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Italian Pages 132 Year 2021
TEMI DEL NOSTRO TEMPO
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a cura di Dario Antiseri
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A Irene Gaeta (*1937), sempre ornata dai «tefillin» della giustizia e della bontà
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Gianluigi Pasquale
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ETICA FILOSOFICA
Presentazione di Carmelo Vigna
ARMANDO EDITORE
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ISBN: 978-88-6992-851-2 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2021 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525
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Sommario
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Presentazione
Carmelo Vigna
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Introduzione
L’interrogarsi sulla vita Gianluigi Pasquale
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Capitolo primo
Natura e funzione dell’etica 1. Etica filosofica: i termini 1.1 La possibilità di operare una distinzione tra etica e morale 1.2 Dai principi alle regole 1.3 Scienza normativa degli atti umani 1.4 Atto dell’uomo e atto umano 2. Moralità ed eticità nello sviluppo dell’etica occidentale 2.1 Enfasi sull’interiorità 2.2 Eticità è concetto più ampio di moralità 2.3 La moralità resiste rispetto all’eticità 2.4 La moralità trascende lo spirito del tempo 3. La teoria della corrispondenza e i diversi usi del linguaggio 3.1 Le proposizioni etiche non descrivono 3.2 Il bene è al di fuori del mondo dei fatti 3.3 Il discorso etico 3.4 Le azioni rivelano i principi morali
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4. Etica filosofica: una creazione di Aristotele 4.1 Critica all’idea platonica di bene 4.2 La scienza filosofica dell’etica 4.3 Il sapere etico è sapere pratico 4.4 In etica non vi sono soluzioni esatte
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Capitolo secondo
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I concetti di bene e di male
1. Bene e male: i concetti fondamentali dell’etica 1.1 Il bene riferito all’azione 1.2 L’uomo non è perfetto 1.3 Il male annulla l’ordine del bene 1.4 Determinazione razionale dell’etica 2. Il male dal punto di vista etico 2.1 La realtà del male 2.2 Male come aggressione 2.3 La crudeltà 2.4 La compassione 2.5 Male quale rottura dell’ordine 3. Le massime del nostro agire 3.1 Norme etiche per costruire il nostro agire 3.2 Le esigenze minime dell’etica 3.3 La volontà di vita e il principio etico 3.4 I bisogni umani e la felicità 3.5 I bisogni materiali e spirituali
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Capitolo terzo
Il senso morale
1. Il fatto morale è irriducibile 1.1 La coscienza è primaria nell’uomo 1.2 Giudizi morali, valori e merito 1.3 Gerarchia dei valori morali 2. Natura umana e senso morale 2.1 I sentimenti morali profondi
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2.2 Unità della natura umana 2.3 Istinto e senso morale 2.4 Predisposizione alla vita morale 2.5 La natura sociale dell’uomo 2.6 Il comportamento 3. Sentimento e ragione 3.1 Sentimenti morali naturali 3.2 Norme ancorate biologicamente 3.3 Le inclinazioni 3.4 La natura non sceglie per noi 4. Norme morali e biologia 4.1 L’adattamento filogenetico 4.2 Moralità delle norme 4.3 Evoluzione biologica e culturale 4.4 Interessi individuali e di gruppo 4.5 Tendenze comportamentali adattive 4.6 Il primo abbozzo del «senso morale»
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Capitolo quarto
Il dovere e il giudizio
1. Il dibattito sul dovere 1.1 Doveri estensibili e doveri contingenti 1.2 Valore, dovere, comando 1.3 Dipendenza, autorità, obbedienza 2. L’eterogeneità dell’etica 2.1 Coscienza, norme e situazioni 2.2 Principio della parzialità: priorità del bene rispetto al giusto 2.3 Etica della convinzione ed etica della responsabilità 2.4 La considerazione consequenzialistica 3. Il ruolo del giudizio nel conflitto morale 3.1 Dovere e circostanze 3.2 Etica della virtù e del dovere 3.3 Natura del giudizio morale 3.4 Esperienza e ideali teorici
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Capitolo quinto
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L’etica nella sfera della scienza e della politica 1. Scienza ed etica
101 102 1.1 Scienza e attività umana 102 1.2 Moralmente impegnativo e scientificamente verificabile 104 1.3 Un approccio interdisciplinare 105 2. L’orizzonte dell’etica e l’orizzonte della politica 106 2.1 Ordine sociale e Stato 106 2.2 Mediazione tra etica e politica 108 2.3 Il rischio della privatizzazione dell’etica 110 2.4 Ethos familiare e di gruppo 112 2.5 Coscienza e responsabilità 113
Conclusione
Quel bene che rimane
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Bibliografia di riferimento
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Indice dei nomi
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Presentazione
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Carmelo Vigna*1
L’etica è da qualche tempo venuta alla ribalta. Molto probabilmente per le difficoltà sorte dalla nuove forme di vita: la globalizzazione e i problemi del multiculturalismo, la tecno-scienza e le crisi ambientali, il dilagare dei media e le minacce alla regolarità dei processi democratici, le grandi dinamiche a livello di politica internazionale e i relativi conflitti; ma anche le grandi questioni della vita personale, dove consumismo e disuguaglianze, battaglie sul “Gender” e diritti negati, precariato e immigrazione, corruzione e parassitismo paiono fenomeni quasi andati fuori controllo. Per non parlare dei conflitti generati dalle differenze religiose, dalle differenze dei costumi, dalla corsa all’accaparramento delle risorse planetarie e, ora, persino dalla globalizzazione tendenziale delle epidemie. Insomma, davanti ai nostri occhi appare, oggi e per lo più, un mondo impaurito e smarrito, che si domanda di bel nuovo: che fare? Che fare nel senso non del produrre, ma dell’agire. A produrre ci ha già pensato (con efficacia, bisogna pur riconoscerlo) il sistema capitalistico; produrre merci richiede lavoro, naturalmente, ma una buona organizzazione finisce sempre per spuntarla (specie se fa finta di non vedere i costi umani). Ad agire deve invece pensare sempre e di nuovo il singolo o chi ha responsabilità di governo della vita comune. E non *
Università di Venezia Ca’ Foscari.
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esistono macchine per facilitare il compito, perché c’è di mezzo il governo delle libertà, dove si comincia sempre da capo. Questo spiega forse perché esiste progresso quasi continuo nell’apparato produttivo, mentre non esiste progresso continuo nelle forme di vita che dipendono dalle scelte umane. Cioè, appunto, nelle forme dell’agire. Lì infatti si può progredire, ma si può, purtroppo, anche regredire: Auschwitz e Daesh, e non solo UNHCR, ed Emergency o Amnesty (o che altro). Ben venga dunque questo libro, scritto da Gianluigi Pasquale, che ci invita a riflettere sull’etica. E propriamente sull’etica filosofica (avverte l’Autore). Cioè poi sull’etica fondamentale, se intendiamo bene il senso dell’etichetta precedente. Ben venga un libro così, anche perché negli ultimi anni sono proliferate le etiche applicate (e sono anche diventate numerose: bioetica, etica dell’economia, etica della comunicazione, etica pubblica, etica della differenza, etica dello sport ecc. ecc.), mentre si sono alquanto rarefatti i contributi, appunto, di etica fondamentale o di etica filosofica. Sono poi particolarmente contento di presentare questo libro, perché con nettezza vi si distingue il discorso (fenomenologico) sui costumi, che vien raccolto sotto la “vita morale”, dalla riflessione speculativa che serve a illuminarli e a giudicarli secondo il bene e il male, cioè appunto dall’etica filosofica. Dell’una e dell’altra l’Autore dà un sintetico, ma ricco e informato ragguaglio, avendo bene in mente una strategia teorica solida, che si può ben dire classica, e nel senso migliore del termine: una strategia, cioè, che valorizza i risultati più solidi della storia del pensiero occidentale dai Greci in avanti (è la ragione nella sua declinazione pratica a comandare l’azione retta, e quindi a governare il mondo emotivo – giustamente si rammenta ogni tanto) e li “aggiorna”, intercettando i “segni dei tempi” (si diceva anni fa) che la contem10
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poraneità offre ai nostri sguardi. Naturalmente, i “segni dei tempi” sono soprattutto presenti nelle pagine del capitolo (fenomenologico) dedicato, si diceva, alla “vita morale”, mentre la strategia teo rica, che è come la dorsale di tutto il percorso, è soprattutto presente nelle pagine in cui vengono a tema le grandi cifre dell’etica filosofica (bene e male, dovere e virtù, natura umana e dinamiche relazionali eccetera). Così, l’essenziale del discorso c’è tutto. Ma non posso chiudere questa breve presentazione senza avvertire il benevolo lettore di questo libro, che si tratta anche di un libro appassionato: dappertutto vi circola la passione per la verità e per il bene: quella passione che una volta veniva chiamata “prudenza” e che oggi si preferisce per lo più chiamare “saggezza”; quella passione che, propriamente parlando, passione non è, ma virtù, anzi la virtù suprema. Per un libro di etica non si può chiedere di meglio, mi pare.
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Introduzione
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Gianluigi Pasquale*
L’interrogarsi sulla vita Uno studio filosofico sull’etica è sempre di grande attualità. Infatti, mai come in questo XXI secolo si parla di salute, di starebene e di benessere, probabilmente perché si percepisce la mancanza di entrambi. In Occidente è così. L’etica, quindi, si affaccia alla riflessione umana rivestita con i panni di un’etica filosofica, prima ancora che ulteriormente aggettivata. Si tratta di una terminologia che rimanda, come è risaputo, ad Aristotele. Anzi, con «etica» si intende quel confine oltre cui non si può più andare, discutere, transigere, indagare: per questo – e correttamente – si parla rispettivamente di «confini etici», «indole etica» o non, «bioetica», «decisione etica», «comportamento etico» e così via1. In qualche modo con «etica» si intende ciò che si impone ancor più della scienza o della decisione democratica. Anzi, l’«etica» pone in questione il baluardo sollevato proprio da queste ultime due. Sanando la questione. Il modo, talvolta, sfugge, diventando, così, ambito proprio della filosofia e della sua visione interale. Questa è esattamente l’etica filosofica. Essa affronta, perciò, temi *
Professore nella Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano. Cfr. Antonio Da Re, Le parole dell’etica, (Sintesi), Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 63-78. 1
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di grande importanza e fascinosi, quali il bene, il male, la bontà, la crudeltà, la ragione, il sentimento, il «senso morale», la coscienza, la responsabilità, lo Stato e la nazione. Le pagine che seguono percorrono cinque piste di ricerca. Con la prima si studiano la natura e la funzione dell’etica, definita come una teoria razionale del bene e del male. Intesa così, la teoria di cui si tratta mira a conseguenze di tipo normativo. Non si applicherebbe mai a una scienza oggettiva e descrittiva dei costumi, e nemmeno ai giudizi morali, nel senso di insieme di regole di condotta (ovvero di una morale) ammesse in una determinata epoca o da un gruppo di persone. La filosofia, infatti, non si limita a descrivere la condotta morale e i valori che la orientano, bensì fornisce indicazioni su quali criteri e valori devono essere rispettati da chi agisce. La seconda pista di ricerca mette a tema i concetti di bene e di male. Il «bene» si definisce come ciò che collega e unisce e, quindi, in ordine alla convivenza umana esso ha, in qualche modo, a che fare con l’altruismo2. L’ordine alla cui costituzione l’etica mira, non è, però, un qualsiasi ordine costituito, perché anche un simile ordine può essere una forma di corruzione e, quindi, di male. L’ordine costituito dall’etica è piuttosto un ordine razionale: la morale, infatti, sorge solo se appare la ragione. È solo dove appare un ordine secondo ragione che sorge il valore morale. Negativamente, è possibile circoscrivere questo concetto a partire dalla realtà del male, inteso nella sua forma di privazione di bene, che può raggiungere, però, anche la crudeltà. La terza pista di ricerca affronta il tema della natura umana e il senso morale, osservato attraverso lo studio delle norme, dell’apporto dell’evoluzione biologica e culturale, per approdare alla sedimentazione del «senso morale», sapendo che, se anche la natura non sceglie per noi, la biologia è di notevole aiuto per la comprensione del discorso etico. La quarta pista illustra il dibattito attuale 2 Cfr. Carmelo Vigna, (a cura di), Introduzione all’etica, (Filosofia Morale 10), Vita & Pensiero, Milano 20082, pp. 5-9.
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intorno al giudizio e al dovere. La disamina dell’etica, infatti, è per sé eterogenea: vi si ravvedono doveri estensibili e contingenti, valori, comandi, leggi, norme, mentre è risaputo che il giudizio – morale soprattutto – trattiene un ruolo proprio a partire dalle circostanze, dell’esperienza, dagli ideali. La quinta pista di ricerca intercetta l’attuale dibattito circa il rapporto interdisciplinare richiesto all’etica quale «scienza» tra le scienze. L’etica, infatti, più delle altre fa necessariamente leva sulla coscienza e sulla responsabilità dell’individuo, del gruppo, sul ruolo della politica, dello Stato, della nazione3. Documento acquistato da () il 2023/09/20.
Rovigo, 1° Gennaio 2021
3 Cfr. Philippa Foot, La natura del bene, (Intersezioni 309), il Mulino, Bologna 2007, pp. 88-94.
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Capitolo primo
Natura e funzione dell’etica
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1. Etica filosofica: i termini 1.1 La possibilità di operare una distinzione tra etica e morale Perché etica e non morale? I due termini non sono sinonimi? Non significano, infine, la stessa realtà? L’etimologia potrebbe indurre a pensare così: «ta éthe» (in greco, costumi, abitudini) e «mores» (in latino, consuetudini, usanze) hanno, infatti, accezioni analoghe; se etica è di origine greca mentre morale è di origine latina, entrambi i termini rimandano a contenuti similari, all’idea di costumi e usanze, di modi di agire determinati dall’uso. Nondimeno, malgrado questa parentela rilevata dall’analisi etimologica, è possibile operare una distinzione tra l’etica e la morale. La prima è più teorica della seconda, ed è più dell’altra indirizzata verso una riflessione sui principi. L’etica cerca di decostruire le regole di condotta che formano la morale, i giudizi di bene e di male che si esprimono all’interno di quest’ultima. Che cosa definisce l’etica? Non una morale, cioè un insieme di regole proprie a una cultura, ma una «metamorale», una dottrina che si colloca al di là della morale, una teoria ragionata del bene e del male, del valore e dei giudizi morali4. 4 Cfr. Andrea Galimberti, Etica e morale, (Biblioteca di Cultura 68), La Nuova Italia, Firenze 1962, pp. 197-201.
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L’etica, in definitiva, decostruisce le regole di condotta, ne disarticola le strutture e ne smonta i principi informativi, per cercare di scendere fino alla più riposta essenza del dovere. A differenza della morale, l’etica si vuole decostruttrice e fondatrice, enunciatrice di principi o di fondamenti ultimi. Per la sua dimensione più teorica, per la sua volontà di risalire alle fonti, l’etica si distingue dalla morale e detiene un primato rispetto a quest’ultima. Essa riguarda la teoria e la fondazione, le basi stesse delle prescrizioni o dei giudizi morali. Si possono dunque distinguere un aspetto descrittivo e uno normativo dell’etica: ma la distinzione ha un valore puramente orientativo, poiché di fatto le etiche filosofiche hanno sempre confuso e sovrapposto i due aspetti.
1.2 Dai principi alle regole Il senso primo e fondamentale dell’etica è quello di una metamorale e dottrina fondatrice che enuncia i principi, e questo rimane vero anche quando si parla di un’«etica degli affari» o di un’«etica dei media», cioè di quelle etiche cosiddette applicate, il cui significato sembra poco teorico, etiche pratiche che, in questi casi, si confondono con un insieme di regole5. Se procedere o no a sperimentazioni terapeutiche, autorizzare o meno ricerche sui geni o se si debba interrompere una gravidanza in caso di malformazioni, sono problemi che suggeriscono una presa di posizione morale, ma che sollevano anche un interrogativo etico. Ogni pratica, infatti, esige il ricorso a norme o a principi che giustifichino l’azione: l’idea di partire da principi e di ridiscendere poi nei diversi ambiti di competenza – bioetica, media, mondo degli affari, ambiente, politica, eccetera – sembra a priori perfettamente legittima. Abbiamo pur sempre bisogno di orientare i nostri 5 Cfr. Roberto Magari, Morale e metamorale: un approccio probabilistico ai problemi morali, (Studi di metodologia delle scienze umane), CLUEB, Bologna 1986, pp. 35-45.
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comportamenti nel nostro universo empirico, e i principi che siano in grado di fare questo non possono certo essere desunti da esso.
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1.3 Scienza normativa degli atti umani L’etica può, dunque, essere definita una teoria razionale del bene e del male. Intesa così, la parola implica che la teoria di cui si tratta miri a conseguenze di tipo normativo. Non si applicherebbe mai a una scienza oggettiva e descrittiva dei costumi, e nemmeno ai giudizi morali, nel senso di insieme di regole di condotta (= una morale) ammesse in una determinata epoca o da un gruppo di persone. Per lo più, la filosofia non si è limitata a descrivere la condotta morale e i valori che la orientano, benché spesso abbia sostenuto di proporsi solo questo compito: essa ha anche inteso fornire indicazioni su quali criteri e valori devono essere rispettati da chi agisce. L’etica è, piuttosto, una scienza normativa degli atti umani, normativa per ciò che riguarda il buon andamento della vita, il retto ordinamento dell’esistenza. In questo senso, l’etica è una scienza pratica, non solo perché tratta dell’azione umana, ma anche – e soprattutto – perché mira a dirigerla. Il compito dell’etica non si riduce allora a descrivere gli usi e le consuetudini collettive («mores»), questo è semmai il compito dell’etologia umana o dell’antropologia culturale, ma intende giudicarli e rettificarli, proponendo dei principi in grado di mostrare e indurre gli uomini a vivere bene. Che cosa s’intende per «vivere bene»? Lo si può intendere in due modi: 1) come un’arte di vivere, una tecnica della felicità, sia dell’individuo che della società. È un po’ la concezione antica della filosofia morale, orientata verso il bene supremo, il cui possesso procura all’uomo la felicità. La scienza del «vivere bene», tuttavia, può essere intesa anche 2) come la scienza di ciò che conviene all’uomo. In questo caso, vivere bene non significa vivere 19
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felici, ma vivere come si deve6. Intesa così, l’etica non dirà: agisci in tale maniera, se vuoi essere felice (poiché tu vuoi vivere felice), dirà piuttosto: agisci in tale maniera, se vuoi vivere da uomo (poiché tu devi vivere da uomo)7.
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1.4 Atto dell’uomo e atto umano Il secondo senso non era del tutto sconosciuto ai pensatori antichi: anch’essi parlano di ciò che conviene o non conviene all’uomo, di ciò che l’uomo deve fare e di ciò che deve evitare, di ciò che è conforme alla ragione e di ciò che non lo è, eccetera (cfr. Platone, Aristotele, gli Stoici). L’obbligazione morale era dunque presente anche nell’antichità, solo che la necessità del bene e il dovere di realizzarlo interessavano questi pensatori meno del suo carattere amabile e desiderabile. Basti pensare alla stretta affinità che nel mondo greco intercorre tra le nozioni di bene e di bello. Il bene morale o «onesto» in greco si dice infatti «kalon», piuttosto che «agathon». Anche il termine latino «honestum» sembra presentare una simile ambiguità. È con l’avvento del cristianesimo che l’obbligatorietà acquista un posto rilevante e, in seguito, con Kant, diventerà la nozione-chiave intorno a cui diventa possibile la sistematizzazione della morale. È nel secondo senso che l’etica va considerata come scienza normativa degli atti umani. L’etica non è infatti un’arte di vivere felici, ma è normativa, anzi categoricamente normativa, proprio in quanto essa comporta una regola che vale per se stessa, un dovere propriamente detto, un’obbligazione assoluta e categorica. L’etica si presenterà, pertanto come la scienza di ciò che l’uomo deve fare 6 Cfr. Jacques Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 19884, pp. 19-27. 7 Cfr. Jacques Bouveresse, Wittgenstein: scienza, etica estetica, a cura di Sergio Benvenuto, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 167-178.
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per vivere come deve, per essere ciò che deve diventare, realizzando nella sua natura ciò che si presenta come la giustificazione della sua esistenza. Questa definizione dell’etica è suffragata da un’analisi del suo stesso oggetto, cioè l’atto umano o, se si preferisce, il soggetto umano considerato attraverso i suoi atti. Ora, l’atto deve essere considerato come procedente dalla volontà libera, un carattere che sarebbe naturalmente sottovalutato in un’etica intesa come un’arte di vivere felici, perché un atto può favorire la felicità o ostacolarla anche qualora sia posto inavvertitamente. Dove si pone l’obbligazione morale, invece, bisogna porre anche la volontà, senza la quale l’obbligazione non avrebbe senso. Non è, pertanto, in quanto procedono da lui, gli appartengono, sono suoi, in qualsiasi maniera, vale a dire come «actus hominis», che l’etica considera gli atti posti dall’uomo, ma in quanto sono posti da lui secondo il modo di agire proprio dell’uomo, secondo il modo che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi della natura, cioè con avvertenza e libertà. In una parola, l’etica considera gli atti dell’uomo come atti umani («actus humanus»). Un’etica così concepita non può allora essere definita una descrizione dei costumi o una tecnica della vita felice. L’interrogativo a cui l’etica risponde è in definitiva quello posto da Kant: Che cosa dobbiamo fare?8 È questa la domanda più urgente che ogni uomo si pone su ciò che fa e ciò che deve fare perché la sua vita abbia un senso. Per questo l’etica, in quanto riflessione su questo problema vitale, appare una scienza eminentemente umana, la sola che possa dirsi normativa in senso stretto, benché tutte le scienze in certo modo lo siano. È infatti all’interno di problemi molto particolari e concreti che si pone per l’uomo la questione morale, la questione sul senso dell’esistenza, sulla direzione da imprimerle, e non già attraverso una formula generale e astratta. 8 Cfr. Immanuel Kant, Lezioni di etica, Laterza, (Biblioteca Universale Laterza), RomaBari 2004, pp. 166-167.
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2. Moralità ed eticità nello sviluppo dell’etica occidentale
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2.1 Enfasi sull’interiorità Le espressioni etica e morale nel linguaggio corrente hanno un significato quasi affine, ma – come si è visto – non sono propriamente sinonimi. È lo sviluppo dell’etica occidentale a determinare la distinzione tra etica e morale. La cesura fondamentale in questo sviluppo è rappresentata dalla scoperta cristiana dell’interiorità (cfr. sant’Agostino): il termine di confronto non è più rappresentato dalle norme sociali e dai propri simili che ne sono i rappresentanti, ma dalla coscienza individuale9. Quanto più nel corso dello sviluppo dell’etica occidentale l’interiorità acquista un valore decisivo, tanto più si afferma la convinzione che l’operato etico non va commisurato al successo pratico, ma che le azioni del singolo devono essere valutate autonomamente ed individualmente sulla base dell’integrità morale delle intenzioni che le informano. Dopo Kant la responsabilità individuale diviene il fondamento di ogni etica che non voglia essere semplicemente una forma di legalità dell’agire basata sul principio del premio e del castigo.
2.2 Eticità è concetto più ampio di moralità Non sarebbe, però, esatto considerare lo sviluppo dell’etica occidentale come un continuo processo di superamento dell’idea le dell’eticità a vantaggio di quello della moralità. Al principio 9 Cfr. Giuseppe Cantillo, Ragione e interiorità: una traccia sulla via di una fondazione dell’etica, in Giuseppina De Simone (a cura di), Le vie dell’interiorità: percorsi di pensiero a partire dalla riscoperta contemporanea dell’interiorità, (Studi e Ricerche. Sezione Filosofica), Cittadella Editrice, Assisi (PG) 2011, pp. 17-35. Risultano, a questo proposito, interessanti le osservazioni di Giuseppe Comi, «Cambia il cuore». La morale del Cristo totale in Sant’Agostino, prefazione di Pasquale Giustiniani, postfazione di Gianluigi Pasquale, Tau Editrice, Assisi (PG), 2020, pp. 97-112.
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della coscienza morale vengono mosse via via nuove obiezioni, per esempio da Hegel. Egli distingue tra moralità ed eticità: la moralità indica l’aspetto soggettivo della condotta, per esempio, l’intenzione del soggetto, la sua disposizione interiore; mentre eticità indica l’insieme dei valori morali effettivamente realizzati nella storia (la famiglia, la società civile, lo Stato)10. Si tratta di una distinzione che vale come criterio di orientamento. Si può dire in generale che la riflessione della filosofia sui problemi etici si sviluppa soprattutto nei momenti di crisi dell’eticità nel senso hegeliano, quando cioè la compattezza e la continuità di un mondo di valori si incrina, le norme che parevano ovvie vengono messe in discussione e non funzionano più i consueti criteri di legittimazione, i principi riconosciuti per stabilire ciò che è bene e ciò che è male. Il concetto di eticità, da un lato, sembra più ampio di quello di moralità. Esso d’altro canto ha una sua impronta ben precisa in contrapposizione alla moralità. L’eticità è legata ai costumi, alle forme etiche che si delineano nel corso della storia. Come abitudini acquisite dal singolo esse determinano gli individui prima ancora che abbiano raggiunto una loro consapevolezza razionale. I principi etici sono vincolanti, ossia impegnativi, in quanto vincolano i singoli all’interno di determinati gruppi, che rappresentano l’ambito entro cui si svolge l’attività dell’uomo. La morale può trovare il proprio fondamento solo all’interno delle istituzioni politico-sociali.
2.3 La moralità resiste rispetto all’eticità È evidente che qualsiasi etica che ponga a suo fondamento l’eticità (o la morale) ha come modello una società organica. In realtà, 10 Cfr. Gottlieb Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 201911, pp. 535-539.
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una società completamente organica non è mai esistita. Questo impedisce di pensare che l’eticità sia superiore alla moralità per il suo maggiore realismo, benché ovviamente l’eticità come tale rimanga fondamentalmente vicina alla vita, in quanto deriva e si è sviluppata da essa. La moralità sembra essere fondata su una riflessione con la quale l’individuo si distacca dalla vita immediata, imponendo alla vita delle istanze soggettive: essa non assume come punto di riferimento le strutture esistenti delle forme di vita tramandate. Questo, però, non significa che la moralità in quanto tale non tenga conto della realtà, perché la realtà non è affatto un insieme di dati di fatto immutabili. Il soggetto non è mai determinato e guidato esclusivamente dagli ordinamenti esistenti. Le istituzioni, in quanto sostegni esterni alla soggettività, invecchiano e decadono. Esse allora non sono più in grado di fungere da elementi trainanti dell’ordine morale. Nelle epoche in cui gli uomini non rispettano più la centralità degli ordinamenti etici, la moralità è il mezzo più conforme alla realtà per migliorare le condizioni dell’umanità: il singolo, in nome della propria autonomia, ossia della propria libertà, si fa carico di riordinare la situazione morale secondo criteri più razionali. In questo modo la moralità offre al singolo la possibilità di ritirarsi in se stesso e di plasmare autonomamente la propria vita con le proprie capacità riflessive. Si potrebbe, quindi, dire che il compito della moralità è quello di farsi portatrice di una nuova morale.
2.4 La moralità trascende lo spirito del tempo La moralità, tuttavia, non ha valore soltanto quando la morale delle epoche precedenti ha ormai perduto la sua validità, fermo restando che l’eticità, da un punto di vista antropologico e filosofico-culturale, è e rimane l’atteggiamento etico originario e, in tal senso, quello che ogni volta va recuperato, ma il rigido 24
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mantenimento di una tale impostazione è sbagliato e pericoloso. La storia ha conosciuto senza dubbio epoche, la cui struttura sociale si è mantenuta più integra di altre. Ma in fondo ogni epoca è dominata sia dal principio dell’eticità che da quello della moralità. In ogni epoca, infatti, il male ha una sua forza determinante: tutte le epoche sono, in una certa misura, epoche di crisi. Oltre il «male individuale» esiste anche il male generale di volta in volta storicamente determinato. Schiavitù, torture, esecuzioni capitali pubbliche in determinate epoche storiche erano realtà non solo tollerate, ma persino giustificate11. Al male generale non ci si può opporre con la morale, ossia col rispetto di ciò che è universalmente riconosciuto, ma solo con la ribellione alla morale stessa che guardi al futuro. La morale corrente non è uno strumento efficace contro il male proprio di una certa epoca storica; l’unico possibile miglioramento è offerto dall’operato della moralità che trascende lo spirito del tempo. Se consideriamo la complessa dialettica intercorrente tra eticità (morale) e moralità (etica) dobbiamo dire che sarebbe un errore distinguere troppo questi due principi, perché entrambi sono presenti in tutte le epoche, anche se occorre differenziarne l’importanza nello sviluppo storico di ogni epoca12. Etica e morale, in definitiva, sono concetti entrambi utili, sia pure in modo diverso, alla formazione della coscienza morale, benché di fatto le etiche filosofiche abbiano sempre confuso e sovrapposto i due aspetti.
11 Cfr. Jan Rohls, Storia dell’etica, (Le Vie della Civiltà), il Mulino, Bologna 20012, pp. 455-478. 12 Cfr. Virgilio Melchiorre, Istituzioni di etica, Pubblicazioni Università del Sacro Cuore, ISU, Milano 19992, pp. 76-89.
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3. La teoria della corrispondenza e i diversi usi del linguaggio
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3.1 Le proposizioni etiche non descrivono Secondo la teoria della verità come «corrispondenza», dire che una proposizione è «vera» significa dire che «corrisponde a un fatto». Con ciò la «verità» della proposizione viene collocata «nella» proposizione stessa, piuttosto che «in» chi parla o «in» chi ascolta. Che per «verità» si debba intendere «la corrispondenza con i fatti» è la posizione sostenuta da Ludwig Wittgenstein (1889-1951) nel suo Tractatus logico-philosophicus (1921)13 e da tutti coloro che si sono accinti a rendere conto di tutto l’universo della logica. In ogni asserzione della teoria della verità come «corrispondenza» si dà per scontato, implicitamente, che tutte le frasi significanti si debbano interpretare come descrizioni. Con ciò si comprende perché Wittgenstein affermi che «non ci sono proposizioni etiche» (Tract., 6.42): le frasi etiche «non sono descrittive», e su questo Wittgenstein ha perfettamente ragione. I concetti etici (per esempio la bontà) non «si riferiscono a» qualcosa che sia presente in chi parla o nel mondo a lui circostante. Di conseguenza, la teoria della «corrispondenza», se applicata ad un gruppo particolare di frasi è certo rispondente ai fatti, ma diventa priva di senso se applicata ad un altro gruppo di frasi ugualmente rispettabile, ma non appropriato ad essa. Sarebbe solo un travisamento della nostra situazione effettiva sostenere che tutte le nostre espressioni devono essere intese come descrizioni. Esistono, piuttosto, innumerevoli modi di usare il linguaggio in modo non meno sensato delle descrizioni, che non presentano gli stessi criteri logici delle descrizioni, ma criteri logici loro propri, una loro peculiarità e specificità. È, dunque, possibile comprendere 13 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-Philosophicus, Suhrkamp Verlag, (Edition Suhrkamp 2429) Frankfurt am Main 2003 [d’ora in poi Tract. e il numero di riferimento delle proposizioni numerate].
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pienamente il modo con cui si usa ciascuna espressione solo considerandola come parte di una più ampia attività: le proposizioni logiche del modo di ragionare sono direttamente collegate con la funzione che ciascuna espressione compie e la funzione, a sua volta, con lo scopo dell’attività di cui tale espressione è parte. La logica delle espressioni, da un lato, e il fine dell’attività a cui esse sono legate, dall’altro, sono inseparabili come le due facce di una medaglia.
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3.2 Il bene è al di fuori del mondo dei fatti Nel suo Tractatus Wittgenstein intese stabilire i confini del linguaggio della scienza in modo tale che, delimitando il dicibile, l’ineffabile potesse essere protetto. L’«ineffabile» è ciò che la scienza non può dire, ma che per noi conta di più, cioè l’etico, o quel che non si dimostra, ma che si testimonia. Per questo Wittgenstein asserì che il senso del suo Tractatus è un senso etico. L’etica, per lui, non si può dire; l’etica si testimonia. E voler dire proposizioni di etica significa «avventarsi contro i limiti del linguaggio». Per Wittgenstein, l’unica cosa giusta da fare è, a questo proposito, quella di tacere, non solo per il fatto che molti, per quanto riguarda l’etica, «parlano a sproposito», ma anche perché dell’etico bisogna tacere in ogni caso. In questo senso egli ritiene di delimitarlo dall’interno. Che l’etica sia «delimitata dall’interno» significa che essa non ha nulla a che fare con l’ambito dei «dati di fatto» e delle frasi che li enunciano, perché è questo, secondo il Tractatus, l’ambito di ogni discorso sensato, in quanto suscettibile di deduzione e di verifica. Poiché le affermazioni etiche sono normative, dicono cioè ciò che si deve o si dovrebbe fare (per esempio: «Tu non devi uccidere o ingannare»), esse non sono traducibili in dati sperimentabili: nell’etica vige una normatività vincolante che non ha riscontro 27
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nei fatti. I giudizi di valore non traggono la loro motivazione dal di fuori, ossia da dati di fatto verificabili, e si presentano con caratteri intrinseci. È la loro validità assoluta a renderli non calcolabili empiricamente. Il bene, per Wittgenstein, non può, quindi, essere definito né fondato; il bene è al di fuori dell’ambito dei fatti. Wittgenstein sostiene che le espressioni di giudizi di valore assoluto sono «insensate», ma mostra come questa insensatezza sia importante per lui. Già al tempo della sua Conferenza sull’etica (Cambridge, 1929)14 Wittgenstein si stava gradualmente allontanando dall’idea di una forma proposizionale generale o di una struttura generale del linguaggio, espressa nel Tractatus15. Egli arriverà a dire che per «linguaggio» noi intendiamo una quantità di «giochi linguistici» – come dirà in Ricerche filosofiche16 –, non a causa di una struttura comune, ma per una somiglianza di famiglia: «parlare», «dire qualcosa» sono fatti di specie diverse, hanno vari significati. Con questa nuova concezione di linguaggio, Wittgenstein non parla più di «limiti del linguaggio», «limiti del mondo», «avventarsi contro i limiti del linguaggio», eccetera. Il secondo Wittgenstein riconosce, infine, che l’ambito della scienza non è l’unico, come pensava (cfr. Tractatus), ma che ve ne sono altri al di fuori di esso (per esempio, un comando o l’espressione di una speranza)17. Nella nostra vita noi facciamo uso anche di espressioni che non concordano con alcun dato di fatto. Ciò che è rilevante per noi è che, a differenza dei Neopositivisti, che si attengono al criterio 14 Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, (Biblioteca Adelphi 14), Adelphi, Milano 2001 (or. ted. 1929). 15 Per questo «allontanamento» si vedano le acute osservazioni di Calogero Caltagirone, Per un’etica del pensare. Jürgen Habermas e il progetto di una ragione critica pubblica, (Mimesis – Filosofie 606), Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 149. 16 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche. Edizione italiana a cura di Mario Trinchero, (Einaudi paperbacks 148), Einaudi, Torino 1993 (or. ted. 1953). 17 Cfr. Alessandro Di Caro, Wittgenstein interpreta Wittgenstein: il secondo Wittgenstein legge il Tractatus, Aracne, Ariccia (Roma) 2015, pp. 47-69.
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di senso empirico, in base al quale le proposizioni etiche sono ritenute insignificanti, Wittgenstein non lascia cadere la questione come qualcosa di archiviato e privo d’importanza. Ostruita la via empirica, egli apre quella che chiama «ineffabile» o «mistica», che ipotizza un senso trascendente il mondo e il linguaggio. L’etica non viene perciò da lui negata, ma è elevata a rango mistico, al quale appartengono i nostri problemi esistenziali. Il valore etico non compare nel mondo, se per mondo intendiamo il complesso dei dati scientifici, ma questo non significa ch’esso non si riveli per altre vie non linguistiche. La risposta dei Neopositivisti è molto diversa. Essi si fermano all’adozione del metodo empirico, per loro i giudizi di valore rimangono quindi semplicemente privi di senso18. Al contrario, per Wittgenstein i giudizi di valore sono intraducibili perché normativi e trascendenti il linguaggio sperimentale.
3.3 Il discorso etico Il principio d’uso elaborato da Wittgenstein ha permesso di superare l’«emotivismo» dei Neopositivisti e di mettere in luce la funzione dell’etica, cioè il ruolo che i giudizi e i concetti etici giocano nella vita quotidiana. Il discorso etico presenta, dunque, una natura sua propria, che lo distingue da ogni altro discorso scientifico. Ben lontano dall’essere un’irrazionale espressione di emozioni, il discorso etico costituisce un linguaggio autenticamente razionale. Nel secondo Wittgenstein viene nondimeno conservata la convinzione che sarebbe errato parlare di una fondazione dell’etica. Se iscriviamo l’etica nel contesto della vita, allora la domanda: Che cosa giustifica il fatto di permettere che un ragionamento incida sulla nostra decisione di comportarci in un certo 18 Cfr. Alfred Jules Ayer, Linguaggio, verità e logica, a cura di Giannantonio De Ton, (Universale Economica 327), Feltrinelli, Milano 1961, pp. 134-145.
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modo? Perché comunque si deve fare ciò che è giusto? ha già in sé la sua risposta. Non c’è, infatti, nessuna possibilità, all’interno dell’etica, che sorga una domanda di questo genere: Perché si deve fare ciò che è giusto? Se l’etica è una «forma di vita» (cfr. Wittgenstein), e non un’accozzaglia di rumori (cfr. Neopositivisti), si comprende perché la stessa domanda sia trascurabile: dal momento che le nozioni di «giusto» e di «dovere» vengono dalle stesse situazioni, significa contraddirsi suggerire che si «deve» fare tutto tranne ciò che è «giusto». L’etica può essere in grado di «giustificare» un comportamento tra un certo numero di linee di condotta o una particolare regola sociale in opposizione ad un’altra, ma non giunge a fornire una «giustificazione» dello stesso ragionamento sulla condotta. Una linea di azione si può opporre ad un’altra, ma non c’è niente che si opponga all’«etica nel suo complesso». Si può mostrare che si devono scegliere certe azioni, ma non che si voglia fare ciò che si deve fare19. L’impossibilità è di ordine logico, non pratico. La ragione di ciò risiede nel fatto che l’etica è essenzialmente legata alla vita e non c’è dubbio che nella nostra vita noi usiamo parole quali «giusto», «dovere», «obbligo», eccetera, che possiamo tuttavia usare in modi diversi. Vi sono alcuni concetti compresi in una parola che presentano caratteristiche etiche più spiccate che non altre (per esempio, «Devi vedere quel film di Federico Fellini (1920-1993), è fantastico!» e «Devi restituire il denaro che hai rubato»). Chiedersi: «perché si deve fare ciò che è giusto?» significherebbe in ultima analisi chiedersi perché la prima proposizione si differenzia dalla seconda o, in altri termini, perché di una stessa parola facciamo usi diversi.
19 Cfr. Hilary Putnam, Etica senza ontologia, traduzione di Eddy Carli, prefazione di Luigi Perissinotto, (Testi e pretesti), Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 140-167.
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3.4 Le azioni rivelano i principi morali Una volta messa in luce l’impossibilità (logica) di una fondazione dell’etica, diventa chiaro come sia necessario studiare ciò che una persona fa per sapere quali sono i suoi principi morali. Sono le azioni, infatti, a rivelare in modo particolare i principi morali, perché la funzione di tali principi è proprio quella di guidare la condotta. Il linguaggio della morale è una sorta di linguaggio prescrittivo. Naturalmente, non è possibile «ridurre» il linguaggio morale agli imperativi, ma non c’è dubbio che gli imperativi siano una parte considerevole del linguaggio morale. L’essenza del discorso morale sta nel suo carattere prescrittivo o normativo, quello che qualche filosofo analista chiama «principio di azione»20. Se io dico: «Tu devi restituire il denaro rubato», è chiaro che io non sto descrivendo uno stato di cose né sto cercando di farti fare qualcosa; io sto piuttosto dicendoti che cosa si deve fare. Questo significa che il discorso morale presenta una certa fondamentale razionalità. In gioco non sono, infatti, i mezzi realmente efficaci per ottenere l’influenza voluta sul comportamento delle persone (anche se naturalmente io posso desiderare che si faccia ciò che io ho detto che si deve fare), perché se la differenza tra il discorso scientifico e quello etico consiste nel fatto che quest’ultimo influenza il comportamento delle persone, allora è necessario che tu capisca la mia espressione: «Devi restituire il denaro rubato»: tu puoi chiedere le mie ragioni; considerare se le ragioni che io ti offro sono buone o cattive; puoi accettare o rifiutare la mia risposta, eccetera, ma in ogni caso dal discorso morale non è affatto esclusa l’argomentazione razionale. È chiaro che il discorso morale può talvolta influire sulla gente, ma sostanzialmente esso è una guida per l’azione, è un discorso prescrittivo o normativo. 20 Cfr. Robert Maurice Hare, Il pensiero morale: livelli, metodi, scopi, (Collezione di testi e di studi. Filosofia), il Mulino, Bologna 1989, pp. 199-214.
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4. Etica filosofica: una creazione di Aristotele
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4.1 Critica all’idea platonica di bene Il principio d’uso è stato elaborato da Wittgenstein durante gli anni del suo insegnamento a Cambridge (1929-1947), ma le sue idee penetrarono ad Oxford, cioè in un ambiente filosofico ben diverso per tradizione da quello di Cambridge: a Oxford è stato particolarmente forte l’influsso di Aristotele, mentre a Cambridge è stato particolarmente forte l’influsso di Platone. Si parla a questo proposito della Cambridge-Oxford Philosophy o filosofia analitica, detta anche Filosofia del linguaggio ordinario21. Infatti, da una parte, si discutono questioni logiche in maniera informale, senza cioè il ricorso a speciali linguaggi artificiali, d’altra parte, si è persuasi che una considerazione di ciò che noi diciamo ordinariamente è quantomeno un utile preliminare allo studio dei problemi filosofici. Nell’Etica Nicomachea Aristotele vede come un fattore decisivo nelle sue argomentazioni ciò che «noi diciamo»: egli, per esempio, afferma che un’emozione si dice che ci «muove», mentre una virtù o un vizio si dice che ci «governa»22. Il «noi diciamo» di Aristotele è stato molto usato dagli analisti (cfr. W.D. Ross, J.L. Austin, S.E. Toulmin, G. Ryle, F. Waismann, P.F. Strawson). Ora, non c’è dubbio che sia Aristotele il creatore di un’etica filosofica e per questo si presenta opportuna una riflessione sulla concezione aristotelica dell’etica.
21 Cfr. Dario Antiseri, Filosofia analitica: l’analisi del linguaggio nella CambridgeOxford Philosophy, (Idee 5), Città Nuova, Roma 1975, pp. 109-140. 22 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, 1183, a, 4, traduzione, introduzione e note di Carlo Natali, I, (I Grandi Classici della Filosofia 35-36), Hachette, Milano 2017, pp. 59-64.
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4.2 La scienza filosofica dell’etica L’idea di una Filosofia pratica o di un’Etica filosofica è una conseguenza della critica di Aristotele all’idea platonica del bene. Opponendosi a Platone23, Aristotele ne contesta la pretesa di voler raggiungere in ambito etico un’esattezza dello stesso tipo della matematica. È noto che per i Greci la scienza, episteme, sia la conoscenza dell’immutabile, fondata sulla dimostrazione, e come tale disponibile per essere appresa da tutti. Ora, per Aristotele, la conoscenza etica non è una conoscenza «oggettiva», in quanto oggetto è qui l’uomo e ciò che egli sa di se stesso, e perciò immediatamente coinvolto e interessato in ciò che ha da conoscere. Proprio per il fatto che il metodo di Aristotele si definisce in generale in funzione dell’oggetto e che l’uomo, nel suo agire, non solo deve decidersi nell’azione, ma deve anche sapere e comprendere, egli stesso, come deve agire, Aristotele è fondamentalmente un platonico, nel senso che la conoscenza per lui è un momento essenziale del comportamento etico. Quindi: da una parte, si parla di un sapere; dall’altra, di un sapere che non è identico al sapere della scienza. Questo significa che l’ambito etico non è del tutto privo di regole, ma in esso non vige neppure la legalità della natura – ed è quanto esprime Aristotele con la contrapposizione tra l’«ethos» e la «physis». L’essere etico, come comportamento specificamente umano, si distingue dall’essere naturale, poiché l’essere etico non è semplicemente un insieme di capacità o di forze agenti. Al contrario, l’uomo è un essere che diviene ciò che è e acquisisce il proprio comportamento soltanto tramite ciò che fa, per le modalità del suo agire. Aristotele è perfettamente consapevole che una situazione 23 Cfr. Hans Georg Gadamer, Studi platonici, nn. 518-527; 535-539, a cura di Giovanni Moretto, II, Marietti, Genova 19982, pp. 455-459; 510-513; si vedano anche le equilibrate osservazioni di Rodolfo Zecchini, Hans Georg Gadamer e l’universalità del punto di vista dell’ermeneutica, in «Studia Patavina» 38 (1991) n. 2, pp. 46-85.
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di fatto in cui l’uomo viene a trovarsi, una situazione concreta, e quindi come tale unica e irripetibile, prospetta esigenze concrete che non possono essere tenute in conto da una conoscenza generale: se l’uomo riceve il suo proprio bene in una situazione pratica del tutto concreta, il compito del sapere etico sarà quello di discernere ciò che quella situazione concreta richiede da lui alla luce delle esigenze etiche più generali. Aristotele può dirsi il creatore di una scienza filosofica dell’etica non certo per essere stato il primo a fare oggetto d’importanza filosofica la vita dell’ethos (in questo lo aveva preceduto Platone), ma per essere stato il primo a tentare di definire l’«ethos» e l’«areté» (la virtù) non in base alla teoria pura, cioè in funzione dell’al di là dell’umano, ma positivamente in se stessi. Anche l’etica filosofica di Aristotele finisce per delineare l’ideale della teoria, capace di raccogliere tutti i fenomeni dell’ethos umano, ma non è l’ideale teoretico in quanto tale il centro delle sue attenzioni, cioè questo qualcosa per cui e a cui la vita umana è destinata a tendere e la cui irraggiungibilità rappresenta, per Platone come per Aristotele, una determinazione essenziale dell’umanità dell’uomo. A differenza di Platone, che vede l’essere dell’uomo, i reali rapporti di ethos e praxis alla luce di questa irraggiungibilità dell’ideale teoretico (con un conseguente rigorismo che anticipa in certo modo quello kantiano), Aristotele considera la realtà umana in se stessa, nelle proprie possibilità di perfezionamento, le possibilità specificamente umane, che egli fa oggetto di analisi. Aristotele si rifiuta di muovere dal bene come dal concetto matematico di armonia, quando ad essere in gioco è la filosofia pratica. Ciò da cui egli prende le mosse è la stessa prassi umana e la coscienza operante di ciò che è buono. Anche quando fa asserzioni teoretiche sul bene pratico, tali asserzioni traggono la loro origine e la loro validità dal dominio esperienziale della prassi. Si tratta pur sempre di asserzioni generali e pertanto rivestono 34
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comunque un carattere teoretico. Ma queste teorie non intendono essere applicate al caso concreto del fattibile allo stesso modo con cui lo possono le regole tecniche. Questo non significa che la teoria non sia di alcuna utilità alla prassi. Al contrario, serve a comprendere meglio a che cosa si debba guardare e su che cosa si debba concentrare la propria attenzione quando si è chiamati a decidere.
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4.3 Il sapere etico è sapere pratico Se dunque, per Aristotele, come per tutti i Greci, la teoria è essa stessa una prassi24, in quanto nella teoria è contenuto come presupposto il passaggio alla prassi, vi è tuttavia una separazione netta della filosofia pratica dalla filosofia teoretica. Naturalmente l’unità della ragione è sempre tenuta per ferma da Aristotele: il nous compete sia alla sophia, cioè al sapere teoretico, sia alla phronesis, il sapere pratico. Nel momento della scelta e della decisione, la ragione pratica non è ogni volta meno consapevole della ragion teoretica della giustezza del suo operare. Prohairesis significa proponimento e scelta preliminare25. Ora, preferire una cosa ad un’altra presuppone un sapere, ma un sapere sempre sollecitato da una situazione concreta, il che significa che una téchne appresa e posseduta non ci dispensa affatto da una riflessione personale e da una scelta. La scienza pratica non è allora né una scienza teoretica come la matematica né un sapere specialistico come quello che domina la formazione di un determinato prodotto. Essa è sì una «scienza», un sapere generale che, come tale, può essere insegnato, ma una scienza soggetta a determinate condizioni, è cioè sempre legata alla prassi, sopra la quale si eleva, ma alla quale 24 Cfr. Aristotele, Politica, 1325, b 21, a cura di Carlo Augusto Viano, (BUR – Classici Greci e Latini), BUR, Milano 20135, pp. 321-322. 25 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, 1111, b, 5, cit., pp. 67-78.
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deve ogni volta rapportarsi. A questo punto ci si può chiedere quale carattere metodico rivesta per Aristotele la filosofia pratica. Vi è un’evidente corrispondenza, per lui, tra il sapere etico e il sapere tecnico, poiché si tratta di una conoscenza che dirige l’attività. I Greci chiamavano téchne il sapere o l’abilità dell’artigiano che sa come si fabbrica una determinata cosa. Tra il sapere etico e il sapere tecnico vi è in comune il fatto che entrambi non sono un sapere astratto, ma implicano un sapere pratico. La loro connessione consiste nel fatto che la conoscenza che precede la pratica non è una conoscenza puramente teorica. Nondimeno, per Aristotele, il sapere etico si distingue dalla conoscenza tecnica quanto dalla conoscenza teorica. Infatti, a differenza del sapere tecnico, il sapere etico non s’impara e non si dimentica, non può essere scelto e neppure rifiutato a favore di un altro, non è una nostra proprietà allo stesso modo di una cosa, della quale si può disporre a piacimento. Il sapere etico invece è sempre presupposto. Inoltre, il fine del sapere etico non è una cosa particolare come il fine della tecnica, ma determina tutta la rettitudine etica della vita nel suo insieme. Con ciò, anche i mezzi usati per il conseguimento del fine non sono i medesimi nelle due forme di sapere, perché nell’etica i fini non si danno mai come perfettamente determinati e perciò non si può neppure anticipatamente avere coscienza dei mezzi giusti che realizzano il fine. Da ultimo, accanto alla phronesis, Aristotele pone il fenomeno della «comprensione» nel senso della synesis, cioè di quella particolare capacità di mettersi in una situazione in cui deve agire l’altro, che non comporta un sapere in generale, ma un sapere determinato dall’attualità del momento, e questo sapere non è di ordine tecnico, ma di ordine etico26.
26 Cfr. Aristotele, Etica Eudemia, 1233, a, 29, traduzione, introduzione e note di Pierluigi Donini (Economica Laterza), Roma-Bari 20052, pp. 102-109.
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4.4 In etica non vi sono soluzioni esatte L’opposizione aristotelica tra sapere pratico e sapere teorico non esprime affatto un’inferiorità del primo rispetto al secondo, dice piuttosto che il sapere pratico, chiamato da Aristotele phronesis, è un altro genere di sapere, cioè un sapere che come tale è orientato anzitutto alla situazione concreta e perciò si propone di cogliere tutte le innumerevoli circostanze che una situazione concreta presenta. Qui non è in gioco soltanto quella facoltà, propria del giudizio, di sussunzione del particolare nell’universale. La phronesis, per Aristotele, non è semplicemente una facoltà, ma un determinato modo di essere morale. Questo significa che non è possibile avere nell’ambito etico soluzioni esatte quali quelle che ci sono offerte dalla matematica. L’impossibilità di pervenire ad un’esattezza estrema nell’ambito etico è dovuta al fatto che l’agente morale sa e decide in modo autonomo e non può delegare altri nelle sue decisioni. Per Aristotele, l’etica filosofica non pretende di prendere il posto della coscienza morale, e tuttavia non si limita a costituirsi come scienza puramente teoretica; essa piuttosto si prefigge, attraverso la chiarificazione dei fenomeni, di aiutare la coscienza a venire in chiaro a se stessa27. Tutto ciò presuppone che l’agente morale, colui che è chiamato a decidersi sia già provvisto di un sapere acquisito mediante l’esercizio e l’educazione, si sia già formata una habitudo alla quale si attiene nelle situazioni concrete della vita e che si stabilizzi a sua volta attraverso ogni nuova azione. In ciò si può vedere il parallelismo tra ethos e téchne: come l’artigiano foggia una determinata cosa, così l’uomo foggia se stesso attraverso il proprio agire. Non si può però pensare che l’uomo si progetti in base ad un eidos di sé allo stesso modo con cui l’artigiano porta in sé l’eidos di quel che intende fare per imprimerlo poi al materiale. 27 Cfr. Aristotele,
Etica Eudemia, 1112, a, 29, cit., pp. 88-90.
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L’etica filosofica di Aristotele non è soltanto cosciente della propria discutibilità, in virtù del suo «oggetto», ma assume questa stessa discutibilità come contenuto che le è essenziale. Essa riconosce la complessità dei fenomeni di cui deve occuparsi. Secondo Aristotele, in etica il nostro desiderio di sistematicità deve adeguarsi alla natura dell’argomento in questione.
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Capitolo secondo
I concetti di bene e di male
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1. Bene e male: i concetti fondamentali dell’etica 1.1 Il bene riferito all’azione Si è detto che si può definire l’etica come una teoria razionale del bene e del male, che si prefigge di indurre gli uomini a vivere bene. «Bene» e «male» sono dunque i concetti fondamentali dell’etica. È conveniente chiedersi, in via preliminare, se sia possibile dire che bene e male sono i concetti predominanti dell’etica, così come il concetto di bello lo è in estetica e il concetto di vero nella scienza. Infatti, il concetto di bello e di vero non sono più considerati senz’altro come i concetti predominanti in estetica e nella scienza; si può dire la stessa cosa per quanto riguarda il concetto di bene (e di male)? Le ragioni che vengono apportate a favore di una svalutazione della determinazione di bene e di male sono diverse: a) «bene» e «male» sono concetti chiaramente generali e astratti e rappresentano per questo forme vuote; b) l’uso linguistico di queste determinazioni è molteplice e ambiguo: sembra impossibile evidenziare un significato unitario di questi concetti; c) l’astratta vuotezza di questi concetti può essere riempita non solo di contenuti eterogenei, ma addirittura contraddittori; c) i concetti di bene e di male sono pregni di un senso metafisico, e perciò non più vincolanti. 39
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Non si può negare che queste obiezioni contengano un elemento di verità; ciononostante bene e male rimangono i concetti fondamentali di ogni trattazione dell’etica. Questo non significa che debbano essere intesi come proprietà del soggetto. È necessario, piuttosto, mediare tra la volontà interna e la forma esterna, è cioè necessario attenersi al concetto del bene, inteso come ciò che unisce e sostiene (così com’è pensato anche nella tradizione), ma non più nel senso ontologico-teologico, piuttosto in senso funzionale, ossia in riferimento all’azione.
1.2 L’uomo non è perfetto La «realtà» è un fatto determinato dall’azione reciproca di soggetto e oggetto. Questo significa che una visione «speculativa» del mondo passa in secondo piano rispetto all’inserimento concreto dell’uomo nel mondo. Ne consegue che il concetto di bene non può essere stabilito con l’aiuto dell’etica quale concetto speculativo fondamentale per costruzioni filosofiche. In questo senso, il bene non può essere definito, è una nozione sui generis, non una proprietà di cose naturali28. Se pure il bene non è una nozione come le altre e come tale «indefinibile», nondimeno noi sappiamo che cos’è bene, questa nozione ha per noi un senso, comunque la si intenda, e questo è sufficientemente chiaro se leghiamo il concetto di bene al contesto della vita, anziché trattarlo soltanto speculativamente. Ora, legare il concetto di bene alla vita significa pensare la realtà come azione reciproca di soggetto e oggetto, cioè pensare il rapporto interumano come ciò che costituisce l’essere personale dell’uomo. Il compimento della vita umana non va spiegato a partire da una soggettività isolata: la reciprocità è il fattore primario e la distinzione soggetto/oggetto appare come una determinazione 28 Cfr. George Edward Moore, Principia ethica, prefazione di Nicola Abbagnano, (Idee Nuove 38), Bompiani, Milano 19722, pp. 256-277.
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supplementare della riflessione29. Se si considera la vita nel suo complesso, appare, dunque, altrettanto chiaro che le appartengono tensioni di vario tipo. Il rapporto reciproco è già da sempre annullato o intersecato da un contrasto reciproco, le cui forme primarie sono il non ascoltarsi e lo sfuggirsi reciprocamente. Nella vita reale le forme positive e negative della convivenza appaiono come possibilità opposte, che non sono riducibili le une alle altre, non possono cioè essere ricondotte ad un unico denominatore, se non nella misura in cui esse sono definite come determinazioni formali-ontologiche. L’etica si presenta per l’appunto dove la scissione minaccia l’unità della convivenza umana in modo così radicale che non si dà più la possibilità che l’effettiva convivenza presenti in se stessa la garanzia della sua sicurezza. I concetti etici hanno in definitiva un senso solo perché l’uomo non è perfetto. L’etica non è un lusso per l’uomo, ma una necessità; essa è possibile e necessaria come movimento opposto alla corruzione e alla nullificazione di ogni rapporto. Tale corruzione costituisce una minaccia continua. Tutto ciò che rappresenta questa minaccia noi lo sperimentiamo come male.
1.3 Il male annulla l’ordine del bene Il «male» ha un contenuto reale, lo si potrebbe definire un «fenomeno antropologico originario» la cui radice è l’egoismo e la cui forma più eclatante è l’inclinazione dell’uomo alla crudeltà. Il male non lo si può definire, non più di quanto si possa definire il bene, né in modo scientifico-teoretico, né filosofico-metafisico; nonostante ciò sappiamo che cos’è il male quando esso si mostra attraverso la crudeltà nella sua forma più radicale, in quanto lo sperimentiamo come un pericolo che minaccia costantemente 29 Cfr. Carmelo Vigna, Etica del desiderio umano (in nuce), in Id., (a cura di), Introduzione all’etica, (Filosofia Morale 10), Vita & Pensiero, Milano 2001, pp. 119-134.
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l’uomo. Per sua natura, l’etica ha sempre a che vedere con il problema del male30. Comunque il male venga inteso, il suo tratto universale è ch’esso si manifesta come l’annullamento dell’ordine mediante l’azione dell’uomo. Del resto, questa è una convinzione che percorre tutto l’arco della storia del pensiero, cioè che la possibilità e la necessità dell’etica s’instaura solo a partire da questa rottura. Se, come si è detto, la funzione dell’etica è quella di giudicare e rettificare le azioni dell’uomo, allora il suo compito proprio è quello dell’attuazione dell’ordine. Questo significa che l’etica non concerne tanto il singolo nella sua interiore coscienzialità, quanto il singolo come essere-con-gli-altri. Il bene quindi si definisce propriamente come ciò che collega e unisce e, come tale, reca sostegno. Ritroviamo questa nozione di «bene» presso i Greci, che tuttavia la collegano alla nozione del cosmo in generale, e nel pensiero cristiano, che la orienta per la prima volta alla persona. Ma sia nel pensiero greco sia in quello cristiano vige ancora un ordine (cosmologico o teologico) già dato, nel quale viene formulato un discorso etico. Oggi noi non siamo più provvisti di questo ordine naturale delle cose, già costituito. Si tratta perciò di attenersi al concetto del bene, già espresso dalla tradizione, come ciò che unisce e sostiene, e nello stesso tempo occorre superare il senso oggettivo-teologico che è connesso a questa definizione. 1.4 Determinazione razionale dell’etica Il «bene» si definisce come ciò che collega e unisce e, quindi, in ordine alla convivenza umana significa ch’esso ha in qualche modo a che fare con l’altruismo. Tuttavia, l’ordine alla cui costituzione l’etica mira, non è un qualsiasi ordine costituito, perché 30 Cfr. Edoardo Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, (Saggi), Mondadori, Milano 20072, pp. 67-78.
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anche un simile ordine può essere una forma di corruzione e quindi di male. L’ordine costituito dall’etica è piuttosto un ordine razionale: la morale sorge solo se appare la ragione. È solo dove appare un ordine secondo ragione che sorge il valore morale31. Negativamente, possiamo delucidare questo concetto a partire dalla realtà del male, inteso nella sua forma più estrema della crudeltà. La crudeltà può certo essere oggetto di un’analisi scientifica, ma la sua vera essenza sfugge necessariamente a qualunque analisi scientifica, in quanto quest’ultima tende ad inglobare il problema in una teoria generale, che come tale è qualcosa di razionale. Ora, la crudeltà è sperimentata proprio come qualcosa di irrazionale e perciò sfugge ad ogni analisi. Il male non è così spiegabile completamente in maniera scientifica in tutte le sue manifestazioni (ferma restando l’utilità o addirittura la necessità di un’informazione scientifica del comportamento umano). Se ciò fosse possibile, il male non rappresenterebbe un problema da prendere veramente sul serio. Allo stesso modo, il bene sfugge ad ogni considerazione veramente scientifica e il valore, inteso come un bene proprio dell’uomo, non è spiegabile attraverso di essa.
2. Il male dal punto di vista etico 2.1 La realtà del male L’etica è possibile e necessaria solo come movimento opposto alla corruzione, che costituisce una minaccia continua. Ogni etica che voglia prescindere dal fatto della malvagità dell’uomo rimane una questione da intellettuali estranea alla vita. Questo, però, significa che l’etica deve assumersi il problema del male. Il presupposto che l’etica si rivolga ai problemi del rapporto 31 Cfr. Antonio Da Re – Gabriele De Anna, (a cura di), Virtù, natura e normatività, Il Poligrafo, Padova 2004, pp. 12-23.
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interumano e che debba trovare delle intese in vista di una perfezione senza difficoltà di questo rapporto, e che dunque implichi già sempre la volontà di questa intesa, è un presupposto infondato, perché non tiene conto della realtà del male. Il problema del male viene affrontato nella tradizione classica da diversi punti di vista. Qui dobbiamo ovviamente limitarci alla discussione del male sotto l’aspetto etico. Porsi il problema del male dal punto di vista etico, significa essenzialmente mettere in rilievo concrete possibilità di impegno nell’agire etico contro il male, ma tali possibilità di impegno possono essere adeguatamente riconosciute solo se si chiarisce l’origine del male dal punto di vista etico.
1.2 Male come aggressione L’interpretazione biologica riconduce il male umano al fatto dell’aggressione. Secondo la ricerca comportamentale, l’aggressione non è così ben regolata nell’uomo come negli animali. Tuttavia, anche il male umano, in quanto ci è dato in dote dalla natura, non va riportato a categorie morali. Si deve perciò parlare, secondo Konrad Lorenz (1903-1989), del «cosiddetto» male32. Non si vuole negare in linea di principio che l’uomo come l’animale sia incline per natura all’aggressività e che perciò vengano alla luce stupefacenti paralleli tra uomo e animale. Ma il comportamento aggressivo si verifica nell’uomo anche quando esso lo afferra sul fondamento della libertà. Questo significa che l’uomo può comportarsi prendendo posizione nei confronti della sua aggressività, vale a dire che solo l’uomo è in grado di porsi il problema se e in quale misura può riuscire ad «opporre resistenza» con successo alla sua aggressività in uno sforzo etico. Bisogna dire, però, che la parola «aggressione» è spesso usata in modo equivoco e che proprio il suo uso equivoco ha 32 Cfr. Konrad Lorenz, Il cosiddetto male, tr. di Elisabetta Bolla, (La Cultura 956), Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 125-143.
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creato grande confusione nella letteratura esistente sull’argomento. Fenomeni diversi non hanno ovviamente una «causa» comune: una cosa è l’aggressione difensiva, reattiva (come la difesa della propria vita in caso di attacco), altra cosa è la «distruttività» e «crudeltà», che è la propensione tipicamente umana a distruggere e a ricercare il controllo assoluto (di cose, animali o persone)33. È solo la confusione terminologica e la mancata distinzione tra «aggressione benigna» (l’impulso programmato filogeneticamente, che l’uomo ha in comune con tutti gli animali, di attaccare, o di fuggire, quando sono minacciati interessi vitali) e «aggressione maligna», distinzione tematizzata in particolare da Erich Fromm (1900-1980)34, che ha portato molti autori a formulare la nota tesi che il comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca di scaricarsi e aspetta l’occasione propizia per esprimersi. L’aggressione difensiva, «benigna», è al servizio della sopravvivenza dell’individuo e della specie, è biologicamente adattiva, e cessa quando viene a mancare l’aggressione. L’altro tipo, l’aggressione «maligna», e cioè la crudeltà e la distruttività, è specifica della specie umana, non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva. Queste due forme di aggressione hanno ciascuna fonti e qualità diverse. A differenza degli animali, compresi i mammiferi e, in particolare, i primati, l’uomo può uccidere e torturare membri della propria specie (o anche di altre specie) senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione. Perché lo fa? Qual è la causa di questa aggressione «maligna»? Il fatto è che tutte le passioni umane, sia «buone» che «cattive», possono essere intese 33 Cfr. Gianluigi Pasquale, Il pensiero contemporaneo e la ‘trascendentalità del male’, in Carmelo Vigna – Susy Zanardo, (a cura di), Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male (Filosofia Morale 33), Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 173-188. 34 Cfr. Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, (Oscar Saggi) Mondadori, Milano 1997, pp. 601-640.
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soltanto come il tentativo di un individuo di dare un senso alla propria vita, di trascendere le pure e semplici esigenze di sussistenza. Così, persino l’individuo più sadico e distruttivo è umano, come il santo, un uomo corrotto e malato che non è riuscito a dare una risposta migliore alla sfida di nascere uomo. Le pulsioni che distruggono la vita, distruggono non solo la vittima, ma anche l’aguzzino. Costituiscono un paradosso: la vita si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi un senso.
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2.3 La crudeltà L’ipotesi che l’uomo, contrariamente agli animali predatori, non abbia sviluppato inibizioni istintive contro l’uccisione di membri della propria specie, oggi come oggi non sta più in piedi. Non è affatto vero che l’uomo non abbia alcuna inibizione a uccidere. Ma è certamente vero che la storia umana è intessuta di tanti e tali massacri che, a prima vista, sembrerebbe improbabile la presenza di inibizioni35. Eppure esistono prove che indicano l’esistenza di tali inibizioni e mostrano che l’atto di uccidere può essere seguito da un senso di colpa. L’elemento della familiarità e dell’empatia ha un ruolo ben preciso nel generare inibizioni ad uccidere. Questo spiega perché, nelle società moderne, in caso di guerra, tutti i governi cerchino di risvegliare nel popolo l’impressione che il nemico non sia umano. Un altro modo per rendere l’altro «non-umano» consiste nel tagliare tutti i legami affettivi con lui. Non fa alcuna differenza che l’oggetto dell’aggressione sia uno straniero o un parente stretto o un amico: l’aggressione taglia fuori l’altro affettivamente, così che l’altro non è più sentito come «umano» e diventa una «cosa». In queste circostanze cade ogni inibizione, fino a giungere alle 35 Cfr. Hanna Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, (Saggi) Feltrinelli, Milano 19957, pp. 290-295.
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forme più crudeli di distruttività. L’uomo non ha alcuna inibizione a uccidere creature viventi – esseri umani o animali – con cui non si identifica, che gli sono cioè completamente «estranee» e con le quali non ha legami affettivi.
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2.4 La compassione L’opposto della crudeltà è la compassione. Quest’ultima è stata perlopiù giudicata negativamente dai filosofi, perché considerata solo un affetto, qualcosa di impulsivo, e quindi inaffidabile, contrario alla razionalità. In realtà, la compassione sembra rivestire un importante significato come istanza etica. Si tratta di un sentimento naturale, innato, e perciò universale. È un atteggiamento immediato, perché scaturisce direttamente quando si vede il dolore di un altro36. La si può collocare a questo riguardo all’opposto della ragione che, in quanto riflessione dell’universale, si riferisce essenzialmente alla formazione di grandi forme d’ordine. Nella compassione si prescinde proprio dalla persona determinata e si pensa al sofferente solo in quanto sofferente. La compassione va, perciò, considerata come un comportamento svincolato dalle condizioni personali e non può essere limitata al riferimento a persone che mi sono familiari in un orizzonte vicino. Ad essa spetta, perciò, la stessa universalità che spetta al suo corrispondente opposto, cioè alla crudeltà. Anche la crudeltà nella sua forma radicale è in ogni caso un comportamento apersonale, perché l’altra persona viene ridotta a puro oggetto del piacere distruttivo: lo scopo è quello di negare la sua umanità. Ma questo processo di depersonalizzazione è e rimane un riferimento diretto: si ha bisogno dell’altro come oggetto immediato, se si vuole vedere e godere il suo dolore. 36 Cfr. Enzo Bianchi, Dono e perdono: per un’etica della compassione, (Vele 94), Einaudi, Torino 2014, pp. 43-67.
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Crudeltà e compassione si combattono a vicenda, in quanto nel singolo è latente la sua predisposizione alla crudeltà. Se l’esito della lotta è incerto, la compassione sembra essere l’unica istanza e l’unica forza in grado di opporsi alle possibili perversioni, rappresentate dal male nelle sue forme estreme. La vista del dolore di un essere che ci sta di fronte risveglia la volontà immediata di aiutare, e questa volontà immediata di aiuto è il carattere essenziale della compassione. Ma quest’ultima può andare al di là del caso singolo e costituirsi come disposizione preventiva ad evitare o a mitigare il dolore, dovunque e comunque esso si manifesti. L’atteggiamento etico va al di là del legame con ciò che è visibile37. Ciò è tanto più vero in un mondo, la cui unificazione è prodotta dalla tecnica. Se nella considerazione del dolore lontano, trasmesso con immediatezza dai mass-media attraverso le immagini, subentra un processo di distanziamento, esso comporta nondimeno anche una conseguenza positiva: di fronte al dolore degli uomini in paesi lontani, visibile grazie ai media, si impone l’esigenza di adoperarsi per mitigarlo. La concatenazione del mondo prodotta per via tecnica non ha solo conseguenze politiche, ma anche etiche. Essa rende necessaria la coscienza della responsabilità universale come equivalente morale dell’azione38.
2.5 Male quale rottura dell’ordine L’interpretazione biologica, che riconduce il male umano al fatto generale dell’aggressione, non basta a spiegare il fenomeno della crudeltà, come ben dimostra, per esempio, la situazione 37 Cfr. Francesco Botturi – Carmelo Vigna, (a cura di), Affetti e legami, (Annuario di Etica 1), Vita & Pensiero, Milano 2004, pp. 137-145. 38 Cfr. Elisabetta Cattanei, Il male nella Metafisica di Aristotele: alcune questioni di interpretazione, in Massimo Marassi – Roberto Radice, (a cura di), Il divino e l’ordine del mondo: Minima Metaphysica, (Temi metafisici e problemi del pensiero antico 141), Vita & Pensiero, Milano 2015, pp. 41-52.
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dei campi di concentramento, che nella nostra mente si associa di solito con l’irruzione del male a un livello mai raggiunto in precedenza, un male non solo estremo, ma anche particolarmente restio a lasciarsi spiegare, in quanto presentare i detenuti e i guardiani in termini di patologia, come fanno perlopiù gli studi psicanalitici o psichiatrici sul comportamento nei lager, significa offrire una descrizione niente affatto adeguata39. Qualunque sia la spiegazione circa l’origine del male, resta il fatto che la rottura con cui viene superato lo stato della vita integra, in modo che ora esiste la discordia, è una realtà. Conosciamo questa circostanza dalla nostra stessa esperienza. Sociologi, storici della cultura e filosofi continueranno sempre a far notare la straordinaria molteplicità del concetto di male. Ma l’essenziale tratto universale del male è del tutto evidente: il male si manifesta come disordine, ossia come l’annullamento dell’ordine nel e attraverso l’azione dell’uomo40.
3. Le massime del nostro agire 3.1 Norme etiche per costruire il nostro agire Per chiarire l’idea del bene siamo ricorsi all’idea dell’ordine e abbiamo cercato di renderla esplicita come concetto etico fondamentale. La determinazione «ordine in generale» è, tuttavia, assai vaga ed è necessario renderla concreta, cosa che può accadere solo in relazione alla situazione storica. Se non si vuole utilizzare l’idea di ordine solo in modo puramente legalistico o tecnologico, vanno messe in rilievo norme etiche per la costituzione di forme 39 Cfr. Cvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo tragico, traduzione di Roberto Rossi, (Gli Elefanti – Saggi), Garzanti, Milano 20192, pp. 45-78. 40 Cfr. Carmelo Vigna – Susy Zanardo, Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, cit., pp. 11-24.
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di ordine concreto. Queste norme si collocano tra l’idea del bene e le forme concrete di ordine. Tramite queste norme il bene stesso ottiene consistenza, in quanto esse lo rendono percepibile e permettono di schematizzarle. D’altra parte queste norme, in quanto sottostanno all’idea del bene, fanno sì che le forme concrete di ordine acquistino rilevanza etica, al di là dall’essere mere forme di organizzazione. Queste norme devono perciò fungere da massime del nostro agire, dove «massima» è il principio soggettivo, contrapposto all’oggettività della legge.
3.2 Le esigenze minime dell’etica Quali sono queste massime? L’ordine che l’etica deve costituire e che rappresenta il bene è l’unione significativa di uomini reali. L’ordine si fonda sul fatto che questi uomini si riconoscono reciprocamente e non si degradano a mezzo: ci sono valori che mi sono già dati per il semplice fatto che mi trovo a vivere tra gli altri. La norma da cui si deve partire è l’imperativo categorico di Kant, cioè la sua formulazione dal punto di vista dell’umanità: «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo»41. Ovviamente noi non possiamo basare questa norma, come fa Kant, sull’idea di un regno metafisico; per noi l’ordine non è, infatti, una determinazione ultramondana, nondimeno resta una massima valida anche nel nostro tempo, perché la reciprocità e il riconoscimento reciproco è e rimane la categoria fondamentale dell’uomo: il fatto stesso della vita comune spinge a riconoscere l’altro come persona e a trattarlo, quindi, mai solo come mezzo, quali che siano le forme di convivenza umana. 41 Cfr. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, [1785] nn. 214-215, (Biblioteca Universale Laterza 146), Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 89-93.
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L’uomo, tuttavia, che non appartiene a un mondo soprasensibile, ultramondano, che vive piuttosto in questo mondo, su questa terra, non vive solo con i propri simili, ma con innumerevoli altre forme di vita. La massima kantiana va, quindi, in qualche modo estesa a tutte le forme di vita del pianeta, ferma restando la distinzione tra la persona umana e ciò che persona non è, una distinzione comunque già data prima di ogni riflessione. Da questa massima fondamentale se ne possono derivare altre due, che sono anch’esse massime del nostro agire: 1) la volontà di vivere e 2) il desiderio di una diminuzione del dolore e di un aumento del benessere. Entrambe le definizioni sembrano essere orientate più in senso «materialistico» che «idealistico»: esse concernono il quadro esterno e la «conditio sine qua non» dell’essere uomo. Ciò è legittimo, perché l’etica oggi deve porre esigenze minime, ma necessarie, per essere efficace. Tuttavia queste esigenze semplici, come vedremo, non sono per niente facili da soddisfare: esse coinvolgono l’uomo in problemi concreti, che non sono facilmente risolvibili. Questo, però, gioca a loro favore, in quanto questi principi sono presi dalla realtà. La loro discussione è in grado di mostrare ciò che l’etica può e deve fare rispetto alla metafisica tradizionale42.
3.3 La volontà di vita e il principio etico La volontà di vivere come volontà di autoconservazione, che negativamente si manifesta quale angoscia di fronte al dolore e alla morte, angoscia che caratterizza tutti gli esseri viventi e quindi anche l’uomo, è un fatto primario, e rimane tale anche quando l’uomo può, diversamente dall’animale, combattere contro di essa. Come ha mostrato Schopenhauer, la volontà di vita è da intendersi come impulso pre-razionale, ma solo l’uomo può riconoscerlo 42 Adela Cortina Orts, Ética mínima. Introducción a la filosofia practica, prólogo por José Luis López-Aranguren, Tecnos, Madrid 20117, pp. 17-34.
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come tale, cosicché solo per lui è possibile negare o riconoscere questa volontà, non solo in se stesso, ma anche negli altri. Con l’esigenza di questo esplicito riconoscimento, secondo Schopenhauer, si raggiunge la dimensione dell’etica43. Ma già in Fichte nel fenomeno del riconoscimento degli altri uomini, e quindi della loro volontà di vita, si ha una fondazione del comportamento etico. La volontà di vita nel senso della vita del singolo non viene, però, sempre riconosciuta come principio universalmente valido. Molte civiltà hanno sancito, come esigenza incondizionata, lo spirito di sacrificio nei confronti della tribù, del popolo o dello Stato: in esse la volontà di vita come volontà del singolo è valutata del tutto negativamente a favore di quella collettiva. Questo principio viene oggi ribadito, in quanto si basa su un fatto biologico, ma si tratta di un principio, per certi aspetti, paradossale, perché siamo consapevoli che ha una validità assoluta e nello stesso tempo sappiamo di agire continuamente contro di esso e che persino dobbiamo agire contro di esso. Basti pensare, per caratterizzare i problemi che qui emergono, alla guerra, all’eutanasia, agli esperimenti sugli animali, oppure, per citare solo alcuni problemi della scienza medico-biologica, al trapianto degli organi, alla fecondazione artificiale, al possibile controllo per mezzo di droghe che mutano la percezione, eccetera. In tutti questi casi la vita non viene riconosciuta come intoccabile: la volontà di vivere rischia di divenire un principio indeterminato, perché non è chiaro dove inizi e dove cessi la vita. Se consideriamo la volontà di vivere come un fatto primario ed eleviamo il suo riconoscimento ad esigenza etica fondamentale, la cui osservanza reale non è possibile in forma assoluta, ciò non significa che l’imperativo diventi inutile. Rimane la massima essenziale che è necessario trasformarlo in realtà, per quanto questo è possibile e in misura sempre maggiore, benché rimanga l’incertezza in cui 43 Cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, lib. IV, (Biblioteca di Filosofia – Testi 2) Mursia, Milano 1969, pp. 453-467.
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si muove tra la coscienza come ultima istanza e la realtà. Ma in ogni caso è necessario ribadire che è essenziale riconoscere l’esigenza in quanto incondizionata. Come si debba procedere nei particolari va discusso, in primissimo luogo, su questo fondamento etico.
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3.4 I bisogni materiali e la felicità Accanto al riconoscimento della volontà di vivere, possiamo porre il secondo principio, per spiegare che l’uomo non va mai usato come mezzo. Si tratta dell’idea della diminuzione del dolore e dell’accrescimento del benessere, in altre parole del principio della maggiore felicità per il maggior numero. Nella tradizione si è sempre richiamata l’attenzione sul carattere molteplice di ciò che si chiama felicità. È questo il motivo per cui, secondo Kant, il concetto di felicità non offre alcun fondamento accettabile per un’etica che voglia essere vincolante. Non è certo possibile stabilire una nozione di felicità che sia vincolante per tutti, tuttavia si può partire dal fatto che esistono livelli quasi universalmente riconosciuti delle immagini della felicità. La possibilità di felicità a livello minimo è la creazione di una condizione che renda possibile una vita degna di essere vissuta44. Decisivi in questo caso sono i bisogni materiali, che vanno considerati come il fondamento di un’esistenza umana in generale, anche se è piuttosto problematico definire in modo particolareggiato la natura di questi bisogni. Bisogni primari sono senza dubbio un sostentamento sufficiente e la salute, ma questi beni non costituiscono l’unica forma di felicità a cui si possa aspirare, essi sono le basi per «interessi più alti», benché non sia compito dell’etica stabilire una gerarchia tra questi interessi e diffonderli 44 Cfr. Luigino Bruni – Pier Luigi Porta, (a cura di), Felicità ed economia: quando il benessere è ben vivere. Prefazione di Giacomo Becattini, (Biblioteca Contemporanea – Le Idee), Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 112-142.
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in quanto moralmente vincolanti. Questo non significa che l’etica debba collocare i valori più alti come criterio di ciò che a lei primariamente spetta, se vuole rivestire un significato reale per la vita. La pianificazione dei valori primari è nondimeno una questione complessa45. Per realizzare il progetto eticamente migliore, lo si deve pensare in vista di una possibile realizzazione, ma questo oggi è possibile solo con l’aiuto della politica e della scienza. L’idea etica, per esempio, che nessun uomo deve patire la fame rimane astratta se non si affronta il problema approfondendolo in tutti i suoi aspetti, che toccano gli ambiti della politica, dell’economia e della scienza: il problema del sovrappopolamento, dell’inquinamento, del sottosviluppo di molti popoli, della possibile uguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri, senza escludere il problema di come sia possibile scoprire nuove fonti di sostentamento con l’aiuto della scienza.
3.5 I bisogni materiali e spirituali L’idea del benessere, come quella della volontà di vivere, è un’idea regolativa, che ci riguarda come esigenza morale. È, tuttavia, sbagliato pensare di poter garantire il miglioramento dei rapporti grazie all’uso di moderne tecnologie e all’organizzazione razionale senza un impegno etico. L’idea della felicità non deve offrire il fondamento per un’ingenua filosofia del piacere. Concentrarsi solo sui requisiti materiali della felicità, come ha fatto la scienza economica moderna, significa isolare un aspetto particolare della vita umana e spezzare così l’uomo, che non è determinato unicamente dai suoi bisogni. L’utilità che traiamo dai beni, se può essere rilevante per la sfera economica, non è detto che lo sia per la felicità. 45
Cfr. Ágnes Heller, Filosofia Morale, cap. 2 e 3, il Mulino, Bologna 1997, pp. 78-101.
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È necessario, quindi, pensare l’uomo in quanto realtà unitaria, multidimensionale, che non può essere ristretta a una sola dimensione. Non basta il reddito, il denaro, occorrono molti altri elementi per la felicità: il denaro deve essere considerato un mezzo per il soddisfacimento dei bisogni, non un fine. Anche i rapporti tra le persone e la loro qualità sono «beni» di cui l’economia e la politica devono occuparsi, un’idea già presente nell’utilitarismo classico, che se pure sosteneva che il motore delle azioni umane è la ricerca del piacere, aveva ben chiaro che accanto all’utilità individuale andava posta l’utilità collettiva46, perché se il perseguimento del proprio utile non tiene conto dell’utilità collettiva diventa disutilità, cosa che è avvenuta di fatto con la rivoluzione consumistica. L’economia sociale (o civile) va al di là del solo valore economico, anche se il valore economico esiste, perché pur non producendo ricchezza orientata all’appropriazione del profitto, produce valore aggiunto, posti di lavoro, bene e servizi. Essa ha dunque un impatto sugli aspetti della politica e dell’etica.
46 Cfr. Jeremy Bentham, Deontologia, o Scienza morale, traduzione e introduzione di Zino Zini (Piccola Biblioteca di Filosofia e Pedagogia), G.B. Paravia & C., Torino 1930, pp. 34-59; John Stuart Mill, Antologia di scritti di logica, economia, politica, etica. Introduzione, commento di Francesca Calabi Giorello, Edizioni Bietti, Milano 1974, pp. 190-251.
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Capitolo terzo
Il senso morale
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1. Il fatto morale è irriducibile 1.1 La coscienza è primaria nell’uomo Dopo che Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud hanno insegnato a considerare la nostra coscienza come coscienza falsa, è divenuta d’importanza cruciale la questione se sia possibile parlare di un valore morale distinto da tutti gli altri, irriducibile a questi e di un livello assolutamente superiore. Il punto di partenza dei tre autori citati è in definitiva il riassorbimento dell’individuo in dimensioni che lo superano: la dimensione collettiva (Marx), il risentimento (Nietzsche), la spinta biologica (Freud). Non può essere trascurato il fatto che molti stati della nostra coscienza che noi consideriamo morali non sono altro che la proiezione stravolta e mistificata di forze inconsce o collettive di ben altra origine, finalità e natura. In questo senso la cosiddetta «Scuola del sospetto47» ha compiuto una considerevole opera di purificazione: quel che a noi appare come il bene morale è spesso lungi dall’esserlo. Benché non vi siano dubbi, tuttavia, che il fatto morale è inseparabile dalla dinamica delle reazioni emotive, dalla pressione sociale, dalle strutture linguistico-etnologiche, dalla introiezione delle proibizioni ancestrali e parentali eccetera, è altrettanto indubbio 47 Cfr. Paul Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Éditions Points, Paris 1995, pp. 42-46.
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che tale dinamica emerge da tutti i suoi condizionamenti come un residuo specifico irriducibile. Se, infatti, rimaniamo legati alla vita, dobbiamo riconoscere che essa ci rimanda immediatamente alla dimensione della libertà. La coscienza della libertà è primaria per l’uomo stesso, in quanto egli deve vivere e agire nel contesto della vita, e non in quanto coscienza filosofica sostanziale. Questo significa che non ha senso il tentativo di dimostrare astrattamente la libertà o la determinatezza dell’uomo né ha senso la preoccupazione di tracciare il più esattamente possibile un limite tra l’apporto dell’una e dell’altra istanza, ammesso che tali spiegazioni siano in generale possibili. Sono proprio i risultati della ricerca scientifica, in tutti i suoi campi, a mostrare irrilevante o addirittura fuorviante un simile tentativo. La «coscienza di poter fare» è oggi decisiva, in tutta la varietà dei suoi possibili aspetti, dalle questioni di fattibilità tecnica ai problemi morali, dalla plausibilità di mutamenti di tipo radicale agli scopi che questi devono avere. L’aspetto etico non va soppresso nel momento in cui si afferma la decisività dei risultati della scienza. Nell’odierna ricerca scientifica sono continuamente legati tra loro i fattori teoretici e quelli pratici. Presumere, quindi, di «dimostrare» l’irriducibilità del fatto morale rispetto ad ogni risultato della ricerca scientifica significa in definitiva mantenere l’idea, ormai superata, di una gnoseologia teoretica puramente autonoma, con la conseguente messa tra parentesi di ogni rilevanza etica. In una simile visione tradizionale di scienza, non si parte dalla vita per formulare un discorso di carattere morale, ma dalla scienza stessa, come fatto primario48. Ora, il fatto morale come «residuo specifico irriducibile» che emerge da tutti i condizionamenti (genetici, culturali, sociali, temperamentali eccetera), non emerge appunto come ciò che la scienza deve ancora dimostrare – il che 48 Mario Signore – Gian Luigi Brena, Libertà e responsabilità del vivere, (Fede e Cultura), Edizioni Messaggero, Padova 1999, pp. 66-79.
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significa rimanere ancora nell’ambito di una gnoseologia pura – ma come un fatto legato intimamente alla vita49.
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1.2 I giudizi morali, valori e merito Contro i negatori del valore morale, che riducono l’esperienza morale all’esperienza di altri valori o negano che i giudizi di valore abbiano un senso in quanto privi di contenuto, bisogna riconoscere che vi è una specificità dell’esperienza morale e del valore che vi si rivela e tale riconoscimento è suffragato dall’esperienza stessa della coscienza, la quale, fra i diversi valori che possono motivare l’atto umano, ne percepisce uno avente un carattere nettamente a sé, un carattere che non è soltanto differente dagli altri come questi differiscono tra loro, ma che rispetto ad essi si pone su un piano diverso, altro. È in forza di questo valore che l’atto umano è atto umano e, attraverso esso, l’uomo è uomo. Così, l’atto sarà giudicato buono o cattivo in quanto atto umano e di conseguenza l’uomo sarà giudicato buono o cattivo in quanto uomo, secondo che il valore morale sarà positivo o negativo. Questa distinzione tra atti «buoni» e atti «cattivi» la si riscontra in tutti i tipi di cultura, in tutte le epoche e presso tutti i popoli. Naturalmente vi sono notevoli differenze quanto alla determinazione di ciò che è riconosciuto «buono» o «cattivo». Ciò, tuttavia, non toglie che l’esistenza dei giudizi morali sia un dato di fatto della realtà umana, perché l’azione umana ci appare sempre rivestita di un valore e non può essere altrimenti50. Si prenda a questo proposito la nozione di «dovere» e l’uso che ne facciamo nella nostra vita. È ovvio che l’unico contesto in cui tale 49 Cfr. Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, trad. di Giuseppe Longo, riveduta da Piero Budinich, (Saggi. Scienze), Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 281-297. 50 Cfr. James Quinn Wilson, Il senso morale, trad. di Michele Mangini, (Il mondo nuovo), Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 15-89.
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concetto è chiaramente intelligibile è quello della vita associata; dipende senza dubbio da questa caratteristica precipua della vita associata il fatto che s’impari a rinunciare alle nostre pretese e a mutare i nostri fini dove sorga un conflitto con quelli dei nostri simili. Ora, non esiste comunità o gruppo umano in cui non siano riconoscibili alcuni doveri, benché non esista un singolo «dovere» correntemente accettato in tutte le comunità umane. È proprio perché è ineliminabile dalla «meccanica» della vita sociale che il concetto di «dovere» varia da comunità a comunità e ad un tempo è presente in ogni comunità. Anche la nozione di ««merito» è indicativa a questo proposito. È, infatti, quando si dà a qualcuno un merito che si riconosce l’originalità del valore morale contenuto nella sua azione e lo si considera in se stesso, diversamente da quanto accade per qualità o difetti «naturali»: un imbecille lo si può compatire, ma non condannare («non è colpa sua»); al contrario, una persona intelligente o bella o forte eccetera, la si può ammirare, ma non elogiare («non è merito suo»). Questi giudizi di valore manifestano il fatto che noi percepiamo, in determinate azioni compiute dal soggetto, un valore che esige da noi di essere semplicemente riconosciuto e al quale gli altri valori non possono aspirare. Esso non concerne dei fini particolari, utilitaristici, ma l’uomo in quanto uomo, lo considera secondo ciò che costituisce la misura più decisiva della sua umanizzazione51.
1.3 Gerarchia dei valori morali Siamo consapevoli che alcuni valori sono più importanti di altri, ma non siamo certi di poter dire perché, o almeno non siamo certi di poterlo dire con convinzione sufficiente a persuadere un’altra persona. Non intendiamo dire che le nostre credenze non 51 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Giudizi di valore, (Einaudi contemporanea 70), Einaudi, Torino 1999, pp. 164-169.
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siano niente più che gusti, non discutiamo su di esse allo stesso modo con cui discutiamo se è più buono il gelato alla vaniglia o al cioccolato. Tra molti valori ne percepiamo alcuni che non sono affatto una questione di gusti. Pensiamo che chi infligge dolore senza ragione e sembra anche gradirlo è mostruoso; ogni volta che veniamo giudicati ci preoccupiamo di poter avere ragione, ma anche di essere trattati imparzialmente, senza pregiudizio e con l’opportunità di presentare il nostro punto di vista; abbiamo un senso del dovere che ci obbliga a mantenere le promesse anche quando non ci conviene farlo, votare quando preferiremmo stare a casa e a dichiarare al fisco il nostro reddito quando non saremmo comunque scoperti, e a questo senso del dovere possiamo essere fedeli anche in condizioni estreme: simpatia, equità, dovere non sono che alcuni aspetti (non norme o leggi) della sensibilità morale che spiega molta parte del nostro comportamento52. Molto di ciò che facciamo può essere influenzato dai sensi morali, anche se può essere influenzato da sensi differenti in circostanze differenti. Molte motivazioni possono condurre alla stessa azione. Le persone agiscono in un certo modo, ma giudicano anche le azioni così come sono, e i sensi morali sono le fondamenta di molta parte di quei giudizi. Quando si dice che la gente possiede un senso morale non è la stessa cosa dire che possiede una conoscenza diretta e intuitiva di certe norme morali. Si può sentire nettamente il dovere di dire la verità e rifiutarsi ad un tempo di rivelare ad un maniaco omicida dove può trovare un bambino innocente. Sarebbe, tuttavia, sbagliato dedurre da questo conflitto che il senso morale è irrilevante. Il fatto che un criterio sia troppo incerto per decidere un caso concreto non significa che si tratti di un criterio di cui non vale la pena parlare. Come ci si deve comportare in una situazione in cui si verifica un conflitto di doveri? Sarà l’argomento del quarto capitolo. Poniamoci prima un’altra 52 Cfr. Cvetan Todorov, Di fronte all’estremo, trad. dal francese di Elina Klersy Imberciadori, (Garzanti Novecento), Garzanti, Milano 2011, pp. 146-168.
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domanda, lasciata finora inespressa: Esiste un senso morale? Che prova abbiamo della sua esistenza?
2. Natura umana e senso morale
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2.1 I sentimenti morali profondi Nei discorsi quotidiani della gente comune è frequente l’uso di riferimenti indiretti alla moralità. Si parla, per esempio, di lealtà, moderazione, insincerità eccetera, non solo a proposito delle relazioni interpersonali, ma soprattutto del modo in cui queste relazioni dovrebbero essere, e questo riguarda il linguaggio della moralità, il linguaggio della virtù e del vizio. La specie umana possiede una natura morale alla quale facciamo solitamente appello quando cerchiamo di difendere le nostre ragioni morali. Noi pronunciamo continuamente e necessariamente giudizi morali e questi giudizi, o comunque molti di essi, non sono affatto arbitrari o limitati ad un periodo, a un luogo o a una cultura: vi è negli esseri umani, o nella stragrande maggioranza di essi, un comune senso morale, cioè una credenza intuitiva o sentita spontaneamente su come si dovrebbe agire quando si è liberi di agire volontariamente, vale a dire non in uno stato di costrizione. Con «dovrebbe» si deve intendere un’obbligazione che vincola tutte le persone situate in posizioni simili. Le stesse scoperte scientifiche nel campo della biologia, psicologia, etologia eccetera, offrono un sostegno sostanziale all’esistenza e al potere della moralità, come dimostrano, per esempio, gli studi sulla nascita del senso morale nel bambino. Solo un’errata idea di scienza può far pensare ch’essa sia nemica della moralità e che persino i nostri sentimenti morali più profondi non siano altro che il prodotto della cultura nella quale siamo cresciuti53. 53 Cfr. Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma 1999, pp. 453-476.
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2.2 Unità della natura umana Il senso morale è presente in tutti gli uomini, salvo casi patologici, perché tutti gli uomini hanno una stessa, identica natura. È un fatto che gli uomini comunicano tra di loro e si comprendono vicendevolmente: l’uomo parla e capisce la parola degli altri. Benché diversissime, le lingue presentano una similitudine fondamentale di struttura54. Anche nelle strutture mentali non esistono differenze radicali: qualsiasi bambino, educato in qualsiasi ambiente, ne acquisisce la lingua e ne assimila facilmente le idee. È sufficientemente noto e dimostrato che non vi è alcuna mentalità «prelogica»: la logica dei primitivi non differisce essenzialmente dalla nostra55. Comprensione e comunicazione, tuttavia, richiedono nei soggetti comunicanti una similitudine, se non addirittura un’identità radicale delle strutture. È proprio questo elemento comune, invariante, nonostante le differenze delle razze, delle culture, delle epoche, che costituisce la natura umana universale. La natura umana è, dunque, fondamentalmente una. Le differenze tra gli uomini, benché reali e profonde, sono secondarie: la differenza tra l’uomo primitivo e l’uomo più evoluto e colto non è affatto paragonabile con la differenza tra l’animale più evoluto e l’uomo più primitivo. Il comunicare e il comprendersi vicendevolmente è una possibilità specificamente umana che fonda la società e non si esaurisce all’interno di un gruppo sociale definito. Noi viviamo da uomini e regoliamo la nostra condotta in quanto viviamo con i nostri simili. È fuori discussione l’importanza della cooperazione ai fini dello sviluppo culturale umano, originato quindi non solo dalla competizione, come vorrebbe la teoria darwiniana estesa al campo sociale. 54 Come dimostrato dagli studi, per esempio, di Noam Chomsky, Il mistero del linguaggio: nuove prospettive, a cura di Matteo Greco, introduzione di Andrea Moro, (Minima 147), Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, pp. 38-54. 55 Cfr. Claude Lévi-Strauss, Primitivi e civilizzati: conversazioni con Georges Charbonnier, trad. di Anna Rosso Cattabiani, introduzione di Alfredo Cattabiani, (Problemi attuali), Rusconi, Milano 1976, pp. 55-79.
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2.3 Istinto e senso morale Dire che le persone hanno un senso morale non è la stessa cosa che affermare la bontà innata. Il senso morale deve competere con gli altri sensi naturali agli esseri umani. I nostri desideri egoistici e le nostre capacità morali sono in conflitto gli uni con le altre, e spesso i primi hanno la meglio sulle seconde, ma questo non deve portare a una concezione relativistica della moralità umana. È facile arrivare a questa conclusione qualora si insista, come fa una certa concezione del metodo scientifico, sul punto che le affermazioni di fatto differiscono in modo fondamentale dalle affermazioni di valore. Vi è oggi una vasta letteratura sulla psicologia infantile, la biologia evolutiva e l’antropologia culturale che, in sintonia con la visione «antica» della natura umana, assegna un ruolo importante al senso morale e denuncia la falsità di tutte le previsioni che si basano su di una concezione puramente relativistica della natura umana. L’uomo possiede piuttosto un senso morale che si afferma naturalmente come il senso della bellezza o del rituale e che influenzerà il comportamento, anche se non sempre e, in qualche caso, in modo non evidente. Di fatto tutti, fin dalla più tenera età, pronunciamo giudizi morali in base ai quali distinguiamo tra azioni giuste e sbagliate e acquisiamo un insieme di abitudini sociali. È il modo in cui viviamo e ci esprimiamo quotidianamente, il nostro comportamento perlopiù irriflesso, la prova dell’esistenza del senso morale. Delitti, violenze, corruzione, casi di sfruttamento non potrebbero sconvolgerci al punto da indurci a credere che non esista alcun senso morale, se non offendessero i nostri istinti morali e non costituissero delle lampanti violazioni delle nostre attese56.
56 Cfr. Max Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori, traduzione e introduzione di Giulio Alliney, Fratelli Bocca, Milano 1944, pp. 50-61.
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2.4 Predisposizione alla vita morale La natura morale dell’uomo deriva direttamente dalla sua natura sociale. L’uomo è per natura un animale sociale57. Le motivazioni che modellano la moralità sorgono tutte dalla nostra natura sociale. In quanto animale sociale, l’uomo lotta per riconciliare le parti parzialmente in conflitto della sua natura, le combinazioni del suo agire sono sempre una combinazione di motivazioni più o meno altruistiche con altre più o meno egoistiche. L’uomo è un animale sociale per natura, come conseguenza delle predisposizioni biologiche selezionate nell’arco di milioni di anni di storia evolutiva. Se il comportamento morale è in qualche misura innato, se la nostra propensione ad aiutare gli altri o ad evitare la crudeltà è in certo senso naturale, allora questa caratteristica deve aver avuto qualche valore nell’evoluzione, altrimenti si sarebbe estinta, perché la sua esistenza avrebbe ridotto le prospettive di sopravvivenza di coloro che ne erano dotati. La socievolezza naturale dei bambini è un esempio di predisposizione. L’evoluzione ha selezionato il comportamento affettivo in tutte le specie che nutrono i loro piccoli dopo la nascita. È un comportamento particolarmente forte tra gli esseri umani, perché il neonato necessita di un periodo molto lungo di cure. L’evoluzione ha in definitiva ricompensato («selezionato») coloro che sono biologicamente predisposti a dedicare molto tempo allo scopo «irrazionale» e privo di compensi di crescere i figli. Se non fosse stato così, la specie umana non sarebbe sopravvissuta. Quel che l’evoluzione seleziona non è però il comportamento, morale o altro; seleziona soltanto i meccanismi che producono un comportamento o vi predispongono un animale. Il meccanismo su cui si fonda la condotta morale umana è il desiderio di attaccamento o affiliazione. È un desiderio che si manifesta nel comportamento 57 Cfr. Aristotele, Politica, n. 305, 2, a cura di Carlo Augusto Viano, (BUR – Classici Greci e Latini), Rizzoli, Milano 20135, pp. 176-179.
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istintivamente socializzante del bambino appena nato e nelle cure istintive con cui i genitori reagiscono a quel comportamento. L’affetto, così generato, è il meccanismo dal quale emerge la socievolezza e la socievolezza, a sua volta, è lo stato nel quale si modella la comprensione morale. La predisposizione all’affetto opera attraverso un elaborato sistema nervoso centrale ed è impressa nei simboli evocativi del linguaggio. La naturale socievolezza del bambino spiega perché il senso morale si sviluppi prima che egli abbia acquisito competenza nell’uso del linguaggio. I rudimenti dell’azione morale sono presenti molto prima che si possa svolgere qualsiasi ragionamento morale. La stessa acquisizione del linguaggio, piuttosto che un precursore necessario dell’azione morale, è una manifestazione della naturale socievolezza della specie umana58. Giustizia, dovere, simpatia, autocontrollo sono tutti sentimenti che derivano dalla socievolezza, anche se non necessariamente devono stare sempre insieme. La socievolezza è dominante nell’essere umano perché gli individui si sono evoluti in modo da porre i loro istinti più egocentrici sotto qualche controllo superiore. Ma non sono soltanto le parti superiori del cervello (la neocorteccia) ad essere coinvolte nella socievolezza, perché sarebbero spesso sopraffatte da più urgenti pulsioni primitive, quali paura, fame e rabbia. Molti dei nostri impulsi egocentrici possono essere tenuti strettamente a freno da alcuni di quelli più sociali perché entrambi derivano dalla parte più antica, più «primitiva» del nostro sistema nervoso. La socievolezza non richiede cioè un cervello «moderno» e può anche non richiedere un linguaggio, benché questo possa giovarle.
58 Cfr. Mauro Carbone, La natura: variazioni sul tema, in Rossella Bonito Oliva – Giuseppe Cantillo, (a cura di), Natura e cultura, (Strumenti e Ricerche 6), Guida, Napoli, 2000, pp. 279-297.
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2.5 La natura sociale dell’uomo La socievolezza è un’arma a doppio taglio: da essa traggono origine non soltanto i nostri sentimenti morali, ma anche la nostra preoccupazione per la reputazione e il rispetto. La socievolezza genera il senso morale, ma ci fa trovare in molte situazioni dove esso si esprime in modo attenuato e distorto, come mostra, per esempio, il bisogno che abbiamo di denigrare le vittime attribuendo ad esse qualità che le fanno apparire meritevoli del destino che capita a loro per giustificare la nostra inazione. Anch’esso è frutto della nostra naturale socievolezza, perché abbiamo bisogno di razionalizzare la nostra incapacità a correggere la nostra ingiustizia o la nostra complicità nel crearla. Se, infatti, non credessimo che la giustizia e la simpatia sono importanti, non ci preoccuperemmo di denigrare la vittima. La capacità di essere persone moralmente buone e la fonte della più profonda depravazione sono, in fondo, la stessa identica cosa, perché la nostra stessa socievolezza che ci spinge a prodigarci per gli altri (anche sconosciuti) ci spinge nello stesso tempo a renderci accettabili, ad eseguire gli ordini (anche inumani) e a ottenere l’approvazione degli altri. Gli esseri umani non possono fare a meno di un senso di appartenenza a un piccolo gruppo e i gruppi di appartenenza sono necessariamente definiti da un processo di esclusione – di sconosciuti, stranieri e nemici – che crea gruppi esterni. In un mondo nel quale le persone non assegnino alcun significato a nessuna entità sociale più grande di loro e delle loro famiglie non esisterebbe un senso allargato di dovere, una disponibilità a sacrificarsi per il bene altrui, o anche la volontà di cooperare in faccende rischiose o incerte per trarne vantaggio materiale59. 59 Cfr. John Dewey, Natura e condotta dell’uomo, presentazione di Lamberto Borghi, trad. di Giulio Preti e Aldo Visalberghi, (Pensatori del nostro tempo 3), La Nuova Italia, Firenze 1958, pp. 301-342.
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2.6 Il comportamento Una volta l’opinione che il senso della moralità modellasse il comportamento e i giudizi era largamente sostenuta tra i filosofi. Aristotele diceva che l’uomo è naturalmente un essere sociale che persegue la felicità. San Tommaso d’Aquino, che cercò di conciliare la dottrina cattolica con quella di Aristotele, sosteneva che l’uomo possiede un’inclinazione naturale ad essere un essere razionale e sociale; la legge morale è, innanzitutto, espressione di una tendenza naturale, cioè innata60. Per larga parte della storia occidentale la filosofia ha cercato di sostenere e sviluppare il lato sociale della natura umana, senza per questo negarne il lato egoista e più irrazionale, al di là della questione di quale e quanta influenza queste dottrine abbiano avuto sul modo in cui le persone hanno effettivamente vissuto. La filosofia moderna, salvo alcune eccezioni, rappresenta una rottura di fondo con questa tradizione. Poche tra le grandi teorie filosofiche del comportamento umano, nel corso del XIX secolo, hanno assegnato molta importanza alla possibilità che le persone siano naturalmente dotate di qualcosa che può essere definito senso morale. Per questo è sempre utile rifarsi ai grandi sistemi etici del passato, che ci permettono di recuperare la tesi di fondo che la legge morale è innanzitutto espressione di una tendenza naturale, cioè innata nell’uomo.
3. Sentimento e ragione 3.1 Sentimenti morali naturali La filosofia morale prende le mosse da una visione della natura umana. Possiamo non essere d’accordo su ciò che è naturale, 60 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 63, a. 1, in Id., Opera Omnia issu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, Romae 1888, pp. 34-36.
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ma non possiamo negare il fatto che abbiamo una natura, cioè un insieme di tratti e predisposizioni, che pongono dei limiti a quello che possiamo fare e che ci suggeriscono quel che dobbiamo fare. Non esiste, tuttavia, una singola disposizione che possa da sola descrivere questa natura, non è quindi possibile fondare una filosofia morale su un unico principio (per esempio, l’utilità, la libertà o la conservazione di sé). Nella maggior parte dei casi non c’è modo di stimare la frequenza con la quale la gente agisce per senso del dovere puro e semplice in opposizione all’interesse personale, o di misurare la frequenza con la quale i due tipi di motivazioni sono mischiati tra loro; il comportamento morale è molto più comune quando l’utilità si somma al dovere e i codici morali più forti sono invariabilmente quelli sostenuti da considerazioni sia di vantaggio sia di obbligazione61. Chiunque ammetta che non esiste un unico principio morale, ma molti parzialmente coerenti tra loro, e che né la felicità né la virtù possono essere prescritte per legge, è in condizioni migliori per giungere ad una comprensione più completa delle capacità morali dell’uomo, comprensione tratteggiata già da Aristotele. Questi sentimenti morali naturali sono una guida parziale e incompleta per l’azione, ma ci possono fornire un’idea di ciò che costituisce un bene nella vita umana e un ordine approssimativo in cui disporre questi beni. I nostri sentimenti morali naturali sono fondamentali per qualunque costruzione teorica della morale62. Una parte considerevole del dibattito nel campo delle teorie morali, infatti, ruota intorno alle nostre intuizioni di ciò che è vero, giusto e buono. Noi «sentiamo», per esempio, che è sbagliato torturare fino alla morte bambini solo per divertimento: non si può negare la verità di questa affermazione e, quindi, negare la sua forza morale. Una tale pratica contravviene così fortemente Cfr. Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., pp. 110-143. Cfr. David Hume, Trattato sulla natura umana, lib. III, (Universale Laterza 458), Laterza, Bari-Roma 1978, pp. 286-302. 61 62
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alle affezioni che ci legano insieme, che il riconoscimento del principio renderebbe del tutto impossibile che si viva insieme in una società ordinata: non possiamo immaginare una società che sia stata fatta funzionare sulla base di una norma del genere.
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3.2 Norme ancorate biologicamente Come possiamo dunque sapere, propriamente, che cosa è bene e che cosa è male? Da dove viene un simile sapere? Da una discussione sui vantaggi selezionistici risulta che certi moduli comportamentali, per esempio altruistici, sono di vantaggio per la conservazione della specie; altri, come l’uccisione dei congeneri, sono invece svantaggiosi. Volendo passare a un giudizio di valore, potremmo designare come male – e quindi da respingere – tutto ciò che contrasta la conservazione della specie. Probabilmente noi ci regoliamo, del tutto inconsciamente, in questo modo quando valutiamo negativamente tutte le pulsioni che mettono in pericolo la nostra vita consociata, qual è, particolarmente, il caso dell’aggressività. Ma da dove, poi, il singolo trae le informazioni che gli permettono di sapere cosa deve fare e cosa non deve fare? Accanto alle norme istituite per via culturale, confermate dalla prassi e dedotte, ne esistono anche di innate e biologicamente ancorate?63 La compassione e il dovere dell’obbedienza sono entrambi valori etici e per entrambi dovrebbe esistere una predisposizione innata: ma come comportarsi in caso di conflitto di questi due valori? È chiaro che in simili casi l’uomo non può abbandonarsi al «parlamento dei suoi istinti», per usare una felice espressione di Adam Lorenz, e cedere al più forte, piuttosto deve cercare di risolvere il conflitto con la chiaroveggenza, deve cercare cioè 63 Quesito che si rintraccia anche in questo volume del filosofo polesano Armando Rigobello, Persona e norma nell’esperienza morale, (Nomoi 5), Japadre, L’Aquila 1982, pp. 87-98.
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di capire l’idoneità al fine. È evidente che ciò che contrasta con la conservazione della specie può essere valutato negativamente, ma, oltre a questo criterio, esiste una gerarchia di valori? Possiamo valutare un’inclinazione innata più di un’altra? Per esempio, la compassione o l’amore del prossimo sono mozioni più nobili – e dunque da valutarsi di più – del desiderio di aggressione? Tutto ciò è certamente molto problematico, perché tutte queste mozioni sono adattive64.
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3.3 Le inclinazioni Pur ragionando in termini di evoluzione biologica, bisogna dire che forse nessun biologo considera la natura come veramente spoglia di valori: noi parliamo del resto di un’evoluzione superiore degli organismi nel corso della filogenesi, di animali inferiori e superiori, intendendo con ciò «più o meno differenziati». Ora, quelle pulsioni consociative il cui correlato soggettivo, quanto a noi, è l’amore del prossimo, non sono solo di più recente data rispetto all’aggressività, ma hanno anche condotto a un’enorme differenziazione del nostro comportamento sociale: lo stupefacente dispiegamento della cultura umana si fonda sulla collaborazione e sull’appoggio reciproco. Con la capacità dell’amore, i vertebrati superiori sono maturati al di là dell’aggressività: hanno raggiunto un livello evolutivo che deve essere valutato come «superiore». Dotati di sola aggressività, noi saremmo di sicuro ancora allo stadio dei rettili. Nel derivare norme noi dobbiamo, però, fare attenzione ad alcuni fenomeni che possono rappresentare una zavorra storica. 64 Cfr. Attilio Gnesotto, Del sentimento della compassione nella dottrina morale di Emmanuel Kant, Tipografia Giovanni Battista Randi, Padova 1913, pp. 5-12, e Ralph Robert Acampora, Fenomenologia della compassione: etica animale e filosofia del corpo, trad. di Marco Maurizi e Massimo Filippi, (Saggi 24), Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL) 2008, pp. 68-95.
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Come gli animali possono trascinare con sé delle strutture che un tempo si sono sviluppate in qualità di adattamento, ma che hanno perduto il loro valore per la conservazione della specie in seguito ai mutamenti dell’ambiente, così molte inclinazioni profondamente radicate nell’uomo possono essere invecchiate, cioè non rispondenti ad uno scopo, come nel caso del conformismo: gli uomini di tutto il mondo sono inclini a rispondere con violente reazioni di espulsione a minoranze devianti esternamente dalla maggioranza, un’inclinazione che dimostrano di avere già i bambini in tenera età. Certamente oggi ciò non è più vantaggioso, in una società che presenta una divisione del lavoro così differenziata, come dimostra il fenomeno dell’immigrazione, e la coscienza che abbiamo ormai raggiunto e che ci permette di riconoscere che anche i nostri simili devianti dalla norma sono sostanzialmente identici a noi, deve essere ulteriormente illuminata, perché è l’unico mezzo per dominare la nostra intolleranza arcaica. La sola constatazione che un’inclinazione è in noi innata non basta a giustificarla.
3.4 La natura non sceglie per noi La moralità si fonda, dunque, senza dubbio sul sentimento, come già sosteneva nel XVIII secolo David Hume (1701-1776), contro quei sistemi di pensiero morale che tentavano di poggiare soltanto sulla ragione per provare un’obbligazione morale, ma non riposa sul semplice sentimento, perché non c’è nulla di «semplice» a proposito di certi sentimenti. Lo stesso Hume, che pure separa l’«essere» dal «dover essere», argomentando che non si possono inferire valori da fatti, deriva un enunciato di «dover essere» da uno di «essere»65. I sentimenti morali, come la 65 Significativo è lo studio di Paolo Pagani, Oltre la ghigliottina di Hume, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2018, pp. 29-67.
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benevolenza, sono così radicati nella nostra costituzione che è impossibile estirparli o distruggerli, a meno che la mente umana non sia «confusa dalla malattia o dalla pazzia». La morale, quindi, non si fonda sulla sola ragione, come voleva Kant, la cui etica formale, se applicata rigorosamente, conduce a una inferenza che la maggior parte della gente trova ripugnante, ma non riposa neppure sul semplice sentimento, perché anche il sentimento da solo non basta66. È il sentimento che ci spinge a fare ciò che dobbiamo fare, ma è la ragione che ci dice ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare: la natura non sceglie per noi.
4. Norme morali e biologia 4.1 L’adattamento filogenetico La biologia è, insomma, di notevole aiuto per la comprensione del discorso etico, perché ci fa conoscere anzitutto il nostro passato filogenetico, mostrandoci l’antichità di determinate norme e il loro profondo inserimento nel patrimonio ereditario. Questo impedisce di considerare l’uomo come un essere arbitrariamente plasmabile ad opera di sforzi educativi che tendono verso determinate direzioni o di accettare le idee del relativismo culturale, e cioè che tutto sia facoltativo e niente obbligatorio. L’inibizione ad uccidere, per esempio, è una norma universale, perché è in noi qualcosa di innato, è una norma biologica che presenta un valore più alto di qualsiasi altra norma culturale che, mediante un’opera di indottrinamento, ci spinga ad uccidere un’altra persona, come in caso di guerra. Sulla norma biologica dell’inibizione ad uccidere si fonda sicuramente una delle radici più antiche del nostro bisogno di pace, che è senz’altro più antico della stessa paura delle 66 Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, n. 413, 9, II, (Biblioteca Universale Laterza), Laterza, Bari-Roma 19894, pp. 39-42.
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conseguenze della guerra o della bomba atomica. Altre norme biologiche importanti sono quelle relative al possesso di oggetti, che stanno alla base del comandamento di «non rubare». Vi è, inoltre, la norma sul «possesso del partner», che ci comanda di rispettare i legami di coppia. Anche sincerità, lealtà e ubbidienza hanno una base biologica, anche se non tutte le norme che ci sono state tramandate sono oggi ancora adattive. Anche l’intolleranza nei riguardi di estranei ha una base biologica, ma in questo caso dobbiamo opporci razionalmente a questo adattamento filogenetico e reprimere le nostre tendenze innate con l’intelligenza oppure ricorrendo ad una soluzione inoffensiva. Non tutte le norme presentano quindi una relatività culturale, ma non è neppure sempre opportuno seguire le norme primarie. Le norme primarie, intese come adattamenti filogenetici, non sono affatto di per sé morali. Lo sono solo quando interviene su di esse la riflessione, mediante la quale possiamo accettarle, cambiarle o addirittura opporci ad esse. Anche tra gli animali è possibile talora osservare un comportamento analogo alla morale e molti aspetti critici della loro vita sociale sono regolati da norme innate. Nel caso dell’uomo, tali norme riguardano la trasmissione di tradizioni, il riconoscimento dei superiori di rango, il rispetto degli individui anziani, l’inibizione all’uccisione dei conspecifici, le relazioni sessuali con il partner, il possesso e l’intesa reciproca tra individui basata su una comunicazione leale e veritiera. Tutti questi aspetti della vita in comune sono ribaditi anche dai nostri comandamenti: adattamenti filogenetici determinano i nostri giudizi di valore. Ciò che viene giudicato «morale» non è, però, un adattamento filogenetico, come, per esempio, il sacrificio dell’individuo a favore del gruppo, ma il fatto che una simile azione trae origine da una decisione ben ponderata, di cui non sembra esservi qualcosa di corrispondente negli animali, e questo presuppone ovviamente la ragione. 74
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La morale si basa di regola su sentimenti come la lealtà, la compassione eccetera, che vengono intimamente sentiti e presuppongono, quindi, tendenze comportamentali sviluppatesi nel corso della filogenesi e inserite nel programma genetico. Un comportamento, dunque, non è di per sé morale, siamo piuttosto noi che lo interpretiamo come tale guidati dai sentimenti e dalla ragione. Comprendere le relazioni biologiche, cioè i principi della sopravvivenza, sia filogenetici che culturali, può insegnarci ad agire in modo più responsabile, o anche più conveniente.
4.2 Moralità delle norme La morale della nostra natura originaria (morale primaria) si basa su adattamenti filogenetici. Seguendola, noi agiamo senza riflettere, cioè spontaneamente. Oltre a questa morale primaria vi sono poi anche norme socio-culturali trasmesse per tradizione, ma anche ad esse siamo per molti aspetti predisposti da adattamenti filogenetici, per esempio, la predisposizione all’imitazione sociale, l’identificazione spontanea con il genitore dello stesso sesso, la tendenza a sottomettersi ad un’autorità, a farsi guidare da questa, la disposizione a comportarsi conformemente alle norme di gruppo e a reagire con atti aggressivi per il mantenimento della norma quando da parte di alcuni vengono compiute infrazioni67. È indubbio, quindi, che anche gli uomini, come gli animali, agiscono spesso guidati da una tendenza biologica, e non solo in base alla riflessione o all’«addestramento»68.
67 Cfr. Riccardo Lancellotti, Il «Super» Io come imprinting: ontogenesi e filogenesi del comportamento morale tra psicoanalisi ed etologia, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2018, pp. 21-53. 68 Cfr. Antonella Besussi – Anna Elisabetta Galeotti, (a cura di), Ragione, giustizia, filosofia. Scritti in onore di Salvatore Veca, (Campi del Sapere), Feltrinelli, Milano 2013, pp. 103-124.
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Gli uomini, a differenza degli animali, in cui, in caso di conflitto tra norme, vince l’istinto più forte, sono anche capaci, però, di agire moralmente basandosi sulla ragione: grazie alla loro capacità di prevedere l’esito delle loro azioni, di svincolare il loro comportamento dagli istinti, così da poter riflettere in modo distaccato, gli uomini sono in grado di ponderare le loro azioni e persino di agire contro le proprie tendenze primarie (innate). Questo, tuttavia, non significa che le norme socio-culturali siano di per sé morali soltanto perché sono trasmesse per tradizione, perché molte nostre usanze culturali hanno avuto origine senza l’intervento dell’intelligenza, ma semplicemente perché nella competizione con altre si sono dimostrate valide da un punto di vista selezionistico: non c’è dubbio che nelle nostre usanze ci trasciniamo dietro anche parecchie tare di vecchia data, ragion per cui non si deve accettare acriticamente tutto ciò che viene tramandato.
4.3 Evoluzione biologica e culturale Nell’evoluzione culturale l’uomo supera l’evoluzione biologica. Può, quindi, accadere che certe norme biologiche entrino in competizione con quelle culturali, per esempio, quando l’ethos della guerra è in conflitto con l’inibizione a uccidere oppure l’ethos di gruppo con quello familiare. Ci possono essere conflitti di valore anche ad altri livelli: per esempio, quando interessi dello Stato e valori umanitari vengono a trovarsi in contrasto tra loro e spesso, in questi casi, attraverso un processo di esasperazione, i valori si trasformano in vizi dando luogo a delitti contro l’umanità, in nome della creazione di un uomo nuovo, di una nuova società libera, dell’uguaglianza, della vera fede, eccetera. La conoscenza del nostro bagaglio ereditario biologico permette di superare un netto contrasto di valori, senza possibilità intermedie, cioè l’antitesi «buono-cattivo». I processi biologici 76
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oscillano di regola intorno a valori medi e il relativo adattamento diminuisce se da tali valori ci si sposta verso l’uno o l’altro dei due estremi. Così, in seguito a una eccessiva accentuazione, anche le virtù possono diventare vizi, e ciò vale sia per il coraggio sia per l’amore o la disponibilità a sacrificarsi per il prossimo. Infine, ci possono essere conflitti tra due norme primarie, per esempio, tra ubbidienza e compassione. In questo caso, ci sono senz’altro precedenze tra le norme biologiche che non sono rigorosamente predeterminate. Sul peso relativo di queste due norme – ubbidienza e compassione – può senz’altro influire in modo decisivo l’educazione a un atteggiamento critico nei riguardi dell’autorità.
4.4 Interessi individuali e di gruppo Nella ricerca delle norme morali, il contributo della biologia è importante anche perché mette in rilievo il valore della sopravvivenza. Ora, che la sopravvivenza nei discendenti debba essere considerata un fine cui tendere è un fatto evidente: anche la specie umana, come tutte le specie viventi, va incontro a estinzione se non sopravvive geneticamente. Se si parte dalla tesi che le unità della selezione sono gli individui e i loro consanguinei, allora agisce bene chi agisce esclusivamente per i propri interessi, e questo è stato certamente valido per gran parte dell’evoluzione umana. Ma nella storia di questa stessa evoluzione, gli individui e i loro consanguinei cessarono di essere le unità della selezione e tali divennero i gruppi. Con ciò, la prima tesi resta valida solo entro determinati limiti. I gruppi, compresi gli Stati moderni, costituiscono, infatti, comunità d’interessi e di destino, senza le quali il singolo non può sopravvivere69. 69 Cfr. Salvatore Barone, Metafisica, scienza e persona: filosofi cattolici del Novecento a confronto con la modernità, (Sintesi e proposte 5), Centro Studi Cammarrata, San Cataldo (CL)1997, pp. 83-96.
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Come essere sociale, l’uomo deve, così, pensare in primo luogo al bene generale del gruppo, e questo resta vero anche qualora l’individuo che danneggia in qualche modo il gruppo cui appartiene ne ricavi un vantaggio a breve termine. Finché vive in società ristrette, l’individuo assiste i membri del proprio gruppo per una tendenza innata, ma ciò non si verifica quando si tratta di membri del gruppo a lui estranei. In tal caso è necessario che gli individui si impegnino socialmente, ma per questo occorrono particolari tecniche di indottrinamento, che aiutino a trasferire l’ethos familiare al gruppo allargato. Questo significa che un ethos della sopravvivenza presuppone anche una responsabilità che vada oltre le generazioni, e ciò comporta che l’uomo utilizzi con cautela le risorse ambientali e aspiri ad una cooperazione tra i popoli in grado di superare interessi particolaristici e immediati. Con ciò, non si deve mettere in discussione la legittimità degli interessi individuali, perché anche la cura della prole fa parte del nostro patrimonio genetico. Chi si occupa, anzitutto, dei propri figli si mette a un tempo al servizio del gruppo cui appartiene. Gli interessi individuali non si oppongono agli interessi del gruppo, così come il diritto di ogni gruppo umano di agire in modo autonomo, sulla base dei propri interessi, non autorizza a comportarsi in modo spietato nei riguardi degli altri gruppi: il dovere di un rispetto reciproco tra i diversi gruppi, e quindi di tenere conto sia dei propri interessi (interessi di gruppo) sia degli interessi degli altri gruppi, ha un fondamento biologico. Al di là delle suddivisioni etniche e razziali, noi uomini condividiamo un’eredità biologica comune, che ci fa provare un sentimento di legame quando ci troviamo a trattare personalmente con individui di altre culture70. La molteplicità di culture diverse, oltretutto, favorisce la continuazione dell’uomo come specie, dal momento che ciascuna rappresenta un esperimento per la sicurezza della nostra specie nel flusso della vita. 70
Cfr. Judith Randal, L’eredita biologica, Zanichelli, Bologna 1966, pp. 109-124.
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4.5 Tendenze comportamentali adattive Interessi umanitari e interessi statali non sono, quindi, necessariamente opposti. Si arriva ad una contrapposizione di valori soltanto se il desiderio di un benessere momentaneo fa dimenticare gli interessi a lungo temine dello Stato. Il conflitto deriva dal fatto che tutte le società sono costrette a difendersi da fattori esterni e a mantenere l’armonia al loro interno71. Proprio per questa necessità si sarebbero sviluppate tra i membri del gruppo due opposte tendenze emotive e ideologiche, un’etica dell’ostilità e un’etica dell’amicizia, che sussisterebbero una accanto all’altra causando contraddizioni e che hanno anche radici filogenetiche. Legami primari con la famiglia e il piccolo gruppo individualizzato e legame secondario con i membri estranei dei grandi gruppi anonimi di società fondate sulla stirpe, sulla nazionalità o su uno Stato fanno parte legittimamente del nostro agire etico. Salvaguardare gli interessi del gruppo, senza per questo sacrificare completamente la propria libertà, è un compito etico di primaria importanza, perché con la formazione dei grandi gruppi anonimi gli uomini sono stati costretti a rendersi disponibili in caso di guerra e a posporre gli interessi familiari a quelli del gruppo, anche se questo va contro la loro natura. Per adattarci culturalmente alla nostra moderna società di massa può essere utile la consapevolezza di come l’evoluzione biologica ha agito su di noi, fornendoci talvolta di tendenze comportamentali disadattate. Gli adattamenti filogenetici che plasmano il nostro comportamento si sono evoluti in un lungo periodo durante il quale i nostri antenati vivevano in piccole comunità di cacciatori e di raccoglitori. Nel corso degli ultimi diecimila anni non abbiamo cambiato sostanzialmente la nostra eredità biologica, ma attraverso l’evoluzione culturale abbiamo radicalmente cambiato il nostro ambiente 71 Cfr. Erminio Juvalta, I limiti del razionalismo etico, a cura di Ludovico Geymonat, (Biblioteca di Cultura Filosofica 1), Einaudi, Torino 1945, pp. 56-87.
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sociale e naturale, e così facendo abbiamo creato un mondo per cui non siamo biologicamente predisposti. La nostra disposizione per la cultura impedisce un «fatalismo biologico». Dobbiamo cioè respingere l’idea che la natura umana non possa essere modificata e con essa anche l’idea che la nostra natura biologica prevalga sulla componente culturale e debba perciò essere normativa. Le nostre caratteristiche più adattive non sono «buone», perciò morali, di per se stesse, perché possono divenire disadattive se portate all’eccesso o in determinate situazioni. È piuttosto la riflessione, operata dalla ragione, che riconoscendo, sviluppando od opponendosi ai nostri adattamenti filogenetici, a seconda dei bisogni dei singoli e dei gruppi, dà luogo ad un ordine morale e ad un insieme di leggi che lo regolano. La specie umana è l’unica specie capace di moralità perché è l’unica a possedere la consapevolezza e la capacità di pianificare il proprio futuro: essa può estinguersi, in seguito ad una feroce concorrenza tra gruppi, così come può ulteriormente evolversi. 4.6 Il primo abbozzo del «senso morale» Il fatto che certe regole siano innate è apparentemente contraddetto dall’osservazione dei fatti: se certe inibizioni fossero innate (come nel caso dell’incesto), non ci sarebbe bisogno di leggi. Bisogna tenere presente, però, che anche nel campo del comportamento geneticamente determinato, come per ogni struttura a determinazione genetica, ci sono variazioni di origine sia ambientale sia genetica. Le leggi di origine culturale tengono conto di questo e impediscono che le eccezioni accrescano di numero e diventino la regola, ossia che la percentuale dei devianti dalla norma raggiunga un livello critico per la sopravvivenza della comunità che in ogni caso condivide un certo codice genetico. 80
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Le norme biologiche non vanno confuse con le norme morali, che sono piuttosto opera della riflessione: che le prime siano innate non vuol dire che lo siano le seconde. La biologia ci è solo di aiuto per la costruzione di un ordine morale, ma non sostituisce la riflessione. Essa ci permette di capire che nella nostra natura ci sono delle inclinazioni che, prima ancora di essere messe in atto, orientano il giudizio della ragione, in quanto quest’ultima è un elemento della nostra natura72. Tali inclinazioni sono sempre e da sempre a loro volta attività umane e come tali determinano il nostro giudizio assiologico e pratico. Quando sopraggiunge un evento che favorisce o contraddice queste tendenze, l’uomo ne prova una soddisfazione o una contrarietà che non sono di ordine puramente sensibile e costituiscono come il primo abbozzo del «senso morale»73. Egli percepisce confusamente un valore che non è ancora considerato tematicamente e lo sarà solo ad opera della ragione: ciò che dapprima era percepito, «sentito» come «da fare» o «da evitare» viene portato, mediante l’intelligenza, ad un livello riflesso, tematico. Gli adattamenti filogenetici, messi in luce da antropologi, biologi ed etologi, corrispondono in definitiva ai «seminalia» (germi) e alle «inchoationes» (attitudini, predisposizioni), di cui parla san Tommaso d’Aquino, nello stato dei quali ci sono date dalla natura le virtù, che spetta poi alla ragione sviluppare74. Per questo non è possibile negare l’esistenza di norme morali universali, perché esse sono fondate sulle relazioni e sulle esigenze essenziali della nostra natura e da esse nessuna situazione potrà mai dispensare, se non a condizione che questa stessa natura cambi.
72 Cfr. Michele Federico Sciacca, Ragione etica e intelligenza morale, L’Epos, Roma 1959, pp. 399-405. 73 Cfr. James Quinn Wilson, Il senso morale, cit., pp. 109-142. 74 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 63, a. 3, in Id., Opera Omnia issu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, Romae 1888, pp. 37-38.
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Capitolo quarto
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Il dovere e il giudizio
1. Il dibattito sul dovere 1.1 Doveri estensibili e doveri contingenti Il valore non dice soltanto l’esistenza di un bene, ossia che è, ma dice anche che deve essere. Il dovere è costitutivamente connesso al valore. Lo si può definire come un rapporto di tensione che è sotteso tra il possibile e il reale, tra «ciò che è» e «ciò che deve essere». Questa tensione, presente anche in natura (per esempio, il chicco è una possibile spiga), non è per se stessa morale. Il dovere presuppone, piuttosto, qualcosa di significativo di per sé, prima ancora del rapporto tra il non-reale e il diventare reale. Questo qualcosa di significativo è la determinazione della volontà o il rapporto ad una persona. Il valore morale presenta un carattere di assolutezza e di obbligatorietà in quanto si rivolge alla coscienza della persona in modo incondizionato: ad ogni valore corrisponde certo un dovere, ma questo è morale, se lo è anche il valore75. A questo punto, però, ci si può chiedere se ogni valore imponga un dovere o ci siano azioni moralmente raccomandabili che non sono vincolanti. 75 Cfr. Ágnes Heller, La bellezza della persona buona, a cura di Brenda Biagiotti, (La Ginestra 5), Diabasis, Reggio Emilia 2009, pp. 45-66.
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Qui bisogna distinguere tra i doveri estensibili a tutti (come i doveri universali espressi in forma negativa: non dire il falso o non rubare) e i doveri contingenti legati alla situazione del singolo. Il bene non esiste in generale, ma sempre situato in un «hic et nunc», e questo vale anche per il dovere. Salvare una vita in pericolo è un imperativo vincolante, ma sempre nella condizione di poterlo fare. Da ciò consegue un primato del valore sul dovere, perché è il dovere che dipende dal valore, e non viceversa. L’etica si basa sempre sul valore, al quale corrisponde un dovere, non sull’imperativo. Il dovere infatti si riferisce al fare, il valore invece all’essere. Un’etica imperativa non è in grado di riconoscere la persona per ciò che è, ma per ciò che fa76. Da ciò il soggettivismo che caratterizza l’etica imperativa: non è il valore a determinare l’obbligatorietà dell’azione, ma è il comando della ragione pratica a definire ciò che è bene e ciò che è male. È questo il risultato dell’obbedienza alla legge per amore della legge propugnata da Kant77.
1.2 Valore, dovere, comando Se è discutibile una morale fondata esclusivamente sul dovere, lo è altrettanto una morale senza dovere. A questo proposito bisogna dire che non esiste il dovere di per sé (come sembrano invece pensare sia i suoi sostenitori sia i suoi negatori), ma si presenta come esigenza di salvaguardare un valore. Il valore non è un semplice essere, ma si esplica in un dover-essere, che a sua volta non è storico, ma ideale. Questo significa ch’ esso c’è anche quando di fatto non viene realizzato: l’obbligo di dire il vero persiste nonostante di fatto non lo si osservi. Il dovere, dunque, corrisponde al valore 76 Cfr. Max Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori, traduzione e introduzione di Giulio Alliney, Fratelli Bocca, Milano 1944, pp. 103-115. 77 Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, n. 86, 5, I, (Biblioteca Universale Laterza), Laterza, Bari- Roma 19894, pp. 42-44.
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per il fatto che quest’ultimo è sempre in coppia con il suo opposto (bontà-cattiveria, innocenza-colpa, giusto-ingiusto eccetera). Il dovere tende, cioè, per natura sua alla difesa di un valore ed esplica, perciò, la sua funzione in forma negativa nell’impedire i disvalori. Ecco perché è dal valore che si trae il dovere, e non il contrario. Il dovere non crea né il bene né il valore; questi ultimi gli sono piuttosto presupposti. Il dovere mi spinge a fare il bene e ad evitare il male: la forma positiva ha, però, un modo di rapportarsi al dovere diverso dalla negativa, per il motivo che la prima non pone il bene, ma lo trova già dato; la seconda, invece, è funzione esclusiva del dovere e ha luogo in seguito ad una mia deliberazione. Questo significa che il bene non consiste nella semplice osservanza in sé dell’imperativo, come il male non consiste nella pura trasgressione del divieto. Non ogni imperativo, infatti, comporta un dovere, potrebbe, anzi, darsi che questo esiga l’infrazione del comando, qualora urti contro la propria coscienza. Perché il comando costituisca un dovere è necessario che si rapporti ad un dover-essere ideale. È la dipendenza del dovere dal valore che chiarisce il rapporto dovere-comando e stabilisce cosa si deve fare e permette di distinguere un comando giusto da uno ingiusto. Ora, il dover-essere, quale punto di riferimento del comando, non sta in piedi da solo, ma poggia su qualcosa da cui proviene e a cui si dirige. L’appello al dovere emerge cioè da un bene affidatoci (per esempio, un bambino, che non è nostro figlio)78.
1.3 Dipendenza, autorità, obbedienza Il dovere non si fonda dunque sulla ragione, come voleva Kant, ma sulla persona79, sull’uomo, considerato nella sua situazione storica 78 Cfr. Mario Signore – Giovanni Scarafile, (a cura di), Libertà: crisi e ripresa della coscienza morale, (Fede e Cultura), Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 85-98. 79 Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, n. 88, 3, I, pp. 46-47.
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e nei suoi rapporti interpersonali. Con ciò, anche la dipendenza sociale, l’autorità, la necessità dell’obbedienza e l’appartenenza alla tradizione giocano il loro ruolo nella comprensione del dovere, anche se non lo esauriscono. Il concetto di autonomia kantiano, basato sul proprio libero volere, isolato dal tessuto comunitario, è una conseguenza rispettosa del principio della ragion pratica, ma non della storia, dove si impongono il riconoscimento della maggior competenza dell’altro in determinati ambiti, l’imitazione di buoni esempi, l’accettazione di forze interdipendenti operanti nella vita del gruppo, l’autorità della tradizione e dell’ethos popolare. Una morale eteronoma, quindi, non è per ciò stesso non autonoma. È perlopiù per evitare fraintendimenti che si tralasciano oggi i termini tradizionali di «autonomia» ed «eteronomia» e si preferisce parlare di sovranità. Con questo termine si vuole dire che il soggetto morale non è né autonomo, in quanto non è lui a creare la norma trovandola già precostituita, né eteronomo, perché è pur sempre lui a decidere sul proprio atteggiamento rispetto alla norma. Egli dispone, piuttosto, di una sua originaria signorilità creatrice. Più che essere causa, il soggetto morale è creatore dei suoi atti, non però nel senso inteso da autori come J.P. Sartre o F. Nietzsche80. La diversità tra il concetto di autonomia in senso kantiano e quello di sovranità consiste fondamentalmente in questo: il primo adotta come suo punto di riferimento la legge, il secondo, invece, punta sulla persona. Se al posto del primato della legge pongo la sovranità della persona, allora i giudizi morali non si legano più ad una concordanza estrinseca tra azione e legge, ma prendendo atto dell’intenzione e dischiudono un risvolto interiore sul quale non è lecito sentenziare. Inoltre, non si limitano a considerare la condotta morale come una semplice applicazione della legge ai singoli casi. La persona entra piuttosto nella sfera morale con la propria inventività, 80 Si veda, per esempio, Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, introduzione alla lettura di Andrea Orsucci, (Seminario Filosofico 13, Carocci, Roma 2001, pp. 71-74.
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attenta alla scoperta dei valori in questione e al modo migliore di dare ad essi compimento. Ma questo significa che la sovranità esprime il rapporto creativo del soggetto morale nei confronti della legge, la quale però non viene mai soppiantata dalla sfera etica (contro ogni pretesa di fondare l’etica solo sull’amore), anzi risulta imprescindibile dalla storia umana, costituita perlopiù da tensioni e conflitti.
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2. L’eterogeneità dell’etica
2.1 Coscienza, norme e situazioni In quanto fondato sul valore, il dovere presenta una sua fondamentale oggettività, che gli permette di superare il limite soggettivistico. Tuttavia, il dovere rimane un oggetto rivolto al centro della persona. Al dovere sono, quindi, necessarie due componenti: la coscienza e il valore. La coscienza è l’io, che cerca di veder chiaro, si sente stretto da conflitti e si agita per la soluzione dei casi nei quali è implicato. Per quanto numerose, le articolazioni della norma risultano insufficienti rispetto al groviglio intricato dell’esistenza81. La coscienza non si limita, quindi, a combinare tra loro norme e situazioni, ma si spinge al di là di quanto i principi letteralmente esprimono: il compito della coscienza non è solo applicativo, ma anche creativo. Se essa è l’io coinvolto nel dramma dell’esistenza, allora ci si chiede se e come si possa parlare dell’obiettività della morale82. Se un principio della ragione pratica è concepito come una regola per organizzare e ordinare, alla luce di qualche valore pratico di tipo generale, desideri particolari o linee di condotta, allora di 81 Cfr. Antonio Da Re, L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, (Etica teologica oggi 8), Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, pp. 37-67. 82 Lo riconosce anche Søren Kierkegaard, Timore e tremore. Aut-aut (Diapsalmata), a cura di Cornelio Fabro, (I Classici del Pensiero), Fabbri Editori, Milano 1996, pp. 109-121.
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fatto ci troviamo soggetti non a uno, ma a tre di questi principi, che in varie situazioni sembrano avanzare nei nostri confronti richieste contrastanti. Di conseguenza, possiamo essere presi in mezzo a conflitti tra richieste pratiche ugualmente obiettive, possiamo cioè trovarci a dover compiere scelte tragiche. Questi tre principi sono quelli della parzialità, del consequenzialismo e della deontologia.
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2.2 Principio della parzialità: priorità del bene rispetto al giusto Se si rinuncia all’ideale dell’autonomia della morale, proposto da Kant, non sembrano esserci ragioni per cui, in un ambito esterno alla sfera politica, in cui vige l’ideale della neutralità, i doveri universalistici debbano sempre contare di più di quelli particolaristici. Il principio della parzialità è alla base di quelli che si possono caratterizzare come doveri «particolaristici». Questo principio contempla quegli obblighi che abbiamo soltanto in virtù di qualche nostro desiderio empiricamente condizionato (per esempio, i doveri dell’amicizia e le esigenze di proteggerla e di alimentarla). In generale, gli obblighi che tale principio comporta non sono «imparziali», cioè non sono categorici: essi non sono validi indipendentemente dai propri desideri empiricamente condizionati, ma solo tali solo in virtù di essi. Il principio della parzialità esprime in definitiva una priorità del bene rispetto al giusto, a differenza dei principi della consequenzialità e della deontologia, che sono universalistici e comportano obblighi categorici. Ma non è necessario che l’universalità (deontologica, ma anche consequenzialista) conti sempre più dei doveri particolaristici, a meno che trasgredire il nostro dovere deontologico per rispettare qualche impegno particolaristico comporti ferire fisicamente o addirittura uccidere un’altra persona (che è innocente). Un impegno particolaristico può semmai avere la 88
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precedenza sulle più rigorose proibizioni deontologiche solo nel caso in cui non tener conto del principio di parzialità condurrebbe a violare una tale proibizione deontologica. Del resto, sono proprio i conflitti tra consequenzialismo83 e parzialità e tra deontologia e parzialità che permettono di delucidare il principio di parzialità. In linea di massima, possiamo dire, a questo proposito, che se non è necessario considerare superiori le considerazioni consequenzialistiche, quando queste sono in conflitto con i nostri progetti particolaristici, la stessa cosa non può dirsi per le pretese deontologiche, perché queste ultime sono sempre urgenti e non possiamo accantonarle per la semplice ragione che i nostri progetti ci conducono altrove, a differenza delle pretese consequenzialistiche: quando il bene in questione non ha il carattere di urgenza, si può senz’altro subordinare ai nostri progetti particolaristici la produzione del massimo bene complessivo. È più difficile giustificare la possibilità di anteporre i nostri progetti a ciò che siamo tenuti a fare per motivi deontologici che non giustificare la possibilità di anteporre tali progetti al consequenzialismo, benché non tutte le pretese deontologiche siano ugualmente determinanti.
2.3 Etica della convinzione ed etica della responsabilità Dobbiamo a Max Weber la distinzione tra l’etica della convinzione (Gesinnungsethik) e l’etica della responsabilità (Verant wortungsethik)84. L’etica della convinzione sostiene che il nostro dovere è quello di compiere certe cose senza tener conto del fatto che 83 Il termine «consequenzialismo» è stato usato per la prima volta da Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe nel suo saggio Modern Moral Philosophy (1958): Gertrude Elizabeth Margareth Anscombe Modern, Modern Moral Philosophy, in Id., Ethics, religion and politics, III, B. Blackwell, Oxford 1981, pp. 26-42. 84 Cfr. Max Weber, Etica della responsabilità, a cura di Paolo Volonté, (Leggere i Classici della Filosofia 3), La Nuova Italia, Scandicci (FI) 2001, pp. 22-35; Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1977, pp. 45-121.
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altri possano utilizzare le nostre azioni per fini malvagi. Al contrario, l’etica della responsabilità afferma che è irresponsabile stabilire che cosa si dovrebbe fare senza tener conto di ciò che gli altri probabilmente faranno di conseguenza. L’etica della convinzione è un’etica in cui le esigenze deontologiche regnano sovrane. L’etica della responsabilità è piuttosto equivalente al consequenzialismo, il quale richiede che nel determinare ciò che ho il dovere di fare dovrei prendere in considerazione quello che altri probabilmente faranno in conseguenza delle mie azioni, e non denota perciò la dottrina tradizionale secondo la quale il valore di un’azione dipende dal valore delle sue conseguenze, benché non sia del tutto slegata ad essa. Come si vede, si tratta di due prospettive morali molto diverse e in conflitto tra loro. Entrambe hanno buone ragioni per rivendicare una loro legittimità. Per afferrare meglio il senso di questi conflitti di doveri occorre, innanzitutto, distinguere le scelte delle quali soltanto l’agente sarebbe responsabile dalle conseguenze prevedibili di queste scelte delle quali, tuttavia, altri sarebbero responsabili. Questo non significa, però, che, per quanto riguarda il consequenzialismo, a differenza che per la deontologia, la valutazione morale delle azioni dipenda anche da quella delle loro conseguenze. Non esiste, infatti, un criterio assoluto per stabilire dove finisce un’azione e dove comincino le sue conseguenze (tutto dipende da come abbiamo scelto di descrivere l’azione). Non bisogna pensare che la deontologia concepisca il bene solo come una funzione del giusto, a differenza del consequenzialismo (detto anche teleologia), che concepirebbe al contrario il giusto come una funzione del bene, perché il dovere consequenzialistico, che consiste nel determinare nel complesso il massimo bene, si prefigge un obiettivo che è condizionato dal principio secondo il quale tra il nostro bene e quello degli altri non si dovrebbero fare preferenze. In questo modo, anche per il consequenzialismo il bene dipende dal giusto e i doveri consequenzialistici sono categorici quanto quelli deontologici. La questione su cui deontologia 90
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e consequenzialismo divergono è, in definitiva, fino a che punto l’agente dovrebbe essere responsabile. Per un’etica della responsabilità è necessario ritenersi responsabili non soltanto delle proprie azioni, ma anche (nella misura in cui questo dipende da noi) di come va il mondo. Questo non significa che i doveri deontologici debbano essere interpretati come doveri verso se stessi, volti a preservare la propria integrità morale. Essi vanno, piuttosto, intesi come doveri verso gli altri, come obblighi in forza dei quali siamo tenuti a non trattare mai gli altri in determinati modi85. Né un’etica della convinzione né un’etica della responsabilità, quando l’una fornisca direttive contrarie a quelle dell’altra, si possono perciò liquidare semplicemente come un’aberrazione della coscienza morale86. L’origine di questi conflitti risiede piuttosto nell’eterogeneità della moralità.
2.4 La considerazione consequenzialistica È chiaro che in un ambito così complesso come quello morale non vi è spesso alcuna solida base per giudicare che cosa sia primariamente urgente o significativamente grave e certo, e perciò giova poco insistere sull’idea che, in queste circostanze, gli esseri ragionevoli devono essere disposti ad anteporre le ragioni consequenzialistiche a quelle particolaristiche o a quelle deontologiche del genere più rigoroso. Quando delle considerazioni consequenzialistiche si trovano in conflitto con quelle deontologiche del genere più rigoroso, bisogna sospendere il giudizio su quale delle due alternative costituisca per noi un obbligo (anche se dobbiamo comunque scegliere secondo quale delle due alternative agire). Quando abbiamo ragione 85 Cfr. Roberto Mordacci, L’autonomia del volere e l’etica dei doveri, in Gabriele De Anna – Piergiorgio Donatelli – Roberto Mordacci, (a cura di), Filosofia morale, fondamenti, metodi, sfide pratiche, (Le Monnier Università), Le Monnier, Firenze 2019, pp. 54-67. 86 Cfr. Charles Edwin Larmore, Le strutture della complessità morale, (Campi del sapere), Feltrinelli, Milano 1990, pp. 96-108.
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di credere che probabilmente riceveremo ulteriori informazioni che modificheranno la nostra visione della situazione, l’atteggiamento più giusto da assumere sarà la sospensione del giudizio87. Non tutti i conflitti di questo tipo, tuttavia, sono imputabili al fatto di non conoscere bene la situazione. A volte siamo sicuri che non verremo a conoscenza di alcun fatto nuovo e decisivo. Sappiamo che il conflitto non ammette soluzioni. In questo caso, non sappiamo troppo poco, sappiamo troppo: sappiamo di avere l’obbligo di compiere sia la migliore azione dal punto di vista consequenzialista sia la migliore azione dal punto di vista deontologico, e sappiamo di non poterle fare entrambe. Il problema non è allora che ciascuna delle azioni è ammissibile, ma piuttosto che entrambe sono obbligatorie. Quale che sia la loro origine, per noi, il significato dei nostri più profondi impegni morali – secondo i quali è nostro dovere attenersi alle più rigorose richieste deontologiche e determinare nel complesso il massimo bene urgente – è che noi veniamo al mondo con essi e non che li inferiamo dal mondo. Il loro ruolo non è quello che si potrebbe definire la «conoscenza di sfondo» (scientifica), qualcosa cioè che abbiamo appreso una volta e che ora orienta le nostre ricerche, ma che in linea di principio può essere sempre rinnegato o sottoposto a revisione. Al contrario, questi impegni sono ciò che fa di noi degli agenti morali. Essi stabiliscono, perciò, i limiti dell’intelligenza morale, in quanto non ammettono di fatto alcuna giustificazione, perché tutte le giustificazioni rimangono contestuali. Così, quando ci accorgiamo che il fatto di tener conto di entrambi i tipi essenziali di impegno morale è in contrasto con come va il mondo, non possiamo immaginare di rivedere la loro autorità, ma dobbiamo convivere con il fatto di avere degli obblighi che non possiamo osservare. Le nostre possibilità di agire nel mondo sono troppo limitate rispetto a quello che sappiamo sarebbe nostro dovere fare. 87 Cfr. Luigi Samarati, Giudizio morale e natura umana, Edizioni Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 1957, pp. 50-57.
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3. Il ruolo del giudizio nel conflitto morale
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3.1 Dovere e circostanze Nell’esperienza morale, spesso contrassegnata dalla conflittualità di doveri, diventa di fondamentale importanza il ruolo che svolge il giudizio morale, spesso ignorato dalle teorie morali moderne, ossia ciò che Aristotele chiamò «phronesis»88. Vi sono alcuni impegni morali, come mantenere le promesse e restituire i debiti, le cui regole, in certe circostanze, consentono poco margine al giudizio morale dell’individuo. Al contrario, doveri morali come essere coraggioso, generoso o benevolente sono tali che le loro regole appaiono troppo schematiche per stabilire da sole quando quei doveri spettino a noi e quale sia il modo giusto di assolverli. Per questo genere di doveri il giudizio morale è indispensabile89. Possiamo distinguere due dimensioni di questo secondo genere di doveri che richiede l’esercizio del giudizio morale. In primo luogo, dobbiamo determinare se le circostanze siano tali che le nostre azioni sono tenute a conformarsi a un simile dovere. In secondo luogo, se riteniamo che la situazione imponga l’osservanza di un certo dovere, dobbiamo capire quale delle possibili linee di condotta meglio adempia ad esso. Entrambe le decisioni richiedono il giudizio morale, cioè una capacità di discernere le esigenze della situazione e le possibilità di azione dal punto di vista morale, capacità che va ben oltre ciò che le regole possono rivelarci. Nessuna regola generale potrà venire incontro alla nostra esigenza di confrontare l’importanza (per noi) degli impegni assunti con ciò che la situazione sembra richiedere. Qui il giudizio morale deve 88 Aristotele, Etica nicomachea, VI, 13, 1144 a, 6-9; 1145a, 4-6, I, traduzione, introduzione e note di Carlo Natali, (I grandi classici della filosofia 35-36), Hachette, Milano 2017, pp. 166-169. 89 Cfr. Paolo Soro, La legge morale: il dovere per il dovere, (Atena), Edizioni Sole, Cagliari 2013, pp. 37-65.
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guidarci tra due pericoli diametralmente opposti: il difetto e l’eccesso. Il giudizio naturalmente non è circoscritto al dominio della moralità, ma è una facoltà generale che concerne l’appropriata applicazione di regole generali a situazioni particolari. Il giudizio morale mira ad applicare in modo appropriato regole morali a circostanze particolari, limitatamente ai casi in cui tale applicazione comporta una scelta tra alternative diverse dal punto di vista morale.
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3.2 Etica della virtù e del dovere La filosofia morale moderna nelle sue due forme principali, kantismo (criticismo) e utilitarismo, con il suo desiderio di procedure decisionali esplicite e univoche, ha sostenuto che i conflitti morali sono soltanto apparenti e che deve esistere un principio di ordine superiore unico e in grado di comprendere le nostre intuizioni fondamentali. Bisogna, invece, rinunciare a tale «assunzione monastica» e rendersi conto che non ogni cosa è buona o giusta nella misura in cui è commensurabile ad un unico metro. L’esercizio del giudizio è necessario per comprendere ciò che, in situazioni particolari, siamo tenuti a fare dal punto di vista morale. In molti casi, soltanto il giudizio morale potrà guidarci attraverso la «frammentazione del valore» o l’eterogeneità della moralità. E in molti casi questa facoltà non sarà in grado di risolvere il conflitto. Se poi distinguiamo, come abbiamo fatto, tra due tipi di dovere morale, un tipo le cui regole sono abbastanza concrete da determinare da sole quando quel dovere incombe sulle nostre azioni, e l’altro le cui regole, essendo schematiche, richiedono che si eserciti la facoltà di giudizio, bisogna dire che la capacità di riconoscere e adempiere ai doveri del secondo tipo (essere coraggioso, generoso, eccetera) è più facilmente dei doveri del primo tipo associata all’idea di virtù. Si può così stabilire una stretta connessione tra virtù e doveri che richiedono l’uso del giudizio. 94
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Non vi è, infatti, alcuna ragione per opporre l’etica della virtù (un’azione è virtuosa quando è compiuta senza sentirsi obbligati) all’etica del dovere. Entrambi i motivi – il dovere e, per esempio, la compassione – sono ingredienti necessari per un’azione virtuosa: un’azione è virtuosa quando è compiuta di buon grado e perché è giusta90. Per avere un’idea attendibile della virtù morale di una persona, di solito se ne considera la capacità di immaginazione in campo morale al fine di verificare quanto realmente le importi fare ciò che è giusto. Il motivo è che tale immaginazione consiste nell’abilità di elaborare e valutare diverse linee di condotta, stabilite solo schematicamente dal contenuto determinato delle regole morali, allo scopo di apprendere che cosa sia meglio fare, dal punto di vista morale, nella situazione data. L’immaginazione è, dunque, assai più dell’osservanza di regole morali del tutto precisate; rivela un interesse attivo e serio nella vita morale. L’immaginazione in campo morale, tuttavia, comporta chiaramente l’esercizio del giudizio morale. Di conseguenza, il fatto che alcuni doveri, per essere riconosciuti ed eseguiti, richiedano immaginazione e giudizio morale, spiega perché siano proprio questi i doveri che solitamente associamo all’idea di virtù. E questo spiega anche perché Kant abbia offerto una visione inaridita della virtù. Egli riteneva che essere virtuosi significasse soltanto aderire coscienziosamente alle regole e ai principi, senza perciò accorgersi che non tutti i doveri mettono in luce allo stesso modo la virtù di una persona. L’immagine dell’uomo virtuoso che ha Kant sembra richiamarsi al modello dell’uomo onesto che mantiene le promesse. Ma è un’immagine che non riesce a cogliere il senso in cui l’esercizio di virtù, attraverso l’immaginazione e il giudizio, partecipa alla scoperta morale91. 90 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, VI, 13, 1109 b, 3; 1145a, 4-6, cit., pp. 155-157, e la dettagliata analisi di Erminio Gius, Compassione. Bibbia e psicoanalisi per lo studio della società, (Conifere 18), Edizioni Dehoniane, Bologna 2019, pp. 99-100. 91 Cfr. Immanuel Kant – Benjamin Constant, La verità e la menzogna: dialogo sulla fondazione morale della politica, introduzione e cura di Andrea Tagliapietra, traduzioni di Silvia
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3.3 Natura del giudizio morale Che il giudizio sia tutt’altro che un fenomeno secondario nell’esperienza morale lo dimostra il fatto che il disaccordo morale sorge soprattutto in aree dove occorre esercitare il giudizio. Di solito, non è sulla validità delle regole morali generali che verte il nostro disaccordo, ma piuttosto sulla correttezza o meno dell’applicazione delle regole, su come queste vadano osservate e su cosa fare quando entrano in conflitto tra di loro. Il giudizio offre il modo di comporre questi dissensi attraverso l’argomentazione e ricorrendo ai motivi che li hanno determinati. Il giudizio morale indica la possibilità che, nella nostra esperienza morale, esistano altri modi di prendere decisioni, oltre a quelli di basarsi su «ragioni tecniche», cioè applicare regole completamente determinate o decidere in maniera del tutto arbitraria. Ma come funziona effettivamente il giudizio morale? Esso può appellarsi a dei motivi, ma non lo fa in virtù di qualche regola generale che li definisce tali. La natura del giudizio morale è un fenomeno difficile da definire e vien da chiedersi se esso non propenda per sua natura a sottrarsi all’analisi teorica. Si può associare l’idea del giudizio morale alla discussione aristotelica della «phronesis». Secondo Aristotele, il giudizio non è un’attività governata da regole generali; al contrario, deve sempre adattarsi alle peculiarità della situazione data. L’impartizione di qualche sorta di dottrina formale non può perciò servire a far acquisire giudizio. Esso si può apprendere solo attraverso la pratica e l’educazione a compiere le azioni giuste. Poiché l’educazione e l’esperienza svolgono un ruolo essenziale nell’acquisizione del giudizio, lo sviluppo del carattere morale dipende dalla vita morale della comunità: la virtù dipende dall’appartenenza ad una comunità. Manzoni ed Elisa Tetamo, (Testi e pretesti), Mondadori, Milano 1996, pp. 56-77; cfr. anche l’interessante studio di Nicola Rotundo, L’abito della libertà: le virtù teologali, Cantaglli, Siena 2019, pp. 121-134.
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La trattazione aristotelica del giudizio si sofferma però significativamente, assai poco sugli aspetti che riguardano precisamente l’esercizio di tale facoltà. Anche la dottrina della virtù come medietà tra vizi opposti non dice in definitiva più di tanto. Aristotele propone certo delle regole empiriche, ma solamente il giudizio può dare forma alla loro vaghezza e tramutarle in prescrizioni significative. Tutto quello che Aristotele dice (e ha da dire in proposito) è che «il giudizio (morale) sottostà alla sensazione», dove per «sensazione» egli intende una comprensione della particolarità della situazione92. In effetti, né Aristotele né altri possono dirci in che cosa consista esattamente l’esercizio del giudizio morale. Questa difficoltà è una delle ragioni per cui la nozione aristotelica del giudizio fu in gran parte dimenticata dai moralisti moderni, benché non manchino delle eccezioni e, di recente, abbia ricevuto un’accoglienza migliore che in passato: Hans Georg Gadamer, per esempio, si richiama esplicitamente alla trattazione aristotelica della «phronesis» come a un paradigma sia dell’interpretazione dei testi sia del ragionamento morale93.
3.4 Esperienza e ideali teorici L’«incapacità» di Aristotele e di coloro che si richiamano a lui di fornire una spiegazione generale di che cosa voglia dire esercitare il giudizio morale, cioè di dire in che cosa consista l’intui zione creativa che non è meno essenziale nell’esercitazione del giudizio di quanto lo siano l’educazione e la tradizione, è un fatto istruttivo. Tutto ciò che possiamo dire è che l’attività del giudizio morale va oltre (anche se dipenda da) ciò che è dato nel contenuto delle regole morali, i sentimenti caratteristici, la tradizione e Cfr. Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, VI, 13, 1109 b, 3; 1145a, 4-6, cit., pp. 155-157. Cfr. Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. di Gianni Vattimo, (Studi Bompiani), Bompiani, Milano 19885, pp. 344-357. 92 93
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l’educazione. Possiamo, cioè, dire ciò che il giudizio morale non è, piuttosto che ciò che è. L’«incapacità» di pervenire ad una teoria generale del giudizio dipende anche dall’idea («tecnica»), tipicamente moderna, di comprensione teorica. Noi, cioè, crediamo che comprendere un fenomeno empirico significhi discernere le leggi alle quali è soggetto. Di conseguenza, riteniamo di disporre di un’adeguata teoria di una qualche pratica umana intenzionale se possiamo ricostruire le regole, sia esplicite sia implicite, che la caratterizzano. Ma l’aspetto distintivo del giudizio morale è il modo in cui esso (inteso come una pratica intenzionale) trascende le regole, esplicite o implicite, dalle quali dipende. Data la nostra nozione di comprensione teorica, siamo tentati di chiamare arbitrarie quelle forme intenzionali di attività che non si riducono interamente a regole ricostruibili. Ma se è vero che il giudizio morale non è completamente determinato da regole, è anche vero che non è arbitrario. Noi non esercitiamo il giudizio ciecamente, ma reagendo, in base a delle ragioni, alla particolarità di una situazione data. Ora, quel che si vorrebbe capire è che cosa significa che la nostra percezione di queste ragioni come tali e la reazione che esse inducono vanno, in realtà, oltre l’interpretazione che le regole generali date in anticipo possono fornire da sole della situazione. Se, dunque, il giudizio morale rimane fuori dei limiti della comprensione teorica, esso può essere circoscritto solo dall’esterno. Questo, positivamente, significa che, nel pensiero morale, l’esperienza dovrebbe contare di più degli ideali teorici. Anche se il giudizio morale non si presenta come un fenomeno costituito da regole ricostruibili, non per questo dovremmo esitare ad affermare che sappiamo che esso esiste e sappiamo come riconoscerlo quando si verifica. Non solo esistono dei limiti alla comprensione teorica, ma vi sono altri tipi di comprensione che sono più adatti ad afferrare la natura del giudizio morale. La tesi secondo la quale il giudizio morale si sottrae per sua natura a una interpretazione 98
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teorica non implica senz’altro che il ragionamento morale sia essenzialmente diverso da quello scientifico. L’immagine «tecnica» delle scienze naturali, cioè l’idea che l’esperienza sia completamente determinata da regole mediante l’uso di un metodo, idea influente fin dal XVII secolo, è oggi superata, in quanto non del tutto corretta.
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Capitolo quinto
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L’etica nella sfera della scienza e della politica
Si è più volte accennato, nelle pagine precedenti, alla scienza e alla politica. È ancora possibile, come in passato, pensare come separati e disgiunti questi tre termini etica, scienza e politica? Quando la semplice gestione del reale sembra essere l’ideale, quando la condotta pubblica si definisce il più delle volte come pura organizzazione, priva di analisi assiologia, allora l’idea di una competenza tecnica allontana ogni riflessione etica. Ma l’esistenza di una fondazione etica e la ridefinizione di un ideale sembrano rendersi oggi più che mai necessarie, nel campo della scienza, con tutte le sue possibili applicazioni, come in quello della politica. I problemi posti dalla bioetica, le sue competenze, i suoi rischi o pericoli, gli squilibri strutturali della natura, nonché il discredito che colpisce la politica ridotta ad una pura strategia di potere, sollevano interrogativi circa i fini e i mezzi dell’azione e inducono a ripensare profondamente i nostri rapporti con la natura, spesso trattata sconsideratamente come semplice mezzo, e ci pongono di fronte alle nostre responsabilità anche verso l’umanità futura.
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1. Scienza ed etica
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1.1 Scienza e attività umana Il pensiero occidentale è determinato fin dall’inizio da una tendenza all’oggettività e accertabilità, cioè da un’inclinazione all’«ontologismo». Questo presupposto, il fatto che la scienza metta in evidenza l’essenza vera di ciò che è, è così indipendente dalla soggettività che ricerca, e questo vale per tutti nella medesima forma cogente. Il modello della scienza è per questo la scienza della natura. Questo vale dai Greci fino al XIX secolo: che la natura venga compresa come accadere organico, che si dà all’esperienza, oppure come regno di leggi invisibili che va indagato solo dalla scienza, resta il fatto che la conoscenza deve regolarsi solo su di essa. Conoscere la natura significa riconoscere solo ciò che è immutabile. Questo tipo di scienza non ha alcun rapporto con l’etica. L’indagine sulla natura si basa sull’alternativa di vero e falso, ma questa non è un’alternativa etica. Anche l’applicazione delle conoscenze scientifiche non rappresenta un problema morale fino al XIX secolo, vale a dire fino a quando gli scienziati hanno rinunciato all’idea di una realtà evidente, che essi dovrebbero comprendere, a favore di un concetto di realtà formata dalla determinazione reciproca di soggetto e oggetto94. Con questa nuova idea di realtà, il problema dell’applicazione della conoscenza è venuto alla luce come problema etico, perché l’applicazione della conoscenza non può più aver luogo sullo sfondo di un ordine naturale valido in sé, essa non è cioè più prestabilita dalla natura stessa. Questa trasformazione del concetto di realtà, che conduce all’idea che la realtà in generale, e quindi anche la realtà naturale, sia manipolabile, porta in sé un mutamento 94 Cfr. Salvatore Veca, L’etica, la scienza e la tecnica, in Id., Etica e verità: saggi brevi, prefazione di Giovanni Russo, Casagrande, Milano-Lugano 2009, pp. 29-40; Id., La società giusta e altri saggi, (La Cultura 72), Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 16-35.
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decisivo nel rapporto tra scienza ed etica. Nel nostro tempo si riscontra in modo piuttosto evidente un collegamento tipico tra etica e problematica scientifica. Ma si tratta di un rapporto alquanto complesso e problematico. Ciò che in ogni caso si presenta necessario, in una simile discussione, è una riflessione capace di integrare le scienze nel quadro delle azioni umane sia a livello individuale sia a livello sociale. Le scienze non sono soltanto un prodotto astratto, ma il frutto di un’attività umana e come tale sono condizionate da fattori psicologici, politici, economici e sociali, che determinano gli scopi e i procedimenti degli scienziati come individui o gruppi95. L’ideale di una scienza priva di valutazioni è ormai tramontato e si è dimostrato illusorio. Per il futuro occorrerà mettere in discussione anche la finalizzazione delle scienze, quali ricerche debbano avere una preferenza di fronte alla situazione attuale dell’umanità e del costo della ricerca e anche un’autorestrizione della ricerca rispetto alla liceità delle capacità nella sperimentazione attuale. Ma neppure il progresso desiderato sarà garantito semplicemente. Bisognerà studiare, mediante la storia delle scienze (e non soltanto delle scienze naturali), i fattori che hanno portato alla nascita e alla prevalenza di nuovi paradigmi e che potrebbero eventualmente favorire un progresso anche nel futuro, mantenendo ferma, nonostante tutto, la credenza in un progresso, in un avvicinamento alla verità o piuttosto alla risoluzione dei problemi, come stimolo al lavoro scientifico. Bisognerà ad un tempo riflettere sulla natura di un tale progresso; il progresso nelle scienze naturali avrà probabilmente un altro significato rispetto ai problemi dell’autocomprensione dell’uomo. Gli ultimi sviluppi della teoria delle scienze hanno portato alla luce una serie di problemi eterogenei che hanno bisogno di un’ulteriore riflessione. 95 Cfr. Francesco Adorno, Scienza, etica, comunicazione, a cura di David Cerniglia, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 57-88.
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1.2 Moralmente impegnativo e scientificamente verificabile L’urto tra scienza ed etica, tra ricerca di nuove conoscenze e condotta di vita, e il corrispondente interesse dell’etica nei confronti della gestione e delle conseguenze dell’indagine scientifica, hanno spinto scienziati e moralisti a riconsiderare i confini che tradizionalmente separavano le loro rispettive discipline. Questa volontà di costruire un ponte sull’apparente abisso tra il mondo amorale della scienza «obiettiva» e l’universo morale e incline al giudizio dell’etica, scaturisce dalla comune ammissione della minaccia che incombe sull’essere umano96. La posizione dell’uomo agli inizi del XXI secolo non permette più una separazione netta tra il «dover essere dell’etica e l’essere della scienza», tra il moralmente impegnativo «dover essere» e lo scientificamente verificabile «essere». Il complesso rapporto tra scienza ed etica lo si può sintetizzare nei punti che seguono: 1) la scienza contemporanea non è un’attività strettamente avalutativa, ma presuppone giudizi di valore di vario tipo; 2) l’attività scientifica sta influenzando le concezioni etiche contemporanee, poiché solleva interrogativi circa l’adeguatezza delle teorie etiche tradizionali; 3) la nozione di responsabilità è di primaria importanza nel riformulare i rapporti tra scienza ed etica; 4) è nella tecnologia biomedica e nella medicina che noi avvertiamo in modo più acuto le interdipendenze tra scienza ed etica e il comune impatto di queste sull’umanità97. Per quanto riguarda in particolare il terzo punto, vi è oggi da parte degli scienziati e dei moralisti una forte consapevolezza che la natura stessa dell’agire umano è mutata e per questo si presenta necessaria la costruzione di un’etica della responsabilità, a cui tutti devono collaborare (anche se, va detto, c’è chi non crede a una 96 Cfr. Laura Dalfollo, Il ragionamento morale, in «Rivista di Teologia Morale», 45 (2010), pp. 585-589. 97 Cfr. Giovanni Boniolo – Paolo Maugeri, (a cura di), Etica alle frontiere della biomedicina: per una cittadinanza consapevole, (Mondadori Università, Mondadori), Milano 2014, pp. 75-94.
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nuova etica e ritiene piuttosto che siamo condannati a cercare una morale provvisoria) e che dovrà distinguersi dai tradizionali sistemi etici in diversi modi. Innanzitutto, la nuova etica riconoscerà che l’azione rivolta ad enti non-umani costituisce una sfera di autentico significato etico, tenendo in considerazione l’importanza etica della natura nella sua totalità ed evitando così l’antropocentrismo. La nuova etica dovrà inoltre concentrarsi sull’attuale responsabilità nei confronti di un futuro anche molto lontano, persino della sopravvivenza del genere umano. Infine, riconoscerà che la scienza è in grado di modificare la sostanza materiale dell’uomo e che l’entità «uomo» e la sua condizione di base possono divenire oggetto di un rimodellamento ad opera della téchne98.
1.3 Un approccio interdisciplinare A questo punto, ci si potrebbe chiedere se sia possibile formulare alcuni criteri utili per una ipotetica o reale discussione sul tema dei rapporti tra etica e scienza. In linea di massima questo è possibile, ferma restando la difficoltà della loro applicazione nelle situazioni concrete. Si tratta perlopiù di criteri-guida, in grado di favorire il dialogo tra due discipline comunque accomunate dall’urgenza di affrontare problemi comuni ad entrambe. Un criterio base lo si può riconoscere nel fatto che gli scienziati non dovrebbero ridurre l’etica a un moralismo semplicistico, come avveniva spesso in passato, e a loro volta i moralisti non dovrebbero pensare che sia loro compito imporre alla scienza delle prospettive morali. Deve, piuttosto, prevalere l’interdisciplinarietà rispettosa, informata e informante. Un altro criterio utile potrebbe essere quello di resistere alla tentazione di armonizzare scienza ed etica mediante una teoria 98
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Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2018 , pp. 286-297.
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che si ponga al di sopra delle due e alla quale delegare il compito di risolvere tutti i problemi. Bisogna, poi, avere il senso del limite e il senso della relatività, cioè accettare il fatto che spesso siamo condannati a compromessi arbitrari e provvisori, e riconoscere i livelli adeguati di interdipendenza sia per i moralisti che per gli scienziati nelle rispettive aree di competenza. L’etica non deve mai porre delle esigenze «troppo alte», che non si possono in nessun modo soddisfare. Si deve cioè conoscere l’uomo, per quanto questo è possibile, per sapere che cosa gli si può chiedere.
2. L’orizzonte dell’etica e l’orizzonte della politica 2.1 Ordine sociale e Stato Nella tradizione greca classica il concetto centrale è quello di polis. Per i Greci, l’etica è parte della politica. L’ordinamento politico si fonda sulla definizione della giustizia che il filosofo ha il compito di dettare. Il fondamento materiale del pensiero politico e della realtà politica della Grecia è un’economia basata sulla schiavitù. Questa visione dello Stato verrà superata soltanto dal cristianesimo, con il presupposto che di fronte a Dio tutti gli uomini sono uguali. Sant’Agostino distingue tra «civitas Dei e civitas», eliminando la sopravvalutazione presso i Romani dello Stato, cioè della «res pubblica» rispetto alla «res privata», la famiglia, a vantaggio della «civitas Dei», che non si identifica con la Chiesa, ma con la comunità dei fedeli, cioè gli eletti e i prescelti nel mondo. Ma anche la comunità dei credenti può esistere soltanto come entità organizzata nel mondo. E lo Stato costituisce l’unica garanzia di ordine sociale che è la premessa di ogni convivenza. La dottrina agostiniana dei due regni non caratterizza soltanto il pensiero medievale, ma anche la concezione luterana dello Stato. Lutero riconosce la necessità dello Stato come ordinamento 106
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in un mondo caduto, affermando che l’autorità dello Stato viene da Dio. Questa idea dello Stato come il garante dell’ordine che deve regnare tra gli uomini non è che una ripresa dell’antica idea che lo Stato è il bene supremo e ad esso si attribuisce un valore determinante e costituisce la premessa per il concetto moderno di nazionalità. Accanto a questa continuità bisogna porre una fondamentale differenza, ossia la scissione tra lo Stato e l’ambito della cultura: scienza, arte e religione sono autonomi rispetto allo Stato, in quanto posseggono leggi proprie che ne determinano lo sviluppo. Così anche l’etica non viene più pensata nella sfera politica, ma diventa qualcosa di privato e concerne il valore interiore dell’intenzione99. Ai principi etici devono essere contrapposti principi che tengano conto unicamente degli elementi concreti, esteriori, della legalità in senso giuridico. Il pensiero filosofico-politico moderno non è, tuttavia, univoco, bensì è caratterizzato da due concezioni estreme: le teorie degli utopisti e il machiavellismo. Le teorie degli utopisti, come la filosofia politica dell’antichità e quella cristiana, ritengono sia compito di coloro che riflettono sulla politica concepire lo Stato come un complesso ordinato. Lo Stato – sia esso quello ideale o il male minore – ha comunque il compito di garantire la convivenza umana. Si tratta della possibilità di una pacifica convivenza sotto l’idea del diritto, attuata mediante la ragione che, nel complesso dell’essere, rappresenta la forza dominante100. Machiavelli parte, invece, da presupposti completamente diversi. Egli prende in esame le forme in cui si compie l’azione politica in quanto tale, accantonando il problema delle migliori forme di governo. Occorre agire in vista del successo tanto nelle dittature quanto nelle democrazie. L’etica come tale non viene 99 Cfr. Giancarlo Rovati, Etica pubblica, etica privata, presentazione di Adriano Bausola, (Frecce), Mondadori, Milano 1995, pp. 153-202. 100 Cfr. Tommaso Moro, Utopia. Ovvero la Repubblica introvabile, Testo latino. Versione italiana, introduzione e note di Luigi Firpo, (Nuova Biblioteca di Cultura 9), Neri Pozza Editore, Vicenza 1978, pp. 49-56.
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negata, ma non ha nulla a che vedere con la politica101. Machiavelli si prefigge di staccare la politica dalla morale, non però allo scopo di identificare la politica con una forma di legalità esteriore, ma considerando la politica di per sé come un agire dal punto di vista del potere. La dottrina di Machiavelli ha avuto un notevole influsso nel pensiero politico seguente, soprattutto in Germania: ora la politica dipende dalla ragion di Stato, non dalla morale (cfr. W. Dilthey, F. Meinecke, G. Ritter). I diversi presupposti – utopia e machiavellismo – della moderna teoria dello Stato costituiscono il fondamento filosofico-politico delle costruzioni di Kant e di Hegel. Il principio dello Stato nazionale, elaborato dalla rivoluzione francese, dagli scritti di Herder e dagli idealisti tedeschi (cfr. Fichte), si afferma come fattore determinante della coscienza politica del XIX secolo e continua ad essere tale ancora oggi.
2.2 Mediazione tra etica e politica L’insufficienza di tale principio è però oggi più che mai evidente. La moderna scienza della politica col suo orientamento socio-tecnologico mette di fatto in crisi il principio della violenza come del vero e proprio principio della politica: con la caduta delle barriere naturali e spirituali tra i popoli, dovuto allo sviluppo scientifico e tecnologico, è diventato chiaro come gli avvenimenti politici non si limitino più ai singoli Stati. I principi relativi al rapporto tra etica e politica, così com’è stato indagato dalla tradizione, non sono più universalmente validi per noi. Oggi non esistono più ordinamenti etici nel senso di Aristotele o di Hegel, cioè istituzioni che investano l’uomo nella totalità del suo essere (lo Stato). Ma anche l’opposizione tra politica e morale è supe101 Cfr. Niccolò Machiavelli, Il principe: politica e questione morale, introduzione e cura di Marcella Vasconi, (Acquarelli 10), Demetra, Bussolengo (VR) 19952, pp. 39-54.
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rata, perché presuppone che la morale sia considerata come una disposizione interiore completamente libera da condizionamenti. Oggi non si può più accettare senza riserve una morale pura e incondizionata. Nel passato, le grandi istituzioni, in particolare lo Stato, venivano considerate come la sede dell’eticità: i cittadini dello Stato sono uniti in una nazione dalla comune appartenenza ad un ceppo etnico che ha una sua propria storia. Il legame tra etica e politica si limita così al rapporto dello Stato con se stesso, cioè all’ambito della politica interna. I rapporti con gli altri Stati sono improntati alla lotta per il potere, benché anche nella tradizione non manchino tentativi di impedire che il rapporto tra gruppi estranei venga determinato in tutto e per tutto dalla pura violenza, come dichiara il Diritto dei popoli, un diritto fondato appunto sulla ragione e non sulla forza102. Poiché l’idea di un’unità del genere umano che comporti l’obbligo di una reciproca comprensione e solidarietà tra tutti gli uomini è teorica e astratta (cfr. gli Stoici), il ricorso alla violenza resta qualcosa di proibito all’interno del proprio gruppo, ma non in rapporto con gli altri gruppi. L’eticità, infatti, dev’essere sempre qualcosa di concreto e tale concretezza si fonda sulla tradizione storica di un gruppo delimitato rispetto ad altri. La situazione del presente non è molto diversa, ma bisogna riconoscere che si percepisce in generale la necessità di una pace mondiale e di un superamento della semplice opposizione tra gruppi etnici o nazionali diversi, con il conseguente superamento di un’etica non solo privata, ma anche ristretta al proprio gruppo etnico o sociale di appartenenza. Anche l’amoralità della politica come mero dato di fatto è oggi, almeno in linea di principio, superata o rimessa in discussione. 102 È la posizione di John Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di Sebastiano Maffettone, (Edizioni di Comunità 5), Torino 2009, pp. 65-86; si veda anche il considerevole contributo di Markus Krienke, Das Recht als «locus problematicus» zwischen säkularem Metanarrativ und dem Narrativ von der Wiederkehr der Religionen, in Oliver Hidalgo – Philipp Walter Hildmann – Holger Zapf (a cura di), Das Narrativ von der Wiederkehr der Religion, Springer, Wiesbaden 2018, pp. 35-60.
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Una storia del pensiero politico mette in luce l’impossibilità di unificare direttamente e immediatamente etica e politica. Esse devono essere costantemente e faticosamente mediate. Una riflessione di carattere etico deve mostrare come la potenza, quale categoria politica ancor oggi fondamentale, la potenza che non conosce alcuna considerazione e prende forma in un comportamento assolutamente violento, è condannata al naufragio, cosa che cerca di fare Socrate contro Trasimaco nella Repubblica platonica103: se il politico agisce in modo puramente egocentrico, finisce col nuocere a se stesso. Il politico teorizzato da Machiavelli pianifica senza scrupoli solo per il momento e non nel lungo periodo. Le analisi di Machiavelli non offrono cioè linee direttive per la grande politica che si regola sulla durata. Nella Repubblica, Socrate dimostra, invece, che senza una qualche forma di ordine è impossibile qualunque forma politica. L’ordine è un elemento costitutivo di ogni vita, ne è anzi il presupposto, come dimostrano anche le analisi freudiane sull’opposizione tra l’eros, quale tendenza all’unificazione, e l’istinto di distruzione.
2.3 Il rischio della privatizzazione dell’etica È nel concetto di «ordine» che è, forse, possibile vedere una mediazione tra etica e politica. L’ordinamento politico va sotto il principio dell’umanità nel senso della ricerca della massima felicità possibile per il maggior numero di persone. Tale umanizzazione della politica è il vero e proprio compito di un’etica politica. L’etica può essere abbinata alla politica perché e nella misura in cui nell’ambito politico l’ordine non è affatto guidato 103 Cfr. Platone, Repubblica, I, 343-343 b, e, traduzione, introduzione, scelta e commento di Nicola Abbagnano, Paravia, Milano 19502, pp. 74-76. Piuttosto interessante risulta, a questo proposito, l’analisi che ne fa Daniele Piccioni, Il filosofo gigolò, Edizioni Ensemble, Roma 2019, pp. 56-59.
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da finalità umane: l’azione ordinata non è cioè ancora, dal punto di vista del contenuto, azione del bene (tale è, per esempio, l’ordine di una banda di truffatori o l’ordine imposto dai nazisti)104. Ora, bisogna riconoscere che oggi il politico non ha più a che fare con formazioni statiche e tranquillamente autonome. La nazione continua ancor oggi ad essere il punto intorno a cui ruota l’azione politica, ma la nazione non è più il luogo della moralità, nel senso di Aristotele e di Hegel. Essa non predispone più per il politico il fattibile. La nazione è oggi piuttosto un ordinamento sociale funzionale, minacciato da conflitti di interesse che devono essere costantemente superati. Il politico oggi non deve prendere posizione solo di fronte agli obiettivi vicini, ma anche rispetto a quello lontani. La politica è oggi essenzialmente politica mondiale. La costituzione dell’umanità come soggetto della storia e le azioni comuni indirizzate a conseguire la massima felicità per il maggior numero di persone sono da osservare nell’interesse di ogni nazione. Ma la realizzazione di questi fini politici riesce solo se la sovranità nazionale viene limitata. L’ambito ecologico può costituire un ottimo esempio per la problematica delle mete lontane: si possono attuare rimedi reali ai problemi ecologici solo se ci si rende conto della responsabilità generale per il futuro, cioè se ci si convince che in questione è l’esistenza stessa dell’umanità. Le misure concrete – e qui si fa sentire il fattore politico – richiedono, però, la collaborazione organizzata delle nazioni. I conflitti tra i politici naturalmente non vertono sulla giustezza in sé di questi obiettivi, ma sulla loro realizzazione. Un’etica politica ha in ogni caso il compito di non permettere che i problemi ecologici siano lasciati sullo sfondo, cioè di combattere la tendenza a far passare gli obiettivi lontani come non pressanti e irrealizzabili. È chiaro a questo punto il ruolo che può giocare in 104 Cfr. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, introduzione di Alberto Marinelli, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 301-347.
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un simile contesto la propaganda. Questo però vale anche per altre questioni, come la questione razziale o la questione della pace.
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2.4 Ethos familiare e di gruppo L’etica del mondo occidentale è stata finora orientata al presente. Una vita futura veniva prospettata soltanto dalle religioni più evolute, sotto forma di premio e di punizione. Per il presente, erano considerati obiettivi la felicità individuale e il bene generale, e al servizio di questi vi era una serie di valori strumentali, come la reciprocità (cfr. I. Kant e le sue massime; Th. Hobbes e le sue leggi naturali). L’estensione dell’ethos familiare all’ethos di gruppo, avvenuta culturalmente, deve, comunque, suscitare una responsabilità, ancora poco sentita, verso le generazioni future da parte dell’uomo, portato ad agire piuttosto per sé e per i membri della propria famiglia. La consapevolezza di essere debitori di tutto ciò che utilizziamo all’attività dei nostri antenati ci obbliga a pensare oltre la generazione dei nostri figli. Ciò comporta ovviamente alcuni presupposti per la salvaguardia del nostro futuro, come appunto il rispetto per l’ambiente e la sicurezza della pace mondiale, da conseguirsi mediante l’armoniosa coesistenza degli Stati. La storia dell’umanità infatti è per buona parte storia di guerre. Con le guerre, i popoli hanno conquistato nuovi territori e si sono diffusi. La guerra, che possiamo definire aggressione distruttiva tra gruppi, è perlopiù il risultato dell’evoluzione culturale, e come tale è possibile superarla con la cultura. Essa utilizza alcune attitudini universali dell’uomo, come l’emozionalità aggressiva, la disposizione a difendere il gruppo, l’aspirazione alla dominanza, la tendenza territoriale, la disposizione a rispondere a segnali agonali di persone estranee e così via. Tutto ciò però non conduce mai alla guerra. Questa presuppone piuttosto organizzazione, conduzione, uso di armi distruttive e 112
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superamento della compassione, ottenuti mediante disumanizzazione dell’avversario. Su questo punto l’uomo si dimostra facilmente indottrinabile ad agire per l’interesse del gruppo. Alle norme primarie come quella dell’inibizione ad uccidere e quella relativa al rispetto del possesso, norme che si oppongono alla guerra, vengono sovrapposti filtri culturali, così che il conflitto tra norme viene vissuto come un conflitto di coscienza. È importante, però, che i politici riconoscano che le relazioni pacifiche corrispondono alle caratteristiche motivazionali dell’uomo che, per sua natura, è anche disponibile alla pace. La pace presuppone tuttavia che vengano riconosciute le funzioni svolte dalla guerra e che questa non venga semplicemente liquidata come una manifestazione patologica. Se si vuole la pace, è necessario realizzare, in modo non cruento, quelle stesse funzioni della delimitazione territoriale e dell’assicurazione di nuove risorse che finora aveva svolto la guerra.
2.5 Coscienza e responsabilità La mediazione di politica ed etica è dunque possibile soltanto nella direzione di una morale regolativa. Questo significa che non si può affermare con Hegel che la realtà è fondamentalmente razionale, ma neppure si deve escludere per principio la razionalità. La ragione non è una facoltà trascendente che agisce senza possibilità di errori: l’universale non è dato, ma da fare105. L’individuo agisce eticamente quando decide di subordinarsi all’universale, alla ragione, cioè di combattere il proprio originario egoismo e il suo radicato impulso all’aggressione, con la volontà rivolta al bene come ordine che gli si impone. Un sostanziale contributo dell’etica alla politica consiste, innanzitutto, nel pensare 105 Cfr. Adriano Fabris, (a cura di), Etiche applicate. Una guida, (Studi Superiori 1115), Carocci, Roma 2018, pp. 69-85.
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anticipatamente ad ordinamenti possibili, cioè nel pensare a delle mete lontane ed elevate a delle mete universali, in opposizione alla politica che, più realisticamente, tende ad agire più concretamente nel conseguimento delle mete prossime106. Una vera politica dovrebbe, invece, cercare di rivedere i propri obiettivi, conformandoli alle esigenze del presente, esigenze che si possono sintetizzare con il termine di integrazione, di cui fanno parte la negazione dei pregiudizi razziali, dell’ideologia di prestigio nazionale e la volontà di comprendere gli altri gruppi nella loro peculiarità. Ma l’integrazione intesa come fusione delle nazioni sarebbe destinata al fallimento se si cercasse di far scomparire tutti i conflitti del mondo. I conflitti vanno realisticamente riconosciuti, ma affrontati in modo diverso da quello violento, mediante cioè un razionale compromesso di interessi. Il passaggio dall’attività violenta alla razionalità comporta ovviamente un lungo processo di educazione107. Questo processo di educazione politica deve tendere a rafforzare l’universale coscienza della responsabilità, responsabilità relativa a ciò che è immediatamente prossimo, e responsabilità rispetto all’orizzonte remoto, dove il riferimento immediato alla persona non è rilevante, ed è per questo più indeterminato e vago, ma non per questo meno impellente. In questo senso si può parlare di responsabilità di fronte alla storia108, anche perché la configurazione della vita nell’orizzonte vicino dipende essenzialmente da accadimenti mondiali.
106 Cfr. Roberto Tamanti, Illuminare il vissuto morale. Categorie e ambiti per una rinnovata fondazione della morale, in «Credere Oggi» 40 (2020), n. 2, pp. 66-78. 107 Cfr. Francis Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo: le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002, pp. 310-326. 108 Cfr. Gianluigi Pasquale, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, (Ricerca), Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 29-45.
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Conclusione
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Quel bene che rimane
La ricerca fin qui condotta porta ad alcune conclusioni. Vengono osservate come riflesse sui cinque capitoli del volume. Innanzitutto, i termini «etica» e «morale», malgrado una parentela rilevata dall’analisi etimologica, non sono sinonimi, in quanto il primo è più teorico del secondo e più dell’altro è indirizzato verso una riflessione sui principi o fondamenti ultimi, ossia sulle basi stesse delle prescrizioni o dei giudizi morali. L’etica può essere per questo definita una teoria razionale del bene e del male e, in quanto tale, essa mira a conseguenze di tipo normativo, mira cioè a fornire indicazioni su quali criteri e valori devono essere rispettati da chi agisce109. Vi è, quindi, la consapevolezza che una riflessione della filosofia sui problemi etici si sviluppa soprattutto nei momenti di crisi dell’eticità, intesa come insieme dei valori morali realizzati nella storia (la famiglia, la società civile, lo Stato). In questi casi il singolo, in nome della propria autonomia, si fa carico di riordinare, con le proprie capacità riflessive, la situazione morale secondo criteri più razionali, fermo restando che entrambi i concetti – etica (o moralità), ossia l’aspetto soggettivo della condotta, e morale (o eticità), cioè le forme etiche che si delineano nella storia, – sono presenti in tutte le epoche e, sia 109 Cfr. Martin Rhonheimer, La prospettiva della morale: fondamenti dell’etica filosofica, trad. di Anselm Jappe, (Studi di Filosofia), Armando Editore, Roma 20092, pp. 107-111.
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pure in modo diverso, sono utili alla formazione della coscienza morale. I giudizi e i concetti etici giocano un ruolo determinante nella nostra vita quotidiana. Il discorso etico è, perciò, un discorso autenticamente razionale, anche se ha una funzione diversa dal discorso scientifico. Proprio in quanto legata alla vita, l’etica non può essere «giustificata» fuori del proprio ambito. La «scoperta» dell’etica come di una «forma di vita» non è altro, in definitiva, che una ripresa della concezione aristotelica dell’etica. In quanto pensa l’etica in funzione della praxis umana, Aristotele può dirsi il creatore di un’etica filosofica110. Vi è anche una seconda conclusione. Il rapporto interumano, come ciò che costituisce l’essere personale dell’uomo, è per sua natura un rapporto annullato o intersecato da un contrasto reciproco. In quanto movimento opposto alla corruzione e alla nullificazione di ogni rapporto, cioè a quanto sperimentato come male, l’etica si presenta come una necessità e non come un lusso, e non riguarda tanto il singolo nella sua interiore coscienzialità, quanto il singolo come essere-con-gli-altri. La sua funzione consiste di conseguenza nell’attuazione di un ordine in cui appaia la ragione. Il ricorso all’idea dell’ordine in cui appare la ragione permette di chiarire e di rendere esplicita l’idea del bene, inteso come concetto etico fondamentale. Questo bene, però, ottiene consistenza attraverso alcune norme, che si collocano tra l’idea del bene come idea dell’ordine in generale e le forme concrete di ordine, e, come tali, devono fungere da massime del nostro agire. Di conseguenza, poiché l’ordine che l’etica deve costituire e che rappresenta il bene è l’unione significativa di uomini rea li, la norma da cui si deve partire è l’imperativo categorico di Kant, secondo il quale dobbiamo agire in modo da non utilizzare meramente come mezzo, ma sempre come fine l’umanità, nella nostra come nella persona di ciascun altro. Da questa massima 110 Cfr. André-Mutién Léonard, Il fondamento della morale. Saggio di etica filosofica, (Universo filosofia7), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20012, pp. 242-256.
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fondamentale del nostro agire se ne possono derivare altre due: la volontà di vita come volontà del singolo e la maggior felicità per il maggior numero di persone. Questa idea del «benessere», come quella della volontà di vivere, è un’idea regolativa, che ci riguarda come esigenza morale. La terza conclusione attiene alla natura morale dell’uomo, che deriva direttamente dalla sua natura sociale. L’uomo è un animale sociale per natura, come conseguenza delle predisposizioni biologiche selezionate nell’arco di milioni di anni di storia evolutiva. L’evoluzione, tuttavia, non seleziona il comportamento, ma soltanto i meccanismi che producono un comportamento o al quale predispongono un animale. Il meccanismo su cui si fonda la condotta morale umana è il desiderio di attaccamento o affiliazione: l’affetto è il meccanismo dal quale emerge la socievolezza e la socievolezza, a sua volta, è lo stato nel quale si modella la comprensione morale. I nostri giudizi di valore sono, insomma, determinati da adattamenti filogenetici (norme primarie), che di per sé non sono morali, ma lo diventano quando interviene su di essi la riflessione, mediante la quale possiamo accettarli, cambiarli o anche opporci ad essi. La quarta conclusione è intorno ai valori. Il valore è costitutivamente connesso al dovere, perché non dice solo l’esistenza di un bene, ma anche che deve essere: ad esso spetta un primato nei confronti del dovere, poiché è il dovere che dipende dal valore, non viceversa111. Se il dovere non si fonda sulla ragione, ma sulla persona, considerata nella sua situazione storica e nei suoi rapporti con gli altri, allora il soggetto morale dispone di una sua originaria signorilità creatrice: l’esercizio della virtù non si limita ad una adesione coscienziosa alle regole e ai principi, ma partecipa della scoperta morale attraverso l’immaginazione e il giudizio, cioè attraverso l’abilità di una valutazione ed elaborazione di 111 Cfr. Jakub Gorczyca, Essere per l’altro. Fondamenti di etica filosofica, (Philosophia 3), Gregorian & Biblical Press, Roma 2011, pp. 17-25.
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diverse linee di condotta sulla base di ciò che la situazione concreta richiede112. La presentazione classica, e tuttora la migliore, di questo atteggiamento mentale si trova nella distinzione weberiana tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. Infine, si è constatato che la scienza non è più oggi considerata priva di valutazioni; è piuttosto integrata nel quadro delle azioni umane a livello sia individuale che sociale, e perciò solleva interrogativi nuovi rispetto alle teorie etiche tradizionali, come dimostrano in particolare la tecnologia biomedica e la medicina. Anche una concezione dell’etica staccata dalla sfera politica oggi non è più sostenibile. Guardando in prospettiva si può, dunque, affermare che il contributo dell’etica alla politica consiste nel pensare delle mete universali, cioè nel rafforzare nei singoli la coscienza della responsabilità relativa a ciò che è prossimo, ma anche rispetto all’orizzonte remoto.
112 Cfr. Charles Taylor, Etica e umanità, cura di Paolo Costa, (Filosofia Morale 21), Vita & Pensiero, Milano 2009, pp. 56-77.
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Schopenhauer Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione, (Biblioteca di Filosofia – Testi 2), Mursia, Milano 1969. Signore Mario – Scarafile Giovanni, (a cura di), Libertà: crisi e ripresa della coscienza morale, (Fede e Cultura), Edizioni Messaggero, Padova 2009. Smith Adam, Teoria dei sentimenti morali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma 1999. Soro Paolo, La legge morale: il dovere per il dovere, (Atena), Edizioni Sole, Cagliari 2013. Tamanti Roberto, Illuminare il vissuto morale. Categorie e ambiti per una rinnovata fondazione della morale, in «Credere Oggi» 40 (2020), n. 2, pp. 66-78. Taylor Charles, Etica e umanità, cura di Paolo Costa, (Filosofia Morale 21), Vita & Pensiero, Milano 2009. Todorov Cvetan, Di fronte all’estremo, trad. dal francese di Elina Klersy Imberciadori, (Garzanti Novecento), Garzanti, Milano 2011. Todorov Cvetan, Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo tragico, traduzione di Roberto Rossi, (Gli Elefanti – Saggi), Garzanti, Milano 20192. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, in Id., Opera Omnia issu impensaque Leonis XIII P.M. edita, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, Romae 1888. Veca Salvatore, L’etica, la scienza e la tecnica, in Id., Etica e verità: saggi brevi, prefazione di Giovanni Russo, Casagrande, Milano-Lugano 2009. Veca, Salvatore, La società giusta e altri saggi, (La Cultura 72), Il Saggiatore, Milano 1972. Vigna Carmelo, (a cur a di), Introduzione all’etica, (Filosofia Morale 10), Vita & Pensiero, Milano 20082. Vigna Carmelo, Etica del desiderio umano (in nuce), in Id., (a cura di), Introduzione all’etica, (Filosofia Morale 10), Vita & Pensiero, Milano 2001. 126
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Weber Max, Etica della responsabilità, a cura di Paolo Volonté, (Leggere i Classici della Filosofia 3), La Nuova Italia, Scandicci (FI) 2001. Weber Max, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1977. Wilson James Quinn, Il senso morale, trad. di Michele Mangini, (Il mondo nuovo), Edizioni di Comunità, Milano 1995. Wittgenstein Ludwig, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, (Biblioteca Adelphi 14), Adelphi, Milano 2001 (or. ted. 1929). Wittgenstein Ludwig, Ricerche filosofiche. Edizione italiana a cura di Mario Trinchero, (Einaudi paperbacks 148), Einaudi, Torino 1993 (or. ted. 1953). Zecchini Rodolfo, Hans Georg Gadamer e l’universalità del punto di vista dell’ermeneutica, in «Studia Patavina» 38 (1991) n. 2, pp. 46-85.
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Indice dei nomi
Abbagnano, Nicola 40, 130 Acampora, Ralph Robert 71 Adorno, Francesco 130 Agostino d’Ippona 22, 106 Alliney, Giulio 64 Anscombe, Gertrude Elizabeth 89 Antiseri, Dario 1, 32 Arendt, Hanna 46, 111 Aristotele 6, 13, 20, 32-38, 48, 65, 68-69, 93, 95-97, 108, 111, 116 Augusto, Carlo 35 Austin, John Langshaw 32 Ayer, Alfred Jules 29 Barone, Salvatore 77 Bausola, Adriano 107 Becattini, Giacomo 53 Bentham, Jeremy 55 Benvenuto, Sergio 20 Besussi, Antonella 75 Biagiotti, Brenda 83 Bianchi, Enzo 47 Bolla, Elisabetta 44 Boncinelli, Edoardo 42
Bioniolo, Giovanni 104 Bonito Oliva, Rossella 66 Borghi, Lamberto 67 Botturi, Francesco 48 Bouveresse, Jacques 20 Brena, Gian Luigi 58 Bruni, Luigino 53 Budinich, Piero 59 Calabi Giorello, Francesca 55 Caltagirone, Calogero 28 Cantillo, Giuseppe 22, 66 Carbone, Mauro 66 Carli, Eddy 30 Cattabiani, Alfredo 63 Cattanei, Elisabetta 48 Cerniglia, David 103 Charbonnier, Georges 63 Chomsky, Noam 63 Comi, Giuseppe 22 Constant, Benjamin 95 Cortina, Orts Adela 51 Da Re, Antonio 13, 43, 87 Dalfollo, Laura 104 De Anna, Gabriele 43, 91 De Simone, Giuseppina 22 129
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De Ton, Gianantonio 29 Dewey, John 67 Di Caro, Alessandro 28 Diltey Wilhelm 108 Donatelli, Piergiorgio 91 Donini, Pierluigi 36 Eibl-Eibesfedlt, Irenäus 49 Eichmann, Adolf 46 Fabris, Adriano 113 Fabro, Cornelio 87 Fellini, Federico 30 Fichte, Johann Gottlieb 52, 108 Filippi, Massimo 71 Firpo, Luigi 107 Foot, Philippa 15 Freud, Sigmund 57 Fromm, Erich 45 Fukuyama, Francis 114 Gadamer, Hans Georg 33, 97 Gaeta, Irene 2 Galeotti, Anna Antonella 75 Galimberti, Andrea 17 Galimberti, Umberto 105 Geymonat, Ludovico 79 Gius, Erminio 95 Giustiniani, Pasquale 22 Gnesotto, Attilio 71 Gorczyca, Jakub 117 Greco, Matteo 63 Hare, Robert Maurice 31 Habermas, Jürgen 28 Hegel, Gottlieb F. Wilhelm 23, 108, 111, 113 Heller, Ágnes 54, 83 Herder, Johann Gottfried 108 Hidalgo, Oliver 109
Hildmann, Philipp Walter 109 Hobbes, Thomas 112 Hume, David 69, 72 Jappe, Anselm 115 Juvalta, Erminio 79 Kant, Immanuel 20-22, 50, 53, 71, 73, 84-85, 88, 95, 108, 112, 116, Kierkegaard, Søren 87 Klersy Imberciadori, Elina 61 Krienke, Markus 109 Lancellotti, Riccardo 75 Larmore, Charles Edwin 91 Léonard, André-Moutién 116 Leone XIII, papa 68, 81 Levi-Strauss, Claude 63 Longo, Giuseppe 59 López-Aranguren, José Luis 51 Lorenz, Konrad 44, 70 Lutero 106 Machiavelli, Niccolò 108 Maffettone, Sebastiano 107108, 110 Magari, Roberto 18 Mangini, Michele 59 Manzoni, Silvia 95-96 Marassi, Massimo 48 Marinelli, Alberto 111 Maritain, Jacques 20 Marx, Karl 57 Maugeri, Paolo 104 Maurizi, Marco 71 Meinecke, Friedrich 108 Melchiorre, Virgilio 25 Mengaldo, Pier Vincenzo 60 Mill, John Suart 55
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Moore, George Edward 40 Mordacci, Roberto 91 Moretto, Giovanni 33 Moro, Andrea 63 Moro, Tommaso 107 Natali, Carlo 32, 93 Nietzsche, Friedrich 57, 86 Orsucci, Andrea 86 Orts, Adela Cortina 51 Pagani, Paolo 72 Pasquale, Gianluigi 5, 10, 13, 22, 45, 114 Perissinotto, Luigi 30 Piccioni, Daniele 110 Platone 20, 32-34, 110 Porta, Pier Luigi 53 Preti, Giulio 67 Putnam, Hilary 30 Radice, Roberto 48 Randal, Judith 78 Rawls, John 109 Rhonheimer, Martin 115 Ricoeur, Paul 57 Rigobello, Armando 70 Ritter, Gerhard 108 Rohls, Jan 25 Ross, William David 32 Rossi, Roberto 49 Rosso Cattabiani, Anna 63 Rotundo, Nicola 96 Rovati, Giancarlo 107 Russo, Giovanni 102 Ryle, Gilbert 32 Samarati, Luigi 92 Sartre, Jean-Paul 86 Scarafile, Giovanni 85
Scheler, Max 64 Schopenhauer, Arthur 51-52 Sciacca, Michele Federico 81 Signore, Mario 58, 85 Smith, Adam 62, 69 Socrate 110 Soro, Paolo 93 Strawson, Peter Frederick 32 Tagliapietra, Andrea 95 Tamanti, Roberto 114 Taylor, Charles 118 Tetamo, Elisa 96 Todorov, Cvetan 49, 61 Tommaso d’Aquino 68, 81 Toulmin, Stephen Edelston 32 Trasimaco 110 Trinchero, Mario 28 Vattimo, Gianni 97 Vasconi, Marcella 108 Veca, Salvatore 75, 102 Viano, Carlo Augusto 35 Vigna, Carmelo 3, 5, 14, 41, 45, 48-49 Visalberghi, Aldo 67 Volonté, Paolo 89 Waismann, Friederich 32 Weber, Max 89 Wilson, James Quinn 59 Wittgenstein, Ludwig 20, 2630, 32 Zanardo, Susy 45, 49 Zapf, Holger 109 Zecchini, Rodolfo 33 Zino, Zini 55
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