Woods
Da alcuni anni, ormai, io e il mio gruppo facciamo ricerca sull'insegnamento creativo, cioè sulla capacità d'invenzione degli insegnanti che, per alcuni, sembra estendersi a ogni aspetto delle loro interazioni con gli alunni. Tali insegnanti si distinguono per il grado in cui “possiedono” le conoscenze che trasmettono, invece di limitarsi a ottemperare alle richieste di chi ha deciso i programmi. Inoltre, essi controllano anche i metodi d'insegnamento, variandoli secondo quel che percepiscono essere necessario; in altre parole, rendono il proprio insegnamento
altamente
pertinente,
cioè
strettamente
sintonizzato
sulle identità e le culture degli alunni. Noi abbiamo elaborato questi criteri in ricerche più recenti, focalizzandoci su quegli eventi nell'attività d'insegnamento e d'apprendimento che abbiamo chiamato “critici”, sulle svariate forme della creatività e sul carisma dell'insegnante, sul modo in cui gli insegnanti usano l'emozione, creano un'atmosfera e stimolano l'immaginazione. Proprio mentre svolgevamo questa ricerca, la politica governativa britannica stava andando nella direzione opposta, e cioè verso una ristrutturazione del sistema educativo che mira alla intensificazione e alla razionalizzazione del lavoro dell'insegnante. Poiché non potevamo studiare la creatività fuori dal suo contesto, decidemmo di prendere in considerazione anche le crescenti costrizioni all'interno del sistema, e come queste colpissero la creatività. Progettammo di far ricerca sul processo di ristrutturazione, sulle ispezioni scolastiche e sullo stress degli insegnanti. Sia nelle indagini sulla creatività sia in quelle relative
* Traduzione di Francesca Gobbo.
DO
P. WOODS
alle costrizioni, abbiamo usato i medesimi metodi di ricerca etnografica, benché qualche progetto abbia richiesto lo sviluppo di tecniche particolari," alcuni aspetti delle quali e la loro base teorica intendo discutere in questo scritto.
1. Il Sé del ricercatore
Tutti noi che facciamo parte del gruppo sulla ricerca creativa siamo etnografi convinti, una convinzione
che è stata pro-
gressivamente interiorizzata fin nell'intimo delle nostre identità. Questa profonda identificazione è importante, dato che il metodo di raccolta dei dati consegue quasi naturalmente da essa, mentre il suo rigore è determinato dal confronto con altri discussi nella letteratura e utilizzati nelle ricerche in atto. Se è in questo senso che l’etnografo è lo strumento di ricerca più importante, come avviene questa stretta identificazione con il metodo? Riflettendo sulla mia esperienza, posso individuare tre eventi principali. Insegnavo
in una scuola secondaria
da sette anni e stavo
usando il mio anno sabbatico per frequentare un corso di diploma, che pur essendo abbastanza interessante non era invece stimolante, restando per buona parte fermo a quadri di riferimento positivistici e quantitativi. Tuttavia quell’anno ci fu un evento che trovai estremamente stimolante. Si trattò della pubblicazione del libro di David Hargreaves, Social Relations in a Secondary School (1967): dopo centinaia di ampie indagini, analisi distaccate, testi di metodi statistici e sistematici, lavori teorici astrusi e altri volumi spersonalizzati, ecco finalmente un libro su persone reali e sulla vita reale a scuola. Era rigoroso, ma al tempo stesso accessibile e vibrante. Leggendolo, si sentiva di conoscere quei ragazzi e i loro insegnanti. Se ne conoscevano altri proprio come loro: per esempio, ‘Clint’ e la sua banda erano il terrore della scuola. Ma un altro apprezzabile aspetto del libro era l’interpretazione del problema: la sua origine non era nei ragazzi, ma nelle pratiche di “canalizzazione” della scuola, che “differenziavano” gli alunni in gruppi i quali a
' Per una bibliografia in tema di ricerca sull'insegnamento creativo, vedi Woods (1999) e inoltre Troman, Woods (2001).
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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loro volta si “polarizzavano” in opposte sottoculture “pro” e “contro” la scuola. | ragazzi “contro” non erano dunque meri “devianti patologici”, come solitamente erano considerati, ma piuttosto vittime della pratica organizzativa della scuola. Hargreaves non aveva iniziato la ricerca sulla base della premessa che fossero devianti, ma aveva guardato al mondo dalla prospettiva dei giovani, aveva dato loro voce e offerto loro una misura di uguaglianza e giustizia. Il secondo evento per me determinante ebbe luogo due anni più tardi, mentre frequentavo un corso di Master, e fu l’incontro con Frank Musgrove. Da lui acquisii una preparazione di base in sociologia, rimanendone affascinato. Particolarmente interessanti erano le sue fini intuizioni sulla vita quotidiana, e in apparenza banale, della scuola. Musgrove era attratto dal conflitto e dal comportamento contraddittorio e incoerente che lì avevano luogo: la meschinità dell'aula insegnanti, il comportamento bizzarro del vicedirettore, le ragioni per cui insegnanti
e alunni si comportavano
diversamente
in
luoghi diversi, la vita nascosta delle istituzioni e come essa influenzasse quella manifesta. Risultava che molte cose precedentemente spiegate in termini puramente psicologici, come il
vandalismo, le assenze ingiustificate, il bullismo, il comportamento dirompente, potevano invece avere spiegazioni sociolo-
giche. Questo stesso sociologo dimostrò inoltre, con il suo studio sugli hippies in America, come un ricercatore potesse giungere a conoscere una sottocultura, i suoi valori, le credenze, gli interessi, e come questi si fossero codificati nel linguaggio e nel comportamento, evidenziando al tempo stesso come fossero anche un prodotto della società contemporanea, con le sue strutture occupazionali in cambiamento, la crescita dell'automazione e le aziende dalle dimensioni enormi e impersonali. La settimana da lui trascorsa in una comune sufi indicò poi come si potesse capire un gruppo dall'interno (Musgrove, 1975). La combinazione della sociologia con un approccio di ricerca qualitativa mi sembrò una risorsa potente, una convinzione che doveva ricevere un ulteriore impulso quando, nei primi anni Settanta, mi spostai alla Open University e incontrai l'interazionismo simbolico. Questo stava proprio allora diventando popolare nella cosiddetta “nuova sociologia dell'educazione”:
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P. WOODS
rappresentava una reazione allo struttural-funzionalismo che aveva finito per predominare nella “vecchia” disciplina e offriva il giusto tipo di “equipaggiamento” intellettuale che da parte mia avrei potuto utilizzare per studiare le questioni educative che m'interessavano.
2. Gli aspetti principali dell'etnografia interazionista Gran parte della mia attività insegnamento creativo, è basata (Woods, 1996), i quali - occorre to numerose forme di ricerca aspetti principali.
di ricerca, inclusa quella sullo sui principi dell’interazionismo riconoscerlo — hanno sostenuqualitativa. Esaminiamone gli
2.1. La messa a fuoco dei contesti naturali L'etnografia si occupa della vita così come è vissuta, delle cose così come avvengono, delle situazioni così come sono costruite nel corso di eventi che hanno luogo giorno per giorno, momento per momento. Gli etnografi cercano esperienze vissute in situazioni reali; in generale, essi cercano di non disturbare la scena della ricerca e di non essere intrusivi con il loro metodo, al fine di garantire che, per quanto possibile, i dati e l'analisi rifletteranno intimamente ciò che avviene in un certo contesto.
All’inizio, il ricercatore cerca di formulare il minor numero possibile di supposizioni su quali problemi e questioni saranno individuati; in questo senso, giova che il ricercatore “renda estraneo il familiare”, non prenda cioè le cose per scontate, mettendo piuttosto in discussione le basi dell'azione (Becker, 1971). In altre occasioni, invece, una “profonda familiarità” con la scena e le persone che in essa agiscono può favorire le intuizioni (Goffman, 1989; Strauss, Corbin, 1990). Gli etnografi preferiscono un coinvolgimento lungo e profondo nel contesto naturale: la vita sociale è complessa nella sua gamma e variabilità, opera a livelli differenti e ha molti strati di significato (Berger, 1966), per cui una lunga permanenza
nei contesti
d'indagine è necessaria
accedere a questi ultimi.
proprio per poter
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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Si è discusso lungamente se vi siano tali “situazioni reali” e se possano mai essere rappresentate nei resoconti di ricerca. Di questi tempi, tuttavia, pochi ricercatori qualitativi sottoscriverebbero la prospettiva teorica che vi è una realtà oggettiva
totalmente conoscibile. Più diffusa è la prospettiva modificata del realismo “critico”, “analitico” o “sottile” (Hammersley, 1992; Altheide, Johnson, 1994), che fa riferimento a una visione della conoscenza come rappresentazione della realtà, che può essere conosciuta
soltanto parzialmente,
mai totalmente. Quanto
più raffiniamo i nostri metodi, quanto più rigorosamente li applichiamo e quanto più abili diventiamo nell'arte dello scrivere tanto più ci avviciniamo a quella realtà. Ma siccome la conoscenza non è mai totale o certa, ma soltanto provvisoria e soggetta ad alterazione o raffinamento attraverso le ricerche successive, se ne conclude che nelle scienze sociali non esiste una verità fissa, immutabile, né alcun piano (quanto meno per quel che ci è dato conoscere) grazie al quale le cose “si tengono” tutte insieme: “il mondo sociale è un mondo interpretato... [Il realismo analitico] è fondato sul valore di cercare di rappresentare fedelmente e accuratamente i mondi sociali o i fenomeni studiati” (Altheide, Johnson, 1994, p. 489). 2.2. Un interesse per i significati, i punti di vista e la comprensione Gli etnografi cercano perciò di scoprire i significati che i partecipanti assegnano ai propri comportamenti, il modo in
cui interpretano le situazioni e il punto di vista da cui considerano specifiche questioni.
Proprio come le situazioni possono influenzare i punti di vista, così le persone possono ridefinire e costruire le situazioni. Il metodo di ricerca deve perciò essere sensibile non soltanto ai punti di vista dei partecipanti, ma anche individuare se e quanto essi possano variare in relazione ai diversi tempi e luoghi in cui si trovano
i soggetti, attraverso
un appropriato
campionamento di questi ultimi. | ricercatori devono essere vicini ai gruppi, vivere con loro, guardare il mondo attraverso i loro occhi, essere empatici, prestare attenzione alle incoeren-
ze, alle ambiguità e alle contraddizioni presenti nei loro comportamenti, esplorare la natura dei loro interessi, capire quali relazioni intrattengano. Gli obiettivi sono quelli di valorizzare
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P. WOODS
la cultura di questi gruppi, di catturare i significati che permeano la stessa così com'è compresa dai partecipanti, di apprendere il particolare uso della lingua che essi fanno e di capire il comportamento dentro il gruppo. In questo modo, si potrà tracciare la connessione tra queste culture e le strutture sociali. 2.3. L'accento sulla dimensione processuale Gli etnografi sono interessati al modo in cui si formano le comprensioni, si negoziano i significati, si sviluppano i ruoli, si progetta un curricolo, si formula e si realizza una decisione politica, come un alunno diventa deviante: si tratta di questioni processuali, non di prodotti, poiché la vita sociale è in divenire, in sviluppo, fluttuante, un farsi, che non arriva e non finisce mai. Alcune forme di comportamento possono essere relativamente stabili, altre variabili, altre emergenti; alcune forme d'interazione procedono per stadi o fasi. Questo pone di nuovo l'accento sulla necessità di una lunga e sostenuta immersione “nel campo” da parte del ricercatore al fine di seguire i processi nella loro interezza e produrre una “descrizione densa” (Geertz, 1973) che includa tutta questa ricchezza. Per esempio, i processi d'induzione culturale, di etichettamento, di formazione dell'identità, di differenziazione e di polarizzazione, di modificazione del curricolo, di formazione dell'amicizia richiedono tutti un lungo coinvolgimento sul “campo” di ricerca, altrimenti soltanto una parte del processo sarà presa in considerazione, portando ad analisi ingannevoli. 2.4. L'analisi induttiva e la teoria fondata (grounded theory) Nella maggior parte dei casi, gli etnografi non iniziano una ricerca con
una
teoria che intendono
verificare e provare,
o
confutare, sebbene non vi sia una ragione per cui non dovrebbero farlo se così desiderano. Però essi per lo più lavorano in senso opposto, cercando di generare la teoria dai dati, teoria che è definita come fondata (grounded) proprio nell'attività sociale che ha la pretesa di spiegare (Glaser, Strauss, 1967). La maggior parte del nostro lavoro si è basata su interviste non strutturate e su osservazioni e ha prodotto una massa di
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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dati che consistono in trascrizioni, note di campo e documenti (come quelli riguardanti la programmazione e la realizzazione d'interventi, gli appunti delle lezioni dell'insegnante e le sue relazioni, i diari, il lavoro degli alunni). Noi li esaminiamo cercando di individuare temi e categorie predominanti, nonché qualsiasi struttura discernibile grazie a cui essi sono tenuti insieme, usando ogni possibile metodo. Questo è il primo passo nella formulazione della teoria, la manovra per spiegare perché le cose sono come sono, piuttosto che semplicemente il modo in cui sono. Un esempio di questo procedere è offerto dal capitolo di Bob Jeffrey, presente in questo volume, dove sono messe a confronto i punti di vista degli ispettori Ofsted? con quelli degli insegnanti. Cogliere tali punti di vista crudamente rivelati attraverso
questo
confronto
porta a riconoscerli
come
emer-
genti da discorsi opposti, che a loro volta hanno la loro origine in differenti concezioni dell'insegnamento. Perché questa debba essere una questione così pressante, oggi, richiede una successiva macroanalisi collegata alle teorie della globalizzazione e a come queste influenzino le politiche educative nazionali. Nel nostro caso eravamo partiti con la raccolta dei dati nella nostra area generale d'interesse, per sviluppare poi quelle che ci sembravano le teorie emergenti più appropriate. 2.5. Validità L'etnografia è stata spesso criticata perché produrrebbe una base interpretativa troppo debole per poter fare generalizzazioni. Ad esempio, attraverso l'etnografia si può dimostrare in maniera molto interessante che un alunno si lascia andare a un comportamento
dirompente, o viceversa s'impegna
in atti-
vità creative, quando è trattato in un certo modo; alcuni, tuttavia, potrebbero molto legittimamente domandare “a quanti alunni si possono estendere tali interpretazioni?”. Troviamo dunque utile distinguere, in questa occasione, tra validità interna ed esterna. La validità interna riguarda l'accuratezza del resoconto presentato in riferimento al caso o ai casi oggetto di
? L’Ofsted (Office for standards in education) è un'organizzazione indipendente istituita dal governo britannico per condurre ispezioni standardizzate in ogni scuola di Stato [N.d.T.].
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ricerca. La validità esterna riguarda invece la generalizzazione di un'interpretazione a altri casi.
Quanto alla validità interna, essa caratterizza fortemente le etnografie ed è solitamente fondata su tre aspetti principali (affiancati da un certo numero di variazioni e combinazioni): — Metodi non intrusivi: essi mirano a lasciare “il campo” quanto più possibile “indisturbato” e sono contemporaneamente qualificati da una prolungata presenza del ricercatore nel contesto di ricerca. Da qui l'accento posto sull’osservazione partecipante o non-partecipante, sulle interviste non struttu-
rate o sulla conversazione, sull'impiego di testimoni privilegiati e sullo studio dei documenti. — Validazione della ricerca da parte dei soggetti: infatti, se il nostro scopo è quello di comprendere i significati e i punti di vista degli altri, come altrimenti verificare quanto fedelmente li abbiamo rappresentati se non domandandolo alle stesse persone tra cui abbiamo svolto la ricerca? Questo non è tuttavia appropriato per qualsiasi situazione, ad esempio quan-
do il ricercatore inevitabilmente si trova invischiato nelle politiche interne dell'istituzione oggetto di studio, o nei casi in cui il ricercatore assume una non anticipata posizione for-
temente critica. — Triangolazione: l’impiego di differenti ricercatori o metodi, in differenti momenti di tempo, in luoghi differenti, tra persone differenti, e così via, rafforza il resoconto. Per esempio, le informazioni apprese durante un'intervista sono rafforzate, e probabilmente modificate, dall'’osservazione e dallo studio dei documenti o da ulteriori interviste. Eisner (1991, p. 110) usa il termine “corroborazione strutturale” e cioè “un mezzo attraverso il quale tipi molteplici di dati sono collegati l'uno all'altro per sostenere o contraddire l'interpretazione e la
valutazione dello stato delle cose”. Quanto alla validità esterna, i risultati presentati da un'etnografia si possono estendere anche ad altri casi, non necessariamente attraverso i numeri o le frequenze (benché anche questo sia possibile, se è affiancato da metodi quantitativi), ma attraverso la teoria che viene elaborata. Sebbene questa possa essere inizialmente generata da un solo caso, essa è messa poi a disposizione degli altri ricercatori in modo che possano verificarla e — se necessario — modificarla. Probabilmente, l'esempio
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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meglio conosciuto è rappresentato dalla ricerca sulla differenziazione-polarizzazione iniziata da Hargreaves e da Lacey negli anni Sessanta e poi portata avanti da altri ricercatori impegnati in contesti e in tempi differenti durante tutti gli anni Settanta. Per quel che ci riguarda, abbiamo cercato di sviluppare e ampliare la teoria sull’insegnamento creativo, identificando aspetti significativi quali l'appropriatezza, il controllo, l'innovazione e la pertinenza. Successivamente li abbiamo verificati, estendendoli a diversi luoghi di ricerca, e infine applicandoli all'apprendimento creativo. Siamo inoltre riusciti a fare confronti tra numerosi progetti di ricerca nostri e dei nostri studenti e ad elaborare teoria a un differente livello, collegando collettivamente le numerose etnografie alle tendenze presenti nella società e nell'intero sistema educativo. Così le variazioni nelle opportunità e nelle costrizioni nell'attività d'insegnamento attraverso gli anni Ottanta e Novanta, descritte vividamente nelle etnografie, erano collegate ai processi di ristrutturazione in campo educativo, a loro volta connessi a quelli della globalizzazione. 2.6. Lo sviluppo della teoria Lo sviluppo della teoria procede di solito attraverso l'analisi comparativa: i casi sono confrontati su una gamma di situazioni, durante un periodo di tempo, tra un certo numero di persone e attraverso una varietà di approcci. Il confronto è presente lungo tutta la ricerca: nel controllare i dati, nel verificare un'idea, nel mettere in rilievo gli elementi distintivi di una categoria, nello stabilire gli aspetti generali all'interno di un gruppo e ciascuno di questi momenti potrebbe far scaturire ipotesi sul “perché”, portando a ulteriori confronti per verificare e raffinare l’idea. Anche l’attività di teorizzazione procede lungo tutto il periodo della ricerca: non appena si comincia a identificare eventi o parole significativi e si procede a sviluppare categorie e concetti,
si stanno già costruendo gli elementi essenziali della teoria. Il ricercatore si ritrova immerso nei dati, ma al tempo stesso col-
tiva la distanza analitica necessaria per essere in grado di riflettere sugli stessi e per permettere all'immaginazione di lavorare al fine di scorgere le strutture nel dettaglio o il modo in
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cui elementi apparentemente non collegati possono essere connessi. Una varietà di “congegni” può essere usata per aiutare questo distanziamento, per esempio un diario con le riflessioni personali, il coinvolgimento e i sentimenti rispetto alla ricerca; inoltre, commenti a margine sulle “note di campo”, via via che nuove idee prendono corpo quando le si rileggono alla luce del lavoro successivo; e ancora, lo scrivere promemoria e annotazioni; infine, il giocare con i dati, costruendo differenti tipi di riassunti, figure, tavole, diagrammi; insomma, tutto quanto può aiutarci a cogliere una prospettiva o le interconnessioni. Consultare la letteratura scientifica è parte integrante dello sviluppo della teoria e la via principale per fare confronti al di fuori della ricerca. Ma è pure utile consultare i colleghi, sia per il loro capitale di conoscenze sia per riverberare questioni e dubbi del ricercatore; essi rappresentano un'ulteriore fonte di confronto cui attingere attraverso la discussione (il mero fatto di cercare di articolare un'idea aiuta a darle forma), facendo circolare uno scritto od organizzando seminari. Il tempo è un altro fattore importante: quanto maggiore è il coinvolgimento, più prolungata la frequentazione, più ampio il campo dei contatti e delle conoscenze, più intensa la riflessione, tanto più forte è la promessa di una teoria “fondata” nel senso espresso più sopra. Come rileva Nias (1991, p. 162), il fatto che io abbia lavorato così a lungo sul materiale ha permesso alle mie idee di crescere lentamente, seppure dolorosamente. Esse sono
emerse,
si sono
separate,
ricombinate,
sono
state verificate
l'una contro l'altra e contro quelle di altre persone, sono state rifiutate, raffinate, ri-formate. Ho avuto l'opportunità di pensare moltissimo nell'arco di 15 anni sulle vite e le biografie professionali dei maestri e sulla loro esperienza d'insegnamento come lavoro. Le mie conclusioni, sebbene siano alla fin fine quelle di un outsider, sono contemporaneamente davvero ‘fondate’ e hanno avuto il vantaggio di maturarsi lentamente in un clima professionale stimolante.
Questo autore ci ricorda che occorre pensare un bel po' durante il processo di ricerca e che questo risulta spesso doloroso, benché alla fine molto appagante. Lottare con montagne di materiale che si accumula, ricercare temi e indicatori che gli daranno un qualche senso, prendere strade apparentemente promettenti soltanto per scoprire che sono senza uscita, scrivere
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un numero sempre maggiore di annotazioni e promemoria, rileggere gli appunti e la letteratura per trovarvi segni e indizi,
fare ulteriore lavoro “sul campo” per riempire i buchi o per verificare una teoria in nuce, presentare elaborati provvisori che ricevono sia critiche sia apprezzamenti (se si è fortunati), tutte queste azioni sono parte del processo di generazione della teoria. 2.7. Il campionamento La direzione della ricerca potrà avere implicazioni per il campionamento: laddove il ricercatore sta cercando di fare affermazioni su un intero gruppo, una cultura o un'istituzione, è necessario
un
campione
rappresentativo
o “naturalistico”,
che
tiene conto dei luoghi, dei tempi e delle persone (Ball, 1990). Così, se stessimo studiando i punti di vista degli insegnanti o degli alunni, avremmo bisogno di prendere in considerazione tali soggetti in contesti differenti, dato che il comportamento può differire marcatamente nelle diverse situazioni (per esempio, nelle circostanze formali della classe o dell'ufficio di un insegnante, nella sala insegnanti, nelle varie classi, nella ambientazione informale di un pub e nel “rifugio” costruito dalla casa dell'insegnante. Le medesime affermazioni si possono fare a proposito del tempo: i cicli settimanali e annuali, per esempio, costituiscono periodi critici nelle scuole. Se la nostra ricerca costruisse il proprio campione soltanto agli inizi e/o alla fine dei trimestri, delle settimane o dei giorni, finiremmo con il ritrovarci alle prese con uno studio distorto nel caso in cui dovessimo sostenere che i nostri risultati possono applicarsi più generalmente. E ancora, se nei nostri dati stiamo cercando di
rappresentare un gruppo (il “dipartimento di inglese”, le “ragazze della quinta superiore”), dovremmo assicurarci di avere un campione di quel gruppo costruito secondo alcune caratteristiche appropriate, come l'età, il genere, l'etnicità, l'esperienza. Nella ricerca qualitativa, tuttavia, il campione rappresentativo non sempre può essere costruito a causa: (a) della natura inizialmente molto esplorativa della ricerca; (b) dei problemi relativi alla negoziazione dell'accesso; (c) del semplice peso del lavoro e dei problemi di raccolta e rielaborazione dei dati. Spesso il ricercatore deve arrangiarsi con un campione
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opportunamente costruito? in quelle aree in cui gli è offerto l'accesso o con un campione “a valanga” o “a cascata”, sviluppato attraverso il contatto personale e le raccomandazioni lungo il processo di ricerca. Questa può in effetti essere la sola via per avere persone disponibili a farsi coinvolgere nella ricerca, per esempio in ambiti di estrema delicatezza (cfr. Carlyle, 2001). In questi casi, la base del campione dev'essere resa esplicita e non debbono essere avanzate ipotesi che generalizzino i risultati. Ciò che il ricercatore mira a dimostrare è come qualcosa funzioni o risulti in casi particolari, dato un certo insieme di circostanze; così può desiderare di studiare una scuola o un insegnante di particolare successo, mettendo in luce i fattori associati, in tutta la loro complessità e nella misura in cui è possibile. Questo sapere è successivamente reso
disponibile ad altre scuole e insegnanti perché considerino se anch'essi possono costruire un insieme di fattori simile o, invece, modificarli, adattandoli alle circostanze dando contemporaneamente un contributo per una teoria emergente.
3. La sfida postmoderna Gli scienziati sociali postmoderni sostengono che l'approccio tradizionale delineato più sopra si situa in un quadro realistico caratterizzato dalla supremazia del ricercatore/autore. L'autore tradizionalista presenta un tipo di realtà oggettiva che egli/ella ha percepito come se fosse una sorta di spettatore onnisciente. Nel resoconto scritto è appunto lo scrittore che descrive, analizza, interpreta, rappresenta. Perfino laddove la trascrizione è usata liberamente, le selezioni sono fatte e organizzate dentro il quadro di riferimento dell'autore. Con la svolta “letteraria” o “postmoderna” (Tyler, 1986) sono sopravvenute nuove forme di scrittura, più relativiste che realistiche, che originano dalla credenza che il sapere del testo non è indipendente dall'autore e che quello che sappiamo in ogni caso può soltanto essere parziale. L'accento qui non è tanto sulla “comprensione corretta” (ovvero sulla capacità di rappresentare
? Tale tipo di campione è anche definito “campione a scelta ragionata” o “non probabilistico” |N.d.T.).
1. I metodi etnografici nella ricerca sull’insegnamento creativo
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una realtà oggettiva), quanto di una comprensione “diversamente sfumata e contornata” (Richardson 1994, p. 521). Non c'è soltanto una verità, né un'unica spiegazione per una qualsiasi co-
sa, ma piuttosto molte verità che si sovrappongono, che operano a livelli differenti e che sono costantemente soggette al cambiamento. Richardson (1994, p. 522) di conseguenza ritiene che “cristallizzazione” sia un concetto che, rispetto alla validità, è più efficace di “triangolazione”. Quest'ultima assume un punto fisso, una sola verità, è troppo rigida e bidimensionale per la complessità multi-sfaccettata della vita sociale. Il cristallo, al contrario, “combina la simmetria e la sostanza con una varietà infinita di forme, sostanze, trasmutazioni, multidimensionalità, e angoli di approccio” (ibidem). Egli perciò sostiene che abbiamo bisogno di nuovi modi di ricerca e di scrittura che offrano una più approfondita comprensione dei fenomeni che essi descrivono. Van Maanen (1988) ha riassunto i principali tipi di resoconto che sono emersi, e cioè: (1) le “storie realistiche”, ossia l'approccio tradizionale dove l'accento è posto sul realismo e sull’oggettivismo, dove lo scrittore adotta una posizione distaccata, onnisciente, impiegando criteri “scientifici” per convalidare la ricerca; (2) le “storie intime”, in cui gli scrittori effettivamente si vedono come parte della ricerca e “confessano” i ; problemi e i limiti dei loro metodi di ricerca e delle loro azioni come ricercatori. Tuttavia, queste storie restano ampiamente entro il paradigma delle storie realistiche. Infine vi sono (3) le “storie impressionistiche (postmoderne)” dove molto maggiore
è la preoccupazione di dare voce agli altri nella ricerca, a quelli che possono essere considerati come “soggetti” della ricerca nelle storie realistiche. Gli scrittori di storie impressionistiche usano
una gamma
di congegni
letterari per evocare situazioni
ed esperienze, suscitare sentimenti, ma anche stimolare il pensiero, e celebrare le differenze, le numerose, mutevoli realtà, l'incompletezza e la parzialità. Hitchcock e Hughes concludono che “ciò produce una storia molto differente, una maniera molto differente di dar conto della ricerca sul campo, ma che tuttavia colpisce, è stimolante, vibrante, riccamente descrittiva e immaginativa” (1995, p. 338). Alcuni studiosi sostengono che questi approcci
differenti uno stato è sono il prodotto di differenti epistemologie, che vi
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P. WOODS
spostamento paradigmatico, e che siamo arrivati a un nuovo “momento” chiaramente identificabile nella ricerca qualitativa (vedi, per esempio,
Denzin,
Lincoln,
1994; Denzin,
1997). In
effetti, se si guarda alla questione in termini fortemente delineati in senso realistico o relativistico, vi è chiaramente un'enorme differenza. Personalmente ritengo che questi approcci non siano reciprocamente esclusivi, ma che piuttosto estendano le possibilità della rappresentazione etnografica proprio dentro il quadro tradizionale.‘ Vi sono differenti tipi e livelli di vita sociale con cui il ricercatore ha a che fare: alcuni sono più oggettivi, come quegli elementi che comportano un qualche tipo di quantificazione e di descrizione “dura”; altri sono più soggettivi, come le emozioni, i valori, le credenze, le opinioni degli individui; alcuni altri, infine, sono impressionistici, come nella rappresentazione del clima di una situazione o dell'umore di un gruppo di persone. Certamente alcune di queste aree non sono per ora inci-
sivamente presenti nella ricerca qualitativa tradizionale, ma non vi è nessuna ragione epistemologica perché esse non debbano esserlo. Così è possibile raccontare una storia impressionistica all'interno di una contesto realistico: occorre, in altre parole, cogliere il “momento” postmoderno per estendere la nostra ricerca e per sviluppare e raffinare i nostri metodi.
4. Aspetti della ricerca sull'insegnamento creativo
Ciò che caratterizza il metodo etnografico di raccolta dati è ben conosciuto: principalmente, osservazione partecipante o non partecipante, interviste non strutturate o semistrutturate, discussioni o conversazioni e analisi dei documenti. In questo testo desidero concentrarmi su quegli aspetti che sono stati meno discussi nella letteratura, ma che sono stati importanti per il nostro gruppo durante la ricerca sull'insegnamento creativo, e cioè la serendipità, il ruolo del ricercatore e il lavoro di gruppo.
‘* Per un'ampia discussione di questa posizione, vedi Woods (1996, 1999).
1. I metodi etnografici nella ricerca sull’insegnamento creativo
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4.1. La serendipità” Spesso, grazie al caso, la ricerca si trova davanti a una svolta determinante ma non prevista o prevedibile: sta a noi fare in modo di avvantaggiarcene — riconoscendo tale possibilità — e di non perdere l'occasione per “svoltare” al momento opportuno. In questo senso, vi sono parallelismi interessanti con alcuni dei risultati sostanziali della nostra ricerca: per esempio, trovammo una differenza marcata tra due diversi approcci di insegnamento, che descrivemmo come “portare a conclusione”, da un lato, e “seguire la corrente”, dall'altro (Woods, Jeffrey, 1996, pp. 34-38). Il primo è la conseguenza di un approccio “per obiettivi” che si concentra sul concludere i compiti prescritti entro un tempo determinato, indipendentemente dal fatto che emergano altre opportunità di apprendere. “Seguire la corrente” pone invece l'accento sul processo e implica intuizione, spontaneità, entusiasmo e divertimento. La serendipità nella ricerca è qualcosa di simile, poiché spesso i risultati più esaltanti capitano nei momenti più inaspettati. A questo proposito, voglio presentare alcuni esempi dalla nostra ricerca sugli “eventi critici” (Woods, 1993). Uno degli “eventi critici” da me osservati riguardava i bambini di due scuole elementari che stavano programmando e | progettando un centro per la loro città sulla storia locale, aiutati dai loro insegnanti e da un gruppo di architetti e urbanisti (ibidem). Per due volte mi capitò di ritrovarmi con il morale alle stelle, mentre fino a un momento prima mi sentivo depresso e avvilito. La prima volta fu alla fine di una dura giornata di interviste, quando mi stavo riposando nel mio albergo, di sera presto. Mi era stato detto che Philip Turner, funzionario aggiunto all'urbanistica della Provincia, che aveva partecipato al progetto, sarebbe stato felice di parlare con me quella sera
? Il termine “serendipità” deriva dall'antico nome con cui era conosciuta l'isola di Ceylon, Serendip. Fu coniato nel 1754 da Horace Walpole nel racconto “1 tre principi di Serendip” e, nel linguaggio ordinario, indica il trovare qualcosa, non cercato e non previsto, mentre si cerca qualcos'altro. Nel linguaggio scientifico, si parla di “serendipità” quando, nel corso di osservazioni empiriche, si trovano “dati o risultati imprevisti da una teoria o contrastanti con essa, ma di importanza fondamentale” (Il Nuovo Zingarelli Gigante, Zanichelli, Bologna
1983, p. 1777). Per la storia e l'uso del termine, cfr. Merton,
Barber, 2002 [N.d.T.].
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non appena fosse ritornato da Londra, perché non sarebbe stato disponibile in altri momenti. Ero seduto al bar, con un whisky e soda in mano e il biglietto da visita con il numero di telefono di Turner nell'altra, e mi chiedevo che cosa mai avrebbe potuto dirmi che non mi fosse già stato detto. Pioveva a dirotto e in più, in un angolino della mia mente, c'era la fitta lista degli impegni del giorno dopo. Ma poiché penso che i ricercatori debbano avere una qualche tendenza al masochismo, mi feci coraggio e chiamai quel numero. Quella sera stessa, il progetto acquistò vita nel soggiorno di Philip Turner: fu una intervista stupefacente, piena di nuovi dati e nuove intuizioni avanzate da qualcuno che era dotato di abilità e conoscenze speciali
e con un ruolo specifico nel gruppo. Aveva interi rac-
coglitori con la documentazione del lavoro degli alunni nelle diverse fasi, di cui mi indicò gli aspetti che testimoniavano sia il talento del lavoro infantile sia i suoi limiti. Mentre guardavamo i disegni, aveva commentato: “penso che gli architetti fossero alquanto stupiti dai risultati raggiunti da quei bambini. Se esamino alcuni dei primi, questo [indicandomene uno che non era effettivamente completato] è davvero straordinario per un ragazzino di 10-11] anni... esser giunto a quel livello con il concetto di un simile edificio... essere capace di disegnarlo in quel modo, quasi interamente da solo...” Turner era di umore riflessivo, si metteva nella situazione, guardava agli effetti su se stesso come parte dell'evento. Si ricordò di una conferenza che aveva tenuto ad alcuni alunni della sesta classe, che gli avevano chiesto: “Hai mezzo accennato che ti piacerebbe qualcosa come un forte controllo urbanistico su ciò che gli agricoltori fanno, in quanto stanno danneggiando l'ambiente. Allora, stai facendo pressione in tal senso?”. Egli aveva risposto “di non credere che sarebbe stato realistico nella presente situazione politica”, affermazione cui i ragazzini avevano replicato denunciandola come “una ritirata bella e buona!”. Parlando con me, se n'era appunto ricordato, concludendo che “quell'episodio aveva da allora effettivamente caratterizzato il suo approccio all'intera questione”. Nell'evento “critico” Philip Turner era stato quello che io definisco un “altro critico” (Woods, 1995), ovvero una di quelle persone che (malgrado non abbiano un ruolo formale all'interno
dell'istituzione dove tale evento
ha luogo) danno
un input
1. 1 metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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significativo all'evento e hanno la funzione di valorizzare il ruolo dell'insegnante, essenzialmente fornendogli una qualità carismatica. Ciò è la conseguenza di tre gruppi di attributi determinanti: 1) Qualità che emergono dall'essere “altro”. Esse rappresentano una sfida nei confronti di quel che è dato per scontato, introducono la novità, presentano nuovi modelli di ruolo, rendono estraneo il familiare, ampliano le prospettive. 2) Qualità personali che provengono dal Sé e che offrono fiducia, fede e ispirazione; inoltre esse inducono nuove intuizioni, costruiscono la sicurezza, rafforzano le relazioni. 3) Qualità che derivano dalla “professione”, grazie alla conoscenza e alla competenza specialistiche che favoriscono l'autenticità del lavoro degli insegnanti. Tenendo conto di questo mio quadro di riferimento, Philip Turner esprimeva perplessità, era un “altro critico” anche rispetto alla nostra ricerca, poiché ci dava il suo contributo di conoscenza e la sua valutazione da specialista. Devo riconoscere che la sua capacità di trasmettere entusiasmo e di dare stimoli per il progetto furono contagiosi. Sebbene quel fatidico giorno io avessi già condotto una serie d’interviste, e raccolto una grande quantità d'informazioni, fu soltanto grazie alla nostra conversazione che cominciai a cogliere una parte del carisma che accompagnava l'evento. Il contrasto con la mia letargia iniziale non
avrebbe
potuto essere
maggiore,
permetten-
domi d'individuare e distinguere gli “altri critici”, caratterizzandoli inoltre come un tipo speciale di “testimoni privilegiati” (secondo il modo convenzionale di concepire la relazione tra il ricercatore e le questioni presenti “sul campo”). Ma un ulteriore input carismatico doveva venire da una fonte ancora più sorprendente: anche in questa occasione avevo
avuto un'altra lunga giornata a scuola, dopo una notte passata a rigirarmi nel letto dell'albergo. L'ininterrotto, duro calendario di incontri era stato preparato dalla direttrice, discutendo con la quale per un'ora e mezza era cominciata la mia giornata alle 9. Eravamo poi passati a visitare il centro insegnanti, dove
era esposto il lavoro dei bambini, e dove avevo avuto un'altra lunga discussione con il responsabile del Centro. Tornato a scuola, mentre ero a tavola per un pranzo di lavoro con le insegnanti, continuai a parlare con la direttrice, esaminando altri
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P. WOODS
lavori degli alunni. Nel pomeriggio, per ben due ore, intervistai gruppi di bambini senza fare neppure una pausa. Terminata l'ultima intervista in programma per le 16, respirai sollevato: era stata una buona giornata, in cui avevo raccolto una messe di dati interessanti. A quel punto la mia mente, che aveva dovuto stare sul chi vive in ogni momento per sette lunghe ore, non desiderava altro che riposare. Proprio allora, però, mi fu detto che Jonathan — un bambino di sette anni a suo tempo non incluso nelle interviste di gruppo — voleva parlare con me. Sarei stato così gentile da incontrarlo e intervistarlo, o ne avevo già ascoltati a sufficienza? Personalmente ero veramente convinto che ne avevo “già ascoltati a sufficienza”: dopo tutto, la raccolta dei dati dovrebbe lasciare un qualche spazio alla riflessione e all'analisi concomitanti. Ma Jonathan era già sulla porta e stava entrando
nella stanza proprio mentre
una stan-
chezza estrema si stava nuovamente impadronendo di me, ormai rassegnato a non fare niente di più che starmene seduto e a sbrigarmela al più presto con il rituale dell'intervista. Però, mentre il bambino andava avanti a parlare, c'era una tale urgenza e insistenza nelle sue parole e nel suo modo di fare da risvegliare la mia piena attenzione. Il fatto è che Jonathan era differente dai ragazzini che avevo incontrato in precedenza. Mi fu detto più tardi che il suo insegnante lo descriveva come “un alunno assolutamente nella media”, ma che, tra lo stupore di tutti, era risultato eccellente nell'attività del progetto. Annotai che questo era esattamente quello di cui il bambino aveva bisogno. Non aveva
fiducia in se stesso.
progetto. Ne traeva profitto tenzione arrivando con quel vuto un sacco di lodi e una suno se lo sarebbe aspettato
Era molto
preoccupato
e amava
questo
e si era guadagnato una grandissima atbellissimo lavoro, per il quale aveva ricevalutazione altissima, tanto più che nesda lui. Era bellissimo vederlo risplendere.
Era tutto questo che Jonathan voleva raccontarmi, e la lucentezza nei suoi occhi, l’ardore del tono e il linguaggio vivace del suo corpo appollaiato sul bordo della sedia furono in qualche modo capaci di riportare alla vita perfino questo affaticato, vecchissimo ricercatore. Si trattò di una discussione-chiave sotto due punti di vista: in primo luogo, poneva l'accento sulla qualità carismatica che accompagna gli “eventi critici” e che
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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può essere veicolata soltanto dal sentimento. Che in tali circostanze un bimbetto potesse provocare quell’effetto su di me mostra bene il potere del carisma. In secondo luogo, indicava una via d'accesso a due aspetti importanti della teoria dell'apprendimento emergente dall'intera ricerca. Infatti illustra, da un lato, un modo di comprendere che include “lo sviluppo di un sentire, di una sensibilità, la capacità di cogliere, un amore per un tema, l’'entrare in modo creativo nello spirito del campo d'indagine” (Best, 1991, p. 269). Dall'altro, permette d'accedere alla popolazione di alunni influenzati da “eventi critici” (tutti coloro che apprendono e in particolare quelli che non hanno ancora raggiunto risultati molto positivi) e al livello di tale influenza. Questi esempi di “relazioni di serendipità” (Fine, Degan, 1996, p. 440) mettono in luce gli occasionali effetti catartici di alcuni soggetti sul ricercatore, in situazioni dove sembrava piuttosto prevedibile il contrario. Nello stesso momento (e sulla stessa questione) in cui la ricerca comincia a farsi pesante (e “arrangiarsi” — vedi più sotto — sembra essere più che mai un pasticcio), una persona può fare esperienza di quella sublime eccitazione che giunge con l'evento assolutamente inaspettato.‘
La serendipità non si può programmare, ma si può tentare di creare le condizioni per cui sorga più facilmente, cercando di i mantenere una condizione mentale disponibile alle eventualità. Questo ci riporta, almeno in parte, alla persona dell’etnografo come il principale strumento di ricerca. È chiaro che non parlo di un qualcuno stabilmente fissato nel suo ruolo di ricercatore, bensì di un essere che percepisce, pensa, prova sentimenti, in-
terpreta, riflette ed è creativo. Noi cerchiamo di prendere ispirazione da alcuni degli insegnanti creativi che abbiamo studiato, e cerchiamo di coltivare quel che C. Wright Mills ha definito “immaginazione sociologica”, la quale consiste in gran parte della capacità di passare da una prospettiva a un'altra, costruendo, nel corso di questo processo, una visione adeguata di una società e dei suoi componenti. Questa immaginazione è
appunto ciò che distingue gli studiosi di scienze sociali dai tecnici puri e semplici. Si possono addestrare dei buoni tecnici in pochi anni. Anche l'immaginazione sociologica può essere addestrata, e va
6 per un'ulteriore discussione sulla “serendipità”, vedi Woods (1998).
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P. WOODS
detto anzi che di rado la si possiede senza una gran massa di lavoro, spesso di ripetizione; ma essa presuppone una qualità peculiare, che
le deriva forse dal fatto che la sua essenza è la combinazione di idee che nessuno riteneva combinabili [...). Vi è una sportività mentale e un'ansia di dare un senso al mondo, quali normalmente mancano nel tecnico puro e semplice; e mancano,
forse, perché il tecnico puro è
troppo addestrato, troppo bene addestrato. Infatti si può essere addestrati solo in ciò che è già noto, cosicché a volte l'addestramento rende incapaci di seguire nuove vie, refrattari a ciò che a prima vista appare
necessariamente
come
arbitrario e impreciso.
Invece è pro-
prio a queste immagini e nozioni vaghe che, se sono tue, ti devi attenere; è proprio su di esse che devi lavorare, perché quella è la forma in cui quasi sempre si manifestano le idee originali, quando si manifestano (tr. it. 1962, p. 223).
C'è bisogno d'immaginazione durante tutta l'impresa etnografica, nel piano di ricerca iniziale, nella negoziazione dell'accesso, nella raccolta dei dati e nella loro analisi. Deve esserci programmazione, ma occorre anche essere flessibili, permettersi di “seguire il flusso”, usare la propria perspicacia e consapevolezza per identificare il momento, il luogo o la persona serendipitosi, per aggirare gli ostacoli.
L'immaginazione
è
necessaria per riconoscere le occasioni di raccogliere dati interessanti e significativi e per prevenire di finire sommersi dai dati. In effetti, Harry Wolcott (2001) è convinto che uno dei maggiori problemi della ricerca etnografica non riguardi il come raccogliere i dati, ma il raccoglierne troppi, con il rischio di instupidire la mente. Abbiamo di tanto in tanto bisogno di prendere le distanze da tale attività e di lasciare invece l'immaginazione individuale e collettiva libere di costruire significati più profondi, per procedere all'elaborazione della teoria più appropriata. Verifiche e controlli seguiranno successivamente, ma la ricerca non riuscirà a prendere il volo senza una qualche intuizione immaginativa, 4.2. Il ruolo del ricercatore
Creare le condizioni per la serendipità e stimolare l'immaginazione è una delle virtù dell'’osservazione partecipante. Assumere un ruolo formale all’interno dell'istituzione dove si svolge la ricerca non solamente rende il ricercatore capace di apprezzare le prospettive di quel ruolo dall'interno, ma gli permette inoltre l'accesso alla miriade di contesti e d’incontri entro cui il suo
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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ruolo è agito fino in fondo. Ciò esige una larga parte del tempo del ricercatore e perciò l'osservazione non-partecipante è diventata più diffusa. Tuttavia, alcune virtù di quella partecipante possono essere mantenute anche con una partecipazione soltanto parziale. Per esempio, Geoff Troman, appassionato velista, divenne socio del club velico di una delle scuole da lui studiate. Un giorno, mentre dopo la scuola era in barca con un insegnante con cui fino a quel momento c'erano state difficoltà a stabilire un rapporto, un improvviso colpo di vento fece capovolgere la barca; mentre venivano sballottati in acqua in attesa dei soccorsi tra i due si stabilì una relazione forte, tanto che poi quell'insegnante divenne un testimone privilegiato (Troman,
1997).
Un altro esempio di partecipazione selettiva riguarda l'occasione di affiancare un maestro nell’insegnamento di alcuni contenuti prescritti dal curricolo nazionale, capitata a un membro del gruppo di ricerca sull’insegnamento creativo. Nel coglierla, decidemmo di sottoporre la “creatività” a verifica in queste nuove circostanze, ma naturalmente eravamo anche in-
teressati alla forma che avrebbe preso la collaborazione tra insegnante e ricercatore. Come ho detto poco più sopra, nella ricerca sugli “eventi critici” avevamo identificato gli “altri critici” — e cioè persone diverse dagli insegnanti che avevano eser‘citato una significativa influenza sull'evento. Si trattava ora di vedere se un ricercatore poteva agire come
un “altro critico”,
valorizzando il ruolo dell'insegnante e intensificando l'atmosfera carismatica dell'attività. Se così fosse stato, quali sarebbero state le implicazioni per l'elemento di ricerca centralmente presente nel ruolo? Una tale partecipazione aveva un'ulteriore attrattiva, ovvero che i ricercatori cercavano di aiutare l'insegnante
ad avere maggiore successo o uno ancora maggiore. La parte del curricolo da insegnare — la Grecia antica — costituiva un problema per l'insegnante, mentre il ricercatore ne aveva una approfondita conoscenza e competenza. Il progetto — che durò l’intero trimestre — andò veramente bene, grazie al fatto che il ricercatore forniva libri, diapositive, oggetti, idee, suggeriva visite, prendeva parte all'insegnamento, dimostrando che il prescritto curricolo nazionale poteva essere insegnato in modo stimolante e in accordo con i valori e le convinzioni degli insegnanti, purché avessero a disposizione risorse adeguate.
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P. WOODS
Ciò che il ricercatore fa, agendo come un “altro”, è stato da me considerato critico, il che suggerisce modi in cui il ruolo dell'insegnante può essere valorizzato. L'altro” aiuta l'insegnante a insegnare, ma aiuta anche la sua riflessività e la sua capacità di far ricerca sulla sua pratica. Chiaramente, gli insegnanti potrebbero trarre vantaggio da un tale stimolo, ma la collaborazione deve essere genuina. In questo particolare caso erano in
gioco due personalità, con obiettivi comuni, uguale potere, ruoli interconnessi e un forte accordo personale. Il dialogo e l'interazione tra i due generava le idee e l'entusiasmo che puntellavano i contenuti dell'insegnamento e compenetravano tutto. Nell'aspirare a essere “autenticamente collaborativo”, quel ricercatore si dispose a immergersi nell’insegnamento e a lavorare al massimo delle sue capacità con l'insegnante perché i contenuti fossero trasmessi e appresi con successo. Il gruppo di cui il ricercatore era membro fornì un quadro di riferimento “euristico” e controllò il progresso del progetto. Ci sono parecchi vantaggi in questa “divisione del lavoro”: il gruppo di ricerca fornisce un numero di controlli e contrappesi — innanzitutto, una sorta di triangolazione, poi un aiuto per mantenere un senso delle proporzioni e una prospettiva, infine la riduzione del conflitto di ruolo, rassicurando e incoraggiando l'immersione in quello dell'insegnante e tutto ciò che ne consegue in termini d'obiettivi comuni, eguale potere, strategie comuni e un comune investimento. È in verità difficile essere totalmente non-partecipante, specialmente nella scuola elementare, sebbene alcuni ricercatori abbiano cercato di rendersi quanto più possibile invisibili (per es., King, 1978). Da parte nostra, abbiamo preferito coinvolgerci con i partecipanti nella scena in tutti i modi possibili, non solamente perché ciò produce dati più significativi, ma perché ci sembra anche più convincente da un punto di vista etico. E tuttavia non mancano i problemi: per esempio, in che modo un ricercatore adulto “si coinvolge” con bambini piccoli? È probabile che questi percepiscano il ricercatore o come un “insegnante”
o come
un “adulto” e reagiscano in maniera con-
seguente, cercando di rivelare il meno possibile i loro pensieri e sentimenti più intimi. Nello studiare le prospettive di bambini bilingui proprio all'inizio della scuola (a quattro-cinque anni), Mari Boyle assunse il ruolo di insegnante “al minimo” e di adulto “al minimo”, evitando di agire come un'insegnante
I. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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vera e propria, e dunque rinviando i bambini alla loro maestra per avere il permesso di fare certe cose, per protestare contro il comportamento di compagni e per questioni di procedura, mentre si univa a loro nelle attività scolastiche, aiutandoli nel lavoro. Analogamente, nel ruolo di adulto “al minimo”, Mari evitava le connotazioni autoritarie che accompagnano, per esempio, i supervisori-pasti e gli altri assistenti non docenti. E ancora, si univa alle attività scolastiche e ai giochi in cortile, spesso su invito dei bambini, piuttosto che starsene a guardarli giocare, come un'estranea. Dentro, si sedeva con i bambini nell'angolo della lettura e ascoltava le loro storie, partecipava ai giochi, si univa alle attività incentrate sul “facciamo come se” e così via. Mari osservò che in tal modo le fu possibile parlare con i bambini, ponendosi molto di più al loro livello, e sul loro territorio, guadagnandosi la loro fiducia e riuscendo a entrare in chiave con il loro linguaggio, le loro regole e i loro rituali (Boyle, 1999). Ci sono pericoli, ma anche opportunità, nel farsi coinvolgere, di cui ci siamo resi conto in una maniera particolarmente acuta durante la nostra ricerca sullo stress degli insegnanti. Si tratta di una ricerca che ci porta a contatto con “aree” altamen-
te personali e intime e ci mette in relazione con persone vulnerabili; lo sforzo di stabilire un rapporto di empatia, per valutare equamente sia i loro sentimenti sia i loro punti di vista, per guardare al mondo insieme a loro invece che guardare loro, può portare il ricercatore profondamente dentro ai loro mondi ma renderlo altrettanto vulnerabile. Denise Carlyle racconta, a proposito della sua ricerca basata su una serie di lunghe interviste con insegnanti che soffrivano di stress, che “ci furono molti momenti pieni di tristezza. Piangevano apertamente sia le donne sia gli uomini. Da parte mia, ero profondamente commossa da molti racconti, ed ero pronta a renderlo visibile ai partecipanti. Non nascosi i miei sentimenti. Di quando in quando, io stessa ero sul punto di piangere” (Carlyle, 2001, p. 369). Ella affrontò la situazione “incoraggiando una relazione facilitante, che molto probabilmente offriva protezione ad ambedue i partner della conversazione, poneva l'accento sui vantaggi reciproci, controbilanciando così la loro paura di essere sfruttati” (ibidem). Ma il ricercatore abbisogna di risorse speciali per questa specie di lavoro, come “una conoscenza e una
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P. WOODS
comprensione articolate delle proprie emozioni e di quelle degli altri, con in più le abilità di controllare, valutare e gestire [le proprie emozioni)” (ivi, p. 370). Denise aveva queste risorse, che attingeva dalla propria vita di madre e moglie segnata da una serie di esperienze traumatiche, le quali avevano tutte accresciuto la sua comprensione a livello emotivo; inoltre, la sua esperienza professionale come insegnante e come consulente l'aveva
aiutata
a sviluppare
il tipo d'approccio
appropriato
nelle interviste. Tutto questo la rese capace di raccogliere dati fortemente significativi, inevitabilmente molto intensi da un punto di vista emotivo, ma contemporaneamente
di protegge-
re se stessa usando la tecnica terapeutica della “pattumiera” — ovvero, l'accettazione di tutti i sentimenti proiettati violentemente contro di lei durante l'intervista, la loro temporanea sopportazione, per poi “scaricarli nella pattumiera e di lasciarli dietro di sé” (ivi, p. 387), quando più tardi aveva lasciato il luogo della ricerca. Questa modalità non funzionò in tutti i casi e a un certo punto Denise stessa dovette iniziare una breve terapia, sebbene la famiglia, gli amici e il gruppo di ricerca fornissero un ulteriore sostegno di cui aveva tanto bisogno. Denise ritenne che l’intera esperienza l'avesse aiutata nella sua crescita personale, ma che le avesse anche posto alcune questionichiave intorno alla ricerca etnografica su temi scottanti.
4,3. Il lavoro di gruppo Per tradizione l’etnografia è un tipo di ricerca svolta individualmente, con la conseguenza che lavorare su temi scottanti (ma anche su altri) diventa ancor più difficile. In quello che Douglas chiama l'approccio del “ranger solitario”, gli etnografi “si sono inoltrati senza aiuti in un mondo pericolosamente conflittuale per riportare indietro vivi i dati. Questo approccio ha richiesto considerevole forza e coraggio per la maggior parte del tempo, e quasi sempre una capacità di operare da soli, poco o nulla sostenuti e ispirati dai colleghi” (1976, p. 192). Tuttavia, vi sono indicazioni che recentemente il lavoro di gruppo nella ricerca etnografica sta diventando sempre più diffuso.” E questo è certamente il modo in cui noi abbiamo
" Vedi, per esempio, Bryman, Burgess (1994).
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
lavorato per lo scorso decennio, costituì in buona parte per caso, del successo delle domande di mente per la collaborazione di aver successo,
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anche se il nostro gruppo si come risultato innanzitutto fondi-ricerca, e secondariaalcuni laureati-chiave. Per
un gruppo deve avere ciò che Liggett e i suoi
associati (1994) definiscono come un “legame comune” o una “disposizione mentale” largamente condivisa; così, nel nostro caso, i vari membri
potevano essere impegnati in progetti di-
stinti, ma erano poi tutti uniti da un interesse metodologico comune. Essi avevano interessi simili rispetto a problemi da indagare e in effetti i progetti di ricerca si sovrapponevano in
alcune aree, portando allo sviluppo di un ulteriore progetto che li collegava tutti insieme. In sintesi, e secondo la nostra esperienza, i vantaggi del lavoro di gruppo etnografico sono stati soprattutto i seguenti:
— La distribuzione del lavoro: un gruppo può coprire molto più terreno e svolgere compiti più complessi di quanto possa fare un individuo da solo. Se si lavora al medesimo progetto, vi può essere una divisione del lavoro, con parti che sono studiate più approfonditamente, come per esempio il raccordo scuola elementare-scuola secondaria, asilo-materna, le diverse aree geografiche o curricolari o infine i differenti elementi di campioni naturalistici. Condividere i dati porta poi a risorse più abbondanti, a una base comparativa più ampia e a una più profonda comprensione. — La triangolazione: essa può articolarsi in forme diverse, ad esempio con: (a) alcuni membri che si occupano della medesima idea o concetto (quali “ristrutturazione” o “tensione di ruolo” o “intensificazione”), facendo in altre parole quel che si può chiamare “triangolazione teorica”, oppure con (b) alcuni membri che mettono a fuoco un medesimo problema sostanziale, come le “ispezioni scolastiche” o la “figura del dirigente”, in vari contesti (differenti tipi di scuole o di aree geografiche o sociali), mettendo in atto quel che può essere definita “triangolazione sostanziale”, di solito alla base della “triangolazione teorica”, o ancora con (c) alcuni membri che in ruoli differenti mettono a fuoco la medesima persona o evento (cfr. Woods, Wenham, 1994). — Orizzonti di ricerca: il lavoro di gruppo può aprire nuove, impreviste, occasioni per i suoi membri. Ad esempio, le idee
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P. WOODS
sono spesso generate e formulate durante una discussione, emergono dall'interazione lungo la quale le persone propongono differenti punti di vista, mettono insieme le loro conoscenze, dibattono punti centrali, discutono, e difendono, gli argomenti portati a sostegno. Il lavoro di gruppo inoltre ottimizza le opportunità per pubblicizzare la ricerca, poiché i membri hanno i loro contatti e accessi preferiti, così che possono essere organizzate presentazioni riunificate e suddiviso il carico di lavoro. Il gruppo sviluppa un senso del tempo e del suo fluire — vi sono scadenze, riunioni, traguardi — e, se alcune di queste scadenze sono difficili da onorare, esso trova sempre un ampio sostegno al suo interno. — La trasformazione e lo sviluppo individuale: i membri del nostro gruppo hanno notato di essere stati sostenuti a livello personale durante i periodi difficili, di essere diventati più rigorosi nel loro approccio di ricerca, di aver sviluppato fiducia in se stessi, di aver trovato un contrappeso al timore di
“essere soli”, come pure un aiuto a riflettere e un antidoto all'autocompiacimento. — Il processo dell'“arrangiarsi" e la solidarietà: siccome l'etnografia non sempre è un approccio guidato da specifici obiettivi, con linee d'indagine sistematicamente programma-
te dall'inizio, i ricercatori devono trovare la loro strada da soli, spesso nell’ignoranza. Questo dà luogo a un processo comunemente noto come “arrangiarsi”, che implica mettere alla prova una serie d'idee prima di trovarne una che funzioni, sperimentare
una serie di situazioni
prima di arrivare a
una qualche intuizione, provare differenti forme di analisi prima d'individuare quella che dia conto dei dati in maniera soddisfacente, scrivere svariate stesure prima di scovare una forma espressiva appropriata. Se ne deduce che questo processo può essere un incubo per il ricercatore solitario, specialmente se alle prime armi — benché possa essere anche la parte più stimolante e appagante della ricerca, quella in cui si fanno nuove scoperte. Il nostro gruppo fu di aiuto nell’identificare e sviluppare linee di ricerca produttive per il lavoro di ciascuno, individuando somiglianze, contrasti e strutture interessanti presenti nei dati, aiutando i colleghi nei momenti di impasse in cui non era loro chiaro dove andare, e facendo da eco alle idee provvisoriamente abbozzate.
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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— Un aiuto nelle situazioni delicate e difficili: data l'ampiezza del coinvolgimento personale in etnografia, e la delicatezza di alcuni temi, i problemi etici possono essere considerevoli. Vi sono alcune indicazioni-guida generali disponibili attraverso le associazioni professionali, ma indipendentemente da quanto soddisfacentemente sono state elaborate c'è sempre una buona possibilità che sorgano nuovi problemi o che ci si ritrovi di fronte a un problema conosciuto, ma in una
nuova
situazione.
Come
deve
agire un
ricercatore
se
egli/ella sono testimoni che una direttrice tratta male i bambini o se si accorge che i ragazzini stanno facendo qualcosa di illegale? E ancora, in quale misura, durante una ricerca particolarmente delicata, il ricercatore può perseguire una linea d'indagine che lo porta fin nell'intimo dei soggetti?* — Un sostegno al rigore: in aggiunta alle forme di triangolazione citate sopra, il gruppo dà una mano a rafforzare le tesi della ricerca attraverso l'elaborazione di argomenti sempre più raffinati, può individuare i punti deboli dei casi o avanzare spiegazioni alternative, fornendo un quadro di riferimento critico, ma positivamente segnato dalla solidarietà.
5. Conclusione
L'etnografia è di per sé un'impresa creativa, che incoraggia un certo stato mentale caratterizzato da flessibilità, attenzione alla dimensione processuale e alla serendipità. Ma — nel suo modo peculiare — non è meno rigorosa degli approcci quantitativi ed è oggi sostenuta da un consistente corpus di letteratura scientifica. In effetti, in Gran Bretagna vi sono poche ricerche di scienze sociali che manchino della componente qualitativa. In questa sede, ho cercato di tracciare le proprietà fondamentali di una ricerca etnografica guidata dai principi sociologici dell'interazionismo e ho discusso alcuni degli aspetti distintivi propri del nostro approccio allo studio dell'insegnamento creativo. Vorrei inoltre ricordare che questo è il modo in cui noi abbiamo usato le tecniche etnografiche, un modo che, nonostante abbia molti elementi in comune con l’etnografia così 8 Questo, come ho già detto, avvenne durante la ricerca di Carlyle (2001)
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P. WOODS
come tradizionalmente la definiamo, non esclude la possibilità di utilizzare differenti approcci? da parte di altri etnografi. Ho dovuto lasciare molti punti importanti fuori da questo testo; in particolare ho detto pochissimo su quel che può andare storto. L'etnografia è un progetto ambizioso e non il più facile tra gli approcci di ricerca, così che un buon numero di indagini ha dovuto farsi strada su un terreno incerto. Non poche
possono
essere
incappate
in ostacoli
eretti
all'interno
della situazione di ricerca (perché magari l'accesso ai luoghi desiderati è negato), oppure nella mente del ricercatore, che non vede chiaramente quale direzione prendere o dove stia andando la ricerca (vedi Measor, Woods, 1991). Si può incappare in forze oppositive, fare scelte sbagliate, o lasciarsi sfuggire occasioni d'oro.'!° Un ricercatore può sviluppare la sindrome dell’altrove, ovvero la sensazione che tutta l'attività interessante stia accadendo in altro luogo, e non dove si trova lui. Ancora, il ricercatore può trasformarsi in “nativo”, facendosi sedurre da alcuni punti di vista e risultando incapace di fare un passo indietro e di acquisire una distanza critica. L'analisi dei dati, poi, non è mai semplice, e scrivere di solito richiede un gran numero di stesure prima che si senta che quanto si è studiato è rappresentato in maniera adeguata e appropriata. Alcuni dei nostri saggi sono stati scritti quattordici o quindici volte, anche se di solito quattro o sei sono sufficienti. Ogni fase di un'etnografia — dal piano di ricerca alla raccolta dei dati all'analisi e alla scrittura — è un lavoro duro e irto di difficol-
tà," che però è al tempo stesso molto godibile e ancor più appagante quando il ricercatore non sfugge di fronte alle sfide che comporta. Da parte mia, spero che un po' del gusto di tale
appagamento sia stato trasmesso da questo testo. Ora voglio ritornare al punto proposto all’inizio, e cioè sul Sé del ricercatore e sul processo d'interiorizzazione dell'approccio. L'etnografia è, in qualche misura, un atto di fede e per il ricercatore è significativo scegliere questo tipo di ricerca. Desidero perciò concludere ribadendo che, dato questo impegno, la
° Per una più ampia discussione dell'etnografia, si vedano Wolcott (1999) e Brewer (2000).
'° Su questo particolare punto, vedi Woods (1996), cap. 7. !! Per un'ottima discussione generale su questo aspetto, vedi Hammersley, Atkinson (1995).
1. I metodi etnografici nella ricerca sull'insegnamento creativo
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“soluzione” ai problemi che con tutta probabilità la ricerca farà emergere sta nella “bussola” del ricercatore, aiutato dalla consulenza di colleghi che condividono questo orientamento e dal considerevole corpus di testimonianze personali e di consigli tecnici ormai esistenti nel sempre più ampio canone della letteratura scientifica.
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“STUDENTI SERI” E “STUDENTI TURBOLENTI”: ORDINE E DISORDINE NELLE SCUOLE MEDIE DELLA PERIFERIA FRANCESE'
Agnès van Zanten
Introduzione
Una parte consistente degli adolescenti che frequentano le scuole medie della periferia francese adotta progressivamente comportamenti di distacco e chiusura, di devianza più o meno esplicita o di ribellione nei confronti delle norme scolastiche e sociali, comportamenti che ostacolano le loro possibilità d'integrazione nella società globale. Qual è il ruolo della scuola, e più particolarmente della scuola media, in tale processo?! Formati più spesso negli istituti dove confluiscono prevalentemente studenti provenienti da ambienti popolari e di diverse origini etniche, istituti che funzionano secondo norme specifiche, differenti, almeno per certi aspetti, da quelle in vigore nelle scuole situate nei quartieri privilegiati (van Zanten, 2000), gli studenti delle scuole medie di periferia hanno anche forti possibilità di essere assegnati, all'interno di questi istituti, a delle classi “difficili”’, costituenti contesti di socializzazione dalle caratteristiche distinte. In questo contributo si sostiene l'ipotesi che queste classi abbiano un ruolo centrale nella
‘ Traduzione di Silvana Zaffani. ! Il sistema scolastico francese comprende attualmente tre gradi d'insegnamento: l'insegnamento primario (pre-elementare ed elementare) per gli studenti tra i 3 e i 10 anni, l'insegnamento secondario di primo ciclo o scuola media per quelli tra gli 11 e i 14 anni e l'insegnamento secondario di secondo ciclo o liceo per quelli tra i 15 e i 17 anni. Noi qui c'interessiamo esclusivamente della scuola media, che comprende quattro livelli d'insegnamento: sesto, quinto, quarto e terzo.
2 Mauvaises classes: “classi cattive”, “difficili”, vale a dire “in difficoltà”, “scadenti”
{NdT}
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costituzione di atteggiamenti devianti rispetto ai valori promossi dalla scuola e dalla società e che tale costituzione sia la conseguenza di alcuni tipi d'interazione tra insegnanti e studenti e tra gli studenti stessi, interazione che è importante analizzare in dettaglio. Quest'ipotesi accorda un ruolo centrale alla scuola nella costituzione di pratiche devianti, pur tenendo conto del fatto che gli atteggiamenti degli studenti sono anche il prodotto di una socializzazione extrascolastica nella famiglia e nella città. Date tali premesse, la nostra posizione è differente da quella di P. Willis (1977), per il quale la scuola è più un luogo di espressione che un luogo d'elaborazione di una controcultura della gioventù operaia. In effetti, nella sua ottica, i valori che gettano le fondamenta di questa contro-cultura sono esterni alla scuola: essi risultano dal matrimonio creativo realizzato dai giovani tra i valori che scaturiscono dalla cultura operaia della fabbrica e del quartiere e quelli della cultura “giovane”. La nostra posizione è più vicina invece a quella di A. Cohen (1955), per il quale la scuola ha un ruolo centrale, dal momento che è al suo interno che i giovani della classe operaia si trovano contemporaneamente di fronte agli ideali sociali giudicati buoni — che sono anche quelli delle classi medie di cui gli insegnanti sono gli agenti privilegiati — e alla difficoltà, © all'impossibilità, di raggiungere questi ideali attraverso vie socialmente
approvate.
Questa
“imposizione
paradossale”
con-
duce dunque una parte almeno di questi adolescenti ad adottare, per avere successo sociale, delle condotte criminali quali il furto o il traffico di droghe (Ogbu, 1985). C'interessa più specificamente l'influenza esercitata dalla scuola attraverso le interazioni quotidiane nell'aula. Alcune ricerche britanniche hanno mostrato che collocare nelle classi
“difficili” studenti che condividono fin dall'inizio atteggiamenti poco idonei ai valori e alle norme scolastiche contribuiva all'emergere di sottoculture oppositive, più o meno virulente, negli istituti scolastici (Hargreaves, 1967; Lacey, 1970). Lavori americani più recenti hanno del resto sottolineato l'importanza di questi fenomeni nella scolarizzazione dei giovani appartenenti alle diverse minoranze etniche. Più spesso orientati verso classi che raggruppano studenti di minoranze in difficoltà scolastica, questi giovani — in special modo i ragazzi neri —
2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”
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sarebbero oggetto di un trattamento discriminatorio da parte degli insegnanti, in materia di disciplina e d'insegnamento, e contemporaneamente sarebbero vittime della mancanza di possibilità di scambi con i loro compagni bianchi (Shimahara, 1983). La maggior parte di queste analisi tendono nondimeno a dissociare l'analisi di come gli studenti si rapportano al lavoro scolastico da quella del loro comportamento, focalizzandosi di più su quest'ultimo aspetto, che fornisce generalmente le manifestazioni più spettacolari della devianza (Hargreaves, Hester, Mellor, 1975). In questo lavoro abbiamo adottato un approccio parzialmente diverso, visto che fin da principio sosteniamo l’esistenza di uno stretto legame tra l'atteggiamento nei confronti del lavoro che si fa a scuola e lo sviluppo di comportamenti “perturbatori” dell'ordine scolastico. In effetti, partiamo dall'ipotesi secondo cui, nelle “classi difficili”, poiché gli studenti non riescono a impegnarsi in modo costante nelle attività scolastiche si rivolgono ad altre non direttamente legate all'apprendimento, le quali conducono verso la “perturbazione” collettiva. Di rimando, questa agitazione endemica caratteristica delle classi “difficili” è una delle cause primarie delle difficoltà incontrate dagli studenti a mettersi al lavoro, interessandosi ai contenuti scolastici.
Ci occuperemo dunque via via della costituzione delle classi “difficili” e della loro percezione da parte degli studenti, delle modalità di rapporto al lavoro che gli studenti vi sviluppano e delle “perturbazioni” che introducono nell'ordine della classe. Per affrontare questi diversi punti, ci si baserà sullo studio monografico di una scuola media della periferia francese in cui abbiamo realizzato colloqui con 18 insegnanti e 35 studenti della quinta e della quarta, così come osservazioni ripetute delle interazioni tra gli insegnanti e gli studenti e tra gli studenti stessi nella classe, in mensa e nel cortile della ricreazione nel corso di due anni scolastici consecutivi.’ Siamo stati indotti a scegliere un orientamento etnografico a partire da due presupposti. Il primo è che ci apprestiamo a lavorare in un universo sociale che, benché comporti numerosi elementi familiari data la penetrazione dei valori e dei modi dominanti 3 In queste pagine prendiamo in considerazione una parte delle conclusioni di una ricerca più globale condotta nella periferia meridionale di Parigi: cfr. van Zanten (2001).
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d'organizzazione, include comunque elementi estranei alla cultura del sociologo. Senza costituire un terreno di ricerca vergine, il rapporto con la scuola degli studenti di ambiente popolare e di quelli d'origine immigrata comporta aspetti mal conosciuti, sufficienti per giustificare un'esplorazione aperta, in profondità, e caratterizzata da un andirivieni tra la teoria e l’attività di terreno (Henriot-van Zanten, Anderson-Levitt, 1992; Ogbu, 1996). Il secondo presupposto è la scommessa metodologica secondo la quale si può descrivere tale realtà dall'interno, mostrando la coerenza logica di un certo numero di pratiche ubbidienti a regole riferibili a un contesto locale, senza pertanto abbandonare il postulato del parziale dominio del centro e delle relazioni d'interdipendenza con esso (Henriot-van Zanten, 1990).
2. Le classi “difficili”, ovvero l'organizzazione scolastica della devianza
2.1. Contesti specifici di scolarizzazione La costituzione di classi di livello scolastico omogeneo è formalmente proibita dalle norme che regolano il funzionamento in Francia della scuola media “unica”. Tuttavia, si tratta di una pratica largamente diffusa, soprattutto nelle scuole medie di periferia, poiché, nelle intenzioni dei docenti, si ritiene possa migliorare il reclutamento, l’organizzazione e le condizioni di lavoro. In effetti, sul piano dell'immagine, si tratta da una parte di creare classi che, senza pretendere l'eccellenza, possano essere considerate dai genitori degli studenti migliori come classi sufficientemente buone e sicure per accettare di lasciarvi i propri figli (Payet, 1995). Ugualmente si tratta, d'altra parte, di poter gestire, da un punto di vista organizzativo, l'eterogeneità del pubblico, creando raggruppamenti di studenti che presentano una certa omogeneità in termini di livello scolastico. Infine, lo scopo della costituzione di queste classi è anche, dal punto di vista professionale e pedagogico, quello di poter offrire agli insegnanti condizioni di lavoro soddisfacenti, vale a dire alcune classi in cui possano avere l'impressione di esercitare “normalmente” la loro attività professionale (van Zanten, 1996). Ma se queste classi “buone”
2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”
5)
possono dare alcuni effetti positivi a breve termine, esse non permettono di risolvere i problemi degli istituti “difficili” in modo durevole. Peggio ancora, la costituzione di classi “buone” ha come corollario l'emergere di classi “difficili”. In effetti, nelle scuole medie di periferia come quelle qui studiate, dove il numero di “buoni” studenti e anche quello di studenti dal rendimento medio ma calmi e attenti è molto limitato, la realizzazione di una o due classi “buone” per ogni grado di corso finisce per far sì che tutte le altre classi di questo grado diventino “difficili”. Non si tratta del resto esclusivamente né principalmente di un problema di valore scolastico. Numerosi insegnanti che hanno scelto di esercitare negli istituti “difficili”, oppure sono stati costretti a rimanerci durante un periodo della loro carriera, si dichiarano capaci d'insegnare a gruppi di studenti in difficoltà scolastica, purché dimostrino un atteggiamento favorevole al lavoro scolastico. Invece, ciò che gli insegnanti vivono molto male è che in queste classi siano concentrati studenti che pongono problemi di disciplina, alcuni dei quali però non sono necessariamente in grande difficoltà scolastica, fatto che crea un contesto di lavoro molto difficile da gestire: Ci sono certe classi dove vi è una concentrazione di studenti scadenti e di studenti che danno problemi. Così in quelle classi le cose non vanno, poiché anche se sono scadenti, sono delle classi molto eterogenee. Perché ce ne sono alcuni che sono stati inseriti lì per dei problemi di disciplina, ma che non sono stupidi del tutto oppure ce ne sono altri veramente tanto in difficoltà; è molto difficile allora approntare una pedagogia differenziata e si aggiungono dei problemi di disciplina (professoressa d'inglese).
Inoltre, in queste classi, si trova una forte proporzione di ragazzi d'origine maghrebina. È certamente difficile, per quanto concerne l'istituto studiato, affermare che questi studenti sono chiaramente oggetto di una discriminazione negativa nella ripartizione tra le classi, data l’altissima proporzione di studenti di tale origine nell'istituto (più di un terzo del totale effettivo), la diversità di origini etniche ivi rappresentate e l'esiguo numero di studenti per classe. Tuttavia questi studenti appaiono, a colpo d'occhio, davvero eccessivamente rappresentati in alcune classi mediocri in quinta e in quarta. Si constata
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nondimeno che essi, rispetto agli studenti di altre origini, sono più spesso orientati verso classi di quarta a indirizzo tecnologico al di fuori dell'istituto, fatto che comporta una riduzione consistente del loro numero tra il livello della quinta e quello della quarta alla scuola media. Così, nel 1996-97, 21 studenti d'origine maghrebina, contro 8 studenti francesi e 2 d'origine asiatica, hanno lasciato l'istituto al momento del passaggio in quarta. Pur non potendolo dimostrare, si può supporre che almeno una parte di questi orientamenti verso le classi e gli indirizzi scolastici di minor reputazione si spieghi con il fatto che questi studenti sono percepiti come più “anti-scolastici” rispetto a quelli francesi o d'origine asiatica. Ciò appare coerente con i risultati di altre ricerche condotte in Francia, le quali indicano che tali studenti sono percepiti spesso come “insolenti” dagli insegnanti, sono oggetto di un maggior nume-
ro di osservazioni critiche concernenti il loro comportamento e sono puniti più spesso di quelli francesi (Payet, 1985; Debarbieux, 1997). Più in generale, questi risultati corroborano quelli delle ricerche anglosassoni, le quali mostrano che gli studenti provenienti dalle “minoranze involontarie” (i neri e i messico-americani negli Stati Uniti, gli afro-antillesi in Inghilterra) generalmente
tendono
a intrattenere
rapporti più con-
flittuali con gli insegnanti e a essere orientati verso le classi e gli indirizzi scolastici meno valorizzati (Ogbu, 1985; Wright, 1987; Connolly, 1995).
2.2. L'esperienza della segregazione
Le due classi che abbiamo studiato, la quarta F e la quinta D, sono entrambe delle classi “difficili”, benché non si tratti, nei due casi, delle peggiori classi di quarta e quinta per l'anno scolastico in corso. In ciascuna di esse c'è una maggioranza di studenti il cui stato è giudicato assai scadente, un numero considerevole dei quali ha già accumulato uno, due e anche tre anni di ritardo, nel corso della propria breve carriera scolastica, malgrado l'importante diminuzione del numero di ripetenti alla scuola primaria e alla scuola media negli ultimi anni. Vi si trovano anche, tuttavia, alcuni studenti di livello scolastico medio o buono, stando alle loro medie trimestrali, ma molti di loro hanno una reputazione di “turbolenti”, e questo è vero in
2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”
DI
particolare per la classe quarta. Largamente multietniche, queste due classi sono rappresentate per lo più da studenti maghrebini, in prevalenza d'origine algerina: nella classe di quinta studiata ci sono 10 studenti di tale provenienza su un totale di 21 e ugualmente 10 altri su un totale di 16 nella classe di quarta. Fra gli altri, ne troviamo d'origine africana, asiatica, portoghese. Gli studenti d'origine francese non sono che 5 nella classe di quinta e 3 nella classe di quarta. Peraltro, come è frequente nelle classi “difficili”, nelle due sezioni, il numero di ragazze è inferiore a quello dei ragazzi. In quinta ci sono 9 ragazze e 12 ragazzi; in quarta, 7 ragazze e 10 ragazzi. Occorre
d'altronde sottolineare che, nelle due classi, i ragazzi sono più numerosi nel gruppo di studenti d'origine maghrebina e soprattutto nella classe di quarta dove ci sono 7 ragazzi di tale origine. Ora, la maggior parte degli studenti, in ogni caso quelli di quarta che abbiamo intervistato più sistematicamente su que-
sto argomento, è consapevole tanto dell'immagine stigmatizzante attribuita all'istituto quanto del valore attribuito alla loro classe. Pur restando relativamente ottimisti, dal momento che la designano come una classe “normale”, “nella media”, “meno buona di certe ma meglio di altre”, sono coscienti di essere stati assegnati a contesti lavorativi poco valorizzati dagli insegnanti. L'interiorizzazione della “normalità” dell'esistenza di una gerarchia tra le classi e dunque della possibilità di essere assegnati a una classe “difficile”, è del resto favorita proprio dalle considerazioni degli insegnanti i quali, stando agli studenti, non cessano di ricordare loro le differenze di livello per incoraggiarli a studiare e a migliorare i loro risultati, o, secondo alcuni, per umiliarli: E pensi che è una buona quarta, la quarta F, in confronto alle altre? Mah, sì. Delle classi, sono, sono peggio di, di noi, peggio ancora. Che cosa pensi che si dica di voi, quelli della quarta F? Sia degli studenti che dei prof? EA beh, c'è che ci dice: “ah sì, voi non studiate abbastanza, come bisogna, la vostra media si abbasserà” e tutto così, rispetto a una classe, e... ci dicono di provare a studiare più velocemente di loro e, e meglio (Ahmed, quarta). 4 Per distinguere le domande dell’intervistatrice dalle risposte di studenti e studentesse si è usato il corsivo per le seconde e si è invece mantenuto il tondo per le prime [N.d.T.].
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Gli studenti della quarta F sembrano tuttavia più preoccupati della loro reputazione di “classe turbolenta” che di classe di scarso livello. È, in effetti, a causa di questa reputazione che certi studenti dichiarano desiderare di cambiare classe sperando di trovare un ambiente di lavoro più adeguato altrove: E credi che la tua quarta è una buona quarta rispetto alle altre? No, non credo. Quale reputazione pensi che abbiate? Beh, non buona, no di certo, perché, già, la classe, è, tutti i prof, dicono che non va bene. E mah, ci sono altre classi che sono meglio di noi, insomma. E mah, nella disciplina e in tutto, ecco. Non andiamo bene insomma. Non tanto bene (Mavyiza, quarta).
In compenso, gli studenti evocano molto raramente la composizione etnica o sessuale della loro classe in termini di segregazione. Si può soltanto notare che negli studenti di quarta emerge una certa gelosia nei confronti di quelli della sezione “rugby”, che beneficiano di orari e di condizioni di lavoro ben più piacevoli dei loro e che sono spesso presentati come la “vetrina” dell'istituto. Questa gelosia è ben più evidente nei ragazzi, poiché i giocatori di rubgy rappresentano anche un ideale popolare di mascolinità, espressa tramite lo sport e la competizione. Del resto, il direttore ha scelto di separarli dagli altri studenti, durante i pasti successivi all'incontro con altri istituti, per evitare gli insulti e gli atti di violenza a loro rivolti che avevano caratterizzato i primi incontri, fatto che a sua volta mantiene negli altri studenti della scuola l’idea che i giocatori beneficino all’interno dell'istituto di un trattamento di favore. Orbene, questi ultimi sono in maggioranza francesi e una larga parte di essi proviene da fuori città. Peraltro, l'unica volta in cui nell'istituto abbiamo potuto assistere, con sorpresa, all'inizio di un incontro di pallacanestro tra due squadre, una composta totalmente da studenti di pelle bianca, l’altra da studenti manifestamente d'origine maghrebina o neri, un incaricato della sorveglianza è venuto rapidamente ad avvertirci che si trattava di una situazione eccezionale, come quella di un
? Si tratta di una sezione sportiva specifica che recluta studenti dall'insieme del distretto (e non soltanto dall'area di reclutamento ufficiale situata nelle vicinanze) e beneficia di orari agevolati.
2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”
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incontro “amichevole” tra i ragazzi della classe di rugby di quarta e gli altri della scuola.
3. Le fluttuazioni nel rapporto con il lavoro scolastico 3.1. Darsi da fare o non darsi da fare? Dunque la costituzione delle classi “difficili” ha un'incidenza certa sulla modalità con cui gli studenti si accostano al lavoro scolastico. Numerosi studi hanno mostrato l'esistenza di un effetto di contesto, soprattutto per quel che riguarda gli studenti provenienti da situazioni popolari, in materia di buon esito scolastico. I risultati individuali di questi studenti appaiono, in effetti, meno buoni nelle classi dove il livello scolastico è globalmente mediocre, mentre migliorano nelle classi dove il livello globale è buono (Duru-Bellat, Mingat, 1997). Il ruolo delle classi “difficili” sarebbe particolarmente determinante per gli studenti mediocri, cioè di livello medio-basso, i quali, più passivi di quelli maggiormente interessati allo studio o di quelli che si situano in una logica di rivolta, sarebbero i più suscettibili di subire la cattiva influenza dovuta alle scarse aspettative degli insegnanti o ai comportamenti “turbolenti” dei loro compagni nella formazione di un rapporto negativo con il lavoro scolastico. Gli adolescenti di periferia distinguono due categorie di studenti in funzione della volontà e della capacità di mantenersi attivi nell'impegno scolastico e di rispondere alle richieste degli insegnanti: ci sono da una parte i “seri” o i “diligenti” e dall'altra parte gli “irrequieti” o i “turbolenti”. Nella classe di quinta, domina un notevole consenso sia su tali categorie che
sull'assegnazione sistematica di certi esse. Tra i ventuno studenti, Nelson e sono citati dodici volte come studenti citato quindici volte come lo studente
studenti a ciascuna di Karim, due dei migliori, “seri”, mentre Azdin è più “turbolento”. Nella
classe di quarta, i giudizi sono invece più ripartiti: un numero
più consistente di studenti è visto dai propri compagni come “serio”, ma nessuno raccoglie più di sette voti; una decina di studenti menziona Nicolas tra i più “turbolenti”, ma anche Tolo e Franck si trovano in buona posizione. Soprattutto più
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studenti, quali Nabil, Djamel o Mohamed O.,, sono descritti come “seri” e “ turbolenti” allo stesso tempo. Tuttavia le differenze a questo riguardo tra le due classi si fanno meno nette nel momento in cui si chiede il loro punto di vista su se stessi, poiché la maggior parte, quale che sia la loro situazione scolastica, si descrive in gran numero come “seri” e “irrequieti” allo stesso tempo, mentre gli scarti si situano piuttosto nel grado di adesione a ciascuno dei qualificativi. In effetti, i “bravi”, soprattutto i ragazzi, si descrivono volentieri come “seri” e “diligenti”, ma “un po’ irrequieti”, quelli che hanno un rendimento medio come “un po' seri” e i meno bravi come “seri” in momenti precisi. Ciò che appare dunque caratteristico di questi studenti è il vissuto estremamente fluttuante del loro rapporto con lo stu-
dio. Le loro giornate di lavoro alla scuola media — ma, più in generale, l'insieme della loro carriera scolastica — sono descritti come un'alternanza tra periodi in cui dominano la volontà e la voglia di studiare e altri in cui dominano lo scoraggiamento e la demoralizzazione. Certamente, il discorso sulle fluttuazioni nel rapporto allo studio ha come funzione principale quella di proteggere l'immagine di sé, soprattutto quando queste fluttuazioni sono attribuite a fattori esterni al controllo dell'individuo (Charlot, Bautier, Rochex,
1992; Dubet, Martucelli,
1996). Pre-
cisando che sarebbero in grado di darsi da fare se le condizioni richieste fossero soddisfatte, gli studenti si creano una scappatoia di fronte ai giudizi scolastici. Tuttavia, queste fluttuazioni esistono davvero: possono anche essere studiate empiricamente, tenendo conto delle modificazioni delle posizioni degli studenti nella classe. Le cause di ciò sono diverse e sono in parte conseguenza di fenomeni extrascolastici. Bisogna, in effetti, rammentare che le stesse condizioni di vita di una gran parte di questi giovani sono molto variabili, essendo legate all'alternanza lavoro-disoccupazione dei genitori, ai traslochi successivi, ai problemi familiari, alla separazione o al divorzio dei genitori, ai problemi finanziari o ai conflitti genitori-figli. A ciò bisogna aggiungere problemi personali legati alle diverse sollecitazioni dei compagni, alla scoperta della sessualità, al consumo di droghe o al coinvolgimento in attività di tipo delinquenziale.
2. “Studenti seri” e “studenti turbolenti”
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3.2. Il “sostegno” degli insegnanti
Eppure, gli studenti raramente menzionano l’uno o l’altro di questi elementi. La preoccupazione di mantenere la loro esperienza scolastica fortemente dissociata dalla loro esperienza di vita nella città, e l'importanza che essi accordano al “qui e ora”, li portano a insistere di più sul ruolo dei fattori scolastici e in primis sul ruolo degli insegnanti. L'avvilimento di fronte al lavoro appare nel loro discorso strettamente legato a delle forme di resistenza, individuale o collettiva, alla pressione che gli insegnanti esercitano da fuori. Da questo punto di vista, si notano chiaramente forme di corrispondenza tra i contesti di scolarizzazione e i futuri contesti di lavoro di una gran parte di questi studenti, benché questa corrispondenza non sia mai meccanica: E che cosa non ti piace dei prof?
{Il prof. di educazione fisica e sportiva) ci prende troppo per delle macchine, insomma. Dice: “fate questo, fate questo, fate questo”, ma loro non fanno niente. Ecco (Nabil, quarta),
In effetti, concependo il loro lavoro scolastico come un lavoro esecutivo, senza interesse intrinseco e senza prospettiva
professionale, gli studenti di scuola media di periferia si isolano individualmente in rituali e modalità abitudinarie che permettono loro d'imbrogliare anche se stessi, o di disimpegnarsi dedicandosi sistematicamente ad altre attività. I brutti voti che sanzionano questo rapporto con lo studio rinforzano tale inve-
stimento discontinuo che induce una progressiva disaffezione nei confronti delle conoscenze scolastiche e delle norme in materia di insegnamento.
Gli insegnanti sono perfettamente coscienti di queste variazioni, che considerano come la principale causa dell’insuccesso scolastico di una gran parte degli studenti. In effetti, se complessivamente i professori hanno la tendenza ad attribuire allo studio insufficiente le difficoltà degli studenti che riportano maggiori fallimenti — mentre non è vero il contrario per gli studenti che hanno buoni risultati, attribuibili piuttosto ai talenti intellettuali o al sostegno familiare — nelle scuole medie popolari queste difficoltà sono messe in relazione in modo molto diretto con la voglia o la capacità degli studenti d'impegnarsi
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in maniera costante. Da una parte e dall'altra, a partire da un comune accordo sulla centralità del lavoro che tende a sostituire il merito scolastico come valore consensuale nelle scuole medie di periferia, ci sono dunque aspettative differenti. Queste possono dare luogo a conflitti, ma ancor più spesso a compromessi. Attraverso i ritardi e le richieste, i rimproveri e
le interruzioni di ogni genere che costellano il quotidiano delle classi, gli studenti arrivano a negoziare il carico e il ritmo del lavoro, o anche il suo contenuto, con la conseguenza di differenziare progressivamente il curriculum reale di queste classi da quello delle classi “normali” o di quelle “buone”. Tuttavia, dal momento in cui accettano d'impegnarsi, gli studenti aspettano un effettivo sostegno dagli insegnanti e questo tanto più perché, se accettano di mettersi al lavoro, è spesso per compiacere questi ultimi, in una logica più vicina a quella degli scolari di scuola primaria che a quella dei liceali o anche degli studenti delle scuole medie di zone più favorite. I punti di vista degli studenti sulla buona volontà degli insegnanti a riguardo sono nondimeno abbastanza divergenti. Qualche studente, perlopiù di livello “buono” o “medio”, dichiara che gli insegnanti cercano d'incoraggiare tutti gli studenti “qualunque sia il loro atteggiamento”, ma che è sul fronte degli studenti che non va, poiché “non vogliono darsi da fare”, “hanno un cattivo comportamento”.
Un numero
ancor più
consistente di studenti dichiara che gli insegnanti non si occupano che di coloro che vogliono studiare. Questa dichiarazione non raggiunge il tono della denuncia. Essa è spesso presentata come evidente, lasciando capire che si tratta di un fenomeno normale, anche se contraddice la norma ufficiale di una formale uguaglianza di trattamento degli studenti. Pur non risentendosi eccessivamente del fatto che gli insegnanti lascino da parte alcuni studenti, o per il fatto che favoriscano leggermente i migliori ponendo loro più domande o chiamandoli di più alla lavagna, essi ritengono che i professori debbano essere attenti alle fluttuazioni dell'interesse nei confronti del lavoro scolastico di tutti quanti gli studenti, senza cercare di rinchiuderli definitivamente in categorie quali “seri” o “turbolenti”.
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3.3. L'“aiuto reciproco” tra studenti Se il ruolo degli insegnanti nelle disposizioni degli studenti verso lo studio non appare certo trascurabile, quello dei compagni ci è apparso determinante, tanto più che esso raramente è stato analizzato approfonditamente nella letteratura di lingua francese, con qualche eccezione, e questo soprattutto a livello di scuola primaria (Vasquez-Bronfman, Martinez, 1996). Abbiamo inoltre avuto la fortuna di osservare due classi “difficili” abbastanza in conflitto sul piano delle relazioni tra compagni. Nella classe di quinta regna un clima di atonia, vale a dire un fievole grado di energia consacrata al lavoro dalla maggioranza degli studenti. Non esistono leader “pro-scuola” con il potere di guidare gli altri verso un positivo rapporto agli studi, né d'altra parte esistono leader “anti-scuola” in grado di promuovere la generale contestazione dell'ordine scolastico. Peraltro, in questa classe, gli studenti interagiscono spesso in piccoli gruppi reciprocamente chiusi e che intrattengono tra loro relazioni di rivalità. All'interno di ciascun gruppo, gli studenti rinforzano le proprie tendenze al lavoro senza pertanto dare prova di comportamenti che si possano veramente definire di cooperazione, a parte qualche eccezione. Al contrario, le relazioni di rivalità tra ragazze e ragazzi di questi sei gruppi omogenei dal punto di vista del genere sono fortissime. In particolare, i ragazzi bravi, indirizzati in queste classi principalmente per ragioni di disciplina, tendono fortemente a sottovalutare la capacità di lavoro delle ragazze, sovrastimando la loro, e ad accusare queste ultime di generare un clima di disimpegno nella classe: Ci sono studenti che non lavorano tanto in classe? Sì, le ragazze soprattutto, in biologia, restano come impalate, come dei pali, non si muovono, non parlano, basta. E anche nelle altre materie, sono così le ragazze, o la situazione cambia? Ah, sì, sempre uguali, in inglese, ehm, in matematica, quasi nessuna, sempre, credo che sono sempre i ragazzi a parlare e basta. Altrimenti, le ragazze, loro non parlano mai. No, mai (Karim, quinta).
La situazione nella classe di quarta analizzata è del tutto differente. In effetti vi regna, a detta di tutti, un buon clirna tra
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gli studenti, la maggior parte dei quali dichiara di preferire questa classe a quella dove erano l’anno scorso. Questa armonia si traduce principalmente in azioni di aiuto reciproco tra gli studenti. Non solo gli studenti si prestano facilmente fogli, penne, righelli o libri, ma regolarmente fanno circolare gli esercizi, così come i compiti per casa, a vantaggio dei loro compagni.
Questa
complicità generalizzata,
osservata
in pa-
recchie occasioni, è menzionata senza alcun imbarazzo da molti studenti. In effetti, la trovano normalissima, tanto che solo qualche studente bravo solleva la questione della sua legittimità in rapporto ai valori e alle norme dell'istituto relative al carattere individuale del lavoro, e molto spesso lo fa con un atteggiamento di derisione. Questo passaggio dalla rivalità all'aiuto reciproco illecito è il risultato dello sviluppo di un atteggiamento più utilitaristico di fronte alle richieste dell'istituto, man mano che gli studenti progrediscono nella loro scolarizzazione. Il desiderio di compiacere agli insegnanti e di compiere al meglio il proprio compito di studente di scuola media, che è presente in molti di loro al momento dell'inizio della sesta, cede il posto, sotto la pressione dell’aumentato carico di lavoro, delle crescenti difficoltà a soddisfare le esigenze degli insegnanti e del clima della classe, a una preoccupazione ben più pratica di disimpegnarsi dal lavoro richiesto, quali che siano i mezzi impiegati per raggiungere lo scopo.
Tuttavia, bisogna anche tener conto della pressione collettiva del gruppo dei pari, di un “noi” che comincia a costituirsi contro l'istituzione e contro gli insegnanti e al quale gli studenti non osano resistere, anche quando le azioni di reciproco aiuto comportano delle conseguenze negative per il futuro scolastico individuale. Ciò è particolarmente vero per le ragazze, che subiscono in questo campo, come in altri, il peso del dominio maschile all'interno di tali classi. Ma lo sviluppo di questa forma di cooperazione nel lavoro risulta anche dal miglioramento globale delle relazioni tra gli studenti che si nota via via che prosegue la loro scolarità alla scuola media e che sbocca al liceo in una filosofia della philia, che sostiene la uguaglianza tra studenti contro la concorrenza imposta dalla istituzione scolastica (Rayou, 1998). Se le ragazze e i ragazzi si squadrano ancora a distanza e nascondono a volte anche in classe le relazioni di amicizia o, più eccezionalmente, i flirt che
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talvolta hanno all’esterno; tuttavia, accettano il fatto che il “mestiere di studente” implichi delle interazioni con altri studenti all'interno della classe, le quali non necessariamente sfociano in vere relazioni di solidarietà e ancor meno d'amicizia: E tu, se dovessi partecipare a un gruppo di lavoro, in un corso, con chi ti piacerebbe metterti? Beh noi, ci si mischia nella classe, dunque ehm, noi, quando si è in un gruppo, a volte si è con dei ragazzi, a volte con delle ragazze, beh, si è tutti mescolati, insomma. Non è per questo che ci si mette a dire: “no, non voglio mettermi con lui”, ehm, gnein, gnein, gnein, gnein, gnein, gnein. |...) E l'anno scorso, era la stessa cosa? Ti saresti messa con chiunque?
No. Non l'anno scorso, no. Perché beh, ehm... i ragazzi che avevo nella classe, non erano ehm... non so come spiegarlo. Ma beh, i ragazzi nella classe, per la verità, pensavano di più a, a stuzzicare le ragazze della classe che... che pensare a, ad aiutarsi a vicenda, insomma (Claire, quarta).
Si potrebbe ipotizzare che un tale clima sia favorevole allo sviluppo, se non proprio di un rapporto che dà senso al sapere in quanto tale, almeno
a un atteggiamento
sufficientemente
“pro-scuola” da poter aiutare gli studenti di periferia a seguire alla scuola media un percorso scolastico appropriato per il liceo. Tuttavia, le buone relazioni di lavoro tra studenti, formandosi in gran parte contro le esigenze istituzionali tramite lo stratagemma del “copiare”, assai raramente possono servire a
dare il via a positive dinamiche collettive nel rapporto agli studi. D'altronde, sono utilizzate solo eccezionalmente dagli insegnanti come punti d'appoggio di una strategia tendente a
favorire il coinvolgimento degli studenti “cattivi” da parte dei “buoni”. Conseguentemente, queste relazioni conducono piuttosto
gli studenti
verso
una
china
che
porta
poco
a poco
dall’“aiuto reciproco” al “caos” e da questo alla “deriva”.
4. Dal “caos” alla “deriva” 4.1. La disciplina degli insegnanti
In effetti, il problema più immediato che si pone agli insegnanti e agli studenti di classi “difficili” come quelle analizzate qui, non è tanto il rapporto degli studenti con il sapere, quanto
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la presenza di un “baccano” endemico che i primi non riescono ad arginare. Questa confusione è spesso attribuita dagli studenti al fatto che alcuni insegnanti non riescono a contenere la classe. Secondo quanto dicono, l'adeguarsi da parte loro al funzionamento regolare varierebbe ancor più in funzione degli insegnanti che del proprio rapporto con lo studio. Si nota d'altronde che gli studenti molto spesso mettono in relazione la loro indisciplina con gli atteggiamenti e le pratiche pedagogiche di certi insegnanti. Inoltre si viene a sapere, senza sorpresa, che i nuovi insegnanti con minor esperienza nel dosare i
metodi di disciplina sono i più ostacolati da tale baccano nel far lezione. Si nota anche che gli studenti creano più scompiglio nei corsi di lingua e in quelli delle materie meno valorizzate scolasticamente, come il disegno o la musica. In compenso, nelle due classi osservate, sono i professori di matematica, scienze naturali o fisica a essere più rispettati, se si omette il
caso di un professore supplente di matematica d'origine maghrebina, assai poco apprezzato dagli studenti a causa del suo comportamento autoritario. È vero, tuttavia, che la maggioranza degli studenti non correla il baccano che fa a una gerarchia scolastica o intellettuale. Gli insegnanti rispettati lo sono più in funzione della loro capacità di mantenere l'ordine che della qualità del loro insegnamento, della materia insegnata o del loro grado. Da questo punto di vista, gli studenti non operano distinzioni nette tra gli insegnanti e gli altri adulti con cui hanno a che fare nell'istituto. Inoltre, la capacità o l'incapacità degli insegnanti di mantenere l'ordine sono percepite dagli studenti come ampiamente fondate su tratti di personalità, su qualità relazionali e su capacità di giudizio delle situazioni in situ. Il buon insegnante, da questo punto di vista, è colui che è capace di rispettare le inclinazioni allo studio degli studenti e le esigenze istituzionali, alternando i periodi di rilassamento e quelli di lavoro, e che sa “ammansire” gli studenti più “turbolenti”. Il cattivo insegnante è, in compenso, non tanto colui che fa fatica a farsi rispettare (in questi casi gli studenti dimostrano una certa indulgenza nella valutazione di chi è agli inizi), quanto
° Con questo termine si cerca d'esprimere sia il livello di rumore sia il grado di disordine della classe [N.d.T.].
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colui che, cercando di imporre un ordine puramente apparente, scatena un chiasso animato. L'uso del “verlan”” o dell’arabo, gli scherzi, le osservazioni ironiche o gli insulti hanno allora la funzione di destrutturare la dinamica delle interazioni che questi insegnanti cercano di instaurare attraverso la forza, obbligandoli a negoziare un ordine locale fondato sul riconoscimento reciproco (Ferrari, 2003): Pensi che nella tua classe ci siano problemi di disciplina? Beh, sì, dipende, a volte con Azdin. Ma la faccenda si sistema facilmente. Il signor C. [prof di francese, stile “paternalista”], a volte, possiamo scherzare con il signor C., a volte, Azdin comincia a oltrepassare i limiti, insomma. Poi, il signor C., lo rimette in regola, e poi così, possiamo ricominciare la lezione. E nelle altre materie, è lo stesso? Beh, nelle altre materie, dipende com'è con i professori. Come in matematica, con il signor T. [nuovo prof], dipende da come noi ci comportiamo con lui, e poi dopo, lui ci risponde dell'altro, ecco. Non ci si capisce molto bene. È così (Mohamed O,, quinta).
Del resto bisogna sottolineare che, se la maggior parte degli studenti tiene conto con furbizia delle differenze nella somministrazione delle punizioni tra i vari insegnanti e tra questi e il personale non insegnante, per andare oltre la norma o negoziare la sua applicazione, essi non negano la necessità delle punizioni. Allo stesso modo in cui accettano che gli insegnanti prestino attenzione solo agli studenti che vogliono lavorare come si deve, essi ritengono che ogni loro atto deviante meriti una sanzione. Ciò che contestano, tuttavia, sono le ingiustizie nell’applicazione di queste punizioni e questo principalmente per due ragioni. Da una parte, gli adolescenti di periferia, soprattutto i ragazzi d'origine maghrebina, tendono a interpretare le punizioni come attacchi diretti alla loro persona dal momento che, non concependo sempre la scuola come un'istituzione con regole specifiche, non colgono ogni volta in modo chiaro le differenze tra i giudizi rivolti alla loro persona, e soprattutto alla loro appartenenza etnica, e quelli rivolti al loro status
di studenti
(Payet,
Sicot,
1996).
Gli insegnanti,
d'altronde, concorrono in larga parte a mantenere questa confusione, fondendo strettamente componenti affettive, positive ? “verlan”: tipo di gergo.giovanile consistente nell’invertire le sillabe delle parole (es. “ripou” per “pourri”; “keuf" per “fuck/flic" ecc.) [N.d.T.].
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o negative,
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e componenti più razionali nei loro atteggiamenti e
nelle loro pratiche in materia di mantenimento dell'ordine, a partire da un'etica professionale che è centrata sulla dimensione relazionale (van Zanten, 1999). D'altra parte, ciò che ci sembra ancor più importante sottolineare qui è che il clima delle classi “difficili” fornisce un contesto propizio ad atteggiamenti poco equi da parte degli insegnanti. In effetti, in un contesto “perturbato”, i professori tendono ad adottare delle pratiche che privilegiano il ritorno alla calma, piuttosto che l'esame attento del comportamento di ciascun studente (Stebbins, 1971). Certi insegnanti trovano più comodo punire sistematicamente alcuni studenti che, più visibili e più agitati degli altri, sembrano quelli designati a condurre il gioco. La maggiore visibilità degli studenti immigrati nella classe è d'altronde una delle ragioni che spiega il perché essi siano spesso più puniti degli altri negli istituti di questo tipo (Debarbieux, 1997). Altri insegnanti scelgono di primo acchito di punire tutta la classe, per evitare la lunga e spesso infruttuosa ricerca dei veri responsabili. Il sentimento d'’ingiustizia che è allora provato dagli studenti rinforza lo “stato di perturbazione”, nella misura in cui coloro che ritengono di essere stati puniti senza motivo tendono ad adottare in seguito comportamenti difensivi o aggressivi che, interpretati a loro volta dagli insegnanti come comportamenti devianti, sono nuovamente l'oggetto di provvedimenti. Si ritrova allora il circolo vizioso della devianza, descritto con pertinenza dai ricercatori d'orientamento interazionista: imposizione delle norme, designazione dei devianti, rinforzo della devianza, stigmatizzazione
di coloro che hanno compiuto le infrazioni più gravi, cristallizzazione di un'identità deviante (Becker, 1963). 4.2. La legge del gruppo
Tuttavia, analogamente a quanto succede per il rapporto con il lavoro, anche per l'emergere dei “disordini” le relazioni tra gli studenti hanno un ruolo importante, sebbene ciò avvenga in modo assai diverso in ciascuna delle due classi osservate. In quinta, alla rivalità nelle attività scolastiche si aggiunge una rivalità concernente la condotta della classe, che spinge i ragazzi e le ragazze ad accusarsi reciprocamente di
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guastare l'ambiente. Ora, queste accuse a loro volta contribuiscono al mantenimento di un clima di “agitazione” nella classe. Esse, in effetti, impediscono agli studenti tanto di costituire alleanze tattiche, che permetterebbero loro di negoziare con gli insegnanti dei “consensi operativi” fondati sull'alternanza del dovere e del piacere, quanto di elaborare una vera contestazione dell'ordine scolastico (Pollard, 1985). L'unione del disinteresse verso il lavoro con le recriminazioni, gli insulti e i conflitti tra gli studenti fanno sì che ci si avvicini allora di molto al primo modello di “confusione anomica” elaborato da |. Testanière (1967), nel quale l'anomia deriva effettivamente dal debole desiderio d'integrazione, tanto a livello dello spazio lavorativo quanto dello spazio relazionale dei compagni. In quarta, invece, tra gli studenti sembra manifestarsi una dinamica assai diversa. Esiste un gruppo di sette ragazzi maghrebini, quasi tutti d'origine algerina, i cui membri hanno delle relazioni strette nella classe e, per quanto riguarda alcuni, al di fuori di essa. Questo gruppo attira gli altri studenti della classe, che per lo più desiderano avere delle relazioni amichevoli di alleanza con essi. Ciò è in parte effetto del predominio numerico sulle relazioni interetniche: il fatto di fare parte del gruppo “etnico” più rappresentato all'interno della classe può indurre i ragazzi maghrebini a sviluppare relazioni assai strette tra loro, destando allo stesso tempo negli altri studenti desideri d'amicizia nei loro confronti (Hallinan, Williams, 1989). Ma se è così, è anche perché i ragazzi paiono essere stati messi in questa classe più per il loro comportamento “turbolento” che per i risultati scolastici, seguendo la logica che presiede alla segregazione tra le classi sopra presentata. Ciò ha come effetto paradossale di dar loro la possibilità di occupare una posizione dominante in termini di livello scolastico. Ma la popolarità dei ragazzi maghrebini nella classe di quarta sta soprattutto
nel fatto che essi sono
anche
(eccetto
forse Ahmed e Nacer, gli unici a essere percepiti da alcuni studenti come bouffons*) dei “burloni”, seguendo la terminologia di
è Bouffon: “buffone”, “fanfarone”, “montato”. Il termine bouffon è spesso utilizzato dagli studenti della scuola media per prendere in giro i compagni che provano ad essere simpatici, senza riuscirvi,
gli insegnanti [N.d.T.].
e sono interessati
a compiacere
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A. Pollard? (1985), cioè studenti che si situano ora sul registro della serietà e del lavoro ora su quello del divertimento e del piacere. Le relazioni positive tra loro fanno sì che essi ritrovino nella classe “lo spirito di divertimento”, che nondimeno anima gli scambi con i loro amici nella scuola media e nel quartiere, spirito che permette loro di combattere la noia e di non perdere la faccia di fronte ai loro compagni, cercando allo stesso tempo di continuare a essere coinvolti nel lavoro scolastico (Woods, 1976; Lepoutre, 1997). Tuttavia, questi continui scherzi e risate li allontanano progressivamente dalle attività scolastiche e quasi senza accorgersene diventano una minaccia per l'ordine scolastico, poiché la maggior parte degli insegnanti, di fronte a un gruppo solidale, ha molte difficoltà a utilizzare le abituali strategie di mantenimento dell'ordine, che nella maggioranza dei casi si reggono sul permanere delle rivalità individuali nella competizione per i voti e le gratificazioni scolastiche. Essi si trovano allora costretti, anche senza rendersene sempre conto, a instaurare delle “tregue” nella quotidiana battaglia contro l'indisciplina, vale a dire a tollerare sempre più le risate rumorose, le “frecciatine” e le risse simulate che scoppiano da ogni parte (Reynolds, 1976). Senza controllo, tali situazioni scherzose fanno oscillare allora verso un altro tipo di “confusione anomica”. Qui, non sono ato-
nia e tensioni che predominano tra gli studenti, ma un sentimento d'impotenza, generato contemporaneamente dall'assenza di una regolazione istituzionale efficace e dalla pressione dei compagni. “Si è trascinati” dice la maggior parte degli studenti, come se si trattasse di un tornado o di un vortice d'acqua ai quali non si può resistere: Be', sei costretto a... perché, perché, sei ehm, sei ehm... sei, sei trascinato dagli altri, per esempio, se scherzano, non ti viene da star zitto. Gli altri scherzano, e allora sei costretto a scherzare (Nabil, quarta). Lanciano frecciatine in classe, così, dopo, si risponde, e... finisce sempre che si ha un'ora di castigo, una cosa così. È dura... resistere. A volte uno ce la fa, ma non sempre (Mehdi, quarta).
? Jokers è il termine inglese utilizzato da Pollard (1985): designa gli studenti che riescono a mettersi sia dalla parte dei loro compagni che dalla parte degli insegnanti; al singolare, joker designa anche la “matta” nel gioco delle carte [N.d.T.].
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Gli studenti sono consapevoli dell'influenza che i propri compagni esercitano su di loro, ma non pensano di metterli realmente sotto accusa. Effettivamente, in questo stadio della scolarizzazione, il sentimento di solidarietà tra gli studenti è ormai più forte del sentimento che li lega alla scuola, così che essi esitano a rompere l’unità del gruppo o ad andare incontro alla sua disapprovazione, anche quando hanno pienamente coscienza degli ulteriori effetti negativi della sua influenza sul proseguimento della loro scolarizzazione. L'adesione alla legge del gruppo entra, di fatto, in concorrenza con quella dell'istituzione: Gli altri alunni se la prenderebbero con te se non facessi come loro? Beh, non è che se la prenderebbero con me, è che si sentirebbero rifiutati loro, che io non scherzo, dal momento che sono il più grande di, della classe (Mohamed O.,, quarta). E tu, ti consideri un'alunna disciplinata o un po' turbolenta? Oh, in certe lezioni sto buona, vero? Ce n'è, c'è solo una lezione in cui non sto buona, è tutto. E in quel caso, è per colpa di...? Nessuno. Solo che, vedo tanti, vedo che tutti parlano, allora mi vien voglia di fare come loro, perché non ho voglia di... non ho voglia di passare per una bambina modello (Claire, quarta).
Il quotidiano scolastico diventa allora una lotta continua tra il desiderio di studiare e il desiderio di divertirsi, lotta in cui quest'ultimo desiderio spesso finisce per avere la meglio. Vediamo allora emergere delle “carriere devianti” che non riguardano solo gli studenti in situazione di difficoltà nelle acquisizioni. In effetti, alcuni studenti di livello medio o anche bravi finiscono, a forza di “divertirsi”, per entrare in una spirale di “irrequietezza” da cui non riescono più a uscire e che li porta
a vivere la loro esperienza scolastica sotto forma di “resa”. Adesso mi diverto troppo con gli altri. Bisognerebbe che provassi a smetterla, a questo punto, io ho, dopo ehm, dopo ehm aspetti, dopo lunedì o mercoledì, be', ho provato, ho provato a smetterla. Beh, io ci provo, faccio quel che posso; se no, è dura, anche cercare di smetterla di divertirsi (sorride) [...). Beh, all'inizio dell'anno, io mi, io mi trattenevo, e poi adesso, non riesco a restare tranquillo. 1 miei voti, si
sono abbassati per questo, e... è per questo. All’inizio, dicevi: “sgobberò, sarò serio e tutto” e... Sì. Non riesco a trattenermi, adesso. Al secondo semestre non riuscivo a trattenermi. È troppo difficile. A vedere ogni volta una classe che si diverte e tutto così, i prof che non dicono niente...
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Tu, se fossi a fianco degli alunni seri come Ahmed o Nacer, pensi che saresti meno portato a spassartela, 0...? Sì. Ma non è questione di essere seduto a fianco di qualcuno, è l'atmosfera di tutta la classe. È, è questo che mi spinge a divertirmi assieme a loro (Mohamed O, quarta).
A questo punto, siamo di fronte a un fenomeno che è “antiscolastico” nella misura in cui appare reattivo agli obblighi istituzionali e organizzativi imposti dalla scuola, ma non necessariamente per il fatto che opporrebbe fin da principio i valori acquisiti nella famiglia e nella città ai valori scolastici. Si tratta certo di un effetto scolastico, caratteristico delle classi “difficili” e degli istituti di periferia, il cui effetto principale è far sì che numerosi studenti, soprattutto ragazzi con storia di immigrazione, scivolino da un percorso scolastico decoroso, 0 potenzialmente brillante, verso un percorso d'insuccesso. Inoltre, non è da escludere che l'atmosfera maturata in queste classi non fornisca anche un terreno favorevole allo sviluppo di atteggiamenti e pratiche delinquenziali vere e proprie, all’interno e all'esterno degli istituti scolastici, in alcuni studenti già avviati a questa strada dalla loro esperienza di vita nella città e dal contatto con gruppi devianti all'esterno dell'istituto. Questo clima finisce, in effetti, col generare negli studenti uno stato che si avvicina allo stato di “deriva” (drift) fimemente analizzato da Matza (1964) nella sua teoria sull'origine della delinquenza giovanile. In effetti, attraverso un'elaborazione condivisa, ma non discussa, tra gli studenti e tra questi e gli insegnanti, le classi “difficili” si trasformano in un luogo propizio allo sviluppo di una “cultura della delinquenza”, vale a dire in un ambiente nel quale si perde il controllo di sé — controllo che si sa essere riconosciuto dagli studenti di condizione popolare come un elemento essenziale alla loro riuscita scolastica e sociale — ed elemento nel quale la trasgressione quotidiana delle norme appare inevitabile e progressivamente diviene anche legittima, in assenza di una vera sanzione istituzionale.
5. Conclusioni
Qual è dunque il ruolo delle scuole medie di periferia e più precisamente delle “classi difficili” nella strutturazione della
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devianza adolescenziale? Se è forte la tentazione, negli attori scolastici, di far ricadere la colpa sull'ambiente fuori della scuola, un'analisi più fine di quello che succede mostra invece che all'interno di certi istituti e di certe classi c'è un vero e proprio apprendimento di atteggiamenti e di pratiche devianti. D'altronde, recenti inchieste hanno mostrato che la scuola media in quanto istituzione ha un ruolo importante nell'allontanamento degli studenti dalle norme scolastiche e più in generale dalle norme sociali.!° Gli studenti bravi di scuola primaria, analizzati da Rayou (1999), i quali aderiscono fortemente alle norme veicolate dalla scuola e testimoniano un grande rispetto per il sapere e l'autorità degli insegnanti, divengono via via più critici nei loro riguardi e adottano progressivamente atteggiamenti utilitaristici oppure di rivolta o di distacco. Questa evoluzione è tuttavia più accentuata negli adolescenti di periferia, sia perché da bambini sono i più portati a credere nella scuola e ad adottare delle pratiche “ultradisciplinate” rispetto alle aspettative degli insegnanti (Charlot, Bautier, Rochex, 1992), sia perché i contesti di scolarizzazione che incontrano al momento dell'ingresso nella scuola secondaria presentano caratteristiche che contribuiscono maggiormente all'emergere di atteggiamenti e comportamenti “anti-scuola”, più fatalisti che veramente oppositivi. Inoltre per questi alunni le conseguenze a breve e medio termine dell’allontanamento dalle norme scolastiche sono generalmente più gravi che per quelli provenienti da ambienti più favoriti: espulsioni definitive dagli istituti, orientamenti verso gli indirizzi di studio meno valorizzati, sospensione degli studi, coinvolgimento nelle attività delinquenziali. Tuttavia, se gli studenti della periferia subiscono in modo evidente gli effetti della segregazione, abbiamo dimostrato che non sono vittime passive. Le osservazioni condotte nelle classi evidenziano che essi sviluppano tutta una serie di tattiche che permette loro di avanzare spiegazioni della situazione in
.!° L'inchiesta coordinata da A. Grisay (1997) mostra, per esempio, che la proporzione di studenti che pensa che “è accettabile marinare una lezione noiosa” passa dal 10% in sesta al 40% in terza; quella degli studenti che trovano “accettabile copiare da un compagno vicino al momento di una verifica difficile” passa dal 10% a più del 50% e quella di coloro che pensano che è “accettabile mentire per evitare una punizione” da meno del 30% a quasi il 70%.
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contrasto con quelle degli insegnanti, e di avere provvisoriamente la meglio. Riescono, in molti casi, a costringere questi ultimi ad adeguarsi alle momentanee variazioni nella loro voglia di studiare. Riescono anche a cambiare il loro programma di lezioni, tanto per quel che riguarda il tempo effettivamente consacrato all'insegnamento quanto per quel che riguarda il suo contenuto. La maggior parte degli studenti è anche, in un secondo
tempo
o contemporaneamente,
vittima e iniziatrice
del “baccano”. Subiscono l'influenza dei loro compagni, ma sono anche all'origine delle osservazioni offensive o degli scherzi che impediscono la concentrazione sul lavoro creando un clima permanente d'agitazione. Questi studenti hanno dunque la possibilità di cambiare, in una certa misura, le proprie condizioni di scolarizzazione. Organizzando il loro spazio di vita alla scuola media, possono trovar soddisfacente stare in contesti scolastici dove fanno pure quotidianamente esperienza dell’insuccesso scolastico e delle frustrazioni e umiliazioni a esso generalmente associate. Nondimeno, approfittando del loro margine di libertà per opporre una resistenza agli obblighi di studio e di mantenimento dell'ordine molto più individuale e semi-spontanea che collettiva e organizzata, gli studenti, come gli altri attori scolastici, partecipano anch'essi al mantenimento delle situazioni di segregazione che contribuiscono alla loro esclusione. Sembra dunque evidente che le scuole medie abbiano un ruolo d'integrazione nella società globale solo per un numero ridotto di studenti della periferia. Questi istituti scolastici possono certamente apparire come una “frontiera”, nella misura in cui essi propongono un insieme di elaborazioni intellettuali e costruzioni sociali che permetterebbero ai giovani della periferia di liberarsi da un'influenza del “locale”, aggravante la loro posizione di segregazione (Zaffani, 1998; Duschatzky, 1999). Tuttavia, pochi giovani riescono a oltrepassarne agevolmente i confini. Effettivamente, per far sì che questi studenti riescano a dare un senso al sapere e alle norme scolastiche, occorre che
compiano contemporaneamente un grande decentramento intellettuale e un'importante frattura affettiva nei riguardi dell'universo immediato della loro famiglia e del loro quartiere. Il loro consenso risulta del resto tanto più improbabile in quanto essi, anche alla scuola media, fanno l’esperienza
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concreta della selezione e del suo peso nella strutturazione delle identità. Una tale scoperta getta un profondo discredito sia sui fini sia sui mezzi dell'istituzione. Effettivamente, la scuola appare contemporaneamente come un vettore d'integrazione e
di esclusione, tanto nel quotidiano che nelle prospettive a lungo termine. Nello stesso tempo, anche i mezzi ai quali la scuola ricorre e i valori che sottendono al loro uso sono guardati con sospetto. Non essendo più assicurata la reciprocità degli apporti e delle ricompense che permette il mantenimento di un ordine sociale nelle società liberali, tutti i mezzi sembrano buoni per salvare la “faccia”, soddisfacendo superficialmente le domande dell'istituzione ed evitando allo stesso tempo una vera partecipazione.
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3 RITORNANDO SUL “CAMPO”: SI POSSONO AVVERARE I SOGNI? ANALISI PRELIMINARE DEI RISULTATI DI UN FOLLOW UP DI RICERCA® Ghazala Bhatti Molti giovani ora cercano l'emancipazione dall’orgoglio dei loro genitori, non dalla loro umiltà. La retorica del nostro tempo dovrebbe porre l'accento sullo studio di interi contesti in cui particolari occupazioni (professionali e non professionali) si svolgono, prestando attenzione ai confini mobili tra loro e il tipo di cooperazione richiesta perché ciascuno di essi si realizzi efficacemente; ai confini mobili tra i sistemi professionali e gli utenti che servono; e infine allo sviluppo di nuove definizioni dei desideri che emergono dalla costante interazione sociale e dal cambiamento. Nel corso di tale studio, possiamo apprendere di più intorno al destino del mandato professionale, e dell'orgoglio, incluso il nostro (Hughes, 1987, p. 42)
1. Introduzione: il contesto di sfondo La Gran Bretagna, come altri paesi europei, ha visto cam-
biamenti imponenti negli scorsi due decenni che si riflettono tanto nel clima politico locale quanto nel campo educativo. A volte i due sono ovviamente collegati tra di loro; in altri casi, i collegamenti sono presenti ma meno visibili. Le agenzie educative hanno visto cambiamenti rapidi con nuovi obiettivi che sostituiscono i vecchi nei settori dell'educazione pubblica. La certezza di “un lavoro per la vita” sta scomparendo rapidamente. Mentre alcune parti della società hanno conquistato nuovo potere, altre hanno fatto in modo di mantenere le precedenti posizioni d'influenza nelle economie industrializzate in via di rapido cambiamento. Tuttavia, per altri soggetti nella società ci sono state massicce perdite di lavoro, in particolare di quelli che un tempo lavoravano nelle più vecchie industrie manifatturiere. C'è stata un’intensificazione dei nuovi tipi di occupazioni che richiedono capacità sofisticate sul posto di lavoro. " Traduzione di Francesca Gobbo.
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G. BHATTI
Questo riposizionamento della base di potere e lo spostamento delle opportunità di lavoro hanno costituito sfide importanti per i nuovi arrivati sul mercato del lavoro. In Europa, i giovani delle comunità immigrate, i cui genitori erano giunti da Paesi in via di sviluppo, hanno perduto il senso della sicurezza del posto di lavoro in industrie che un tempo richiedevano forza-lavoro manuale. Ora sono richieste nuove capacità, perché di quelle di un tempo non c'è più bisogno. Ciò ha portato a eccedenze rispetto alla domanda, e a una diminuzione di opportunità lavorative. Come altri giovani provenienti da famiglie operaie, anche i giovani delle comunità immigrate hanno bisogno di esser più qualificati dei loro genitori, ma chi li guiderà se i loro insegnanti non si aspettano che essi trovino occupazione in ambito professionale, e i loro genitori non sono stati educati in Eu-
ropa? Le comunità dotate di risorse e ricche possono prendersi cura dei loro figli, ma che cosa accadrà a coloro i cui genitori non hanno mai imparato a leggere e scrivere nella lingua dei Paesi d'adozione? La loro lingua e la loro cultura non sono 08getto di rispetto. È una strana ironia; in Europa una popola-
zione che sta invecchiando diventerà presto dipendente dal lavoro di coloro che appartengono a comunità con un profilo più giovanile, ma ciò avverrà solamente se l'educazione di queste ultime sarà stata oggetto d'investimento. Tali comunità si svilupperanno se saranno educate e sarà loro permesso di crescere e prosperare (Ball e coll., 2000; Gillborn, Youndell, 2000). Soltanto
se essi avranno
sentito
che “appartengono”,
contribuiranno con fiducia alla loro società. Questo mio contributo rivolge la sua attenzione proprio alle questioni dell'educazione e dell'occupazione, che ho studiato attraverso un approccio metodologico di micro-livello, concentrandomi sulle aspirazioni e sui traguardi raggiunti da un gruppo di giovani adulti i cui genitori emigrarono in Gran Bretagna dalle comunità per la maggior parte rurali dell'India, del Pakistan e del Bangladesh negli anni Settanta e Ottanta (Dahya, 1974; Anwar, 1979; Robinson, 1986; Alam, 1988). Questo genere d'immigrazione ha caratterizzato l'esperienza di altri paesi europei, come per esempio i Paesi Bassi, la Francia e la
Germania. | risultati presentati qui possono perciò trovare echi in molti altri Paesi, in particolare quelli che hanno avuto una
3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni?
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storia di colonizzazione nel loro passato. La maggior parte dell'immigrazione verso la Gran Bretagna nei decenni passati è partita da Paesi che erano un tempo colonie. I genitori dei giovani, della cui esperienza parla questo contributo, non hanno avuto alcuna educazione formale in Gran Bretagna. La scolarizzazione, perfino quella estremamente rudimentale, non è tuttora disponibile in molti Paesi in via di sviluppo, non essendoci un numero sufficiente di insegnanti preparati, di libri o di scuole. Quando erano giovani, molti genitori — e specialmente i padri —- cominciavano a lavorare molto presto per sostenere le loro famiglie. Certamente al tempo in cui i genitori erano essi stessi bambini nel subcontinente indiano, non tutti avevano una opportunità di ottenere una qualificazione formale. Una piccola minoranza di genitori, per la maggior parte maschi piuttosto che femmine, riuscì ad andare a scuola e a frequentare i primi anni di università, il che ebbe una qualche influenza sul tipo di lavori che ottennero in Gran Bretagna. Comunque, le qualifiche accademiche ottenute in India, Pakistan e Bangladesh non sono equipollenti ai percorsi e ai titoli di studio ottenuti in Gran Bretagna. Un'educazione religiosa di massima fu impartita a tutti i genitori che poi la trasmisero ai loro figli; questi, ora adulti, sono la prima generazione a essere sta-
ta educata in Gran Bretagna e dalle loro esperienze si possono trarre degli insegnamenti. I giovani adulti tra i 22 e i 27 anni — delle cui esperienze parla la mia ricerca — furono inizialmente studiati tra il 1987 e il 1990 mentre frequentavano ancora la scuola secondaria e avevano tra i 13 e i 18 anni. Essi erano parte di un più grande gruppo di cinquanta studenti, iscritti a una comprehensive school statale frequentata da studenti locali e alloctoni nel Sud dell'Inghilterra, e non avevano mai frequentato scuole o maschili o femminili e neppure quelle private. Uno studio etnografico di questi giovani e della loro scuola rivelava le loro aspirazioni e speranze per il futuro: essi venivano tutti da famiglie di classe operaia e le zone da cui provenivano erano ordinari. I loro padri erano autisti di autobus, uomini di pulizia e di fatica negli ospedali e in grandi aziende, camerieri in ristoranti (per ulteriori dettagli, v. Bhatti, 1999). Benché la mia seconda ricerca sia ancora alle fasi iniziali, spero tuttavia di rintracciare quanti più possibile dei cinquanta
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G. BHATTI
partecipanti di quella originaria. In questa fase è possibile fornire informazioni preliminari disponibili su dieci giovani adulti. Si è trovato che vi è una connessione tra il sostegno dei genitori, la loro esperienza di lavoro in Gran Bretagna e i risultati conseguiti e le aspirazioni dei giovani. Il genere emerge come una categoria utile, ma soltanto se è considerata insieme al
sostegno dei genitori. Infatti, il genere da solo non dà conto di risultati positivi differenziali tra i giovani, e la medesima cosa è vera per la classe sociale, che nel caso dei dieci giovani studiati finora non permette di fare previsioni affidabili per quel che riguarda l'educazione universitaria e le destinazioni di carriera dei medesimi. In altre parole, i dati presentano un quadro complesso: altri fattori che emergono delineano un'identità mobile tra adolescenza e giovinezza, caratterizzata da un senso di sradicamento culturale, da una situazione di dipendenza/ indipendenza economica dai genitori, dai diversi tipi di lavori svolti dai mariti o dalle mogli, dai cambiamenti nei ruoli di genere e nelle differenze, indicate dagli stessi genitori, e collegate a tale ruolo. Per lo scopo di questo contributo, metterò a fuoco soltanto due variabili: l'effetto della classe sociale e del genere. La maggioranza dei dati qui riportati proviene da osservazioni e lunghe interviste basate su numerose visite alle famiglie.
2. La classe sociale
Per esplorare i possibili effetti della classe sociale su ciò che i giovani riescono a conseguire, è utile ma non sufficiente considerare le occupazioni dei genitori. Poiché questo studio si basa su una ricerca precedente, è possibile far riferimento ai dati raccolti sull'esperienza educativa dei genitori, le loro occupazioni e speranze per il futuro dei propri figli (Bhatti, 1994, 1999). Questi dati mostrano che è ingenuo presumere — come, secondo questi intervistati, facevano i loro insegnanti al tempo in cui ancora frequentavano la scuola — che i ragazzi “avrebbero trovato un lavoro grazie alle connessioni della famiglia allargata” e che tutte le ragazze, immediatamente dopo aver lasciato la scuola, “si sarebbero sposate e avrebbero avuto una dozzina di figli” (cfr. anche Brah, Minhas, 1985; Siann, 1994 per quel che
3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni? Etnicitàe occupazione del padre
1) Pachistano, proprietario di negozio 2) Pachistano, operaio in fabbrica
Etnicità e occupazione della madre
Lavoro che vorrei Lavoro che avere al termine probabilmente della scuola finirò per fare (1987-90) e genere del partecipante Proseguimento | Probabile matri
Pachistana, aiuto commessa | studi (F)
monio
83 Occupazione attuale (2001)
Sposata;
lavora
in un'azienda di servizi Da poco sposato, ha un diploma in mana-
Pachistana, pro- |Laurea in ingeprietaria di nego- | gneria (M)
gement ed è manager in una piccola ditta 4) Pachistano, disoccupato
5) Pachistano, disoccupato
9) Pachistano, lavoratore occasionale 38) Pachistano, autista di autobus
29) CRE proprietario ristorante 31) Bangladeshi, invalido
Pachistana, lavo- |Proseguimento ra in un negozio | studi (M) di pulisecco Pachistana, casalinga
Pachistana,
in
una
lavora in una azienda di servizi
Sposato con due bambini, ha lasciato la scuola
seguimento studi,
a 16 anni, ora è
ma non è sicuro
tassista
Laurea
in medi-
Un titolo universitario
Laurea in una nuova università, lavora in una piccola ditta
in medi-
Un titolo universitario
Sposata, un bam-
con
Pachistana,
Laurea
casalinga
cina (F)
Bangladeshi, casalinga
Assistente di volo |Probabile (F) trimonio
ma-
bino, laurea in medicina, attualmente medico di base Sposata, vedova,
risposata con due bambini, casalinga
|Bangladeshi, casalinga
Lavoro in banca | Trovare un lavo(F) ro
Bangladeshi, casalinga analfabeta
Laurea in mate- | Aiuto commesso matica, 0 econo-
45) Bangladeshi,
Bangladeshi,
Grafico (M)
invalido
casalinga
34) Bangladeshi, disoccupato a lungo termine
Laurea
nuova università,
Proseguimento studi, ma non è sicuro (M) Pro-
assistente sociale | cina (F) (part time) adulti
| Aiuto commesso
mia (M)
ER
Sposata
a
un
cameriere, due bambini Era aiuto commesso, laurea in matematica in un'antica università
valori Diploma universi tario, disoccupato
riguarda le aspettative verso le ragazze asiatiche). Tali previsioni non emergono nei percorsi professionali dei dieci giovani adulti qui considerati. D'altro canto, sarebbe ingannevole insinuare che gli insegnanti erano deliberatamente maldisposti o decisi a discriminare nei confronti di questi particolari giovani. Tuttavia, gli effetti del processo di scolarizzazione per la prima generazione di giovani uomini e donne dell'Asia meridionale
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G. BHATTI
furono tali che essi dovettero rifare gli esami. Molti erano insoddisfatti del livello che avevano raggiunto a 16 o a 18 anni. Quelli che volevano ottenere qualificazioni post-scolastiche scoprirono che dovevano innanzitutto migliorare la loro capacità di leggere, scrivere e far di conto. I percorsi educativi dei soggetti del mio campione che desideravano carriere professionali sono risultati molto complicati, contorti e difficili. La maggioranza degli insegnanti di scuola — secondo questi giovani — non si aspettava che gli adolescenti asiatici di classe operaia aspirassero, o riuscissero a ottenere lavori da colletti bianchi. Una possibile ragione di questo atteggiamento potrebbe essere che gli insegnanti talvolta attribuivano a giovani dell'Asia meridionale e agli afrocaraibici aspettative e sentimenti simili a quelli che di solito attribuivano ai giovani di classe operaia bianca. Il rapporto tra posizione sociale e futuro degli studenti sembra essere così profondamente consolidato negli atteggiamenti degli insegnanti che, secondo una giovane donna da me intervistata, gli stessi non potevano
neanche
minimamente
“immaginare
che
sarei andata avanti per conseguire un diploma”. Gli stereotipi preoccupanti connessi alle occupazioni dei genitori, e dunque al futuro dei loro figli, dimostrano una volta di più la larga diffusione delle barriere di classe sociale nell'educazione dei giovani. Poiché gli insegnanti sono persone influenti, se gli atteggiamenti stereotipici che essi hanno non sono messi in discussione, essi possono continuare a pregiudicare i bambini, facendo nuovamente avvenire profezie che si auto-avverano. Sarebbe interessante vedere come, in altri Paesi europei, riescono a realizzarsi i giovani paragonabili a questi, dopo aver lasciato la scuola con qualificazioni minime. La maggior parte dei partecipanti riconosceva che, una volta
lasciata la scuola, erano disponibili ulteriori opportunità educative, sebbene, alla fin fine, fosse stata la loro tenacia ad averli aiutati.
Gli insegnanti
non
erano
sempre
consapevoli
delle circostanze davvero difficili in cui alcuni di questi giovani si trovavano da un punto di vista finanziario, sociale ed educativo. Certuni sottovalutavano la propria voglia di successo
' Vedi Eggleston et al. (1986) e Gillborn e Youdell (2000) per un giudizio su simili orientamenti.
3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni?
85
trovandosi di fronte a ogni tipo di privazioni e di avversità. Ad esempio, le ristrettezze finanziarie si traducevano molto spesso, mentre questi giovani crescevano, in spazi insufficienti nelle loro case per potervi ricavare un'area di studio confortevole. I rapporti del censimento 1991 in Gran Bretagna (Modoo et al., 1997; Owen, 1997) hanno confermato le condizioni di povertà e sovraffollamento abitativo in cui vivono le famiglie povere del Pakistan e del Bangladesh. Tuttavia, questi giovani continuarono a lottare nonostante un buon numero di loro riferissero di non avere, nelle comunità di appartenenza, molti modelli se avessero voluto intraprendere una carriera professionale. Se proiettiamo queste esperienze, possiamo scoprire che nel futuro i figli di quelle famiglie potranno avere sentimenti differenti quando entreranno nell'adolescenza. La cerchia d'amicizie dei loro genitori non era estesa agli asiatici professionisti di classe media. È interessante avere intervistato questi giovani adulti, nel follow up della ricerca originaria, per scoprire che cosa li abbia ispirati ad aver successo, che è precisamente l'obiettivo del mio studio, anche se è prematuro, in questa fase, predire quello che sono diventati tutti i cinquanta giovani che frequentavano la scuola Cherrydale (Bhatti, 1999) in Gran Bretagna. Se consideriamo la presenza di particolari gruppi etnici nell'Europa di oggi e le loro esperienze di razzismo insieme al modo in cui i media dipingono i musulmani in Europa, comincia a emergere gradualmente il contesto di scontro anche violento che questa popolazione deve affrontare nel Vecchio continente. La maggioranza dei giovani pakistani, come pure quelli del Bangladesh, professa la fede musulmana. A causa delle molteplici appartenenze e identità mobili, il quadro diviene assai complesso e multi-dimensionale ed esige che queste identità e queste lotte, che hanno luogo nei diversi Paesi europei, in Canada e negli Stati Uniti d'America, siano attentamente studiate. Nello studio iniziale avevo sostenuto che la proprietà di negozi e ristoranti — passibile di essere data in eredità ai figli — avrebbe agito come un disincentivo per proseguire nel percorso educativo e verso i diplomi più avanzati, ma è troppo presto per dire se questo è accaduto in ogni caso. | dati attualmente disponibili suggeriscono che nessuno del gruppo originale dei cinquanta giovani è diventato insegnante, il che non è di buon
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G. BHATTI
auspicio per le loro comunità, le quali tuttora ripongono grandi speranze sui buoni risultati scolastici, da esse considerati come socialmente significativi e un utile strumento di mobilità ascendente. I professionisti come dottori, assistenti sociali
e insegnanti,
che nel passato si sono imbattuti in queste famiglie, possono essere parzialmente scusati per aver predetto che la loro situazione sarebbe rimasta difficile e il loro futuro sarebbe stato squallido. Come sappiamo, l'incoraggiamento dei genitori, e il sostegno morale che le persone ricevono dai loro mariti e dalle loro mogli, hanno di gran lunga avuto la meglio sui molti altri fattori negativi che pesavano su questi giovani. Tali fattori includevano, per esempio, la difficoltà a esprimersi in inglese da parte di un buon numero di genitori, che non ce la facevano a essere presenti agli eventi sociali della scuola come pure le loro esperienze di sessismo e razzismo a scuola. Parlando con la maggior parte dei dieci giovani uomini e donne, sembra che i loro genitori traessero la propria forza morale dalle loro differenti appartenenze religiose come anche dalla convinzione, mai messa in discussione, che essi cercavano di trasmettere ai loro figli, e cioè che “puoi aver successo in qualsiasi campo se sei preparato a lavorare molto duramente per ottenerlo”. Molto spesso i genitori non sapevano contro che cosa i loro figli
stessero lottando e che cosa significasse “lavorare duramente” ogni giorno a scuola perché gli adolescenti, come molti altri loro coetanei, non sempre si confidavano con i loro genitori su quello che accadeva loro a scuola. Il tipo di cose che i figli mi riferivano e che, secondo loro, non sempre dicevano ai genitori, sono per esempio: Che cosa ci posso fare, se il paese d'origine dei miei genitori è diventato una parolaccia nella lingua inglese? (Bhatti, 1999, p. 172). Ma che significa che non parlo della scuola? Non capirebbero che cos'è una cartina di tornasole, o un grafico o un test in provetta! (ivi, p. 128).
3. Il genere x
Il genere è un'utile categoria d'analisi. Ho cercato di rintracciare le minoranze di famiglie sikh e indù del mio gruppo
3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni?
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originario. È interessante notare innanzitutto che nessuna delle giovani donne abbia detto che i propri genitori — padri e madri — le ha trattenute dal proseguire gli studi, o che è stata attivamente ostacolata nel perseguire la carriera che desiderava intraprendere una volta lasciata la scuola. Per esempio, il soggetto 29, menzionato più indietro, aveva desiderato fare
l'assistente di volo fin all'età di 13 anni, ma mi disse di aver cambiato idea quando ne aveva compiuti 17. Voleva sistemarsi e avere una famiglia, perché non pensava che un futuro in una compagnia aerea fosse adatto a lei. Per questa giovane donna la morte del marito in incidente d'auto durante il primo anno di matrimonio fu una vera catastrofe. Lavorò come cassiera in molti negozi diversi e, reputando questi lavori non appaganti e buoni “soltanto come riempitivi”, decise di risposarsi. Analogamente non è vero che i genitori musulmani
insistono
perché le loro figlie debbano studiare soltanto nelle università locali. La giovane donna che divenne medico (il soggetto 38 prima menzionato) aveva studiato in un'ateneo a molti chilometri dalla sua città natale che le rendeva impossibile vedere la famiglia per mesi. In un altro caso (il soggetto 9), la giovane donna e suo fratello risiedono ambedue in un'altra città e ritornano a casa una volta o due ogni tre/quattro mesi per andare a trovare i genitori. | dati sembrano dirci che i genitori musulmani, di classe operaia, che non avevano mai avuto l'opportunità di studiare all'università e che non svolgono lavori da professionisti, in effetti incoraggiano i figli e lasciano che siano essi a decidere ciò che è meglio per loro stessi. Fino a questo momento non ho ancora incontrato un solo caso in cui i genitori si siano “messi di traverso” per ostacolare l'educazione e le prospettive di carriera dei loro figli. L'unico caso di uno scontro tra genitori e figli, di cui abbia finora avuto notizia, è legato alle difficoltà economiche di una famiglia la cui casa non è abbastanza grande per accogliere in maniera confortevole la famiglia in crescita di uno degli intervistati. Egli è sposato e ha due figli, ma non ha una posizione finanziaria solida che gli permetta d'acquistare una proprietà e attualmente vive con i genitori, decisione che è collegata alle condizioni abitative della città in cui fu condotta la ricerca, e cioè nel Sud dell'Inghilterra. Se l’intera famiglia allargata
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dovesse traslocare in una città di provincia meno cara, nel Nord del paese, essi starebbero di gran lunga meglio. Tuttavia, dato che la famiglia in questione ha vissuto nella medesima casa per vent'anni, un trasloco collettivo non è stato preso in seria considerazione. Nel mio primo studio ho riportato il fatto che le ragazze fossero più “radicate da un punto di vista culturale” dei ragazzi, perché questi ultimi sono maggiormente esposti alle culture inglese e pachistana/blangladeshi/indiana (Bhatti, 1999, pp. 158-159). Questo, insieme alle aspettative nei confronti dei ragazzi che raggiungono una sicurezza economica tale da poter badare alla famiglia, si aggiungeva al peso morale ed economico che i giovani dovevano portare. | ragazzi tendevano a “perdere la strada”, cioè a rigettare la cultura familiare, seppur temporaneamente, in numero maggiore delle ragazze, come mi disse la sorella di uno di loro. E ciò, insieme alla mancanza di modelli positivi nelle vite dei giovani asiatici di classe operaia, può dare conto della “perdita di direzione” di alcuni di questi giovani. È necessario un lavoro “sul campo” più lungo per poter trarre conclusioni definitive.
4. Implicazioni per le politiche scolastiche
La Gran Bretagna è diventata da lungo tempo una società multietnica e multilingue e questo ha implicazioni riguardo il modo in cui l'educazione è impartita nelle istituzioni scolastiche. Ogni comunità ha il diritto di conservare la propria eredità culturale e ciascuna comunità può — se le viene data una opportunità — dare un utile contributo al progresso della società in cui si trova. A nessuno dei giovani adulti con cui ho parlato piaceva l'idea di diventare disoccupato e di diventare un “essere umano inservibile” (per citare uno di loro). Se la socie-
tà nel suo insieme deve trarre beneficio dalle aspirazioni e dalle speranze di tutti i suoi giovani, allora questi hanno diritto di aspettarsi opportunità educative (e, idealmente, di trovarle a scuola) che possano trasformare i loro sogni in realtà. L'Europa è ora la patria permanente di persone di origine linguistica, religiosa ed etnica diversa.
3. Ritornando sul “campo”: si possono avverare i sogni?
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Vorrei concludere con una citazione di due pedagogisti che analizzando il passato suggeriscono possibilità per il futuro: In verità, si può dire che la forza culturale dell'Europa stia nei suoi periodi d'apertura alla propria eterogeneità piuttosto che in qualsiasi sforzo per chiudersi o per imporre l’unità. La storia della chiusura culturale dell'Europa è una delle più sanguinose, dalle crociate alle inquisizioni alla tratta degli schiavi, per arrivare all’Olocausto. L'influenza dei gruppi immigrati dall'interno dell'Europa e da altri Paesi non è un fenomeno nuovo, ma da lungo tempo è uno dei più importanti fattori incidenti sulla formazione della conoscenza e della cultura europee (Coulby, Jones, 1995, p. 137).
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4 CREATIVITÀ E COMPETENZE NELLA VITA SCOLASTICA QUOTIDIANA: VERSO UNA PROSPETTIVA PRAGMATICA E DINAMICA SULL'EDUCAZIONE INTERCULTURALE® Ruth Soenen
1. Introduzione
Nelle scuole elementari del Belgio fiammingo raramente è stata condotta una ricerca di etnografia scolastica. Nel 1995, tuttavia, alcune di noi — ricercatrici con una preparazione antropologica! — cominciarono a svolgere tale tipo di ricerca, nell'ambito della prospettiva di educazione interculturale, che nel nostro approccio significava apprendere come affrontare le differenze? Le prime scuole incluse nella nostra ricerca furono quelle i cui alunni appartenevano a minoranze etniche: in Belgio vi sono soprattutto immigrati marocchini e turchi, ma anche italiani, questi ultimi attirati nel mio Paese come manodopera poco costosa negli anni Sessanta. Nei tardi anni Ottanta il contesto politico nelle Fiandre si trasformò in modo tale che il partito di estrema destra Vlaams Blok ebbe sempre più voti, specialmente nelle grandi città, dove la presenza degli immigrati è più numerosa. In particolare, sono gli immigrati non europei a essere nel mirino. Come reazione, il governo cominciò a organizzare e sostenere più intensamente parecchie iniziative e progetti che ave-
vano per obiettivi la lotta al razzismo e l'integrazione. Anche nel campo dell'educazione risorse straordinarie furono messe a disposizione delle scuole con un'alta percentuale di bambini ‘ Traduzione di Francesca Gobbo. ' Il gruppo di ricercatrici, di cui fa parte l'autrice del testo, lavora presso lo Steunpunt Ico, all’Università di Gent, che, oltre a organizzare e offrire formazione interculturale agli insegnanti e ai dirigenti scolastici del Belgio fiammingo, ha sostenuto e sostiene le ricerche di etnografia scolastica nelle scuole multiculturali della regione [N.d.T.]. ? Questa presentazione si basa su Soenen (1999).
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immigrati; esse dovevano fare sforzi maggiori nell'affrontare la mancata conoscenza della lingua, ma dovevano anche prendere in considerazione l'educazione interculturale. Il punto di partenza della nostra ricerca è dunque situato nel più ampio quadro dell’immigrazione, delle minoranze e dell'educazione interculturale. Tuttavia, lungo la mia presentazione diventerà chiaro che la ricerca si è distaccata da tale punto di partenza iniziale e si è ampliata, permettendoci di giungere a una descrizione dell'educazione interculturale così come è vista da questa prospettiva più inclusiva.
2. La ricerca d'etnografia scolastica
Nell'iniziare la ricerca, ci ponemmo le seguenti domande: — Come si evolve l'interazione — intesa in senso generale — a scuola? — Come si evolve l'interazione riguardante la diversità? — Come si evolvono i conflitti? La ricerca fu svolta in tre scuole, due delle quali hanno una popolazione in predominanza alloctona, appartenente in prevalenza gruppi a socio-economici deboli. Gli alunni sono membri di differenti gruppi di minoranza etnica, specialmente marocchini e turchi, ma ci sono anche zingari e bambini belgi socialmente svantaggiati (in Belgio questo genere di scuole con un'alta percentuale di alunni immigrati sono chiamate “scuole di concentramento”). Successivamente cercammo un contesto che
fosse in contrasto con il primo. A tale scopo scegliemmo una scuola la cui popolazione consisteva per un 30% di alunni alloctoni e per il restante 70% di alunni di provenienza sociale più avvantaggiata. Tale composizione della popolazione scolastica non deve essere considerata come un fattore che spiega i risultati della ricerca, ma piuttosto essere vista come un contesto di contrasto rispetto a quello delle “scuole di concentramento”. Il lavoro sul campo nelle due “scuole di concentramento” richiese un anno. La scuola di confronto fu studiata attraverso
una ricerca meno estesa, e lo stesso lavoro sul campo fu meno intensivo che nelle “scuole di concentramento”, richiedendo quattro mesi. In ambedue le indagini gli alunni avevano dai 9 ai 14 anni.
4. Creatività e competenze nella vita scolastica quotidiana
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Furono usati differenti strumenti d'indagine: osservazione partecipante, interviste, conversazioni informali e questionari per gli alunni. Noi ricercatrici eravamo presenti non soltanto in
classe ma anche nel cortile della scuola, accompagnavamo insegnanti e alunni nelle loro escursioni, e così via. Non si trattava del tipo di ricerca in cui sono indagati il corso e l’effetto di forme di lavoro e di modelli pratici sull'insegnamento; considerammo invece la scuola come una comunità in cui le persone s'incontrano quotidianamente e in cui le persone, interagendo l'una con l’altra, creavano nuove esperienze che davano un significato e una forma ulteriori alle loro vite.? In questa sede posso discutere solamente una parte specifica dei risultati di ricerca, e precisamente dei modi in cui i bambini interagiscono l'un con l’altro e con i loro insegnanti: innanzitutto, esaminerò le due scuole caratterizzate da un numero di alunni di minoranza etnica superiore a quella degli alunni autoctoni. Successivamente metterò a confronto questi
risultati con quelli dell'altra scuola.
3.1 “Galli” “Mentre stavo ritornando a casa dopo aver fatto la spesa al supermercato, quel mercoledì pomeriggio incontrai Malika, una ragazza marocchina che vive poco lontano. Indossava un foulard e aveva ancora l'uniforme azzurra della scuola. Quando c'incrociammo, alzò la mano per aria e disse ‘Battimi il cinque!’. ‘Le diedi il cinque’ e le domandai dove stava andando. Stava recandosi al corso di arabo; riprese la sua strada intonando la popolare canzonetta: ‘Hey Macarena!' In questa citazione la diversità di esperienze di una ragazza marocchina si riflette già nell’apparenza esteriore, la quale rimanda alla cultura familiare (porta un foulard e sta andando al corso di arabo), e alla sua vita giovanile (‘Dammi il cinque’ e le canzonette popolari). Proprio di questa diversità di esperienze è mia intenzione parlare.
3 Rispetto a ciò, è interessante far riferimento a Gallimore (1994), che presenta una prospettiva diversa dalla quale guardare alla classe.
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3.1. La modalità d'interazione filiale Sebbene
nelle nostre ricerche il contesto familiare degli
alunni non sia argomento di studio, possiamo tuttavia affermare che alcuni modi di comportarsi dei bambini a scuola possono
essere collegati alla loro origine familiare e culturale, in quanto si riferiscono alla culture (del Paese d'origine) dei genitori come pure ad abitudini familiari che non necessariamente alludono a caratteristiche etniche. Eccone un esempio concreto: i bambini si prendono cura degli altri membri della famiglia. Durante la ricreazione, i fratelli e (in particolare) le sorelle più grandi si prendono cura dei fratelli e sorelle più piccoli, andando a prenderli all'asilo, alla fine della giornata scolastica o durante la pausa per il pranzo. | bambini sia alloctoni sia autoctoni difendono i loro fratelli e sorelle quando sono fatti oggetto di bullismo. Nella nostra ricerca definiamo questo tipo d'interazione “modalità d'interazione filiale”. Tale espressione deve essere intesa come la totalità di modalità di comportamento e di interazione. L'aggettivo “filiale” è aggiunto perché questa modalità d'interazione fa riferimento al fatto di “essere figlio dei propri genitori” e, di conseguenza, alla situazione familiare. La
modalità d'interazione filiale è un insieme complessivo di modi di comportarsi, sviluppato dai bambini, che fa riferimento alle loro relazioni familiari (e cioè quando si pongono come sorella, fratello, figlia ecc.). Nella “scuola di concentramento” questo modo d'interazione può contenere elementi etnici, ma
anche socio-economici e familiari, che possono differire tra, e all'interno dei, differenti gruppi presenti nelle scuole. 3.2. La modalità d'interazione scolastica
Un secondo insieme di modi di comportarsi e d’interagire consiste in quelli direttamente legati alla vita della scuola. | bambini hanno una modalità specifica di comunicare con i loro insegnanti e con i compagni di classe. Nel comunicare con l'insegnante essi usano, con abbondanza, termini come “signorina”, “signore”. Se vogliono dire
‘ Le categorizzazioni usate da Peter McLaren (1993) nelle sua ricerca di etnografia scolastica ci hanno spinto a nominare le modalità d’interazione.
4. Creatività e competenze nella vita scolastica quotidiana
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qualcosa hanno l'abitudine di chiedere il permesso di parlare all'insegnante. Alzano un dito. Quando un compagno sta parlando, ci si aspetta che essi ascoltino con attenzione. Si muovono all'interno della classe secondo specifiche abitudini scolastiche. Normalmente se ne stanno seduti al loro banco, a meno che non debbano andare nell'angolo delle storie o abbiano bisogno di qualcosa che è sugli scaffali. In cortile si mettono in fila dopo che la campanella ha suonato e smettono di parlare. Si fermano automaticamente in certi punti determinati mentre stanno andando in classe. Quando lavorano in classe gli alunni mostrano specifici atteggiamenti di lavoro e usano specifici strumenti come penna, righello, matita e gomma. La data, il loro nome, il titolo della lezione è annotato in un modo chiaramente preciso. Inoltre, raccogliere i quaderni o i libri degli esercizi, distribuire il latte fornito dalla scuola, annaffiare le piante, spazzare la classe e andare a prendere i ritagli di carta sono modi di comportarsi che possono anch'essi essere classificati sotto questa etichetta. Tutti questi elementi sono presenti
in modo permanente nella vita scolastica di ogni giorno. Sono tutti modi d'interagire tra alunni, e tra questi e l'insegnante, che hanno la scuola come riferimento. I bambini, nelle cui classi facevamo ricerca, mostrano una sorta di comportamento abitudinario che è parte intrinseca della vita scolastica. Nella nostra ricerca chiamiamo queste modalità di comportamento e d'interazione le “modalità d'interazione scolastica”, che gli alunni mostrano quando si pongono come alunni di questa scuola. Questa modalità include soprattutto comportamenti e azioni di routine intrinseche alla scuola, comuni a tutti gli alunni proprio per il fatto che sono alunni di una scuola con un comportamento passivo e alquanto riservato. 3.3. La modalità d'interazione giovanile Oltre alla modalità d'interazione filiale e a quella scolastica, questi bambini hanno anche sviluppato una terza modalità d'interazione. Essi — alloctoni e autoctoni, ragazze e ragazzi — mostrano interessi comuni. Hanno a disposizione specifiche abilità e modi di comunicare che non fanno riferimento né al contesto familiare né a quello scolastico.
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a. Interessi reciproci
I bambini amano raccontare e ascoltare storie sensazionali. Essi ricavano molte cose dalla vita quotidiana concreta, e hanno un interesse davvero peculiare per tutto ciò che appartiene al mondo commerciale. Inoltre, sono vivamente interessati ai dati personali dei loro compagni di classe e dei loro insegnanti.
b. Abilità specifiche I bambini hanno specifiche abilità che non sono sempre riconosciute e accettate a scuola. Dopo tutto, si tratta di abilità che sono spesso considerate come non desiderabili. La scuola molto spesso le considera come non pertinenti al processo di apprendimento degli alunni o come interferenze inopportune nel processo d'apprendimento. Le abilità che discutiamo qui sono quelle che tutti i bambini della nostra ricerca hanno a loro disposizione. Essi sono arrivati a intuire le strategie dell'insegnante e della scuola in generale e hanno sviluppato meccanismi propri per affrontare tali strategie, consistenti in codici di comportamento non verbalizzati, impliciti, che non saranno esplicitati ma in base ai quali i bambini agiranno. Eccone alcuni esempi: I. Ibambini hanno abilità “commerciali”. L'aggettivo “commerciale” è usato qui nel suo doppio significato: da un lato, gli alunni hanno abilità pertinenti al circuito commerciale in genere, dall'altro possiedono quelle che sono richieste dal commercio. Essi fanno affari e stringono accordi. Possono spiegare film e giochi in maniera eccellente. Possono riprodurre senza difficoltà e in modo logico i contenuti di un film, di una telenovela o le regole di certi giochi cui giocano. Mettono a confronto le regole del gioco delle biglie, per esempio, e quelle per giocare a “flippo”?. Inoltre, per esempio, ? Il “flippo” è costituito da piccoli dischetti piatti di plastica che si possono comprare nelle edicole o dai tabaccai, ma che si possono anche trovare dentro ai sacchetti delle patatine. Su una faccia del dischetto c'è l’immagine di un personaggio popolare (per esempio quelli dei telefilm o dei cartoni animati televisivi). | bambini fanno collezione dei “flippo” oppure li usano per giocare. In un tipo di gioco i bambini cercano di vincere i “flippo” degli altri in questo modo: fanno una pila con parecchi “flippo” uno sopra l’altro mettendo i dischetti a faccia in giù, in modo che l'immagine non si possa vedere. Successivamente un giocatore tira un “flippo” (spesso si tratta di uno un po' più
pesante degli altri) in maniera tale da cercare di far crollare la pila. | “flippo”
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intavolano trattative sulla posta in gioco, sul numero di “flippo” che possono essere vinti o persi. Nel corso del gioco essi analizzano i costi e i benefici, e creano pure le loro regole, che cambiano secondo l’analisi dei costi/benefici. 2. In classe, essi riescono a svolgere contemporaneamente parecchie attività. Durante la lezione i bambini giocano e disturbano gli altri con i giochi telematici, gli adesivi, i righelli, le penne, la colla, gli anelli di chiavi, le biglie, i pezzi di carte e i messaggi. Fanno dondolare la loro sedia o usano differenti oggetti per fare rumore. Questa agitazione e moltitudine di azioni non indica necessariamente una mancanza d'interesse, ma sembra invece essere il loro modo normale e neutrale d'agire. I bambini sono capaci di fare questa moltitudine di azioni nel medesimo tempo e inoltre possono lavorare e apprendere in quel che la maggior parte degli insegnanti considererebbe un ambiente caotico. c. Modi di comunicare I bambini mostrano un modo particolare di comunicazione che è parte del loro comportamento normale, spontaneo. Questo modo di comunicare può avere un effetto d'interferenza, d'irritazione o di divertimento; può essere usato per attirare l'attenzione, ma può anche prendere la forma di una faccenda interna tra i bambini senza che vi sia alcun effetto collaterale intenzionale. Il loro modo di comunicazione scivola ripetutamente nel contenuto e nel messaggio della denuncia. Ciò è raggiunto attraverso elementi stilistici che non possono essere meramente interpretati come un comportamento di interferenza.
Una specifica forma di questo modo di comunicare è l'associazione. Per esempio, l'associazione di suoni: durante la lezione di francese l'insegnante spiega la differenza tra è ed é. Dice ‘Non sentite? Marchéééé (e mette l'accento sulla é). Conseguentemente un bambino grida ‘Oléé! Oléé!. Un altro alunno prende il sopravvento e grida ‘Arriba! Arriba!'. Gli interessi, le abilità e i modi di comunicazione sono elementi che i bambini hanno in comune ed emergono nella
si spargono tutt'intorno e che quelli che cadendo si sono rigirati, mostrando così l'immagine del personaggio, sono vinti dal tiratore.
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ricerca come indicatori di un accordo considerevole. Chiamiamo questa la “modalità d’interazione giovanile” perché qui abbiamo a che fare con specifiche modalità di comportamento che fanno riferimento all'interazione dei bambini tra di loro in quanto bambini. Essa contiene gli elementi comuni che connettono i bambini come gruppo dei pari. I modi di comportamento e i modi d'interagire gli uni con gli altri che appartengono a questa modalità d’interazione sono caratterizzati da una forte spontaneità. Il carattere di questo tipo di comportamento è quello di essere piuttosto espansivo e caotico, specialmente se paragonato al carattere della modalità d'interazione scolastica. L'atmosfera in queste scuole ci ha ricordato quella presente
nel villaggio dei Galli disegnato nei fumetti di Astérix, dove l'interazione è caratterizzata dal proverbio “Nessun rischio, nessun guadagno”. Schematicamente, potremmo così rappresentare le tre modalità d'interazione: Modalità d’interazione filiale: un insieme di modi
di comportarsi e di interagire che fa riferimento alla situazione familiare
Modalità d'interazione scolastica: un insieme di modi di comportarsi e di interagire che fa riferimento alla scuola
* | bambini infondono in * | bambini infondono in questa modalità d’intera- questa modalità d’interazione modi di comportar- zione il lavoro, il parlare e si che fanno riferimento il muoversi all'interno dei al Paese d'origine e alla confini abituali della scuola. posizione socio-economica Il comportamento è riserdei genitori, e che a loro vato e alquanto passivo. volta si riferiscono alle abitudini familiari, come il prendersi cura di fratellini e sorelline, e alle pratiche religi * Questa modalità di com- e Questa modalità d’inteportamento differisce a razione è condivisa da seconda del gruppo etni- tutti i bambini. co e dello status socioeconomico interno ai vari gruppi etnici
Modalità d'interazione giovanile: un insieme di modi
di comportarsi e d'interagire che fa riferimento alla interazione dei bambini tra di loro in quanto bambini * | bambini infondono in
questa modalità d’interazione interessi commerciali
e quotidiani, abilità specifiche e determinati modi di comunicazione come l'uso
di associazioni.
È una
forma d’interazione molto spontanea, espansiva e caotica.
* Questa modalità d’interazione è condivisa dai bambini. Le differenze
culturali e di genere sono superate.
4. Creatività e competenze nella vita scolastica quotidiana
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4.1 “manager'
Nella scuola di confronto risulta sorprendente che i bambini mostrino soprattutto modi di comportamento che fanno riferimento alla scuola e al contesto scolastico. In confronto ai “Galli”, questi bambini non si adattano semplicemente alle abitudini scolastiche, ma vanno oltre. Al di là dell'interazione tra compagni e di quella con l'insegnante, “essere scolaro” è considerato un criterio importante e significativo. I “manager’ amano
eseguire i compiti che la scuola assegna
e quanti più sono meglio è. Quando si tratta di compiti, vogliono essere i migliori, i primi, ed essi stessi creano le precondizioni per ottimizzare le lezioni. Aiutano e sostengono l'insegnante con cui vorrebbero essere associati. Talvolta estendono questo modo di fare fino al punto da assumere il ruolo dell'insegnante nell'organizzare e nello strutturare i procedimenti scolastici. I bambini competono vivacemente tra di loro sulla base del criterio di “essere uno scolaro”. Lottano per essere i primi a rispondere a una domanda, per essere i fortunati cui è permesso appendere il cappotto dell'insegnante, per essere pronti velocemente con gli esercizi così da poter fare alcune operazioni aritmetiche in più. Gli alunni mostrano quasi esclusivamente questo tipo di comportamento, che è presente in modo predominante e permanente. I bambini non soltanto mettono in atto questo modo di comportarsi l'uno verso l'altro, ma anche preservano e sostengono tale modo d'interagire. Sono loro che determinano il carattere e i confini dell'interazione a scuola, che si giudicano reciprocamente e sono loro stessi a voler essere giudicati. Nel fare questo sono normativi e iniziano da un sistema, fermamente fissato, di ciò che deve essere fatto e di quel che non deve essere fatto. L'alunno che si discosta da questo sistema è guardato con disapprovazione e ridicolizzato. Altri modi di comportarsi raramente si riscontrano a scuola.
Quando appaiono, ciò avviene al di fuori del contesto della classe, come ad esempio durante una gita scolastica; invece, quando si mostrano all’interno del contesto scolastico rimangono al di fuori del nucleo centrale delle lezioni e costituiscono soltanto lo sfondo o un evento marginale, periferico.
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Si possono distinguere tre diversi tipi di tali comportamenti: il primo si riferisce al “mondo commerciale”. Tutti i bambini sono chiaramente messi di fronte ai mass media e ne introducono alcuni elementi nel contesto scolastico. Per esempio, quelli commerciali, però, devono essere visti come elementi di sfondo intrinseci all'età giovanile in generale. Il secondo consiste nei modi di comportamento e d'interazione reciproca che fanno riferimento alla sessualità, all'amore e all’infatuazione. Hanno luogo soprattutto nell'ultimo anno di scuola elementare e sembrano emergere principalmente dalla fase di maturazione che i bambini hanno raggiunto, e cioè la pubertà. Infine, abbiamo anche le pseudo-lotte e il comportamento “da duro”, che formano una parte intrinseca del comportamento “macho” dei ragazzi, specialmente di quelli alloctoni. Come abbiamo già detto, in questa scuola il “comportamento da scolaro” surclassa tutti gli altri comportamenti e sembra dare poco spazio a questi ultimi. Tuttavia, vi è un'ulteriore varietà di condotta, che però è considerata sui generis, poiché tale comportamento avviene entro uno spazio ben definito ed è collegato a un certo momento. In altre parole, troviamo qui corrispondenza tra un tipo specifico di comportamento, uno spazio specifico e un tempo specifico. Il comportamento da alunno è collegato alla scuola come spazio (luogo) nel tempo di scuola. Il tempo del gioco è visto come tempo di divertimento, come un tempo non scolastico. Altri tipi di comporta-
mento hanno luogo fuori della scuola. Le infatuazioni e la preoccupazione per la sessualità sono a loro volta in corrispondenza con l'età degli alunni dell'ultimo anno di scuola elementare. I bambini di questa scuola assomigliano ai loro insegnanti e potrebbero essere considerati come una sorta di presagio dei futuri manager che mettono in riga le persone, aspirano alla perfezione dei loro prodotti e competono l'uno contro l’altro. Nella rappresentazione schematica che segue è aggiunto un elemento, quello del luogo in cui avviene una particolare condotta, ovvero dentro la scuola, fuori della scuola o in margine alla scuola.
4. Creatività e competenze nella vita scolastica quotidiana
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DENTRO LA SCUOLA FUORI DELLA SCUOLA Modalità d’interazione scolastica: un Modalità d'interazione giovanile: un insieinsieme di modi di comportarsi e di me di modi di comportarsi e di interagiinteragire che fa riferimento alla scuola. re che fa riferimento all'interazione tra | bambini lavorano, parlano e si muovono all’interno dei confini abituali della scuola. Essi danno un significato specifico a “essere uno scolaro”. Hanno abilità spe-
cifiche: organizzano e strutturano, prendono iniziative. Condividono interessi comuni: la scuola, i voti... Inoltre, essi amano essere associati all'insegnante e talvolta ne assumono il ruolo.
bambini in quanto bambini. Vi sono riferimenti al mondo commerciale, all'amore, all’infatuazione, alla sessualità e all’agire da duri. Modalità d'interazione filiale: un insie-
me di modi di comportarsi e di interagire che fa riferimento alla situazione familiare. Riferimenti all’etnicità, ai genitori, alle
pratiche religiose.
5. Verso una definizione di educazione interculturale
5.1. Bambini creativi e attivi È sorprendente che in ambedue i contesti di ricerca le divisioni tra i bambini non si situino lungo linee etniche: in altre parole, per i bambini stessi l'etnicità non è non un criterio per essere ammessi in un gruppo o in un sottogruppo. | “Galli” vivono secondo il credo di “essere fighi”. Per loro sono i criteri della modalità d'interazione giovanile che possono fornire uno status alto a un bambino. Per i “manager”, al contrario, sono in particolare i classici criteri scolastici che devono aiutarli nei loro sforzi per raggiungere lo status di alunno modello e in quelli per adempiere, seppure per un solo momento, al ruolo dell'insegnante. Quando consideriamo più attentamente l’etnicità, possiamo vedere che in queste scuole non esiste qualcosa come un'immagine trasmissibile, non ambigua e universalmente valida di bambino immigrato. Ci sono alunni immigrati che combinano la varietà delle loro esperienze e le maneggiano a seconda della situazione. Ce ne sono altri che lottano per la perfezione rispetto all'obiettivo di “essere uno scolaro” e ce la mettono tutta per diventare un alunno modello. Altri ancora non parlano mai abbastanza del Paese d'origine dei loro genitori, mentre ci sono quelli che si sottraggono ripetutamente ai loro insegnanti.
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In molti ambienti il punto di partenza rispetto ai bambini immigrati è ancora fermo all'idea che questi sono soltanto determinati dalla frattura tra la loro cultura familiare e la cultura della scuola. Si pensa che ricevano passivamente il messaggio della cultura familiare (dei loro genitori) e della cultura della scuola (dei loro insegnanti). Si suppone che abbiano perduto il loro punto di riferimento e che di conseguenza vivano “in” o “tra” due mondi. Questo potrebbe essere in effetti vero per alcuni alunni immigrati, ma non sarebbe giusto sostenerlo come un fatto universale e problematico, poiché ciò implicherebbe che la condotta dei bambini immigrati è solamente determinata dai loro genitori e dalla scuola. Affermarlo significa ignorare come i bambini stessi sperimentino la situazione in cui si trovano, come la maneggino e come la integrino nel loro mondo
d'esperienza. © In un'indagine di Wiesner e collaboratori (1988) su un gruppo di minoranza americano composto da bambini hawaiani residenti a Honolulu fu sollevata la questione se l'insegnamento a gruppi di minoranza possa effettivamente partire dall'ipotesi che vi sia uno scarto tra la cultura familiare e quella della scuola frequentata da questi bambini. | ricercatori osservarono che i bambini erano innanzitutto concentrati sul gruppo dei pari. Nella prima fase della loro indagine essi spiegarono questo come il risultato della cultura originaria dei genitori: “Gli studi etnografici suggeriscono che l'orientamento estremo verso i pari nella classe possa essere il risultato dell'uso esteso del prendersi cura di fratellini e sorelline che si fa nelle famiglie hawaiane” (ivi, p. 330). In una seconda
fase i ricercatori
interrogarono
ì genitori e scoprirono
che la cura di fratellini e sorelline non era una caratteristica etnica di quel gruppo. Così i bambini hanno un loro stile d'interazione e forme di comunicazione che non dovrebbero essere collegate ai costumi culturali dei loro genitori, ma piuttosto alla presenza di un gruppo dei pari. Secondo Weisner, vi è la convinzione che lavorare con bambini appartenenti a gruppi di minoranza possa essere collegato allo scarto tra cultura familiare e cultura della scuola. Fondarsi su questa ipotesi, tuttavia, può dar luogo a stereotipi. In questo modo la cultura è vista come qualcosa di condiviso a livello di gruppo e si presume che i bambini siano determinati da esperienze comuni che derivano dalla loro origine etnica e culturale, rendendo le loro esperienze omogenee. In questa visione si suppone che la cultura abbia un effetto uniforme sui bambini. Per Weisner non è sempre produttivo il punto di vista secondo cui
la scuola o la classe debbano essere un riflesso della situazione familiare per colmare lo scarto tra scuola e famiglia. Il mettere a fuoco l'identità culturale potrebbe portare a interpretazioni non corrette. In questo modo si sviluppa
un atteggiamento pedagogico stereotipato e si stimola la segregazione. “Le modificazioni della classe furono fatte in risposta all'interesse e ai risultati degli studenti piuttosto che all’'isomorfismo con le pratiche culturali native. Quello che alla fine del percorso evolutivo rimaneva era ciò che funzionava ed
era piacevole per i bambini, non quel che ‘sembrava’ hawaiano” (ivi, pp. 345-346).
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Sia i “Galli” sia i “manager” sono bambini attivi e creativi, che non sono meramente determinati e influenzati dagli adulti, come gli insegnanti, i genitori, gli zii e le zie, presenti nel loro ambiente. Essi non mandano giù passivamente ciò che i loro genitori e insegnanti forniscono loro, ma, grazie all'interazione con i genitori, insegnanti e soprattutto il gruppo dei pari, sono essi stessi a dare significato alla vita quotidiana a scuola, ogni volta in situazioni differenti e in momenti temporali differenti. Il messaggio originario di genitori, coetanei, o insegnanti è soggetto al cambiamento. È importante,
ogni volta e in ogni nuova situazione, guar-
dare ai bambini in classe. Ci si può porre le seguenti domande: 1. Quale parte gioca l’etnicità? 2. Quali altre fonti di diversità giocano un ruolo? In questa prospettiva, l'educazione interculturale è ben di più che la cultura familiare. L'educazione interculturale si occupa di differenze nel senso ampio della parola, in cui le fonti della varietà debbono essere esplorate. In questa prospettiva il termine “culturale”, nell'educazione interculturale, fa riferimento alle differenze culturali, etniche, sociali e così via. Non siamo più alle prese con definizioni statiche di un determinato gruppo etnico ma con definizioni più dinamiche che dovrebbero essere esaminate e specificate contesto per contesto. 5.2. Competenze
Allorché consideriamo i bambini come attivi produttori, vediamo che essi hanno competenze.’ Come abbiamo detto più sopra, quando ci occupiamo di quanto può essere interpretato attraverso la modalità di interazione giovanile, i “Galli” hanno certe abilità a loro disposizione, che, nella maggior parte dei casi, sono considerate
"| bambini e gli adolescenti sono creativi e attivi, un'idea avanzata da altri autori. Willis (1990) la connette al circuito commerciale. Hutchby e MoranEllis (1998) si occupano del paradigma della competenza, che “ mira a considerare seriamente i bambini come agenti sociali di diritto; ad esaminare come le costruzioni sociali dell'infanzia non solamente strutturino le loro vite ma siano anche strutturate dalle attività degli stessi bambini; e a spiegare le
competenze sociali che i bambini manifestano nel corso delle loro vite quotidiane come bambini, con altri bambini ed adulti, nei gruppi dei pari e in famiglia, e inoltre in molte altre aree d'azione” (Hutchby, Moran-Ellis, 1998, p. 8).
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socialmente non desiderabili. I “Galli” intuiscono parecchi meccanismi della scuola e degli insegnanti, e possono maneggiare circostanze caotiche. A un livello più astratto, possiamo dire che i “Galli” sono molto bravi a combinare differenti modalità d'interazione nel medesimo luogo e che dunque hanno competenze combinatorie. I “manager”, d'altro canto, sono bravi a organizzare e a strutturare. A un livello più astratto, possiamo dire che i “manager” hanno competenze organizzative in aggiunta alle quali essi mettono in atto una certa condotta nell'ambito di uno spazio e di un tempo ben definiti. Sia i “Galli” sia i “manager” affrontano la varietà in una maniera specifica: ambedue mostrano competenze situazionali, il che significa che adattano il loro modo di interagire secondo la situazione in cui si trovano. Nel far ciò, i “Galli” combinano tra di loro differenti modalità d'interazione nel medesimo spazio. Sono flessibili e creativi e lasciano aperte parecchie possibilità tra cui scegliere alternativamente. Sfortunatamente, molto spesso essi scelgono coscientemente o inconsapevolmente quella possibilità che non sono socialmente desiderabili. | “manager” affrontano la varietà mostrando uno specifico tipo di condotta in un contesto, e un altro tipo in un altro contesto, mostrando così una forma di agire situazionale normativo. In una certa situazione essi spesso scelgono la possibilità più desiderabile socialmente, non deviano da questa condotta e la impongono agli altri. Sfortunatamente, nel fare questo essi escludono altri modi di comportarsi in quella particolare situazione.
Dunque è importante considerare come le persone già affrontano la varietà e quali competenze emergono rispetto a essa. Allora l'educazione interculturale comincerà, in primo luogo, da “quello che c'è già” piuttosto che da “quello che non c'è ancora”. Nell'educazione interculturale l'accento è su “inter”: interazione, ovvero il modo attivo in cui le persone entrano in relazione reciproca. Le questioni principali sono: I. Come interagiscono le persone? 2. Quali sono le competenze già esistenti?
L'educazione interculturale, in questa prospettiva, non è un “qualcosa”, come ad esempio la definizione della cultura marocchina. È piuttosto un “come”: ovvero, come interagiscono le
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persone e quali competenze usano per farlo? È in questo senso che noi parliamo piuttosto di una prospettiva pragmatica sull'educazione interculturale. Nell'ambito della pedagogia la questione importante non è se dovremmo calarci nelle esperienze dei bambini oppure no. La domanda importante da porsi è invece: come possiamo leggere e interpretare le esperienze dei bambini? In questo senso, mi sembra fondamentale esaminare le modalità di interazione qui e ora, piuttosto che l'origine di qualcuno. La procedura standard parte sempre da una definizione di tale origine al fine, conseguentemente, di esaminare se essa determina, o influenza, il comportamento sociale. Abbiamo cercato di mostrare che apprendere come osservare l'interazione quotidiana tra le persone e i nuovi significati da essa creati, è almeno altrettanto importante e produttivo come modo di approccio.
Riferimenti bibliografici Gallimore R. (1994), Classrooms Are Just Another Activity, paper presented at the Symposium on “Research on Classroom Ecologies: Implications for Children with Learning Disability”, San Antonio, Texas. Hutchby I., Moran-Ellis J. (1998), “Situating Children's Social Competence”, in Hutchby I., Moran-Ellis J. (eds.), Children and Social Competence, The Falmer Press, London, pp. 7-26. McLaren P. (1993), Schooling as a Ritual Performance Towards a Political Economy of Educational Symbols and Gestures (Tweede Drunk), Routledge, London. Soenen R. (1999), Over Galliérs en managers. Bouwstenen voor intercultureel leren, Steunpunt Ico, Universiteit Gent, Gent. Weisner T., Gallimore R., Jordan C. (1998), “Unpacking Cultural Effects on Classroom Learning: Native Hawaiian Peer Assistance and Child-Generated Activity”, Anthropology and Education Quarterly, 19, pp. 326-353. Willis P. (1990), Common Culture, Open University Press, Buckingham.
RACCONTI DALL'INTERFACCIA: LA PUBBLICIZZAZIONE' DELLA RICERCA ETNOGRAFICA PER LA POLITICA EDUCATIVA'
Geoff Troman La natura della relazione tra ricerca e pratica è negoziata in ogni caso particolare in cui gli interessi e il potere degli altri possono giocare un ruolo tanto significativo quanto i punti di vista dei ricercatori. Questo significa che nel progetto di un'indagine i ricercatori devono tenere conto di ciò che è fattibile in quelle circostanze, come pure delle argomentazioni più astratte sul ruolo proprio della ricerca. Vi sono situazioni in cui i ricercatori possono produrre informazioni
che serviranno direttamente alle esigenze dei politici o degli esperti/professionisti. Tuttavia, molto spesso questi bisogni non sono ben definiti, e/o non sono una questione di consenso,
né rimarranno
necessa-
riamente i medesimi nel corso della ricerca. Inoltre mentre la maggiore preoccupazione del ricercatore può essere quella di produrre un resoconto valido della situazione, molto spesso politici ed esperti/ professionisti saranno quanto meno
altrettanto preoc-
cupati di quello che i risultati implicano nel contesto di relazioni interne ed esterne correnti. Il modo in cui i ricercatori si situano in relazione a questi bisogni e preoccupazioni, e ai cambiamenti che vi saranno, dipenderà parzialmente dalla natura dei loro obiettivi di ricerca, ma anche dal carattere di ogni iniziale contratto di ricerca e dal tipo di soluzione del conflitto che è possibile negoziare. In questo senso, anche se non in
generale, la ricerca è un'impresa politica (Hammersley,
1996, p. 32)
Attualmente i ricercatori stabiliscono spesso relazioni di collaborazione con — e per — quelli che non hanno
potere e con gruppi marginalizzati e attraverso tali relazioni forniscono a questi un mezzo per dar voce alle loro preoccupazioni e aspirazioni (Lee, 1993, p. 210)
' Rispetto al termine dissemination, tradizionalmente tradotto con “divulgazione, diffusione”, qui si è preferito renderlo con “pubblicizzazione”, dato che il suo obiettivo è quello d'ispirare la politica educativa [N.d.T.].
° Traduzione di Francesca Gobbo.
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G. TROMAN
1. Introduzione
Nel Regno Unito, la ricerca educativa è in agitazione dopo le recenti verifiche ufficiali delle pratiche e dei prodotti che hanno
avuto
un
esito
considerevolmente
negativo
(Bassey,
1998); la ricerca è stata considerata spesso di bassa qualità e parziale (Tooley, Darby, 1998), incapace di coinvolgere gli “utenti” (politici ed esperti/professionisti) e sovente è lontana dai loro bisogni e inaccessibile (Hillage et al., 1998). Sebbene questi ultimi critici riconoscano le difficoltà che comporta formare gli “utenti” ad accedere alla ricerca e indichino che una serie di governi non hanno utilizzato i risultati, pur disponibili, della ricerca per elaborare politiche, i medesimi assegnano una notevole responsabilità ai ricercatori per l’attuale “cattiva reputazione” (Sroufe, 1997) della ricerca educativa. La redenzione della ricerca è vista come la conseguenza di uno scossone dell’organizzazione, dell'’assegnazione di fondi e delle pratiche del sistema della ricerca sociale, in modo da introdurre rigore e pertinenza. E nello sviluppo della pratica e della politica basata sull'evidenza empirica (Hargreaves, 1996) vi sono alcuni, nel contesto educativo, che invocano l'istituzione di una “scienza dell'insegnamento” (Reynolds, 1998). Queste verifiche non riescono a riconoscere che le politiche degli enti di ricerca più importanti avevano di fatto modellato la natura della ricerca che essi erano disposti a finanziare. In Gran Bretagna,
l'Economic and social research council (Esrc),
per esempio, è un ente finanziatore che è stato anch'esso colpito dalla trasformazione del settore pubblico ed ha subito pressioni per adottare la ‘pertinenza’ come un criteri? |sic] importante per assegnare fondi alla ricerca (Esrc, 1987). Attualmente incoraggia molta più ricerca applicata che nel passato, richiede le prove della sua utilità per gli utenti, promuove più ampi collegamenti tra il mondo accademico e l'industria e ha rafforzato le misure di responsabilizzazione [accountability) per chi riceve finanziamenti (Tritter, 1995, p. 421).
? Il testo inglese cui l'autore fa riferimento, e che commenta ironicamente con un “sic”, usa il plurale criteria facendolo precedere dall'articolo indeterminato singolare a. Da qui la sottolineatura tra il caustico e il divertito [N.d.T.).
5. Racconti dall'interfaccia: la pubblicizzazione della ricerca etnografica
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Le accese critiche alla ricerca educativa ignorano due decenni di dibattito, all'interno della sociologia dell'educazione e delle altre discipline delle scienze sociali, sulla relazione tra ricerca, politica e pratica (Hammersley, 1994; Woods, Pollard 1988; Finch, 1985; Rist, 1984; Pollard, 1984). I revisori ufficiali evitano pure di tenere conto di un considerevole corpus di letteratura che esamina, nel contesto della ricerca educativa, la problematica della relazione tra teoria e pratica (v. per esempio Hammersley, 1992; Hirst, 1983; Carr, 1987; Stanhouse, 1975; Kemmis,
1988; Gitlin et al., 1993).
Sin dagli anni Sessanta, nel Regno Unito, i metodi qualitativi sono cresciuti di importanza nell’ambito della ricerca educativa, riempiendo il “vuoto lasciato per abbandono” dagli approcci quantitativi (Rist, 1984, p. 159). Tuttavia, si afferma che gli studi qualitativi hanno avuto un impatto limitato sulle politiche educative (Hammersley, 1994; Halpin, Troyna, 1994). Pollard (1984), nonostante avesse riserve sulla affidabilità e generalizzabilità degli approcci sociologici interpretativi, li pensava comparabili con gli studi quantitativi (prima attraenti per i politici) in termini di validità, e in grado di sviluppare teoria a livello micro e macro; insomma, pensava che potessero e dovessero ispirare le politiche e la pratica (v. anche Finch, 1985; Woods, Pollard, 1988). In effetti, Rist (1984) sostiene che i ricercatori qualitativi sono in una buona posizione per fornire il tipo di conoscenza di cui hanno bisogno i politici. Gli etnografi, per esempio, “analizzano in una maniera ecologicamente valida i valori, le credenze, i luoghi e le interazioni dei partecipanti”. Inoltre, “essi possono andare dietro le quinte per partecipare a eventi che non saranno mai oggetto di uno sguardo pubblico, in modo che i comportamenti e le credenze dei partecipanti siano esaminati nel contesto” (ivi, pp. 160, 163). Questo approccio “situato” mette gli etnografi in grado di “parlare con autorità, di avere il senso di come stanno realmente le cose” (ivi, p. 165). Così, il metodo etnografico può fornire dati complessi che hanno la capacità di mostrare l'impatto delle politiche sociali sui partecipanti; questa conoscenza
può suc-
cessivamente ispirare il cambiamento delle politiche. Inoltre, che l'indagine etnografica debba essere svolta in collaborazione con gli “utenti” è una presa di posizione tenacemente
stenuta,
e ormai
da.tempo,
dai ricercatori
so-
leader in questo
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campo per un certo periodo (v. per esempio Woods, Pollard, 1988). Il presente contributo mette a fuoco il mio coinvolgimento in un progetto di ricerca etnografica diretto da Peter Woods e finanziato con i fondi del Esrc, il cui titolo è “La costruzione sociale dello stress dell'insegnante”. La ricerca, che è stata programmata e iniziata prima dei resoconti ufficiali cui ho precedentemente accennato, fu da noi giudicata di rilevanza per gli insegnanti, altri professionisti e i politici. Essa comportava la collaborazione tra ricercatori e “utenti” in tutte le fasi del progetto e la sua finalità di fondo era quella d'ispirare le politiche a livello nazionale, locale, scolastico attraverso l’uso di una varietà di strategie di disseminazione. Questo mio intervento, mentre fornisce dettagli sull'intero progetto, si concentra su un aspetto che non era stato previsto all’inizio: si tratta
di uno studio di caso su un gruppo di auto-aiuto di e per insegnanti. Questo sviluppo richiese uno spostamento
verso una
più diretta collaborazione con gli “utenti” che non era stato prevista e che problematizzò il ruolo del ricercatore. Questo studio di caso mostra, nei suoi netti contorni, la relazione problematica tra ricerca educativa e politica scolastica. Prima di discutere lo studio è necessario fornire i dettagli essenziali sulle finalità della ricerca, sull'approccio e sui metodi usati nella raccolta e analisi dei dati.
2. La ricerca sullo stress: finalità e processi
Noi ricercatori avevamo pensato che il tema della ricerca sarebbe stato di particolare rilevanza per esperti/professionisti e politici, in quanto il numero d’'insegnanti che soffrivano di stress e di quelli che andavano in pensione anticipata per ragioni di salute stava crescendo nettamente (Woods, 1985; Troman, 1999, 2000; Brown, Ralph, 1998). Alcuni studi psicologici (Travers, Cooper, 1996) confermavano che lo stress sembra-
va essere un problema particolare nella professione insegnante. La ricerca internazionale (riferita in Vandenberghe, Huberman, 1999) faceva pensare che lo stress nell'insegnamento non fosse limitato al Regno Unito, il che non era soltanto una questione importante per la ricerca educativa in quanto,
5. Racconti dall'interfaccia: la pubblicizzazione della ricerca etnografica
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come fenomeno empirico, esso ha pure conseguenze più immediate e pratiche. [Vi] sono molteplici studi che mostrano come il burnout intacchi la qualità del rendimento professionale degli insegnanti, il loro livello d'impegno e la loro soddisfazione lavorativa. Essa appare pure intaccare negativamente l'apprendimento degli alunni e pone un pesante fardello sulla scuola come luogo di lavoro — per esempio, nelle relazioni collegiali, nella qualità del clima scolastico. Perfino da un punto di vista finanziario ed economico, vi sono conseguenze in termini di accrescimento di costi (Kelchtermans, Strittmatter, 1999,
p. 304).
La ricerca era inoltre di rilievo per i ricercatori di sociologia dell'educazione dato che affrontava i “fondamentali temi sociologici della relazione tra individuo e società, tra capacità di agire e condizionamenti, tra controllo e ordine” (Pollard, 1992, p. 119). Dal canto suo, Woods (1996a, p. 1) argomenta che lo stress sia un fenomeno di dimensioni e livelli molteplici, la cui produzione comporta fattori personali (micro), situazionali (meso) e strutturali. È un fenomeno la cui esperienza è individuale, pur essendo prodotto socialmente, e certamente implica elementi individuali della personalità, dell'impegno, della carriera e del ruolo, e i valori. Ci sono anche elementi situazionali, riguardanti l’organizzazione scolastica, la cultura dell'insegnante e le relazioni insegnante/alunno. Tuttavia, vi sono pure fattori più ampi quali la ristrutturazione su vasta scala delle scuole e dell'insegnamento che hanno avuto luogo negli anni recenti.
La ricerca multidimensionale sullo stress qui menzionata cerca le interrelazioni e stabilisce i collegamenti tra i livelli micro, meso e macro invece di considerarli come discreti (Kelchtermans, 1995). Come sostiene Hargreaves, questi livelli non sono “rigorosamente isolati l'uno dall'altro” e “struttura e capacità di agire sono connesse relazionalmente” (1998, p. 422). In lavori sulla costruzione sociale dello stress tra gli insegnanti dobbiamo evitare le analisi che “forzano una falsa separazione del sé, della struttura e della situazione in differenti siti di esperienza” (ibidem). Ciò che realmente è importante, dice ancora Hargreaves, è che si cerchi di capire come “le strutture esercitino i loro effetti e con quali conseguenze e implicazioni per il sé, in differenti luoghi e tempi” (ibidem). La ricerca sulla stress ha cercato di sviluppare un numero di aree teoriche, così sintetizzate:
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a. intensificazione del lavoro; b. stress e burnout; c. strategie di coping;* d. dilemmi, tensioni e condizionamenti; e. passaggio di status; f. sé, ruolo e carriera dell'insegnante. Le finalità e gli obiettivi della ricerca erano fortemente collegati alle politiche e sintetizzati nel progetto in questi termini: 1. esplorare le interconnessioni tra i fattori micro, meso e macro
nella produzione ed esperienza di stress tra gli insegnanti e, all'interno di tale relazione, considerare in particolare la parte giocata da: — cambiamento del lavoro; — ruolo e genere; 2. considerare gli effetti di questo tipo di stress sul sé e sull'identità dell'insegnante, e inoltre sull'insegnamento e sull'apprendimento; 3. individuare i fattori che portano al rinnovamento di sé e alla guarigione dallo stress; 4. ispirare le politiche e la pratica sullo stress tra gli insegnanti a tutti i tre livelli — macro (politica governativa), meso (politica scolastica) e micro (la pratica dell'insegnante) — e cercare modi in cui la ricerca può collegarsi, e ispirare altre professioni, che includano l'utilizzazione di intuizioni generate dalla ricerca per incidere sulle attività di formazione in servizio dei professionisti di medicina del lavoro, con il personale della scuola e con altri gruppi professionali; inoltre, assistere gli insegnanti lungo una riflessione professionale sulle loro esperienze;
° In inglese, il verbo to cope significa sia “far fronte” sia “lottare con successo”. Il participio presente coping è entrato ormai da tempo nel vocabolario psicopedagogico internazionale a indicare quelle azioni, o strategie, grazie alle quali alcune singole persone o classi di persone (nel nostro caso, gli insegnanti) si contrappongono
efficacemente
agli aspetti negativi, o potenzial-
mente negativi, di una situazione. Il linguaggio psicopedagogico italiano ha adottato il termine coping, così evitando le more di una traduzione che appesantirebbe il discorso e che probabilmente non renderebbe più chiaro — a chi già conosca l'inglese — il concetto. Per tutte queste ragioni si è deciso di lasciare il termine in inglese [N.d.T.]
5. Racconti dall'interfaccia: la pubblicizzazione della ricerca etnografica
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5. sviluppare metodi d'indagine appropriati alla ricerca, inclusi quelli che promuovono la collaborazione con gli inse-
gnanti e ricercatori di medicina del lavoro. La maggior parte della ricerca sullo stress tra gli insegnanti ha adottato metodi di sondaggio su larga scala (per esempio, Travers, Cooper 1996). Per contrasto, la nostra ricerca sullo stress era di natura qualitativa. L'approccio era etnografico poiché mi trovo d'accordo con Seddon (1998, p. 1) quando afferma che l'etnografia è una strategia-chiave di ricerca in questi tempi di cambiamento. Essa offre una finestra sulle realtà pratiche del lavoro e della vita delle persone, mostra i condizionamenti e le contraddizioni che affrontano e rivela il modo in cui rispondono ai cambiamenti sociali su larga scala. L'etnografia fornisce un importante banco di prova alle estrapolazioni teoriche perché ci lascia sbirciare i processi locali e mondani che costituiscono la storia nel suo farsi. Essa di nuovo conferma che le dinamiche della grande riforma e le risposte delle persone debbono essere analizzate contestualmente per mostrare gli effetti situati di storie, pratiche istituzionali e culture specifiche.
Il metodo principale della ricerca è stata l'intervista semistrutturata, aperta e in profondità sulle storie di vita. Al fine di contattare
dirigenti
scolastici
e insegnanti
che stavano
pro-
vando stress sul lavoro, o l'avevano provato, ho collaborato con un'Unità locale di medicina del lavoro, attualmente impegnata nella consulenza rivolta a impiegati affetti da stress (più che altro insegnanti, assistenti sociali e personale dei vigili del fuoco) che ne avevano personalmente fatto richiesta o che erano stati inviati dai medici di base. A tutti era stata diagnosticata ansia, depressione o malattie collegate allo stress. L'Unità era inoltre al corrente degli insegnanti che erano poi ritornati a scuola o che invece erano andati in pensione antici-
pata o avevano comunque lasciato l'insegnamento per ragioni collegate allo stress. Quanto al campione, una definizione operativa dello stress per i nostri scopi di ricerca era fornita dalla frequentazione dell'Unità per avere una consulenza, ricevere trattamento medico per malattie legate allo stress e godere di un prolungato periodo di congedo. Gli insegnanti che rispondevano a questa definizione erano identificati dall'Unità, che aveva fatto circolare la nostra lettera tra loro, invitandoli a prendere parte alla ricerca. Quanto a me, poiché ovviamente
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non ero in grado di prevedere, e dunque selezionare, coloro che volevano cooperare nella ricerca, confidavo su un campione “di opportunità”. Alcuni degli intervistati mi procurarono ulteriori contatti con amici che stavano ricevendo sostegno dall'Unità di medicina del lavoro e questo fornì un altro piccolo campione “a valanga” Il campione che infine emerse consisteva di 20 insegnanti (13 donne e 7 uomini) che lavoravano, o avevano lavorato, in scuole appartenenti a differenti tipi di zone urbane e locali. Le proporzioni di genere e le età rappresentano quelli caratteristici della professione insegnante, in quanto vi predominano le donne che in grande maggioranza hanno quarant'anni o più (Wragg et al., 1998). C'era una certa gamma di posizioni professionali, sebbene la più numerosa fosse composta da insegnanti (per lo più coordinatori curricolari) a metà carriera o a carrie-
ra piuttosto inoltrata. C'erano tre dirigenti (due uomini, una donna) e due insegnanti appena abilitate (donne). Era anche evidente un ventaglio di comportamenti adattivi che includeva l'assenza per malattia, il ritorno al lavoro e la cessazione dell'insegnamento. Gli insegnanti che parteciparono furono intervistati nelle loro case; ogni intervista durava normalmente da un'ora e mezza a due ore e la sua lunghezza era determinata dall'intervistato. Per quel che mi riguarda, ho condotto da un minimo di due a un massimo di cinque interviste in un periodo di due anni. Questo ha aggiunto una dimensione longitudinale alla ricerca, elemento che spesso manca nella ricerca sullo stress tra gli insegnanti (Kelchtermans, 1995) e che mi permise di tracciare una mappa della “carriera dello stress”. L'analisi delle trascrizioni, svolte in parallelo con i confronti condotti sulla letteratura scientifica pertinente, alimentò le interviste successive e la raccolta dei dati al fine di facilitare la “messa a fuoco progressiva” (Glaser, Strauss, 1967) e una crescita esponenziale delle intuizioni (Lacey, 1976).
Inoltre, ho condotto uno studio sull'organizzazione di due scuole elementari facendo osservazioni e interviste. Questo studio riguardava due grandi scuole elementari di città, situate in circoscrizioni scolastiche diverse. Una si era autodefinita scuola a “basso stress” (e il personale consisteva in un direttore e undici
insegnanti)
che aveva
recentemente
ricevuto
una
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valutazione molto favorevole dall’Ofsted* e aveva una bassa percentuale di assenze tra gli insegnanti, bassa percentuale di malattia tra il personale, basso turnover di personale e un morale alto tra gli insegnanti. L'altra, autodefinitasi “scuola ad alto stress”, era sotto “speciali misure” essendo stata definita da Ofsted come una scuola “fallimentare”. Era caratterizzata da alti livelli di stress tra gli insegnanti, alto turnover del personale, alte percentuali di assenze. La collaborazione con gli “utenti” e la disseminazione della ricerca per l'elaborazione di politiche e per la pratica sarà l'obiettivo del successivo paragrafo.
3. Pubblicizzazione e politiche
La collaborazione con i potenziali “utenti” fu costruita in ciascuna fase del processo di ricerca. Il responsabile locale di medicina del lavoro fu avvicinato durante l'elaborazione scritta del progetto non soltanto per assicurarsi l'accesso a un campione d'insegnanti ma anche perché commentasse
il progetto
di ricerca. Abbiamo inoltre collaborato con un assistant education officer (capo del personale educativo) che era la persona chiave nella formulazione delle politiche per la salute e la sicurezza sul lavoro. Discutemmo il nostro progetto anche con uno psicologo clinico che lavorava in una Facoltà di Medicina con i consulenti dei pazienti affetti da Aids/Hiv e del reparto di oncologia. Lo stress costituiva il suo interesse di ricerca principale ed egli cercava di applicare i risultati di ricerche quantitative al proprio lavoro con i consulenti. Sia il responsabile sia lo psicologo agirono come referees per il progetto di ricerca presentato all'Esrc. | più importanti sindacati degli insegnanti furono consultati durante la scrittura del progetto e nelle fasi iniziali del lavoro sul campo. Ebbero luogo incontri con la National association of schoolmasters, la Union of women teachers, la National union of teachers e la Professional association of teachers e in tali occasioni informammo i sindacati dei fini e del piano della nostra ricerca e discutemmo i modi in cui potevamo darci sostegno l'un l’altro nello sviluppare la ricerca
4 Per l’Ofsted, si rinvia, supra, alla nota 2 del cap. 1 (N.d.T.].
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e i modi in cui i nostri “risultati” potevano essere inseriti nel processo di decisione politica. Questi “utenti” appoggiarono la ricerca perché ne riconobbero il potenziale contributo alla formulazione delle politiche per le varie aree in cui essi lavoravano e anche per altre. Gli insegnanti che presero parte alle interviste collaborarono con il ricercatore; alcuni si fecero intervistare più volte nel periodo di due anni. Una pubblicizzazione alquanto “non convenzionale” della ricerca ebbe luogo durante molte interviste, perché gli intervistati, oltre a rispondere semplicemente alle domande, ne ponevano molte essi stessi: volevano sapere, per esempio, che cosa avevamo trovato sullo stress nell’insegnamento. In alcuni casi, inoltre, richiesero indicazioni su come avrebbero potuto affrontare lo stress nella loro vita e nel loro lavoro. Così, fummo coinvolti in una forma di “formulazione di micropolitiche” a questo livello di disseminazione ed elaborazione; tali processi non potevano dunque essere messi fra parentesi in maniera ordinata e assegnati alla fase finale della ricerca. I motivi che gli intervistati dichiaravano in merito al loro coinvolgimento nella ricerca erano svariati: alcuni volevano raccontare la loro “storia”, altri volevano che pubblicassi i “risultati” per mettere in guardia i politici sulla “realtà” di ciò che stava accadendo agli insegnanti e nelle scuole, altri ancora volevano vedere le loro storie documentate e, attraverso la lettura, trasmettere la loro esperienza ad altri che si trovassero in circostanze simili. È questo tipo di rapporto, e la “pressione” dell’intervistato, che portò Patti Lather e Chris Smithies (1997) a pubblicare al computer il loro lavoro (Troubling the Angels: Women living with Hiv/Aids) e a farlo circolare tra gli intervistati invece d'aspettare che il lento processo di stampa fosse completato. Un'altra disseminazione includeva la presentazione di interventi accademici nei principali convegni pedagogici: gli interventi sono stati e saranno letti al convegno annuale della British educational research association, alla European conference on educational research, alla American educational research association e al convegno di Oxford su “Ethnography and education”. | contributi e le presentazioni sono programmati per convegni che includono una vasta gamma di discipline e differenti competenze e hanno un pubblico misto che include universitari e non. Un convegno di questo tipo è organizzato
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dal National work-stress network news del Regno Unito; i testi degli interventi sono stati inviati ad alcuni degli insegnanti partecipanti per stimolare il loro punto di vista sulle analisi e ciò ha voluto dire scrivere due versioni dei interventi, la prima finalizzata al pubblico di medici e politici, la seconda per il pubblico da convegni universitari o da riviste scientifiche (v. Lather, 1997; Richardson, 1990). Il responsabile di medicina del lavoro e lo psicologo ricevettero copie dei contributi. L'intenzione era che i “risultati” della ricerca potessero essere usati per la preparazione di provvedimenti interni per il lavoro a scuola sullo stress. Sono state programmate presentazioni per convegni sindacali e saranno proposti articoli da pubblicare nei bollettini inviati ai membri dei sindacati. Un articolo è già stato pubblicato nella rivista professionale Child Education. Un convegno di un giorno è stato programmato per la fase finale della ricerca e si prevede che i rappresentanti di tutti i gruppi di utenti e tutti gli insegnanti che hanno partecipato allo studio saranno presenti. È stato firmato un contratto di pubblicazione con una delle più importanti case editrici di testi pedagogici e questo permetterà di pubblicizzare i “risultati” a livello nazionale e internazionale tra politici, medici e universitari. In questa indagine sullo stress ci siamo trovati coinvolti nella ricerca sulle politiche sociali in due sensi, come spiega
Finch (1985, p. 111): il primo significato consiste nello studio di carattere accademico di una qualche area in cui le politiche sociali sono operanti, o forse non sono operanti in modo molto efficace. Lo scopo di tali studi è di documentare e analizzare l'impatto delle politiche sociali sulle popolazioni obiettivo. Il secondo è quello di studi che si propongano di influenzare la futura direzione delle politiche, ovvero studi che hanno l'ambizione di contribuire direttamente al processo della loro elaborazione, di solito con l'intenzione di provocare un qualche tipo di cambiamento nelle medesime.
Ci siamo trovati alle prese con ambedue questi significati poiché stiamo documentando alcuni effetti delle politiche sulla vita e il lavoro degli insegnanti, ma puntiamo anche a usare i “risultati” della ricerca per ispirare le politiche di prevenzione dello stress invalidante gli insegnanti nel loro lavoro. Questa nostra ambizione di avere un impatto sulle politiche
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come risultato della ricerca implicava l'abbandono di concezioni ingenue sulla relazione tra ricerca, pratica e politica che sono incarnate nel modello ingegneristico di ricerca educativa, così descritto da Hammersley (1992, p. 128): “nella sua forma più estrema, esso tende a vedere la ricerca come ciò che fomisce insiemi di prescrizioni politiche che gli esperti dovranno semplicemente seguire per raggiungere i loro scopi”.
Pur sperando di contribuire alla conoscenza nella disciplina sociologica (Hammersley, 1992), stiamo al tempo stesso operando sulle premesse del cosiddetto modello “illuminato” di relazione tra ricerca, pratica e politica che “comporta una relazione meno diretta tra conoscenza prodotta e politiche adottate” (ibidem). Nel modello “illuminato” “il ricercatore fornisce la conoscenza non soltanto nel senso di ‘fatti’ ma, soprattutto, di intuizioni che invitano i partecipanti a riconcettualizzare il loro stesso mondo e, perciò, a escogitare possibili modi di cambiarlo” (Finch, 1985, p. 122). Questa tradizione di ricerca nel campo delle politiche sociali, che intende trasmettere i “risultati” di ricerca nei tre contesti del processo di elaborazione delle politiche (influenza, produzione di testi, pratica) deve inoltre essere consapevole delle interpretazioni multiple e degli “effetti” (alcuni dei quali non previsti) della politica sociale e come le differenti letture della medesima “possano avere conseguenze e implicazioni molto differenti per la pratica” (Bowe et al., 1992, p. 23; v. anche Woods, Wenham, 1995).
4. Il caso etnografico non previsto Burgess (1994, p. 58) ci ricorda che un “progetto di ricerca è un piano su ciò che potrebbe avvenire piuttosto che su ciò che deve avvenire”. Le deviazioni dal piano di ricerca stabilito all'inizio delle ricerche etnografiche sono molto probabili poiché l'impresa etnografica s'incentra “intorno a compromessi, scorciatoie, impressioni e avvenimenti serendipitosi” (Walford, 1987, p. 1; v. anche Measor, Woods, 1991 e Woods, 1996b, 1999a)?.
? Sulla “serendipità” si rinvia, supra, al par. 4.1 del cap. 1 [Nd.T.).
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Lee afferma che “fare ricerca su temi scottanti o delicati richiede una mente immaginativa” e che, per parafrasare Webb e Weick (1983), una sorta di stupidità è funzionale alla ricerca. Questo non significa, come potrebbe sembrare a prima vista, un invito a prendere decisioni grossolane. Ciò che Webb e Weick pensano è che la capacità di riflettere in modo immaginativo, giocoso, perfino fantasioso, è d'aiuto quando si deve affrontare una difficile situazione di ricerca. Una tale riflessione serve, come dicono, per ‘generare nuovi input e permettere alle persone di riconoscere e
di rompere la loro fissazione sulla messa a fuoco unidimensionale di un problema’
(ivi, p. 213). Rompere
la ‘messa a fuoco unidimensio-
nale’ può significare essere aperti a una varietà Nel caso di temi scottanti o delicati questo ha dal punto di vista pragmatico, poiché, essendo dati spesso bloccato, si deve ricorrere a più raggiungere la propria destinazione (ibidem).
di strategie di ricerca. un senso quantomeno l’accesso a tale tipo di metodi alternativi per
Nella ricerca di questo tipo paga il poter essere pronti a usare “qualsiasi setting al fine di esaminare ciò che non era stato previsto e rispettare la complessità del mondo sociale” (Rist, 1984, p. 166). Un'opportunità di sviluppare la ricerca sullo stress emerse
quando scoprii, analizzando le interviste, che le relazioni insoddisfacenti tra il personale erano percepite come una delle maggiori fonti di stress nel loro lavoro di insegnanti. Ne era un esempio il fenomeno che alcuni partecipanti descrivevano come “bullismo”. Inoltre, venni a sapere che una degli intervistati stava per istituire un gruppo di auto-aiuto per sostenere chi, come lei, riteneva di essere stata oggetto di “bullismo” sul lavoro. Successivamente venni anche a sapere che altri due intervistati erano membri fondatori di questo gruppo. Questi insegnanti avevano la sensazione di essere stati, o di essere, buttati fuori a forza dall’insegnamento, si sentivano affetti da stress, marginalizzati, alienati e impotenti. Poiché ritenevano di essere stati ignorati dai loro sindacati quando avevano chiesto aiuto professionale e sostegno per i problemi sul posto di lavoro, crearono un’organizzazione per gli impiegati dell'Autorità Locale oggetto di “bullismo”: erano prevalentemente insegnanti (alcuni dei quali lavoravano nel settore privato). Si trattava di un’organizzazione pensata per dare un sostegno pratico
ed emotivo ai colleghi della rete, ma anche per pubblicizzare la
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loro situazione e per agire come gruppo di pressione impegnato a sollevare tali temi con i datori di lavoro e con i sindacati, e a provocare cambiamenti sul posto di lavoro, cercando al contempo riparazione per i loro membri. lo fui invitato a unirmi al gruppo perché conosciuto come qualcuno che aveva comprensione e simpatia per la loro posizione e che poteva, potenzialmente, pubblicizzare la loro condizione sfavorevole e forse influenzare le politiche sul “bullismo” sul posto di lavoro. Mi fu possibile frequentare le loro riunioni mensili serali, dapprima in un pub e successivamente in una sala affittata e impegnarmi nell’osservazione partecipante, cosa che mi metteva in grado di svolgere lo studio di caso parallelamente al lavoro sulle interviste e sullo studio della scuola del progetto principale. Ho frequentato le riunioni di gruppo per un anno e intendo continuare il mio coinvolgimento anche al di là della durata dell'indagine. Il progetto e la ricerca originali svolte fino al momento in cui mi unii al gruppo erano stati condotti secondo linee etnografiche “convenzionali”, mentre un coinvolgimento del tipo appena descritto sembrerebbe non solamente comportare una etnografia “non convenzionale” (essendo collegata a progetti di emancipazione) ma anche problematizzare le nozioni di “rilevanza”, “collaborazione”, “utenti” della ricerca, “disseminazione” ed “elaborazione delle politiche”. Una volta diventato parte del gruppo, si presentarono parecchie opportunità di sviluppare la ricerca sullo stress; alcune di esse erano strettamente collegate alle finalità indicate nel nostro progetto. Partecipare al gruppo presentava l'opportunità di: — apprendere di più su un gruppo di lavoratori che sarebbero stati considerati “devianti”, spesso lo studio della “devianza” fornisce intuizioni nella “normalità” (Woods, 1983); — scoprire di più sul fenomeno del “bullismo” nel posto di lavoro come fonte di stress; — accedere agli insegnanti e ai lavoratori nelle professioni di cura (per es., il lavoro sociale) che avevano avuto l'esperienza di malattie legate allo stress e avevano lasciato il loro lavoro o stavano prendendo seriamente in considerazione di farlo; — studiare l'impatto delle politiche nazionali, locali e sindacali sugli insegnanti e su altre categorie di lavoratori;
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— partecipare e studiare, attraverso la lente del movimento sociale (Taylor, 1998), le idee, le politiche, l’organizzazione e le strategie di un movimento contemporaneo di auto-aiuto: — cercare di svolgere una ricerca capace di contribuire al cambiamento sociale rendendo migliore la vita dei soggetti della ricerca; — conferire potere a gruppi marginalizzati che ne sono privi, o quanto meno aiutare a dar voce (Troyna, 1994) a coloro che sono stati “marginalizzati o ignorati nella ricerca tradizionale” (Taylor, 1998, p. 365); — avere l'opportunità di pubblicizzare i “risultati” della ricerca per ispirare le politiche e le strategie del gruppo e per sostenerne i membri nel loro progetto di ottenere un cambiamento a livello nazionale, come pure all'interno dell'Autorità Locale e nei sindacati; — essere in grado di rompere l'isolamento geografico, psicologico e sociale dei partecipanti alla ricerca principale sullo stress, che avevano sperimentato il “bullismo”, mettendoli in contatto con un gruppo di sostegno. Sebbene queste finalità sembrassero in teoria estremamente meritorie, la partecipazione nel lavoro del gruppo, contemporaneamente alla ricerca su di esso, risultò essere alquanto più complessa e problematica e comportò prendere alcune difficili decisioni. Nel paragrafo seguente, esploro alcune delle questioni sollevate nel contesto della disseminazione per l'elaborazione di politiche, concentrandomi in particolare su quella dei risultati del gruppo di lavoro sull'anti-bulllismo.
5. Pubblicizzazione per l'elaborazione delle politiche
5.1. Pubblicizzazione Il gruppo anti-bullismo aveva due finalità principali: la prima, sostenere i colleghi dal punto di vista emotivo e psicologico, la seconda —- più specificamente politica — cercare di avere soddisfazione dal loro datore di lavoro (l'Autorità Locale) e dai sindacati. La prima finalità si poteva cogliere nel modo in cui le riunioni erano strutturate e condotte nei primi tempi: all'inizio, si chiedeva ai membri (circa venti per ogni riunione)
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di presentarsi e dire qualcosa sulle esperienze di “bullismo” subite nel posto di lavoro. In ciascuna sessione i membri si riferivano spesso a se stessi come “vittime” o “bersagli” del “bullismo” e alcuni parlavano lungamente del trauma dell'esperienza e delle sue conseguenze. Il presidente invitava i membri a “ricordare l'uno all'altro le emozioni che avevano provato”. I membri rispondevano “confermando l'esperienza condivisa” (Taylor, 1998) e scambiandosi consigli. Tutte queste narrazioni personali confermavano che i membri avevano sofferto per mano del responsabile gestionale, di solito un dirigente. Trovavo difficile partecipare a queste fasi di “introduzione” perché, malgrado avessi ascoltato molte storie strazianti ed emotivamente intense sul bullismo da parte delle persone intervistate nella ricerca sullo stress, non ne avevo avuto esperienza personale e perciò mi sentivo a disagio nelle riunioni, in quanto non avevo una storia da raccontare. Ed effettivamente, nel gruppo, c'era tensione tra quei membri che avevano subìto il “bullismo” e quelli che non ci erano passati (soltanto io e altri due in quest'ultimo gruppo). Una donna, che sembrava rappresentare il sentire della maggior parte di loro, si espresse in favore di un gruppo costituito esclusivamente per i lavoratori che avevano subìto episodi di “bullismo”, sostenendo che “non poteva capire le motivazioni di chi voleva venire alle riunioni anche se non aveva avuto tali esperienze”. Di contro, un altro disse che pensava fosse importante comprendere persone che non erano state “vittime” del “bullismo” perché “avrebbero apportato una sorta di distanza e una prospettiva oggettiva [nelle riunioni). Tutti quelli che soffrono come conseguenza del bullismo e dello stress sono così arrabbiati che una persona obiettiva potrebbe disperdere un po' di quella rabbia”. Secondo la cultura dell'auto-riflessività propria della tarda modernità, i membri del gruppo usavano concetti derivati dalle scienze sociali per spiegare la propria situazione e per cercare di ricostruire le identità psicofisiche, le aspettative e i progetti (Giddens, 1991). Un ulteriore aspetto delle strategie di sostegno, perciò, fu quello di fornire i membri di conoscenze che potessero aiutare la convalescenza psicologica e fisica. A tal fine, decisero d'invitare degli “esperti” perché parlassero degli aspetti del “bullismo” e dello stress che vi era associato. All'inizio gli “esperti” provenivano dal gruppo stesso: io fui
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invitato a tenere la prima conversazione, grazie alla quale ebbi l'opportunità di pubblicizzare alcuni “risultati” della ricerca che pensavo sarebbero stati di sostegno e d'aiuto ai membri per ricontestualizzare la loro esperienza proprio perché mettevano a fuoco lo stress nell'insegnamento. Scelsi di parlare del modo in cui gli insegnanti intervistati percepivano le cause di stress. Il mio quadro teorico mirava a sviluppare i collegamenti macro-meso-micro nella spiegazione dello stress occupazionale e ritenevo che l'etnografia fosse un metodo ben appropriato a tale quadro teorico. Non diversamente da Smith (1987), quando sviluppa la sua metodologia della “etnografia istituzionale”, anch'io pensavo che “l'indagine comincia con l'organizzazione lavorativa all'interno della quale gli individui sono situati, si tratti di madri, operai di fabbrica o commessi di negozio. È attraverso le relazioni sociali costruite sul lavoro che possiamo connettere processi apparentemente micro-sociali con la più ampia economia politica del capitalismo contemporaneo” (Ja-
cobs, Yeomans, 1995, p. 398). Le cause di stress da me discusse erano suddivise nelle seguenti categorie: intensificazione del lavoro; scontro di valori; relazioni tra il personale; relazioni tra insegnante e alunno; problemi di responsabilizzazione. Feci riferimento al “bullismo” nella parte relativa alle relazioni tra il personale e usai esempi tratti dai miei dati. Interpretai il “bullismo” come un processo sociale e collegai l'esperienza personale del medesimo alle costrizioni esistenti a livello macro e meso. Per esempio, citai una spiegazione usata da un illustre studioso dello stress e del “bullismo”, affermando che Cooper (1999) sosteneva come il tipo di bullo disturbato psicologicamente sia ora relativamente raro, la più comune forma essendo invece i manager “normali”, che sono sotto pressione per raggiungere i traguardi prefissati.
C'erano prove di “bullismo manageriale inconsapevole” da parte di una dirigente sotto pressione per questioni di responsabilizzazione, pressioni che “l'avevano portata a far pressione sugli altri e a dispiacersene, pur ritenendolo inevitabile” (Jeffreys, Woods, 1998, p. 126). Misi in rilievo l'affermazione dell'’Association of teachers and lecturers, secondo cui il “bullismo” a scuola è in crescita e rappresenta la causa principale dell'abbandono dell'insegnamento da parte dei docenti e
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ricordai la spiegazione individuata dalla medesima organizzazione per tale crescita: sia nelle scuole finanziate dallo stato sia in quelle private, i dirigenti sono sottoposti a un'enorme pressione per produrre risultati, in taluni casi nonostante le risorse molto limitate. Questa pressione è spesso trasmessa ai capi dipartimento, o ai docenti di riferimento [post-
holders*), ugualmente ansiosi di mostrare che la loro area sta andando bene. Questi dirigenti stressati possono scoprire che il sostegno e i consigli [di cui ci sarebbe bisogno] sono molto meno disponibili che in passato e quindi usare, a loro volta, la tattica del bullismo. Nel frattempo, le graduatorie delle scuole [League Tables"] possono scatenare timori o angosce relative al fatto che un solo anno di risultati insoddisfacenti possa portare gli alunni a trasferirsi altrove (ATL,
1996, p. 1).
Indicai che questi argomenti erano sostenuti dalla ricerca sociologica nelle scuole, citando Reay secondo cui “il bullismo scende a cascata attraverso il sistema così che alcuni insegnanti elementari del secondo ciclo in effetti si descrivono come bacino di raccolta delle tensioni che si fanno strada lungo il sistema educativo” (1996, p. 5). Presentai alcuni risultati
indicanti che non tutto il “bullismo” riferitomi era provocato dai dirigenti. Citai esempi di dirigenti vicari che avevano subìto il “bullismo” degli insegnanti e di dirigenti che lo avevano subito da genitori e da sovraintendenti. Dopo aver parlato per i trenta minuti concessimi, fui ringra-
ziato dal presidente, il quale aggiunse che sfortunatamente non c'era tempo per domande e per una discussione, anche se, dopo la riunione, tre membri si fermarono per pormi alcune questioni. Tuttavia, giudicai che in generale la risposta al mio
° Per post-holders s'intendono quegli insegnanti elementari che ricevono un'integrazione salariale perché responsabili di un'area curricolare (matematica, inglese, educazione artistica) o perché hanno un ruolo manageriale/amministrativo. " Gli alunni della classe seconda (di 7 anni), sesta (di 11 anni) e nona (di 14 anni) delle scuole statali devono sostenere un esame in matematica, inglese e scienze. | punteggi riportati sono poi usati per stilare una graduatoria
delle scuole secondo la loro efficacia educativa (quelle con i punteggi più alti sono ai primi posti, mentre gli ultimi sono occupati dalle scuole con punteggi più bassi). Queste graduatorie sono pubblicate sui quotidiani nazionali in modo che le famiglie siano informate quando dovranno scegliere una scuola, e sono correntemente definite League Tables, ovvero “graduatoria delle squadre”, non diversamente dalle classifiche delle squadre di calcio.
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intervento era stata di non-accettazione delle prospettive sociologiche sul fenomeno dello stress e del “bullismo” e che avevo detto molte cose che non desideravano udire. Il mese successivo, il gruppo ascoltò l'intervento di un membro che aveva avuto una recente esperienza di “bullismo”. Una volta superata la malattia collegata allo stress, si era data allo studio di testi psicologici sull'argomento, giungendo a un'interpretazione del medesimo nei termini di una costruzione del “bullo” come “psicopatico” o “sociopatico” che selezionava le sue “vittime” perché si sentiva inadeguato o semplicemente incompetente. Il “bullo seriale” era definito come qualcuno che corrispondeva alla descrizione di una “psicosi” le cui caratteristiche fondamentali erano (secondo quanto sosteneva un volantino distribuito in occasione dell'intervento): Disordine di personalità antisociale: caratterizzata da una struttura pervasiva di grandiosità, bisogno di ammirazione, mancanza d’empatia, sfruttamento, senso di diritti dovuti, invidia, arroganza (esempio: un estremo bisogno di essere visto come una persona gentile e piena di attenzione).
Disordine di personalità paranoide: una diffidenza e un sospetto diffusi nei confronti di altri e i cui motivi vengono interpretati come malevolenza, indisponibilità a fidarsi, e caratterizzati da dubbi ingiustificati, minacce percepite, rancori, reazioni di rabbia e contrattacchi (esempio: selezionare la persona che è competente e popolare, scegliendo di vederla come una minaccia quando in effetti non lo è). Psicopatico: è una persona violenta che esprime la sua violenza fisicamente; il Diagnostic Statistical Manual — IV stima la prevalenza del disordine di personalità antisociale in 1 uomo su 20 e 1 donna su 100. Le stime di prevalenza sono basate quasi esclusivamente su persone fisicamente violente. Sociopatico: è una persona violenta che tuttavia, per la sua grande intelligenza, esprime tale violenza sul piano psicologico. La mia stima è che | persona su 30 è un sociopatico e forse di più. Amareggiato da un'educazione familiare violenta, il “bullo seriale” è un individuo con una mancanza psicotica d'intuizione rispetto al proprio comportamento e ai suoi effetti sugli altri, che mostra un'esigenza ossessiva, compulsiva e auto-gratificante di spostare l'aggressività non controllata su un'altra persona. La gelosia e l'invidia spingono il “bullo” a identificare un individuo competente e popolare, per poi controllarlo e soggiogarlo attraverso la proiezione d'inadeguatezza e d'incompetenza. Quando il soggetto-bersaglio afferma il suo diritto a non essere oggetto di “bullismo”, una paura paranoide di venire smascherato spinge il “bullo” a percepire quella persona come una minaccia e a disfarsene il più velocemente possibile.
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In momenti-chiave del suo intervento sulle caratteristiche psicologiche del “bullo”, la relatrice si fermava e chiedeva: “Riconoscete questo modo di fare?”, “Vi è familiare un comportamento di questo tipo?”. I membri del gruppo — con risate nervose, scuotendo il capo in senso affermativo o con assensi verbali — la rassicuravano frequentemente che quanto diceva si applicava alla loro conoscenza dei “bulli”. Un membro disse che “non aveva pienamente compreso ciò che stava avvenendo finché non aveva ascoltato l'intervento”, a conclusione del quale vi fu del tempo per le domande e per la discussione. Furono poste molte domande, ma nessun partecipante mise in discussione la teorizzazione della relatrice sul “bullismo” © sulla costruzione del “bullo”. Invece, tutti le chiesero consigli sulle strategie da usare per affrontare un dirigente in vena di “bullismo” o per ottenere giustizia attraverso, per esempio, un tribunale del lavoro. In seguito a questa esperienza, mi fu molto chiaro che la maggioranza
del gruppo
sottoscriveva
un'interpretazione
del
“bullismo” diversa da quella che avevo presentato. Naturalmente non c'è nulla di strano in questo: Taylor sostiene che la ricerca sui movimenti sociali richiede al ricercatore di “ascoltare e di udire voci diverse dalla propria” (1998, p. 365). Lee dal canto suo afferma che “il ricercatore è spesso una delusione per le persone che egli o ella studia”, poiché i ricercatori “si sentono impegnati nei confronti della loro disciplina, che spesso li rende meno interessati ai punti di vista di quelli che studiano di quanto piacerebbe ai partecipanti alla ricerca” (1993, p. 210). Altri ricercatori hanno notato la popolarità esplicativa delle “prospettive psicologistiche” che sono “fortemente in disaccordo con quelle dei sociologi”. Da parte mia, tuttavia, ero preoccupato che l'individualizzazione del “bullismo” e la creazione di un “culto della vittimizzazione” (Taylor, 1998) provocassero non soltanto un potenziale senso d'impotenza nel gruppo ma anche il ben noto effetto di “colpevolizzazione della vittima”, se fossero stati riportati nell'ambito pubblico (da me o dai membri del gruppo). In situazioni in cui le “vittime” si affidano a interpretazioni individualistiche per dar conto della loro situazione svantaggiata, ci può essere una tendenza a le-
gittimare proprio questo tipo di spiegazioni (cfr. Finch, 1985). Nella nostra ricerca sullo stress, ciò è dimostrato dalla storia
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di un'intervistata che aveva subìto atti di “bullismo” sia sul posto di lavoro sia a casa, da parte di un partner violento. Quando si rivolse al suo medico di base per risolvere tale situazione attraverso un aiuto professionale, costui le domandò: “Che cosa pensa vi sia in lei che attrae i bulli nella sua vita?”. Tutto ciò che la “letteratura sulla vittimologia fa è di informarci che le vittime sono vittimizzate perché sono vittime” (Marais-Steinman, 1999). Colpevolizare la vittima è un potenziale risultato di al-
cuni tipi di ricerca sullo stress che, individualizzando il “problema”, per esempio attraverso la teoria della personalità, sollevano questioni che si concentrano su ciò che è interpretato come una fallibilità individuale, piuttosto che esplorare i più ampi fattori contestuali. Si tratta di una questione emersa in un gruppo di discussione su internet a proposito dei temi
anti-bullismo: lo scenario peggiore è quello in cui i ricercatori universitari potrebbero essere tagliati fuori dal contatto con le vittime e con quei colleghi che sono impegnati a capire l’esperienza quotidiana quando i primi
sono percepiti come freddamente intellettualistici, senza una vera comprensione ed empatia per chi subisce, mentre questi e l’altro tipo di ricercatori sono percepiti come intolleranti quando il ‘bullo’ è visto come niente di più di un incurabile essere subumano. Se ciò avvenisse, sarebbe un ben triste giorno e un danno serio al nostro impegno, per cui dovremmo stare in guardia contro la creazione — volenti o nolenti — di tali percezioni (Liefooghe, 1999).
Finch (1985), piuttosto che mettere a fuoco “strutture individuali di comportamento che potrebbero essere caratterizzate come patologiche dai lettori”, cominciò a considerare più attentamente gli accomodamenti strutturali riguardanti la vita dei soggetti che studiava. Lee (1993, p. 193) commenta che Felson (1991) sostiene che il tipo di strategia adottata da Finch è ricorrente in sociologia. Egli afferma che la difficoltà sta nel fatto che, cercando d'evitare di colpevolizzare la vittima, i ricercatori ignorano ciò che egli definisce “variabili prossimali” e “processi di mediazione”. Invece. quei medesimi ricercatori preferiscono di solito spiegazioni strutturali basate sull'analisi delle variabili esogene. L'analisi sociologica convenzionale, secondo Felson, mostra perciò un atteggiamento ambivalente verso le spiegazioni che chiamano in causa la socializzazione.
Sottolinea,
per contrasto,
i condizionamenti
che toccano
la vita dei membri di un gruppo subordinato come pure i maltrattamenti che subiscono per mano dei potenti. Felson probabilmente fa
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bene ad attaccare ciò che talvolta è sembrato come un'analisi sociologica alquanto superficiale dei problemi sociali, ma non sembra esservi alcuna ragione perché discipline come la sociologia non debbano fornire un correttivo a prospettive basate sul determinismo culturale o psicologico e già saldamente inserite nella società. Inoltre, con le “variabili prossimali” Felson sembra far riferimento a variabili di tipo essenzialmente psicologico. È ben vero che tali variabili sono state generalmente ignorate dai sociologi, ma questo è avvenuto per-
ché, più spesso, essi hanno preferito esplorare le basi prossimali del comportamento in modo dinamico attraverso metodi basati su studi di caso, sull’etnografia o sugli studi di comunità. Sono questi metodi, piuttosto che le preferenze teoriche, ad aver di frequente indicato molto chiaramente come i fattori strutturali siano implicati in modo massiccio nella vita quotidiana.
Il punto di vista dei membri del gruppo sulle cause e la natura della loro oppressione potrebbe essere messo da parte, catalogandolo come falsa coscienza (Sharp, 1982; Mills, 1959), ma personalmente detesto farlo, poiché questo comporterebbe adottare una “posizione olimpica” (Hammersley, 1981) secondo la quale asserirei d'avere un accesso privilegiato a una versione della realtà, negata invece ai soggetti della ricerca. Non so, né ho modo di sapere, se il loro punto di vista sull'’oppressione di cui erano oggetto fosse il risultato di distorsioni prodotte dall'ideologia capitalistica egemone. In alternativa,
spiegavo
la loro apparente
riluttanza a ricontestua-
lizzare la propria esperienza come la conseguenza della malattia da stress. Tutti i membri erano passati per esperienze estremamente traumatiche (alcuni di loro erano in cura per disordine post-traumatico da stress e alcuni altri per depressione) e mi era abbastanza chiaro che essi non riuscivano a distanziarsi dagli eventi emotivamente dolorosi che erano all'origine del disturbo. Questa reazione al lavoro stressante era certamente sorretta dai dati della ricerca principale sullo stress, in cui gli intervistati riportavano di essere stati introversi e intensamente introspettivi durante la malattia. Così, l'incapacità a depersonalizzare la situazione (Matza, Sykes, 1957) rendeva attraenti ai loro occhi le spiegazioni decontestualizzate e psicologistiche del “bullismo” (come la versione sopra discussa). Forse, dando tempo per il recupero e la guari-
gione, i membri sarebbero capaci di situare la loro esperienza all’interno di più ampie spiegazioni socio-strutturali.
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Naturalmente la situazione potrebbe aver richiesto un differente tipo di pubblicizzazione. La mia presentazione si era svolta nella forma di un tradizionale intervento da convegno, per quanto calibrato su un pubblico non universitario. Forme alternative di presentazione e rappresentazione in cui la “sociologia fosse profondamente implicata ma non dichiarata nei termini tradizionali” (Woods, 1999c) avrebbero forse offerto modalità di pubblicizzazione di maggior successo. Tali forme sono state definite “testi di performance” da Denzin (1997). Il testo di performance è un genere all'interno dell'etnografia, ciò che Paget (1993, p. 2) chiama ‘etnoperformance’, Mienczakowski (1994) etichetta come ‘etnodramma' e Turner definisce ‘antropologia performativa e riflessiva’, la traduzione ‘dell’etnografia in una sorta di teatro istruttivo’ (Turner, 1982, p. 41; Denzin, 1997, p.91).
| testi performativi volgono le narrazioni di sofferenza, di perdita e vittoria in performance evocative che hanno l'abilità di spingere il pubblico verso un'azione riflessiva critica e non soltanto una catarsi emotiva [...] essi possono disfare lo sguardo voyeuristico dell’etnografo, portando il pubblico e gli attori in un campo condiviso d'esperienza. Questi lavori inoltre destabilizzano il ruolo dello scrittore nel testo, liberando testo e scrittore perché diventino produzioni interattive. Il testo performativo è il solo e il più potente modo che l’etnografia ha per recuperare e al tempo stesso interrogare i significati dell'esperienza vissuta (ivi, pp. 94-95).
5.2. Elaborazione delle politiche
Il mio coinvolgimento permanente con il gruppo aveva implicazioni per la disseminazione della ricerca rispetto al processo di elaborazione delle politiche a livello locale e nazionale. Ogni etnografo, in qualche fase della ricerca, dovrà affrontare un “test di fiducia” (Wolcott, 1995) da parte dei membri della cultura studiata. Questo mi accadde dopo che il gruppo era riuscito ad avere un appuntamento con il chief education officer e il responsabile del personale per discutere la questione del “bullismo” nei confronti degli insegnanti nell'ambito dell'Autorità Locale. 1] tre membri componenti la delegazione intendevano “affrontare” questi rappresentanti dell'Autorità Locale con le prove dell’'ampiezza e della natura del “bullismo”.
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Fui contattato per fare il resoconto della riunione, ma pur comprendendo che il mio impegno e la mia lealtà verso il gruppo erano sottoposti a verifica, capii che era necessario ri-
fiutare la loro richiesta. Avrei avuto l'opportunità di osservare e, forse, di partecipare al processo locale di elaborazione delle politiche; ciononostante, ritenni che la mia presenza avrebbe compromesso la posizione di ricercatore “obiettivo” presso l'Autorità Locale. Ricordo che, per la ricerca principale, avevo negoziato l'accesso agli insegnanti con il responsabile del personale e poiché ella doveva essere presente all'incontro non volevo sembrare dalla parte del gruppo marginalizzato degli insegnanti oggetto di “bullismo”. Dato che alla fine avrei preparato un rapporto per l'Autorità Locale contenente raccomandazioni per le politiche scolastiche, non volevo far pensare che avrei prodotto un resoconto “dalla parte dell’emarginato” [underdog| (Gouldner, 1968), che il responsabile del personale avrebbe ritenuto inutilizzabile come base su cui formulare politiche. Per queste ultime, il presunto relativismo dei resoconti etnografici (Hammersley, 1992, 1994) appariva come un fondamento non affidabile. Spiegai questo alla delegazione e suggerii che essi trovassero qualcuno “manifestamente neutrale” che avrebbe potuto prendere appunti. Un'altra opportunità d'influenzare le politiche si presentò quando un membro del gruppo (che era anche un funzionario sindacale) avvicinò l'’Health and safety executive (Hse) che stava conducendo una “audizione” specificamente sullo stress tra gli impiegati dell'Autorità Locale. Anche questo sondaggio avrebbe influenzato le politiche dell'Hse a livello nazionale. Il membro mi domandò se potevo fornirgli articoli basati sul mio lavoro di ricerca con gli insegnanti dell'Autorità Locale, poiché intendeva farne un riassunto per l’incontro con tale rappresentante. Mentre mi sentivo incoraggiato dal fatto che la rappresentanza di un sindacato insegnanti avesse nel passato ispirato in maniera considerevole le politiche dell’Hse riguardanti lo stress, ero al tempo stesso parecchio preoccupato perché: — l'articolo era ancora
“in progress”
e non
sarebbe
stato una
base appropriata per l'elaborazione di politiche; — il membro del gruppo richiedeva una informazione quantitativa sui casi di bullismo nell'ambito dell'Autorità Locale, informazione che non avevo;
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— si trattava di mettere in gioco alcuni dati riservati. — avevo letto rapporti di ricerca, commissionati dall’Hse, che erano esclusivamente quantitativi e sapevo anche della metodologia di sondaggio usata nel loro lavoro di “audizione” sullo stress. Perciò pensai che uno studio qualitativo sullo stress tra gli insegnanti poteva mancare di credibilità ai loro occhi. Malgrado egli fosse in possesso di una copia dell'articolo, gli suggerii di non usarlo come base delle sue prove per le ragioni sopra dette.
6. Conclusioni
Questi due esempi svelano qualcosa della tensione insita nel ruolo del ricercatore: da un lato, in veste di etnografo “convenzionale”, cercavo d'ispirare le politiche attraverso la pubblicizzazione dei prodotti di ricerca che sono il risultato di metodologie che incorporano protezioni mirate ad assicurare “obiettività” e “validità”. Dall'altro, come etnografo “più impegnato”, tentavo contemporaneamente di migliorare la condizione dei soggetti di ricerca, cosa che comportava sperimentare un aumento di tensione — già acuta — tra il coinvolgimento e la distanza del ricercatore (Woods, 1996). Il che senza dubbio spiega perché alcuni (Lather, 1986; Gitlin et al., 1993) invochino l'abbandono dell'approccio “convenzionale” a favore di quello seriticos. Ero convinto che la mia esperienza di disseminazione finalizzata all'elaborazione di politiche con il gruppo antibullismo, pur se partita in modo non promettente, avesse successivamente contribuito in maniera considerevole alla ricerca principale, particolarmente nell'area della disseminazione e
dell’elaborazione. Se non fossi diventato un membro del gruppo, non sarei arrivato a conoscere che cosa significasse il problema del “bullismo” per i partecipanti o che cosa significasse fare una tale esperienza. Non avrei neppure appreso che le politiche dei sindacati e delle Autorità Locali nell'opinione dei partecipanti, non stavano servendo gli interessi di alcuni membri/impiegati. Per esempio, molti membri dei sindacati che dovevano affrontare
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procedure di competenza (spesso, a loro dire, implicanti episodi di “bullismo”) non si sentivano sostenuti (sempre secondo loro) dalle loro organizzazioni. Inoltre, era chiaro che le specifiche politiche dell'Autorità Locale sullo stress occupazionale avevano bisogno di includere decisioni e procedure riguardanti il “bullismo”. Ambedue le questioni ispireranno ovviamente la futura disseminazione mirata, il che può rendere i sociologi “impopolari” presso i politici. Infatti, come sostengono Woods e Pollard (1988, p. 11), quando vengono svelate particolari concentrazioni di ricchezza e potere, o quando i discorsi e le politiche sono analizzate sulla base delle ideologie e degli interessi di cui sono al servizio, alcune persone o gruppi possono sentirsi minacciati
e possono cercare di mini-
mizzare, neutralizzare, minare la fonte dell'analisi.
Appartenere al gruppo mi ha permesso nuove opportunità di pubblicizzazione: per esempio, sono stato contattato da un Pari del Labour Party che sta introducendo una “legge sulla imparzialità nel posto di lavoro” e sono stato anche consultato da due produttori televisivi intenzionati a fare programmi sullo stress e sul “bullismo” nei luoghi di lavoro. Come Woods (1999, p. 18), vedo “enormi possibilità” per la ricerca etnografica ora e nel futuro, benché molte di tali possibilità “vadano di pari passo con condizionamenti autoritari”. L'obiettivo della presente ricerca è tuttora un tema molto, molto “scottante”. Il governo ne è particolarmente interessato,
anche se, forse, non per le giuste ragioni, come risulta evidente nell'indagine del Cabinet Office (1998) su “Managing Attendance in the Public Sector” e in quelle aree di ricerca che sono considerate prioritarie dal DfEE (Education, 1999): “Pensionamento per cattiva salute e assenteismo tra gli insegnanti” e “Fattori che contribuiscono all'efficacia dell'insegnante”. Si può perciò concludere che la nostra ricerca sia un contributo che giunge al momento appropriato per l'elaborazione di politiche in que-
ste aree. Lungo l'inattesa “deviazione” dalla ricerca principale ho incontrato molti dei grandi problemi filosofici e metodologici previsti da Hammersley (1992, 1994). Tuttavia, il mio coinvolgimento permanente con il gruppo mi permette di trasmettere conoscenze guadagnate nella ricerca sullo stress nelle decisioni
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e nelle strategie del gruppo. Ma questa fase di riflessione e azione probabilmente mi porterà a sforare i tempi relativamente brevi della ricerca. Posso non aver aiutato direttamente i membri del gruppo e gli altri partecipanti; forse è troppo presto per dirlo. L'impatto effettivo della ricerca sulle politiche può beneficiare gli insegnanti del futuro, piuttosto che quelli i che sono attualmente oggetto di ricerca.
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6 COME “DESCRIVERE” | LUOGHI DELLA RICERCA ETNOGRAFICA*®
Bob Jeffrey
1. Introduzione
La raccolta di dati etnografici include “descrizioni fattuali”, note “di campo” impressionistiche, conversazioni registrate, memorandum, comparazioni con altre ricerche e studio di documenti.
L'analisi
è condotta
contemporaneamente
alla rac-
colta dei dati, e quest'ultima serve a selezionare i punti focali come pure a diventare la base per una rappresentazione dei risultati. Molto di questo lavoro risulta problematico riguardo ai seguenti aspetti: il ricercatore come strumento di ricerca (Ball, 1990; Denzin, 1998; Wolcott, 1995), la pretesa di validità (Hammersley,
1992; Strauss, Corbin,
1990), e la rappresenta-
zione della realtà (Woods, 1996; Atkinson, 1990). Inoltre, essendo l’etnografia una spiegazione descrittiva (Hammersley, 1992), un altro problema specifico è di affrontare innanzitutto la questione di come possiamo descrivere ciò che sta accadendo, invece che cercare di spiegare — come prima cosa — ciò che sta accadendo (Woods, 1986). In questo articolo intendo so-
stenere che l'individuazione e l'annotazione di comportamenti, pratiche e prospettive differenti (presenti, nel caso della ricerca etnografica di cui parlerò, tra gli insegnanti delle scuole prescelte) può aiutare il processo di apprendere come descrivere ciò che sta accadendo. Preliminarmente occorre tuttavia soffermarci su alcuni dettagli dello specifico progetto di ricerca attraverso cui esamineremo queste strategie.
" Traduzione di Francesca Gobbo.
140
B. JEFFREY
2. La ricerca sulla Commissione ispettiva Ofsted La ricerca cui ho partecipato si è concentrata sulle esperienze degli insegnanti in sei diverse scuole che avevano avuto la loro prima ispezione da parte dell’Ofsted.' Gli ispettori dell'Ofsted cominciarono un secondo giro d'ispezioni nel 1998 e il nostro gruppo di ricerca ritornò in due scuole per continuare l'indagine, visitando regolarmente ogni scuola per almeno sei mesi prima (e sei dopo) l'ispezione, e parlando con i dirigenti scolastici, gli ispettori, gli insegnanti, gli assistenti degli
insegnanti, i sovrintendenti, le famiglie e gli alunni. Un nucleo di venti insegnanti si incontrò fino a sei volte con i membri del gruppo di ricerca, mentre chi scrive ha avuto modo di discutere con un totale di oltre ottanta di loro. I risultati dell'intero impegno di ricerca sono disponibili in un libro (Jeffrey, Woods, 1988),
di cui è stato
pubblicata
anche
una
versione
ridotta
(Woods, Jeffrey, 1998). Per quel che riguarda la metodologia, fu deciso di usare l'approccio etnografico che incluse la raccolta di documenti e di statistiche significativi, i punti di vista [perspectives) dei partecipanti, la convalida e i diari degli intervistati, nonché l'elaborazione di note d'osservazione “sul campo”, memorandum, interventi a convegni. Tuttavia l'effettiva ispezione Ofsted nelle classi e nelle scuola, durata oltre una settimana, non fu direttamente osservata. Chi scrive, infatti, si trattenne nella sala degli insegnanti per tutto il periodo che gli ispettori trascorsero a scuola e, conseguentemente,
non
poté
osservare nessuna specifica modalità secondo cui essi svolgevano l'ispezione.
3. Diversità di comportamenti, pratiche e punti di vista degli insegnanti Si possono individuare comportamenti, pratiche e punti di vista sia all'interno di specifici contesti sia trasversalmente a contesti differenti, nel senso che i ricercatori possono osservare comportamenti, pratiche e punti di vista simili o diversi sia internamente a contesti, che tra uno e l’altro. Un esempio del primo caso possono essere i risultati che indicano come i film
' Per l'Ofsted si rinvia, supra, alla nota 2 del cap. | [N.d.T.].
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
141
possano avere un'influenza potente sui bambini, mentre un esempio di risultati riguardanti comportamenti, pratiche e punti di vista diversi potrebbe essere quello che mette in evidenza come i film possano esercitare influenze in direzioni diametralmente opposte (Blumer, Hauser, 1993, p. 201). Il nostro gruppo di ricerca si è concentrato sia sui comportamenti,
pratiche e punti di vista diversi sia sulle pratiche contrastanti o alternative; ambedue i tipi di comportamenti e pratiche sono tra di loro connessi dal contesto (per esempio, la famiglia, la comunità scolastica), dalla scelta dell'obiettivo del ricercatore (come, fra gli altri, le pratiche di alfabetizzazione, la metodologia d'insegnamento) e dalla concezione della ricerca (ad esempio, i simboli di appartenenza, i rituali, le culture). Sono stati identificati tre punti focali analitici, e cioè azioni oppositive, molteplici e contraddittorie. 3.1. Comportamenti, pratiche e punti di vista oppositivi
I comportamenti, le pratiche e i punti di vista tra loro in opposizione esistenti tra gli individui, i gruppi e le comunità sono quelli in cui vi è una significativa polarizzazione, o presa di distanza, di una specifica relazione con valori, credenze e pratiche. La registrazione e l'analisi della natura di queste opposizioni possono rivelare differenze superficiali o fondamentali e dunque la rappresentazione delle medesime costituisce una delle prime sfide a descrivere ciò che sta accadendo; nel nostro caso, le forze in opposizione erano chiaramente delineate: un gruppo d'ispettori, esterni alla scuola e sconosciuti come individui, esaminava la medesima (informata dell’ispezione con sei mesi d'anticipo) per cinque giorni, usando un quadro di riferimento non familiare. Rispetto all’ispezione, la risposta che prevaleva tra gli insegnanti era di ansietà verso il procedimento ispettivo e le conseguenze sulla loro vita professionale e sul loro futuro. | criteri e le procedure d'ispezione erano nuovi e ritenuti in conflitto con molte delle prospettive pedagogiche “centrate sul bambino” (Siraj-Blatchford, Siraj-Blatchford, 1995) che gli insegnanti mettevano in atto, mentre la valutazione quantitativa della loro competenza era considerata come un anatema dalla maggioranza di essi.
142
B. JEFFREY
Il nostro primo sforzo fu indirizzato a cercare le opposizioni, di cui tentammo poi di dar conto. Dopo aver ascoltato i punti di vista degli insegnanti, fu intervistato il capo di ciascuna squadra d'ispezione; successivamente, mettendo insieme i due gruppi di dati, furono accertate le differenze di valori e pratiche pedagogiche esistenti tra il nuovo quadro di riferimento Ofsted e quello delle credenze professionali degli insegnanti. Tali differenze sono state raggruppate sotto quattro categorie: “contenuti conoscitivi”, “orientamenti pedagogici”, “modalità di valutazione” e “cultura”. a. Contenuti conoscitivi Curricolo Curricolo Accento Curricolo
Valori Ofsted nazionale prescritto nazionale controllato posto sui prodotti basato sulle materie
Sistematizzazione, uniformità
standardizzazione,
Valori degli insegnanti Curricolo negoziato Pratiche flessibili e autonome Accento sul processo Curricolo centrato sul bambino, co, integrativo Differenze, diversità
olisti-
b. Orientamenti pedagogici Valori Ofsted Trasmissivi Comportamentistici Formali Esami Prestazione immediata
Valori degli insegnanti
Creativi Teoria costruttivistica dell'apprendimento Contesti informali Sostegno agli alunni [Consapevolezza che] l'apprendimento richiede tempo
c. Modalità di valutazione (di alunni e insegnanti) Valori Ofsted
Valori degli insegnanti
Formali
Informali
Quantitative
Qualitativi Localizzati Continui Impegno collettivo, autovalutazione
Standardizzati Test periodici Esami gerarchici Semplicità
Complessità
d. Cultura Valori Ofsted
Competizione e individualismo
Valori degli insegnanti
Collegialità
Distacco
Impegno
Colpa Managerialità
Sostegno Professionalità Auto-regolamentazione Produttore
Controllo
Consumatore
Fonte: Jeffrey, Woods, 1998, p. 82.
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
143
L'attenzione rivolta ai punti di vista alternativi a quelli degli ispettori (che erano in diretto conflitto con il gruppo comunitario) ci permise di spiegare in maniera descrittiva le ragioni del reciproco “tenersi a distanza” tra insegnanti e Ofsted. Fu anche considerato necessario ricercare punti di vista diversi per mettere in discussione e delimitare il “pregiudizio” del ricercatore.
L'immersione
in questa particolare comunità, dove
gli insegnanti sperimentavano ciò che sembrava loro un uso non appropriato di una forza esterna, fece sì che il ricercatore etnografico simpatizzasse e s'immedesimasse con quelli che la stavano vivendo, tanto più che chi scrive era stato insegnante elementare. Come ci ricorda Woods (1986), non è possibile cancellare o sospendere le proprie esperienze, valori e credenze; al contrario, si sostiene che cercare di fare così diminuirebbe la qualità dei dati raccolti (Ball, 1990). La raccolta dei diversi punti di vista costringe il ricercatore a riflettere su come rappresentare comportamenti e pratiche tra di loro in opposizione; così il nostro gruppo decise di concentrarsi sulle differenze tra gli ispettori Ofsted e gli insegnanti elementari rispetto ai valori collegati ai contenuti conoscitivi, agli orientamenti pedagogici, alla modalità di valutazione, e alla cultura. Il che radicò i risultati della ricerca negli esempi empirici piuttosto che nella mera presentazione di un quadro delle forze tra di loro in contrasto. Al tempo stesso, le simpatie del ricercatore non erano tenute ai margini, come avviene quando si sospen-
dono le proprie credenze, bensì ristrutturate in termini di immedesimazione
e usate come
strumento
di rappresentazione
etnografica. Questo esempio, tratto dalle note “di campo” incluse nel libro sopra menzionato (Jeffrey, Woods, 1988), ne è una buona illustrazione: Due insegnanti, ambedue nere, ricevettero una visita da parte di due ispettori dopo l'orario scolastico in un giorno particolarmente difficile. Tracy fu criticata per una lezione di teatro che — le fu detto — era stata valutata come un insuccesso. È insolito vedere un tale tipo di lezione durante un'ispezione Ofsted perché è più rischiosa di altre. Tuttavia, questa particolare insegnante era andata avanti con tale lezione nella sua classe, sebbene di solito la facesse nella sala che però non era disponibile, perché ‘era una cosa buona per loro [gli alunni] e volevo che il gruppo Ofsted mi vedesse lavorare normalmente’. Il suo insegnamento è molto ammirato dagli altri insegnanti nel suo dipartimento: ‘Tracy è una bravissima insegnante — quei bastardi.
144
B. JEFFREY
L'altra insegnante, Edith, era una supplente al suo primo incarico. Non si era troppo preoccupata al pensiero dell'ispezione, dato che, come Tracy, l'approvava. Da parte sua si preparava ad affrontare le visite ispettive facendo finta che gli ispettori non ci fossero. Tuttavia
in questa particolare lezione l'ispettore sedeva di fronte a lei a tre metri e mezzo di distanza, ‘invadendo il mio spazio’. Le persone erano arrabbiate per quello che pensavano essere commenti critici non giusti. ‘Sono stati da lei otto volte in tre giorni e da me invece soltanto cinque volte e a me non hanno detto niente. Sembra che fossero decisi a colpire l'anello più debole’. Era stato anche notato che nella critica alla lezione l’ispettrice capo non si era attenuta alle linee guida preparate dall’Ofsted, dato che non aveva informato queste due insegnanti delle loro basse valutazioni alla fine o della lezione o della giornata in cui avevano avuto luogo tali eventi. Il personale si riunì per esprimere sostegno. Alle 5,10 sei — o forse
più — insegnanti si spostarono dall'aula della prima insegnante a quella della seconda per discutere l'evento e per offrire sostegno e critica ai metodi e alle valutazioni degli ispettori. Un'insegnante era sull'orlo di una crisi di pianto e contemporaneamente arrabbiata per l'ingiusto attacco. Alle 5,20 arrivò il marito di una di loro per portarla a casa e dall'altra parte del corridoio il gruppo d'ispezione se ne stava dietro una porta chiusa. Quando due delle insegnanti si alzano per prendere una tazza di tè nell'aula insegnanti, mi passano accanto con aria seria e non mi fanno neppure un cenno. La prima insegnante, Tracy, lascia lentamente la scuola, appesantita da molte borse, nella sua vecchia macchina, guidando lentamente fuori dal parcheggio della scuola. Pochi minuti dopo esce anche la seconda insegnante, a testa bassa, anche lei alle prese con le sue borse, seguendo a pochi metri di distanza il marito che gioca stancamente con le chiavi della macchina. Dentro all'aula insegnanti le persone commentano con rabbia ‘È sbagliato concentrarsi sulla supplente. È uno spreco di soldi’. La direttrice ha una faccia bruttissima e ha detto all'ispettrice capo quello che pensa. Batte il pugno sulla tavola con rabbia esclamando ‘Guarda che cosa è stato fatto alle mie insegnanti. Il ‘giorno-in-cui-sì tocca-ilfondo' [ossia il giorno più difficile della settimana d'ispezione] è diventato una profezia che si auto-avvera. Ora sono preoccupata che venerdì possa dimettersi. È incinta, è un'insegnante che si dà da fare, ha affrontato i nuovi test annuali e ha lavorato sodo. Non c'era nessuna indicazione che qualcuno avrebbe sentito ‘bussare alla porta’ alle 3,30°.
Improvvisamente il telefono squilla alle 5,30. È la prima delle due insegnanti che vuole parlare alla direttrice. Discretamente esco e mi ritiro. Il vento che c'era domenica è ritornato benché un po' meno forte e sta piovendo. Due altre insegnanti stanno baruffando per qualcosa che una di loro ha detto e un'altra vuole criticare qualcun'altra per qualcosa che ha detto all’ispettrice. Alle sei ce ne andiamo tutti. La direttrice, la vicedirettrice e due altre insegnanti se ne vanno
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica discutendo
su come
145
poter rimettere in sesto la situazione.
È stato
certamente un ‘giorno-in-cui-si-tocca-il-fondo’.
La raccolta dei diversi dati riguardanti i molteplici comportamenti, pratiche e punti di vista assicura, da un lato, il controllo dei pregiudizi del ricercatore e, dall'altro, è in grado di fornire evidenza empirica per sostanziare quanto sembra comune e per stimolare l'esigenza di spiegare i comportamenti discordanti tra persone e gruppi. L'inclusione di questo materiale così diverso e il lavoro analitico richiesto per spiegarlo
legittima, entro certi limiti, l'uso creativo dell'empatia del ricercatore al fine di rappresentare i caratteri qualitativi del luogo di ricerca. Tuttavia, comportamenti, pratiche e punti di vista
alternativi
non
risultano
sempre
così chiaramente
delineati
come avviene in una situazione d'opposizione.
3.2. Comportamenti, pratiche e punti di vista molteplici
Quando si fa etnografia, si è tentati di rappresentare i comportamenti e le pratiche somiglianti come risultati di ricerca: si tratta di un tentativo implicito di convalidare la ricerca in termini
quantitativi,
in particolare
quando
i comportamenti
e
punti di vista alternativi sono numericamente meno significativi. Questi ultimi sono allora rappresentati come l'eccezione a un certo fenomeno individuato e interpretati come se legittimassero
la pratica comune;
una rappresentazione
più sofisti-
cata di questa forma d'analisi è l'uso di una tipologia che includa uno specifico conteggio per ogni diverso tipo (Pollard, 1994; Woods et al., 1996). La categorizzazione può essere utile per comprendere l'estensione di una gamma di reazioni o di comportamenti, ma la funzione numerica non solamente serve a giustificare la ricerca in termini di validità quantificabile, ma anche spersonalizza, oggettiva e reifica i soggetti della ricerca se la rappresentazione rimane a questo livello descrittivo. Nei contesti reali gli individui e i gruppi non sempre agiscono coerentemente
secondo
della tipologia.
la caratterizzazione
Nella ricerca sull'ispezione
di maggioranza
o
Ofsted, gli inse-
gnanti potevano essere descritti come persone che agivano in modi diversi in un contesto specifico. Le reazioni erano infatti
molteplici.
146
B. JEFFREY
Carol riteneva che il procedimento non fosse stato corretto e le sue relazioni familiari ne furono danneggiate, ma, pur mancando ancora di sicurezza, ‘si preparò’ e si fece valere. Cloe (Trafflon) sapeva che si trattava di un lavoro impossibile, che l'insegnamento è una faccenda complessa, ma si sentiva sola così che alla fine capitolò e prese le distanze dai valori che in passato erano stati importanti per lei, diversamente da Larry (Lowstate) che si appropriò del procedimento d'ispezione per il proprio miglioramento personale. Graham superò l'ostacolo facilmente: “Ho controllato il mio ritmo, come faccio quando corro”. Anche lui accettava il sistema pur non essendo certo sostenitore di un sistema ispettivo indifferente al contesto: “Que sera, sera”. Angelina pensava che il nuovo sistema d'ispezione
puntasse alla divisione e non le piaceva, ma “non aveva la possibilità di cambiarlo”. “Non intendo sprecare le mie energie. Vado avanti facendo quello che so fare, ovvero insegnare ai bambini; sono loro che contano”. La sua posizione era ambivalente: “non sto dicendo che va bene e non sto dicendo che è sbagliato, sto dicendo che è un fatto della vita”. Laura aveva “sofferto nel passato perché ero così decisamente contro le cose. Ero un po' ribelle. Ora seguo la corrente e sono molto più felice. Le ispezioni sono opportunità per mostrare quel che si sa fare”.
In una precedente analisi queste differenti reazioni sono state ordinate in tipologie: a. Insegnanti valorizzati. Questi docenti sentono i conflitti di ruolo principalmente come dilemmi, sono arricchiti dalle soluzioni che essi stessi trovano e si sentono capaci di utilizzare le proprie capacità creative nell'insegnamento e nella gestione. Tuttavia, vi sono alcuni insegnanti ambivalenti in questo gruppo, che nelle riforme trovano al tempo stesso arricchimento e tensioni. b. Insegnanti docili. Per costoro, i dilemmi di ruolo sono mescolati a tensioni. Si trovano costretti a stornare la loro creatività dall'insegnamento e deviarla verso la formulazione di strategie per far fronte alla situazione [coping]. C'è tuttavia un'ampia variabilità al loro interno, con alcuni, per esempio, che sono decisamente conformisti e che vedono il mondo sociale come prevalentemente dilemmatico, mentre altri sono più strategicamente docili e/o più stressati.
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
147
c. Insegnanti indocili. Anch'essi provano tensione di ruolo, perfino a un livello in qualche modo superiore, dato che non scendono a compromessi sui loro valori e la loro pratica. d. Insegnanti costretti. Per questi il conflitto di ruolo implica prevalentemente un effetto di costrizione; essi si sentono svalutati e delusi, e mentre alcuni decidono di “lasciare” il sistema, altri finiscono per “annegare” in esso (Woods et al., 1997, pp. 50-51). Determinati insegnanti sono stati poi individuati come esempi di sottocategorie per ciascuno di questi tipi. Noi ricer-
catori avevamo chiaramente specificato che si trattava di una modalità euristica e che dunque eravamo consapevoli della unidimensionalità di queste categorie, le quali non rappresentavano pienamente ciascuna delle persone reali studiate nella nostra ricerca etnografica. Poiché questa scelta più tardi si rivelò insoddisfacente, cercammo di individuare una alternativa all'approccio “tipologico” e la trovammo in quelle che abbiamo definito “strategie di coping”, nella convinzione che questo concetto fornisse una migliore rappresentazione delle azioni di contrasto messe
in atto dagli insegnanti nei diversi momenti
delle ispezioni. Le strategie di coping danno conto sia delle reazioni alle costrizioni presenti nelle situazioni sia della relazione tra queste ultime e le strutture sociali più ampie (Hargreaves, 1980). Trovammo che in questo caso le risposte degli insegnanti
erano complesse e per certi aspetti contraddittorie. Pur sentendosi contemporaneamente colonizzati e deprofessionalizzati, gli insegnanti svilupparono strategie di coping che erano caratterizzate da comportamenti
apparentemente opposti: da un
lato, prendevano le distanze dal procedimento Ofsted per mantenere il proprio sé e l'identità professionale; dall'altro, però, si facevano ampiamente coinvolgere in tale procedimento per soddisfare le pressioni della categoria e la loro fede e impegno nel lavoro. Di solito la maggioranza degli insegnanti aveva questi comportamenti simultaneamente, sebbene all'interno delle diverse categorie ciascun insegnante si situasse in maniera differente (ivi, p. 141).
? Perl concetto di “coping” si rinvia, supra, alla nota 3 del cap. 5 [N.d.T.].
148
B. JEFFREY
Le strategie di coping presentano una maggiore flessibilità nell'affrontare risposte e tipicizzazioni diverse, essendo maggiormente capaci di concepire la possibilità di azioni molteplici di fronte a un evento che spinge un individuo ad agire. La pratica etnografica dell'immersione per dare un quadro che comprenda attori e contesti dovrebbe portare a un livello di analisi più fine delle tipologie descrittive, dando così conto di comportamenti e modalità opposti tra loro e messi trasversalmente in atto sia dagli individui sia dai gruppi. 3.3. Comportamenti, prospettive e pratiche contraddittorie
L'agire diversamente secondo il contesto — in altre parole, le prospettive, le pratiche e i comportamenti molteplici sopra menzionati
— può essere pure interpretato come
un agire in
maniera contraddittoria rispetto a ciò che le persone hanno elaborato ed espresso verbalmente sui propri valori e credenze — non lasciando, per esempio, che i bambini “giocassero” quando gli ispettori stavano facendo il loro lavoro — o rispetto ai comportamenti diversi che sono tenuti da una settimana all'altra. L'uso della “lente contraddittoria” come chiave di lettura per raccogliere i dati rivela i paradossi dei vissuti professionali quotidiani. Tracy, l'insegnante criticata per la sua lezione di teatro, era d'accordo sulle ispezioni: “Penso che siano una buona cosa, tengono le scuole sul chi vive. È pure un bene che chiunque possa vedere le cose positive che si fanno in una scuola e renderle pubbliche”. Le sue altre lezioni furono considerate soddisfacenti e, sebbene la sua opinione generale sulle ispezioni non fosse cambiata, la sua valutazione fece emergere i processi negativi del sistema di ispezione: Ero in lacrime; è stato vederli, venendo qui. Non cevole. Mi piacerebbe che entrando a scuola e nelle
terribile. L'atmosfera, e passargli davanti, e volevo ritornare a scuola; non è stato piala potessero fare in un altro modo, magari classi in maniera informale e vedere come
insegnamo.
L'esperienza
contraddiceva
le sue aspettative,
creando
un
divario di credibilità riguardo alla legittimità di Ofsted, e al tempo stesso la estraniava.
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
149
Scoprimmo un'ulteriore contraddizione concernente la legittimità della valutazione Ofsted grazie al contatto mantenuto con la scuola successivamente all’ispezione. Rose fu lodata nell'ispezione Ofsted e poi criticata in una successiva ispezione dell'Autorità Locale che usava i criteri Ofsted; come conseguenza di tale critica, la direzione della scuola suggerì che Rose frequentasse
un corso d'aggiornamento
educativo.
“Non
ne è
particolarmente felice”, commentò Keith, e Rose rifiutò di essere intervistata dopo l'ispezione dell'Autorità Locale. Le contraddizioni nel procedimento d'ispezione ne svalutano gli effetti e il sostegno che voleva conquistare tra gli insegnanti. Un altro difetto nel procedimento d'ispezione venne alla luce quando un'insegnante ricevette un trattamento contraddittorio. Simca, una nuova insegnante, ricevette una buona valutazione ma l'effettiva relazione ispettiva la inseriva in un dipartimento “fallimentare”: Ero proprio disgustata, perché uno degli ispettori mi aveva preso da parte e mi aveva detto: ‘Il tuo approccio all'insegnamento è giusto’, ma in effetti il rapporto scritto criticava l’intero dipartimento. Ora ci sarà un corso di formazione per tutto il nostro dipartimento e questo mi ha spinto a mettere in discussione la mia filosofia e i miei metodi d'insegnamento.
Diane notò un'altra contraddizione all'interno del procedimento Ofsted: Quando valuto i miei errori, o lo faccio con qualcuno di qui, posso sempre fare qualcosa in senso positivo, e posso poi confrontare il mio sforzo successivo con quello precedente, e valutare se sto migliorando oppure no. Ma loro [gli ispettori] hanno scattato un'istantanea della sottoscritta, e non torneranno per vedere se la prossima volta sono migliorata un poco, così resto con la sensazione che sono un fallimento.
Ispezioni alla “mordi e fuggi ” come quelle Ofsted non presentano — sostiene Diane — un approccio razionale per miglio-
rare il rendimento degli insegnanti. Se sistemi astratti come un'audizione di rendicontazione (Power, 1994) hanno bisogno di conquistare la fiducia di quelli su cui operano, allora si potrebbe sostenere che questo significa affrontare un procedimento
150
B. JEFFREY
razionale che includa l'insegnante in un quadro di riferimento evolutivo. Un esempio di pratiche meso-istituzionali che contengono
contraddizioni è fornito dall'esperienza di Rita, una dirigente vicaria preoccupata che l'ispezione potesse essere un'occasione perché qualcuno danneggiasse l'immagine istituzionale della
scuola a causa delle lamentele sul bullismo di una parte del personale: Alcuni stanno quasi parlando come se volessero usare l'ispezione
come un mezzo per ‘richiamare’ la persona che li ha messi in agitazione, e ho molta paura che proprio questo stia per accadere, perché non voglio che questo venga alla superficie, certamente non durante un'ispezione Ofsted.
Rita si ritrovò a dover coprire pratiche gestionali inefficienti in nome dell'immagine che la scuola ha sul “mercato” educativo. Anche in questo caso si trattava di un comportamento
con-
traddittorio, e persino perverso, perché lei stessa era stata vittima del bullismo; e tuttavia il clima di “mercato” in cui si trova l'educazione inglese oggi precludeva il “richiamo” del responsabile di tali azioni. Le scuole dovevano garantire di presentarsi con un'immagine unitaria di fronte al procedimento ispettivo che avrebbe potuto considerarli meritevoli di un rapporto di “bocciatura”, conseguentemente, i difetti istituzionali furono messi a tacere. A partire da questa contraddizione, l’analisi misurata sull'efficacia del sistema di mercato educativo fu rivista nella presentazione conclusiva. Tracy, Rose, Simca, Diane e Rita hanno dovuto prendere atto delle contraddizioni, il che non solo le ha angustiate e spinte a pensare di ricostruire la loro identità d'insegnanti; ma le medesime contraddizioni ne rivelano altre, al centro di alcuni dei valori e procedure d'ispezione. | problemi privati sono questioni pubbliche (Mills, 1959) e l'esposizione delle contraddizioni al livello micro-empirico riflette le contraddizioni nelle meso- e macrostrutture.
Quando Grace, un'altra dirigente vicaria, ebbe una discussione con una delle sue amiche nel dipartimento in cui lavora, la conseguenza fu che le relazioni tra loro si ruppero per alcune settimane e che tale comportamento fu visto come contraddittorio dall'altra insegnante:
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
151
Grace si mise per davvero a urlare e disse ‘Non voglio neppure parlarne’, e prese e se ne andò via e anch'io mi arrabbiai per davvero e ho urlato e gridato e detto ‘Per l'amor di Dio! .Penso di essere stata realmente in uno stato di shock, ero risentita perché sentivo che avevo completato
la mia preparazione anche se mi aveva criticato per
non averlo fatto. Ma le emozioni e le passioni si stavano scaldando do tanto
perché
ciascuno
tentava
di rendere
ogni cosa
proprio
perfetta.
Questo comportamento contraddittorio serviva come indicatore della tensione e dello stress richiesti per mantenere la “maschera della perfezione” (Hargreaves, 1994). Quanto Lucy racconta della rottura di relazioni fra lei e la sua dirigente mostra chiaramente gli effetti dell’ispezione su quest'ultima, che telefonò alla prima — mentre stava assistendo la figlia in ospedale — per dirle che non sarebbe stata pagata durante tale assenza: “Una delle ragioni per cui decisi di venire qui era la sua umanità. Non era il tipo che manteneva le distanze e si mostrava fredda. Di solito era comprensiva ed esprimeva simpatia. Non penso che avrebbe reagito in quel modo prima dell’ispezione. Penso che abbia influenzato la sua capacità di giudicare”. Tuttavia, la dirigente più tardi espresse dispiacere per come aveva agito. Lucy ricordava che la dirigente “continuava a scusarsi e so che era davvero molto agitata e mi disse ‘Non era questo che intendevo, sono stata proprio sconsiderata’, ma il danno alla credibilità di gestione era ormai stato fatto”. Le pressioni sugli insegnanti con un ruolo manageriale perché si concentrino sul sistema, piuttosto che sulle persone, stavano minando le relazioni tra il personale, relazioni che erano state fino a quel momento il cemento della cultura collaborativa caratteristica di questa scuola. Così, il ruolo di Toni come dirigente vicaria e coordinatrice-capo del curricolo la portò a far pressione sulle altre e a dispiacersene, pur ritenendolo inevitabile. Fotocopiò un bel po' di statistiche aggiuntive perché i coordinatori le prendessero in considerazione una settimana prima dell'ispezione e una particolare insegnante, che le piaceva e con cui lavorava bene, reagì in un modo particolarmente emotivo, come Toni osserva amaramente: Le vennero le lacrime agli occhi, e pensai ‘O Dio, ci sono ricasca-
tal’. È il mio ruolo manageriale, non ho scelta, sono consapevole che
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B. JEFFREY
la scelta dei tempi è sbagliata, ma non ci potevo fare niente. Avevo effettivamente pensato di dare una mano, partendo per l'ufficio alle 7,30 del mattino e fotocopiando queste paginette. Mi rendo perfettamente conto che nella sua reazione non c'era niente di personale nei miei confronti. Aveva piuttosto a che fare con il sentirsi molto, molto preoccupata e coinvolta nella presentazione del materiale agli ispettori. Voglio insomma dire che il risultato finale della sottoscritta-che-cerca-di-essere-di-aiuto, ed efficiente, dando più informazioni agli insegnanti è stato di far sentire qualcuno veramente veramente
agitato al punto di dire ‘So che farò un gran pasticcio’.
Anche le persone hanno comportamenti contraddittori; registrarli può servire a illustrare quanto occorra lavorare sulla propria identità (Snow, Anderson, 1987) quando le persone diventano ansiose o quando devono affrontare una sorta di sfida al loro “sé sostanziale” (Nias 1989). Cloe ne è un esempio: Sono ancora preoccupata; non mi sono ancora ‘trovata’. Non mi sono ‘trovata’ perché in effetti me ne importa. Sento che non sto più lavorando con i bambini, sto lavorando sui bambini ma non è un'esperienza molto gratificante. Ci si sente responsabili di ogni aspetto della scuola, indipendentemente dal fatto che lo si sia o no, ma al tempo stesso mi sento estranea, come
se avessi divorziato da
tutto. Ha una logica? No, non ce l’ha veramente.
Contraddizioni tra valori e pratiche sono indicative di relazioni di potere disuguali, mentre le soluzioni costituiscono un esempio di strategie di coping: “Non penso che l'obiettivo sia costruttivo, sospetto di no, ma se appiccicare etichette scritte
al computer per tutta la classe farà felice qualcuno, lo farò. Ho come l'impressione di giocare a un qualche gioco” (Amy). Gli insegnanti cominciarono a sviluppare una serie di distinte (e contraddittorie) identità istituzionali. La pratica educativa divenne artificiosa; gli insegnanti si adeguarono alle regole del gioco. Amy, che era stata lodata dagli ispettori, cominciò a pensare: ‘Col cavolo che [l'ispettore] verrà, è in ritardo’. Ero consapevole che questa mia lezione era buona e che lui non c'era a osservarla. Così l'ho tirata per le lunghe e quando [l'ispettore] è arrivato qualche minuto più tardi, la lezione è diventata una rappresentazione solo per lui. Non era certo necessaria per i bambini, ma ero consapevole che mi si stava giudicando e valutando.
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
153
Goffman (1959, pp. 15-16) ha scritto di come una persona ‘presenta se stessa’ per controllare la condotta degli altri, specialmente il loro trattamento in risposta al suo [...]. Questo controllo è raggiunto per lo più influenzando la definizione della situazione che gli altri giungono a formulare, e egli può influenzare questa definizione esprimendo se stesso in modo tale da dar loro il genere di impressione che li porterà ad agire volontariamente in accordo con il suo piano.
Carol trovò difficile risolvere le contraddizioni tra le proprie convinzioni professionali e le aspettative dell’Ofsted. Per esempio, Ofsted credeva che si potesse programmare con un anno d'anticipo il programma di lavoro per una classe, mentre Carol sosteneva che il ritmo e lo sviluppo dei bambini coinvolti deve, in una certa misura, determinare il curricolo: Ho sempre avuto una struttura [curricolare], ma ho sempre lavorato su ciò per cui i bambini mostravano interesse e coinvolgimento.
Ho sempre preso dai bambini e sono sempre andata per la tangente se le cose si facevano veramente interessanti. Così mi trovo in difficoltà, ora. In questo periodo stiamo facendo un progetto sulle figure geometriche e il piano era di guardare figure differenti ogni settimana, ma i bambini si sono fatti coinvolgere a tal punto che siamo alle prese con il cerchio da circa tre settimane. Stiamo ancora facendo i triangoli, e i bambini sono così entusiasti che in effetti pare inutile decidere improvvisamente e artificiosamente di spostarci sui quadrati, come richiede il piano.
Tuttavia la situazione non si concluse con una Carol deprofessionalizzata o riprofessionalizzata: c'era posto per ambedue (Troman, 1997). La sua soluzione fu quella di “saltare” da un discorso all’altro. Era risentita, ma al contempo rassegnata e docile. Ciò nonostante, mantenne una capacità di risposta professionale e un ancoraggio ai valori che contavano per lei. La sua identità professionale in quanto membro di una struttura professionale valida e riconosciuta era stata danneggiata dalla marginalizzazione di tale struttura. La “meso” struttura della competenza professionale e dei valori educativi, che aveva aiutato Carol nella sua costruzione dell'identità, era stata rimossa, così come era stato rimosso il suo “senso del luogo”,
in termini di valori professionali. Conseguentemente tentò di riconquistare un “senso del luogo”, utilizzando la sua sensibilità
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B. JEFFREY
umana per le persone con cui lavorava; talvolta s'impegnava a tal fine con loro per realizzare un nuovo programma. Al tempo stesso Carol manteneva con il suo “sé sostanziale” (Nias, 1989)
quanti più collegamenti possibili tra quelli che si presentavano. Non perse il proprio passato, quanto il controllo sul presente: può darsi che non sia mai più capace di “tornare indietro”, ma potrà sempre utilizzare nuovamente
il passato se, in-
sieme ad altri, sarà in grado di ristabilire il “luogo” come ciò che determina identità e professionalità. Attualmente Carol sta vivendo una vita professionale frammentata saltando tra un discorso e l’altro, e cavalcando entrambi. Si oppone alla tecnicizzazione e alle pratiche di lavoro basate sui valori e contemporaneamente si confronta con i conflitti e le contraddizioni interni a ciascun discorso (per un resoconto più ampio, vedi Jeffrey, 1999). La ricerca delle contraddizioni è premiata dalla scoperta dei paradossi e dei dilemmi presenti nella vita delle persone, mentre le scoperte spesso al tempo stesso riflettono le contraddizioni al centro delle strutture “macro” e “meso”.
4. Conclusioni
Avendo utilizzato per la raccolta dati un tipo di “lenti” (o chiavi di lettura) che mettono a fuoco comportamenti molteplici e oppositivi, come pure contraddittori, per interpretare la ricerca sull'ispezione Ofsted, avevamo il compito d'ipotizzare una spiegazione su come questi ispettori e insegnanti venissero a capo di esigenze concorrenti (Alexander, 1995), caratterizzanti la loro situazione. Da parte nostra abbiamo invocato la
teoria del discorso. Il sé degli insegnanti, lungi dall'essere frammentato, ha molteplici sfaccettature; i primi dimostrano una considerevole abilità a sviluppare e usare situazioni che danno priorità alle strategie. E affermiamo che questo spostamento apparentemente strategico è meglio spiegato attraverso il concetto del “posizionamento”. Inoltre, ciascuna
persona
porta a ogni episodio
di costituzione
collaborativa del mondo, fatta in diversi modi, l'insieme della propria storia personale — ovvero, il senso di sé non soltanto in quanto riferito
6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
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al presente ma anche di sé come persona che può, o meno, essere situata in tal modo, e cioè come qualcuno che si colloca secondo certe modalità all’interno dell'ordine sociale e morale, di cui si sa che agisce e sente in certa maniera e la cui vita è spiegabile entro linee narrative conosciute (Davies, Harré, 1984, p. 342).
Gli insegnanti si posizionano tra un numero di differenti discorsi quali la “centralità del bambino”, la “responsabilità istituzionale” o la “managerialità”, a seconda delle loro biografie professionali. Ai nostri insegnanti, le azioni degli ispettori sembrano posizionate all’interno di un unico discorso, quello della “managerialità”, ma gli ispettori — dal canto loro — si vedevano situati nei termini degli obiettivi del governo (Woods, Jeffrey, 1998). Così abbiamo cercato una teoria che potesse dare conto dei dati molteplici e contraddittori che avevamo raccolto. È stato suggerito che la raccolta dati (in un qualsivoglia “campo” etnografico) che includa le “lenti” (o “chiavi” di lettura) del ricercatore, le pratiche, le prospettive e comportamenti oppositivi, molteplici e contraddittori migliorerà un'etnografia nella misura in cui riuscirà a: — incoraggiare il ricercatore a spiegare i dati che vanno contro teorie e ipotesi iniziali; — assistere il ricercatore nel rendere estraneo il familiare; — fornire uno spazio legittimo per l'inclusione dell'empatia del ricercatore;
— scoprire la natura paradossale e dilemmatica della realtà vissuta;
— rivelare le inerenti, spesso contraddittorie, caratteristiche di pratiche e strutture sociali più ampie. Per l’uso esplicito di queste “lenti” particolari, gli aspetti complessi della realtà vissuta sono esplicitamente illuminati e spiegati attraverso teorie descrittive. La specificità distintiva delle teorie non sta soltanto nel loro carattere astratto ma nella coerenza e nella chiarezza dei modelli usati, come pure nel rigore dell'analisi dei dati raccolti (Hammersley, 1992).
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B. JEFFREY
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6. Come “descrivere” i luoghi della ricerca etnografica
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COSTRUZIONE E APPLICAZIONE DEL METODO ETNOGRAFICO: ANALISI DI UN'ESPERIENZA DI RICERCA® Ana Vasquez Bronfman
1. Introduzione
L'obiettivo di questo testo è spiegare come il fare ricerca secondo una prospettiva etnografica ci ha portato a sviluppare il metodo, a precisare i concetti su cui ci basiamo e a tentare
di approfondire alcuni aspetti teorici.' In altre parole, sono stati i problemi provocati da una determinata pratica d'indagine che ci hanno spinto a riflettere su quanto stavamo facendo e sui concetti cui facevamo riferimento. Illustrerò questo proces-
so di riflessione sulla pratica di ricerca attraverso un esempio tratto da una delle indagini cui ho partecipato. Inizialmente l’obiettivo della ricerca era centrato sui processi di adattamento alla scuola francese e a quella spagnola da parte di bambini che per una ragione o un'altra non rientravano nella “norma”, ossia bambini sordi a Barcellona e figli di immigrati ed esiliati politici a Parigi. Il confronto (sempre secondo una prospettiva qualitativa) tra questi due tipi di bambini, così come tra le scuole di Barcellona e Parigi, nonché i ‘ Traduzione di Lucia Dalla Montà. ! Un’applicazione coerente del metodo etnografico esige una presentazione di se stessi che fornisca a chi legge quegli elementi collaterali che gli permettano una migliore comprensione del testo e delle intenzioni dell'autore. D'origine cilena, esiliata politica residente in Francia, ho qui conseguito il mio dottorato ed effettuato la maggior parte delle mie esperienze professionali nel Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) a Parigi. Ho condotto le mie indagini lavorando parallelamente con due gruppi: uno a Parigi, nel .Cerlis (Centre de recherche sur les liens sociaux, associato all'Università di Parigi 5) assieme alla ricercatrice Angela Xavier de Brito e l'altro a Barcellona, con un'équipe della Fondazione “La Caixa” diretta da Isabel Martinez.
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A. VASQUEZ BRONFMAN
nostri modi di operare in queste due città, ci hanno condotto a rivedere alcuni concetti di base, come “bambino con deficit sensoriale”, “alunno straniero” o “figlio di straniero”, “scuola francese”, “scuola spagnola”, “processo di adattamento di bambini fuori della norma”.
2. L'inizio “effettivo” di un'indagine Nel 1994, io e la mia collega Angela Xavier de Brito progettammo un'indagine etnografica a livello di scuola secondaria, con alunni tra i 14 e i 16 anni d'età. Avremmo lavorato parallelamente in due diverse istituzioni: lei in una scuola media di un quartiere popolare di Parigi e io in una zona periferica, per quanto vecchia e piuttosto ben organizzata dal punto di vista
dei servizi urbani (Montreuil). L'indagine precedente, che avevamo appena terminato, era stata rivolta al tentativo di comprendere le problematiche d’integrazione dei figli di stranieri nella scuola primaria (Vasquez, 1988; 1992). Avevamo presentato il nostro lavoro a insegnanti e ricercatori in varie riunioni e questi ci avevano suggerito di studiare la scuola secondaria in cui, secondo i commenti di tutti, si manifestavano in forma più acuta i problemi messi in evidenza dalle osservazioni fatte nella scuola elementare. In linea con il nostro orientamento etnografico, l'indagine avrebbe riguardato un lavoro sul campo che ciascuna di noi avrebbe sviluppato nel corso di due anni, effettuando una serie di osservazioni a scadenze frequenti e regolari. Il mio ingresso nella scuola prescelta fu alquanto particola-
re: da alcuni anni conoscevo una giovane insegnante di matematica molto interessata al mio lavoro alla quale, durante un'intervista avvenuta nell'estate 1995, avanzai la proposta di far parte di questa ricerca, che accettò con grande entusiasmo. Mi spiegò che nell’anno successivo avrebbe tenuto un corso istituito di recente, la “quarta tecnologica”; dato che sia per lei sia per la scuola si trattava di un'esperienza nuova, le interessava il tipo d'osservazione sul lavoro in classe che avremmo effettuato. All'inizio del nuovo anno scolastico questa insegnante chiese le necessarie autorizzazioni per permettermi di entrare
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
161
nella scuola e svolgere l'indagine e fissammo una riunione con il direttore e il suo staff. Durante la riunione, mi resi conto che l'insegnante aveva spiegato che avrei svolto la mia ricerca in tutti i suoi corsi. Accettai senza discutere, nonostante il fatto che il mio progetto iniziale prevedesse l'osservazione di un medesimo corso con più docenti. Il direttore si mostrò piuttosto diffidente rispetto al fatto che io filmassi perché, come mi spiegò, aveva avuto esperienze negative con alcuni giornalisti televisivi. Mi prodigai a spiegargli la differenza fra filmare per un'indagine e per la televisione, ma alla fine, purché accettasse la mia presenza nella sua scuola, arrivammo al compromesso di non diffondere per via televisiva quanto avrei filmato. Non mi fu possibile commentare l'esito di questo incontro con l'insegnante che sarebbe stata la “protagonista” di questa indagine, perché doveva far lezione. Rimanemmo perciò d'accordo che mi avrebbe richiamato non appena si fosse potuto cominciare la ricerca, cosa che fece due settimane più tardi, telefonandomi e dandomi la sua disponibilità per la settimana successiva. Non ebbi neppure l'opportunità di parlare con lei prima di entrare in aula, perché usciva da un'altra classe. Riuscì solo a dirmi che gli studenti erano diffidenti soprattutto perché li avrei filmati. In base a esperienze precedenti, nel progettare questa indagine Angela Xavier de Brito e io avevamo deciso che fin dalla prima riunione ci saremmo presenta-
te con la telecamera, e per questo la tenevo con me anche in quell'occasione. Entrando in aula, l'insegnante mi presentò agli alunni che mi guardarono con curiosità e che dissero di non desiderare affatto di essere controllati dalla polizia. In realtà si era prodotto un equivoco: l'insegnante aveva detto che ero una “investigatrice” del Cnrs la mia istituzione d'appartenenza, mentre gli alunni avevano capito Crs, la sigla di uno dei corpi di polizia, particolarmente temuto dai giovani. Spiegare la differenza tra le due sigle risultò piuttosto facile, così alla fine potei filmare la classe ed ebbi l'impressione di avere appianato le difficoltà. La volta successiva, tuttavia, alcuni alunni mi aspettavano per dirmi che avevano preso delle informazioni sulle indagini scientifiche e che si rifiutavano di fare i “topi di laboratorio”: pertanto non volevano essere ripresi. Queste loro affermazioni sconcertarono il resto della classe. che non sapeva come reagire.
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A. VASQUEZ BRONFMAN
Da parte mia, spiegai che vi erano vari tipi d'indagini e vari tipi di ricercatori, che io non facevo indagini di laboratorio e nemmeno lavoravo con cavie ma con persone, attraverso l'osservazione nei luoghi di lavoro — in questo caso, la classe. La discussione si fece via via appassionante, anche se fu purtroppo interrotta dall'insegnante che doveva invece andare avanti con il programma. Se desideravamo continuare la discussione, avremmo potuto farlo al termine dell'ora di matematica, ma poiché i ragazzi avevano un'altra lezione ciò fu impossibile. D'altro canto bisogna riconoscere che al momento dell'interruzione eravamo giunti a una sorta d'impasse, dato che un alunno continuava a opporsi alle riprese. Per sbloccare la situazione gli promisi che non lo avrei filmato, così che la lezione poté proseguire. Quando visionai la prima versione delle riprese effettuate in quella classe, mi resi conto che quell’alunno continuava a non avere fiducia nella telecamera e ogni volta in cui si rendeva conto di essere inquadrato si copriva il viso con un quaderno e a poco a poco altri alunni cominciarono a imitarlo. Vi era disagio all’interno della classe e, per risolverlo, pensai a come mi sarebbe piaciuto essere trattata, se fossi stata quell'alunno. Così, nell'incontro seguente, mi avvicinai a lui in privato e gli dissi che rispettavo la sua posizione e che mi impegnavo formalmente a non filmarlo. Affinché si sentisse ancor più tranquillo gli dissi che, dal momento che era poco utile filmare in controluce, poteva prendere posto vicino alla finestra. Una stretta di mano suggellò l'accordo. Tuttavia, nell'incontro successivo mi resi conto che l'alunno aveva messo in allerta quasi tutta la classe, che in maggioranza era seduta a ridosso della finestra in modo tale da rendermi impossibile di effettuare la ripresa. Era una forma di sfiducia nei miei confronti ed era evidente che gli alunni si stavano divertendo a prendermi in giro. In quel momento pensai di aver fallito il mio contatto con i soggetti dell'indagine; ritenni anche che sarebbe stato meglio rinunciare al lavoro in quella scuola e cercarne un'altra per cominciare di nuovo l'indagine. Tuttavia, i miei impegni istituzionali e di gruppo m'impedivano di rinunciare a questa scuola. Erano già passati due mesi, non avrei trovato facilmente un'altra scuola in quel periodo dell'anno e correvo il rischio di ritardare notevolmente il mio lavoro:
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
163
insomma, mi giocavo la mia responsabilità di ricercatrice. Inoltre, la mia collega stava svolgendo l'indagine parallela nell'altra scuola e non potevo sfasare di molto il mio lavoro rispetto al suo. Queste riflessioni — che furono assai rapide — m'indussero a vincere le mie incertezze e a tentare di trovare il modo di filmare in controluce. Il mio lavoro continuò a questo modo fino alla fine del trimestre, nonostante la manifesta reticenza di quell'alunno in particolare — che continuò a coprirsi il volto ogni volta che sospettava di essere filmato — ma anche di buona parte della classe, che continuava a tentare di ostacolare le riprese. Durante la settimana di vacanza di fine trimestre, con l'équipe di cui facevo parte analizzai ciò che era accaduto attraverso un primo breve montaggio delle osservazioni — che durava soltanto 17 minuti e mostrava lo sviluppo dei dissensi, nonché la strategia adottata per filmare in controluce senza danneggiare troppo la qualità dell'immagine (Vasquez, 1995). D'accordo con l'insegnante, mostrai il montaggio agli alunni prima dell'inizio delle lezioni di matematica del secondo trimestre. Nessun alunno si era mai visto prima in un video mentre si muoveva, parlava, rideva...; il filmato suscitò un'ondata di entusiasmo e di risate (incluse quelle dell'insegnante). Dovetti far rivedere il filmato per ben tre volte consecutive. Questo montaggio fu, finalmente, il mio passaporto d'ingresso: dal momento in cui lo presentai, gli alunni accettarono pienamente la mia presenza non solo per essere ripresi in classe, ma anche per rispondere a qualche piccola intervista filmata e infine per essere ripresi in classe con altri professori. L'insegnante di matematica, dal canto suo, era ugualmente entusiasta, e parlò del filmato ai colleghi con cui si confrontava più spesso; questi, a loro volta, espressero il desiderio dapprima di vedere il video e successivamente di essere ripresi.
3. L'etnografia, ovvero come “oggettivare” il ricercatore e le sue motivazioni
Mi sembra interessante analizzare questo incidente alla luce di ciò che altri etnografi hanno scritto al riguardo: l’etnopsicoanalista Georges Devereux nel suo libro più importante — L'angoscia del metodo (1980) — giustamente analizza i problemi
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A. VASQUEZ BRONFMAN
che suscita un metodo eminentemente qualitativo come l'etnografia, e innanzitutto la questione del come raggiungere un certo livello di obiettività quando questo tipo di lavoro sul campo è praticamente unico e coinvolge così in profondità la personalità del ricercatore. Devereux ritiene che questo sia un problema di fondo nella ricerca etnografica e che perciò debba essere affrontato, sostenendo che l'unica maniera di superare il problema sia quella di “oggettivare” gli elementi più soggettivi come è appunto la stessa persona del ricercatore e domandandosi quali siano le sue reticenze, le sue paure, i suoi blocchi. Dal canto suo, Geertz (1973) riporta che, quando egli e sua moglie arrivarono sul luogo dell'indagine, i nativi reagirono guardandoli come se non esistessero, come se fossero trasparenti e i loro sguardi
potessero
trapassarli.
Semplicemente,
ignoravano la presenza dei Geertz. A partire da questa esperienza, l'antropologo americano teorizza l’angustia del ricercatore quando entra in contatto con la popolazione da studiare, evidenziando la necessità di “oggettivare” questa sua angustia e di tener presenti le motivazioni che orientano la sua condotta. Dal canto suo,
nell’entrare
in contatto
con
un'istituzione
“totale” come l'ospedale psichiatrico, Goffman (1968) aveva messo in evidenza che, sebbene nulla sia chiaramente esplicitato, le norme e i riti sociali dell'istituzione, così come i valori su cui si regge il suo funzionamento, lasciano una forte impronta sulle persone che vivono e lavorano al suo interno al punto che, senza rendersene conto, anche il ricercatore arriva a subirne l'influenza. Basando la mia analisi sugli studi di questi autori, penso di poter dire che prima di entrare in contatto con la “quarta tecnologica" ero talmente preoccupata della reazione dell'insegnante — la “protagonista” di questa ricerca — e della necessità di convincere il direttore della scuola della validità del mio lavoro, nonché dell'onestà delle mie intenzioni, che avevo completamente dimenticato gli alunni! Secondo la tesi di Goffman, è possibile che io abbia sottostimato l’importanza degli alunni in questa indagine dato che non erano loro a detenere il potere di decisione, bensì la docente e il direttore. Pertanto, senza essere pienamente cosciente di ciò che stavo facendo, mi ero comportata secondo i valori della scuola, rispettando le
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
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persone che detengono il potere (la docente, gli amministratori, il direttore) e dimenticando gli alunni. Come si possono superare questi limiti di cui non abbiamo sempre piena coscienza? Nella nostra esperienza, è stato grazie all'équipe di ricerca, in cui ogni partecipante espone il procedere del proprio lavoro, che abbiamo potuto renderci conto dei nostri errori e successivamente trovare il modo di superarli. Così, ho dapprima presentato quanto mi era successo come se si fosse trattato di una “gaffe”, di un errore che avevo commesso senza volere; però, grazie alla discussione e all'analisi collettiva, ho avuto modo di rendermi conto che in nessun caso questa “gaffe” era anodina, ma che piuttosto rifletteva le relazioni di potere nella scuola e la mia sottomissione a questi valori.
4. L'effetto dell'osservazione sulle persone osservate Chi legge le descrizioni del lavoro sul campo dei fondatori — e delle fondatrici — dell’antropologia culturale (Mead, 1928; Benedict, 1934; Malinowsky, 1944; Linton, 1936 ecc.) può avere l'impressione che, dopo aver superato le prime reticenze, i membri del gruppo studiato continuino la loro vita quotidiana esattamente come prima dell'arrivo degli antropologi. Tuttavia, per quanto primitiva sia la loro cultura (e ci si potrebbe chiedere che cos'è una “cultura primitiva” nell'ambito teorico dell'antropologia culturale), questi nativi, trasformati in “soggetti d'indagine”, non cessano di chiedersi che cosa stiano cercando quegli intrusi. Alla fine degli anni Ottanta, Nigel Barley (1987, 1988) ha rilevato in maniera precisa come alcuni membri della società che studiava commentassero le sue osservazioni
e cercassero
di capire quale fosse il suo interesse
per il loro gruppo. La medesima cosa rileva Devereux (1970), il quale insiste sul fatto che se il ricercatore non offre nessuna informazione sull’'obiettivo del proprio lavoro, questa scelta può dar luogo a supposizioni fantasiose (cfr. anche Medick, 1994). L'etnografia più recente ha privilegiato gli studi delle nostre società, sia nelle istituzioni strutturate, come i collegi e gli ospedali (Becker, 1961; Ogbu, 1981; Peshkin, 1988, 1991), sia in
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A. VASQUEZ BRONFMAN
istituzioni centrate su interessi specifici (clubs, associazioni, organismi che funzionano una volta a settimana), come pure di alcuni eventi eccezionali (Becker, 1968). In tutte queste situazioni risulta evidente che le persone studiate s'interrogano sulla ricerca. A nostro giudizio, tuttavia, non si è discusso sufficientemente sul grado di chiarificazione che deve essere fornito dal ricercatore e nemmeno sulle implicazioni morali che nascono dalla mancata informazione degli obiettivi dell'indagine alle persone osservate. Come tanti altri ricercatori, io stessa (Vasquez, Stambak, Seydoux, 1978) mi sono trovata dinanzi al dilemma se fornire o meno dettagli sulla ricerca, sapendo di correre il rischio che gli osservati evitino certi comportamenti e condotte, e quindi di non poter dimostrare le mie ipotesi. Però, intrattenere una relazione prolungata (ad esempio, con una maestra
di scuola materna,
come
avvenne
in un'altra ricerca)
senza dire chiaramente quali sono gli obiettivi dell'indagine, può presto o tardi far pensare il soggetto che abbiamo tradito la sua fiducia. La vera sfida non sta nel mentire per omissione, al fine di effettuare l'indagine secondo le regole delle istituzioni scientifiche, ma nel trovare la maniera di verificare le ipotesi senza dover falsare la nostra relazione con le persone che osserviamo.
5. La relazione ricercatore/soggetto della ricerca Ricordiamo che questa metodologia di ricerca si fonda su un'idea di lavoro prolungato “sul campo”, durante il quale il ricercatore conduce le sue osservazioni
(idealmente per uno o
due anni), per cui inevitabilmente si stabilisce un certo tipo di relazione tra di lui e le persone osservate. Si parla di relazione di fiducia e di “empatia” tra gli uni e gli altri, però qualsiasi persona che abbia svolto un lavoro prolungato “sul campo” non può non chiedersi come si venga a stabilire questa relazione empatica. Quali sono i passi necessari a tal fine? Come si svolgono la ricerca — e, più specificamente, l'osservazione — in modo che si giunga a costruire una relazione di fiducia? Come ho già detto, è essenziale che il ricercatore definisca bene quali sono i suoi obiettivi, le basi e i limiti morali del suo lavoro. Margaret Le Compte (1987) ritiene necessario che il
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
167
ricercatore effettui un'introspezione per conoscere le sue motivazioni e reticenze, i suoi pre-giudizi e le sue ambizioni. Solo così, sottolinea l'antropologa, potrà comportarsi in modo coerente con le persone che compongono il gruppo studiato. Dopo aver compiuto correttamente questa analisi,
e prima
di iniziare il proprio lavoro “sul campo”, è necessario che il ricercatore entri in contatto con le persone che intende studiare e che le convinca a trasformarsi in “soggetti di osservazione”. Generalmente, nelle nostre società, le persone e i gruppi tendono a non nutrire fiducia in coloro che dimostrano interesse nell'osservarli, specialmente se utilizzano la videocamera. “Quale utile posso ricavarne?” si chiedono frequentemente. Alcuni, inoltre, hanno esperienza di precedenti indagini nelle quali il ricercatore, al termine dell’osservazione, se n'è andato senza renderli partecipi dei risultati delle sue osservazioni. Analizzando questi problemi, Angela Xavier de Brito (1999) ha studiato la tesi di Marcel Mauss, che a sua volta si è basato sui lavori e sulle analisi di Malinowsky nelle isole Trobriand: ambedue gli autori sostengono che tra il ricercatore e la popolazione oggetto della ricerca avviene, fin. dal momento dell'arrivo del primo, uno scambio di doni simbolici (che Malinowsky denomina kula, mentre Mauss parla di potlach). Il valore di questi doni è puramente simbolico e starebbe a indicare un desiderio di entrare in relazione, mantenendo il rispetto e l'apprezzamento reciproco. Secondo Mauss, questi doni si scambiano fintanto che la relazione dura e stanno a indicare il desiderio sia di mantenerla viva sia di accettare l'altro nella sua differenza. Per Xavier de Brito, interpretare questi scambi in una logica commerciale sarebbe un grave errore, dal momento che, nella sua interpretazione che estende quella di Mauss, si tratta di sviluppare un sentimento di amicizia tra osservatore e osservati. Così, i problemi che incontrai nella “quarta tecnologica” e la soluzione raggiunta proiettando il filmato si possono spiegare alla luce della teoria del dono. Il fatto di assistere a quanto succedeva in classe poteva essere interpretato come una intrusione in una certa intimità, come se stessi violando la privacy della vita scolastica, mentre il rifiuto avanzato dagli alunni alle mie indagini potrebbe essere spiegato come un tentativo di opporsi a questa intrusione. Tuttavia, loro malgrado, io li
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A. VASQUEZ BRONFMAN
stavo filmando ed essi mi stavano “offrendo”, “regalando”, la loro intimità scolastica. Il fatto che mi fossi impegnata a proiettare un montaggio delle scene filmate all'inizio del trimestre
seguente
può
essere
interpretato
come
un
contro-
dono, l'offerta simbolica che corrispondeva a ciò che io avevo ricevuto dagli alunni. È evidente che gli alunni apprezzarono questo filmato e che, a partire da quel momento, accettarono la mia presenza (e le riprese) in classe. Questa analisi è sembrata pertinente a me e ai membri dell’équipe di ricerca e nelle nuove indagini “sul campo” che abbiamo intrapreso recentemente ci siamo affrettate a offrire un piccolo montaggio, spiegando agli attori che così avrebbero compreso meglio il nostro lavoro. Questi piccoli filmati di “contro-dono” hanno avuto un esito molto stimolante sugli stessi attori, che hanno spontaneamente analizzato le loro motivazioni attraverso le scene filmate.
6. Contributi e illusioni della tecnica (la videocamera)
Dopo una lunga esperienza di osservazioni “sul campo” documentate con carta e penna, eravamo a un certo punto arrivate alla conclusione che filmare tali contesti ci avrebbe procurato un'informazione più ricca e indiscutibile (Xavier de Brito, Vasquez, 1999). Un periodo di formazione all'Imerec? di Marsiglia ci ha consentito di comprendere non solo i vantaggi delle osservazioni filmate ma anche i limiti. Il lettore ha già potuto comprendere che parte della controversia avuta con il direttore della scuola e con gli alunni della “quarta tecnologica” aveva avuto origine dall'uso della videocamera. In diverse indagini abbiamo potuto constatare che il fatto di essere osservati attraverso una videocamera nell'attività quotidiana provoca timore e reticenza in molte persone. In ogni caso, questa situazione potrebbe essere considerata vantaggiosa poiché ci ha obbligato a precisare, con la maggiore onestà possibile, i nostri obiettivi, le azioni messe a fuoco dalla videocamera e l’uso che avremmo fatto del materiale filmato.
? Institut méditerranéen de recherche et de création [N.d.T.].
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
169
Il filmato suscita una sorta d'illusione d’esattezza, come se filmando quello che abbiamo designato come “scena etnografica” si cogliesse la totalità di ciò che succede in classe. Ma la videocamera ci consente solamente una focalizzazione ridotta di ciò che succede ed è impossibile captare tutta la classe senza cadere in imprecisioni. Inoltre, per poter filmare (e guardare come testimone obiettivo) certe scene — da noi denominate “scene chiave” — nonostante la precisione offerta dalla videocamera, sarebbe necessario conoscere anzitempo se si verificherà un incidente tra quegli attori, in modo da poterli riprendere tempestivamente. E ciò è per definizione impossibile. Durante la nostra ricerca questi incidenti, altamente rivelatori, sono avvenuti molte volte, ma li abbiamo potuti filmare solo quando erano già iniziati. Tali limiti non riducono le ampie possibilità che derivano dall'uso di questa tecnica. In primo luogo la telecamera permette di cogliere e conservare interazioni ed eventi significativi
nella classe che, a loro volta, offrono le basi per comunicare le osservazioni compiute dal singolo ricercatore all'équipe di studio. La discussione collettiva porta a chiarire la scena o0sservata e nel contempo a precisare sia i nostri procedimenti sia le possibilità di cogliere quanto sta succedendo in classe e pertanto consideriamo la videocamera come un importante elemento di completezza e autocontrollo per il ricercatore. Infine, il documento filmato consente di produrre montaggi diversi a seconda della finalità e del pubblico (divulgazione scientifica, presentazione agli insegnanti, agli amministratori, ai politici o altri attori sociali) che a loro volta costituiscono tappe nello sviluppo dell'indagine.
7. Le ipotesi progressive La letteratura specifica (Woods, 1990, 1999; Hammersley, 1990), così come la nostra esperienza (Vasquez, Martinez, 1988, 1996; Vasquez, Xavier de Brito, 1993), ci hanno dimostra-
to che è impossibile lavorare con ipotesi chiaramente definite in un ‘indagine qualitativa come la nostra. Prima di entrare “sul campo”, di solito abbiamo soltanto un'idea generale della realtà che incontreremo, così come sono generali le ipotesi che
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A. VASQUEZ BRONFMAN
elaboriamo al proposito. Per questo motivo, nella nostra équipe preferiamo utilizzare la definizione di Hammersley (1990) e parlare di ipotesi progressiva. Il fatto di specificarla così, prima dell'inizio della ricerca, produce sempre una liberazione psicologica per il ricercatore, che accetta la non-completezza delle sue ipotesi. Analogamente, precisare le ipotesi a mano a mano che procede il lavoro “sul campo” permette di ri-orientare alcune osservazioni al fine d'includere nuove informazioni.
8. La precisazione dei concetti durante la ricerca “sul campo” Ritornando ora alla ricerca cui ho fatto riferimento per sviluppare queste riflessioni critiche, quando entrai nell'ufficio del direttore della scuola media per la mia prima intervista, egli sapeva già che ero una ricercatrice e sperava che gli spiegassi in che cosa consisteva il mio lavoro. “Mi propongo di studiare come avviene l'integrazione degli alunni stranieri, i figli dei lavoratori immigrati, nella scuola francese”, dissi. 1] direttore ebbe un gesto d’approvazione e commentò: “Effettivamente questi alunni creano problemi... il problema delle culture delle famiglie straniere...”. Certamente le poche frasi che gli avevo detto erano piuttosto imprecise e facevano
temente
scientifici
riferimento
che hanno
a presupposti
ricevuto
un'ampia
apparen-
diffusione
mediatica; tuttavia ci eravamo scambiati idee come se entrambi ci stessimo riferendo a concetti chiaramente definiti. La
ricerca in quella scuola ci mostrò tuttavia (come peraltro era avvenuto in indagini svolte precedentemente) che alcuni concetti utilizzati in etnografia sono imprecisi e talvolta addirittura confusi. Ci sembra che utilizzare concetti imprecisi, o poco adeguati alla realtà che stiamo studiando, si spieghi, in parte, con il fatto che l'etnografia viene definita come lo studio della cultura, o come la scienza delle descrizioni culturali, e dunque tendiamo a basarci strettamente sulle definizioni e sulle messe a punto di carattere metodologico proposte dai fondatori dell’antropologia culturale. Questi, tuttavia, avevano studiato piccole società isolate, i cui membri non parlavano la lingua del ricercatore. Le pratiche osservate esprimevano valori e
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
7A
norme talmente diversi da quelli della cultura del ricercatore che proprio per la loro “stranezza” non erano difficili da individuare da parte di chi era cresciuto in una cultura profondamente differente. La differenza culturale, la “estraneità”, in questi casi risultava evidente. Nell'applicare il metodo etnografico allo studio di aspetti o istituzioni della nostra stessa cultura come la scuola, risulta imprenscindibile ri-attualizzare i concetti alla luce, e in funzione, di questi altri contesti sociali e delle problematiche che stiamo impostando. Molte pubblicazioni degli ultimi decenni evidenziano la necessità di ridefinire alcuni concetti (Woods, 1990; Hammersley, 1990; Wax, 1993; Wikan, 1995) come uno dei contributi della prospettiva etnografica. Così, nel caso specifico, i concetti di “bambini straniero” e di “scuola francese” avevano un significato negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, quando molti figli di lavoratori immigrati arrivarono
in Francia,
provenienti
da zone
rurali molto
isolate, e non capivano né la lingua né molte delle norme sociali correnti. In quell'epoca, quando effettuavo osservazioni in classe, usavo chiudere gli occhi e ascoltare. I bambini stranieri avevano una gran varietà di accenti e commettevano errori nella costruzione della lingua parlata: visivamente (e uditivamente) erano bambini stranieri. Né loro né i loro genitori conoscevano certe norme sociali di uso corrente in Francia, cosa
che procurava sconcerto e anche fastidio. Ma quando negli anni Novanta ripetei nuovamente l’esperienza di chiudere gli occhi per ascoltare gli alunni, mi fu impossibile distinguere uno “straniero” da un “francese” (Vasquez, 2000). Nel guardarli, tuttavia, vedevo bambini d'origine africana e maghrebina. Ma la grande maggioranza di questi alunni erano nati in Francia e avevano frequentato scuole francesi (per esempio la materna) talvolta fin dalla tenera età, i loro genitori parlavano francese (o, se non lo parlavano correttamente, quanto meno lo capivano) e sapevano destreggiarsi nella società francese. D'altro canto, un'indagine precedente aveva dimostrato che tra gli alunni considerati francesi vi erano numerosi figli di coppie miste (francese/straniero) e nipoti d'immigrati di diverse origini (spagnoli, italiani, portoghesi, polacchi ecc.) (Vasquez, Xavier de Brito, 1993). Che cosa significava allora l'espressione “alunni stranieri”? Che cosa permetteva di farci supporre (e
72:
A. VASQUEZ BRONFMAN
talora affermare) che questi alunni avrebbero avuto difficoltà scolastiche perché stranieri? Se guardiamo ai lavori di alcuni antropologi sociali (Devereux, 1970; Medick, 1994), vediamo che quando gruppi umani numerosi, originari di diverse culture, sono costretti a convivere, lo scambio di norme sociali e di espressioni idiomatiche produce una compenetrazione reciproca. Nelle scuole dove abbiamo lavorato (Xavier de Brito, Vasquez,
1994) vi sono
classi con
un'elevata
percentuale
di
bambini, i cui genitori o nonni erano immigrati, e lo scenario che si struttura ruota appunto intorno a un'influenza reciproca. La stessa cosa accade se si esamina il concetto di “scuola francese”. Nel visionare i filmati sulle scuole risulta evidente che il personale di servizio (in portineria, nelle pulizia e nelle cucine) è composto prevalentemente da persone provenienti dalle ex-colonie francesi e riceve l'arbitraria qualifica di “straniero” a causa del nome e del colore della pelle. Tra gli insegnanti e il personale amministrativo, inoltre, si incontrano sempre più persone altamente qualificate che provengono dalle ex-colonie (specialmente dall'Algeria) o che sono figli di immigrati spagnoli o dei Paesi dell'Europa dell'est (Vasquez, 2000). L'osservazione diretta ci ha così permesso di constatare che l'idea implicita nella designazione di “alunno straniero” (secondo cui esisterebbero blocchi omogenei che si confrontano, ovvero alunni stranieri, alunni di varie generazioni e la scuola francese) è un mito. Partendo dall'analisi delle nostre osservazioni, abbiamo smesso di utilizzare l'espressione “alunni stranieri”, a meno di non accompagnarla con una definizione adattata al gruppo che si sta studiando. Nel contempo, e in considerazione della realtà attuale delle classi nei quartieri più popolari di Parigi e nelle periferie dove lavoriamo, abbiamo modificato la nostra problematica: attualmente studiamo come questi alunni di diverse provenienze socializzano, ossia interagiscono tra di loro e con i loro insegnanti. Così, approfondendo attraverso l'osservazione i concetti su cui basiamo il nostro lavoro, siamo giunte a modificare la nostra problematica adattandola alla realtà attuale della nostra scuola.
7. Costruzione e applicazione del metodo etnografico
173
9. L'importanza del lavoro in équipe Attraverso questo esempio ho voluto dimostrare che, nonostante possediamo una vasta esperienza, lo stesso processo
d'indagine implica necessariamente una costante analisi critica del nostro operare e delle nostre motivazioni, una revisione dei concetti e una rielaborazione progressiva delle ipotesi con cui lavoriamo. Tuttavia è difficile muovere critiche a noi stessi, indagare i significati impliciti nei dettagli più banali del nostro stesso comportamento,
accettare ritardi al nostro progetto, ri-
flettere sulla pertinenza delle nostre azioni durante la permanenza “sul campo”. A mio giudizio, il processo d'indagine empirica, e contemporaneamente di riflessione, è stato reso possibile dal lavoro d'équipe e dal fatto che altri colleghi, il cui livello di preparazione e la cui capacità d'analisi merita tutto il nostro rispetto, si interessino di ciò che facciamo e siano disposti ad analizzarlo con noi. Lo sottolineo perché l’espressione “lavoro d'équipe” si trasforma spesso in un vuoto appello: non si tratta infatti di appartenere alla medesima istituzione o di svolgere, nominalmente o realmente, il medesimo lavoro “sul campo”, quanto di stabilire con alcuni colleghi una relazione di fiducia e di reciproco rispetto, che permetta d'accettare le critiche senza risentirsi, per discutere in maniera costruttiva sul lavoro che si sta facendo.
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d
8 AMICIZIA E IGIENE: UNO SGUARDO NELLA VITA DI TRE GRUPPI DI RAGAZZI DI QUARTA ELEMENTARE A PRAGA”! David Doubek
1. Introduzione
Nell'autunno del 1994 ebbe inizio un'indagine che è parte di un più ampio progetto di ricerca longitudinale sugli alunni cechi, condotta dal Gruppo praghese di etnografia della scuola; l'intero progetto si estende su un periodo di nove anni ed è stato pensato per cogliere l'intero arco temporale di una “generazione scolastica”. Metà di esso consiste nello studio — attraverso test psicologici quantitativi standard — dello svilup-
po intellettuale in età evolutiva, mentre l'altra metà è una ricerca qualitativa (svolta secondo la metodologia etnografica) su cognizione e socializzazione infantile. Come antropologo? sono coinvolto nella seconda parte della ricerca, in particolare nello studio sulla socializzazione degli alunni. All'epoca, ciascun ricercatore aveva scelto una classe da osservare, lavorando all’interno di ciascuna per un giorno alla settimana circa, scrivendo un rapporto al termine di ogni anno scolastico. Questo mio testo riprende il rapporto sulla quarta elementare (Dept. of Psychology, 1999).
* Traduzione di Francesca Gobbo. ' Il testo originario in ceco è stato rivisto e tradotto in inglese dall'autore dapprima per la conferenza di Padova e successivamente riscritto, sempre in inglese, per la presente pubblicazione. La traduttrice italiana ha tenuto conto del doppio canale linguistico lungo cui il testo originario è stato prodotto e ha condiviso con l’autore (v. nota 3) la “sofferenza” che spesso accompagna il trasferimento di senso da una lingua all'altra [N.d.T.]. ? Prima di questa specifica ricerca, mi sono occupato
in profondità di questioni riguardanti le relazioni tra ragazze e ragazzi, la comunicazione e il successo sociale.
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D. DOUBEK
2. Il campo di ricerca
La classe in cui ho condotto l'indagine fa parte di una scuola piuttosto grande situata in un quartiere un tempo operaio, che nel frattempo è cambiato per la sua vicinanza al centro della città, tanto da non poter essere considerato un ambiente omogeneo, poiché dal punto di vista sociale i suoi abitanti appartengono a varie classi. La scuola non ha particolari caratteristiche curricolari, se si eccettua che è concentrata sull'educazione artistica, il che significa che gli alunni hanno educazione artistica due o tre volte più frequentemente che in una scuola “normale”. Ne consegue che ci s'iscrive perché è vicina a casa oppure perché si ha un po’ più di talento o di ambizione nel disegno. Il fatto che sia una scuola “di quartiere” sembra tuttavia essere più importante. Il sistema scolastico ceco è egualitario e la sola (o la più importante) maniera in cui il sistema sociale influenza quale popolazione frequenta quale scuola è proprio il “sistema di quartiere”.
3. Per cominciare
Il titolo del mio testo —"Amicizia e igiene” — è sicuramente strano; sentiamo che vi è una connessione esplicita tra i due termini, ma che essa è in qualche modo ingiusta, incompatibile e tuttavia comica. Parlerò delle relazioni di “amicizia” tra i ragazzi della quarta elementare di una scuola di Praga. Mi avvicinai a questo tema partendo dal suo contrario: l'avversione. Sapevo che esisteva un certo livello di disprezzo, ma i numerosi esempi di cui ero venuto a sapere riguardavano un ragazzo e dunque non mi era chiaro se si trattava soltanto di un suo problema o se si estendeva ad altri compagni. Sapevo soltanto che alcuni ragazzi lo disprezzavano. Tuttavia, talvolta giocavano con lui, gli parlavano e si comportavano del tutto normalmente. Così ho dovuto esplorare l'intera sfera della “simpatia” tra ragazzi per poter interpretare quello che avveniva e capire quali questioni adombrasse, innanzi tutto indagando il “concetto” di amicizia a questa età. Ho reso la parola ceca kamarddeni come “amicizia”, ma probabilmente non è
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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la traduzione più esatta; l’espressione “essere in confidenza” sarebbe forse più vicina all'originale. Kamaradeni è una parola molto comune, la più comune tra quelle usate da bambini e ragazzi per descrivere una “relazione amichevole”. Questo contributo si basa su due fonti: le interviste che la mia collega Marketa Rybova ha condotto con i bambini e le mie osservazioni e note sul campo.
4. Prima indagine sul problema dell'amicizia In questi frammenti d'interviste emerge che l'amicizia è qualcosa di non chiaramente situato nell'ambito della simpatia/attrazione tra le persone: non indica una forma, ma piuttosto la dinamica e la materia di quella simpatia. Tale amicizia cambia nel tempo e a seconda della situazione, non significa necessariamente obblighi, è un certo stato di simpatia raggiunto per gradi, che fa riferimento a motivi diversissimi come il rapporto forza/potere, il flusso di divertimento, il successo scolastico, le virtù morali, il carattere, una vita a lungo condivisa o semplicemente la disponibilità (quando per esempio uno ha bisogno di qualcun altro per uscire). Per completare il quadro, dovremo studiare l’avversione, il contrario dell’amicizia/kamarddeni. Per poter concepire l’avversione e l'amicizia, dovremo guardare agli attori quando esprimono ora l'uno ora l'altro sentimento.
5. “Bulletti”*, “igienisti” e “giovani marmotte” Ricercatrice: Allora, nella classe siete una banda o c'è invece un certo numero di piccoli gruppi?
? La qualità naturale dei dati viene a soffrire necessariamente per la traduzione; ho dovuto tralasciare la bellezza delle interviste trascritte letteralmente e delle note sul campo non rielaborate per ottenere una qualche traducibilità delle situazioni citate. Spero che esse saranno comprese quanto meno come una perifrasi della “realtà” [the real thing]. 4 Il termine “bulletti”, con cui traduco l'inglese lads del testo originale, non è proposto per alludere al fenomeno del bullismo, ormai da qualche tempo presente anche nelle istituzioni scolastiche italiane. “Bulletti” rimanda piuttosto ad atteggiamenti da sbruffone (e cioè spavaldi e provocatori), e forse persino da strafottente, senza peraltro passare alla violenza verbale o fisica nei confronti degli altri (N.d.T.).
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D. DOUBEK
Kamil: Ma sì, ci sono alcuni piccoli gruppi.
Sebbene la kamarddeni/amicizia non significhi una forma distinta o una relazione strettamente determinata, essa descrive una tendenza che attrae alcuni ragazzi verso altri. Grazie a questo possiamo trovare “isolette” di ragazzi che sono amici “più stretti” tra di loro che con altri. Queste “isolette di amici” condividono alcune caratteristiche personali e la relazione con altre isolette, ma non sono “strutture” fortemente delimitate quanto un insieme di “sedimenti d'amicizia” che si fondono l’uno nell’altro, talvolta gradualmente, tal altra improvvisamente. Questi gruppi sono molto stabili (diversamente da quelli che si formano per giocare o per compiere particolari azioni, o altro): essi non hanno né regole formali (come le bande) né nomi. Non sono determinati da una particolare attività ma da una tendenza a lungo termine. Ho individuato tre gruppi e li ho chiamati Frajeri (“bulletti”, bellimbusti o sbruffoni), Hygienici (“igienisti”) e Skauti (“giovani marmotte”, boy scout). 5.1.1 “bulletti”
I “bulletti” sono il primo gruppo che affronteremo: essi sono i ragazzi più ‘visibili’ della classe cui ho assegnato questo nome partendo dalla descrizione che ne fanno gli altri ragazzi. Per esempio, la “giovane marmotta” Borivoj dice di due di loro: “non che siano dei ‘bulletti’ terribili ma talvolta si danno veramente delle arie”. Karel, Milan e Leo sono “bulletti”; il padre di Karel lavora all'ufficio imposte e la madre è medico, i genitori di Milan lavorano in uno studio pubblicitario e quelli di Leo sono disoccupati. 5.2. Gli “igienisti”
Al secondo gruppo, per molti aspetti diversissimo da quello dei “bulletti”, ho dato il nome di “igienisti”. Non ho scelto un'etichetta dal suono realmente gradevole, ma in una prospettiva più ampia vedremo che si è trattato di una scelta ragionevole, essendo derivata dalla sintesi delle rispettive, personali ideologie dei ragazzi. Descriverò questo gruppo utilizzando le medesime categorie utilizzate per i “bulletti”, ma in
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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più ne aggiungerò qualcun'’altra. Sono “igienisti” Radek, Kamil e Cestmir. I genitori di Radek lavorano rispettivamente come segretaria e come addetto al servizio ristorazione dell'aeroporto; il padre di Kamil è avvocato e la madre medico, quello di Cestmir è un piccolo commerciante mentre la madre è casalinga. 5.3. Le “giovani marmotte”
Il terzo gruppo è quello delle “giovani marmotte”, che sembrano essere un incrocio tra i “bulletti” e gli “igienisti”, ma che, tanto per cambiare, sono una “isoletta” alquanto indipendente che differisce dagli altri due i gruppi. Ho scelto questo nome perché ambedue i membri fanno effettivamente parte delle “giovani marmotte”, il che stabilisce un importante legame tra di loro. “Giovani marmotte” sono Borivoj e Svatopluk; il padre di Borivoj lavora come idraulico e la madre come segretaria, mentre il padre di Svatopluk è falegname e la madre lavora in una panineria.
6. Le categorie di una cultura dei pari A] di là della collocazione basata sulla relazione tra i ragazzi, ho individuato alcuni aspetti particolari (che si riferiscono a molte cose diverse) che li caratterizzano come individui, ma anche come membri di un gruppo particolare, e sono tipici dell'intero gruppo. Ho scelto questi nomi pensando a tali aspetti; esaminiamo
dunque queste “categorie” per penetrare
le ragioni della suddivisione. 6.1. Gli amici del pomeriggio
6.1.1. 1 “bulletti” La questione importante è “quali sono i tuoi amici nel tempo non scolastico, nel pomeriggio”. Quanto meno numerosi sono i compagni di classe, fra questi amici, tanto più il soggetto è un “bulletto”, ovvero non ha compagni di classe come amici del pomeriggio. Per esempio, questo è vero per Karel, e usando una terminologia un po’ particolare, potremmo chiamare
Karel come
“estroverso” in opposizione a “introverso”, e
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cioè chi è rivolto alla classe.’ L'amico con cui usava uscire Milan rappresenta un compromesso, in quanto è il suo vecchio compagno di classe Jan che ha lasciato la scuola un anno prima e che, se invece fosse rimasto, sarebbe di sicuro stato il quarto “bulletto”. Leo ammette
che non s'incontra con i compagni
di scuola
nel pomeriggio. Al contrario, “esce con quelli più vecchi” e insieme “giocano a football... o altri giochi”. Chiaramente, fuori della scuola Leo lascia i suoi compagni e si unisce a una banda di ragazzi più vecchi. Egli è un “estroverso” come Karel. Il fatto che Leo sia uno zingaro di un quartiere con una popolazione zingara molto numerosa è forse l'aspetto che conta di più, in questo caso. 6.1.2. Gli “igienisti” Radek ci disse che “talvolta andava fuori da solo, talvolta con Cestmir, e qualche volta con Masin”. Di solito vanno in bici fino a Zizkov, un quartiere vicino a Praga. Radek è per metà rivolto alla classe (Cestmir è un suo compagno) e per l’altra metà all'extrascuola (Masin è un vicino). Kamil riferisce che gli piace andare “a trovare degli amici e poi... giochiamo insieme... con amici che sono anche compagni di classe”. In realtà, ciò non accade troppo di frequente. Essi si incontrano “non così spesso, in effetti. Una volta alla settimana o di meno”. Kamil è meno fortemente orientato ai compagni di classe. Esce con Radek soltanto alcune volte e, dal punto di vista di un osservatore, sembra che Radek sacrifichi generosamente una parte del suo tempo “sportivo” per Kamil. Terzo degli “igienisti”, il “solitario” Cestmir afferma che “se ne stava a casa... con questo caldo”. Nel suo caso, si tratta di un atteggiamento tipico: quando il tempo (o qualche altra cosa importante) è brutto, non c'è amico che riesca a farlo uscire. Tuttavia, se va fuori con il mio amico Radek, “avevamo l'abitudine di andare in bici finché non ho rotto la catena”.
? Gli aggettivi “estroverso” e “introverso”, scelti per tradurre te outlander e inlander del testo originale, non intendono evocare psicologica (in particolare, alla psicologia di C.G. Jung) l'atteggiamento d'apertura (o, viceversa, la sua assenza) verso relazioni extrascolastiche [N.d.T.).
rispettivamenuna risonanza ma suggerire i contesti e le
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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Quando il tempo è bello, Cestmir è orientato verso i compagni di classe: è un “introverso” come tutti gli “igienisti”. 6.1.3. Le “giovani marmotte” Svatopluk è anche lui rivolto verso la classe, e verso Borivoj. Tuttavia, quello che Radek considererebbe come sport non viene preso così seriamente, perché proprio questa è la loro
caratteristica: non darsi pensiero. Le “giovani marmotte” hanno il minore numero di nemici nella classe, possono unirsi a qualsiasi gioco e sono amici di tutti. Insieme vanno alla ricerca di avventure in città, come racconta Borivoj: “Hmm, andiamo a
Zizkov” (un quartiere con un grande parco nelle vicinanze della scuola) “e corriamo, o qualcosa del genere”... Borivoj — chiaramente un “introverso” riguardo alle amicizie del pomeriggio — è lo specchio di Svatopluk e viceversa. Di questi egli dice che Svatopluk era O.K. perché... “per esempio, quando c'è una nuova barzelletta lui la racconta a tutta la classe”. L'approccio di Borivoj all'amicizia può essere definito come “flusso di divertimento senza darsi le arie”. 6.2. Moda e musica pop
Un altro aspetto è l'orientamento verso la cultura pop, che in questo caso significa una particolare gemmazione della cultura pop, intesa in senso generale, e rappresentata dall’ideologia e dallo stile di riviste come Bravo, Poplife, Popcorn, Girl. In breve, esse impongono il discorso della musica per adolescenti e della pubertà — cui alcuni telefilm (come Melrose Place, Beverly Hills e molti altri) sembrano essere complementari —- che è incentrato nel mostrare e parlare dell'adolescenza e della pubertà invece che dell'infanzia o di un contenuto fantastico (come avviene per altri rami della cultura pop per bambini).
è Tutte queste riviste contengono
immagini,
manifesti di personaggi
fa-
mosi dello spettacolo, interviste, racconti sulla loro vita segreta, poi qualcosa sulla moda per ragazze e ragazzi, un fumetto con una storia d'amore, consigli sulla sessualità e così via. La maggior parte di queste riviste sono cloni degli originali tedeschi (Bravo è originariamente una rivista tedesca e le altre riviste sono cloni di Bravo).
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6.2.1.1 “bulletti” Karel mette insieme la musica per bambini, quella pop ceca e il rock duro. Il punto importante che differenzia i ragazzi tra di loro è la conoscenza dei nomi degli idoli, poiché indica una attiva comunicazione con la cultura pop. Karel sa indicare le Spice Girls, i Back Street Boys o East 17, quando gli si domanda da dove viene la moda. In questo caso, le pop star si possono considerare come tipiche dei “bulletti” così come la musica per bambini è tipica degli “igienisti” e delle “giovani marmotte”, ma apprendiamo anche lo speciale interesse di Karel: il rock duro. Egli è pure considerato un “duro”, immagine che accetta: i suoi amici non possono essere fifoni, afferma... Quanto ai gusti di Milan per i programmi televisivi, essi sono soprattutto “telefilm, qualche volta... McGyver, poi ho cominciato a guardare Melrose Place un anno fa”. Le sue preferenze si dividono più o meno equamente tra quelli di azione e avventura (McGyver) e lo stile pop degli adolescenti (Melrose Place); saperne i nomi mostra l'attivo e profondo coinvolgimento in quel tipo di cultura pop. Milan ricorda i nomi di “Robin Williams o Schwarzenegger o Sylvester Stallone, poi quello che mette in scena Mr. Bean, poi...”. Infine confessa di aver desiderato di fare l'attore: “Sì, sì, era il mio sogno da quando ero il piccolino di casa, ma ora... no, non più”. Milan è considerato un “bel ragazzo, ed è l'unico idolo del cuore delle ragazze: è una specie di “sex symbol” e ha qualcosa che si potrebbe definire come un talento per il “sex appeal”. Numero 1 dei “bulletti”, gli piace provocare i ragazzi e le ragazze e stare sempre in primo piano. Quanto alla musica, Milan racconta che “quando ero più piccolo mi piaceva una che non era così famosa — la Roxette, poi mi sono interessato ai Back Street Boys per un po’ di tempo,
poi... qualche volta le Spice Girls. ... guardo i “Top of the Pops” alla televisione ogni domenica”. Quando gli si domanda quali riviste legga, risponde che i suoi genitori “per lo più... mi comprano
Bravo”. Ogni gruppo
qui nominato
appartiene
alla
categoria pop dell'adolescenza: Milan ne conosce i nomi, guarda il più importante spettacolo televisivo ceco sui “top ten” della disco music, legge le principali riviste pop, come (alcune) ragazze. Forse grazie a questo, per (alcune) di loro egli corrisponde all'immagine di “ragazzo” imposta da quelle riviste, o quanto meno lo è per quel gruppo che le legge e in una certa
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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misura è complementare ai “bulletti”. Tuttavia rimane l’idolo universale femminile. Leo è un “fan” di Michael Jackson e ciò puo indicare un gusto personale o un segno della grande popolarità di questa “star” tra gli zingari cechi. Indipendentemente dalla ragione vera di tale identificazione, le sue parole ci dicono del gioco di identificazione tra un individuo e la cultura pop degli adolescenti. A questo livello, Leo è come gli altri “bulletti”, ma la profondità di questa sua identificazione è molto più estesa, come risulta quando afferma “Mi piace Michael, il cantante... il modo in cui balla e canta. (Ho) soltanto le sue cassette”. Poi aggiunge che l’unico libro che ha letto è “il libro di Michael” e sottolinea che gli piace particolarmente indossare “il suo cappello” (di Jackson). Il che ci permette di concludere che Leo è il solo e vero “fan” in questa classe. 6.2.2. Gli “igienisti” Radek dice: “talvolta rido per il modo strambo in cui si vestono le persone... tacchi alti o... capelli colorati... blue jeans strappati”. A Radek non piace proprio che qualcuno “esageri” nel modo di vestirsi e specialmente non gli va quella “moda dell'adolescente sexy” (ripresa dalle foto nelle riviste), così apprezzata dalle ragazze, e che corrisponde ai “bulletti". Non che : Radek si opponga alla cultura pop, ma il suo approccio è differente. Ammette che gli piaceva ascoltare “talvolta Elton John o... Chris Rea... o Jean Michel Jarre”. Potremmo descrivere i suoi gusti musicali come pop “alto”. Questo pop non è il solo prodotto da hit creato dalle riviste e dalla televisione, ma è invece un pop per adulti. Possiamo vedere l'influenza del padre su Radek e cioè che le preferenze musicali del ragazzo riflettono di più la comunicazione con suo padre che con i suoi coetanei, perché Radek non ascolta la musica come fanno le ragazze ma come fa suo padre. Kamil si situa sul versante opposto dei “bulletti” o di Radek, quanto al pop. Egli è devoto agli Smurfs,” al duo ceco Ufilire Sverak (compositori e cantanti di canzoni per bambini) e a Donald Duck: insomma è decisamente orientato verso il pop per
? La musica dai film degli Smurfs non è quella originale, ma le versioni “cover” ceche o nuove canzoni sugli Smurfs.
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bambini. Donald Duck è il suo preferito “perché è un fumetto... e sempre... finisce sempre bene”. Alla tv guarda “alcune fiabe... alcuni film... non saprei... alcuni... non mi ricordo”. Il fatto che Kamil non si ricordasse nessun nome d'attore o di cantante durante l'intervista indica che non possiamo parlare di un qualche speciale contatto o coinvolgimento profondo con la cultura pop. Non ha molte cose di cui chiacchierare con i “fan” dei telefilm per adolescenti dove la conoscenza dei nomi delle star è molto importante. Cestmir racconta: Guardo Star Trek, prima guardavo le Nuove avventure di Sinbad... Dipende dall'azione... mi piacciono le armi e semplicemente... guardo Star Trek perché hanno i missili al plutonio e le pistole al laser. La Voyager, questa è la navetta che è scomparsa dal quadrante alfa, voglio dire, la terra è nel quadrante alfa e sono finiti nel quadrante delta... ho scritto una breve storia su questo a scuola.
Anche agli “igienisti” piacciono i film d'azione o d'avventura. La differenza tra loro e i “bulletti” consiste nella conoscenza dei veri nomi delle star. L'approccio alle armi e al potere è pure differente: Karel ammira il potere/forza ma non si cura dei dettagli. Al contrario Cestmir si concentra sui dettagli tecnici: conosce i nomi esatti di tutta questi prodotti “spazzatura”, allo stesso modo in cui i “bulletti” conoscono i nomi di tutti i gruppi pop. Il personaggio di Tom Preis di Star Trek è il suo preferito, non nel senso di una star che si ama “personalmente”, ma perché “va oltre la velocità di dieci. Il che significa che può essere ovunque nell'universo allo stesso tempo”. Egli è affascinato dalle particolarità tecniche, non diversamente dai primi scrittori di fantascienza. Dettagli, nessun eroe morale o immorale o soltanto forte, ma le particolarità tecniche, la potenza tecnica: Cestmir.
Tutto
questi sono quanto
gli elementi
passa
in secondo
cruciali che eccitano piano,
compresa
la
musica. 6.2.3. Le “giovani marmotte”
Svatopluk preferisce il telefilm McGyver, “perché è capace di controllare ogni situazione, può uscire da qualsiasi trappola”. Penso che non potrebbe esserci niente di più appropriato come pop delle “giovani marmotte” che quel telefilm. Il personaggio
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centrale dell'agente McGyver non usa pistole, armi, o mossa di karate ma è sempre in grado di sconfiggere i nemici usando solamente la sua mente sottile e le sue abili mani. Una scena tipica: egli vince i superpotenti forniti di una caterva di armi grazie a un pezzo di fil di ferro e a un vecchio copertone. Però i classici non sono morti: a Svatopluk piace leggere Verne e Defoe. Senza pensare di fare un affronto ai classici, dobbiamo riconoscere che Robinson Crusoe e l'agente McGyver hanno alcuni punti in comune. Riguardo alla musica, Svatopluk rappresenta un caso particolare, differente dagli altri, e alquanto confuso. Svatopluk: Olympic, Elan? e poi... mi piacciono questi americani,
questi indiani... R.: Quali indiani? Svatopluk: Che ne so, forse gli Scorpio? R.: E che cosa ti piace degli Olympic? Svatopluk: Le canzoni, che sono così buffe. Mi piace il rock metallico, i Pumpa.
Le sue preferenze musicali sono completamente atipiche. In modo un po’ iperbolico potremmo descrivere Svatopluk come un rocker! Il che sarebbe difficile da collegare con il soprannome di “giovane marmotta” che ho scelto per lui, anche se si potrebbe trovare un compromesso linguistico che coglie meglio la sua specificità — non soltanto dal punto di vista musicale — e cioè la “marmotta metallara”. Per Borivoj “assolutamente
niente musica”.
Forse questo è
dovuto al fatto che non c'è una banda di animali (vedi sotto). La musica non gioca nessun ruolo nella sua vita e nella sua identità. Borivoj: Nel programma “Nella vecchia fattoria" (un programma televisivo per bambini) ho guardato gli orsi volanti... Lo guardavo sempre di lunedì. R.: E libri?
Borivoj: Eccome no, Winnie the Pooh! R.: Allora ti piace? E perché? Borivoj: Perché è un po’... un po' tonto. R.: E ti fa divertire? Borivoj: Altroché. 8 Si tratta di vecchi gruppi rock slovacchi e cechi.
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Con Borivoj non possiamo realmente parlare di “moda” alla Bravo. I suoi eroi preferiti potrebbero essere definiti come “teneri cuccioletti”. Diversamente da Svatopluk che gravita verso i “bulletti”, egli, nel ruolo di “piccolo scienziato”, gravita verso l'ideologia dell’ABC propria degli “igienisti”.
6.3. La febbre del gioco
6.3.1. 1 “bulletti”. Un'altra cosa che caratterizza i “bulletti” è l'accettazione del discorso della “febbre del gioco”. Per “febbre del gioco”, intendo un gioco che si diffonde rapidamente diventando di forte tendenza per un certo tempo e che poi muore velocemente; all’epoca, si trattava dell'angelo tamagoci e ancor prima del gioco della “pulce”. Karel ammette di aver giocato con tutti quei giochi sebbene talvolta si annoiasse, ma il “bulletto” deve essere “in”, deve essere alla moda, accettare un gioco, cercare di diventare il re del gioco che infuria in quel momento. Anche Milan confessa di aver giocato tutti quei giochi: “(ho giocato alla ‘pulce’) non ci giochiamo più. Continua a cambiare. Talvolta carte da hockey poi... non saprei... far saltare le ‘pulci’’. Milan è profondamente coinvolto nella moda e nella febbre dei giochi: si diverte e può avere successo. Ha “avuto” tutte le “febbri” che ci sono state a scuola, perché chiunque voglia essere “in” deve farsi coinvolgere. Un gioco viene e va, e uno deve accettarlo e lasciarlo senza problemi, una volta che ha fatto il suo tempo. I “bulletti” accettano tale modello.
6.3.2. Gli “igienisti” e le “giovani marmotte” Nessuno di questi gruppi è coinvolto nella “febbre del gioco” nella misura in cui i “bulletti” vi si fanno coinvolgere. Qualcuno non ha neanche i mezzi per comperare i giochi di moda, oppure ha i genitori che glieli proibiscono, come quelli di Kamil, i quali forse cercano di evitare che cada nella trappola della “febbre del gioco”. E qualcuno dei ragazzini vi si oppone, come per esempio Borivoj. Egli non condivide il principio della febbre del gioco, e lo ignora, come si fa con qualcosa di barboso. La sua posizione è piuttosto quella di chi si tira fuori, di un “osservatore”. Si avvicina a molti aspetti della vita di classe allo stesso modo. La sua posizione generale tra i bambini è in
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qualche modo quella di un individuo indipendente: può accettare praticamente chiunque e conseguentemente è a sua volta
accettato da tutti. Tuttavia, permane una piccola distanza e perciò egli si dimostra il migliore osservatore nativo tra tutti i ragazzi. 6.4. L'ideologia dell’ABC
Il termine “ideologia dell’ABC” deriva dal nome del periodico ceco ABC dei giovani ingegneri e scienziati in cui si parla di costruzione di modelli, di radio amatori, di natura, geologia, biologia e così via. Questo periodico costituisce uno “stile” informale che è l'opposto di quelli propagandati da riviste come Bravo, Popcorn e altri, perché non è formalizzato e non ha un nome comune. Ma vi è una coerenza o contesto di “interessi cognitivi” che riguardano i gadget, il design, la costruzione di modelli, la natura, la tecnica. Questa ideologia è comune sia agli “igienisti” sia alle “giovani marmotte”, e li divide dai “bulletti”. 6.4.1. Gli “igienisti”
Mentre non c'è alcuna attività del tipo sopra descritto tra i “bulletti”, ogni “igienista” fa qualcosa che si potrebbe definire un hobby. Interrogato a questo proposito, Radek dice: “bè, costruisco qualcosa con la carta o con il Lego... Il Lego, i modellini di carta, la bicicletta”. Ecco l’ABC dei giovani ingegneri e scienziati. Kamil così descrive le sue attività nel tempo libero: “di martedì, dopo la scuola, vado a lezione di disegno e ho le lezioni di piano... Il mercoledì ho di nuovo la lezione di canto... e il giovedì e il venerdì sono libero... allora... ehm, gioco o scrivo qualcosa... Libri, per esempio... Quando vedo un fumetto divertente, ne scrivo”. Kamil non è uno “sportivo”, come
notava
già Radek. La classe talvolta lo chiama lo “scrittore”. In ogni caso vediamo gli sforzi dei genitori che, per avere un figlio ben educato, usano tutti i mezzi della “educazione e della cultura d'élite”. Quando Cestmir parla del suo libro preferito, L'isola misteriosa, e del personaggio più amato, egli spiega la sua ammirazione così: “è perché ha inventato ogni cosa e io ho costruito una
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piccola pila secondo le sue istruzioni. Ed è stato capace di fare formaggio e cagliate, burro e pane. Così, il formaggio viene dalla cagliata — si fa se la si mette dentro un piatto e la si lascia asciugare al sole... e poi la si riscalda un poco. E il formaggio è fatto”. Cestmir si considera un futuro inventore di gadget, una tendenza, questa, che è alquanto elaborata e praticata, e che si radica in attività quali l'adorazione della fantascienza e della “tecnologia pop”. Progetta di diventare professore o inventore di gadget. Il suo interesse principale sarebbe “la geologia o qualcosa di simile”. È ugualmente da rilevare il concetto molto chiaro di scienza che egli desidera apprendere e insegnare. L'identificazione con il professore sposta più vicino alla realtà il personaggio fantastico dell'inventore di gadget. 6.4.2. Le “giovani marmotte” Svatopluk spiega che insieme a Borivoj hanno un “rifugio” su una vicina collina, dove il più delle volte vanno per parlare, fantasticare e leggere “le riviste preferite”. Che fanno soprattut-
to riferimento all'ideologia dell'ABC, cui tendono anche le “giovani marmotte” in opposizione allo stile di Bravo. L'ideologia dell’ABC qui non ha nulla di formale o di ufficiale: si tratta di un contesto non precisamente definito [fuzzy] che include gli “interessi cognitivi”, il modellismo, le costruzioni, i gadget, gli interessi per la tecnica e per la natura e che è asessuata, poiché ne sono escluse la pubertà e la differenza di genere. Oltre al suo amore per i cuccioli e per gli animali dei cartoni animati o delle fiabe, Borivoj tende anche verso lo “scientismo”. Il libro più amato, al tempo dell'intervista, era “sulla natura. Il titolo è Lo scienziato dilettante”. 6.5. La paghetta Ho ritenuto molto importante conoscere quale tipo di paghetta ricevessero i ragazzi e come la usassero. Ci sono tre tipi
di paghetta, in questa quarta elementare: 1) rendita: il figlio riceve una regolare paghetta ogni settimana od ogni mese (o secondo un altro tipo d'intervallo), indipendentemente dalle circostanze;
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2) salario: il figlio viene pagato a seconda dei voti (cioè in relazione al suo successo scolastico) oppure, sporadicamente, per altri meriti (aiuto in casa ecc.); 3) donazione: il figlio riceve denaro in modo casuale, come il resto della spesa (le monete che rimangono nella borsa della spesa), per esempio, o regali occasionali, e piccoli contributi per dolci o merendine.
6.5.1. 1 “bulletti” Karel riceve la paghetta “periodicamente... circa ogni settimana. All'incirca 50 o 60 [corone]”. Si tratta dunque del tipo “rendita”. Non è proprio il tipo puro, perché l'ammontare non è mai lo stesso e una parte viene dalla madre, e l'altra dal padre. Tuttavia, la periodicità e l'indipendenza dai voti indicano che si tratta proprio di “rendita”. Nel caso di Milan si tratta invece di un buon esempio del tipo “donazione”, come risulta dal suo racconto: Sì, quando per esempio, quando andiamo al supermercato mettiamo cinque corone nel carrello e quando abbiamo finito io ritiro il denaro e loro me lo lasciano. Oppure mi danno dieci corone ogni giorno per comperare qualcosa da bere e io le risparmio. Oppure quando rimane qualcosa in più, i miei genitori me lo danno.
Leo riceve “cento corone al mese”. Quando gli si domanda se li risparmia o se li spende, dichiara apertamente che “li ha spesi tutti... in dolci...”. Anche la sua paghetta è del tipo “rendita”. Da notare la dichiarazione di spendere senza rimorsi verso il risparmio. 6.5.2. Gli “igienisti” Radek afferma che riceve la sua paghetta in relazione ai voti. Risparmia i soldi, ma non ci fa troppa attenzione. Non sa con esattezza per che cosa li mette da parte — “forse un walkman” —, ma non c'è niente di preciso. La paghetta corrisponde al tipo “salario”: il ragazzino è pagato in quanto va be‘ne a scuola e si comporta correttamente. Nel suo caso la paghetta non è collegata a una particolare passione (vedi sotto) e non è neppure (spreco).
dichiarata
come
risparmio o spesa esplicita
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Kamil ammette di non ricevere alcuna paghetta. Semplicemente, “a volte quando vado al supermercato per il pane, la mamma mi dà dei soldi”. Kamil riceve la paghetta come se fosse “donazione” e non ha niente a che fare con i voti. Le sue paghette sono molto più limitate di quelle che riceve Milan dei “bulletti”. Non solo, ma essa è intrecciata con il tipo “salario”, sebbene egli la riceva per il comportamento che tiene in casa, e, inoltre, quando dà una mano a pulire. Afferma di risparmiare per le auto di cui è appassionato ma, poiché non può contare su alcun “reddito” periodico, l’attività di risparmio deve essere guidata da una qualche forma di disciplina. Cestmir:
Mi danno dieci corone
come
paghetta e poi mi danno
dei soldi per i voti buoni. R.: Dieci corone a settimana?
Cestmir: Sì. Me li danno sempre di domenica. Per il primo voto mi danno otto corone, per il secondo quattro, il terzo non mi danno niente, e al quarto devo restituire quattro corone, e al quinto restitui-
sco otto corone. ... O mi danno di più o di meno. O niente quando è cinquanta/cinquanta. Quando porto a casa il quinto e il primo voto buoni, non mi danno niente.
Questi pagamenti molto chiaramente elaborati spostano ulteriormente Cestmir dal suo desiderio per il “Lego” [vedi più avanti] verso una concezione davvero precisa di successo scolastico come lavoro. Oltre a questo tipo di “rendita” davvero fondamentale, su cui non fa conto, egli riceve una paghetta tipo “salario” che appunto considera come un vero e proprio salario. Cestmir: Talvolta quando qualcosa mi annoia la vendo in modo da comperare quello che mi interessa in quel momento. La vendo... Agli amici che ho nella classe... A Svatopluk, Radek ha comperato qualcosa... Ivan. R.: E quanto ai prezzi? Cestmir: Per esempio, ho venduto il dragone per cinque corone... piccole armi per pochi centesimi... o le armi più grandi, o per esempio il martello pneumatico lo vendo per una corona. R.: Ma quanto costa quando è nuovo?
Cestmir: Bè, il modello che ho comprato da Aquazone, il più economico parte da 366 corone.
Quello che Cestmir non vuole più non viene distrutto o dimenticato ma s'incarna in una promessa di nuovi piaceri.
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Cestmir l'ha elaborata meglio di tutti gli altri ragazzi: sebbene questi ultimi parlino di risparmiare, soltanto Cestmir ha strutturato l'economia del piacere grazie alle economie sulla paghetta, che sono pesantemente determinate dai buoni risultati scolastici e dal profitto che fa dal suo piccolo giro di affari con il “Lego”. Sebbene tutti i ragazzi abbiano un hobby, soltanto alcuni di loro hanno qualcosa che assomiglia a una vera passione. Parlo di passione quando l’hobby comincia a costare (abbastanza) soldi e il ragazzo deve cominciare a fare economie sulla paghetta per poter soddisfare il proprio entusiasmo. La categoria della passione è strettamente connessa a quelle della paghetta e dell'economia del piacere. Cestmir e Kamil sono due casi di passione relativamente sviluppata. Cestmir ha elaborato la sua passione per il Lego in un profondo collezionismo caratterizzato da vere e proprie procedure di scambio. Kamil, che è tutto preso dalle sue macchinine, deve risparmiare e fare economie perché non riceve una paghetta regolare. Tuttavia non scambia le macchinine, così ritengo di poter dire che la sua passione non è del tutto sviluppata. 6.5.3. Le “giovani marmotte” Svatopluk riceve “cinquanta corone alla settimana”: una pa-
ghetta tipo “rendita”. Dice di comperare “alcune riviste” o “che ne so, compro qualcosa... per la colazione o simili”. Non ha ‘alcuna passione, non fa economie e spende il denaro per .quello che desidera in un particolare momento. '. Borivo] riceve la paghetta del tipo “rendita”: “venticinque ‘corone la settimana”. Ne spende una parte e mette via qualcoisa come succede con la maggior parte di questi ragazzini, ma non sa perché risparmia, lo fa e basta, non avendo assolutamente il tipo d'autodisciplina che ha Cestmir. 6.6. Le relazioni di gruppo
6.6.1. Le relazioni interne al gruppo dei “bulletti” Nonostante Karel sia orientato verso il movimento degli skinhead, uno dei suoi più cari amici in classe è Leo, uno zingaro. Karel non è propriamente razzista, dato che il suo atteggiamento indica un’avversione sociale piuttosto che razziale. E
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Leo è “ok” in termini d'accettabilità sociale. La posizione di Leo è tuttavia eccezionale, in quanto egli ha fatto in modo di non essere visto come zingaro. Karel, lo skinhead, lo accetta più degli altri; d'altro canto, egli può parlare e giocare con chiunIS
que e a nessuno gliene importa niente se è uno zingaro, come
dimostra questo brano dell'intervista. Karel: ... Milan e Leo... noi ci capiamo. Quando, per esempio, Leo gioca con qualcuno e io sopraggiungo, posso anche unirmi al gioco. Non è che mi dice: vaffanc...! Mi accetta. R.: Ma Leo è anche uno zingaro. Questo ti fa problema?
Karel: No. È uno zingaro ma non mi fa problema. È bravo, se ne sta per conto suo, non si mischia con quegli zingari, che... se ne sta
per conto suo.
Una delle caratteristiche prominenti dei “bulletti” è la provocazione e il rischio. L'idea principale è che il divertimento deve continuare e più alta è la scommessa più grande è il divertimento, perfino quando mettono nei guai se stessi o altri. Il divertimento sta tutto qui: essere duri e affrontare il rischio. Leo è l'eroe di molte situazioni “al limite” e nel racconto che segue egli dimostra che “bulletto” tosto possa essere: Leo si sta dipingendo baffi e barba sul viso, Milan gli fa le sopracciglia ancora più grandi, e un paio di occhiali. Leo: Basta, basta, insomma — è abbastanza! (ride) Ah, ah, ah! Milan: Ehi, guardate ragazzi. Leo ha gli occhiali! Leo corre al lavandino per lavarsi. Ritorna e chiede: Va bene? Milan: Eccome no! Grandioso! Radek: Hai la faccia tutta sporca. Sopraggiunge
l'insegnante:
“Ehi, voi
ragazzi
lì in piedi, venite
qui!”. Leo, ancora con la faccia bagnata, ride: “Cinque sul registro!” Strascinano
i piedi, mentre
ritornano con
le facce tristi, discutendo
della punizione. Soltanto Leo continua a ridere istericamente.
L'amicizia è qualcosa di difficile da definire, qualcosa che ha tipicamente molto in comune con il piacersi, con il capriccio, con l'instabilità. Non ha un eccessivo contenuto morale. Per Milan, l'amicizia è più probabilmente il flusso di divertimento e di comunicazione che una relazione basata su princìpi morali.
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R.: Hmm. Allora hai degli amici che dicono le bugie. Milan: Eccome no! R.: Allora hanno qualcosa di buono che sono tuoi amici? Milan: Bè, è che... R.: Cioè?
Milan: Fai delle strane domande! R.: Sì, queste domande sono difficili. Milan: Ehm... che parliamo insieme... R.: Ok, ma tu puoi parlare con chiunque. Milan: Eccome! R.: Allora, perché parli con le persone con cui parli? 3 Milan: Bè, non mi fa nessun problema che a volte dicano delle ugie. R.: Ok, ma deve esserci qualcosa di buono in loro, ci deve essere qualche ragione perché tu parli con loro... Milan: Non lo so. Per esempio, raccontiamo balle alle ragazze e così via... Quella Silvia è la ragazza “Sumo”? o qualcosa del genere...
6.6.2. Le relazioni interne agli “igienisti” La “rispettabilità” nutre le relazioni tra gli “igienisti” (così come lo fanno il “flusso del divertimento” e il rischio per i “bulletti”). Radek apprezza la famiglia molto ambiziosa di Kamil, i buoni risultati scolastici di questi. Qui non c'è nessuna minaccia, si tratta di una “zona igienicamente buona”. Per la prima volta i buoni risultati scolastici sono usati come criterio di amicizia. In ogni caso, Kamil è rispettabile ma non è uno sportivo, il “correre all'aria aperta” con lui non funziona. Radek: Kamil, per esempio. È di una così rispettabile... così rispettabile... così rispettabile famiglia, e va bene a scuola... R.: È questa la ragione per cui siete amici? O ci sono altre ragioni? Radek: Bè, forse questa è la ragione. R.: Hai detto che andate in bici insieme... Radek: Qualche volta, ma raramente. Ci siamo andati ma non è un granché con la bici.
Non c'è una relazione molto calorosa tra gli “igienisti”, dato che molti limiti specifici entrano nella loro comunicazione, ma ciononostante essi si considerano buoni amici. Gli amici di Radek dovrebbero essere intelligenti, modesti, non egoisti, fare bene a scuola e essere disponibili a fare sport. ? È la lotta tradizionale giapponese che viene combattuta da uomini molto corpulenti. Il nomignolo assegnato da Milan alla compagna Silvia evideni temente intende indicare le dimensioni della ragazza [N.d.T.).
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Radek (a proposito di Cestmir): Siamo amici... qualche volta, sì. Qualche volta ma non troppo. R.: E quando lo siete e quando no? Radek: Qualche volta lui è... talmente più intelligente, il suo cervello lavora in maniera più sottile a scuola, e talvolta è come... ritardato, tipo zuccone... Per esempio, dice che... la città di Tabor era a nord di Praga... in quel momento è... un tantino strambo e poi dice che... sì? Il successo scolastico è un punto cruciale per un “igienista”
quando deve decidere se qualcuno è accettabile
o meno.
R.: Allora, non parli a quelli lì? Radek: Bè, è che vanno male a scuola... e allora io non gli parlo.
Gli “igienisti” sembrano essere quelli maggiormente influenzati dai genitori e dalla scuola, quando gestiscono le loro relazioni con altri ragazzi. Kamil dice che il criterio dell'amicizia per lui è stato “principalmente la virtù”. Essi si conoscevano da tanto tempo e perciò sono così buoni amici. Non sarebbe giusto vedere questi ragazzini come “asserviti”
alla famiglia o alla scuola; al contrario, essi hanno il loro mondo con i loro modi di comunicazione e, naturalmente, anche di divertimento. Che però sono differenti da quelli “bollenti” dei “bulletti”. Gli “igienisti” amano sedere ai loro banchi, raccontarsi barzellette, di contro al “flusso di divertimento” dei “bulletti”, e sono spesso definiti come “pagliacci”. 6.6.3. Le relazioni interne alle “giovani marmotte” In effetti, le “giovani marmotte” sono due amici che non appartengono né ai “bulletti” né agli “igienisti”. Svatopluk considera Borivoj suo “amico” e anche altri li mettono insieme. Essi sono compagni di classe e amici del pomeriggio ed effettivamente
appartengono
a un gruppo
di “giovani marmotte”.
Svatopluk era arrivato in classe in ritardo e Borivoj lo aveva aiutato in quel momento ed "è capace d'aiutare” quando è necessario. La loro relazione ha perciò uno sfondo sia morale sia di divertimento. La caratteristica principale è che un amico è qualcuno che può ed è contento di condividere il tempo libero, le attività e il divertimento con qualcun altro.
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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6.6.4. Le relazioni tra “bulletti” e “igienisti” Karel non ha buone parole per gli “igienisti” e non fa molte alleanze con loro, ma tende piuttosto a ignorarli. Da alcuni suoi commenti saremmo tentati di concludere che li considera con un po' di disprezzo. Inoltre, la sua avversione verso l'essere “viziati” ci dice qualcosa di lui come pure del suo atteggiamento nei confronti degli “igienisti”, in particolare di Kamil. Karel: Kamil può farmi innervosire, per esempio. E lo fa quando comincia la lezione, per esempio, e dopo io non gli parlo per tutto il giorno... s'impiccia sempre di qualcosa, io sto giocando e lui si met-
te in mezzo, mi blocca... stiamo mandando qualcosa e... R.: Forse anche lui vuole giocare e usa questo ... Karel: No, qui tutti lo conoscono e a nessuno gli piace molto, ma lui continua a far pressione ... R.: E perché non piace a nessuno?
Karel: È che è così... viziato. Non ho scritto nessuna annotazione che situi Milan più vicino a qualcuno degli “igienisti”: egli afferma di essere loro amico, a volte, e in una certa misura. Talvolta compiono alcune ‘ azioni insieme che sono più o meno accettabili agli “igienisti”. Milan è l'incarnazione del pop, e così non è in aperto conflitto con nessuno. Leo è molto simile. La relazione tra “bulletti” e “igienisti” è talvolta caratterizzata dall’ignoranza, talvolta invece dal disprezzo e talaltra da comunicazione normale. In genere, gli “igienisti” sono contrari alle canzonature, alle provocazioni e al modo rischioso di comunicare sia nei confronti dei loro pari sia dell'istituzione scolastica. Essi temono, da un lato, la lotta e il potere fisico di Karel e, dall'altro, l'insuccesso scolastico che sembra possa riguardare con maggiore probabilità i “bulletti”. Cestmir disprezza le pose di Karel. Sebbene possa fare riferimento al modello del pugile incarnato da suo padre, egli si ritrae affermando che è noioso. Le relazioni con Leo o Milan sono venate d'indifferenza quando si si-
tuano al di fuori della modalità comunicativa dei “bulletti”. R.: Ci sono delle persone che non ti piacciono? Con cui non sei amico? Radek: Hmm, Karel. R.. Perché?
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Radek: Continua a prendere in giro e quando vuole qualcosa in prestito fa finta di essere un angelo.
6.6.5. Le relazioni tra “bulletti” e “giovani marmotte” In passato,
Karel
e Borivoj
erano
buoni
amici,
in prima
elementare erano seduti allo stesso banco, poi la loro amicizia si è rotta e ora rappresentano poli quasi antagonistici. Borivo] è un ragazzo minuto, evita quanto più possibile gli scontri, insomma niente cose da “bulletto”, per Karel egli non è abbastanza “non fifone” per essere suo amico. Tuttavia possono ancora comunicare, nonostante la crescente differenza dell'uno rispetto all'altro. Borivoj: Eh sì, Karel in passato, ma ora non così tanto. Non posso dire che siamo amici — lo siamo un poco ma ora quando Svatopluk è arrivato qui ho cominciato a parlare con lui più di frequente. Perché Karel... è talmente differente ora. Prima era un tipo normale, ma ora si dà un bel po' di arie.
Svatopluk è molto vicino ai “bulletti”, tanto che quando incominciai a osservare i ragazzi di questa quarta elementare
pensavo che avrebbe fatto parte di quel gruppo. Egli, Leo e Milan formavano una banda e possono usare un linguaggio simile per parlare di musica, sport o giochi. Borivoj è più vicino agli “igienisti” in quanto non gli piacciono le pose e il codice di comunicazione dei “bulletti”: “sono... non che siano dei “bulletti” terribili, ma talvolta si danno veramente delle arie”. Non si diverte veramente a giocare “giochi... tipo il calcio”, e neppure condivide la “febbre del gioco” per “le figurine dei giocatori di hockey”. 6.6.6. Le relazioni tra “igienisti” e “giovani marmotte” Kamil e Borivoj sono molto vicini: nessuno
dei due è uno “sportivo”, ambedue amano la musica pop per ragazzi. Come “giovane marmotta” Svatopluk tende verso i “bulletti”, mentre Borivoj tende verso gli “igienisti”, una tendenza a passare da un gruppo (i “bulletti”) all'altro (gli “igienisti”) senza farsi particolari problemi che sembra tipica delle “giovani marmotte”. Essi possono comunicare con facilità perché condividono una parte dell'ideologia dell’ABC, soprattutto Borivoj.
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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7. Conclusioni (prima parte) 7.1.1 “bulletti”
“Bulletti” sono il “macellaio” Karel, Milan il “bello” e Leo il “ballerino”: sono tutti orientati verso il “pop alla Bravo”, sono tutti giocatori che partecipano attivamente nella febbre del gioco, e, ancora, fanno tutti degli sport o vogliono farne di più su base competitiva. Nella categoria “amici del pomeriggio” tutti loro di solito hanno amici al di fuori dei compagni di classe. Il loro modo di comunicazione è caratterizzato dal rischio, dalla provocazione e dal divertimento, anche se ciò comporta la conseguenza di una qualche perdita della “reputazione scolastica”. Questo tipo di comunicazione
non si
focalizza soltanto su di loro, ma ha un effetto anche sui compagni. | ragazzi affrontano il “compito” di dimostrare che sono dei “duri” oltre che dei “bulletti”, mentre le ragazze sono “tentate” da queste azioni. Milan è considerato il ragazzo più attraente ed è per loro un vero e proprio idolo. La paghetta di due “bulletti” è del tipo “rendita”, mentre il terzo riceve quella tipo “donazione”. Non c'è nessun sforzo di risparmiare. Hanno relazioni molto “fredde” con gli “igienisti”, mentre sono invece abbastanza intimi con le “giovani marmotte”. Se dovessi trovare uno slogan per loro, sarebbe “amicizia che condivide il flusso di un divertimento eccitante”. 7.2. Gli “igienisti” Gli “igienisti” sono lo “sportivo” Radek, lo “scrittore” Kamil,
l'inventore di gadget” Cestmir. Tendono tutti ad avere gli amici del pomeriggio tra i compagni di classe. Partecipano alla febbre del gioco soltanto limitatamente e non ne sono mai stati i capi. Condividono tutti l'ideologia dell’ABC, tendono al pop per ragazzi e al pop tecnico
(musica
da Star Trek, come
i
film). La “decenza” è il modo di comunicazione che apprezzano (di contro alla provocazione dei “bulletti”). Un po' di divertimento è accettabile, ma non può essere “duro” o violento. Dichiarano esplicitamente la propria avversione per la “forza” (l'essere “violenti”), per il darsi le arie e per la presa in giro. Essi rispettano il successo scolastico e lo usano come criterio di
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amicizia, mentre la loro relazione con le ragazze può essere descritta come di “ignoranza”. Tutti loro (due interamente e uno parzialmente) avevano una paghetta del tipo “salario” e due facevano economia perché sono degli appassionati hobbisti — uno colleziona il Lego, l’altro le macchinine. Se dovessi inventare uno slogan per questi ragazzi, questo sarebbe “amicizia per la valutazione scolastica”. 7.3. Le “giovani marmotte”
Le “giovani marmotte” sono la “marmotta metallara” Svatopluk e lo “zoologo” Borivoj che sono stati membri di un gruppo di “giovani marmotte”, il che includeva le loro amicizie a scuola e fuori della scuola. Essi non condividevano nessuna ulteriore ideologia (l'ideologia “giovani marmotte” non è così densa come quella dell’ABC; essi la consideravano piuttosto come
una semplice attività, viaggiare, fare passeggiate senza
conseguenze di tipo morale). Uno di loro è affascinato dagli animali, il secondo dall’heavy metal, verso cui gravita, l'altro preferisce il pop per ragazzi. Uno si faceva spesso prendere dalla “febbre del gioco”, l'altro non la prendeva neppure in considerazione. Ambedue avevano una paghetta tipo “rendita” e nessuno dei due faceva economie. Il loro modo di comunicazione potrebbe essere descritto come “flusso di divertimento non impegnativo”. Questo flusso scorreva intorno a loro senza incontrare ostacoli, come se ci fossero solo loro o altri ragazzi O ragazze, accettati sia dagli “igienisti” che dai “bulletti”. Se dovessi trovare uno slogan per loro, sarebbe “non prendertela”.
8. Lo “spazzino” e l'esclusione
Finora le mie descrizioni si riferivano al termine “amicizia” e sembrava che non vi fosse alcuna barriera di rilievo. Sì, in effetti ci sono differenze, ma quasi ogni tipo di combinazione è possibile. Sono stato in grado d'individuare tre gruppi dalle caratteristiche sfumate, ma alla fine chiunque sarebbe d'accordo che uno qualunque di questi ragazzi potrebbe essere amico di qualsiasi altro. Sembra che il termine “amicizia” in questa classe non includa nessuna forma più distinta di vita sociale.
8. Amicizia e igiene: uno sguardo nella vita di tre gruppi di ragazzi
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Naturalmente c'è anche un diverso approccio al problema dell'amicizia: invece di cercarne il contenuto, guardare ciò che ne viene escluso. Potremmo trovare una qualche soluzione esplorando la contraddizione tra l'amicizia, l'avversione e la figura dello “spazzino”. Abbiamo potuto notare il nome Ivan in parecchie frasi delle interviste, ma non l'ho inserito in nessuno dei gruppi poiché è un personaggio estremo, delineato per aiutarci a definire in negativo l'amicizia in classe attraverso l'avversione. Borivoj: ... Soltanto che Ivan è un po' spintonato...
R.: E sai perché? È arrivato adesso?
Hial Borivoj: Sì... Lui, per esempio, si dimentica le cose che gli servono a scuola, ma questa non è la cosa più importante... E ha ancora dei fogli nel banco... si dimentica le pantofole e... Svatopluk: Ivan? Non molti ragazzi gli sono amici perché pensano che sia un po' zoticone. R.: E anche tu lo pensi? Svatopluk: Sì, qualche volta. Cestmir: Perché è uno zozzone. Non si mette le pantofole — eppure ce le ha — va in calzini perfino al bagno, perfino nelle cantine... e altre cose. R.: Che cose? Cestmir: Sputa fuori dalla finestra. Sputa i noccioli delle ciliegie sulla testa dei bambini. Kamil: Perché... lui sporca... semina cartacce ovunque. R.: E invece tu pensi di non farlo? Kamil: No che non lo faccio. Radek: (Ivan) a volte è così strano... e a volte del tutto normale. R.: Che cosa vuoi dire con “strano”? Radek: Perché fa un sacco di piccole cose sceme. Per esempio, decidiamo di giocare e Karel dice (e noi siamo tutti d'accordo): qui mettiamo
la linea. E Ivan: ma
nemmeno
per sogno, è troppo vicina.
Oppure dice: dovrebbe essere in un altro punto. E Karel dice: No, starà qui, è ok. E Ivan tutto d'un colpo: non è che mi devi dare una lavata di capo! Milan: lo e forse altri cinque ragazzi... non siamo suoi amici. Per esempio Karel, e Leo, e poi ehm, ehm, ehm, non sono sicuro... Svatopluk... poi... Kamil. Noi pensiamo che sia, se guardi dentro al suo banco, c'è un gran casino lì dentro. O guardalo, non ha niente addosso che sia presentabile...
R.:.È una cosa negativa? Milan: Ehm, io potrei tenergli la mano, ma un ragazzo ha detto che... io non gli tengo più la mano perché quel ragazzo ha detto che
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ha questa malattia della pelle che sembra come una muffa o che so io, non so di che si tratta. R.: Ma non è malato! Milan: Lo so ma... è perché dicono che è un sudicione. E l'insegnante una volta ha detto che se l’è procurato... che nessuno vuole essergli amico. E talvolta prende in giro anche me. R.: In che modo? Milan: Una volta eravamo a ginnastica e mi ha detto... mi ha pizzicato e mi ha detto che aveva avuto la pelle come “bruciata”. Karel: Ivan, non posso sopportare le sue urla, urla come un babbuino, come una donna e gestisce ogni cosa con i pugni... è strano.
9. Temi relativi all'avversione 9.1. L'igiene del corpo, dei vestiti, delle mani e della bocca Quanto strana appare la retorica dell'igiene espressa da co-
SÌ tante parti e con un tale consenso! Improvvisamente tutti i ragazzi sono terribilmente puliti, ogni tipo di sporcizia li esaspera moltissimo, e sono ossessionati dalla purezza. Non è facile interpretare la situazione, ma penso che possa essere un'estensione del successivo, già irrazionale, motivo. 9.2. Successo scolastico e futuro
Tutti sembrano pensare che Ivan li minacci — per così dire metaforicamente e tagliando per la via più rapida — di sporcare il loro futuro pulito. Abbiamo avuto l'opportunità di notare il legame tra amicizia e successo scolastico tra gli “igienisti”. Kamil: Tu parli con Ivan? Karolina: Non capisco perché lo detestate. Conosceva mia nonna.
Radek: Sai che cosa è ripugnante di Ivan? Che parla con te. (ride) Sai... ha scavato vecchi chiodi di sotto il container... è un orribile maiale. Karolina: E sapete che fine farete? Voi farete gli spazzini!
Hanno orrore di Ivan, che considerano come metonimia di una carriera sporca, di un futuro sporco. Il discorso dell'igiene in questo senso indica avere successo a scuola, non essere sporchi, malati, vittime, e avere un futuro aperto.
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9.3. Malattie e ferite
La situazione è tale per cui i ragazzi accusano Ivan di malattie del tutto fittizie, parlano di ferite quando spiegano la sua sporcizia. Essi hanno orrore di quella malattia della pelle che la fa sembrare ammuffita, così come hanno orrore della sua pelle “bruciata”. In realtà, le malattie sono completamente inventate. Milan, l'idolo della classe, è molto spaventato perché tutte queste possibilità potrebbero distruggere la sua immagine, la sua apparenza di cui è così orgoglioso. Egli adotta in questo caso il vocabolario degli “igienisti” e diventa in effetti uno di loro. La paura di Milan nei confronti di Ivan, della sua presunta malattia della pelle, della sua pelle “bruciata”, possono indicare una qualche angoscia narcisistica: l'angoscia relativa alla sua apparenza, che è sicuramente radicata nella sua tendenza a essere piacevole all'occhio. Egli sposta la sua paura dell'invalidità (simile a quella per un futuro sporco) su Ivan che potrebbe infettarlo. 9.4. Comportamento imprevisto Ivan è molto
impacciato
nel suo comportamento
sociale.
|
suoi modi non sono sempre pertinenti e talvolta si comporta
in modo strano. Cerca di raccontare barzellette in situazioni non appropriate, risponde in modo troppo provocatorio e ha un senso dell'umorismo un tantino strano. Così perfino i “bulletti” provocatori sono spaventati da lui e dalle sue barzellette e, di nuovo, diventano “igienisti” quando parlano di Ivan.
Ivan è sottoposto a un giudizio molto negativo. Che cosa getta questi sospetti su di lui? Quali ragioni ha offerto a un approccio degradante nei suoi confronti? È davvero così strano? Sappiamo soltanto che è nuovo della classe, anche se non è stato il solo ad arrivare ma il solo che abbia avuto un'entrata così difficile. Dunque dobbiamo studiarlo allo stesso modo in cui abbiamo studiato gli altri ragazzi in modo da capire la situazione dal suo punto di vista.
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9.5. Gli amici del pomeriggio Anche se Ivan vorrebbe essere amico di Cestmir, Cestmir rifiuta assolutamente. Dà un giudizio alquanto duro di Ivan. Così si tratta di un amore platonico soltanto da una parte. R.: E che cosa ti piace di lui (Cestmir)? Ivan: Lui è... non saprei come spiegarlo... stabile. R.: In che cosa? Ivan: Nell’amicizia.
Ivan è arrivato in questa classe all’inizio dell'anno scolastico. A causa di problemi familiari ha dovuto spostarsi ogni anno. Essendo in quarta elementare, significa che ha cambiato quattro scuole e quattro classi, una per ogni anno. Ivan: Sono bravissimo a tenere un amico nascosto.
R.: Nascosto, come fai? Ivan: Prima di tutto compro i biglietti dell'autobus... e continuo ad andare là. A Libus (un altro quartiere di Praga). R.: Si tratta dell'amico della scuola che hai frequentato prima di venire qui? Ivan: Sì.
9.6. La paghetta Riceve una paghetta del tipo “salario” simile a quella degli “igienisti”, che però non è così strutturata come quella di Cestmir. La sua passione per i gadget non è così forte da spingerlo a fare qualche tipo di economia o di risparmio. Ivan ci ha detto che aveva proprio speso tutto per comprare dei dolci subito dopo aver ricevuto il denaro. 9.7. Moda e musica pop
Dal punto di vista delle preferenze per la cultura pop, appartiene agli “igienisti” o alle “giovani marmotte”. R.: E quanto ai giornaletti? Leggi ... Ivan: Sì... i fumetti con Paperino e il Quartefoil [un vecchio fumetto ceco, molto famoso]. R.: Ascolti musica? Ivan: Gli Smurfs.
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Dobbiamo notare che Ivan è l'unico ragazzo a dichiarare di fare attenzione a come appare, mentre gli altri ragazzi hanno un atteggiamento molto più rilassato. Si prende cura del proprio aspetto, come ha sempre fatto, con l'amara consapevolezza di come gli altri “sparlano” di lui. Da parte mia non ho mai notato che avesse abiti eccessivi. È vero che è sempre un pochino “infagottato”. Non “troppo”, però. L'interessante motto di spirito — qui riportato — sulle “scarpe equipaggiate con una lampadina” condensa i principi della trascuratezza di Ivan (un senso non conforme per le proporzioni) con la moda, la modernità e i gadget (vedi sotto). R.: Tinteressi alla moda, voglio dire, c'è qualcosa che ti piacerebbe indossare, quello che è moderno? Ivan: Sì. R.: E che cosa? Ivan: Ehm, scarpe alla moda. Fai un passo e luccicano. R.: Che...? Ivan: Fai un passo e lampeggiano.
R.: Scarpe con una lampadina?!
9.8. La febbre del gioco Ivan non ignora la febbre del gioco; considera importante avere successo in quel campo e cerca perfino di convincere la ricercatrice di essere uno dei giocatori bravi (ed è probabilmente vero). Questo potrebbe spostarlo vicino ai “bulletti”, ma soltanto per un aspetto non particolarmente importante. Ivan: Sono stato il primo che l'ha portato in classe, l'angelo tamagoci, voglio dire. R.: Gli altri ragazzi ti hanno imitato. Ivan: Altroché! R.: E giocavi alla “pulce”? Ivan: SÌ. R.: Erano tuoi?
Ivan: Ce li ho ancora...
9.9. L'ideologia dell'ABC: gli scienziati
Ivan ammira — non diversamente da Cestmir — gli scienziati e la scienza, o più chiaramente, quelli che sono inventori di gadget poiché ciò che ammira è una sorta di scienza “da fumetto”.
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Questa ammirazione di Ivan riguarda la superficie, l’immagine della scienza in generale. Cestmir è interessato a una materia — la geologia —, non soltanto all'atmosfera scientifica. Ivan: Oh, sììì. Ho fatto un sacco di tentativi, io continuo a inventare cose... ma soltanto pochissime funzionano alla fin fine. R.: Che cosa doveva essere? Ivan:
Ho
per esempio
inventato...
Ok, era piuttosto
semplice,
ehm, un interruttore, una batteria e una lampadina. Bè, mi piacerebbe lavorare come... uno che inventa gadget.
Ivan “fa ricerca” — ma tende a strafare pesantemente. Manca semplicemente del senso delle proporzioni, dell’abilità di valutare le risposte appropriate alla situazione, dello stile, insomma di tutte le cose che formano il linguaggio dell’accettabilità sociale. Conseguentemente, egli fa degli sbagli indipendentemente dalle sue migliori intenzioni. Penso che il suo “scientismo” significhi soltanto un tentativo di avvicinarsi un po' di più a Cestmir.
10. Conclusioni (seconda parte): lo spazzino e l'avversione
Ivan vive in una famiglia “difficile”: i genitori sono divorziati ed egli vive con la madre in una stanza nell'appartamento della nonna. Raramente incontra suo padre e soltanto in alcuni fine settimana dato che vive in un'altra città. Sicuramente, la parte peggiore del problema è stata la sua entrata tardiva in classe, che non ne è stata però la causa determinante.
Per esempio,
se
Leo
si spostasse
tanto
quanto
Ivan sarebbe anche lui in una posizione difficile. Ivan avrebbe problemi quasi dovunque, ma se egli stesse in una classe tutto il tempo, gli altri si abituerebbero a lui. Per Ivan è semplicemente troppo difficoltoso muoversi così spesso. Ivan non ha sviluppato in misura sufficiente tutte quelle
competenze necessarie per la sopravvivenza scolastica, fra le quali il “senso per la presenza” può essere considerato una delle più importanti. Dimenticare che cosa avrà luogo e in quale giorno mostra un profondo disordine che diventa il facile bersaglio di insegnanti e compagni di classe.
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Il nuovo arrivato, Ivan, sta andando dall'insegnante, prendendo a pretesto che non ha tolto il libro dalla cartella, il lunedì. Ma sembra uu ela bella e buona dato che se ne è dimenticato anche lo scorso unedì. Insegnante: Allora, Ivan, sto aspettando... (Ivan sta tirando fuori tutto dalla cartella). Gli altri bambini: Guardaaa! Non è preparato! Ivan: Pensavo...
Insegnante: Sai che cosa dicono! Il primo pensiero, il secondo... e il terzo lo ha pestato! (risate nella classe).
La maestra dà sicuramente una mano — consciamente o inconsciamente — alla costruzione della cattiva immagine che Ivan si è guadagnato nei primi giorni di frequenza scolastica. Qui sono in ballo l’Igiene e la Disciplina! C'è qualcosa di decadentemente educativo, umano, sportivo, xenofobico e in generale cattivo. Ivan sa di essere soggetto di “scandalo”. Ivan è accusato di avere un atteggiamento da ruffiano, ma personalmente penso che i suoi problemi siano causati più dalla sua incapacità di valutare correttamente una situazione che dal suo arruffianarsi. Quando non capisce qualcosa, si fa violento ed essendo piuttosto forte può far paura. Una tale “irrazionalità strillata” può essere eccessiva perfino per il forte Karel. Ivan soffre nel vedere che, mentre “sta dietro” agli “igienisti”, quelli lo disprezzino, tanto da non riuscir mai a essere come loro. Il ragazzino che occupa una posizione centrale è Cestmir. Sebbene alcuni presumano che siano amici e Ivan è disponibile a che sia così, Cestmir lo rifiuta come qualcuno con cui non si potrebbe essere in amicizia (per ragioni igieniche). Egli rappresenta l’immagine dello “spazzino”; lo sa e non lo
sopporta, nondimeno è incapace di fare alcunché per quell'immagine — che semmai tende a rafforzare — o meglio è costretto a farlo. Nessuno vuole uscire con lui perché dicono che “sono un maiale”..., cosicché egli deve tenere i rapporti solamente con i propri pari che sono in una simile posizione —
come ad esempio Mirka che viene da una classe vicina ed è considerata la peggiore sciattona di tutta la scuola. E questa è un'ulteriore aggravante.
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Per concludere (terza e ultima parte)
Ivan non è uno straniero fuori posto ma semplicemente un “igienista” un po' impacciato. Mentalmente e culturalmente, vuole assomigliare agli “igienisti”. Tuttavia, non ci riesce. Forse
questo è dovuto al suo senso sbagliato per il “savoir faire” che non ha coltivato in quanto si spostava da una scuola all'altra. Andare d'accordo sul lungo termine in una classe è necessario per costruire un senso di “savoir faire”, a quest'età. C'è questo sullo sfondo dell'amicizia senza contorni precisi, ovvero quando i ragazzi dicono che sono tutti amici in classe: “savoir faire” e andare d'accordo sul lungo termine. L'amicizia — la simpatia sviluppata mantenendo le cose come sono (conservatorismo) — era “sotto attacco” da parte dell’impacciato Ivan. Il nemico era il suo impaccio, non la sporcizia. Oppure, il suo impaccio era
la sporcizia. I ragazzi dicono che il conservatorismo è salute e che questa igiene è amicizia. Il conservatorismo e una certa latenza infine descrivono ciò che sta dietro la qualità sfumata [fuzziness] dell'amicizia. Questa è un'altra ragione per cui ho parlato dei gruppi in questa classe come di “isolette”, invece che di strutture.
Riferimenti bibliografici Dept. of Psychology (1999), Praska skupina skolni etnografie: 4. trida, Charles University Press, Prague.
9 C'È UNA GIOSTRA NEL FUTURO? ESPERIENZA SCOLASTICA E PROCESSO D'INCULTURAZIONE IN UNA MINORANZA OCCUPAZIONALE NOMADE! Francesca Gobbo Ora tutto in paese era pace, spasso, Liliana, giostre in Prà
(L. Meneghello, Bau-sète)
1. Introduzione
Per la maggioranza di noi, ormai evocano il tempo dell'infanzia e un'epoca di pace, come rammenta che il Prà? della frase che ho posto dova dove, tra la metà di maggio e
adulti, le giostre (e i circhi) della giovinezza, e anche Luigi Meneghello. Presumo in esergo sia quello di Pala metà di giugno, arrivava-
no? le giostre per la festa del Santo;* lì, nell'immediato secondo dopoguerra, il giovane ex-partigiano, non ancora diventato famoso scrittore, ritrova il suo ospite neozelandese che “alla sera [...] alle giostre in Prà, girava nei calci-in-culo con entusiasmo” (Meneghello, 1988, p. 12). Se i due si fossero spostati ' Questo scritto riprende una parte del seminario da me tenuto alla Harvard University nell'aprile 2001. Colgo l'occasione per ringraziare Israel Scheffler, Michael Herzfeld, Richard Sterne, Richard Lyons e Rosalind Scheffler per
i loro stimolanti commenti critici. Un grazie particolare va a Irene PortisWinner per la sua attenta lettura della versione inglese e per i molteplici spunti di riflessione e interpretazione emersi durante una piacevole conversazione. Il testo è dedicato al signor R. per la collaborazione, il sostegno e l'amicizia che mi ha offerto durante la ricerca e alle famiglie che, grazie a lui, ho potuto
incontrare, conoscere e apprezzare. ? Per coloro che non condividono il mio sapere di “nativa”, spiegherò che il Prà e il Santo fanno parte di una trilogia locale (il Prato della Valle, la basilica del patrono cittadino Sant'Antonio e il Caffè Pedrocchi) semanticamente connotata attraverso l'assenza del tratto distintivo (l'erba, il nome, le porte) } Da parecchi anni, ormai, le giostre sono installate nel Foro Boario, che si affaccia su un lato del Prato della Valle. L'esperimento di spostarle dietro l'area della Fiera di Padova, messo in atto nel 2002, ha avuto così poco successo (secondo la tradizione culturale, le giostre sono in Prato o ai suoi bordi) che nel 2003 sono ritornate al Foro Boario.
‘Vedi, supra, nota 2.
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nella provincia di Rovigo, avrebbero trovato un'altra prova del rapporto tra spettacolo viaggiante e pace in quella “giostra ad aeroplani” inventata da Albino Protti di Bergantino. Utilizzando “materiali bellici di recupero, come i serbatoi degli aerei o le ralle dei carriarmati” (Silvestrini (a cura di), 2000, p. 43), facilmente reperibili nelle campagne della zona dopo il conflitto, questo creativo costruttore realizzò il “sogno di far volare le persone”? su quel tipo di giostra e contemporaneamente diede un ulteriore impulso alla trasformazione di tante famiglie contadine in giostrai, grazie al trapianto periodico della loro originaria identità di “fermi” nel terreno fertile del nomadismo lavorativo. Per la verità, queste evocazioni di un tempo lontano debbono oggi essere affiancate al godimento, alla sorpresa e alla meraviglia portate comodamente a casa nostra dai programmi
televisivi che settimanalmente, da qualche anno, ci fanno vedere a quali livelli d'eccellenza possano giungere l'audacia, la flessibilità acrobatica e la forza dei circensi e ci fanno apprezzare il senso del ritmo e della tradizione nelle sempre nuove/sempre antiche gag dei pagliacci. Talvolta, quando i protagonisti di un esercizio sono giovani o molto giovani, può accadere che il presentatore o la presentatrice di turno sottolineino come la loro bravura non vada a scapito dell’istruzione scolastica, grazie alla presenza d'insegnanti che condividono la vita del grande circo. Ma questo vale appunto per i grandi circhi; se lo spettatore o la spettatrice eventualmente incuriositi si chiedessero quali modalità e opportunità di apprendimento abbiano, in generale, i giovani e i giovanissimi dello spettacolo viaggiante, essi sarebbero destinati a rimanere nell’ignoranza.” ? Anche Umberto Favalli — ricorda Silvestrini (2000, p. 42) — “si dedicò alla realizzazione di una giostra ad aerei, della quale fece brevettare un sistema di salita delle navicelle costituito da un verricello meccanico che in soli sette secondi permetteva all’aereo di raggiungere, da terra, l'altezza di quattro metri, fornendo pertanto al pubblico una notevole emozione e il senso del decollo”. ° | termini inseriti tra virgolette appartengono al linguaggio degli “attrazionisti” da me intervistati. Pronunciati in dialetto, in cui si è svolta la massima parte delle interviste, tali termini sono stati qui tradotti in italiano (e prima ancora in inglese, per il seminario harvardiano).
" Mentre ero già a metà della mia ricerca, ho coordinato una tesi sull'argomento (Canesi, 2001). Cfr. anche un rapporto promosso dal Provveditorato agli Studi di Verona (Donzello, s.d.). La collega Gabriele Khan-Svik, che ringrazio, mi ha segnalato una tesi riguardante l'esperienza d'apprendimento dei figli delle famiglie circensi austriache: cfr. Freynhofer (2001).
9. C'è una giostra nel futuro?
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A meno che non decidano di cercare una risposta alle proprie domande. Nel caso della mia ricerca etnografica tra un gruppo di famiglie di “attrazionisti” dello spettacolo viaggiante,8 la motivazione a iniziarla, nell'autunno del 1998, non coincide esattamente con la curiosità della spettatrice di cui sopra. Indubbiamente però la include nel più ampio interesse a studiare il significato dell'esperienza educativa (familiare e scolastica) anche tra gruppi di minoranza italiani, all'interno di un lavoro di riflessione e ricerca empirica sulla quotidiana diversità, e cioè su un multiculturalismo, e una pedagogia interculturale, che si interrogano sulla costruzione e la persistenza di differenti identità collettive nelle società e nei sistemi scolastici contemporanei.
Che le scuole e le società europee siano oggi definite come “multiculturali” ha spinto educatori e politici a prestare una particolare attenzione alla questione della diversità linguistica, culturale, religiosa ed etnica nei contesti sociali e scolastici. Così facendo, educatori e politici hanno impresso una svolta significativa al discorso pedagogico e alla pratica educativa che fino a quel momento aveva dato poco o nessun spazio al riconoscimento della differenza. Con il tramonto dell’ancien régime, infatti, la scuola, e l'istruzione obbligatoria in particolare, sono state qualificate dal principio (erede dell'illuminismo e ‘della rivoluzione francese) che l'accesso al sapere, e dunque all'auspicata emancipazione sociale e culturale, prescinde dall'origine o dallo status sociali dei soggetti in apprendimento. Secondo quel medesimo principio, anche le finalità educative istituzionali sono definite indipendentemente dall’affiliazione religiosa o etnica, dalla provenienza regionale o familiare degli scolari per promuovere, in positivo, un senso d'appartenenza sovralocale e per scoraggiare, in negativo, il mantenimento di orientamenti particolaristici (cfr. Cohen, 1971). Tuttavia, con la domanda di riconoscimento e legittimazione della differenza culturale originariamente avanzata dai movimenti di protesta etnici
nei confronti della scuola, e con l'invenzione del multiculturalismo (avvenuta alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo 8 Uso qui la dizione ufficiale del sindacato cui facevano riferimento le persone tra le quali ho condotto la mia ricerca. In altri punti, riferendo il punto di vista degli intervistati attraverso le loro parole, sarà invece usato il termine molto più connotato di “giostrai”.
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negli Stati Uniti e nel Canada), si diffonde anche in Europa il convincimento che debba essere assicurata “eguaglianza di opportunità e il massimo successo per tutti gli alunni contemporaneamente rispettando le loro specifiche identità culturali” (European Commission,
1994, p. 7; corsivo mio).
Nell'attuale discorso pedagogico italiano su scolarizzazione e diversità, le “specifiche identità culturali” si riferiscono — nella maggioranza dei casi — a quelle introdotte nelle scuole dagli alunni immigrati o figli d'immigrati e dai bambini sinti e rom, le cui vicissitudini scolastiche sono affrontate a livello teorico e didattico dalla pedagogia interculturale. Questa, per le contingenze storico-politiche che ne hanno segnato e modellato il discorso, spesso corre il rischio di cadere in una doppia trappola: attribuire, da un lato, una, e una sola, dimensione della differenza (di solito etnica, che nel parlare corrente include troppo spesso anche quella nazionale) a essi soltanto, e, dall'altro, darne una visione ristretta e stereotipata che di solito non riesce a tenere conto delle diversità culturali e religiose in varia misura presenti (e tra le quali alternare) sia nella vita quotidiana sia in quella educativa.’ La ricerca etnografica, e la teorizzazione sull'identità culturale, indicano il modo per schivare il facile richiamo della semplificazione e rilanciano la sfida al discorso pedagogico interculturale: questo infatti, quando recuperi alla categoria della differenza culturale anche quella della disuguaglianza connessa alla stratificazione sociale, si trova sollecitato a estendere la propria analisi, riflessione ed eventuale progettualità educativa anche sulla capacità della scuola e della sua cultura a comprendere la diversità e a favorire il cambiamento e l'innovazione.
° Un'interpretazione dell'Europa come ambiente multiculturale ben prima dei movimenti migratori iniziati con il secondo dopoguerra è stata recentemente proposta sia a livello europeo sia italiano (European Commission, 1994; Perotti, 1996; Marazzi (a cura di), 1996; Gobbo, 2000a). Inoltre, studi sull'esperienza di scolarizzazione di gruppi minoritari interni come i sinti (Gomes,
1997,
1998, 2003; Tomasi,
1999) o i valdesi
(Gobbo,
1999, 2000b,
2003) sono stati condotti nell'intento di comprendere la relazione complessa tra scolarizzazione, continuità culturale e identità di minoranza, attraverso un approccio comparativo e le teorie sviluppate nel campo dell’antropologia dell'educazione.
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2. Discussione della letteratura
Una ricerca tra famiglie nomadi per scelta di lavoro può rappresentare un'occasione non soltanto per costruire un corpo di conoscenze sul caso italiano poi comparabile! con quello già presente in altri Paesi, ma anche per ampliare e approfondire il dibattito sull'identità di minoranza e sulle ragioni — storiche, culturali, materiali, politiche — che ne favoriscono la continuità o, al contrario, ne accelerano la trasformazione fino a renderla una categoria residuale. Nell'iniziare il percorso di ricerca, un primo apporto a questo dibattito critico viene dalla riflessione sulla definizione e caratterizzazione dei soggetti nomadi, il cui difficile inserimento e rendimento scolastico ha negli anni interrogato pedagogisti e scienziati sociali. È indubbio che, tra i bambini e i giovani considerati “a rischio scolastico”, proprio quelli nomadi ritornino periodicamente alla attenzione degli studiosi; questi, impegnati a documentare
e
interpretare l'accidentata e insoddisfacente esperienza educativa di chi per origine o per occupazione non conduce una vita sedentaria, utilizzano il criterio del nomadismo per individuare e denominare i soggetti delle ricerche, accomunando inizialmente tre gruppi: gli zingari (come noi correntemente li chiamia-
mo)!', i barcaioli e i “viaggianti”, ovvero la minoranza occupazionale di cui fanno parte coloro che sono proprietari di giostre o di circhi o che lavorano in questi ultimi. Una delle prime indagini sulla “deprivazione educativa” (e più in particolare linguistica) degli alunni nomadi giustifica l'inclusione dei “viaggianti” (e dei barcaioli), seppure “come un aspetto secondario del progetto”, poiché “i loro problemi educativi sono molto poco conosciuti” (Schools Council Research Studies, 1975, p. 1). Due più recenti studi europei (Liégeois, 1992; European Commission, 1994) inseriscono a loro volta “viaggianti” e barcaioli nell'indagine sui problemi e i programmi educativi per alunni nomadi. Il secondo di questi studi mette anche in rilievo che l'opzione per uno stile di vita nomade è
!e.sulla costruzione del sapere antropologico e sulla comparazione, Hymes (1996).
;
v.
3
!! In questa parte del testo, tuttavia, il termine “zingari” traduce l'inglese Gypsy dei testi originali.
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parte del patrimonio europeo. Benché i loro membri tendano a vivere ai bordi della società, le professioni “viaggianti” rappresentano un elemento importante nel tessuto socio-culturale dell'Europa, come è dimostrato dal loro contributo al funzionamento dell'economia e dal ruolo culturale che giocano durante le feste in Europa (European Commission,
1994, p. 16).
Se il confine simbolico tracciato tra chi condivide un “patrimonio europeo” e chi ne rimane invece fuori rappresenta un criterio ulteriore d'inclusione nella categoria “nomadi”, esso non dà tuttavia ragione delle differenze interne alla medesima. Tanto gli studi condotti a livello europeo quanto circo-
scritte indagini italiane,'? centrati sulla categoria “nomadi”, si trovano ben presto ad affrontare la complessità interna di tale categoria,! in particolare prendendo atto di avere inizialmente sottovalutato lo status e il punto di vista dei “viaggianti”! Questi emergono quando i ricercatori esaminano l'esperienza educativa e la relazione con l'istituzione scolastica (sebbene non le illustrino con dati quantitativi): già una delle prime inda-
gini riconosceva che “le storie educative dei tre gruppi forniscono punti di vista distinti sul dilemma educazione/nomadismo, parzialmente risolto soltanto nel caso dei figli di giostrai e circensi” (Schools Council Research Studies, 1975, p. 10; corsivo mio). La ragione di un quadro sociale e scolastico meno
pro-
blematico è qui individuata nel fatto che i “viaggianti” non condividono lo “status di minoranza minacciata e stigmatizzata” assegnato invece agli altri nomadi. Al contrario, lo stile di vita dei “viaggianti” mostrava ancora negli anni Settanta tracce di tempi migliori (quelli fra le due guerre), quando non soltanto '? Si veda, per esempio, il Vademecum informativo per l'accoglienza e la scolarizzazione degli alunni Rom, Sinti e Attrazionisti, pubblicato nel 2002 dal Gruppo provinciale per la scolarizzazione degli alunni nomadi e zingari, Centro Servizi Amministrativi di Padova, Ufficio scolastico regionale per il Veneto, Miur e Provveditorato agli studi di Verona (a cura di G. Donzello), Progetto Luna Park per l'integrazione scolastica e la continuità educativa degli alunni itineranti e zingari e per la tutela del loro diritto allo studio, s.l., 2000-2001. '? La pedagogista scozzese Jordan (v. più avanti nel testo) afferma che, se le spiegazioni del basso rendimento scolastico degli scolari “viaggianti” sono insoddisfacenti, ciò dipende dal fatto che a questo specifico caso educativo sono stati tacitamente applicati i risultati delle ricerche sui rom. '4 In questo e in altri casi, quando parlerò delle ricerche europee o extraeuropee tra chi lavora nelle giostre o nei circhi userò il termine “viaggianti”, che traduce l'inglese travellers, inclusivo di specifici gruppi come gli showmen, i fairground e i circus people.
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essi erano ampiamente accettati dalla società sedentaria, ma potevano anche contare su una rete di siti invernali permanen-
ti. La scelta delle famiglie “viaggianti” più abbienti di iscrivere i loro figli in collegi privati (presto imitata da quelle di ceto medio) è interpretata come un'indicazione che tali genitori “hanno un atteggiamento molto più positivo e favorevole verso l'educazione degli altri due gruppi studiati. Diversamente da questi ultimi, essi hanno sviluppato un sistema di leadership potente e una associazione centrale forte” (ivi, pp. 12-13). Sebbene il responsabile dell'indagine riconosca che l'indipendenza e l'autonomia di questi bambini potevano mettere a dura prova le aspettative degli insegnanti, le osservazioni in classe mostrano che “il ‘viaggiante’ si guadagna velocemente il rispetto, se non l'ammirazione, degli altri bambini. [...] Le loro abilità nel disegno e in operazioni meccaniche erano molto significative e oralmente essi partecipavano liberamente e con compe-
tenza” (ivi, p. 13). Il giudizio finale risulta perciò positivo, in quanto “la scolarizzazione che la maggior parte dei bambini [“viaggianti”] riceve è adeguatamente complementare alla formazione nel lavoro che avviene durante le fiere da parte della
famiglia” (ibidem). Anche Liégeois (1992) sottolinea che gli scolari “viaggianti” mostrano di avere una differente esperienza e un differente significato della scolarizzazione, nonostante la comune vita nomade. Tra queste famiglie la scolarizzazione dei propri figli non provoca sentimenti o atteggiamenti di diffidenza, opposizione o rifiuto, benché sia in molti casi considerata come un peso e un ulteriore problema che debbono affrontare e risolvere prevalentemente da soli. Ciò nonostante, lo studioso rileva che molte famiglie si impegnano perché i loro figli non si sottraggano all'obbligo scolastico ma anzi completino, seppur così frammentariamente, il corso di studi e ottengano il diploma; egli interpreta questa presa di posizione come effetto del sentirsi membri a pieno titolo della società e della nazione cui appartengono. È ancora Liégeois a rilevare come i “viaggianti”
3 Vale la pena di notare che l'eventualità che alcune famiglie di “viaggianti” siano d'origine rom non viene neppure presa in considerazione, presumibilmente perché il successo lavorativo, l'adattamento alla cultura della maggioranza sedentaria, l'accettazione sociale di questa nei loro confronti sembrano spingere l'incidenza dell’etnicità sullo sfondo.
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non sembrino temere gli effetti dell'educazione scolastica sull'identità dei loro figli (che anzi rimane forte e vitale, a dispetto di una sempre minore gratificazione sociale ed economica), sebbene anch'essi, non diversamente da sinti e rom con cui sono spesso confusi, soffrano i pregiudizi e gli stereotipi derivanti da una visione della vita quotidiana basata sulla dicotomia “nomade/sedentario”. Una ricerca britannica, di qualche anno più tardi (Kiddle, 1999), sottolinea che queste famiglie, e i loro figli, dichiarano di apprezzare l’esperienza scolastica: i bambini parlavano volentieri delle scuole frequentate e “i genitori lodavano moltissimo quel che le scuole facevano durante i mesi invernali” (ivi, p. 99), sebbene sapessero per esperienza che il processo di integrazione nella classe scolastica diventava più difficile via via che la scolarizzazione procedeva. Anche la pedagogista scozzese Jordan mette in rilievo che tra i “viaggianti” la scolarizzazione formale è soltanto in parte rifiutata e quando ciò avviene è, prevalentemente, per i problemi che tali scolari incontrano a scuola:in questione non sono soltanto le difficoltà d'apprendimento o d'inserimento nella classe ma anche incidenti di bullismo o di razzismo che non raramente sono all'origine dell'abbandono scolastico. E tuttavia una tale decisione non è mai presa a cuor leggero, soprattutto oggi: infatti, i “viaggianti” scozzesi sono acutamente consapevoli che, da un
lato, le loro tradizionali occupazioni
offrono sempre
minore
sicurezza economica e più limitate opportunità lavorative che nel passato e, dall'altro, che la frequenza scolastica dovrebbe essere regolare e prolungarsi nella scuola secondaria (v. Jordan, 2000b, 2001a, 2001b). Riconoscere ai “viaggianti” questo atteggiamento positivo
nei confronti della scuola non implica che la loro esperienza educativa sia priva di problemi. Questi ultimi sono interpretati attraverso la teoria della discontinuità'° tra cultura (o stile di vita) '* La teoria della discontinuità viene introdotta dagli antropologi dell'educazione quando, per interpretare la ragione dell’insuccesso scolastico di minoranze come i nativi d'America o gli afro-americani, sostituiscono la teoria dello “svantaggio socio-culturale” o quella della “deprivazione culturale” con quella che vede inculturazione (educazione familiare o comunitaria) e scuola come caratterizzate da valori, comportamenti e obiettivi anche profondamente differenti e dunque di reciproco ostacolo a un percorso educativo continuo nei modi e nei contenuti. Occorre aggiungere che la situazione si determina non
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nomade e cultura della scuola e la responsabilità di un rendimento scolastico soltanto parzialmente soddisfacente è assegnata dai ricercatori ora alla cultura della scuola ora a quella dei “viaggianti”. Così, si rileva che la discontinuità tra i due diversi mondi culturali rappresenta una fonte di preoccupazione per le famiglie nomadi, conosciute per la loro tradizionale auto-sufficienza, culture e stili di vita distinti. (...] All’interno della loro comunità esse organizzano il proprio sistema di educazione impegnandosi a formare i figli nelle abilità di sussistenza economica e sociale, un tipo di formazione che pensano essere al di là delle capacità di un insegnante normale. La frequenza scolastica dunque priva il bambino nomade di un'importante formazione educativa in famiglia, e spesso è vista come un'esperienza pericolosa durante la quale il bambino può perdere la resistenza fisica nei confronti dei rigori della vita nomade. [...] Quasi universalmente i sistemi educativi delle comunità sedentarie sono stati concepiti esclusivamente in termini di frequenza scolastica obbligatoria. La mobilità del nomade rende impraticabile una frequenza scolastica simile e lo mette anche in condizione di evadere i tutori della legge incaricati di controllare che non vi sia evasione dell'obbligo. Il nomadismo sembra essere incompatibile con l'educazione, almeno in questa visione ristretta (Schools Council Research Studies, 1975, p. 9).
Membri effettivi di ogni famiglia e funzionali alle esigenze di ciascuna di esse, i piccoli giostrai e circensi sono percepiti
come persone affidabili, su cui si può far conto, indipendentemente dalla giovane età. Negli anni Novanta il giudizio sulla scuola è altrettanto netto: nelle conclusioni dell'indagine coordinata da Liégeois, insegnanti e organizzazione scolastica sono descritti come incapaci di costituire un punto di riferimento per questi alunni e anzi in difficoltà a confrontarsi con comportamenti e valori che
non si adattano alla cosiddetta cultura della scuola, caratterizzata da calendari prestabiliti, da un'organizzazione fondata sulla programmazione e sulla routine, da procedure di valutazione elaborate su contenuti e abilità predeterminate e da uno stile d'insegnamento e d'apprendimento prevalentemente centrati sugli insegnanti. Questi, dal canto loro, non sembrano in soltanto per la differenza culturale ma anche perché l'educazione familiare è considerata inesistente e comunque ralmente inferiore.
esercitata in un contesto definito cultu-
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grado di trovare modi alternativi per verificare e valutare l'apprendimento frammentario e casuale di tali alunni e per dare alle famiglie indicazioni affidabili sul rendimento scolastico dei loro figli e suggerimenti utili per affrontare gli inevitabili problemi legati alla frequenza e all'apprendimento. Il rapporto intermittente che i bambini “viaggianti” stabiliscono con le attività didattiche e curricolari durante l’anno scolastico è peraltro indicato come causa delle difficoltà di insegnanti e amministratori scolastici a dedicare la necessaria attenzione alle esigenze di tali scolari. Non senza una punta di malinconica ironia, Liégeois si domanda: “come mettere in discussione i propri atteggiamenti e azioni verso una minoranza dispersa, quando il peso della storia non favorisce |[...] le comunità zingare e ‘viaggianti’? Finora, la maggioranza non ha mai sentito
l'urgenza di farlo” (European Commission, 1992, p. 8)!”. La discontinuità tra inculturazione familiare e cultura della scuola è pure sottolineata nel già menzionato resoconto narrativo del 1999 sulla vita e l'educazione di famiglie e bambini “viaggianti” nel Regno Unito. L'autrice nota che per alcuni gruppi di bambini “viaggianti” la scuola e la casa debbono sembrare due culture totalmente separate e differenti, e il fatto di
!" La teoria della discontinuità tra la cultura familiare e quella della scuola è impiegata anche quando l'indagine riguarda il nomadismo dei lavoratori agricoli migranti: la risposta inefficace della scuola è interpretata come indicazione del disagio di questa istituzione nei confronti di chi ha uno stile di vita diverso da quello prevalente. Così, un rapporto dello U.S. General Accounting Office (1994, pp. 2, 9) sintetizza il considerevole numero di studi condotti sul rendimento scolastico dei bambini migranti a scuola mettendo in rilievo come questi, per il loro stile di vita, “possono interferire con la capacità dell'insegnante di organizzare e di mettere in atto l'insegnamento. [...} [In effetti] sono le scuole che devono affrontare la difficile sfida di accogliere i bisogni educativi dei bambini che cambiano scuola frequentemente [...] [e] che possono essere esposti a curricoli che variano ampiamente da una scuola all'altra, da un distretto scolastico all'altro. |...] [Inoltre, poiché] gli insegnanti possono [...] non avere il tempo di individuare le mancate conoscenze di questi bambini, [...] le stesse possono aumentare nella misura in cui l'alunno o l'alunna sono lasciati da soli a trovare un senso nelle cose insegnate e nella relazione con quelle della scuola precedente”. Diversamente da queste ricerche, quella svolta da Andereck (1992) tra i discendenti dei “viaggianti” irlandesi mette in rilievo come la discontinuità tra scuola e famiglie mobili (in quanto fornite, da qualche generazione, di residenza stabile) debba essere interpretata anche come una strategia interattiva e culturale per mantenere un'identità collettiva distinta, pur accogliendo contemporaneamente aspetti della cultura di maggioranza.
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viaggiare di per sé non fa che esacerbare quel senso di distanza. Ci si aspetta regolarmente che i bambini si muovano avanti e indietro tra le due senza pensare troppo alle difficoltà che questa oscillazione comporta. [...] La struttura del viaggio fa sì che i bambini stiano non soltanto lontani per lunghi periodi dalla loro scuole, frequentate durante i mesi invernali, ma anche che il loro frequente muoversi da un luogo all'altro durante la stagione del viaggio renda spesso brevi le soste in ciascuna nuova località, e problematica la frequenza scolastica (Kiddle, 1999, p. 96).
Per la ricercatrice, è questo tipo di vita e di lavoro, così strettamente intrecciati l'una all’altro, a organizzare l’esperienza scolastica dei figli dei “viaggianti”!8. Pur ritornando questi alunni periodicamente nelle medesime scuole, e incontrando i medesimi compagni e insegnanti degli anni precedenti, permane il problema che “il calendario scolastico e l'anno dei giostrai non coincidono. [...] In ogni fase del loro percorso educativo, l'impresa di famiglia e lo stile di vita che rappresenta una parte integrale dell'educazione di questi bambini impediscono loro di partecipare al sistema di maggioranza come gli altri bambini” (ivi, pp. 97-98). La frequenza scolastica, per esempio, comincia proprio a ridosso dell'inverno, quando la fine del primo trimestre è già molto vicina, per interrompersi dopo alcuni mesi, limitando fortemente — nella valutazione della ricercatrice — le possibilità degli alunni “viaggianti” di socializzare come pure di apprendere e condividere con i compagni di scuola ruoli sociali adulti e modalità di partecipazione civica. L'indagine giunge a concludere che sia l'impresa !8 La “stagione” del viaggio comincia non molto dopo Pasqua e si chiude nel tardo autunno (alcune famiglie possono decidere di continuare fin quasi a Natale) con il ritorno alle aree dove vivono durante l'inverno, in preparazione della stagione successiva. Nei circa otto mesi della “stagione”, ciascuna famiglia segue il “proprio” circuito che la porta da una fiera all'altra, con soste che vanno da un minimo di tre-quattro giorni fino a un massimo di due-tre setti-
mane. Annualmente, le diverse fiere ospitano le medesime famiglie, “in quanto i diritti di spazio sono mantenuti da un anno all’altro, spesso lungo parecchie generazioni. [...] Ogni famiglia possiede le sue giostre o banchi, e lungo gli anni si è costruita il diritto riconosciuto a sistemarli in determinati punti delle fiere. Così ogni fiera raccoglie un gruppo distinto di famiglie” (ivi, p. 97) — anche se tale raggruppamento può cambiare durante la “stagione”, soprattutto a causa di decisioni delle amministrazioni locali. Queste possono infatti votare di usare l’area della fiera per costruire parcheggi o case popolari e dunque di spostarla in un luogo diverso, talvolta meno spazioso, così intervenendo pesantemente nella programmazione del circuito e nella possibilità di lavoro e guadagno dei “viaggianti”.
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familiare sia lo stile di vita di queste famiglie non facilitano l'apprendimento dei modi culturali della maggioranza sedentaria (e presumibilmente una piena integrazione). Le famiglie riescono però a trasmettere ai giovani e ai giovanissimi un profondo senso d'appartenenza alla tradizione occupazionale. Infatti, i genitori sentono una forte responsabilità di trasmettere le [loro conoscenze e] abilità ai figli, e di educarli a una vita nel settore delle giostre. [...] Man mano che gli alunni crescevano, venivano gradualmente introdotti ai vari aspetti degli affari, assumendosi responsabilità crescenti allorché tale formazione è conclusa (ivi, pp. 102-103, 193).
Il risvolto negativo di questo processo educativo è che li trattiene ai margini della società di maggioranza (e sedentaria). Le interviste agli insegnanti testimoniano della loro difficoltà a vedere questi alunni come membri a pieno titolo della classe, a causa della frequenza frammentata. D'altro canto, sempre secondo la Kiddle, “noi — la società sedentaria — non abbiamo quasi mai dovuto affrontare un elemento nomade nella nostra società [...] noi non abbiamo mai dovuto accettare o essere accomodanti. [...] Noi non abbiamo mai accettato
la mobilità” (ivi, p. 154)!°. Anche nelle ricerche svolte da P. Danaher e collaboratori sull'educazione di nomadi e “viaggianti” nel contesto australiano si ritrovano molti aspetti emersi in quelle appena esami-
nate. Rilevando l’eterogeneità del secondo gruppo (Danaher, 1999, 2000; Danaher (ed.), 1998; Danaher, Hallinan, Moriarty, 1999; Danaher, Moriarty, Hallinan, 2000), l'autore nota la loro capacità di affrontare e spesso risolvere i problemi educativi dei loro figli, ma contemporaneamente “la generale incapacità delle istituzioni scolastiche di ‘affrontare’ gli studenti nomadi... [che] rende i ‘viaggianti’ marginalizzati dalle fonti convenzionali del potere, dello status, della ricchezza” (Danaher, 1999, p. 26). Ancora una volta, è chiamata in causa la discontinuità tra due modi di vita: essendo la residenza stabile di studenti e insegnanti il fondamento di ogni sistema scolastico, '° Non è però chiaro se, per questa ricercatrice, l'ostacolo all'integrazione costituito dalla cultura nomade non sia da interpretare anche come un elemento strategico nella trasmissione del senso d'appartenenza (cfr. Andereck, 1992).
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la ‘deviazione’ da questa ‘norma’ di residenti stabili fa sì che i giostrai e i circensi non riescano a essere ‘adatti’ alle categorie convenzionali di studenti con cui hanno familiarità gli educatori. Questo significa che, in mancanza di incentivi o pressioni a favore di modalità alternative, i sistemi educativi tendono a ignorare la gente nomade in quan-
to ‘troppo difficile’ da accogliere (ivi, p. 8)?
Quando l'obiettivo delle ricerche si sposta su famiglie e alunni “viaggianti”, l'interpretazione dà rilievo alla conseguenza principale della combinazione tra cultura scolastica e quella dei “viaggianti”, e cioè un differente tipo di discontinuità che questa volta riguarda il percorso e l'esperienza d'apprendimento di tali scolari. La Jordan rileva che le significative differenze nel rendimento scolastico dei figli dei “viaggianti”?! “chiamano in causa la capacità dell’attuale sistema scolastico comprensivo [scozzese] di includere e incontrare i bisogni di un numero significativo di bambini” (Jordan, 2000a, p. 253), poiché “il curricolo formale e le sue modalità di insegnamento creano barriere nell'apprendimento di molti alunni” (ivi, p. 254). Gli impegni di lavoro, lo stile di vita e le caratteristiche dei circuiti e della stagione dei “viaggianti” scozzesi non sono diversi da quelli di altre aree del Regno Unito o dell'Europa continentale, così come non diverse sono le condizioni in cui si svolge il processo educativo, caratterizzato da discontinuità nell’apprendimento che trasforma questi alunni in discenti interrotti - come efficace-
mente li definisce Jordan.?? Sebbene le famiglie rispettino le 2° Secondo Danaher, in Australia il potere di pressione dei due gruppi “viaggianti” è, fortunatamente, riuscito a spingere il governo a organizzare
programmi educativi speciali, a favorire e sostenere il diritto all'equità educativa per questi alunni e a promuovere una forte relazione con gli insegnanti.
Ambedue i gruppi (che descrivono i valori caratteristici del loro modo di vita come parte di quello australiano, al cui avanzamento economico e culturale ritengono di contribuire) sono apertamente orgogliosi delle loro tradizioni e della loro abilità di mantenere la propria cultura attraverso molte generazioni, nonostante i pregiudizi di cui sono oggetto e le ridotte opportunità economiche. 2! Jordan ha studiato sia gli zingari/"’viaggianti” sia la minoranza occupazionale dei “viaggianti”. Questi ultimi sono i discendenti dei “viaggianti” tradizionali, ma preferiscono definirsi come membri di una comunità economica. 2 Da parte mia, preferisco parlare dei bambini e bambini “viaggianti” come “alunni di passo”, alludendo attraverso questa metafora sia al loro ciclico ritorno nelle medesime scuole e classi - non diversamente da quanto fanno gli uccelli migratori — sia a una possibilità pragmatica, e cioè che essi potrebbero essere attesi, e che dunque potrebbero essere programmate specifiche attività scolastiche.
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leggi e le norme che regolano la loro vita lavorativa, la mobilità caratteristica del settore occupazionale continua a costituire
un problema per le autorità scolastiche e per alcuni concittadini (sedentari). Nelle scuole scozzesi come in quelle di altre zone del Regno Unito, i bambini “viaggianti” spesso soffrono la discriminazione, se non il razzismo esplicito; inoltre, quasi sempre apprendono molto poco, dato che la maggioranza degli insegnanti non sembra sapere che fare di loro (e per loro!), mentre quello che sono riusciti ad apprendere prima di arrivare nella nuova classe raramente è in sintonia con l'insegnamento che vi ha luogo. Spesso, se le famiglie vengono a sapere del trattamento riservato ai loro figli, esse (anche su pressione dei figli stessi, cui è riconosciuto il diritto di decidere) scelgono di ritirarli dalla scuola: si tratta di un'auto-esclusione che la ricercatrice interpreta come “una forma di resistenza positiva [...,, un fattore importante nell’assenteismo dei ‘viaggianti’’ (ivi, p. 258). Come altri ricercatori, anch'ella sottolinea che “l'Europa, nella sua interezza, si avvale di sistemi scolastici che escludono, dove le famiglie mobili e altri discenti interrotti. sono regolarmente posti ai margini e rendono al di sotto delle loro capacità” (ivi, p. 259). I risultati dei cinque anni di lavoro sul campo di Jordan tra gli zingari e i “viaggianti” indicano che il personale scolastico è ancora troppo spesso ignorante delle culture di questi, i quali, invece, sono fin troppo consapevoli degli stereotipi razziali e dei pregiudizi che li colpiscono in tutta Europa.
Tutti gli studi qui discussi affrontano il problema di trovare percorsi educativi innovativi grazie ai quali i bambini la cui diversità è connessa a uno stile di vita nomade possano essere effettivamente integrati nel processo di scolarizzazione e nella esperienza di classe, realizzando il loro diritto all'educazione. L'integrazione scolastica relativamente soddisfacente dei figli dei “viaggianti”. rispetto a quella dei barcaioli e degli zingari, è spiegata attraverso l'ipotesi che i primi — pur condividendo la cultura dei nomadi (il loro stile di vita è spesso assimilato a quello di sinti e rom e talvolta li fa percepire come zingari) e in taluni casi l'identità etnica (in Italia, per esempio, molti di loro sono di origine sinta) — abbiano una differente e più soddisfacente esperienza scolastica perché (da un punto di vista storico e sociale) essi si considerano membri a tutti gli effetti delle
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società in cui vivono e sono convinti della positiva correlazione tra un certo livello d'educazione e il successo dell'impresa familiare. Gli aspetti meno positivi dell'esperienza educativa (che neppure gli alunni “viaggianti” riescono sempre a evitare) sono invece interpretati in termini di discontinuità culturale, che ancora troppo spesso impedisce una relazione effettivamente educativa, provoca comportamenti conflittuali e di resistenza quali l'assenteismo e l'abbandono degli studi da parte di questi alunni e una più o meno esplicita mancanza di fiducia nella scuola e negli insegnanti da parte dei loro genitori. Tuttavia, queste indagini già ci permettono di discutere la concezione di un'identità culturale che, nel suo rapporto con l'istituzione scolastica, sarebbe totalmente determinata dal nomadismo e dalle caratteristiche occupazionali. Al contrario si può ipotizzare, da un lato, che i “viaggianti” abbiano sviluppato un duplice quadro di riferimento culturale che li rende capaci di accogliere molti elementi culturali propri delle famiglie stabilmente residenti in una città o in un paese e, contemporaneamente, di continuare a praticare e trasmettere quelli significativi del proprio stile di vita. Dall'altro, che la cultura della scuola sia un campo di ricerca non occasionale, nel quale studiare se, e in quale misura, l'incapacità istituzionale di affrontare le differenze culturali contribuisce effettivamente a ostacolare, tra gli insegnanti e nella quotidiana pratica educativa, tanto la comprensione delle esigenze educative di una minoranza occupazionale nomade, quanto l'ascolto e la presa di coscienza di quel che significa e comporta — a livello di comportamenti, credenze e
valori, modalità di relazioni e di comunicazione — appartenervi.?°
3. Obiettivi e risultati della ricerca 3.1. 1 “viaggianti” veneti e l'educazione scolastica
Come dicevo nei paragrafi introduttivi, questa ricerca è partita dall'esigenza di capire quale sia e come si svolga la esperienza educativa quando alunne e alunni italiani conducano
2 Cfr. Gobbo (2002).
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— per ragioni che hanno a che fare con il lavoro delle loro famiglie — una vita nomade che li porta a una frequenza scolastica limitata e alla migrazione da una scuola all'altra, tra quelle situate lungo il “giro” delle “sagre” dove vengono “tirate su” le giostre o il tendone del circo. Si tratta di una questione sociopolitica, oltre che pedagogica, poiché riguarda un principio fondante della vita civile italiana (il diritto all'educazione) e la sua realizzazione, e risente della attuale sensibilità e attenzione per le differenze culturali, anche se, nel caso di questa minoranza, i suoi aspetti salienti sono stati in parte sottovalutati, o persino ignorati, sia per il numero di persone coinvolte (se-
condo le stime dell’Agis,° siamo nell'ordine di circa 5000 famiglie, l'’85% delle quali conduce una vita nomade), sia per il modo non assertivo con cui sono stati affrontati in alcune occasioni e poi prevalentemente risolti con una modalità fai-date, sia per la difficoltà a mettere a fuoco la specificità culturale ed educativa di queste famiglie. L'esigenza iniziale di capire si è tradotta nella domanda se la scolarizzazione avesse per queste famiglie e i loro figli il medesimo significato che, presumibilmente, ha per famiglie e alunni sedentari. L'accento prioritariamente posto sul significato che un'istituzione come la scuola ha per persone connotate da uno stile di vita e di occupazione in parte differenti da quelli della maggioranza chiarisce che, anche in questa ricerca, l'orientamento interculturale si è intrecciato fattivamente con
le teorie antropologiche sul senso dell'istruzione scolastica”? e con la riflessione sull’etnografia dell'educazione (Hymes, 1996). L'approccio interdisciplinare che ne deriva comporta l'estensione della ricerca, da un lato, al processo educativo? messo in atto da queste famiglie nei confronti dei propri figli e figlie, e cioè le competenze, i valori, i comportamenti che scelgono di promuovere e trasmettere (e il modo in cui lo fanno) perché possano partecipare alla vita familiare e lavorativa, riconoscendosi nell’identità che essa fornisce; dall'altro, alla 2 Le cifre corrispondono a quelle fornite da altre associazioni di settore di dimensioni più piccole. °° Per l'ormai nutrita bibliografia su tale campo, rimando a Gobbo (a cura di), 1996; Gobbo, 2000; Gobbo, Gomes (a cura di), 2003 (I ed. 1999).
2 Nel linguaggio antropologico,
tale processo educativo
è definito
“inculturazione”, concetto originariamente proposto da Herskovits in un suo
testo del 1948 (cfr. Wolcott, 1996).
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connessione che, in termini di opzioni future e (ancora una volta) di significato, le medesime famiglie intravedono tra processo educativo di cui sono responsabili e quello scolastico.
Iniziata nell'autunno 1998, l'indagine etnografica”” ha in par-
te seguito i “giri" che un certo numero di famiglie (prevalentemente iscritte al Sindacato nazionale attrazionisti “viaggianti”) regolarmente intraprende sia nella provincia di Padova sia in quelle di Venezia, Treviso e Vicenza. Il campo in cui svolgevo il lavoro di osservazione e d’interviste poteva così non soltanto dilatarsi, coincidendo con i diversi “giri” effettuati e le diverse “piazze” frequentate da queste famiglie, ma anche contrarsi, facendosi delimitare dalle quattro pareti di una “carovana”. Si trattava di una oscillazione (peraltro non infrequente in etnografia) che attraverso i cambiamenti spaziali e simbolici del campo di ricerca indicava come tale nozione antropologica contemporaneamente alluda a uno spazio geografico e a una dimensione relazionale e operativa. Proprio quest'ultima richiede che io distingua tra accesso ed entrata nel campo, una distinzione utile per specificare come il lavoro sul campo fosse iniziato, in questo caso più chiaramente che in altri, ben prima di entrare in una relazione di parola con le persone incluse in quel perimetro simbolico. Riuscire a individuare come accedere alle famiglie di “attrazionisti” richiese non poche settimane, risolvendosi solamente dopo aver incontrato il signor R., deciso ad appoggiare la ricerca per far capire ai non addetti ai lavori le tante difficoltà e pregiudizi con cui si scontrano quasi quotidianamente gli “attrazionisti”?8. Dopo un altro non breve, ma indispensabile, periodo d'incontri in “piazza” e d'informali conversazioni, sarei stata infine invitata a entrare nelle “carovane” con il mio registratore e in compagnia?’ del signor R., la cui mediazione aveva reso possibili tali inviti e con il quale in quei mesi macinavo (ora con la mia macchina, ora con la sua) i chilometri necessari per raggiungere, da Padova, le “piazze” o le “carovane”. 2? Della ricerca si danno qui alcuni risultati parziali relativi al periodo di lavoro sul campo 1999-2001. 28 Non si può dire che gli “attrazionisti” — in quanto categoria — godano di “buona stampa”: quando infatti uno di loro è coinvolto in un'azione criminosa, o ne è l’autore, le sue responsabilità individuali sono proiettate sul settore dello spettacolo viaggiante così da essere generalizzate, pur indirettamente e obliquamente, all'intera categoria. 29 I] riferimento è al libro dij. Casagrande, In the Company of Men (1960).
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Le famiglie di “attrazionisti” con cui sono entrata in contat-
to si muovono in un'area che comprende cittadine e paesi nelle provincie di Padova, Treviso, Vicenza e Venezia, secondo un “giro” che può essere differente per ogni famiglia e che è considerato e definito come di proprietà (benché soggetto alle decisioni spesso condizionanti delle amministrazioni locali). | “giri” di solito cominciano a febbraio, per la festa di San Valentino, e possono durare fino all’inizio di dicembre. Alcune famiglie scelgono di “saltare” una delle prime “sagre” e di “fare” tutte le successive, ma non c'è una regola prestabilita: si può cominciare più tardi e finire il “giro” prima, o viceversa. A loro volta, i piccoli circhi? seguono un proprio “giro” che si distingue da quelli delle giostre per soste molto più brevi: infatti, prima che il circo ritorni in un paese o in una cittadina può ‘passare più di un anno. In questo caso, il gusto di ripetere un'esperienza
piacevole
(come
testimonia
il
perentorio
“Ancora!” dei bambini che non vogliono scendere dalla macchinina, dall'aereo o da un cavallo) non sembra valere per il pubblico dei piccoli circhi; questi semmai cercano di frapporre, fra un arrivo e il ritorno, il tempo sufficiente per far dimenticare (e far rivedere come nuovi) gli esercizi e le scenette che costituiscono l'ossatura dello spettacolo. “Girare”, spostandosi da una “sagra” all'altra durante buona parte dell’anno scolastico, vuol dire che i figli dei “viaggianti” frequenteranno una scuola diversa quasi ogni settimana e incontreranno insegnanti e compagni di classe diversi con la
medesima regolarità. Poiché le famiglie tendono a il loro “giro” in modo da “fare” le medesime “sagre” questi scolari frequenteranno le medesime scuole anno, diventando — al massimo per una settimana
pianificare ogni anno, anno dopo — una pre-
senza familiare per insegnanti e compagni di una determinata classe. Questa situazione perdura fino al completamento dell'obbligo scolastico, dato che i casi di frequenza della scuola secondaria superiore da parte di questi studenti non sono ancora molto numerosi. La possibilità di frequentare tante scuole diverse quante sono necessarie per ottemperare ° È importante ricordare che questa ricerca non ha riguardato i circhi grandi e famosi, ma quelli — e uno in particolare — dove la trasmissione delle abilità e dei valori della vita circense avviene nella famiglia ed è responsabilità della famiglia.
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all'obbligo scolastico fu la modalità individuata a suo tempo dal Ministero della Pubblica istruzione (ora dell'Istruzione) per realizzare il diritto allo studio di questi bambini. Della loro variegata esperienza del processo di scolarizzazione, del passaggio nelle scuole (debitamente contrassegnato dai timbri scolastici ufficiali sul “quadernetto” che accompagna questi scolari per tutto il periodo dell'obbligo), degli insegnanti e dei metodi di insegnamento, dei compagni e dei programmi
scolastici,
i giovani
e giovanissimi
“viaggianti”
non
sembrano ricordare molto, sebbene parlino di ogni loro buon risultato scolastico con grande orgoglio e dei loro amici di scuola con una certa nostalgia (se non li vedono più) o con amichevole affetto (se li vedono di tanto in tanto). Al tempo stesso, non dimenticano né i pregiudizi che hanno dovuto affrontare sia da parte dei loro compagni e perfino da alcuni adulti," né la limitata capacità degli insegnanti di rispondere alle loro esigenze d'apprendimento, né la necessità di “arrangiarsi” grazie a qualsiasi nozione o competenza scolasti-
che che sono riusciti ad acquisire. Le scuole li accolgono, fanno spazio per loro quando arrivano, ma è responsabilità e onere di questi studenti stare alla pari con il programma (se ovviamente ce la fanno), perché i docenti raramente rallentano il ritmo dell'insegnamento o riescono a prestare attenzione ai “buchi”? nel percorso e nei contenuti formativi che questi studenti possono avere.” Essi sono dunque preparati a trovarsi quasi sempre o “indietro” o “avanti” con il programma, conseguenza, questa, dei diversi contenuti spiegati e appresi in un
determinato momento e in una determinata scuola. Una tale situazione asincrona d'apprendimento può farli sfavillare di fronte alla classe (quando, come talvolta accade, sono “avanti” 3! Un giovane racconta che “in alcuni paesi eravamo accolti come zingari
lo non ho mai picchiato i miei compagni per questo, ma mia sorella sì, e molte volte!”. Dal canto suo, la sorella non soltanto conferma gli scontri a scuola, ma afferma che aveva il diritto di ribellarsi e che era sempre molto contenta di uscirne vincitrice anche se la sua popolarità fra i compagni era ovviamente bassissima.
2 Si tratta di una metafora educativa condivisa da famiglie e insegnanti e ampiamente utilizzata nelle risposte alle domande delle interviste 8 Una di loro, ormai quasi trentenne, afferma che “ancora oggi ho questa
grande voglia di leggere l’Iliade, l'Odissea, come facevamo a scuola. Ogni volta che vado dentro a una libreria sono tentata di comprarne una copia, e finire di leggerle”.
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con il programma) o renderli penosamente consapevoli dell'eterna inafferrabilità delle nozioni. In generale, tuttavia,
essi riescono a completare l'istruzione obbligatoria e a ricevere il diploma che fino a qualche anno fa era necessario per lavorare nel settore. I genitori di questi ragazzi e ragazze esprimono sentimenti
contrastanti sulla scuola: uno di loro (sui cinquant'anni come tanti altri intervistati) mette in bocca ai giovani un'opinione, presumibilmente presente nelle famiglie, quando rivela che “molti [dei nostri] figli lasciano la scuola senza completare l'obbligo perché non la considerano importante [per il loro futuro]. Ma invece nel nostro settore vuol dire moltissimo avere un'educazione [che è necessaria] per andare d'accordo [con i “fermi”*]”. “Andare d'accordo” implica un saper fare diventato ormai consapevole delle complicazioni della politica locale (le decisioni sul mantenimento di una “sagra” e di una “piazza”) e della burocrazia, cui l'educazione offrirebbe un sostegno indispensabile, ancorché comprensibilmente strumentale: nel 2000, la scuola serve “per sapere — secondo un altro di loro — che cosa dire alla persona con cui uno deve parlare, per sapere che cosa significano certi problemi, per conoscere il passato, il presente, quello che bisogna fare, e quello che non bisogna fare”. Oggi, quando i moduli da riempire si moltiplicano, non diversamente da quel che avviene per i diversi obblighi fiscali da rispettare, “occorre poter capire almeno l'80% di quello che c'è scritto sopra [il modulo], e quello che occorre scriverci”. Questo capofamiglia confessa di aver frequentato soltanto le elementari, senza curarsi di arrivare al diploma di terza media? e, “ancora oggi, di maledire di non averlo fatto”. Nonostante ciò, ha la convinzione di aver imparato “un bel po' di cose” e soprattutto a valutare le situazioni e le persone. Aggiunge che, “quando si deve parlare con le persone ‘studiate’’, uno non
* | “fermi”, nella lingua del gruppo, sono ovviamente la popolazione sedentaria, cui portare le attrazioni e con cui negoziare la “piazza” (e allora sono più precisamente gli amministratori locali, i vigili, gli impiegati dei servizi).
! Si tratta di una situazione tutt'altro che isolata: in effetti, buona parte dei capifamiglia intervistati ammette che il loro percorso scolastico è stato spesso molto breve, oltre che frammentato. % È l'espressione veneta per indicare le persone che hanno studiato oltre la scuola dell'obbligo.
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vuol fare un brutta figura, come se non sapesse da dove viene o che cosa vuole”. La consapevolezza dell'importanza dell'istruzione è manifestata non soltanto a parole: ad esempio, una giovane coppia, il cui unico figlio era iscritto alle elementari al tempo della intervista, s'impegna a far frequentare la medesima classe quanto più a lungo possibile, almeno finché le “piazze” restano a una distanza di 20, 30 chilometri dalla scuola. Poi, quando il “giro” si sposterà nella direzione opposta, useranno la stessa strategia con un'altra scuola che potrà essere più agevolmente raggiunta dalle nuove postazioni di lavoro. È la mamma, di origine “ferma”, ad assicurare la continuità di frequenza, facendo da autista al figlio, ma il medesimo impegno nel trovare soluzioni perché i figli frequentino il minor numero di scuole mi è stato raccontato anche da madri e padri “viaggianti” da qualche generazione.?” Altri hanno preso una casa o un appartamento in città o in paese, in modo da potersi spostare con il “mestiere” mentre i figli continuano la frequenza scolastica: si tratta di una decisione che di solito ha meno successo di altre (queste famiglie ammettono che è durissimo abituarsi alla condizione di sedentari), ma è indicativa dell'attenzione per le esigenze di studio e socializzazione dei propri figli. Un'altra scelta consiste nel lasciare i figli presso qualche parente “fermo”, sia per favorire
un
percorso
scolastico
continuativo
sia per
contrastare gli effetti negativi (sul senso di dovere scolastico) prodotti dal persistente clima di divertimento presente nelle “sagre”? Fino a che è rimasto aperto, e solamente nel caso di figli maschi, il ben conosciuto “Collegio Santa Caterina” (ormai chiuso da qualche anno) ha accolto un non piccolo numero di
3 È di solito sulle madri che ricade la responsabilità maggiore per stabilire e mantenere buone relazioni con il personale scolastico (amministrativo e insegnante), spiegando le ragioni di un comportamento inaccettabile in classe, cercando di capire quale parte del programma si sta svolgendo e come si colleghi al percorso d'apprendimento che i figli stanno facendo, esplorando
le possibilità di aiuti materiali come libri e materiale didattico che la scuola può offrire e preoccupandosi di accompagnarli e riprenderli se insieme al marito decide di privilegiare la continuità di frequenza secondo le modalità già indicate.
138 Le attrattive dell'ambiente lavorativo e di vita dei “viaggianti” — così negativamente giudicato da quel genitore — evoca in me il ricordo della conversazione iniziale tra Pinocchio e Lucignolo, prima di buttare i libri alle ortiche ed emigrare verso il Paese dei balocchi.
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studenti “viaggianti”. Che il “Collegio Santa Caterina” sia stata un'opzione popolare non toglie che lo stare lontani durante la settimana non comportasse dolore e avvilimento sia ai giovani sia ai genitori: così — racconta una coppia passata per questa esperienza —, nonostante avessero portato il “mestiere” in una
“piazza” a qualche ora d'automobile dal “Collegio”, facevano volentieri tutti i chilometri necessari ad andare a prendere il figlio, pur di passare il fine settimana insieme (continuando a lavorare). Occorre dire che queste donne e questi uomini non investono nella scolarizzazione dei figli perché, come scolari, abbiano avuto molto dalla scuola: sebbene uno di loro sottolinei che gli sono stati insegnati il rispetto e la buona educazione verso i genitori, aggiunge che gli insegnanti non si curavano della difficoltà scolastiche e sociali che alunni come lui dovevano regolarmente affrontare. Erano severi, talvolta usavano le maniere forti con quelli indisciplinati o “lavativi”, a differenza di quel che accade oggi, quando i maestri hanno maggiori attenzioni per i loro scolari e si preoccupano che capiscano quello che insegnano. Mostrando una non banale capacità di
assumere il punto di vista pedagogico, il medesimo genitore afferma che ciascun alunno deve attivamente partecipare al processo d'apprendimento. Altro che portarsi a scuola i videogiochi per giocarci mentre il maestro spiega! Per forza che questo deve poi punirli! — conclude con passione. Neppure i periodici contatti che questi genitori hanno con le scuole si rivelano sempre gradevoli: i moduli d'iscrizione spesso propongono l'etichetta sociale (nomade, giostraio) che queste famiglie vorrebbero scrollarsi di dosso, facendo invece valere la specificità occupazionale che li distingue e che alcuni scrivono nello spazio segnato come altro: esercente di spettacolo viaggiante. Non essere previsti dalla modulistica li rende invisibili ai “fermi”, ma soprattutto conferma la loro convinzione che tale svista è un'altra faccia del pregiudizio (e dell'ignoranza) nei loro confronti: la gente, nelle cui “piazze” il “mestiere”, o il circo, vengono montati, immancabilmente ha nei loro confronti un atteggiamento diffidente, se non addirittura di chiusura pregiudiziale, in quanto li confondono con gli zingari. Solamente quando essi “riescono a farsi conoscere”, o finché “insegnanti, compagni, non capiscono che siamo”, diventando
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disponibili “perfino a dare una mano”, potrà scattare la simpatia, l'apprezzamento e il rispetto nei confronti dei “viaggianti”. La giovane coppia presentata qualche riga più sopra spera che il figlio possa diventare ragioniere o meccanico; il padre, che aveva scelto di rimanere a lavorare nell'impresa di famiglia viste le buone prospettive del settore durante gli anni Sessanta, ora guarda con preoccupazione ai cambiamenti nelle condizioni di lavoro. Non è chiaro per quanto tempo ancora il “mestiere” potrà garantire una vita decorosa e quella soddisfazione sul lavoro che finora c'è stata e, se nel passato si poteva trovare un lavoro fisso con poca difficoltà, oggi sa fin troppo bene che c'è invece bisogno di un diploma di scuola superiore: “uno deve sapere un sacco di cose, ora”, e anche questo genitore vorrebbe aver continuato a studiare. Si tratta di preoccupazioni e rimpianti che risentirò nei discorsi sulle prospettive future di vita e di lavoro del “viaggiante”, ma che passano tuttavia in secondo piano quando le persone riflettono sulla propria capacità d'imparare. Sia nello spiegarmi come si può montare o aggiustare o migliorare il “mestiere”, o come si diventa un provetto giocoliere o acrobata, sia nell’illustrarmi come vincere le difficoltà incontrate a livello sociale e/o amministrativo, ciascuno esprime un legittimo orgoglio per la propria capacità di far tesoro delle esperienze, ricavandone importanti insegnamenti. Uno dei capifamiglia già citati è per esempio convinto che la pur limitata educazione scolastica lo abbia aiutato a stabilire più efficaci rapporti sociali e lavorativi. Forse — aggiunge — anche qualcuno con “meno scuola” di lui (che si è comunque fermato alla licenza elementare) poteva raggiungere i medesimi obiettivi, ma “avrebbe dovuto contare sul fatto che chi lo ascoltava capisse che cosa voleva”. In quest'ultima considerazione non c'è tanto l'indifferenza per la collaborazione interpretativa di un interlocutore, quanto l’insofferenza per la dipendenza dagli altri e l'aspirazione a saper fare da sé, due valori culturali che dovrebbero garantire quel che più preme a chi è, o si troverà, responsabile di questo tipo d'impresa familiare, e cioè avere un certo controllo sulla situazione.
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3.2. L'educazione dei “viaggianti” Il contributo
che gli antropologi
hanno
tradizionalmente
dato alla pedagogia” ha riguardato quella che il punto di vista pedagogico definirebbe educazione extra-scolastica, ma che per l'approccio antropologico concerne la trasmissione e l'acquisizione dei modi, valori, comportamenti, credenze culturali: si tratta di un processo educativo che inizia con la nascita e prosegue per tutto l'arco di vita di un individuo, di cui modella (soprattutto inizialmente ma non definitivamente) anche il senso d'appartenenza o d'identità collettiva. È proprio tenendo conto degli effetti dell’inculturazione che gli antropologi dell'educazione hanno formulato agli inizi degli anni Settanta la teoria della discontinuità culturale, cui successive versioni e discussioni fanno comunque riferimento. È dunque in questo senso che dev'essere inteso il titolo di questo paragrafo, e cioè l'educazione che i “viaggianti” danno ai propri figli affinché possano partecipare alla vita della famiglia e del gruppo, identificandosi con lo stile di vita e di lavoro che li caratterizza. Sebbene le condizioni materiali e storico-politiche non possano né debbano essere sottovalutate quando si fa ricerca e s'interpreta uno stile di vita come distinto da altri, il nominarsi e presentarsi in quanto (almeno in parte) “differente” de-
ve molto anche all'educazione che giovani e giovanissimi ricevono nell'ambiente quotidiano di vita. Nel paragrafo precedente citavo un capofamiglia quarantenne che, mentre auspicava
per il proprio figlio un diploma di secondaria superiore, ricordava come, nel suo caso, la scuola avesse rivestito un limitato interesse, dato che poteva affermarsi grazie al “mestiere”. Le sue parole mi colpirono, all'epoca dell'intervista, per la qualità evocativa che possedevano e che permette di capire alcune delle ragioni che favoriscono la continuità di questo settore lavorativo e stile di vita. In tono sognante (come si rileva dalla registrazione) l’uomo ricorda le notti estive sui Colli Euganei
*° Questo, naturalmente, finché non si è costituito il settore di antropologia dell'educazione alla fine degli anni Sessanta, quasi esclusivamente dedicato allo studio dell'istituzione scolastica e alle situazioni di conflitto o discontinuità tra l'educazione (l'inculturazione) ricevuta in famiglia o nel gruppo e quella impartita a scuola.
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di poco-meno di trent'anni fa: l'aria profumata è attraversata dalla musica che fluttua intorno e che cattura le emozioni dei giovani in attesa di fare un giro sulla giostra. Pur riconoscendo che la situazione è cambiata (egli stesso ha una sala giochi, oggi), il narratore raccomanda di tenere conto che allora il “mestiere” attraeva tutti, abitassero in paesi o villaggi. La “sagra” era un grande evento. Alcuni arrivavano in bicicletta anche da paesi non proprio vicini. E le ragazze seguivano la mia giostra alla “sagra” della settimana dopo, e poi a quella dopo, e a quella dopo ancora. Anche se montavo
il “mestiere” in una “piazza” che era a cinque, sei
chilometri di distanza da dove abitavano, loro arrivavano lo stesso in bicicletta. lo compravo i dischi delle canzoni più popolari e li mettevo su per tutta la ‘stagione’. La ‘stagione’ dopo, se li suonavo di nuovo facevano venire in mente l'estate precedente. E se rivedevo alcune ragazze dell'anno prima, mettevo su il “loro” disco. Se lo può immaginare tutto questo?‘ Noi [giostrai]" eravamo qualcuno, si stava alla
cassa e si suonavano i dischi, le ragazze chiedevano di mettere su questo o quell'altro disco, ci si sentiva [grandi] e ogni sera era una gran sera, non c'erano sere “morte”, allora!
Oggi anche molti altri intervistati dicono che il lavoro è diminuito, che c'è una minore partecipazione di pubblico e un minor entusiasmo e che la società stessa è cambiata, ma i più giovani continuano — come nel passato — a stare alla cassa e a mixare la musica con grande slancio, intrattenendo i possibili clienti grazie a una capacità comunicativa vivace e accattivante che i genitori per primi riconoscono e apprezzano. Pur nelle inevitabili differenze individuali, le capacità d’intrattenere e il gusto per la musica sono appresi attraverso la partecipazione quotidiana al lavoro dei genitori: non è insolito vedere bambini ancora molto piccoli sedere alla cassa, accanto alla mamma, e osservare l'andare e venire dei gettoni e delle monete che in breve tempo
impareranno
a conoscere
e perfino a utilizzare.
Quanto alla musica, a monte c'è di solito un padre appassionato di sistemi hi fi che ha trasmesso il proprio interesse ad almeno uno dei figli, il quale avrà presto l'opportunità di 4° La domanda è ovviamente rivolta a me!
4! Come il lettore avrà notato, nel testo alterno tra i termini “viaggianti”, “attrazionisti” e (occasionalmente) “giostrai”. La distinzione non è irrilevante,
ma in questa occasione non mi è possibile riprendere l’analisi terminologica che è stata presentata durante il seminario ad Harvard e dunque mi limito soltanto a evidenziarla.
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apportare miglioramenti e di aggiornare con successo il repertorio, poiché (riconoscono gli adulti) condivide l'età e i gusti del pubblico giovanile. Ancora adolescenti, figli e figlie di questi “viaggianti” hanno possibilità di fare scelte e prendere decisioni che mettono in luce la loro capacità d'iniziativa e la loro responsabilità, cui peraltro giungono dopo un apprendistato familiare che li abitua ad affrontare e risolvere i diversi problemi che una vita nomade comporta. Non che un capofamiglia‘ sia effettivamente disposto a cedere il passo e ad andare in pensione — come invece parrebbe pronto, o pronta, a fare di fronte ai successi e alla responsabilizzazione dei figli; al contrario, riconoscere e lodare gli elementi innovativi introdotti dalle nuove generazioni è una strategia che i “vecchi” mettono in atto per evidenziare a un'estranea (in questo particolare caso), ma anche ai membri della famiglia, che soltanto se il “mestiere” è costantemente migliorato, facendo ampio uso della tecnologia (inclusa quella del tempo libero, come i videogiochi), l'impresa familiare potrà continuare a prosperare. Al di là dei successi e del benessere che giostre e circhi possono portare," sono molti — giovani e adulti — ad affermare che desiderano continuare a condurre questo tipo di vita, finché ne avranno la possibilità, perché ne apprezzano l'assenza di orari e di obblighi prestabiliti (da qualcun altro). Oltre al compito di montare e smontare la giostra o il tendone del circo — sostengono tutti — ci sono pochi altri doveri e lavori da fare. In realtà, spesso l'impegno e la fatica che un “mestiere” o il circo esigono sono perfino più duri di quelli richiesti dal lavoro in fabbrica: infatti, anche se non ci sono orari e cartellini da timbrare, le regole stabilite dai comuni costringono a trasbordi nel cuor della notte o all'alba (soprattutto d'estate, quando si cerca di evitare le ore di grande caldo) in modo da smontare, partire, arrivare
e montare il “mestiere” o il tendone
* Occorre precisare che quando il marito o il padre venga a mancare in giovane età, le donne — anche giovanissime — assumono e svolgono con successo il ruolo di capofamiglia, rispettate e obbedite dai figli maschi anche quando questi sono diventati adulti e hanno formato la propria famiglia. L'autorità, nelle famiglie da me intervistate, non è tanto una questione di genere, quanto di saper fare e di responsabilità, ‘4 A volte, tuttavia, ci si accontenta (ci si deve accontentare) di sbarcare il lunario in maniera più o meno dignitosa, soprattutto quando si è proprietari di una piccola giostra (affettuosamente chiamata “giostrina”) o di un piccolo
circo.
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del circo secondo le rigide tabelle di marcia predisposte dalle amministrazioni. Anche trovare e mantenere una “piazza” è un altro onere di cui i “viaggianti” si debbono far carico: sebbene non vi sia dispendio di forza fisica per portarlo a termine, non è meno impegnativo dei lavori che la richiedono, perché non raramente li fa viaggiare in lungo e in largo per riuscire ad assicurarsi una nuova occasione di lavoro e, come per le “piazze” già prenotate, occorre mettersi in contatto con gli amministratori locali, riempire moduli, pagare luce, acqua, la tassa sul plateatico. E Nonostante i pesanti e complicati spostamenti, le difficoltà di rapporti con le amministrazioni e la diffidenza con cui spesso si scontrano, queste famiglie ribadiscono che la loro vita è
caratterizzata dalla libertà,‘ che definiscono non tanto come possibilità di scegliere ma perché si differenzia dalla vita delle famiglie “ferme”, dove ci si deve alzare ogni mattina per andare in fabbrica e “timbrare il cartellino”. In ogni caso, questo modo di vivere insegna abilità molteplici (come si sarebbe tentati di dire, seguendo un attuale filone psicopedagogico), necessarie quando si mettano in atto ruoli molteplici. Dopo averli menzionati (camionisti quando si viaggia, esperti di pubbliche relazioni quando si fa domanda per una “piazza”, segretari di se stessi quando si riempiono i moduli, operai quando si monta e smonta il “mestiere” o il tendone del circo), il mio interlocutore tira le conclusioni, sintetizzando che, “se uno non può fare queste cose da solo, non concluderà niente”. Quanto a lui, si è assunto la responsabilità di trasmettere ai propri figli i valori dell'autosufficienza, del duro lavoro, dell'attenzione vigile verso gli altri (che possono aiutarti ma anche farti del male), della sollecitudine nei confronti del pubblico. In questo non agisce diversamente da altri capifamiglia, il cui successo educativo è
“ Per la verità, qualche coppia di mezz'età, i cui figli sono ormai diventati indipendenti e gestiscono il loro “mestiere”, afferma di desiderare di fermarsi per l'eccessiva fatica che occuparsi di una giostra in due richiede 4 In queste affermazioni (che ho qui soltanto riassunto), il termine di paragone cui gli interlocutori fanno riferimento non è una generica “famiglia ferma”, ma famiglie di operai o d'origine contadina. Non casualmente — credo - le mogli d'origine “ferma” da me intervistate provengono da tali contesti sociali e, pur non nascondendo(si)
le durezze della vita nomade, non manca-
no mai di sottolinearne la dimensione di libertà
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testimoniato dai comportamenti
e discorsi della generazione
più giovane.‘ Le parole di un giovane circense illustrano vividamente non soltanto i risultati di tale processo di trasmissione, ma (come si vedrà più avanti) anche la dimensione più propriamente educativa che lo caratterizza. Così, in tono appassionatamente convinto, afferma che nel circo, bisogna saper fare tutto. Dal montare il circo allo smontarlo, la luce, se ti si rompe un faro, vai a chiamare l’elettricista? Perché se viene fuori ti chiede 35.000, 38.000 lire, quello che è, all'ora, per fare cosa? Per tirar via la scatoletta e vedere che un filo è bruciato, ti leva con due viti il filo e... Allora, impari. Mentre lo chiami la prima volta gli chiedi: “Ma questa cos'è, la messa a terra? E queste sono le due fasi?”. Nel 220, nel 380 c'è le tre fasi, e lui te lo spiega. Mio zio già lo sapeva... all’inizio magari non ti interessa, ma dopo che cosa succede? Ti capita che non c'è lo zio e non sai fare niente, e allora la prossima volta vai a vedere, ti interessi e dopo impari... dopo, capita la meccanica, impari. [...] Poi devo fare il carrozziere se devo cambiare una gomma, c'è da cambiare l'olio alla macchina, sono andato a fare la revisione della macchina e c'era da smontare il filo del fanale e cambiarlo. Siccome, se lo facevo fare a loro ci voleva un'ora, allora sono andato in carrozzeria a smontarmelo e a cambiarlo, e l'ho cambiato. [...] [Con gli elettricisti e i carrozzieri] si ritorna al discorso che arrivi là e “Piacere, sono del circo, avrei questo problema, e così, così, così”. Se trovi la persona che ti guarda e non ti guarda, allora io capisco che è una persona che non gliene frega niente dei tuoi problemi, gli interessa solo quando vai a pagare, e allora cosa fai? “Ah, grazie, al massimo ripasso”. Finché non vado da un elettrauto normale e gli dico “Bon” e vedi che ti sta ascoltando: “Avrei ‘sto problema, cosa vengo a spendere? E per risparmiare, posso farlo io?”. Allora si ritorna su essere spigliati, magari fai un po' di simpatia con la persona per fargli capire che sei in difficoltà e si riesce.‘ [...] Ci vuole tatto,
“ Per ammissione stessa dei numerosi “viaggianti” intervistati, non tutta
la categoria segue e mette in pratica questi valori e comportamenti, come la “cattiva stampa” di cui godono i giostrai e la diffidenza che viene regolarmente menzionata dimostra fin troppo chiaramente. L'obiezione che mi si potrebbe fare è che le maggioranza delle famiglie da me intervistate conducono una vita onesta (come esse stesse tenevano a chiarire nelle presentazioni di
sé che per la loro ampiezza e ricchezza non possono trovare posto in questo testo), del che, ovviamente, non ci si può che rallegrare, tanto più che permette di segnare un bel punto a vantaggio della critica al pregiudizio sociale, in cui si è tradizionalmente distinta l'antropologia culturale e dell'educazione e a cui aspira la pedagogia interculturale. ‘’ La madre presente alla conversazione (le interviste sono sempre state “pubbliche” e il circolo degli astanti interveniva regolarmente sulle risposte
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non solo avere studiato, e sapere le cose, quello ci vuole, perché è logico che uno deve saper scrivere, leggere, parlare, e gli dico “Senta, ma scusami, dimmi”... Una cosa che tante volte nota subito la gente: “Ma tu non sei di qua”. Gli dici “Perché?”, “Perché parli l'italiano”, mi dicono, e io gli devo dire di sì. Però se loro mi dicono “lo parlo il dialetto, tu mi capisci, però parli l'italiano”... allora tu gli dici che sei del circo [e loro] “Ah, ecco perché! Sei abituato a girare”.
L'apprendimento di competenze tecniche non può che essere accompagnato da — e avvalersi di — una serie di competenze sociali che sono cruciali per la sopravvivenza dell'impresa familiare. Spesso tali competenze fanno parte del sapere dei genitori e talvolta l'impossibilità a trasmetterlo può provocare serie conseguenze. Un ex-circense, che ora gestisce un “mestiere”,
racconta di come la morte improvvisa del padre avesse portato l'impresa familiare sull'orlo della bancarotta perché egli, pur essendo capace di gestire la giostra in quanto macchina, mancava proprio di quel sapere sociale‘ che aveva fatto la fortuna del genitore e che è stato poi faticosamente ricostruito, riuscendo a evitare il peggio. Peraltro, quello che ho chiamato “competenze” o “sapere sociale” include anche le regole della buona educazione; esse dovrebbero permettere ai “viaggianti” di riuscire a essere autosufficienti, contenendo le spese che altrimenti decurterebbero i già risicati guadagni, e mantenere e persino ampliare il successo lavorativo (nonostante i tempi difficili). AI termine di molti spettacoli, la famiglia circense sopra menzionata offre biscotti e caffè agli spettatori che si fermano per complimentarsi delle acrobazie e delle gag: è un atto di gentilezza e di amicizia verso chi mostra apprezzamento per l'impegno profuso nelle esibizioni (e uno dei figli commenta: “In un lavoro qualsiasi, normale, raramente vedi qualcuno che viene lì e ti dice bravo”), ma anche un modo per essere ricordati e mantenere in quelle persone il desiderio e l'interesse per ritornare al circo. Chi gestisce un “mestiere” sottolinea ugualmente la necessità di essere solleciti e cortesi verso i clienti, dell'intervistato di turno, facendo commenti o aggiungendo questo punto afferma: “Siamo persone educate”.
‘4 Grazie a tale sapere sociale, il padre defunto andava
informazioni) a
a montare
il
“mestiere” nelle zone urbane sempre alla fine del mese, quando gli operai prendevano la paga (racconta il figlio), ed evitava quelle rurali in estate, quando i contadini sarebbero stati troppo stanchi, alla fine della giornata di lavoro, per andare in “piazza”.
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ma precisa inoltre che mette in pratica anche altri valori e comportamenti, secondo lui indispensabili al successo lavorativo nel settore e a una positiva considerazione da parte dei colleghi: Siamo delicati nell'ambiente nostro, nella nostra giostra, perché viene gente estranea, bisogna che sia pulito, che inviti la gente a venire, e quando sono io alla cassa non piace mica troppa confusione.
Bisogna che le cose siano severe, serie perché montano bambini. Il genitore porta un bambino lì... e il genitore vuole sicurezza, serietà e sicurezza. Mica come certi giostrai che vedi in giro, per carità, vedi un
caos... lo ho sempre lavorato bene dappertutto, perché [mostro] gentilezza, educazione, ho fatto clientela. Vedo [per esempio]... la signora che viene parecchie volte, [e paga] diecimila lire di gettoni, cinquemila, gliene do due o tre in regalo perché è una cliente che viene, quella ritorna sempre, ti ricordi le facce.
L'atteggiamento di fiducia e sicurezza nelle proprie forze e capacità è prominente anche nell'apprendere a gionglare e a fare le acrobazie contorsionistiche: nella famiglia circense già citata, il contorsionismo era praticato dalla nonna, un'acrobata a suo tempo famosa, i cui consigli e suggerimenti professionali sono stati a lungo ricercati dai colleghi circensi più giovani. Con la nipotina più piccola pretende troppo poco, si cruccia
il padre di quest'ultima. La ragazzina (che aveva 11 anni al momento delle interviste) sembrava infatti preferire le poesie e il disegno alle esercitazioni. Ma se soltanto si applicasse seriamente — sospira il padre — potrebbe superare in bravura persino la sorella maggiore, aggiungendo subito dopo che però non si può imporre a una persona di fare una certa cosa. Le si può dare dei suggerimenti, ma è sempre lei a decidere che cosa fare e come farlo. Anche il fratello le dà consigli e vorrebbe insegnarle nuovi esercizi, ma la sorella di solito si sottrae a questi inviti e invece, quando ne ha voglia, se ne va a provare, tutta sola, dietro la “carovana”. Quanto al fratello, anch'egli sostiene le ragioni di un saper fare che deve di più a un apprendimento individuale svolto per “prove ed errori” (e quasi testardo) che all'insegnamento magistrale impartito dall'adulto esperto: sia lui che il fratello minore, pur rispettando le esigenze del circo il cui programma richiedeva due clown, hanno poi deciso da soli gli esercizi che desiderano fare nell'arena. Effettivamente “Pallina”, il più giovane,
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fa ancora il clown, seguendo copioni scritti decenni prima dal nonno e via via adeguati (ma senza eccessi) al gusto corrente. Tuttavia egli ha voluto diventare anche giocoliere, imparando a gionglare dapprima osservando il fratello maggiore (che ora lo considera un grande giocoliere) e poi facendo pratica per conto proprio. “Provare, provare, provare |[...] è questione di pratica”, commenta il grande; e aggiunge: mio papà dice sempre ‘se tu vuoi fare una cosa e ti impegni, la fai’...
lo sono bravo a fare il giocoliere... perché mi piace, l'ho fatto e ci sono riuscito, mi sono impegnato e l'ho fatto. Poi c'è chi impara prima e chi impara più lentamente, come i bambini a scuola.
È ipotizzabile che la soddisfazione di riuscire bene nel gionglare o nelle acrobazie si raddoppi per la consapevolezza che il traguardo è stato raggiunto con le proprie forze e la propria inventiva (indispensabile per costruirsi gli attrezzi di prova, un argomento che richiederebbe un paragrafo a parte) e che il contributo degli adulti insegnanti è più che altro servito da avvio verso un percorso che ciascuno compie secondo i propri tempi e i propri interessi. L'insegnamento degli adulti
sembra consistere non tanto d'indicazioni pratiche o di esortazioni per così dire morali (che non mancano di essere comunque offerte ai più giovani) quanto di una filosofia della vita una
volta di più centrata su valori come autonomia, impegno individuale, dedizione alla famiglia e all'impresa familiare, fra gli altri. Questi ultimi due aspetti sono profondamente intrecciati nelle vite di molte persone intervistate che mi sottolineavano come essere esercente di attrazioni “viaggianti” significhi sentire profondamente, e contemporaneamente, l'obbligo verso la famiglia e il “mestiere”, prendendosi cura dei genitori quando diventano vecchi e assumendosi la responsabilità dell'impresa. Prima che questo avvenga, tale sentimento significa invece che ogni scelta riguardante il “mestiere” o qualsiasi decisione futura saranno discusse insieme ai familiari, non soltanto per rispetto verso i propri cari ma anche perché senza la loro cooperazione e consenso sarebbe difficile, se non impossibile, realizzare un progetto, o persino continuare il lavoro secondo una ben collaudata routine. Si tratta di un sentimento che ritroviamo, da un lato, nell'orgoglio espresso dai giovani per la propria capacità di partecipare fattivamente alla conduzione
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dell'impresa familiare‘ e, dall'altro, nella “passione” per il “mestiere”, indipendentemente dall'età o dalla generazione. Così, la figlia di un “attrazionista” non soltanto ricorda che anche durante gli anni di scuola non mancava mai di dare una mano in famiglia, sia stando alla cassa sia montando e smontando il “mestiere”, ma di essere anche stata molto orgogliosa per il contributo indispensabile che dava. Mentre mi racconta di come, da bambina, avesse per esempio imparato a valutare se il pianale della giostra fosse a livello e il modo di rimetterlo eventualmente in sesto, osservando?° che cosa facevano gli adulti, interviene sua figlia di otto anni a spiegarmi che cosa voglia dire mettere il pianale “in bolla” e come anche lei sia in grado di indicare se ci vogliono le zeppe, e quante, per raddrizzarlo. Dal canto suo, il padre (e nonno) aveva riconosciuto, in una precedente intervista, che la ragazza era un uomo nel lavoro... Imparava da sé, dopo due o tre volte che aveva visto, sapeva come fare. Non occorreva dire niente, sapeva già
dove andava il pezzo. A sei, sette anni non poteva dare una mano, ancora, ma era lì che giocava nell'ambito del lavoro, e vedeva che cosa si faceva. E ha imparato senza che io gli dicessi niente, praticamente.
E senza grandi discorsi si trasmette e si impara anche la “passione” per il “mestiere”?!, un'espressione usata da alcuni per parlare di ciò che li lega alle giostre. Si tratta di un sentimento che spinge a prendersi cura del “mestiere” non soltanto controllandone la sicurezza (come richiede la legge), ma soprattutto rendendolo sempre più attraente, grazie ai colori “alla moda” con cui lo si dipinge o alle scintillanti ringhiere di acciaio che si applicano per proteggere i clienti in modo sempre più efficace, alla musica “giusta”, alla pulizia e alle attenzioni ‘ Come ho già indicato precedentemente, i genitori apprezzano e riconoscono l'aiuto e la collaborazione che i figli danno loro fin da piccoli e li ripagano il lavoro ricevuto comperando un “mestiere” non appena sanno che un figlio o una figlia progettano di sposarsi. ?° La sorella di uno dei giovani intervistati, intervistata a sua volta, mi dirà di aver appreso come riparare le macchine dell'autoscontro guardando che cosa facevano gli adulti e chiedendo loro spiegazioni. ?! Il giovane circense citato in precedenza, riflettendo sulle prospettive future del piccolo circo familiare, esprimerà la propria lealtà alla famiglia affermando che se il circo dovrà chiudere, egli andrà a lavorare in fabbrica (un'idea che in effetti non sopporta) piuttosto che in un altro circo.
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per la clientela. Sintetizzando, si potrebbe dire che tale “passione” rappresenta un'altra linea di confine simbolica tra gli “attrazionisti” bravi e onesti e gli altri, la quale va ad aggiungersi a quelle tracciate lungo l'appartenenza etnica o le capacità imprenditoriali. Coloro che si presentano come parte
del primo gruppo”? dicono per esempio di passare la maggior parte della sosta invernale impegnati nelle necessarie riparazioni e migliorie al “mestiere”, o nella periodica pittura del medesimo con nuovi colori che, se sono quelli “giusti”, riusciranno ad attrarre un maggior numero di persone proprio come avviene con le scene e i disegni dipinti sulle fiancate della giostra, per le quali il “bravo” “attrazionista” si assicura un artista specializzato.
4. Conclusioni: c'è una giostra nel futuro? L'“attrazionista” che indicava nella persistente atmosfera di divertimento caratteristica del mondo viaggiante la causa della disaffezione giovanile verso la scuola disconosceva la dimensione educativa esistente in quel medesimo mondo. Di essa ho dato un resoconto che, seppure parziale, riesce a mettere in evidenza
quanti
e quali aspetti vengano
ignorati,
o persino
cancellati, quando la riflessione pedagogica non si confronta con processi di trasmissione e d'acquisizione culturale che soltanto per un vizio di prospettiva continuiamo a definire come “extra-scolastici”. In realtà, l'antropologia dell'educazione ha piuttosto
mostrato
come
essi
possano
essere,
o diventare,
“contro-scolastici” (se mi si passa il neologismo) quando la diversità quotidiana non sia legittimata ad assumere lo statuto d'interlocutore con la cultura dell'istituzione scolastica. | primi risultati di questa mia ricerca etnografica indicano invece che il confronto con modalità di vita e di lavoro differenti da quelle condivise dalla maggioranza (nozione che richiede di essere
?? Rispetto alla presentazione di sé e ai criteri usati per identificarsi e contemporaneamente distinguersi dagli altri, qui è in gioco l'esigenza dei miei interlocutori di definirsi sia rispetto a un'outsider sia rispetto ai sottogruppi che costituiscono la complessità interna del gruppo “viaggianti”, piuttosto che una verità fattuale (che pure esiste, ma di cui non si può dar conto in questo testo per ragioni di spazio).
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precisata e approfondita, poiché attraversata da, e componente di, tale diversità) permetterebbe di ampliare la definizione teorica di educazione (e di persona educata) e di individuare modalità e valori pedagogici là dove non si penserebbe di guardare o ascoltare. Non è tuttavia mia intenzione celebrare la diversità, misconoscendo le costrizioni e i limiti presenti in questo come in altri modi di vita e che gli “attrazionisti” stessi riconoscono e denunciano.? Indubbiamente si tratta di un equilibrio culturale, sociale ed educativo delicato che s'instaura tra la coscienza di quanto amaro possa essere il sentimento dell'obbligo verso la famiglia e l'impresa familiare e la prospettiva di protagonismo che concede. Da un lato, essersi assunto la responsabilità del “mestiere” a quindici anni (com'era accaduto a un mio interlocutore) fa ancora riflettere quest'uomo di mezz'età sulle alternative a lui precluse e sul duro fatto che spesso l'impresa familiare resta a galla soltanto se i genitori riescono a “legare” i figli al “mestiere” convincendoli che sarà una buona cosa per loro; dall'altro, l'entusiasmo che si sente nelle parole di giovani e adulti testimonia anche di un lavoro che continua a dare soddisfazioni, che permette di sognarsi protagonisti e padroni della propria vita: “uno ha il suo ‘mestiere’, lo apre e lo chiude alla fine di una giornata di lavoro, e se tutto è andato bene riesce anche a guadagnare qualcosa. Ma dove si può trovare un lavoro come questo?”. Non deve dunque sorprendere se anche gli scolari brillanti (e un certo numero
di “fermi” e “ferme”)
? Occorre riconoscere che i trent'anni e più che ormai ci distanziano dalla legge sullo spettacolo viaggiante (1968) non sono passati invano sul territorio veneto. Non mi riferisco soltanto ai cambiamenti che riguardano la crescita impetuosa del settore industriale, ma piuttosto a quelli culturali. Ritengo interessante riassumere le valutazioni che ne danno alcuni degli “attrazionisti” intervistati, perché le loro parole evidenziano aspetti la cui rilevanza socioculturale sembra ormai sfuggire ai più. Per esempio, che dello “spazio” particolare offerto da giostre e tendoni del circo alle giovani coppie per i loro incontri amorosi non c'è più bisogno: infatti, la rivoluzione sessuale degli anni Settanta ha cambiato le regole del comportamento di coppia appropriato. E se molto probabilmente tale rivoluzione è arrivata nei paesi e nelle cittadine un decennio più tardi, i suoi effetti non hanno comunque mancato di farsi sentire. Inoltre i circhi, anche i più piccoli, che non possono permettersi di tenere animali, hanno recentemente dovuto fare i conti con le campagne animaliste che — a detta degli interessati - hanno messo in discussione una venerabile tradizione circense e la buona fede e l’amore per gli animali dei circensi stessi.
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desiderano vivere una vita? che sembra valorizzare le loro capacità d'azione, di relazione ma anche di giudizio — obiettivi e valori oltretutto condivisi anche dalle società sedentarie, che semmai li perseguono e li diffondono con modalità differenti, in particolare nell'ambito scolastico. La ricerca etnograficoeducativa nell'ambito di questa minoranza occupazionale può contribuire a iniziare una conversazione educativa (nel doppio senso che è fatta dagli educatori e che educa) sulla differenza di significati ed esperienze in relazione al processo di scolarizzazione e a quello più ampio di educazione, oltre che a mettere in luce la dinamica della formazione e mantenimento di un'identità collettiva, con le sue strategie di continuità e le scelte di trasformazione, soltanto in parte distinta da quella che, con grossolana generalizzazione, chiamiamo nostra.
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la frase con
questo particolare settore di lavoro si è immersi
le parole “da grandi”, ma
in
in questo tipo di vita (e re-
sponsabilità) fin dall'infanzia, come dicevo anche poco più sopra.
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