Essere persona. Un’antropologia dell’identità
 9788866774143

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STUDI DI FILOSOFIA - 39

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a cura della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce

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Antonio Malo

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Essere persona Un’antropologia dell’identità

ARMANDO EDITORE

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MALO, Antonio Essere persona. Un’antropologia dell’identità ; Roma : Armando, © 2013 400 p. ; 20 cm. (Studi di filosofia - 39) ISBN: 978-88-6677-414-3 1. L’unione sostanziale di corpo e anima 2. L’azione umana all’origine della cultura 3. Identità personale e socialità

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CDD 100

© 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 18-01-037 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

Prefazione Di fronte a una situazione confusa La domanda fondamentale sull’uomo Struttura del libro

9 9 11 12

Capitolo primo: Questioni generali 1. Significato e importanza dell’Antropologia filosofica 2. Oggetto materiale e formale 3. I metodi 4. Rapporto fra antropologia e altre discipline

15 15 19 22 25

Capitolo secondo: Il presupposto dell’integrazione personale: l’unione sostanziale corpo-anima 1. Le dimensioni del corpo: materiale, vivente, senziente, spiritualizzato 2. La corporeità: il corpo vissuto e le sue espressioni 3. L’unione sostanziale corpo-anima 4. L’anima come principio vitale, senziente e spirituale Capitolo terzo: La vita come integrazione 1. Caratteristiche fenomenologiche della vita 2. Nozione metafisica di vita 3. I gradi di vita come gradi d’integrazione 4. Biogenesi 5. Antropogenesi 6. Ecologia ed ecologismo

29 29 37 40 43 47 47 52 54 58 70 74

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Sommario

Capitolo quarto: L’integrazione spontanea del dinamismo del vivente 1. Le potenzialità della totalità del vivente: istinti e tendenze 2. Dinamizzazione, attualizzazione e azione 3. Desiderio umano e inconscio

79 79 82 87

Capitolo quinto: L’integrazione attiva nella coscienza sensibile 1. Il possesso intenzionale 2. La struttura della conoscenza umana 3. I sensi esterni 4. I sensibili propri e comuni 5. I sensi interni 6. Coscienza sensibile

93 94 96 101 109 111 138

Capitolo sesto: Coscienza della realtà, pensiero e autocoscienza 1. La coscienza della realtà: astrazione e conoscenza dei singolari 2. Le operazioni del pensiero: concetto, giudizio, ragionamento 3. Coscienza, conoscenza e autocoscienza 4. Funzioni della ragione: speculativa, tecnica, etica, ermeneutica

143 144 149 162 165

Capitolo settimo: L’affettività come integrazione spontanea 169 di soggettività dinamica e realtà 1. L’integrazione spontanea di tendenza e conoscenza: 170 le passioni 2. Mappa dell’affettività umana: sentimenti corporei, emozioni, 174 sentimenti propriamente detti e stati d’animo 3. Affettività e libertà 189 4. La coscienza affettiva 200 Capitolo ottavo: La volontà come dinamismo d’integrazione personale 1. La relazione intrinseca fra ragione e volontà 2. Struttura della volontà: volontà come natura e volontà come ragione 3. Trascendenza e immanenza della persona nel volere

203 203 205 209

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Sommario

4. La persona negli atti del binomio ragione-volontà: consenso, deliberazione e scelta 5. La fallibilità della volontà: il male 6. Coscienza e volontà

213 218 222

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Capitolo nono: L’integrazione della persona nell’agire 225 1. L’agire come integrazione dell’ambito tendenziale-affettivo, 226 conoscitivo e volontario 2. Coscienza dell’azione 230 3. Il senso dell’azione: l’amore 233 4. Automatismi e abiti 236 5. Il comportamento virtuoso 239 Capitolo decimo: L’azione umana all’origine della cultura 1. Natura e cultura 2. L’azione umana come sintesi di natura e cultura 3. La topica della cultura: le attività tecniche, giuridiche, etiche, scientifiche, artistiche e religiose 4. La realizzazione dell’uomo tramite il lavoro 5. Progresso tecnico-scientifico e perfezione umana 6. Cultura, valori e verità

245 245 249

Capitolo undicesimo: Identità personale e condizione sessuata 1. Sessualità e condizione sessuata 2. La relazione uomo-donna 3. Il celibato 4. Paternità, maternità e filiazione 5. L’integrazione del carattere sessuato: maturità affettiva e donazione

275 275 280 287 289

Capitolo dodicesimo: Identità personale e socialità 1. Collettivismo e spersonalizzazione 2. Individualismo: edonismo e consumismo 3. Persona in relazione: costituzione della soggettività e virtù sociali 4. Amicizia 5. La donazione di sé come massimo bene relazionale

303 304 308

252 259 264 269

300

311 325 330

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Sommario

Capitolo tredicesimo: Identità personale e temporalità 1. Dimensioni della temporalità umana 2. La biografia: temporalità e trascendenza 3. La storia come orizzonte temporale dell’esistenza: tradizione e rivoluzione 4. Il rapporto con il trascendente: il sacro e il profano 5. L’eternità nel tempo: promessa, perdono e pentimento

333 333 335

Capitolo quattordicesimo: Identità personale e morte 1. Il problema metafisico della morte 2. Immaterialità, spiritualità e immortalità 3. Il problema antropologico ed esistenziale della sofferenza e della morte 4. Origine e fine dell’identità personale

347 347 350

Conclusioni

365

Appendice

369

Glossario

375

Bibliografia

383

338 340 342

356 363

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Prefazione

Il libro ha origine dai corsi di Antropologia che ho tenuto nell’ultimo decennio per centinaia di studenti. In questi anni gli argomenti hanno raggiunto una certa maturazione e ciò in parte è dovuto alle molte domande poste dai miei studenti, a cui non sempre riuscivo a dare una risposta. Tentavo di trovare soluzioni nei manuali e nei saggi di mia conoscenza, finché mi sono accorto che essi mi erano di scarso aiuto. Alcuni avevano un taglio puramente storico; altri, malgrado la loro complessità, erano troppo astratti e seguivano determinate correnti di pensiero invece di studiare la persona. I libri di Antropologia, infatti, spesso hanno un taglio fenomenologico, culturale, personalista, metafisico, ecc. E ciò significa che riducono la ricchezza e la complessità della persona a una sola prospettiva. Spinto da questa carenza, a poco a poco ho cambiato l’impostazione dei corsi, partendo non più dai libri ma dalla persona stessa, o meglio dalle persone in tutta la loro complessità costitutiva ed esistenziale. In questo lavoro mi ha aiutato molto riflettere sul paradosso, ben individuato da Heidegger, fra l’enorme conoscenza che abbiamo accumulato sull’uomo e l’ignoranza su chi sia la persona umana.

Di fronte a una situazione confusa Sappiamo infatti molte cose della persona a incominciare dalla mappatura del suo codice genetico fino ai condizionamenti psicologici e sociali, passando per l’influsso che l’ambiente e la cultura hanno sulla vita umana. Mai come oggi, però, la persona rappresenta per noi un mistero inaccessibile. Per la stragrande maggioranza degli uomini e delle 9

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Prefazione

donne le principali questioni sul senso della vita, da dove veniamo e verso dove andiamo, rimangono senza alcuna risposta. Invece di aiutarci, sembra che il moltiplicarsi dei dati e delle informazioni provochi confusione. Ad esempio, se prima quasi tutti accettavano un’origine in qualche modo unica dell’uomo, ora non è più così e ci sono tante ipotesi quante sono le interpretazioni dei dati: l’uomo occupa un posto di rilievo nel Cosmo, o è soltanto una scimmia intelligente? È un essere in continua evoluzione o vive nell’illusione di esserlo? Qualcosa di simile accade con le azioni umane: sono libere o, piuttosto, sono condizionate geneticamente? Sono il prodotto della cultura, o il risultato della somma del fattore genetico e culturale? Queste domande ricevono le più svariate risposte, spesso in contraddizione tra loro e, dunque, incapaci di essere tutte quante vere. Oltre a produrre angoscia e perdita di senso in tante persone, questo confusionismo antropologico influisce negativamente sull’immagine che abbiamo di noi stessi e, di conseguenza, sul nostro comportamento. È un fenomeno che possiamo osservare lungo tutte le fasi della vita umana – perfino nell’infanzia – in tutta una serie di patologie psico-sociali in costante aumento, come la droga, le ossessioni sessuali, l’alcool e la delinquenza, o altri fenomeni ancora più diffusi e apparentemente meno gravi, come la mancanza di unità di vita, riscontrabile nell’oscillare fra l’ordine e l’efficienza della settimana lavorativa e la febbre del sabato sera. Alcuni si rendono conto che questi sono i sintomi di una malattia esistenziale quando è già troppo tardi, come si può rilevare da alcune notizie di cronaca: violenza negli stadi, bullismo tra compagni di scuola, liceo o università per rabbia, gioco o vendetta; altri invece reagiscono cercando di comprendere meglio la persona umana nell’età odierna della tecno-scienza. È quello che anch’io tenterò di fare in questo saggio. Il quadro non deve, però, essere dipinto esclusivamente a tinte fosche, giacché nella situazione attuale ci sono anche molte cose positive. Tra queste, lo sviluppo della scienza e della tecnica porta a un allungamento della vita umana, alla diminuzione della fatica e a un maggiore benessere economico. Inoltre, si diffonde sempre più una sensibilità morale, nuova e più fine: i diritti umani si fanno strada nella maggioranza dei paesi del mondo, come anche la preoccupazione di restituire bellezza e bontà alla natura deturpata da decenni di sfruttamento e incuria. 10

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Prefazione

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La domanda fondamentale sull’uomo Il primo quesito che deve affrontare l’Antropologia è la domanda fondamentale sull’uomo, cioè se l’essere umano sia qualcosa o qualcuno. A seconda della risposta, infatti, ci si avvia verso due oggetti differenti di studio: se l’uomo – io che scrivo e tu che leggi – è qualcosa (ad esempio, un semplice individuo della specie homo sapiens sapiens) la sua distinzione dalle altre realtà dell’universo si ridurrà ad alcune qualità che si dovranno individuare caso per caso e che, comunque, non potranno mai trascendere la propria specie né, quindi, l’universo. Se invece è qualcuno, la sua distinzione non sarà riducibile a nessuna caratteristica perché sarà di natura ontologica. Apparentemente la risposta più immediata alla domanda precedente è che l’uomo sia qualcosa, giacché egli si trova all’interno del Cosmo, specificamente su un piccolo pianeta del sistema solare appartenente alla Via Lattea, in relazione necessaria, dunque, con altri esseri, soprattutto con i suoi coinquilini della Terra. Sembra, dunque, che la persona non sia in grado di trascendere il gigantesco universo dove si trova confinata. Se analizziamo la posizione dell’uomo nel Cosmo osserviamo, però, che il modo di abitare la Terra e di essere in relazione con le altre realtà manifesta una trascendenza non solo nei confronti del proprio pianeta, ma anche dell’intero Universo. C’è bisogno, dunque, di un’analisi dell’uomo, cioè di ognuno di noi, sia nella sua struttura materiale, organica e vivente, sia nelle sue relazioni con le altre realtà. In questo saggio tenterò quindi non soltanto di confrontare le proprietà dei diversi esseri nel mondo, in modo particolare i viventi, ma soprattutto di stabilire qual è l’essenza dell’esistenza umana. In questo modo non svelerò certamente il mistero della persona, ma aggiungerò solo quel poco di luce che proviene dall’aver individuato il suo nucleo ontologico. Posso già anticipare il risultato di questa ricerca: la persona è un’identità irripetibile che si perfeziona come tale mediante le relazioni, soprattutto con le altre persone. Oltre a chiarire i termini di identità e di relazione qui adoperati, tenterò di mostrare come essi siano connessi con un altro concetto fondamentale: l’integrazione. L’identità umana, infatti, può integrarsi solo nella misura in cui entra in relazione. Così, il bambino riesce ad avere coscienza di sé solo mediante la relazione con gli altri, soprattutto con 11

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Prefazione

i suoi genitori. Anche se approfondiremo più avanti l’argomento, possiamo fin d’ora affermare che l’integrazione implica l’esistenza di una realtà composta in cui gli elementi, anche se connessi dall’appartenere a una medesima persona, ammettono un maggior grado di unione: ad esempio, le sensazioni si integrano nella percezione, la conoscenza razionale nella scienza e gli atti buoni nel comportamento virtuoso.

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Struttura del libro Da dove incominciare lo studio dell’uomo? A mio parere si deve partire da quanto è più immediato, ossia dal corpo, poiché è ciò per mezzo di cui si è nel mondo e si entra in relazione con le altre realtà. Dopo avere quindi dedicato il primo capitolo all’origine storica dell’Antropologia e al suo rapporto con le scienze sperimentali e le discipline umanistiche, nel secondo capitolo affronteremo la questione del corpo umano. Attraverso un’analisi fenomenologica cercheremo di individuare le sue proprietà. Nonostante le loro differenze, vedremo che queste proprietà corrispondono a un solo corpo. Questo corpo ha lo stesso statuto costitutivo dell’uomo: sarà, dunque, una cosa se l’uomo è qualcosa; sarà personale, se l’uomo è qualcuno. D’altronde, benché si tratti di un medesimo corpo, scopriremo che esso non possiede in sé il principio che unifica le sue diverse proprietà. Ne deriva la necessità di andare al di là del corpo in cerca del fondamento della sua unità, ossia di scoprire l’anima umana. Oltre a spiegare l’unità del corpo e delle sue proprietà, l’esistenza di un’anima spirituale è anche in grado di dare ragione dell’agire umano e della cultura. Il capitolo terzo si occuperà di confermare l’esistenza di questi due coprincipi – corpo e anima spirituale – mediante il confronto con quanto sappiamo sull’origine della vita e dell’uomo; a tal fine, saranno analizzate diverse teorie, in modo particolare l’evoluzionismo. Scopriremo così che i gradi della vita corrispondono ai gradi d’integrazione dei differenti elementi (fisico-chimico, psichico) e delle loro relazioni. Solo nell’uomo, però, l’integrazione si realizza anche a livello spirituale. I capitoli rimanenti cercheranno di dare conferma di questa tesi. Nel quarto capitolo si studieranno le tendenze umane pre-cognitive, in cui si dà già una prima integrazione dinamica degli aspetti fisici, psichici e spirituali e un abbozzo di relazionalità, come accade nella soddisfazione 12

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Prefazione

della fame del bambino attraverso l’allattamento materno; nel quinto e sesto capitolo si esaminerà come – attraverso la conoscenza – l’integrazione e la relazionalità diventano più intime ed estese, fino ad arrivare alla realizzazione funzionale delle potenze conoscitive nell’intellezione, che permette una relazione con la realtà in tutta la sua portata e con gli altri in quanto esseri personali. Come avremo modo di osservare, l’autocoscienza originata da queste relazioni è l’elemento chiave nella costituzione della soggettività attiva della persona, nucleo del perfezionamento dell’identità. Ciò nonostante, la soggettività umana è anche passiva. Anzi, per diventare attiva ha bisogno di una prima integrazione spontanea tra tendenza e conoscenza, e tra relazione spontanea di soggettività e realtà, cioè ha bisogno dell’affettività. Lo scatenarsi dell’ira di fronte a qualcosa di ingiusto, ad esempio, prepara l’organismo all’attacco. Il settimo capitolo si occuperà, dunque, della coscienza affettiva nella molteplicità e complessità dei suoi fenomeni e delle sue relazioni con la realtà. Nell’ottavo capitolo si analizzerà l’inizio dell’integrazione attiva della soggettività nella sua relazione con la realtà, grazie all’atto della volontà. Il capitolo nono individuerà nell’azione, nelle virtù e nel dono il perfezionamento di questa integrazione attiva del soggetto, mentre il decimo mostrerà l’azione umana come origine della cultura, che è quindi l’ambito in cui deve collocarsi l’agire personale. La tesi centrale del libro, una volta ricavata dalle argomentazioni precedenti, verrà applicata a tre ambiti fondamentali dell’esistenza umana: sessualità (capitolo undicesimo), socialità (dodicesimo) e mortalità (tredicesimo). Vi sono certamente altri ambiti dell’Antropologia filosofica, come il gioco, la festa, la sofferenza, la religione, ecc., che saranno analizzati in un’altra sede. Ho scelto di trattare esplicitamente della sessualità, della socialità e della mortalità perché sono tre aree decisive nella costruzione dell’identità umana, dove essa è posta in relazione non solo con gli altri, ma anche con se stessa e – soprattutto – con il trascendente. Il libro si chiude con due appendici, nella prima appare una serie di tabelle sul cervello e la sua relazione con le sensazioni, emozioni e azioni, nella seconda si offre un glossario con la definizione di alcuni termini importanti. Non mi resta che ringraziare i miei studenti per le loro domande e i loro suggerimenti, e i miei colleghi della Pontificia Università della Santa Croce. In particolare, vorrei ringraziare il Prof. José Manuel Gi13

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Prefazione

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ménez Amaya e David Lázaro per i loro commenti e i loro rilievi critici dal punto di vista delle neuroscienze e il Prof. Paul O’Calaghan per i seminari d’Antropologia teologica da lui organizzati in cui per la prima volta ho discusso di alcune questioni qui trattate. Infine, vorrei ringraziare anche il Prof. Giorgio Buonamassa, il Dott. Angel Pérez López e la Dottoressa Giovanna Porcaro, che con la loro attenta lettura hanno contribuito a migliorare la forma e il contenuto di questo libro.

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Capitolo primo

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Questioni generali

1. Significato e importanza dell’Antropologia filosofica La storia dell’antropologia filosofica è legata allo sviluppo della filosofia e delle scienze che l’hanno preceduta. La prima disciplina, che in parte corrisponde a ciò che oggi si chiama antropologia, è stata la psicologia. Questo termine, coniato nel Rinascimento da Melantone (1520)1, deriva dalla parola greca psychê, ossia anima. Platone (428/427 a.C.-348/347 a.C.) adopera psychê in alcuni dei suoi dialoghi, come il Fedone, dove si interroga sull’immortalità dell’anima; anche Aristotele lo usa (384/383 a.C.-322 a.C.) nella sua nota opera Peri psychê, il De anima. A differenza dell’antropologia filosofica, la filosofia classica greca aveva per oggetto un’anima che non si riferisce solamente all’uomo ma a ogni essere dotato di principio vitale, come le piante e gli animali. Il termine psychê, nella sua traduzione latina di anima, domina incontrastato nei molteplici trattati medievali De anima: sia presso gli averroisti latini, come Sigieri di Brabante (prima metà del XIII secolo-1282), che presso gli oppositori all’interpretazione averroista della psicologia aristotelica, come Tommaso d’Aquino (1225-1274). Nel Rinascimento, invece, lo studio dell’anima viene a poco a poco sostituito da quello dell’uomo. Ciò nonostante continua a 1

Il termine “psicologia” è stato messo in circolazione da due discepoli di Melantone: Rodolfo Goclenio, autore di un trattato intitolato Psychologia, hoc est de hominis perfectione (1590), e Otto Cassmann, che scrisse un altro trattato in due volumi con il titolo di Psychologia anthropologica, sive animae humanae doctrina (1594-96) (cfr. W. ZIEGENFUSS, G. JUNG, Philosophen-Lexicon, Handwörterbuch der Philosophie nach Personen, De Gruyter, Berlin 1949, I, p. 394).

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Capitolo primo

essere presente nei titoli di alcuni trattati come quello di Pomponazzi (1462-1525), De immortalitate animae (1516), o di Luis Vives (14921540) – noto umanista spagnolo – De anima et vita (1538), in cui vengono poste le basi di una moderna teoria educativa. L’interesse degli autori posteriori si orienta a poco a poco verso lo studio dell’uomo, finché esso diviene – con Cartesio (1596-1650) – l’oggetto esclusivo. Nell’opera Le passioni dell’anima (1649), il pensatore francese si occupa unicamente dell’uomo, perché secondo lui solo questi è dotato di anima. Nel razionalismo del ’700 il termine anima nei trattati è sostituito da quello di psicologia e si riferisce esclusivamente allo studio della ragione umana. La differenza fondamentale riguardo al Rinascimento consiste nel fatto che adesso alla psicologia si aggiunge l’aggettivo razionale per distinguerla non più da una psicologia animale, bensì empirica. La distinzione fra una psicologia del comportamento o empirica e un’altra teoretica o razionale, che studia le facoltà e le loro operazioni, è dovuta a Christian Wolff (1679-1754). Mezzo secolo dopo, il rifiuto della psicologia razionale porterà Immanuel Kant a sostituire la psicologia con una nuova disciplina, l’antropologia, termine coniato da lui stesso nell’opera Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798). La nuova dizione avrà successo soprattutto presso la fenomenologia del XX secolo. Autori come Max Scheler (1874-1928), Edith Stein (1891-1942), Dietrich von Hildebrand (1889-1977) e, più tardi, Helmuth Plessner (1892-1985), Arnold Gehlen (1904-1976), e Karol Wojtyla (1920-2005) daranno a questi primi tentativi di sistematizzazione il carattere rigoroso di una disciplina matura, che avrà una grande rilevanza nei dibattiti culturali dalla metà del secolo scorso fino ai nostri giorni. L’antropologia filosofica, dunque, è il risultato finale di una lunga storia di differenziazione nei confronti di altre discipline filosofiche, fino al raggiungimento dello status di sapere autonomo. Oggi l’antropologia, oltre a essersi consolidata a livello accademico, è pure una disciplina di moda. Una disciplina che studia l’uomo può essere considerata “di moda”? Parlare dell’antropologia in questi termini non è, in realtà, contraddittorio? Sembrerebbe di sì. Infatti, mentre la moda ha di per sé un valore effimero e si sviluppa in un breve orizzonte temporale, l’uomo di cui si occupa l’antropologia ha una storia millenaria e soprattutto un valore assoluto, una sua dignità intrinseca. Forse la contraddizione è solo apparente: l’interesse attuale per le questioni antropologiche, lungi 16

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Questioni generali

dall’essere un semplice fatto culturale, manifesta le grandi sfide che la cultura tecnologica e la globalizzazione pongono alla persona umana. Anche se non si è mai occupato di antropologia, Martin Heidegger (1889-1976) si è posto il problema paradossale della conoscenza che l’uomo contemporaneo ha della persona umana: «Nessun’epoca ha saputo conquistare tante e così svariate conoscenze sull’uomo come la nostra… Eppure nessun’epoca ha conosciuto l’uomo così poco come la nostra. In nessun’epoca l’uomo è diventato così problematico come nella nostra»2. La conoscenza dell’uomo non è, infatti, come quella delle altre realtà, la cui conoscenza cresce con il crescere delle informazioni acquisite su di esse. Ciò che sappiamo dell’uomo, al contrario, non dipende soltanto dalle informazioni acquisite, ma soprattutto dalla comprensione della sua identità. Se le scienze ci dicono come è l’uomo, l’antropologia filosofica ci dice chi è l’uomo e, di conseguenza, ciò che lo fa essere se stesso, ossia crescere come persona. L’epoca odierna, orfana di un’idea chiara di chi sia l’uomo, benché ricca di conoscenze – soprattutto in ambito tecnico-scientifico –, è incapace di affrontare argomenti come la crisi ecologica, la globalizzazione o le nuove possibilità offerte dalle biotecnologie senza finire in vicoli ciechi. I problemi sollevati, ad esempio, dall’economia capitalista o dalle biotecnologie hanno uno spiccato carattere antropologico e sono radicali, in quanto mettono in questione il concetto stesso di umano, la sua identità e ciò che gli si oppone perché non-umano, disumano o trans-umano. Il cammino dell’antiumanesimo odierno culmina nel tentativo di creare modelli di famiglia alternativi e relazioni personali differenti. Alla luce di questa tensione fra il “chi è” e il “che cosa fa”, l’uomo appare in una doppia veste: da un lato è in grado di risolvere innumerevoli problemi, dall’altro ne crea continuamente nuovi senza riuscire sempre a risolverli, come accade con l’energia nucleare, la manipolazione degli embrioni o l’attuale crisi economica mondiale. Alla fine si corre il rischio di pensare che l’uomo stesso sia un problema che in qualche momento storico troverà una risposta. Questa è la visione tecno-scientifica dell’uomo diffusa da alcune ideologie politiche convinte di poter creare, secondo il titolo del romanzo più famoso di Aldous 2

M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, Silvano, Milano 1962, p.

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Capitolo primo

Huxley (1894-1963), Il mondo nuovo (Brave New World, 1932). Ma l’uomo non è un problema; piuttosto è un mistero, la cui trascendenza rimanda all’Infinito3. La tecnica e le scienze empiriche non possono dire nulla sull’origine e il fine dell’uomo, perché ciò trascende i loro metodi d’indagine e il loro campo di applicazione. Anche se si parla dell’uomo come persona, quest’ultima può essere intesa solamente nella sua pluralità ovvero in relazione alle altre persone, perché i rapporti interpersonali influiscono in modo essenziale sulla costituzione di ciò che la persona è, ovvero sulla sua identità4. Da quanto detto finora possono ricavarsi due premesse per lo studio dell’antropologia: 1) L’uomo non è una realtà come le altre: non è qualcosa, ma è qualcuno. Questo si manifesta, ad esempio, nella trascendenza che l’uomo ha nei confronti dei suoi obiettivi economici e tecnici. L’impossibilità di comprenderlo unicamente a partire dall’informazione oggettiva fornita dalle scienze rivela la necessità di formazione di cui l’uomo ha bisogno per diventare ciò che deve essere. Immanuel Kant (1724-1804) aveva già colto, pur se in modo limitato, l’apparente paradosso fra informazione e formazione quando distingueva fra un’antropologia fisiologica, ossia ciò che la natura fa dell’uomo, e un’antropologia pragmatica ossia ciò che l’uomo fa della sua natura5. L’antropologia filosofica, dunque, deve studiare l’uomo nella sua totalità, raccogliendo quanto le scienze sperimentali, la tecnica, le arti e la filosofia dicono di lui ma senza mai perdere di vista la sua trascendenza. 2) L’identità umana consiste in una continua scoperta della propria natura, in particolare della razionalità o relazionalità, giacché la persona, sebbene non consista in una relazione, è sempre in relazione. Sarà 3

Sulla distinzione fra problema e mistero, Gabriel Marcel scrive: il problema «è qualcosa che incontro, che trovo davanti a me, ma che posso delimitare e trasformare, mentre un mistero è qualcosa in cui sono impegnato e che quindi è pensabile soltanto come una sfera in cui la distinzione fra l’“in me” e “davanti a me” perde il suo significato e il suo valore iniziale» (G. MARCEL, Giornale metafisico, Edizioni Abete, Roma 1966, p. 320). 4 Ho difeso questa tesi nel saggio Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, EDUSC, Roma 2010, pp. 347-359. 5 «La conoscenza fisiologica dell’uomo si propone di indagare ciò che la natura fa dell’uomo, la pragmatica ciò che l’uomo, in quanto essere libero, fa o può fare di se stesso» (I. KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET 1970, p. 541).

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Questioni generali

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perciò necessario considerare le relazioni interpersonali come parte essenziale dell’identità personale. Questo richiederà l’impiego, come si vedrà in seguito, di un metodo preciso. La persona, in fin dei conti, non è un puro oggetto di scienza né un essere che risolve solo problemi pratici; è un essere trascendente e relazionale, cioè un mistero che non ammette soluzioni, ma una progressiva scoperta della sua identità. Un’identità, d’altra parte, che – prescindendo da una prospettiva escatologica – non è mai raggiungibile definitivamente: la persona può sempre essere più di ciò che è, perché non è un essere determinato e compiuto, quanto piuttosto un poter essere orientato verso una perfezione ultima posseduta solo in modo germinale.

2. Oggetto materiale e formale Solo tenendo conto di queste due premesse la persona umana può essere oggetto (o ambito di studio) dell’antropologia. D’altro canto, la persona è anche il soggetto di questa scienza, perché, pur ammettendo una certa conoscenza oggettiva, la persona è soggetto di passioni, azioni e relazioni, nonché della riflessione antropologica stessa. Anche se ogni teoria antropologica filosofica contempla il proprio oggetto dall’esterno attraverso una distanza che rende possibile l’oggettività, deve pur sempre servirsi dell’esperienza che tale “oggetto” ha di se stesso e degli altri come persone. La parzialità della conoscenza della persona non è solo dovuta ai limiti della ragione umana e al carattere complesso del suo oggetto, ma soprattutto al suo mistero. Da questo punto di vista, l’antropologia ha molti punti in comune con altre discipline umanistiche, come la psicologia, la sociologia, la storia, ecc., in cui appare chiaramente la trascendenza personale. L’oggetto dell’antropologia può essere considerato da un punto di vista materiale e da un punto di vista formale. L’oggetto materiale è la persona nella molteplicità delle sue manifestazioni somatiche, psichiche e spirituali, cioè la persona in quanto un’unità strutturale. L’ambito di studio che l’antropologia ha in comune con altre discipline si riferisce quindi agli elementi di questa struttura: il corpo del quale si occupano la fisica, la chimica, la biologia, l’anatomia, la fisiologia; la psiche di cui si occupa la psichiatria, la psicologia e le neuroscienze; lo spirito di cui si occupa la religione, le belle arti, la politica, la sociologia, la storia e la 19

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Capitolo primo

linguistica. A differenza dall’antropologia, queste discipline affrontano la conoscenza della persona in modo settoriale, non nella sua unità. L’unità non va però identificata con la totalità della struttura, bensì con il principio che la genera. È infatti possibile – come fa l’antropologia scientifica – studiare la persona nella sua struttura somatico-psichico-spirituale senza sconfinare nell’ambito dell’antropologia filosofica, che invece si occupa del vivere personale come principio. All’interno dell’antropologia scientifica ci sono discipline che colgono la totalità umana da una prospettiva determinata. Abbiamo l’antropologia culturale che si occupa degli usi e dei costumi sociali; quella psicologica che studia la condotta umana dal punto di vista dei processi psichici, degli equilibri e squilibri, delle crisi e dei disturbi; quella sociale che analizza le dinamiche relazionali della persona (elementi comuni alle varie forme di società); quella etnologica, il cui oggetto sono i gruppi umani, le circostanze geografiche, storiche o climatiche (descrizione e comparazione delle caratteristiche comuni). Nessuna di queste discipline per sé considerata né la loro somma corrispondono all’antropologia filosofica. Ciò che distingue l’antropologia filosofica da tutte le altre discipline filosofiche e anche dall’antropologia scientifica è il suo oggetto formale, ovvero lo studio della persona umana in quanto tale: la conoscenza dei principi fondamentali della sua esistenza nel mondo, come la natura razionale o relazionale, la libertà ontologica e l’agire che dà luogo all’integrazione o alla disintegrazione personale. La premessa dell’integrazione è la distinzione fra l’essere della persona e la sua essenza che, oltre a essere spirituale, è anche corporea e psichica. L’integrazione consiste nell’ottenere un grado di unificazione maggiore di quello che l’essenza ha inizialmente. Nella persona essa può essere doppia: spontanea, mediante la strutturazione di desiderio, conoscenza, affettività e movimento, come nel bambino che fugge dal cane perché ha paura; e libera, mediante le azioni consapevoli e volontarie e gli abiti, come il soldato valoroso che – nonostante la paura – affronta il nemico cercando di difendere la patria. Anche se la persona – come gli altri esseri viventi – è dotata di un principio di unità, a differenza di essi non possiede un’integrazione solo spontanea, cioè limitata a portare a compimento i processi vitali (ad esempio, la fuga dal predatore), ma anche libera, perché l’integrazione costituisce un obiettivo per la persona stessa. Da qui l’analogia che il termine integrazione ha in antropologia. Certamente, 20

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Questioni generali

tanto nell’integrazione spontanea quanto in quella libera le relazioni interpersonali giocano un ruolo fondamentale. All’antropologia, dunque, non interessa il come, caratteristico delle scienze sperimentali, ma il perché. Ad esempio, perché per vivere l’uomo ha necessità della cultura, della religione, dell’amicizia, ecc.? In sostanza, l’antropologia filosofica si chiede il senso e il perché della vita umana. La confusione di piani porta, invece, come nel noto apologo buddista dei ciechi e dell’elefante6, a costruire l’antropologia a partire dai dati relativi a un solo ambito. La domanda di senso tipica dell’antropologia la distingue anche dalle altre discipline filosofiche. Nonostante si occupi della realtà della persona umana dal punto di vista dei primi principi e delle cause ultime, non ha solo un carattere universale. La persona non è, infatti, una specie o un universale (non esiste la persona, solo le persone), ma un essere singolare che è addirittura unico e irripetibile. A differenza quindi di quanto accade nelle altre discipline filosofiche, l’antropologia s’interessa anche dell’aspetto esistenziale. Dato, poi, che il soggetto di questa scienza è sempre la persona, oltre alla conoscenza degli altri esseri umani singolari, l’antropologo si serve anche della conoscenza che ha di sé come essere singolare e irripetibile. Infine, poiché studia l’essere in relazione, l’antropologia filosofica si occupa anche della circolarità fra l’integrazione personale e le relazioni interpersonali: in particolare, essa si chiede in quali forme relazionali, secondo la sua struttura, la persona possa inserirsi perfettivamente e se ne esistano alcune in particolare da cui essa dipenda in maniera essenziale. Insomma, l’antropologia filosofica studia il logos o legge costitutiva delle persone e delle loro relazioni, che deve essere universalmente comprensibile mediante i dati concreti e, soprattutto, applicabile alle loro esistenze. A causa del suo carattere misto (universale-particolare), l’antropologia ha un rapporto bilaterale con le scienze e si pone come 6

Si racconta di un re che, come divertimento, fece convocare nella piazza tutti i ciechi della città chiedendo loro di descrivere l’elefante regale dopo averlo toccato. Il cieco che toccò le orecchie disse: «Maestà, l’elefante è simile a un ventaglio». Mentre quello che accarezzò le zanne sostenne: «No, maestà, l’animale è simile a un vomere». La scena si ripeté quando gli altri ciechi toccarono la proboscide, il ventre, le zampe: essi continuarono a smentirsi a vicenda e a litigare, perché nessuno di loro aveva la visione dell’elefante tutta intera (cfr. O. VON HINÜBER, A Handbook of Pāli Literature, De Gruyter, Berlin 2000, Udana, VI, 4, pp. 66-69).

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Capitolo primo

un sapere sintetico: tenendo conto dei risultati della scienza (per approfondire o riformulare le sue tesi), l’antropologo offre allo scienziato il frame o cornice teoretica ove situare le questioni filosofiche ultime che sono fonte di senso per l’esistenza e, di conseguenza, per la stessa elaborazione della scienza come attività personale.

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3. I metodi L’analisi dei manuali di antropologia mostra l’utilizzo di una molteplicità di metodi. Forse quelli più ricorrenti sono: 1) Il metodo storico, che consiste nel ricavare dalle diverse scuole e dai differenti pensatori una serie di analisi, spiegazioni e interpretazioni sull’uomo. Questo metodo, oltre alle difficoltà ermeneutiche proprie delle discipline storiche, si deve confrontare anche con il problema che l’antropologia è un ramo della filosofia relativamente recente, per cui bisogna scegliere bene gli autori da prendere in considerazione, evitando di considerare antropologi quei pensatori che hanno una visione dell’uomo basata piuttosto su altre discipline filosofiche, come l’ermeneutica o la teoria della conoscenza. 2) Il metodo sistematico, secondo cui si aderisce a un sistema filosofico determinato: la filosofia di Platone, di Aristotele, di San Tommaso D’Aquino, di Cartesio, o di Kant, Scheler, Plessner, Gehlen… o se ne crea uno nuovo. All’interno del metodo sistematico possiamo ulteriormente distinguere due indirizzi fondamentali: ontologico classico e fenomenologico. L’indirizzo ontologico classico o metafisico studia la persona con le stesse categorie degli altri enti. Anche se la visione metafisica permette di giungere ad alcune conclusioni fondamentali per quanto riguarda la comprensione dell’uomo (ad esempio, la sua natura di animale razionale), non sempre i suoi cultori tengono in considerazione i dati provenienti dalle scienze, e nemmeno le questioni poste recentemente dalle neuroscienze. Così, l’indirizzo ontologico classico richiede un ripensamento di alcuni temi non facilmente interpretabili con le categorie di sostanza e accidente, come la considerazione della libertà umana. Vi è dunque necessità di un’ontologia più ricca che non si limiti a considerare le realtà umane solamente a partire da categorie comuni. D’altra parte, sebbene l’indirizzo fenomenologico consenta di cogliere i vissuti 22

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Questioni generali

della persona umana, cioè tendenze, emozioni e atti intenzionali, non sempre è in grado di passare al fondamento, per cui spesso rimane a livello di un’analisi alla ricerca delle caratteristiche essenziali dei differenti fenomeni. 3) Nell’antropologia filosofica può essere impiegato anche il metodo analitico, simile a quello usato dalle discipline scientifiche. La persona umana è analizzata negli elementi che la compongono: organi, facoltà, atti. Anche se ciò permette di approfondire singoli aspetti, si corre il rischio di dimenticare l’unità personale, smembrata in una pluralità di parti. Un esempio di questo, con tutti i pregi e i difetti, è la cosiddetta psicologia delle facoltà. 4) Un metodo complementare a quello precedente è il metodo sintetico, in cui i singoli aspetti sono considerati facendo parte di un tutto già dato. Anche qui ci sono alcuni limiti quando nel tentativo di non perdere la visione d’insieme si sorvolano le particolarità. D’altro canto, il metodo sintetico è più adatto a studiare il dinamismo dell’individuo e il suo rapporto con il mondo e con gli altri, che non la sua struttura ontologica. L’antropologia esistenziale e quella personalista usano spesso questo metodo7. 5) Infine, si deve parlare del metodo sistemico, da non confondere con quello sistematico. A differenza di quest’ultimo, il metodo sistemico si occupa di elementi che sono coordinati realmente e non solo concettualmente, per cui non è possibile studiarli in modo isolato. Ad esempio, il bipedismo, la forma delle mani, l’uso di strumenti e il linguaggio costituiscono un unico insieme; a un livello più profondo, le categorie (tempo, spazio, azione, passione, relazione, ecc.) costituiscono un altro plesso, e in questo modo, tempo, spazio, passioni, azioni e relazioni fanno parte di un’unica identità personale. Troviamo così una serie di sistemi le cui proprietà non si riducono alla somma dei loro elementi: ad esempio, il significato del martello non si riduce allo strumento bensì all’insieme degli attrezzi e degli oggetti su cui esso si può usare (chiodo, quadro, parete). Nel sistema c’è, quindi, novità: il tutto contiene più della somma delle parti, e ciò implica un grado più alto di unità, non più quantitativo ma appunto sistemico o qualitativo. Nella persona la grande connessione fra gli elementi implica l’esistenza di 7

Un’ottima spiegazione di questa corrente si trova in J.M. BURGOS, El personalismo. Temas y autores de una filosofía nueva, Palabra, Madrid 2000.

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Capitolo primo

un’unità ancora più profonda, e di conseguenza possiamo, per lo meno, ipotizzare l’esistenza di un principio ultimo di tale coesione, cioè un essere spirituale. La prospettiva seguita in questo libro è di natura sistemica, giacché ogni elemento, fenomeno e caratteristica sono studiati in accordo con il ruolo che svolgono nel perfezionamento umano. Infatti, questo aspetto sistemico dell’antropologia deriva dal fatto che la persona umana è un sistema aperto che tende al proprio sviluppo; non si tratta, dunque, di un sistema fisico inerziale, e neppure omeostatico, in cui ciò che conta è raggiungere l’equilibrio, come nell’assimilazione delle sostanze necessarie per vivere, bensì di un sistema che ha come scopo la perfezione personale, ovvero che la persona giunga a essere se stessa in maniera consapevole e libera. Il concetto d’integrazione ha perciò in antropologia una grande importanza. La persona umana ammette l’integrazione in grado massimo perché il suo rapporto con la realtà non consiste nell’adattamento, ma piuttosto in una trasformazione orientata al perfezionamento, di se stessi, della società e del mondo. Mondo umano e società sono anche sistemi aperti: è possibile migliorarli, o peggiorarli fino a quasi distruggerli. In definitiva, il successo delle persone umane e delle loro istituzioni non è scontato, poiché dipende dalla libera crescita delle persone. Il metodo sistemico, qui adoperato, ha due momenti: uno analiticoinduttivo (dai fenomeni verso i principi) e un altro sintetico-deduttivo (dai principi verso i fenomeni). Questi due momenti tengono conto sia del piano ontologico (essere/essenza; natura/libertà) sia del piano fenomenologico (apparire/nascondere; apertura/chiusura; donazione/ ricezione). Per quanto riguarda l’ambito delle tendenze, degli affetti e delle relazioni, il metodo sistemico è completato da quello ermeneutico, giacché ogni comprensione dei principi e dei fenomeni antropologici contiene già una precomprensione basata sull’esperienza vissuta. La ragione è nelle caratteristiche proprie dell’oggetto dell’antropologia: la persona umana non è un oggetto scientifico in più, ma è anche soggetto in quanto ha una conoscenza di se stessa basata sull’esperienza. La riflessione antropologica in questo saggio è, perciò, sempre unita all’autocomprensione, così come l’autocomprensione è sempre unita alla comprensione degli altri, e quest’ultima alla possibilità di ottenere un grado più elevato di conoscenza che permetta una maggiore integrazione personale. 24

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Questioni generali

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Ad esempio, osservando le azioni degli altri non solo conosco meglio le altre persone ma anche me stesso, giacché sono in grado di scoprire in me delle possibilità latenti. Da questa prospettiva, le mode possono avere un importante valore ermeneutico, anche se – come mostrano abbondanti esempi storici – non sempre aiutano ad acquisire la propria integrazione. Per citarne solo uno, il suicidio del giovane Werther, protagonista dell’omonimo romanzo di Johann Wolfgang Goethe (17491832) I dolori del giovane Werther, nel mettere a nudo il cosiddetto mal du siècle scatenò un’ondata di suicidi fra i suoi giovani lettori. Per evitare l’influsso negativo delle mode bisogna essere consapevoli dei modelli seguiti e del perché ci si vuole identificare con essi. Solo dopo aver risposto a queste domande, si è nella condizione di servirsi intelligentemente delle mode.

4. Rapporto fra antropologia e altre discipline Per comprendere meglio l’antropologia filosofica e il suo ambito di ricerca è necessario considerare altre discipline filosofiche e teologiche accomunate da uno stretto rapporto: fondamentalmente sono la metafisica, l’etica, la gnoseologia e l’antropologia teologica. Nello studio degli enti in tutta la loro ampiezza e struttura fondante, cioè nei loro principi primi e nelle loro cause ultime, la metafisica classica tratta anche dell’uomo. Pur nella sua validità, questo studio non permette di cogliere, se non in modo implicito, la distinzione fra l’essenza e l’essere personali. Come infatti abbiamo accennato, la persona non è un ente fra gli altri enti, ma un essere vivente dotato di razionalità, cioè di relazionalità in quanto la razionalità è fondamentalmente apertura all’essere8: attraverso la razionalità la persona è in relazione con il mondo e con gli altri enti, soprattutto con le altre persone. La relazione intesa come categoria accidentale non permette di pensare adeguatamente la relazionalità umana. Nonostante non costituisca l’essenza umana, infatti, la relazione è indispensabile affinché quest’ultima possa svilupparsi, giacché la persona si perfeziona soprattutto attraverso le relazioni, in modo particolare con le persone umane e divine. D’altron8 Sull’idea di libertà come apertura si veda J.A. GARCÍA CUADRADO, Antropología

filosófica, EUNSA, Pamplona 2001, p. 146 e sgg.

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Capitolo primo

de, la libertà, che dal punto di vista della metafisica classica sarebbe anch’essa un accidente (specificamente, una qualità della potenza volitiva), appare invece come qualcosa di ontologicamente costitutivo per l’uomo9. Infatti, come si vedrà nello studio delle tendenze, in esse si manifesta già la libertà. Nel rapporto fra metafisica e antropologia emergono, quindi, una serie di questioni: l’antropologia si fonda su un’ontologia di taglio classico o è una disciplina autonoma, con una propria ontologia? Le categorie degli altri enti dell’universo possono essere applicate alla persona oppure devono essere in qualche modo modificate? L’etica, dal canto suo, ha in comune con l’antropologia lo studio della libertà, ma non in quanto tale, bensì come origine di azioni umane (libere e responsabili), di virtù e di relazioni perfettive, come le virtù sociali e l’amicizia virtuosa. Questo interesse per le manifestazioni della libertà nell’agire si osserva nelle diverse scuole, le quali sottolineano determinati aspetti della persona. Ad esempio, l’etica eudemonistica accentua la felicità; l’etica stoica, le virtù; l’etica edonistica, la diversità dei piaceri della sfera sensibile e spirituale; e l’etica deontologica, il dovere. In tutte queste scuole è implicita una precomprensione dell’uomo teorizzata in maggiore o minore misura, la cui correttezza deve essere vagliata dall’antropologia. D’altro canto, dal rapporto fra etica e antropologia scaturiscono pure diverse domande: l’etica deve basarsi sulla 9 Il rifiuto della categoria metafisica di accidente per parlare della relazionalità umana non dipende dal considerare l’accidente secondo il modo abituale di capire questo termine, come qualcosa cioè di poco importante. Piuttosto esso dipende dal carattere particolare che gli accidenti hanno in Antropologia, giacché permettono all’essenza umana di raggiungere il suo perfezionamento personale, così la temporalità, la virtù, la relazione, ecc. Per quanto riguarda la libertà, anche quando essa non può manifestarsi, è legata inseparabilmente all’essere personale. Tutto ciò ci parla dell’essere umano come distinto da tutti gli altri esseri materiali. Come vedremo, questa differenza deriva dal fatto che la persona ha un essere spirituale. La distinzione antropologica fra essere ed essenza personale è, secondo Leonardo Polo, un’applicazione della distinzione metafisica di San Tommaso fra l’atto di essere e l’essenza. Infatti, secondo quest’autore, la persona umana dispone d’accordo con la sua essenza perché ha libertà, cioè il poter di questo disporre: «Andando oltre la simmetria con l’essere dell’universo, la libertà umana è trascendentale. La libertà è una dotazione da cui dipende l’essenza dell’uomo, dipendenza che assicura il disporre, cioè l’essenza al livello degli abiti» (cfr. L. POLO, Presente y futuro del hombre, Rialp, Madrid 1993, p. 191).

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Questioni generali

metafisica o sull’antropologia? In quale modo l’etica aiuta l’antropologia a cogliere meglio l’essenza della libertà umana? Anche con altre discipline filosofiche (filosofia politica, della cultura e dell’arte, della religione, ecc.) l’antropologia ha un rapporto bilaterale. Da un lato, l’antropologia filosofica fornisce la conoscenza del senso della vita e delle azioni umane, dall’altro, queste discipline offrono all’antropologia prospettive, dati, e interpretazioni che servono a migliorare la comprensione stessa della persona. Anche con la teologia vi è una relazione simile. Da una parte, la teologia stimola e favorisce la comprensione dell’uomo mediante domande essenziali: l’individuo è pienamente riducibile all’essere dell’universo materiale? Il suo desiderio di felicità può essere vano? La morte del corpo segna la fine dell’uomo? Dall’altra, l’antropologia offre alla teologia una via di accesso a Dio, giacché, come afferma Clemente D’Alessandria (150-circa 215), la conoscenza di Dio è intimamente legata alla conoscenza di se stessi10. Il rapporto fra teologia e antropologia filosofica si dà, soprattutto, all’interno dell’antropologia teologica, in quanto l’essere umano occupa un posto particolare nella creazione, giacché è l’orizzonte e il confine fra gli esseri materiali e spirituali, creato da Dio e da Lui elevato alla vita della grazia11.

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«Chi conosce se stesso, conoscerà anche Dio» (CLEMENTE ALESSANDRINO, Il pedagogo, Città Nuova, Roma 2005, p. 252). 11 «Perciò si riscontra che il supremo nel genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata, viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, cioè l’anima umana, come si può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si dice che l’anima intellettiva è come “orizzonte” e “confine” tra gli esseri corporei e incorporei, in quanto è una sostanza incorporea, che però è forma del corpo» (TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, III, c. 112).

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Capitolo secondo

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Il presupposto dell’integrazione personale: l’unione sostanziale corpo-anima

1. Le dimensioni del corpo: materiale, vivente, senziente, spiritualizzato Da dove incominciare lo studio sull’uomo? Tale domanda è importante perché nella sua risposta è coinvolto il punto di partenza dell’Antropologia e, di conseguenza, la visione dell’uomo. Tradizionalmente si inizia dal fenomeno della vita, giacché l’esistenza umana non sarebbe altro che un tipo di vita. Mi sembra però che il punto di partenza non debba essere astratto, che non si debba cioè iniziare con una categoria logica (il genere “vita”) per poi aggiungere delle caratteristiche concrete (differenze specifiche del “vivere umano”). Si dovrebbe perciò cominciare con il dato più immediato, ossia con il corpo, poiché la vita umana è corporale. Iniziare dal corpo umano ci fa subito acquisire due elementi. Il primo è l’esistenza di un’analogia fra l’uomo e gli altri esseri corporei; il secondo, una differenza essenziale: l’apertura che il corpo umano ha nei confronti del mondo e degli altri. Attraverso la corporeità, infatti, la persona entra nel mondo stabilendo relazioni con l’altro, soprattutto con gli altri1. Ad esempio, il corpo del neonato entra nel mondo non solo perché nasce, ma soprattutto perché è lavato, vestito e nutrito in 1 «Grazie al mio corpo, non posso mai definire me stesso come un individuo isolato dal mondo. Esso ci vaccina contro l’egocentrismo che ci separa dalla realtà e dagli altri uomini. Di fatto, il suo linguaggio mi insegna che, da sempre, sono aperto al mondo, sono in rapporto con lui. Mi dice che sono sempre esposto agli altri e che questa relazione appartiene al nucleo più intimo della mia persona» (C.

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Capitolo secondo

modo umano. Ad ogni modo, la relazione del corpo con il mondo, oltre a essere passiva, è anche attiva, giacché per mezzo di esso – in particolare della mano, strumento degli strumenti – la natura si trasforma in mondo. Il corpo è, quindi, sia il veicolo del nostro ingresso nella realtà sia l’origine della sua costituzione come mondo. Infine, oltre a essere connesso a una funzione strumentale – come la fabbricazione di vestiti, la costruzione di abitazioni, la soddisfazione di bisogni – il corpo è legato a una funzione pratica ed ermeneutica della ragione che ha come scopo la perfezione personale, ossia la felicità. Attraverso la coscienza dei suoi cambiamenti, delle sue inclinazioni, affetti e azioni, il corpo è vissuto come corporeità, ed è in grado di essere interpretato e integrato personalmente. Il corpo umano costituisce quindi una prospettiva che ci permette di accedere, anche se in modo parziale, alla composizione e unità della persona. Esso infatti non mostra solamente la sua materialità e il suo dinamismo fisico-fisiologico, ma anche, pur se in differenti modi, le dimensioni psichiche e spirituali della persona. In sostanza, nel corpo umano scopriamo già che la persona è un microcosmo, e per questo il suo studio offre una prospettiva unitaria tanto dei livelli più elementari (fisico, vegetativo e sensitivo) quanto dei livelli più elevati (affettivo e spirituale). a) Corpo materiale Il corpo umano è materiale, costituito cioè di atomi, molecole, cellule, tessuti, organi, sistemi organici. Ognuno di questi elementi è ordinato a quello superiore secondo una struttura gerarchica dove ciò che è inferiore rende possibile ciò che è superiore. A causa della sua costituzione materiale, il corpo umano possiede determinate proprietà fisico-chimiche il che, oltre a sottometterlo alle stesse leggi naturali degli altri corpi, come ad esempio la gravità, lo rende suscettibile di misura, temperatura, carica elettrica, ecc. Inoltre, proprio per la materialità del suo corpo, la persona può entrare in relazione con gli altri esseri materiali in diversi modi: alimentazione, vestito, uso di strumenti, cura della natura, ecc.

ANDERSON, J. GRANADOS, Chiamati all’amore. La teologia del corpo di Giovanni Paolo II, Piemme, Milano 2010, p. 46).

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Il presupposto dell’integrazione personale

b) Corpo vivo Poiché il corpo è vivo, le sue sostanze fisico-chimiche acquistano proprietà particolari, che possiamo chiamare emergenti. Ad esempio, le sostanze chimiche che costituiscono il sangue acquisiscono la proprietà di trasportare l’ossigeno alle cellule, ai tessuti, ai muscoli e agli organi. Oltre alle proprietà fisico-chimiche emergenti, il corpo umano – come accade in tutti i viventi – è costituito da organi, cioè da un insieme unitario e ordinato di parti eterogenee finalizzate al bene dell’insieme. Apparentemente nella costituzione del corpo c’è un ordine di complessità crescente: prima, le sostanze materiali, poi gli organi e infine l’organismo vivente, cioè prima appare ciò che è chimico e fisico, poi ciò che è organico e, infine, ciò che è funzionale. In realtà, quest’ordine si capovolge: prima è il vivente, poi gli organi e infine le sostanze fisico-chimiche che li costituiscono, giacché le sostanze fisico-chimiche e gli organi esistono per l’organismo vivente e non viceversa. Si tratta certamente di una priorità ontologica, non cronologica, giacché l’apparizione degli organi è posteriore alle sostanze fisico-chimiche. La priorità del corpo vivente sulle parti che lo costituiscono spiega che le proprietà emergenti dal punto di vista fisico-chimico e gli organi dipendano, in ultima analisi, dallo stesso principio per cui il corpo è vivo. È la vita ad essere principio dell’unità del corpo, non viceversa. Poiché ogni vivente nasce per generazione, le sue proprietà fisicochimiche e i suoi organi dipendono dalla generazione, così come la loro corruzione e disintegrazione dipendono dalla morte o perdita della vita. Possedendo un principio unitario, il corpo umano – come quello degli altri viventi – non ammette la divisione in parti e, soprattutto, l’unificazione con altri corpi siano essi umani o meno. Certamente, grazie alla tecnologia è possibile l’estirpazione e i trapianti di alcuni organi o membra; ciò che viene estirpato o trapiantato non è però il corpo, ma solo gli organi o le membra. Questo spiega l’impossibilità del trapianto di un encefalo, il centro del sistema nervoso e delle funzioni neurovegetative e sensitive, giacché questo sembra essere la radice dell’identità numerica del corpo. Infatti, un ipotetico travaso in un altro tronco somatico umano comporterebbe il trapianto del corpo e, quindi, della persona stessa2. Nel caso dei cyborg, le parti artificiali non sono stret2 Per questo motivo, la morte viene descritta da alcune costituzioni come «la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo» (Legge italiana del 29 dicembre 1993, n. 578, a.1).

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Capitolo secondo

tamente parlando elementi di un corpo, giacché in esse manca un’unità vitale: sono strumenti artificiali, come gli occhiali, non organi. La complessità e la gerarchia interna degli organi consentono di stabilire la prima legge dei corpi viventi: quanto più complessa è la struttura degli organi, tanto più perfetto è il vivente3; così gli animali più evoluti sono dotati di organi sempre più complessi fino ad arrivare al cervello dei mammiferi superiori, che raccoglie nella sua struttura i cervelli dei rettili e dei mammiferi inferiori. Il cervello umano possiede la massima complessità perché, oltre ad includere nella sua struttura anatomica e funzionale le forme degli altri cervelli animali, ha delle caratteristiche proprie, che non trovano riscontro negli altri mammiferi, neppure in quelli più vicini alla specie umana, come le scimmie antropomorfe4. Nel cervello umano c’è una maggiore crescita della corteccia cerebrale, cioè dello strato di tessuto che costituisce la parte più esterna del telencefalo, il che permette alla persona di avere delle funzioni assolutamente nuove, come l’autocoscienza, la decisione e il linguaggio. Questo però non significa che tali funzioni siano causate dal cervello. Oltre ad avere una pluralità di organi, il corpo vivente è dotato di una diversità di funzioni. Ogni funzione si svolge per mezzo di una parte organica adeguatamente disposta. La differenziazione funzionale non è però un ostacolo all’unità del vivente; anzi, quest’ultima è la causa sia della distinzione di organi sia del loro collegamento mediante una stessa finalità. Qui possiamo scoprire la seconda legge propria dei corpi 3 La complessità è segno di perfezione nel mondo corporeo, dove c’è composizione fra materia e forma. Nel mondo spirituale, invece, il segno di perfezione è la semplicità: più semplice è lo spirito, più perfetto è, fino ad arrivare a Dio, semplicità pura. 4 I neurofisiologi distinguono nel cervello umano tre livelli funzionali: quello inferiore, che comprende una grande parte del sistema nervoso periferico e del midollo spinale (o mielencefalo), del ponte e del cervelletto (o metencefalo), regola le funzioni vegetative, come la digestione, la circolazione del sangue, il respiro, ecc.; quello intermedio, che comprende le aree del mesencefalo e diencefalo, regola l’affettività, come le emozioni di paura, ira, ecc.; quello superiore, che corrisponde soprattutto alla neocorteccia cerebrale, è collegato ad alcune funzioni della ragione, come la presa di decisione (cfr. J. CERVOS-NAVARRO, S. SAMPAOLO, Libertà umana e neurofisiologia, in F. Russo, J. Villanueva (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibattito scientifico e filosofico, Armando, Roma 1995, p. 28). Si veda la figura 1 dell’appendice.

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Il presupposto dell’integrazione personale

viventi: più un organo è specializzato, più perfetta diventa la funzione di cui è capace, e meno la si può sostituire; ad esempio, l’occhio, costituito da muscoli, tessuti e cellule specifiche – bastoncini e coni – che rendono possibile la percezione della luce e dei colori, ha come funzione esclusiva quella di vedere. Il tatto, invece, non ha un organo così specializzato. Di conseguenza, fra gli animali superiori, quelli dotati di vista sono più evoluti di quelli che non la possiedono. Anche se la funzione superiore si basa geneticamente su quella inferiore (la vista sul tatto), quest’ultima esiste al servizio della prima (il tatto esiste in funzione della vista). Ne deriva la distinzione di due ordini: genetico o temporale e ontologico o trans-temporale. Non è pertanto corretto affermare che la funzione crei l’organo; piuttosto accade il contrario: l’organo esiste in vista della funzione e la funzione inferiore in vista di quella superiore. C’è dunque una gerarchia all’interno degli organi e delle loro funzioni. Come spiega Platone attraverso il mito di Prometeo5, il corpo umano sembra poco adatto alla sopravvivenza: non è provvisto di zanne né di pelliccia né ha una grande forza o agilità; solo grazie al fuoco di Zeus, cioè alla ragione, rubato da Prometeo e dato agli uomini, la specie umana può sopravvivere. Prendendo spunto dal dialogo platonico, il sociobiologo tedesco A. Gehlen considera l’uomo, quanto alla sua dotazione naturale, un essere mancante. Poiché l’uomo riesce a sopravvivere solo attraverso il cervello, quest’organo sarebbe l’unico in grado di colmare la sua mancanza di specializzazione6. Tuttavia, ciò che questo autore considera una deficienza, cioè l’assenza di specializzazione, sembra essere piuttosto espressione di sovrabbondanza. Certamente, dal punto di vista della pura sopravvivenza, il corpo umano pare non essere specializzato, e quindi insufficiente. Questa non specializzazione corporea è però necessaria per vivere razionalmente, giacché il fine del corpo umano non è la vita biologica, bensì personale. In altri termini, il corpo umano non è specializzato biologicamente perché partecipa della libertà della persona ed è, perciò, dotato di un alto grado di plasticità, fino ad arrivare a quello massimo del cervello, che permette all’uomo di condurre una vita personale. Infine, il corpo umano, come nella stragrande maggioranza degli 5

PLATONE, Protagora, 320c-323a. 6 A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1990, p. 115 e sgg.

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Capitolo secondo

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animali superiori, è sessuato. C’è una doppia forma maschile e femminile genetica, fisiologica ed anatomica, e un loro sviluppo differente dall’infanzia fino alla morte. Il che significa che il corpo umano, come tutti gli altri, è sottomesso al tempo: nasce, si sviluppa, diventa fecondo, invecchia e muore. Ciò nonostante, la sessualità umana, a differenza di quella animale, coinvolge tutta la persona: la sua psiche e il suo spirito. Perciò, la sessualità corporea fa parte di una struttura superiore: la condizione sessuata umana, la quale deve essere integrata personalmente7. c) Corpo senziente La persona umana, come gli animali, ha un corpo senziente. E questo anzitutto significa che, oltre a stare accanto alle altre realtà materiali, il corpo umano costituisce – come afferma Merleau-Ponty8 – una prospettiva del mondo, un centro cioè intorno al quale si ordina lo spazio. Infatti, i riferimenti più immediati della posizione (sopra, sotto, qui, là, accanto, destra, sinistra…) riguardano sempre un corpo senziente, attraverso il quale il mondo non è qualcosa di astratto ma di vissuto, cioè di visto, sentito, toccato, ecc.; ad esempio, la sedia – sulla quale sono seduto – è vissuta da me nella sua durezza e resistenza, e la mano che stringo nella sua forza o debolezza. In secondo luogo, senziente vuol dire che il corpo permette di agire su altre realtà materiali: conoscerle, usarle e interpretarle; ad esempio, oltre ad essere una superficie rettangolare di legno levigato dove si possono posare diversi oggetti, il tavolo è usato da me come scrivania. Il corpo non è quindi pura struttura e funzione di organi, ma soprattutto origine dell’esperienza della realtà e del nostro agire. Un’esperienza che, mediante le cenestesie e le cinestesie, si estende anche al vissuto della propria corporeità. Le cenestesie, o percezioni diffuse del funzionamento vegetativo dell’organismo, sono alla base di diverse sensazioni: pesantezza o leggerezza, stanchezza o freschezza fisica, forza o debolezza; mentre le cinestesie, o percezioni del movimento dei muscoli, sono alla base della localizzazione spaziale e dell’uso degli 7 Cfr. J. MARÍAS, Antropología metafísica, Alianza, Madrid 1987, pp. 124-126. Rimando anche al mio saggio Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, EDUSC, Roma 2010, pp. 156-165. 8 Cfr. M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, parte II, capitolo III.

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strumenti. In sostanza, il corpo umano è, secondo la terminologia fenomenologica, un Leib o corpo vissuto9, vale a dire l’organo dei processi e delle attività consce che rendono possibile l’esperienza di se stessi come esseri corporei. Con i suoi vissuti spaziali, temporali e sessuali, il corpo esprime la soggettività e l’Io si esprime in parte tramite il corpo. Solo in situazioni estreme o patologiche si ha una dissociazione tra l’Io e la corporeità vissuta. d) Corpo personale Oltre ad essere senziente, il corpo umano è personale, cioè partecipa a modo suo della trascendenza della persona o apertura all’essere in quanto tale. Ciò si manifesta in diverse maniere; ad esempio, nel carattere sistemico della sua morfologia, in particolare nella relazione intrinseca fra la posizione eretta e la libertà delle mani; nella produzione di suoni con cui esprimere desideri, sentimenti e pensieri; nella condivisione di uno stesso mondo; e, soprattutto, nell’asimmetria fra il corpo di chi deve essere accolto, curato e nutrito e chi ha l’obbligo di farlo, perché anche il suo corpo è stato accettato da altri. Per quanto riguarda il carattere sistemico della morfologia del corpo umano, la liberazione delle mani dal loro significato biologico (estremità per camminare o correre) è resa possibile dal bipedismo, e questo dalla posizione eretta della colonna vertebrale, la quale permette, a sua volta, una disposizione equilibrata della testa con un aumento della capacità cranica. E tutto ciò si collega con la ragione. Infatti, come già indicava Anassagora (496 a.C.-428 a.C. circa), «l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani»10. Aristotele, dal canto suo, approfondisce la correlazione necessaria fra intelligenza e mano: «ma è ragionevole dire che ha le mani perché è il più sapiente. Le mani, in effetti, sono uno strumento e la natura, come un uomo sapiente, dà ogni 9 I fenomenologi tedeschi, come Edmund Husserl (1859-1938), Scheler, Stein, von Hildelbrand, ecc., si servono della distinzione offerta dalla lingua tedesca fra Leib, corpo vivo, e Körper, corpo dimensionale non vivente – come il cadavere –, per stabilire una differenza ancora più essenziale: corpo oggettivo, che corrisponde anche al corpo vivo dell’altro, e soggettivo o vissuto (cfr. M. SAVIOLI, Il contributo di Edith Stein alla chiarificazione fenomenologica e antropologico-teologica della corporeità, «Divus Thomas», 46 (2007), pp. 78-122). 10 H. DIELS, W. KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, DublinZürich 197216, unveränderte Nachdruck der 6. Auflage, A 102.

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cosa a chi può usarla»11. In definitiva, nell’ipotetico caso in cui l’uomo avesse mani però non intelligenza (come accade nelle scimmie), non potrebbe usarle per costruire strumenti. Nella correlazione fra mani e intelligenza, si potrebbe andare oltre fino a dire che la libertà dei movimenti della mano, soprattutto quella necessaria per fare la pinza con il pollice e l’indice, è in relazione diretta con l’intelligenza e, attraverso di essa, con le altre peculiarità della morfologia umana, il che implica un’ulteriore conferma del suo carattere sistemico. Per quanto riguarda il linguaggio umano, alcuni cambiamenti morfologici del corpo consentono le sue peculiarità. Alla base della formazione dell’apparato fonatorio vi è una serie di modifiche del viso: la testa non è più china in avanti – come ad esempio nel maiale –, la bocca acquisisce delle labbra sottili, la lingua diventa estremamente mobile e i denti arretrati. A loro volta, gli organi fonatori influiscono sull’udito, che – oltre a percepire i rumori – è in grado di cogliere suoni con una struttura ritmica e tonale fortemente regolata, cioè suoni articolati dalla voce umana. L’apparizione del linguaggio proietta l’uomo oltre le esigenze materiali della semplice sopravvivenza, giacché la comunicazione interpersonale ha come scopo la verità, il bene e il bello12. Il rapporto fra intelligenza e morfologia del corpo umano, che si riflette nella sua massima apertura, determina che la persona non sia semplicemente inserita in un ambiente, ma in un mondo. Infatti, a differenza dell’animale, l’uomo non si adatta a un ambiente già dato, bensì lo trasforma convertendolo nel suo focolare13. Per quanto riguarda la relazione fra accettare ed essere accettati, attraverso il corpo umano si stabilisce un’asimmetria che costituisce la base della giustizia. Infatti, la morfologia e le funzionalità del corpo umano non bastano affinché questo possa sviluppare tutte le sue potenzialità, in particolare la conoscenza e il linguaggio, perché ha bisogno di altre persone. Il corpo è personale non solo perché geneticamente e 11 ARISTOTELE,

Sulle parti degli animali, 687a, 7. Cfr. ARISTOTELE, Politica, 1253a 15-18. 13 Il rapporto fra il corpo umano e la casa è spiegato, ad esempio, nel seguente testo: «Così come nella propria casa si possono ricevere gli amici, allo stesso modo nel corpo possiamo accogliere il mondo che ci circonda e lasciare che ci influenzi, ci arricchisca e ci trasformi. Avere un corpo implica essere presente per gli uomini e aperto a essi, capace di sentirsi accolto e di accogliere gli altri nella nostra intimità» (C. ANDERSON, J. GRANADOS, Chiamati all’amore, cit., p. 47). 12

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morfologicamente appartiene alla specie homo sapiens sapiens, ma anche perché richiede il riconoscimento e la cura di altre persone. Il corpo umano del neonato è perciò un dono per tutte le persone, specialmente per i membri della propria famiglia, e contemporaneamente un obbligo, perché senza le cure necessarie non può fiorire. Il corpo umano è dunque dipendente dagli altri e allo stesso tempo capace di mettersi al servizio degli altri, specialmente dei bisognosi: bambini, malati, anziani. Infine, può darsi anche in modo sponsale, manifestando così il dono irrevocabile di marito e moglie che fonda la famiglia. La dipendenza, l’autodominio e la donazione costituiscono un aspetto importante del carattere sistemico del corpo umano. Infatti, la cosiddetta nascita prematura, che caratterizza l’essere umano, richiede relazioni stabili fra i genitori, cioè una famiglia, la quale a sua volta origina fra i suoi membri legami di amore, condivisione e gratuità, che sono necessari per la crescita delle persone, in particolare per la formazione integrale del figlio e lo sviluppo della sua capacità di donarsi. Il corpo personale è, dunque, organico, bisognoso, ma anche dotato di profondi legami affettivi e della capacità di donazione; ne deriva la possibilità di considerarlo simbolo delle diverse istituzioni naturali come la famiglia (il capofamiglia) e la società umana (i corpi intermedi), e anche soprannaturali, come la Chiesa o corpo mistico.

2. La corporeità: il corpo vissuto e le sue espressioni Se la visione oggettiva del corpo da parte della fisica e dell’anatomia implica un distacco dall’oggetto, la visione soggettiva o corporeità implica un’esperienza del proprio corpo come simbolo dell’interiorità personale che si manifesta, ad esempio, nel fenomeno del pudore nella sfera affettiva e sessuale. Il corpo umano, quindi, a differenza degli altri corpi animali, è simbolo di una realtà che lo trascende e alla quale rimanda. La corporeità, d’altro canto, è un rapporto vissuto con gli altri corpi: animati e non, animali e umani; si tratta di un’esperienza che è allo stesso tempo movimento, gesto, passione e azione. Nei suoi movimenti, la corporeità è sottomessa a una legalità esterna: l’andatura normale propria di una determinata persona s’interrompe, ad esempio, quando questa inciampa. Oltre alle leggi comuni ai corpi, la corporeità segue 37

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leggi proprie: tornando all’esempio precedente, nonostante si realizzi senza intoppi fisici, l’andatura può essere naturale o posticcia quando, invece, di svelare parzialmente l’interiorità, tenta di camuffarla. Ci sono, dunque, delle leggi, non fisiche, che accordano alla corporeità di velare/svelare la persona ovvero di riconoscerla o meno. Ciò spiega che l’erotizzazione, tipica della società consumistica, porti con sé l’eclisse della persona; infatti, lo svelamento del corpo, lungi dal permettere la conoscenza dell’altro, la rende impossibile, poiché – fissando lo sguardo sulla mera esteriorità corporea – si scambia l’essere dell’altro con il suo apparire14. L’erotismo impedisce, perciò, che la persona venga a galla. La corporeità è costituita anche dai gesti, soprattutto da quelli delle mani e del viso che hanno una mobilità elevata (cambiamento della posizione della mano e delle dita, del colore del viso, dello splendore e del brillo degli occhi) e una funzionalità differenziata (messaggio, appello, richiesta, segnale). I gesti non equivalgono a semplici movimenti delle parti del corpo, ma a modifiche globali della corporeità, con cui si manifesta lo stato d’animo, i sentimenti, i desideri, la preoccupazione, l’amicizia. Contro la tesi sartriana dello sguardo altrui come pietrificazione della propria libertà15, il rapporto con gli altri, lungi dall’impedire di mostrare chi si è, attualizza la trascendenza del corpo umano, come si osserva nelle funzioni tecniche e poietiche dell’agire umano e, in modo particolare, nel lavoro e nella sua inerente dimensione di servizio. È vero, come ho appena accennato parlando dell’erotismo, che lo sguardo altrui, quando è pieno di bramosia, degrada la persona alla condizione di semplice oggetto del desiderio. Può, però, consentire anche di cogliere gli altri viventi, soprattutto le altre persone, come senzienti, attraverso il 14

Qui si dovrebbe distinguere fra lo sguardo stupito di fronte alla bellezza del corpo, come quello di Adamo di fronte a Eva, e lo sguardo cupido, che non si stupisce più. Infatti, anche se l’altro non può essere percepito nella sua più profonda identità, la corporeità, quando non è ridotta a esteriorità, lo manifesta (cfr. V. MELCHIORRE, La via analogica, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 125). 15 Se l’altro è essenzialmente quello che mi guarda «le relazioni particolari del mio essere con quello d’altri presuppongono, da una parte e dall’altra, […] la nostra esistenza come corpo in mezzo al mondo», non più come libertà (J.P. SARTRE, L’être et le néant. Essai de ontologie phénoménologique, Librairie Gallimard, Paris 1943, p. 428).

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Mitgefühl (“con-sentire”), in particolare nella simpatia (“con-patire”)16. Ci indigniamo, ad esempio, quando vediamo maltrattare un animale e, soprattutto, una persona, perché in quest’ultimo caso ci accorgiamo non solo del suo dolore fisico ma anche della sua sofferenza spirituale. In più, a differenza dell’animale, la persona ci guarda non solo sofferente ma anche supplicante. Questo sguardo fa scoprire un essere che, nonostante la sua dignità e grandezza, è bisognoso. Comunque, la rivelazione completa della persona si realizza nell’azione umana in tutte le sue dimensioni, anche in quella tecnica e poietica. Nel perfezionare perfezionando il soggetto e gli oggetti prodotti, l’azione diventa massimamente personale, giacché si basa non solo sulla soddisfazione dei propri bisogni, ma soprattutto sulla scoperta degli altri e di se stessi come dono. Nel rapporto interpersonale si devono collocare anche una serie di fenomeni della corporeità che hanno valenza antropologica, come il riso e il pianto, la tenerezza, il vestito e la danza. Il riso e il sorriso permettono di modulare un’ampia gamma di sentimenti rivolti all’altro: compiacenza, indulgenza, umorismo, allegria, senso di speranza; nel pianto, invece, il registro ha toni tetri: dolore, sofferenza, rabbia, impotenza, disperazione. L’amore, ossia il piacere di essere con l’altro e per l’altro, si mostra nella carezza, nel bacio, nell’abbraccio. I modi usati per manifestare amore dipendono sia dalla persona sia anche dalla cultura: sfregarsi il naso, il bacio della pace, l’abbraccio, ecc., sono alcune delle forme culturali in cui si mostra la dimensione amorosa della corporeità. Infine, l’abbigliamento, il modo di parlare e di muoversi – oltre a manifestare la persona – rivelano la sua posizione sociale oppure l’appartenenza a un gruppo, come si osserva in alcuni piercing e tatuaggi. Nel significato relazionale della corporeità la danza occupa un luogo particolare, perché non solo inserisce la persona nella tradizione, società e cultura, ma la fa trascendere quando la danza diventa rito sacro. Insomma, attraverso i tratti del volto, lo sguardo, le espressioni del viso, il timbro della voce, il movimento del corpo si può passare dall’incontro casuale con l’altro alla relazione stabile che caratterizza l’amici16 «Nel sorriso altrui cogliamo direttamente la sua gioia, nelle lacrime il suo dolore, nel suo arrossire il suo senso di vergogna» (Cfr. M. SCHELER, Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma 1980, p. 24).

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Capitolo secondo

zia. Così ciò che è esteriore e specifico si trasforma in porta d’accesso all’interiorità personale.

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3. L’unione sostanziale corpo-anima L’analisi del corpo come materiale, organico, senziente e personale, consente di cogliere una serie di proprietà emergenti. Ciò non significa, però, che il corpo umano sia prima materiale, poi vivente, quindi senziente e, infine, personale, poiché fin dalla sua nascita è uno ed è lo stesso principio a renderlo corpo, vivente, senziente, personale. L’insieme degli elementi materiali, organici e sensibili è ordinato, strutturato e disposto secondo un unico principio, che è stato chiamato anima. L’anima, dunque, spiega perché il corpo, nonostante la molteplicità di sostanze, organi e funzioni, sia uno. Per questo motivo, anche se forse alcuni negano l’esistenza dell’anima, i viventi agiscono come se l’avessero, e questo li distingue dai non viventi; infatti, se una pietra o una figura di cera o un cadavere cominciassero a muoversi, noi inorridiremmo, giacché sappiamo che la materia di per sé non è in grado di agire in questo modo17. Ecco perché il vivere non è un atto della materia né un elemento materiale. Per spiegarlo è necessario un principio attivo non materiale, ossia l’anima. Ma che cosa è l’anima? Aristotele ne dà due definizioni: una strutturale e un’altra dinamica. Secondo la prima, l’anima è «l’atto primo (entelechia prima) del corpo naturale organico che ha la vita in potenza»18. Cerchiamo di comprendere questa definizione. L’atto di vivere o entelecheia non è mai una specie di kinesis o movimento fisico, come camminare, tagliare un albero o costruire una casa (in tutti questi casi il fine o scopo, il percorso fatto, l’albero tagliato o la casa costruita, è esterno all’operazione), bensì un atto immanente, un movimento cioè che possiede in sé non solo il principio del movimento ma anche il fine. Vivere è, perciò, aver già vissuto ovvero possedere la vita fin dall’inizio dell’atto; infatti, a differenza della casa costruita che si trova fuori del costruire (mentre si costruisce, non si ha ancora la casa), la vita è posse17

Cfr. E. STEIN, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000,

p. 67. 18 ARISTOTELE,

De anima, III, 2, 412a 27-29.

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Il presupposto dell’integrazione personale

duta nell’atto stesso di vivere, altrimenti l’inizio del vivere non avrebbe la vita, il che è contraddittorio. Ciò nonostante, la vita degli esseri corporei è un atto immanente molto particolare perché è l’atto di un corpo che funge da potenza. Secondo Aristotele, questo è dovuto al fatto che nei viventi organici vi è anche una struttura ilemorfica, dove l’anima è la forma sostanziale e il corpo organico la materia. Ne deriva – sempre secondo lo Stagirita – che ciò che vive non è l’anima o il corpo isolati, ma il composto di anima e corpo. Nello studio della morte vedremo che l’ilemorfismo aristotelico ha dei limiti. Ciò nonostante, esso ci permette di capire l’esistenza di un tipo di atto, il vivere, che non è fisico ma psichico (da psychê o anima). Qual è allora la relazione fra anima e corpo? La stessa che intercorre fra la materia e la forma. Nei viventi – e negli altri esseri materiali – la materia prima è il soggetto del cambiamento radicale, ossia della generazione e della morte. La materia prima è, però, pura potenza che, per essere, ha bisogno della determinazione di una forma sostanziale. Nel caso del vivente, l’anima è la forma che determina la materia organizzandola e rendendola corpo. Secondo San Tommaso, la prima determinazione è la materia quantitate signata o materia dotata di estensione19. Perciò l’Aquinate afferma che il principio d’individualizzazione dei viventi corporei e, quindi, anche della persona umana, è la materia segnata dall’estensione, cioè le persone si distinguono essenzialmente a partire dall’estensione della materia propria dei loro corpi. Ciò però non vuol dire che l’anima non sia anche principio d’individualizzazione. Infatti, poiché l’anima di ogni persona è sempre l’anima di un determinato corpo, non è possibile una stessa persona con un altro corpo, a differenza di quanto afferma il dualismo platonico e le dottrine sulla reincarnazione20. Come vedremo quando tratteremo la morte, nel caso della persona umana, oltre alla materia segnata dalla quantità e all’anima personale, ci sono altri principi d’individualizzazione: l’Io o autocoscienza e la persona con le sue relazioni, fondati su un principio ancora più basilare, 19

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In Boethius De Trinitate, q. 4, a. 2. «La persona, in una certa natura, significa ciò che è distinto in quella natura, come nella natura umana (la persona) significa questa carne e queste ossa e questa anima, che sono i principi individuanti dell’uomo» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 4, c). 20

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Capitolo secondo

l’atto di essere personale, che è perciò il fondamento ultimo dell’unità e dell’integrazione della persona. Poiché il corpo è potenza, dipende dalle sue condizioni materiali che l’anima possa agire in modo adeguato e senza ostacoli, che riesca cioè a organizzare la materia, a condurre l’organismo al suo fine rendendolo un individuo compiuto. Le indisposizioni del corpo organico possono privarlo di alcune delle sue funzioni sensibili proprie (come nella cecità, sordità, insensibilità tattile) e, a volte, anche dell’attualizzazione della ragione e del volere. È chiaro, però, che quel determinato corpo personale, anche se impossibilitato, continua ad avere un’anima che, come tenterò di mostrare nel trattare dell’immortalità, è spirituale. D’altro canto, a differenza da quest’anima, la vitalità del corpo umano è in sé limitata. Dopo il massimo sviluppo dell’organismo (crescita, sensazione, capacità di generare) la formalizzazione completa del corpo – da parte dell’anima – non può più avvenire e inizia il declino fino alla sua indisposizione totale o morte. Oltre al rapporto forma-materia, fra l’anima e il corpo si dà una relazione di causalità efficiente, che permette di parlare dell’anima e del corpo rispettivamente come motore e mobile reali. Non vanno però interpretati in modo fisico, come nesso costante o sequenza irreversibile di due fenomeni, ma metafisico ovvero come partecipazione dell’essere della causa all’effetto. A differenza del motore artificiale che può essere disegnato, cioè esistere prima di essere prodotto ma non può funzionare finché non è stato costruito, il vivere degli enti corporei non è anteriore alla generazione, poiché non esiste la specie sola o forma di vita se non nella mente; l’atto di vivere è sempre corporeo e, dunque, individuale (la realtà pensata o virtuale non vive). L’anima è causa efficiente intrinseca in quanto, oltre a strutturare il corpo, lo dota di movimento e funzioni. Il carattere di causa efficiente che l’anima ha nella psicologia aristotelica porta lo Stagirita a sostenere, ad esempio, che la causa efficiente dell’embrione umano è l’anima del padre, la cui forza si trasmette al seme. All’anima paterna e al seme si dovrebbe aggiungere – sempre secondo Aristotele – l’azione del sole, perché esso è origine del movimento e del calore del mondo sublunare. La biologia e la genetica attuali ci mostrano, invece, che lo zigote non ha bisogno di una causa efficiente che non si trovi già in esso, ovverosia immanente. Infine, l’anima è anche il fine del corpo, come il vedere è il fine dell’occhio o il tagliare è il fine del coltello. Infatti, il corpo esiste per42

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Il presupposto dell’integrazione personale

ché ha vita, cioè perché possiede l’atto primo o anima. Ne consegue la definizione aristotelica: «corpo naturale organico che ha la vita in potenza». Perduto il suo fine o anima, il corpo si disorganizza e corrompe fino a diventare un insieme di sostanze inorganiche. In sostanza, fra anima e corpo vi è un rapporto analogo a quello esistente fra la statua e lo scultore nell’atto di scolpirla. Nel David di Michelangelo, ad esempio, troviamo quattro cause: la causa efficiente è lo scultore fiorentino, la causa formale è la figura del giovane pastore ebreo che lo scultore ha nella sua fantasia, la causa finale è lo scopo ornamentale con cui è stata scolpita, e la causa materiale è il blocco di marmo. Anche nel rapporto fra anima e corpo troviamo queste stesse quattro cause. Ciò nonostante, anche se possiamo distinguere diverse cause, nell’atto di vivere vi è un’identità fra tre cause, giacché la causa formale o anima è anche causa efficiente e finale del corpo, mentre la causa materiale è la materia dalla cui potenzialità è edotta l’anima. L’anima è, quindi, forma ma non alla maniera della figura della statua che può essere tolta senza cambiare il marmo; se si toglie l’anima, il corpo perde la sua struttura, le sue funzioni e il suo fine diventando un cadavere. Ciò significa che la vita non è qualcosa di accidentale, ma di sostanziale. In altri termini, «per i viventi l’essere è il vivere»21. I cambiamenti che generano e uccidono sono cambiamenti sostanziali, come quelli della statua scolpita o della sua distruzione. Ce ne sono altri, invece, accidentali, come quelli riguardanti il peso, colore, luogo, tempo, che modificano il corpo senza generarlo né corromperlo. Infatti, attraverso i suoi accidenti, il corpo cambia: cresce, matura e invecchia. L’anima quindi è causa formale, efficiente e finale del vivente, mentre il corpo è la sua causa materiale. Si tratta, però, di una causalità non fra due sostanze, ma fra due coprincipi: l’anima o principio immateriale e il corpo o principio materiale, giacché, sebbene abbia bisogno della materia per agire, l’anima dei viventi corporei è immateriale.

4. L’anima come principio vitale, senziente e spirituale Oltre a quella strutturale metafisica, il vivente ha un’unione operativa. Qual è il principio che spiega questo secondo tipo di unione? 21 ARISTOTELE,

De anima, 415b 13.

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Capitolo secondo

La filosofia aristotelica su questo punto è particolarmente interessante. Infatti, la seconda definizione aristotelica dell’anima fa riferimento al suo aspetto dinamico, ossia al fatto che essa è principio di tutte le operazioni. L’anima è «ciò per cui viviamo, sentiamo, ci muoviamo e pensiamo»22. Lo Stagirita, in primo luogo, individua negli esseri viventi quattro attività: nutrirsi, sentire, trasferirsi da un posto a un altro, e capire23; in secondo luogo, egli distingue l’anima o psychê da questi atti, considerandola un’attività più radicale che non dipende dallo svolgere più o meno operazioni, poiché un vivente non può essere più o meno vivo. Infatti, a differenza delle operazioni, l’atto di vivere non ammette gradi, giacché per il vivente vivere è essere. Se l’anima è atto primo o forma sostanziale, le sue operazioni sono atti secondi o forme accidentali24. L’anima non esaurisce la sua attività dotando di organi il corpo, giacché essi sono solo, a parere di Aristotele, gli strumenti che l’anima usa per agire. L’organo, quindi, implica sì un certo grado di formalizzazione o attualizzazione del corpo (la sua organicità appunto), ma non arriva a essere un atto del vivente; affinché ci sia, l’organo deve ancora avere una potenza in grado di diventare atto. Ciò accade già con gli organi della nutrizione e della conoscenza sensibile, a differenza di quelli legati alla pura vita dell’organismo come polmoni, reni, cuori, ecc. La potenza degli organi della nutrizione e della conoscenza sensibile è doppia: in quanto materiali, essi hanno, come accade negli altri organi, potenza passiva per ricevere gli stimoli fisici o chimici; in quanto non totalmente formalizzati dall’anima, essi hanno una potenza operativa o capacità di svolgere un’operazione immanente. La distinzione fra queste due potenze va messa in relazione con la distinzione fra i due atti del vivente: all’anima come atto primo corrisponde il corpo organico come potenza, e agli atti secondi del vivente, ovvero alle operazioni immanenti, corrisponde la potenza attiva degli organi, cioè le facoltà dell’anima. Affinché il vivente agisca è necessaria, quindi, oltre alla potenza passiva dell’organo (la sua buona disposizione) la potenza attiva e l’atto di questa potenza, il che nel caso della vista, ad esempio, richiede 22

Ivi, 1, 2c 1. Cfr. ivi, 413a 22. 24 Il termine atto secondo non è aristotelico, bensì tomistico (cfr. TOMMASO D’AQUINO, In II De Coelo, lect. 4, n. 334). 23

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Il presupposto dell’integrazione personale

la presenza della luce; con gli occhi chiusi o aperti in una stanza buia, nonostante essi siano sani, non si può vedere nulla, si vede solo oscurità, cioè assenza di luce. Vedere l’oscurità o sentire il silenzio è così l’esperienza della facoltà quando essa non è attualizzata. Gli organi sono, dunque, i principi prossimi delle operazioni, mentre il principio mediato è la potenza dell’anima. Per questo motivo, il fine dell’operazione riceve indistintamente il nome dell’atto dell’organo oppure del possesso del suo fine; ad esempio, l’atto dell’oggetto sonoro, che è il fine dell’atto del sentire, è chiamato sentire o suono25. Ne consegue che gli organi hanno meno perfezione ontologica rispetto alle loro operazioni, giacché esse sono i loro fini. E, a loro volta, le operazioni hanno come fine il vivere: non la semplice sopravvivenza, bensì la vita che corrisponde al loro atto perfetto o entelecheia26. Infatti, se ogni organo ha una perfezione o fine, che è il suo atto, l’insieme degli organi, cioè il corpo organico, ha anche una perfezione o fine, che è il suo atto ovvero l’anima. Perciò si può concludere che l’anima è l’atto degli atti degli organi. Si capisce adesso meglio perché Aristotele chiami l’anima entelecheia prima di un corpo naturale organico che ha la vita in potenza27. L’anima è atto non solo del corpo organico, ma anche degli atti realizzati attraverso di esso. Di conseguenza le due definizioni aristoteliche di anima sono complementari. Ecco perché le azioni vanno attribuite al vivente: non è l’occhio a vedere ma il vivente che vede per mezzo dell’occhio (gli atti sono dell’individuo vivente o sussistente). Certamente, ciò non significa che gli organi e le potenze non siano in un qualche modo veri agenti; ad esempio, la persona vede con l’occhio, non con l’olfatto; si tratta quindi di cause strumentali dotate di un carattere agente. Ne deriva che fra le potenze ci sia una certa gerarchia, per cui l’atto delle potenze superiori richiede sempre le operazioni delle potenze inferiori: nutrirsi, ad esempio, esige il funzionamento degli organi della masticazione e della digestione. 25

Cfr. ARISTOTELE, De anima, 426a 6. Cfr. ivi, 434b 20-25. 27 La molteplicità di operazioni degli organi si trova così unificata e finalizzata da un primo principio o anima. Sul concetto di entelecheia prima nelle definizioni aristoteliche dell’anima si veda H. ZUCCHI, Acto y potencia como principios o conceptos explicativos, in M. Sánchez-Sorondo (a cura di), L’atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Herder, Roma 1990, pp. 69-77. 26

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Capitolo secondo

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Nella persona ci sono però due potenze: ragione e volontà che, in se stesse, non sembrano essere legate ad alcun organo. Infatti, la capacità che la persona ha attraverso queste due facoltà di conoscere e amare tutte le cose, implica che ragione e volontà manchino di organo, giacché questo è sempre qualcosa di materiale che limita. L’ampiezza dell’oggetto di queste due potenze sembra suggerire che l’anima umana abbia nell’essere e nell’agire una relativa indipendenza dal corpo, il che la distinguerebbe nettamente dall’anima dei viventi non razionali. Se è così, il fine dell’esistenza umana dovrà trascendere la semplice vita del corpo e anche il mantenimento della specie. Per vagliare questa ipotesi, bisognerà studiare il vivere umano sia nelle sue caratteristiche fenomenologiche e metafisiche sia soprattutto nella sua genesi, struttura, integrazione e identità personale.

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Capitolo terzo

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La vita come integrazione

1. Caratteristiche fenomenologiche della vita Dal punto di vista fenomenologico, le caratteristiche essenziali della vita possono ridursi a sei: l’autosviluppo, l’integrazione, l’autoconservazione, la comunicazione, la temporalità e la riproduzione. a) L’autosviluppo è la modifica di una forma nel tempo. Infatti, il vivere si manifesta in primo luogo attraverso i cambiamenti ordinati di una realtà unitaria. Essi non si riferiscono primariamente alla crescita delle parti del vivente e dei suoi organi1, ma a una differenziazione progressiva – morfologica e funzionale – dal semplice e non organizzato al complesso e organizzato. Gli organi vegetativi e sensitivi dell’animale, ad esempio, sono differenti e appaiono in momenti diversi (lo stomaco, i polmoni, gli occhi, ecc.), pur avendo in comune l’appartenenza allo stesso vivente, in quanto parti di un solo organismo. L’autosviluppo è, dunque, una modifica guidata da un principio interno che attualizza le possibilità innate di quell’essere vivente definendone la forma esterna e l’organizzazione interna. L’insieme delle forze che producono questi cambiamenti è il principio configurante o pattern2, che agisce per esem1 La tesi contraria fu sostenuta, in particolare nei secoli XVII e XVIII, dai difensori del preformismo. Sulla questione si veda C. PINTO CORREIA, The Ovary of Eve: Egg and Sperm Preformation, University of Chicago Press, Chicago 1997. 2 Nella filosofia moderna e contemporanea il termine forma si usa poco, come conseguenza della critica razionalista ed empirista delle forme sostanziali. Dal secolo scorso, invece, è tornato a essere utilizzato soprattutto nella psicologia tedesca e inglese. Il termine tedesco Gestalt significa letteralmente configurazione o forma

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Capitolo terzo

pio sia nel seme del girasole sia nell’embrione del gatto. Quando questo principio si sarà espresso pienamente, raggiungerà il proprio fine: la pianta o il gatto adulto. Come abbiamo visto, tale principio configurante è chiamato da Aristotele entelecheia o anima, cioè la forma specifica. Il grado più elementare di autosviluppo corrisponde alla crescita del corpo, mentre quello superiore corrisponde alla differenziazione del circolo del vissuto proprio degli animali e dell’uomo3. Nel caso dell’animale l’espansione del circolo del vissuto è limitata dall’ambiente e dall’esperienza: le prime esperienze dell’animale rafforzano gli istinti e in certe occasioni, come nel cosiddetto imprinting, li attualizzano4. Nel caso dell’uomo il circolo del vissuto è praticamente illimitato sia per la flessibilità delle tendenze e la ricchezza affettiva umana sia per l’apertura all’essere e ai suoi trascendentali. Così, la condotta umana presenta un ampio ventaglio di possibilità: l’apprendistato, la condotta intuitiva che permette la comprensione dei rapporti e l’invenzione dei mezzi tecnici, la condotta volontaria che si trova alla base di ogni azione umana, ecc. Inoltre, attraverso l’agire, la persona sviluppa abiti etici, come le virtù, e dianoetici, come le scienze. b) L’integrazione è l’unione di ciò che non è originariamente collegato o lo è solo in nuce o in modo puramente formale, non dinamico. Come si deduce dalla definizione precedente, i diversi tipi d’integrain quanto riconoscibile, mentre quell’inglese pattern designa la configurazione in quanto riproducibile. 3 Il vissuto (participio passato di vivere) si può definire come l’illuminazione della vita dal di dentro, ossia come il rendersi conto, in maggior o minor grado, del proprio vivere. Il vissuto presuppone, innanzitutto, la comunicazione o il dialogo dell’essere vivo con la realtà circostante, attraverso gli istinti, nell’animale, e le tendenze, nell’uomo. L’espressione circolo del vissuto è stata coniata da Philipp Lersch (1898-1972), per il quale i fatti animici della pulsione, della percezione del mondo, del sentimento e della condotta attiva non sono elementi isolati, ma formano un insieme che si sviluppa attraverso un feed-back continuo (cfr. PH. LERSCH, La struttura del carattere, CEDAM, Padova 1950, specialmente il primo capitolo). 4 La teoria dell’imprinting è stata coniata da K. LORENZ. Nel saggio Io sono qui, tu dove sei (Mondadori, Milano 2007, pp. 21-23) racconta i suoi esperimenti con gli anatidi, attraverso i quali scoprì che alcuni animali, come le oche, sono in grado di un apprendimento innato e irreversibile l’imprinting (fissazione di un istinto innato su un oggetto), in virtù di cui si stabiliscono legami fra il primo essere vivente che si trova davanti a loro (in condizioni naturali, la madre) e le ochette appena uscite dall’uovo.

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La vita come integrazione

zione dipendono dai differenti gradi di unità. C’è un’integrazione fra elementi differenti che partecipano però di un’unità sostanziale, come quella esistente fra gli elementi del circolo del vissuto, e un’integrazione fra realtà sostanzialmente indipendenti, come quella che si dà in una famiglia o nella società. Il concetto d’integrazione consente così, da una parte, di evidenziare come si arrivi all’unione dei diversi elementi. Dall’altra, permette di capire il ruolo causale che quest’unione ha sulle differenze. Ad esempio, nonostante la loro diversità iniziale, tendenze, affetti e facoltà spirituali si integrano dando luogo all’agire umano. A sua volta l’agire causa delle modifiche nei differenti elementi del vissuto, nella persona e nella società. Nel realizzare in un certo senso l’unione di ciò che prima era più o meno separato, l’integrazione è simile all’unità originaria, per cui il cambiamento di uno degli elementi si ripercuote negli altri. Infatti, così come l’asportazione di un rene causa un aumento delle capacità funzionali dell’unico rene rimasto, l’azione eticamente buona, ad esempio, introduce in tutti gli elementi (tendenze, affetti, ragione e volontà) una certa connaturalità con il bene che protende a crescere. L’integrazione, dunque, è in grado non solo di portare l’unità esistente al perfezionamento, ma anche di dare luogo a delle novità, come le virtù, le relazioni interpersonali che superano la stessa unità sostanziale. Il grado maggiore d’integrazione e, dunque, di cambiamento si ha nella donazione di sé, mediante la quale si unificano tutte le tendenze, l’affettività e le potenze spirituali nell’amore. c) L’autoconservazione è la tendenza a custodire se stessi. Attraverso i processi di metabolismo, di autoregolazione – come la rigenerazione della coda della lucertola quando è tagliata –, l’organismo vivente cerca di fare fronte alla perdita di energia, ai danni e ai disturbi prodotti da processi, malattie o dall’influsso negativo dell’ambiente. Man mano che si sale la scala dei viventi ci si accorge che l’autoconservazione non consiste nella semplice sopravvivenza dell’individuo e della specie. Piuttosto essa ha come scopo il perfezionamento del singolo vivente. Nell’ambito del circolo del vissuto animale, ad esempio, l’autoconservazione si manifesta soprattutto nella memoria, che è in grado di conservare le esperienze passate aumentando così la capacità di avere dei vissuti. Nell’uomo l’autoconservazione si realizza anche tramite le 49

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Capitolo terzo

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virtù etiche e dianoetiche. Le prime offrono la facilità e il piacere che derivano dalla connaturalità con il bene, mentre le seconde aumentano la capacità di conoscere le cause della realtà, permettendo di vivere e di trasformare il mondo in accordo con la dignità della persona. d) La comunicazione è entrare in rapporto con l’alterità. L’influsso che l’ambiente ha sull’autoconservazione indica un’altra caratteristica del vivente, la comunicazione. Le forme più elementari di comunicazione sono i processi metabolici tramite i quali avviene uno scambio di sostanze chimiche fra il vivente e l’ambiente: da una parte l’assimilazione di nuove sostanze, che permettono di compensare il logorio prodotto nell’organismo dalle diverse attività del vivente e, dall’altra, l’eliminazione di quelle che non sono più utili o risultano nocive. Un’altra forma più complessa di comunicazione è l’attività che si produce nel vivente come reazione all’ambiente: l’accelerazione del ritmo cardiaco di fronte a qualcosa che desta paura, il movimento di avvicinamento al cibo, l’eliotropismo delle piante (ossia la reazione direzionale verso il sole), l’adattamento del metabolismo alle circostanze climatiche (ad esempio le mandrie che possono vivere tre o quattro giorni nel deserto senza bere acqua)5. Questo tipo di attività non è un puro meccanismo di reazione a uno stimolo o a una data situazione, come sostengono i comportamentisti, ma una relazione qualitativa tra l’ambiente e l’essere vivo, che denota l’esistenza di meccanismi di autoregolazione di un sistema rispetto a variabili esterne6. Nel caso dell’uomo la comunicazione trascende l’ambiente stesso attraverso la conoscenza della realtà in quanto tale e l’uso del linguaggio, che permette la formalizzazione e la trasmissione del sapere, delle scienze e della tecnica. Inoltre, tramite il dialogo interpersonale la persona partecipa più pienamente al mondo umano, diventando consapevole della sua responsabilità sociale.

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Per lo studio del movimento dal punto di vista funzionale si veda F.J.J. BUYTENDIJK, Attitudes et mouvements. Etude fonctionnelle du mouvement humain, Desclée de Brouwer, Paris 1957, p. 57 e sgg. 6 Nel 1932, il fisiologo W.B. Cannon (1871-1945), analizzando la tendenza dei mammiferi – studiata anni prima da Claude Bernard (1813-1878) – a mantenere una composizione costante del sangue, eseguì per la prima volta una descrizione biologica di un sistema automatico di regolazione, che chiamò homeostasis (cfr. W.B. CANNON, The Wisdom of the Body, Norton, New York 1932).

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La vita come integrazione

e) La temporalità o proprietà di ciò che sottostà al cambiamento. Oltre al tempo esterno o fisico, l’essere vivente ne ha uno interno. A differenza della pietra, che non può assumere il tempo, il vivente è una realtà che si temporalizza in ogni momento, cioè si serve del tempo per tendere alla sua perfezione. Il vivente, tuttavia, non è puro divenire perché nel suo presente si stabilisce sempre uno stretto collegamento tra passato e futuro. Per questo l’adulto non può ritornare a essere un bambino, né questo può diventare un vecchio se non una volta superata l’adolescenza e la maturità. Ciò è dovuto al fatto che, da una parte, il presente dell’adulto contiene la sua infanzia come un elemento costitutivo; dall’altra, il presente del bambino è una preparazione immediata alla vita dell’adolescente ma non dell’anziano. Oltre alla temporalità biologica, nella persona esiste sia una temporalità psichica sia, soprattutto, spirituale. Entrambe sono caratterizzate da una certa reversibilità, come avviene nel fenomeno della regressione in ambito psichico e della conversione in quello spirituale. Nel primo caso la persona, ad esempio, di fronte ad una crisi esistenziale che non riesce a superare si rifugia in una tappa psichica precedente già superata7; nel secondo, mediante l’amore essa è in grado di dare un nuovo senso alla totalità della vita. L’amore, dunque, è la forma superiore di perfezionamento acquisita nel tempo. f) La riproduzione e l’eredità possono essere intese come la conservazione e la trasmissione della vita della specie a nuovi individui. Esse servono a controbilanciare la legge della temporalità biologica, che nei viventi corporei tende verso la morte. Nell’uomo la procreazione è una delle condizioni necessarie del processo di trasmissione alle nuove generazioni che, oltre ad essere vitale, è culturale e relazionale. Infatti, l’eredità bio-psichica trasmessa mediante la generazione e, soprattutto, quella culturale, è la via attraverso la quale le esperienze individuali, il sapere, le arti e la tecnica, crescono sempre di più nonostante la morte dei singoli individui. La persona, dunque, ha bisogno della tradizione e della cultura non solo per sopravvivere, ma soprattutto per perfezionarsi.

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Per uno studio delle diverse tappe nello sviluppo della vita umana si veda E. ERIKSON, I cicli della vita, Armando, Roma 1999.

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Capitolo terzo

In sostanza, fra tutte le caratteristiche fenomenologiche che abbiamo preso in considerazione, l’integrazione sembra essere centrale giacché per realizzarla si richiede la presenza e l’unione di tutte le altre.

2. Nozione metafisica di vita

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Gli aspetti fenomenologici del vivere appena esaminati fanno riferimento a un vivere concreto che è sempre un modo di essere, poiché per i viventi vivere è essere. Il vivere ha due aspetti ontologici complementari: immanenza e trascendenza. a) Immanenza. La vita è immanenza o intimità attiva. Nell’attuarsi l’essere del vivente non si disperde: non si allontana da se stesso, ma s’identifica con se stesso. I suoi atti, invece di sfuggirgli via, rimangono in lui e lo perfezionano, rafforzando la sua unità originaria. Si capisce così come ogni attentato all’unità lo sia anche al vivere e come questo avvenga a diversi livelli: biologico, psichico, personale, familiare, comunitario, ecc. Crescita e nutrizione rimangono in modo assai imperfetto nell’agente poiché restano nella corporeità mediante la crescita fisica e l’assimilazione delle sostanze. Le sensazioni invece rimangono nella coscienza rendendo possibili atti di maggiore immanenza, come quelli del senso comune, dell’immaginazione e della memoria. La conoscenza intelligibile rimane ancora più profondamente delle sensazioni, cioè a livello dello spirito, dando luogo al sapere. L’immanenza è ancora più profonda nelle azioni umane, poiché esse trasformano la persona in moralmente buona. Ad ogni modo, le azioni più immanenti sono quelle che generano rapporti interpersonali perfettivi, come il matrimonio, la paternità o maternità, l’amicizia. Quando sono virtuose, esse possiedono un grado molto elevato d’interiorità e d’influsso sulla persona, che diventa un buon marito o una buona moglie, un buon padre o una buona madre, un buon amico o una buona amica. Vi è immanenza anche rispetto ai fini degli atti del vivere, come l’assimilazione del cibo, le sensazioni, i ricordi, le immaginazioni, i concetti, le volizioni, le virtù, le relazioni interpersonali, ecc. Questi fini implicano una maggiore o minore perfezione a seconda del loro grado d’immanenza. Ad esempio, c’è più perfezione nel comprende52

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La vita come integrazione

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re un comandamento che nell’udirlo, nel metterlo in pratica che nel comprenderlo e ancora di più nel possedere la virtù dell’obbedienza. Comunque, l’obbedienza diventa compiuta nella relazione filiale ben vissuta, informata dalla pietas e dalle altre virtù sociali (onore, sincerità, fiducia, ecc.). Infine, l’immanenza si manifesta pure nell’emergenza di novità: nella nutrizione gli elementi sono assimilati, nella percezione le sensazioni vengono unite e strutturate, nel ragionamento le premesse si uniscono nella conclusione, nell’amore le identità personali sono generate e rigenerate8. b) Trascendenza è l’apertura al mondo e agli altri. L’immanenza non è una sorta di chiusura in sé, bensì un arricchimento della propria identità mediante ciò che non si è. Complementare all’immanenza è, perciò, la trascendenza. C’è un rapporto di diretta proporzionalità fra immanenza e trascendenza: più un’azione è immanente, più essa trascende. La trascendenza non è altro che sovrabbondanza d’immanenza. Ci sono diversi gradi di trascendenza che corrispondono ai gradi di immanenza. Nel vegetale la trascendenza non va oltre la comunicazione vitale con il suo intorno fisico. Il vegetale è in grado di trascendere se stesso entrando in rapporto con le realtà di cui si nutre: sostanze, luce, ecc. La trascendenza dell’animale non è semplicemente rapporto di comunicazione legato alla nutrizione, ma è anche un superamento della propria forma attraverso l’esperienza sensibile del proprio ambiente. Infine, la trascendenza personale consiste nell’essere-con gli altri-nel mondo. Nel caso dell’uomo, le tendenze umane, la ragione e la volontà permettono che egli sia aperto a tutta la realtà. La trascendenza in questo caso è completa, poiché, oltre a superare la propria forma dal punto di vista sensibile (come nell’animale), la oltrepassa dal punto di vista intellegibile. L’uomo può avere in sé tutte le cose, il che costituisce il livello più elevato di trascendenza, perché la sua immanenza è piena, ossia spirituale – non in senso religioso ma filosofico d’immaterialità somma. La trascendenza spirituale consente, perciò, di “superare la propria vita come fine”. Lo scopo della persona umana non è la propria vita come accade negli animali, né l’umanità poiché l’uomo conosce la 8

Come afferma l’Aquinate, «quanto più una natura è elevata, tanto più intimo a essa è ciò che ne emana» (TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, IV, c. 11, n. 1).

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Capitolo terzo

propria specie, e questo significa trascenderla ovvero essere più della specie. La conoscenza e la volontà umana si aprono verso l’Assoluto, un fine che trascende la persona umana. Perciò, quando non si vuole riconoscere quest’aspirazione, l’uomo si trova di fronte al controsenso di una trascendenza senza nulla da trascendere. Ciò spiega perché, secondo Sartre, la libertà – il nome che egli dà a questa trascendenza – è un assurdo9. Lungo il saggio tenterò di indicare in che cosa consista quest’apertura all’Assoluto e quale sia il suo ruolo nella costituzione dell’identità umana e delle relazioni personali.

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3. I gradi di vita come gradi d’integrazione La visione greco-cristiana dell’universo come cosmo ordinato secondo una gerarchia rende possibile il concetto stesso d’integrazione. Infatti, oltre ad esistere un più e un meno qualitativo fra i gradi dell’essere e, di conseguenza, fra i viventi, esiste – secondo l’Aquinate – un’inclinazione di ciò che è inferiore verso le forme superiori: così le operazioni vegetative tendono verso la sensazione, questa verso la conoscenza intelligibile, e quest’ultima verso Dio10. Tale inclinazione porta all’unione fra i diversi gradi di essere: nell’animale, ad esempio, si dà l’unione fra ciò che è vegetativo e sensitivo e nell’uomo fra ciò che è sensitivo e razionale. Perciò nei gradi di vita più elementari c’è già un inizio d’integrazione. Possiamo pertanto affermare che ci sono tanti gradi di vita quanti sono i gradi d’integrazione. Ne deriva la seguente proporzione: a una maggior integrazione corrisponde un maggior grado di unità e, dunque, di vita, giacché la vita e l’unità si convertono. La pura semplicità divina è il grado massimo di vita e di unità, mentre in tutti gli altri gradi di vita l’unità iniziale, che è sempre di composizione, si perfeziona attraverso l’integrazione.

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Credo che ateismo e agnosticismo, oltre ad essere due «posizioni deboli e minoritarie» (cfr. J.M. BURGOS, Antropología: una guía para la existencia, Palabra, Madrid 2003, p. 395), sono anche assurde perché portano in sé la contraddizione profonda fra una vita vissuta come se avesse un qualche senso e la rinuncia ad esso. 10 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, De veritate, 9, I.

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Secondo i gradi di integrazione, possono distinguersi tre tipi di vita11: a) La vita vegetativa implica l’integrazione vitale dell’ambiente fisico in cui il vivente si trova inserito. L’ambiente ha senso solo riguardo al vivente: non si può dire che la pietra ha ambiente, poiché essa non è in grado di integrarlo. Il vegetale lo integra attraverso le sue operazioni vitali di crescita, nutrizione e riproduzione. Crescita, nutrizione e riproduzione sono i tre gradi d’integrazione di cui è dotato il vegetale. La crescita è il grado basilare mediante cui il vivente acquista il numero e la proporzione di parti che gli sono convenienti. Crescere dalla terra verso il cielo è simbolo dell’essere peculiare del vegetale, che tende a manifestarsi fisicamente, ossia a venire alla luce. Nel vegetale non c’è, invece, una manifestazione interiore del proprio vivere o coscienza: il vegetale esiste in sé ma non è per sé neppure a un livello sensibile. Nella nutrizione, cioè nell’assimilazione delle sostanze per incorporarle all’unità del vivente, c’è un’integrazione superiore: l’altro (sostanze della terra, luce) è assimilato e fatto diventare vita propria. Non si tratta solo di una relazione fisica (contiguità), o chimica (commistione), ma soprattutto vitale: le sostanze che non sono l’albero passano a far parte della sua vita perché sono assorbite attraverso l’atto dell’assimilazione preparato dai processi metabolici. Tale sostituzione non è come il cambio di luogo dei mattoni, che li lascia inalterati. La nutrizione non è una kinesis o movimento, bensi una praxis, cioè un atto dello stesso vivente in virtù del quale esso può continuare a vivere. La riproduzione, che è il grado superiore d’integrazione, può essere considerata da due prospettive: da quella del generante e da quella del generato. Riguardo alla prima, la generazione è un atto transitivo; riguardo, invece, alla seconda è immanente poiché coincide con l’origine del vivere. Lo scopo della riproduzione è la perennità della specie: mediante la generazione, l’individuo tende a diventare quercia, gatto, ecc., nel modo più perfetto possibile. L’unità della specie non è meramente numerica, ma soprattutto genetica: la condivisione di uno stesso patrimonio genetico che permette la riproduzione fra i suoi individui. In conclusione, crescita, nutrizione e riproduzione sono attività della 11

Cfr. ARISTOTELE, De anima, II, 3, 414a 29 - 415a 13.

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Capitolo terzo

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vita vegetativa che hanno come principio materiale determinati organi corporei e come fine lo stesso corpo organico12. b) Vita sensitiva. Oltre alle attività vegetative, la vita sensitiva è in grado di integrare nel proprio essere altre forme sensibili, come anche il movimento che da esse procede. Nell’animale questa integrazione si realizza mediante l’istinto che scaturisce nei confronti del bene sensibile, il cui possesso è sperimentato come piacere13. A differenza del vegetale, l’animale è per sé anche se in modo molto limitato: oltre a vivere, conosce sensibilmente di essere in vita. Perciò, negli esseri dotati di vita sensitiva, la nutrizione, la riproduzione e la sensazione sono piacevoli, cioè corrispondono ad azioni della specie sperimentate dall’individuo come perfettive. Nell’animale, comunque, l’integrazione dell’alterità è puramente sensibile: tutte le sue facoltà conoscitive e appetitive sono organiche, poiché il loro principio o anima non trascende la formalizzazione degli organi sensibili, in particolare del cervello. Certamente, la sensibilità indica un grado maggiore d’immaterialità, quella cioè corrispondente all’intenzionalità: l’animale possiede intenzionalmente la realtà sensibile e tende verso di essa. Negli animali superiori c’è una maggiore indeterminazione e apertura nelle loro operazioni, come si osserva nei comportamenti sociali, di cooperazione, gioco, ecc., dei cani14. Nonostante abbia un comportamento intenzionale, l’animale agisce sempre attraverso organi, per cui la distruzione del corpo equivale alla morte dell’individuo, ma non necessariamente della specie. c) Vita razionale o relazionale. La vita vegetativa e quella sensitiva trovano la loro integrazione nel grado più alto di vita, cioè quella razionale. Oltre ad essere la forma di un corpo vivo e sensibile, il principio della vita umana è spirituale, in grado di trascendere pienamente la materia e, quindi, anche le operazioni sensibili e il piacere legato a esse. L’uomo realizza operazioni, come la conoscenza intelligibile e la volizione, che implicano la capacità di cogliere l’universale e l’essere di cui 12

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 78, a. 2, c. Cfr. ivi, I-II, q. 2, a. 6, ad 1. 14 Sul tema dell’intenzionalità dell’animale si veda J.J. SANGUINETI, Filosofia della mente. Una prospettiva ontologica e antropologica, EDUSC, Roma 2007, pp. 61-66. 13

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La vita come integrazione

parla la metafisica e altre, come la conoscenza e l’amore personale, che implicano la capacità di cogliere l’essere personale. Ecco perché, nella persona umana, anche quello che è corporeo e sensibile partecipa non solo di ciò che è vegetativo ma anche di ciò che è spirituale. Ad esempio, il bipedismo dell’uomo è imparentato con la crescita del vegetale verso la luce, mentre lo sguardo del viso umano lo è con l’aprirsi del fiore, giacché in esso si manifesta la persona. C’è però una differenza importante in questo paragone con il vegetale: nella persona la testa ha non solo la funzione nutritiva delle radici del vegetale, ma soprattutto quella di governare ciò che è inferiore. Nello sviluppo del cervello animale si scopre già l’esistenza di un organo in grado di coordinare le funzioni vegetative e sensitive. Ciò nonostante tale coordinamento è imperfetto: non arriva al governo di sé che l’uomo possiede attraverso l’uso della ragione e della volontà. L’autodominio, dal canto suo, permette alla persona di possedersi, e ciò le rende possibile dare se stessa. Proprio nel dono di sé si manifesta il massimo grado d’integrazione. Osserviamo così come le funzioni corrispondenti ai diversi gradi di vita sono collegate da un principio unico, in grado di dar loro unità e, perciò, di permettere l’integrazione delle loro funzioni. Poiché è di natura assolutamente immateriale, la vita razionale ha come scopo non la sopravvivenza della specie o il semplice piacere, bensì una vita compiuta secondo il grado superiore d’integrazione: il possesso delle virtù che, attraverso l’autodominio, permette di dare se stessi. La cultura culinaria e l’istituzione familiare, ad esempio, implicano già che nella persona le operazioni vegetative vadano al di là della sopravvivenza dell’individuo e della specie. Infatti, nutrizione e procreazione, oltre ad essere piacevoli, possono diventare azioni perfettive della persona, quando sono alla base di una vita familiare impregnata di amore. In questo senso gli atti più basilari assumono un significato personale, e questo è vero in particolare per la procreazione. A differenza della riproduzione animale, la procreazione non consiste nel dare origine a un semplice individuo della stessa specie, bensì a una persona, ossia a un essere che è fine in se stesso, cioè è per sé in modo totale. L’uomo è il solo vivente corporeo in grado di vivere in senso perfetto, cioè di essere per sé donandosi.

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Capitolo terzo

4. Biogenesi

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Dopo aver spiegato le caratteristiche fenomenologiche e ontologiche del vivere, si deve parlare della biogenesi, ossia dell’origine della vita. Certamente non lo farò da un punto di vista scientifico, bensì filosofico, cioè teoretico. Prima però si deve partire dalle diverse spiegazioni che sono state date lungo la Storia. a) Le spiegazioni sull’origine della vita Esse possono essere ridotte a tre tipi fondamentali: 1) la vita proviene da qualcosa d’inferiore; 2) da qualcosa di superiore; 3) da qualcosa di uguale alla vita stessa15. 1) La prima spiegazione è tipica dei diversi tipi di materialismo, come l’atomismo di Democrito, il meccanicismo di Cartesio e dei suoi successori16 o quello più recente di un progetto scientifico per produrre la vita17. In tutti questi casi la vita sarebbe considerata una proprietà della materia. La spiegazione materialistica del vivere commette due errori. Il primo è logico, perché sostiene che ciò che è inferiore può dare origine per se stesso a ciò che è superiore. Il secondo è metafisico: confonde il movimento fisico con il vivere e le sue operazioni. Ma la vita, come abbiamo visto, non è un processo ma auto-movimento. Per parlare di vita, non basta formalizzare esternamente la materia, come se da un certo grado di formalizzazione potesse poi emergere, come un ulteriore grado, la vita; in ciò consiste il carattere utopico di una certa ricerca 15

Nella discussione delle spiegazioni dell’origine della vita prendo spunto dal saggio di L. POLO, Lecciones de psicología clásica, EUNSA, Pamplona 2009, capitolo VI. 16 Cfr. E.J. DIJKSTERHUIS, Il meccanicismo e l’immagine del mondo dai presocratici a Newton, Feltrinelli, Milano 1980. In Cartesio il meccanicismo della res extensa convive con la sua credenza creazionistica. Invece negli illuministi come La Mettrie, Diderot, Helvétius, D’Holbach, ecc., il meccanicismo diventa una spiegazione puramente materialistica. 17 Nei laboratori di biologia molecolare del Medical Research Council di Cambridge si è riuscito a produrre il Xna, ossia Acido Xeno-Nucleico. Questa catena di polimeri sintetici è in grado di immagazzinare e trasmettere informazioni genetiche e, quindi, capace di eredità ed evoluzione proprio come avviene naturalmente con l’Rna ed il Dna (V. PINHEIRO ET AL., Synthetic Genetic Polymers Capable of Heredity and Evolution, «Science», 20 (2012), pp. 341-344).

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robotica, che tenta di creare automi in grado di vivere, sentire e anche di pensare umanamente. Perché si dia la vita si richiede, come abbiamo studiato, che la formalizzazione non sia estrinseca. Siccome la vita non può essere prodotta esternamente, l’unica cosa che si può fare è imitarla, formalizzando una materia che aveva già però una forma previa. 2) La seconda spiegazione, cioè che la vita proviene da qualche cosa di superiore, è tipica di una visione “intellettualistica”, nel senso che la vita può essere spiegata solo a partire da una causa superiore, come l’intelligenza. Questa tesi possiamo trovarla in Aristotele, come anche nei sostenitori dell’intelligent design. Secondo lo Stagirita, poiché i processi materiali non sono origine totale della vita, hanno bisogno di una causa superiore, come il sole; il ranocchio, ad esempio, è generato dal fango e dal movimento circolare del sole18. Nel caso del disegno intelligente, la vita è considerata l’effetto immediato dell’azione di un’Intelligenza divina. Anche se a volte si confonde creazionismo e disegno intelligente, in realtà sono due tesi differenti, per cui si può essere creazionisti senza accettare per l’apparizione della vita l’azione di una causa superiore. Anzi, il disegno intelligente è difficilmente compatibile con l’idea di un Dio che si serve di cause seconde e contingenti, permettendo che esse agiscano molte volte in modo casuale19. Parlare di disegno intelligente significa, invece, considerare la creazione alla stregua delle nostre opere, che, nella misura in cui sono intelligenti, sono contrarie al caso, che non è razionale. È proprio la contingenza del creato a permettere l’emergenza degli 18

Cfr. ARISTOTELE, De generatione et corruptione, XIII, 317a 32-b 33. Per quanto possa sembrare sorprendente questa posizione dello Stagirita è pure giustificabile da un’osservazione di taluni fenomeni naturali. Ad esempio da una carogna di animale, apparentemente senza principio vitale, si osservava la generazione delle larve, la causa della quale era ricondotta all’azione del sole che non solo faceva corrompere la carcassa, ma anche emergere o generare nuova vita. 19 Come sostiene Facchini, «con il ricorso a interventi esterni suppletivi o correttivi rispetto alle cause naturali viene introdotta negli eventi della natura una causa superiore per spiegare cose che ancora non conosciamo, ma che potremmo conoscere. Ma così non si fa scienza. Ci portiamo su un piano diverso da quello scientifico. Se il modello proposto da Darwin viene ritenuto non sufficiente, se ne cerchi un altro, ma non è corretto dal punto di vista metodologico portarsi fuori dal campo della scienza pretendendo di fare scienza» (F. FACCHINI, “Osservatore Romano”, 16-I-2006).

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Capitolo terzo

esseri e delle loro proprietà. Così, l’allontanamento dall’equilibrio del sistema e il suo riordino danno luogo a una nuova realtà con funzioni emergenti; ad esempio, l’apparizione della vita è legata all’acqua e questa alla possibilità di unione fra le molecole di ossigeno e idrogeno. Non si può però affermare che l’esistenza dell’ossigeno e dell’idrogeno sia la causa della vita. Come neppure può sostenersi scientificamente che l’unione delle molecole sia causata da Dio. 3) La terza spiegazione, cioè la vita dipende da qualcosa di uguale, cioè dalla stessa vita, possiamo trovarla anche se in modi diversi, in una concezione panpsichista o vitalista della realtà. Secondo, ad esempio, un certo tipo di ecologia (deep ecology) alla quale possono aggiungersi correnti di pensiero come la New Age, la totalità dell’universo sarebbe, per fare un paragone, come il pianeta del famoso film Avatar: una realtà viva20. Se così fosse, non sarebbe spiegabile perché la vita non esiste dagli inizi e neppure perché non si trovino segni di essa negli altri pianeti finora scoperti. Dal canto suo, la concezione vitalista difende l’esistenza di un principio vitale, che si trasmetterebbe attraverso la generazione21. L’origine della vita non può però essere la generazione. La generazione spiega l’origine intraspecifica degli individui. L’individuo appartiene sempre a una specie, cioè partecipa a una forma di vivere, mentre la vita deve avere un’origine assoluta, cioè di tutti i suoi generi e di tutte le sue specie: dai batteri fino agli ominidi. In conclusione, anche se le tre spiegazioni permettono di cogliere alcuni aspetti, non sono in grado di offrire una teoria complessiva della vita. Infatti, la spiegazione a partire da ciò che è inferiore tiene conto solo della causa materiale, quella a partire da ciò che è superiore tiene 20 Anche se il panpsichismo ha avuto molteplici varianti, dalla seicentesca scuo-

la platonica di Cambridge allo spiritualismo di Ravaisson nel XX secolo passando dalla monadologia leibniziana, tutte hanno in comune il considerare la vita l’essenza stessa della materia. Una versione attuale del panpsichismo si trova in G. STRAWSON, Realistic Monism: Why Physicalism Entails Panpsychism, «Journal of Consciousness Studies», 13 (2006), pp. 3-31. 21 Il vitalismo nella sua forma filosofica distingue fra le leggi fisiche e chimiche e quelle biologiche; queste ultime dipendono da un principio non materiale, che molte volte è assimilato allo spirito, come la vis vitalis della Scuola di Montpelier o l’élan vital di Bergson. Si potrebbe parlare anche di un nuovo vitalismo che ha la cellula come principio (cfr. R. VIRCHOW, Vecchio e nuovo vitalismo, Laterza, Bari 1969, pp. 167-168).

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conto della causa efficiente e finale e quella che parte da qualcosa di uguale tiene conto solo della causa formale. Per dar ragione del fenomeno della vita non basta però una causa o un’altra, si richiede la totalità delle cause, che perciò vanno comprese in modo nuovo: non più come pura materia o atto o fine esterno, bensì come elementi sistemici nel far apparire una nuova realtà. Vediamolo più da vicino. La causa materiale della vita è l’ex quo o il prima della vita, ossia la sua temporalità; la causa efficiente è l’anima edotta dalla materia o il dopo; la causa formale è la struttura intima o anima e, infine, la causa finale è il dopo temporale che però viene ontologicamente prima permettendo così di ordinare le altre cause, poiché è la causa delle cause. L’esistenza della causalità finale fa capire che il caso, nonostante sia reale, rientra in un ordine superiore. Per questo motivo la presunta origine dei viventi a partire da una materia non vivente ma che contiene in sé la possibilità di diventare animata in determinate condizioni, ossia l’ipotesi dell’emergenza della vita sembra che dovrebbe essere vagliata dalla scienza. Una volta eliminata l’opposizione fra la creazione e l’esistenza del caso, è possibile intuire il valore positivo del caso nella genesi dell’universo e della vita, poiché ci sono indubbi vantaggi nel creare un universo, che nonostante le sue leggi e la sua finalità, è caratterizzato da possibilità, probabilità e imprevedibilità22. b) Origine delle specie ed evoluzionismo Nelle forme sostanziali incontriamo una molteplicità di tipi. Infatti, secondo l’assenza o presenza di automovimento e, all’interno di quest’ultima, secondo i gradi d’immanenza, abbiamo sostanze inorganiche, piante, animali, uomini. A differenza delle sostanze inorganiche, quelle organiche ammettono diversi gradi di vita che, sebbene presuppongano i gradi precedenti, sono contenuti in esse solo come possibilità. Perciò l’apparire di ogni forma di vita implica una novità riguardo a quanto esisteva prima. Comunque, unicamente con la comparsa dell’uomo si può parlare di una novità assoluta, poiché la sua trascendenza nei confronti degli altri esseri è totale. Infatti, a differenza delle altre sostanze organiche e non organiche, il fine dell’uomo non è 22

Per una definizione scientifica di caso, compatibile con il creazionismo, si veda D. BARTOLOMEW, Dio e il caso, SEI, Torino 1987, pp. 9-36.

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Capitolo terzo

l’universo, perché questi non è semplicemente l’individuo di una specie in più, come invece sostiene l’ecologia profonda; egli è persona, fine in se stesso, capace di autopossesso e di donazione. E se può dare se stesso, deve farlo, giacché il potere in quest’ambito non è una semplice possibilità, ma qualcosa di necessario per perfezionarsi come persona. Ecco perché l’evoluzione serve solo a preparare la causa materiale dell’uomo o processo di ominizzazione, non però la causa formale e finale o umanizzazione. D’altro canto, il concetto di specie, che si trova legato intimamente alla teoria evoluzionista, può essere interpretato in un duplice modo. In primo luogo, da un punto di vista filosofico, la specie è l’essenza di una data realtà, che viene colta dalla sua definizione. Essa è in relazione con altri due concetti: il genere e la differenza specifica. Infatti, secondo Aristotele, per definire qualcosa devo indicare il genere prossimo e la differenza specifica23. Il genere, o «soggetto cui si attribuiscono le opposizioni e le differenze specifiche»24, comprende perciò diverse specie; ad esempio, il genere felino comprende il leone, la tigre, il gatto. La differenza specifica, dal canto suo, è l’elemento essenziale, comune a tutte quelle specie che partecipano di uno stesso genere; ad esempio, il maiale, che condivide l’essere mammifero, quadrupede, ha come differenza specifica la suinità, il che lo distingue degli ovini, come la pecora25. Perciò può dirsi che, filosoficamente parlando, la specie è indicata da una differenza specifica all’interno di un genere. Di fronte a quest’impostazione logica del concetto di specie, c’è quella metafisica in cui la specie non si aggiunge esternamente al genere ma rappresenta “il nucleo” che individualizza il modo di essere del genere. Pensiamo al caso dell’uomo: uomo = animale (genere) + razionale (differenza specifica). Potremmo pensare che l’uomo sia uguale all’animale in tutto ciò che è animale e sia differente in tutto ciò che riguarda la razionalità; questa sarebbe una visione logica. Invece, proprio perché la razionalità costituisce il “nucleo” dell’essere umano, il corpo, le tendenze e le sensazioni sono già impregnati di ragione. Cioè, il no23

Cfr. ARISTOTELE, Topici, 24 ARISTOTELE, Metafisica,

I, 8, 103b15. V, 28, 1024a30. 25 Anche se mi servo di categorie aristoteliche, nel parlare della suinità come differenza specifica del maiale e del cinghiale, mi discosto dal pensiero aristotelico, giacché secondo Aristotele noi ignoriamo le differenze specifiche delle sostanze naturali.

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stro essere animale mammifero è razionale. Si pensi, infatti, al rapporto d’amore che ha una madre con il proprio neonato, differente da quello che l’animale femmina ha con i suoi cuccioli. In secondo luogo, dal punto di vista biologico, la specie, in quanto legata alla trasmissione di certi caratteri per via genetica, fa riferimento alla generazione, che diventa possibile solo fra gli individui della stessa; perciò, si considera ad esempio che, nonostante abbiano la stessa differenza specifica o equinità, asino e cavallo appartengano a due specie biologiche distinte, giacché il mulo e la mula – risultato dell’incrocio fra asino e cavalla – sono sterili. Comunque, secondo Mayr, le specie differenti non s’incrociano in condizioni naturali, lo fanno solo quando si trovano in cattività e allora possono anche essere fertili26, come accade con l’incrocio fra il grizzly o orso grigio, che è una sottospecie dell’orso bruno, e l’orso polare, nonostante siano considerati appartenenti a due specie distinte. Anche nel caso delle specie biologiche ci sono differenti teorie che tuttavia possono ridursi a due fondamentali: 1) la teoria fissista; 2) la teoria evoluzionista. 1) La teoria fissista sostiene che non è possibile che una specie si modifichi. Ognuna si manterrebbe attraverso la generazione. In questo scenario la vita si troverebbe differenziata fin dagli inizi in una serie di specie, che sono state sempre le stesse. Aristotele, ad esempio, nel parlare delle specie dice che esse sono eterne come i numeri. La ragione di ciò si trova nel fatto che, poiché non è dell’ordine della causa materiale, la specie non dipende dagli individui e dalla loro generazione ma accade piuttosto il contrario: sono gli individui ad appartenere alla specie27. Con gli sviluppi della biologia, della zoologia e della paleontologia, 26 Sul concetto biologico di specie si veda ERNST MAYR, Systematics and the Origin of Species from the Viewpoint of a Zoologist, Columbia University Press, New York 1942, pp. 102-126. Una spiegazione più recente del concetto di specie si trova in P. MOEHLMAN (ed.), Equids: Zebras, Asses and Horses. Status Survey and Conservation Action Plan, IUCN, Cambridge 2002, p. 95 e sgg.). 27 Anche se in Aristotele ci sono elementi fissisti, il fissismo, come tale, non appare fino a Carl Linneo (1707-1778) e il Conte Buffon (1707-1788), come reazione di fronte al trasformismo; «in questo senso – afferma Gilson – si potrebbe dire che è il trasformismo che ha creato il fissismo» (E. GILSON, Biofilosofia. Da Aristotele a Darwin e ritorno. Saggio su alcune costanti della biofilosofia, Marietti, GenovaMilano 2003, p. 53).

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l’ipotesi fissista diventa meno plausibile. Infatti, la scoperta della comparsa e della scomparsa di specie animali lungo il corso dei millenni, come anche l’esistenza di animali che sembrano appartenere a differenti specie, ad esempio, l’ornitorinco, il canguro, e i mammiferi marini (la balena e il delfino), pone grossi problemi a questa ipotesi. 2) La teoria evoluzionista. Più che di una teoria si tratta di una galassia di ipotesi differenti che vanno dalle rationes seminales degli stoici e di Sant’Agostino D’Ippona (354-430) fino al preformismo passando per il darwinismo. Probabilmente per evitare che le sue idee fossero confuse con queste teorie, Charles Darwin (1809-1882) non usò mai nei suoi scritti il termine evoluzione28. Il primo a identificare evoluzionismo e darwinismo fu Thomas Huxley (1825-1895) che, in un suo articolo apparso sull’Encyclopedia Britannica, utilizza i termini di evoluzionismo e darwinismo come se fossero sinonimi29. Le specie degli esseri viventi sarebbero come i rami di un albero gigantesco che scaturiscono per mezzo di un unico principio: la selezione naturale30. Così le forme di vita più recenti sorgerebbero da altre più antiche; ad esempio, dai crostacei marini deriverebbero gli insetti, dai pesci i rettili, e da questi ultimi gli uccelli e i mammiferi. Ci sono viventi invece, come i batteri, che esistono sin dalle origini della vita. Anche se è molto articolato, il concetto darwiniano di selezione naturale non si basa su teorie ma su dati ricavati dalla biologia e dalle scienze naturali. Infatti, secondo Darwin, la sua teoria sarebbe in grado di integrare fra loro una serie di elementi che inizialmente non trovano alcun collegamento, come l’adattamento all’ambiente, le mutazioni, la trasmissione genetica di caratteristiche e, infine, la scomparsa delle specie meno adatte. Mediante la selezione naturale, Darwin stabilisce fra tutti questi elementi una relazione causale di tipo efficiente: le modifiche dell’ambiente porterebbero prima a delle mutazioni e queste a loro volta all’apparizione di nuove specie e alla scomparsa di quelle poco adatte. Secondo Darwin, infatti, lo scopo del vivente è la pro28

Cfr. ivi, p. 81 e sgg. Cfr. ivi, p. 118. 30 «Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono» (CH. DARWIN, Sull’origine delle specie, a cura di Giuliano Pancaldi, Rizzoli, Milano 2009, p. 50). 29

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pria sopravvivenza; ciò richiede la capacità di adattamento a eventuali cambiamenti nell’ambiente che lo circonda, come l’apparizione di un nuovo predatore o una catastrofe naturale. Questo sarebbe in sintesi il principio di selezione naturale: solo gli individui che si adattano meglio all’ambiente possono sopravvivere mentre quelli svantaggiati muoiono. Di conseguenza le specie che sviluppano determinate caratteristiche adatte all’ambiente sopravvivono, quelle che non lo fanno scompaiono31. Nonostante sia un paradigma nuovo e di grande portata in ambito scientifico, la teoria darwiniana presenta alcune lacune. Forse l’insufficienza più importante consiste nel porre la selezione naturale come l’unico principio dell’evoluzione. Infatti, oltre alla selezione naturale, si dovrebbero includere altri principi, come la diffusione degli individui di una stessa specie per diversi ambiti climatici, la loro diversificazione (con i conseguenti cambiamenti morfologici) e solo alla fine la selezione della specie; ciò spiegherebbe che il genotipo più adatto a una data nicchia ecologica sia quello che si trasmette senza ulteriori cambiamenti, giacché le modifiche subite impediscono l’incrocio genetico con le altre specie. Così la selezione naturale non sarebbe altro che il termine di un processo complesso che parte dalla diffusione. Come vedremo, le diverse versioni dell’evoluzionismo tentano di approfondire questo punto centrale del darwinismo. Ci sono, inoltre, una serie di questioni biologiche che le tesi di Darwin lasciano senza risposta, come la spiegazione della trasmissione dei cambiamenti del fenotipo, ossia l’insieme dei caratteri fisici di un individuo. Com’è possibile cioè che tutte le caratteristiche individuali di un organismo – il fenotipo appunto – possano essere trasmesse geneticamente? Darwin parla di pangenesi, secondo cui i caratteri acquisiti mediante l’interazione del vivente con l’ambiente sono trasmessi alla discendenza, e tenta di offrire una spiegazione di tipo organicista su come ciò sia possibile32. D’altro canto, la genetica darwiniana, basata sulle tesi di Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829), non tiene conto del31

Per un’ottima visione d’insieme della teoria di Darwin si veda E. SOBER, Did Darwin Write the Origin Backwards?: Philosophical Essays on Darwin’s Theory, Prometheus Books, Amherst (New York) 2011, pp. 121-128. 32 Secondo Darwin, la trasmissione dipenderebbe dall’uso o dal disuso degli organi durante la vita: quando una tendenza si manifesta per la prima volta, la selezione continua e gli effetti ereditari dell’uso degli organi sulle successive genera-

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le leggi di Mendel né della distinzione fra caratteri genetici dominanti e recessivi, due elementi essenziali per capire il meccanismo della trasmissione genetica. Infatti, secondo Gregor Johan Mendel (1822-1884), non tutti i caratteri trasmessi sono dominanti ovvero si esprimono alla prima generazione, ci sono anche caratteri recessivi, che possono esprimersi in generazioni successive o non esprimersi affatto. Come è noto, l’importanza della genetica nella trasmissione dei caratteri è stata messa in rilievo due secoli dopo dalla scoperta del genoma. Infine, il rifiuto della finalità porta Darwin, seguendo Lamarck, a sostenere la tesi secondo cui la funzione creerebbe l’organo; ad esempio, se le condizioni ambientali richiedono lo sviluppo della sensibilità tattile, l’animale svilupperebbe degli organi con tale funzione. In realtà, come vedremo nello studiare le sensazioni, l’organo è sempre in vista della funzione, e le funzioni inferiori in vista di quelle superiori, perché solo dopo aver ricevuto un grado di formalizzazione adeguata, la materia organica è capace di sviluppare una funzione. La funzione, quindi, non dipende dai cambiamenti nell’ambiente, ma dal tipo di formalizzazione. Così, oltre al toccare, la sensazione tattile ha come scopo la visione in quanto è necessaria perché si giunga ai sensi superiori, come la vista. Il concetto di finalismo deve rientrare, dunque, in qualche modo nell’evoluzione; tuttavia un finalismo che non si basa su un disegno intelligente perché si serve del caso, della scomparsa delle specie e dei rami dell’evoluzione che non si sviluppano, giacché l’albero della vita non è unidirezionale. Forse l’aspetto più importante del nuovo paradigma darwiniano è il tentativo di spiegare l’evoluzione ricorrendo solo a cause fisiche e a leggi naturali. Da questo punto di vista può affermarsi che il darwinismo offre un modello scientifico valido per le scienze naturali. I seguaci delle tesi di Darwin, i cosiddetti popolazionisti e i rappresentati della sintesi moderna, forti dei dati della genetica dei secoli XIX e XX e della riscoperta delle leggi di Mendel, rifiutano la teoria della pangenesi. Invece accettano l’impianto darwiniano: la sequenza di accidentali cambiamenti fisici e genetici al servizio della selezione naturale. Un primo gruppo è costituito dai cosiddetti genetisti delle popolazioni completano in fretta l’opera; ciò spiegherebbe anche le differenze formali fra maschi e femmine (cfr. CH. DARWIN, Sull’origine delle specie, cit., p. 53).

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zioni (Population Genetics), i quali alla selezione naturale aggiungono altri tre processi evolutivi: il cambio della frequenza in una variazione genetica dovuta al caso, la mutazione e la trasmissione di un gene di una popolazione a un’altra mediante la migrazione (gene migration)33. Per mezzo di questi nuovi fattori si modifica in parte il concetto di selezione naturale: invece d’indicare la sopravvivenza del più adatto e la trasmissione del suo patrimonio genetico ai discendenti, essa si trasforma in un processo complesso capace di modificare la frequenza della trasmissione dei geni in una data popolazione34. La riconciliazione fra darwinismo e genetica mendeliana portò a considerare il metodo matematico – usato dalla genetica delle popolazioni – criterio essenziale per raccogliere i principali dati delle scienze biologiche nell’elaborazione di una sintesi. Di qui il nome di sintesi moderna dell’evoluzione o, semplicemente, sintesi moderna, che costituisce il nucleo del neodarwinismo dello scorso secolo XX35. Nei confronti dei precedenti, i rappresentanti della sintesi moderna riescono a stabilire un ponte fra la microevoluzione studiata dai popolazionisti e la struttura della macroevoluzione osservata dagli esperimenti biologici, in quanto secondo loro la macroevoluzione si riconduce alla microevoluzione, in particolare a quella originata da cause genetiche (mutazione e ricombinazione), come nel dimorfismo sessuale di molti animali o nei gruppi sanguigni umani. Perciò, la sintesi moderna sembra postulare

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I lavori di R.A. Fischer, J.B.S. Haldane e S. Wright sono considerati come le basi della Population genetics. Sulla storia scientifica dell’evoluzionismo si veda E. LARSON, Evolution: The Remarkable History of a Scientific Theory, Modern Library, New York 2004. 34 «La selezione naturale viene intesa come riproduzione differenziale: alcuni individui contribuiscono in misura maggiore di altri – cioè con un maggior numero di discendenti – alla generazione successiva. Il centro dell’attenzione si sposta dalle macro alle microstrutture, dall’organismo e dalla sua competizione vitale al programma genetico e alla sua realizzazione» (G. BARSANTI, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005, p. 349). 35 Anche se il nome di sintesi moderna è stato coniato da J. HUXLEY nell’omonimo saggio Evolution. The Modern Synthesis (1942), coloro che lo rendono possibile con le loro ricerche sono T. Dobzahansky, E. Mayr e G. Gaylord Simpson (cfr. E. MAYR, Some Thoughts on the History of the Evolutionary Synthesis, in E. Mayr, W.B. Provine (eds.), The Evolutionary Synthesis, Harvard University Press, Cambridge Massachussets 1980, pp. 1-48).

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Capitolo terzo

che la speciazione dipende dall’accumulazione di molti piccoli cambiamenti genetici36. Anche se non mancano le critiche provenienti da diverse discipline, il darwinismo continua a riscuotere consensi negli ambienti scientifici e accademici. L’erede naturale della sintesi moderna è il neodarwinismo. Sebbene si usi lo stesso termine per riferirsi ad autori come R. Dawkins, S.J. Gould, F. Ayala la visione che hanno dell’evoluzione differisce grandemente. Nel tentativo di spiegare mediante l’evoluzione genetica la totalità del reale, Dawkins vuole continuare il progetto della sintesi moderna. È nota, ad esempio, la sua tesi del gene egoista per spiegare il motore della selezione naturale, la sola causa che egli considera37. Gould osserva che l’adattamento rigido di cui parla Dawkins tradisce l’autentico pensiero di Darwin, poiché quest’ultimo non si occupò dei cambiamenti genetici bensì dell’evoluzione degli organismi, la quale non è effetto di una sola causa. Perciò, Gould propone di sostituire il fondamentalismo dawkiano con un approccio pluralistico38. Forse queste e altre critiche sono alla base di un ripensamento da parte di Dawkins di alcune delle sue tesi come il fatto che la selezione naturale dia luogo a un certo progresso, per cui non può ridursi tutto al caso39. In questa linea è particolarmente interessante la tesi di Ayala, il quale sostiene che, sebbene l’evoluzione in quanto processo totale non possa essere considerata finalisticamente, la si può giudicare da un punto di vista 36 Cfr. L.A. MORAN, The Modern Synthesis of Genetics and Evolution, University of Toronto, Toronto 2005. Una critica del paradigma della sintesi moderna è stata fatta da Mayr, il quale rifiuta la tesi che la macroevoluzione si riduca a microevoluzione. Secondo lui, fra questi due tipi di evoluzione c’è uno iato, lo stesso che intercorre fra il genotipo e il fenotipo (cfr. E. MAYR, Toward a new Philosophy of Biology: Observations of an Evolutionist, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets) 1988, p. 402). 37 «I geni competono direttamente con i loro alleli per sopravvivere, poiché i loro alleli nel pool genico sono rivali nella corsa al posto sui cromosomi delle generazioni future. Qualunque gene che si comporti in modo tale da aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza nel pool genico a spese dei suoi alleli tenderà, per definizione, tautologicamente, a sopravvivere. Il gene è l’unità base dell’egoismo» (R. DAWKINS, Il gene egoista, Mondadori, Milano 1995, p. 40). 38 Cfr. S.J. GOULD, Darwinian Fundamentalism, «The New York Review of Books», 12 (1997), pp. 34-37. 39 Cfr. R. DAWKINS, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007, pp. 102-130.

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teleologico nella misura in cui è orientata alla trasmissione dei codici di informazione del DNA secondo il principio della riproduzione40. In conclusione, sebbene si possa affermare con ragionevole certezza l’evoluzione come un fatto corroborato dalle scienze naturali con numerosi e coerenti riscontri, non esiste un’unica ed esauriente teoria in grado di rendere ragione di tale fatto. Anzi, il darwinismo per sopravvivere ha dovuto adattarsi ai diversi contesti scientifici e culturali modificando, a volte profondamente, il suo punto di partenza. Comunque, finché non ci saranno teorie alternative, il darwinismo apparirà come la sola spiegazione scientifica valida. D’altro canto, portata all’estremo – come nella sintesi moderna e, soprattutto, nell’iperdarwinismo di alcune opere di Dawkins – l’ipotesi evoluzionista nega l’esistenza dello stesso concetto di specie, il che la fa cadere in contraddizione: se non ci sono specie, non ci può essere una loro origine e, quindi, studiare l’evoluzione delle specie non ha senso. Infatti, secondo questo tipo di neodarwinismo, ciò che chiamiamo specie non sarebbe altro che una serie di caratteristiche collegate accidentalmente, poiché non esisterebbe nessun principio unitario comune ad alcuni viventi. Alcune caratteristiche di un vivente potrebbero dar luogo a una certa struttura che si manterrebbe per qualche tempo, e cioè finché essa non sarà più adatta alla sopravvivenza delle popolazioni. In definitiva, nella sintesi moderna il vivente è visto come unione contingente di una serie di caratteristiche accidentali41. Nell’iperevoluzionismo, il vivente è addirittura ridotto a una macchina portatrice di geni che la spingono ad agire per la loro sopravvivenza. Penso, comunque, che – come sostiene Ayala – l’idea di evoluzione indichi una certa direzione e organizzazione; infatti, in ambito biologico la regressione – strettamente parlando – non esiste. È innegabile, inoltre, che questo processo di evoluzione abbia portato, per così dire, verso l’alto (crescita di complessità, di differenziazione/integrazione, di organizzazione, di relativa autonomia). E per arrivare a ciò che è 40 F. AYALA, Teological Explanation in Evolutionary Biology, «Philosophy of Science», 37 (1970), pp. 1-15. 41 Secondo Ernst Mayr, l’evoluzionismo darwiniano rifiuterebbe le forme sostanziali che sarebbero comuni a determinati individui. Di fronte a quest’approccio che Mayr chiama tipologico, Darwin avrebbe un approccio popolazionista che considera la realtà costituita da popolazioni di individui unici (cfr. E. MAYR, L’evoluzione delle specie animali, Einaudi, Torino 1970, pp. 10-11).

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Capitolo terzo

più differenziato si deve passare, per tappe, da ciò che è semplice – dal punto di vista biologico – a ciò che è più complesso, il che indica l’esistenza di finalismo. Certamente, attraverso il metodo scientifico ipotetico-deduttivo, si coglie solo il come l’evoluzione funziona, cioè le leggi che regolano questo processo. L’origine e, dunque, la fine del processo si trovano al di là di quanto è scientificamente sperimentabile. Perciò nessuna delle teorie evolutive è capace di negare o affermare la creazione. Sotto questa prospettiva l’idea di creazione non è contraria all’idea di evoluzione. La creazione è certamente contraria a un iperevoluzionismo, perché, nella misura in cui questo afferma che tutto è governato dal caso, si rifiuta l’esistenza di una logica specifica e di strutture orientate. L’idea di disegno intelligente è, invece, contraria all’evoluzionismo poiché non è compatibile con il caso; ad esempio, con il fatto che l’evoluzione vada in una direzione che rimane poi interrotta; dalla prospettiva del disegno intelligente tutto ciò è senza senso42. Invece il creazionismo è compatibile con l’evoluzionismo a condizione che si accetti la presenza di una finalità esterna che guida il processo evoluzionista.

5. Antropogenesi L’apparizione dell’homo sapiens sapiens è strettamente collegata all’origine dell’universo e della vita sulla Terra, poiché egli sembra essere il vivente corporeo più perfetto. Sulla comparsa dell’uomo da un punto di vista scientifico possiamo, dunque, formulare solo ipotesi. Ci sono diverse teorie evoluzionistiche che tentano di spiegare l’apparizione della specie umana: quelle riduzioniste lo fanno a partire dai cambiamenti morfologici del suo corpo. Prendendo spunto dunque da osservazioni di tipo morfologico (struttura, funzioni e leggi dello sviluppo del corpo umano) si pretende di ricostruire l’evoluzione umana: condizionamenti dovuti all’adattamento all’ambiente, trasmissione ereditaria, ecc. In realtà, questa impostazione ha un errore di base: nell’uomo la legge dell’adattamento viene meno; invece di adattarsi, egli si al42 Una buona critica del disegno intelligente si trova in M. RONHEIMER, Neodarwinismo, intelligent design e creazione, «Acta Philosophica», 17 (2008), pp. 86-132.

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lontana dall’ambiente dominandolo mediante la tecnica. In altre parole, la vita umana non può essere spiegata mediante l’adattamento. Nello studio della specie umana, dunque, si deve distinguere fra l’origine del corpo umano e la sua evoluzione anatomico-morfologica o ominizzazione, e quella dell’uomo o umanizzazione, «che riguarda le tracce fossili, anatomiche e culturali che permettono di dire se l’uomo è veramente presente»43. La scienza può studiare la prima questione; la seconda è di carattere antropologico e teologico. La paleontologia, che studia il fenotipo che cambia lungo la vita, rileva una soluzione di continuità fra le scimmie, gli ominidi e la comparsa dell’essere umano. L’Australopithecus, rappresentante degli ominidi, ha delle caratteristiche morfologiche proprie, che anticipano l’apparizione dell’uomo: a differenza delle scimmie, questo animale è bipede e usa le mani per manipolare gli oggetti; ciò nonostante non sembra che fosse in grado di fabbricare utensili. Un altro gruppo è quello degli homines, costituito da differenti specie genetiche. I resti più antichi, ritrovati nel Continente africano, risalgono a 2.000.000 di anni fa. Attraverso i fossili possono essere rintracciate due migrazioni dall’Africa: la prima 1.000.000 di anni fa e la seconda 200.000. Nella prima migrazione l’homo habilis uscì dall’Africa e si diffuse per l’Asia e l’Europa; probabilmente ciò fu la causa della scomparsa dell’Austrolopithecus44. La caratteristica morfologica fondamentale dell’homo habilis è lo sviluppo del cervello, che gli permise di usare le mani per fabbricare utensili, sebbene sembri che non fosse in grado di servirsene per la caccia e la difesa. La fabbricazione degli utensili sembra essere legata anche all’affievolirsi degli istinti. Altri fossili ritrovati sono l’homo ergaster, l’homo erectus (uomo di Giava)45, che era in grado di 43

G. MARTELET, Evoluzione e creazione. Dall’origine del cosmo all’origine dell’uomo, Jaca Book, Milano 2003, p. 97. 44 Recenti ritrovamenti hanno fatto cambiare in parte la data della scomparsa dell’Australopithecus. Infatti, sono stati scoperti resti del cosiddetto Austropolopithecus sediba risalenti a 1,9 milione di anni fa (L.R. BERGER, Australopithecus sediba: A New Species of Homo-Like Australopith from South Africa, «Science», 328 (2010), pp. 195-204). 45 Alcuni autori sostengono che l’homo habilis, ergaster ed erectus fossero imparentati, altri invece sostengono che si tratta di specie totalmente differenti; addirittura ci sono alcuni che considerano l’homo habilis una variante dell’Australopithecus; altri ancora sostengono che l’homo ergaster fosse la stessa specie dell’homo erectus.

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Capitolo terzo

usare utensili di pietra, come la doppia ascia. La seconda migrazione africana, all’incirca 200.000 anni fa, portò l’uomo Neanderthalensis e, soprattutto, quello sapiens a diffondersi in tutto il mondo, ivi incluso il continente americano. Oltre a un maggiore sviluppo cranico, l’homo sapiens conosce un perfezionamento delle tecniche per fabbricare utensili e usare il fuoco. Comunque, solo con l’arrivo del sapiens sapiens, i nostri antenati, sembra che ci troviamo veramente davanti a rappresentanti della nostra specie, perché solo fra l’uomo sapiens sapiens, nonostante la differenza ambientale e climatologica, è possibile l’interfecondità46 e, inoltre, esiste uno stereotipo di sepoltura già nel Paleolitico superiore, un tumulo a forma di fossa in cui il defunto viene cosparso di ocra rossa, forse come simbolo del sangue e della vita47. La preparazione dell’homo sapiens sapiens fu evolutiva (bipedismo, aumento della capacità cranica e del volume e peso del cervello, uso delle mani, fabbricazione degli utensili) ma questi caratteri morfologici non furono trasmessi geneticamente poiché si tratta di specie differenti e quindi senza la possibilità d’interfecondità. Non è quindi corretto dire che “l’uomo discende dalla scimmia”, se con ciò si intende che una particolare specie di scimmie per adattamenti successivi si è evoluta nell’uomo sapiens sapiens. Lo stesso vale anche per l’australopithecus, che non discende dalla scimmia. L’evoluzione prende invece – per così dire – diverse vie, una è la scimmia che si è conservata, un’altra è l’australopitechus – che poi è scomparso – e via via attraverso l’homo habilis, l’homo erectus fino alla comparsa dell’homo sapiens sapiens. Con la nostra specie sembra che lo sviluppo del sistema nervoso, soprattutto del cervello, sia arrivato al punto più alto per quanto riguarda la regolazione delle funzioni sensoriali, affettive e soprattutto 46 Recenti studi di genetica fanno pensare alla possibilità d’interfecondità fra l’homo neardenthalis e l’homo sapiens. Infatti, sembra che una piccola percentuale – fra 1 e 4% – del nostro materiale genetico appartenga anche all’homo neardenthalis. Ne consegue l’ipotesi dell’ibridazione fra questi due gruppi dopo l’uscita dall’homo sapiens dal Continente africano, giacché questi geni non si trovano negli abitanti sud-sahariani; probabilmente, l’ibridazione ebbe luogo nel vicino Oriente all’incirca tra 80 000 e 50 000 anni fa, prima della separazione dei gruppi Euroasiatici (R.E. GREEN ET AL., A Draft Sequence of the Neandertal Genome, «Science», 328 (2010), pp. 710-722). 47 Cfr. A. LEROI-GOURHAN, Le religioni della preistoria, PUF, Parigi 1964, p. 61.

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comportamentali48. Ciò nonostante, fra il nostro cervello, quello delle scimmie antropomorfe e degli ominidi non si osservano novità radicali: «le scimmie hanno già una neocorteccia e il loro cervello conosce fenomeni come la lateralizzazione. In alcune specie animali vi sono aree cerebrali deputate alla produzione di suoni significativi, quasi come un anticipo delle aree linguistiche»49. L’evoluzione che porta alla comparsa dell’uomo, quindi, non è fondamentalmente genetica, ma soprattutto culturale, ovvero si tratta non di ominizzazione, bensì di umanizzazione o personalizzazione della natura umana. Se nell’ominizzazione il caso gioca un ruolo importante, nell’umanizzazione il caso è sostituito dall’intenzionalità ovvero dalla libertà umana. In altri termini, l’idea di adattamento all’ambiente non è utile a comprendere l’umanizzazione poiché ciò che l’uomo fa è proprio separarsi dall’ambiente in cui si trova attraverso la cultura. Infatti, noi abbiamo lo stesso cervello degli uomini primitivi e, ciò nonostante, il modo di vivere, di relazionarci con il mondo e con gli altri è molto differente50. Nella storia evolutiva propriamente umana quindi la genetica – l’evoluzione morfologica – è sostituita dalla cultura. L’incrocio di elementi morfologici e culturali dà luogo alle più grosse differenze riguardo agli animali. Questo sviluppo culturale va messo in relazione con la liberazione dagli istinti, con l’autocoscienza e l’azione e le istituzioni umane. Per esempio, negli animali la riproduzione è regolata da cicli naturali fissi; invece nell’uomo la tendenza sessuale si è liberata da questi vincoli temporali per portare all’unione coniugale e all’istituzione della famiglia. L’uomo, infatti, nasce – per così dire – prematuramente poiché il neonato ha bisogno dell’attenzione continua di entrambi i genitori per sopravvivere e soprattutto per svilupparsi personalmente. La famiglia è, quindi, legata sistemicamente alla dipen48 «La complessità del nostro sistema nervoso, frutto di un lungo e travagliato adattamento, ci spiega la compresenza di impulsi ancestrali istintivi e di apprendimenti culturali che sono spesso in contrasto tra di loro sia per gli obiettivi che per il modo di raggiungerli. In altre parole, una serie di comportamenti primitivi ed emotivi che abbiamo in comune con gli altri mammiferi sono destinati a entrare in conflitto con quelle regole e quei comportamenti che derivano dal ragionamento e dal pensiero cosciente e che fanno parte del nostro bagaglio culturale» (A. OLIVERIO, L’alba del comportamento umano, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 41). 49 J.J. SANGUINETI, Filosofia della mente, cit., p. 97. 50 Cfr. A. OLIVERIO, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1999, pp. 97-98.

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Capitolo terzo

denza del neonato dai genitori. Inoltre, esistono norme culturali, quali la proibizione dell’incesto, che non esistono fra gli animali. Anche nel caso dell’arte si evidenzia questo essere slegati da ciò che è puramente biologico o in funzione della sopravvivenza, giacché la bellezza, strettamente parlando, non è utile. Ciò nonostante, l’arte per l’uomo è essenziale e, infatti, ritroviamo manifestazioni artistiche sin dalla preistoria. Così come ritroviamo riti funerari, poiché l’uomo è l’unico essere vivente che ha coscienza di dover morire. Il modo umano di affrontare la morte e la relazione con i defunti costituisce il contenuto di questi riti. E, infine, il linguaggio permette all’uomo di “nominare” la realtà. Oltre a una finalità meramente pratica di dominio, il linguaggio consente di conoscere la realtà con più profondità e, quindi, di conoscersi meglio e farsi conoscere. Ciò non significa che, a differenza della conoscenza, le parole siano naturali. Infatti, sebbene per l’uomo parlare sia naturale, ogni lingua conosciuta è e sarà sempre culturale. In conclusione, il bipedismo, l’uso della mano, l’espressione delle emozioni, lo sviluppo del cervello, la liberazione della sessualità da un ciclo naturale fisso, la nascita di un essere biologicamente prematuro, ecc., sono collegati in modo sistemico all’autocoscienza, al matrimonio, alla famiglia, alla proibizione dell’incesto, alla fabbricazione di utensili, all’arte culinaria, alle belle arti, al linguaggio, al diritto e ai riti funerari.

6. Ecologia ed ecologismo Le ipotesi evoluzionistiche non solo hanno avuto un grande influsso sul modo di concepire gli esseri viventi, in particolare l’uomo (e di conseguenza le scienze che lo riguardano), ma anche sui movimenti ecologisti che a partire dalla metà del secolo scorso si sono susseguiti, nel tentativo di difendere la Terra. Il termine ecologismo proviene dal neologismo ecologia creato dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866 con i termini greci oikos “casa” e logos “studio”. Seguendo la tesi darwiniana della selezione naturale e della lotta per la vita, Haeckel concepisce questa scienza come un’economia della natura che si occupa delle relazioni positive o negative fra gli organismi viventi e l’ambiente. Nell’ecologia c’è una serie di concetti chiave, come ecosistema o insieme dei rapporti esistenti fra diffe74

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renti popolazioni e comunità di animali, bioma o ambiente vegetale con determinate caratteristiche geografiche e climatiche in cui si trovano gli animali, ed ecosfera o totalità degli ecosistemi e dei biomi51. Ad esempio, il bioma marino (oceani e mari) ha diverse popolazioni (pesci, tartarughe, molluschi, meduse, plancton) che possono trovarsi insieme facendo, cioè, parte di una comunità, come i pesci e le tartarughe che appartengono al Necton (o comunità di animali che nuotano), mentre le meduse e gli organismi microscopici fanno parte del Plancton (o comunità di animali che si lasciano trascinare dall’acqua). La totalità degli ecosistemi e dei biomi è chiamata ecosfera. Se l’ecologia si basa soprattutto sullo studio biologico, geografico e climatico della Terra, l’ecologismo riguarda soprattutto questioni culturali e politiche. In tal senso, a partire dagli anni ’60 sono sorti diversi movimenti, come quello ambientalista, animalista, deep ecology (o ecologia profonda), ecc. I problemi causati dai disastri ambientali prodotti sia dai paesi comunisti che capitalisti, insieme a visioni onnicomprensive della realtà come la New Age, hanno fatto sì che l’ecologismo sia diventato un modo di pensare contrario all’attuale cultura capitalistica, massimamente tecnologica. Sia gli ambientalisti sia i sostenitori dell’ecologia profonda affermano pertanto che la civiltà occidentale sta portando la Terra alla catastrofe, per cui è necessario prendere delle contromisure per invertire la rotta. Per gli ambientalisti si tratta di proteggere la biodiversità minacciata dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento ambientale e di trovare nuove fonti di energia rinnovabile che portino la biosfera alla situazione di equilibrio. Senza queste contromisure la stessa specie umana sarebbe in grave pericolo di estinzione. Per i sostenitori dell’ecologia profonda invece non si tratta solo di introdurre qualche cambiamento, ma piuttosto di scoprire la filosofia che soggiace all’ecologia d’impostazione neodarwiniana, secondo cui l’uomo non è che una specie animale senza peculiari diritti nei confronti delle altre specie e della ecosfera52. Da qui l’esigenza di evitare 51 Cfr. T.M. SMITH, R.L. SMITH, Elementi di Ecologia, Bruno Mondadori, Milano 2009, soprattutto la prima parte. 52 Il norvegese Arne Naess, creatore del termine ecologia profonda, afferma che il diritto di tutte le forme di vita a vivere, è un diritto universale che non può essere quantificato. Secondo lui, non esistono specie che abbiano maggiori diritti alla vita di altre (cfr. A. NAESS, The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movement, «Inquiry», 16 (1973), pp. 95-100).

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Capitolo terzo

non solo l’inquinamento e la distruzione causata dalla tecnica, ma anche la crescita demografica umana che porrebbe in pericolo l’equilibrio ecologico. In definitiva, solo la consapevolezza dell’uomo di essere un organismo che fa parte di un tutto può permettergli di salvaguardare il pianeta. Oltre a difendere un’utopia anti-umanista – come se fosse possibile costruire una civiltà solo a partire dai rapporti con la natura – l’ecologia profonda ha un concetto univoco di natura e, quindi, considera l’uomo un animale che deve adattarsi alla natura, senza cercare di modificarla53. Chi la pensa in questo modo non si rende conto che l’uomo, a differenza degli animali, non si adatta alla natura, ma adatta la natura a sé trasformandola nel suo mondo. Nonostante ci siano delle esagerazioni in alcuni movimenti ecologisti, l’ecologia – oltre ad essere una disciplina scientifica la cui importanza cresce con il passare degli anni – è servita a suscitare nel pensiero contemporaneo una riflessione interdisciplinare su argomenti di notevole portata, come il rapporto dell’uomo con la natura (inclusa la propria), l’uso delle tecno-scienze, la distribuzione delle risorse naturali e, soprattutto, la necessità di cambiare stili di vita. Forse quest’ultimo punto è la chiave dell’ecologia del futuro. Infatti, il desiderio di “avere” di più invece di “essere” di più, implica lo sfruttamento delle risorse, che nel concentrarsi nelle mani di pochi abitanti della Terra lascia le generazioni attuali e future di molti paesi in balia della miseria e di una degradazione continua del pianeta54. Per questo motivo la vera ecologia 53 Alcuni autori, come McLaughlin, rivendicano un ecocentrismo radicale (cfr. A. MCLAUGHLIN, Regarding Nature: Industrialism and Deep Ecology, SUNY Press, Albany 1993, pp. 197-227). 54 «L’uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo che scopre la sua capacità di trasformare e in un certo senso di creare il mondo con il proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio: Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui» (Giovanni Paolo II,

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La vita come integrazione

è, soprattutto, umana. L’ecologia umana non solo si occupa del rapporto dell’uomo con la natura, ma soprattutto con gli altri uomini giacché solo se esso è umano e perfettivo, cioè umanizzante, lo sarà anche la relazione con la natura e la trasformazione del mondo55. I nuovi stili di vita, il risparmio energetico, la sobrietà nei consumi, il ripristino di un ambiente pulito e degno delle persone, sono inseparabili dalla comunione fra le persone e dall’apertura ai trascendentali: il bene, la verità e la bellezza. Infatti, gli stili di vita ecologici nascono dalle virtù e, soprattutto, dall’amore non solo verso le persone della propria comunità e del proprio paese, ma anche di altre nazioni e altri continenti, attuali e future. Proprio perché è sistemica (non si riduce all’ambiente e alle relazioni con le altre specie) l’ecologia percorre trasversalmente la tecnica, il lavoro, la sessualità, la scienza, il linguaggio e le istituzioni come la famiglia, la comunità, lo stato e i rapporti fra le nazioni.

Lettera enciclica “Centesimus Annus”: L’insegnamento sociale della Chiesa dalla “Rerum Novarum” ad oggi, Piemme, Milano 1991, IV, 37). 55 Nel suo discorso al Bundestag di Berlino, Benedetto XVI afferma l’esistenza di un’ecologia dell’uomo. «Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana» (Benedetto XVI, Discorso al Bundestag, 22-IX-2011 www. vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2011/september/documents/hf_benxvi_spe_20110922_reichstag-berlin_it.html).

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Capitolo quarto

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L’integrazione spontanea del dinamismo del vivente

Il corpo può essere studiato nella sua struttura interna come organismo vivo dotato di una pluralità di organi e facoltà, ma anche nel rapporto dinamico con le altre realtà materiali e spirituali. Se la prima prospettiva corrisponde allo studio anatomico e fisiologico, e anche antropologico da un punto di vista statico, la seconda corrisponde invece allo studio della persona dal punto di vista dinamico, ossia delle sue inclinazioni vitali, il cui sbocco naturale è l’azione. Prima di arrivare all’azione, il vivente ha bisogno però di una prima integrazione o integrazione spontanea, mediante la quale il soggetto può avere una coscienza oscura del proprio vivere e di quanto ha bisogno per la perfezione della sua vita.

1. Le potenzialità della totalità del vivente: istinti e tendenze Oltre alla struttura corporea e organica, il vivente ha un dinamismo interno che dipende dal suo grado di essere, cioè dal tipo di anima. Perciò, il vivente può entrare in relazione con la realtà non soltanto fisicamente, ma anche vitalmente. Il vegetale, ad esempio, è inclinato verso quanto dipende direttamente dalla sua forma individuale e specifica. Il suo tendere è, perciò, verso l’ambito fisico della realtà, come nella nutrizione. Nell’animale, invece, il suo istinto è contemporaneamente fisico e psichico, come si evince da fenomeni come la fame, il desiderio o il piacere legato alla soddisfazione dei suoi bisogni1. Nell’uomo, invece, 1 Il piacere si dà anche negli animali perché sono dotati d’istinto e di conoscenza sensibile, cioè di una conoscenza che «si limita a conoscere il fine e il bene singolare in modo particolare» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 11, a. 2).

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Capitolo quarto

oltre che fisico e psichico, il suo tendere è anche di natura spirituale, in quanto trascende totalmente la materia. Perciò, le tendenze umane non hanno la rigidità degli istinti e sono aperte al mondo2, all’uso di strumenti, all’azione umana e alle istituzioni sociali, come la famiglia. Infatti, come ho spiegato nel capitolo precedente, l’affievolirsi degli istinti, l’aumento della capacità cranica, l’uso degli strumenti e la nascita della cultura sono elementi sistemici. Poiché contengono in modo dinamico i diversi elementi che costituiscono il vivente, queste inclinazioni possono essere chiamate potenzialità della totalità del vivente3. Consideriamo il caso dell’istinto sessuale: esso fa riferimento non solo ai cromosomi e agli organi sessuali ma anche agli ormoni, al piacere, al desiderio, al comportamento, alla famiglia. Questo significa che l’istinto non è una pura reazione che segue uno stimolo – come sostiene la teoria comportamentista – ma è una realtà molto complessa che riguarda la totalità del vivente4. Inoltre, per il fatto di essere legate a bisogni, le inclinazioni sono potenzialità che tendono all’atto; non a uno qualsiasi, bensì a quello che può soddisfarle, come il nutrimento, il gioco o l’accoppiamento degli animali. Giacché contengono una diversità di elementi senza un’integrazione definitiva, le inclinazioni – come vedremo più in dettaglio – devono attraversare diverse tappe per raggiungere il loro fine: dalla dinamizzazione all’atto passando per l’attualizzazione5. Nell’istinto dell’animale, la mancanza di elementi spirituali fa sì che la potenzialità si trovi molto vicino all’atto e che l’integrazione spontanea degli elementi fisici e psichici sia sufficiente a far scattare il suo comportamento. Nonostante vi siano alcuni aspetti comuni tra 2 Cfr. M. SCHELER, Die Stellung des Menschen im Kosmos, Nymphenburger Verlagshandlung, München 1949, p. 39. 3 Su questo punto mi permetto di rimandare il lettore al mio contributo La libertà nell’atto umano. Le tendenze come manifestazione di libertà, in F. Russo, J. Villanueva (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibattito scientifico e filosofico, cit., pp. 65-86. 4 Cfr. J.L. PINILLOS, Principios de psicología, Alianza Editorial, Madrid 1988, p. 221. Secondo quest’autore, l’istinto non deve essere considerato come una semplice catena di riflessi condizionati, ma mezzo per l’interazione del vivente con l’ambiente. Ciò che è istintivo non è la catena di movimenti, ma il modo di compiere una determinata azione. 5 Una spiegazione dei termini dinamizzazione, attualizzazione e atto si trova nel mio saggio Antropologia dell’affettività, Armando, Roma 1999, capitolo IV.

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L’integrazione spontanea del dinamismo del vivente

le inclinazioni proprie degli animali e quelle dell’uomo, come l’esperienza del bisogno (fame, sete), la proiezione verso il futuro (desiderio) e l’orientamento al fine (nutrizione, riproduzione, migrazione, gioco), esse ricevono nomi specifici: le inclinazioni degli animali sono chiamate istinti, mentre quelle della persona tendenze. Per istinti si intendono delle inclinazioni naturali che, dinanzi al loro oggetto e in mancanza di ostacoli esterni, conducono necessariamente a un determinato comportamento. Esempi di questo tipo di inclinazione sono: l’istinto agonistico, sessuale, predatore, migratorio, ecc. Nell’animale l’istinto porta ad azioni adatte a soddisfare i propri bisogni, come accoppiarsi, proteggere i cuccioli, uccidere la preda. Esse hanno valore per la vita dell’individuo e della specie, ma mancano di rilevanza morale perché l’animale non può dominare i suoi istinti e, di conseguenza, è trascinato da queste potenzialità. In altre parole, anche se il suo comportamento è intenzionale, l’animale non ha intenzioni vere e proprie, perché non agisce da sé ma “è agito” dalla propria natura. Ecco perché il comportamento dell’animale si trova fuori dall’ambito morale. Infatti, per valutare un atto buono o cattivo si deve riconoscerlo come espressione di un’intenzionalità soggettiva (alcuni parlano anche di seconda intenzionalità6) di cui l’animale è sprovvisto. Si capisce quindi come non sia adeguato parlare di crudeltà per riferirsi, ad esempio, al comportamento del leone che uccide i cuccioli di un altro leone per accoppiarsi con la leonessa che li ha partoriti. Il fine di questo comportamento è la trasmissione del proprio patrimonio genetico; certamente, il leone non lo sa e, quindi, non può volerlo o rifiutarlo. Non si può, perciò, parlare di un agire egoistico e meno ancora di geni egoisti. Tali valutazioni del comportamento animale o della biologia sono esempi di una cruda antropomorfizzazione7. Le tendenze umane, dall’altro lato, sono inclinazioni di tutta la persona. Esse possono essere naturali o culturali. E anche se sono aperte a determinate azioni e relazioni, non portano necessariamente a un unico 6 Frankfurt, ad esempio, distingue fra volizioni di primo e di secondo ordine: le prime sono i desideri, mentre le seconde sono il volere o meno uno di questi desideri (cfr. H. FRANKFURT, Alternate Possibilities and Moral Responsibility, «Journal of Philosophy», 23 (1969), pp. 829-39). Certamente, come si vedrà, la volizione non si riduce all’accettare o rifiutare i desideri. Comunque, la distinzione serve a distinguere i desideri animali dalla volontà umana. 7 Cfr. J.J. SANGUINETI, Filosofia della mente, cit., pp. 233-263.

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Capitolo quarto

comportamento. Le tendenze umane si caratterizzano per la loro flessibilità, il che nei confronti degli istinti può essere considerato sia un vantaggio sia uno svantaggio. Infatti, da un lato, è possibile educarle mediante la razionalità, la volontà e le virtù; dall’altro, se non vengono educate, esse conducono a comportamenti senza alcun tipo d’inibizione, come un’aggressività capace di provocare gravi danni al pianeta o di causare genocidi e crimini efferati. La disponibilità più o meno profonda delle tendenze attraverso l’agire e, soprattutto, la loro integrazione o disintegrazione mediante gli abiti (le virtù integrano, mentre i vizi disintegrano) permette di dare a essi un’ulteriore forma personale. Infatti, mentre l’animale affamato di fronte alla preda uccisa incomincia immediatamente a mangiarla, la persona affamata lo fa solo dopo aver deciso di mangiare. Perciò, l’atto umano di mangiare ammette una molteplicità di forme derivanti dalla cultura e dalle virtù: molti cibi sono cucinati prima di essere mangiati; inoltre, il mangiare umano è suscettibile di abiti come la sobrietà, la golosità, ecc. Poiché, a differenza di quanto accade negli animali, la semplice spontaneità non basta, la persona ha la responsabilità di educare le sue tendenze in modo di agire eticamente, cioè umanamente.

2. Dinamizzazione, attualizzazione e azione Come ho già accennato, bisogna stabilire diverse tappe nel processo che va dalle potenzialità di tutto il vivente, cioè da una sua determinata inclinazione, all’atto8. La prima tappa è la dinamizzazione degli istinti e delle tendenze. A differenza degli organi, come il cuore o i polmoni, che sono dinamizzati mentre si è in vita, le tendenze e soprattutto gli istinti lo sono solo in modo ciclico, secondo la funzione metabolica, il secernere delle ghiandole, i cicli astronomici, ecc. Per esempio, nel caso della nutrizione questo è evidente, poiché non sempre sentiamo fame; l’esperienza della fame è proprio il segno che la tendenza della nutrizione si è dinamizzata. La dinamizzazione ha termine, solitamente, con la soddisfazione del bisogno corrispondente all’istinto o alla ten8

Secondo Leonardo Polo, a differenza dalla conoscenza, che un in-tendere, la tendenza è un tendere-in per cui essa ha come fine non il possesso intenzionale, bensì quello reale (cfr. L. POLO, Teoría del conocimiento, I, EUNSA, Pamplona 1984, pp. 157-160).

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denza. Questo è certamente vero nel caso degli animali, cioè per l’istinto, mentre nell’uomo è più complesso. Nell’uomo e negli animali, la dinamizzazione ha o può avere un risvolto psichico poiché essi sono dotati di coscienza, ovvero di una luce che illumina il loro stesso vivere anche quando è previo alla stessa conoscenza, come nella sensazione di fame e sete, che precedono la percezione del cibo e della bevanda. Il corpo vivente è senziente non solo perché avverte gli stimoli dall’esterno, ma perché “sente se stesso”; è per così dire senziente in ogni sua parte e in modo continuo tramite, ad esempio, le sensazioni del movimento degli organi interni, dei muscoli e dei dinamismi tendenziali. Certamente, attraverso la fame e la sete, la sensazione che si ha del corpo è molto particolare poiché riguarda un bisogno oscuro. Pensiamo alla prima volta che un neonato sente fame o sete; non è in grado di capire cosa sia quella sensazione di disagio generalizzato. Egli fa l’esperienza del bisogno; si tratta, però, di qualcosa di “oscuro” giacché non conosce l’oggetto che può soddisfarlo. La fame e la sete, dunque, non sono solo qualcosa di fisiologico, ma anche di psichico: l’esperienza del bisogno. Nell’uomo quest’esperienza richiede l’interpretazione della ragione umana. Anzi, il termine “fame” esprime già l’interpretazione razionale della dinamizzazione della tendenza alla nutrizione. Avere fame e “capire di avere fame” sono realtà differenti. La fame dell’animale invece, non deve passare per un’interpretazione razionale né un simbolo per condurre l’animale verso il cibo9. La spiritualità della tendenza nutritiva si manifesta sia nella sua necessità di essere interpretata dalla ragione sia nelle caratteristiche razionali del suo oggetto (ciò che è mangiabile). Infatti, anche se la fame umana può essere soddisfatta da qualsiasi sostanza nutritiva, per ragioni culturali o religiose non tutte le sostanze sono considerate cibo (ad esempio, il cane per molti occidentali, ma non per i cinesi) e non tutti i cibi sono considerati mangiabili (ad esempio, il maiale per ebrei e musulmani).

9 Alcuni

autori parlano di un’interpretazione pre-simbolica nell’animale: «seppure nell’animale non esista un linguaggio separato (astratto), la ricezione percettiva include un’interpretazione degli eventi sensibili, nei quali l’individuo scorge un significato. Un suono può rappresentare un pericolo, un odore indica la presenza di un individuo. L’associazione di segnali può includere nuovi significati e viene impressa nell’esperienza» (J.J. SANGUINETI, Filosofia della mente, cit., p. 66).

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Capitolo quarto

Tradizionalmente, ad esempio nella filosofia aristotelico-tomista, si è considerata l’orexis10 (Aristotele) o l’appetitus11 (San Tommaso) soltanto a partire dalla conoscenza dell’oggetto (ciò che ho chiamato attualizzazione). Questa concezione – come abbiamo appena visto – non è totalmente adeguata giacché trascura l’analisi della dinamizzazione dell’appetito, ossia dell’istinto o della tendenza, prima della conoscenza. La distinzione fra dinamizzazione e attualizzazione (l’appetito tomista), ad esempio, permette di stabilire la differenza fra sentire fame e avere appetito. La prima è una dinamizzazione spontanea, invece la seconda deriva molte volte dalla conoscenza dell’oggetto: vedere un gelato ci fa nascere la voglia di mangiarlo pur non avendo fame. Inoltre, questi autori non tengono conto della peculiarità delle tendenze: esse sono potenzialità di tutta la persona e, quindi, manifestano sempre in qualche modo la sua spiritualità. A questa triplice critica potrebbe obiettarsi: 1) San Tommaso parla di un dinamismo vegetativo (crescita, nutrizione e riproduzione) che è indipendente dalla conoscenza. Anche se ciò è vero, l’Aquinate non tiene conto del ruolo che queste inclinazioni hanno sulla coscienza e la conoscenza, giacché esse ci fanno tendere verso l’oggetto prima ancora di conoscerlo; ne deriva che la tendenza appare nella coscienza come un’inclinazione intenzionale, senza però essere oggettiva. Da qui la necessità d’interpretarla razionalmente. Nell’Aquinate non c’è un’analisi di questo tipo di coscienza. 2) San Tommaso considera l’appetito sessuale, la cui radice si trova nel dinamismo vegetativo, un’inclinazione umana o razionale. È vero che l’Aquinate parla della razionalità di quest’inclinazione, ma non in se stessa, giacché è un dinamismo vegetativo, bensì in quanto partecipa della razionalità mediante la cogitativa e la ragione. Quando parlo, invece, di una potenzialità della totalità personale, non mi riferisco a una 10 ARISTOTELE, De Anima, 432b, 5-8. Skemp sostiene che in Aristotele il termine orexis ha un significato molto ampio, poiché sintetizza elementi etici, psicologici e biologici. Da qui la possibilità di una doppia interpretazione: come facoltà o come desiderio; la prima interpretazione rileva l’aspetto biologico, mentre la seconda pone l’accento sugli aspetti etici e psicologici (vid J.B. SKEMP, orexis in de Anima III 10, in G.E.R. Lloyd, G.E.L. Owen (eds.), Aristotle on mind and the senses. Proceedings of seventh symposium aristotelicum, Cambridge University Press, Cambridge 1978, pp. 181-184). 11 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, III, c. 69.

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partecipazione mediante la conoscenza razionale, ma al suo carattere plasmabile dalle prime esperienze, dalle relazioni con i modelli all’interno della famiglia, e dalla cultura. La tendenza sessuale non corrisponde al semplice dinamismo vegetativo, ma a una struttura somaticopsichica-spirituale, ossia a una condizione sessuata. 3) San Tommaso parla di inclinazioni naturali che sono spirituali, come la tendenza alla verità o all’amicizia. Quando parlo della tendenza come potenzialità di tutta la persona non mi riferisco alle tendenze spirituali, poiché in esse manca il dinamismo corporeo, almeno inizialmente. Piuttosto parlo di quelle tendenze che, come la sessualità, hanno un dinamismo fisiologico e psichico la cui formalizzazione in una condizione sessuata dipende soprattutto dalle prime relazioni interpersonali. In realtà la “spiritualità tendenziale” non ha a che fare con tendenze puramente spirituali, con la coscienza razionale e con l’intenzionalità personale, ma con l’interpretazione, l’apertura all’atto umano, il carattere simbolico e la sua formalizzazione attraverso le relazioni, la cultura e le virtù12. b) Attualizzazione Alla dinamizzazione degli istinti e delle tendenze segue normalmente l’attualizzazione, cioè la conoscenza dell’oggetto verso il quale si tende, che fa nascere il desiderio della realtà conosciuta. L’inclinazione – l’istinto o la tendenza – è potenziale e dunque ha bisogno di un atto al fine di attualizzarsi, e questo è proprio la conoscenza dell’oggetto che soddisfa l’appetito. “Nihil volitum nisi praecognitum” cioè – riadattando l’adagio scolastico – si potrebbe dire: non c’è desiderio senza che prima vi sia la conoscenza dell’oggetto. Il rapporto fra tendenza (ma anche istinto) e conoscenza non si dà, però, in una sola direzione. È certamente vero che la tendenza può essere messa in moto dalla conoscenza, come nel caso del bambino che desidera il gelato non appena lo vede. Senza la conoscenza l’appetito non ha cioè un oggetto verso cui tendere. Ci sono, però, occasioni in cui è l’appetito a portare alla percezione di determinati valori: la sete, ad esempio, alla scoperta dell’acqua come dissetante, la fame a quella del cibo come appagante. Per cogliere che l’acqua è dissetante, noi abbiamo bisogno di sentire sete, cioè di 12

Per una discussione di questa tesi si veda il mio articolo La antropología tomista de las pasiones, «Tópicos», 40 (2011), pp. 133-169.

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Capitolo quarto

fare l’esperienza della sete. Il rapporto fra tendenza e conoscenza è, dunque, bilaterale: la tendenza porta alla scoperta di determinati valori nella realtà (il carattere dissetante dell’acqua) e la conoscenza alla scoperta dell’oggetto della tendenza; ad esempio, la conoscenza dell’acqua che disseta se è nel fiume, sorgente, fontana o rubinetto, ma non nel mare. Per cogliere determinate qualità, come l’essere dissetante, è quindi necessario fare determinate esperienze vitali; non basta la pura conoscenza. Come vedremo nello studiare l’affettività, le passioni e molte emozioni corrispondono all’attualizzazione degli istinti e delle tendenze. Così, la paura non ha semplicemente un oggetto – il cane, l’esame – bensì è l’incontro tra la tendenza alla sopravvivenza, o il desiderio di successo, e una realtà scoperta come minaccia. Quindi, la paura ci fa sperimentare il pericolo. Ne deriva l’impossibilità di non considerare una realtà pericolosa se si prova paura. c) Azione Infine, abbiamo l’atto con cui si chiude il ciclo bisogno-soddisfazione. Nel caso dell’animale non si può interrompere questo ciclo: l’animale ha bisogno, sente fame, conosce l’oggetto che soddisfa il bisogno, lo desidera e lo mangia estinguendo quella necessità e quindi anche la dinamizzazione dell’istinto. Nell’uomo invece non è così poiché i vari elementi possono essere separati; una cosa è la fame, un’altra il desiderio che nasce dalla conoscenza del cibo, e un’altra ancora l’atto di mangiare e il piacere che ci reca. Ciò dipende dalla struttura del desiderio umano. Il desiderio dell’animale fa riferimento soltanto a ciò che soddisfa l’istinto, invece il desiderio umano ha sempre come sfondo l’infinito, vale a dire, nulla, tranne l’Infinito, è capace di colmarlo. Ciò spiega l’irrequietezza del desiderio, che tende sempre al di là di quanto possiede (nel suo orizzonte c’è sempre l’Infinito), e anche la possibilità di ricercare soddisfazione in falsi infiniti non solo spirituali, come il potere e il possesso, ma anche psico-fisici, come il piacere sensibile. Perciò l’uomo è in grado di separare il desiderio, ad esempio, di mangiare dalla pura soddisfazione: l’uomo può vomitare volontariamente quanto ha ingerito pur di continuare a gustare il piacere di cibi prelibati, così come narra Cicerone del comportamento di taluni durante grandi banchetti, cosa che un animale non farebbe mai una volta sa86

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zio13. L’aspetto spirituale dell’attualizzazione delle tendenze umane si manifesta sia nella specificità del desiderio sia nel carattere simbolico assunto da esso, come parole, gesti, rappresentazioni, ecc.; ad esempio, i dipinti preistorici potrebbero avere un senso simbolico-magico che favoriva la caccia degli animali rappresentati. Infine, alla tendenza non basta la semplice presenza intenzionale dell’oggetto, c’è bisogno anche della presenza reale e dell’unione mediante l’azione, come nell’atto di condividere il pane e il sale con gli amici o gli ospiti. Qui, come vedremo nello studiare l’azione umana, l’aspetto spirituale dell’inclinazione arriva al massimo. Infatti, oltre a soddisfare un bisogno fisiologico, il mangiare umano è in relazione con le tendenze sociali e con l’amicizia. Per questo motivo esso può essere usato simbolicamente per parlare di una comunione trascendente, come quella del Cielo che viene molte volte raffigurata nei Vangeli sotto la forma di un banchetto14. Attraverso l’atto, la cultura formalizza in modi diversi le nostre tendenze, la loro espressione e soddisfazione. Questa formalizzazione non diventa mai qualcosa di necessario, simile all’istinto. Infatti, come vedremo nel capitolo 10, oltre alle proprie azioni, la persona trascende la cultura in cui è nata e cresciuta.

3. Desiderio umano e inconscio A livello del desiderio prima d’incontrare il suo oggetto troviamo già un primo livello della coscienza, che possiamo chiamare inconscio. Anche se è molto antica e può essere collegata alle forze interne che sembrano dirigere la nostra vita come nelle tragedie greche, l’idea d’inconscio nella filosofia trova una prima teorizzazione nella monadologia di Gottfried Wilhem Leibniz (1646-1716), che sostiene l’esistenza di un’armonia universale basata proprio su forze psichiche (percezioni insensibili) costitutive delle monadi. Più tardi sarà Kant a parlare 13 Si presti attenzione al fatto che nel caso degli animali domestici il comportamento può essere assai differente poiché è modificabile dalla razionalità umana che fa perdere loro l’istintività propria della loro natura. L’animale selvatico invece agirà riguardo alla propria fame sempre nello stesso modo. 14 Il valore simbolico della cucina è espresso con somma arte dalla scrittrice danese Karen Blissen (1885-1962), nel suo racconto Il pranzo di Babette (cfr. K. BLISSEN, Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 7-46).

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Capitolo quarto

dell’esistenza di forme a priori della sensibilità, come lo spazio e il tempo, che permettono la percezione sensibile senza però poter essere conosciute in se stesse poiché non sono oggettive. Comunque, in questi autori l’inconscio è considerato tale riguardo alla coscienza sensibile e intelligibile, cioè come una specie di percezione insensibile, una forma o categoria. Detto in altre parole: il modello d’interpretazione dell’inconscio è la coscienza. Bisognerà attendere Freud perché l’inconscio non sia più concepito come semplice negazione della coscienza, bensì come una sua struttura originaria basata sulle pulsioni. Infatti, secondo Freud, l’inconscio non è una forma vuota della coscienza, ma uno strato arcaico con un carattere pulsante e dinamico che tende a emergere nella coscienza. La corrente psicologica fondata da Freud, la psicoanalisi, si prefigge come scopo di portare a galla quell’insieme di esperienze, di ricordi e di situazioni di appagamento che a partire da un determinato momento dello sviluppo della psiche non sono più disponibili (Vorbewusste o preconscio) o non lo sono in seguito ad una punizione e perciò sono state rimosse (Unbewusste o inconscio). Solo con il rilassamento della coscienza vigile, come nel sogno, nei cosiddetti lapsus freudiani o nelle azioni fallite gli elementi rimossi affiorano sebbene sempre in un modo camuffato, cioè sotto forma di rappresentazioni “accettabili” alla coscienza. Ne deriva la necessità di interpretare queste maschere per svelare il desiderio insoddisfatto del paziente, tappa necessaria nel processo di guarigione15. Freud in Pulsioni e i loro destini descrive i diversi processi che a partire dal desiderio di piacere danno luogo allo psichismo umano16. La corrente psichica originaria, l’Es, sarebbe costituita da due dinamismi primari (o pulsioni): l’autoconservazione e la sessualità (o libido), anche se in seguito Freud aggiungerà un terzo dinamismo di carattere negativo, l’autodistruzione (o thanatos). La pulsione all’autoconservazione si manifesterebbe, secondo lo psicologo viennese, nel sentimento di fame del neonato che lo porta a piangere; dopo l’allattamento, 15

Si veda S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 333-396. 16 Nell’analisi della struttura della psiche abbiamo tenuto presente la rigorosa spiegazione di N. CORONA, Pulsión y símbolo. Freud y Ricoeur, Almagesto, Buenos Aires 1992, pp. 89-141, e lo studio dei concetti freudiani in A. MACINTYRE, The Unconscious, Routledge & Kegan Paul, Londra 1958.

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L’integrazione spontanea del dinamismo del vivente

il pianto cessa perché la psiche del bambino sente soddisfatta la sua pulsione. Di fronte all’apparire nuovamente della fame, la psiche tenderebbe a rappresentarsi l’oggetto – l’allattamento – che originariamente l’ha soddisfatta. Poiché, nonostante la rappresentazione allucinatoria, il bisogno persiste, la psiche imparerebbe a sottomettersi alla realtà come unico modo per soddisfare il suo bisogno. Apparirebbe così una seconda corrente psichica, costituita dall’Io (o coscienza) attraverso cui lo psichismo acquisisce nuove capacità, come l’attenzione alla realtà esterna, il raccogliere esperienze, lo sviluppo della memoria, l’uso della ragione, ecc., che consentono al bambino di dominare le sue forze motorie per soddisfare i bisogni mediante azioni adeguate. Da questo scontro fra desiderio e realtà nascerebbe l’inconscio come deposito di rappresentazioni allucinatorie rigettate. Sempre secondo Freud, la terza corrente psichica sarebbe costituita dall’istanza reprimente, il Super io. Nella formazione di questa struttura, con la quale il soggetto raggiungerebbe la maturità psichica, è decisivo il ruolo della pulsione sessuale. Infatti, poiché tenderebbe inizialmente all’autoerotismo (rappresentato dalle fasi orale, sadico-anale e fallica), la sessualità umana ha bisogno di essere corretta per aprirsi alla realtà, cioè all’atto sessuale ordinato alla trasmissione della vita. Se nella pulsione all’autoconservazione l’adattamento alla realtà è quasi immediato, nella sessualità si raggiungerebbe solo mediante un lungo processo di negazione-correzione dell’autoerotismo originario. La libido si aprirebbe alla realtà soprattutto per mezzo della censura della pulsione sessuale verso l’istanza parentale (il complesso di Edipo e di Elettra). La repressione della sessualità infantile, causata dal tabù dell’incesto, sarebbe interiorizzata come un’ulteriore struttura psichica con lo scopo, dinanzi alle pulsioni disgregatrici dell’Es e a quella distruttiva dello thanatos, di prolungare i suoi effetti di protezione e di piena attuazione delle finalità della vita. Perciò Freud considera il Super io l’erede del complesso di Edipo. Anche se il padre della psicoanalisi coglie il ruolo fondamentale che il desiderio gioca nell’origine della coscienza umana, continua ad avere una visione negativa dell’inconscio perché lo concepisce fondamentalmente come deposito di rappresentazioni censurate. D’altro canto, il suo modo di capire il desiderio umano è un po’ riduttivo giacché lo limita a “desiderio di piacere”, per cui la realtà avrebbe sempre un carattere estrinseco e censorio. Inoltre, la cultura in tutte le sue manife89

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Capitolo quarto

stazioni, non sarebbe altro che la sublimazione di una forza puramente fisica, la libido. A mio parere il difetto fondamentale della tesi freudiana è concepire il desiderio come una forza fisica che tende a un equilibrio omeostatico, in cui consisterebbe il piacere. Se il desiderio, infatti, avesse una natura puramente fisica non si spiegherebbe perché sia in grado di trasformarsi in energia psichica, e soprattutto in simbolo. Se il desiderio umano fa nascere la cultura, ad esempio, quella culinaria, è perché non si riduce semplicemente a soddisfare la fame, il che apre la possibilità alla gastronomia e al simbolismo del banchetto. La realtà cui il desiderio tende non è un ambiente dove trovar appagamento, bensì un mondo sempre perfettibile perché corrispondente a un desiderio aperto all’infinito. Invece, secondo Freud, ci sarebbe una contrapposizione netta tra desiderio e realtà, concepita come puro ambiente: le regole, la società e la cultura avrebbero come scopo censurare l’inclinazione spontanea del desiderio. Ma se fosse così, la cultura sarebbe non soltanto una sublimazione ma una distruzione del desiderio, come accade con l’istinto dell’animale domestico, che nell’essere addomesticato tende a diminuire. Nella persona invece le regole non sono contrarie al desiderio, piuttosto sono richieste perché l’uomo possa raggiungere la vita buona. Un desiderio infinito senza regole, porterebbe necessariamente alla disintegrazione del soggetto e, quindi, alla mancanza dell’autodominio necessario per dare se stessi. Di fronte alla visione materialistica del desiderio umano in Freud e in alcuni dei suoi discepoli psicoanalisti, ci sono autori, come Viktor Frankl (1905-1997) e René Girard (1923), che da prospettive differenti affermano l’esistenza nell’uomo di un desiderio spirituale. Secondo Frankl, che adotta una prospettiva fondamentalmente psichica, il desiderio umano consiste soprattutto nella ricerca di senso. A questa conclusione egli arriva dopo aver vissuto la terribile esperienza di quattro campi di concentramento nazista, fra cui Auschwitz e Dachau17. Come 17 Quest’esperienza confermò la sua tesi di una terapia del senso o logoterapia. «La logoterapia si ripromette di rendere conscio il malato, mediante un approfondito contatto dialettico, di tutte le sue umane possibilità; di renderlo persuaso che la vita ha sempre significato; che egli è sempre richiesto di realizzare dei valori; ch’egli, seppur non libero dalle costrizioni della propria natura, del proprio destino biologico, psicologico, sociologico o anche psicopatologico, è pur sempre libero di porsi di fronte a queste determinazioni in un modo piuttosto che in un altro; che,

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L’integrazione spontanea del dinamismo del vivente

tanti altri ebrei, Frankl vi fu internato per tre anni. In mezzo alla sofferenza fece una grande scoperta: la differenza fra quelli che riuscirono a superare le privazioni e vessazioni del campo e quelli che impazzirono o si lasciarono morire di fame consisteva nel fatto che solo i primi avevano un senso per continuare a vivere18. Non era sufficiente il semplice desiderio di sopravvivere, bisognava avere un motivo per cui la vita, malgrado tutta la sua sofferenza e miseria, fosse preziosa. Da qui la nuova concezione psicologica di Frankl, inizialmente psicoanalista freudiano, secondo cui l’inconscio umano è soprattutto desiderio di logos o senso19. Dal canto suo, Girard adotta una prospettiva di antropologia culturale. Anche lui parla del desiderio umano come non-oggettivo, cioè inizialmente non legato a determinati oggetti, come sesso, ricchezza, potere, stima. Secondo quest’autore, il desiderio umano è soprattutto mimetico, ossia imitazione di un altro, che così funge da modello riguardo agli oggetti da desiderare20. Secondo Girard, il desiderio mimetico genera violenza. Infatti, siccome gli oggetti sono sempre finiti e, quindi, non condivisibili, si produce una rivalità fra l’imitatore e il modello: mentre il primo cerca di difenderne il possesso, l’altro tenta di appropriarsene21. La violenza mimetica, che si diffonderebbe mediante una specie di contagio, minaccerebbe la stessa sopravvivenza della specie umana. Per evitare la propria autodistruzione, sarebbe nato il meccanismo del capro espiatorio: la violenza di tutti si rivolgerebbe verso una vittima, che sarebbe prima uccisa per poi essere divinizzata infine, è proprio l’illuminata riassunzione di questa sua inalienabile libertà l’abbrivio all’appacificamento o, quanto meno, alla meno gravosa e penosa sopportazione della sofferenza» (V.E. FRANKL, Logoterapia e Analisi Esistenziale, Morcelliana, Brescia 1977, p. 13). 18 Cfr. V.E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, prefazioni di G.W. Allport, G.B. Torellò e G. Marcel, Ares, Milano 2007. 19 Cfr. V.E. FRANKL, Alla ricerca di un significato della vita, a cura di E. Fizzotti, Mursia, Milano 2005, p. 50. 20 Anche se alla base della sua teoria sulla violenza mimetica Girard non parla d’infinito, credo che solo questa caratteristica possa spiegare perché il desiderio umano sia origine delle dinamiche interpersonali d’imitazione e di rivalità (cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 428 e sgg.). 21 Girard ha studiato con molto dettaglio le dinamiche d’invidia e rivalità fra imitatore e modello. Su questo punto si può vedere Edipo liberato. Saggi su desiderio e rivalità, Pier Vittorio e Associati, Massa 2009, p. 15 e sgg.

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Capitolo quarto

in quanto attraverso il suo sacrificio la comunità avrebbe recuperato la pace. In definitiva, secondo Girard, l’inconscio sarebbe costituito dal desiderio mimetico che è origine della cultura umana, in particolare delle religioni non rivelate. Nonostante le differenze già segnalate, Frankl e Girard riprendono la tesi che l’inconscio è legato al desiderio di senso in Frankl e di mimesi in Girard. Sia in un caso sia nell’altro questo inconscio è dinamico e deve essere svelato; qui si vede l’influsso di Freud su questi due autori. A differenza del padre della psicoanalisi, questi non accettano però che si tratti di un dinamismo fisico, per loro esso è prettamente spirituale: sia un senso ultimo che fonda l’esistenza umana (Frankl) sia una relazione complessa con l’altro all’origine della società e della cultura (Girard). Dalla prospettiva della relazione fra desiderio e coscienza si pongono due questioni che saranno oggetto di studio nei restanti capitoli: il modo in cui nel desiderio umano si dà la trascendenza riguardo alla realtà fisica e all’ambiente del vegetale e dell’animale, e il senso che tale trascendenza ha nel vivere delle persone e delle loro relazioni. Per rispondere esamineremo prima analiticamente i diversi tipi di elementi che influiscono sull’attualizzazione delle tendenze e sul loro atto: conoscenza, affettività e volizione, senza però perdere di vista la loro origine unitaria e il loro dinamismo somatico-psichico spirituale, per poi studiare la loro integrazione nell’azione e nelle relazioni interpersonali, sulle quali si basano la società, la storia e la cultura.

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Capitolo quinto

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L’integrazione attiva nella coscienza sensibile

Un livello d’integrazione superiore alla pura dinamizzazione istintiva o tendenziale si trova nella coscienza sensibile che, come vedremo in questo capitolo, non è altro che l’interiorità soggettiva di un vivente dotato di organi sensibili. La coscienza sensibile non è costituita dunque dalle sensazioni, ma da ciò che le accompagna, in maniera simile alla coscienza che illumina la dinamizzazione degli istinti e delle tendenze nel fenomeno, ad esempio, della fame. L’intenzionalità, quindi, non corrisponde alla coscienza, ma alle sensazioni. L’integrazione presente nella coscienza sensibile è maggiore di quella presente nella pura dinamizzazione per due motivi. In primo luogo, perché la coscienza sensibile è costituita da una pluralità di atti intenzionali o sensazioni, che si articolano formando strutture con un livello di formalizzazione via via superiore (percezione, immaginazione, cogitativa, memoria); a loro volta, queste strutture sono il punto di partenza di un’integrazione fra coscienza sensibile e intelligibile, su cui si basano la cultura, la filosofia e le scienze. In secondo luogo, perché la coscienza sensibile si riferisce alla realtà, mentre la dinamizzazione si riferisce prevalentemente alla soggettività (la realtà appare solo nel modo del bisogno e della mancanza). Perciò, la coscienza sensibile può essere compresa come l’apparire dell’unione intenzionale fra soggetto conoscente e realtà, la quale implica sempre un arricchimento dal punto di vista formale. Tramite la conoscenza sensibile, infatti, è possibile il possesso intenzionale iniziale della realtà, l’attualizzazione delle tendenze umane, i vissuti di piacere e dolore e, attraverso di essi, la coscienza embrionale della propria soggettività. La conoscenza sensibile è fondamentale per il “vivere” dell’animale e anche per l’esistenza 93

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Capitolo quinto

dell’uomo poiché per questo ultimo il piacere e il dolore devono essere integrati personalmente. Lo studio della conoscenza sensibile ci permette di cogliere l’origine dell’esperienza vissuta della realtà, necessaria per comprendere il senso della propria esistenza.

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1. Il possesso intenzionale Prima di studiare la specificità della coscienza sensibile, è necessario affrontare, dal punto di vista metafisico, cioè in tutta la sua ampiezza, il tema della conoscenza, giacché essa è il polo oggettivo della coscienza sensibile. Nel parlare delle facoltà e delle loro operazioni, abbiamo visto che il vivente ha come caratteristica la realizzazione di operazioni immanenti, come la nutrizione, la sensazione, l’intellezione, la volizione, ecc. La conoscenza, dunque, sia a livello sensibile (sensazione) che intelligibile (concetto) appartiene alle operazioni immanenti, in cui il fine dell’operazione non produce una realtà esterna, bensì rimane all’interno della propria operazione; così il colore visto o la casa pensata non è il risultato di un’operazione transitiva o del fare, come accade invece per la parete dipinta di verde o la casa costruita. Affinché si possa parlare di conoscenza non basta, però, possedere il fine nella stessa operazione, giacché ci sono azioni immanenti in cui si dà anche l’immanenza del fine senza conoscenza. Nella nutrizione, ad esempio, l’assimilazione del cibo non è il risultato di un processo, ma un’operazione immanente. Infatti, mentre la fermentazione del cibo che prepara l’assimilazione richiede un processo temporale, l’atto di assimilazione è atemporale: cominciare ad assimilare è “aver già assimilato”. Tuttavia, il fine posseduto è ancora di natura fisica o materiale, come si evince dal fatto che il cibo assimilato diventa parte del proprio organismo. Nella conoscenza sensibile invece il fine posseduto è di natura immateriale, ossia la forma sensibile è posseduta senza la materia, ad esempio, come colore, suono, odore…, e nella conoscenza intelligibile, in modo totalmente immateriale: i differenti formaggi con i loro colori, odori e sapori sono posseduti in modo universale nel concetto di formaggio, che fa astrazione di qualsiasi formaggio singolare. La conoscenza può essere così descritta come l’operazione immanente in cui si possiede immaterialmente un oggetto, vale a dire ciò 94

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

che è conosciuto. Il possesso immateriale dell’oggetto è chiamato intenzionale1 per distinguerlo dal possesso materiale che si dà, ad esempio, nella nutrizione o nell’atto di impossessarsi fisicamente di qualche cosa. Nel possesso intenzionale la realtà conosciuta non subisce modifica alcuna: la conoscenza del colore di un determinato oggetto non lo modifica in sé come invece avviene, ad esempio, nell’atto di assimilare del cibo. Ma che cosa vuol dire possesso intenzionale? Esso è l’unione in atto di due atti: quello della facoltà conoscitiva e quello della realtà conosciuta. Infatti, si può dire che il conoscente in atto e il conosciuto in atto sono una e la stessa realtà; ad esempio, nel sentire un rumore si potrebbe pensare che il rumore esiste in atto indipendentemente dal fatto che lo sentiamo, come esiste la realtà fisica che lo produce con indipendenza da qualsiasi conoscente, ma non è così. Il “rumore”, infatti, non è altro che l’atto in cui lo si sente. Detto altrimenti, non si può sentire un rumore senza che esso sia conosciuto nell’atto di sentirlo. Se la conoscenza non fosse l’unione in atto di conoscente e conosciuto, non sarebbe possibile sentire alcun rumore. Prima dell’atto della conoscenza sensibile ci sono, dunque, due potenze: la forma sensibile che si trova in potenza nella realtà fisica e la facoltà sensibile. Come si realizza l’attualizzazione di queste due potenze? Ciò avviene attraverso l’attualizzazione dell’organo e della facoltà. Come abbiamo già visto2, l’organo della conoscenza sensibile non è completamente formalizzato e per questo motivo, pur essendo in atto in quanto organo fisico, si trova in potenza per ricevere determinati stimoli fisici o chimici poiché ha ancora una certa potenza passiva. Quando riceve lo stimolo, dunque, l’organo acquisisce una nuova formalità o atto. Il nuovo atto dell’organo fa passare la facoltà dalla potenza all’atto. Infatti, la facoltà, che è in potenza riguardo all’atto della sensazione, ovvero ha una potenza attiva, per diventare atto richiede la previa ricezione dello stimolo da parte dell’organo. Perciò, una volta attualizzata, si ha la sensazione. Ad esempio, l’attualizzazione dell’occhio da parte dei fotoni fa passare la facoltà visiva dalla potenza, la coloreità (che non si vede e perciò consente di vedere i colori), all’atto; infatti, venendo 1

Nella tendenza o nell’istinto, si tende-in, cioè l’atto – ad esempio, la nutrizione – è verso l’esterno, e l’unione si dà nella realtà. In-tendere invece, indica un attirare verso di noi la realtà stessa. Perciò si conosce intenzionalmente. 2 Cfr. il Cap. II, 4: L’anima come principio vitale, senziente, spirituale.

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Capitolo quinto

ricevuta dalla vista la forma sensibile o specie impressa di un determinato colore (ad esempio, verde) la facoltà si attualizza: si vede verde. In questo modo si produce un’adeguazione immateriale fra due forme: la coloreità e il verde. Infine, la distinzione fra oggetto intenzionale sensibile e intelligibile dipende dalla presenza o meno di un organo fisico corrispondente. Infatti, mentre la conoscenza sensibile ha una base organica, quella intelligibile non ce l’ha. Ciò non significa però né che, nella conoscenza sensibile, l’atto di conoscere sia organico, né che nella conoscenza intelligibile l’atto non abbia bisogno della corporeità. La conoscenza sensibile non è un atto organico, ma ha bisogno di organi sensitivi per possedere il suo oggetto intenzionale, che proprio per questo viene chiamato sensibile. La conoscenza intelligibile, che si realizza invece senza necessità di organi, richiede tuttavia la conoscenza sensibile, la quale invece ha bisogno di organi, specialmente del cervello. Troviamo così che la conoscenza umana ha una struttura di una grande complessità nella quale vengono coinvolte sia la dimensione organica che quella sensibile e spirituale. Nel paragrafo seguente cercherò di analizzare questa struttura partendo dal suo livello più basilare: la conoscenza sensibile.

2. La struttura della conoscenza umana La struttura basilare della conoscenza umana si compone di cinque elementi: sensazione, percezione, rappresentazione, valutazione pratica e intellezione3. Anche se è l’elemento più semplice e indivisibile, la sensazione presenta una grande varietà di contenuti. Infatti, oltre a riferirsi a ogni tipo di realtà – cose, eventi, viventi, persone – nelle sensazioni si trovano tante differenze qualitative: i colori, le forme, i toni, le qualità di caldo, leggero, amaro, ecc. Nella sensazione possiamo distinguere il processo fisico-fisiologico antecedente la sensazione dalla sensazione vera e propria, cioè dall’at-

3 Una prima bozza di questa struttura della conoscenza si trova nel mio libro Introducción a la psicología, EUNSA, Pamplona 2007, pp. 87-120. Comunque, nel saggio citato la prospettiva è di carattere psicologico.

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to4. Il primo è solo un’antecedente necessario, ma non una sensazione, che ha sempre un carattere conoscitivo. Il processo non può spiegare la conoscenza, neppure al livello più basilare, perché essa segna un salto qualitativo riguardo al mondo fisico: il possesso intenzionale. 1) Il processo della sensazione è in linea di massima il seguente: i diversi stimoli fisici e chimici (quelli della vista sono le onde elettromagnetiche, quelli dell’udito le vibrazioni dell’aria, quelli del gusto e dell’olfatto gli stimoli chimici, e quelli del tatto gli stimoli meccanici) sono ricevuti da un organo recettore che presuppone la differenziazione e la specializzazione di una parte del corpo (occhio, udito, lingua, naso e pelle). Gli stimoli modificano l’organo e queste modifiche rappresentano i messaggi sensoriali che, tramite le connessioni nervose, sono trasmessi al sistema nervoso centrale, indi alla formazione reticolare e infine alla corteccia cerebrale. Nelle zone corticali sono ricevuti ed elaborati gli stimoli specifici delle differenti sensazioni: quelle visive, ad esempio, nella zona occipitale, quelle uditive nei rispettivi lobi temporali, ecc5. Infine, le sensazioni appaiono nell’ambito della coscienza non come stimoli quantitativi, bensì come atti immanenti o vissuti, ossia come colori, forme o suoni. Eventuali danni all’organo recettore o alle connessioni nervose, oppure alle zone corticali impediscono la sensazione. Ciò non significa però che sia il cervello a farci vedere, ma che se lo stimolo non è trasmesso sino a quelle zone organiche, non ci sarà alcuna possibilità di vedere. Abbiamo già osservato, infatti, come la conoscenza sensitiva sia un atto e non un processo. Senza il processo, ciò che è sensibile in potenza non diventa in atto, ma “vedere” è l’atto di ciò che è sensibile. Affinché lo stimolo possa avviare il processo della sensazione, si richiede che l’organo o recettore sia colpito da una determinata quantità di energia, proporzionale alla capacità recettiva dell’organo6. È im4

Aristotele spiega così perché la sensazione abbia bisogno di un processo fisico-fisiologico: «la facoltà sensitiva è in potenza a ciò che il sensibile è già in atto, come si è detto: essa patisce in quanto non è simile, e quando ha patito, si fa simile al sensibile ed è come quello» (De anima, II, 5, 418a 4-6). Il patire della facoltà sensitiva è appunto il processo fisico-fisiologico, che la fa passare ad atto o sensazione. 5 Per la localizzazione delle aree cerebrali deputate alle diverse sensazioni si vedano le figure 2 e 3. 6 «Infatti, se in seguito a quest’azione [stimolazione fisica] l’organo di senso cambia l’unità quantitativa e dunque la “scala” o insieme numerico delle variazioni

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portante questa proporzionalità poiché permette all’organo di reagire a certi stimoli e non ad altri. Le piante non possono avere sensibilità perché i loro organi mancano di proporzionalità ricettiva: non possono apprendere come distinte le qualità che ricevono, ma le subiscono passivamente come un puro mutamento fisico. Il minimo d’intensità che fa avviare il processo della sensazione è chiamato perciò soglia sensoriale assoluta. Ogni specie ha una soglia sensoriale determinata. Ad esempio, affinché le vibrazioni dell’aria possano essere percepite dagli esseri umani devono oscillare fra i 16 e i 20.000 hertz al secondo; se sono inferiori a 16 non sono percepite (sono infrasuoni), e non sono percepite nemmeno se sono superiori a 20.000 (sono ultrasuoni). Tale soglia sensoriale dipende spesso dall’importanza vitale che lo stimolo riveste per una determinata specie. Le farfalle notturne, ad esempio, reagiscono solo ai rumori di frequenza elevata, come quello che si produce grattando un vetro, perché tali rumori sono simili a quelli emessi dal pipistrello, che è il loro predatore. Per quanto riguarda l’occhio umano, la soglia sensoriale assoluta è data dal colore violetto, quello con la lunghezza d’onda elettromagnetica più corta. Ci sono molti insetti, come le api, che riescono a percepire i raggi ultravioletti7 perché i fiori di cui si cibano hanno spesso questa colorazione. Oltre alla percezione delle differenze qualitative tra le sensazioni (fra l’azzurro e il verde), c’è anche la percezione delle differenze d’intensità, ossia la possibilità di cogliere la differenza tra un colore più o meno azzurro, o tra un sapore più o meno dolce, o un suono più o meno acuto. Ad esempio, la differenza fra un oggetto che pesa 100 grammi e un altro che pesa 110 non è normalmente percepita dall’essere umano: i due oggetti sono percepiti dello stesso peso. La differenza qualitativa del peso di due oggetti è percepibile quando nel rapporto si arriva a una differenza minima di 33 grammi, cioè come tra 100 e 133 grammi. La percezione delle differenze qualitative riceve, invece, il nome di soglia differenziale. Ogni senso umano ha la sua soglia differenziale, che è studiata dalla fisiologia. Ad esempio, si calcola che la soglia differenziale della vista umana sia la del suo stato interno per adeguarla a quella della variazione dello stimolo esterno, questo cambio non può essere considerato “quantitativo”» (G. BASTI, Filosofia dell’uomo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, p. 219). 7 La radiazione ultravioletta ha una frequenza luminosa superiore (ultra) a quella della luce visibile. Il violetto è, infatti, il colore con la massima frequenza luminosa (ovvero minima lunghezza d’onda) percepibile dall’occhio umano.

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percezione della luce di una candela a 48 km di distanza in una notte limpida. La sensibilità differenziale della vista, oltre alle sfumature fra i colori, ci permette di cogliere lo spazio e di strutturare le altre sensazioni; qualcosa di simile accade con l’udito, la cui sensibilità differenziale (la percezione di un orologio meccanico a sei metri di distanza in una stanza senza rumori) ci permette di cogliere, oltre alle differenze fra i diversi suoni, l’accadere temporale8. A volte l’intensità dello stimolo è così debole che, sebbene esso riesca a innescare il processo, non raggiunge la soglia della coscienza. Si parla allora di sensazioni subliminali, che possono avviare reazioni sensoriali periferiche o anche fisiologiche (riflessi) o psicologiche inconsce, come suscitare ricordi, vissuti affettivi e condotte. La proiezione, durante un film, dell’immagine subliminare di una determinata bibita può far nascere, negli spettatori, il desiderio di berla. 2) L’atto del sentire o sensazione non è un processo fisico-fisiologico, bensì un atto vitale. Infatti, mentre il processo corrisponde all’aspetto potenziale della realtà fisica (prima di conoscere, il sensibile si trova in potenza riguardo al conoscente), la sensazione corrisponde all’atto di sentire la realtà. La sensazione può così essere intesa come un’assimilazione intenzionale, in cui il dissimile (forma sensibile-conoscente) si fa simile (sensazione)9. Perciò, come ho già spiegato, il rumore esiste solo nel nostro atto del sentire. Abitualmente siamo coscienti di sentire ma, come abbiamo visto per i messaggi subliminali, le due realtà possono esse separate. Nella sensazione si possiede la realtà in modo intenzionale sensibile, cioè adeguato al nostro modo di conoscere attraverso i sensi e, allo stesso tempo, si ha una certa coscienza di noi stessi come corpi vivi in rapporto agli atti del sentire o sensazioni. Perciò, si può affermare che il sentire sia un vivere più perfetto, perché non solo si vive, ma si è anche 8 I primi a stabilire la legge che permette d’individuare la soglia differenziale dei sensi sono Gustav Fechner (1801-1887) ed Ernst Weber (1795-1878) (cfr. D.J. MURRAY, A Perspective for Viewing the History of Psychophysics, «Behavioral and Brain Sciences», 16 (1993), pp. 115-186). 9 Fabro sintetizza così il processo di assimilazione che, secondo Aristotele, caratterizza la conoscenza sensibile: «Il senziente prima di sentire non è simile se non in potenza al sensibile: si fa simile al sensibile, che è tale qualità in atto, solo dopo aver patito (essere stato alterato) dal medesimo» (C. FABRO, Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano 1941, p. 13).

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consci di essere in vita, per lo meno a un livello sensibile. Così, quando si vede, sente, ecc., si sperimenta il piacere legato alla sensazione di vedere, sentire, ecc.10. Il piacere, infatti, è la perfezione del vivere sensibile. Come si vedrà in questo e nel prossimo capitolo, una volta strutturate, le sensazioni – tranne casi eccezionali – non si danno in modo isolato. Perciò, anche se geneticamente è posteriore alla sensazione, negli adulti l’intellezione precede in genere la sensazione semplice. La strutturazione della conoscenza è il frutto di un lungo cammino, non soltanto evolutivo, ma soprattutto personale e biografico. Ad esempio, abitualmente non vediamo solo un colore verde, ma conosciamo una determinata realtà di quel colore, come la bandiera (anche gli animali mediante la percezione sensibile riconoscono oggetti e non solo superfici colorate). Certamente, siamo soliti affermare di vedere una bandiera verde, ma in realtà quello che vediamo è solo una superficie rettangolare di colore verde. La bandiera la conosciamo intellettualmente, perché non corrisponde a una pura sensazione ma alla conoscenza di una determinata realtà e anche di un simbolo. Si tratta dunque di una conoscenza costituita da diverse strutture, la cui integrazione finale si realizza mediante le funzioni superiori dell’intelligenza. Per loro natura i sensi conoscono sempre una forma individuale (cioè non universale) e accidentale (cioè non sostanziale): ad esempio, questo verde11. Ciò nonostante, l’uso di vedere in questo contesto (vedere la bandiera) non è sbagliato, perché designa l’esperienza umana che è sempre intrisa d’intelligenza. Perciò, anche se sono atti isolati senza nessuna strutturazione, le sensazioni del bambino neonato sono sempre della realtà12. Ecco perché nel bambino c’è una grande capacità di sorprendersi di 10 La coscienza del vivere che sperimentiamo attraverso l’esercizio senza intop-

pi delle nostre facoltà è il piacere: «Finché, dunque, l’oggetto pensabile o sensibile sono quali devono essere, e benché tali sono anche il soggetto che giudica o quello che contempla, nell’attività del pensare e del sentire ci sarà il piacere» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, X, 4, 1174b 30). 11 Come si vedrà, mediante la percezione è possibile cogliere degli schemi percettivi. Perciò, anche gli animali sono in grado di percepire “tipi”: il tipo gatto, cane, ecc. 12 Come afferma Zubiri: «farsi carico (hacerse cargo) della realtà, del contesto in cui siamo inseriti: il prius dell’intelligenza, quindi, non consiste tanto nel produrre concetti, quanto piuttosto quello di “apprendere le cose come reali”» (X. Zubiri, Intelligenza senziente, Bompiani, Milano 2008, p. 69). Non condivido invece la

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fronte alla realtà, mentre nell’adulto quella stessa capacità è minore, poiché la realtà è già stata strutturata, organizzata per mezzo delle funzioni superiori. Alcune particolari malattie possono tuttavia causare la perdita di questa strutturazione, originando una sorta di regressione.

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3. I sensi esterni I sensi esterni sono così chiamati perché la loro specie impressa viene dall’ambiente o dal mondo ovvero è esterna alla sensibilità. I sensi esterni sono organizzati secondo un rapporto gerarchico, il che permette la loro integrazione nella percezione. Essi possono dividersi in sensi inferiori e superiori, secondo lo sviluppo e il livello di specializzazione organica richiesta da un determinato grado di alterazione e di immanenza. Oltre che dall’organo, il grado di alterazione dipende anche dal mezzo attraverso cui arrivano gli stimoli fisici (l’aria, l’acqua, la luce). Il grado di immanenza corrisponde, invece, in forma direttamente proporzionale al grado di indeterminazione della facoltà sensibile: quanto più indeterminato, tanto più la sensazione è immanente. a) Il tatto L’organo più elementare è la pelle, attraverso la quale si entra in contatto diretto con il mondo circostante e si assume anche fisicamente una determinata qualità per percepirlo. Il contatto diretto con l’oggetto è necessario per sentire, ad esempio, freddo, poiché per la sensazione termica è necessario il raffreddamento o riscaldamento fisico della pelle. Dopo essere penetrati nel midollo, gli impulsi tattili raggiungono il talamo e la corteccia parietale mediante diverse vie. Una di esse è costituita dalle fibre mieliniche che trasportano i segnali riguardanti la sensibilità spaziale, la discriminazione tattile e la sensibilità vibratoria13. Infatti, al contrario di quanto si è creduto per molto tempo, la pelle non è solo l’organo del tatto ma è anche l’organo di una pluralità di sensi che non possono essere ridotti alla semplice sensazione tattile. distinzione reale che Zubiri stabilisce fra realtà e essere, che lo porta a rifiutare lo studio dell’essere, perché al di sopra della realtà, per occuparsi solo dell’essenza. 13 Per le spiegazioni neuropsicologiche dei sensi, soprattutto per quanto riguarda i disturbi (afasia, agnosia, ecc.), seguo il saggio di Elisabetta LÀDAVAS e Anna BERTI, Neuropsicologia, Il Mulino, Bologna 2002, specialmente la seconda parte.

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Le sensazioni principali colte attraverso la pelle sono molteplici: caldo, freddo, durezza, dolore, sensazioni elettromagnetiche, cinestesiche, ecc. Per quanto riguarda queste ultime, la loro funzione è permettere di conoscere sensibilmente la posizione e i movimenti del corpo. La pelle, dunque, è anche l’organo di quelle sensazioni che avvertono delle qualità nocive o benefiche dagli stimoli ricevuti. Le sensazioni di caldo, freddo, dolore, ecc. fungono da allarme affinché l’organismo reagisca di fronte ai pericoli per la sua sopravvivenza. Sembra che il freddo sia più nocivo del caldo, poiché, per ogni centimetro quadrato, ci sono dai 12 ai 13 punti sensibili al freddo, e solo 1 o 2 al caldo. Inoltre i punti sensibili al caldo si trovano più in profondità nella pelle che quelli sensibili al freddo. Il senso del tatto nell’uomo non solo si riferisce alle qualità nocive o benefiche, ma anche a qualità con un significato superiore, come quella di permettere un primo orientamento nel mondo. Il bambino piccolo, ad esempio, fin da quando comincia a compiere i primi movimenti spontanei, si trasforma in un essere prensile: tende a portare gli oggetti alla bocca sperimentando così il carattere tangibile e manipolabile della realtà. Per il bambino, prima che abbia un aspetto fisso, la realtà ha un uso: toccare le cose è scoprire la possibilità di utilizzarle. Perciò l’educazione del tatto ha un ruolo centrale nella formazione del bambino14. Il senso del tatto acquisisce il massimo sviluppo e raffinatezza nel palmo della mano. Da qui il significato speciale che la mano umana ha nei processi di ominizzazione e di umanizzazione: non solo è lo strumento degli strumenti, la mano diventa anche simbolo dell’interiorità della persona, come mostra la versatilità del toccare umano che può andare dallo sfiorare fino al colpo violento, passando per la carezza. Secondo l’Aquinate, solo nella persona umana il tatto sarebbe aperto a qualità sottili e diverse, in rapporto alla complessione più equilibrata del suo corpo, per cui le persone con carni molli sarebbero più intelligenti15. A favore di questa tesi si potrebbe addurre la storia di Helen Keller (18801968), sordomuta e cieca dall’età di 19 mesi, che dopo essere riuscita

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Come sostiene Aristotele, il desiderio è legato al senso del tatto. Cfr. G. FIORAVANTI, Pedagogia dello studio. Considerazioni e spunti per una pedagogia del desiderio, Japadre, L’Aquila-Roma 2003, p. 11 e sgg. 15 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In De Anima, II, 19.

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a cogliere i primi segni linguistici mediante sensazioni tattili sul palmo della mano diventò una famosa scrittrice ed insegnante16. b) Il gusto e l’olfatto implicano un gradino più elevato sulla scala della specializzazione degli organi e dell’immanenza. Essi sono localizzati in due organi: rispettivamente nel naso e nella lingua. L’organo del gusto si trova nella lingua (punta, lati, base) e anche nel velo del palato. Le cellule di queste zone – cioè le papille della lingua – riescono a cogliere le differenze fra i sapori: dolce, amaro, ecc. La lingua è in grado di percepire sia sensazioni tattili che gustative. Le aree cerebrali corrispondenti alla ricezione ed elaborazione dei segnali gustativi sono costituite dai due nuclei: il lobo parietale e la corteccia opercolare insulare anteriore, e il lobo limbico (dal latino limbus “cintura o anello”), l’ipotalamo e il nucleo centrale dell’amigdala. Studi recenti hanno mostrato che nel cervello dei mammiferi c’è una mappa del gusto con differenti zone per elaborare i quattro sapori basilari (dolce, salato, acido e umami, termine giapponese per denominare l’acido glutammico che non può essere ricondotto agli altri tipi)17. Un’altra caratteristica del senso del gusto è la necessità dell’umidità: le sostanze chimiche che stimolano la lingua devono sempre essere frammiste a qualche liquido, sicché la sua assenza impedirebbe la sensazione e, al limite, potrebbe rovinare l’organo. Viceversa, l’eccesso di liquido renderebbe i sapori indiscernibili, come succede quando molti si sovrappongono e ci riesce difficile riconoscerne dei nuovi. L’importanza che il gusto ha da un punto di vista antropologico si osserva, ad esempio, nel fatto che il lattante reagisce già in modo relativamente differenziato alle impressioni gustative. A differenza degli animali, nell’uomo però il gusto non informa, se non in pochi casi, del carattere benefico o nocivo che alcuni cibi, come i funghi velenosi, hanno per la salute. Nell’uomo la “convenienza del reale” è colta a un livello molto più profondo di quello puramente sensibile, cioè a livello della cogitativa, ovvero della ragione per partecipazione. L’educazione, ad esempio, ci aiuta a cogliere il carattere benefico o nocivo della realtà a incominciare dal cibo. La relativa indipendenza del gusto nei 16

Cfr. D. HERRMANN, Helen Keller: A Life, Alfred A. Knopf, New York 1998. Cfr. CH. S. ZUKER ET AL., A Gustotopic Map of Taste Qualities in the Mammalian Brain, «Science», (2011), pp. 1262-1266. 17

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confronti della sua funzione biologica, fa sì che esso possa aprirsi alla percezione di altri valori, come quello estetico che è alla base dell’arte culinaria18. E ciò fa sì, d’altro canto, che l’uomo possa avvelenarsi ingerendo un cibo marcio, cosa molto più difficile nel caso di un animale. Il gusto inoltre, attraverso determinati ricordi, può suscitare emozioni di tristezza, gioia, ecc. Ciò sembra avere già una prima spiegazione a livello neurologico. Infatti, come recenti studi hanno individuato, l’amigdala gioca un ruolo di prim’ordine sia nello scatenarsi di emozioni sia nell’elaborazione dei segnali gustativi, così il dolce è legato a un’emozione positiva mentre l’acido e l’amaro a una negativa19. A questo riguardo, è interessante ricordare che alcuni letterati, come Marcel Proust (1871-1922), hanno intuito lo stretto rapporto fra emozione e gusto. Così, Marcel, il protagonista del famoso romanzo proustiano Alla ricerca del tempo perduto, riassaporando dopo anni il gusto di una madeleine, un tipico dolce francese, ricorda i piacevoli tempi passati a casa della zia malata a Combray. Il sapore della madeleine permette a Marcel di recuperare il tempo felice dell’infanzia, che sembrava ormai scomparso per sempre. Anche l’olfatto sembra avere uno stretto rapporto con le emozioni e, attraverso di esse, con il comportamento. L’organo di questo senso è costituito da una piccola parte della mucosa nasale (chiamata appunto olfattoria) e anche da alcune zone prossime ai lati del setto nasale (epitelio olfattorio), dove si trovano le cellule olfattive. L’area del cervello interessata all’elaborazione dei segnali olfattivi è la circonvoluzione dell’ippocampo e del corpo calloso. L’origine evolutiva dell’area olfattiva è però il tronco encefalico, la parte più primitiva del cervello, che continua con il midollo spinale a livello del foro occipitale e, cranialmente, con il diencefalo e il telencefalo20. Quest’area, che è la parte 18

Cfr. A. GEHLEN, Antropologia Filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, pp. 223-245. 19 Secondo alcuni studiosi, ciò è dovuto a una strategia dei mammiferi per sopravvivere, poiché l’acido e l’amaro corrispondono a sostanze nocive in quanto possiedono un’alta concentrazione di sali (CH. S. ZUKER ET AL., High Salt Recruits Aversive Taste Pathways, «Nature», (2013), http://www.nature.com/nature/journal/ v494/n7438/full/nature11905.html). 20 Tutte queste aree raccolgono le diverse informazioni olfattive, conferendo all’odore una connotazione affettiva che favorisce la conservazione del ricordo (L.B. BUCK, I sensi chimici: olfatto e gusto, in E.R. Kandel, J.H. Schwartz, T.M.

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dominante del cervello dei rettili, serve a controllare le funzioni basilari vitali: nutrizione, riproduzione, fuga e aggressione. L’immaterialità dell’olfatto è maggiore del gusto: il suo organo non deve essere in contatto immediato con l’oggetto né deve acquisire materialmente le qualità reali. Ciò nonostante, anche l’olfatto ha bisogno di un mezzo, l’aria respirata, che deve essere riscaldata nella cavità nasale affinché gli elementi di tipo chimico presenti in essa attivino l’organo. Negli animali l’olfatto ha solo una funzione biologica: l’avvicinamento verso ciò che è adatto alla nutrizione, alla riproduzione e la fuga da ciò che costituisce un pericolo. Per l’animale il senso fondamentale è perciò l’olfatto; invece nell’uomo la funzione biologica è stata ridimensionata e, in parte, sostituita da quella emotiva ed estetica. Infatti, l’atrofia dal punto di vista biologico permette che l’olfatto umano non si limiti alla ricerca di determinati oggetti tendenziali, bensì sia aperto a una grande diversità di qualità olfattive, il che permette di associarle a persone, luoghi, e particolari esperienze. Tutto ciò fa sì che gli odori, come i sapori, abbiano per gli esseri umani una grande capacità evocativa e valutativa21. Oltre alla capacità di cogliere l’odore indipendentemente dai propri bisogni, fenomeno che si trova alla base dell’industria dei profumi, l’olfatto umano ha anche un ruolo di prim’ordine nell’arte culinaria: le fini differenze fra le varietà di vini, carni, frutti… sono più fiutate che gustate. Nelle sensazioni corrispondenti ai sensi inferiori, la distinzione tra orizzonte circondante e soggetto che sente è ancora imprecisa. Si vede chiaramente nella difficoltà per classificare il dolore cutaneo. Per alcuni esso sarebbe una sensazione vicina al tatto, mentre per altri sarebbe un sentimento. Nel gusto e nell’olfatto l’orizzonte sensibile è più ampio, ma sempre limitato al contatto attraverso un mezzo, per cui l’aspetto soggettivo è ancora grande; invece nei sensi superiori, come l’udito e la vista, la differenza fra orizzonte circondante e soggetto è più nitida. c) L’udito e la vista informano rispettivamente dell’orizzonte temporale e spaziale. Essi servono per l’orientamento nel mondo, perché anticipano in un certo modo i possibili incontri di significato biologico. Jessell (a cura di), Principi di neuroscienze, 3ª ed., Ambrosiana, Milano 2003, pp. 618-638). 21 Cfr. R. CAVALIERI, Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 181 e sgg.

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Nell’uomo, oltre ad avere questa funzione, sono veicolo dello spirito: attraverso l’udito ci giunge la voce, la musica o estetica dei silenzi e suoni; attraverso la vista, il simbolo, la scrittura e l’estetica della forma. La posizione elevata di questi due sensi si mostra anche nella maggiore complessità dei loro organi e nella maggiore differenziazione fra le qualità sensoriali che sono colte. L’udito agisce a distanza dall’oggetto sensibile: a differenza dal gusto e dell’olfatto, non ha bisogno di un contatto ravvicinato. Per essere sentite, le qualità auditive devono però manifestarsi in modo successivo. L’udito è, perciò, il senso per eccellenza del tempo e della durata. Il suo stimolo non è chimico, bensì fisico: le particelle atomiche dei corpi che si propagano nell’aria sotto forma di onde sonore. L’organo uditivo è costituito dall’udito nelle sue tre parti: esterna, media e interna. Il centro cerebrale di ricezione ed elaborazione degli stimoli uditivi è il telencefalo e il lobo temporale22. Il mezzo è l’aria, giacché le onde sonore non si trasmettono nel vuoto; possono, invece, farlo attraverso un corpo solido e perfino nell’acqua, ma l’udito degli animali terrestri è meno adatto a percepirle in un ambiente liquido. L’udito umano è in grado di distinguere fra due tipi di sensazioni: rumori e suoni. La differenza fra essi consiste nel fatto che, nei suoni, le vibrazioni prodotte sono rapide e regolari, cioè hanno tono, timbro, intensità, ritmo e durata periodici, mentre nei rumori sono casuali e discontinue. I rumori hanno una funzione esclusivamente biologica, cioè aiutare all’orientamento dell’animale nello spazio vitale, come ad esempio avviene nell’identificare una preda o un temporale che si avvicina, ecc. L’uomo, a differenza degli animali, può percepire non solo rumori ma anche suoni, e quindi la parola e la musica. Oltre a questa funzione estetica, i suoni ne hanno un’altra di carattere sociologico: sono alla base dei rapporti interpersonali e della convivenza umana. Si capisce, quindi, che, per il fatto di restare isolati dalla comunicazione acustica, i sordomuti tendano al sospetto. L’udito è legato alla memoria volontaria e, attraverso di essa, alla razionalità scientifica. A questo senso è associato un elevato simbolismo, che, oltre a manifestarsi nell’emissione e decodificazione di segni 22

Per i sensi dell’udito e della vista seguo il testo di M.S. GAZZANIGA ET AL., Neuroscienze Cognitive, Zanichelli, Bologna 2005, cap. 5. Si può anche vedere il capitolo corrispondente di M.F. BEAR, B.W. CONNORS, Neuroscienze. Esplorando il cervello, Masson, Milano 2007.

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linguistici, permette di aprirci alla trascendenza. Infatti, solo mediante l’udito possiamo credere in un Dio che si rivela, perciò l’udito è in un certo qual modo il senso della fede (fides ex auditu23). Anche la vista agisce a distanza dall’oggetto senza dover acquisire le qualità percepite. Qui si richiede soltanto il mutamento dell’organo, l’occhio. Lo stimolo della vista sono le onde luminose, le quali implicano pure tempo sebbene in misura minore di quelle acustiche, perché si propagano alla velocità della luce. La parte del cervello deputata all’elaborazione dell’informazione visiva è il lobo occipitale, di qui essa passa ai lobi parietale e temporale. Una recente ricerca fatta da due noti neuroscienziati ha portato alla luce che, ancora prima della percezione, fra il gusto, l’udito e la vista si produce una certa strutturazione, per cui i colori – oltre ad essere visti – sono uditi, mentre le forme sono anche gustate24. Comunque è, soprattutto, mediante l’occhio che ci giungono gli stimoli necessari a cogliere una molteplicità di colori. I colori offrono alle sensazioni visive la loro ricchezza e anche la loro forma, circoscrivendola. D’altro canto, possiedono pure un valore emozionale, analizzato, ad esempio, da Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) nella sua nota teoria cromatica. Secondo il letterato tedesco, il rosso ha un influsso eccitante, l’azzurro riposante, ecc.25. Ciò sarebbe dovuto al fatto che il colore è legato sia ad aspetti biologici (il rosso, ad esempio, al sangue), sia ad aspetti simbolici, ovviamente all’interno di una specifica cultura; così per gli occidentali il colore del dolore e del lutto è il nero, mentre in alcune culture asiatiche (Cina e India, ad esempio) lo è il bianco. Inoltre, va ricordato come non tutte le culture percepiscono i colori allo stesso modo, ad esempio, per un eschimese le sfumature di bianco sono ampiamente colte fino a poter distinguere più di sessanta tipi di bianco e possedere nella sua lingua sette parole differenti per nominarlo. Questo è indicativo di come la sensibilità umana ammetta un’educazione26. 23

Rom., X, 17. Cfr. S.V. RAMACHANDRAN, E.M. HUBBARD, Udire i colori, gustare le forme, «Le Scienze», 418 (2003), pp. 95-101. 25 Cfr. J.W. GOETHE, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 189214. 26 Sul ruolo della cultura nella percezione della realtà si veda D. LE BRETON, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 31 e sgg. 24

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Con il senso della vista siamo giunti alla soglia dei sensi interni. Infatti, normalmente la nostra fantasia è legata alla vista: spesso immaginiamo non le cose che ascoltiamo o che tocchiamo, ma le cose che vediamo poiché esiste un collegamento molto stretto tra l’immagine visiva e la fantasia. Inoltre, attraverso l’immaginazione, la vista si connette alla razionalità nelle due funzioni principali: contemplativa e pratica. Nel senso della vista, lo spazio circostante appare nella forma di pura oggettività, per cui funge da orizzonte dove collocare le altre sensazioni. Si capisce, quindi, perché l’uomo pretenda di raggiungere una visione d’insieme e perché l’atto di conoscere sia stato concepito, dalla filosofia antica, come vedere; da qui la parola idea (eidos “idea”, da eidon aoristo di horao “vedere”). Inoltre, la quasi simultaneità fra la modifica dell’organo e il cogliere le qualità reali, lo avvicina alle facoltà che godono di piena immanenza e immaterialità, come intelligenza e volontà. La visione, perciò, è stata spesso impiegata per descrivere l’attività spirituale. Nelle culture antiche tuttavia l’udito era il senso più importante; questo vale in genere per le culture più tradizionali in cui le informazioni e i racconti si tramandano oralmente. Invece, la nostra cultura possiede un carattere più “visivo”, legato alla scrittura e all’immagine. D’altro canto, come hanno indicato i filosofi analitici, la vista è unita all’azione. Wittgenstein, ad esempio, rileva la relazione fra “vedere” e “saper fare”27, dimostrata dal fatto che ordinariamente si impara a fare le cose vedendo come si fanno. Ciò troverebbe anche riscontro dal punto di vista cerebrale. Infatti, sembra che la corteccia parietale abbia il compito di stabilire una mediazione fra la vista e la posizione degli arti, in modo da poter discriminare fra i diversi oggetti tenuti in mano28. Anche se sono una condizione necessaria per scoprire il mondo ed entrare in rapporto con gli altri, i sensi esterni non bastano. C’è bisogno della coscienza dei movimenti del corpo e dello sforzo muscolare che si fa per agire. Questa coscienza, basata sulle interocezioni e le propriocezioni, permette di sentire il proprio organismo tanto nella sua interiorità viscerale quanto nella sua struttura scheletrica-muscolare, il che è necessario, ad esempio, per spostare o sollevare altri corpi. Attra27

Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, II, 11. Cfr. F. CASOLO, Lineamenti di teoria e metodologia del movimento umano, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 53-63. 28

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verso queste sensazioni, il sensorium e il motorium, cioè la sensibilità e la motricità costituiscono un’unica struttura dinamica. Inoltre, a differenza di quanto accade con le potenze superiori (intelligenza e volontà), la percezione migliora con gli strumenti, non con gli atti dei sensi esterni. Facendo un paragone, possiamo affermare che il coraggio cresce facendo atti coraggiosi, mentre gli atti della vista non migliorano la visione. I nostri sensi ammettono l’uso di strumenti, come il telescopio o il microscopio, che aumentano la capacità visiva ma non, per così dire, l’atto di vedere. Detto in altro modo, i sensi esterni non ammettono un perfezionamento o virtù nel loro agire; ecco uno dei limiti della loro immanenza.

4. I sensibili propri e comuni Gli oggetti sensibili possono essere di due tipi: propri e comuni. Si dicono propri (o primari) quando sono colti specificamente da un singolo senso, come le qualità tattili, il sapore, l’odore, il suono e il colore, anche se come si è visto ammettono una certa strutturazione (le forme gustate e i colori uditi). Si dicono invece comuni (o secondari), quando sono percepiti da vari sensi, come il movimento – che può essere colto sia dal tatto sia dalla vista e dall’udito e, forse anche dall’olfatto – o la quiete, l’unità, il numero, la figura e la quantità. I sensibili comuni ci permettono d’avvertire che una cosa si muove o è immobile, è una o molteplice, rotonda o quadrata, grande o piccola. Secondo Aristotele il più comune dei sensibili secondari è il movimento (si potrebbe dire anche il tempo, giacché esso è «la misura del movimento secondo il prima e il poi»29), il che equivale a dire che tutti i sensibili comuni partecipano del movimento. Secondo San Tommaso, invece, il più comune sarebbe la quantità (si potrebbe dire anche lo spazio o meglio l’estensione). Il tatto e la vista colgono tutti i sensibili comuni, mentre gli altri sensi non possono farlo. Ciò spiega perché i ciechi sono capaci di supplire la vista sviluppando il senso del tatto. Ma il modo di cogliere lo spazio e il tempo da parte di questi due sensi è differente: il tatto li coglie in modo concreto, mentre la vista lo fa in modo astratto, cioè a distanza, perché l’ambito d’indeterminazione di questa facoltà è mag29 ARISTOTELE,

Fisica, IV, 11, 219b 1-2.

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giore. Lo spazio colto dal tatto si trova soprattutto nel palmo della mano ed è uno spazio discontinuo, mentre quello della vista è continuo e si dà come totalità o orizzonte. I sensibili propri e comuni sono chiamati sensibili per sé per differenziarli dai sensibili per accidens, perché solo impropriamente sono sensibili. I sensibili per accidens sono la sostanza e la causalità. La sostanzialità del cavallo, ad esempio, non è né un accidente né un insieme di accidenti e non lo è neppure la causalità: vedere qualcosa di bianco “uscire da una cavalla” non è vedere né il puledro né la causalità. Questi sensibili non vengono dunque colti dai sensi esterni, come giustamente hanno intuito gli empiristi inglesi, soprattutto Hume, che tuttavia criticano aspramente e squalificano erroneamente come non esistenti i sensibili per accidens. I sensibili per accidens sono colti invece dai sensi interni, ossia dall’estimativa negli animali e dalla cogitativa e dall’intelletto nell’uomo: la cogitativa coglie l’aspetto particolare, concreto e singolare, mentre l’intelletto quello universale. Il carattere bipolare proprio dell’atto conoscitivo (conosciuto-conoscente) ha fatto sì che lungo la storia della filosofia ci siano stati molti detrattori del valore veritativo della conoscenza soprattutto di quella sensibile, poiché in essa si ha in modo immediato la coscienza della nostra corporeità. La difficoltà di distinguere ciò che è reale da ciò che è soggettivo ha portato molti pensatori – incominciando da alcuni filosofi presocratici come Parmenide fino agli attuali pensatori postmoderni come Foucault, passando per Platone, Cartesio, ecc. – a rifiutare la conoscenza sensibile come adeguata alla realtà. In fondo per questi autori la conoscenza sensibile non sarebbe tale, ma solo quella intelligibile. Non si rendono conto, però, che la conoscenza intelligibile è solo la parte finale di una strutturazione e quindi l’origine di questa struttura sono le sensazioni: senza di esse non vi sarebbe una conoscenza nemmeno intellegibile. Anche se non mancano gli inganni dei sensi e le illusioni sensibili, non si può rifiutare il carattere conoscitivo delle sensazioni senza distruggere nello stesso tempo le basi della conoscenza umana. Non bisogna dunque negare il valore della conoscenza perché ci sia qualche sensazione ingannevole, giacché ciò che si deve analizzare non è tanto il carattere veritativo di sensazioni isolate, bensì la totale struttura della conoscenza nel suo rapporto con il vivere umano; ad esempio, posso essere raffreddato e non assaporare una bella fetta di prosciutto, ciò nono110

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stante non devo mettere in dubbio di star mangiando del prosciutto con gli amici. Da qui l’importanza di analizzare il modo in cui la sensibilità umana si struttura sino ad arrivare alla conoscenza intellegibile.

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5. I sensi interni Man mano che si sale nella scala zoologica, gli animali possono muoversi anche in assenza di realtà sensibili. Ad esempio, l’elefante percorre centinaia di kilometri nella savana cercando l’acqua, oppure la pecora fugge appena fiuta la presenza del lupo. Questi e altri comportamenti degli animali indicano che essi sono dotati di un senso in grado di unificare e distinguere ciò che è colto dai sensi esterni (senso comune), di conservare l’aspetto formale delle sensazioni (immaginazione), di valutare la realtà vissuta per agire di conseguenza (estimativa e cogitativa) e di conservare questa valutazione (memoria). Ad esempio, se ci troviamo di fronte ad un cane e raccogliamo una pietra, normalmente il cane non aspetta che gliela scagliamo ma corre subito via, o comunque si allontana. Nella pietra in sé non c’è nulla di nocivo e nemmeno nel nostro “prendere la pietra”, ma il cane ha memoria e avendo in passato ricevuto altre sassate non aspetta l’azione vera e propria, perché sa qual è – normalmente – la conseguenza di quel gesto. Non tutti gli animali, però, hanno memoria: gli insetti ad esempio non ne hanno e non è un caso che le falene attratte dalla fiamma finiscano per morire bruciate. Memoria, fantasia, estimativa non hanno un oggetto diverso da quelli colti dai sensi esterni: l’oggetto è il medesimo ma elaborato in una modalità differente. Questa è la caratteristica fondamentale dei sensi interni. Tuttavia se non ci fosse una qualche strutturazione nelle nostre sensazioni avremmo, per così dire, un caos. Questo è quello che avviene nel bambino appena nato in cui vi sono differenti sensazioni ma senza la presenza di alcuna strutturazione. Dunque perché ci siano i sensi interni c’è bisogno che vi siano prima le sensazioni esterne. Ciò è particolarmente importante poiché può capitare di pensare alle nostre facoltà come se esistessero per sé o da sé. Sensi interni, ragione, volontà, ecc., non li abbiamo – strettamente parlando – sin dall’inizio della vita. Essi sono solo potenzialità della nostra anima razionale. Perché diventino attuali, c’è bisogno di partire da ciò che è inferiore, cioè dalle sensazioni. Ciò che è superiore, nell’ambito della vita umana, della 111

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cultura, parte da ciò che è inferiore, molto legato alla nostra corporeità. Se non avessimo la capacità di strutturare le sensazioni non avremmo quindi la possibilità di attualizzare questa dimensione, alla fine, spirituale della persona umana. Il che non significa che la persona umana non abbia – da sempre – un essere spirituale, ma perché essa possa sviluppare tutte le sue potenzialità c’è bisogno prima di passare attraverso questo livello sensibile. Questo ci fa ben capire come lo sviluppo della persona è graduale: per la persona umana il tempo è fondamentale. Che cosa ha l’embrione nel grembo della mamma? Fondamentalmente, tempo a disposizione. Come accade con i sensi esterni, quelli interni sono organici. Gli organi dei sensi interni sono localizzati in diverse parti del cervello, come si osserva nel fatto che alcune lesioni delle aree della corteccia danno luogo a determinati disturbi, ad esempio, l’agnosia, cioè l’incapacità di riconoscere e di identificare gli oggetti che però sono stati sentiti: visti, uditi, toccati, ecc.30. D’altra parte, come ho indicato, lo stimolo da cui s’innesca l’operazione sensitiva interna è l’azione stessa dei sensi esterni (le sensazioni e i loro atti, che sono elaborate dal cervello a diversi livelli e in modalità differenti). I sensi interni possono essere divisi in sensi formali, cioè quelli che ricevono o conservano le forme sensibili (senso comune e immaginazione), e sensi intenzionali, quelli cioè che ricevono e conservano le valutazioni (estimativa o cogitativa e memoria). a) Sensi formali 1) Prima strutturazione delle sensazioni: il senso comune La psicologia classica, a partire da Aristotele, ha coniato il nome di senso comune (koine aisthesis) per riferirsi al senso interno che è in grado di collegare le diverse sensazioni esterne. In psicologia gestaltista31, l’equivalente di questo senso si chiama percezione. All’esistenza del senso comune Aristotele giunge prendendo spunto dalla seguente osservazione: quando conosciamo sensibilmente una 30

Sul concetto e tipi di agnosia si veda M.S. GAZZANIGA ET AL., op. cit., cap. 6. Corrente della psicologia nata antecedentemente la prima guerra mondiale e sviluppatasi pienamente nel corso degli anni ’20 a Berlino. Principali rappresentati ne furono Max Wertheimer (1886-1941), Wolfgang Köhler (1887-1967) e Kurt Koffka (1886-1941). Essa fornì importanti contributi soprattutto nel campo della psicologia della percezione e del pensiero. 31

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mela, abbiamo il colore che è percepito dalla vista, il profumo dall’olfatto, il sapore dolce dal gusto e così via. Si osserva, inoltre, come ogni senso distingue fra diversi aspetti: la vista coglie il colore rosso della mela e, in condizioni normali, lo distingue dal verde delle foglie, ma non percepisce l’azione di vedere né distingue il rosso della buccia dal dolce della polpa. Rendersi conto di “vedere un colore rosso” e non di “gustare dolce” è qualcosa che non può fare la vista né alcun altro senso esterno, poiché né questi atti né queste differenze sono l’oggetto dei sensi esterni32. Ciò nonostante, noi siamo in grado di coglierli. Ci deve essere, dunque, un senso interno in grado di prendere l’articolazione di questi aspetti del reale, che manifesta l’unità del conosciuto fuori della mente. Spesso si è tentati di pensare a questa struttura come unità raggiunta mediante l’atto di strutturare ma, se parliamo di struttura, è evidente che è tale perché vi sono prima – unite – le differenze. L’unità della realtà nella sua differenziazione sensibile è ciò che coglie il senso comune, ad esempio, il dolce con il colore rosso, lo spazio percepito dalla vista con quello percepito dal tatto e cosi via. Ciò significa che questo stesso senso è in grado di prendere, oltre alle qualità che provengono dai sensi esterni, anche i lori stessi atti: il vedere della vista, il gustare del gusto, il toccare del tatto. Grazie a questa percezione degli atti, si può unificarli insieme con le loro qualità, il che ha luogo attraverso il “rendersene conto” sensibilmente. Inoltre, questo senso unifica i diversi modi di cogliere i sensibili comuni in una sola percezione dello spazio, della figura, del movimento, della quiete, ecc. Sembrerebbe che il senso comune sia un atto posteriore ai sensi esterni in quanto li presuppone. Quest’ipotesi non è del tutto corretta. Infatti, anche se geneticamente si sviluppano in primo luogo i sensi esterni e poi quello comune, in realtà – in una gerarchia ontologica – il senso comune è primario, poiché è quello che permette il loro perfezionamento. La pura sensazione esterna non implica il completamento dei sensi esterni; perché essi siano perfetti, c’è bisogno di un senso interno, il senso comune appunto. La perfezione di cui parlo è qualitativa e non quantitativa. Nel suo atto di sentire, l’udito costituisce un atto perfet32 «Ora non è possibile giudicare per mezzo di sensi separati che il dolce è diverso dal bianco, ma entrambi gli oggetti devono manifestarsi a qualcosa di unico» (ARISTOTELE, De anima, III, 2, 426b 17-19).

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to. Ma dal punto di vista puramente sensibile è possibile un ulteriore perfezionamento e questo viene dal senso comune; per così dire – pur rimanendo nell’ambito del sensibile – possiamo cogliere, ad esempio, il rumore e inoltre l’atto di sentire il rumore. I sensi esterni sono come la materia del senso comune, che funge da forma. Ciò nonostante, il senso comune non è una pura forma, perché ha un organo, come si evince dal fatto che la sua specie impressa implica una doppia materialità: la realtà sensibile e gli organi delle facoltà sensitive. Anche se le neuroscienze non si occupano della localizzazione cerebrale di questo senso, le agnosie o disturbi in cui il paziente sperimenta un deficit nella capacità di riconoscere gli oggetti sembrano suggerire la prossimità fra alcune funzioni del senso comune e l’area visiva, giacché molte agnosie sono associate a lesioni della parte posteriore del cervello33. Il senso comune è, dunque, come “l’origine dei sensi esterni”; non dal punto di vista temporale ma metafisico: ciò che è più perfetto si trova prima di ciò che è meno perfetto, perché è più atto. Secondo la scolastica, la priorità ontologica del senso comune equivale a sostenere che esso è la radice della sensibilità esterna. Per questo motivo il senso comune è paragonato alla luce che illumina le operazioni dei sensi esterni che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra. Anche dal punto di vista dell’evoluzione i sensi esterni vanno nella direzione del senso comune, giacché quest’ultimo porta a compimento quanto è già stato iniziato mediante le sensazioni. La specie impressa del senso comune è lo stesso atto dei sensi esterni, per cui esso non ha un oggetto differente; il senso comune non è una nuova sensazione, bensì una percezione, ossia una strutturazione di quanto si sente. In altre parole, si può sentire di vedere solo se si vede. Al contrario, nel caso dell’immaginazione, l’oggetto dei sensi esterni non è più presente: s’immagina di vedere solo dopo aver visto. Si comprende perché il senso comune rende conscia sensibilmente l’unità fra l’atto e l’oggetto dei sensi esterni: vedere il colore, fiutare l’odore, gustare il sapore. Dopo questa visione sintetica della percezione, è possibile analizzare la sua struttura. La prima cosa che il senso comune conosce è l’atto dei sensi esterni. La seconda sono i loro sensibili propri. La terza i sensibili comuni. Certamente, i sensibili propri e comuni sono conosciuti 33

Si veda anche la voce “Agnosia” in Joseph C. SEGEN, Concise Dictionary of Modern Medicine, McGraw-Hill, New York 2006.

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mediante la percezione dei loro atti. Gli atti, invece, per se stessi. La differenza fra percezione dell’atto e del suo oggetto si coglie, ad esempio, nella distinzione fra la non visione e il vedere l’oscurità. Nella “non visione” c’è privazione dell’atto e, quindi, non si può sentire di vedere. Invece nel “vedere l’oscurità,” sebbene manchi l’oggetto, c’è l’atto e, quindi, si coglie lo spazio della vista senza colore, per cui si sente di vedere la mancanza di luce. Ecco perché facciamo l’esperienza del “vedere l’oscurità” o di “sentire il silenzio”. Secondo San Tommaso nel senso comune si dà già l’inizio della reditio34 o ritorno dell’esperienza all’anima e, quindi, si ha anche una certa coscienza della propria soggettività, sebbene in modo oscuro e confuso, il che è sufficiente perché l’Io sia conscio dell’esperienza sensibile. Senza una parziale reditio non sarebbe possibile giungere alla strutturazione della esperienza vissuta. Le funzioni del senso comune, dunque, sono tre: 1) cogliere gli atti dei sensi esterni o “sentire di sentire”, il che – insieme alle interocezione e propriocezione – costituisce il nucleo della coscienza sensibile, che in alcuni animali – come le scimmie antropomorfe – arriva anche al riconoscimento della propria faccia; 2) distinguere i sensibili propri e unificarli nella percezione (la stessa cosa può essere colta sensibilmente come rosso e dolce); 3) strutturare i sensibili comuni. La differenza fra queste funzioni si scopre, ad esempio, nelle differenti classi di agnosia. La prima, detta agnosia dei sensi, si riferisce all’incapacità di riconoscere che cosa si vede, si tocca o si sente nonostante si sia in grado di avere sensazioni visive, tattili e uditive; un caso particolare è la “prosopoagnosia”35 o incapacità di riconoscere i volti familiari. La seconda è l’agnosia integrativa, in cui la persona non è in grado di mettere insieme le parti di un determinato oggetto; ad esempio, può distinguere bene la coda, le gambe, la testa, ma essere incapace di riconoscere di quale animale si tratta. Infine, l’agnosia appercettiva consiste invece nell’incapacità di comporre i dati dei diversi stimoli in un’unità strutturata; ne è un tipico esempio l’agnosia della forma in cui la persona non riesce a distinguere una forchetta da un cucchiaio nonostante non abbia nessun deficit sensoriale. Tutto ciò ci fa capire come questa 34

TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 1, a. 9. Come racconta Sachs, il paziente con prosopoagnosia può fare delle gaffe tra le più incredibili, come scambiare la testa della moglie per un cappello (cfr. O. SACHS, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 1986, pp. 119-141). 35

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prima strutturazione, nonostante le sue diverse funzioni, è l’atto di un solo senso. Anche se le neuroscienze ci parlano tramite le agnosie di una struttura delle nostre sensazioni, ci sono scuole di psicologia come la Gestaltpsychologie (o psicologia della forma), che spiegano ciò senza fare ricorso all’esistenza di un senso particolare. Nonostante questa corrente psicologica si sia mostrata meno euristica del cognitivismo, nell’ambito della percezione essa continua, anche agli inizi del XXI secolo, ad avere molti seguaci, per questo vale la pena soffermarsi su come intende la percezione36. Il rifiuto della cosiddetta psicologia delle facoltà di taglio classico conduce la Gestaltpsychologie alla sostituzione del senso comune con uno schema percettivo (o percezione). Poiché – secondo questa dottrina psicologica – il tutto è maggiore delle parti, la percezione non sarebbe posteriore alla sensazione bensì contemporanea ad essa. È certamente vero che ci sono esperienze precedenti che influiscono sulla percezione attuale, ma esse non sono altro che, con un termine usato dalla Gestalt, lo sfondo su cui essa si stacca. Nella percezione visiva, ad esempio, le sensazioni attuali si strutturano secondo la dualità figurasfondo. Il nucleo delle informazioni più significative diventa figura e il resto passa ad essere sfondo. Sono conosciuti gli esperimenti di Edgar Rubin con le figure reversibili: un vaso e due profili37, o una donna giovane e un’anziana. Quando l’attenzione si pone sul vaso, i due profili diventano sfondo, quando l’attenzione si pone sulla donna giovane, quell’anziana diventa sfondo e viceversa. La struttura, così formata, si perfeziona e si completa, anche al di là dei dati sensoriali; ne sarebbe prova la tendenza a vedere una figura “buona” e a normalizzare quelle non del tutto “buone” così come la tendenza alla buona continuazione, alla buona simmetria, ecc.38; ad esempio, il piatto che abbiamo dinanzi a noi dovrebbe apparire con una forma ellittica, ciò nonostante noi lo vediamo con forma circolare. In ogni percezione sarebbe la presenza e l’attività dell’anima a manifestare la sua peculiarità attraverso la scelta, 36 Cfr. I. ROCK, S. PALMER, L’eredità della psicologia della Gestalt, «Le Scienze», 46 (1991), pp. 60-67. Si può anche vedere il saggio di F. TOCCAFONDI, Il tutto e le parti. La Gestaltpsychologie tra filosofia e ricerca sperimentale, Franco Angeli, Milano 2000. 37 Cfr. N.R. CARLSON, C.D. HETH, Psychology the Science of Behaviour, Pearson Canada, Toronto 2010, specialmente le pagine dedicate a Figure and Ground. 38 Cfr. J. PIAGET, I meccanismi percettivi, Giunti, Firenze 1975.

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l’arricchimento e la classificazione di ciò che viene dato oggettivamente, il che accade in modo inconsapevole. Inoltre, secondo la Gestaltpsychologie, la percezione degli oggetti non dipende solo dalla soglia delle sensazioni e dalla soglia differenziale, ma anche dalla figura standard. Ad esempio, sotto la luce di mezzogiorno, il carbone emette una luminosità tre volte superiore a quella del gesso; ciò nonostante noi lo vediamo nero e non bianco. Anche se la Gestaltpsychologie ha il pregio di aver messo in risalto il ruolo attivo del soggetto nella conoscenza, mi sembra che la percezione non sia semplicemente riconducibile a “stili cognitivi”: se così fosse, ossia se parliamo di strutture cognitive che dipendono solo dall’anima, sarebbe impossibile spiegare il rapporto che si stabilisce tra tutti noi, cioè il fatto che le nostre sensazioni anche quando ci sono queste modifiche (ad esempio, il piatto ellittico davanti a noi) sono sempre le stesse: tutti vediamo il piatto con forma circolare. È chiaro che la strutturazione delle sensazioni in schemi percettivi non dipende solo dall’attività dell’anima, ma anche dalle potenzialità degli organi sensibili e, soprattutto, dai rapporti fra le diverse facoltà, i loro atti e la realtà sensibile. Alcuni psicologi, inoltre, hanno mostrato che il fattore direttivo opera più come un processo selettivo che non come un’organizzazione radicale, giacché nella massa dei dati forniti dai sensi esterni, sono scelti, posti in evidenza e organizzati solo quelli che rispondono a uno scopo. L’organizzazione sensoriale, quindi, offre già una direzione al processo percettivo39. Infine, l’innatismo delle forme e il parallelismo psicofisico difesi dai gestaltisti sembrano poco fondati. Infatti, come si può dimostrare, ad esempio, che alla facilità o predisposizione a percepire fenomenicamente il triangolo, corrisponda l’esistenza di tale figura nei cristalli? Forse la motivazione principale per sostenere solo l’attività dell’anima da parte dei gestaltisti è il loro principio olistico, secondo cui lo schema percettivo non dovrebbe essere posteriore ai dati sensibili. Ma proprio il senso comune postula un’unità radicale di tutte le sensazioni perché esso è come la sorgente della sensibilità che nel diffondersi si differenzia in una diversità di sensi. Fra lo schema percettivo dei gestaltisti e il senso comune c’è, dunque, una certa convergenza. Se 39

Cfr. A. GEMELLI, Nuovi orizzonti della psicologia sperimentale, Vita e Pensiero, Milano 1921, p. 81 e sgg.

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le cose stanno in questi termini, si può ipotizzare che il senso comune non solo coglie gli atti dei sensi esterni, ma anche li struttura in determinati schemi percettivi, d’accordo con regole e scopi, che non sono attuali né consci, bensì abituali. In questo modo il bambino impara a distinguere fra i colori e le forme, fra i suoni e i rumori, fra le sensazioni tattili e i movimenti dei suoi organi interni e a organizzarli in schemi che gli permettono di distinguere ciò che è familiare da ciò che non lo è, riconoscendo sempre – nonostante i cambiamenti – l’identità dell’oggetto. C’è perciò un tipo di agnosia, chiamato di trasformazione40, in cui il paziente non riesce a riconoscere un oggetto quando esso viene girato o capovolto o quando è collocato ad una distanza maggiore o minore di quella abituale. Infine, attraverso il senso comune, il bambino impara anche a mettere in correlazione la vista, il tatto e l’azione, acquisendo così la destrezza di prendere e usare ciò che vede o è alla portata del suo raggio d’azione. La mancanza di questo tipo di strutturazione si osserva nell’agnosia associativa, in cui il paziente riesce a riconoscere, ad esempio, il cucchiaio come un oggetto familiare, ma non sa usarlo. Anche se suppone già un grande sviluppo della conoscenza sensibile, il senso comune non la esaurisce, poiché essa non si limita alla strutturazione di quanto è dato, ma tende alla conservazione, purificazione e oggettivazione di tale struttura una volta scomparsa la realtà esterna sensibile che è alla base del processo conoscitivo. 2) Seconda strutturazione delle sensazioni: l’immaginazione o rappresentazione In quanto perfezionamento dei sensi esterni, quando la realtà sensibile è presente, il senso comune coglie le sensazioni e le loro differenze qualitative. È possibile, però, avere sensazioni anche in assenza della realtà mediante nuove strutturazioni della sensibilità. Ciò che viene strutturato allora è il materiale procedente dall’unificazione operata dal senso comune. L’immaginazione è il senso interno che realizza questa seconda strutturazione della sensibilità. La dipendenza diretta dell’immaginazione dal primo dei sensi interni porta San Tommaso a definirla,

40 Cfr. E.K. WARRINGTON, J. DAVIDOFF, The Bare Bones of Object Recognition: Implications from a Case of Object Recognition Impairment, «Neuropsychologia», 37 (1999), pp. 279-292.

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seguendo Aristotele, come «motus factus a sensu secundum actum»41, cioè un moto prodotto dal senso secondo l’atto. Cerchiamo di capire questa definizione sintetica. Per farlo bisogna dapprima tener conto del rapporto fra il senso comune e l’immaginazione: l’atto del senso comune funge da stimolo dell’immaginazione (motus factus a sensu), giacché la prima strutturazione propria del senso comune resta nell’organo dell’immaginazione come una traccia, che può essere evocata e quindi messa in atto (secundum actum). Immaginare sarebbe, quindi, l’atto di “evocare la traccia”. Ci sono varie questioni suscitate da questa definizione: in primo luogo, il carattere attivo dell’immaginazione; in secondo luogo, il suo carattere organico; in terzo luogo, le sue funzioni. Riguardo alla prima questione, sembra chiaro che sentire e immaginare siano due atti completamente differenti. È vero che vedere la luce e sentire di vederla sono due atti differenti (l’atto della vista e del senso comune) ma hanno uno stesso oggetto, mentre la sensazione e l’immaginazione sono due atti con oggetti fino a un certo punto differenti. In quale senso? Nel senso che nell’immaginazione non ci sono sensazioni particolari: quando immaginiamo di vedere la luce non la vediamo e neppure sentiamo di vederla. Ciò significa che l’atto della sensazione e quello dell’immaginazione non coincidono nel tempo: mentre sentiamo non immaginiamo, sebbene una volta immaginate le sensazioni vengono ulteriormente strutturate. Ciò potrebbe spiegare perché, nonostante il piatto davanti a noi abbia una forma ellittica, lo vediamo circolare. Forse il ruolo dell’immaginazione potrebbe offrire una spiegazione alla tendenza alla buona forma messa a fuoco dalla Gestaltpsychologie. Ecco perché parlo di una seconda strutturazione delle sensazioni, la cui condizione di possibilità è l’operazione del senso comune. Arriviamo così alla seconda questione, l’immaginazione ha bisogno della traccia lasciata dal senso comune per attualizzarsi. La presenza di questa traccia può osservarsi mediante un semplice esperimento: se 41 ARISTOTELE, De anima, III, 3, 429a 1. Cfr. TOMMASO D’AQUINO, In III De anima, lect. 6, n. 659. Una definizione simile anche se più fenomenologica si trova nel seguente testo: «processo interiore, di autostimolazione (cioè non dipendente da stimoli esterni attuali) che rende presenti o tiene il posto di elementi conoscitivi e li elabora, estendendo così la quantità delle informazioni che guidano l’operazione» (A. RONCO, Introduzione alla Psicologia. 2. Conoscenza e apprendimento, LAS, Roma 2000, p. 69).

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uno fissa l’attenzione su un colore rosso molto intenso durante qualche secondo e poi guarda una superficie bianca invece di vedere bianco vedrà verde, il che significa che il colore percepito si mischia con quello precedente conservato dall’immaginazione. Il collegamento fra vedere e immaginare ha portato alcuni studiosi a ipotizzare che l’area di localizzazione dell’immaginazione sia la stessa della vista. Secondo Kosslyn, ad esempio, le aree della corteccia primaria, attraverso cui le informazioni visive accedono alla corteccia cerebrale, sono quelle stesse richieste per la generazione delle immagini visive mentali42. Perciò la lesione occipitale porterebbe con sé non solo un deficit della percezione ma anche della capacità d’immaginare43. Altri, come Berlucchi, pensano che queste due funzioni cognitive abbiano substrati corticali in parte differenti: la percezione degli stimoli visivi sarebbe più strettamente legata alla corteccia visiva primaria, mentre la formazione di immagini mentali visive dipenderebbe strettamente dalla corteccia del lobo temporale sinistro. Egli è giunto a questa conclusione dopo aver studiato due casi d’incapacità immaginativa come conseguenza di lesioni del lobo temporale44. Ciò spiegherebbe, inoltre, la capacità di ricostruire mentalmente non solo l’immagine visiva di una stanza, ma anche il rombo di un aereo, l’aroma di un fiore, il sapore di una mela o la freschezza dell’acqua sulla pelle. Riguardo alla terza questione, abbiamo appena visto che l’immaginazione conserva la traccia del senso comune, la quale funge da specie espressa45. La traccia non è immaginata, ma è ciò per mezzo di cui s’immagina: essa ha, per così dire, una presenza silenziosa. Conservare 42

Sul dibattito riguardante la localizzazione neurale dell’immaginazione si veda P. BARTOLOMEO, The Neural Correlates of Visual Mental Imagery: An Ongoing Debate, «Cortex», 44 (2008), pp. 107-108. 43 Si può ritenere, inoltre, che la base organica dell’immaginazione sia costituita dai circuiti neuronali che si configurano progressivamente secondo l’attività immaginativa (cfr. D. GROSSI, L. TROIANO, Lineamenti di neuropsicologia clinica, Carocci, Roma 2002, p. 118). 44 G. BERLUCCHI ET AL., Selective Deficit of Mental Visual Imagery with Intact Primary Visual Cortex and Visual Perception, «Cortex», 44 (2008), pp. 109-118. 45 La distinzione fra specie impressa ed espressa nell’ambito della sensibilità non si trova negli scritti di San Tommaso, anche se è considerata in linea con il pensiero tomistico. Su questo punto si veda A. LIVI, Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005, specialmente il capitolo nono.

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la traccia è la prima funzione dell’immaginazione. La seconda funzione è modificarla. Infatti, a differenza della percezione che non cambia ciò che percepisce, l’immaginazione elabora la traccia ricevuta. Ciò è dovuto alle differenze riguardo al senso comune: se nella percezione è data l’esistenza di ciò che è qui e adesso, nell’immagine i contenuti non vengono dati nel loro essere-lì, bensì nel loro essere-così, cioè nella loro forma. Pertanto mentre i sensibili percepiti non possono non esistere tranne il caso di malattia, le immagini possono non essere reali. Infatti, per esempio, il centauro non esiste, è una rappresentazione della fantasia costruita con la composizione di un cavallo e un uomo. È per questo motivo che è necessario distinguere immaginazione e fantasia. Hegel, ad esempio, separa l’immaginazione dalla fantasia, perché secondo lui la seconda non riproduce, ma “crea”46. Ciò che la fantasia non può fare, però, è rappresentare qualcosa che non abbia come origine un atto del senso comune: la fantasia fa sempre riferimento a ciò che è sensibile, può cioè combinare, elaborare le sensazioni. Quando si usa il termine “creazione” per riferirsi a questa funzione trasformante si sta sempre presupponendo un carattere analogico visto che l’immaginazione deve partire dal sensibile percepito. Sta di fatto che, mentre i sensibili devono necessariamente esistere, le rappresentazioni della fantasia possono non esistere. La Gestaltpsychologie parla anche dell’esistenza di una protofantasia, che sarebbe la premonizione di ciò che ancora non è sensorialmente presente; ciò spiegherebbe come mai l’animale può mettersi alla ricerca di cibo, acqua, ecc. Senza entrare nel merito, questa tesi mette in risalto un aspetto che appare anche nell’immaginazione: la possibilità di anticipare in parte ciò che si cerca, che è così importante per la ricerca in tutti i campi del sapere umano. A volte la ricerca può innescarsi in modo più o meno casuale, quando, ad esempio, l’immaginazione rappresenta in modo spontaneo ciò che è stato presente ma a cui non si è fatto attenzione. Altre volte, invece, essa dipende dal complesso mondo tendenziale e affettivo. Un’altra differenza nei confronti del senso comune riguarda l’ambito dell’apparire. Le percezioni si riferiscono a uno spazio reale colto dai diversi sensi, ad esempio, quello della vista o del tatto, che è unificato dal senso comune. Le immagini, invece, sorgono in uno spazio non reale, che chiamiamo appunto im46

G.F.W. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari 1962, parr. 455-457.

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maginativo, con dimensioni proprie e distinte, sovrapposto in un certo qual modo allo spazio dei sensi esterni. Ciò rende possibile una delle funzioni centrali dell’immaginazione: la ripetizione. L’immaginazione non riproduce solamente ciò che ha ricevuto, ma si fa anche carico dello stesso riprodurre, che essa oggettiva. Tale capacità si concretizza in schemi riproduttivi, ad esempio, ritmicamente (l’immaginazione musicale, poetica) o proporzionalmente (l’immaginazione matematica che elabora i numeri, le misure). Infine, l’immaginazione combina le immagini, che derivano dall’esperienza personale, secondo la loro somiglianza, il loro contrasto o la loro contiguità. Questo accade, ad esempio, nei fenomeni di trasformazione di una rappresentazione in un’altra che acquisisce così un carattere simbolico. Ad esempio, amicizia, pace, buone intenzioni si fondono nello stringere la mano o nell’abbraccio. Le trasformazioni rispondono a una maggiore economia e efficienza delle informazioni: mediante questi atti, l’insieme degli oggetti e delle situazioni percepite viene ulteriormente unificato, poiché vari oggetti, percettivamente differenti, sono considerati una sola unità e “rappresentati” da un unico segno interiorizzato. Ad esempio, il pugno chiuso come simbolo di lotta politica. Attraverso la trasformazione si può arrivare al simbolo, o rappresentazione più o meno schematica e stilizzata, che ha tuttavia la capacità di richiamare molte informazioni. Il simbolo suscita non solo una relazione con una realtà che non è presente, ma anche la sua stessa comunicazione agevolando così la comprensione reciproca dei soggetti, vale a dire la riflessività relazionale47. Certamente, come accade in ogni processo comunicativo, l’informazione trasmessa può essere mal interpretata. È chiaro che lo schematismo richiede l’uso dell’intelligenza e dunque l’immaginazione umana non è solo collegata alle sensazioni, ma anche al pensiero. Ad esempio le immagini usate dai profeti hanno una lunga tradizione, il che significa che anche se si tratta di simboli di realtà soprannaturali, sono resi comprensibili attraverso interpretazioni umane. Anche quando parliamo di ciò che è ineffabile, dobbiamo farlo rientrare nel nostro modo di conoscere. San Giovanni della Croce (1542-1591) per esempio narra le sue esperienze mistiche – la notte oscura dell’anima –, che vengono espresse e interpretate in 47

Cfr. L. GATTAMORTA, Teorie del simbolo. Studio sulla sociologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano 2005.

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linguaggio umano (il castigliano) e in una tradizione culturale, quella cioè del tomismo. Tenendo presente le diverse funzioni dell’immaginazione si può parlare di cinque forme: eidetica, ludica, desiderativa, pianificatrice e creatrice. 1. Eidetica o visiva dipende dalla conservazione di una traccia molto particolareggiata, che ritiene tante sfumature dei sensibili. Essa è specialmente presente nei bambini, ma anche negli artisti perché sono capaci di ritenere una grande quantità di elementi colti mediante la sensibilità esterna. Un pittore, come Jan Vermeer (1632-75), è in grado di conservare numerose sfumature di blu o giallo. Certo ciò è dovuto a una maggiore sensibilità ai colori, ma non solo: è necessario anche che l’immaginazione riesca a conservarle tutte quante. Come l’immaginazione di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) riusciva a conservare le composizioni musicali in un modo così incredibile tanto da poter scrivere gli spartiti delle sue opere senza quasi correzioni. Un caso analogo è quello di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). Sembra che la sua proverbiale memoria dipendesse da questo tipo d’immaginazione per cui gli bastava leggere un libro per conservarlo perfettamente. O ancora, essendo l’immaginazione del bambino così fiorente, la sua paura non è astratta come la nostra ma molto concreta, cioè come se egli vedesse il pericolo con i propri occhi. Man mano che si diventa più grandi anche le paure diventano meno vivide. 2. Ludica o trasformatrice della realtà sotto la spinta della tendenza all’imitazione. Ciò accade soprattutto nel bambino a partire dal terzo anno di età. Non solo i giocattoli rappresentano realtà diverse, ma anche il bambino stesso adotta altre identità. Ad esempio, nella fantasia del bambino una scopa – e anch’egli stesso – può trasformarsi in un cavallo. A quest’età, infatti, è difficile distinguere con chiarezza dove incomincia il reale e dove finisce il fantastico. Anche se la linea di separazione fra mondo reale e fantastico è raggiunta quando il pensiero del bambino incomincia a essere critico e a scoprire l’aspetto pratico della realtà, non scompare del tutto l’immaginazione ludica. Il giovane e l’adulto continuano a giocare, rappresentandosi differenti possibilità secondo le circostanze. Ciò si vede con grande chiarezza nei cosiddetti giochi di ruolo, in cui la persona imita un altro ruolo sociale, storico, culturale, psicologico, ecc. 3. Desiderativa o trasformatrice della realtà sotto la spinta dei de123

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sideri. Tale immaginazione è specialmente fertile negli adolescenti, perché in essi i desideri non vengono molte volte né integrati né soddisfatti. Si assiste al fenomeno del “sognare da svegli” in cui s’immagina una realtà che sia soddisfacente per le tendenze all’autoaffermazione, alla autostima, alla sessualità, ad avere nuove esperienze, ecc. «La fantasia consente un soddisfacimento simulato di un bisogno. In questo senso essa liquida, seppure solo momentaneamente (l’ossessivo ritorno della trama fantastica è in questo senso emblematico), la tensione causata dal mancato appagamento del bisogno in discussione»48. Un tipo particolare di immaginazione desiderativa corrisponde allo stadio dello specchio, che – secondo Lacan – costituisce l’embrione dell’Io. Essa fa riferimento alla scoperta dell’immagine del proprio corpo come un tutto – e non come un insieme di membra sconnesse – che si riflette nello specchio49. Anche se in questa fase non si ha ancora un io, si è già capaci di avere un’immagine di se stessi che, però – secondo Lacan –, è falsa poiché non corrisponde a ciò che si è ma a ciò che si desidera essere. L’immaginazione delle paure è il rovescio di quella dei desideri. In questo caso le rappresentazioni non girano attorno a ciò che si desidera, bensì a ciò che si cerca di fuggire: malattie, minacce, pericoli e ogni forma di sconfitta nella lotta per la vita. Anche nelle paure si possono creare immagini-simbolo. Così una situazione di forte ansietà e paura può essere associata alla fantasia di essere aggrediti da un determinato animale o da una certa malattia. L’animale o la malattia diventano in tal modo il simbolo della paura e della situazione che l’ha provocata50. Proprio perché i nostri desideri o paure influiscono sull’immaginazione nelle varie fasi della vita e di sviluppo della coscienza, essa si evolve in modo differente secondo le diverse tappe. Ad esempio un bambino non ha mai rappresentazioni della morte diversamente dall’an48 R. SICURELLI, La felicità. Argomenti di psicologia umanistica, Giuffrè, Milano 1992, p. 10. 49 «…l’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza motrice e nella dipendenza dal nutrimento che è il bambino in questo stadio infans, ci sembra perciò manifestare in una situazione esemplare la matrice simbolica in cui l’Io si precipita in una forma primordiale» (J. LACAN, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Scritti, Einaudi, Torino 1972, p. 88). 50 Per lo studio del significato emotivo dei simboli si veda D. RAPAPORT, Organization and Pathology of Thought. Selected Sources, Columbia Univ. Press, New York 1951, pp. 208-234.

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ziano. Oppure un bambino non ha nelle sue fantasie la sessualità come tema, mentre ce l’ha l’adolescente, poiché incomincia a scoprire il suo desiderio sessuale. Si noti inoltre che sebbene il bambino, considerata la sua età, non sia in grado di avere desideri sessuali, tuttavia la società può far sì che quei desideri nascano in lui. È quello che si vede ai nostri giorni: quei desideri che tipicamente iniziavano con la pubertà, in molti bambini si risvegliano anticipatamente. Ciò è purtroppo spiegabile, giacché la cultura consumistica in cui siamo immersi si serve della sessualità come richiamo dei prodotti o come puro gioco. 4. Pianificatrice o trasformatrice della realtà secondo i progetti fatti. La persona umana è l’unico essere che ha la capacità di pianificare il futuro attraverso le sue rappresentazioni. Tramite tale potere, l’uomo si libera dal presente sensibile, per cui può agire razionalmente ed essere in grado – in maggior o minor misura – di trasformare il mondo e la propria vita d’accordo con i suoi progetti. Tale configurazione del mondo non è solo individuale ma anche sociale attraverso ciò che Taylor chiama gli immaginari sociali ovvero «ciò che rende possibile le pratiche della società fornendo loro senso»51. Ad esempio, quando leggiamo una notizia sul giornale siamo consapevoli, oltre al suo contenuto, che la stampa dà voce all’opinione pubblica. Da qui il grande influsso dei mass-media, perché essi, per lo meno in teoria, si fanno portavoce dell’opinione silenziosa degli agenti sociali52. 5. Produttrice o anticipatrice del futuro non solo progettando rappresentazioni ricavate da un insieme di esperienze, ma anche trascendendo il livello esperienziale. Il futuro appare nell’immaginazione produttrice come continuità e anche come rottura con il presente, poiché le rappresentazioni si riferiscono a ciò che ancora non è, ma può essere oggetto del fare umano, della sua considerazione teoretica ed anche delle sue scelte per farlo diventare reale. Le invenzioni nei campi della tecnica, dell’arte e della scienza sono altrettante manifestazioni di tale immaginazione. Forse è stato Kant che ha dato più importanza a questo tipo d’immaginazione (Einbildungskraft). Infatti, secondo lui, solo questa capacità è 51 Su questo tema si veda Ch. TAYLOR, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma 2005, Prefazione. 52 Per il divario fra opinione pubblica e opinione pubblicata si veda N. GONZÁLEZ GAITANO, Public Opinion and the Catholic Church, EDUSC, Roma 2010, p. 70 e sgg.

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in grado di realizzare la sintesi fra i dati dei sensi, che sono a posteriori, e gli schemi trascendentali dello spazio (sensibilità esterna) e del tempo (sensibilità interna), che sono a priori. Essendo produttiva, l’immaginazione riesce a stabilire un ordine di successione spazio-temporale fra le sensazioni53. Basta l’analisi di questi tipi per rendersi conto che l’immaginazione umana è un’attività di grande ampiezza e ricchezza di oggetti e funzioni. Ciò è dovuto al fatto che questo senso interno, come anche la memoria, è penetrato dall’intelligenza e, oltre al suo funzionamento spontaneo, può essere governato dalla volontà. Non lo è nel sogno né nei sogni da svegli né quando gli si permette di vagabondare. Inoltre, la rappresentazione dell’immaginazione è la base dell’atto dell’intelligenza o concetto. In modo simile alla necessità che l’immaginazione ha della percezione per produrre la rappresentazione, l’intelligenza ha bisogno dell’immagine per poter originare i concetti: la maggiore stabilità, costanza e schematismo della struttura sensibile, contenuta nell’immagine, sono la conditio sine qua non dell’universalità e astrazione del concetto; lo spazio colto dai sensi esterni, come il tatto, la vista e l’udito, viene trasformato dall’immaginazione in uno spazio immaginato, sul quale l’intelligenza concepisce l’idea astratta di spazio. L’immaginazione ha una grande importanza per il vivente, poiché gli permette di dare continuità e stabilità alla sua esperienza e di unificarla in maniera più perfetta e, nel caso dell’uomo, di elaborarla secondo i suoi desideri, interessi e progetti54. Nonostante la sua superiorità riguardo alla semplice percezione, l’immaginazione «non può terminare nessun processo conoscitivo: non quello dell’esistenza che può essere attestato soltanto dalle immediate presentazioni sensoriali, e neppure quello dell’essenza perché la conoscenza dell’essenza comporta l’apprensione del significato assoluto delle cose che per se stesso trascende l’immagine e la rappresentazione particolare, anche se la presuppone come prima presentazione globale dell’oggetto»55. Inoltre l’immagina53

I. KANT, Critica della ragione pura, Laterza, Bari 2005, parte 2a, sez. 1, l. 2, A. B. 113 e sgg. 54 Sulla capacità di stabilizzare il mondo si veda H. ARENDT, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 158-161. 55 C. FABRO, L’Anima. Introduzione al problema dell’uomo, 2a ed., EDIVI, Roma 2005, p. 48.

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zione non tiene conto né della moralità dell’agire né della verità del conoscere perché entrambe richiedono un giudizio di valore. b) Sensi intenzionali 1) Terza strutturazione della sensibilità: la percezione dei valori o estimativa e cogitativa. La terza strutturazione consiste nella percezione dei sensibili per accidens o valori. Infatti, oltre alle forme, siamo in grado di conoscere la realtà nella sua ricchezza esistenziale, cioè nei suoi valori. Il lupo, ad esempio, quando vede l’agnello non ha solo una percezione degli accidenti, ossia delle forme sensibili, ma anche di quest’animale come cibo; l’essere mangiabile dell’agnello, a differenza del suo odore, colore, viene percepito dal suo predatore per accidens. San Tommaso, seguendo Avicenna (980-1037), aggiunge perciò ai sensi interni aristotelici (immaginazione e memoria) l’esistenza di un altro senso, l’estimativa nell’animale e la cogitativa nell’uomo. L’introduzione di questo nuovo senso si basa sull’esperienza che l’animale e l’uomo si avvicinano e fuggono non solo davanti a un piacere o dolore sensibile, ma anche dinanzi a realtà la cui bontà o malvagità non è percepita sensibilmente. Ad esempio, l’agnello fugge dal lupo non perché la sua sagoma sia dolorosa alla vista, bensì perché lo percepisce come il suo predatore. Non esiste, però, nessuna sensazione esterna in grado di cogliere questo carattere del lupo. Quindi, secondo l’Aquinate, alcuni animali e anche l’uomo sarebbero dotati di un senso capace di percepire ciò che lui chiama intentiones insensatae, ossia valori come l’esser nocivo, benefico, amico, nemico, ecc. L’atto di questo senso consisterebbe, dunque, in un certo giudizio o valutazione naturale56 sulla convenienza o sconvenienza con cui una data realtà appare a un animale o a un uomo. Questo senso avrebbe come scopo l’azione dell’animale o dell’uomo mediante il movimento dell’appetito elicito o istinto, provocato da qualcosa di esterno conosciuto come pericoloso o favorevole57. 56 Nell’uomo il giudizio della cogitativa è collegato alla ragione: quest’ultima offre la premessa maggiore del ragionamento mentre la cogitativa offre la premessa minore. La conclusione è l’elezione di un agire singolare (cfr. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 10, a. 5). 57 Seguendo Aristotele, San Tommaso stabilisce una distinzione tra due tipi di appetitus: naturalis, quando l’inclinazione proviene dalla forma o principio attivo che costituisce quell’essere nell’ente reale che è (inerte o vivo); ed elicitus, quando

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Il giudizio fatto dall’estimativa o dalla cogitativa è dunque un giudizio pratico: ha infatti come scopo l’azione tramite l’attivazione dell’appetito elicito. Tornando all’esempio precedente: l’agnello percepisce, mediante l’estimativa, che il lupo rappresenta un pericolo, per cui quando lo vede avvicinarsi fugge. Anche se ancora non è stata trovata, la sede di questo senso potrebbe corrispondere al cosiddetto sistema limbico58, che nei mammiferi ha ereditato alcune delle funzioni del lobo olfattivo dei rettili o rinencefalo. Infatti, il centro olfattivo dei rettili – e anche quello dei pesci, degli anfibi e degli uccelli – è in grado di valutare e classificare la realtà in diverse categorie, come predatore, preda, compagno sessuale, e di regolare il comportamento più adeguato: fuggire, inseguire, avvicinarsi. La crescita del lobo olfattivo porterebbe allo sviluppo di una serie di strutture cerebrali attorno all’estremità cefalica del tronco cerebrale dando luogo al sistema limbico, il quale attraverso le emozioni basilari di piacere, desiderio, ira e paura, permetterebbe una regolazione più flessibile del comportamento. Nei primati il sistema limbico sarebbe collegato alla neocorteccia, il che li renderebbe capaci di modulare la loro rabbia o paura, e nel caso dell’uomo i circuiti che collegano il sistema limbico e la corteccia prefrontale avrebbero, secondo alcuni neuroscienziati, un ruolo fondamentale nel prendere decisioni riguardanti stati emotivi59. Nella percezione dei valori da parte dell’uomo l’Aquinate trova l’unione fra sensibilità e razionalità perché essa è composta di due giudizi: uno universale e l’altro particolare. Il primo è un’operazione l’inclinazione è provocata da qualcosa esterna conosciuta come piacevole o utile per la propria natura (cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 80, a. 1, c). 58 Anche se i neuroscienziati concordano nell’attribuire al sistema limbico la base neurale delle emozioni, ci sono diverse nozioni di sistema limbico. Una è morfologica, secondo cui esso comprende alcune regioni del diencefalo e del telencefalo; un’altra è di carattere fisiologico e psicologico, secondo cui esso corrisponde a una porzione del sistema nervoso centrale che interviene in tutti quei comportamenti rivolti alla sopravvivenza. Inoltre, le emozioni dipendono anche dalle connessioni fra questo sistema e gli altri settori del cervello (corteccia prefrontale), che contribuiscono a modulare gli stati affettivi. La questione della base cerebrale delle emozioni è, dunque, di una grande complessità (cfr. J. LEDOUX, Emotion and the Limbic System Concept, «Concepts in Neuroscience», 2 (1992), pp. 169-199). 59 Sull’evoluzione delle aree cerebrali legate alle emozioni si veda J. LEDOUX, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini & Castoldi Dalai, Milano 2003, p. 107 e sgg.

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dell’intelligenza mentre il secondo, oltre a dipendere dall’intelligenza, deriverebbe da ciò che lui chiama cogitativa. Infatti – secondo San Tommaso – l’intelligenza fornisce la premessa maggiore del ragionamento pratico mentre la cogitativa offre la premessa minore; la conclusione è un’azione60. Ad esempio, siamo a bordo di un autobus urbano in cui ci sono cartelli con la scritta: attenti ai borseggiatori! Si avvicina un tizio che ha tentato di mettere la mano nella borsa di un passeggero senza riuscirci. Come conclusione ci sono diverse possibilità: lo denunciamo, lo guardiamo fissamente facendogli capire che è stato scoperto oppure ci allontaniamo da lui. Come si vede, dunque, attraverso la cogitativa siamo in grado di collegare, oltre a sensazione e ragione, la conoscenza e l’azione. Infatti, se la nostra conoscenza fosse di tipo formale (cioè di forme accidentali) non ci sarebbe azione, giacché per agire devono essere in gioco determinati valori che si desiderano. Nella cogitativa, San Tommaso vede il collegamento tra ragione, sensibilità, appetito e azione. Perciò questo senso permette di fare una strutturazione che non è semplicemente della sensibilità ma di tutta la persona (o di tutto l’animale). Vale a dire, non agiamo semplicemente perché abbiamo delle inclinazioni, poiché le nostre tendenze hanno bisogno della conoscenza. Tuttavia neppure questo basta, ci deve essere un’unione tra inclinazioni e conoscenza. Per l’Aquinate l’appetito dipende direttamente dalla conoscenza, cioè estimativa e cogitativa mettono in moto il desiderio. Abbiamo visto, però, che la percezione del cibo o del compagno sessuale dipende a sua volta dagli istinti o dalle tendenze: se non avessimo la tendenza nutritiva potremmo conoscere teoricamente cosa è il cibo ma non il valore di mangiabile che, ad esempio, la mucca ha. Dunque, anche se la fuga e l’avvicinamento sono causate dalla percezione, questo non significa che l’inclinazione verso o contro una determinata realtà sia posteriore alla conoscenza. Anzi è l’esistenza di tendenze vitali a farci percepire determinati aspetti della realtà e a dotarli di senso; ne è un esempio, il bisogno nutritivo, che porta alla scoperta del cibo. Ciò vuol dire che la conoscenza sensibile nell’uomo è inserita in una struttura complessa fatta di eredità genetica, tendenze, esperienze, stili

60

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 10, a. 5.

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Capitolo quinto

cognitivi61, abilità e abiti da cui è strettamente dipendente: tutto ciò che non fa parte di questa struttura non viene percepito o interpretato. In ultima analisi, nella conoscenza umana è presente la soggettività che si manifesta soprattutto attraverso l’interesse e l’attenzione, poiché quando conosciamo tendiamo a selezionare determinati aspetti della realtà che in qualche modo hanno valore per noi. Ad esempio, un architetto che cammina per strada guarda la realtà dalla prospettiva della sua professione, o un compositore dal suo essere musico e cosi via, ossia percepiamo la realtà secondo il nostro modo di essere. Si sono fatti molti esperimenti su questa relazione. Per esempio, messi davanti ad alcune fotografie di persone «dei soggetti reclutati fra gli studenti, alcuni dei quali, dalle loro risposte a un questionario, risultavano fortemente ansiosi, percepivano un insieme di volti ostili più facilmente di quanto percepissero dei volti amichevoli, premesso che la loro ansietà era stata stimolata informandoli che la loro personalità sarebbe stata valutata»62. Nella terza strutturazione delle sensazioni influiscono dunque le disposizioni motivazionali ed emotive. Ognuno di noi «ha intenzioni e impulsi che sono più o meno centrali nella sua struttura personale, così che ciò che viene percepito non è solo un oggetto da classificare, ma un valore, una persona amica o nemica, nota o estranea, una situazione favorevole o pericolosa, ecc. Così la nostra percezione viene modificata dai nostri atteggiamenti, specifici o generali»63. Ciò spiega, ad esempio, che una persona riesca a cogliere bene la struttura ma non il significato: quindi vede una faccia ma non sa se la faccia è triste oppure allegra, cioè non coglie un determinato valore emotivo di quel viso. A volte i problemi nei rapporti interpersonali dipendono proprio da questo fatto, cioè dal punto di vista valutativo si sbaglia a percepire la situazione emotiva dell’interlocutore: ma senza questa capacità non è possibile il dialogo. Vale a dire, la persona manca della capacità di valutare naturalmente, che non è razionale ma sensibile, anche se partecipa dell’intelligenza. 61

Witkin distingue fra lo stile analitico, che tende a cogliere le unità minori del campo fenomenico con una certa indipendenza dal contesto, e lo stile sintetico, che si rivolge direttamente al contesto (cfr. H.A. WITKIN, J.W. BERRY, Psychological Differentiation Across Cultures: A Theoretical and Empirical Integration, «Journal of Cross-Cultural Psychology», 6 (1975), pp. 5-87). 62 M.D. VERNON, La psicologia della percezione, Astrolabio, Roma 1968, p. 163. 63 A. RONCO, Introduzione alla Psicologia, cit., p. 28.

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

Per quale motivo noi abbiamo determinate simpatie o antipatie? Non c’è spiegazione o, meglio, forse ce n’è una, ma tante volte noi non la conosciamo. Ad esempio, dopo aver sofferto un’esperienza traumatica, si può sentire avversione nei confronti di quelle circostanze e persone che sono associate, a volte inconsciamente, alla sofferenza patita. Se l’immaginazione coglie la struttura o forma, la cogitativa coglie la sostanza, il valore o significato esistenziale, ossia ciò che solo accidentalmente è sensibile. La distinzione fra forma e significato si scopre in alcune agnosie, in cui la persona ha sì la capacità di rendersi conto della forma e delle sue differenze, ma non capisce il suo significato. La percezione, ad esempio, della mucca non è quella dell’insieme di determinate qualità sensibili, ma anche quella del suo essere cibo. La conoscenza sensibile è così costruita dall’unione degli elementi formali con quelli di valore. L’esistenza di due fonti nell’elaborazione della conoscenza sensibile fa sì che essa sia collegata non solo con l’immagine e il concetto ma anche con l’agire e con il linguaggio che designa l’oggetto e descrive il suo uso. Il rapporto che la sensibilità ha con l’agire, attraverso la cogitativa, dipende dal fatto che il valore si riferisce alla possibilità di un’azione adeguata. La percezione di un martello, ad esempio, non è semplicemente di una forma determinata ma contiene anche la sua utilità, l’azione di martellare. In questo modo al presente dei sensi esterni e della percezione e al passato dell’immaginazione e della memoria si aggiunge il futuro proprio della cogitativa (l’immaginazione creatrice ha un altro tipo di rapporto con il futuro). Infatti, mediante l’estimativa o la cogitativa si dà una certa pianificazione o previsione del futuro, che nel caso dell’animale corrisponde alla sua percezione più alta. È grazie alla estimativa che una leonessa può distinguere fra la preda e i suoi cuccioli e agire di conseguenza, uccidendo la prima e allattando i secondi. Nel caso della cogitativa umana l’esperienza del proprio io e dell’altro diventa ancor più strutturata sia dal punto di vista temporale sia affettivo. Inoltre, come si vedrà nel prossimo capitolo, nel contemplare l’individuo alla luce dell’universale, la cogitativa rende possibile che l’intelligenza possa tornare sul singolare. 2) Quarta strutturazione della sensibilità: la conservazione dei sensibili per accidens o memoria. La memoria è la capacità di conservare i contenuti dei vissuti più in là del qui ed ora in cui sono accaduti, con la possibilità di attualizzarli nei momenti posteriori. Apparentemente, tanto l’immaginazione quanto 131

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Capitolo quinto

la memoria avrebbe la stessa funzione, la conservazione dei vissuti. In realtà, l’immaginazione si distingue dalla memoria perché la prima non fa riferimento al tempo, per cui può elaborare e modificare a piacimento le forme dell’esperienza vissuta. Ciò si osserva nelle persone dotate di una fervida immaginazione, che incapaci di ricordare le esperienze come sono state vissute tendono a modificarle; tale svantaggio dal punto di vista della memoria è compensato da una maggiore capacità creativa. È vero che anche la memoria elabora i dati secondo il significato, l’interesse e l’importanza che essi hanno per il soggetto, ma non può sopprimere la dipendenza dei dati dalla situazione da cui provengono. La temporalità segna, quindi, il limite di questa elaborazione: il ricordo di qualcosa che non è accaduto o che è accaduto in un altro tempo è falso. Invece l’indipendenza dal passato permette all’immaginazione non solo di cancellare l’aspetto preterito della rappresentazione, ma anche di proiettarla nel futuro, realizzando quanto è puramente possibile, come la realtà virtuale della cibernetica. Allora, la memoria sarebbe anche una rappresentazione, in cui, a differenza dell’immaginazione, si coglierebbe il passato come tale? San Tommaso lo nega, perché la memoria non è un senso formale, giacché ciò che conserva sono le intenzioni non sensate o sensibili per accidens e, quindi, non formali. La differenza fra memoria e i sensi interni formali (senso comune e immaginazione) si osserva nel modo di catturare il tempo. Il senso comune lo coglie come istantaneità che dura, l’immaginazione come sequenza di momenti: prima e dopo; tutte e due, quindi, come qualcosa di formale. Solo la memoria lo trattiene come passato e lo conserva come tale. Inoltre, secondo Henry Bergson (1859-1941)64, la memoria comporta un’“interiorizzazione”, un’intensificazione ed un’interpretazione di tutti gli elementi appartenenti a una precedente esperienza. Infatti, l’oggetto della memoria è il vissuto che non ha perso il significato originario e, quindi, conserva le valutazioni fatte. Ne deriva che l’oggetto della memoria è l’atto della cogitativa. La cogitativa coglie i vissuti, ma non è in grado di evocarli. Questo corrisponde alla memoria. Poiché il vissuto dipende dalle inclinazioni, dagli atteggiamenti, dai giudizi naturali, ecc., la memoria può evocare tutto ciò nel ricordare. A 64 Cfr. H. BERGSON, Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit,

PUF, Paris 1997, specialmente i capitoli II e III.

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

differenza di un calcolatore che è in grado di riprodurre i processi conoscitivi umani ma non è capace di avere desideri poiché manca di soggettività, la memoria umana può evocare tutto ciò che è soggettivo. Ad esempio, l’intelligenza artificiale non coglie il valore del cibo, di quanto è benefico, nocivo e così via e, di conseguenza, non può evocarli. Memorizzare significa pertanto integrare un’esperienza passata nel presente, ossia nella totalità dell’esperienza dell’oggi, per cui si può affermare che la memoria è l’attività mentale da cui dipende il vissuto della continuità del vivere e della propria identità. Ciò ha luogo sotto due forme. La prima, la memoria esperienziale, influisce direttamente sulla coscienza del presente e, soprattutto, sulla regolazione della propria condotta. Ad esempio, la memoria esperienziale di un bravo concertista fa sì che questi conservi per così dire l’esecuzione dei pezzi musicali nelle sue mani, per cui basta che si metta davanti al pianoforte perché le dita si spostino perfettamente sui tasti. Questo tipo di memoria permette di accumulare esperienze e, quindi, di acquisire abiti (in senso ampio). A differenza dell’animale dotato di una limitata memoria esperienziale, quell’umana è di una grande ampiezza: su di essa si basa tanto l’apprendistato della lingua e della tecnica quanto la formazione del carattere attraverso l’agire. La seconda forma, la memoria riproduttiva, consistente nel riportare al presente gli eventi del passato, può essere divisa in due sottotipi: la memoria associativa e il ricordo. Nella memoria associativa la riproduzione degli eventi, dei movimenti e delle azioni dipende esclusivamente dal legame vissuto che la situazione attuale ha con il passato. Perciò, gli animali dotati di estimativa possiedono anche memoria associativa, come si osserva nel noto esperimento di Pavlov: basta che il cane senta il campanello – associato alla presenza di cibo – perché incominci a secernere saliva. Anche nel modo umano di agire è presente questo tipo di memoria, per questo ci aspettiamo o temiamo che ci accada qualcosa nel trovarci in una determinata situazione vissuta già nel passato; infatti, a volte un’esperienza negativa, come un’indigestione, si ripercuote su un nostro gusto modificandolo, per cui basta la vista del cibo che l’ha causata perché ci faccia venire la nausea. Nella persona la memoria associativa si estende anche al linguaggio, come si osserva nelle connotazioni personali che hanno alcune parole. Il grido “fuoco!”, ad esempio, non ha gli stessi connotati per uno che ha vissuto un incendio rispetto a un altro che non ha mai avuto quest’esperienza. Oltre al si133

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Capitolo quinto

gnificato denotativo, che appare nei dizionari, le parole hanno dunque connotazioni dipendenti dalla memoria associativa. Il ricordo invece si potrebbe definire come un’evocazione volontaria del passato. Per il ricordo è necessario non solo l’atto della memoria, ma anche quello del pensiero e della volontà: si ricorda solo se si vuole farlo. In altre parole, mentre nella memoria associativa non c’è intenzionalità, essa si ha nel ricordo. Anche se tante volte non si è consapevoli, quando si ricorda qualcosa, è presente la persona umana nella sua totalità. Sebbene questi costituiscano i due tipi fondamentali, sono possibili altre classificazioni della memoria tenendo conto sia del processo sia dei diversi contenuti. Tralasciamo l’analisi approfondita secondo i contenuti (memoria semantica o di conoscenze organizzate, memoria episodica o di esperienze fatte dalla persona, memoria meccanica o di associazione per contiguità e memoria significativa o di connessioni logiche65), per soffermarci sui tipi di memoria secondo il processo. I tipi fondamentali sono tre: la memoria a breve termine o immediata, la memoria di consolidazione e la memoria a lungo termine o remota. 1. La memoria immediata è la semplice durata dell’attenzione momentanea (senza tener conto dei contenuti). Essa si può misurare secondo l’elenco di elementi non correlati che si ricordano dopo una sola presentazione, come nel caso di una serie di numeri, di lettere, ecc. La memoria immediata comincia spesso a trovare difficoltà nelle sequenze superiori alle 7-8 cifre. Nel 1960 il cognitivista George Sperling (1934) nella sua opera The Information Available in Brief Visual Presentations parla per la prima volta di una memoria a brevissimo termine o memoria sensoriale, con tempi d’immagazzinamento compresi tra i 100 e i 500 ms, prima ancora del riconoscimento degli stimoli in arrivo. In questo tipo di memoria le informazioni sono immagazzinate – per la forma delle loro caratteristiche fisiche e non per il loro significato – sul piano visivo come icone (immagini visive), su quello uditivo come echi (immagini sonore)66.

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Su questo punto si veda E. TULVING, Episodic Semantic Memory, in E. Tulving, W. Donaldson (eds.), Organization of Memory, Academic Press, New York 1972, pp. 382-403. 66 Cfr. G. SPERLING, The Information Available in Brief Visual Presentations, «Psychological Monographs», 74 (1960), pp. 1-29, cit. R. LUCCIO, La psicologia: un profilo storico, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 196-197.

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

Alcuni psicologi cognitivisti hanno denominato questo tipo di memoria la “working memory” o memoria di lavoro67. Seguendo Sperling essi considerano che si tratta di una memoria uditivo-visuale (uditivofonologico e visuale-ortografico) per cui lo stimolo può essere una serie di fonemi o una serie di grafemi. La working memory, costituita da un circuito fonetico-articolatorio, funziona nel modo seguente: gli stimoli uditivi (i fonemi) entrano nel cosiddetto magazzino fonetico, dove restano solo pochi secondi, e se da qui non passano al circuito di ripasso articolatorio vengono perduti. Sembra che questo tipo di circuito sia decisivo per quanto riguarda l’acquisizione del vocabolario richiesto per la lettura e comprensione dei testi. Agli inizi di questo secolo, Alan Baddeley aggiunge un nuovo componente: la memoria episodica (episodic Buffer), che ha come funzione conservare le informazioni multidimensionali in rappresentazioni unitarie o episodi68. La memoria episodica fungerebbe così da mediatrice fra il livello fonologico e quello visuale. Oltre a modificare lo schema precedente (fonologico-memoria episodica-visuale e semantica), Baddeley sostiene la capacità della memoria di controllare diverse attività allo stesso tempo, ad esempio, fonologica e visuale, grazie a ciò che egli chiama una centrale esecutiva (central executive). Questo spiegherebbe perché la memoria può essere oggettivamente accresciuta, quando il soggetto usa dei supersegni che riuniscono molte notizie in poche unità d’informazione, come quando si collega ogni fonema o numero a un elemento di una storia. I supersegni sono decisivi per la comprensione della comunicazione verbale e, in genere, per il processo del pensiero, perché consentono di cogliere relazioni fra una molteplicità di elementi simbolici. Tuttavia, la memoria che usa simboli non è più immediata. Perciò, Baddeley preferisce parlare di essa come una struttura tripartita, governata dalla cosiddetta centrale esecutiva. Nel cosiddetto morbo di Alzeimer i malati perdono proprio questa centrale esecutiva e per tale motivo non sono in grado di realizzare due compiti appartenenti a due aree differenti della memoria: fonetica e visuale, anche se possono svolgerli separatamente. 67 Il primo a usare il termine working memory è stato A.D. BADDELEY, S. DELLA SALA, Working Memory and Executive Control, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 351 (1996), pp. 1397-1404. 68 A.D. BADDELEY, The Episodic Buffer: A New Component of Working Memory?, «Trends in Cognitive Science», 4 (2000), pp. 417-423.

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Capitolo quinto

2. La memoria di consolidazione equivale alla strutturazione delle tracce mnemoniche di natura anatomica e chimica che, una volta fissate, sono alla base del ricordo69. La maturazione dei ricordi avverrebbe in gran parte entro i primi 15 minuti dalla loro percezione; un’ora è sufficiente, generalmente, alla consolidazione quasi completa delle tracce. Questo spiega forse l’efficacia della ripetizione – in un arco di tempo più o meno lungo – di ciò che si vuole assimilare mnemonicamente; così facendo le tracce possono consolidarsi nell’intervallo fra la prima e le successive ripetizioni. Una volta consolidate, le tracce possono durare mesi, anni o anche tutta la vita poiché entrano a far parte della cosiddetta memoria a lungo termine o remota. L’esistenza di questo tipo di memoria è confermata in alcuni tipi di amnesia. Nella cosiddetta amnesia retrograda, provocata ad esempio da un trauma cranico, i pazienti sono incapaci di ricordare quanto è accaduto immediatamente prima di subire la lesione, giacché non hanno avuto il tempo di consolidare le tracce mnemoniche. 3. La memoria remota corrisponde alla durata delle tracce, cioè dalla fine del processo di consolidazione fino all’oblio. L’esistenza di questo tipo di memoria è evidente nell’amnesia anterograda, propria della sindrome di Korsakoff (1854-1900)70. I pazienti affetti da questa malattia, di norma alcolizzati cronici, presentano lesioni nel diencefalo che impediscono loro di ricordare gli eventi immediatamente successivi al sorgere della malattia. Sembra che ciò sia dovuto all’impossibilità di conservare le loro esperienze attuali nella memoria remota. Molti di loro cercano di riempire i vuoti di memoria con storie inventate. L’oblio però è spesso meno totale di quanto si creda: c’è per così dire un deposito di ricordi che, sebbene non sempre sia a disposizione 69

«Si danno due fondamenti fisiologici delle tracce mnemoniche: a) anatomico: il funzionamento di una sinapsi estende i contatti sinaptici, facilitando così la ripetizione della trasmissione per quella via; b) chimico: il neurone, durante l’attività, produce sostanze chimiche tipiche e soprattutto acidi nucleici (RNA e DNA); tali proteine, ordinate e strutturate, facilitano la via per il passaggio di una eccitazione susseguente e funzionano da supporto fisiologico dei ricordi; pare si diano evidenze sperimentali della crescita di tali acidi dopo un apprendimento; inoltre la struttura molecolare di questi acidi (portatori dei geni) è adatta a portare dei “ricordi”, come nota Gaito (1963)» (A. RONCO, Introduzione alla Psicologia. 2. Conoscenza e apprendimento, cit., p. 63). 70 Cfr. M. GODFRYD, Dizionario di psicologia e psichiatria, Newton Compton, Roma 1994, p. 50.

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

della persona, può tuttavia venire alla luce. Ad esempio, se si stimolano con un elettrodo varie zone della corteccia cerebrale, si può giungere a una precisa circonvoluzione o piega del lobo temporale, ottenendo dal paziente dei ricordi della sua infanzia, della cui esistenza non era consapevole. La localizzazione delle tracce in queste zone del cervello non significa che l’identità della persona si trovi in quell’organo, ma piuttosto che – per il fatto di essere legata ai vissuti e, quindi, alla memoria – l’identità personale può essere influenzata da lesioni di tipo organico, il che è un’ulteriore conferma dell’unità sostanziale fra corpo e anima. Oltre alla capacità mnemonica della persona, sulle tappe del processo della memoria e dell’oblio influiscono anche la motivazione e l’intenzione, giacché viene fissato ciò che interessa: tendenze, sentimenti, pensieri, ecc. L’inserimento dei ricordi avviene sempre all’interno di una struttura, che è sufficientemente aperta in modo da poter essere ristrutturata in accordo con il mutamento delle circostanze e le trasformazioni della propria interiorità. Si ricorda più facilmente ciò che è significativo, mentre si dimentica quanto è percepito come inutile o contrario a tale struttura71. Ciò spiega il motivo per cui il ricordo non si trova negli animali, giacché esso non è mai un dato isolato, bensì un elemento di una struttura dotata di senso. Da qui la possibilità, aperta dall’atto di ricordare, di possedere attivamente il proprio passato: il pentimento e il perdono sono la sua più chiara realizzazione. Ricordare significa quindi integrare un’esperienza passata nella complessità attuale della propria vita. L’integrazione avviene a tre condizioni: i differenti elementi di un’esperienza passata devono essere connessi gli uni agli altri; questo insieme non deve essere estraneo al soggetto ma costituire un’unità vissuta; quest’esperienza deve essere in qualche modo consolidata, affinché non ci siano condizioni tali da impedire la sua fissazione72. Infatti, oltre alle amnesie dovute a lesioni cerebrali, un altro ostacolo alla memorizzazione sono le rimozioni di tipo psichico. Come è noto, la psicoanalisi ha tentato di recuperare il materiale amnestico (desideri, immagini, pensieri) censurato dall’Io perché lo faceva soffrire. Uno dei modi di raggiungere questo scopo è 71

Uno studio sull’ampiezza delle connessioni presenti nella memoria si trova nel saggio di J.M. SCANDURA, Problem Solving, Academic Press, New York 1977. 72 Cfr. L. PINKUS, C. LAICARDI, Orientamenti in psicologia, SEU, Roma 1975, p. 27.

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Capitolo quinto

far crollare le resistenze o i meccanismi di difesa dell’Io in modo da permettere l’emergere del materiale rimosso dalla coscienza73. Oltre a quella sensibile, la cosiddetta memoria intellettuale gioca un ruolo decisivo nella strutturazione, fissazione e nel consolidamento delle esperienze passate. Nelle sue funzioni di conservare abitualmente i contenuti intellettuali che non si considerano in atto e di riconoscere come passati gli atti spirituali, la memoria intellettuale non si distingue dall’intelligenza. Infatti, poiché non sono sensibili, gli atti della ragione e della volontà possono essere colti solo dalla memoria intellettuale: ricordare di aver imparato qualcosa appartiene a questo tipo di memoria. Basandosi sulla distinzione fra conservare e riconoscere, Endel Tulving parla di due tipi di memoria intellettuale: procedurale e dichiarativa. La prima si riferisce alle conoscenze che possediamo sullo svolgimento di un’attività (imparare, leggere, scrivere, guidare, ecc.); la seconda riguarda due tipi di ambiti: episodico ovvero di esperienze vissute, e semantico ovvero della conoscenza del mondo, quest’ultimo ha un carattere simbolico74. È possibile pertanto, come accade in alcuni pazienti amnesici, sapere come si fanno determinate attività senza ricordare dove le abbiano imparate. Grazie alla memoria intellettuale non solo la propria vita ha una struttura significativa, ma si è anche in grado di conservarla e di approfondirla. Ciò è il fondamento delle diverse scienze.

6. Coscienza sensibile Parlare di coscienza sensibile comporta assumere due impliciti. Il primo: che esiste una realtà chiamata coscienza; il secondo: che essa ammette una determinazione. Anche se l’esistenza della coscienza è riconosciuta dalla grande maggioranza dei neuroscienziati e filosofi75, 73

Cfr. S. FREUD, Metapsicologia: La rimozione, in Opere, VIII, Boringhieri, Torino 1976. 74 Cfr. E. TULVING, Episodic Memory: From Mind to Brain, «Annual Review of Psychology», 53 (2002), pp. 1-25. 75 Fra quelli che, per differenti ragioni, la negano si trovano George Rey (cfr. G. REY, A Reason for Doubting the Existence of Consciousness, in R.J. Davidson, S. Schwartz, D.H. Shapiro (eds.), Consciousness and Self-Regulation, Plenum, New York 1982, pp. 1-39) e Richard Rorty (R. RORTY, Consciousness, Intentionality, and

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

non si è ancora giunti a una definizione. Forse perché il modo di concepirla è molto variegato, giacché va da un riduzionismo di tipo materialistico fino a un antiriduzionismo che sottolinea la peculiarità della realtà psichica, passando attraverso altre posizioni più sfumate76. Tenendo conto di questa difficoltà mi azzarderò a dare una definizione di coscienza, come la “presenza immediata a un essere vivente di un contenuto (moto viscerale, suono, fame, persona, azione, evento)”. La distinzione fra tipi di coscienza dipende, dunque, dal contenuto che appare. Perciò possiamo parlare di coscienza sensibile (della propria corporeità o delle sensazioni), intelligibile (concetti, simboli, oggettivazione di sé e dell’altro), affettiva (sentimenti corporei, emozioni, stati d’animo) e coscienza dell’azione (volizione, atto, comportamento). Per capire il significato di “presenza immediata” si può usare l’immagine, ormai classica, della luce. La coscienza incomincia a illuminare a partire dagli organi, il che permette al vivente sensibile di essere informato sia dalla situazione del corpo sia dagli oggetti sensibili, per mezzo delle rispettive percezioni interne (interocezioni e propriocezioni) ed esterne. Abbiamo così una struttura della coscienza sensibile costituita dall’emergenza di una realtà immateriale (l’apparire di quest’informazione) a partire da due poli materiali: il corpo, soprattutto mediante quegli organi che colgono gli stimoli necessari per sentire, e gli oggetti sensibili. Nelle sensazioni, come abbiamo visto, i due poli si unificano, per cui non solo si sente e si sente di sentire, ma quel sentire è piacevole, cioè adeguato a un corpo sensibile. Man mano che la luce della coscienza illumina si dà non solo una maggiore strutturazione dell’oggetto sensibile, ma anche del soggetto. Infatti, alla strutturazione delle sensazioni esterne o senso comune corrisponde un inizio di coscienza del proprio corpo come uno, mentre a quelle delle sensazioni interne corrisponde tramite la memoria un’unità the Philosophy of Mind, in R. Warner, T. Szubka (eds.), The Mind-Body Problem: A Guide to the Current Debate, Blackwell, Cambridge 1994, pp. 121-131). 76 Un esempio di riduzionismo materialistico si trova nelle tesi dei coniugi Churland (Paul e Patricia), che concepiscono la coscienza in termini di reti neurali, mentre nel campo non riduzionista ci sono teorie come quelle di Thomas Nagel e John Searle; quest’ultimo offre anche un modello della coscienza all’interno della fisica quantica. Anche se tendono verso il materialismo, le posizioni di Antonio Dalmasio e Gerald Edelman accettano in parte l’esistenza di un’esperienza soggettiva. Per un approfondimento delle diverse teorie si veda G. PETRACCHI, Il dilemma della coscienza. Una questione filosofica o scientifica?, Atheneum, Firenze 2007.

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Capitolo quinto

del vivere capace di mantenersi nel tempo, che nell’uomo è alla base del vissuto della propria identità. L’unione fra questi due poli della coscienza sensibile si manifesta esternamente nei movimenti del bambino – dal semplice strisciare per terra ai primi passi in posizione eretta – e soprattutto nella produzione dei primi suoni, nel tendere le mani verso gli oggetti che sono vicino a lui o nell’indicarli, il che è una manifestazione del percepirli come realtà da segnalare a un altro. C’è dunque una prima integrazione, ancora molto grezza, fra coscienza, movimento e azione77. Vedremo come man mano che si dà una maggiore integrazione di questi elementi il comportamento umano, oltre a essere più perfetto dal punto di vista delle tecniche usate e della loro efficacia, si formalizza in abiti, che a loro volta ricevono una strutturazione in forme di una sempre maggiore complessità e raffinatezza fino a diventare un comportamento pienamente intenzionale e responsabile. Ma per raggiungere un tale livello di perfezione si richiede, oltre all’uso delle potenze superiori –intelligenza e volontà –, l’agire e il linguaggio che, per loro natura, sono interpersonali. A differenza della coscienza sensibile, nell’inconscio non si dà una tale unificazione, poiché in esso la soggettività non è fondamentalmente ricettiva a partire da una base organica ma tendente per mezzo del desiderio. È vero che il desiderio tende verso la luce della coscienza, ma per mancanza di un oggetto adeguato esso resta nell’ombra, anche se continua a influire sulla vita emotiva e attiva della persona. Nel sonno, la coscienza perde quasi completamente il contatto con la realtà sensibile mantenendolo, invece, con la soggettività. Infatti, come spiega Aristotele, il sonno è una necessità per l’animale dotato di sensazione, giacché l’organo non può trovarsi sempre nella situazione di ricevere stimoli: ha bisogno di periodi di riposo. Nei sogni c’è coscienza della propria soggettività: negli animali a livello sensibile, nella persona anche a livello spirituale. Ad esempio, nel cane che dorme, attraverso i movimenti del suo corpo, come l’abbaiare, si manifestano diverse emozioni: paura, ira, piacere. Pure noi mentre sogniamo desideriamo, temiamo, gioiamo, ci rattristiamo, amiamo e odiamo. Infatti, anche se le leggi dell’identità, dello spazio e del tempo che reggono la veglia sembrano essere 77

Per le basi cerebrali dell’integrazione fra sensazione e movimento si veda la figura 4.

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L’integrazione attiva della coscienza sensibile

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cambiate, nei sogni è ancora presente la stessa soggettività sia emotivamente sia nelle relazioni che costituiscono il mondo onirico. Per ciò, oltre a riposare gli organi, il sogno ha forse la funzione di aiutare nella strutturazione della stessa soggettività consentendo di assimilare quelle esperienze importanti per la costituzione della propria identità che però sono state trascurate o ricacciate più o meno consapevolmente.

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Capitolo sesto

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Coscienza della realtà, pensiero e autocoscienza

Nella conoscenza sensibile appare un tipo particolare di trascendenza della materia. Infatti, negli esseri non viventi ed anche nei viventi che non sono dotati di conoscenza sensibile, come la pianta, la relazione con l’ambiente non è vissuta. Ad esempio, la pianta in un ambiente con una bassa temperatura non sente freddo, ma diventa fredda. L’animale, invece, oltre a diventare freddo – cambio fisico – sente il freddo, cioè possiede intenzionalmente la forma accidentale del freddo, per cui si può affermare che vive psichicamente e non solo fisicamente il freddo. Con la sensazione si ha già l’inizio della coscienza vigile, che si contrappone al sonno, alla perdita dei sensi, allo stato vegetativo e al coma. La conoscenza sensibile è la situazione intenzionale che permette al vivente di entrare in rapporto con l’ambiente (nel caso dell’animale) e con il mondo (nel caso dell’uomo) e di avere esperienza del proprio agire e del rapporto con gli altri. Man mano che le sensazioni dell’animale sono di rango superiore il cambiamento fisico è minore e la conoscenza maggiore. Così davanti al colore giallo, l’animale non diventa giallo, ma vede giallo. L’animale, però, conosce sempre in modo particolare il suo ambiente: sente questo freddo, vede questo giallo, ha memoria di questo padrone, ecc. Le persone, invece, oltre a cogliere i particolari (che sono sempre della realtà), possono riconoscere o mantenere una costanza oggettiva, che non è particolare (il freddo, il giallo, l’animale, il vivente), perché sono in grado di conoscere generalità in senso proprio; ad esempio, l’animale può riconoscere la propria madre, ma solo la persona è capace di farle gli auguri per la festa della mamma. La conoscenza umana non è solo sensibile, ma anche intelligibile o oggettiva. Ad esempio, coglia143

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Capitolo sesto

mo l’identità oggettiva dell’albero al di sopra di ogni individualità e, quindi, possiamo applicare questa costanza oggettiva a tutti quelli che la possiedono, il che non può essere fatto da nessun altro vivente corporeo. L’animale ha la capacità di cogliere anche una certa identità (ad esempio, determinati cibi) sempre relativa ai suoi bisogni e, dunque, particolareggiata, mai il cibo in se stesso, slegato cioè da tutte le sue concrezioni.

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1. La coscienza della realtà: astrazione e conoscenza dei singolari Per conoscere i singolari in se stessi, ossia come individui appartenenti a diverse categorie generali, è necessaria la conoscenza intelligibile. Anche se l’unione di sensazione e d’intellezione si dà già nella cogitativa (per fuggire da questo ladro, si deve conoscere che questo è un ladro, cioè che esso rientra nell’universale ladro), il modo di conoscere i singolari mediante questo senso fa sempre riferimento ai propri bisogni. La persona, però, è in grado di andare oltre i bisogni e di cogliere la realtà con indipendenza dalle proprie inclinazioni, giacché non ha ambiente ma mondo. Infatti, oltre a conoscere il ladro come pericoloso, lo si può conoscere come manifestazione di una determinata patologia – la cleptomania –, come violatore della legge, ecc. In tutti questi casi non abbiamo a che vedere, per lo meno non direttamente, con un pericolo, bensì con un oggetto di conoscenza studiato dalle diverse scienze. La situazione di pericolo – o, in genere, di bisogno – rende difficile, invece, la conoscenza della realtà in se stessa. Per arrivare a questo grado di conoscenza è, dunque, necessario andare oltre la conoscenza sensibile legata ai bisogni vitali; ciò non significa però non tenerne conto, ma piuttosto integrarla, purificarla e stabilizzarla in una forma superiore. L’esperienza quotidiana manifesta in modo chiaro come si realizza il passaggio dalla sensibilità all’intelligenza: le percezioni, le rappresentazioni della fantasia e le intenzioni insensate della memoria sono unificate in un’immagine sensibile o fantasma, che si presenta all’intelligenza perché questa ne astragga l’essenza. Come si realizza l’astrazione? Per spiegarla, si deve partire dalla costituzione dell’intelletto umano. Secondo Aristotele, l’intelligenza è costituita da un intelletto agente e da uno paziente. Con questo non si 144

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Coscienza della realtà, pensiero e autocoscienza

intende che nell’intelletto ci siano due potenze conoscitive, poiché l’intelletto è uno, piuttosto che l’intelletto agente e paziente corrispondono rispettivamente all’atto e alla potenza dell’intelligenza prima di conoscere. L’intelletto agente è sempre in atto. Il suo modo di agire è simile a quello della luce. L’intelletto agente illumina l’immagine sensibile spiritualizzandola1, vale a dire togliendo da essa quanto è particolare, ad esempio, l’essenza di albero a prescindere da tutti gli alberi singolari e concreti (questo pino, abete, fico, pero) sui quali si è costituito il fantasma; in questo modo, l’immagine sensibile diventa la specie impressa della conoscenza intellettuale. L’intelletto agente è causa efficiente dell’astrazione mentre l’immagine sensibile ne è causa strumentale (obiectum quo) e l’intelletto paziente ne è causa materiale. La spiritualizzazione dell’immagine sensibile è possibile perché l’intelletto non ha un organo e, quindi, a differenza dei sensi, l’apparizione del fantasma non determina l’attualità dell’intelletto agente, giacché è sempre in atto2. D’altro canto, l’intelletto paziente, che potenzialmente è tutte le cose (non ha altra natura che la pura possibilità di essere determinato3), ha la capacità di essere informato dal fantasma illuminato dall’intelletto agente. E, nell’essere informato, l’intelletto paziente diventa in atto. L’atto dell’intelletto paziente è il verbo mentale o concetto, ad esempio, l’“albero”4. Per spiegare la conoscenza intellettiva, Aristotele usa la comparazione con il sigillo stampato sulla cera. Certamente ci sono delle differenze importanti. La prima è che la cera non sa dell’immagine che si trova in 1 San Tommaso distingue fra l’illuminare dell’intelletto agente e l’operazione di astrazione dello stesso intelletto, perché considera che l’astrazione abbia come condizione di possibilità la spiritualizzazione del fantasma, cioè il renderlo più affine alla spiritualità dell’intelletto. L’astrazione è, da questo punto di vista, un’operazione interamente spirituale (cfr. TOMMASO D’AQUINO, S.Th., I, q. 85, a. 1). 2 «Nessuna facoltà organica può oggettivare interamente la specie impressa, perché oggettiva nella misura in cui la sua forma naturale è un’eccedenza (sobrante) riguardo all’informazione» (L. POLO, Teoría del conocimiento, cit., p. 222). 3 Così lo spiega, ad esempio, F. INCIARTE, Der Begriff der Seele in der Philosophie des Aristoteles, in K. Kremer (hrgs.), Seele. Ihre Wirklichkeit, ihr Verhältnis zum Leib und zur menschlichen Person, J. Brill, Leiden-Köln 1984, pp. 59-60. 4 «Senza l’intelletto paziente, l’intelletto [agente] non conosce nulla» (ARISTOTELE, De anima, II, 5, 430a 24-25). «Ciò che è inteso, o la cosa intesa, è come costituito o formato (constitutum vel formatum) dall’operazione dell’intelletto» (TOMMASO D’AQUINO, De Spiritualibus creaturis, q. un., a. 9).

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Capitolo sesto

essa, invece l’intelletto paziente sì, perché ricevere la specie è la stessa cosa che conoscere: è come se la cera nel momento in cui si stampa il sigillo fosse in grado di rendersi conto dell’immagine che vi si trova. La seconda è che l’immagine nella cera è sempre materiale e, quindi, con delle particolarità, mentre nell’intelletto paziente è completamente immateriale ossia universale. L’intelletto agente deve astrarre tutto ciò che è singolare affinché la specie impressa si adegui al modo di essere dell’intelligenza, che è universale. Infatti, poiché non è organica – a differenza dei sensi –, l’intelligenza conosce secondo il suo modo di essere: non determinato da nessuna forma. Con la conoscenza intellettiva si arriva così a conoscere l’essenza della realtà, ma non come si trova nella realtà, cioè singolarmente. Conosciamo, infatti, l’idea di albero ma nella realtà vi sono solo alberi concreti. Arriviamo allora a delineare i limiti della conoscenza umana: attraverso i sensi si può cogliere il particolare reale, ma non la sua essenza se non per accidens; attraverso l’intelligenza si può cogliere l’essenza ma non individualizzata, come si trova nella realtà. Perciò la nostra intuizione o conoscenza immediata non è di essenze, ma di individui e la nostra conoscenza intelligibile è di essenze e non intuitiva. Per cogliere il reale completamente, cioè l’essenza individuale, è necessario un doppio passaggio: l’astrazione di ciò che è essenziale e la riconduzione dell’essenza ai particolari dai quali procede, ossia la conversio ad phantasmata. La conversione non si situa, quindi, sul piano dell’intelligenza e dell’universale, ma della sensibilità e del singolare. Facciamo un esempio: dal pino, cioè un albero particolare, arriviamo mediante la conoscenza intelligibile all’albero universale, che può essere predicato di qualsiasi albero. È necessario, però, passare poi dall’albero universale a quello particolare: infatti, noi non abbiamo solo idee, ma conosciamo i particolari, il pino concreto. Se avessimo solo astrazione, avremmo una conoscenza universale; invece, siamo in grado di conoscere il singolo pino come albero. E ciò è possibile poiché – come già accennato – c’è una conversio ad phantasma. Perciò Aristotele e Tommaso sostengono che l’oggetto proprio della conoscenza umana è l’essenza degli enti corporei. Qui si può vedere un parallelismo fra l’intelletto umano come potenza spirituale di un’anima unita a un corpo e la sua capacità di avere come oggetto proprio le essenze astratte delle cose materiali. In altre parole, alla costituzione ontologica della persona umana corrisponde un determinato modo di conoscere. Ne deriva che non abbiamo idee innate 146

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ma conosciamo tutto a partire dai nostri sensi poiché cogliamo l’essenza di ciò che è corporeo. Infatti, di Dio conosciamo non l’essenza ma che esiste, e questo tramite gli effetti, le creature, o mediante rivelazione. Questo nega la teoria ontologista, secondo cui l’essere divino sarebbe oggetto della conoscenza umana. Anche se colta in modo accidentale attraverso la conoscenza sensibile, l’essenza è conosciuta in modo proprio solo nel concetto. Perciò si può affermare che l’essenza esiste potenzialmente nell’oggetto della sensibilità e in atto nell’intelligenza (si conosce solo in atto). Ciò significa che l’essenza esiste commisurata con l’intelligenza. La forma dell’intelligenza è l’universalità (perché, come si è visto, l’intelletto paziente è in un certo senso tutte le cose), pertanto l’essenza conosciuta è universale (il cavallo, non questo cavallo nero che corre). L’identità fra l’atto dell’intelligenza e l’essenza è oggettiva e intenzionale, ma non reale; l’intelligenza umana è incapace di stabilire un’unità con l’intelligibile individualizzato, ossia con l’individuo esistente, poiché esso è attivo, mentre l’essenza intenzionale non è realmente e, quindi, non agisce: il cavallo pensato non corre. Come sostiene Aristotele contro Platone, le essenze conosciute o idee non esistono realmente, ma intenzionalmente, cioè nella mente umana. La conoscenza intellettuale umana non è, dunque, limitata da una base organica per due motivi: a) perché fa astrazione da tutto ciò che è materiale ovvero particolare, anche se questi universali rimandano sempre alle realtà materiali da dove proviene il fantasma; b) perché può ricevere qualsiasi forma, senza che essa la determini materialmente; infatti, mentre i rumori, colori, sapori intensi possono impedire la percezione di altri meno intensi, le essenze anche se percepite con molta evidenza non impediscono la conoscenza di altre essenze, piuttosto accade il contrario. La conoscenza intellettuale può essere determinata parzialmente solo dall’essenza intenzionale, ovvero dalla forma conosciuta, giacché prima dell’intellezione l’intelletto paziente è pura potenzialità passiva riguardo alle forme intelligibili. Nonostante i limiti della nostra conoscenza concettuale, siamo capaci di conoscere gli animali singolarmente e, soprattutto, le persone. Infatti, un tipo particolare di conoscenza è quello riguardante gli animali che manifestano un’intenzionalità e in modo particolare le persone umane. Conosciamo Pietro non solo come individuo della specie umana, ma anche nella sua medesima singolarità e carattere (desideri, 147

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pensieri, volizioni, progetti). Attraverso l’empatia, siamo in grado di comprenderlo parzialmente nella sua stessa identità, potendo conoscere i suoi affetti, i suoi pensieri e, soprattutto, l’intenzionalità delle sue azioni. Il cosiddetto sistema di neuroni specchio fa parte della base neurale di questa comprensione. Esperimenti con macachi hanno mostrato che alcune reti neuronali della corteccia prefrontale si attivano sia quando questi animali realizzano azioni con una determinata intenzione (prendere, manipolare, separare determinate cose) sia quando vedono altri congeneri o persone realizzare queste stesse azioni; invece rimangono inattivi quando l’operazione è fatta in modo incompleto o quando si trovano davanti a strumenti che non sanno come usare5. Queste reti neurali, dunque, aiutano i primati e le persone umane a imitare e riconoscere determinati gesti, azioni e comportamenti rispecchiandoli cerebralmente. Il sistema dei neuroni specchio potrebbe far parte del fondamento neurologico dell’empatia, tramite cui siamo in grado di metterci nei panni dell’altro, di condividere con lui emozioni, desideri e pensieri. Inoltre, conosciamo le persone mediante la rivelazione che esse fanno della loro intimità attraverso la comunicazione linguistica. Per questo il nostro modo di conoscere le persone non è come quello delle cose6. Ciò è particolarmente evidente nella conoscenza di sé o autoconoscenza, e soprattutto in quella dell’altro. Nella conoscenza dell’altro si coglie sempre un essere che c’interpella eticamente, poiché l’altro è sempre qualcuno da riconoscere, rispettare e amare. In conclusione, astrarre consiste nel liberarsi da ciò che è puramente sensibile, cogliendo quelle che sono le proprietà essenziali delle cose, cioè capendo, ad esempio, l’essenza universale di gatto ovvero di un felino domestico (aspetto ascendente della conoscenza). Con la conversio ad phantasmata la conoscenza si rivolge, invece, alla concretezza e alla singolarità del reale; si tratta, in definitiva, di convertire l’essenza astratta al sensibile individuale (aspetto discendente della conoscenza). 5

Cfr. G. RIZZOLATI, L. FOGASSI, Physiological Mechanisms Underlying the Understanding and Imitation of Action, «Nature Reviews Neuroscience», 2 (2001), p. 662. 6 Invece, secondo Maritain, la nostra intelligenza non è in grado di conoscere i soggetti come tali, ma sempre in modo oggettivo «Dovuto al fatto che questa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, risulta totalmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto» (J. MARITAIN, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 88).

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Ciò spiega che l’esperienza umana non è mai puramente sensibile o puramente intelligibile, bensì una struttura conoscitiva in cui si dà un’integrazione di sensibilità e intelligenza. Ne deriva che la nostra esperienza è sempre, anche nei livelli più basilari, di realtà. L’arricchimento di questa esperienza è all’origine di tutti i tipi di conoscenza e dei loro abiti (tecnici, etici, scientifici e sapienziali).

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2. Le operazioni del pensiero: concetto, giudizio, ragionamento Astrarre non è né un processo né un’operazione, ma stabilire semplicemente la correlazione fra l’oggetto della sensibilità ed il livello dell’intelligenza. L’astrazione precede la prima operazione del pensiero ovvero il concetto. E le operazioni precedono gli abiti e l’elaborazione scientifica. Ci sono, dunque, due livelli nell’intelligenza: un livello attuale e uno abituale. All’interno di quello attuale possiamo distinguere tre operazioni: il concetto, il giudizio e il ragionamento. a) Il concetto Per quanto nel corso della storia sia stato uno degli argomenti centrali della filosofia, lo studio dell’origine dei nostri concetti interessa anche i cultori di altre discipline umanistiche, come la psicologia e la linguistica, e scientifiche, come l’anatomia e la paleontologia. Bisogna dunque prendere spunto dalle diverse teorie presenti in queste aree per cercare di capire meglio questa prima operazione dell’intelligenza. 1) La formazione del concetto Secondo alcuni psicologi associazionisti, i concetti non sarebbero altro che un tipo speciale di rappresentazione, in cui si rafforzano gli aspetti comuni e si annullano le differenze. Prendiamo, ad esempio, il pino, l’albero di arancio, il pero, ecc., e cominciamo a vedere ciò che hanno in comune: radici, tronco, rami, frutto; la nuova immagine ottenuta sarebbe il concetto di albero. La differenza tra rappresentazione e concetto mi sembra che sia invece più profonda, perché la prima appartiene al livello sensibile, mentre il secondo appartiene a quello intelligibile. Anche se la rappresentazione non può raggiungere mai – in se stessa – il grado di realtà delle percezioni, tende sempre verso qualcosa che ci è stato dato in modo sensibile attraverso una percezione. Il concetto, invece, non cerca l’at149

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tualizzazione sensibile di una cosa, ma la conoscenza dei suoi aspetti essenziali che possono essere pensati senza rappresentazione, anche se tuttavia li può accompagnare. Come si è visto nel parlare degli schemi dell’immaginazione, essi non sono possibili se non mediante l’uso del pensiero. Il che significa che fra immaginazione e pensiero c’è un rapporto bilaterale: non solo l’immaginazione offre al pensiero i fantasmi sui quali fare l’astrazione, ma anche il pensiero ordina e struttura le immagini dotandole di senso. «Il riferimento perciò del pensiero all’immagine va desunto dal contenuto del pensiero stesso e va interpretato secondo il concetto moderno dell’immagine che abbraccia non soltanto la riproduzione della memoria ma ogni forma di connessione con la vita vissuta e la tecnica scientifica: come sono gli “schemi”, i “simboli”, e lo stesso riferimento alle situazioni somatiche e affettive di cui vive la persona nella sua concreta individualità. A questo modo si raggiunge la posizione comune a varie scuole filosofiche secondo la quale il “pensiero astratto” suppone e si fonda sul “pensiero vissuto”»7. Una critica alla psicologia associazionista viene anche dal cognitivismo. Sebbene continui a considerare il concetto come un’immagine, la psicologia cognitiva distingue fra l’immagine percettiva relativa all’oggetto fisico o percezione e l’immagine mentale o concetto. La percezione consisterebbe in un processo di ricostruzione e d’interpretazione della realtà esterna, di cui vengono presi solo alcuni elementi (particolari caratteristiche formali, relazioni, ecc.). Nell’immagine mentale, invece, la rappresentazione sarebbe colta nei suoi aspetti generali, soprattutto nella struttura che consente l’unità fra i diversi elementi. D’altro canto, sempre secondo i cognitivisti, se non ci fosse alcuna differenza fra questi due tipi, l’immagine mentale diventerebbe una sorta di fotografia dell’oggetto: la nostra mente, allora, dovrebbe disporre di un archivio di capacità illimitata contenente tutte le fotografie scattate nel corso dell’esperienza. Non sembra però che essa abbia questa capacità8. Certamente, la capacità della nostra mente è infinita ma solo potenzialmente, in atto invece essa è limitata. Il limite è doppio: da una parte, il concetto ovvero l’astrazione (non conosciamo tutti i singolari ma solo la loro forma universale); dall’altra, la realtà conosciuta è limitata: non 7

C. FABRO, L’Anima, cit., p. 61. Cfr. AA.VV., L’immagine mentale nella scoperta cognitiva. Contributi sperimentali, Edizioni Unicopli, Milano 1988, pp. 11-12. 8

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conosciamo tutte le specie che ci sono all’interno di un genere se non in modo potenziale e confuso, giacché l’intelligenza umana non può in questa vita conoscere l’infinito9. Anche se distingue la percezione dal concetto dal punto di vista delle capacità della mente umana, il cognitivismo continua a non differenziare il processo, che è fisico e caratterizzato dalla distensione temporale, dall’atto, che è immateriale. Tale distinzione è specialmente importante se si vuole capire il concetto, poiché nella sua formazione non esiste nessun tipo di processo neppure quello del cambiamento organico che caratterizza la preparazione della sensazione: l’astrazione del contenuto essenziale non è graduale, bensì immediata. La capacità richiesta dal concetto non è, dunque, d’ordine quantitativo, bensì qualitativo, più concretamente di natura spirituale. Potremmo dire che il phantasma è causa strumentale della nostra conoscenza ma la causa formale ed efficiente è l’intelletto agente. Nella sensazione l’atto dipende dalla ricezione della specie impressa; invece l’intelletto agente è sempre in atto, non dipende dal ricevere, ecco perché si parla di una luce. Nel concetto si dà, perciò, un’adeguazione della realtà al pensiero in modo spontaneo, in virtù della quale la realtà è posseduta in modo intenzionale (non reale) nello stesso atto di conoscerla. D’altro canto, l’aspetto simbolico del pensiero si basa direttamente sull’astrazione e non sull’immaginazione. A differenza dell’immagine che ha una relazione sensibile con la realtà rappresentata, il concetto non è legato a un’immagine sensibile, ma alla stessa realtà attraverso il possesso intenzionale della medesima. Invece, per esprimere il concetto si ha bisogno di un simbolo sensibile che faccia riferimento alla realtà attraverso il concetto. Ecco, dunque, la struttura triangolare del linguaggio, che è fatta da: significante (simbolo sensibile: /á-l-b-e-r-o/), significato (concetto: “albero”) e realtà (questo pino). Anche se nella stragrande maggioranza dei casi la relazione con la realtà è dovuta a una convenzione (aspetto culturale del linguaggio), il significante-significato costituisce un’unità inseparabile. L’unità di significante-significato è necessaria poiché corrisponde al linguaggio di un essere di natura sensibile e razionale. 9 «Poiché molte cose non possono essere attualmente conosciute nello stesso tempo, ci deve essere un numero finito, no infinito, di specie nel nostro intelletto» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 85, 2, ad 3).

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2) Il ruolo del linguaggio nella formazione dei concetti Oltre al concetto, c’è la sua espressione linguistica. Il concetto è – per così dire – un verbo interno, mentre per esprimerlo all’esterno si deve ricorrere alla parola: concetto e parola non sono, dunque, la stessa cosa. Se fossero uguali, potremmo comunicare universalmente e invece non è così. I concetti sono comuni poiché sono semplicemente l’atto di conoscere. Se non avessimo bisogno di segni, la nostra comunicazione sarebbe senza errori. La difficoltà della comunicazione umana si dà nel passaggio da questo verbo interiore all’espressione. Perché accade questo? Perché l’espressione si basa necessariamente su qualcosa di materiale, cioè sui segni linguistici come suoni o caratteri, e questi segni sono storici e culturali. Inoltre, le parole, diversamente dai concetti, sono supersegni che indicano – a volte con un solo elemento verbale – strutture conoscitive molto estese e complesse (filosofia, ad esempio, contiene altri concetti, come amore e saggezza), mentre il concetto si riferisce a conoscenze essenziali meno complesse (abete, gatto), cioè la parola suppone una struttura conoscitiva più complessa del concetto, ovvero un linguaggio. Infine, esiste un pensiero prelinguistico (dei primitivi o dei bambini: umido, dolore) e un pensiero sopralinguistico (intuizioni artistiche, scientifiche, filosofiche, e soprattutto mistiche che non possono essere espresse se non imperfettamente)10. Ne deriva che la parola fa riferimento al concetto e questo, a sua volta, alla realtà conosciuta. Il riferimento della parola al concetto è convenzionale, mentre quello del concetto alla realtà è intenzionale. Rappresentiamo simbolicamente il reale conosciuto tramite segni di vario tipo, soprattutto fonetici e grafici. Una tale rappresentazione costituisce il linguaggio umano. Le lingue sono la codificazione di un sistema di segni, organicamente strutturato e storicamente configurato. Ne deriva la distinzione non solo fra concetto e parola, ma anche fra linguaggio e lingua. Infatti, mentre il linguaggio umano è solo la capacità naturale di poter esprimere la conoscenza del reale, la lingua è sempre una determinazione storico-culturale di tale capacità. In altre parole, non esiste una lingua naturale, bensì una molteplicità di lingue storiche. Anche se convenzionale, la parola consente di trascendere il flusso e la fugacità della corrente delle sensazioni e degli stimoli in cui è 10

Sul rapporto tra pensiero e linguaggio si veda L.S. VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio, Ed. Universitaria, Firenze 1966, p. 35 e sgg.

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invece immerso l’animale. Come il concetto, la parola – tranne quella che ha suoni onomatopeici –, non ha somiglianze sensibili con la realtà concreta e particolare cui si riferisce. Attraverso la denominazione, il mondo è strutturato e interpretato. Tale interpretazione non è però arbitraria, perché, anche se mediata da una determinata cultura, corrisponde al modo di essere della realtà e dei suoi rapporti con la persona. Ad esempio, un bambino francese, avendo appreso le sillabe “mar-tó” per indicare il martello (marteau) può applicarle inizialmente ai vari oggetti usati come utensili, incluso un pettine e una casseruola; un bambino italiano può usare la parola “acqua” per il bicchiere e per ciò che esso contiene. Con il tempo, però, il bambino impara a servirsi soprattutto delle caratteristiche dell’aspetto e dell’uso degli oggetti per classificare e denominare adeguatamente la realtà11. Grazie a questo contatto culturale, la persona si serve dell’esperienza e dell’intelligenza degli altri membri per avere ciò che gli psicologi chiamano un quadro di riferimento, vale a dire una mappa della realtà in cui collocare, in modo ordinato e coerente, le singole esperienze. Il linguaggio serve anche per potersi staccare dall’ambito tendenziale-affettivo, in cui non vi è separazione fra realtà e soggettività. La parola è un segno che permette questo distacco: sostituisce l’oggetto, ma non la realtà concreta; infatti, la persona affamata, consapevole della sua fame, può chiedere di essere nutrita: ho fame! La richiesta di aiuto manifesta la capacità di allontanarsi parzialmente dalla situazione di bisogno. Certamente, la persona non soddisfa la sua fame solo pronunciando la parola “mangia” e neppure la parola “pane”, ma con il cibo reale. Per mezzo della parola, tuttavia, la persona può raccontare, ad esempio, i vissuti affettivi che sperimenta, rendendone possibile la comprensione e l’integrazione. Il linguaggio permette anche la comunicazione interpersonale. La parola struttura ed interpreta la realtà, e anche i rapporti fra le persone. Il dialogo fa scoprire la ricchezza inesauribile del mondo personale12. Attraverso il dialogo si ha un confronto fra i diversi quadri 11

Cfr. M.D. VERNON, La psicologia della percezione, cit., pp. 19-25. Si comprende, quindi, perché il dialogo abbia assunto un ruolo di rilievo nelle terapie psichiche, ad esempio, nella logoterapia di V. E. Frankl. Elementi terapeutici, come i simboli, non sono usati da Frankl in modo monologico, bensì dialogico. Infatti, i simboli servono allo psichiatra per dare o ridare senso al mondo del paziente (V.E. FRANKL, Logoterapia e Analisi Esistenziale, Morcelliana, Brescia 2001, p. 94 e sgg.). 12

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di riferimento, in cui il proprio quadro può essere confermato o rifiutato. Pertanto, l’elemento caratterizzante della comunicazione linguistica è il feed-back o retroalimentazione, ossia l’informazione di ritorno che il mittente riceve dal destinatario. 3) Teorie sull’origine del linguaggio Gli antropologi culturali non sono ancora giunti a una conclusione condivisa sull’origine del linguaggio. Tutti concordano nell’indicare la piena capacità linguistica come una delle caratteristiche dell’homo sapiens sapiens; divergono, invece, sul quando essa è apparsa per la prima volta. Alcuni pongono il suo inizio con la comparsa nel Paleolitico superiore (circa 160.000 anni fa) dell’homo sapiens idaltu (sottospecie umana, i cui fossili sono stati trovati in Etiopia); altri anticipano questa data al Paleolitico medio in cui è apparso l’homo sapiens arcaico (circa 250.000 anni fa) o, addirittura, al Paleolitico inferiore con l’apparizione dell’homo neardenthalis (circa 600.000 anni fa). Le notevoli variazioni nella fissazione dell’inizio del linguaggio dipendono dal fatto che alcuni considerano l’homo neardenthalis dotato di una capacità linguistica simile alla nostra, come si dedurrebbe dalla forma della sua laringe. Infatti, secondo alcuni biologi evoluzionisti non avrebbe senso un organo che non fosse funzionale13. Per altri, invece, anche se avesse una laringe adatta al linguaggio umano, l’homo neardenthalis sarebbe incapace di produrre dei suoni con significato per mancanza del necessario sviluppo cerebrale14. Per quanto riguarda le teorie linguistiche sull’origine del linguaggio, anche qui troviamo una grande diversità15: si va dalla teoria gestuale fino alla proto-linguista, passando attraverso la teoria monogenistica, catastrofista, ecc. Infatti, lo spettro delle ipotesi parte dall’origine gestuale del linguaggio, secondo cui la lingua nascerebbe quando l’uomo primitivo – tenendo le sue mani occupate con l’uso di determinati og13 Su questa questione si veda S. OLSON, Mapping Human History, Houghton Mifflin Books, New York 2002, specialmente il quarto capitolo. 14 Cfr. R.G. KLEIN, Southern Africa and Modern Human Origins, «Journal of Anthropological Research», 57 (2001), pp. 1-16. 15 Per una visione d’insieme di queste teorie si può consultare D. CRYSTAL, The Cambridge Encyclopedia of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1997.

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Coscienza della realtà, pensiero e autocoscienza

getti – ha voluto indicare qualcosa o qualcuno o ha avuto la pretesa di dare qualche comando, e arriva a quella di una proto-lingua, costituita da pochi sostantivi e aggettivi e alcuni verbi senza morfemi modali e temporali, che segnerebbe il passo dall’animale all’uomo. Le teorie monogenistiche e catastrofiste cercano, invece, di ricondurre tutte le lingue a una lingua originaria: sia perché tutti gli esseri umani sarebbero nati da un’Eva mitocondriale, sia perché una catastrofe avrebbe ridotto il genere umano a un piccolo gruppo che parlava la stessa lingua. Anche se ci sono molte teorie, tutte possono essere ricondotte a due tipi principali: quelle che sostengono che il linguaggio è un’abilità appresa, e quelle che difendono invece l’origine innata. Nel secolo scorso, questi due approcci sono stati rappresentati rispettivamente da Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) e da Noan Chomsky (1928). Skinner ipotizza che il linguaggio nasce dall’abitudine di un individuo a rispondere positivamente agli stimoli linguistici provenienti dall’ambiente, rafforzati con i premi. Secondo quest’autore, quando un bambino pronuncia per la prima volta la parola mamma, può essere premiato dall’atteggiamento gratificante della madre: un sorriso, un bacio, ecc. Forse la pronuncia del bambino non è ancora corretta, ma grazie ai premi questi impara a dirla sempre meglio, a imitazione del suono con cui la madre la ripeterà con atteggiamento festoso. Inoltre, poiché la madre è un rafforzamento positivo per il bambino, egli ripeterà tutti i suoni da lei prodotti, anche quando la madre sarà assente. Il linguaggio gestuale o anche verbale acquisito (con solo quattro parole: papà, mamma, tazza, su) di cui possono servirsi gli scimpanzé verrebbe utilizzato dal bambino solo per una comunicazione strumentale (la richiesta del cibo, attirare l’attenzione, ecc.). Secondo Skinner, non ci sarebbe perciò una distinzione radicale fra il linguaggio animale e quello umano16. Noam Chomsky ha rifiutato la teoria comportamentista del linguaggio, evidenziando una serie di fenomeni linguistici che non possono essere spiegati con quel modello interpretativo. Forse la critica più acuta è la seguente: l’apprendimento fonologico dimostra che il significato delle parole non s’impara solo attraverso l’imitazione di suoni, anche se dotati di significato emotivo. Il bambino non impara solo a riprodurre suoni, ma a estrarre da un insieme di configurazioni sonore diverse 16

Cfr. B.F. SKINNER, Verbal Behavior, Copley Publishing Group, Acton (Massachusetts)1957, p. 225 e sgg.

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(mamma, papà) gli elementi che si riferiscono a un identico concetto. Imparare a parlare non significa ripetere dei suoni, bensì cogliere il significato di questi suoni: capire che il segno “mamma” fa riferimento alla propria mamma. E questo non può essere imparato: è una capacità che si ha o non si ha. L’animale non ce l’ha. La competenza fonologica è quindi un insieme di regole che il bambino non riceve direttamente dall’ambiente, ma che matura internamente, sollecitato dal mondo umano. Il che è più evidente per l’apprendimento sintattico (conoscenza delle regole di collegamento fra i sintagmi e le frasi), semantico (conoscenza dei significati) e pragmatico (l’uso adeguato del linguaggio a situazioni e contesti). Infatti, chi impara a parlare è capace di produrre e capire un numero illimitato di frasi, superiore a quelle che ha usato in passato o ha udito da altri17. Si dovrebbe, dunque, parlare del linguaggio del bambino come di un continuo lavorio per scegliere dalla sua esperienza linguistica concreta alcuni elementi intorno ai quali costruire, di volta in volta, il suo linguaggio; solo attraverso aggiustamenti successivi renderà il suo modo di parlare simile a quello degli adulti che lo circondano18. La scelta degli elementi – diversamente da come potrebbe sembrare – non è arbitraria, ma dipende da criteri oggettivi, che devono essere messi in relazione con gli atti di pensiero con cui si struttura la realtà. Anche se il linguaggio umano è espressione del verbo mentale, nessuna delle nostre formulazioni linguistiche è in grado di esaurirlo19. Infatti, il linguaggio è uno strumento al servizio del pensiero. D’altro canto, sebbene sia possibile pensare in modo incipiente senza linguaggio, la crescita e lo sviluppo del pensiero lo richiedono. Si può parlare – come fa Chomsky – di una grammatica universale e generativa innata che si troverebbe alla base di ogni lingua. In realtà, essa non sarebbe altro che la struttura del giudizio, che richiede sempre il predicato verbale, come si osserva in giudizi del tipo: piove, nevica, ecc.20. Ciò nonostante, in Chomsky, come in altri linguisti pragmatici, il 17 Per le critiche di Chomsky a Skinner si veda N. CHOMSKY, A Review of B. F. Skinner’s Verbal Behaviour, «Language», 25 (1959), pp. 26-58. 18 Cfr. L. PINKUS, C. LAICARDI, Orientamenti in psicologia, cit., pp. 48-50. 19 Cfr. J.J. SANGUINETI, La especie cognitiva en Tomas de Aquino, «Tópicos», 40 (2011), pp. 63-103. 20 Sulla grammatica generativa si veda N. CHOMSKY, Aspects of the Theory of Syntax, MIT Press, Boston 1965.

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senso delle parole non sembra trascendere il soggetto, sia esso l’umanità (una capacità innata) sia una ragione comunicativa, come in Jürgen Habermas (1929)21. Il senso delle parole possiede, invece, una consistenza propria, che si basa sull’intenzionalità della conoscenza o se vogliamo sul riconoscimento che l’ambito del significato va oltre quello del significante, trascendendo l’ambito stretto del linguaggio e della conoscenza poiché fa riferimento alla realtà stessa22. b) Il giudizio Il giudizio, la seconda operazione dell’intelligenza, fa cogliere – attraverso la riflessione – l’esistenza o meno di rapporti tra la realtà e i nostri concetti: oltre a conoscere la realtà, il soggetto sa di conoscerla. In questo modo il soggetto sa che ciò che ha conosciuto corrisponde alla realtà. Ne deriva che egli possa esprimere questa nuova operazione del pensiero separando e unendo il soggetto e le sue proprietà; ad esempio: cane e bianco, piccolo, tranquillo. Il giudizio stabilisce così un nuovo rapporto con il mondo. L’affermazione e la negazione (il cane (non) è bianco) sono fenomenologicamente diverse dalla coscienza del mondo e dall’orientamento in esso, dalla percezione sensoriale, dalle rappresentazioni e dai concetti: ciò che in questi è stato implicitamente accettato in modo spontaneo, nel giudizio è sottoposto alla domanda sulla realtà, sulla necessità, sulla possibilità, impossibilità, e soprattutto sulla sua verità o falsità. La stessa negazione esiste come operazione dell’intelligenza differente dal concetto, giacché la sensibilità e il concetto solo conoscono ciò che esiste in qualche modo (le forme accidentali e sostanziali). La soppressione non reale di ciò che esiste è solo un’operazione posteriore della mente. Grazie a quest’operazione, possiamo non solo rifiutare la realtà attuale, ad esempio, mediante il ricordo o l’immaginazione di un’altra situazione (il ricordo dell’abbondanza di cibo che gli israeliti avevano quando vivevano in Egitto nei confronti della fame patita durante la traversata del deserto del Sinai), ma anche dire di no alla soddisfazione delle nostre tendenze, il che non accade negli animali. Per questo nell’animale non è possibile l’ascesi, giacché non è in grado di dire 21

Cfr. J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, I-II, Il Mulino, Bologna

1986. 22

Cfr. F.L.G. FREGE, Über Sinn und Bedeutung, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», C (1892), pp. 25-50.

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di no ai suoi istinti, come può fare invece l’uomo nei confronti delle sue tendenze. Basandosi su questa capacità, alcuni filosofi hanno considerato la “negazione” una caratteristica essenziale della persona umana23. Tale separazione del giudizio non significa che la realtà non sia spesso collegata direttamente e quasi spontaneamente ai nostri concetti. Nel bambino vi sono già dei giudizi di esistenza, anche se ancora non è capace di avere una conoscenza perfetta della realtà. Infatti, se la realtà mostrata rientra facilmente in qualche categoria di oggetti, allora il bambino può identificarla agevolmente e con prontezza; altrimenti, ha bisogno di esaminarla più attentamente e di riflettere sulle qualità, prima di sapere esattamente di cosa si tratta. Vi sono inoltre alcune situazioni, potenzialmente pericolose, in cui egli è costretto a giudicare in modo naturale grazie alla cogitativa. Allora deve fare una rapida valutazione, stabilire approssimativamente il tipo di oggetto e reagire di conseguenza. Il giudizio razionale richiede il linguaggio, attraverso il quale scomponiamo la realtà nelle diverse categorie (sostanza e accidenti) per poi tornare a nuove sintesi mediante il verbo copulativo. Questa scomposizione e sintesi non è come quella dell’immaginazione né del sogno perché fa riferimento ad una realtà cui hanno accesso tutte le persone in grado di conoscerla. Ne deriva che, oltre al mondo, il giudizio fa riferimento all’intersoggettività e alla comunicazione linguistica. Ognuno in grado di conoscere la realtà sulla quale si forma il giudizio può confermarlo o rifiutarlo. Il giudizio dell’adulto sul tipo di realtà e di rapporti che ha con gli altri e con se stesso è legato al concetto, ma anche a una molteplicità di circostanze. Infatti, i giudizi sulle situazioni che si presentano nella vita di ogni giorno (attraversare una strada, usare il computer, assistere a una conferenza, ecc.) non richiedono di soffermarsi a fare un’ulteriore 23 Anche se è stato Hegel a usare soprattutto la negazione come metodo, la sua considerazione in ambito antropologico si trova soprattutto in Max Scheler, il quale considera lo spirito come realtà capace di negare gli impulsi vitali: «Paragonato all’animale che dice sempre “sì” alla realtà effettiva, anche quando la aborrisce e la fugge, l’uomo è “colui che sa dir di no”, l’“asceta della vita”, l’eterno protestatore contro quanto è soltanto realtà» (M. SCHELER, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1998, p. 159). Di recente Spaemann ha sottolineato l’aspetto razionale della negazione (cfr. R. SPAEMANN, Natura e Ragione. Saggi di Antropologia, EDUSC, Roma 2004, specialmente l’ultimo capitolo).

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riflessione. Vi sono però realtà o situazioni incontrate per la prima volta, nelle quali il soggetto può dire “ho l’impressione che possa trattarsi di un oggetto o di una situazione di questo tipo”; e potrebbe aggiungere: “Sì, in effetti è così” oppure “ho fatto uno sbaglio: si tratta di una cosa del tutto diversa”. Molte volte la correzione dei propri giudizi non dipende inizialmente dall’aumentare la conoscenza ma dal togliere i pregiudizi personali e culturali, fidandosi della conoscenza che gli altri hanno della stessa realtà. Verità e certezza non sono, dunque, la medesima cosa. La verità è adequatio rei et intellectus e si ha nel giudizio. La certezza invece è un sentimento sul grado di verità dei nostri giudizi. Possiamo essere sicuri al 100% che un certo giudizio sia vero, senza che lo sia realmente. Il carattere proprio di ogni giudizio si manifesta soggettivamente attraverso la certezza, che può avere gradi diversi. Anche se la fermezza del giudizio non dipende dalla certezza – piuttosto è il contrario –, si può avere una trasformazione del rapporto spontaneo fra i gradi di fermezza e quelli di certezza: l’incertezza, il dubbio, ecc. possono, ad esempio, derivare non dalla mancanza di fermezza del giudizio (nel caso della novità di ciò che è conosciuto), ma da emozioni, stati d’animo, e da malattie, come accade negli scrupolosi e, in genere, nei nevrotici. In questi casi, i giudizi formulati, anche se ineccepibili dal punto di vista logico, non riescono a cancellare i dubbi, perché non si basano su rapporti reali, ma, ad esempio, sulle rappresentazioni prodotte dai desideri o dalla paura. Non servono, quindi, ulteriori valutazioni, poiché la nuova informazione non solo non cancellerà il dubbio, ma aggiungerà nuove incertezze. Quindi, nonostante la certezza, i giudizi possono essere falsi. L’errore è sempre una possibilità del giudizio, non del concetto. Nell’analizzare e sintetizzare possiamo sbagliarci; in questo modo attribuiamo alle realtà proprietà che non hanno (come fa il pensiero magico, che pretende di controllare la realtà mediante rituali) o attribuiamo realtà a fantasie o a interpretazioni emotive (“questa persona ce l’ha con me”). L’errore può essere dovuto anche a pregiudizi; ad esempio, il convincimento che il grado maggiore o minore d’intelligenza dipende dalla razza o dal sesso. Da questi giudizi si fanno poi dei ragionamenti sbagliati: alcune razze sono meno intelligenti di altre. Una parte del progresso consiste non solo nell’accrescimento del sapere ma anche nell’eliminazione di errori e pregiudizi. 159

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Insomma, il concetto e il giudizio si completano a vicenda costituendo una struttura basilare del pensiero. Infatti, l’adeguazione alla realtà non è completa ovvero non c’è verità o falsità se manca la riflessione propria del giudizio, d’altra parte la riflessione non è adeguata se il giudizio non corrisponde alla realtà. c) Il ragionamento Il ragionamento è l’atto di cogliere nell’insieme di relazioni accertate dai giudizi precedenti un rapporto complesso tramite un nuovo giudizio. Ragionare è, dunque, derivare da due o più giudizi dati uno nuovo, più articolato e logicamente conseguente. Ciò è necessario quando il giudizio da fare ne richiede altri ovvero quando si tratta di un giudizio mediato. Per questo motivo la forma linguistica caratteristica del ragionamento è la proposizione. Come la denominazione e il giudizio, la proposizione ha un ruolo nella determinazione della realtà. Il bambino piccolo, come abbiamo visto, che non usa ancora i predicati, fa dei giudizi impliciti quando indica una data realtà nominandola: sedia, papà, casa, ecc. Più tardi imparerà l’uso del predicato, del corretto ordine delle parole e della loro declinazione; infine, sarà in grado di esprimere i rapporti che scopre nella realtà attraverso frasi semplici, coordinate e subordinate. Si può parlare dunque della strutturazione del pensiero che si manifesta, si arricchisce e matura insieme alla padronanza del linguaggio. Perciò la padronanza di un linguaggio non è solo la tecnica di usare con competenza un dato sistema di segni linguistici, ma la manifestazione e la possibilità di crescita del proprio pensiero24. Ciò si osserva nella capacità di passare dai micro ai macro-ragionamenti, ossia da una sequenza di enunciati in cui uno funge da conclusione o tesi e gli altri da premesse, un ragionamento che include altri ragionamenti, alcuni dei quali fungono da tesi, come accade negli articoli e libri scientifici e filosofici. Oltre alle operazioni, l’intelligenza umana è capace di abiti e scienze, cioè la specie impressa dell’intelligenza è una strutturazione di tutto ciò che ci permette di conoscere la realtà25, come i primi principi, i trascendentali, e le capacità raggiunte nei diversi ambiti della conoscenza: cal24

Sull’argomento “pensiero e linguaggio” si veda P. CHAUCHARD, Il linguaggio e il pensiero, Radar, Padova 1971, p. 8 e sgg. 25 «A partire dalla specie ricevuta abitualmente, la mente può considerare in atto la cosa» (TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 10, a. 8, ad 1)

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colo matematico, espressione verbale, interpretazione di gesti, sentimenti, ecc. Sono questi abiti a poter essere parzialmente misurati attraverso i cosiddetti test d’intelligenza. Con gli abiti siamo davanti ad una dotazione cognitiva pre-conscia che fa crescere l’intelletto nel suo sapere e nelle sue abilità. Dal canto loro, le scienze, anche se sono possedute in modo abituale, possono intendersi come una configurazione mentale dinamica pre-conscia e non rappresentabile di specie cognitive con vincoli con la memoria sensibile e, quindi, radicate cerebralmente26. Quindi gli abiti cognitivi non solo sono posteriori alle operazioni intenzionali dell’intelligenza (concetto, giudizio e ragionamento), ma anche sono alla base di nuovi concetti, giudizi e ragionamenti. In questo modo, la conoscenza umana cresce sebbene la nostra coscienza attuale di ciò che conosciamo sia sempre limitata27. Per usare una metafora, la nostra coscienza attuale intenzionale è solo la punta dell’iceberg di un’immensa struttura fatta di conoscenze, abiti e scienze possedute in modo pre-conscio28. Con la conoscenza intellettiva – sia operazionale, sia abituale – si raggiunge il livello massimo di formalizzazione delle strutture conoscitive sensibili e intelligibili. Le funzioni più alte della sensibilità, che come si è visto sono alla base della specie impressa o fantasma (forma e valore), vengono impregnate dall’intelligenza; così l’immaginazione produttrice, la memoria dell’identità narrativa, la memoria esperienziale e il linguaggio costituiscono la base sensibile-intelligibile per nuove strutture conoscitive, le quali a loro volta saranno il fondamento di strutture superiori in un processo di continua strutturazione crescente ovvero di iperformalizzazione29. 26

Cfr. J.J. SANGUINETI, La especie cognitiva en Tomas de Aquino, cit., pp. 102-

103. 27

«L’intelligenza non riesce a esprimere nella concezione di un verbo tutto quanto abbiamo nella conoscenza abituale, bensì soltanto un aspetto» (TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 4, a. 4) 28 Per riferirsi a questo tipo di pre-conscio cognitivo alcuni autori, come Michael Polanyi (1886-1964) e Edward Moss, parlano di conoscenza tacita. Cfr. M. POLANYI, The Tacit Dimension, Anchor Books, New York 1966, pp. 39-41; tr. it. La conoscenza inespressa, Armando, Roma 1979; E. MOSS, The Grammar of Consciousness. An Exploration of Tacit Knowing, St. Martin’s Press, New York 1995, pp. 62-63. 29 Questo termine, sebbene usato in un senso diverso dal mio, si può trovare in X. ZUBIRI, Sobre el hombre, Alianza, Madrid 1986, p. 500, quando l’autore critica l’ilemorfismo aristotelico.

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Anche se possono essere analizzate nei loro elementi e spiegate nella loro costituzione, le operazioni e gli abiti della conoscenza costituiscono una struttura sempre in crescita, alla cui base si trova un triangolo reale: le persone che conoscono, il mondo conosciuto e la conoscenza che le persone hanno di se stesse e del mondo comunicata mediante il linguaggio. Senza mondo e senza comunità umana il pensiero di ogni persona sarebbe impossibile. La prima verità che conosciamo non è perciò un giudizio su qualche cosa concreta, bensì la nostra condizione di essere-nel-mondo-con-altri, cioè il nostro essere persone in grado di entrare in relazione con il mondo e gli altri. Il pensiero di ogni persona, quindi, dipende necessariamente dall’alterità in tutta la sua estensione, la quale deve entrare in contatto con la persona perché essa possa conoscere di essere-nel-mondo-con-altri: senza il collegamento del nostro corpo con il mondo e gli altri nessuna proprietà della realtà potrebbe essere svelata. Questo contatto è il livello della sensibilità. La realtà colta sensibilmente non costituisce però il mondo umano. Perché esso sia costituito c’è bisogno della conoscenza intelligibile che coglie la realtà in un verbo mentale, il quale può a sua volta esprimersi in un linguaggio che permette la comunicazione fra le persone, cioè la condivisione di uno stesso mondo mediante diverse prospettive. Il mondo umano appare così in forma circolare: come origine del pensiero e nel contempo strutturato dal pensiero umano, proprio perché pensiero e mondo hanno un rapporto di complementarietà. Certamente, il pensiero di ogni persona trova già un mondo costituito ma, in quanto è oggettivazione della realtà, esso risulta impossibile senza pensiero. La conoscenza diventa pienamente strutturata quando riconosciamo gli altri e noi stessi come possessori di una comune dignità personale, la quale è immagine dell’Infinito.

3. Coscienza, conoscenza e autocoscienza Uno dei maggiori limiti della modernità è stato quello d’identificare coscienza, autocoscienza e conoscenza non rendendosi conto della distinzione fra tre realtà: la luce che illumina il proprio vivere o coscienza, la conoscenza oggettiva e l’autocoscienza. In Cartesio questa mancanza è evidente in quanto, secondo lui, l’esperienza del proprio corpo, la sensazione e l’autocoscienza sono la stessa cosa, giacché, sebbene 162

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solo quello dell’autocoscienza sia chiaro e distinto, tutt’e tre sono pensieri. In Hegel c’è una distinzione iniziale fra la coscienza sensibile, il concetto e l’autocoscienza, ma alla fine le differenze scompaiono nella coscienza piena dello Spirito Assoluto. Wojtyla, invece, distingue con chiarezza fra coscienza, conoscenza e autoconoscenza, ad esempio, fra la coscienza di camminare, il concetto di camminare e il rendersi conto di star camminando. Proponendo un’interpretazione tomista della fenomenologia della coscienza, egli sostiene che mentre la coscienza non è intenzionale, lo è invece la sensazione e il concetto. Dunque, diversamente da Franz Brentano (1838-1917) e Edmund Husserl (1859-1938), l’intenzionalità non è una proprietà essenziale della coscienza, bensì della conoscenza, perché la coscienza non conosce ciò che appare in essa, ma solo rispecchia ciò che è stato conosciuto. Ciò spiegherebbe perché l’inconscio, il sogno e, come vedremo, anche l’affettività fanno parte della coscienza senza – come nell’inconscio tendenziale – essere oggettiva, o hanno un’intenzionalità che – come nel sogno – è puramente soggettiva o – come nell’affettività – è un misto di soggettività-oggettività. Forse ciò che caratterizza la coscienza è la sua base organica, soprattutto neurale, la sua capacità di rispecchiare e, soprattutto nell’uomo, la sua relazione intima con la soggettività. Infatti, l’esperienza della coscienza umana è sempre in prima persona, per cui, come afferma Thomas Nagel (1937), nella domanda che cosa significa essere qualcuno ve ne è implicita un’altra: che cosa significa avere esperienze?30, o meglio ancora, rendersi conto di avere esperienze. Certamente, parlare di una base cerebrale della coscienza non significa ridurla a un puro correlato neurale, come fa Francis Crick (19162004), per il quale noi non siamo altro che un bunch of neurons (“fascio di neuroni”)31. In questo modo la questione della coscienza si “risolve” eliminandola, poiché l’unico problema sarebbe di natura fisica, riuscire cioè a fare una mappatura completa del cervello, il che una volta raggiunto permetterebbe di capire tutti i fenomeni di coscienza. Penso che si tratti, piuttosto, di cercare che cosa sia un vissuto, cioè l’esperienza di essere un vivente. Quindi, lo sfondo della coscienza è non solo l’organi30

Cfr. T. NAGEL, What Is It Like to Be a Bat?, «The Philosophical Review», 83 (1974), pp. 435-45. 31 F. CRICK, The Astonishing Hypothesis: The Scientific Search for the Soul, Charles Scribner’s Sons, New York 1994, p. 3.

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smo, ma anche il vissuto. Infatti, i bisogni, desideri, sensazioni, affetti e pensieri ci consentono di avere l’esperienza di essere viventi. È chiaro, però, che i nostri vissuti in un modo o in un altro si riferiscono al nostro rapporto con il mondo, il quale non è solo luogo fisico né ambiente, ma soprattutto realtà che interpella la nostra soggettività in modo completo, cioè desiderativo, intenzionale, universale e pratico perché come vedremo la tendenza, la percezione, la ragione, la volizione e il movimento fisico s’integrano nell’azione. Insomma, la coscienza non è l’ambito interno dell’organismo, che coinciderebbe con i collegamenti neurali, bensì la relazione viva del corpo sensibile e spiritualizzato con il mondo e con gli altri (già nei primati si osserva l’importanza delle relazioni con gli individui della stessa specie per i processi di sviluppo). Certamente, il cervello, in modo particolare nei collegamenti fra le diverse reti neurali, è la condizione organica di possibilità della coscienza sensibile, mentre l’intelletto agente è la condizione di possibilità dell’autocoscienza. Nella persona, l’inconscio e la coscienza sensibile nella sua strutturazione ultima o fantasma sono la base della conoscenza intelligibile. La coscienza non sarebbe dunque la causa formale delle nostre idee, bensì il pensiero, al quale certamente si accompagna la coscienza o coscienza concomitante. L’oggetto sensibile e intelligibile non è costituito dalla coscienza, ma dalle sensazioni e dagli atti di pensiero. La coscienza ha quindi la funzione di rispecchiare e interiorizzare i vissuti e di conseguenza anche gli atti di conoscenza sensibile e intelligibile. Attraverso l’interiorizzazione, si produce una trasformazione della soggettività, la quale si vive nella sua passività (come nell’esperienza qualcosa accade in me32), ma anche nella sua attività (decisione, atto, responsabilità, ecc.). Qualcosa di simile si può dire della conoscenza di se stessi e degli altri. Infatti, essa è alla base dell’autocoscienza e della coscienza dell’altro come essere capace di autocoscienza. Oltre ad avere una coscienza concomitante di sé, la persona è capace di autocoscienza, perché il pensiero umano è in grado di ritornare su di sé facendosi carico

32 Cfr. K. WOJTYLA, Persona e atto, in Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale, T. Styczen, Bompiani, Milano 2003, p. 933.

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della propria soggettività conoscente33. L’autoconoscenza è il livello superiore d’immanenza e trascendenza nell’ambito della conoscenza, per cui il suo rispecchiamento fa vivere alla persona il punto più alto della sua interiorizzazione, necessario per possedersi. Ciò spiega il dominio che, a differenza dell’animale, la persona ha su di sé: non si sente trascinata dai fini della specie, ma si prefigge i propri fini perché conosce ciò che vuole.

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4. Funzioni della ragione: speculativa, tecnica, etica, ermeneutica La conoscenza intellettiva ha una molteplicità di funzioni: conoscere la verità, trovare il senso della propria vita, calcolare, fabbricare oggetti e strumenti, ecc. Tutte queste funzioni possono ridursi a due fondamentali: quella in cui la conoscenza è fine a se stessa (funzione speculativa) e quella in cui la conoscenza è ordinata a un altro fine (funzione pratica), come il fare (tecnica), l’agire (etica), il senso del vivere (ermeneutica). Nella funzione speculativa la conoscenza si interroga sui principi e sulle cause della realtà, cercando di dedurle, indurle o addurle da ciò che è conosciuto, mentre nella funzione pratica la ragione – tramite il desiderio – fa ciò che intende34. La conoscenza speculativa si trova alla base delle diverse scienze teoriche e filosofiche, soprattutto, della metafisica. La conoscenza pratica, che riguarda la relazione fra il fine e i mezzi (il vivere umano e le sue azioni), dipende dalla conoscenza teorica: infatti, solo se si coglie il mezzo in se stesso, cioè in quanto universale, è possibile adoperarlo in relazione a un fine. La conoscenza etica dipende, a sua volta, da quella pratica; ad esempio, se si pensa che 33 Ci sono diverse teorie sull’autoconoscenza. Una è quella riflessiva classica di San Tommaso (conoscere di conoscere), altre sono oggettiviste in maggiore o minore misura (ci conosciamo, oltre che sperimentalmente, concettualmente, questa è la posizione ad esempio di Wojtyla), altre ancora sono intuizioniste, come quella di Cartesio, o abituali, come propone Leonardo Polo secondo cui l’autoconoscenza non è un atto della conoscenza ma un abito, concretamente quello che coglie l’essere personale (cfr. L. POLO, Antropología transcendental, II, EUNSA, Pamplona 2003, pp. 268-273). 34 Cfr. G.E.M. ANSCOMBE, Intenzione, EDUSC, Roma 2004, par. 87. Secondo Anscombe la conoscenza speculativa corrisponderebbe a uno stato cognitivo, mentre quella pratica corrisponderebbe a uno stato conativo o desiderativo.

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la felicità consista nel piacere (edonismo) si useranno gli atti come i mezzi per ottenere piacere. Anche la tecnica dipende dalla conoscenza pratica, giacché in essa si mostra la dualità fra atto e opera (oggetto o strumento) sia a livello strutturale, ad esempio, fra il martellare e il martello, sia a livello sistemico: le azioni e gli oggetti costituiscono due sistemi che si distinguono, s’intrecciano e si retro alimentano; ad esempio, per appendere un quadro al muro, oltre al martello, si richiedono i chiodi, il quadro, il muro, il martellare35. Oltre alla funzione speculativa e pratica, la ragione ha – secondo Max Scheler – una funzione ideale-spirituale, che in parte coincide con quella che ho denominato ermeneutica. La sua caratterista decisiva è il senso, il quale non è speculativo né pratico, anche se influisce sulla teoria e sulla pratica. Secondo il filosofo bavarese, mediante la funzione ideale-spirituale si giunge all’espressione del mondo non come luogo di pura contemplazione né dove soddisfare i propri bisogni o crearne dei nuovi, ma come ambito in cui si colgono e si ordinano gerarchicamente i valori: vitali, estetici, etici, culturali, religiosi; ossia la funzione ideale-spirituale rivela l’uomo come essere-nel-mondo aperto alla trascendenza, come portatore cioè di valori personali36. Sempre secondo quest’autore, la riduzione del pensiero a semplice mezzo per soddisfare i bisogni impoverisce la persona, che perde così di vista la funzione principale di esso: aiutarla a scoprire il senso della propria esistenza. D’altro canto, anche se la richiede, il senso non dipende dalla persona, giacché essa scopre il senso, ma non lo crea. Certamente, come sostiene Hans Georg Gadamer (1900-2002), il senso si realizza nella misura in cui si pone in pratica, perché corrisponde a una verità performativa

35

Per lo studio storico delle diverse funzioni della ragione rimando il lettore al mio saggio Il senso antropologico dell’azione. Paradigmi e prospettive, Armando, Roma 2002, pp. 124-132. 36 Com’è noto, Max Scheler considera lo spirito in opposizione al mondo della vita, per cui la funzione ideale-spirituale del pensiero dipende soprattutto dal mettere fra parentesi bisogni e tendenze vitali (M. SCHELER, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 159). Penso tuttavia che non ci sia una tale opposizione, bensì che nella funzione ideale-spirituale ci sia un grado superiore di formalizzazione della vita. Questa è la ragione per cui la funzione ideale-spirituale o ermeneutica può interpretare le diverse formalizzazioni della vita e, soprattutto, cogliere il loro senso.

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(quella della persona) che, come accade nella sinfonia, si realizza solo nella misura in cui viene interpretata37. Grazie alla capacità di cogliere il senso dei diversi livelli della personalità, le funzioni ermeneutica ed etica della ragione creano le condizioni perché sia possibile controllare in modo flessibile le tendenze e la conoscenza permettendo d’integrare queste strutture in una personalità matura dal punto di vista psichico e spirituale. Queste funzioni consentono anche un decentramento di interessi, bisogni e pregiudizi in modo da rendere possibile il dialogo sulla realtà, cioè sul senso e sui valori (qui ritroviamo la natura dialogica della ragione umana, che secondo i contesti si manifesta in modi differenti). Dalla prospettiva della sensibilità non è possibile l’accordo perché i punti di vista sono sempre relativi al tipo di sensazione e al modo di sentire; ed è per questo che non troveranno mai armonia il lupo e l’agnello. Per farlo essi dovrebbero essere in grado di superare le loro differenti prospettive. La conformità richiede la partecipazione alla razionalità, che consente alle persone, almeno come potenzialità, di avere un punto di vista comune. L’esistenza di diverse funzioni (tecnica, etica, teoretica, ed ermeneutica), d’altra parte, non deve farci perdere di vista il carattere essenzialmente unitario della ragione stessa. Bisogna, quindi, sostenere l’unità della ragione e allo stesso tempo la pluralità dei suoi usi, alcuni dei quali, come quello etico ed ermeneutico, hanno però la proprietà di poter valutare tutti gli altri perché riguardano l’azione umana e il senso della vita. Infatti, anche se ad esempio la fabbricazione di strumenti e di oggetti caratterizza il mondo umano, non sempre essi – in se stessi o nel loro utilizzo – comportano la perfezione della persona. Da qui deriva il valore normativo di queste due funzioni riguardo a tutte le altre. La funzione etica e quella ermeneutica sono dunque il principio

37 L’idea che la verità si ha solo nell’interpretazione, può portare al relativismo, come si osserva in alcuni sostenitori del pensiero debole (Rorty, Derrida, Vattimo). Dal mio punto di vista, tale svolta nichilistica dell’ermeneutica, anche se può trovare appoggio in alcuni dei testi di Gadamer, specialmente nel suo capolavoro Verità e metodo, non tiene conto del carattere paradossale con cui vi si presenta l’idea performativa della verità. Credo che esso corrisponda al senso della vita umana, ossia alla verità della persona, che si realizza nella misura in cui s’interpreta adeguatamente (cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo, I, Bompiani, Milano 2001, pp. 179-180).

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unificante dei diversi usi della ragione38. Ciò non significa una riduzione di tutte le funzioni a queste due, poiché ognuna ha un ambito di autonomia: la ragione tecnica, ad esempio, non può essere sostituita da quella etica nell’ambito delle leggi che regolano la perfezione nel fare, la realizzazione dell’opera, la fabbricazione di strumenti e il loro uso. Tale autonomia, però, non va a scapito della loro dipendenza dalla ragione etica: la produzione e l’uso della tecnica devono essere valutati eticamente, perché sia la scienza sia la tecnica sono attività umane. Se ciò non avviene, si generano problemi come quello degli embrioni congelati che oramai giacciono nelle celle frigorifere di mezzo mondo e nessuno sa cosa farsene. La tecnica, infatti, non è in grado di dire ciò che è veramente umano, l’etica sì.

38 «Tra scienza ed etica vi sono linee di distinzione, ma non di separazione-isolamento: l’osservazione reciproca deve essere aperta agli inter-scambi, che si attuano diversamente nella conoscenza come tale (la quale segue modelli di razionalità) e nella persona di chi agisce (la quale deve pur sempre operare ri-flessivamente)» (P. DONATI, Il problema dell’umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, in The Humanization of Care in the Age of Advanced Technology, EDIUN, Roma 2000, p. 67).

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Capitolo settimo

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività dinamica e realtà

Anche se nella conoscenza intellettuale troviamo il grado superiore di strutturazione a livello intenzionale, è possibile parlare di un grado ancora maggiore dal punto di vista personale: l’unione della conoscenza con la tendenzialità. Certamente, quest’integrazione non è univoca, ma ammette a sua volta diversi gradi: l’integrazione spontanea propria del dinamismo, dell’attualizzazione delle tendenze e, infine, l’integrazione volontaria propria dell’atto umano e delle virtù. Prima di analizzare i diversi tipi d’integrazione in questo e nei prossimi capitoli riguardanti la volontà e l’azione, bisogna sottolineare che, a differenza della conoscenza, la tendenzialità è una potenzialità di tutta la persona e non solo di una determinata facoltà, come si evince dall’osservazione delle sue caratteristiche particolari. Infatti, se nella potenza fisica la potenzialità diminuisce nella misura in cui si attualizza, nella tendenza, invece, accade il contrario: la potenzialità aumenta nella misura in cui è attualizzata dalla conoscenza fino a diventare atto. Certamente questa crescita non è di natura fisica, bensì psichica ovvero passionale. Nella potenzialità della tendenza c’è, dunque, una composizione fra dinamismo fisico e psichico; ognuno dei quali segue leggi proprie. Anche nella volontà esiste una potenzialità tendenziale ancora più speciale, giacché è proporzionale all’atto: più si tende più si vuole e viceversa, senza che ci sia nessun atto capace di esaurirla, perché si tratta di una potenzialità di natura spirituale. Da qui, in senso stretto, segue che nella volontà non ci siano passioni. Comunque, la volontà sperimenta il complesso mondo affettivo come motivi per amare o non amare determinate realtà o per agire o non agire. 169

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Capitolo settimo

L’affettività, dunque, può concepirsi come integrazione spontanea di soggettività dinamica e realtà. Basta questa prima indicazione per capire la ricchezza della vita affettiva delle persone e, di conseguenza, l’impossibilità di coglierla in poche categorie. Ne deriva la necessità di combinare la visione più sistematica delle teorie classiche, concretamente quella delle passioni tomiste, con le descrizioni della fenomenologia e con alcune delle principali scoperte nell’ambito delle neuroscienze.

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1. L’integrazione spontanea di tendenza e conoscenza: le passioni Quando si occupa dell’affettività umana, la psicologia classica studia soprattutto le passioni perché in esse si dà l’incontro tra il dinamismo fisico dell’appetito sensibile (istinti e tendenze) e l’aspetto psichico proprio della conoscenza sensibile1. Ciò nonostante, secondo San Tommaso, la passione è legata propriamente alla mutazione corporea ovvero al dinamismo fisico-fisiologico2. Per studiare la passione non basta, dunque, la considerazione della conoscenza, ma è anche necessaria l’analisi degli appetiti e del loro dinamismo fisico che tende all’esecuzione di un comportamento determinato3. A differenza dell’appetito naturale comune a tutti gli esseri, quello sensibile non dipende – secondo l’Aquinate – dalla propria forma naturale, ma piuttosto da quella conosciuta come bene sensibile. Questo 1

Una chiara sintesi del ruolo della corporeità nelle passioni si può trovare in A. LOBATO, El cuerpo humano, in AA.VV., El pensamiento de Santo Tomás de Aquino para el hombre de hoy, Edicep, Valencia 1995, pp. 208-217. 2 «Ora, negli atti dell’appetito sensibile codesta mutazione non è soltanto immateriale, come nella percezione sensitiva, ma anche fisica» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 22, a. 3). 3 Modificazioni fisiologiche, aspetti cognitivi e comportamento sembrano essere quindi i tre elementi che costituiscono le passioni. Questa stessa concezione la possiamo trovare, ad esempio, nella seguente definizione di emozione: «esperienza che produce sentimenti e affetti (“mi sento felice”), che presenta delle modificazioni fisiologiche in risposta a determinati stimoli (un aumento del battito cardiaco, ad esempio), è dotata di correlati cognitivi (come la valutazione degli stimoli emotigeni) ed ha, infine, risvolti sul piano del comportamento» (R.S. LAZARUS, Emotion and adaptation, Oxford Univesity Press, Oxford 1991, p. 169).

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

bene fa nascere nell’animale un tipo differente d’inclinazione, i cui atti sono le passioni. Evidentemente si tratta di un atto molto particolare, perché esso è sempre legato, come alla sua origine, alla mutazione corporea. San Tommaso stabilisce una classificazione di undici passioni elementari. Le passioni centrali sono, però, sei e corrispondono al bene concupiscibile: amore/odio, desiderio/avversione, piacere/dolore4. Infatti, di fronte al bene concupiscibile, l’appetito sensibile sperimenta una prima inclinazione, l’amore ovvero la sua connaturalità con il bene che perciò lo attira grandemente; finché non raggiunge il bene, ad esempio, il cibo, l’animale sperimenta quest’attrazione, ossia il desiderio; infine, una volta raggiunto, l’animale gode del bene raggiunto, ossia sente piacere. La potenzialità della passione si mantiene sia nel desiderio sia nel piacere; anzi, in questo ultimo è più intensa. Ciò nonostante, contro la tesi di Freud, il piacere non è il principio dell’agire animale e umano, bensì l’amore del bene concupiscibile (nel caso dell’uomo soprattutto del bene intelligibile)5. Certamente il piacere rafforza il desiderio di realizzare l’azione legata a esso. Solo l’uomo può cercare il piacere per se stesso, perché può separarlo dall’atto cui è unito. A differenza dell’amore, quanto più si cerca il piacere, meno lo si raggiunge fino a richiedere una grande intensità nello stimolo per procurarsi un piacere leggero. Le passioni riguardanti il bene irascibile o passioni irascibili sono invece cinque: ira, paura/audacia, disperazione/speranza, e dipendono dalle passioni concupiscibili sia nella loro origine (l’amore) sia nel loro fine (il piacere)6. Le passioni irascibili, come quelle concupiscibili, derivano dall’appetito sensibile. Sebbene sia uno, questo appetito può essere diviso in concupiscibile o irascibile secondo il tipo di bene verso il quale tende. Mentre quello concupiscibile è il bene sensibile nella sua purezza, quello irascibile è un bene misto al male. Ne deriva che l’animale si trova a desiderare il bene, cioè gli aspetti concupiscibili di 4

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 23, a. 1. Cfr. S. FREUD, Al di là del principio di piacere, IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 22-23. 6 «Tutte le passioni delle potenze irascibili (audacia, ira, timore, speranza, disperazione e simili) cominciano dalle passioni delle potenze concupiscibili, e in esse si consumano, come avviene per l’ira che scaturisce da arrecata tristezza e con l’eseguita vendetta riacquista il gaudio» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 81, a. 2). 5

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Capitolo settimo

una data realtà e contemporaneamente ad avere avversione verso i suoi aspetti difficili o ardui. Siccome desiderare e avere avversione non può corrispondere all’inclinazione di un solo appetito7, è necessario introdurre una sottospecie dell’appetito sensibile, quello cioè irascibile. Quindi, gli esseri che possono sperimentare le passioni irascibili sono quelli che hanno contemporaneamente una percezione degli aspetti positivi e negativi della realtà. Non tutti gli animali sono in grado di sperimentare questo, solo quelli più evoluti. Se mediante l’appetito concupiscibile l’animale desidera il bene, mediante quello irascibile percepisce il male e reagisce di fronte ad esso. Per questo motivo, secondo l’Aquinate, con l’appetito irascibile si può spiegare non soltanto la fuga o l’aggressione ma anche altre passioni, come la speranza o l’audacia. Infatti, davanti ad un bene arduo non ancora raggiunto l’animale spera quando considera possibile ottenerlo oppure dispera quando lo ritiene impossibile; se si tratta invece di un male possibile, le passioni sono il timore quando lo si giudica invincibile, o l’audacia quando lo si considera vincibile8. In fine, davanti al male presente, l’animale sente ira. L’analogia tomista fra le passioni degli animali e dell’uomo non deve far perdere di vista alcune importanti differenze. Per quanto riguarda la passione dell’amore, nell’uomo non c’è semplicemente un dinamismo fisico-psichico ma anche uno di natura spirituale sia perché la sensibilità può partecipare alla razionalità (come abbiamo visto nella cogitativa) sia soprattutto perché le inclinazioni umane sono personali; perciò tutte le passioni concupiscibili e irascibili hanno nella persona delle caratteristiche speciali. Forse dove ciò meglio si osserva è nell’infinità del desiderio umano, che non si soddisfa mai perché non fa riferimento a determinati aspetti della realtà, bensì a essa come bene. L’esistenza di questo desiderio è la causa del fatto che nell’uomo si producano opposizioni tra le diverse inclinazioni e anche si sperimentino passioni contrarie nel momento dell’unione con l’oggetto, come piacere e tristezza oppure dolore e gioia, il che non sembra accadere negli animali. Inoltre, l’apertura infinita del desiderio umano sembrerebbe indicare l’assenza di un oggetto finito in grado di esaurirlo. Perciò l’oggetto del desiderio 7

Cfr. ibid. Meyer ha esaminato il rapporto tra l’avversione e la paura: quando è impossibile vincere il male, il soggetto non ha audacia, ma può solo sperimentare terrore davanti al male inevitabile (cfr. M. MEYER, Le problème des Passions chez Saint Thomas d’Aquin, «Revue Internationale de Philosophie», 3 (1994), p. 274). 8

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

umano non sarebbe semplicemente una realtà, ma il desiderio di un altro, che fungerebbe così da modello. Ne deriva l’importanza che il desiderio ha nell’identificazione con i modelli, ad esempio, del figlio con il padre e della figlia con la madre9. Comunque nell’irascibilità l’uomo si distingue dagli animali. In primo luogo, perché l’ira umana è sempre legata al senso della dignità della persona. Infatti, la causa dell’ira umana è qualcosa che soltanto l’uomo può sperimentare: l’ingiustizia10. Questo ci permette di spiegare una differenza tra l’ira dell’animale – ad esempio, l’elefante adirato – e quella dell’uomo. L’elefante finché non smaltisce la sua ira distrugge tutto ciò che trova nel suo cammino, invece l’uomo può sperimentare ira e ciononostante non fare nulla contro l’aggressore, oppure può rimandare la punizione. Vendicarsi è tipicamente umano. Nella vendetta c’è proprio il piacere di un futuro in cui quell’ingiustizia commessa verso di noi (o che la pensiamo così) sarà castigata, e questa punizione è qualcosa che ci dà soddisfazione. Come sostiene San Tommaso, prima che si avveri, la vendetta si fa presente all’adirato in un doppio modo: per spem (per mezzo della speranza), giacché nessuno s’indigna se non si aspetta di ottenere giustizia; per cogitationem (per mezzo del pensiero), ad esempio, pensando alla vendetta. Quest’ultimo modo di farla presente è già piacevole perché il pensiero della vendetta suppone in qualche modo la sua realizzazione, e dunque se ne ricava un godimento11. Come afferma il detto, la vendetta è un piatto che va servito freddo. La distinzione con l’animale si vede meglio con la coppia speranzadisperazione. Anche l’animale che rincorre la preda spera di acchiapparla e di mangiarsela ma nel caso dell’uomo questa speranza non è solo “puntuale” ma fa riferimento a tutta la sua vita. Sebbene sia originata dall’amore dell’oggetto, la speranza umana è a sua volta causa 9

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 428 e sgg. 10 Secondo Aristotele, l’ira nasce «dalla valutazione di qualcosa come ingiusta» (ARISTOTELE, Retorica, 1378a 30-32). 11 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 48, a. 1. Secondo il rapporto che l’ira ha con il movimento dell’appetito, con la tristezza e con il desiderio di vendetta, San Tommaso stabilisce tre specie d’ira: fel, quando c’è una facilità e prontezza nel movimento di adirarsi; maniam, quando la tristezza fa sì che l’ira rimanga permanentemente nella memoria; furorem quando l’ira non si placa se non con la punizione (cfr. ivi, q. 46, a. 8).

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Capitolo settimo

dell’amore, certamente non dell’oggetto da ottenere, bensì di chi ci aiuta a raggiungerlo, «poiché dal fatto che speriamo da qualcuno il conferimento di un bene, ci muoviamo verso di lui come verso un nostro bene: e così cominciamo ad amarlo»12. La speranza ci parla quindi di un amore verso l’altro nato dalla fiducia che egli ci aiuti a ottenere il bene che desideriamo. La vita umana ha bisogno di una speranza ultima e non solo di piccole o grandi attese, giacché altrimenti si potrebbe cadere in un vuoto nichilismo. Per questo motivo San Tommaso afferma che la speranza è virtus viatoris ovvero la virtù del camminante. La disperazione si ha quando la vita sembra che non abbia nessun tipo di senso; allora la morte appare come l’unica via d’uscita. In conclusione, l’amore è la passione radicale, non soltanto perché il mondo passionale nasce dall’amore, ma anche perché finisce nell’unione reale con l’oggetto amato. La complessità della sfera delle passioni deriva dalla distanza che esiste tra l’amore iniziale e finale, in cui l’appetito trova il suo riposo. La separazione tra l’amante e il bene amato è la sorgente della concupiscibilità, mentre l’origine dell’irascibilità è la difficoltà di arrivare all’unione.

2. Mappa dell’affettività umana: sentimenti corporei, emozioni, sentimenti propriamente detti e stati d’animo Anche se costituiscono il nucleo dell’affettività, le passioni non esauriscono il mondo affettivo umano. Oltre all’affettività tendenziale, ce ne sono altri tipi che non fanno riferimento alle inclinazioni o, almeno, non direttamente. C’è bisogno dunque di ampliare l’ambito affettivo. Forse il modo di farlo è indicare gli elementi essenziali dell’affettività. A mio parere questi sono due: a) l’integrazione spontanea di tutto ciò che fa parte della persona (corpo-psiche-spirito), sebbene solo venga sottolineato uno di questi elementi; b) il sentirsi della soggettività in relazione ad altro (il mondo e gli altri) o a se stessa. Partiamo dall’integrazione spontanea tra corpo-psiche-spirito. Si è visto che negli atti della conoscenza ci può essere un aspetto psichico (conoscenza sensibile) e uno spirituale (conoscenza intelligibile) ma non c’è un aspetto fisico, perché essi sono immateriali. Invece nell’af12

Ivi, a. 7.

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

fettività il lato fisico è sempre presente. Ci sono degli affetti più legati alla corporeità e altri meno, ma sempre sono presenti tutte e tre le dimensioni della persona. Per questo motivo dove si dà l’integrazione spontanea tra corpo-psiche-spirito è proprio nell’affettività. Inoltre, noi non solo “siamo” qualcuno ma anche “ci troviamo” in una determinata situazione e siamo in grado di “entrare in risonanza” con essa; affettività significa, dunque, essere in accordo o disaccordo con la situazione in cui ci troviamo. Se riceviamo la notizia della morte di una persona amica senza rattristarci ci sono due sole opzioni: o il defunto non era poi così caro, oppure non ci siamo ancora accorti di quanto è successo. Se la situazione è triste, non sentire tristezza è una mancanza dal punto di vista affettivo. Poiché l’affettività è integrazione spontanea delle tre dimensioni, se non rispecchierà la situazione in cui ci si trova, ci sarà una mancanza d’integrazione personale. Se di fronte al successo di un’altra persona mi rattristo, non posso dire “sono fatto così”… piuttosto c’è in me qualcosa che non va. Nel senso che il mio modo di sentire non corrisponde a quella situazione. L’affettività è soggettiva poiché la sperimentiamo in quanto soggetti e non perché è la stessa cosa sentire un affetto oppure un altro, in quanto l’affetto dovrebbe rispecchiare la situazione in cui ci si trova. Tenendo, allora, presente queste due caratteristiche (integrazione spontanea e situazione), possiamo individuare quattro tipi di affetti: i sentimenti corporei, le emozioni o sentimenti tendenziali, i sentimenti propriamente detti, e gli stati d’animo. Poiché si tratta di un rapporto soggettivo con la realtà, gli affetti non possono essere definiti come se fossero concetti, ma solo descritti e classificati a partire dai vissuti che ne abbiamo. Questo spiega perché gli affetti possano avere un oggetto e ciò nonostante non essere oggettivi, poiché la loro intenzione è allo stesso tempo un’affezione del soggetto; ad esempio, il cane di fronte al quale ho paura è un pericolo per me, mentre per un’altra persona quello è semplicemente un cane che abbaia. a) Sentimenti corporei I sentimenti corporei possono essere descritti come l’esperienza che la soggettività ha di se stessa a partire dalla sua corporeità. Infatti, nei sentimenti della nostra corporeità e nella capacità del corpo di reagire agli stimoli esterni (reazione motoria) siamo consci della nostra soggettività in quanto corporea nella misura in cui ci sentiamo bene, stanchi, 175

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Capitolo settimo

nervosi. I sentimenti corporei fanno sì che il corpo, realtà originariamente non psichica, divenga in un certo senso contenuto di coscienza. E in questo modo diventiamo consci della nostra corporeità. Non solo abbiamo un corpo che possiamo muovere, ma sentiamo che quel determinato corpo, emerso nella nostra coscienza, fa parte inseparabile di noi stessi. In altre parole, sentiamo di essere corporei. Certamente questo sentirci corporei non è qualcosa di puramente fisico-psichico ma è anche spirituale, nel senso che implica la coscienza della nostra identità personale. Nei sentimenti corporei, la corporeità appare solo in un modo indeterminato: non riguarda in particolare nessun organo e nessuna funzione. Perciò questo tipo di affettività ha come contenuto una grande oscurità e vaghezza. Inoltre, essa è puntuale perché non fa riferimento né al passato né al futuro. Di conseguenza, come afferma Scheler, questo tipo di affettività rivela il valore del puro presente13. Forse le due sensazioni corporee o sentimenti più caratteristici sono il dolore e il piacere. Il dolore può essere considerato un evento fisico-psichico, mediante il quale si è consapevoli di una disfunzione organica o di uno stimolo esterno contrario al bene della propria corporeità. Il piacere, invece, informa dell’adeguazione fisico-psichica delle operazioni vegetativo-sensitive (nutrizione, riproduzione, sensazioni, ecc.) o degli stimoli esterni. Un capitolo importante è costituito dai sentimenti o sensazioni legati alle inclinazioni basilari, come la fame e la sete. In esse l’oscurità dipende non solo dall’emergenza indeterminata della corporeità nella coscienza, ma anche da ciò che ho chiamato dinamizzazione della tendenza. Infatti, la soggettività sperimenta la propria corporeità come mancanza di qualcosa (il cibo o la bibita) che ancora non si conosce. Perciò una cosa è “la fame” e un’altra “sentire la voglia di mangiare il gelato”; sono affetti differenti. La fame è nei confronti del cibo – cioè di qualcosa che mi nutre genericamente –, invece “la voglia di mangiare il gelato” dipende dalla conoscenza del gelato, della sua desiderabilità e del piacere che sperimento quando lo mangio. Questo modo oscuro di sentire la propria soggettività, quando si ha fame, sete, ecc., dimostra 13

Cfr. M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 56 e sgg. All’interno dei sentimenti corporei, Scheler distingue fra sinnliche Gefühle (sentimenti sensoriali, come piacere e dolore) e Leibgefühle (sentimenti vitali, come benessere, disagio).

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che queste sensazioni devono essere interpretate da chi conosce l’oggetto che può soddisfarle, perché esse indicano solo un tendere in modo vago e confuso verso qualcosa che ancora non si possiede14. Qui troviamo già il carattere interpersonale dell’affettività: per interpretare le sensazioni più basilari abbiamo bisogno degli altri i quali, nell’aiutarci a soddisfare i propri bisogni, ci fanno conoscere il loro significato. b) Emozioni Oltre alle passioni sensibili che ha in comune con gli animali, la persona sperimenta delle emozioni legate a tendenze esclusivamente umane, radicate nella struttura somatico-psichico-spirituale. Queste tendenze partecipano in maggiore o minore misura alla struttura personale. Infatti, oltre ad essere un vivente in relazione con il mondo, la persona è conscia della sua unità psicologica o io e delle sue relazioni con gli altri. Dalla coscienza dell’Io dipendono due gruppi di tendenze: quelle dell’Io (possesso, potere, stima e autostima15) e quelle della transitività (lavoro, amicizia, creatività, amore umano, ecc.), grazie a cui l’uomo è capace di autotrascendersi ponendosi delle domande sempre più radicali fino ad arrivare all’origine e fine di se stesso, ossia al senso del proprio vivere. Non bisogna, però, perdere di vista che questi tre tipi di tendenza corrispondono sempre a una stessa persona unica e irrepetibile. Nonostante le differenze dal punto di vista della genesi, le emozioni possono essere descritte come manifestazione della convenienza o sconvenienza della realtà riguardo alla soggettività tendente. Nella descrizione delle differenti emozioni bisogna tener conto dell’inscindibilità fra la soggettività che tende e la realtà. Infatti, né le tendenze né la percezione della realtà da sole spiegano le emozioni. Le tendenze sono spesso all’origine del giudizio naturale di convenienza con cui si colora emotivamente la realtà; ad esempio, considerare l’esame come pericoloso può aver a che fare con la tendenza alla stima che vede un pericolo nel fare una brutta figura davanti ai compagni e ai professori oppure con una bassa tendenza all’autostima, che ha bisogno del successo davanti 14 Cfr A. MILLAN PUELLES, La estructura de la Subjetividad, Rialp, Madrid 1976, pp. 22-25. 15 Kant parla di tre desideri tipicamente umani: possesso (Habsucht), dominio (Herrsucht), e onore (Ehrsucht) (cfr. I. KANT, Fondamenti della metafisica dei costumi, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 127).

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ad altri per affermarsi. Le tendenze non manifestano, però, se la realtà in questione è pericolosa o meno, perché non conoscono. Solo attraverso la conoscenza sensibile e intelligibile della realtà cui la tendenza è inclinata, si mostra la sua convenienza o meno; tornando all’esempio precedente, solo se si ha una certa conoscenza di che cosa è un esame e di quali sono le conseguenze di una mancanza di preparazione, può sentirsi la paura di essere bocciato. Le caratteristiche fenomenologiche delle emozioni, che le differenziano dal semplice dinamismo degli istinti e tendenze, sono dunque due: 1) la percezione della realtà cui si tende; 2) l’incontro fra soggettività che tende e realtà. 1) La percezione della realtà cui si tende costituisce l’aspetto formale delle emozioni. Si tratta, però, di una conoscenza tendenziale o vissuta. La conoscenza vissuta conferisce alle emozioni un particolare tipo di temporalità: il presente. Il tempo dei vissuti emozionali, infatti, non è sperimentato – come negli istinti e nella dinamizzazione delle tendenze – come proiezione verso il futuro in cui l’incontro con la realtà si realizzerà, ma come unione nel presente; perciò qualsiasi emozione, indipendentemente dalla temporalità in cui è collocato il suo oggetto, si sperimenta nel presente. Ad esempio, anche se la paura di essere bocciato si riferisce a un possibile evento futuro, il pericolo della bocciatura è percepito nel presente; altrimenti non si parla di paura. Le emozioni sono, quindi, la risposta che nel momento presente si dà alle domande che sono implicite nelle tendenze. Pensiamo all’emozione complessa della gelosia: essa fa riferimento sia alla tendenza sessuale sia a quella di possesso ed anche alla tendenza transitiva, poiché nasce dal triangolo creatosi tra la persona che ama, l’amato e un rivale in amore, di cui si ha paura che possa portarlo via. 2) L’incontro spontaneo fra soggettività e realtà dà luogo all’unione fra due realtà differenti, rispecchiato in forma di emozioni16. Nell’affettività non esiste qualcosa che sia universale. Non si può sentire, ad esempio, l’invidia in generale: essa fa sempre riferimento ad una persona, è sentita nei confronti di un’altra persona, e per un motivo determinato. Ciò vuol dire che l’affettività fa riferimento alla soggettività 16

Anche Arnold rileva che l’affettività è la reazione del soggetto alla valutazione dei vantaggi o dei pericoli che la situazione conosciuta presenta (cfr. M. ARNOLD, Emotion and personality, I, Columbia University Press, New York 1960, pp. 24-35).

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

in rapporto alla realtà. Per così dire, la realtà si sente come pericolosa nel caso della paura, cattiva e rattristante nell’invidia, da distruggere nell’odio. In fondo anche se parliamo in senso generale dell’affettività dobbiamo renderci conto che ogni affetto è assolutamente concreto, particolare, appartenente a una determinata persona in rapporto ad una determinata realtà: è l’esatto contrario del concetto. Proprio per far parte della soggettività, le emozioni hanno una maggiore o minore profondità: alcune sono superficiali e quasi non lasciano tracce, altre raggiungono strati abissali; altre, infine, segnano profondamente la vita delle persone. Le emozioni eccezionalmente importanti, quindi, non dipendono solo da questo o quell’evento, ma soprattutto dal proprio modo di essere che si sente minacciato o chiamato in causa17. Tanto le passioni quanto le emozioni umane sono caratterizzate da due aspetti: l’eccitabilità e una grande intensità in un breve periodo di tempo. Nello scoprire l’oggetto, la tendenza affiora alla coscienza sotto il modo dell’eccitabilità. La disposizione soggettiva che aumenta l’eccitabilità è la mancanza di anticipazione di ciò che accade, come nello spavento e l’agitazione. Lo spavento si produce quando nell’orizzonte della soggettività appare all’improvviso una minaccia. Secondo alcuni neuroscienziati, quest’emozione farebbe parte di un circuito cerebrale molto antico (sottocorticale), che permette di reagire rapidamente di fronte ad un possibile pericolo18. Esso ha, però, l’inconveniente di impedire una valutazione della situazione, per cui serve solo in casi di pericolo immediato: un incendio o un incidente stradale19. Lo spavento quando si trasforma in un pattern abituale di comportamento può portare a errori nel modo di reagire di fronte alle situazioni di pericolo. Lo spavento incontrollato può portare all’agitazione, dove la minaccia 17 Tesi

difesa, tra gli altri, da F. KRÜGER, Der Strukturbegriff in der Psychologie, Fischer, Jena 1924, p. 34. 18 «Il fatto che l’apprendimento emotivo possa venire mediato da percorsi che aggirano la corteccia è intrigante: suggerisce che le risposte emotive possono avvenire senza coinvolgere i sistemi di elaborazione superiore del cervello che dovrebbero essere coinvolti nel pensiero, nel ragionamento e nella coscienza» (J. LEDOUX, Il cervello emotivo, cit., p. 167). 19 Certamente, come lo stesso LeDoux spiega, «questo circuito ha una sua precisa funzione, in quanto «dal punto di vista della sopravvivenza, è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero davvero che non reagire affatto. A lungo termine, confondere un bastone con un serpente costa meno del contrario» (ivi, p. 171).

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Capitolo settimo

fa perdere il controllo della propria motilità perché il pericolo non può essere colto nella sua totalità, o alla paralisi di movimenti, caratterizzata da una riduzione delle funzioni vitali fino a produrre il blocco totale. Esso può dar origine anche ai comportamenti ansiosi e alle fobie: il soggetto sa di non dover preoccuparsi perché non esiste nessun pericolo reale, ma non riesce a liberarsi dall’ossessione fobica. L’altro circuito cerebrale della paura è più recente e si trova collegato con la coscienza razionale (dalla corteccia sensoriale, dove lo stimolo è elaborato, passa all’amigdala20): la valutazione del pericolo non porta a un’azione immediata e, quindi, consente di rendersi conto del carattere reale o immaginario del pericolo21. Oltre all’eccitabilità, l’emozione ha una grande intensità che coinvolge tutta la soggettività, specialmente l’ambito somatico e psichico. Così nella paura l’intensità si manifesta in una serie di cambiamenti fisiologici: l’aumento della tensione muscolare, della conduzione della pelle, della frequenza della respirazione, della funzione delle ghiandole surrenali, e l’inibizione della funzione della bile. Nella cosiddetta paralisi dei movimenti, invece, il respiro si ferma e il ritmo cardiaco si abbassa moltissimo. Nell’ira l’aumento della tensione muscolare è minore che nella paura, aumenta la pressione sanguigna diastolica e il ritmo cardiaco diminuisce22. Nella tempesta di movimenti, infine, l’eccitazione del sistema nervoso è massima. Secondo il grado di eccitabilità e intensità si possono distinguere due tipi di emozioni: 1. Le cosiddette emozioni originarie, come lo spavento, l’agitazione, l’ira e la paura che sono legate alla tendenza alla sopravvivenza, in cui si sperimenta la massima eccitabilità e intensità sia agitandosi sia inibendosi. Se lo spavento, la paralisi di movimento e la paura hanno un carattere difensivo, l’ira ha invece un carattere reattivo di attacco. A volte uno stesso stimolo, come lo sguardo fisso, fa scatenare in alcune 20

Per una visione delle strutture cerebrali coinvolte nell’emozione si veda la figura 5. 21 Cfr. J. LEDOUX, Emozioni, memoria e cervello, «Le Scienze», 53 (1994), pp. 32-40. Per una spiegazione grafica della distinzione fra questi due circuiti si veda la figura 6. 22 Alcuni studiosi hanno trovato che queste sono le risposte fisiologiche che differenziano l’ira dalla paura; ce ne sono altre, come la temperatura del viso e delle mani o i battiti del cuore in cui non ci sono differenze significative (cfr. E.R. HILGARD, R.C. AKITSON, R.L. AKITSON, Psicologia. Corso introduttivo, Giunti, Firenze 1989, pp. 378-379).

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persone paura e in altre ira. Come accade con le scimmie antropomorfe, le persone ansiose cercano di evitare lo sguardo (nel caso delle scimmie tendono anche a nascondersi), quelle aggressive reagiscono con gesti minacciosi23. L’agitazione e l’ira implicano non solo la percezione di un pericolo per la propria conservazione, ma soprattutto la percezione di qualcosa che ne è un limite o che offre delle resistenze alle richieste della vita, dell’Io o dei valori che sono in gioco; si potrebbe parlare dell’ira come di un furore capace di apportare l’energia fisica e psichica necessaria per distruggere gli ostacoli24. 2. Le emozioni secondarie hanno un minor grado di eccitazione, perché non sono spesso legate alla dinamizzazione corporea. Esse dipendono piuttosto dalle tendenze umane nate dalla conoscenza dell’Io e dell’altro. Esempi di questo tipo di emozione sono l’innamoramento, l’entusiasmo, la commozione, la compassione, l’irritazione, l’indignazione, ecc. In esse, anche se è minore, l’eccitazione può manifestarsi nei gesti, nel tono della voce, nel linguaggio, ecc. Nell’innamoramento, ad esempio, l’emozione può riflettersi nel luccichio degli occhi e nel desiderio della presenza e vicinanza della persona amata; la commozione nelle lacrime e nel tono sommesso della voce; la compassione nelle premure per l’altro; l’irritabilità nei gesti bruschi e antipatici della persona che si sente ferita perché le sue pretese non sono state soddisfatte, ecc. In altre emozioni di questo tipo, come l’invidia e la gratitudine, non si sperimenta nessuna dinamizzazione corporea. Pertanto, alcuni autori – come Scheler – le considerano puramente psichiche (reine seelische Gefühle) e legate direttamente all’Io, anche se possono sentirsi secondo una maggiore o minore vicinanza25. Recenti studi hanno però mostrato che in queste emozioni c’è almeno un’attivazione a livello del sistema limbico26. Inoltre, queste emozioni possono riversarsi sull’organismo 23 Su queste differenze di comportamento nei gorilla si veda V.D. FOSSEY, Gorillas in the Mist, Mariner Books, Boston-New York 2000. 24 Per la descrizione fenomenologica dell’agitazione, dello spavento e dell’ira prendiamo spunto da alcune caratteristiche inviduate da PH. LERSCH, La struttura del carattere, cit., pp. 207-213. 25 Cfr. M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., p. 60. 26 Cfr. J. CERVOS-NAVARRO, S. SAMPAOLO, Libertà umana e neurofisiologia, cit., p. 29.

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modificando le costanti vitali (battiti del cuore, tensione muscolare, pressione arteriosa, secrezione ormonale, ecc.). Nell’invidia la mancanza iniziale di dinamizzazione somatica fa sì che la persona possa non aver consapevolezza di quest’inclinazione, il che non accade con le emozioni dell’ira o della paura. Infatti, quando riflette sul perché sperimenta la realtà come pericolosa o nemica, la persona è in grado di rendersi più o meno conto delle passioni che hanno fatto presa su di lei. La mancanza di conoscenza nell’invidia dipende, però, soprattutto dalla poca conoscenza di se stessi, molte volte perché non si è disposti a cambiare modi sbagliati di entrare in relazione con gli altri, come le comparazioni riguardo alle qualità possedute, al rendimento di se stessi e degli altri, alla gelosia. c) Sentimenti I sentimenti propriamente detti possono essere descritti come la risonanza affettiva del valore che la realtà ha in sé, cioè nei suoi trascendentali (bellezza, bene, verità e unità), slegata da qualsiasi bisogno e inclinazione soggettiva. Perciò questi sentimenti si trovano all’origine dell’estetica, dell’etica e della metafisica. Il sentimento di bellezza, ad esempio, si sperimenta dinanzi a tutto ciò che appare bello, sia esso una realtà naturale, un capolavoro artistico o una persona. Lo stesso vale per i sentimenti di fronte alla verità, che non compaiono solo dinanzi alle persone, ma anche alla realtà non personale. Ciò nonostante, la percezione della bellezza o della meraviglia davanti all’essere non è ancora attività estetica né speculativa poiché si tratta solo di passività, o meglio ancora di risonanza affettiva. Anche se non è – ordinariamente – razionale, il sentimento ammette un’educazione; ci sono esperienze che lo rendono più fine. È quello che accade quando si sente per la prima volta una sinfonia musicale: inizialmente, tranne casi speciali, non si è educati per comprenderne la bellezza; ma se si ha pazienza, l’udito e lo spirito possono aprirsi ad un mondo nuovo dei suoni e melodie. Ciò ci permette di andare oltre i propri gusti e le proprie preferenze: possono piacermi i gialli ma riconosco che l’Odissea è più bella. Si noti che c’è un’oggettività nell’estetica come nell’etica, ad esempio, se si guarda un tramonto e non si prova nulla: il problema non è certamente nel tramonto. Riconoscere i propri limiti estetici è proprio di una persona umile e di una grande ampiezza di spirito. È vero che ci sono alcuni che originariamente possono essere in maggio182

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re o minore grado mancanti di questa percezione del bello o del vero o del bene. In linea di massima è difficile sperimentare il bello, la verità, ecc., se uno non accede a queste esperienze: per educare bisogna perciò aprire la persona ai trascendentali. La cultura dovrebbe favorire l’accesso alla verità, al bello, al bene non solo intellettualmente ma anche emotivamente. Una cultura che non riconosce distinzione tra vero e falso, buono e cattivo, bello e brutto rende difficile l’educazione personale. Nei sentimenti propriamente detti l’eccitazione psichica è minima, permettendo così che il contatto con la realtà sia stabile e sereno. Tuttavia i sentimenti possono mischiarsi con altri affetti, ad esempio, con l’entusiasmo o con la commozione fisica di fronte alla bellezza di un paesaggio o di un capolavoro artistico. Ed anche convivere con emozioni vere e proprie; la contemplazione di un capolavoro artistico può essere collegata all’irritazione, all’invidia, al desiderio di possederlo, ecc. La scoperta di una verità può essere sperimentata come passione e desiderio di condividerla. Oltre alla percezione affettiva dei trascendentali, nei sentimenti si coglie anche la risonanza affettiva del dovere, della certezza e, soprattutto, del rapporto con l’altro. In questo modo il dovere o la certezza non hanno un puro significato oggettivo, ma anche un valore o disvalore vissuto. Ciò spiega, ad esempio, i rimorsi o la soddisfazione per il dovere adempiuto oppure la sofferenza dello scrupoloso, incapace di abbandonare i suoi dubbi. Forse dove il valore della realtà si coglie in tutta la sua profondità è nella percezione affettiva dell’altro, la quale può portare con sé la pura gioia, cioè quella nata dalla sua esistenza, come in Adamo di fronte ad Eva, o anche l’invidia-odio, come in Caino nei confronti di Abele. La percezione affettiva dell’altro dipende anche dall’interpretazione dei suoi gesti, delle sue parole e azioni. Un’interpretazione benevola porta con sé pensieri positivi e sentimenti di misericordia, gioia, apprezzamento, e così via. Invece, l’interpretazione malevola è legata a pensieri negativi, suscettibilità, rancore, disprezzo, vendetta. Dunque, fra interpretazione, pensieri e sentimenti di valore si stabilisce un feed-back che rafforza il rapporto positivo o negativo con gli altri. In conclusione, i sentimenti non devono essere concepiti come emozioni originarie in cui c’è una dinamizzazione corporea né come tendenze del proprio io, poiché essi nascono dalla conoscenza della realtà 183

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in se stessa, che ha senso indipendentemente dalla sua utilità o piacevolezza, perché è bella, buona, vera, fonte di allegria e di dovere27. d) Stati d’animo Gli stati d’animo sono affetti, più o meno stabili, che radicati nelle profondità della soggettività si proiettano sul mondo colorandolo di diverse tonalità emotive. Dovuto al loro carattere vago e totalizzante – simile in parte ai sentimenti corporei –, gli stati d’animo possono trarre in inganno la persona facendole percepire o interpretare la realtà in modo distorto, il che può perciò portare a un comportamento inadeguato. Anche se possono essere collegati al temperamento, ossia al modo innato della personalità, gli stati d’animo sono molte volte riflesso dell’educazione e delle emozioni sperimentate. Proprio sulla base della loro origine naturale o esperienziale, gli stati d’animo si dividono in due tipi: persistenti e disposizionali. 1) Gli stati d’animo persistenti sono chiamati così perché costituiscono il fondo più stabile dell’affettività; essi non dipendono dall’esistenza di un oggetto tendenziale concreto, come nelle passioni e nelle emozioni, e neppure dalla risonanza affettività propria della percezione dei trascendentali, ma dal rapporto tra la persona e il mondo nella sua globalità28. Ad esempio, la paura è sempre di qualche cosa (reale o immaginata), mentre l’angoscia non ha un oggetto concreto. Gli stati d’animo persistenti si distinguono, dunque, dalle emozioni e dai sentimenti per l’oggetto che è il mondo circostante colto nella sua totalità. Pertanto si può affermare che l’angosciato non si angoscia di fronte a qualcosa, ma che tutto l’angoscia, o meglio ancora, si angoscia 27 Kant fa riferimento a questo tipo di affetto concernente la realtà in sé, quando afferma: «Quanto si riferisce alle inclinazioni e ai bisogni generali dell’uomo, ha un prezzo di mercato; ciò che, senza presupporre un bisogno, è conforme a un certo gusto, vale a dire alla soddisfazione che ci procura il semplice gioco senza scopo delle nostre facoltà mentali, ha un prezzo d’affezione» (cfr. I. KANT, Fondamenti della metafisica dei costumi, cit., p. 127). Si noti, tuttavia, che i sentimenti non fanno riferimento al puro uso delle nostre facoltà superiori, ma soprattutto all’incontro con la realtà e alla sua risonanza affettiva. 28 Questa è, ad esempio, la tesi sostenuta da Solomon, per il quale un’emozione e uno stato d’animo differiscono per il loro oggetto: «le emozioni si riferiscono ai particolari (oggetti) o ai particolari generalizzati; gli stati d’animo non si riferiscono a nulla in particolare o, talvolta, al mondo come un tutto» (R.C. SOLOMON, The passions, Anchor Press-Doubleday, Garden City (New York) 1976, p. 173).

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della propria angoscia. Secondo Heidegger, uno dei filosofi che più ha riflettuto sull’angoscia, essa sarebbe l’orizzonte ermeneutico di comprensione dell’esistenza, giacché l’essere dell’esistente si comprende nella sua totalità solo dalla prospettiva della morte. Nell’angoscia, l’esistente si aprirebbe al suo essere autentico, ossia al suo essere-per-lamorte, e lo accetterebbe come il poter essere più proprio. L’angoscia sarebbe, quindi, un vissuto originario, anzi il vissuto originario simpliciter, poiché è quello che permette di renderci conto del proprio poter essere radicale29. Anche se l’angoscia, come vedremo nello studiare la morte, non ha questo significato radicale attribuito da Heidegger, essa possiede un carattere speciale: non si riferisce al rapporto con un male determinato localizzabile o oggettivabile, ma a uno che riguarda la vita nella sua totalità, cioè alla vita vissuta nella sua negatività e, di conseguenza, alla mancanza di senso in tutto ciò che la persona è o fa. Nell’angoscia si ha così un’esperienza totale del vivere in quanto minacciato nella sua stessa razionalità: la vita per colui che si angoscia non è un bene, ma un male che causa orrore; Friedrich Wilhelm Schelling (1775-1854), ad esempio, considera che l’angoscia si basa sul fatto che «il vero fondamento di ogni vita ed esistenza è l’orrore»30. Il vivere che è abitualmente sperimentato in modo parziale, attraverso le passioni e le azioni, è vissuto – nell’angoscia – nella sua totalità, sebbene in forma negativa. L’estasi, invece, è la coscienza dell’apertura della propria individualità, dovuta all’unione amorosa o all’ebbrezza del rapimento vitale; quest’ultima è caratterizzata da un falso uscire dalla propria individualità, la cui coscienza scompare temporalmente31. Gli stati d’animo persistenti sono affini ai sentimenti corporei, perché indicano un benessere o un malessere del soggetto senza un riferimento concreto, come nella fatica, nell’energia, nella tensione, nel rilassamento, nell’armonia, ecc.; allo stesso tempo però se ne differenziano perché 29

«Lo spaesamento si rivela autenticamente nella situazione emotiva fondamentale dell’angoscia che, in quanto elementarissima apertura dell’Esserci essente-stato-gettato, pone l’essere-nel-mondo davanti al nulla del mondo; di fronte a questo nulla l’Esserci si angoscia dell’angoscia per il più proprio poter essere» (M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Bocca, Milano 1953, p. 335). 30 F.W.J. SCHELLING, Sämtliche Werke, VIII: Wesen deutscher Wissenschaft, Beck, München 1979, p. 339. 31 Vedi P. JANET, De l’angoisse à l’extase, I-II, Alcan, Paris 1980.

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negli stati d’animo persistenti si sente la totalità del soggetto senza che la corporeità emerga alla coscienza. Inoltre, anche se questi sentimenti corporei – chiamati a volte stati umorali – offrono una percezione dello stato presente del corpo come un tutto, non riguardano la soggettività se non come situazione interna temporanea dell’organismo. Perciò Antonio Damasio (1944), noto neurologo, li chiama sentimenti di fondo (background feelings), sui quali si costruisce l’identità biologica, lo strato più “basso” del sé personale32. Comunque, in questi sentimenti di fondo, come negli stati d’animo, c’è una percezione attuale, o online, del corpo, la cui rappresentazione o mappatura avviene sui siti corticali (corteccia cerebrale sensorio-motoria) e subcorticali, che ricevono i segnali provenienti dalle viscere, in questo caso senza mappatura. Le propriocezioni e le interocezioni, invece, danno la percezione delle potenzialità del corpo. Forse la distinzione più chiara fra i sentimenti corporei e gli stati d’animo emerge, invece, nella relazione di questi ultimi al mondo. Infatti, nello stato d’animo il mondo è valutato affettivamente in un determinato modo ed è appunto questa valutazione a costituire il suo oggetto. Perciò lo stato d’animo, ad esempio, della persona depressa non equivale all’autocoscienza della depressione né a un determinato modo di comportarsi, ma a un modo negativo (impotenza, angoscia, disperazione, ecc.) di stare nel mondo33. Come le emozioni, lo stato d’animo può essere suddiviso in più tipi in base all’originarietà e al grado di stabilità. Gli stati d’animo più originari sono quelli di benessere o di malessere, importanti dal punto di vista caratterologico perché implicano una determinata tonalità psicosomatica originaria difficile da modificare (ottimismo-pessimismo). Il pessimista vive male nel presente, perché in ogni cosa riesce solo a trovare lo squallore o il rimpianto, e si proietta male verso il futuro perché ha paura del nuovo: il domani fa presagire le peggiori insidie. Da qui, gli atteggiamenti fatalistici e di rassegnazione che paralizzano 32 «Il sentimento di fondo è la nostra immaginazione del paesaggio corporeo quando questo non è agitato da emozioni, e non è il concetto di “umore” (mood) che può renderlo con precisione, anche se ad esso è collegato» (A. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 2009, pp. 216-217). 33 L’impossibilità di ridurre lo stato d’animo a pura coscienza oggettiva o a comportamento mostra l’insufficenza delle tesi cartesiane e comportamentiste (cfr. A. MALO, Antropologia dell’Affettività, cit., specialmente il primo capitolo).

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il pessimista. La posizione dell’ottimista è speculare: guarda con gratitudine il presente e con fiducia il futuro. Il suo orizzonte vitale appare pieno di luce. Gli stati d’animo derivati sono meno globali; essi dipendono dalla forza vitale, dal sentimento dell’Io o dal rapporto con la realtà. Quelli legati alla vita danno la coscienza della propria vitalità con sfumature diverse (potenza, impotenza, ecc.). Nonostante la varietà con cui si presentano, questi stati d’animo possono essere fenomenologicamente divisi in due tipi: quelli che ci fanno avere una coscienza della nostra vitalità chiara e ricca, e quelli, invece, che ce la presentano oscura e povera. Gli stati d’animo legati al sentimento dell’Io, come individualità staccata dal mondo dei propri simili e dal mondo degli oggetti, hanno le stesse tematiche delle tendenze: il sentimento del proprio potere o impotenza oppure la valutazione soggettiva dinanzi alle esigenze e alle difficoltà della lotta per esistere; il sentimento del proprio valore o disvalore, la disposizione permanente dell’Io nell’essere oggetto della stima altrui o disistima oppure della autostima o disprezzo; il sentimento che precede e costituisce il riferimento al mondo come insieme dotato o privo di senso, che va dalla rassegnazione fino al nichilismo passando dall’indifferenza e dalla noia. Anche se la caratteristica fondamentale dello stato d’animo è la stabilità, la permanenza o l’impossibilità di cambiamento dipende in gran parte dal proprio stato d’animo. Tra lo stato d’animo labile dell’uomo, che per motivi banali passa dalla giocondità all’amarezza (di solito in stretto rapporto con il sentimento della stima o del proprio valore), e lo stato d’animo relativamente fisso o stabile della persona poco incline allo scontento c’è lo stato d’animo che cambia ciclicamente in base ai mutamenti del livello vitale. 2) Gli stati d’animo disposizionali sono, in parte, prodotti dalle emozioni e dal comportamento. Le emozioni influiscono non solo sull’affettività dando luogo a cambiamenti dovuti all’eccitazione improvvisa (cambiamenti che spesso si manifestano esternamente, perché naturalmente collegati a determinate azioni: la fuga, l’aggressione, ecc.), ma anche creando o rafforzando le disposizioni per determinate emozioni. Queste ultime sono chiamate appunto stati d’animo disposizionali34. 34

Cfr. W. LYONS, Emotion, Cambridge University Press, Cambridge-LondonNew York-New Rochelle-Melbourne-Sidney 1980, pp. 53-69.

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L’emozione è legata ai cambiamenti fisiologici, che avvengono quando si percepisce la realtà in un dato modo. Negli stati d’animo disposizionali, invece, non vi sono manifestazioni fisiche ma solo l’esperienza che il soggetto ha una disposizione ad agire e a valutare la realtà in una maniera determinata; ciò spiega la differenza esistente fra la rabbia, che è un’emozione attuale, e l’arrabbiarsi o inclinazione a sperimentare la rabbia. Perciò, anche se il soggetto può nominare lo stato d’animo disposizionale – arrabbiarsi –, non è in grado di definire le azioni o le reazioni cui esso potrebbe condurre. Consideriamo ad esempio la rabbia. Considerata disposizionalmente, quest’emozione nasce da una rabbia attuale che non è stata dominata ma solo attenuata dal tempo, dalle distrazioni, ecc. Perciò basta il ricordo o l’associazione delle idee perché la rabbia si sperimenti come attuale. È una manifestazione dell’immanenza dell’emozione a livello tendenziale-affettivo: la persona che si arrabbia con facilità di fronte a qualsiasi ostacolo ha una tendenza che la rende diversa dalla persona che si arrabbia solo dinanzi alle situazioni avverse, e ancora di più da quella che si arrabbia in pochissimi casi. La distinzione tra stato disposizionale ed emozione conduce a una distinzione tra quelle come la rabbia che indicano allo stesso tempo un’emozione considerata disposizionalmente e un’emozione attuale, quelle come l’amore che indicano solo una disposizione e altre come la collera che si riferiscono ad un’emozione attuale. Gli stati d’animo disposizionali non esauriscono tutte le possibilità degli stati d’animo, perché non tutti dipendono dalle emozioni avute. In conclusione, oltre a spiegare l’affettività umana, l’unità somaticapsichica-spirituale del soggetto permette di comparare l’affettività con il mare. Come nel mare, nel soggetto dell’affettività ci sono diversi gradi di profondità, cambiamenti fisici e correnti psichiche che mescolano le acque superficiali con quelle abissali. Non è facile stabilire dei limiti rigidi fra i fenomeni affettivi, e quindi si opera una commistione fra loro o un passaggio da un tipo a un altro, poiché l’affettività non è qualcosa di statico, ma di fluido, penetrata inoltre da un grande dinamismo. Così le emozioni basilari – l’ira o la paura – che di norma sono superficiali se si ripetono possono raggiungere gli strati più profondi trasformandosi in stati d’animo disposizionali, come la celebre ira d’Achille. Questi stati d’animo, a loro volta, possono produrre delle inclinazioni a sperimentare emozioni dello stesso tipo. Una volta attualizzate, le emozioni 188

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influiscono sugli stati d’animo rafforzandoli. Qualcosa di simile accade con le emozioni tipicamente umane come l’invidia o la gelosia che possono far nascere gli stati disposizionali che caratterizzano l’invidioso o il geloso. Il rapporto circolare tra stato d’animo ed emozione umana spiega perché lo stato d’animo, diversamente dalle sensazioni corporee, può spesso avere – come nel sentimento di dovere – un riferimento morale35. La responsabilità degli stati d’animo dipende dalla loro causa. Alcuni, come la depressione, hanno indubbiamente una causa neurofisiologica (turbamento dell’equilibrio fisiologico nel campo ormonale e in quello nervoso e chimico), tuttavia la persona depressa può avere una certa responsabilità, quando l’origine di questo stato si trova, ad esempio, nell’esistenza di alcune verità che non si vogliono accettare o di comportamenti sbagliati che non si vogliono modificare o quando la persona si è lasciata invadere da pensieri e da emozioni negativi36. L’affettività appare così come un ambito dell’interiorità della persona, che influisce sul suo rapporto con il mondo e gli altri, in particolare attraverso le valutazioni, le disposizioni e le azioni alle quali fa tendere. La persona che si lascia condurre dall’affettività senza cercare di educarla – cioè sentire ciò che conviene nel momento opportuno, nel modo giusto, riguardo alla realtà adeguata – è una persona volubile, che viene sballottata dagli affetti come una nave senza timone in mezzo al mare, proprio perché il cambiamento è la caratteristica fondamentale dell’affettività.

3. Affettività e libertà Sebbene non sia originariamente razionale, l’affettività umana partecipa parzialmente della libertà. In primo luogo, perché è sempre l’affettività di una persona; in secondo luogo, perché in gran parte è legata alle sue tendenze e alla sua percezione; infine, perché può essere interpretata internamente dalla ragione e accettata o rifiutata volontariamen35

Cfr. G.E.M. ANSCOMBE, Will and Emotion, in The collected papers. I: From Parmenides to Wittgenstein, Blackwell, Oxford 1981, p. 104. Il carattere morale delle emozioni contraddice la tesi cartesiana che l’emozione non fornisca alcuna conoscenza del mondo né rifletta un atteggiamento di fronte ad esso, ma sia solo una coscienza concomitante a un certo stato fisiologico. 36 Cfr. J. LEDOUX, Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 450.

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te. Per capire il senso di tali affermazioni, bisogna tenere presente che la possibilità del controllo dell’affettività dipende dall’unità personale. Ragione e affettività, infatti, non hanno un’origine opposta o diversa, come se nascessero da due soggetti differenti, perché sono potenzialità di un solo soggetto: è la stessa persona a sentire le sue inclinazioni, a poter riflettere su di esse, a valutarle e ad agire. Si tratta dunque di scoprire il modo in cui la ragione può influire su quelle potenzialità che originariamente non sono razionali. Ritengo che la ragione, la cui funzione pratica più importante è il giudizio, possa influire sugli affetti perché questi suppongono già un giudizio naturale37. Senza questo giudizio naturale, la ragione non potrebbe né interpretare l’affettività né valutarla secondo la totalità della persona e, quindi, non potrebbe correggerla quando le è contraria. Vi è, dunque, una continuità, o quanto meno ci può essere, fra il giudizio naturale proprio dell’affettività e le diverse funzioni della ragione: l’interpretazione, la valutazione e la rettifica. Ciò potrebbe avere anche una base neurale. Infatti, nei primati e, soprattutto, nell’uomo ci sono molte interconnessioni fra l’amigdala – legata alle emozioni più originarie, come la paura e l’ira – e la neocorteccia. Quest’ultima ha fra le sue funzioni il modulare l’espressione delle emozioni. Negli uomini una tale regolazione non è spontanea ma dipende dai ricordi, dai giudizi razionali e dalle volizioni38. 37

Tale tesi è stata esposta nel nostro saggio Antropologia dell’Affettività, cit., nel primo paragrafo del quinto capitolo. 38 L’amigdala «riceve segnali da un’ampia gamma di elaborazioni cognitive. Attraverso i segnali in arrivo dalle aree sensoriali del talamo, le sue funzioni emotive possono essere innescate da stimoli di basso livello, mentre i segnali provenienti dai sistemi di elaborazione della corteccia sensoriale (in particolare dalle ultime tappe dell’elaborazione entro detti sistemi) consente a certi aspetti più complessi dell’elaborazione dello stimolo (oggetti ed eventi) di attivare l’amigdala. I segnali provenienti dall’ippocampo hanno una parte importante nello stabilire il contesto emotivo. Inoltre, l’ippocampo e le aree affini della corteccia (comprese quelle rinali o transizionali) sono coinvolte nella formazione e nel richiamo dei ricordi espliciti e i segnali provenienti da tali aree all’amigdala possono far sì che le emozioni siano innescate da questi ricordi. La corteccia mediale prefrontale è coinvolta nel processo chiamato “estinzione”, con il quale la capacità degli stimoli della paura condizionata di suscitare delle risposte viene indebolita dall’esposizione ripetuta allo stimolo condizionato, in assenza dello stimolo incondizionato. I segnali inviati dalla corteccia mediale prefrontale all’amigdala sembrano contribuire a questo processo. Sapendo quali aree corticali proiettano informazioni verso l’amigdala e

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

a) L’interpretazione. Una prima funzione della ragione nei confronti dell’affettività è quella di interpretarla, cioè cogliere il significato dei vissuti affettivi. Per fare ciò, non è sufficiente la coscienza originaria dell’emozione (ad esempio, sentire paura), ma è necessaria anche la riflessione, ossia la conoscenza razionale di ciò che appare nel vissuto e, dunque, il linguaggio. Infatti, contrariamente alla tesi cartesiana, sentire paura non equivale a rendersi conto che si ha paura (come se la “paura” fosse un oggetto di coscienza con un contenuto perfettamente identificabile), perché la paura non è altro che sentire una determinata realtà come pericolosa39. Per ciò, rendersi conto che si sente il cane come pericoloso, non è paura ma piuttosto conoscenza o interpretazione razionale di ciò che sentiamo, il che è linguisticamente espresso come appunto ‘paura’. Quest’emozione tuttavia, a differenza dei concetti, non può prescindere dalla relazione fra soggetto e oggetto; senza questo rapporto, non esiste, perché essa è sempre di qualcuno nei confronti di qualcosa. Dunque, la paura ha sempre un riferimento a un soggetto particolare: non esiste un concetto di quest’emozione, ma una molteplicità di paure tante quanti sono i soggetti che la sentono40. Nel dire “ho paura” è presente la soggettività con l’affezione del pericolo che è contemporaneamente somatica e psichica. L’interpretazione permette di essere consapevole delle proprie emozioni e di non scambiarle con altre, ad esempio, con la sorpresa o con il pericolo reale. Forse nell’interpretazione si trova la spiegazione per cui si può sentire un determinato affetto e ciò nonostante non essere in grado di riconoscerlo. Questo fenomeno accade nella cosiddetta cecità affettiva41 conoscendo le funzioni alle quali partecipano, possiamo prevedere come queste funzioni contribuiscano alle reazioni di paura. In altre parole, l’anatomia può illuminare la psicologia» (J. LEDOUX, Il cervello emotivo, cit., p. 177). Per una spiegazione grafica di questo testo si veda la figura 7. 39 Arnold distingue fra due valutazioni: la prima (a livello limbico) è una valutazione immediata (non ragionata) di pericolo e di beneficio; la seconda (a livello neocorticale), che è ragionata, è un sentimento secondario: mi sento pauroso (vedi M. ARNOLD, Emotion and personality, cit., p. 177). 40 Secondo Wittgenstein, l’uso del linguaggio per parlare dell’affettività conduce all’errore di credere che le parole si riferiscano a realtà osservabili, mostrabili e identificabili (cfr. L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen-Philosophical Investigations, 3a ed., The Macmillan Company, New York 1970, n. 412). 41 Cfr. N. HARTMANN, Etica, Guida, Napoli 1969-1970. Uno studio di questo fenomeno in Hartmann si trova in R. ZABOROWSKI, Nicolai Hartmann’s Approach to

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Capitolo settimo

per alcuni sentimenti, come la compassione, oppure nell’impossibilità a distinguere i sentimenti corporei, come piacere e dolore, da quelli spirituali come gioia e tristezza, oppure nell’interpretazione di ogni piccola contrarietà come sfaldamento del proprio mondo. All’inizio l’interpretazione dell’affettività è fatta dalla razionalità altrui. Il riconoscimento e l’interpretazione delle emozioni dipendono – come si è visto – dall’empatia, che sembra avere una base cerebrale nelle reti di neuroni specchio situati nella corteccia premotoria42. D’altra parte, sembra che la maturazione della corteccia prefrontale sia accompagnata dall’attaccamento affettivo, per cui sia nei primati neonati sia in quelli umani s’instaura un rapporto stabile attraverso il contatto corporale con la madre o con chi fa le sue veci43. Tutto ciò spiegherebbe perché i genitori siano in grado d’interpretare le emozioni dei loro neonati e come, mediante l’attaccamento affettivo, i bambini piccoli riescano a poco a poco a riconoscerle e interpretarle sia negli altri sia in se stessi. Per accorgersi del significato di ciò che si sente non sempre, tuttavia, è necessaria l’interpretazione. Nelle sensazioni corporee, di dolore, di piacere, e così via, il significato positivo o negativo si coglie senza bisogno di riflettere, perché il dolore c’informa in modo spontaneo di qualcosa che è contrario alla vita. La riflessione della ragione è però necessaria per scoprirne la causa, per cercare di evitarlo, e soprattutto per valutare il dolore e il piacere dal punto di vista personale44. Ad esempio di fronte al dolore sperimentato dal bambino appena nato, le persone che lo curano cercano di scoprirne la causa per eliminarlo. Quando invece siamo più avanti nell’età, sarà il giudizio della nostra ragione a farci prendere un calmante per fare scomparire il dolore, o Affectivity and Its Relevance for the Current Debate Over Feelings, in R. Poli, C. Sconamiglio, F. Tremblay (eds.), The Philosophy of Nicolai Hartmann, De Gruyter, Berlino 2011, pp. 161-164. 42 Cfr. V. GALLESE, The Roots of Empathy: The Shared Manifold Hypothesis and the Neural basis of Intersubjectivity, «Psychopathology», 36 (2003), pp. 171180. 43 Cfr. M.C. WELSH, B.F. PENNINGTON, D.B. GROISSER, A NormativeDevelopmental Study of Executive Function: A Window of Prefrontal Function in Children, «Developmental Neuropsychology», 7-2 (1991), pp. 131-149. 44 Una buona spiegazione della necessità di valutare il piacere si trova in A. LAMBERTINO, Valore e piacere: itinerari teoretici, Vita e Pensiero, Milano 2001, specialmente nel decimo capitolo.

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

per lo meno diminuirne l’intensità, o quando ciò non è più possibile accettarlo o anche, per un cristiano, amarlo mediante la ragione illuminata dalla fede, scoprendo in esso una partecipazione all’amore redentore di Cristo. Tuttavia nel significato del dolore, come qualcosa di contrario alla vita, non c’è possibilità di errore. Se si sente dolore, non solo non si può non sentirlo, ma esso informa su qualcosa di negativo. La ragione, dunque, può solo valutare il dolore nell’insieme della persona, ma non può modificarne il significato vitale. A causa della loro oscurità, i sentimenti corporei hanno invece bisogno di essere interpretati dalla ragione per evitare di scambiare, ad esempio, la fatica fisica con la tristezza. Quest’interpretazione è particolarmente importante nei sentimenti legati alla tendenza nutritiva, come la fame. Inizialmente la fame, la sete, ecc., hanno bisogno della razionalità altrui per diventare, nel bambino che inizia a sperimentarle, sensazioni con un determinato significato. L’interpretazione non si limita alle prime esperienze, poiché deve essere a poco a poco interiorizzata fino a coincidere in qualche modo con il proprio sentimento. Una volta raggiunta l’unione di sentimenti corporei e interpretazione, non si ha più bisogno d’interpretare: la persona che sente la fame sa nello stesso tempo di avere bisogno di mangiare. Il che non impedisce che in alcune occasioni sia possibile separarli, come quando uno interpreta la fame come un dolore allo stomaco e viceversa. L’interpretazione degli affetti ha una maggiore complessità nelle emozioni legate alle tendenze dell’Io e della transitività, come l’invidia e la vendetta, e ancora di più negli stati d’animo disposizionali, come la rabbia e la gelosia. A differenza dei sentimenti corporei e anche delle emozioni basilari, come la paura e l’ira, la difficoltà dell’interpretazione non dipende dalla vicinanza dell’affetto a ciò che è somatico, ma dal rapporto che esso ha con l’Io. Per interpretare tali affetti in modo adeguato, oltre a usare la ragione, bisogna essere disposti ad ammettere che l’Io ha determinate inclinazioni che in alcuni casi, come nell’invidia, sono cattive nonostante la loro spontaneità. Perciò non è strano che, quando non si vuole rettificare, a volte l’emozione venga non riconosciuta o interpretata in modo sbagliato, come accade con l’invidia che si traveste da giustizia45. La difficoltà è ancora maggiore quando si tratta 45

Cfr. M. KLEIN, L’invidia, Martinelli, Milano 1969, p. 18.

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Capitolo settimo

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di uno stato disposizionale, poiché all’oscurità deve aggiungersi il fatto che esso è qualcosa di potenziale, non attuale. Lo stato disposizionale di gelosia, ad esempio, si riferisce ad un amore che il soggetto si sente in pericolo di perdere a causa di un rivale. In conclusione, la ragione deve valutare i sentimenti corporei (il dolore, il piacere, in cui non c’è possibilità d’errore) esclusivamente in riferimento alla persona; mentre deve cercare di scoprire l’origine delle emozioni legate alle tendenze dell’Io e della transitività e agli stati disposizionali, perché vi è maggiore possibilità di errore. b) La valutazione. La valutazione riguarda qualsiasi affetto perché implica sempre un giudizio naturale della realtà che deve essere preso in considerazione. Certamente, non come un giudizio adeguato alla persona, giacché il suo riferimento immediato è solo la soggettività tendente o che si trova in una determinata situazione. Infatti, se noi sappiamo che una cosa non è reale, quando per esempio vediamo un film o leggiamo un romanzo, i sentimenti non sempre ci informano della nostra soggettività. Pensiamo al caso della tristezza mista al piacere drammatico che si prova leggendo il destino tragico di don Chisciotte, essa sarebbe morbosa se si avesse nei confronti di una situazione reale. Quando, invece, la situazione è reale i nostri sentimenti ci informano se il nostro rapporto con la realtà è adeguato: se ascolto o vedo la notizia di un terremoto che ha causato migliaia di morti e non provo nulla significa che ho perso completamente la sensibilità morale. È in questo frangente che l’antropologia entra in rapporto con l’etica. Se nell’interpretazione la ragione è applicata al significato che ha la sensazione o l’affetto, cioè al suo significato tendenziale, nella valutazione si considera invece l’aspetto personale di quel giudizio naturale. Oltre ad individuare qual è la tendenza dinamizzata, la persona che valuta stabilisce una separazione tra l’Io sottomesso all’affezione e la realtà; in un certo senso, l’Io è oggettivato e, quindi, slegato dal rapporto affettivo con una determinata realtà. La separazione tra affetto e soggetto è alla base del giudizio che la ragione fa o può fare alla luce della conoscenza di sé e del fine scelto. Perciò, nella valutazione del giudizio naturale, il bene o il male soggettivi sono riferiti al bene o al male della persona (si tiene conto del 194

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futuro, degli impegni presi e della responsabilità e, in genere, della vita in tutti i suoi aspetti personali46). 1. Valutazione dei sentimenti corporei. Le sensazioni della nostra corporeità – piacere e dolore – non possono essere né rifiutate, come se non ci appartenessero (come hanno fatto gli stoici e i loro seguaci), né considerate l’unico scopo del nostro rapporto con la realtà (come hanno fatto, ad esempio, gli edonisti di tutti i tempi). Le informazioni che offrono sono importanti perché esse manifestano una data situazione corporea e, nel caso del piacere e del dolore legati al possesso o alla separazione dall’oggetto al quale si tende, anche la soddisfazione o meno di bisogni importanti per la vita dell’individuo e della specie. La valutazione razionale di tali sensazioni ne mette, però, in evidenza la parzialità, perché non rispecchiano la situazione completa della persona. Il ruolo della ragione è quindi di cercare il senso personale delle sensazioni corporee, non solo quello, per così dire, legato alla sopravvivenza o al godimento o alla sua mancanza. Il dolore, ad esempio, anche se fortissimo e persistente, non s’identifica con la persona, poiché è possibile prenderne le distanze oppure assumerlo come qualcosa che ha senso nella vita della persona fino ad accettarlo e amarlo. L’amore per il dolore non significa eliminarne la sensazione, ma aver scoperto un significato che rende degno il dolore, ossia un dolore vissuto in modo personale. Amare il dolore non equivale pertanto al masochismo, perché, nonostante nel masochista sembri che il dolore abbia un senso diverso, il significato che egli gli dà non va oltre la sfera dell’affettività: si chiude nel circolo dolore-piacere. Un dolore chiuso in se stesso, senza riferimento a un’alterità o aperto solo al piacere, non può essere integrato nella persona. Anche se queste sensazioni corporee appaiono assolute, non lo sono perché lasciano fuori di sé altri aspetti reali dell’essere umano, come l’amore. Il dolore, come il piacere, può essere accettato solo se è assunto come aspetto parziale – ma reale – della persona47. 2. Valutazione delle emozioni. La relazione tra valutazione razionale e affettività è ancora più necessaria per le emozioni, perché il giudizio 46 Cfr. H. THOMAE, Dinamica della decisione umana, LAS, Roma 1964, pp. 12-13. 47 Una spiegazione approfondita del valore esistenziale del dolore si trova in V.E. FRANKL, Homo Patiens. Interpretazione umanistica della sofferenza, Prefazione di Eugenio Fizzotti, Salcom, Brezzo di Bedero 1979.

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Capitolo settimo

naturale che si osserva nell’emozione si avvicina di più a quello della ragione che corrisponde al rapporto tra la persona che tende e la realtà. Sotto l’emozione, la soggettività appare sempre in una determinata situazione di pericolo, avversità, desiderio, ecc. L’impossibilità di separare la soggettività dalle emozioni, fa sì che esse implichino sempre una certa costrizione a considerare reale ciò che si sente. La valutazione razionale esaminerà se è corretto agire secondo questo convincimento. L’emozione propone, dunque, dei motivi per giudicare la realtà in un determinato modo e per agire in base ad essi. Perciò, se manca la riflessione della ragione, non si può valutare il giudizio naturale. Ciò può accadere perché la passione occupa completamente la coscienza sì da impedire qualsiasi tipo di riflessione; in questo caso l’emozione, spesso per l’intensità o perché la persona non è abituata a riflettere o non vuole farlo, invade completamente la coscienza, originando la cosiddetta emozionalizzazione della coscienza48. L’emozionalizzazione fa sì che la persona aderisca completamente alla valutazione tendenziale e, quindi, all’azione che sgorga necessariamente dall’emozione e non da una libera scelta. L’emozionalizzazione si genera nelle cosiddette passioni violente, mentre è più difficile che si produca nei sentimenti estetici, di dovere, ecc., perché hanno un minore rapporto con la dinamizzazione corporale e, di conseguenza, con un’azione determinata. In condizioni normali l’emozione non impedisce la riflessione, mentre può influire molto sulla volontà, e perciò sulla valutazione, attraverso – ad esempio – la grande forza di persuasione del piacere o dei motivi presentati dall’emozione. Infatti, più grande è il piacere che si prova più l’attenzione è coinvolta, disturbando così il giudizio della ragione fino ad impedirlo completamente49. Le motivazioni sorte dalle emozioni, anche se possono essere considerate ragioni, ossia spiegazioni delle nostre valutazioni e delle nostre azioni, da sole non corrispondono a un giudizio razionale, perché esso tiene conto non solo del dinamismo e dell’operatività della persona ma anche del suo essere personale. Il collegamento dell’emozione con la persona attraverso la valutazione della ragione suppone innanzitutto 48 «Una sorta di fenomeno limite è, qui, l’emozionalizzazione della coscienza, dove l’eccesso di emozione sembra distruggere la coscienza e la capacità ad essa connessa di una normale esperienza vissuta» (K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 896). 49 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 33, a. 3.

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

che l’emozione sia interiorizzata. Senza di ciò, l’emozione sarebbe un puro momentaneo accadere privo di significato; simile al succedersi continuo di immagini sconnesse ed esistenzialmente indifferenti come quelle degli spot pubblicitari. La persona non sarebbe, allora, in grado di porsi domande del tipo: “che cosa mi accade?”, “perché mi accade questo?”, “che senso ha?”, che sono la manifestazione dell’interiorizzazione dell’emozione, vale a dire del rapporto intimo dell’accadere con la persona. Non tutte le esperienze hanno per noi la stessa importanza: alcune sono banali e inconsistenti, quindi non lasciano alcuna traccia, altre, invece, sono così decisive da costringerci a rivedere la nostra scala di valori, di credenze, di aspirazioni e di desideri. Mentre le prime hanno un’interiorizzazione spontanea quasi nulla, le seconde si imprimono con forza, sollecitando la persona a prendere decisioni e, spesso, anche a mutamenti di portata esistenziale. 3. Valutazione dei sentimenti. Dal punto di vista dei sentimenti, ossia dell’affettività più spirituale, la valutazione razionale è ancora più importante sia perché consente di oggettivare sentimenti che talvolta sono confusi in modo da rispondere alle domande sulla loro origine e sul loro significato sia perché permette la loro educazione, in particolare del sentimento d’innamoramento, di dovere, rimorso, perdono, pentimento, ecc. Ad esempio, l’attrazione di una persona sposata nei confronti di un’altra persona che non sia il suo coniuge può dar luogo a diversi sentimenti, come l’innamoramento o il rimorso, che devono essere valutati eticamente, cioè a partire dalla fedeltà alla moglie o al marito e dalle relazioni di paternità o maternità. Non si dovrebbe, quindi, cercare di cancellare il rimorso perché contrario alla salute psichica, prima bisognerebbe prenderlo in considerazione perché manifesta un disagio dovuto alla disintegrazione della persona, a un atteggiamento sbagliato (in senso ampio: pensiero, desiderio, stato d’animo disposizionale, ecc.) o a un comportamento non autentico. D’altra parte, l’Io non dovrebbe essere lasciato in preda a sentimenti come il senso di colpa, la tristezza per il male fatto o il rimorso, ma bisognerebbe riconoscere ciò che di negativo vi può essere nei suoi atteggiamenti per rettificarli. In questo modo si possono evitare i disturbi psichici causati da un rimorso ossessivo. È necessario, dunque, non confondere il rimorso con il dolore che nasce dalla scoperta del danno recato a un altro o a se stessi. Il dolore, infatti, ha un significato positivo quando porta alla rettifica, 197

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Capitolo settimo

al cambiamento degli atteggiamenti che sono stati la causa dell’azione cattiva; il rimorso ossessivo, invece, paralizza qualsiasi azione positiva perché tende a presentare continuamente alla coscienza ciò che è stato fatto, escludendo ogni apertura verso il futuro e uccidendo, dunque, nel nascere la speranza. Perché la valutazione sia retta, la persona deve valutare la realtà senza essere sotto l’influsso dell’affetto. Se la situazione in cui si trova l’uomo è oggettivamente tale da doverla giudicare come dolorosa, la tristezza sarà il sentimento adeguato. Si comprende, allora, perché dinanzi alla morte di una persona cara il non sentirsi triste non è un pregio, ma un difetto di amore e di sensibilità. L’affetto non sa trovare il giusto mezzo tra la tristezza e la disperazione, deve essere la persona a regolare l’affettività attraverso gli abiti. La distinzione tra il significato dell’affetto in sé e il significato per la persona è essenziale per una buona educazione all’affettività perché in ogni affetto c’è sempre un giudizio naturale della realtà, che corrisponde a un modo spontaneo di riferirci ad essa. È necessario scoprire la tendenza che porta a giudicare la realtà come positiva o negativa, raggiungibile o irraggiungibile, adeguata o inadeguata, per poi capire se questo giudizio spontaneo può essere accettato. La valutazione rende possibile separarci dall’emozione, il che è il primo passo perché le emozioni si adeguino alla situazione in cui ci troviamo50. c) La rettifica. Se il giudizio proprio delle emozioni permette di cogliere i valori esistenziali (utile, nocivo, possibile, impossibile, ecc.) e quello dei sentimenti i trascendentali (la verità, la bellezza, il bene morale, ecc.), la valutazione razionale permette la loro integrazione mediante la correzione e l’educazione. Infatti, la valutazione razionale degli affetti e delle azioni, che per sé o in determinate circostanze sono contrari alla persona, dovrebbe essere accompagnata dalla rettifica dei diversi motivi che portano a valutare e agire secondo gli affetti. La rettifica delle valutazioni talvolta non si può fare da soli perché gli affetti impediscono una valutazione oggettiva. Ad esempio, il giudizio dello scrupoloso spesso non corrisponde alla verità, perché questi può sperimentare sentimenti di dubbio, di senso di colpa, in quanto 50 Come sostiene Goleman, il controllo delle emozioni fa parte della cosiddetta intelligenza emotiva (cfr. D. GOLEMAN, Intelligenza emotiva, BUR, Milano 1999, p. 14).

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

crede di esser venuto meno ad un dovere morale, ecc. Il suo giudizio ha bisogno, allora, della razionalità altrui, dato che la sua ragione non è in grado di valutare adeguatamente tali sentimenti. Lo stesso accade negli stati d’animo che dipendono dal temperamento o da disturbi psico-fisici (depressione, angoscia, ecc.), i quali possono impedire un rapporto reale con il mondo ed essere causa di valutazioni che, anche se non hanno una ragione oggettiva, il soggetto considera reali. Perciò questi stati d’animo sono gli affetti più difficili da rettificare. Da qui la sofferenza di queste persone poiché devono accettare delle valutazioni contrarie a ciò che gli pare vero. Altre volte, nonostante si sia capaci di vedere con chiarezza che cosa va fatto, non si è in grado di regolare i propri impulsi, attaccamenti, e le proprie emozioni. Ciò avrebbe – secondo alcuni neuroscienziati – una base neurologica: «Il nostro cervello non si è evoluto a un punto tale che i nuovi sistemi, i quali rendono possibile un pensiero complesso, riescano facilmente a controllare i sistemi antichi che danno origine ai nostri bisogni e moventi di base, nonché alle reazioni emotive. Ciò non vuol dire che siamo completamente in balia del nostro cervello e che non ci resti che cedere ai nostri impulsi. Significa invece che la causalità discendente è a volte un’impresa ardua»51. Infatti, per avere un’influenza sulle proprie emozioni, sono necessarie le virtù che sono alla base di una nuova formalizzazione del cervello. La rettifica è molto importante per le valutazioni e le azioni compiute sotto l’influsso delle emozioni. La ragione valuta normalmente il giudizio naturale (il fenomeno dell’emozionalizzazione della coscienza è un’eccezione); non sempre, però, essa agisce indisturbata, perché il desiderio, il piacere o qualsiasi altro affetto può presentarsi come un motivo sufficiente per agire e, di conseguenza, impedire alla ragione di realizzare un giudizio oggettivo. Attraverso la riflessione sul giudizio razionale fatto sotto l’influsso dell’affetto, la ragione può rendersi conto del suo errore. L’interpretazione, la valutazione e la rettifica degli affetti non dipendono pertanto da un giudizio tendenziale, ma da uno razionale che, oltre ad esaminare se i giudizi elaborati si adeguano alla persona, è anche in grado di valutare se la possibilità di azione contenuta negli affetti sperimentati, almeno come motivo, corrisponde agli atti umani della persona, ossia 51

Cfr. J. LEDOUX, Il Sé sinaptico, cit., p. 449.

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Capitolo settimo

a quelli in cui vi è consapevolezza e libertà. Il giudizio razionale sugli affetti come possibilità dell’atto umano non è quindi un giudizio solipsistico, bensì uno che matura nel rapporto con le norme, consuetudini, leggi e soprattutto con l’educazione52. L’esercizio del giudizio razionale non deve essere considerato – con terminologia mutuata dalla psicoanalisi – come costrizione da un superego individuale o collettivo che posteriormente è interiorizzato. Questo tipo di costrizione – certamente possibile – causa, come ha rilevato la psicologia del profondo, molte nevrosi: l’affettività può essere mascherata da azioni opposte, repressa, sublimata, e così via. Poiché implica il dominio tirannico di una razionalità estranea e contraria alla propria, la costrizione è un fenomeno patologico. Lungi dall’essere alienante, la razionalità altrui è necessaria perché si sviluppi la propria capacità di giudizio. Quando essa svolge bene questa funzione, i traumi e le nevrosi si producono molto meno frequentemente perché è la stessa persona a sperimentare l’affetto, oggettivarlo e riferirlo a se stessa per agire liberamente. In conclusione, l’interpretazione, la valutazione e la rettifica fatte dalla ragione non distruggono l’affettività né le sono contrarie. Piuttosto servono a inquadrarla in un contesto più ampio, quello cioè della persona. Attraverso la valutazione razionale dell’affetto, la persona non è percepita solo in una determinata circostanza ma è considerata nella sua verità. L’apertura dell’affettività alla verità personale è una manifestazione della sua partecipazione parziale nella libertà e, di conseguenza, della sua possibile educazione, il che non accade con le emozioni degli animali.

4. La coscienza affettiva Sebbene si collochi spesso dopo la conoscenza, in realtà come si è visto parlando delle tendenze e, in particolare, del desiderio, la coscienza affettiva precede geneticamente quella conoscitiva. La coscienza affettiva nei mammiferi corrisponde allo sviluppo e trasformazione del cervello rettile nel cosiddetto sistema limbico. Recentemente, mediante la neuroimmagine, si è visto che le aree più interessate nelle emozioni 52

B. RUSSELL, La conquista della felicità, Longanesi, Milano 1987, p. 73.

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L’affettività come integrazione spontanea di soggettività e realtà

sono quelle corrispondenti al telencefalo. A differenza delle cognizioni che non sono legate a dinamismi fisiologici né a espressioni spontanee del viso, le emozioni generano gesti ed espressioni facciali che sono transculturali53. Comunque, una volta è stato interpretato e valutato cognitivamente, l’affetto si trova integrato con la coscienza della realtà, per cui solo originariamente o in situazioni patologiche è possibile una separazione radicale fra affettività e realtà. Ciò nonostante, dal punto di vista della coscienza scopriamo delle differenze fra l’affettività e gli altri fenomeni finora visti. Infatti, il desiderio appare nella coscienza senza oggetto e, quindi, come inconscio esistenziale, le sensazioni sempre con un oggetto particolare e il pensiero con un oggetto universale, mentre l’affettività lo fa sempre come un’intenzione che nasce da un’inclinazione o tendenza del soggetto. Anche nel modo in cui il soggetto appare nella coscienza troviamo notevoli differenze. Infatti nelle sensazioni e nei concetti il soggetto appare solo concomitantemente, mentre nell’affezione si presenta direttamente, senza però aver bisogno di una riflessione. La mancanza di separazione fra l’oggetto percepito e la sua valutazione propone l’esistenza di una relazione intima fra realtà e soggettività previa alla conoscenza oggettiva o se si vuole un rapporto con la realtà che non è pratico né teorico ma affettivo, sul quale si basa il suo valore esistenziale: prima di essere strumento da manipolare od oggetto da conoscere, la realtà è amica o nemica, favorevole o dannosa. Per riferirsi a questo tipo di relazione con la realtà, alcuni parlano di una coscienza originaria riflessa54. Infatti, si tratta di una coscienza originaria come quella delle nostre sensazioni, ma a differenza di essa il soggetto non è soltanto connotato, bensì presente in modo tematico senza però che si dia una vera e propria riflessione. Ad esempio, nella paura il soggetto sente la situazione come pericolosa; nell’ira, come ingiusta. La riflessione sull’affettività non origina perciò nuovi affetti, bensì la possibilità di allentare quella valutazione spontanea della realtà: il soggetto sa di sentire paura, cioè si rende conto che quella situazione appare come pericolosa per lui. Attraverso gli affetti, la persona sperimenta 53 Partendo dalla distinzione fra cognizione e affettività, Jaak Panksepp propone l’elaborazione di una neuroscienza affettiva (cfr. J. PANKSEPP, Affective Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, Oxford University Press, Oxford 1998, pp. 3-9). 54 Cfr. A. MILLAN PUELLES, La estructura de la Subjetividad, cit., p. 272.

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Capitolo settimo

in modo unitario la sua composizione somatico-psichica-spirituale e anche la sua relazione immediata con il mondo e con gli altri. Di conseguenza, nonostante la molteplicità di dimensioni propria degli affetti, il soggetto degli affetti non è il corpo o la psiche, ma la persona55. Anche la coscienza onirica è in grande misura affettiva, ma qui la soggettività riguarda un mondo creato da essa stessa. Perciò è possibile distinguere fra il sonno in cui la coscienza si slega dal mondo reale e il sogno in cui il soggetto dormiente produce un mondo onirico che ha qualche elemento in comune con il mondo reale: lo stesso soggetto che dorme e sogna (sebbene l’Io che appare nel mondo onirico sia tanto irreale quanto il mondo sognato) è protagonista di una storia. Se la riflessione sulla coscienza affettiva permette al soggetto di trascendere l’ambito affettivo, nel sogno essa non basta a liberarci dall’allucinazione. Infatti, è possibile rendersi conto parzialmente che si tratta di un sogno56 e, ciò nonostante, non svegliarsi. Invece, quando la situazione affettiva si rende insopportabile o non è possibile andare oltre (ad esempio, nella morte sognata), la coscienza reagisce diventando vigile. La continuità fra il soggetto sveglio e quello dormiente permetterebbe alla persona di continuare a strutturare la sua identità mediante la coscienza onirica. Ciò è particolarmente evidente nei sogni che lasciano una traccia nella nostra interiorità.

55

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Quaestio De anima, q. un., a. 11, c. 5. Secondo Metzinger il sogno lucido (lucid dream) dipende dall’entrata in funzione della corteccia prefrontale, che rende possibile la coscienza riflessa ristabilendo così l’agenzia cognitiva. Com’è noto, quest’autore considera l’Io un mito (cfr. T. METZINGER, The Ego Tunnel: The Science of the Mind and the Myth of the Self, Basic Books, New York 2009, p. 145). 56

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Capitolo ottavo

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La volontà come dinamismo d’integrazione personale

1. La relazione intrinseca fra ragione e volontà Anche se è all’origine dell’atto umano, la valutazione del giudizio naturale da parte della ragione non è in grado di causarlo. Certamente la valutazione razionale serve a separare il soggetto dalla realtà cui tende, permettendogli di giudicare la realtà non dal punto di vista tendenziale ma da quello personale. Per agire però non basta conoscere ciò che la persona dovrebbe perseguire come bene, è anche necessaria un’inclinazione libera verso di esso. Poiché tale inclinazione non si trova nella ragione giacché essa non è tendenziale, c’è bisogno di una tendenza unitaria della persona che trasformi il giudizio razionale in atto umano. Questa tendenza è la volontà, diversa da tutte le altre, perché ha un rapporto intrinseco con la ragione (con la sua ampiezza e la sua trascendenza). Inoltre, diversamente dalle tendenze e dai vissuti affettivi, l’inclinazione della volontà al bene non è sperimentata come un accadere, ma come agire, anzi come la stessa sorgente di ogni azione umana. Secondo San Tommaso, l’aspetto tendenziale e contemporaneamente attivo della volontà dipende dal fatto che essa è un appetito razionale, che – come tutti gli altri appetiti (naturali e sensibili) – ha come scopo il perfezionamento della creatura. Come è noto, l’Aquinate cristianizza lo schema neoplatonico dell’exitus-reditus, sostituendo l’emanazione necessaria dall’Uno con l’amore libero: Dio crea non per necessità ma per amore e, sebbene non abbia bisogno di essere amato, vuole essere amato (redamatus) dalle sue creature; per questo motivo, il Creatore introduce in esse un’inclinazione o appetito, che permette loro di tor203

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Capitolo ottavo

nare da Lui1. Nelle creature inanimate e nei vegetali, basta l’appetito naturale per tendere verso Dio; in quelle dotate di conoscenza è anche necessario l’appetito elicito, cioè quello che dipende dalla conoscenza: sensibile, negli animali, e intelligibile, negli esseri spirituali, come l’uomo. In questo ultimo il reditus a Dio dipende dal suo amore libero, simile a quello divino. L’amore nell’uomo, dunque, ha sempre un’inclinazione necessaria verso Dio, anche quando lui non lo sa o addirittura quando volontariamente se ne allontana2. In che cosa consiste quest’inclinazione? Quando ci siamo soffermati sul desiderio umano, abbiamo visto che la sua caratteristica essenziale è la sua infinità. Adesso possiamo comprendere l’origine di questa caratteristica: il desiderio umano è infinito perché è aperto a Dio, cioè all’Infinito. Perciò il bambino piccolo, anche quando desidera delle realtà sensibili, ha sempre come sfondo l’Infinito. Certamente questi ancora non vuole in modo libero, ma a differenza degli animali in lui si trova già la base del volere: una potenza spirituale che tende all’infinito. Ne deriva che, anche quando si tratta di desideri nati da una conoscenza sensibile come nel caso del bambino, in essi sempre c’è come orizzonte l’Infinito; di qui la presenza nel bambino non solo del piacere/dolore ma anche di gioia/tristezza manifestati attraverso il riso e il pianto3. Bisogna però evitare un possibile equivoco: l’infinità del desiderio umano non implica che alla persona basti questo desiderio per amare Dio come tale. In primo luogo, perché l’Infinito non è un oggetto, bensì un Essere personale, anzi – secondo la fede cristiana – una Trinità di Persone. Come nell’amicizia e nell’amore umano, non basta desiderare essere amico o amante per diventarlo, è necessario che l’altro o l’altra accetti di corrispondere, cioè ci ami. C’è tuttavia una differenza importante tra l’amicizia umana e quella divina: la prima richiede solo un amore umano di cui è capace la persona. Invece, la seconda supera completamente qualsiasi tipo di amore umano, perché è Amore infinito. Ecco quindi che l’uomo desidera qualcosa il cui compimento si trova 1

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 24, a. 1. È nota la preghiera di Sant’Agostino riguardante questa inclinazione dell’uomo nei confronti di Dio: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (SANT’AGOSTINO, Confesioni, I, 1). 3 L’espressione di gioia e tristezza è considerata da Plessner una caratteristica distintiva del comportamento umano (cfr. H. PLESSNER, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Bompiani, Milano 2007, pp. 51-56). 2

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al di là delle sue capacità attive, giacché solo può ottenerlo mediante lo stesso amore divino ovvero mediante la grazia4. In secondo luogo, la volontà non è una tendenza in più, perché racchiude in sé le inclinazioni concrete (della vitalità, dell’Io individuale e della transitività) al bene, cioè la persona attraverso la volontà è inclinata verso qualsiasi bene delle tendenze umane, in quanto tutti i beni concreti partecipano di quello ultimo della persona, Dio, ossia la felicità. Per essere felice non basta un insieme di inclinazioni parziali (nate spontaneamente dalla soggettività nel suo rapporto con la realtà), ma c’è bisogno di una tendenza unitaria strettamente spirituale che permetta di dirigersi personalmente verso Dio. Inoltre, la volontà non è una tendenza in più perché attraverso di essa la persona si sente inclinata anche a ciò che non è reale, ma solo possibile, come un motivo, un progetto, un’azione, ecc. Infatti, nonostante non sia un atto, l’attualizzazione tendenziale propria delle passioni implica una possibilità di agire – la paura contiene la fuga, e l’ira, l’aggressione – come reazione di fronte al male sensibile, cioè quello che si oppone spontaneamente al desiderio di felicità. L’inclinazione verso la felicità, però, non è ancora volere propriamente, giacché, nonostante si tratti di una tendenza di tutta la persona, non è atto poiché – per diventarlo – si richiede l’accettazione o il rifiuto di ciò cui si tende in modo spontaneo, il che non è più un’inclinazione, ma un’azione. Attraverso il suo volere libero, la persona si trova nell’azione in modo totale. Troviamo, quindi, un aspetto paradossale della volontà, che mette in risalto la struttura complessa del volere: l’esistenza di un’inclinazione spontanea del volere che non è ancora una volizione.

2. Struttura della volontà: volontà come natura e volontà come ragione Abbiamo visto come l’uomo, oltre ad avere inclinazioni verso determinate realtà, ha sempre una tendenza verso l’Infinito, il che implica il possesso di una potenzialità spirituale. Lo spirito, dunque, non solo è in grado di atti immanenti assolutamente trascendenti, come quello 4

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 24, a. 7.

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della conoscenza intelligibile; esso è anche capace di una potenzialità assolutamente trascendente, ma passiva. La passività potenziale dello spirito implica non solo che è finito e bisognoso, ma soprattutto che per essere totalmente attualizzato si richiede l’Infinito. Qui si trova la capacità infinita di crescita della persona umana, che non è un optional, ma un dovere: non crescere è decrescere5. L’Aquinate chiama questa potenzialità spirituale passiva voluntas ut natura. Secondo lui, come tutte le altre inclinazioni essa dipende dalla conoscenza. Certamente si tratta di un tipo particolare di conoscenza propria solo dell’uomo: l’intellezione, grazie alla quale la persona coglie i trascendentali, in particolare il bene. Un bene, che si converte con l’essere o se vogliamo con la realtà, per cui non è ridotto a un bene particolare e neppure alla totalità di quelli finiti; è il bene in tutta la sua infinità, giacché solo il possesso del bene assoluto può rendere felice l’uomo. Da questa apprensione del bene in quanto tale deriva un’inclinazione o voluntas ut natura, che come abbiamo visto altro non è che il desiderio umano d’Infinito. Di conseguenza nessun bene concreto, neppure il bene costituito dalla specie umana, può soddisfare quest’inclinazione. Perciò l’evoluzionismo radicale e il marxismo commettono per ragioni diverse l’errore di cancellare questa potenzialità passiva spirituale: l’evoluzionismo perché considera che nulla trascende il dinamismo evolutivo e, quindi, l’unico bene è la sopravvivenza dei più forti nella lotta per la vita; il marxismo perché considera il bene della specie umana come il fine ultimo dell’uomo. La sopravivenza e il benessere terreno della specie umana sono, però, beni finiti. All’uomo non basta questa voluntas ut natura per volere liberamente, poiché, oltre ad essere necessaria – non può essere modificata dal volere umano (non si può non volere essere felici6) – è solo un’inclinazione verso il bene. La volontà umana ha bisogno anche di essere attiva, ossia di volere dei beni concreti. Questo nuovo aspetto della volontà è chiamato dall’Aquinate voluntas ut ratio, perché l’atto della volontà dipende dalla percezione del bene concreto da parte della ragio5

«Cammina sicuro in Cristo, cammina; non inciampare, non cadere, non guardare indietro, non fermarti, non deviare da essa. Evita tutte queste cose e sei arrivato» (SANT’AGOSTINO, Sermones, CLXX, 11). 6 «Essendo oggetto della volontà il bene nella sua universalità, tutto ciò che è incluso nella ragione di bene può interessare l’atto della volontà» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 25, a. 2).

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ne. Infatti, secondo Tommaso, l’atto libero della volontà dipende pure da un tipo di conoscenza del bene, non universale bensì particolare, che la ragione coglie “qui” e “ora”. Ne deriva che, nonostante sia una sola facoltà, la volontà umana ha una struttura costituita da due elementi: l’inclinazione necessaria verso la felicità, che è potenzialità passiva, e l’atto libero della volontà con cui si vuole un determinato bene. In sostanza, la voluntas ut ratio è un’inclinazione che segue all’atto della ragione, il quale non si riferisce al fine ultimo o felicità, bensì al volere i mezzi che sono adeguati a esso, il che è necessario per poter volere ciò che si sceglie come bene qui e ora. Se si tratta, però, di un’inclinazione, come è che la voluntas ut ratio non è necessaria, ma libera? La risposta di San Tommaso, almeno nei testi più aristotelici, è la sua relazione di dipendenza dalla ragione, giacché essa permette alla volontà la libertà di realizzare atti. Infatti, mentre l’inclinazione alla felicità è naturalmente necessaria, la scelta dei mezzi non è, invece, determinata necessariamente: si può volere o non volere, si può volere questo o quello7. Questa struttura della volontà ha portato alcuni commentatori tomisti a separare ragione e volontà radicalmente in modo da rendere incomprensibile il rapporto fra queste facoltà se non in maniera puramente “subordinazionista”, cioè di dipendenza estrinseca di una facoltà riguardo all’altra8. Si hanno così due posizioni estreme: il razionalismo, che difende la dipendenza in tutto e per tutto della volontà riguardo alla ragione, e il volontarismo, che difende invece una dipendenza della ragione dalla volontà. È chiaro che tanto l’una quanto l’altra posizione devono affrontare dei problemi irresolubili. Il razionalismo si trova in difficoltà nello spiegare la libertà delle nostre volizioni e azioni, giacché esse dipenderebbero necessariamente da ciò che presenta la ragione come buono, per cui, come fare a fuggire dall’intellettualismo per il quale l’azione cattiva è causata dall’errore della ragione o dalla mancanza di conoscenza? Certamente, può fare appello alla capacità 7 «…dinanzi a qualsiasi oggetto di scelta, la volontà rimane libera giacché è naturalmente determinata solo a desiderare la felicità, ma non questo o quell’oggetto particolare» (TOMMASO D’AQUINO, II Sent., d. 25, q. 1, a. 2). 8 Per uno studio monografico della volontà in alcuni autori tomisti si veda A. ROBIGLIO, L’impossibile volere: Tommaso d’Aquino, i tomisti e la volontà, Vita e Pensiero, Milano 2002. Si noti, comunque, che l’autore mette assieme i veri tomisti con altri che non lo sono, ma s’ispirano solo al pensiero dell’Aquinate.

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che la volontà ha di muovere la ragione a presentare altre possibilità. In tal modo, tuttavia, non risolve il problema ma semplicemente lo sposta. Infatti, come può la volontà che dipende dalla ragione muoverla a presentare qualcosa di diverso? Ciò significa che la volontà ha già deciso. Da dove viene questa decisione? Si può dire dalla forza del piacere o delle passioni. Ma allora sembra che la volontà, quando è contraria a ciò che presenta la ragione, possa solo appellarsi a qualcosa di estraneo, al di fuori della stessa volontà. Per difendere la libertà della volontà sembrerebbe necessario pensare a un movimento autonomo della volontà, indipendente dai motivi esterni e dal giudizio della ragione. Ed è quello che sostiene il volontarismo. Anche questa tesi, però, presenta dei problemi: ad esempio, se la volontà non ha a che vedere con la ragione, allora si finisce per sostenere che la volizione del bene o del male non ha nessuna ragione, ossia è irrazionale. Per superare le secche del razionalismo e del volontarismo c’è bisogno, dunque, di una prospettiva personalista della volontà e, di conseguenza, dell’agire. Mi sembra che l’agire umano non possa essere capito a partire da una visione agenzialista, come quella delle facoltà subordinate esternamente, simile in parte a quella ipotizzata dal cognitivismo di Minsky. Infatti, secondo questo autore, l’Io non sarebbe altro che un coordinamento esterno di una pluralità di agenzie senza nessuna unità interna9. Se così fosse, l’unità dell’agire non avrebbe come fine l’integrazione perfettiva della persona, ma solo quella utilitaristica di mettere insieme una molteplicità di scopi differenti che sono molte volte contrapposti perché non si ostacolino mutuamente. L’agire, però, ha un soggetto, che non sono le potenze né l’unione esterne di esse, bensì un essere personale; un essere che, nonostante esista in modo indipendente dall’agire10, ne ha bisogno per raggiungere un’integrazione perfettiva. 9 «Cominceremo con l’immaginare un cervello piuttosto semplice, composto di proto specialisti separati, ciascuno preposto a qualche importante esigenza, meta o istinto, come mangiare, bere, trovar riparo, star comodi o difendersi» (M. MINSKY, La società della mente, Adelphi, Milano 1989, p. 316). 10 Per non aver distinto bene unità personale e integrazione, M. Scheler considera che la dipendenza fra la persona e l’atto intenzionale sia bilaterale: non c’è atto intenzionale senza persona né persona senza atto intenzionale. Da qui la descrizione della persona come il punto in cui si originano gli atti intenzionali, vale a dire, con parole di Scheler, «la persona è solo “nei” suoi atti e “per mezzo” di essi» (M. SCHELER, Zur Phänomenologie und Metaphysik der Freiheit, in Gesammelte Werke, III, Francke, Bern 1954, p. 49).

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Lo studio della volontà e dei suoi atti non può, quindi, finire nell’ambito della struttura analitica perché le due facoltà – ragione e volontà – si subordinano a vicenda: la volontà alla ragione (è quest’ultima a presentare l’oggetto da amare), e la ragione alla volontà (è quest’ultima a muovere la ragione a presentare questo o quell’altro oggetto). Esse agiscono sempre in modo inseparabile: la ragione senza la volontà non può unirsi alla realtà né possederla realmente perché la ragione è solo intenzionale, e neppure la volontà senza la ragione perché la volontà sarebbe cieca. Quindi, l’unione di ragione e volontà deve essere intrinseca e necessaria perché la persona possa unirsi alla realtà ovvero possa amare. Ecco perché l’amore costituisce il nucleo della volontà e, quindi, dell’agire umano.

3. Trascendenza e immanenza della persona nel volere Anche se la ragione e la volontà sono le facoltà più impegnate nell’azione, non sono le uniche. Anzi nell’azione è presente la totalità della persona, specialmente l’ambito tendenziale e affettivo, che fa sempre riferimento alla libertà umana. In quale modo esso riguarda la libertà? Certamente non in se stesso, poiché l’ambito tendenziale e affettivo – almeno inizialmente – è qualcosa che accade nella persona; piuttosto, in quanto può essere integrato nell’azione. Ciò è possibile perché le tendenze e gli affetti appaiono come possibilità o motivi d’agire giacché si riferiscono alla felicità personale. Nello stesso momento in cui si sentono i motivi d’agire si è consapevoli che il seguirli dipende dalla propria persona, poiché questa non è costretta ad assecondarli. È l’esperienza fenomenologica della libertà, ossia del posso ma non sono costretto11. Sembra che la condizione materiale della libertà a livello cerebrale sia l’apparizione della neocorteccia. I primati possiedono già questa nuova struttura cerebrale. La neocorteccia dei primati presenta molte connessioni con il loro sistema limbico, legato alle emozioni. Perciò essi possono fino ad un certo punto regolare le proprie emozioni, il che non è possibile ad esempio nei mammiferi inferiori. La mancanza di questo centro regolatore porta in determinate occasioni a crisi incon11

Cfr. K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 965.

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trollabili di rabbia o di paura, come quella del ratto che entra in una situazione di massimo stress appena sente il campanello associato a una scarica elettrica. Nel cerebro umano non solo aumenta la neocorteccia ma anche il numero di interconnessioni con le diverse aree cerebrali, in particolare con il sistema limbico (concretamente con l’amigdala), il che permette una maggiore modulazione della condotta emotiva e, soprattutto, la stessa possibilità d’incominciare un’azione totalmente nuova sia perché ci si oppone al comportamento emotivo che si è già iniziato a livello cerebrale sia perché s’inizia un nuovo tipo di comportamento attraverso una causalità discendente. L’origine del volere libero non è però la mancanza di costrizione; essa è solo una sua condizione di possibilità. La libertà si manifesta non solo nell’assenza di causalità efficiente fisica (i processi fisico-fisiologici che precedono la volizione) e di causalità psichica (le tendenze e le emozioni che fungono da motivi scatenanti). Per voler liberamente si richiede anche una condizione positiva formale: l’apertura trascendentale dell’intelletto al bene. A differenza dei processi fisico-fisiologici e dei motivi psichici, l’apertura trascendentale dell’intelletto al bene, oltre a non essere un ostacolo alla libertà, permette la separazione dai motivi, nonostante essi siano sperimentati soggettivamente nel loro valore esistenziale. Corrisponde alla persona, attraverso il binomio ragione-volontà, il potere di acconsentire ai moti passionali e ai motivi d’agire. Il binomio ragione-volontà ha la funzione di governare l’ambito tendenziale-affettivo perché sia una forza ed energia al servizio del raggiungimento della felicità, in cui si trova la piena realizzazione dell’uomo. Si tratta, però, di un governo “politico”12, proprio di quello che si ha nei confronti di elementi che godono di una certa indipendenza e capacità di cooperazione, e non “despotico”, ossia di quello che si ha invece nei confronti di elementi sottomessi esternamente, ad esempio, tramite la violenza. Quando si dà il governo “politico”, la persona acquisisce una seconda natura o virtù etica. In questa condizione formale della libertà rientra la struttura tomistica della voluntas ut natura e voluntas ut ratio. Infatti, mediante la volontà la persona è padrona dei propri atti, per cui, anche se la volontà

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Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 59, a. 4.

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dipende dall’intelletto in quanto al suo oggetto (la felicità13), essa rende dipendente la ragione dal punto di vista del suo esercizio. Attraverso la volontà, la persona, è in grado d’imperare o comandare gli atti delle altre facoltà, come la memoria, l’immaginazione e la stessa ragione ed anche di applicare questi atti alla realtà; ad esempio, il voler scrivere fa imperare diversi atti: ricordare, immaginare, pensare, ordinare le idee, esprimerle in modo appropriato, muovere le dita delle mani sulla tastiera del computer. Attraverso la volizione, la persona ha un certo potere creatore perché fa esistere ciò che senza di essa non ci sarebbe e impedisce l’esistenza di ciò che, altrimenti, potrebbe esistere. Tutto ciò ha però un implicito: la persona attraverso il binomio di ragione e volontà è in grado di porre un atto assolutamente originario, per il quale la stessa persona si autopone. Quest’atto non ha una causa temporale, perché è inseparabile dallo stesso autoporsi che trascende il tempo. Certamente, poiché è preceduto da processi fisici e psichici, esso non può essere mai considerato pura posizione a partire dal nulla, come invece sostiene Jean Paul Sartre, secondo cui la libertà umana non presupporrebbe un’essenza ma la creerebbe14. La libertà umana è originaria, ma non creatrice. D’altro canto, nel porre l’atto, la persona conserva la sua trascendenza in modo che questa lo può porre nuovamente o può smettere di porlo (è la trascendenza della persona nei confronti del suo volere). Comunque, questa trascendenza non significa un dominio totale. Infatti, una volta posto, l’atto è indipendente dalla persona perché è una realtà che ha un proprio dinamismo, il che indica che la libertà umana non solo non è creatrice ma non ha neppure un dominio totale sul proprio atto. Anche se la volontà non è padrona delle conseguenze dei suoi atti, ne è responsabile nella misura in cui la persona quando pone l’atto può prevederne al meno confusamente alcune. Infine, la persona non può autoporsi nell’atto di volere senza che ci sia un oggetto, giacché ogni autoposizione mediante il volere richiede sempre la volizione di qualcosa. 13 «Sotto quest’aspetto è l’intelletto a muovere la volontà, perché il bene intellettuale conosciuto è l’oggetto della volontà e la muove come fine» (ivi., I, q. 82, a. 4). 14 L’uomo sarebbe per-sé (di fronte al solo in-sé degli animali) perché è il suo essere è puro progetto: «Il per-sé sceglie perché è mancanza, la libertà non fa che un tutto unico con la mancanza, è il modo di essere concreto della mancanza di essere» (J.P. SARTRE, L’être et le néant, cit., p. 652).

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Ci sono dunque due dimensioni dell’autoposizione nell’atto della volontà: una verticale e un’altra orizzontale, che sono inseparabili. La volizione di se stesso in un modo determinato (giusto o ingiusto, coraggioso o codardo) comporta sempre la volizione di qualcosa, cioè di un oggetto, anche se esso è semplicemente l’accettazione o il rifiuto degli affetti che si sentono o dei motivi tendenziali per agire; ad esempio, accettare di essere invaso dall’emozione di paura è già inizio di codardia. Perciò si può affermare che nel volere qualcosa la persona vuole sempre se stessa in un modo determinato, giacché si autopossiede e autodetermina secondo ciò che ama; ad esempio, chi ruba si autodetermina come ladro, chi dice la verità come veritiero. L’autodeterminazione del volere è contemporaneamente autodeterminazione della persona che vuole e di ciò che è voluto; si tratta di un’autodeterminazione che non è mai totale. Infatti, né la persona che vuole esaurisce tutta la potenzialità della sua volontà nell’atto di volere (ne deriva la possibilità dell’avarizia, gola, ecc.) né l’oggetto voluto esaurisce il volere della persona (di qui la possibilità di pentimento). C’è dunque una doppia trascendenza: del bene come tale riguardo alla realtà voluta, che è sempre un bene particolare (qui troviamo la tendenzialità della voluntas ut natura) e della persona che vuole riguardo all’atto di volere (qui troviamo l’aspetto attivo della voluntas ut ratio fatto di autodeterminazione). Quest’autodeterminazione non implica l’assenza di motivi, anche quelli di origine passionale, bensì il loro non essere causa di un comportamento necessario; i motivi spiegano l’azione perché la persona li ha accettati: la fuga dalla battaglia perché si ha paura. D’altro canto, all’autodeterminazione può corrispondere un’autorealizzazione o integrazione. Ciò implica che la persona è contemporaneamente agente e paziente: come agente si autopossiede e autodetermina mediante il binomio ragione-volontà, come paziente si autorealizza mediante l’integrazione di tutti i dinamismi, potenzialità tendenziali, affettive e spirituali in una nuova formalizzazione della propria essenza. La volontà è, perciò, origine di atti liberi e di abiti. Infatti, il tendere della persona mediante la volontà si riflette non in forma di sentimento (non si tratta di un tendere che si rispecchia affettivamente come accade invece con le tendenze parziali), bensì di autodominio ovvero di un parziale dominio di sé secondo l’essenza: la riflessione della volontà è il voler volere, ossia la disposizione di sé attraverso l’uso della volontà; ad esempio, nonostante senta paura, il coraggioso rimane sul campo di battaglia perché vuole restarci. Ne deriva che l’atto della volontà 212

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dà luogo a una nuova formalizzazione della propria essenza: la virtù, chiamata perciò seconda natura. È vero che la conoscenza di sé è una condizione necessaria per volere e, di conseguenza, per agire, ma essa da sola non basta, perché non è la radice della volizione. La radice è la dimensione verticale della volontà, che permette alla persona di poter entrare in rapporto con se stessa disponendo di sé come causa sui. La libertà, dunque, consiste soprattutto nell’autodominio, ossia nella dipendenza da se stessi. L’autodominio non è però fine a se stesso poiché è un possesso di sé, e ogni possedersi ha come scopo donarsi all’altro, in primo luogo a Dio. Infatti, poiché la persona umana è un essere finito non può trovare in se stessa la soddisfazione del suo desiderio d’Infinito e, di conseguenza, la felicità. Solo nell’Infinito il desiderio umano trova la sua quiete, perché, lungi dall’essere soppresso, è perfezionato da un amore eterno e fedele. D’altro canto, anche se finiti, gli altri in quanto esseri spirituali sono immagine e somiglianza dell’Infinito. Ne deriva che amando gli altri si ama anche l’Infinito. Si comprende, allora, il motivo per cui la trascendenza propria della libertà personale non è un assurdo, bensì ha un senso molto preciso: l’amore. Nell’amore c’è sempre un ordine: le cose devono essere amate per le persone e le persone per se stesse. La persona è amabile per se stessa non solo perché è fine per se stessa, ma soprattutto perché può amare (redamare). L’amore, dunque, deve essere tale che l’altro possa riceverlo e accettarlo. L’accettazione dell’amore da parte dell’altro non dipende però dalla mia intenzione. Ne deriva che essa è un dono che l’altro fa di se stesso, come si osserva nell’amicizia e, soprattutto, nell’amore umano. Perciò, nell’amore il binomio ragione-volontà s’integra totalmente: l’amore consente una maggior e miglior conoscenza dell’amato, il che permette di amarlo in modo che egli possa amare. Certamente si tratta di una conoscenza per connaturalità caratteristica della persona che, perché ama, sa come amare.

4. La persona negli atti del binomio ragione-volontà: consenso, deliberazione e scelta La separazione fra ragione e volontà porta anche a una distribuzione degli atti propri di ogni facoltà. Secondo la maggioranza degli interpreti 213

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di San Tommaso, il consiglio o deliberazione fra una diversità di mezzi corrisponderebbe alla ragione pratica, mentre la scelta o elezione di uno di questi mezzi corrisponderebbe alla volontà; nell’ultima parte del processo, il comando, che consiste nell’ordinare il mezzo scelto al fine, sarebbe un atto della ragione; e l’uso che la volontà fa della ragione e delle altre potenze, come anche la fruizione dell’unione con ciò che vuole, sarebbero atti della volontà. Certamente, secondo alcuni interpreti tomisti come J. Gredt, J. Laporta, ecc.15, la volontà può imperare gli atti della ragione, ma lo fa dall’esterno e dopo che la ragione ha agito. Come abbiamo visto, questa concezione del rapporto fra ragione e volontà è troppo formale e non tiene conto del fatto che non sono le facoltà ad agire, ma la persona attraverso le sue facoltà. Forse la ragione di questa separazione rigida fra atti della ragione e della volontà dipende dal fatto che secondo questi stessi autori la voluntas ut ratio si riferisce solo ai mezzi e, quindi, la deliberazione e la scelta non possono riguardare il fine, perché sulla felicità il volere della persona non ha nessun potere: non può mai smettere di tendere verso di essa. Inoltre, in una cultura segnata dai diversi determinismi (neuronali, psichici e sociali) sembra che una tale scelta sia sempre causata da forze oscure ma attive. È vero che vogliamo tutte le cose perché tendiamo necessariamente alla felicità. Ciò nonostante, come sostiene Fabro16, è possibile porre la felicità in una realtà o in un’altra. Ad esempio, l’avaro pone la sua felicità nella ricchezza, il vanitoso nella fama, il tiranno nel potere, l’edonista nel piacere, il santo in Dio. Certamente, questo collocare la propria felicità in un determinato bene non è una volizione – simile a un’opzione preferenziale trascendente che non verrebbe toccata dalle scelte particolari – ma piuttosto una tendenza volontaria più o meno costante a scegliere uno di questi beni come fine esistenziale, il che nella misura in cui si ripete fa nascere un determinato carattere. Ciò spiega il valore che le nostre scelte hanno, anche quelle riguardanti piccole cose. Non solo è importante la scelta suprema di sacrificare la fama, la ricchezza, il potere per salvare altri ma anche le scelte di minor conto che 15

Sulla questione mi permetto di rinviare il lettore al mio saggio Antropologia dell’Affettività, cit., capitolo quinto. 16 Cfr. C. FABRO, Riflessioni sulla libertà, Maggioli Editori, Rimini 1983, specialmente pp. 35-55.

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facciamo nel lavoro, nella vita in famiglia, nel rapporto con i colleghi o amici, per amore verso di loro. In fondo, dietro ogni scelta possiamo scoprire il posto che l’Io e gli altri occupano nella nostra vita. Questo non vuol dire però che non ci siano scelte che non influiscano sul fine esistenziale, come bere aranciata o limonata. Esse, tuttavia, solo in un senso molto ampio possono chiamarsi scelte, giacché la persona non è coinvolta in quell’atto; si tratta piuttosto di gusti, abitudini che non influiscono sul nostro carattere in senso etico tranne quando ci impediscono di agire bene. Ciò è stato osservato anche a livello neurale. Studi recenti hanno scoperto che le nostre scelte sono legate all’attività neurale di due aree del cervello: la corteccia orbitofrontale e quella cingolata anteriore17. Sembra che la corteccia orbitofrontale sia la zona deputata a distinguere fra scelte importanti (scelta della professione, matrimonio) e scelte poco importanti (il cibo da mangiare), per cui i danni in quest’ultima area rendono difficile il fare delle scelte abituali. La corteccia cingolata anteriore sembrerebbe, invece, legata a ciò che ci aspettiamo prendendo una decisione: se il risultato non corrisponde alle nostre attese, lo cancelliamo da future scelte. I disturbi in quest’area impediscono di far subentrare il meccanismo di eliminazione delle scelte, con il risultato che la persona continua a scegliere ciò che la fa stare male. Questo getterebbe una qualche luce sulla difficoltà per liberarsi da soli da dipendenze, come l’alcolismo, la droga, le ludopatie, ecc. Alcuni neuroscienziati sono convinti che sia il cervello a partire da questi processi a fare le scelte. I loro studi, però, possono dimostrare solo che esiste un collegamento fra queste aree del cervello e le nostre scelte, non che ci sia una causa. Forse il modo di spiegare la relazione fra volontà, ragione e processi neurali nell’ambito della scelta è accorgersi che, nonostante volontà e ragione siano operazioni immateriali, possono causare dei processi neurali poiché hanno la capacità d’influire sul corpo, non solo mettendolo in movimento (alzando il braccio), ma anche attivando quelle aree cerebrali di cui il binomio ragione-volontà si serve nelle scelte. Si tratterebbe di un tipo di causalità top-down (dall’alto in basso), a differenza ad esempio della causalità della paura sulla scelta di fuggire che sarebbe bottom-up (dal basso in alto). Comunque, tranne il 17 Cfr. S.W. KENNERLEY, T.E. BEHRENS, J.D. WALLIS, Double Dissociation of Value Computations in Orbitofrontal Cortex and Anterior Cingulate Cortex, «Nature Neuroscience», 14 (2011), pp. 1581-1589.

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Capitolo ottavo

caso delle dipendenze, la causalità bottom-up non s’impone alla volontà. L’atto di scelta è posto dalla persona: ci possono essere certamente dei motivi per scegliere di fuggire (la paura, l’insicurezza, l’esperienza del passato) ma nessuno causa la fuga. C’è una novità totale nell’atto di scegliere se restare o ritirarsi ed è, per questo, che in esso si diventa coraggioso o codardo. La distinzione fra decisioni banali e importanti permette di considerare come le singole scelte quotidiane, che solo superficialmente possono essere giudicate ininfluenti, s’inquadrano all’interno di quelle fondamentali. La persona ha la capacità di attribuire a qualsiasi oggetto delle sue tendenze (della vitalità, dell’Io, della transitività) il carattere di fine esistenziale, intorno a cui costruire il suo progetto di vita18. Poiché il fine esistenziale è trascendente, dura di più delle scelte. Ma se le scelte fatte sono contrarie o non si cerca di ordinare la vita d’accordo con il fine esistenziale, questo viene a poco a poco modificato. Vi sono momenti critici nella vita della persona in cui il fine esistenziale è messo in discussione e la persona deve fare una scelta specifica per confermarlo, approfondendo il perché, o rifiutarlo, come accade nel pentimento e soprattutto nella conversione. Quindi, la deliberazione, la scelta e tutti gli altri atti del binomio ragione-volontà sono preceduti da questa inclinazione libera verso un determinato fine esistenziale. Ne deriva che il primo atto è il consenso (simul sentire), che implica l’unione del soggetto con quanto si vuole, ossia con un fine. A volte non si è consapevoli di aver dato il consenso poiché ciò richiede una grande sincerità con se stessi. Nel porre quest’atto, uno s’identifica con quel fine esistenziale. Prima non esisteva quell’identificazione attuale, ma solo un’inclinazione più o meno forte. È questa la novità che introduce la libertà umana in ogni atto del binomio ragione-volontà: la posizione di se stesso nell’atto di acconsentire al fine esistenziale. In essa c’è una sintesi di tendenzialità o direzione verso la realtà voluta e determinazione di sé o autodeterminazione. Mediante il consenso la persona diventa soggetto consapevole e libero, capace di dirigere la sua ragione e il suo volere verso un determinato fine. Si dà così un feed-back fra posizione e trasformazione di sé: più si 18

La ricerca del fine esistenziale corrisponde in linea di massima a ciò che Frankl chiama volontà di significato, la quale «si radica molto più profondamente nell’uomo: l’uomo si sforza di dare alla sua vita la più grande pienezza possibile di significati» (V.E. FRANKL, Alla ricerca di un significato della vita, cit., p. 102).

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La volontà come dinamismo d’integrazione personale

vuole una realtà, s’intensifica il consenso e l’atto contiene il soggetto, più questi si trasforma, cioè diventa virtuoso o vizioso. Quando invece del consenso si dà il rifiuto del fine esistenziale fino allora amato, si produce una ristrutturazione più o meno grande della tendenza e della corrispondente identificazione della persona con quel fine, fino a dar luogo a una conversione. Certamente, nell’andare contro il fine esistenziale si sperimenta sofferenza, come quella dell’avaro che per fare bella figura fa l’elemosina. Nel caso della conversione, la destrutturazione degli antichi fini esistenziali è totale, questo non vuol dire che, almeno inizialmente, non si senta l’inclinazione verso quanto si è lasciato; la persona però con il suo consenso al nuovo fine esistenziale partecipa ogni volta di meno a quest’attrazione fino a raggiungere l’integrazione. Il consenso o il rifiuto del fine esistenziale richiede di essere messo in pratica mediante la ricerca delle vie più adeguate per ottenerlo e, cioè, mediante la deliberazione dei mezzi. Perché questa non si protragga all’infinito è necessario prendere una decisione, ovvero scegliere. Se la decisione viene rimandata, l’atto della volontà non si realizza. A volte ciò è dovuto al carattere della persona poco portata a scegliere perché ha paura di sbagliare, il che è proprio di persone insicure. Altre volte ciò è dovuto al desiderio di lasciar aperte tutte le possibilità, giacché ogni scelta richiede sempre che alcune non si realizzino; la mancanza di deliberazione in questo caso è caratteristica delle persone che non vogliono sacrificare nulla. Nella scelta la persona è conscia di essere libera per cui se ne può parlare come della coscienza della libertà o libertà psichica. Su di essa si costruisce la coscienza morale: poiché sono consapevole della mia libertà, mi sento responsabile delle scelte fatte. Per i deterministi, come gli psicologi comportamentisti o i neuroscienziati riduzionisti, la libertà psichica è un’illusione. È vero – affermano loro – che non conosciamo la causa per cui scegliamo una cosa o un’altra e neanche perché ci rifiutiamo di scegliere; non conoscere la causa non equivale, però, a non averla, bensì alla sua ignoranza19. Forse la ragione del carattere par19 «È […] facile credere che la volontà sia libera e che la persona sia libera di scegliere. Il risultato è invece il determinismo […]. “Libertà” significa di solito l’assenza di restrizione o coercizione, ma in modo più ampio significa una mancanza di qualsiasi determinazione anteriore: “Tutte le cose che pervengono ad essere, tranne gli atti di volontà, hanno cause”. […] È in gioco la vistosità delle cause quan-

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Capitolo ottavo

ziale della libertà psichica dipende dal fatto che essa non si rispecchia totalmente nella coscienza (siamo consapevoli della libertà nell’atto, ma non nella sua origine), per cui si può sempre dubitare della sua esistenza. In altre parole, la libertà umana non è autotrasparente. Infatti, c’è sempre un fondo di oscurità nelle scelte, soprattutto in quelle che trasformano l’esistenza. Nella scelta influisce non solo la volontà di volere o meno, ma anche le funzioni della ragione che permettono la comprensione necessaria perché la scelta fatta sia quella che la persona vuol fare e non un’altra. Da qui il carattere razionale della scelta, che perciò conta sempre su dei motivi. Se si domanda al soggetto perché ha scelto di fare quello, lui può rispondere con un motivo, il che non vuole dire che esse siano sempre razionali; si possono avere motivi per adirarsi e non ragioni. La riflessione sul valore di ciò che è stato scelto, sulla compatibilità o meno con il proprio fine esistenziale, sulle conseguenze nella vita personale e altrui fa parte di ciò che abbiamo visto come comprensione necessaria. In tal modo la scelta può avere la funzione di chiarire una situazione incerta, in cui non è possibile la semplice applicazione di norme e di soluzioni preesistenti, facendoci scoprire che alcune norme che vorremmo che guidassero il nostro comportamento non sono state del tutto assimilate, ma sono accettate sotto costrizione esterna. Comunque, il momento assolutamente primo della libertà non è la scelta ma il consenso. Si comprende perché si deve cercare in questo atto iniziale della volontà la condizione di possibilità del male.

5. La fallibilità della volontà: il male Di fronte alla visione gnostica che considera il male originato da un principio eterno e di fronte alla visione socratica del male come errore razionale, bisogna affermare che questo non ha una necessità naturale né è un errore di giudizio, bensì un atto causato da una volontà fallibile. In quanto finita, la persona umana può amare il bene e farlo, ma il suo do il comportamento riflesso si chiama involontario - un individuo non è libero di starnutire o non starnutire; la causa iniziante è il pepe. Il comportamento operante si chiama volontario, ma non è realmente senza causa; solo è più difficile individuare la causa» (B.F. Skinner, La scienza del comportamento, SugarCo, Milano 1976, pp. 54-56).

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volere non è il bene e, quindi, può amare anche ciò che non è bene. Da qui la definizione di male offerta da Agostino: «il male non è che la privazione del bene»20. Seguendo Agostino21, l’Aquinate approfondisce il senso di questa mancanza: si tratta della «privazione di un bene che dovrebbe per natura essere posseduto»22, ossia un bene dovuto. Nonostante il valore di questa definizione per la comprensione etica del male, la sua dimensione esistenziale non è qui sufficientemente messa in rilievo. Infatti, nella precedente definizione, la sofferenza e la devastazione della realtà, inclusa la morte, sono colte solo implicitamente. Inoltre, nella disintegrazione della persona causata dal male, non c’è solo duplicità di intenzioni e perversione del cuore, ma anche distruzione dei rapporti interpersonali. Infatti, la gelosia, l’invidia e l’odio, che sono le principali conseguenze esistenziali del male nelle relazioni umane, seminano sfiducia, rancore e vendetta fra le persone. Dunque, nonostante sia una mancanza, il male ha una capacità distruttiva potentissima23, poiché, oltre a minare la bontà della persona, avvelena i suoi stessi rapporti. Da dove nasce questo potere del male? Secondo Buddha (563 ca486 ca. a.C.), ad esempio, esso deve rintracciarsi nel desiderio umano, causa di ogni sofferenza. Perciò, per cancellare il male, il buddismo propone di estirpare dalla coscienza ogni tipo di aspirazione raggiungendo così il Nirvana24. Come in tutte le dottrine, nel buddismo c’è un aspetto di verità: il male è possibile perché l’uomo desidera. Da ciò non si deriva però che il desiderio è un male e ancora di meno la sua radice. Oltre al desiderio, il male richiede la tentazione. Vediamolo nel dettaglio. Il desiderio umano ha come oggetto proprio l’Infinito, per cui inizialmente manca di una forma precisa. Ne deriva la necessità che esso ha di ricevere una formalizzazione volontaria. Per farlo la persona deve scegliere libera20 Sant’Agostino afferma ciò nella sua polemica con i manichei (SANT’AGOSTINO, De libero arbitrio, III, 11, 32). 21 Cfr. SANT’AGOSTINO, Confessiones, III, 7, 1. 22 TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, 49, 1 23 Michael Ende esprime attraverso l’immagine del buco nero che inghiottisce il paese fantastico (il regno di Fantasia) il potere distruttore del male (M. ENDE, La storia infinita, Longanesi, Milano 1981). 24 Cfr. C.S. LEWIS, De Futilitate, in Christian Reflections, W.B. Eerdmans Publishing Co., Michigan-Cambridge 1995, p. 71.

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Capitolo ottavo

mente l’Infinito. Nel processo di formalizzazione, il desiderio può tuttavia ripiegarsi su ciò che – anche se buono – non è Dio, ossia su qualsiasi bene creato e, in ultima analisi, sul proprio Io. Si tratta di un falso infinito o, con parole di Hegel, di una cattiva infinità, in quanto senza essere infinita viene fatta diventare tale25 mediante un movimento senza riposo, la cui cifra è la ripetizione. La tentazione consiste nella possibilità stessa di chiudere il desiderio nel finito. Così si spiega che Adamo ed Eva, che erano buoni per natura, in quanto suscettibili di essere tentati, avessero la capacità di formalizzare il loro desiderio in modo sbagliato. Infatti, in essi – come in ciascuno di noi – c’era il desiderio d’infinito, ma senza alcuna forma, perciò loro dovevano volontariamente formalizzarlo amando Dio. Invece essi hanno identificato il proprio desiderio con quello del tentatore, che prometteva loro di diventare infiniti. La tentazione fa sì che Adamo ed Eva si rendano conto dell’apertura infinita del loro desiderio, ma scambiano quest’ampiezza con lo stesso Infinito. La scoperta prodotta dalla tentazione può essere interpretata, perciò, come passo dall’innocenza umana alla situazione di conoscenza di sé, in cui si scopre un divario: l’apertura del desiderio non è commensurabile alla finitezza del proprio Io. Quando questo distacco non si accetta, il desiderio si curva su se stesso. Da qui il carattere paradossale del male: si basa sul desiderio d’Infinito, ma fa sempre riferimento al finito; in altre parole: promette l’Infinito e concede solo il finito. Il male, dunque, è essenzialmente inganno. Poiché è indeterminato (alcuni postmoderni, come Foucault, parlano del suo carattere polimorfico26), il desiderio umano ha bisogno di acquisire forme concrete. Secondo Girard, questa esigenza si soddisfa attraverso la mimesi: impariamo a desiderare attraverso l’imitazione dei desideri dei nostri modelli. Il desiderio mimetico ha un ruolo importante, ad esempio, nelle tragedie di William Shakespeare (1564-1616)27, particolarmente Macbeth. Infatti, questo personaggio desidera di diventare re quando accetta come vera la profezia delle streghe, le quali 25 È la critica fatta da Hegel nel 1801 al sistema di Fichte (cfr. G.F. HEGEL, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1981, pp. 16-19). 26 Cfr. M. FOUCAULT, Nietzsche, Freud, Marx, «Aut-Aut», n. 262-263 (1994), p. 105. 27 Un’eccellente analisi si trova in N. FUSINI, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, Milano 2010.

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La volontà come dinamismo d’integrazione personale

danno così forma a un anelito presente in lui, fino allora sconosciuto. Ma forse quello che né Girard né i postmoderni hanno approfondito è il fatto seguente: l’identificazione con il modello si basa sull’apertura del desiderio all’Infinito. Pertanto, esso non è semplicemente bisogno né pura mimesi, ma un’irrequietezza esistenziale che non si soddisfa con nulla, perché in nessuna realtà trova il suo fine. Senza l’orientamento verso l’Infinito, il desiderio diventa necessariamente smisurato, passando dall’appetito vorace alla nausea, dall’incitamento all’avversione o alla paura. Anche se la ragione può moderarlo attraverso le virtù, per integrarlo c’è bisogno dell’amore. Quando il desiderio non è integrato, la vita e i suoi atti perdono il suo telos o fine trasformandosi in puro conatus spinoziano, o spinta a continuar a esistere mediante la ricerca di una apparente crescita a scapito di altri. La vita umana si animalizza perché si concepisce in termini di una lotta per la sopravvivenza del più forte, ossia di chi è dotato di un conatus più intenso. La persona vota allora la sua intelligenza e volontà al servizio di questo desiderio intenso e smisurato. Non si ha qui a che vedere con una mancanza di forma, ma con una volontà demoniaca, che troviamo ad esempio in alcuni personaggi shakespeariani, come Iago che agisce assecondando l’invidia; Regan e Goneril, l’inclinazione al potere e al sesso; Lady Macbeth, l’ambizione. In queste figure più che dell’inganno si tratta di vera e propria perversione del loro desiderio. Nella sua forma estrema, come nel nichilismo, il desiderio annulla la stessa distinzione fra bene e male. Esso non può però cancellare la differenza fra dolorepiacere e sofferenza-gioia, perché questi sono i segnali affettivi basilari legati a una bontà originaria; sì, invece, il piacere del bene, la coscienza del male e il rimorso. Capitolare di fronte al male o cercar di distruggerlo con la violenza sono due opzioni che portano alla trasformazione dell’eroe in villano, come Macbeth, o all’aumento del male, come Otello. Solo l’amore può eliminarlo radicalmente. Da qui la necessità di coltivare due delle sue principali manifestazioni: la misericordia, che si basa sulla propria fragilità e sul perdono di cui tutti abbiamo bisogno, come in Isabella, la protagonista shakesperiana di Misura per misura; e la compassione, perché il male che si patisce ingiustamente per l’amato diventa la causa stessa della sua redenzione, come Desdemona in Otello o Cordelia nel Re Lear. 221

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Capitolo ottavo

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6. Coscienza e volontà L’autocoscienza, o coscienza di se stesso, appare chiaramente nell’azione completa della volontà, ossia la voluntas ut ratio. Certamente qui la coscienza non è quella di un soggetto che desidera la felicità, poiché ciò costituisce l’orizzonte di ogni volizione – non l’oggetto intenzionale diretto del volere –, bensì dell’Io come origine dell’agire ovvero di una realtà assolutamente nuova che dipende da me stesso e di cui sono perciò responsabile. Infatti, non solo nella scelta, nella decisione e, soprattutto, nell’uso volontario delle nostre funzioni cognitive (guardare, ascoltare, ricordare) abbiamo coscienza di essere origine, ma già – anche se in modo oscuro – nell’atto di consentire. Ciò spiega la distinzione fenomenologica ed esistenziale fra essere tentato, in cui la volontà subisce l’attrazione di quel bene finito che si presenta come infinito, e l’acconsentire alla tentazione, in cui il soggetto accetta il finito come infinito. Qui la volontà non è più passiva. A mio parere è quello che, attraverso il cogito, Cartesio ha scoperto. Infatti, il cogito non ha – secondo questo pensatore – niente a che vedere con la razionalità pratica né con quella teoretica. Esso riguarda la coscienza o, ancora meglio, l’autocoscienza. Secondo il filosofo della Turenna, essere persona equivale a essere conscio di sé, ossia essere un cogito. L’azione propriamente umana è, dunque, il puro pensiero o autocoscienza? Se così fosse, la critica fatta da Kant, e poi ripresa in parte da Husserl, sarebbe valida: Cartesio avrebbe confuso il pensiero con la riflessione. Infatti, la coscienza che coglie se stessa come essere pensante è una riflessione, poiché come ha indicato il pensiero aristotelico-tomista la conoscenza è intenzionale: il conoscere è sempre di “qualcosa” e mai un puro conoscere di “conoscere”28. La critica a Cartesio di aver scambiato la coscienza per la riflessione non sembra invece cogliere nel segno, perché il pensatore della Turenna 28 Com’è noto, il punto di collegamento fra scolastica e fenomenologia è l’opera di Franz Brentano (1838-1917) Psychologie vom empirischen Standpunkt: «Ogni fenomeno psichico è pertanto caratterizzato da ciò che gli Scolastici del Medioevo chiamano la inesistenza intenzionale (o anche mentale) di un oggetto; noi la chiameremo la relazione a un contenuto, la direzione verso un oggetto (il quale non va qui inteso senz’altro come realtà) o anche oggettività immanente» (I, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1973, p. 124).

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La volontà come dinamismo d’integrazione personale

introduce nel pensiero un elemento che, senza essere tale, lo accompagna sempre sebbene spesso non ne siamo consci: la valutazione del pensiero come bene o, se vogliamo, la sua affermazione come valore. In altre parole, pensiamo perché apprezziamo quest’atto come buono. Cartesio mette a nudo questa struttura dell’azione umana perché il suo punto di partenza non è la spontaneità del pensiero, ma ciò che lo mette in moto: il volere. Il dubbio iniziale serve, infatti, a far venire fuori quest’origine: Cartesio dubita perché vuole dubitare e lo vuole perché tenta di conoscere la verità29. L’introduzione del volere nell’atto del pensare non è però una forzatura, come se il pensiero non avesse bisogno di essere affermato. La forzatura consiste nel non voler riconoscere tale punto di partenza, cioè nel sostituire il voler conoscere la realtà con un puro atto di pensiero e questo con l’autoconoscenza. Molti secoli prima, Sant’Agostino aveva già accennato a una simile struttura quando sosteneva la necessità di tre principi perché si potesse dare qualsiasi operazione dell’anima: dalla sensazione, alla volizione, passando per il pensiero. Per conoscere, spiega il vescovo d’Ippona, non basta l’oggetto, né l’attività del conoscere, ma è anche necessaria l’attenzione30. A differenza dell’oggetto e dell’atto di conoscere, l’attenzione dipende solo dall’anima, la quale solo conosce quando l’applica all’oggetto conosciuto. Ma perché l’anima fissa la sua attenzione? Perché è interessata, perché quella realtà non la lascia indifferente; insomma, perché vuole conoscerla. Certamente, il grado di volontarietà è differente nell’attenzione prestata alla sensazione (guardare, invece di vedere) e in quella prestata a un ragionamento e ancora di più in quella dell’esecuzione di un’azione per noi importante. Ecco perché il pensare, come qualsiasi altra azione umana (intesa in 29 «Nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo» (R. DESCARTES, Discours, in Oeuvres de Descartes, VI, a cura di Ch. Adam, P. Tannery, Vrin, Paris 1974-1983, p. 32). 30 «Inoltre, come il volere applica il senso al corpo, così egli applica la memoria al senso, e lo sguardo del pensiero alla memoria. Ma lo stesso volere, che li mette insieme e li combina, li divide anche e li separa» (SANT’AGOSTINO, De Trinitate, XI, cap. 8).

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Capitolo ottavo

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senso classico, cioè in contrapposizione agli atti dell’uomo), può permettere alla persona non solo di conoscere ma anche di conoscere di voler conoscere, cioè saper di essere l’origine del proprio atto. È questo, a mio parere, che viene rivelato dal Cogito ergo sum. La differenza fra l’azione umana e le restanti azioni si coglie nello stesso atto di pensare: non per quello che è pensato (oggetto), ma per colui che lo pensa, poiché pensare è conoscere se stessi come origine del proprio atto31. Per questo motivo, nel volere c’è la coscienza di se stessi come origine o libertà (libertà psicologica).

31 In questo senso, condivido la tesi di Taylor, secondo cui Agostino si trova all’origine dell’atteggiamento moderno di portare «in primo piano un tipo di presenza a se stessi inseparabilmente legato al fatto che siamo agenti di esperienza, cioè realtà l’accesso alle quali è asimmetrico» (CH. TAYLOR, Radici dell’Io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, p. 172).

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Capitolo nono

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L’integrazione della persona nell’agire

Come si è visto, il bambino di pochi mesi è già in grado di strutturare le sue sensazioni in percezioni della realtà, di desiderare e coordinare i primi movimenti verso l’oggetto desiderato; ad esempio, quando egli vede un giocatolo, lo desidera, cerca di prenderlo e, se ci riesce, sperimenta gioia e ride, altrimenti si rattrista e piange. Tuttavia, egli non arriva a integrare la totalità di sé perché non agisce, giacché per realizzare un’azione umana, consapevole e libera, c’è bisogno dell’atto del binomio ragione-volontà, che nel bambino è ancora solo in potenza. Infatti, solo attraverso la ragione-volontà è possibile integrare totalmente i diversi elementi che costituiscono la persona: la corporeità con i suoi organi e facoltà sensibili, le potenzialità spontanee di tutta la persona o tendenze, l’affettività, le facoltà spirituali, le abilità e l’uso del corpo. Il che non significa che l’azione dipenda unicamente da queste due facoltà, poiché essa ha come soggetto la persona. Se non ci sono difetti organici, la persona mediante il binomio ragione-volontà unifica l’uso di organi, delle facoltà, abilità e degli strumenti. L’energia, però, per agire viene dall’affettività. È vero che a volte l’azione parte dall’alto (top-down): ad esempio, voglio aiutare una persona in difficoltà, scelgo il modo di farlo, sperimento compassione, l’aiuto. Ciò nonostante, il modo più abituale si produce dal basso in alto (down-top): sperimento compassione di fronte alla sua difficoltà, me ne accorgo e acconsento a quest’affetto, scelgo la forma d’aiutarla, l’aiuto. Come si è visto, il collegamento fra il binomio ragione-volontà e affetti ha come base cerebrale le numerose interconnessioni fra la neocorteccia e il sistema limbico. Certamente queste interconnessioni non portano necessariamente ad agire e ancor meno a un determinato tipo di azione, perché 225

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Capitolo nono

l’integrazione dipende dal volere: si può sentire compassione e non voler aiutare, cioè non integrare questo sentimento mediante l’azione. Che non ci sia necessità non significa che non occorra l’integrazione, ma piuttosto il contrario: proprio perché non s’impone, l’integrazione è un dovere. Infatti, quando non si realizza l’integrazione è possibile, ad esempio, che la compassione si trasformi prima in sentimentalismo poi in indifferenza, come accade quando ci si abitua alle immagini televisive delle vittime di catastrofi naturali o di guerre senza che da parte dello spettatore ci sia un qualche tipo d’azione. L’integrazione, invece, rende attiva la compassione: a volte mediante l’aiuto diretto come volontario o con la preghiera, altre volte attraverso l’aiuto indiretto tramite le organizzazioni umanitarie. L’integrazione spontanea che si dà nell’azione non implica, però, il perfezionamento della persona, giacché è possibile agire in modo non moralmente appropriato. Quindi, si dovrebbe parlare di due tipi d’integrazione: un’integrazione dei dinamismi e delle potenze, ossia antropologica-metafisica, e un’integrazione della persona come tale, ossia etica. A partire da questi tipi scopriamo che l’agire umano può essere studiato da tre prospettive: fisica (il come dei processi neurali e organici), antropologica-metafisica (il perché dell’integrazione dei dinamismi e potenze corporee, psichiche e spirituali) ed etica (il come e il perché dell’integrazione personale). Quest’ultima prospettiva si basa sulle due precedenti e, soprattutto, sul riferimento alla verità della persona. Perciò solo astrattamente può studiarsi l’azione umana senza riferimento all’etica. Infine, anche se in esso c’è sempre un’unità causata dall’integrazione, l’agire può analizzarsi come una struttura complessa costituita da tre elementi: l’azione, l’abito e il comportamento, che – come per gli elementi che strutturano il pensiero e la volontà – non solo non si escludono, ma si integrano: nel comportamento è presente l’abito e, in quest’ultimo, l’azione, anche se si tratta di un tipo di presenza differente.

1. L’agire come integrazione dell’ambito tendenziale-affettivo, conoscitivo e volontario Anche se è il processo più elementare del comportamento, l’agire presenta una grande complessità sia dal punto di vista fisico che da 226

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L’integrazione della persona nell’agire

quello psichico e, nel caso dell’uomo, anche spirituale. La complessità dell’azione umana si incomincia a scoprire quando la si paragona con altri tipi di comportamenti che appaiono sulla scala evolutiva, come l’azione istintiva ed esperienziale. L’azione istintiva, che corrisponde alla realizzazione piena della vita animale, è, dal punto di vista evolutivo, la forma più semplice del comportamento. Il suo scopo è soddisfare i bisogni dell’animale tramite l’adattamento all’ambiente. Le caratteristiche dell’azione istintiva sono tre: il finalismo biologico, l’eredità e il suo carattere relativamente stereotipato. Nell’azione istintiva, il fine è raggiunto senza che l’animale abbia coscienza della finalità del suo comportamento, cioè in esso manca l’intenzionalità individuale, ossia una seconda intenzionalità (la prima intenzionalità dipende dalla specie). Perciò, nell’animale, si parla di un comportamento innato ed ereditato che non ha bisogno di riflessione e a volte neanche di esperienza; ad esempio, l’anatra nuota sin dal primo momento con una tecnica perfetta. Inoltre, esso è più o meno rigido; ad esempio, le api costruiscono il loro alveare e le rondini i loro nidi sempre allo stesso modo. Basandosi sulle tre caratteristiche dell’azione istintiva, alcuni biologi e psicologi hanno tentato di ridurla al movimento riflesso, cioè alla reazione di fronte agli stimoli dell’ambiente, come la lacrimazione spontanea quando nell’occhio entra un granello di sabbia. Assumendo come modello i riflessi, si è preteso di spiegare l’azione attribuendo ai centri motori una reazione congenita o acquisita ma uniforme. Le azioni – secondo tale ipotesi – altro non sarebbero che catene di movimenti riflessi, collegati dal rapporto spontaneo con l’ambiente o dai condizionamenti. Il riflesso condizionato sarebbe, quindi, la chiave d’interpretazione dell’azione1. Questa concezione, ispirata a una visione atomistica e meccanicistica della vita animica, non tiene conto del fatto che l’azione istintiva ha come soggetto l’animale, mentre i riflessi appaiono anche nei frammenti dell’animale; ad esempio, nella testa tagliata di una vespa è possibile provocare determinati riflessi, ma non l’azione di morsicare. I riflessi, che possono essere spiegati come manifestazione di una simbiosi fra il livello vegetativo dell’animale e l’ambiente, fanno parte quindi dei 1

Cfr. J.G. HOLLAND, B.F. SKINNER, The analysis of behavior: A program for Self-Instruction, McGraw-Hill, New York 1961.

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processi vitali. Inoltre l’interpretazione meccanicistica non tiene conto del fatto che determinati istinti hanno bisogno della maturità dell’animale e di un certo grado di esperienza; lo stimolo sessuale, per esempio, produce l’azione di accoppiarsi solo quando l’animale ha raggiunto un determinato sviluppo organico e psichico. Poiché è all’interno di un processo orientato, ossia teso a un fine, l’azione istintiva sarà o non sarà soddisfacente secondo che raggiunga o meno tale scopo. Sembra, quindi, arbitrario studiare l’azione e il suo risultato prescindendo dall’attività interiore e orientativa del vivente. In definitiva, l’azione istintiva ha un’intenzione, ossia è intenzionale (certamente solo dal punto di vista della specie). Questo tipo d’intenzionalità si trova nell’uomo solo in alcuni – pochi – riflessi dipendenti dalle tendenze; ad esempio, il riflesso del neonato a succhiare il latte materno. Nell’uomo non si deve parlare perciò di azioni istintive, bensì tendenziali. Un altro tipo di azione ancora più evoluta è quella esperienziale. Essa trae origine dalla memoria esperienziale, che modella o rafforza il comportamento secondo il suo successo o insuccesso. Anche se la coscienza attuale gioca un ruolo centrale nell’azione esperienziale, essa scompare per passare alla memoria una volta che l’operazione è stata imparata. Ad esempio, dimentichiamo l’apprendistato della abilità di stare in piedi, una volta che incominciamo a camminare, perché questa seconda abilità implica la buona riuscita della prima. Lo scopo dell’azione esperienziale è, come accade nel gioco, la stessa azione, cioè imparare a svolgerla nel migliore modo possibile. Alcuni istinti degli animali, come quello della caccia, hanno bisogno di azioni esperienziali, che li perfezionano e rafforzano. Nell’animale l’azione esperienziale può andare contro i propri istinti, come accade con l’addomesticamento. Per esempio, il leone è in grado d’imparare a saltare attraverso un cerchio di fuoco di fronte al quale istintivamente fugge. Ciò spiega perché i comportamenti modificati dall’uomo possano portare alla riduzione e anche alla perdita di alcuni istinti animali, come quello della caccia delle prede o della fuga dai predatori. Per mancanza di istinti, le operazioni basilari della persona si basano su questo tipo di azioni; l’educazione cerca di favorirle mediante l’imitazione e la trasmissione di tecniche e pratiche che permettono alla persona umana di affrontare con successo le diverse tappe della sua vita. Attraverso l’esperienza si stabilisce un legame associativo fra la percezione della situazione e l’azione adeguata; ad esempio, l’abilità 228

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L’integrazione della persona nell’agire

nel parcheggiare la macchina fa parte delle azioni esperienziali. La loro importanza nel comportamento umano non deve far dimenticare che la persona ha bisogno dell’efficacia e della buona riuscita nei diversi compiti, non solo da un punto di vista vitale o del proprio io (sicurezza di sé), ma anche dal punto di vista personale, il che significa che le azioni esperienziali rendono l’uomo più o meno se stesso. Il nucleo essenziale dell’azione esperienziale umana non è, perciò, camminare o guidare bene, ma il fine per cui si fa, ossia l’intenzione perseguita mediante quei determinati movimenti delle gambe e delle mani. L’azione intenzionale è così alla base del comportamento umano2. Infatti, l’azione umana è sempre caratterizzata sia da una finalità oggettiva (ciò in cui l’azione finisce) sia da un’intenzionalità personale o oggetto morale (ciò che la persona ha intenzione di fare). Queste due finalità possono coincidere, ma anche essere separate dall’agente. Ad esempio, l’atto coniugale ha come finalità oggettiva la sua apertura alla vita (mediante la sua ragione, l’agente conosce questa scopo), i coniugi però con la loro intenzione possono renderlo infecondo, ad esempio, mediante l’uso del preservativo; in questo caso, la finalità oggettiva dell’atto coniugale è rifiutata dall’intenzione di uno o di tutt’e due i coniugi. A differenza della persona, l’animale ha solo una finalità oggettiva della sua condotta, certamente non conosciuta da esso, per cui non può accoppiarsi con l’intenzione di rendere quell’atto infecondo. Tramite la ragione, la persona è in grado di cogliere il fine oggettivo del suo agire. Da qui la responsabilità e l’imputabilità delle sue azioni, il che non accade negli animali. Il principio ordinatore dell’azione umana è proprio questa intenzione personale. Ne deriva la distinzione fra l’aspetto interno dell’atto, ossia l’intenzione, e l’aspetto esterno, l’esecuzione. Si noti che l’aspetto esterno dell’azione non è un’aggiunta estrinseca, bensì la realizzazione di quest’intenzionalità. L’aspetto interno dell’atto non sempre si mani2

Arnold Gehlen è stato uno degli autori che più hanno riflettuto sull’azione umana dalla prospettiva antropologica. Un aspetto fondamentale della sua teoria è che la fantasia motrice, origine dell’espressione del movimento, partecipa in modo decisivo a costruire un profilo e a strutturare gli oggetti percepiti. Questo punto di vista coincide con l’esperienza della psicologia genetica che mostra come il bambino scopre prima il mondo nelle sue qualità di maneggevolezza, nella misura in cui lo percepisce composto di cose (cfr. A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1990, p. 202 e sgg.).

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festa, o si può mostrare in modo camuffato. È proprio l’aspetto interno o intenzione a essere la causa dell’integrazione di tendenze, affetti, motivi, ragione, volontà, uso delle potenze, movimenti del corpo e anche uso di strumenti. San Tommaso parla perciò di una funzione della volontà che è l’uso del corpo e delle diverse potenze che permettono di agire3. Ad esempio, la mia intenzione di visitare un museo in una città sconosciuta è la causa formale che integra il movimento delle mie gambe, l’uso di una mappa o di un navigatore, il fare domande su dove si trova, e il fermarmi quando sono arrivato. Se qualcuno mi chiede che cosa sto facendo, la risposta non è semplicemente camminare, guardare la mappa o il navigatore, e domandare (l’aspetto esterno dell’azione), bensì voler visitare il museo. La possibilità di fare una domanda al soggetto dell’azione che si osserva significa che la si considera non un evento che accade (la caduta di un cornicione) né solo un’azione con una finalità oggettiva specifica (il leone che rincorre la gazzella per divorarla), ma un’azione intenzionale, ossia una con un fine personale, il che è un fenomeno tipico della vita dell’uomo4. L’azione intenzionale richiede, dunque, intelligenza, deliberazione, riflessività o conversazione interiore5 e interessi ultimi o fine esistenziale. Quest’ultimo costituisce il motivo principale dell’agire intenzionale.

2. Coscienza dell’azione Con lo studio della coscienza dell’azione arriviamo al nucleo dell’integrazione: la persona non è legata solo alle diverse fasi dello sviluppo della coscienza e dell’Io (le diverse fasi della libido, come vorrebbe la psicoanalisi), né si modella solo secondo l’influsso dei condizionamenti socio-culturali (i riflessi condizionati e la situazione, come vorrebbe il comportamentismo), e neppure si sviluppa solo attraverso un processo di elaborazione dell’informazione nel tentativo di risolvere problemi ogni volta più complessi (i processi cognitivi, come vorrebbe il cognitivismo), ma cresce come persona soprattutto attraverso il suo agire e la coscienza che ha di esso. 3

Cfr. SAN TOMMASO, S. Th., I-II, q. 17, a. 4. Cfr. G.E.M. ANSCOMBE, Intenzione, cit., specialmente i capitoli 18-21. 5 Su questo tema si veda M. ARCHER, La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale, Erickson, Trento 2006, specialmente il secondo capitolo. 4

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L’integrazione della persona nell’agire

Ma come si deve capire questa coscienza dell’azione? Accanto alla visione teleologica oggettiva dell’atto che possiamo trovare in Aristotele, secondo cui per conoscere l’atto bisogna conoscere il suo oggetto o fine giacché l’atto è specificato dal suo oggetto, c’è la visione dell’intenzione vissuta dell’atto. Ci sono, però, due tipi d’intenzione: quella oggettiva di cui parla Aristotele e che fa riferimento all’oggetto dell’azione o prima intenzione (anche una scimmia può coglierla parzialmente, per cui essa può distinguere fra un’azione da una non azione, come i movimenti senza alcuna finalità realizzati da un robot) e quella soggettiva, che fa riferimento al fine delle proprie azioni (solo l’agente può coglierla). Perciò, ai metodi classici induttivi e deduttivi, si può aggiungere un metodo che si basa sull’esperienza immediata. Così il modo tradizionale di studiare l’atto (dall’oggetto all’operazione, dall’operazione alla potenza, e dalla potenza all’essenza o ousia) viene semplificato fino a diventare un’intuizione: l’azione libera si conosce direttamente per se stessa, perché è sperimentata in modo immediato da colui che la realizza. Come si è visto, questo secondo metodo corrisponde alla filosofia moderna a partire da Cartesio. Questo metodo permette di scoprire due esperienze primarie: l’agire e l’accadere. L’esperienza dell’agire, che corrisponderebbe in linea di massima alla categoria classica di atto umano, consiste nel vissuto che il soggetto ha di se stesso come autore e causa efficiente dell’atto. Invece nell’esperienza dell’accadere, che corrisponderebbe alla categoria classica di atto dell’uomo, la persona sperimenta se stessa come paziente, perché la sua soggettività non sente impegnata nella dimensione più profonda dell’atto (o seconda intenzionalità). Nell’esperienza dell’agire, la persona sperimenta se stessa in un duplice modo: immanente all’azione e, allo stesso tempo, trascendente. Immanente perché la persona è presente nella sua azione, con i cui fini s’identifica e della quale assume la responsabilità; trascendente perché la pone nell’essere, la sceglie e le imprime il suo proprio dinamismo6.

6

«Attraverso i suoi atti, infatti, in un certo qual modo l’uomo crea se stesso, la propria interiorità e personalità morale. Vediamo qui come nella comprensione dell’atto umano la fenomenologia descrive un’esperienza dell’uomo che, per essere intesa e spiegata adeguatamente, ha bisogno di una penetrazione che va al di là della semplice descrizione» (R. BUTTIGLIONE, Il pensiero dell’uomo che divenne Giovanni Paolo II, a cura di P.L. Pollini, Mondadori, Milano 1998, p. 167).

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La trascendenza della persona nell’atto presuppone, secondo Wojtyla, il riferimento del soggetto alla verità; gli atti hanno una verità che corrisponde al dover essere personale7. Attraverso l’esperienza dell’immanenza e della trascendenza si raggiunge il significato dell’atto, non solo in ciò che esso ha di fisico o di puramente oggettivo, ma soprattutto nel suo carattere personale giacché l’atto manifesta la persona a se stessa; ad esempio, nel perdonare le offese la persona si mostra misericordiosa. Infatti, la persona, anche se non s’identifica con il suo agire, non si disperde in esso, ma si arricchisce o s’impoverisce secondo il fine dell’atto con cui s’identifica. Inoltre, mediante l’atto, la persona trascende se stessa; nel caso appena indicato, con l’atto di perdono, la persona supera i limiti dell’ingiuria, la tendenza alla vendetta e offre al perdonato la possibilità di redimersi. Ed è proprio trascendendo se stessa che la persona riesce a integrare i diversi livelli che la costituiscono (fisiologico, psichico, spirituale)8. Nonostante siano due esperienze diverse della soggettività, l’immanenza e la trascendenza della persona nell’atto dimostrano che l’esperienza dell’agire e quella dell’accadere non sono originariamente contrarie, poiché il soggetto è sempre una e la stessa persona, capace di autotrascendersi. Nell’esperienza dell’agire i dinamismi fisiologici, tendenziali, cognitivi sensibili ed emozionali si percepiscono come qualcosa che, pur non dipendendo pienamente dalla persona nel suo attualizzarsi, s’integrano nell’atto umano. Nell’agire, quindi, si ha una prova del fatto che il dinamismo tendenziale-affettivo non rappresenta un ostacolo per sostenere l’unità dell’uomo; anzi, esso 7

Il riferimento alla verità costituisce ciò che Wojtyla chiama trascendenza verticale, per distinguerla da quella orizzontale propria delle scelte o volizioni di un determinato valore: «Il riferimento alla verità, che nell’ambito della coscienza è soprattutto verità del bene (o anche verità sul bene) indica un’altra dimensione della trascendenza propria della persona, diversa da quella che trova espressione nell’oltrepassare i confini orizzontali del soggetto, quando esso si rivolge verso i valori oggettivi indipendentemente dal giudizio della coscienza» (K. WOJTYLA, Perché l’uomo. Scritti inediti di Antropologia e Filosofia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, p. 144). 8 «C’è una trascendenza dell’uomo in se stesso per cui egli non è mai esattamente identico e identificabile con la somma delle sue facoltà, neppure di quelle superiori, spirituali, e neanche con le loro operazioni. La persona infatti può veramente agire proprio perché retro determina i suoi atti, pur compiendosi dinamicamente in essi. Il mistero dell’identità personale si manifesta in maniera fenomenica e rimane trascendente» (M. SERRETTI, L’uomo è persona, Lateran University Press, Roma 2008, pp. 241-242).

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solo può essere spiegato in virtù di tale unità. Si supera così il dualismo corpo-pensiero, anche nella sua versione più moderna di mente-pensiero, senza però cadere nel monismo fisicalista o in quello più moderno della riduzione della coscienza ai sistemi neurali. In conclusione, visto dalla prospettiva della coscienza, l’atto umano sarebbe l’ambito in cui la persona, nell’attualizzare le potenzialità che le sono proprie (dinamismi fisiologici ed emozionali, pensiero, volizione, ecc.), vive se stessa internamente come agente, costruendo così il suo carattere9. La persona che agisce conosce se stessa come soggetto agente, perché nell’atto scopre dei fini con cui s’identifica giacché li riconosce come propri. Ciò nonostante, il fine non si trova allo stesso modo in tutt’e due: nell’agente si trova come fine personale o intenzione seconda, nell’atto come fine oggettivo o intenzione prima. In definitiva, la persona è immanente nell’atto perché in esso si realizza la sua intenzionalità. Le azioni che Aristotele chiamava transitive non hanno solo una dimensione ontologica (attualizzazione di un essere in potenza), tecnica e scientifica, ma hanno anche una dimensione etica ovvero d’immanenza personale, vale a dire di perfezione. Oltre alla prospettiva ontologica dell’agire secondo cui l’atto è più perfetto della potenza, c’è quella antropologica ed etica secondo cui l’azione umana rivela la persona perfezionandola o togliendole perfezione.

3. Il senso dell’azione: l’amore È chiaro quindi che, affinché l’azione umana sia perfettiva, ci deve essere in primo luogo un’intenzione adeguata alla persona. In che cosa consiste quest’intenzione? In ciò che dà senso all’azione. Si potrebbe obiettare che l’intenzione fa parte della persona ma non è la sua totalità e che, di conseguenza, non può essere il mezzo perché si dia l’immanenza della persona nell’atto. La risposta a quest’obiezione è la seguente: la manifestazione completa della persona non dipende dalla totalità delle dimensioni coinvolte nell’atto, bensì da ciò che è 9 «Lo specchio della coscienza ci introduce molto più all’interno degli atti e della loro relazione con il proprio “io” e, inoltre, il ruolo della coscienza ci permette non solo di osservare interiormente i nostri atti (introspezione) nonché la loro dinamica dipendenza dal proprio “io”, ma anche di vivere interiormente questi atti, come atti nostri» (K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 885).

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essenziale, ossia da ciò che non può mai mancare. Altrimenti sarebbe più personale l’atto in cui fosse presente un maggior numero di aspetti (abilità tecnica, produzione perfetta, scienza); quest’idea, ancora di moda, è stata messa in circolazione da una visione funzionale della persona, secondo cui si è più persona quanto più si realizzano le proprie potenzialità. Perché si possa parlare di una manifestazione piena della persona, non è necessario che tutti questi aspetti ci siano. Infatti, non sempre tutte le dimensioni sono presenti in un atto pienamente personale; a volte può mancare o, per lo meno, essere molto limitata la dimensione tecnica – ad esempio nel linguaggio colloquiale rispetto a quello letterario – altre volte quella teoretica – ad esempio nel coltivare i campi –, ma ciò che non può mai mancare è l’amore personale. Ed è proprio l’amore a far sì che un atto così quotidiano come, per esempio, lavorare manifesti compiutamente la persona. L’amore quindi sembra avere un rapporto stretto con la dimensione etica dell’agire, giacché entrambi fanno parte dell’essenza dell’atto10. Infatti, l’agire non ha come senso la produzione, né la trasformazione del mondo, né tanto meno il piacere, l’utilità, la fama e così via dicendo. Nell’agire umano ci possono essere questi elementi e, ciò nonostante, mancarne il senso perché tutte queste sono dimensioni parziali che non tengono conto della verità della persona; ecco un’altra differenza fondamentale con il comportamento animale. Poiché l’animale è al servizio della specie, il senso del suo comportamento è la propria specie. Nell’uomo questo non accade. Uno dei difetti del marxismo è affermare proprio il contrario: il senso dell’azione umana, cioè del lavoro, è il bene della specie. Ma è ancora più falso pensare che il senso sia il piacere come fanno gli edonisti oppure l’utilità, come fanno gli utilitaristi, oppure la fama che è sempre una grande tentazione. Ciò non 10 Si trova in questa dimensione etica dell’amore la ragione per cui, prima Sant’Agostino e poi San Tommaso, indicano l’amore come forma delle virtù: «Rispondo: In morale la forma di un atto viene desunta principalmente dal fine: poiché il principio degli atti morali è la volontà, che trova nel fine l’oggetto e in qualche modo la forma. Ora, la forma di un atto è sempre proporzionata alla forma di chi opera. Perciò è necessario che nelle azioni morali ciò che dà ad esse l’ordine al fine dia anche la forma. Ma da quanto abbiamo detto sopra risulta evidente che la carità ordina gli atti di tutte le altre virtù al fine ultimo, per cui in tal modo dà la forma agli atti di tutte le altre virtù. E in questo senso si dice che essa è la forma delle altre virtù; infatti anche le stesse virtù vengono considerate tali in ordine agli atti formati» (SAN TOMMASO, S. Th., III, q. 23, a. 8).

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significa che piacere, utilità, fama siano cose negative; sono positive ma limitate, perciò non costituiscono il senso dell’agire umano. La fine o senso dell’azione umana è la verità della persona ovvero la sua chiamata al dono di sé. Ecco perché l’amore riesce a integrare tutti questi elementi senza farli diventare qualcosa di assoluto. Qual è il rapporto fra intenzione e dimensione etica dell’azione? Mi sembra che sia di tipo essenziale, poiché l’amore non è qualcosa che si aggiunge al progetto, o all’inizio dell’atto, o, ancora, al suo compimento, ma è ciò che lo fa nascere, lo mantiene e porta al suo fine, diventando in questo modo azione personale. La dimensione etica non dipende solo da leggi e regole da seguire, ma soprattutto dall’amore personale, che vivifica ogni tipo di norma. Si capisce adesso meglio perché l’etica non sia un’ulteriore dimensione dell’azione, ma ciò che la rende perfetta o imperfetta in senso personale. L’atto umano mostra così il compimento della persona al di là della pura perfezione ontologica e dal vivere individuale. Infatti, mentre l’atto vitale negli animali è solo attualizzazione della perfezione specifica, l’azione personale è principio non solo di realizzazione del proprio vivere, ma anche di quella degli altri esseri. La persona si rivela nell’atto come perfettiva e perfezionante. Ed è proprio attraverso i suoi atti che la persona cresce in perfezione. Nella misura in cui si realizza nell’azione, la persona aumenta la sua capacità di perfezionare non solo se stessa, ma anche le altre realtà. In ogni atto umano, dunque, è presente la persona in quanto suscettibile di perfezionare e essere perfezionata. Infatti, oltre ai dinamismi fisico-fisiologici, alle abilità e all’uso della ragione pratica, l’immanenza della persona si realizza per mezzo dell’amore con cui si progettano e si eseguono gli atti (è chiaro che l’amore si serve della ragione nel progettare il fine, cercare i mezzi e compiere l’azione). Ed è proprio la qualità dell’amore a essere fonte della perfezione dell’azione umana, che a sua volta lo è della persona. La crescita o la diminuzione in perfezione, attraverso il tipo di amore con cui si ama, implica che fra persona e amore ci sia un’adeguazione, cioè la persona che si perfeziona ha un amore adeguato e viceversa. Adeguato o sbagliato rispetto a che cosa? Rispetto a ciò che la persona è, vale a dire, la sua verità. Si può, pertanto, parlare di un amore vero, che manifesta la persona in modo veritiero, e di un amore falso, che lo fa in modo mendace. Da questa prospettiva, il giudizio etico della coscienza non consiste tanto nell’applicazione delle leggi universali ai casi con235

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creti, quanto nella scoperta di ciò che, in ogni circostanza, corrisponde alla verità della persona. Una verità che, come vedremo più avanti, pur essendo personale, non è relativistica, ma ha un valore assoluto, perché il suo fondamento è trascendente. La prospettiva dell’immanenza della persona nell’atto ridimensiona anche i gradi d’immanenza attribuiti da Aristotele alle operazioni. Infatti, sebbene dal punto di vista dell’atto il pensiero sia più immanente del mangiare, e questo, a sua volta, più immanente della procreazione, del lavoro e dell’amicizia, è proprio in queste tre ultime operazioni che la persona si rivela più completamente, perché esse, più che il mangiare o il pensare, hanno bisogno dell’intenzionalità personale. Anche se ogni atto personale – nella misura in cui nasce da un amore adeguato o meno alla verità della persona – dà luogo alla crescita o alla diminuzione della perfezione personale, la famiglia, il lavoro e l’amicizia la fanno crescere in modo speciale. Attraverso queste tre relazioni, l’uomo assume direttamente un atteggiamento personale non solo verso se stesso, come accade ad esempio nel mangiare, nell’immaginare, ecc, ma anche nei confronti del mondo e degli altri, il che è alla base del processo di perfezione umana e di sviluppo storico11. Ora possiamo capire perché l’amore ha la caratteristica di permettere l’integrazione totale della persona. Parlando della volontà abbiamo visto che in un certo senso la persona si determina attraverso il proprio volere, o se vogliamo attraverso l’amore: amando noi ci determiniamo e diventiamo uguali a ciò che amiamo. Se noi amiamo il piacere diventiamo in un certo senso edonisti; se amiamo l’utilità diventiamo utilitaristi; se amiamo la produzione, diventiamo fordisti o tayloristi, e cosi via. Invece se noi amiamo le altre persone, diventiamo veramente umani.

4. Automatismi e abiti Oltre a realizzarsi l’intenzionalità della persona, con l’esecuzione dell’azione iniziano altri tipi di strutture dell’agire, poiché la vita e l’at11 Anche se qualsiasi azione umana comunica perfezione ed è perfettiva, il lavoro manifesta tale caratteristica essenziale dell’azione con totale chiarezza a causa del suo rapporto diretto con gli altri e con il mondo.

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tività continuano al di là dell’atto appena eseguito. Lo scopo perseguito dalla persona nell’azione volontaria, ossia il progetto esistenziale in cui si pone la felicità, non è definitivamente né raggiunto né perduto per effetto dell’azione realizzata e del perfezionamento morale ottenuto. Infatti, l’azione intenzionale non ha come scopo principale il successo né l’adeguarsi alla situazione, ma un obiettivo differente, il fine esistenziale per il quale l’azione è solo un mezzo. Ad esempio, chi vuol esser ricco ad ogni costo non solo deve acquistare e vendere con successo, ma realizzare una pluralità di azioni con uno stesso fine; anzi tale scopo è possibile rintracciarlo in quasi tutte le sue azioni: fare investimenti, viaggiare, riunirsi con altre persone, concedere interviste alla televisione e ai giornali, sposarsi con una persona ricca, ecc. Ne deriva che, oltre all’intenzione che costituisce l’oggetto morale, ci sia una motivazione più o meno profonda che dà unità e senso alla totalità dell’agire umano. I motivi possono essere molto variegati: desideri di possesso, potere, stima, piacere, affetti, pregiudizi, donazione, ecc. Quanto più il bisogno, la motivazione o l’interesse saranno connessi alle aspirazioni intime del soggetto, tanto più perdureranno in lui gli elementi che sono stati incorporati mediante la realizzazione di azioni dipendenti da questi fini. «In questa prospettiva di “motivazione in profondità” certe situazioni e risposte continuano ad interessare il soggetto, mentre altre sono abbandonate»12. Il fine esistenziale struttura così le azioni esperienziali ed intenzionali forgiando il carattere della persona mediante gli abiti. A volte si tende a pensare che gli abiti siano una pura ripetizione di azioni ovvero degli automatismi. Fra gli abiti buoni o virtù e le azioni automatiche non ci potrebbe essere però una differenza maggiore. Vediamolo nel dettaglio. a) Ottenute mediante la ripetizione, le azioni automatiche somigliano alle azioni impulsive immediate. Nell’azione automatica tutto il processo di classificazione riguardante il tipo di comportamento appropriato avviene senza alcuna riflessione perché attraverso frequenti esperienze è divenuto automatico ed effettivo. Nell’attraversare una strada, ad esempio, possiamo notare i veicoli che sopraggiungono, valutare la loro velocità di marcia, la distanza che devono coprire pri12

J. NUTTIN, Comportamento e personalità, a cura di Norberto Galli, PASVerlag, Zürich 1964, p. 375.

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ma di raggiungerci, quanto è larga la strada e qual è il tempo da noi impiegato per attraversarla. Tutti questi fattori sono così strettamente connessi, che automaticamente danno luogo alla forma più appropriata di azione. Il bisogno di sicurezza e la complessità del vivere umano rendono necessarie le azioni automatiche. Esse funzionano come una specie d’istinto, con la differenza che poiché sono state imparate, possono essere disimparate ed anche reimparate, come accade alle persone che, a causa di una lesione o di un intervento chirurgico nel cervello, perdono alcune destrezze basilari, come camminare, parlare, scrivere, ecc.13. Diversamente dall’azione esperienziale, il livello di attenzione richiesto nell’azione automatica è minore; ad esempio, la persona che esce da casa per arrivare in ufficio, può non star attenta al fatto che cammina, attraversa determinate strade, incontra luoghi e persone conosciute, ecc. Il fare quel percorso, tuttavia, anche se è un’azione automatica, è volontario. Nonostante l’utilità delle azioni automatiche perché fanno risparmiare molta energia psichica, in quanto l’attenzione è disimpegnata e può così essere applicata ad altre attività, il pericolo dell’automatismo è la routine, ossia perdere di vista il perché le si compie o il significato che esse hanno nella propria vita. Se non si corregge con la riflessione e con le domande sul significato del proprio fare, l’automatismo può invadere l’agire più intimo, che diventa così rigido e sclerotizzato, poiché dipende quasi esclusivamente dal passato. A volte potrebbe sembrare che il lavoro in cui c’è un’azione elettiva sia uguale a quello in cui c’è un’azione automatica. In realtà non è così: la ripetizione degli automatismi può dar luogo al vuoto, alla noia, che esprimono la mancanza di senso; mentre per chi è preso dalla passione la ripetizione non toglie senso né iniziativa, ma li ravviva. b) L’abito è anche considerato da molti una ripetizione di un’azione buona (virtù) o cattiva (vizio). Questa concezione è però fuorviante. Ciò che caratterizza l’abito non è l’azione esterna – altrimenti non sarebbe possibile distinguere il continente dal casto – bensì la disposizione interna ad agire in modo integrato (castità) o disintegrato (continenza). Questo non significa che, oltre alla virtù, non possano esistere altri tipi di motivi per agire castamente; ad esempio, la vergogna, l’opinio13

Cfr. J. MACMURRAY, Persons in Relation, Faber and Faber, London 1991, p.

54.

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ne degli altri, ecc. È necessario però che il motivo centrale che guida l’azione sia quello virtuoso, per cui anche se non ci fosse nessuno, ci si comporterebbe ugualmente in modo casto. Fra il vizio e la virtù dunque non esiste nulla in comune da un punto di vista antropologico ed etico: il vizio è pura ripetizione del passato che fa perdere libertà giacché l’azione viziosa incatena e, in questo senso, si avvicina molto all’azione automatica, come si osserva nella difficoltà interna che la persona con dipendenze (droga, alcool, sesso) trova quando tenta di uscirne. La virtù, invece, è all’estremo opposto dell’automatismo. Certamente la persona virtuosa ha una disposizione ad agire con facilità e gioia. Questa disposizione non dipende fondamentalmente da un passato cristallizzato, bensì da un grado d’integrazione che permette un maggiore possesso di sé nell’atto e, di conseguenza, di autodeterminazione. Perciò le scelte e gli atti del virtuoso sono meno prevedibili di quelli del vizioso. Comunque, la virtù non si esaurisce nell’essere capacità di agire bene. Essa produce soprattutto un’integrazione di tutta la persona unificando nel bene le diverse potenzialità: tendenze-affetti-conoscenza pratica-volontà. Anche se uno non è conscio di una tale integrazione se non attraverso nuovi atti, la virtù fa aumentare l’inclinazione libera di tutta la persona verso l’amore e, quindi, verso la donazione.

5. Il comportamento virtuoso È la chiave di volta dei rapporti orizzontali (persona-mondo-altri) e verticali (inconscio, tendenze-affetti, ragione-volontà-verità personale). Nel comportamento intenzionale virtuoso, desiderare, sentire, pensare, volere, e agire raggiungono sempre di più una maggiore unità e coerenza. Il comportamento virtuoso ha fondamentalmente tre caratteristiche: a) intelligente, b) attivo, c) perfettivo. a) Intelligente. Per gli etologi, come Konrad Lorenz, il comportamento intelligente è un comportamento finalistico piuttosto tardivo14. Si tratterebbe di un perfezionamento dell’azione esperienziale, in cui il raggiungimento del successo non è affidato solo al superamento della prova, ma soprattutto a determinate ipotesi di tipo pratico. Infatti, attra14

Cfr. K. LORENZ, L’etologia, Boringhieri, Torino 1980, p. 12.

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Capitolo nono

verso la comprensione delle variabili situazionali, l’animale anticipa in un certo senso le strategie che possono avere successo. Alcuni studiosi del comportamento animale affermano che certi animali hanno un comportamento intelligente, e perciò parlano d’intelligenza animale. Köhler eseguì a Tenerife, una delle isole Canarie dove rimase durante la prima guerra mondiale, alcuni esperimenti con gli scimpanzé. Uno di questi consisteva nel collocare dinanzi alla gabbia, non a portata di mano della scimmia che vi era dentro, una banana legata a una corda, la quale invece era facilmente raggiungibile. Anche se era più interessata al frutto, la scimmia prese la corda, perché aveva visto la connessione fra il tirare la corda e il trarre a sé la banana (i cani, invece, in un esperimento analogo fallirono)15. Negli animali superiori è evidente che ci sono le regolarità ipotizzate, ossia gli schemi che l’animale, in modo inconscio, cerca di imporre all’ambiente16. Comunque, il comportamento intelligente umano va al di là delle ipotesi e delle congetture, perché in grado di oggettivare le possibili situazioni e le possibili risposte. Questa capacità di oggettivazione manca anche nel comportamento di un bambino di età inferiore ai due anni; ad esempio, il lattante che scopre che il pianto notturno serve ad attirare la mamma, impiegherà tale richiamo fino a farlo diventare un incubo per i suoi genitori. Tale comportamento, anche se non è mera azione esperienziale, non è ancora un comportamento intelligente umano. È vero che dal punto di vista del risultato non ci sono differenze, ma come abbiamo visto il modo in cui ci sappiamo davanti ad un comportamento intelligente umano non è l’aspetto esterno dell’azione e neppure il suo risultato, bensì la sua intenzione consapevole. Il lattante che piange perché vuole la presenza della madre, e il ragazzino che finge una malattia per non andare a scuola sono dei comportamenti che cercano dei risultati. La differenza sta nel fatto che il lattante non è in grado di conoscere né il pianto come mezzo né la presenza della madre come fine del suo comportamento, mentre il ragazzino conosce sia il fine cercato, sia il mezzo che deve adoperare perché possiede l’idea astratta di utilità ovvero del rapporto fra mezzo e fine; ossia in lui vi sono operazioni intellettuali, come il concetto, il giudizio e il ragionamento, almeno 15

Cfr. W. KÖHLER, L’intelligenza nelle scimmie antropomorfe, Giunti Barbera, Firenze 1960. 16 Cfr. K.R. POPPER, J.C. ECCLES, L’Io e il Suo Cervello. I. Materia, Coscienza e Cultura, Armando, Roma 1992, p. 170.

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L’integrazione della persona nell’agire

quello pratico, strettamente collegate all’origine, allo svolgimento e al fine dell’azione. Perciò, in questo caso possiamo parlare di rendimento o effetto cercato attraverso un comportamento intelligente umano. Nella virtù, l’intelligenza non ha come scopo il piacere e l’utilità bensì il bene onesto o perfezione etica, che nonostante sia assoluto si esprime in un agire contingente perché dipende dalla relazione fra situazione e agente. Ne deriva l’uso della funzione ermeneutica della ragione per interpretare e valutare le singole situazioni e della prudenza per saper come si deve agire. Attraverso l’integrazione affettiva e razionale-volitiva, il virtuoso acquisisce una connaturalità con il bene onesto riuscendo a trovarlo anche nelle situazioni più complesse e difficili. In questo modo il virtuoso compie un ruolo sociale essendo un modello per gli altri, soprattutto per i giovani il cui carattere aiuta a forgiare con il suo esempio. b) Attivo. Se le azioni isolate permettono di integrare spontaneamente i livelli della personalità e in modo volontario gli abiti – con maggiore o minore grado di determinazione –, il comportamento è il punto in cui l’integrazione spontanea e quella volontaria raggiungono il grado massimo. Nel comportamento sono presenti aspetti innati e culturali, e anche tendenze rafforzate dagli abiti, stati d’animo disposizionali e abilità che sono state più o meno modellate dall’educazione. Il comportamento materno è un esempio di come s’intrecciano natura, cultura e carattere, tendenze, abiti e abilità. Il comportamento è, dunque, l’insieme di azioni e di abiti nei quali si manifesta il carattere di ognuno. Esso può essere attivo o passivo. Il comportamento attivo è motivato ovvero ha come scopo un fine esistenziale. Il comportamento passivo, invece, è reattivo, perché il suo fine non è un progetto personale, ma solo lo sfogo di stati affettivi spiacevoli del soggetto. Nel comportamento attivo c’è un rapporto equilibrato fra mondo-persona e, all’interno della persona, fra i diversi livelli, che consente la formazione e lo sviluppo di un carattere virtuoso. Il comportamento passivo non consente di affrontare le necessarie strutturazioni psichiche dando luogo alla frammentazione. Esso può essere dovuto alla fissazione, ossia al rifiuto di crescere, generalmente inconscio, per mancanza di sicurezza nelle proprie qualità. La persona, poiché non è più creativa e aperta alle nuove situazioni, si lascia dominare dalle abitudini consolidate e dalla paura di fronte ai cambiamenti. Di conseguenza le risulta molto difficile adattarsi a un nuovo lavoro, stato 241

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Capitolo nono

civile o gruppo sociale. Un altro modo in cui si manifesta la mancanza di comportamento attivo è la regressione, ossia un ritirarsi verso forme di sentire, agire, pensare, che ripetono comportamenti di altre tappe biografiche inadeguati alla situazione attuale. C’è anche un comportamento falsamente attivo: l’attivismo, caratterizzato dall’esteriorità e superficialità. In realtà l’attivismo è anche un comportamento reattivo di fronte alla complessità e all’impossibilità di controllare la propria esistenza. Il comportamento attivo è, invece, variabile e plastico e porta a nuove ristrutturazioni psichiche secondo le circostanze e i conflitti. Forse la caratteristica fondamentale del comportamento attivo è la libertà per assumere o abbandonare determinati atti, abiti, ecc., mentre quella del comportamento reattivo è la compulsività, che obbliga anche fisicamente alla ripetizione di schemi operativi. La libertà di scelta non è, però, lo scopo del comportamento attivo, ma il mezzo per raggiungere il proprio progetto esistenziale. Ciò è evidente nell’integrazione dei diversi livelli, che si strutturano in sequenze di azioni organizzate in vista del fine. Perciò gli ostacoli esterni (punizioni e ricompense) non fanno cambiare il comportamento e la persona, nell’agire come vuole, sperimenta gioia. c) Perfettivo. Nel comportamento virtuoso è messo in gioco tutto ciò che costituisce la persona dal punto di vista biografico e del suo rapporto attuale con il mondo e con gli altri, ossia tutto ciò che è stata, è e sarà. Più che la dimensione del passato, sottolineata in diverso modo dalla psicoanalisi, dal comportamentismo e dal cognitivismo, nel comportamento virtuoso influisce il presente, soprattutto attraverso l’integrazione dei livelli (inclusi la percezione e l’ambito tendenziale-affettivo), e il futuro, giacché rientra in un progetto di vita buona, più o meno conscio, aperto ai cambiamenti propri delle relazioni con il mondo e gli altri, che a poco a poco perfeziona il proprio carattere. Le passioni sono, perciò, la base delle virtù: la virtù non è altro che quel “giusto mezzo” che ci permette di sperimentare la passione adeguata, nel momento adeguato, e nei confronti di una realtà adeguata. Per questo motivo si può usare il termine di una passione per riferirsi a una virtù come accade nel caso del coraggio. La passione non conosce questo “giusto mezzo” poiché essa non è razionale, mentre le virtù introducono nella vita affettiva questo giusto mezzo. Oltre all’affettività, le virtù integrano la totalità della persona: essa 242

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L’integrazione della persona nell’agire

diventa più ciò che vuole essere. Si tratta di un’integrazione che è tipicamente etica. Come dice Socrate (470/469-390 a.C.) è meglio “subire ingiustizia che fare ingiustizia”17: infatti, subirla vuol dire al massimo distruggere il corpo senza però intaccare l’anima, mentre la persona che fa ingiustizia, diventa ingiusta. L’ingiustizia non resta fuori ma si radica all’interno della persona dis-intregandola: questo “diventare ingiusto” non è totale perché c’è la possibilità di pentirsi e di convertirsi facendo azioni giuste. Per questo motivo l’abito etico è cosi importante: si entra in un’altra dimensione che non è quella semplice della spontaneità o di una libertà qualsiasi bensì di una rivolta verso la verità. Nella misura in cui noi vogliamo secondo la verità personale diventiamo più “noi stessi”. Se vogliamo, invece, contro questa verità, ci allontaniamo da noi stessi. Anche se a volte si vede la virtù come qualcosa di esterno, di abitudinario ciò è falso poiché la virtù è la vera autenticità. L’integrazione etica fa riferimento proprio alla consonanza della persona con la sua verità. Insomma, abbiamo tre tipi d’integrazione e, di conseguenza, di disintegrazione: potenziale, attuale e abituale. L’integrazione potenziale corrisponde al livello metafisico-antropologico dell’agire, mentre quelle attuale e abituale corrispondono al livello antropologico-etico. L’integrazione attuale si realizza attraverso gli atti buoni, quella abituale mediante le virtù. Il carattere è, dunque, la struttura personale risultante dall’unione del temperamento o integrazione potenziale, esperienze pratiche o integrazione attuale e, soprattutto, delle virtù o integrazione abituale. L’integrazione che si produce attraverso il comportamento virtuoso manifesta l’unità sostanziale della persona e nello stesso tempo la perfeziona mediante una maggiore unione fra i diversi livelli che la compongono (tendenziale, affettivo, cognitivo e pratico) e le sue relazioni interpersonali: famiglia, amicizie, diversi tipi di comunità, istituzioni sociali.

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«Se fosse necessario scegliere tra subire un’ingiustizia o commetterla, preferirei subirla» (PLATONE, Gorgia, 469c).

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Capitolo decimo

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L’azione umana all’origine della cultura

1. Natura e cultura Per molti nostri coetanei, natura e cultura sembrano essere due concetti antitetici. Secondo alcuni autori postmoderni, come Michel Foucault (1926-1984)1, la natura sarebbe: oggettiva o corrispondente a universali, immutabile o non storica, e prescrittiva o origine di divieti. Mentre la cultura sarebbe: soggettiva o corrispondente ai soggetti, cangiante o relativa alla storia, e descrittiva o costituita di un insieme di codici simbolici. Dato che le tre note di questa presunta natura – oggettività, immutabilità e prescrizione – non si troverebbero nell’uomo, Foucault conclude che il concetto di natura umana non esiste; sarebbe solo un prodotto culturale che si forma lungo la storia. Questa divisione della realtà in categorie dialettiche è, come tenterò di mostrare, sbagliata poiché concepisce la natura umana come qualcosa di astratto che prescinde dagli aspetti biografici, storici e sociali, e la cultura come realtà autoreferenziale senza fondamento2. 1 Nella critica della natura, la tesi di Foucault è determinante, poiché la considera null’altro che una costruzione culturale: «l’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se a seguito di qualche evento […] precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia» (M. FOUCAULT, Le parole e le cose, BUR, Milano 1998, p. 415). 2 Su questo punto mi permetto di rimandare al mio saggio La natura umana in rapporto alla cultura e alla libertà, in F. Russo (a cura di), Natura, cultura, libertà, Armando, Roma 2010, pp. 15-38.

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Capitolo decimo

È vero che i termini natura e cultura sono stati interpretati lungo i secoli in modi differenti. Per esempio, nell’antichità greca il termine natura (physis) riguardava tutti quegli esseri che hanno in se stessi il principio del movimento e del riposo. Per riferirsi, invece, alla cultura si usavano diversi termini: technê (tecnica), nomos (legge), epistêmê (scienza). La technê aveva come scopo addomesticare la natura fisica, il nomos educare la natura umana e l’epistêmê formare l’intelligenza. Quindi, la cultura, in tutt’e tre le forme, non sarebbe altro che un perfezionamento della natura o continuatio naturae3. Comunque, anche se l’idea di cultura come continuità della natura è greca, il termine “cultura” non è greco ma latino. Infatti, “cultura” deriva dal verbo colere “coltivare”. Esso ha un triplice senso: fisico (coltivare la terra), etico (educare la persona), e religioso (rendere culto a Dio)4. Quindi, oltre i due sensi che si trovano già nel greco (tecnico ed etico), il termine latino aggiunge quello religioso o di relazione con la trascendenza. Nonostante le differenze dei rispettivi campi semantici, si osserva che tanto in greco classico quanto nella lingua latina “natura” e “cultura”, lungi dall’opporsi, si armonizzano nell’azione umana (tecnica, etica, scientifica e religiosa). Ciò è dovuto al fatto che la natura è origine sia dei dinamismi vitali sia dell’azione umana, ma in modo diverso: dei dinamismi senza la partecipazione della libertà umana, dell’azione invece mediante il suo uso. Mentre la cultura è origine delle determinazioni di quella natura attraverso l’agire. La natura non va dunque intesa – contro la concezione postmoderna – come pura biologia, bensì come radice e destino della libertà: la persona nata dall’amore è destinata ad amare. Il suo carattere di fondamento ci permette di rintracciare nella natura altri aspetti che, parimenti, non sono biologici come, ad esempio, la struttura somatico-psichico-spirituale della persona, le sue potenzialità originarie (sensibili, intellettive e volitive), le inclinazioni che sono alla base dell’esperienza affettiva e valutativa della persona e, soprattutto, il rapporto che la persona ha con la realtà in tutta la sua portata ontologica. Infatti, all’uomo tutto questo 3 Questa è, ad esempio, la definizione aristotelica di arte (cfr. L. POLO, Quién es el hombre. Un espíritu en el tiempo, Rialp, Madrid 19932, pp. 154-183). 4 Nel senso di “civiltà”, il termine cultura viene dal tedesco Kultur (cfr. G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990, p. 113).

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L’azione umana all’origine della cultura

è dato «in un compito della ragione integralmente compresa, non ridotta al solo intelletto pragmatico e calcolante, un compito che appella a una libera risposta in noi stessi. L’animale ha già subito un “ambiente”, l’uomo ha (deve formarsi) un “mondo”, e per realizzare questo egli è necessariamente rinviato alla cooperazione con i suoi simili»5. Nella relazionalità dell’uomo con il mondo, gli altri e se stesso, si scopre un’idea di natura che non è oggettiva – nel senso di astratta e impersonale – né statica, poiché il rapporto dell’uomo con la realtà è fonte di perfezionamento personale, ma sì prescrittiva non in modo immediato, bensì attraverso la ragione che è in grado di scoprire il modo in cui la natura deve integrarsi nella persona, ossia deve personalizzarsi. Dunque, nella persona ciò che è naturale non si limita a quanto l’uomo è dal punto di vista della sua identità individuale, ma contiene anche la sua stessa capacità relazionale. A differenza delle caratteristiche individuali, la relazionalità non è data però né come struttura in atto né come potenza necessaria, bensì come libertà originaria o apertura. Da questa prospettiva, la libertà appare come quella potenzialità di tutta la persona grazie alla quale essa può entrare in rapporto con la propria natura aprendola all’alterità, cioè al mondo e agli altri. Ecco la complessità della natura umana: essa contiene in sé, come potenzialità, la libertà che permette alla persona di uscire da sé verso l’altro (trascendenza) e di ritrovarsi in sé in un modo superiore (l’immanenza dell’amore). Ciò era stato già compreso da Aristotele quando, nel parlare della virtù, la definiva quasi come una seconda natura, nel senso di una natura perfezionata6. Siffatto potere di perfezionamento consente di ottenere il fine personale, nella misura in cui esso non è raggiungibile in modo necessario ma libero. Nell’esistenza di un fine personale non necessario scopriamo l’esistenza di tendenze naturali che, per poter essere compiute, hanno bisogno della libertà e, quindi, della cultura (intesa in senso ampio, e cioè come educazione). Queste tendenze – come si è visto – possono essere raggruppate in tre nuclei tematici: quelle della vitalità (sopravvivenza, alimentazione, riproduzione), quelle dell’Io individuale (possesso, potere, stima, autostima) e 5 M. IVALDO, Persona umana e natura umana, in V. Possenti (a cura di), Natura umana, evoluzione ed etica, Guerini, Milano 2007, p. 230. 6 «Le virtù non si generano né per natura, né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, II, 1103a 24-26).

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Capitolo decimo

quelle della transitività o trascendenza (creatività, appartenenza, amicizia, amore umano)7. Oltre ad essere libera, la natura umana è, dunque, soggetto di tendenze, in particolare di quelle transitive, perché, sebbene esse implichino un bisogno, si tratta di uno molto speciale: il dare e ricevere amore. Ne deriva che la natura sia la condizione di possibilità della condivisione di esperienze e delle relazioni fra le persone; l’empatia, simpatia, giustizia, donazione, ecc., hanno qui il loro fondamento. Certamente, la base di questi fenomeni non è né un atto né una facoltà, bensì una possibilità. Insomma, l’origine del rapporto fra natura e cultura deve essere cercato sia nella libertà sia nelle tendenze umane. I bisogni umani per essere soddisfatti in modo personale richiedono la relazionalità (almeno come capacità) e un certo grado di cultura. La libertà appare, così, come caratteristica distintiva della natura umana. L’opposizione fra natura e cultura è, quindi, falsa. Fra loro si dà, piuttosto, una certa circolarità: la cultura presuppone sempre la natura umana (i bisogni, le tendenze e la libertà), e la natura umana – per poter perfezionarsi – la cultura, cioè la relazione attuale fra diverse libertà. La cultura non può far scomparire la natura (i bisogni, le tendenze e la stessa libertà), può invece modificare il modo di manifestarsi, di soddisfare i suoi bisogni, di relazionarsi. In breve può determinare la natura, ma non sostituirla. La complementarietà fra natura e cultura non può essere compresa, però, se si pensa che il fine dell’uomo sia solo biologico, giacché la cultura appare allora come finzione che presenterebbe come reali delle vere e proprie illusioni: la verità, la bellezza, la giustizia, l’amicizia, Dio. È interessante sottolineare le conseguenze che la credenza in una natura, come qualcosa di opposto alla cultura, portano con sé: la natura è intesa come puro fatto biologico e la cultura come una pura costruzione. Biologismo e costruzionismo culturale finiscono così per essere le due facce di una stessa medaglia.

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La tendenza sessuale umana non si riduce ad essere un’espressione del livello vitale della natura umana, ma fa parte anche delle inclinazioni dell’Io e, soprattutto, della transitività. Una tale complessità dipende dal fatto che la sessualità umana non fa riferimento a una parte della persona, bensì alla sua totalità. Su questo punto mi permetto di rimandare il lettore al mio saggio Antropologia dell’Affettività, cit., pp. 286-289.

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L’azione umana all’origine della cultura

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2. L’azione umana come sintesi di natura e cultura Se dipende dalla libertà originaria, allora l’unione fra natura e cultura incomincia con la nascita di ogni persona umana8. Ciò nonostante, quest’unione diventa operativa per mezzo dell’azione umana9. Nell’azione le condizioni di possibilità che sono naturali diventano realtà culturali (di carattere tecnico, simbolico, storico, politico), cioè realizzazione di queste possibilità. Ad esempio, il linguaggio – come capacità che ogni neonato umano ha – è naturale ma nessun linguaggio al mondo lo è: esso consiste sempre in una realizzazione culturale10. Sebbene si scopra all’origine dei fatti culturali sia in modo necessario (l’esistenza del linguaggio) sia solo come possibilità (l’uso, ad esempio, dell’energia solare), la natura umana ha la peculiarità di essere sempre modellata dalle realizzazioni culturali. Questo significa che la nostra natura non consiste soltanto in ciò che noi siamo, ma anche e soprattutto in ciò che facciamo e possiamo fare. In tal senso si può capire come l’uomo, attraverso il suo agire e, quindi, attraverso la cultura, possa trascendere se stesso o – come dice Blaise Pascal (1623-1662) 8 «Solo assumendo come punto di riferimento questa differenza profonda tra la natura e la cultura – tra l’indisponibilità degli inizi e la plasticità delle pratiche storiche – il soggetto agente può attribuire a sé quelle prestazioni, in mancanza delle quali egli non saprebbe intendersi come l’iniziatore delle sue azioni e delle sue pretese. Infatti, l’essere-sé-stesso della persona richiede sempre un punto di riferimento prospettico che trascenda le coordinate tradizionali e i nessi d’interazione del processo biografico di formazione dell’identità» (J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, p. 60). Anche se l’intreccio natura e cultura si dà già con la nascita, mi sembra che il modo in cui Habermas consideri la natura e la cultura non sia corretto, poiché la natura umana non si trova solo agli inizi della persona, ma è sempre presente; senza la natura, la cultura scomparirebbe. 9 Secondo Mosterín, la cultura nel suo senso più specifico è il risultato dell’azione umana (J. MOSTERÍN, Filosofía de la cultura, Alianza, Madrid 1993, pp. 18-21). 10 Il frate francescano Salimbene de Adam (1221-1288) racconta nella sua Cronica che l’imperatore Federico II voleva sapere quale fosse il linguaggio naturale dell’uomo. A questo scopo, prese un gruppo di bambini orfani e fece su di loro il seguente esperimento: proibì alle balie, le sole persone che li curavano, di rivolgere loro la parola. L’imperatore pensava che, in questo modo, essi avrebbero parlato greco, latino o arabo. Quale non fu la sua sorpresa quando, poco tempo dopo, seppe che, oltre a non essere riusciti a parlare alcuna lingua, i bambini erano morti (SALIMBENE DE ADAM, Cronaca, Diabasis, Reggio Emilia 2006).

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Capitolo decimo

in uno dei suoi celebri pensieri – che «l’uomo supera infinitamente l’uomo»11. L’accostamento della cultura all’agire umano permette di capire che il rapporto fra “natura” e “cultura” rientra in quello più ampio fra essere e agire; quest’ultimo inteso in senso ampio: non solo come praxis o agire etico, ma anche come poiêsis (fare), technê (tecnica) e theoresis (teoria). Poiché non c’è un agire senza un essere, nel rapporto naturacultura si osserva la dipendenza originaria della cultura nei confronti della natura. Infatti, il nucleo essenziale dell’azione umana consiste nella sua appartenenza al vivere personale, perché essa è un atto vitale. Le operazioni vitali però non si riducono alla perfezione del proprio vivente, giacché implicano un rapporto con ciò che il vivente non è, ossia con tutte le altre realtà, specialmente – nel caso delle persone – con gli altri esseri personali. Ne deriva che gli atti dei viventi hanno o possono avere due dimensioni: quella che riguarda il vivere del vivente o operazione immanente, e quella che riguarda il rapporto fra vivente e altre realtà o operazione transitiva, o meglio ancora trascendente12. I viventi si distinguono, quindi, non solo per il diverso tipo di immanenza, ma anche per il diverso tipo di trascendenza. I vegetali, ad esempio, influiscono sulla realtà esterna in un modo diverso da quello proprio degli animali, ma ugualmente importantissimo: basti pensare alla funzione che essi svolgono nell’ecosistema attraverso la fotosintesi. Gli animali, dal canto loro, anche se introducono molti cambiamenti nell’ambiente in cui si trovano, di solito non modificano l’equilibrio dell’ecosistema13. Ciò è dovuto al fatto che l’animale tende ad adattarsi all’ambiente, per cui si parla delle sue operazioni come di un comportamento istintivo14. 11 Tale trascendenza dell’uomo si trova, secondo Pascal, nella natura: «La natura dell’uomo è in tutto natura: omne animal. Non c’è nulla che non si possa rendere naturale, né nulla di naturale che non si possa far scomparire» (B. PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, n. 247). 12 Invece di definirla operazione “transitiva”, secondo la terminologia di origine scolastica, preferiamo chiamarla operazione “trascendente”, perché la transitività è limitata alle operazioni che influiscono su un’altra realtà attraverso il moto fisico, mentre, come vedremo, la trascendenza non include necessariamente il moto. 13 Con ciò non voglio negare che ci siano comportamenti animali che possono produrre, come del resto è accaduto, degli sconvolgimenti ambientali, ma solo affermare che essi sono rari. 14 Secondo Scheler, l’istinto non sarebbe «una reazione a un contenuto dell’ambiente, particolarmente cambiante da un individuo a un altro, bensì solo a una spe-

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L’azione umana all’origine della cultura

L’adattamento all’ambiente ha come principale scopo la stessa vita dell’animale e attraverso di esso della specie, giacché l’impossibilità di adattarsi comporta la morte. La trascendenza delle azioni dell’animale non può quindi andare oltre la pura vita istintiva, in cui l’adattamento si realizza in modo necessario. Si stabilisce così un rapporto fra azione istintiva e aumento di perfezione dell’animale: tutte le operazioni in cui l’animale segue il proprio istinto implicano la crescita verso la sua entelecheia. Certo, alcune azioni degli animali ammettono anche un certo miglioramento in se stesse (rincorrere la preda, fuggire dal pericolo, difendere i cuccioli, ecc.), ma esso è giudicato solo in base alla maggiore o minore accomodazione all’ambiente. In questa prospettiva, l’azione migliore, sarà quella più adattativa. L’azione umana presenta una certa somiglianza con le operazioni degli animali, perché entrambe possono produrre degli effetti sulla realtà. La perfezione delle azioni umane non consiste però nell’adattamento istintivo, ma nella costruzione di un mondo in cui è possibile vivere come persona15. L’influsso della trasformazione del mondo sulla persona e di questa sul mondo non ha confronti con quanto accade fra gli altri viventi. Infatti, anche se si può parlare di un perfezionamento dell’animale quando esso agisce sull’ambiente, esso si riferisce solo all’attualizzazione delle potenzialità istintive, per cui sarebbe di tipo ontologico: qualsiasi atto istintivo implicherebbe una perfezione ontologica, ossia un passaggio dalla potenza all’atto. Nel caso dell’azione umana si ha, invece, non solo la potenza ma anche la possibilità di perfezionamento del mondo e delle persone, che è di tipo etico. Lo scopo dell’agire è l’umanizzazione della realtà. Il che non significa che la cultura non possa anche disumanizzarla, come accade con le tecniche di fecondazione artificiale e in generale quando si usa la persona come un mezzo. Ecco perché, nel trasformare il mondo, la persona non resta immutabile, ma sperimenta un cambiamento in tutti i differenti livelli cialissima struttura, a una disposizione archetipica delle parti possibili dell’ambiente (Umwelt)» (M. SCHELER, Die Stellung des Menschen im Kosmos, cit., p. 21). 15 Ciò non significa che, modificando l’ambiente, l’animale non lo adatti in un certo senso alle proprie esigenze vitali, ma solo che, a differenza dell’uomo, non può andare oltre i condizionamenti creati dal plesso istinti-ambiente, per cui i cambiamenti sono sempre relativi ai condizionamenti. L’uomo, invece, mediante l’oggettivazione della realtà, può staccarsi da una visione puramente istintiva, trasformando l’ambiente in mondo (cfr. ivi, p. 86).

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Capitolo decimo

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che costituiscono la sua struttura corporea-psichica-spirituale, le sue relazioni con il mondo e gli altri. In conclusione, nell’azione umana si realizza una circolarità perfettiva senza fine: la realtà si adatta alla persona dando origine così al mondo umano, il quale a sua volta può aiutare a renderla più perfetta. Questo processo non conosce un termine intrinseco, perché, da una parte, il mondo non si adatterà mai completamente alla persona; dall’altra, perché la persona non troverà mai la sua perfezione in nessuna trasformazione del mondo.

3. La topica della cultura: le attività tecniche, giuridiche, etiche, scientifiche, artistiche e religiose Il rapporto fra natura e cultura, comunque, non si riduce a quello esistente fra condizione di possibilità o capacità, e la loro realizzazione, ma è più complesso: l’azione umana, o realizzazione culturale, non solo determina la natura continuandola16, ma la modifica anche nei suoi diversi livelli attraverso l’avere o abito predicamentale17. Quali sono i livelli dell’avere? Tenendo conto della struttura somatico-psichico-spirituale della natura umana i livelli sono tre: quello legato in qualche modo alla corporeità, quello simbolico e quello legato direttamente allo spirito18. a) A livello delle potenzialità organiche e delle tendenze vitali, il modo di possedere la realtà è costituito dalla tecnica. La funzione pri16 Secondo Aristotele, l’arte, in quanto espressione originaria della cultura, altro non sarebbe che una imitazione della natura (Aristotele, Fisica, II, 194a 21-22; 199a). Sul significato di quest’espressione può vedersi: L. Polo, Quién es el hombre, cit., soprattutto il capitolo X. 17 L’exis o habitus esprime un possesso entitativo ed operativo continuato di qualità, come le virtù (abiti etici), la scienza (abiti dianoetici), ma anche realtà sensibili, come l’anello, il vestito, ecc. 18 In modo simile, Lawton parla di un gruppo di sistemi distribuiti in nuove dimensioni o universali culturali (sistema socio-politico, economico, comunicativo, razionale, tecnologico, morale, di credenze, estetico e di maturità). In realtà tutti possono essere ricondotti ai tre livelli del composto umano: organico, psichico e spirituale (D. LAWTON, Education, Culture and the National Curriculum, Hodder & Stroughton, London 1989, pp. 17-23).

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L’azione umana all’origine della cultura

maria della tecnica, supplire alla mancanza di organi specializzati, si dovrebbe collegare sistemicamente con la mancanza di formalizzazione definitiva della corporeità umana, specialmente del cervello, e con l’uso della razionalità strumentale. A questa funzione primaria se ne potrebbero aggiungere, per lo meno, altre due riguardanti anche gli organi: l’intensificazione e l’agevolazione. Infatti, gli strumenti servono non solo a sostituire la mancanza di organi per alcune attività, come accade con l’ascia che permette di tagliare, ma anche a intensificare le funzioni di quelli esistenti. Per esempio il martello concentra in un punto la potenza del braccio, il microscopio aumenta la potenza della vista, il cellulare quella di sentire e parlare, internet quella di comunicare allo stesso tempo con molte persone di differenti parti della Terra, e così via. Insomma, gli strumenti potenziano le facoltà fisiche sensibili e alcune funzioni della ragione, come il calcolo e l’organizzazione di mezzi e fini. D’altra parte gli strumenti agevolano o alleggeriscono la fatica dell’organo: un veicolo su ruote rende superfluo trascinare a mano oggetti pesanti19. Infine, a questa triplice funzione si dovrebbe aggiungere un quarto tipo in grado di modificare la stessa struttura interna della natura: è «quello per cui la tecnica ripara-reintegra processi naturali altrimenti difettosi (una parte delle recenti tecnologie della vita cade sotto questo caso)»20, oppure produce dei nuovi processi, come la fusione nucleare. Forse ciò che accomuna le diverse funzioni strumentali è l’essere oggettivazioni di una ragione in grado non solo di universalizzare (infatti ogni strumento è come l’universalizzazione di un’azione: inchiodare, tagliare, sollevare, ecc.), ma soprattutto di stabilire dei fini (ogni strumento è mezzo al servizio di un fine). Come ha già segnalato Hegel, c’è però un divario fra i fini con cui sono stati creati gli strumenti e le possibilità che si nascondono in essi: la macchina modifica non solo il lavoro, ma anche la relazione fra tecnica e lavoratore,

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«Chi viaggia in aereo ha i tre princìpi riuniti in uno: l’aereo sostituisce le ali che non ci sono cresciute, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia fatiche dirette a chi vuole recarsi in posti molto lontani» (A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà occidentale, SugarCo, Milano 1984, p. 12). 20 V. POSSENTI, Prometeo scatenato? La tecnica fra utopia e apocalisse, in V. Possenti (a cura di), La tecnica, la vita. I dilemmi dell’azione, Annuario di Filosofia 1998, Mondadori, Milano 1998, p. 39, nota 2.

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in quanto sottomette il secondo alla prima21. Lo strumento, quindi, crea il mondo (fatto da strumenti e opere che durano più a lungo della vita delle persone) che si adatta alla persona, in primo luogo alla mano (strumento degli strumenti), e a sua volta l’uomo si adatta al mondo creato dagli strumenti, che condizionano la sua vita, il suo operare e, in parte, il suo modo di pensare. Anche se non sono date con la nascita, queste possibilità realizzate dalla tecnica sono naturali, perché si riferiscono a ciò che è utile e piacevole alla natura umana. Si comprende allora il motivo per cui la tecnica è collegata fondamentalmente ai valori di utilità e di piacevolezza e, in questo senso, si deve affermare che essa è una continuazione della natura. Ma, come ha osservato Heidegger, oltre a continuare la natura, la tecnica introduce anche qualcosa di nuovo: il senso di un rinvio continuo. Ad esempio, nella sedia, i chiodi rinviano al martello, il martello ad altri strumenti, gli strumenti alla mano. Questo rinvio dell’essere-alla-mano (Zuhanden) ha un senso ovvero una meta umana o worum: nella sedia, il senso è l’azione del sedersi. Il senso della tecnica deriverebbe, quindi, dall’attività a favore di cui è la serie della Bewantnisse o ragione strumentale22. La tecnica trasforma così la natura (legno, pietra, ferro) in mondo umano (chiodo, martello, sedia, tavolo, stanza, casa, e così via), il quale ha come caratteristica servire da abitazione agli uomini, per cui si può affermare che il mondo è un Mitwelt, un mondo con l’altro (includendo anche gli oggetti e animali addomesticati), ma soprattutto con gli altri, cioè il Mitwelt è anche un Mitsein, essere-con. Sebbene Heidegger abbia colto un aspetto essenziale del mondo, e cioè l’insieme di rinvii in cui esso si trova inquadrato, la sua riduzione della prassi alla tecnica presenta una difficoltà, quella di concepire il mondo umano come un sistema aperto perché costituito da una molteplicità di possibilità senza che nessuna di queste sia ultima. In altri termini, il problema della tesi heideggeriana consiste nel fatto che il semplice rinvio non è in grado di dotare di senso ultimo l’azione umana e, quindi, la cultura. Infatti, come afferma Heidegger, la sola trascendenza

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«Lo strumento è il medio razionale esistente, l’universalità esistente del processo pratico» (G.W.F. HEGEL, Jenenser Realphilosophie (1804-1806), in Sämtliche Werke. Kritische Ausgabe, herausg. von G. Lasson, Leipzig 1932, I, p. 221). 22 Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., I, pp. 14-24.

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di questo rinvio si raggiunge per mezzo della possibilità più propria dell’Esserci, ossia la morte (il non essere-alla-mano simpliciter)23. La difficoltà di trovare un senso per vivere in una cultura ridotta al rinvio incessante è forse quello che si osserva nell’attuale cultura tecnologica, cioè nella costruzione di un sistema infinitamente aperto in cui si perde di vista la stessa distinzione fra mezzi e fini, giacché i fini diventano a loro volta mezzi per ulteriori fini. Di fronte al problema del senso nella cultura tecnologica, non mancano le proposte per ridare valore all’azione e alla vita umana. Mentre alcuni propongono un ritorno alla natura, altri vedono nella tradizione l’ancora di salvezza. Secondo i difensori dell’ecologia profonda solo il contatto diretto dell’uomo con la natura e la sua consapevolezza di essere radicalmente naturale potrebbe impedire la scomparsa della stessa specie umana minacciata dalle conseguenze della tecnica. Secondo i tradizionalisti, il rinvigorimento delle tradizioni e delle istituzioni premoderne potrebbe evitare i rischi della deriva nichilista della eugenetica liberale. Coloro che cercano di riempire il vuoto di senso con le tradizioni, non tengono presente che il senso di cui ha bisogno la cultura non può essere particolare ma universale. Sebbene si esprima in una pluralità di modi particolari, il senso deve fare riferimento a valori universali (come quelli di lavoro, festa, matrimonio, amicizia, tolleranza, pace, solidarietà) che devono essere incarnati in modo differente secondo le circostanze di luogo e di tempo. D’altro canto, anche se il senso tramandato dalla tradizione ha o può avere un fondamento di verità e quindi essere universale, perché possa influire sulla cultura deve essere assunto solidalmente dalla collettività ed insegnato alle nuove generazioni. La trasmissione del senso equivale, allora, a incarnare culturalmente il senso fondato e assunto. In definitiva, il senso deve essere riscoperto da ogni generazione; la tradizione non può generarlo, solo tramandarlo. b) La dimensione dell’avere dalla prospettiva della sensibilità, dell’affettività e della comunicazione interpersonale è il simbolo. Di 23 Secondo Heidegger, la domanda sul senso dell’essere corrisponde all’uomo non solo in quanto è l’in-vista-di-cui, bensì in quanto si pone la domanda stessa, cioè in quanto Esserci (Dasein). E il Dasein è l’essere-per-la morte, poiché la morte è la «possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile» (M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p. 315)

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fronte allo strumento, il simbolo non fa riferimento al rinvio continuo a un sistema, bensì a una realtà che lo trascende giacché, senza essere spirituale, è manifestazione della spiritualità umana, come si osserva nell’espressione delle emozioni. Nel simbolo – già nell’ambito affettivo – si dà una sintesi di natura e cultura superiore allo strumento. Anche se esiste un linguaggio naturale dell’affettività (tristezza-pianto, gioia-riso), in esso c’è spazio per la norma e la convenzione. Così gli eschimesi manifestano il loro affetto strofinandosi il naso a vicenda, gli occidentali baciandosi o abbracciandosi. Comunque le possibilità di manifestazione degli affetti sono ridotte, perché il mezzo simbolico per comunicarli è il corpo umano. Il linguaggio e, soprattutto, le belle arti hanno un maggiore simbolismo. Il simbolismo del linguaggio è minore di quello delle belle arti. Esso si trova più vicino alla natura sia per lo strumento di comunicazione adoperato (i suoni) sia per il riferimento alla realtà (il significato) e all’uso (valore pragmatico). È vero che nel linguaggio esiste un’importante dose di convenzione, soprattutto nel combinare i segni linguistici e nelle regole grammaticali usate. Ciò nonostante, sono le cosiddette belle arti ad avere un maggiore grado di simbolismo, poiché sia gli strumenti (colori, figure, forme, musica, ecc.) sia quanto viene comunicato è più vicino allo spirito, ossia non legato al piacere fisico né all’utilità. L’avere simbolico, proprio della creazione artistica, aggiunge al mondo umano degli elementi che lo rendono più prezioso, più confacente cioè al valore delle persone che lo abitano. Su questa stessa capacità simbolico-normativa si basa il diritto e la morale. Per gli psicoanalisti – come Freud – e gli antropologi strutturalisti – come Claude Lévi-Strauss – l’origine della cultura si trova nella proibizione dell’incesto. Esso sarebbe il primo simbolo – Freud – o la prima comunicazione fra gruppi umani portatrice di esogamia e pace, invece di endogamia e conflitti – Lévi-Strauss. René Girard spiega la nascita della cultura attraverso il meccanismo della violenza mimetica. L’origine non sarebbe una proibizione bensì il desiderio mimetico umano che, nella sua identificazione con il modello, porta alla rivalità, alla lotta di tutti contro tutti e, finalmente, al sacrificio di un capro espiatorio con cui frenare la violenza. Ciò che qui interessa non è tanto vagliare l’attendibilità di queste tesi quanto mostrare come in linea di massima tutte quante difendano il ruolo fondamentale che la cultura svolge nell’evoluzione dell’uomo. Le differenze dipendono, soprattutto, dal 256

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modo di concepire questo ruolo: secondo l’antropologia strutturalista si tratta di un processo di ominizzazione, per cui prima del tabù dell’incesto l’uomo non si distinguerebbe dagli animali, vale a dire il divieto non avrebbe un fondamento naturale ma culturale. Secondo Girard, invece, la cultura inizia il processo di umanizzazione. Poiché non è in grado di inibire la propria violenza, la specie umana avrebbe bisogno di un freno esterno: un capro espiatorio. Il sacrificio, che compare in tutte le religioni e letterature, ha la funzione di canalizzare la violenza verso una vittima. Quindi, Girard – come i maestri del sospetto: Freud, Nietzsche e Marx – pensa che la cultura nasconda un fondamento inconfessabile, l’uccisione di una vittima innocente, che poi sarebbe divinizzata dando luogo ai primi riti religiosi. Secondo l’opinione di Girard, solo attraverso il cristianesimo, concretamente attraverso il sacrificio della vittima totalmente innocente raccontato dai Vangeli, sarebbe smascherato questo fondamento. Per questo motivo il sacrificio dei capri espiatori avrebbe perso il suo ruolo inibitore, il che porterebbe a un increscendo della violenza. Anche se costituisce un elemento chiave della psiche umana, il desiderio mimetico non è il fondamento della cultura, bensì ciò che in altra sede ho chiamato l’asimmetria originaria fra le persone, in virtù di cui siamo riconosciuti e amati prima di poter riconoscere e amare gli altri. Grazie a questo riconoscimento il corpo del neonato entra nel mondo umano come figlio. Essere figlio significa essere generato e, quindi, entrare a far parte di una relazione triangolare costante che solo l’incesto può modificare: in quanto, come nel caso di Edipo, il figlio si trasforma in padre attraverso la propria madre, per cui i suoi figli sono anche i suoi fratelli. Per questo motivo l’origine della cultura umana non è la violenza, bensì la giustizia, certamente non nella forma della pura reciprocità di diritti e doveri, ma piuttosto di relazioni asimmetriche. Ne deriva la sterilità di separare radicalmente diritto e morale, come se il primo fosse eteronomo e la seconda autonoma (Kant) o come se il primo avesse come forma la coercizione (Keynes). Certamente fra diritto e morale c’è differenza, ma non separazione e, ancora di meno, opposizione, poiché tutt’e due hanno in comune questa giustizia asimmetrica. Oltre a occuparsi di giustizia, la morale tiene conto di tutte le altre virtù necessarie per l’autopossesso e la donazione di sé nelle diverse relazioni interpersonali. 257

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c) A livello dello spirito, il modo di avere non è né pragmatico né simbolico, ma interamente trascendente. Infatti, nell’ambito della conoscenza e dell’amore c’è una trascendenza totale sull’utilità e anche sul piacere estetico, in direzione della verità, del bene e della bellezza in se stesse. La capacità di fare e condividere dei giudizi sul bene-male, verofalso, bello-brutto significa che ci sono una serie di realtà trascendenti che, come l’utilità e il piacere, sono per l’uomo ugualmente naturali. Questi valori, a differenza di quello dell’utilità, non creano un sistema di rinvii senza un senso ultimo, bensì un perfezionamento del mondo umano di cui può giovarsi ogni cultura. Ad esempio, l’idea filosofica o il teorema matematico oppure i diritti umani hanno un valore universale che permette loro di poter essere trasmessi a qualsiasi cultura. Da questo punto di vista, sebbene siano state fatte all’interno di una determinata cultura, le scoperte filosofiche e scientifiche trascendono la cultura d’origine. Occorre precisare, comunque, che sono i rapporti di giustizia e di donazione fra le persone a trasformare il mondo in una realtà veramente umana. L’apice della trascendenza si trova nella religione, perché essa è re-ligo o relazione con l’Origine e il Fine della persona umana, che – come sostengono le religioni rivelate – ha il suo punto di partenza nello stesso Dio. Ne deriva che la persona debba soprattutto rispondere alla chiamata divina. Nel rapporto delle differenti libertà riguardo alla costituzione del mondo umano, la cultura si scopre così con un senso, che non è soltanto utile e piacevole, ma soprattutto estetico, cognitivo, etico e religioso. Il senso ultimo della cultura è l’essere-nel-mondo-con gli altri, con cui si collabora per renderlo più umano. Ad esempio, posate, piatti e bicchieri si collocano all’interno di una determinata cultura della tavola la quale fa riferimento sia al bisogno di cibo sia ai rinvii di oggetti e strumenti sia all’arte culinaria sia soprattutto all’essere-con-l’altro e per-l’altro, cioè alla convivialità umana, sia infine, come afferma San Paolo, all’unione con Dio24. In definitiva, la cultura, oltre a costruire il mondo umano, porta sempre con sé un giudizio valutativo di esso, il quale in ultima analisi riguarda la dignità della coesistenza umana. In conclusione, la cultura può essere definita come la totalità di oggetti, produzioni, tradizioni e saperi, storicamente determinata, tra24

«Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor. X, 31).

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smessa e assimilata, fondata sui valori trascendenti che danno senso e orientamento alla Storia umana. I valori trascendenti, su cui dovrebbe basarsi, impediscono che la morte sia l’ultima possibilità. È vero che la morte appare nell’orizzonte come segno della caducità delle opere umane e della finitezza dell’agire umano. Ciò però che essa non può distruggere è l’intreccio delle libertà attorno ai valori e al loro fondamento, alla loro condivisione e all’influsso che essi hanno sulla creatività e l’essere nel mondo delle differenti generazioni.

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4. La realizzazione dell’uomo tramite il lavoro Scienza, arte, politica, tecnica, economia, produzione e distribuzione dei beni sono attività umane, anzi sono diversi tipi di lavori. Quest’idea ampia di lavoro è tipicamente moderna. Infatti, nell’età classica e medioevale alcune attività, come la scienza o l’insegnamento non erano considerate dei lavori ma arti liberali. Secondo Aristotele, ad esempio, il lavoro consiste solo nella poiêsis o produzione, propria dell’artigiano, o nelle mansioni dei servi nella casa, perché tutte queste attività sono transitive, il cui scopo non è l’azione stessa, bensì l’opera prodotta o il servizio prestato. Invece, l’etica e la politica sono praxis o attività che perfezionano il cittadino della polis per mezzo delle virtù e delle costituzioni che promuovono la vita buona. La scienza, invece, è theoresis, perché il suo fine non è la produzione né le virtù etiche che servono per vivere nella città, ma la contemplazione e le virtù dianoetiche (scienza e saggezza). Con la modernità c’è stato un cambiamento di paradigma con il quale il lavoro è stato valutato sempre di più come qualcosa di fondamentale per l’uomo, fino a diventare il modo quasi esclusivo di autorealizzarsi. Per quale motivo il lavoro è essenziale? Apparentemente perché è necessario per soddisfare i propri bisogni e aumentare la ricchezza sia degli individui sia delle nazioni. Questa tesi si basa su un dato evidente della condizione umana: il lavoro è legato alle necessità biologiche e anche al desiderio di possesso, potere e stima. Proprio perciò nell’antichità il lavoro era giudicato qualcosa di servile perché implicava una situazione di bisogno, mentre nella modernità lo si considera il principale modo per avanzare nella scala sociale e migliorare le condizioni di vita. L’idea dell’uomo che grazie 259

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alla sua iniziativa e industria diventa ricco e potente costituisce un pilastro del liberalismo. Senza correggere questa visione biologicistica del lavoro, Marx vi aggiunge quella appartenente alla sinistra hegeliana che vede in esso un’espressione dell’umanità perfetta che c’è in noi. Da questa doppia visione nasce una contraddizione in seno al marxismo: ciò che ha un’origine esclusivamente biologica non può essere fonte di rapporti sociali, se non nel senso della ricerca dell’interesse individuale alla Smith ma tale prospettiva si dimostra spesso contraria alla giustizia e pace sociale, perché non esiste nessuna mano invisibile in grado di armonizzare la somma totale degli interessi individuali. Nell’ascesa del lavoro a valore centrale della cultura moderna, gli esponenti della scuola di Francoforte vedono un pericolo per il bene della persona e della società25. Il lavoro, com’è svolto da tante persone nella società della tecnica, ha come scopo non l’individualizzazione della persona, cioè la formazione di uomini e donne maturi, bensì la subordinazione dell’individuo al genere, attraverso una specie di mimetismo sociale. Ne deriva che «riecheggiando, imitando, copiando coloro che lo circondano, adattandosi a tutti i potenti gruppi di cui entra a far parte, trasformandosi da essere umano in membro di un’organizzazione, sacrificando le proprie potenzialità alla buona volontà e alla capacità di adattarsi a quelle organizzazioni e di ottenere una certa influenza nell’ambito di esse, l’individuo riesce a sopravvivere»26. È vero che, com’è vissuto da tanti nostri contemporanei, il lavoro rappresenta una minaccia alla salute psichica e alle relazioni umane, soprattutto in famiglia. Non tanto, però, perché esso sia elevato al di sopra del suo valore, quanto perché non si riesce a scoprire la sua intrinseca dignità. Non si deve, dunque, cercare il valore ultimo né nell’ambito biologico della soddisfazione dei bisogni, né sul piano sociale dell’arricchimento, del potere e dell’essere riconosciuti, perché questi ambiti, oltre a non esaurire il valore perfettivo dell’agire umano, non tengono conto di due aspetti essenziali del lavoro: la perfezione del mondo e il favorire la crescita umana delle persone. Le due funzioni, inoltre, sono collegate 25

Habermas critica soprattutto l’idea che si possa ridurre la totalità della vita sociale al lavoro, quindi che il lavoro spieghi ed esaurisca i rapporti sociali (i ruoli nel sistema di produzione determinano tutto il resto), divenendo così l’unico modo (cfr. J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari 1990, cap. II). 26 M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, p. 124.

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circolarmente: il perfezionamento del mondo si riversa sulla perfezione della persona, e quest’ultima sul mondo. Il perfezionamento del mondo consiste nel migliorarne le condizioni perché gli esseri umani possano svilupparsi come persone, cioè in conformità con la loro dignità ontologica. Ne consegue che nel lavoro non vi è una neutralità nei confronti del mondo, come un’etica centrata puramente sulla dimensione soggettiva potrebbe invece pensare, poiché la perfezione dell’uomo implica quella del mondo. Il lavoro è così trasformatore del mondo (dimensione tecnica e scientifica) e perfettivo delle persone (dimensione etica e contemplativa). Sebbene la tecnica e le conoscenze siano necessarie, non bastano perché il lavoro sia perfettivo, così come non è sufficiente essere un buon architetto per perfezionarsi nel costruire. La bontà etica della costruzione non richiede solo che l’effetto esterno sia buono: una bella casa, accogliente e solida (dimensione oggettiva del lavoro), né solo la bontà degli effetti interni a livello delle abilità e delle tecniche acquisite per mezzo dell’esperienza27. Essa esige soprattutto che l’effetto sulla persona sia buono (dimensione soggettiva del lavoro)28, il che dipende principalmente dall’intenzionalità di chi lavora. Infatti, oltre alla perfezione tecnica dell’azione, dell’opera, e delle conseguenze positive per un gran numero di persone, l’intenzionalità dell’agente è così importante che, se questa non è adeguata, sottrae perfezione al lavoro ed anche alla persona che lo realizza. Di quale intenzionalità si tratta qui? Di qualcosa che configura dall’interno il proprio lavoro, ossia la presenza amorosa dell’altro. Il professore, ad esempio, nel preparare le lezioni, dovrebbe tener conto delle attitudini degli studenti, e su questa base scegliere il modo d’impostare i temi, gli esempi e quant’altro. La presenza amorosa dell’altro nel proprio lavoro si può chiamare contemplazione. Il lavoro così inteso permette di partecipare alla trasformazione del mondo e al miglioramento delle condizioni umane, e di sviluppare il senso di responsabilità nelle decisioni da prendere e nei progetti da portare avanti. Il 27

La trasformazione dell’arte dalla continuatio naturae aristotelica all’espressionismo romantico, passando attraverso l’arte come fine in se stessa, cioè come gioco, è stata studiata fra gli altri da CH. TAYLOR, Radici dell’Io, cit., nella quarta parte intitolata: “La voce della natura”. 28 Cfr. L. POLO, Sobre la existencia cristiana, EUNSA, Pamplona 1996, p. 107, nota 5.

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lavoro con quest’intenzionalità rende possibile un mondo migliore, più rispondente alla dignità della persona, che essa da sola non è in grado di costruire. Questa trasformazione del mondo potrebbe essere definita umanizzazione29. Di fronte a quest’intenzionalità, ce n’è un’altra che, essendo radicalmente contraria all’essenza dell’amore, rende imperfetto il lavoro e, di conseguenza, fa diventare cattivo il soggetto agente. Ciò accade, ad esempio, quando si costruisce un capannone per immagazzinare oggetti rubati o per commettere impunemente dei crimini. Ci sono poi intenzionalità che, sebbene siano buone in se stesse, una volta assolutizzate trasformano l’azione in qualcosa di cattivo, come la ricerca esclusiva di ricchezza, potere, fama, e di ciò che Gehlen chiama esperienza degli stadi di coscienza o esperienza psichica30. Si può anche assolutizzare la stessa attività, cadendo nel cosiddetto “attivismo”. L’azione ha allora, come intenzionalità, l’espressione della propria capacità, efficacia, ecc.31. Se si esamina ciò che accomuna le precedenti intenzionalità, vi si scopre lo stesso riferimento al proprio Io come senso ultimo dell’agire. Tale rimando essenziale all’Io permette di differenziare l’intenzionalità dal fine che si può aggiungere all’azione già fatta: a differenza dell’intenzionalità, lo scopo accluso non si trova all’origine dell’azione, per cui non è la stessa cosa, ad esempio, cercare la ricchezza per se stessa, ossia per il proprio Io, e cercarla come uno dei fini del lavoro. Infatti, per colui la cui intenzionalità consiste nel diventare ricco, il desiderio di ricchezza non è semplicemente qualcosa di aggregato all’attività, ma è ciò che la configura internamente e, di conseguenza, è presente in tutte le dimensioni dell’azione (tecnica, poietica, ecc.). 29

TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 21, a. 3 c. Questi stadi di coscienza, caratterizzati dal soggettivismo, corrispondono ad «un mondo esterno trasformato dall’industria, tecnicizzato in tutte le sue fibre, in cui si muovono milioni di uomini egocentrici, consapevoli di sé e preoccupati di arricchire la loro esperienza psichica; e per cui l’emozione momentanea, non impegnativa, provocata da stimoli ed impressioni di qualsiasi genere non presenta problemi, non ha nulla di precario: modus dell’evidenza» (A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 106). 31L’attivismo, «nella nostra situazione culturale, marcata dalla tecnologia, con la sua capacità di acceleramento lavorativo e le sue esigenze di automatismo, costituisce forse il rischio più grande» (J. ILLANES, Ante Dios y en el mundo. Apuntes para una Teología del trabajo, EUNSA, Pamplona 1997, p. 223. Sulla distinzione fra attivismo e laboriosità si veda il capitolo X). 30

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Avere come intenzionalità del proprio agire la ricchezza, il potere, la fama, ecc., conduce all’impossibilità che quell’agire sia perfettivo della persona. Qual è la ragione di ciò? A mio parere, è l’inadeguatezza di tale intenzionalità nei confronti dell’azione umana, giacché la persona trascende essenzialmente ciò che è puramente individuale e finito. Infatti, come ho indicato poc’anzi, la perfezione personale va oltre la pura realizzazione del vivere individuale, perché la persona deve collaborare al perfezionamento del mondo e degli altri. Si conferma così un aspetto essenziale del lavoro: la sua relazionalità perfettiva. Questa capacità non è solo opzione, ma è una potenzialità tale da imporre un obbligo al soggetto agente: non usarla significa andare contro la stessa essenza del lavoro e, quindi, contro se stessi. Quando il riferimento agli altri è trascurato, il lavoro si snatura. Perciò l’attività scientifica, ad esempio, non può avere come intenzione né il guadagno, né la fama, né il potere, ma deve mirare alla verità, poiché la sua ricerca è il più grande servizio che si possa prestare alle persone. L’azione umana, specialmente nella sua dimensione tecnica e poietica, non è buona soltanto in base al suo risultato o all’opera, ma anche e soprattutto al servizio che attraverso di essa si presta agli altri. La propria attività acquisisce così una perfezione che va al di là del puro risultato esterno. Infatti, il lavoro in cui l’altro è presente può perfezionare non solo chi lavora ma anche il destinatario di tale attività. La perfezione tecnica del lavoro in cui si esercitano tutte le virtù non è semplicemente un aspetto contingente, ma la condizione necessaria perché vi si manifesti l’amore. Senza la perfezione dell’attività e dell’opera, e senza l’esercizio delle virtù non è possibile un lavoro che costruisca una relazione perfettiva: si può essere diligenti e avari, ma non servire agli altri attraverso la propria attività senza vivere la diligenza, la fortezza, la giustizia, la generosità, ecc. Il collegamento fra le virtù, quindi, dipende necessariamente dall’intenzione del servizio. Forse la virtù più importante nel lavoro è l’umiltà, che ci permette d’imparare sempre dagli altri qualcosa sulla competenza tecnica e sulla generosità, e ci fa curare anche le piccole cose, cioè le cose quotidiane, in cui si mantiene l’intenzionalità amorosa per finire accuratamente i più piccoli particolari32. D’altro canto, la contemplazione amorosa fa 32

Cfr. SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Cammino, Edizioni Ares, Milano 1975, nn. 429, 813, 814, 427.

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sì che la perfezione del lavoro si riversi sul miglioramento delle abilità, della tecnica, della scienza e soprattutto del soggetto agente. Il carattere perfettivo del lavoro umano non è, però, infinito, perché tanto la persona quanto l’azione e la trasformazione operata sono finite. Perciò, la perfezione del mondo e della persona, raggiunta mediante l’attività umana, è sempre segnata da tale limitatezza. D’altro canto, anche se con il lavoro si può aiutare l’altro creando così le condizioni perché si perfezioni, non lo si può migliorare direttamente perché il perfezionamento dell’altro non dipende dall’intenzionalità del proprio agire, giacché egli non è agente del mio agire; in altre parole: nell’amare il bene degli altri mi perfeziono, ma non posso perfezionarli; posso solo collaborare con essi, poiché la loro crescita dipende dal loro stesso amore. Oltre ai limiti propri di ogni attività umana, il lavoro ha anche quelli derivanti dalle circostanze e dalle persone che in qualche modo vi partecipano. La loro accettazione fa parte essenziale dell’umiltà di chi lavora.

5. Progresso tecnico-scientifico e perfezione umana L’idea moderna di progresso ha subito lungo il secolo scorso diverse crisi. Le due guerre mondiali e la guerra fredda con la bomba nucleare come una spada di Damocle sulle nostre teste ci hanno fatto accorgere che lo sviluppo tecnico-scientifico non è necessariamente legato al progresso umano. Negli ultimi sessanta anni allo spettro di un nuovo tipo di guerra mondiale, fatta di molti conflitti in diverse parti del pianeta, si è aggiunto quello della catastrofe ecologica: la fuga radioattiva di Chernobyl (Ucraina), la fusione dei reattori di due centrali nucleari a Fukushima (Giappone), l’inquinamento di laghi e mari, la distruzione della foresta Amazzonica, ecc. Tutto ciò fa capire che il progresso tecnico-scientifico, com’è stato impostato fino ad oggi, lungi dal migliorare sostanzialmente le condizioni umane, spesso le rende più difficili, quando non espone l’Umanità a un evidente pericolo di autodistruzione. Da questo punto di vista, si può parlare di una differenza radicale fra sviluppo tecnico scientifico e progresso umano. È chiaro che lo sviluppo tecnico-scientifico non è di per sé contrario al progresso umano, poiché la tecnica e la scienza costituiscono due grandi beni per l’umanità. Esse diventano, però, dei mali – veramente 264

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L’azione umana all’origine della cultura

grandi – quando si trasformano in assoluto. Ciò ha luogo quando, seguendo una parte del pensiero scientifico odierno, si riduce la ragione a una funzione strumentale. Slegata dal senso della vita umana, la ragione scientifica sembra estranea a qualsiasi tipo di responsabilità, perché crede che il suo compito esclusivo sia raggiungere degli obiettivi o dei risultati previsti attraverso i mezzi più efficaci. Il processo innescato da una ricerca scientifica dominata dalla razionalità strumentale conduce alla creazione di una struttura di dominio potentissima, quella della tecno-scienza-produzione-consumo che, all’assolutizzarsi, corrompe la stessa scienza disumanizzando l’uomo. La ragione applicata alla produzione e al consumo tiene conto solo dell’insieme di regole che permettono di “fare” bene – non d’agire bene – come quelle riguardanti le leggi fisiche-matematiche necessarie per costruire e usare strumenti sempre più perfetti e efficaci, oppure quelle riguardanti la crescita dei beni materiali, il loro scambio e la loro distribuzione. Mediante la loro applicazione, la tecno-scienza si propone non solo di trasformare il mondo, ma anche di creare nuove realtà: virtuale, transgenica, robotica, cyborg, ecc.33, senza curarsi minimamente delle implicanze che queste invenzioni possono avere sul mondo e sulle persone che lo abitano. Specialmente pericoloso a questo riguardo è il tentativo di creazione di un nuovo tipo d’individuo umano senza origine né fine naturale. Così «il mondo diventa umanamente possibile in infiniti modi, ma in pratica ciò che si riesce ad attualizzare (cioè a includere come umano) diminuisce giorno per giorno»34. I prodotti di una tecnica che trasforma il mondo senza tener conto della sua realtà conducono alla perdita di senso dell’azione, la quale appare come puro potere di trasformare senza alcuna finalità intrinseca. Le sole regole che essa deve seguire sono dettate dalla ragione tecnica. Ciò porta all’idea di un mondo in continuo cambiamento, in cui la 33 Il processo che va dalla ragione illuminata a quella tecnica o strumentale è stato studiato, fra gli altri, da Adorno e da Horkheimer: «lungo l’itinerario verso la nuova scienza gli uomini rinunciano al significato. Essi sostituiscono il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità. […] La logica formale è stata la grande scuola dell’unificazione. Essa offriva agli illuministi lo schema della calcolabilità dell’universo» (T.W. ADORNO, M. HORKHEIMER, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 13, 15). 34 P. DONATI, Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, cit., p. 54.

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Capitolo decimo

tecnica sarebbe il solo motore del progresso umano e l’unica causa del benessere35. La tecnica diventa così l’Assoluto che sottomette qualsiasi altra realtà – inclusa la persona – al suo dominio36. Con la perdita di senso, la persona scompare, a poco a poco, assorbita dalla funzione che svolge all’interno del sistema tecnologico. Essa è valutata secondo criteri non personali, come l’utilità e l’efficienza, regolati dalle leggi della struttura, che sono autonome, indipendenti ed estranee ai valori umani. Questa perdita d’identità fa sì che la vita appaia priva di senso, poiché non è progettata né vissuta personalmente, bensì collettivamente, giacché l’individuo deve solo adattarsi a ciò che la struttura propone e desidera da lui. Slegata dal senso, la vita causa angoscia. A volte l’angoscia si fa evidente come nella depressione, permettendo così di scoprire il carattere finito del proprio vivere; altre volte, si nasconde dietro l’apparente infinità delle possibilità della tecnica. Allora il vivere personale, smarrito in esse, diventa sempre più passivo e, quindi, manipolabile dalla struttura di potere, inclusi i mass-media. D’altro canto, le possibilità della tecnica e le trasformazioni della natura biologica e personale tendono a nascondere la creaturalità del finito e, con essa, l’esistenza di un Creatore. La tecnica così concepita pretende non solo di dominare l’uomo, ma anche di cacciare Dio dal mondo, perché fa credere che ogni potere, anche quello creatore, sia stato trasferito ad essa. Come evitare questa disumanizzazione? Secondo Gehlen, una tra35

Seguendo Gehlen, Habermas individua la logica interna dello sviluppo tecnico «nel fatto che l’ambito funzionale dell’agire razionale rispetto allo scopo viene svincolato grado a grado dal sostrato dell’organismo umano e trasposto sul piano delle macchine» (J. HABERMAS, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari 1969, p. 219). 36 Il dominio incontrastato della tecnica prospetta scenari spaventosi: la scomparsa di alcune regioni della terra sotto le acque del mare, la trasformazione di altre in deserto, l’esaurimento delle risorse naturali, le diverse manipolazioni genetiche, psichiche, ecc., della persona, la possibilità di un conflitto nucleare di conseguenze apocalittiche. Ma soprattutto la scomparsa della finalità sia nella persona sia nel mondo: «l’operazionismo tecnico, come l’apriori kantiano, risolve, annulla in sé, sia il soggetto, sia l’oggetto, perché il soggetto si riduce a quelle pratiche di conoscenza che sono le manipolazioni tecniche, e l’oggetto alla reazione della materia (che in sé rimane ignota) a dette manipolazioni. Ma se soggetto e oggetto, spirito e materia acquistano significato solo a partire dall’operazionismo tecnico, l’universo tecnologico si configura come quell’universo intrascendibile responsabile di tutte le possibili significazioni, perché al di là di esso altre non se ne danno» (U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2000, p. 383).

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L’azione umana all’origine della cultura

sformazione radicale di questa sovrastruttura sarebbe possibile soltanto se si «attaccasse ai due estremi: al voler sapere, punto di partenza, o al voler consumare, punto di arrivo del processo. In entrambi i casi l’ascesi, se mai comparisse, sarebbe il segnale di una nuova epoca»37. Anche se ha ragione Gehlen nell’indicare i due estremi che costituiscono la struttura di questo pseudo progresso (il voler sapere e il voler consumare), mi sembra che non si tratti tanto di imporsi dei limiti quanto di orientare la scienza e la tecnica perché siano attività umane, non antiumane. Ciò significa che la ragione non deve limitarsi al come, cioè a una domanda funzionale, ma deve essere aperta alla domanda su chi è l’uomo e su qual è il senso del suo agire. Insomma, il progresso tecnico-scientifico deve sentirsi responsabile nei confronti delle persone e del mondo. Questa responsabilità implica una limitazione volontaria delle proprie possibilità d’agire. La tecnica non responsabile, invece, ha come principio regolativo il puro potere: si deve fare tutto ciò che si può. Quando questo pseudo-principio è accettato, i bisogni e i progetti umani di perfezionamento a tutti i livelli (familiari, sociali, nazionali, globali) cessano di essere l’origine e lo scopo della tecnica, che si trasforma così in una realtà autosufficiente: l’unico fine della tecnica non responsabile è la realizzazione di tutte le sue possibilità. La persona diventa, come sostiene Heidegger, un «im-piegato [be-stellt] al fine di assicurare l’impiegabilità [Bestellbarkheit]»38, cui una tecnica disumana destina tutte le cose. C’è quindi priorità della persona rispetto all’insieme di realtà che la tecnica presuppone (scienza sperimentale, strumenti, capitale, crescita economica e militare) o produce. La tecnica deve essere al servizio della persona e non viceversa. La persona non è essenzialmente un insieme di averi, ma è un essere in relazione39. Sebbene la scienza e 37 A.

GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 106. M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 13. 39 Per quanto faccia un’analisi molto accurata delle trasformazioni e dei pericoli che la tecnica introduce nella società, Gehlen continua ad essere un rappresentante dell’ultima modernità che tenta non più un progresso mitico e ideale, ma una relazione pragmatica fra il complesso scientifico-tecnologico e l’umano. Le difficoltà di tale relazione sono state spiegate da Donati: «tale relazione procede per differenziazione interna ed esterna fra le due sfere, e, quando cerca di introdurre vincoli fra i due, crea situazioni problematiche di indifferenziazione che comportano solo problemi e difficoltà insormontabili. Assumere un punto di vista etico 38

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Capitolo decimo

la tecnica rientrino nell’agire personale e, di conseguenza, i suoi fini e mezzi debbano essere indicati dall’etica, il rapporto fra scienza, tecnica ed etica non è unilaterale, bensì bilaterale. La tecnica, ad esempio, fa capire all’etica che il suo ambito è più ampio di quello corrispondente all’autarkeia (autogoverno) del soggetto, giacché si estende all’uso del potere tecnico e alle sue conseguenze. Infatti, che il senso della tecnica si trovi nella persona non vuol dire che ciò che conta sia solo il soggetto agente, poiché abbiamo visto che l’agire fa riferimento alla perfezione degli altri e del mondo. Perciò non basta che l’atto sia indifferente dal punto di vista etico personale, ma è necessario che sia anche perfettivo. Tale perfezione riguarda anche le future generazioni, che dovranno nascere in un mondo più umano, cioè più degno della persona40. Da qui deriva un aspetto importante del vero progresso: la valutazione delle possibili conseguenze della scienza e della tecnica e del loro uso41. La tecnica non è neutrale né dal punto di vista della perfezione personale di produttori e utenti, né del suo influsso sul mondo, che può essere modificato in modo da diventare disumano o, addirittura, inospitale. Ne deriva che sia gli esperimenti sia le ricerche dipendenti dagli scopi della ragione strumentale debbano essere limitati tanto dallo scienziato che se ne occupa, quanto dalle leggi civili che tutelano il bene comune. Si eviterà così che queste ledano la dignità umana direttamente, come accade con l’eugenetica, o indirettamente, come nel caso della feconrestrittivo sull’umano risulta “dogmatico” e conduce a limitare le possibilità tecniche. Viceversa, assumere un criterio etico senza restrizioni circa il complesso scientifico-tecnologico (in base allo slogan: tutto ciò che è scientificamente possibile è eticamente lecito) porta a modificare l’umano rendendolo non più riconoscibile» (P. DONATI, Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, cit., p. 51) . 40 Hans Jonas propone un nuovo modello etico per correggere il limite antropocentrico dell’etica classica. A nostro avviso, l’etica classica contiene in sé, anche se in modo implicito, ciò che Jonas chiama il principio responsabilità (cfr. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, Prefazione, p. XXVII). Essa si basa sulla perfezione dell’atto, la quale non fa riferimento solo a colui che agisce ma anche agli altri che partecipano in un modo o nell’altro dell’azione e delle conseguenze di tale agire. 41 Ciò non significa che la bontà o la malvagità morali dell’azione dipendano da una ragione calcolante (se così fosse, il bene s’identificherebbe con la correttezza del calcolo, e il male, viceversa, con l’errore), ma piuttosto che l’oggetto della morale tiene conto dell’uso che si può fare della tecnica.

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dazione in vitro42. Il fine ultimo dello sviluppo tecnico-scientifico non è altro che quello dell’agire umano: perfezionare perfezionandosi. Una parte del progresso consiste nell’assimilare la cultura: l’uso di nuovi strumenti, mezzi di comunicazione, rapporti con le istituzioni, linguaggi simbolici delle scienze, ma non basta. Si richiede pure che la cultura perfezioni l’uomo come tale e non solo alcuni suoi aspetti. In altre parole, la cultura corrisponde al progresso quando umanizza l’uomo aiutandolo a raggiungere una maggiore integrazione interna e relazionale. A ciò serve senz’altro l’educazione familiare che permette la trasmissione e l’assimilazione della cultura come anche l’istruzione scolastica e universitaria. L’assimilazione è completa quando la cultura diventa una quasi natura, come accade con la cultura urbana per la stragrande maggioranza degli occidentali. È necessario però che l’educazione e l’istruzione diventino formazione in modo da insegnare alle nuove generazioni ad avere un rapporto virtuoso con il mondo e soprattutto con gli altri. Per formarsi e non solo istruirsi si deve aprire la propria razionalità alla totalità del reale, soprattutto alla trascendenza. Ciò è possibile quando si usa la ragione in tutte le sue funzioni, specialmente in quella metafisica, etica ed ermeneutica o di senso.

6. Cultura, valori e verità La relazione fra natura e cultura, quindi, lungi dall’essere di opposizione, è di complementarietà: la natura si trascende nella cultura e la cultura realizza e interpreta la natura. Anzi, natura umana e cultura non possono esistere isolate: senza la cultura, la natura umana non si sviluppa né si personalizza e, senza la natura umana, la cultura rimane impossibile. L’universalità della natura umana esiste sempre in modo culturale. Infatti, siccome non esiste una lingua universale né un modo di mangiare universale ma solo modi particolari43, non esiste una natura

42

È chiaro che le leggi sono solo una conseguenza del dovere che lo scienziato ha di auto-limitarsi nell’ambito della sperimentazione. 43 È evidente che qui mi riferisco all’uso di strumenti e di norme e non all’atto fisico di mangiare, che è naturale.

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Capitolo decimo

umana se non nelle differenti culture. La cultura è il vero universaleparticolare in cui si manifesta la natura umana44. Dunque, la natura pura non esiste, ma una realizzata, interpretata e valutata culturalmente. Questo significa che tutto è relativo alla cultura? No, ma che non possiamo parlare di ciò che è naturale se non all’interno della cultura o meglio delle culture. Infatti, la considerazione di una cultura come realizzazione perfetta della natura porta con sé l’etnocentrismo. Storicamente la cultura europea nacque etnocentrica, giacché considerò se stessa come naturale. La scoperta di altre culture – precolombiane e orientali – prima nel Rinascimento poi nel XVII e XVIII secolo diede origine a una serie di crisi d’identità della coscienza europea, perché fece capire che molti usi e consuetudini che si credevano naturali in realtà non lo erano45. Un modo di affrontare la crisi consistette nel tentativo di imporre la cultura occidentale alle popolazioni conquistate per considerarla superiore. Nel XX secolo alla fine dell’epoca coloniale, apparse in Occidente come reazione all’etnocentrismo il cosiddetto culturalismo, che difende il carattere relativo di tutte le culture: ognuna è di per sé degna di rispetto, e le sue istituzioni non dovrebbero essere giudicate in base a criteri di valutazione presi da altre culture. Di conseguenza nessuna dovrebbe pretendere di essere “la autentica cultura umana”. Anche se queste tesi sono vere, alcuni filosofi le hanno estrapolate passando così da un relativismo culturale a un relativismo etico. Secondo questi autori, poiché è assolutamente autosufficiente e distinta dalle altre, ogni cultura godrebbe di una totale autonomia. Ne deriva che, oltre alla difficoltà quasi insuperabile di comprendere una cultura estranea, sarebbe impossibile fare giudizi con valore universale sulle manifestazioni, regole e istituzioni di una cultura. Questa conclusione è coerente con il preteso carattere autonomo di ogni cultura. Infatti, se ciascuna ha un’autonomia totale, la sua giustificazione non sarà etero44

In polemica con Richard Rorty (1931-2007), Roy Bhaskar (1944) sostiene qualcosa di simile quando, a proposito della natura umana, scrive: «essa si manifesta sempre in una qualche forma storica mediata e storicamente specifica, e deve sempre essere conosciuta sotto una qualche rubrica storicamente peculiare, e pertanto potenzialmente trasformabile» (R. BHASKAR, Philosophy and the Idea of Freedom, Blakwell, Oxford 1991, p. 69, n. 7). 45 Cfr. P. HAZARD, La crise de la conscience européene (1680-1715), Boivin, Paris 1935.

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L’azione umana all’origine della cultura

noma (norme naturali e divine) né di carattere universale (valide per tutte le culture) bensì relativa, dipendente cioè dai propri codici estetici, etici e sociali basati sulla tradizione, l’autorità o il consenso fra i suoi membri. Quindi, cannibalismo, sacrifici umani, aborto, eutanasia, infanticidio, abuso di minori, schiavitù, traffico di esseri umani, ed altro ancora, nel caso in cui corrispondano ai codici culturali dovrebbero essere considerati qualcosa di positivo. Nonostante alcuni difendano le tesi del relativismo etico in ambito culturale, non possono essere totalmente coerenti. Infatti, secondo i valori che essi sostengono o rifiutano, non tutti i comportamenti di quelli elencati saranno considerati positivi. Alcuni sono rifiutati da quasi tutte le persone di quasi tutte le culture, come la perversione che implica il cannibalismo. Inoltre, la globalizzazione in atto mostra che le persone, indipendentemente dalle loro culture e tradizioni, possono entrare in rapporto e comunicazione perché con parole di Terenzio: Humanum sum; nihil a me alienum puto (sono umano; nulla reputo strano). La globalizzazione, dunque, non dovrebbe fare scomparire le culture in ciò che hanno di umano, bensì renderle conosciute e apprezzate perché arricchiscono un patrimonio comune. Quindi, ci sono dei giudizi di valore che noi facciamo sui comportamenti indipendentemente dalla cultura alla quale apparteniamo o in cui essi sono praticati. Ciò vuol dire che esiste un criterio per giudicare i comportamenti che, tuttavia, non è culturale. Questo criterio è la natura umana come dover essere; perciò tutto ciò che la perfeziona è un valore. Ad esempio, la benevolenza generale o con tutti gli uomini46 – incarnata nell’ospite e nel pellegrino – e particolare, con il prossimo, il rispetto, l’ubbidienza e la cura dei genitori, la fede alla parola data, la giustizia e la misericordia, la magnanimità, sono alcuni di questi valori accettati da tutte le culture47. Poiché la cultura fa riferimento al dover essere della persona, è possibile ragionare sulle differenti realizzazioni e interpretazioni e indicare quando esse se ne allontanano. Il problema non dipende dunque dal fatto che il dialogo si dia sempre fra interpretazioni culturali, ma piuttosto dallo scambiare ciò che è interpretazione e, quindi, suscettibile di essere 46 Cicerone (106-43 a.C.) parla di «caritas generis humani» (cfr. M.T. CICERONE, De finibus bonorum, V, 23, 65). 47 Questa è una delle tesi difese da Clive Staples Lewis (1898-1963) nel suo saggio The Abolition of Man, Oxford University Press, Oxford 1943, specialmente cap. II.

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Capitolo decimo

confermato o rifiutato razionalmente, con ciò che è una natura pura sulla quale solo è possibile la fede cieca o l’imposizione dogmatica oppure un modo culturale senza alcuna trascendenza. È chiaro che si dovrebbe distinguere fra valori e controvalori. I primi non ammettono la commensurabilità e, pertanto, è erroneo giudicare a partire da essi le culture come inferiori o superiori: la cultura contadina rispetto a quella urbana, la cultura orientale rispetto a quella occidentale48. Certamente, nelle culture possono darsi accentuazioni di valori che corrispondono al dover essere della persona: rafforzamento dei legami familiari, della solidarietà, della religiosità. Perciò può affermarsi che determinate culture favoriscono meglio lo sviluppo delle persone in determinati aspetti. I controvalori sono, invece, manifestazione di una degradazione della cultura, come l’individualismo, il libertinaggio, e la mentalità consumistica. Dal punto di vista della cultura, i valori acquisiscono un significato centrale. Infatti, la cultura si elabora attorno a un sistema di preferenze e scelte che danno a essa una peculiare fisionomia. A loro volta, questi elementi si basano su giudizi di valore non solo a livello razionale, ma anche affettivo, che orientano il desiderio verso atteggiamenti e comportamenti umani. Così tutte le culture vietano, ad esempio, di maltrattare lo straniero. Ma che cosa sono i valori? Secondo Spinoza e altri pensatori, come Freud, essi non sono altro che manifestazioni delle nostre aspirazioni e dei nostri desideri, cioè la consapevolezza stessa di desiderare o di poter farlo; così, per il fondatore della psicoanalisi, la religione dipenderebbe dall’amore-odio nei confronti del padre49. Nietzsche rincara la dose quando sostiene che i valori socratici, platonici, e soprattutto cristiani, hanno avvelenato la gioia di vivere, per cui lui si dichiara “il primo immoralista” e propone una trasmutazione di essi: invece della carità, che secondo lui sarebbe una falsa filantropia (l’amore ai deboli), la volontà 48

Qualcosa di simile si potrebbe dire degli stili di vita possono essere molteplici e incommensurabili (il contadino, l’imprenditore, la suora contemplativa, l’attrice), il che significa che la valutazione non dovrebbe farsi a partire dallo stile di vita, tranne che sia direttamente contro la dignità della persona (come nel caso del ladro, della prostituta, del usuraio), bensì a partire dal perfezionamento che, per il modo di incarnarli, essi recano alla persona. 49 Sulla questione si veda S. FREUD, Il disagio della civiltà, in Opere, X, Boringhieri, Torino 1976-1980.

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L’azione umana all’origine della cultura

di potenza del Superuomo, la vera filantropia50. Scheler critica le tesi di Freud e di Nietzsche. Contro Freud, considera che la limitazione dei valori alle proprie aspirazioni e ai propri desideri non è che la fonte prima dell’accecamento, giacché si può arrivare al fenomeno di cecità al valore o allo svisamento nei confronti di tutti i valori a cui il soggetto si sente impotente di ambire. In realtà è possibile cogliere come valore quanto non si può più ambire, perché i valori sono oggettivi51. Scheler afferma che Nietzsche voleva educare una “nuova élite europea” mediante “nuove tavole di valori”, giacché pensava erroneamente che il cristianesimo fosse l’origine della corruzione e degenerazione della vita perché nato dal risentimento dei deboli contro i forti. Secondo Scheler, a crescere sul suolo del risentimento non è stato il cristianesimo, ma piuttosto «la morale borghese, che dal XIII secolo ha cominciato a sostituire sempre di più la morale cristiana fino a compiere nella rivoluzione francese la sua massima prestazione»52. La morale cristiana si baserebbe, invece, sulla gerarchia eterna dei valori. Nonostante le acute critiche di Scheler, mi sembra che i valori non ammettano una scala perfetta, come invece pensa questo filosofo, poiché corrispondono a un mondo creato e non a un’emanazione dall’Uno, da cui i valori verrebbero fuori in forma graduale fino ad arrivare alla materia. Infatti, «quale misura comune c’è fra il valore dell’elemosina e quello dei vantaggi che il benefattore avrebbe potuto trovare dalla somma che ha donato? Impossibile quantificare questi due valori. 50 «I deboli e i malriusciti devono perire, questo è il principio del nostro amore per gli uomini» (F. NIETZSCHE, L’anticristo, Adelphi, Milano 1970, p. 169). 51 «Anche in ciò si può vedere una valida prova dell’indipendenza della nostra coscienza del valore dall’ambire e dal potere ambire: nel fatto cioè che con il pervertirsi delle aspirazioni (ad esempio dello stimolo del mangiare, del sesso, del piacere, in amore per il dolore, ecc.) non si perverte necessariamente insieme la coscienza del valore. Specialmente all’inizio di tali perversioni anche i sentimenti – secondo Ribot ed altri – sono ancora quelli normali. Il cibo “nauseante” ad esempio suscita ancora nausea, sebbene l’impulso del mangiare si rivolga ad esso. Solo più tardi “lentamente i sentimenti seguono l’impulso” (Ribot); ma anche allora la coscienza del valore non lo segue ancora necessariamente. Non si danno quindi “perversioni” del senso del “valore” in corrispondenza alle perversioni del desiderio bensì soltanto illusioni e travisamenti del senso del valore dal momento che ciò corrisponde al carattere essenzialmente proporzionato al conoscere di questo sentimento del “prediligere”» (M. SCHELER, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975, p. 49). 52 M. SCHELER, Il risentimento nella edificazione delle morali, cit., p. 76.

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Capitolo decimo

Per quanto superiore sia il valore della generosità esso non contiene formalmente quello dei piaceri sacrificati nella stessa maniera in cui è possibile recuperare con gli interessi un capitale investito in operazioni lucrative»53. Perciò, per cogliere i valori non basta un’intuizione pura, è necessaria anche l’esistenza dell’inclinazione al bene. Ma se è così, allora i valori sono qualità inerenti alla realtà e implicano un riferimento intenzionale e tendenziale della persona che le percepisce54. È vero che la coscienza delle proprie aspirazioni e desideri impossibili di essere soddisfatti può comportare la cecità o lo svisamento del valore come una difesa di fronte alla frustrazione, come accade nel risentimento espresso magnificamente nella favola della volpe e l’uva, attribuita a Esopo55. Ciò non si deve però al ruolo negativo delle nostre inclinazioni nella percezione dei valori, bensì alla loro assolutizzazione e, quindi, alla non accettazione dei loro limiti. Una causa, forse quella più importante, di cecità di fronte ai valori è dunque la superbia e la iattanza. L’umiltà che permette di seguire la verità personale consiste nell’accettare la propria condizione in tutta la sua completezza (corporea-psichica-spirituale) sapendo che la sua origine e il suo destino è l’amore. Tutti i valori, quindi, dovrebbero essere messi in relazione con il dono di sé. Quando si agisce così, non si negano i valori, come invece fa la volpe della fiaba, ma si relativizzano in modo da poter sacrificarli per amare.

53

J. DE FINANCE, Essai sur l’agir humain, Edizione Università Gregoriana, Roma 1962, p. 202 e sgg. 54 Cfr. J.A. LOMBO, F. RUSSO, Antropologia filosofica. Un’introduzione, EDUSC, Roma 2007, p. 231. Alla spiegazione di questi autori ho aggiunto l’aspetto tendenziale, poiché il valore fa riferimento sia all’intenzione sia all’inclinazione personale verso il bene. 55 Come è risaputo, la favola racconta di una volpe che nel sogno vede un bellissimo grappolo d’uva. Dopo essersi svegliata, si accorge che il suo sogno è diventato una realtà: davanti a lei c’è l’uva desiderata. Così, essa incomincia a saltellare in aria per raggiungerla. Tra inutili tentativi, desiste perché – dice a se stessa – “non vale la pena, tanto è acerba”. Morale della favola: è facile disprezzare le cose che non si possono raggiungere.

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Capitolo undicesimo

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Identità personale e condizione sessuata

1. Sessualità e condizione sessuata La sessualità umana, che collega natura e cultura in tutti gli aspetti visti finora (corporeità, simbolo e trascendenza), è l’architrave dell’umanizzazione tanto dal punto di vista personale (integrazione della propria condizione sessuata nella donazione di sé) quanto sociale (relazioni coniugali, paternità/maternità, famiglia). In tutte le culture precedenti, la sessualità ha svolto un ruolo essenziale nella costruzione della società umana e nello stabilimento di norme civili e religiose (ciò è particolarmente evidente nell’ebraismo in cui si paragona con l’adulterio l’infedeltà d’Israele a Dio). L’importanza sociale della sessualità va rintracciata sia nel suo legame con il vivere sia nell’aspetto paradossale con cui essa stessa appare: si tratta di un’energia vitale capace, secondo Platone, di far spuntare all’anima delle ali con cui elevarsi alle alture più sublimi o di catapultarla in basso verso le azioni più perverse. Infatti, se da un lato la sessualità si presenta come origine della vita, dell’eros e della donazione che trasforma i comuni mortali in esseri eroici e – attraverso la loro fecondità – li rende quasi immortali, dall’altro essa emerge come una forza oscura e distruttiva che, nell’impadronirsi degli amanti, li fa diventare nemici di ogni legge umana e divina; si pensi, ad esempio, al cumulo di guerre, morti e sofferenze causate dalla relazione adulterina fra Paride e Helena, o al sovvertimento della pace domestica provocata dalla passione incestuosa di Fedra per Ippolito, suo figliastro. Di fronte a questa forza in grado di seminare vita e morte le culture di ogni tempo hanno tentato di disciplinarla, cercando di metterla al servizio della pace e la concordia fra le 275

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Capitolo undicesimo

persone e i popoli. Per secoli questo compito è stato affidato alle religioni. Esse sono state capaci di conferire alla sessualità un senso simbolico, fatto di regole e riti, come quelli dell’iniziazione, della fecondità, del parto, della purificazione mestruale, ecc., o della celebrazione di feste religiose in cui promiscuità sessuale e orge, come i baccanali dei greci e i saturnali dei romani, avevano un senso per così dire catartico perché permettevano la liberazione parziale di quest’energia magmatica evitando in questo modo esplosioni incontrollate1. Forse il modo più caratteristico di dare un senso simbolico alla sessualità umana è stato quello della sua divinizzazione sia ipostatizzandola in deità come l’Astarte dei fenici, l’Afrodite dei greci, o la Venere dei romani, sia sacralizzando il suo uso, come nella prostituzione che fioriva in molti tempi antichi. Sebbene si mantenga lo stesso compito di canalizzare l’energia sessuale conferendole un senso simbolico, con l’avvento delle religioni monoteistiche, specialmente con l’ebraismo, la situazione cambia radicalmente: la sessualità perde il suo carattere divino, poiché il Dio dell’Antico Testamento – come anche quello dell’Islam – è assolutamente trascendente. Nonostante questa “profanazione”, la sessualità conserva il suo legame con il carattere sacro del sangue e della vita e, soprattutto, l’ambiguità della sua forza. Nel cristianesimo, invece, si abbandona qualsiasi resto di sacralità legata alla vita, per ridarle un suo senso umano e simbolico pieno: il corpo, che partecipa della dignità della persona, diventa tempio dello Spirito Santo, e il matrimonio immagine dello sposalizio fra Cristo e la Chiesa. Ne deriva l’importanza nella vita cristiana di una serie di valori, come il pudore, la castità secondo il proprio stato e il dono di sé nel matrimonio. Con la rivoluzione sessuale degli anni 60 si produce un’inversione di tendenza. D’accordo con l’analisi marxista e psicoanalitica, si pensa che l’educazione della sessualità – intesa soprattutto come repressione – sia sorgente di differenti tipi di oppressione sociale, culturale ed esistenziale. La storia, però, ha dimostrato il contrario: quando ci si rifiuta 1 «In quasi tutte le società vi sono feste che conservano a lungo un carattere rituale. L’osservatore moderno vi ravvisa soprattutto la trasgressione dei divieti. […] La trasgressione va iscritta nel quadro più vasto di un generale annullamento delle differenze: le gerarchie familiari e sociale sono temporaneamente soppresse o invertite. […] L’annullamento delle differenze, come ci si può aspettare, è spesso associato alla violenza e al conflitto» (R. GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, pp.161-162).

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Identità personale e condizione sessuata

di educarla, la sessualità si trasforma in fonte di schiavitù, sfruttamento e alienazione. Herbert Marcuse (1898-1979), uno dei promotori di questa rivoluzione, si rese conto alcuni anni più tardi che la “sublimazione non repressiva” dell’eros preconizzata da lui2, lungi dal liberare l’amore, l’aveva trasformato in oggetto da consumo3. Il problema della repressione non si risolve, infatti, attraverso l’uso libero della sessualità, che porta con sé nuovi drammi: l’aborto, l’uso di anticoncezionali, la violenza di genere, il mercato del sesso, ecc., bensì tramite la sua integrazione nell’amore. Abbiamo così due diverse concezioni della sessualità: individualistica, che la considera una pura scelta individuale; e personalista, che la giudica essenziale nel percorso di crescita umana e spirituale delle persone e delle loro relazioni. La prima si basa su una pretesa analisi scientifica della sessualità, che in realtà non è tale poiché fa astrazione delle persone e delle loro relazioni perfettive; la seconda si fonda sull’intrinseca dignità delle persone in quanto capaci di autopossesso e donazione. La concezione personalista, inoltre, approfondisce il particolare rapporto che la sessualità umana ha con il corpo, indicando, da una parte, la sua origine corporea, e dall’altra il suo carattere di dono. Infatti, la corporeità sessuata è principio dell’identità personale (aspetto basilare della condizione sessuata), della differenza con il mondo (il corpo umano non è come gli altri corpi perché non dovrebbe nascere da una necessità naturale o una volontà di potenza, ma dal mutuo dono dei coniugi) e della relazione con gli altri (il corpo è il mezzo originario di comunicazione fra le persone umane). In quanto manifestazione della persona, il corpo riguarda tutto ciò che essa è: l’aspetto fisiologico e anatomico e anche quello psichico e spirituale. Per esempio, il viso umano – specialmente gli occhi e la bocca – può esprimere sentimenti, passioni, virtù e vizi, come nel famoso romanzo di Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray, in cui ogni delitto lascia una traccia di bruttezza sul viso dipinto del protagonista, mentre su quello reale appare sempre un’aria di giova2

Cfr. H. MARCUSE, Eros e civiltà. Un’indagine filosofica in Freud, Einaudi, Torino 1967, p. 160 e sgg. 3 Come ha notato Erich Fromm (1900-1980), il modello o il criterio dell’amore diventa quello di scambio e il problema dell’amore non è più quello di un modo d’essere ma quello dell’oggetto giusto da trovare e da amare (cfr. E. FROMM, L’arte d’amare, Mondadori, Milano 1995, pp. 15-16, 107 e sgg.).

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nile candore e bellezza. Comunque, è nella condizione sessuata, dove la persona si rende completamente visibile, giacché è maschio e femmina in ogni cellula del suo corpo e soprattutto nell’orientamento naturale verso l’altro sesso, che, oltre a indicare una maggiore individuazione nella scala dei viventi, è origine delle relazioni umane. Infatti, anche se legata fondamentalmente alla riproduzione, la sessualità animale tende a una maggiore individuazione delle caratteristiche genetiche dei discendenti attraverso il dimorfismo, vale a dire le differenze esterne fra maschi e femmine. Infatti, mentre nella riproduzione asessuata la variabilità genetica dipende dalle mutazioni, in quella sessuata deriva dalla ricombinazione dei patrimoni genetici del maschio e della femmina. D’altro canto, con l’emergere di una maggiore individuazione si dà anche una riproduzione più specializzata, non solo fisicamente ma anche nella suddivisione dei compiti tra maschio e femmina. Negli animali, però, la sessualità si trova al servizio della specie, perciò non gioca nessun ruolo nello sviluppo dell’identità individuale. La sessualità animale è un istinto legato necessariamente ai cicli biologici e cosmici, che non riguarda un individuo particolare, bensì il maschio o la femmina fertili della stessa specie, senza che ci sia esclusione alcuna per motivi di parentela, di età o di bellezza. Perciò l’atto sessuale degli animali non ha un significato esistenziale né familiare, ma solo specifico. Negli esseri umani, invece, oltre ad essere specifica, la sessualità è soprattutto personale. È certo che pure nell’uomo il dinamismo sessuale agisce con una certa indipendenza dalla coscienza e dalla propria intenzione, come nel secernere degli ormoni sessuali o nell’accendersi del desiderio davanti a determinati stimoli. Per canalizzarlo in una determinata direzione si richiede però il coinvolgimento di tutta la persona nella sua dimensione relazionale. Dunque la sessualità umana è ordinata a diventare condizione sessuata. Anche se ha in comune con gli altri viventi la capacità riproduttiva, la sessualità umana si distingue perché non lascia fuori di sé nulla che appartenga all’essenza umana: né nella sua composizione strutturale di corpo-psiche-spirito né nell’armonizzazione delle diverse facoltà nell’azione e neppure nel rapporto della persona con gli altri e con il mondo, soprattutto mediante il dono di sé. Questa peculiarità della sessualità umana, che coinvolge le differenti dimensioni interne ed esterne della persona, può essere chiamata condizione sessuata. La personalizzazione della sessualità mediante il dono di sé costituisce il fondamento della maturità umana, del matrimonio e della fa278

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miglia. Sia la procreazione – non la semplice riproduzione della specie – sia la crescita dell’identità personale mediante i rapporti adeguati fra marito e moglie, fra genitori e figli, costituiscono i fini della condizione sessuata. L’aspetto relazionale (coniugale e familiare) della sessualità umana è sistemico con alcune caratteristiche biologiche e morfologiche della persona. Infatti, nell’essere slegato dai cicli fissi della natura, il desiderio sessuale umano è collegato alla percezione personale di determinati valori maschili e femminili e anche ai divieti. Perciò, l’inclinazione non si riferisce a ogni femmina o a ogni maschio ma solo a persone con determinati valori. Ne deriva che nell’animale non c’è la scelta di un compagno sessuale determinato: fra i cani, ad esempio, si accoppiano genitori con figli, oppure fratelli con sorelle, perché il loro desiderio non conosce nessun divieto. Per l’uomo, invece, l’incesto è vietato, perché contrario alla sua natura. Fin da piccoli siamo educati a non vedere genitori o fratelli e sorelle come compagni sessuali. Quando si trovano in linea con la natura, le consuetudini e norme aiutano a educare la sessualità. Ci sono state culture che hanno accettato l’incesto, poche a dire il vero, poiché la sua proibizione è una delle prime norme umane non scritte. Ad esempio, in Egitto – soprattutto in età tolemaica – il faraone, considerato di natura divina, sposava la sorella, perché secondo la mitologia egiziana tutt’e due erano incarnazione degli dèi e dovevano trasmettere quest’essenza divina ai loro discendenti. Oltre a queste ragioni religiose, l’incesto serviva anche a mantenere il potere all’interno di una stessa dinastia. La sessualità umana, dunque, si trova in stretto rapporto con la relazionalità umana e l’inclinazione della persona al dono di sé, che costituisce la sua identità più profonda. Ciò spiega che nella sessualità umana c’è una continuità fra il sesso corporeo (cromosomico, ormonale, cerebrale, genitale) e la condizione sessuata (la configurazione dell’identità personale secondo il modo di essere uomo o donna corrispondente al sesso corporeo). Quando si perdono di vista le radici corporee della condizione sessuata, si cade nel dualismo: il corpo è visto come pura natura plasmabile e la scelta personale come espressione di autentica libertà. Ne deriva la distinzione – comune tra i difensori dell’ideologia di genere4 – fra sesso (sessualità corporea) e genere (scelta del sesso e 4

Anche se l’ideologia di genere è di grande attualità, non farò riferimento in questo libro a temi come l’orientamento sessuale, disturbi dell’identità, ecc. Per una

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del modo di usarlo). Attraverso la tecnica si può sottomettere il corpo e modificarlo in modo da impedire la personalizzazione della sessualità, non è possibile però cancellare il suo carattere relazionale. L’apertura del corpo sessuato al mondo e agli altri, alla relazione sponsale e alla procreazione, sono dati inscritti nella persona e, di conseguenza, elementi strutturanti della vita umana, familiare e sociale.

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2. La relazione uomo-donna Sull’origine della relazione fra l’uomo e la donna ci sono diverse spiegazioni. Forse quelle più interessanti, dal punto di vista antropologico, sono due: il mito platonico del androgino, che attribuisce alla superbia degli uomini la loro separazione in maschi e femmine e alla misericordia di Zeus che possano ricongiungersi mediante l’unione sessuale5; e il libro della Genesi, che propone invece una separazione originaria di una persona maschile e una femminile (Adamo ed Eva) in vista della loro posteriore unione perché si moltiplichi la specie umana6. L’incontro con la persona dell’altro sesso rivela ad Adamo la propria identità, giacché egli riconosce in Eva qualcuno che ha la stessa dignità, che parla lo stesso linguaggio e con cui può condividere la propria vita, ma che è pure essenzialmente differente perché possiede l’altro modo di essere persona. Si tratta, dunque, di un’alterità che, proprio perché umana, esercita su di lui una forte attrazione. Uomo e donna, secondo la Genesi, sono persone con una relazione di reciprocità: Adamo è uomo rispetto ad Eva e viceversa. Senza la donna, pur avendo un corpo maschile, Adamo non sarebbe personamaschile ma soltanto persona umana poiché non capirebbe la sua mascolinità come tale; per farlo, ha bisogno dell’alterità: l’uomo diventa consapevole della sua identità maschile mediante la differenza femminile e viceversa. Dunque, il modello della relazione uomo-donna è simile a quello fra realtà che non esistono indipendentemente perché sono relative, come visione storica e analitica di questi argomenti rimando il lettore al mio saggio Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, cit., specialmente i primi tre capitoli. 5 PLATONE, Simposio, 189e-192e. 6 «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 26-28).

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caldo-freddo o concavo-convesso. Certamente, anche se dal punto di vista genetico la mascolinità e la femminilità non ammettono gradazione7, dal punto di vista personale sono suscettibili di un più o un meno secondo la loro integrazione8. Perciò, nella misura in cui nella società viene meno la mascolinità, diminuisce anche la femminilità e viceversa. Ciò si vede nelle conseguenze di un femminismo che ha preteso di liberare la donna, non solo con rivendicazioni giuste, ma anche con lo scimmiottamento degli uomini nei loro difetti e vizi. Il risultato è stato una certa maschilizzazione della donna, che a sua volta ha portato con sé una relativa femminilizzazione dell’uomo. La perdita parziale delle loro condizioni sessuate ha dato luogo a un’indifferenziazione fra maschile e femminile che impedisce in alcuni casi la loro unione profonda e duratura, consentendo solo incontri sporadici. Così uomo e donna diventano a volte estranei, perché hanno perso ciò che permetteva loro di ritrovarsi a vicenda nella persona dell’altro. In conclusione, nella differenza uomo-donna scopriamo una dualità essenziale che non può essere ridotta all’unità: la persona umana è originariamente uomo e donna. La differenza non è, tuttavia, come negli animali, solo sessuale, ma anche personale. L’integrazione della sessualità in una condizione sessuata porta l’uomo e la donna a una maggiore identità, cioè a poter esprimere e comunicare se stessi non solo mediante il linguaggio, l’azione e la cultura, ma soprattutto mediante la donazione di sé. Insomma, attraverso il raggiungimento della condizione sessuata, uomo e donna si completano a vicenda invece di essere solo differenti. Ciò nonostante, anche in società meno conflittuali, l’armonizzazione fra uomo e donna non è immediata; essa ha bisogno di percorre7

Normalmente, il passaggio dal sesso genetico a quello genitale si produce senza problemi. Ci sono, però, alcuni rari casi in cui non c’è corrispondenza fra il sesso genetico e quello genitale. Ad esempio, nella sindrome da insensibilità agli androgeni (AIS o androgen insensitivity syndrome), il bambino, le cui cellule sono incapaci di rispondere agli androgeni, nonostante sia nato con i cromosomi XY può sviluppare genitali femminili (A. GALANI ET AL., Androgen Insensitivitu Syndrome: Clinical Features and Molecular Defects, «Hormones», 7 (2008), pp. 217-29). 8 Ciò non vuole dire, però, che – contro quanto sostengono alcuni difensori dell’ideologia di genere, come Butler – ci siano cinque generi: omosessuale, lesbica, bisessuale, eterosessuale e quello comportamentale, poiché la condizione sessuata come il sesso è sempre duale (cfr. J. BUTLER, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990, p. 17).

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re il lungo cammino che va dalla solitudine dell’Io alla comunione di vita. Si tratta di un processo di trasformazione continua fino a diventare un’unione che trascendendo le due individualità le integra e personalizza ulteriormente. In questo processo ci sono momenti di crescita e di crisi, e ci possono essere anche periodi di stagnamento e di retrocessione d’accordo con la legge secondo cui ciò che è suscettibile di crescita, può anche diminuire. Anche se in questo processo di massima integrazione non è facile stabilire momenti ben definiti – per lo meno dal punto di vista cronologico, in linea di massima possono individuarsi tre tappe: a) l’innamoramento; b) l’unione coniugale; c) l’amore maturo. a) L’innamoramento è la spinta che permette l’uscita dal proprio Io. Mentre nella sessualità animale non c’è alcuna percezione del valore di un individuo particolare, nel caso dell’innamoramento essa esiste. Invece di dipendere da un istinto, l’innamoramento si basa su una tendenza che permette alla persona di scoprire il valore unico di una donna o un uomo. L’innamorato si sente attratto da un’altra persona, non solo perché in essa scopre determinati valori maschili o femminili, ma anche perché, nella misura in cui ci si lascia prendere dal fascino, fino a un certo punto la sceglie. Ne deriva che, sebbene non sia completamente consapevole, l’innamorato gode quell’attrazione perché ha incominciato a volere bene a quell’altra persona, comincia cioè a condividere la sua vita, i suoi affetti, pensieri e progetti con quelli dell’altro. Tuttavia l’innamoramento è solo la prima tappa di un lungo processo, perché l’unione che i sentimenti presentano come già fatta deve ancora realizzarsi. D’altra parte, nell’innamoramento si nascondono diverse tendenze, specialmente sessuale, di possesso, potere e stima, che portano a scambiare per amore degli atteggiamenti egoisti, come volere l’altro strumentalmente e non come fine. La tentazione sempre in agguato è cercare di assorbire l’altro pensando così di amarlo, perché nel fare ciò si cancella la sua alterità e, di conseguenza, la stessa possibilità di amare ed essere amato. Inoltre, l’innamoramento non lascia scoprire completamente la persona all’altro perché l’immaginazione dell’amante mossa dal fascino ingrandisce i pregi e nasconde i difetti. Insomma, nell’innamoramento il rapporto fra bisogno e donazione non è equilibrato: si vuole bene all’altro perché se ne sente la necessità, cioè l’amore nasce fondamentalmente dal bisogno. Perciò, l’innamora282

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mento è più una passione che un’azione. Per innamorarsi, non si richiedono le virtù, per donarsi sì. Perché l’innamoramento diventi amore, si ha bisogno di una crescita nell’autopossesso e di fiducia nell’altro. La mancanza d’integrazione personale della sessualità conduce perciò gli innamorati all’alienazione; infatti, la trasformazione dell’altro in oggetto di desiderio rende superficiale e banale la loro relazione, perché scambiabile con qualsiasi altra. b) L’unione coniugale è una relazione nuova nata dal dono reciproco di due persone nelle loro condizioni sessuate. La donazione di sé, dunque, dovrebbe essere intesa come l’atto che realizza una possibilità decisiva per l’identità personale: diventare marito/moglie e possibile padre/madre, in cui mediante la coniugalità si dà un’integrazione della propria condizione sessuata. Per questo motivo il dono di sé, manifestato mediante il consenso, una volta accettato dall’altro è causa dell’obbligo nei confronti non solo del proprio coniuge ma anche della propria identità. Nel consenso matrimoniale l’altro è presente come soggetto libero, giacché può accettare o rifiutare la donazione come marito o moglie. Infatti, il marito non solo vuole darsi a quella donna come marito, ma anche che quella donna lo accetti come tale; questa seconda parte della sua volizione però non dipende da lui. Il consenso matrimoniale, dunque, a differenza di tutti gli altri tipi, non è comprensibile a partire dalla struttura tipica dell’azione umana, dove ogni soggetto ha un’intenzionalità propria che dipende solo da lui, per cui l’unione fra due atti di due soggetti si realizza solo nel volere uno stesso oggetto. Nel consenso matrimoniale, invece, l’unione non si dà nel volere un oggetto (il matrimonio), bensì nell’amare con una stessa intenzionalità, ossia nel voler essere amato dall’altro come marito o moglie. Affinché esista consenso matrimoniale non basta, dunque, l’atto di volontà di un solo coniuge e neppure un atto qualsiasi da parte dell’altro, bensì sono necessari due atti con una stessa intenzionalità9. 9

Come ho avuto occasione di spiegare in un’altra sede: «Nonostante incominci dall’intenzionalità amorosa di un Io, la donazione nel matrimonio comporta nella sua realizzazione piena (donazione-accettazione) due agenti, che vengono così uniti da una relazione. L’accettazione altrui della propria donazione dà luogo ad una relazione che oltrepassa gli stessi soggetti e i limiti delle loro azioni» (Io e gli altri. Dall’identità alla relazione, cit., p. 237).

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Quest’unione che è data inizialmente come inclinazione a donarsi nei confronti di un altro, si realizza nel matrimonio. A volte si pensa che il matrimonio sia una pura cerimonia esterna, per cui non avrebbe niente a che vedere con la scoperta dei valori dell’altro né col desiderio di darsi personalmente; anzi, esso sarebbe addirittura contrario all’amore. Certo se si considera solo dal punto di vista neoromantico, il matrimonio sarebbe la fine dell’amore, in quanto il legame toglierebbe spontaneità, freschezza e libertà. Invece, dalla prospettiva relazionale, il matrimonio non fa altro che realizzare ciò che nell’innamoramento è puramente potenziale. L’innamoramento suppone la scoperta di questa potenzialità, non la sua realizzazione che si dà invece nel matrimonio. È possibile essere innamorati senza donarsi quando ciò da cui si è attratti sono solo le cose positive dell’altra persona. Quando c’è donazione, invece, si ama l’altra persona così com’è e si vuole essere amati da essa nello stesso modo. Ciò non significa che nel momento del matrimonio si dia un’unione perfetta, piuttosto esso è l’inizio di una relazione amorosa autentica che ammette poi successivi perfezionamenti. E perché questo? Perché si crea – in un certo senso – qualcosa di assolutamente nuovo: la relazione coniugale. Invece nell’innamoramento non è presente questo tipo di relazione, perciò nei rapporti prematrimoniali c’è un fondo di falsità: si convive come se ci fosse una relazione coniugale che in realtà non esiste. C’è semplicemente innamoramento, ma non il dono mutuo per sempre. Dunque, l’unione di due atti di volontà con una stessa intenzionalità fa emergere una nuova realtà, la relazione coniugale che, per il fatto di essere basata sulla complementarietà fra le condizioni sessuate di due persone, esula dal potere delle volontà che l’hanno posta in essere; anzi, non è revocabile da nessuna volontà umana. Nel consenso matrimoniale scopriamo così qualcosa di misterioso: oltre ad essere in grado di promettere il dono di sé a un’altra persona che può riceverla, il che implica il grado più intimo di auto-possesso, la persona umana è capace di avere come intenzione del suo volere la relazione per sempre con un’altra persona e ciò, lungi dal portare all’alienazione, dà luogo a una realtà assolutamente nuova e perfezionante delle persone, la relazione coniugale.

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Dalla struttura particolare del consenso matrimoniale scaturiscono tre caratteristiche peculiari: la coniugalità, l’irrevocabilità e il vincolo giuridico10. 1. La coniugalità. Non si tratta, come accade negli altri tipi di consenso, di avere come oggetto un determinato bene materiale o spirituale, un’attività o qualcosa di analogo, bensì di avere come oggetto la stessa relazione coniugale: il bene del marito si trova nella moglie, vale a dire nell’essere accettato come tale dalla moglie e viceversa, ed è proprio questo bene coniugale a costituire marito e moglie in una sola carne già prima della sua consumazione nell’atto matrimoniale. Poiché non ammette altre possibili donazioni sponsali, questo bene è uno. Inoltre, esso è personalmente generativo: non solo perfeziona i coniugi nelle loro identità, ma li rende possibili genitori di un’altra persona. Infatti, sebbene escluda altre relazioni sponsali, il bene coniugale è potenzialmente aperto al terzo, cioè al figlio. 2. L’irrevocabilità. Il consenso matrimoniale è irrevocabile, perché si tratta di un consenso a una relazione coniugale che, per il fatto di essere basata sull’unione nella condizione sessuata, va al di là dell’intenzionalità delle singole volontà e anche di un’intenzionalità comune di cancellare la relazione. L’irrevocabilità del consenso si manifesta soprattutto nella comparsa di una nuova temporalità propria della relazione coniugale, ben radicata nella fedeltà alla donazione mutua iniziale che, per il fatto di essere capace di continua crescita, si apre a un futuro che genera e rigenera le persone nella loro coniugalità. Quindi, l’atto del consenso è un atto nel tempo in cui lo si trascende. Invece, il tempo proprio delle coppie di fatto è puntuale, legato a un volere sempre revocabile. Nell’assolutizzazione del momento, il tempo perde la dimensione di fedeltà, chiudendosi così a ogni promessa di futuro. L’“eterno” presente delle coppie di fatto non è altro che l’universalizzazione della possibilità di scegliere. 3. Il consenso matrimoniale crea un vincolo giuridico, che rende i coniugi soggetti a diritti e doveri nei confronti della partecipazione e comunicazione della loro coniugalità. È opportuno chiederci, a questo punto, per una corretta impostazione 10 Pedro J. Viladrich parla anche di tre note del consenso: incondizionato, radicale, a titolo di debito (cfr. P.J. VILADRICH, El amor conyugal entre la vida y la muerte, EUNSA, Pamplona 2004, cap. VI).

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del matrimonio che cosa è la fedeltà. Il termine fedeltà deriva da fides (“fiducia nella parola dell’altro”). La persona umana è in grado di dare se stessa quando ha fiducia che l’altro la riceverà, cioè si donerà a sua volta. In questo darsi-riceversi i due soggetti si trascendono. Certamente, nell’amore sempre c’è la speranza di essere corrisposto, ma questa risposta non sempre è immediata. Difficoltà di carattere, educazione ed esperienze personali possono richiedere del tempo prima che l’altro sia in grado di darsi pienamente. Ne deriva l’importanza di essere pazienti e generosi nell’attesa della maturità amorosa dell’altro. D’altra parte, la fedeltà richiede l’intelligenza dell’amore per mantenerlo vivo e giovane. L’egoismo che esiste sempre nel nostro modo di amare si purifica e diventa maturo attraverso l’accettazione dell’altro per se stesso con i suoi difetti ed errori. Infatti, una prova della maturità dell’amore è perdonare, cioè continuar a donare, anche quando ciò che si è dato non è stato ricevuto, apprezzato o addirittura si è perso. c) Amore maturo Se nell’innamoramento c’è una sproporzione fra bisogno e dono a favore del primo, nell’amore maturo si arriva a un equilibrio; non si tratta tuttavia di un bilanciamento basato su una giusta proporzione matematica, bensì di una trasformazione della necessità in amore: si ha bisogno del marito o della moglie perché si ama. L’altro è amato nel modo più profondo, giacché l’amante non ha altra volontà che quella dell’amato e viceversa. Nell’amore maturo l’altra persona è amata non solo per i suoi valori, ma soprattutto per se stessa, giacché quelle qualità – la bellezza, la gioventù, la salute, ecc. – che sono state la causa dell’attrazione, possono perdersi, anzi molte volte sono già scomparse. L’accettazione dell’altro come egli è, in tutta la sua grandezza e limitatezza, è il primo passo dell’autentica donazione, la quale consiste proprio nel volergli bene, collaborando con lui attivamente a raggiungere il bene che lo perfeziona, cioè che lo rende se stesso. Ne deriva l’importanza di cercare di conoscere sempre meglio l’altro senza idealizzazioni né schemi fissi. La persona che ama non solo pensa e desidera il bene dell’altro, ma usa tutti i mezzi che sono a sua disposizione per aiutarlo a ottenerlo. L’apertura della propria intimità all’altro è anche partecipazione della vita altrui, in modo tale che il nucleo delle due vite entra in contatto modificandosi, perfezionandosi. La tenerezza, gioia, compassione, misericordia, ringraziamento sono le qualità che corrispondono all’unione 286

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amorosa di due intimità. La fase più perfetta consiste nell’unione delle volontà, per arrivare alla quale si deve normalmente passare attraverso altri tipi di unione: fisica, affettiva, di mutuo aiuto nella creazione della famiglia, nelle gioie e sofferenze legate alla crescita dei figli, alle malattie, ecc. Ciò non significa che, arrivati all’unione di volontà, gli altri tipi di unione scompaiano; piuttosto questi diventano più integrati e, quindi, anche più gioiosi. Così si arriva a una comunione sempre più profonda di marito e moglie, manifestata nel rispetto, nella comprensione, nella pazienza, nella fiducia e nella fedeltà nei confronti dell’altro. Insomma, le tre tappe hanno come scopo l’integrazione dell’amore fra uomo e donna, cioè passare dal “si ama perché si ha bisogno” al “si ha bisogno perché si ama” attraverso l’autopossesso e la donazione di sé (totale e per sempre) secondo la propria condizione sessuata.

3. Il celibato Spesso si legge o si ascolta una critica al celibato che prende spunto dalla sessualità umana. Essa potrebbe essere formulata nel seguente modo: il celibato, poiché implica il non fare uso della capacità generativa, si oppone radicalmente sia alle esigenze più basilari della natura sia all’aspirazione umana alla paternità o maternità. Mi sembra che tale obiezione al celibato derivi, in primo luogo, da un errore antropologico dovuto alla non distinzione fra sessualità e condizione sessuata. Infatti, se la persona umana avesse unicamente una sessualità biologica, il non farne uso equivarrebbe a una mancanza di perfezione, in quanto la persona non genererebbe altri individui della stessa specie e, quindi, in lei la natura resterebbe infeconda. La persona ha, però, una condizione sessuata. La condizione sessuata della persona implica la trascendenza dell’individuo umano nei confronti della specie, il che non accade negli animali. Nell’animale l’uso della capacità generativa è l’atto più elevato dell’animale a livello individuale, giacché per riprodursi deve essere in grado di realizzare tutti gli atti propri, cioè avere il plesso istintisensazioni-azione, e soprattutto a livello specifico, giacché nell’attualizzazione dell’istinto sessuale specie ed individuo s’identificano: ciò che viene generato è sempre un individuo della stessa specie. In definitiva, l’animale ha la capacità in potenza di generare un altro animale, la 287

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Capitolo undicesimo

cui attualizzazione equivale alla sua perfezione finale. Perciò, l’animale che non può generarne un altro o che non genera è imperfetto in quanto animale. Nel caso della persona, non procreare non è un’imperfezione personale e, quindi, la generazione, in quanto tale, non implica una maggiore perfezione personale. Dato che il suo essere non consiste nell’avere la potenza di generare un altro individuo della stessa specie, la persona non ha bisogno di generare per perfezionarsi. Il suo perfezionamento sarà allora di un altro tipo: non specifico ma personale. Il carattere sessuato della persona non va cercato, dunque, nell’attualizzazione della potenza generativa ma in un’altra direzione, nella risposta cioè alla chiamata al dono di sé, la quale si può raggiungere sia nel matrimonio sia nel celibato. Non è quindi solo la generazione biologica a essere sorgente d’integrazione, bensì la donazione di sé come uomo o donna. Nell’origine del celibato ci possono essere differenti cause: a volte esso è dovuto a obblighi familiari, problemi esistenziali, lavorativi, economici, sociali, ecc., altre volte risulta da una scelta personale per poter dedicarsi allo svolgimento di attività artistiche, scientifiche, benefiche o, in alcune culture, per dedicarsi a Dio e agli altri. In tutti questi casi, il celibato non si oppone all’integrazione sessuale a patto che la persona eviti di chiudersi in se stessa. Contro l’opinione diffusa da molti massmedia, ciò che si oppone alla maturità non è la virtù della castità, ma il non essere in grado di relazioni personali adeguate o, ciò che accade più spesso, il legarsi affettivamente in modo sbagliato; ad esempio, trasformando l’amicizia in una relazione a sfondo sessuale. D’altro canto, al contrario di quanto potrebbe sembrare, il celibato non esclude la relazione di paternità/maternità. Infatti, poiché la manifestazione naturale della maturità personale consiste nel raggiungere la sufficiente autonomia e donazione per diventare padre/madre, questo tipo di relazione è possibile sia nel matrimonio sia nel celibato. In queste due situazioni esistenziali c’è sempre l’apertura alla generazione, nel caso del matrimonio anche dal punto di vista biologico, poiché il dono di sé, in virtù della partecipazione del corpo, è fecondo anche in senso fisico. Da qui segue che la generazione della persona fisica o spirituale non dovrebbe essere slegata dalla donazione, la quale per i genitori rappresenta la massima individualizzazione in ambito personale. Nel caso dei celibi, tale generazione è puramente spirituale, nei termini cioè della cura, educazione, custodia e servizio degli altri, specialmente di quelli 288

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Identità personale e condizione sessuata

che dipendono da noi. Il dono di sé personale, quindi, è all’origine della paternità e della maternità e, in un senso ampio, di tutte le relazioni umane, a incominciare da quelle che costituiscono la famiglia.

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4. Paternità, maternità e filiazione L’amore coniugale è naturalmente dischiuso al terzo come simbolo della comune appartenenza degli sposi e vincolo della loro unione. Perciò l’apertura al terzo costituisce l’essenza della famiglia, che è la prima relazione stabilita sulla base delle condizioni sessuate. Infatti, tutto ciò che ha a che fare con la sessualità umana, sia nella sua origine sia nel suo sviluppo, si dà all’interno della famiglia. Lì s’impara a integrare la propria condizione sessuata mediante i primi rapporti interpersonali, perché siamo amati e accettati per quello che siamo: non per i nostri meriti o le nostre qualità ma solo per la nostra condizione di figli. Nella famiglia scopriamo anche il senso della propria auto-determinazione e quindi della virtù, cioè il “poter darsi”: il marito alla moglie, i genitori ai figli, ecc. La famiglia non si riduce alla procreazione, ma si estende alla crescita delle persone, della loro eticità e personalità. C’è dunque un triplice senso del termine generazione di cui la famiglia è soggetto insostituibile: il primo si riferisce alla generazione delle identità di marito e moglie; il secondo, alla generazione del figlio e, in lui, ai rapporti di maternità-paternità-filiazione; il terzo, all’educazione e indipendenza del figlio fino a diventare a sua volta generativo. La generazione è, perciò, una struttura costituita da tre elementi: la formazione delle identità delle persone, la creazione dei loro legami e la crescita della loro capacità generativa. Identità, alterità e relazione hanno nella famiglia la loro origine, sviluppo e rigenerazione. In definitiva, nella generazione osserviamo una certa circolarità: l’identità della persona si sviluppa attraverso i legami familiari, ed è questa stessa identità con un certo grado di maturità a essere sorgente di nuovi legami familiari11. Qui si osserva la natura relazionale della persona umana da una prospettiva dinamica. 11 Secondo Sokolowski, la dissoluzione dei legami attraverso la cosiddetta fami-

glia allargata e, soprattutto, le “famiglie” omossesuali, monoparentali, ecc., influisce negativamente sull’identità personale. «Le persone diventano individui anonimi, lasciati da soli a definire se stessi invece di ricevere un ruolo e un posto nella vita»

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Capitolo undicesimo

Per la generazione umana non basta, dunque, la complementarietà sessuale, ma c’è bisogno anche dell’unione di due identità personali. Prima dell’unione coniugale, uomo e donna hanno la loro capacità generativa, intesa questa non in senso biologico ma strutturale, solo in potenza. Questi hanno già sviluppato la loro differenza sessuale e l’identità dei loro io, ma ancora non quella della condizione sessuata o, per lo meno, solo in modo molto limitato. Il legame sponsale, che implica l’intenzione permanente di donarsi a un altro, si trova nella stragrande maggioranza delle persone alla base della loro formazione e maturità. Ecco perché il matrimonio (contro il femminismo radicale) non solo non è contrario all’identità, ma la richiede e la rafforza12. L’identità del marito o della moglie non fa riferimento, in primo luogo, al figlio, ma all’altro coniuge, al suo essere sposo o sposa, al suo legame sponsale. La mancanza d’identità, come marito o moglie, crea difficoltà per un rapporto familiare perfettivo e, di conseguenza, per la possibilità di generare in senso ampio. Anche se è già generativo, il legame sponsale deve essere aperto ai figli, altrimenti corre il rischio di chiudersi in una relazione a due, il che sarebbe un modo di ripiegarsi sul passato ovvero su un falso fidanzamento, trasformando così il matrimonio in egoismo a due o in un autocompiacimento narcisistico. Come segno che l’amore di per sé è aperto agli altri, la fecondità fa parte necessaria dell’unione coniugale. L’atteggiamento di fiducia dei coniugi che si aprono alla generazione (R. SOKOLOWSKI, The Threat of Same-Sex Marriage. People Who Separate Sexuality from Procreation Live in Illusion, «America», June 7-14 (2004), pp. 13-14). 12 «Se l’ordine umano, sociale e simbolico dà agli individui una doppia filiazione, maschile e femminile, non è in nome dei sentimenti che possono legare i genitori tra loro, dei desideri che li animano o del piacere che si danno, ma in ragione della condizione sessuata dell’esistenza umana e dell’eterogeneità di ogni generazione, della quale la cultura fino ad oggi ha voluto conservare il modello» (S. AGACINSKI, L’homoparentalité en question, “Le Monde”, 24-VI-2007). Nonostante gli argomenti di tipo antropologico e giuridico usati contro il matrimonio e la genitorialità delle coppie omosessuali, l’autrice è favorevole all’adozione da parte degli omosessuali a titolo individuale, arrivando così a promuovere «il modello di una nuova relazione familiare, simile a quella di una famiglia ricostituita», ma «senza che un padre e il suo compagno, o una madre e la sua compagna, siano confusi con una coppia di genitori». In fondo, Agacinski difende la distinzione uomo/donna di fronte a quella di eterosessuali/omosessuali propagandata dal femminismo di genere, lasciando da parte il tema della famiglia come se fosse un’altra questione (cfr. S. AGACINSKI, La Politica dei Sessi, Ponte alle Grazie, Milano 1998).

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Identità personale e condizione sessuata

annulla la rigidità della programmazione o l’illusione di una fusione completa e, nel tempo che sigilla la loro unione, la dischiude alla novità. La concrezione normale di tutto ciò è il figlio, il quale afferma la sua identità originaria – non riconducibile a quella dei genitori – prima condizionando il corpo della madre, poi la vita di entrambi i genitori e dei fratelli. Lungi dal distruggere l’uni-dualità iniziale, l’identità del figlio perfeziona la relazione familiare. La paternità e la maternità portano con sé un nuovo modo di essere marito e moglie e, in ultima analisi, di essere uomo e donna. Perciò la paternità e la maternità non sono qualcosa che si aggiunge dall’esterno alla condizione sessuata e al rapporto di coppia. Ogni uomo ha la vocazione di padre fisico o spirituale e ogni donna di madre fisica o spirituale. Essere padre o madre non è un diritto, bensì un dovere. Ne deriva l’errore di considerare il figlio come il risultato di una scelta, oggetto di un desiderio o volere. Nella maternità e nella paternità c’è anche una struttura di composizione e, di conseguenza, la necessità d’integrazione. Per quanto riguarda la prima, essa è composta dai seguenti livelli: 1) maternità biologica (l’ovulo fecondato); 2) maternità affettiva (portare l’embrione in grembo, allattare e curare il bambino); 3) maternità sociale (riconoscerlo come figlio e educarlo). Nonostante possano essere separati e trattati in modo funzionale – soprattutto mediante l’uso di tecniche biologiche, come accade con la vendita di ovuli, gli uteri in affitto, ecc. –, questi livelli fanno parte di una stessa maternità. Il rapporto corporeo che la madre ha inizialmente con il bambino, come anche i legami affettivi basati sull’accoglienza, protezione e cura, creano una specie di simbiosi fra la madre e il figlio, necessaria perché questo ultimo possa svilupparsi arrivando così alla sua totale individualizzazione. Ciò nonostante, questi legami spontanei possono trasformarsi, sotto l’influsso del desiderio mascherato da possesso e della paura di perdere una parte di sé, in atteggiamenti d’iperprotezione, dimenticando che il figlio è un altro, cioè ha una propria identità e, soprattutto, che la vocazione della madre consiste nell’aiutarlo a crescere, mediante lo sviluppo della sua autostima. Secondo la cosiddetta psicologia umanistica, l’autostima del bambino nasce dall’immagine che questi ha del proprio Io. Un’immagine indiretta, cioè un’immagine che si forma attraverso il modo in cui egli sperimenta il giudizio degli altri, specialmente di quelli cui si sente 291

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Capitolo undicesimo

affettivamente attaccato. Secondo Rogers, fondatore di questa scuola psicologica, quando il bambino percepisce di essere stimato da persone importanti per lui, ad esempio, dai genitori che lo premiano o puniscono in base ai suoi atteggiamenti o impulsi, sviluppa una stima di sé corrispondente agli effetti causati dal proprio comportamento. In questo caso la stima di sé, che – a parere di Rogers – dovrebbe corrispondere alla dignità personale, non è più assoluta, perché il bambino si stimerà degno solo se corrisponderà agli ideali dei genitori. Se invece il bambino (fin dal momento in cui la stima di sé si è formata) ha ricevuto una stima totale, la sua autostima sarà incondizionata, cioè non dipenderà da ciò che egli sente, dice o fa. Perciò – Rogers conclude – quando una persona si sente completamente stimata non pone alcuna condizione alla stima di sé, e valuta le proprie esperienze unicamente con il criterio organico dell’utilità o dannosità per il proprio sviluppo. Anche se la scoperta di Rogers è importante, questo modo di spiegare l’origine dell’autostima non sembra del tutto adeguato, perché, oltre all’introiezione della stima degli altri, l’autostima dipende dalle motivazioni che l’Io ha, ossia dal suo progetto esistenziale e dalla sua riuscita. D’altra parte la stima incondizionata proposta da Rogers non pare che rispetti la dignità personale. Secondo Rogers, ad esempio, affinché il bambino capisca di essere stimato in modo incondizionato, la madre dovrebbe rivolgersi a lui in questi termini: «io capisco che ti piaccia picchiare il tuo fratellino, (o liberare il tuo intestino quando e dove ti pare, o distruggere le cose), ed io ti voglio bene, e perciò sono contenta che tu abbia questi sentimenti. Ma anch’io desidero avere i miei sentimenti, e mi dispiace molto quando il tuo fratellino è picchiato (o divento triste o disgustata quando tu fai le altre cose); perciò non ti permetto di picchiarlo. I sentimenti miei e i tuoi sono egualmente importanti, e ognuno di noi può avere liberamente i suoi»13. Credo, invece, che la stima incondizionata sia compatibile con il rifiuto di alcuni comportamenti del bambino perché di per sé negativi, altrimenti essa si dovrebbe basare sulla mancanza di valori oggettivi, condivisibili. Per quanto riguarda la paternità, anche se gli elementi strutturali sono gli stessi della maternità, essi sono tutti impregnati del rapporto 13 C.R. ROGERS, A theory of therapy, personality, and interpersonal relationships, as developed in the client-centered framework, in Psychology: A study of a science, vol. III, a cura di S. Koch, McGraw-Hill, New York 1959, p. 225.

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Identità personale e condizione sessuata

padre-figlio, il quale presenta differenze da quello materno sia a livello biologico e affettivo sia sociale. Gli studi suggeriscono che gli uomini e le donne contribuiscono in modo differente al compito di educare i figli e che il rapporto dei genitori con i loro figli ha importanti conseguenze per i giovani. Le mamme, più sensibili alle grida, parole e gesti dei piccoli, dei bambini e degli adolescenti, sono migliori nel fornire il nutrimento fisico e affettivo ai figli14. Queste capacità materne sembrano avere profonde radici biologiche15. Dal canto loro, i padri eccellono quando si tratta di formare i figli nella disciplina o di renderli sicuri, aiutando i figli a cogliere le opportunità della vita e ad affrontare le loro difficoltà. Inoltre, i padri riescono meglio ad incoraggiare i loro figli a prendere compiti difficili, a lavorare sodo senza lamentarsi e a cercare nuove esperienze16. Queste capacità paterne sembrano anche avere un’origine biologica17. Ciò non significa, però, che le mamme non possano migliorare le loro doti di comando né che i padri non riescano a intrecciare legami affettivi con i loro figli. Da qualche decennio sta emergendo una nuova immagine della paternità, che incorpora atteggiamenti affettivi di cura e intimità relazionale che sino a qualche tempo fa erano considerati di naturale ed esclusiva dotazione femminile, e viceversa. Se la maternità ha dei rischi, neppure la paternità ne è essente. Forse il pericolo maggiore nel rapporto paterno è l’autoritarismo, quando cioè si considera il figlio inferiore e a volte anche un servo, come appare nella figura del padre padrone. La soluzione all’autoritarismo non è l’egualitarismo, in cui non si tiene conto dell’asimmetria originaria (il figlio riceve la vita e con essa tutti gli altri doni), bensì il modo di concepire l’autorità non più come volontà arbitraria, ma come servizio 14

Su questo punto si veda il saggio di E. MACCOBY, The Two Sexes: Growing Up Apart, Coming Together, Harvard University Press, Cambridge 1998, pp. 255287. 15 Cfr. D. GEARY, Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences, American Psychological Association, Washington D.C. 1998, p. 104. 16 Sul tema si può vedere anche E. MARQUARDT, Between Two Worlds: The Inner Lives of Children of Divorce, Crown, New York 2005, p. 154 e sgg. 17 Gli uomini hanno livelli più alti di testosterone, l’ormone associato al comando e all’asserzione. Anche se il legame fra biologia e talenti specificamente sessuati dei genitori è complesso, non si deve ignorare il peso evidente che queste differenze hanno nel rapporto con i figli (cfr. K. PRUETT, Fatherneed, Broadway, New York 2000, p. 207).

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Capitolo undicesimo

amoroso. L’autorità del padre ha come scopo l’educazione del figlio in modo da aiutarlo a raggiungere l’autonomia necessaria perché possa diventare, a sua volta, padre, per lo meno in senso spirituale. L’ambivalenza nel modo di usare l’autorità (come dominio o come servizio) si riflette nei rapporti fra padre-figlio, che possono essere d’imposizione (secondo la dialettica hegeliana del padrone-servo) o di amicizia. Né le capacità fondate sulla biologia né le inclinazioni spontanee bastano per diventare buoni genitori: è anche necessario l’uso della libertà. Occorre, quindi, un passaggio dalla spontaneità del bisogno alla donazione paterna o materna e alla ricezione filiale consapevole e libera. Sebbene si tratti di un percorso graduale, le prime tappe – senza le quali il traguardo è impossibile da raggiungere – sono: a) il rispetto dell’alterità del figlio; b) l’aiuto nello sviluppo della sua identità e generatività, intesa quest’ultima in senso ampio. a) Il rispetto dell’alterità del figlio. Contraria a esso è la considerazione del figlio come un diritto o un oggetto da produrre (che si manifesta, ad esempio, nella frase “facciamo un figlio”) o da acquistare nel supermercato della tecno-biologia. Il figlio è, invece, un dono, che deve essere accolto e amato per se stesso. Infatti, questi è originato non solo da un processo biologico né solo da un volere, bensì da una relazione; da qui l’imprevedibilità e l’impossibilità di ridurre la sua nascita a un progetto umano. I genitori devono dunque rispettare l’alterità del figlio, rendendosi conto che la sua persona si trova al di là dei loro desideri. Perciò devono accettare che il figlio tolga loro spazio fisico e psichico, mentre rafforza la relazione fra loro come conseguenza del suo carattere di dono18. Mediante la difesa dell’alterità del figlio si rafforzano gli altri legami familiari di coniugalità, genitorialità e fraternità, dando luogo a «quel peculiare ordinamento di forze in cui ogni uomo è importante e necessario per il fatto che è e in virtù del chi è; [è] l’ordinamento il più intimamente “umano” edificato sul valore della persona e orientato sotto ogni aspetto verso questo valore»19. Se il figlio non è l’oggetto del desiderio dei genitori, non è neppure una proiezione dei loro rispettivi Io. In primo luogo, perché la possibilità di diventare genitori suppone e non trascende il loro stesso essere, 18 Cfr. R. ALVIRA, Sobre la esencia de la familia, in Juan Cruz Cruz (a cura di), Metafísica de la familia, EUNSA, Pamplona 1996, p. 21 19 K. WOJTYLA, Metafisica della persona, cit., p. 1464.

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Identità personale e condizione sessuata

mentre il figlio trascende realmente l’essere dei genitori20. La paternità-maternità non dovrebbe, quindi, essere considerata un’identificazione del proprio Io con il figlio, bensì una crescita di tutt’e due attraverso la relazione di servizio al figlio21. D’altro canto un’identificazione di sé nel figlio equivarrebbe al mantenimento dell’Io del padre-madre, ovvero della loro soggettività nel tempo oltre la loro scomparsa fisica, come se l’Io potesse così superare il potere distruttore della morte. Quest’identificazione ha alla base una visione dell’amore umano legato alla sopravivenza, in questo caso, non della specie, ma dei soggetti. La conservazione di una soggettività attraverso un’altra è però una pura illusione. b) L’aiuto nello sviluppo della sua identità. La dipendenza del figlio nei confronti dei genitori ha come altra faccia la loro responsabilità. Oltre a implicare il riconoscimento e il rispetto del figlio, la responsabilità dei genitori è preoccupazione attiva per la sua perfezione consistente nel diventare se stesso, per cui si basa non sull’avere bensì sull’essere. Diventare un genitore responsabile non consiste nel dare cose, oggetti con cui soddisfare i desideri dei figli, ma nel darsi. A volte i sentimenti di disagio causati dalla mancanza di vera responsabilità si cercano di cancellare mediante dei regali. Solo che la sazietà dei figli, lungi dal cancellare la cattiva coscienza dei genitori, la rende insopportabile soprattutto quando ci si accorge che la mancanza d’educazione ha prodotto figli egoisti. 20 «L’intersoggettivo, ottenuto attraverso la nozione di fecondità, apre un piano in cui, allo stesso tempo, l’Io si spoglia del suo ego tragico, ritornando a sé, e, ciò nonostante, non si dissolve puramente e semplicemente nella collettività. La fecondità testimonia un’unità che non si oppone alla molteplicità, ma, nel senso proprio del termine, la genera» (E. LÉVINAS, Totalité et Infini, Martin Nijhoff, La Haye 1961, p. 306). Anche se ha ragione nel considerare la fecondità come l’origine della molteplicità senza cancellare l’unità, Lévinas continua ad avere una visione negativa dell’Io, come egoismo. In realtà l’Io è egoista solo quando rifiuta l’origine della fecondità: il dono di sé. 21 Per questo motivo non condivido la tesi lévinasiana secondo cui «la paternità resta un’identificazione di sé, ma anche una distinzione nell’identificazione – struttura imprevedibile in logica formale» (E. LÉVINAS, Totalité et Infini, cit., p. 299). Se ci fosse un’identificazione reale con il figlio, come sembra indicare Lévinas, non sarebbe possibile la distinzione, giacché l’identificazione riguarda la soggettività del padre. C’è una certa contraddizione nella tesi di Lévinas: da una parte l’Io si identifica con l’altro, il che potrebbe essere considerato come un ritorno all’egoità; dall’altra è un altro del generato, il che impedisce la distruzione della pluralità.

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Capitolo undicesimo

Una delle responsabilità dei genitori riguardo ai figli è promuovere la loro identità sessuata. Tale compito, lungi dall’essere un’intromissione nella loro vita, fa parte essenziale della stessa struttura familiare. Infatti, il rafforzamento delle identità sessuate dei figli si realizza, in primo luogo, attraverso rapporti familiari adeguati, i quali permettono di sperimentare relazioni umane piene di tenerezza e cura22. In secondo luogo, questo tipo di rapporti serve a modellare la condizione sessuata dei figli, poiché essa dipende in grande misura dalle reti che connettono e distanziano i generi fra loro. Da qui le enormi difficoltà perché le relazioni uni-gender o uni-sex, in cui mancano le differenze sessuate, siano in grado di foggiare le identità dei figli. Anche le coppie dei genitori in continua crisi non offrono modelli adeguati. D’altro canto, l’assenza o mancanza più o meno grande d’identità sessuata dei figli si riverserà poi sui loro rapporti coniugali. E così il ciclo delle difficoltà fra i generi si acuisce, provocando un vero e proprio disagio relazionale. La responsabilità dei genitori nei confronti dei figli include anche la trasmissione dei valori che essi cercano di realizzare. Ciò non deve considerarsi un’imposizione esterna (di fronte alla psicoanalisi) e neppure manifestazione di preferenze, gusti, ecc., ma “un progetto di vita”. I valori vanno proposti soprattutto con l’esempio coerente da parte dei genitori, altrimenti possono essere visti come una maschera ipocrita della loro volontà di potenza. Le norme come esigenze incondizionate di vita personale difendono l’identità più profonda della persona, la sua stima incondizionata, la realizzazione di fini che non possono essere negoziati perché nel farlo ci si gioca la propria identità. Ne deriva la necessità di distinguere fra i valori e le attese che si hanno come padre o madre. Le aspettative dei genitori devono contare sull’accettazione del figlio perché solo così questi potrà scegliere con libertà e responsabilità il suo progetto di vita. 22

«Dire che la famiglia è una relazione sessuata vuol dire che si fa famiglia, e si sta in famiglia, diversamente in quanto si è maschi e in quanto si è femmine. Nella famiglia due diversità bio-psichiche s’incontrano, interagiscono, si compensano e confliggono, si aiutano e competono fra loro, si scambiano tante cose, si ridefiniscono l’una per rapporto all’altra, dividendosi i compiti, negoziando spazi di libertà e di rendicontabilità vicendevoli sulla base di una specifica attribuzione di sesso: tu sei uomo, e perciò ti compete questo; tu sei donna, e perciò ti compete quest’altro» (P. DONATI, La famiglia come relazione di Gender: Morfogenesi e nuove strategie, in P. Donati (a cura di), Uomo e donna in famiglia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 26).

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Identità personale e condizione sessuata

In conclusione, i genitori devono servire i figli, i quali non sono un diritto né il risultato di un volere, ma un dono. La genitorialità comporta sia la giustizia sia l’amore. La madre ha il dovere di servire il figlio, proteggendolo, curandolo, aiutandolo a crescere come persona. Perciò la madre è la colonna della vita familiare. Il padre impara a servire il figlio spesso aiutando la madre e così scopre la sua identità profonda. La paternità-maternità, quindi, contiene in radice l’apertura al terzo, bisognoso e chiamato ad amare. Ecco perché la famiglia è intrinsecamente gerarchica23; con una gerarchia che nasce non da volontà di potenza, ma da spirito di servizio, per cui chi possiede l’autorità deve servire mentre chi è servito deve ubbidire24. È chiaro che una tale comunicazione attraverso l’autorità è resa possibile solo dalla fiducia reciproca, che allontana il sospetto di un mascheramento di intenzioni contrarie: dominare, invece di servire; manipolare, invece di aiutare a scegliere. Anche se tutt’e due sono i termini di una relazione, paternità e filiazione non hanno la stessa importanza. Essere figlio non è un semplice fatto dipendente dalla generazione umana nel tempo, bensì una relazione costitutiva della propria identità. Perciò è necessario anche avere coscienza della propria filiazione e accettarla volontariamente. Qui si osserva un’altra differenza rispetto alle altre relazioni parentali; infatti, unicamente nel caso della filiazione, l’accettazione di una tale relazione, lungi dall’aprire solo delle possibilità al modo di essere se stesso, è inseparabile dalla propria identità. Ciò è dovuto, oltre all’aspetto co23 La nascita prematura del figlio – secondo Gehlen – esige delle cure perché questi possa svilupparsi. Nascita prematura, sviluppo della razionalità e cure da parte dei genitori costituiscono un sistema. In modo tale che può affermarsi che c’è una proporzionalità diretta fra questi tre membri: più grande è l’indeterminazione del neonato più grande è la possibilità di sviluppo, a patto che esso sia in grado di entrare in rapporto con altri esseri razionali. 24 «Nell’interazione adulto-bambino il messaggio non è solo un messaggio. La comunicazione non è solo comunicazione. Certo bisogna distinguere fra sistema osservato e sistema osservante, esistono riflessività e circolarità. Ma nel messaggio e nella comunicazione, in qualunque sistema di riferimento li si osservi, i soggetti sono coinvolti secondo molteplici livelli di realtà. Se essi agiscono come agiscono è perché essi stanno rispondendo ad una storia delle loro relazioni e si collocano da un punto di vista che ha una sua “istanza globale”. Non fanno solo osservazioni su osservazioni: o meglio, nel fare ciò, devono tener conto delle inter-relazioni con gli altri livelli di realtà. Se manifestano un comportamento, esso coinvolge in qualche modo l’intera persona, non solo ciò che di essa è emittente o ricevente» (P. DONATI, La famiglia come relazione sociale, Franco Angeli, Milano 1992, p. 110).

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Capitolo undicesimo

stitutivo che la filiazione rappresenta, al ruolo identitario che la sua accettazione comporta. Che cosa significa, allora, accettare di essere figlio? Oltre al fatto di essere conscio di avere un’origine, significa accettare i propri genitori come tali con le loro virtù e difetti, considerandoli come amici e non come un mezzo per soddisfare i propri desideri. Per arrivare a un tale rapporto di filiazione è necessaria una visione realistica dei genitori, superando prima la tappa d’onnipotenza del desiderio e poi quella della mitificazione delle figure materna e paterna. Infatti, nell’infanzia i genitori sono considerati, soprattutto, esseri che soddisfano i propri desideri. Ne deriva la loro trasformazione in esseri mitici. Siccome tutto ciò che desidera e non è in grado di raggiungere da solo può ottenerlo attraverso i genitori, il bambino li stima a livello inconscio come se fossero onnipotenti. Con il passare degli anni, la scoperta progressiva dei limiti dei genitori dà luogo a una crisi nel modo di concepire la figura del padre o della madre: essi smettono di essere degli déi per diventare persone di carne e ossa con limiti e difetti. Più tardi, nell’adolescenza, i figli giudicheranno criticamente questi difetti o ciò che appare loro come tali, ribellandosi all’autorità dei genitori e ai loro comandi. Dopo questa crisi relazionale, il figlio si trova nella condizione di scoprire il vero volto del padre e della madre, ma per farlo deve superare un ultimo scoglio: la tendenza a concepire l’agire dei genitori nei suoi confronti come qualcosa di dovuto. Per accettare fino in fondo di essere figlio non basta, dunque, rendersi conto che i genitori non sono né degli dèi né degli schiavi al proprio servizio, è necessario anche accorgersi del carattere gratuito della loro donazione. Infatti, essi sono origine della vita dei figli, e li aiutano a valutarla come dono, come qualcosa che ha senso in sé. Accettare i genitori equivale a riconoscere i doni ricevuti da loro: la vita, la cura amorosa, l’aiuto per realizzare il proprio progetto di vita sono doni e non diritti. Insomma, accettare i genitori è considerarli fondamentalmente donanti. Ciò non vuol dire non rendersi conto quando i genitori sono autoritari, iperprotettivi o possessivi. L’accettazione della filiazione non equivale a scambiare questi difetti con virtù; tale baratto è possibile solo quando non si ha esperienza del dono. L’accettazione, quindi, non è contraria all’emancipazione dall’autoritarismo, protezionismo, e così via, bensì al rifiuto del carattere di donatori che i genitori hanno. Il figlio esprime la sua identità comportandosi da buon figlio, cioè amando i ge298

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Identità personale e condizione sessuata

nitori come donanti. Così egli scopre il tesoro nascosto nella paternità e maternità, meritevoli di onore. L’amore del figlio verso i suoi genitori è la risposta all’amore di cui è stato oggetto da parte loro25. Un modo di manifestare il suo ringraziamento per l’amore ricevuto è attraverso l’aiuto ai propri genitori quando essi sono malati, anziani o in qualsiasi tipo di difficoltà e, soprattutto, diventando a sua volta anche capace di paternità o maternità26. Insomma, la relazione fra genitori e figli dovrebbe allontanarsi tanto dal “cameratismo”, che pretende di negare l’esistenza di qualsiasi dipendenza e gerarchia, quanto da un rapporto senza affetto e fiducia, poiché può dare luogo all’insicurezza e alla paura che sottraggono libertà. Il reciproco rispetto e la mutua fiducia sono necessari perché i figli crescano con un senso di sicurezza e autostima (la loro vita ha un grande valore e il mondo è migliore perché loro ci sono) e i genitori maturino mediante un’appassionata donazione di se stessi. Parlando del corpo si è detto che il principio d’individuazione è la materia quantitate signata, ossia l’estensione. Nell’uomo non c’è però un unico principio; infatti, uno maggiore di quello corporeo è la percezione di se stesso come agente, e un altro ancora superiore è quello basato sulle relazioni umane. Per esempio, il bambino appena nato ha un solo principio d’individuazione: il proprio corpo (senziente e spiritualizzato). Quando egli scopre di essere responsabile delle proprie azioni, cioè quando è consapevole di aver posto quegli atti liberamente (e non forzati da un’altra causa), raggiunge una nuova individualità che possiamo chiamare “Io”. C’è ancora un’identità più profonda quando gli si svela di essere figlio chiamato al dono di sé (alcuni forse non lo scoprono mai). Alla persona umana non basta, dunque, essere stata generata, deve amare i propri genitori, il che, d’altra parte, è condizione necessaria per diventare padre o madre. Basta leggere dei romanzi, 25

«In realtà, in questa reciproca relazione d’onore, sono la madre e il padre a prendere l’iniziativa, cominciando dall’atto d’amore coniugale, procreazione di una nuova persona umana fin dal momento del concepimento, e la gestazione di questa nuova persona nel grembo materno» (J. HAGAN, Nuovi modelli di famiglia, in AA.VV., Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, a cura del Pontificio Consiglio per la famiglia, EDB, Bologna 2003, p. 638). 26 «Si riconoscerà che i figli devono soprattutto provvedere alla sussistenza dei genitori, poiché sono loro debitori, e perché è più bello in queste cose provvedere agli autori della propria esistenza che a se stessi. Ai genitori, poi, bisogna tributare onore come agli dèi» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 2, 1164b 20-25).

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Capitolo undicesimo

guardare dei programmi televisivi o dei film per rendersi conto che uno dei problemi fondamentali del nostro tempo – almeno in Occidente – è la mancanza di paternità. Perché non si hanno figli? Perché le persone non vogliono sposarsi? Ci sono molte cause ma quella fondamentale è che si è perso il senso della filiazione e, di conseguenza, il desiderio di paternità. Ciò è stato capito dalla psicoanalisi, che ha cercato di esprimerlo mediante il richiamo del mito di Edipo. La sua soluzione, tuttavia, non sembra adeguata: l’uccisione simbolica del padre, lungi dal portare all’indipendenza del figlio, distrugge anche la possibilità di diventare padre. Comunque, la crisi della figura paterna ha radici più profonde; infatti, essa non solo si riferisce a chi ci ha generato fisicamente ma anche al Padre per eccellenza, ossia Dio. La morte di Dio, che dal novecento segna la nostra cultura, porta con sé anche quella della paternità, della filiazione e della fraternità, di tutte le relazioni cioè che costituiscono l’identità umana.

5. L’integrazione del carattere sessuato: maturità affettiva e donazione La sessualità umana è una struttura composta di diversi elementi naturali e culturali: il sesso, l’erotismo (la bellezza del viso, della figura, della voce), l’affettività (simpatia, valutazione positiva di valori personali, innamoramento), l’amore, che va dalle qualità, in cui è possibile la sostituzione dell’amante (sempre è possibile trovare una persona con maggiori qualità), a ciò che è pienamente personale, l’altro per se stesso (qui, invece, non è possibile la sostituzione). L’integrazione degli aspetti fisici, psichici e spirituali della sessualità, ossia la formazione della condizione sessuata, segue uno sviluppo graduale, per cui è suscettibile di crescere o regredire. Ci sono diverse tappe nella sua formazione: l’infanzia, basata sui modelli parentali; l’adolescenza, in cui si avverano spesso le prime esperienze amorose; la maturità, con le fasi di unione e crisi quando si scoprono le imperfezioni proprie e dell’altro coniuge; la vecchiaia, in cui si devono accettare i limiti dell’età e del carattere per continuare ad amare in un modo nuovo. Come le altre tendenze umane, la sessualità deve essere educata e integrata nella persona in ognuna delle tappe: l’educazione familiare, i 300

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Identità personale e condizione sessuata

modelli di comportamento, la cultura e, soprattutto, le esperienze personali svolgono pertanto un importante ruolo. Lo scopo della sessualità umana è l’uscita da sé, normalmente, attraverso l’amore per una persona di un’altra condizione sessuata con cui fondare una famiglia. Gli sposi devono imparare a donarsi in modo che l’altro possa riceverlo come moglie o marito. La donazione umana nel tempo ha dei limiti che provengono dalla finitezza della persona che si dà, giacché essa non possiede la propria esistenza totalmente né può donarla pienamente se non nella misura in cui la vive, e dalla limitatezza nella ricezione del dono da parte dell’altro. Così i genitori e l’amica/amico non possono ricevere il figlio/la figlia o l’amica/l’amico nella sua coniugalità; tentar di farlo equivale a sostituire un vero rapporto con uno falso. D’altro canto, anche se la coniugalità è per la stragrande maggioranza la strada per raggiungere la maturità affettiva, c’è un’altra via quella della paternità-maternità spirituale. La maturità affettiva umana, e quindi anche quella del celibe, si riferisce più che al solo rapporto con le persone dell’altro sesso a quello adeguato con la realtà in tutta la sua ampiezza, soprattutto attraverso gli altri. Due sono gli aspetti che, riguardo alla propria identità, manifestano un’affettività matura: la sicurezza emotiva e la capacità di crescere attraverso rapporti personali adeguati. La sicurezza emotiva, in contrapposizione ai sentimenti eccessivi di superiorità o d’inferiorità, è basata su una stima di sé ben fondata. La conoscenza dei propri limiti e pregi fa sì che si cerchi la sicurezza non attraverso l’opinione o l’affetto che gli altri hanno nei nostri confronti, ma solo attraverso ciò che siamo: marito/moglie, padre/madre, figlio/figlia, fratello/sorella; e, nel caso del celibe, attraverso l’essere padre/madre spirituali.

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Capitolo dodicesimo

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Identità personale e socialità

La natura sociale della persona si manifesta nel fatto che essa non può vivere senza relazioni umane. Infatti, come mostra l’esperienza dei cosiddetti bambini selvaggi, la persona ha bisogno dell’altro, più che per sopravvivere e accrescere la sua forza fisica per sviluppare le sue capacità psichiche e spirituali, in modo particolare la relazionalità, giacché essa include tutto ciò che la persona è, può e deve essere1. È possibile, dunque, affermare che una delle caratteristiche più evidenti della persona è la sua socialità. Ricevendo rispetto, educazione e amore dagli altri, la persona giunge a conoscersi, possedersi e darsi, diventando se stessa in maggiore o minore grado. La socialità conduce, quindi, la persona a una ricerca continua dell’altro sia per ricevere sia per dare. La persona umana non è, però, né una serie di rapporti isolati né la loro somma, ma un’identità che si sviluppa nella relazione e che, perciò, è chiamata al dono di sé. Quando si dimentica questo carattere della persona fatto da identità e relazioni e, quindi, da differenze, si producono delle astrazioni che annullano la persona. I due estremi – ugualmente distruttivi – di quest’oblio antropologico sono il collettivismo e l’individualismo.

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Nella foresta d’Aveyron (Francia) fu scoperto nel 1800 un ragazzo selvaggio, che fino ai dodici anni aveva vissuto in contatto solo con gli animali. I diversi tentativi per insegnargli a parlare furono un insuccesso: il ragazzo poté solo articolare poche parole. Perciò il gruppo di psicologi, che seguì l’educazione del bambino, arrivò alla conclusione che nella formazione dell’intelligenza e del linguaggio il rapporto con altre persone è decisivo fin dai primi momenti di vita.

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1. Collettivismo e spersonalizzazione Il collettivismo è la concezione antropologica che sostituisce le persone con concetti generali, come gruppo, classe, società o anche umanità. I concetti, però, non possono essere amati, solo le persone sono capaci di ricevere e dare amore. Perciò l’amore all’umanità propugnato dai collettivisti diventa pura filantropia vaga e astratta. Secondo Scheler, alla base di queste tendenze umanitarie e filantropiche si nasconderebbe un risentimento verso i vicini: il prossimo, la famiglia, la patria2. Il risultato del falso scambio delle persone con le idee produce una serie di paradossi: l’amore dell’umanità convive con la distruzione di milioni di persone, la preparazione di un paradiso sulla terra con la devastazione della natura, ecc. D’altro canto, nel processo di socializzazione della persona non si tiene conto delle differenze individuali se non per annullarle. E anche se sono promosse per lo meno a parole, la partecipazione e la solidarietà non si fanno dipendere più da un atteggiamento libero e responsabile ma forzato. Di conseguenza le persone diventano invidiose di quelli che hanno più capacità, talenti, cultura e ricchezza, per cui nessuno vuole intraprendere azioni che lo possano portare alle luci della ribalta: nessuno deve essere più degli altri e, di conseguenza, tutti sono meno di quanto potrebbero e dovrebbero essere3. Poiché fanno parte della natura umana, la partecipazione e la solidarietà devono essere sostenute. Per fare ciò, bisogna tuttavia capire il loro fondamento. Infatti, la base di queste due attitudini è una serie di tendenze umane che si rivolgono agli altri e che fanno sì che la persona si senta attratta da una realtà che è al di là di se stessa. Il sentirsi attirato non deve intendersi come una forza fisica, simile a quella della calamita, che impulsa all’incontro con l’altro giacché – sebbene sia un 2 Cfr. M. SCHELER, Il risentimento nella edificatione delle morali, cit., pp. 77111. Sebbene Nietzsche e Scheler considerino il risentimento la causa del male che grava sulla cultura moderna europea, il modo di concepire l’amore del prossimo in questi autori è speculare: per Nietzsche esso è una manifestazione di debolezza e di utilitarismo (si ha bisogno dell’altro perché da soli si è incapaci), per Scheler invece, in quanto vero amore personale, si avvicina a quello divino, che è per ogni persona. Perciò, Nietzsche preferisce l’amore universale, che nasce dalla potenza, a quello del prossimo. 3 Una buona critica del collettivismo si trova in F.A. HAYEK, The Fatal Conceit: The Errors of Socialism, University of Chicago Press, Chicago 1991, specialmente il quarto capitolo.

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bisogno reale – non ha basi fisiologiche dimostrabili, ma piuttosto come un’inclinazione psichica e spirituale a entrare in rapporti di donazionericezione e a scoprire attraverso di essi il senso ultimo della vita. Alcuni studiosi hanno distinto fra due tipi d’inclinazione sociale: l’associazione o società (essere-con-l’altro) e la comunione o comunità (essere-per-l’altro)4. a) La tendenza a essere-con-l’altro è l’inclinazione a mettersi in rapporto con gli altri e ad avere in comune il mondo. L’associazione si manifesta a livello elementare, soprattutto, nell’imitazione, base dell’adattamento della persona alle diverse situazioni vitali5. Nella realizzazione di questa tendenza la persona non si sente completamente coinvolta poiché le relazioni con gli altri sono soprattutto funzionali. Ciò nonostante, è possibile renderle personali. Per farlo la persona deve trovare l’equilibrio fra l’eccesso che la porterebbe alla perdita della propria identità, e quindi a diventare un semplice riflesso della sua funzione (come accade nel collettivismo), e il difetto che la porterebbe al rifiuto dell’essere-con, proprio della persona che si chiude in sé e preferisce il monologo al dialogo (come accade nell’individualismo e nella misantropia). Forse il miglior modo di raggiungere l’equilibrio è riuscire attraverso le funzioni svolte a far trasparire la propria persona, come accade nell’atteggiamento di partecipazione e cooperazione. Infatti, chi coopera non si limita a un’imitazione, interpretazione, reinterpretazione o interazione, ma anche a una co-realizzazione. La cooperazione ha un doppio significato: oggettivo e soggettivo. L’aspetto oggettivo consiste nell’avere un fine in comune, il che implica la possibilità di co-attuazione6. L’aspetto soggettivo, invece, richiede di scegliere tale fine come 4

La distinzione fra essere-con e per-l’altro la troviamo in L. BINSWANGER, Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973. Il primo a distinguere fra società (Gemeinschaft) e comunità (Gesellschaft) è stato F. TÖNNIES (1855-1936) nella sua opera del 1887 intitolata Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, pubblicata di recente dalla Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2005. 5 Per Aristotele, l’imitazione è alla base della comunità umana, perciò la rappresentazione drammatica ha non solo un valore estetico ma anche politico, cioè di rafforzare i legami fra i cittadini della polis (cfr. ARISTOTELE, Politica, VIII, 7, 1342a). 6 P. JANICH, L’agire fra vita quotidiana e scienza, tr. it. di M. Buzzoni, in L. Alici (a cura di), Azione e persona: Le radici della prassi, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 112.

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Capitolo dodicesimo

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il proprio bene, nel senso che la persona si realizza in esso. Ciò che nell’azione è amato da un altro come bene è considerato da chi coopera un proprio bene, giacché in esso si scopre un bene comune7. b) La tendenza all’essere-per, che caratterizza la donazione, si manifesta sia nel dovere dinanzi a qualcuno che ha bisogno di riconoscimento e di cura (come accade di fronte alle persone senza autonomia, come gli embrioni, bambini, disabili, persone in stato vegetativo, anziani, malati terminali), sia nel dono di sé nel matrimonio, nella famiglia, nell’amicizia, nel lavoro, ecc. Ciò è dovuto al fatto che, come alcuni psicologi spiegano, nell’incontro con l’altro si realizza un’esperienza potenzialmente creativa di relazioni8. La tendenza alla comunità coinvolge tutti i propri rapporti personali, sebbene si esprima in modo differente secondo la capacità che si ha di ricevere il dono dell’altro. Questo può manifestarsi nella condivisione di una stessa lingua, cultura, filiazione politica o religiosa, il che dà luogo al fenomeno dell’appartenenza. Attraverso un’identificazione spontanea (come accade con la lingua materna) o riflessa (come nel partito politico), la persona incorpora con maggiore o minore profondità una determinata visione del mondo e determinati valori di cui partecipa con tutti i membri dello stesso gruppo. Perciò l’appartenenza alla comunità non può essere considerata un’identità collettiva o generica, bensì il tessuto su cui si elabora la propria identità personale. I valori, i comportamenti, le tradizioni sono incorporati spontaneamente o riflessivamente nella misura in cui si realizza la tendenza alla comunità. Anche qui possiamo vedere due eccessi: l’accettazione passiva di quanto è condiviso (norme, tradizioni, valori), che porta a un’identità debole con tendenza alla rigidità e al fanatismo; e l’ipercriticismo, che ostacola l’appartenenza. Il conformismo, l’insicurezza di chi cerca 7 «Il bene comune è bene della comunità propria perché crea in senso assiologico le condizioni dell’esistere insieme, mentre l’agire lo segue. Si può dire che il bene comune determina nell’ordine assiologico la comunità, la società o collettività, che definiamo in base al bene comune che è proprio di ciascuna di esse» (K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 659). 8 «Negli esseri umani l’incontro è sempre creatore di angoscia come pure di gioia. Io credo che questi effetti nascano dal fatto che un genuino incontro con un’altra persona scuote sempre la nostra relazione con il nostro automondo» (R. MAY, La psicologia e il dilemma umano, Astrolabio, Roma 1970, p. 123).

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Identità personale e socialità

nell’appartenenza al gruppo la propria sicurezza, l’accettazione dogmatica delle opinioni, ecc., sono tratti caratteristici della personalità in cui si dà un eccesso dell’essere-per, radice di pregiudizi e del politically correct, ossia la moda attuale di pensiero che tenta di regolare ciò che può essere manifestato pubblicamente dagli appartenenti a un gruppo. Ad esempio, con la falsa pretesa di evitare quanto può essere discriminante nel rapporto con gli altri, si obbliga a considerare ogni comportamento in materia sessuale come ugualmente lecito. L’equilibrio consiste nella condivisione riflessa dei valori giudicati in coscienza come tali, nell’evitare i pregiudizi nei confronti di altre comunità e persone e, soprattutto, nel dialogo e nella solidarietà. Nell’atteggiamento della solidarietà, la persona va oltre la sua responsabilità nei confronti della comunità. «La consapevolezza del bene comune gli impone di giungere al di là dalla parte che a lui compete, sebbene in questo riferimento intenzionale egli realizzi sostanzialmente la sua parte»9. L’asimmetria che caratterizza la solidarietà non si esaurisce nell’andare oltre la giustizia legale, ma si estende anche alla stessa relazione, giacché la persona solidale riconosce di ricevere più di quanto dà. Infatti, nell’azione nata dalla solidarietà, la persona attraverso un’intenzionalità che ha come riferimento il bene comune trova la realizzazione di sé negli altri. Tutto ciò spiega lo sbaglio del collettivismo: le differenze fra le persone non sono da cancellare ma da promuovere, poiché consentono l’emergenza di una diversità di relazioni perfezionanti. In questo senso la postmodernità nella sua critica delle ideologie totalitarie ha fatto bene a segnalare l’importanza delle differenze. Secondo alcuni pensatori postmoderni, come Derrida10, la riscoperta del valore delle differenze si sposerebbe con il rifiuto dell’identità. L’insufficienza di questi stessi autori consiste nell’identificare il soggetto cartesiano con l’identità tout court, per cui propugnano di renderla “liquida”11, vale a dire un’identità da fare e disfare d’accordo con i propri desideri, attraverso la quale si creerebbero nuove differenze: di genere, famiglia, società, religione, ecc. Il problema di quest’impostazione è l’impossibilità di stabilire vere e proprie relazioni; infatti, non solo l’assenza di differenze impedisce 9

K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., p. 665. Cfr. J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 292. 11 Il concetto d’identità liquida si trova in Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 59-60. 10

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Capitolo dodicesimo

la relazione ma anche l’assenza di identità salde. Senza di queste, le relazioni sono artificiali, cioè elaborate solo dalla fantasia dei desideri, ma non da legami reali di donazione-ricezione, ossia da vincoli liberi e responsabili. Le identità virtuali offrono un succedaneo al senso di appartenenza, per cui si può pensare di far parte di molti gruppi e anche di avere molti amici con cui condividere tante esperienze differenti come accade a volte con i social networks. In realtà, lungi dal far uscire la persona dal proprio Io, questi gruppi e amici virtuali possono dar origine a un nuovo tipo di solitudine, quella di un apparente essere-per, cui manca però il carattere perfezionante delle relazioni reali. Insomma, sia la negazione delle differenze sia il rifiuto dell’identità porta con sé la spersonalizzazione nella massa o nel gruppo. Invece, quando è reale, l’essere-per rende il prossimo all’altro con tutte le sue differenze, in modo da non vederlo con odio, disprezzo o, ancora peggio, con indifferenza, ma con l’atteggiamento di voler condividere con lui i doni e i talenti ricevuti. Nella comunione personale, dunque, si trova l’equilibrio fra identità e differenze.

2. Individualismo: edonismo e consumismo L’individualismo è la concezione antropologica che considera la persona come una monade, cioè come una libertà autonoma, e la società come la somma di queste monadi12. Nonostante il carattere centrale della libertà, non basta semplicemente tenere conto di quella propria e dell’altro perché i rapporti siano adeguati: è necessario indicare anche come si deve usare. Infatti, per coloro che con diverse sfumature intendono la libertà come autonomia, la perfezione del rapporto interpersonale si raggiunge tramite il rispetto dei diritti propri e altrui. Anche qui appaiono dei paradossi: secondo questa prospettiva la libertà di ogni individuo incomincia nello stes12 Una buona critica dell’individualismo la troviamo nei cosiddetti pensatori “comunitaristi”, come Michael Sandel (1953), Alasdair MacIntyre (1929) e Charles Taylor (1931). Secondo Taylor, ad esempio, l’Io liberale è un’astrazione della persona perché questa non è mai un puro individuo, ma si trova sempre in determinati contesti relazionali, come la famiglia, le comunità sociali, politiche, religiose, ecc.; anzi essa è foggiata dai loro valori (cfr. Ch. TAYLOR, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, specialmente il primo capitolo).

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Identità personale e socialità

so punto in cui finisce la libertà altrui, dunque il solo obbligo sarebbe quello che proviene dal diritto altrui. Certamente, nell’individualismo non c’è necessariamente l’imposizione di una volontà di potenza da parte dell’Io. Ciò nonostante non si rispetta l’altro come tale né lo si ama come prossimo, ma lo si tollera o lo si usa anche se egli stesso acconsente, come accade nel consumismo edonista, il vizio capitale dell’individualismo postmoderno. Infatti, persa la coscienza della sua relazionalità, l’individuo interpreta se stesso come un semplice elemento del processo produttivo, dando luogo alle due facce del consumismo: l’automatismo efficiente nel lavoro e il quietismo del piacere nel consumo13. Denaro, godimento e lavoro sembrano essere gli elementi costitutivi della felicità per tutti quelli che, dimenticando il senso della propria libertà, si lasciano irretire nella cattiva infinità del desiderio sotto la forma del consumismo14. La trasformazione della soddisfazione dei bisogni in consumo si collega al passaggio dal ciclo naturale del bisogno-soddisfazione a uno nuovo e artificiale: quello del desiderioconsumismo. Si consuma non solo quello di cui si ha bisogno, ma anche ciò che è prodotto, per la sola ragione che nell’essere pubblicizzato dai mass-media diventa oggetto di desiderio. Perciò, oltre ai beni di prima necessità15, si consumano anche gli oggetti di uso. La rapidità con cui 13

«Nell’ideologia moderna realizzata, l’Uomo è solo, non soltanto rispetto agli altri, perché con essi ogni rapporto è strumentale, ma anche in rapporto a se stesso, perché la sua identità originaria e irripetibile viene espropriata, è dissolta nella logica di potere dei processi di distruzione creatrice dei mercati e nella logica degli apparati organizzativi che si affidano all’illusione di sempre ulteriori controlli» (P. DONATI, Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, cit., p. 47). 14 Adoperiamo il termine hegeliano di cattiva infinità, perché, anche se l’uomo può desiderare gli oggetti che soddisfano le sue necessità in modo infinito, i bisogni sono limitati dal ciclo naturale esigenza-soddisfazione. L’infinità del desiderio umano si manifesta nella possibilità di influire sul bisogno sia mediante tecniche che rimandano la soddisfazione (gli antichi romani vomitavano per continuare a godere i cibi prelibati), sia perché esso viene incitato in modo artificiale, come accade con l’erotismo da parte della pubblicità. Il bisogno si trasforma così in insoddisfazione permanente, che può aprire un nuovo ciclo, questa volta falsamente infinito: il consumismo, in cui non c’è più la possibilità di appagamento naturale. 15 «Questa forma di rapporto con le cose del mondo è per di più perfettamente adeguata al modo in cui le cose stesse sono prodotte. La rivoluzione industriale ha sostituito ogni specifica competenza artigianale con il lavoro, e ne è conseguito che le cose del mondo moderno sono diventate prodotti di lavoro il cui naturale destino

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Capitolo dodicesimo

le macchine, i computer, smart-telefon, tablet, e altri apparecchi sono buttati via sebbene siano ancora in buono stato, è un indice della trasformazione in opera nell’attuale società capitalistica. Il consumismo si trasforma così nell’unico senso del vivere umano: si produce per consumare e si consuma per produrre di più in un circolo frenetico. Con la conseguenza che, attraverso la dialettica di dipendenza che si crea con gli oggetti prodotti e consumati, la vita umana si reifica. Molte persone non riescono più a concepire un rapporto con il mondo, con gli altri, e con se stessi che non sia “usa e getta”. La molteplicità di rapporti possibili (di produzione, di ascolto, di contemplazione, di aiuto, di servizio, di donazione) è ridotta a uno solo: la produzione di mezzi per ulteriori acquisizioni in un processo che non prevede una fine. Il consumismo è considerato dalla civiltà tecnologica un diritto che deve estendersi a tutte le persone del pianeta. Oltre al gretto egoismo individualista, quest’apparente magnanimità nasconde l’intolleranza verso coloro che la pensano diversamente. Infatti, come afferma Gehlen, «il sistema non si regge soltanto sul postulato del diritto universale al benessere, il sistema tende anche a rendere impossibile la posizione contraria, il diritto alla rinuncia al benessere, e precisamente in quanto produce e automatizza i bisogni stessi del consumo. Forse sta proprio in ciò la radice di tutti i nuovi fenomeni di non-libertà»16. Il consumismo non si vince, però, con la rinuncia al benessere poiché tale rifiuto, che in sé è negativo, ha valore soltanto se si basa su un fine positivo in grado di dare senso alla rinuncia stessa. Questo fine è la dignità della persona. Si dovrà abbandonare il benessere quando sarà in gioco la dignità delle persone, soprattutto quelle più bisognose. Solo partendo da questo valore è possibile superare le due grandi tentazioni che sono in agguato in ogni società umana: considerare gli altri mezzi al servizio del proprio tornaconto individuale o di una struttura sociale

è di essere consumate, invece che prodotti dell’operare che esistono per essere usati» (H. ARENDT, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 89). Ci sembra che Arendt non faccia nessuna distinzione fra il consumismo e il consumo proprio della società di libero mercato. Proporre di eliminare il ciclo di produzione-consumo, che in se stesso crea progresso e può migliorare le condizioni socio-economiche dell’umanità, è utopistico. Il ciclo di produzione-consumo, quando è razionale, non diventa la cattiva infinità che qui viene criticata. 16 A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 132.

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Identità personale e socialità

impersonale, in cui per mancanza di soggetto non ha più alcun significato parlare di bene. Insomma, la libertà non deve essere pensata né in termini di autonomia né di solidarietà obbligatoria, perché essi sono incompatibili con la possibilità di amare. Infatti, come Nietzsche ha ben osservato, è impossibile l’amore fra monadi autonome, poiché «un sole non può riscaldare un altro sole»17; d’altro canto, poiché richiede un atto di donazione interna e libera della persona, l’amore non può essere imposto né ridotto a opere obbligatorie. In realtà collettivismo e individualismo sono due modi speculari di capire la persona umana: come identità astratta e omogenea o come differenza assoluta. L’identità esistente non è però omogenea né una pura differenza, bensì una che cresce e si sviluppa attraverso le relazioni con altre identità in modo tale che nella loro stessa relazionalità si trova la causa del divenire perfezionante delle persone.

3. Persona in relazione: costituzione della soggettività e virtù sociali Il superamento del collettivismo e dell’individualismo non è un’opzione ma una necessità perché corrisponde alla natura di un essere in relazione. Ci sono due fenomeni in cui si osserva questa relazionalità necessaria: la costituzione della soggettività e le virtù sociali. a) La costituzione della soggettività è un fenomeno spontaneo e naturale. La soggettività che si comunica agli altri si costituisce a partire dalla conversazione interiore con se stessa che certamente richiede la riflessione e il linguaggio, e soprattutto la relazione con l’alterità, con l’altro di sé e con se stesso come altro riprendendo il titolo del famoso saggio di Ricoeur già citato. Il punto di partenza della conversazione interiore coincide con la nascita dell’Io, la quale dipende dalla separazione fra la persona, il mondo e gli altri. Si tratta però di una separazione relativa, giacché – di fronte alla tesi cartesiana – l’Io non è la stessa cosa che l’essere della persona, 17 F. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra, Adelphi, Milano 1973. Secondo E. FINK, La filosofia di Nietzsche (Marsilio, Venezia 1999), in quest’opera nietzscheana il tema ricorrente del sole indica la volontà di potenza del Superuomo, che non può ricevere ma solo dare necessariamente perché vuole affermare la propria potenza.

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Capitolo dodicesimo

bensì l’insieme di relazioni d’identificazione e separazione della persona nei confronti di se stessa e degli altri18. Ciò rende possibile la conversazione interiore, la quale a sua volta ha un ruolo decisivo nello sviluppo dell’Io. Vediamolo nel dettaglio. Secondo la sociologa inglese Margaret Archer ci sono quattro ambiti nella conversazione interiore dell’Io: il Sé (Self) o livello interno (individuale privato); il Me o soggetto agente primario che rispecchia la visione che i parenti e gli amici hanno dell’Io (l’Io come figlio, fratello, sposo/sposa, amico/amica); il Noi che appartiene all’essere-per allargato (vicini, membri di un’associazione, partito politico, religione); infine, il Tu o attore con un ruolo sociale concreto (studente, professore, ecc.)19. Sempre secondo quest’autrice, l’individuo parte dal Me, come definizione che l’Io trova di se stesso nel sociale e che lo condiziona in base alle esperienze del passato. Dal Me, attraverso il Sé (l’Io che conversa con se stesso), l’Io genera un Tu “elaborato” (elaborated you) che rappresenta il nuovo modo di essere dell’Io come progetto futuro. In questo modo la comunicazione con gli altri è raccolta internamente, accettata, rifiutata, corretta, e trasformata in sorgente di conversazione personale. E mediante questo dialogo interno l’identità dell’Io si sviluppa nelle relazioni con gli altri. Anche se il modello della Archer spiega bene l’origine e lo sviluppo dell’Io, mi sembra che nella costruzione del Sé, oltre alla conversazione interiore, si debbano distinguere due fasi simili a quelle che troviamo nel gioco umano. Una prima fase (play o gioco spontaneo) consiste nell’imitazione naturale degli altri, soprattutto attraverso il desiderio (come la psicoanalisi e Girard hanno spiegato); in questa tappa non si ha ancora un Sé formato, ma una diversità di Sé secondo l’identificazione con i modelli e la separazione da essi, in particolare con i propri genitori. La seconda fase (game o gioco organizzato) è riflessiva: i modelli imitati sono quelli che hanno più valore dal punto di vista personale, cioè quelli che si vogliono mimare. In questo modo, oltre a strutturare l’Io per mezzo della personalizzazione, la seconda fase del Sé permette 18

Identificazione non ha qui un significato psicologico, ma prettamente antropologico, secondo cui nella costituzione della propria identità personale è necessario un processo di relazione con un’altra persona che funge da modello e di cui si riconosce un’identità distinta. 19 Cfr. M. ARCHER, Structure, Agency and the Internal Conversation, Cambridge University Press, Cambridge 2003, specialmente il terzo capitolo.

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Identità personale e socialità

il passaggio al Tu attraverso l’apprendistato delle regole e pratiche che lo trasformano in agente capace di avere ruoli familiari e sociali concreti20. Infine, tanto nella strutturazione del Sé come nell’elaborazione del Tu occupa un ruolo decisivo la narrazione dovuto alla sua funzione mediatrice fra le diverse identità. Infatti, tramite i racconti impariamo non solo a migliorare la nostra conversazione interiore ma anche a esprimere meglio ciò che siamo e vogliamo essere21. Ne deriva l’importanza di conoscere la conversazione interiore, che la relazione con il mondo e con gli altri fa scaturire in noi. Ad esempio, le parole e le azioni delle persone che sono più care come anche il successo o l’insuccesso di ciò che riguarda le nostre relazioni fa iniziare una conversazione interiore al nostro interno in cui il Sé si colora di tonalità affettive (ringraziamento, pentimento, speranza), di desideri, propositi, decisioni, ecc. La capacità d’integrare la propria interiorità in base al significato e l’importanza che si dà a eventi, persone e situazioni permette l’elaborazione di un Sé in grado di dialogare, cioè di essere Tu per un altro Io. Il dialogo permette alle persone di partecipare a una comunità che condivide uno stesso mondo umano, la base delle scienze, tecniche, consuetudini, valori e progetti. Nel dialogo con le altre persone il linguaggio è senz’altro lo strumento più importante. Oltre ai livelli fonetico-lessico-sintattico-semantico, esso ne ha uno pragmatico costituito da diversi elementi, come il contesto, il tono della voce, i gesti e il linguaggio performativo. Il livello pragmatico, che è sempre connesso a un’intenzionalità riflessiva, diventa simbolo del volere del Tu22. Ne deriva l’importanza della 20

Ho preso il paragone con il gioco da Georg Herbert Mead (1863-1931). Si noti, tuttavia, che Mead non distingue fra Sé e Tu poiché secondo lui il Sé non è altro che l’agente sociale (cfr. G.H. MEAD, The Philosophy of the Present, Open Court, LaSalle (Illinois) 1932). 21 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 14. 22 «I gesti sono simboli, poiché indicano, rappresentano e provocano un’azione appropriata alle fasi successive dell’atto di cui essi costituiscono i primi frammenti e, secondariamente, agli oggetti impliciti in tali atti. Nello stesso senso si può dire che i gesti hanno un significato, cioè essi significano le fasi successive dell’atto conseguente e, secondariamente, gli oggetti implicati: la mano serrata significa il pugno, la mano protesa significa l’oggetto da raggiungere. Tali significati non sono soggettivi, né privati, né mentali, ma esistono oggettivamente nel contesto sociale» (G.H. MEAD, Mind Self and Society from the Standpoint of a Social Behaviorist, a cura di Ch. W. Morris, University of Chicago, Chicago 1934, p. 19).

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Capitolo dodicesimo

conoscenza del proprio Sé, dell’empatia e degli aspetti culturali legati alla comunicazione per esprimere e interpretare adeguatamente quel Tu elaborato. Poiché il fine della comunicazione – l’espressione della verità – non s’impone al Tu, nei soggetti c’è la possibilità di mentire come anche di essere veritieri. Nella conversazione interiore si dà anche questa doppia possibilità: non solo siamo in grado d’ingannare gli altri ma anche noi stessi. Tale autoinganno sembra a un primo sguardo impossibile. Infatti, per auto-ingannarsi uno deve sapere la verità ma, se la si conosce, l’inganno diventa impossibile. Ciò nonostante, nella vita umana l’autoinganno è frequente. Forse la spiegazione di quest’apparente paradosso si trova nel rendersi conto che la verità di cui stiamo parlando non è teoretica ma pratica: si tratta di un dover essere. Infatti, a differenza della verità teoretica in cui il carattere, le passioni e i vizi della persona non influiscono, nella verità pratica tutto ciò che riguarda la propria vita ha un influsso decisivo. Quindi si conosce la verità solo quando si vuole, cioè quando si è disposti a cancellare dalla propria identità tutto ciò che le è contrario. In altre parole, per conoscere la verità bisogna essere disposti a cambiare vita, a pentirsi di tutto ciò che nella propria esistenza è falso. Un concetto molto simile alla verità personale è quello dell’autenticità. Ma, si badi bene, bisogna capire l’autenticità in relazione alla propria identità o se si vuole al dover essere se stessi. Altrimenti l’uso di questo termine induce in un equivoco. Ad esempio una persona non è autentica quando si lascia semplicemente portare dai suoi desideri o sentimenti, poiché in questo modo la sua identità si perde, si disintegra. E non lo è neppure quando segue dei modelli esterni che la allontanano da ciò che lei vuole essere. Quindi non si tratta di considerare l’autenticità come un’opzione etica differente dalle virtù come accade in una parte importante della cultura odierna, secondo la quale essere autentici significa agire in conformità a una parte di ciò che siamo (desideri, sentimenti, opinioni). Per essere autentici, ossia noi stessi, abbiamo bisogno delle virtù poiché esse ci permettono d’integrare la propria identità secondo il bene, facendoci essere non solo noi stessi ma anche amando e godendo di esserlo23. 23

Ho sviluppato queste idee nel saggio Diálogos en torno a la verdad personal, EUNSA, Madrid 2007.

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Nell’autenticità o verità di Sé si dà una sorta di conversione dei trascendentali, la verità si converte nel bene, nella bellezza e nell’unità. Certamente non si tratta dei trascendentali metafisici che non possono crescere, ma di trascendentali personali, giacché la persona può sempre essere più di quello che è e, perciò, deve esserlo. b) Le virtù sociali. Oltre alle tendenze generiche a essere-con ed essere-per, esistono delle inclinazioni alla relazione con le altre identità. Si tratta di tendenze molto particolari, giacché si attualizzano solo in un determinato tipo di relazione; ad esempio, la venerazione della propria origine si realizza nella relazione filiale accettata e amata. Lo stesso rapporto interpersonale appare così come l’oggetto di una serie di inclinazioni naturali che, perciò, possono essere denominate radici della socialità. Ne deriva che si possa parlare di virtù sociali come la realizzazione di queste tendenze; ad esempio, la virtù della pietà attualizza la tendenza alla venerazione della propria origine24. C’è, però, un problema: stabilire quando ci troviamo davanti ad un’inclinazione originaria ovvero a una radice della socialità e quando si tratta semplicemente della descrizione di una relazione de facto. La difficoltà di individuare le radici della socialità dipende non solo dal fatto che – come accade nelle altre tendenze – esse sono modellate dalla cultura, ma soprattutto dal fatto che hanno come oggetto la stessa relazionalità, giacché il loro fine non è muovere all’azione, alla produzione, alla trasformazione del mondo, bensì istituire diversi tipi di relazioni tra le persone che certamente influiscono sulle loro identità. Mi sembra che la soluzione al problema segnalato in precedenza si trovi nell’individuare le virtù sociali. La ragione è che queste non dipendono solo da determinati atti buoni, ma soprattutto da rapporti interpersonali buoni. Per sviluppare, ad esempio, la virtù della pietà, non sono, perciò, sufficienti gli atti di cura, rispetto e sacrificio nei confronti dei genitori, della Patria, di Dio, ma è necessario comportarsi da figlio, da patriota, da credente. Ciononostante, si tratta di vere e proprie virtù, cioè di abiti buoni; ad esempio, le relazioni familiari buone danno luogo a una disposizione per istituire con più facilità e piacere rapporti carat-

24 Su questa questione mi permetto di rimandare il lettore al mio saggio Le radici antropologiche della socialità nella famiglia, in N. González Gaitano (a cura di), Famiglia e Media. Il detto e il non detto, EDUSC, Roma 2008, pp. 59-75.

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terizzati dalla pietà25. Penso perciò che sia possibile fare una distinzione fra relazioni interpersonali de facto e le radici della socialità, poiché non ogni tipo di relazione implica la realizzazione di una radice, ma solo quelle relazioni che sono virtuose. Le relazioni d’invidia, gelosia, rancore, odio non dipendono dalle radici della socialità, ma dalla loro perversione26. L’esistenza di queste radici non significa, dunque, che esse raggiungano sempre il loro scopo – le relazioni virtuose – né che si manifestino sempre nello stesso modo. Le radici della socialità possono trovarsi mascherate, sostituite, o pervertite nelle relazioni di fatto. Ciò che né queste relazioni né le mode culturali possono fare è cancellarle. Qui si mostra il loro carattere di radici antropologiche27. È chiaro che nelle culture che tendono alla virtù come ideale di vita umana, le radici della società sono più facilmente riscontrabili che non in quelle meno legate a un modello virtuoso di vita o che non riconoscono la virtù o la sostituiscono con altri valori, come l’autenticità affettiva. 25

Il fatto che il fine delle tendenze sociali siano le relazioni interpersonali e non gli atti in sé ha un importante significato etico, che qui accenniamo solamente. Lo scopo dell’etica non è soltanto la ricerca della virtù, bensì il perfezionamento dei rapporti interpersonali, che coincide con il perfezionamento delle persone. Senza dubbio questi hanno un legame stretto con la virtù: richiedono, infatti, l’esistenza di virtù personali e sono, al contempo, il terreno in cui maturano le virtù sociali. 26 La perversione che comporta l’invidia non significa però che tale inclinazione non possa essere spontanea o molto diffusa, il che significa che nella natura umana, a differenza di quanto accade in quella degli animali, si trovano delle inclinazioni cattive, che allontanano la persona dal suo fine. L’influsso che le perversioni del desiderio umano hanno sui rapporti sociali è stato messo in rilievo da René Girard, creatore della teoria della violenza mimetica (cfr. R. GIRARD, Le sacrifice, Bibliothèque nationale de France, Paris 2003). 27 L’esistenza di queste radici antropologiche è un dato a favore dell’esistenza di una legge morale naturale. «In merito regolarmente si ripresenta la questione se esista una legge morale naturale, scoperta dalla ragione e basata sulle inclinazioni umane centrali, e con essa un diritto naturale, ossia qualcosa che sia “giusto per natura” ed esprima un nomos dell’essere, o se invece tutto provenga dalla scelta dell’uomo. Se vale la seconda risposta, saremmo dinanzi a un nuovo gnosticismo, ripresa dell’anticosmismo e antinomismo gnostico antico (Jonas), che toglie ogni ordine interno all’essere e lo produce con volere del singolo o del potere. Ma in tal caso dovremmo accettare la vittoria del nichilismo ed elevare la volontà del più forte a legge di diritto, in base all’assunto, recentemente riproposto, che il diritto può avere qualunque contenuto» (V. POSSENTI, Editoriale, in Natura umana, evoluzione ed etica, «Seconda navigazione. Annuario di filosofia 2007», EDB, Bologna, p. 16).

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Così possiamo trovare queste radici senza alcuno sforzo nella polis greca, nell’urbs romana e nella società medievale, perché in esse «prevale l’assimilazione-condivisione di modelli oggettivi di riferimento»28. Le virtù sociali, per lo meno come modello di vita, godono di un consenso diffuso e generalizzato. Nell’età moderna e contemporanea, per contro, diventa sempre più difficile trovare le radici della socialità, perché il paradigma dell’assimilazione-condivisione di modelli oggettivi è gradualmente sostituito da quello dell’autenticità: ciò che è condiviso è la libertà – intesa come auto-determinazione – che permetterebbe di realizzare se stessi, e non più l’esistenza di modelli oggettivi di riferimento morale29. Non sorprende, quindi, che un elenco esauriente delle radici della socialità si trovi in un autore medievale come San Tommaso. Basandosi sugli studi d’Aristotele e Cicerone, l’Aquinate individua nove virtù sociali: pietas, observantia, honor, oboedientia, gratitudo, vendicatio, veritas, affabilitas, liberalitas30. Come le altre virtù, quelle sociali sarebbero una via di mezzo fra due vizi estremi; nel caso dell’osservanza, ad esempio, essa si collocherebbe fra il servilismo e l’anarchia. Da ciò deriverebbe che la radice dell’osservanza possa apparire nella società tanto nella sua forma piena (osservanza), quanto in quella mancante (servilismo e anarchia). 1) La pietà è la prima virtù sociale in assoluto. Essa consiste nell’avere una relazione adeguata con la propria origine. Questo legame non è basato sulla semplice giustizia, poiché nei confronti dell’origine si ha un debito che non si potrà mai pagare, sia per l’eccellenza di coloro verso cui si è debitori, sia per il grado di bontà dei benefici ricevuti che è massimo. In primo luogo si è in debito verso Dio, che è eccellentissimo 28

P. NEPI, Individui e persona, l’identità del soggetto morale in Taylor, MacIntyre e Jonas, Edizioni Studium, Roma 2000, p. 3. 29 Tale tesi è sostenuta con acume da CH. TAYLOR, Il disagio della modernità, Laterza, Bari 1994, pp. 7-8. 30 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 101-117. I testi in cui San Tommaso considera le virtù sociali sono il punto di riferimento delle riflessioni qui riportate, anche se non sono citati puntualmente. Una trattazione articolata delle virtù sociali si trova in L. POLO, Quién es el hombre, cit., cap. VII. Secondo l’autore, queste virtù costituiscono il motore delle dinamiche sociali e le regole profonde che strutturano l’ordinamento della società. Una breve esposizione delle virtù sociali si rinviene anche in F. RUSSO, La persona umana. Questioni di Antropologia filosofica, Armando, Roma 2000, pp. 66-69.

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e primo principio dal quale dipendiamo completamente sia nell’essere sia nell’agire; in secondo luogo, si è in debito verso i genitori da cui si è ricevuta la vita e, infine, verso la patria di cui si è figli. La pietà, quindi, fa parte dell’essenza della filiazione divina e umana. Non si può essere buon figlio senza praticare questa virtù. Il rifiuto della propria origine porta con sé, invece, la perdita della pietà e, di conseguenza, della sua manifestazione nelle forme di venerazione, che, qualora si mantengano, sono vuote e mancanti dello spirito di filiazione. Il rigetto può essere diffuso da una visione secolarizzata e tecnologica della vita secondo cui l’esistenza del cosmo è frutto del caso, per cui l’uomo è un essere completamente autonomo, capace di conoscere e di produrre tutto da sé, anche la stessa vita umana. Ne consegue che la pietà sia rifiutata come una relazione adatta all’uomo, poiché Dio è considerato morto, la famiglia un’invenzione di altri tempi, e la patria un’idea arcaica da sostituire con un mondo globale, a cui, per via del suo carattere astratto, non è possibile sentirsi legati affettivamente. Anche se ciò potrebbe farci credere che la pietas sia sparita dal nostro mondo, in realtà non è così. È vero che, nella misura in cui si distorce, la pietà perde parte della sua capacità operativa, ma – come ho indicato – non scompare, bensì si trasforma. Il legame con l’origine diventa allora magia, controllo tecnologico, ecologismo panteistico, o fondamentalismo religioso; quello con la propria nascita, attaccamento completo alla madre, o rottura dei legami e sradicamento; quello, infine, con il proprio popolo, nazionalismo o razzismo. 2) L’osservanza consiste nel rapporto perfettivo con il legittimo potere a tutti i livelli della società: famiglia, comunità civile, comunità religiosa, stato, ecc., perché, oltre ad avere un’origine, la persona vive in diversi ambiti sociali ordinati attorno ad un bene comune che dovrebbe essere perseguito da i suoi membri, perché appartiene a tutti. Il modo in cui ognuno collabora con questo scopo dipende dalla funzione che si svolge all’interno di questi ambiti. Per via del loro compito di governare la comunità, alcuni – padre, sindaco, presidente di una nazione – sono detentori di ciò che il diritto romano chiamava potestas31. Poiché il potere ha come fine il bene dei sudditi, questi dovrebbero comportarsi nel modo seguente: onorandolo, che è un certo modo di riconoscere 31

«Auctoritas: potestas in populo, auctoritas in senatu» (M.T. CICERONE, De Legibus, III, 28).

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la sua eccellenza; temendolo, per la forza che ha; ubbidendo ad esso, per la sua autorità; e pagando tributi, per la funzione che esso svolge a beneficio di tutti32. Forse è stata la considerazione della potestas come dominio arbitrario a portare al discredito dell’osservanza. Infatti, questa virtù sociale, non più di moda – soprattutto dopo la rivoluzione del ‘68 e il movimento studentesco di contestazione dell’autorità –, è stata sostituita dall’egualitarismo, che ha condotto all’anarchia sociale o a un’obbedienza puramente esterna, cioè servile. Le norme e leggi emanate dal potere sono spesso accettate non perché si riconoscano in relazione al bene comune, ma solo per il loro valore coercitivo (il timore), come accade nelle disposizioni che regolano il traffico, l’uso dell’alcool o del tabacco. 3) L’onore è la virtù che porta a riconoscere, ammirare, e imitare quelli che fungono da modelli, cioè i detentori di auctoritas. Oltre a ubbidire al potere legittimamente stabilito, la persona ha bisogno di riconoscere ed essere riconosciuta, specialmente dai modelli, vale a dire da quelli che stima per le loro qualità. Il fondamento dell’autorità sono perciò le virtù personali, in particolare la giustizia di chi riesce a dare a ciascuno il suo, ossia il dovuto. La persona con autorità, quindi, supera nel suo agire gli interessi personali in favore del bene comune, rendendosi così degno d’onore33. Nello slegare l’onore – inizialmente dalle virtù umane e poi dalla stessa dignità – nascono due fenomeni. In primo luogo, il modello che si tende a imitare manca spesso di valori morali, come accade con alcuni calciatori, cantanti, attori, leaders carismatici; in secondo luogo, l’onore si trasforma in una merce di scambio a livello sociale, giacché serve per acquisire potere, ricchezza, ed altro ancora, perdendo di vista il suo vero valore: promuovere nella comunità tutto ciò che ha dignità. L’onore diventa allora vanagloria; l’imitazione, conformismo e massificazione. Ciò si osserva soprattutto nelle mode effimere messe in giro dai divi del momento, o nei modelli di comportamento che caratterizzano la psicologia dei fans, cui manca il rapporto di reciprocità con il personaggio ammirato34. 32

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 102, a. 2. Kant spiega che l’autorità si basa sulla tendenza alla stima (cfr. I. KANT, Fondamenti della metafisica dei costumi, cit., p. 127). 34 Cfr. J.B. THOMPSON, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998, p. 289 e sgg. 33

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4) L’obbedienza. Anche se ha molto a che vedere con l’osservanza, l’obbedienza si distingue da questa perché nella relazione con il superiore, l’assenso a ciò che è comandato non dipende dalla potestas del promulgatore, ma solo dal fatto che esso corrisponde al bene personale o a quello comune. Questa virtù nasce dall’inclinazione dell’uomo all’armonia sociale e al desiderio di veder riconosciuto il proprio ruolo nella società. Forse l’obbedienza è la virtù sociale più maltrattata nella modernità. La si è vista come qualcosa di contrario alla libertà, allo spirito critico e razionale, per considerarla un atteggiamento proprio di persone immature e insicure. Il risultato di questo discredito sono due fenomeni contrari, ma che partono da un unico principio: il relativismo e il fondamentalismo. Secondo il relativismo, non esiste nessun fondamento razionale dell’ubbidienza giacché la potestas e l’auctoritas non sono altro che maschere di una volontà di potenza; l’obbedienza sarebbe, quindi, una costrizione della libertà. Il fondamentalismo, dal canto suo, assolutizza invece alcune norme culturali e tradizioni, perché considera che la salvezza personale o collettiva dipenda dal loro compimento, perdendo di vista che le norme e le tradizioni non sono assolute per il fatto di essere formulate come tali, ma solo quando esprimono la dignità e il bene delle persone, per cui quando sono contrarie a queste non si deve loro obbedienza. 5) La veracità è la virtù che consiste nella conformità dei fatti alle nostre parole sia come essi sono sia come noi li vediamo. La virtù della veracità si basa, quindi, sul rispetto della realtà e della dignità della persona, giacché solo essa è capace di conoscerla e accettarla. La persona verace dice la verità, quella falsa la nega. Il fondamento ultimo della veracità è la verità ontologica causale, cioè la verità delle cose e delle persone, in quanto entrambe si adeguano agli esemplari della mente del Creatore35. Anche se la persona può rifiutare la verità, assumerla è l’atteggiamento naturale dell’uomo nei suoi confronti. Tendiamo a dire la verità perché è la cosa più consone alla nostra natura, e non perché – contra35 «La virtù che si chiama verità, non è una verità comune, ma una certa verità secondo cui l’uomo si manifesta nelle sue parole e fatti come egli è. La verità della vita si dice in modo particolare quando l’uomo compie nella sua vita ciò cui è ordinato dall’intelletto divino, come ciò che è detto è verità in certe cose» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 16, a. 4, ad 3).

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riamente a quanto sostiene Nietzsche – ciò sia il risultato di un patto36. Sebbene la veracità sia qualcosa di naturale, si devono educare le persone perché siano capaci di praticare questa virtù, soprattutto quando la situazione personale o il contesto sociale e culturale sembra renderla difficile se non addirittura impossibile. Non mancano oggi manifestazioni della tendenza alla sincerità, sotto la forma dell’autenticità, di chiaro sapore kierkegaardeano37. In questo senso si può affermare che la cultura attuale rifiuta, per lo meno come programma, l’ipocrisia: ognuno dovrebbe avere la libertà necessaria per mostrarsi come è, con indipendenza dai giudizi morali e dalle norme sociali. Ci sono tre problemi impliciti in questo modo di capire la sincerità. In primo luogo, si considera ipocrisia tutto ciò che è contrario ai propri sentimenti indipendentemente dal rapporto che essi abbiano con la verità della persona, ma né tutti i sentimenti devono essere valutati positivamente, né tutto ciò che li si oppone negativamente. In secondo luogo, la sincerità viene scambiata con la spudoratezza, perché si crede che ciò che non si manifesta sia repressione, chiusura in se stessi ed anche sintomo di un “adattamento sociale frustrato” o di una socializzazione fallita38. In terzo luogo, la sincerità intesa semplicemente come conformità ai propri sentimenti non favorisce né la maturità personale né i rapporti umani stabili. 6) L’affabilità. Anche se tutte le virtù sociali possono condurre a rapporti amichevoli, non possono essere propriamente considerate disposizioni all’amicizia. Questa caratteristica corrisponde, invece, all’affabilitas, ossia al dare all’altro ciò che si è. Ciò però diventa impossibile senza la giustizia. Aristotele considera, pertanto, questa virtù il complemento della giustizia, che è necessario perché la società si manten-

36 Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extra-morale, BUR, Milano 2006, pp. 87-90. In questo saggio, Nietzsche critica il concetto di verità riconducendolo esplicitamente ad un’istanza utile ad esistere socialmente e a convivere “nel gregge”, che cambierebbe parzialmente lo stato di aggressività umana (cfr. F. NIETZSCHE, ll libro del filosofo, Postfazione di Marco Vozza, Edizioni Ananke, Torino 2007, cap. III). 37 Cfr. S. KIERKEGAARD, Stadi sul cammino della vita, Rizzoli, Milano 1993. 38 Cfr. U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, p. 63.

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ga unita39. Ecco perché, secondo lo Stagirita, l’affabilità non dipende da sentimenti, ma da una disposizione. Per contro, Scheler, sebbene la consideri il fondamento della società, la fa derivare da un sentimento, la simpatia40. Ci sembra che entrambi gli autori abbiano colto un aspetto importante di questa virtù: Aristotele, perché afferma l’importanza dell’affabilità nella costruzione dell’ordine sociale, giacché la giustizia da sola non riesce a dare all’insieme di persone una coesione completa ma ha bisogno di un collante più forte, l’affabilità appunto; Scheler, perché fa capire il suo legame, attraverso l’atto o la relazione, con il sentimento di simpatia sul quale si basa ogni rapporto d’amicizia. Una società senza affabilità è una società in cui le relazioni umane rientrano nell’ambito dei rapporti procedurali o mercantili, in quanto nell’altro si vede un vantaggio per i propri scopi, un creditore oppure un debitore. La riduzione dei rapporti umani a quelli di stretta giustizia nasce dalla non differenziazione fra i diversi tipi di debito; apparentemente, l’amicizia, poiché non ha piena ragione di debito, non obbligherebbe. Ciò sarebbe vero, se il solo debito fosse quello legale. C’è, però, un altro tipo di debito, quello onesto, proveniente dall’amore. Una società in cui il rapporto fra le persone dipendesse unicamente dagli affetti sarebbe profondamente ingiusta e anche assolutamente liquida, giacché mancherebbe di una struttura stabile nei legami. Essa sarebbe sottomessa ai sentimenti mutevoli e alla paura, perché le persone nel cercare di piacere sempre all’altro avrebbero il timore di contristarlo dicendogli la verità. Ne seguono le tensioni osservabili nelle società occidentali fra l’ambito pubblico in cui si tende a cancellare i sentimenti, e l’ambito privato in cui si tende a regolare legami che sono solo affettivi. L’ambito pubblico diventa così privato e viceversa. I grandi perdenti sono la giustizia e l’amicizia. 7) La liberalità è la virtù che porta a dare ciò che si ha, non secondo un debito legale ma morale, dipendente dalla ragione. La liberalità implica sia la capacità di donare che di ricevere. Come nel caso dell’affabilità, si tratta di una virtù che contiene, almeno, come possibilità una relazione reciproca; infatti, tendiamo a dare perché c’è qualcuno che 39

L’ingiusto, invece, ha il vizio della pleonexia, il desiderio di avere più vantaggi di quelli che gli spettano e meno carichi di quelli che dovrebbe portare con sé (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1129a 12-13). 40 Cfr. M. SCHELER, Essenza e forme della simpatia, cit., cap. II.

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può ricevere. Mauss considera che il fondamento ultimo dei rapporti sociali sia proprio questa tendenza naturale a dare41. Il dono sarebbe così l’origine non contrattuale del contratto. Certamente, ciò non significa che il dono nei rapporti umani non abbia nulla a che vedere con il bisogno, perché ciò sarebbe negare il suo carattere creaturale: oltre che per aver ricevuto, la persona dà perché ha bisogno di farlo. La liberalità non si riferisce solo al donare determinate cose, ma anche e soprattutto all’atteggiamento con cui si dà, cioè agli affetti interni legati alla donazione (gioia, compassione, ringraziamento); questa virtù consiste, quindi, nell’accordare gli affetti interni con la ricezione e donazione dei beni42. Il quando, come, dove, e perché della liberalità deve essere imparato se non si vuole cadere nei due principali vizi: l’avarizia e lo spreco43. Nell’avarizia il ricevere è separato dal donare, giacché si riceve non per dare ma per accumulare; nello spreco si dà non perché gli altri ricevano, bensì perché si vuole spendere. Ciò è particolarmente riscontrabile nella società dei consumi, in cui la mancanza di autentiche donazioni porta a usare il dono per convertire l’altro in debitore. 8) La gratitudine è la virtù che porta a riconoscere e ripagare il bene ricevuto. Attorno ad essa si configura la rete dei rapporti sociali, di carattere non giuridico, come risultato del bene realizzato dalle persone e dai gruppi. La gratitudine si fonda su un tipo speciale di debito, quello morale, perché ciò che è stato ricevuto non fa parte di un obbligo di giustizia, ma dipende dalla liberalità del donatore. Poiché il donatore può dare affetto o regali, la gratitudine si manifesta secondo il modo in cui il donatore dà. Il modo di ringraziare il bene ricevuto è l’affetto, nel primo caso, e l’onore e l’aiuto materiale, nel secondo. Nella gratitudine l’elemento centrale è quello temporale. Infatti, per esprimere riconoscenza in modo adeguato, si deve aspettare 41 Cfr. M. MAUSS, Saggio sul dono. Forme e ragione dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002. 42 San Tommaso sottolinea il rapporto intrinseco fra queste due azioni reciproche quando scrive: «A questo punto va tenuto presente che le cose che si implicano a vicenda si verificano insieme nel medesimo soggetto, mentre, invece, quelle che sono contrarie tra loro non possono stare insieme. Di conseguenza, una donazione dignitosa e un ricevere dignitoso, implicandosi a vicenda, si uniscono reciprocamente in chi è liberale; invece un prendere sconveniente non si trova insieme a un prendere dignitoso, al quale è contrario» (TOMMASO D’AQUINO, Commentaria in Ethica Nicomachea, IV, 3) 43 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IV, 3, 1120 b 30.

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Capitolo dodicesimo

il momento opportuno: se si fa fuori tempo o in attesa di ricevere un regalo, allora il ringraziamento non è virtuoso. L’ingrato non è solo chi non esprime gratitudine, ma chi potendo ringraziare non lo fa per diversi motivi: o perché non riconosce il dono ricevuto, o perché simula di non averlo ricevuto, o perché lo dimentica subito. Altri modi d’ingratitudine sono ancora peggiori, in quanto, oltre ad implicare un’omissione, manifestano esplicitamente un rifiuto del bene ricevuto, come quando si giudica il bene come male, si vitupera o addirittura si ripaga con il male, ecc. L’altro vizio contrario alla gratitudine è il servilismo, il quale attenta alla dignità della persona e anche alla veracità giacché la persona servile nasconde al padrone la verità per paura di perdere il posto o la stima. 9) La rei-vindicatio o rivendicazione è la virtù che conduce a castigare le offese, ossia il male ricevuto. Perché la rivendicazione sia lecita, l’intenzione deve riguardare il bene, come nell’imposizione di una pena che si giudica necessaria sia all’ammenda del trasgressore sia a impedirgli di continuare a offendere. Il collegamento fra la punizione e l’intenzione di un bene s’impara spesso all’interno della famiglia, dove si scopre la correzione come una manifestazione d’amore e non di odio. La rivendicazione è imprescindibile all’esistenza stessa della società poiché da essa nasce una parte importante dell’ordinamento giuridico. Ne segue che l’amministrazione della giustizia penale in una società rappresenta l’istituzionalizzazione di questa virtù. Le distorsioni della rivendicazione sono la punizione eccessiva o per futili motivi e un tipo di tolleranza con il male che consiste nella soppressione sempre e in qualsiasi circostanza della giusta pena44. La punizione ingiusta si ha quando la rivendicazione non tende al bene o lo fa in modo sbagliato; ad esempio, quando si fa soffrire fisicamente il trasgressore o lo si sottomette a punizioni lecite in se stesse ma che superano la pena meritata45. Si potrebbe perciò affermare che la correzione eccessiva è sempre contraria alla dignità della persona umana. Se la punizione fisica o eccessiva fa poggiare la società sul terrore, il rifiuto di qualsiasi tipo di pena la priva dei mezzi necessari per arginare il crimine e la delinquenza. Il tentativo dei “non violenti” di sopprimere 44 Alcuni, come Foucault, non accettano l’esistenza di una pena meritata, perché

essa è sempre espressione di una volontà di potenza (cfr. M. FOUCAULT, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, pp. 192-202). 45 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 108, aa. 1-2.

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Identità personale e socialità

la rivendicazione porta necessariamente alla violenza e anche al travisamento di questa virtù, come nella ricerca di un colpevole anche quando si tratta di una catastrofe naturale. In conclusione, le virtù sociali vanno al di là dalle relazioni di giustizia sia perché implicano l’esistenza di un’asimmetria, come accade nei nostri rapporti con i genitori, sia perché gli obblighi sperimentati non dipendono da un debito legale ma morale, come accade con il dono e il perdono. Troviamo, quindi, che per perfezionarci come persone non basta la semplice giustizia reciproca dei diritti e doveri (nei confronti dei genitori, dei parenti, degli altri cittadini, della patria), ma sono necessarie anche determinate disposizioni, che includono un determinato codice affettivo riguardo all’altro (affabilitas, liberalitas, gratitudo, reivindicatio, ecc.). Infatti, a ognuna delle relazioni nate dalle tendenze sociali corrisponde un determinato affetto; ad esempio, alla liberalità l’allegria, perciò non è virtuoso dare con tristezza. Si capisce così che la nascita e la crescita della persona in una rete di relazioni interpersonali di questo tipo sia l’ambiente adatto per lo sviluppo delle virtù sociali. La famiglia appare, da questa prospettiva, come la più perfetta concretizzazione della socialità umana, perché, da una parte, rappresenta l’attualizzazione di tali radici e, dall’altra, corrisponde all’ambito in cui esse possono fiorire nelle loro rispettive virtù sociali.

4. Amicizia Oltre ai buoni rapporti all’interno della famiglia, un modo particolare dell’essere-per è costituito dall’amicizia. Man mano che si approfondisce l’essenza dell’identità umana, il paradosso iniziale aumenta: per essere se stessi si ha bisogno non solo di relazioni basate su appartenenze familiari e sociali, ma anche su legami d’amicizia46. Infatti, l’origine dell’amicizia non è il sangue, il gruppo sociale (famiglia, clan o tribù), bensì qualcosa che accomuna tutti gli uomini senza alcuna discriminazione, la partecipazione nella stessa natura umana. Perciò, attraverso l’amicizia, è possibile perfezionarsi personalmente47. 46

Uno dei primi ad affermalo è stato Aristotele: «Nessuno sceglierebbe di vivere una vita senza amici» (Etica Nicomachea, 1169b 17-19). 47 Cfr. J. ANNAS, La morale della felicità, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 377.

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Capitolo dodicesimo

Prima di essere reale, l’amicizia è solo una potenzialità (una tendenza). Per renderla attiva c’è bisogno della scelta dell’amico e, soprattutto, della sua reciprocità. Infatti, anche se possiamo essere amici di qualsiasi persona, l’amicizia attuale si realizza solo con alcuni, concretamente con quelli che sono in grado di condividere con noi gusti, affezioni, interessi e attività. Questo implica già un grado d’identità, ossia una conoscenza parziale di ciò che siamo e desideriamo essere48. Forse si trova qui la difficoltà più grande per l’amicizia nella nostra società occidentale: non essere riusciti a raggiungere quel grado necessario d’identità iniziale, perché se la persona non si conosce e non sa ciò che vuol essere, non può darsi a conoscere né amare. Ciò spiegherebbe perché i bambini non abbiano, in senso proprio, amici ma solo compagni di scuola o gioco. Normalmente le persone sono in grado di avere degli amici a partire dall’adolescenza, quando incomincia a maturare la loro identità etica49. Perché l’amico ha un ruolo così importante nella costruzione della propria identità? Perché questi introduce in essa un particolare tipo di differenza: quella nei confronti del simile (un altro-se stesso50), per cui l’altro è amato come un altro-Io, cioè come fine ovvero come persona. Nell’amicizia è presente una speciale riflessività: nel conoscere-amare l’altro come persona, ci si conosce-ama in modo adeguato, permettendo così che l’altro a sua volta possa conoscere-amare. Ciò non vuol dire che l’amico sia un’estensione del proprio io, come quando l’altro è amato come si amano le cose; in questo punto si trova la distinzione fra amore di concupiscenza e di benevolenza o eunoia. Nell’amico conosco me stesso come sono: non solo perché c’è identità di interessi, gusti, e condivisione di attività, ma anche perché la sua differenza mi permette di conoscere meglio la mia identità. Infatti, l’amicizia con per48 «Philein è volere per qualcuno le cose che si ritengono buone, ai suoi fini e non per altro scopo, e l’essere disposti ad attuare, per quanto è possibile, queste cose» (ARISTOTELE, Retorica, 1380b 35- 1381a 1). 49 Quest’identità non è una generazione dall’interno, intesa in senso monologico. Scoprire la propria identità non significa elaborarla in un completo isolamento, ma costruirla attraverso il dialogo – in parte aperto, in parte interiorizzato – con gli altri (cfr. CH. TAYLOR, Il disagio della modernità, cit., p. 56), specialmente con gli amici. Per arrivare a quel grado d’identità si ha bisogno dei rapporti interpersonali e dell’esperienza trasmessa da altre persone. 50 «L’amico è un altro se stesso» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1155a 5-6).

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Identità personale e socialità

sone di altre razze, culture, e religioni mi fa essere più aperto ed evitare categorie e schematismi rigidi. Invece, quando l’altro è amato come una cosa, il proprio Io si degrada a mezzo o strumento, perché diventa dipendente dall’altro per raggiungere i propri interessi. Hegel lo spiega con molto acume quando, trattando della dialettica del padrone e del servo, sostiene che nel conoscere-rendere l’altro dipendente da me (essere-per-me), l’altro mi conosce-rende dipendente da lui51. La trasformazione dell’altro in essere-per-me è la sua distruzione come persona. In definitiva, nell’amare l’altro per se stesso come nell’amicizia, si apre lo spazio di libertà perché l’altro possa a sua volta amare. Si scopre così che la riflessività dell’amicizia si trova alla base di una reciprocità che non è di complementarietà di due condizioni sessuate, come quella coniugale, bensì di condivisione di puri beni personali. Certamente è possibile essere amico di un altro in modo superficiale, come accade nell’amicizia piacevole o utile. In entrambe, il fondamento dell’amicizia non è il bene più profondo della persona (la persona-per-sé), ma il piacere oppure l’utilità che gli amici trovano mutuamente52. L’amicizia basata sul piacere o sull’utilità è inoltre molto labile: il bene piacevole o utile può scomparire e, quindi, questi tipi di amicizia sono essenzialmente finiti. Secondo Aristotele, l’amicizia profonda e perfetta si basa, invece, sulla virtù. 51 Cfr. G.W. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1995, pp. 275-289. 52 Nussbaum osserva che «è importante distinguere tre cose: la base o fondamento della relazione (la cosa “attraverso (dia) cui” le persone amano; il suo oggetto; e il suo scopo o fine. Il piacere, il vantaggio e il buon carattere sono tre basi differenti o fondamentali originali per la philia; essi non sono lo scopo o il fine (intenzionale) della relazione. In altre parole, le due persone sono amiche “attraverso” o “sulla base di” quei tre elementi, ma lo scopo che tentano di raggiungere nell’azione è un qualche reciproco beneficio. L’amicizia basata sul piacere e quella fondata sul vantaggio, anche se non sono perfette, sono decisamente distinte dalle relazioni di sfruttamento, nelle quali ciascuna parte mira al proprio piacere e non al bene dell’altra. L’oggetto della relazione in ogni caso è l’altra persona; ma l’altro viene concepito e conosciuto in riferimento alla base; come una persona piacevole da frequentare o dotata di buona posizione utile o fornita di buon carattere. Così i due tipi inferiori mirano al beneficio dell’altro descrivendolo solo in modo superficiale» (M. NUSSBAUM, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 2011, p. 641).

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Capitolo dodicesimo

L’amicizia ha, infatti, bisogno delle virtù53, in primo luogo, perché solo così si può evitare il sopravvento dei desideri di possesso, di potere e di stima che nei rapporti interpersonali sono sempre in agguato54; com’è noto, alcuni vizi come l’invidia e la gelosia, sono la causa principale del logorarsi del legame fra gli amici. La virtù è anche necessaria, perché si deve essere disposti a sacrificare ciò che piace o è utile per l’amico55. Ne consegue che il senso più profondo dell’amicizia virtuosa sia aiutare l’altro a diventare se stesso. Ma soprattutto l’amicizia richiede la virtù, specialmente quella della fedeltà, perché gli amici devono far crescere il legame, sfidando i pericoli che i mutamenti causati dal tempo o dall’allontanamento fisico e spirituale portano con sé. Nella relazione di amicizia si esercita una reciproca influenza secondo diversi modi, come il consiglio e la correzione, l’orientamento delle proprie attività e del proprio gusto, l’emulazione e l’imitazione56. La benevolenza riconosciuta e corrisposta è, secondo Aristotele, il nucleo dell’amicizia virtuosa57. Anche se questo tipo di reciprocità fa parte dell’amicizia virtuosa, mi sembra che non manifesti il suo significato più profondo, cioè la donazione all’altro perché sia se stesso. Infatti, la benevolenza non rende espliciti gli atteggiamenti da coltivare nei confronti dell’identità dell’altro, che diventano invece patenti nella 53

Sul ruolo delle virtù nell’amicizia, in particolare della giustizia, si veda la profonda analisi fenomenologica fatta da R. SOKOLOWSKI, Phenomenology of Friendship, «The Review of Metaphysics», 55 (2002), pp. 452-470. 54 La conoscenza del proprio io e degli altri dà luogo a tre desideri prettamente umani, denominati da Kant desiderio di possesso (Habsucht), di dominio (Herrsucht) e di onore (Ehrsucht) (cfr. I. KANT, Fondamenti della metafisica dei costumi, cit., p. 127). 55 In questo senso si può affermare che «l’amicizia è un’implicazione pratica di tutto ciò che la vita morale richiede» (P.J. WADELL, Friendship and the Moral Life, Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1989, p. 49). 56 L’amicizia virtuosa porta con sé «un incremento di autoconoscenza e di autocoscienza perché, in una condizione di reciproca fiducia, la contemplazione dell’amico, e cioè del buon carattere realizzato in un’altra vita buona, migliora la capacità di autocritica e rende più sicuro il giudizio» (C. DANANI, L’amicizia degli antichi. Gadamer in dialogo con Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 259-260). 57 Affinché ci sia l’amicizia, è necessaria la conoscenza e la risposta dell’altro di fronte alla propria benevolenza. Come afferma Aristotele, non è amicizia quella benevolenza che resta nascosta (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 1155b 34- 1156a 5).

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Identità personale e socialità

donazione, come l’accettazione e l’aiuto alla sua crescita anche con il sacrificio dei propri beni. Nel non metterli in rilievo, la benevolenza può essere scambiata con il beneficare, in cui l’altro appare come qualcosa che noi facciamo, cioè come una nostra opera, e quindi come dipendente dalle nostre azioni e da ciò che pensiamo sia il suo bene58. La “benevolenza” che cerca di dominare l’altro e chiede una stravagante gratitudine come prezzo, è il peggiore abuso che si possa fare all’amico. Comunque, la differenza fra il beneficare e il donare deriva soprattutto dal tipo di reciprocità: mentre nel beneficare si dà una reciprocità richiesta e attesa (il benefattore aspetta di essere lodato e il beneficato di ricevere dei doni), nell’amicizia essa, lungi dal venire fissata da un calcolo, è frutto della gratuità dell’amico che va al di là del debito. Ciò non significa che nell’amicizia sia assente il debito né che manchino le aspettative. Nel donarsi, l’amico fa nascere nell’altro il debito della fedeltà. Sebbene non sia dovuta, la risposta dell’altro è necessaria perché ci sia amicizia59. Ci sono altri tipi di rapporti interpersonali che non implicano necessariamente la reciprocità, come l’amore sponsale, la paternità-filiazione, la fraternità, ecc. L’amicizia, intesa come donazione di sé perché l’altro possa essere se stesso, è invece possibile in tutte le relazioni, e questo comporta che l’amicizia di cui parla Aristotele (virtuosa, proporzionale e reciproca) è solo l’analogato principale. L’amicizia, dunque, non dovrebbe essere limitata ad un tipo di rapporto (quello a cui si riferisce il linguaggio comune, cioè il rapporto fra persone uguali dal punto di vista dell’età, della condizione sessuata, culturale e, soprattutto, etica). Il che significa che l’amicizia è analogica, vale a dire ogni tipo di rapporto può dar luogo a un tipo particolare d’amicizia, 58 Il rapporto esistente fra benefattore e beneficato è paragonato da Aristotele a quello che si instaura tra il poeta e la sua opera: la vita del beneficato che il benefattore ha contribuito a fare è amata, come i poemi sono amati dal poeta, che li considera una sua produzione (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 1168a 15-20). Secondo Arendt, in questo paragone si «mostra chiaramente che Aristotele pensa all’azione in termini di opera, e ai suoi esiti, le relazioni fra gli uomini, come “opera” compiuta (nonostante il suo tentativo di distinguere nettamente fra azione e fabbricazione, praxis e poiêsis)» (H. ARENDT, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 143). 59 «Non è amicizia quella benevolenza che resta nascosta» (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 7, 1155b 34-1156a 5).

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Capitolo dodicesimo

perciò quella fra marito e moglie è differente da quella fra genitori e figli, da quella tra fratelli o da quella esistente fra professore e allievo, fra compagni di scuola o colleghi di lavoro60. L’amicizia è, quindi, possibile in ogni rapporto interpersonale a due condizioni: non cercare la proporzionalità né l’uguaglianza. Ciò non è un’utopia. È un dover essere che deve guidare i rapporti interpersonali perché essi non scivolino sulla china della strumentalizzazione dell’altro o della violenza.

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5. La donazione di sé come massimo bene relazionale La conversazione interiore, le virtù sociali e l’amicizia sono l’ambito in cui si forgia l’identità o il carattere della persona. Si noti che il termine carattere non è qui usato in senso psicologico o etico, come cioè la forma che si dà al temperamento attraverso l’azione, gli abiti e le virtù, bensì in senso antropologico come l’integrazione della persona attraverso le sue relazioni. Come sostiene Ricoeur, il carattere è «il modo di esistere secondo una prospettiva finita che interessa la mia apertura al mondo delle cose, delle idee, dei valori, delle persone»61. Solo che, secondo me, l’apertura fondamentale non è al mondo delle cose o delle idee, bensì alle persone attraverso i diversi tipi di relazione. Il che significa che l’identità della persona dipende soprattutto dalla qualità dei suoi rapporti. I rapporti fra gli individui possono essere di dominio, come indica Nietzsche62, o di indifferenza, come sostiene la ragione autosufficiente dell’individualismo moderno e quella debole dell’individualismo postmoderno. La volontà di potenza e l’indifferenza hanno in comune l’assenza di qualsiasi relazione umana vera: nella volontà di potenza, non c’è relazione ma assorbimento dell’altro a cui s’impone la propria 60 Nonostante l’importanza attribuita da Aristotele all’uguaglianza nell’amicizia

virtuosa, non mancano testi in cui lo Stagirita sembra discostarsi da una completa reciprocità. «Per conseguenza, non è la stessa cosa quella che uno riceve dall’altro, né quella che deve essere ricercata: ma quando i figli rendono ai genitori ciò che si deve a chi ha generato, e quando i genitori rendono ai figli ciò che si deve a chi è stato generato, l’amicizia tra persone di questo tipo sarà permanente e virtuosa» (ivi, 1158b 20-24). 61 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 145. 62 Cfr. F. NIETZSCHE, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1964, p. 40.

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Identità personale e socialità

volontà; nell’indifferenza, la distanza soggettiva fra le persone è tale da impedire qualsiasi tipo d’incontro personale. Solo sulla base del rispetto e della cura si dà «l’analogica unità di ciò che è differente»63. Infatti, la persona che si occupa del bene degli altri rispetta e promuove l’alterità come cosa propria in un processo di retroalimentazione che continua nel tempo, perché fra cura e relazione s’istaura una totale reversibilità. Ciò che fa crescere le persone in perfezione è perciò una serie di beni relazionali. I beni relazionali sono «quelli che consistono di relazioni, e che possono essere prodotti e fruiti soltanto assieme, non sono divisibili, non sono frazionabili»64. Il bene relazionale che influisce di più sull’integrazione della propria identità è la donazione di se stessi in modo totale e irrevocabile. Anche se dal punto di vista dell’agente è solo un atto e non una virtù (sebbene esso coinvolga la totalità della persona), la donazione di sé è l’origine di relazioni massimamente perfettive. Infatti, quando è accettata da un altro/Altro, la donazione di sé origina una relazione di reciprocità, la quale è originalmente – come nel caso del riconoscimento – asimmetrica: il dono di sé non implica necessariamente la sua ricezione da parte dell’altro (solo nel caso del donarsi a Dio si dà tale reciprocità), perciò la donazione comporta sempre il rischio che il dono non sia accettato. L’asimmetria del dono può sfociare in una certa reciprocità, come accade nella relazione coniugale, poiché l’accettazione del dono si converte nello stesso atto del donante. La possibilità che è contenuta nel dono spiega perché, da una parte, l’accettazione iniziale del dono amoroso non si possa esigere (si tratta, quindi, di una reciprocità che non si basa sulla giustizia, bensì sulla gratuità), e dall’altra, perché una volta accettato, dal dono di sé scaturisca un vincolo o legame e, di conseguenza, l’obbligo della fedeltà. L’asimmetria si trova alla base, dunque, di relazioni simmetriche di giustizia, quelle che caratterizzano l’essere-con, ma soprattutto di comunione; queste ultime, basate sul dono di se stessi e l’accettazione del dono altrui, come nell’amore umano e nell’amicizia. L’asimmetria originaria appare così come un’esigenza della nostra condizione di esseri dipendenti, la reciprocità come una risposta all’agire dell’altro e, 63 A.

LLANO, El diablo es conservador, EUNSA, Pamplona 2001, p. 41. P. DONATI, Il problema della umanizzazione nell’era della globalizzazione tecnologica, cit., p. 60. 64

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Capitolo dodicesimo

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in questo senso, un’esigenza della nostra autonomia65, e la donazione come la manifestazione della capacità umana di entrare in comunione, giacché l’Io e l’altro hanno la possibilità non solo di condividere uno stesso bene (il bene appunto comune) ma soprattutto se stessi come bene. Perciò si può chiamare bene relazionale. In definitiva, il legame necessario con l’altro nelle diverse tappe di formazione dell’Io non nega l’identità, ma la presenta come composta, come un fieri che si sviluppa nella relazione ed attraverso di essa. Il processo mediante il quale le differenze con l’altro sono unificate si chiama identificazione. L’identificazione permette di conoscersi e amarsi riconoscendo e amando gli altri come noi stessi, portando così alla comunione dalla quale scaturisce ogni bene relazionale66.

65

Il concetto di reciprocità qui usato è simile a quello di Alici (cfr. L. ALICI, Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p. 142). 66 «Primato della relazione significa che ogni identità è altra per altra identità e quindi che l’identità è sempre differenziale, che la differenza è sempre identificante; che cioè identità e differenza si danno sempre e solo nella loro relazione. Questo toglie d’un colpo legittimità al soggetto monologico, autoreferenziale, imperiale, sia al soggetto sociale, prodotto di anonima attribuzione di ruoli, “attaccapanni” senza iniziativa propria» (F. BOTTURI, Etica e politica dell’alterità, in Vincenzo Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 71).

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Capitolo tredicesimo

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Identità personale e temporalità

1. Dimensioni della temporalità umana Mentre negli esseri inanimati il tempo scorre e lascia solo tracce esterne, nei viventi può essere posseduto e immagazzinato perché essi hanno immanenza o interiorità. Secondo i gradi d’immanenza dei viventi, ci sono quattro tipi di possesso temporale. Il primo livello corrisponde alla crescita del corpo giacché questo tende al possesso perfetto della propria forma. Certamente, il corpo, che nell’infanzia e adolescenza è in grado di crescita e perfezione, diventa poi incapace di mantenere la propria forma; di conseguenza, esso invecchia e, in fine, si corrompe. La temporalità del corpo è, quindi, legata alla crescita, alla vecchia e alla morte. Il secondo livello di possesso temporale è dato dalla generazione o trasmissione del codice genetico; infatti, prima di diventare incapace di possedere la propria forma, il vivente tende a trasmetterla ad altri individui della stessa specie perpetuandola in questo modo, pertanto nella generazione si dà la trascendenza della specie riguardo al tempo degli individui, il che non significa che la specie sia eterna, come dimostra la paleontologia. All’interno della generazione, la riproduzione sessuale implica una maggiore individualità rispetto alla riproduzione asessuata. Questi primi due livelli di temporalità corrispondono alla vita biologica. Un terzo livello di possesso del tempo corrisponde all’esperienza o vissuto, negli animali agli istinti e sensazioni, in particolare all’immaginazione e alla memoria. La prima permette all’animale di proiettarsi al di là del presente (si tratta di una trascendenza che l’individuo ha nei confronti della sensibilità esterna), per cui egli può sentire paura o 333

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Capitolo tredicesimo

speranza; la seconda gli permette di raccogliere – almeno in parte – le esperienze vissute, rendendo possibile l’apprendistato e l’addomesticamento. Nell’animale, però, passato e futuro fanno riferimento solo a ciò che è sensibile e particolare. Il quarto livello di possesso del tempo corrisponde all’esperienza della realtà in quanto tale: del mondo, degli altri, e di se stessi o biografia. Per parlare dell’esperienza razionale, Aristotele adopera l’esempio dell’esercito disperso dal nemico e in rotta che riesce a compattare i ranghi, perché nell’esperienza razionale le sensazioni fugaci, le immagini e i ricordi finiscono per costituire una struttura permanente nella coscienza in modo che il pensiero può ricavarne l’essenza delle cose, cioè la loro identità e stabilità1. Insomma, anche se si dà nel tempo, l’esperienza razionale lo trascende completamente. Infatti, non solo l’intelligenza, ma anche la volontà ci propone l’esistenza di un presente che non è più quello della sensazione, perché aperto all’eternità. Questo tipo di trascendenza si osserva, ad esempio, nel linguaggio e nell’azione umana; infatti, anche se i suoni o i caratteri si dispiegano nel tempo, la persona ha la capacità di andare oltre quella successione in modo da collegarli a un certo significato. Finché non si riesce a identificare l’unità di significato (lessemi o morfemi) si percepisce solo un insieme di suoni senza legami. D’altra parte, l’intenzionalità dell’agire umano richiede un presente particolare giacché, come si è visto nel capitolo IX, si tratta di un’intenzionalità di secondo ordine ovvero un voler volere. Di qui, come mostra l’esperimento di Libet, la difficoltà di trovare nel tempo l’origine delle nostre decisioni2. In fondo, questa trascendenza 1

Cfr. ARISTOTELE, Analitici posteriori, II, 19. L’esperimento di Libet consiste nel collegare a un elettroencefalografo – mediante l’uso di elettrodi – vari punti della corteccia cerebrale del volontario. Il soggetto viene poi collocato davanti al timer di un oscilloscopio a raggi catodici, che registra la frequenza e ampiezza delle onde cerebrali, e gli si chiede, in istanti scelti liberamente da lui, di fare un movimento molto semplice: flettere un dito o premere un pulsante mentre guarda il segnale sull’oscilloscopio. Raccogliendo i risultati di questo esperimento fatto con numerosi volontari, Libet scoprì che esisteva un importante intervallo temporale: non meno di 0,5 sec. fra il manifestarsi del potenziale di preparazione – indicato dall’attivazione neurale in predisposizione al compimento dell’azione – e il suo inizio; circa 300-350 ms fra la prima apparizione del potenziale di preparazione e la coscienza di volere compiere l’azione, e circa 550 ms prima che l’azione avesse effettivamente inizio. In altre parole: le aree cerebrali coinvolte nei movimenti si attivavano prima che sorgesse nel 2

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Identità personale e temporalità

radicale del tempo implica l’esistenza della libertà in virtù della quale, a differenza di quanto accade negli animali, siamo padroni del nostro agire e origine di novità.

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2. La biografia: temporalità e trascendenza Possiamo, pertanto, distinguere fra ciò che la persona è dal punto di vista della sua vita biologica, con i processi di crescita, maturità e invecchiamento, e l’esercizio della sua libertà. Ciò nonostante, tale distinzione non implica separazione e ancora di meno opposizione, poiché la libertà è capace in un certo senso di riprendere gli stessi atti e processi vitali. Una prova di questo è la possibilità di influire volontariamente mediante la tecnica sulla stessa crescita e sull’invecchiamento. Inoltre, l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la vecchiaia sono tappe della biografia della persona che la coinvolgono interamente (psichicamente e spiritualmente), e non solo processi dell’organismo. Infatti, come la psicologia evolutiva indica, essere bambino, giovane, adulto, anziano sono alcune delle forme che presenta lo sviluppo temporale della vita animica. A ogni tappa corrisponde un insieme di dinamismi fisiologici e dei processi psichici che possono essere studiati sia da un punto di vista evolutivo globale dell’individuo (ontogenesi) – come lo sviluppo delle tendenze o dei sentimenti dalla nascita fino alla morte – sia dal punto di vista della specie (filogenesi). Tra l’ontogenesi e la filogenesi si stabilisce un rapporto molto stretto, perciò lo studio della vita del bambino (predominio della fantasia, animazione delle realtà non animate, ecc.) getta una qualche luce sulle caratteristiche psichiche e spirituali dell’uomo primitivo e viceversa3. Un rapporto analogo vi è tra la psicologia evolutiva dell’uomo e la vita animale: i fenomeni soggetto la volontà cosciente di agire (cfr. B. LIBET, C.A. GLEASON, E.W. WRIGHT, D.K. PEARL, Time of Conscious Intention to Act in Relation to Onset of Cerebral Activity (Readiness-Potential). The Unconscious Initiation of a Freely Voluntary Act, «Brain», 106 (1983), pp. 623-642). È vero che l’esperimento di Libet rivela lo scarto tra la coscienza di un atto e il suo inizio. Ciò non significa, tuttavia, che l’esperimento debba essere interpretato come una confutazione del libero arbitrio, piuttosto esso conferma l’impossibilità di trovare nel tempo l’origine dei nostri atti. 3 Cfr. J. PIAGET, Psycho-pédagogie et mentalité enfantine, «Journal de Psychologie», 25 (1928), pp. 38-40.

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Capitolo tredicesimo

che osserviamo, soprattutto negli animali superiori (aggressività, paura, ecc.), servono perciò a far capire meglio i primi stadi dell’evoluzione ontogenetica dell’uomo tanto nei confronti di certi parallelismi quanto di differenze essenziali4. Comunque, l’antropologia s’interessa anche dello sviluppo dello spirito, in particolare delle manifestazioni della sua libertà. La maturità della persona, infatti, è considerata non solo un certo equilibrio fisicopsichico ma soprattutto la tappa che segna il passaggio dall’autonomia dell’Io alla donazione di sé, cioè alla relazione amorosa umana e alla paternità o maternità fisica e/o spirituale. Dal punto di vista antropologico ogni tappa di sviluppo della persona ha come scopo integrare a un determinato livello le tre dimensioni del tempo5. Perciò, il passato legato alle nostre origini e, quindi, a Dio man mano che cresce dovrebbe fare aumentare non solo la memoria di quanto si è vissuto ma soprattutto il ringraziamento per i doni ricevuti. Il presente – tempo della relazione con il mondo e le altre persone – dovrebbe portare non solo al perfezionare perfezionandosi attraverso il lavoro ma anche ad accorgersi del valore di ogni piccola azione quando si fa con amore. Infine, il futuro, come apertura alla novità e quindi all’eternità, dovrebbe non solo farci avere speranza ma sorprenderci perché ha sempre qualcosa d’inaspettato e gratuito. Insomma, chi ringrazia le origini spera la novità del futuro. Poiché ogni fase mette in risalto una dimensione del tempo, per viverla personalmente si ha bisogno di una determinata virtù. Nell’infanzia, tappa così vicina alle origini, in cui si tende a considerare dovuto ciò che è dono, si ha bisogno del ringraziamento; nell’adolescenza, così proiettata verso il futuro che si tende a perdere di vista il valore del presente, si ha bisogno della pazienza di fronte agli ostacoli e della costanza nel cammino intrapreso; nella vecchiaia, così carica di tanti vissuti a volte negativi e dolorosi, si ha bisogno di fiducia nelle persone e di speranza. Ne deriva che le distorsioni riguardo alle tappe biografiche fanno riferimento sia ad aspetti psichici sia morali. La paura del presente da parte del bambino o dell’adolescente può dar luogo, ad esempio, all’at4 Cfr. L. CAMAIONI, Psicologia dello sviluppo e del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2001, specialmente il primo capitolo. 5 Il segreto di una vita piena è cogliere la bellezza con cui il tempo si presenta in ogni età della vita (cfr. R. GUARDINI, Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Vita e Pensiero, Milano 2011, specialmente il capitolo introduttivo).

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Identità personale e temporalità

taccamento nostalgico ai genitori che gli impedisce di crescere, oppure al fanatismo e rigidità dell’adulto che non accetta la realtà con i suoi cambiamenti. D’altro canto, la chiusura nell’istante presente, propria dell’edonista e del cacciatore di esperienze, rende impossibile l’integrazione personale. Inoltre, la fretta, la mancanza di serenità e il nichilismo manifestano con evidenza la riduzione del tempo a un presente puntuale. Infine, la pura proiezione nel futuro fa vivere in un mondo di sogni o in un’utopia, mentre si trascura spesso il compimento dei doveri che il presente porta con sé. Dal punto di vista morale, la distorsione temporale maggiore corrisponde al vizio, la cui essenza consiste nell’abbandonarsi alla causalità del passato. Il presente del vizioso non è altro che semplice ripetizione di un passato che, invece d’integrare, disintegra. Al vizio si aggiunge spesso l’egoismo di chiudersi agli altri diventando in questo modo incapaci di donazione. Infine, la trascendenza sul tempo si osserva anche nella capacità che la persona ha di raccontare e raccontarsi. Attraverso questa attitudine si è in grado di narrare agli altri la propria vita e di fare esperienza di altre vite reali o fittizie, come accade nella letteratura, specialmente nel romanzo. Ciò permette di andare oltre i limiti della propria vita. Lungi dall’alienare, questa esperienza consente d’imparare come essere più se stessi. Non solo perché si è più consapevoli delle potenzialità positive e negative che ci sono in ciascuno di noi, ma anche perché la conoscenza di altre vite aiuta a migliorare i propri giudizi morali. Come sostiene Ricoeur, «le esperienze di pensiero che facciamo nel grande laboratorio dell’immaginario sono anche perlustrazioni del regno del bene e del male»6. In questo senso si può dire che la nostra biografia si forgia anche mediante i racconti. Infatti, le proprie azioni e, parzialmente, le loro conseguenze su altre persone dipendono dalla storia che vogliamo raccontare, ossia la narrazione di cui vogliamo far parte. Ecco perché la vita delle persone e dei popoli si costruisce e si tramanda attraverso racconti. Ciò spiega perché alcune storie, fondamentali nella costruzione di relazioni personali a differenti livelli, possano essere ripetute lungo generazioni, come i miti fondativi e la storia di famiglie, popoli e nazioni. Mediante la narrazione, le azioni del passato influiscono sulla formazione di legami, appartenenze e condivisione di tradizioni e va-

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P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 194.

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lori7. Ne deriva che una possibile definizione dell’uomo sia: animale narratore di storie8.

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3. La storia come orizzonte temporale dell’esistenza: tradizione e rivoluzione Oltre alla vita biologica e alla libertà personale, la biografia richiede l’intreccio dell’agire proprio con quello di altre persone. La storia umana, come anche la biografia, ha senso perché esiste un’origine e una fine. Ne deriva che sia l’evoluzionismo materialista che rifiuta l’origine trascendente della realtà sia le ideologie basate su un progresso indefinito dell’Umanità o una fine intrastorica, come rispettivamente il positivismo e il marxismo, sono incapaci di armonizzare le libertà personali e la vita delle persone e della storia. Invece, una visione finalistica permette di contemplare la storia come l’ambito in cui le persone manifestano la loro libertà come esseri contemporaneamente autonomi e dipendenti9. L’autonomia si mostra soprattutto nel potere che l’uomo ha di disporre in un certo senso del proprio tempo e, tramite ciò, d’influire sulla vita degli altri e sull’intera storia. Infatti, la persona è un essere storico, che si serve del tempo per modellare la sua stessa condizione temporale; e ciò spiega che non solo sia in grado di una cultura della cucina e della sessualità, ma anche di una cultura che si estende alla stessa generazione e morte. Certamente non sempre queste forme culturali, come la fecondazione in vitro o l’eutanasia, corrispondono alla dignità della persona. D’altro canto, 7 Un ruolo importantissimo della narrazione si trova nel ricordo dei doni ricevuti, come si osserva nelle azioni liturgiche della religione ebraica; ad esempio, nella narrazione della Parasceve fatta dal capofamiglia come risposta alla domanda del più giovane. Nella liturgia cristiana, la narrazione va oltre il ricordo per diventare performativa del dono eucaristico, come nella messa. Sul linguaggio performativo si possono vedere J.R. AUSTIN, Quando dire è fare, Marietti, Torino 1974, e J. SEARLE, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976. 8 «L’uomo nelle sue azioni e pratiche, come anche nelle sue finzioni, è essenzialmente un animale narratore di storie (story-telling)» (A. MCINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007, p. 216). 9 Cfr. F. FACCHINI, Origini dell’uomo ed evoluzione culturale: profili scientifici, filosofici e religiosi, Prefazione di Yves Coppens, Jaca Book, Milano 2002, p. 229 e sgg.

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Identità personale e temporalità

oltre alla dipendenza dalle proprie origini (famiglia, cultura, lingua, paese, religione), la persona dipende da chi le esige riconoscimento, rispetto e cura, richiedendole scelte responsabili, molte volte piene di sacrificio e generosità10, come la decisione dei genitori di accettare trattamenti medici invadenti e dolorosi perché hanno dei figli il cui bene dipende dalla loro salute. Il binomio autonomia-dipendenza si manifesta anche nei fenomeni della tradizione e dell’innovazione, apparentemente contrari. Da un lato, siamo immersi in una corrente temporale costituita da tutto ciò che ci è stato tramandato, il che permette di avere un inizio d’identità e anche di condividere con altri diversi tipi d’appartenenza. La necessità della tradizione dipende dal fatto che l’identità umana si origina nel passato, poiché non incomincia mai da se stessa. Ciò nonostante, in modo analogo a quanto si è visto nello studiare il passato, la chiusura nella tradizione è segno di un atteggiamento d’incertezza. Poiché la novità di ciò che non è dato fa paura, si cerca di eliminarla tramite posizioni immobiliste che tendono al fanatismo e al fondamentalismo. Lungi dall’essere un ambito di rimpianto e nostalgia, la tradizione quando è viva diventa spazio di relazione delle persone fra loro e con il mondo. La novità della relazione richiede creatività e innovazione, il che non equivale a giustificare la deriva rivoluzionaria di chi, nel tentativo di dare risposta ai problemi rivelati dall’essere-nel-mondo-con altri, si propone di creare nuovi modelli di famiglia e di relazione umana. Oltre ad essere utopico, quest’atteggiamento porta con sé la mancanza d’identità che si esprime nella perdita progressiva dei valori e di buone relazioni interpersonali. L’attitudine prudente consiste nel riuscire a integrare tradizione e innovazione11. Per farlo si richiede l’assunzione critica della propria tradizione. Mediante una conoscenza riflessiva, è possibile personalizzare la propria tradizione, interpretandola e assimilandola in modo che faccia parte della propria identità12. L’integrazione di tradizione e innovazione è la sfida che la storia pone sempre alle persone. 10 Questa tesi si trova nel saggio di A. MCINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, tr. it. di M. D’Avenia, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 117-127. 11 Un buon esempio di equilibrio è rappresentato dal libro di P. BINETTI, La famiglia fra tradizione e innovazione, Magi, Roma 2009. 12 Sul ruolo dell’ermeneutica nella comprensione della tradizione si veda G. GADAMER, Verità e metodo, cit., parte III, cap. 2.

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4. Il rapporto con il trascendente: il sacro e il profano Come accennato, la storia è anche il luogo del rapporto con il trascendente. Infatti, una delle caratteristiche dell’uomo dalle sue origini fino ad oggi è la religione, ossia il ri-legarsi a ciò che lo trascende in conoscenza e potere. La filosofia della religione usa la categoria di sacro per riferirsi a questa relazione. Rudolf Otto è stato uno degli autori che più si è occupato del significato di questo termine. Secondo lui il sacro, che costituirebbe lo spazio comune a tutte le religioni, ha un doppio significato: numinoso e terribile13. Da una parte la relazione con il trascendente porta con sé il fascino di ciò che attira perché inaccessibile, dall’altra è origine di paura, anzi di angoscia, perché si considera come qualcosa di terribile. Per mantenere il contatto con il divino entro limiti sopportabili, l’uomo istituisce il sacro (sacer “separare”), vale a dire la separazione di luoghi, oggetti, atti e riti che gli permettono di entrare in relazione con il numinoso senza essere annichilato. Tutto ciò che non appartiene alla sfera del sacro è profano (pro-fano “davanti al tempio”). Si tratta di due ambiti in cui le persone vivono ma che non si possono mescolare; infatti, quando il profano entra nell’ambito del sacro ha bisogno di essere con-sacrato, cioè separato mediante determinati riti dall’uso e dai fini originari; il sacro, da parte sua, diventa profano quando è pro-fanato ovvero s-con-sacrato. Secondo Girard l’origine del sacro e, quindi, delle religioni è il sacrificio di un capro espiatorio (originariamente un essere umano) con cui si pone fine temporaneamente all’esplosione di violenza mimetica che minacciava di distruggere la comunità. Ne deriva il carattere terribile di tutte le religioni che, attraverso sacrifici e riti, cercano di mascherare quell’atto di violenza fondante. Per difendersi dal terrore causato da quella prima crisi, la comunità si serve di diversi mezzi che consentono di convivere con la violenza mimetica limitando i suoi effetti a esplosioni controllate, come nelle feste religiose, o a trasformazioni simboliche, come nei sacrifici in onore delle divinità. Secondo Girard, mediante il sacrificio di Gesù sulla Croce il cristianesimo svela il numinoso delle religioni naturali mostrando la loro essenza cruenta e

13

Cfr. R. OTTO, Il Sacro, tr. it. di E. Buonaiuti, SE, Milano 2009, p. 15.

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Identità personale e temporalità

terribile14. Ciò avrebbe un doppio effetto: liberare la civiltà dal terrore favorendo il suo sviluppo e la sua autonomia in tutti gli ambiti della cultura – soprattutto nella scienza della natura e nella tecnologia –, della politica e dell’economia. D’altra parte, avrebbe tolto anche l’inibizione alla violenza dando luogo a grandi esplosioni incontrollate, per cui la modernità occidentale sarebbe piena di lotte di religione e di conquista, di guerre mondiali che, con l’avanzare degli sviluppi dei processi tecnologici, minacciano di distruggere una gran parte dell’umanità. Mi sembra che la teoria della violenza mimetica possa essere applicata ad alcune religioni come quell’azteca, ma non a tutte, ad esempio, non a quella ebraica nonostante il sacrificio ricopra in essa un ruolo fondamentale. Infatti, basta leggere il libro della Genesi o l’Esodo per rendersi conto che il sacrificio di Abele o quello degli ebrei nel deserto del Sinai, prima d’avere il significato di placare il Dio terribile, esprime la coscienza di dipendenza e il ringraziamento dell’uomo per i doni ricevuti. In questi e altri esempi, la religione appare come patto fra Dio e alcuni uomini – più tardi, sarà con tutto il popolo eletto – che contiene la promessa di un futuro di pace e amore. Quest’alleanza dipende non solo da Dio ma anche dall’uomo, che deve corrispondere alla fedeltà divina. Perciò, la religione ebraica è l’inizio dell’alleanza, e il sacrificio e la risurrezione di Cristo la sigillano in modo stabile. Inoltre, la considerazione della Croce come rivelatrice della violenza mimetica ne manifesta un’interpretazione molto limitata. Prima di avere un significato antropologico, questo sacrificio ne ha uno soteriologico; infatti, la redenzione del genere umano (non solo del popolo eletto) è dal peccato e non semplicemente dalla violenza, giacché il male morale non può essere ridotto a violenza, che è conseguenza ma non essenza del male. In fondo, nel modo di considerare il desiderio umano, Girard come altri autori prima di lui (Freud, Marx, Nietzsche) è monotematico: egli crede che tutte le tendenze umane siano riconducibili al desiderio mimetico che porta con sé necessariamente la violenza.

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Cfr. R. GIRARD, Le sacrifice, cit., cap. III.

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5. L’eternità nel tempo: promessa, perdono e pentimento Oltre alle religioni, la trascendenza della persona sul tempo si manifesta in tre azioni caratteristiche dell’essere umano: promessa, pentimento e perdono. a) La promessa è legata al desiderio di felicità, che su questa terra non può essere completamente soddisfatto. Nei momenti di felicità parziali si pregusta qualcosa di eterno. Dunque si può affermare che la felicità è più una promessa che una realtà. Come promessa, la felicità porta con sé un desiderio infinito che impedisce di stabilirsi in qualsiasi situazione di benessere più o meno duratura. Insomma, il desiderio di felicità corrisponde allo status viatoris, ossia alla condizione di chi è in cammino e non deve fermarsi finché non arrivi alla meta. D’altro canto, il desiderio di felicità consente di sperare e promettere. Infatti, solo perché l’uomo è capace di sperimentare una felicità inconclusa può continuare a sperare anche contro ogni speranza. A sua volta, la speranza umana è alla base della promessa. Oltre che con gli atti, le virtù e le relazioni, l’identità umana si costruisce con la fedeltà alle promesse, in particolare quella del dono di sé15. Nonostante i cambiamenti (a volte negativi) che allontanano da ciò che si dovrebbe essere, la persona – tranne i casi di malattia mentale o di grave dipendenza – ha sempre la possibilità di promettere e di essere fedele alla parola data. A proposito del ruolo della promessa nella costituzione dell’identità personale, Ricoeur afferma che l’identico non vuol dire che non cambia mai, bensì che, nonostante le trasformazioni subite, si mantiene fedele a se stesso16. c) Il perdono e il pentimento. Anche se perdono e pentimento possono manifestarsi separatamente, fra di essi esiste una relazione intrinseca. Infatti, senza perdono non è possibile il pentimento, e senza quest’ultimo non si riceve il perdono offerto. Perciò il modo di affrontare questi due fenomeni consiste nel far vedere il loro rapporto. L’analisi storico-linguistica permette di evidenziare la derivazione del vocabolo ‘perdono’ dal termine ‘dono’ sia etimologicamente sia 15 «Il potere di stabilizzazione inerente alla facoltà di far promesse è noto a tutta la tradizione» (H. ARENDT, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 179). 16 Cfr. P. RICOEUR, Un entretien avec Paul Ricœur. Soi-même comme un autre, Propos recueilli par G. Jarczyk, «Revue du Collège International de Philosophie», 1-2 (2003), p. 227.

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Identità personale e temporalità

semanticamente (per-dono “perfezione del dono”). Il dono può essere perfezionato in due modi: mediante un nuovo atto e mediante la generazione di altri doni17. Il perdono contiene entrambi i significati. Vediamolo in dettaglio. La condizione di possibilità del perdono è l’ingiustizia commessa da un aggressore nei confronti di una vittima. Essa dà luogo a una relazione negativa fra vittima e aggressore; infatti, nell’essere stata ferita, la vittima tende a vendicarsi giacché sembra che il solo modo di reagire al male sia recandone uno più grande. D’altro canto, l’aggressore, macchiatosi della colpa, acquisisce un’immagine negativa di se stesso. Come il dono, il perdono deve essere offerto in modo da poter essere accettato. Per questo motivo, per perdonare, non basta l’azione di condonare la colpa. Perdonare come se il colpevole non dovesse far nulla, equivale a creare in lui la falsa idea che si può tornare alla situazione precedente e, quindi, che il perdono appartiene a una specie di processo naturale dominato dalla simmetria e reciprocità: poiché l’offesa dipenderebbe necessariamente dalla volontà dell’offendente, il perdono dipenderebbe solo dalla volontà dell’offeso. In questo modo l’azione dell’offeso avrebbe come effetto la cancellazione totale dell’azione dell’offendente. Invece, il perdono non distrugge l’ingiustizia né i suoi effetti, ma apre la possibilità di trasfigurarla creando un nuovo spazio per le libertà del colpevole e della vittima. Il perdono, perciò, si trova agli antipodi della necessità naturale, perché implica il gioco libero di due libertà che possono aprirsi o chiudersi senza essere forzate da nessuna legge cosmica. Perché il perdono sviluppi la sua potenza rigeneratrice, non basta essere perdonato ovvero l’azione dell’offeso; da parte del colpevole si richiede anche di interiorizzare il perdono, ossia il pentimento. Come il perdono, il pentimento ha un doppio versante: l’ingiustizia commessa e le persone legate da questa nuova relazione. Infatti, il perdono da parte della vittima può far scoprire al colpevole che, nonostante il male fatto, è capace di rispondere liberamente dei suoi atti, cioè che non si trova condizionato dall’ingiustizia commessa. La persona che accetta di essere perdonata scopre così di non essere radicalmente colpevole, ossia di non essere obbligata a comportarsi da colpevole. È forse ciò che Socrate 17

Cfr. E. BENVÉNISTE, Don et échange dans le vocabulaire indo-européen, in Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris, pp. 315-326.

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Capitolo tredicesimo

non vede quando sostiene che l’ingiustizia commessa resta per sempre incisa nell’anima del colpevole; egli sembra non tener conto della possibilità stessa di essere perdonato. Infatti, anche se gli effetti della colpa vanno oltre l’intenzione dell’atto perché rendono ingiusto l’offensore, questi continua a conservare la sua dignità come persona, perché egli non s’identifica mai pienamente con l’azione fatta (essere ingiusto non equivale a diventare non-persona). Il perdono del colpevole, da parte dell’offeso, distrugge nel primo la necessità di auto-comprendersi come radicalmente ingiusto, permettendogli di vedersi in un modo nuovo, come capace cioè di perdono. Nell’interiorizzare il perdono altrui, il colpevole stesso si perdona, vale a dire si pente del male fatto, scoprendo in tal modo di non essere più condizionato dalla sua colpevolezza. Da questo punto di vista il perdono introduce una rottura nella necessità naturale – soprattutto a livello psichico e spirituale – legata al male: la vendetta della vittima e la colpa dell’offensore. In definitiva, «il perdono rivela che ogni relazione umana permane nell’ordine delle libertà, e che il tempo e il mondo risultano dalle loro iniziative senza necessità e dal loro mutuo riconoscimento»18. Ciò non significa che il futuro del colpevole perdonato e pentitosi non sia segnato dalla colpa e a volte anche da una punizione giusta19. Si tratta però di una colpa e di una punizione assimilate, ossia fatte alimento della propria vita etica, e pertanto capace di rigenerare personalmente. Da un lato perché il colpevole che ha avuto l’esperienza del perdono è in grado d’affrontare la vita con un atteggiamento nuovo, quello cioè del ringraziamento e della fiducia. Dall’altro perché chi è stato perdonato diventa più capace a sua volta di perdonare. Si capisce così perché il “per-dono” possa essere considerato la perfezione del dono ricevuto, in quanto nel perdonare si dona ad altri la vita nel senso che essi possono ri-generarsi riprendendo la loro libertà 18

P. GILBERT, Sapere e sperare. Percorso di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 342. 19 Secondo Arendt il perdono non sempre è possibile, perché avrebbe lo stesso limite della punizione alla quale esso si troverebbe in qualche modo legato. La ragione del limite della punizione e, quindi, del perdono deriva – secondo questa pensatrice – dal fatto che gli uomini sono «incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile» (H. ARENT, La Vita attiva. La condizione umana, cit., p. 178). Sembra così che per la Arendt il perdono sia legato alla stessa possibilità di punire. Di conseguenza quando questa possibilità viene meno scompare anche quella di perdonare.

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Identità personale e temporalità

in modo nuovo, senza la zavorra proveniente dai processi di necessità naturale scaturiti dall’ingiustizia commessa. Il perdono ha anche un influsso positivo su chi perdona. In primo luogo, perché sempre la vittima è stata a sua volta offendente, lo è adesso o lo sarà in futuro e, quindi, anche lei è oggetto del perdono altrui (qui troviamo un tipo di obbligo che non è più simmetrico: ognuno deve perdonare perché è stato perdonato). In secondo luogo, perché chi perdona può ricevere, come ulteriore dono, la rigenerazione dell’altro. In un certo senso si può affermare che in questo modo la vittima offre al colpevole la possibilità di vivere con dignità. Il perdono, quindi, introduce la novità nell’ambito dei rapporti umani mediante la dinamica della rigenerazione. In sintesi, si può affermare che senza dono, non c’è perdono ma solo odio, punizione (autopunizione) e vendetta. E senza perdono, il male ha l’ultima parola e i processi fisici e psichici legati alla necessità diventano allora insormontabili.

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Capitolo quattordicesimo

Identità personale e morte

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1. Il problema metafisico della morte Come si è visto nei primi capitoli, la persona umana è un’unità di composizione fisico-psichico-spirituale, che può essere colta soltanto con l’intelligenza mediante la riflessione e lo studio dell’integrazione nei diversi livelli e fenomeni analizzati. Non è possibile sentire o immaginare l’unità del composto, perché con i sensi cogliamo unicamente le differenze di ciò che è sensibile e, quindi, che ha un certo grado d’immaterialità. Invece, ciò che è totalmente immateriale, come l’unità, non può essere percepito direttamente dai sensi ma solo indirettamente, attraverso l’esperienza del proprio corpo e delle azioni che realizziamo con esso. Certamente, è possibile collegare i diversi elementi partendo solo dalle sensazioni, tuttavia l’unione così ottenuta non è reale ma immaginata. Cartesio è uno dei primi ad affrontare questo problema; la soluzione di quest’autore è paradigmatica di chi tenta di pensare l’unità della persona a partire dall’immaginazione, cioè come un’unione di due sostanze distinte. La conclusione di Cartesio è che l’unione non si può pensare perché contraddittoria: una sostanza fatta da due radicalmente distinte (anima-corpo). Perciò, secondo il filosofo francese, l’unione sostanziale, anche se è reale, può essere solo sentita, ossia vissuta. In fondo, Cartesio con la sua immaginazione dà un fondamento sostanziale a due operazioni – sentire e pensare –, per le quali in realtà basta un solo principio giacché è una stessa persona a sentire, immaginare, pensare e amare1. 1

Contro gli averroisti, San Tommaso sostiene hoc homo intelligit (cfr. De unitate intellectus contra Averroistas, III, 9).

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Capitolo quattordicesimo

La soluzione di Cartesio dà origine al dualismo moderno, distinto da quello platonico. Infatti, se per Platone il corpo aveva un significato onto-etico negativo, per Cartesio e per i moderni il corpo, o meglio l’estensione, ne ha uno puramente utilitario: una realtà che si può misurare, dominare e trasformare. L’anima, invece, si presenta con gli attributi contrari: non estesa, libera e origine di un nuovo principio causale – non naturale (nel senso di fisico) ma spirituale. Il dualismo del XIX secolo, erede di quello cartesiano e del sensismo inglese, stabilisce un taglio ancora più netto tra corpo e anima escludendo fra loro qualsiasi rapporto, tranne quello della causalità efficiente, in virtù di cui i processi fisiologici causano dei correlati psichici e viceversa. La distinzione radicale e l’unione puramente accidentale fra corpo e anima (Cartesio si era impegnato in una battaglia in difesa dell’unione sostanziale perché vedeva già i rischi cui il dualismo andava incontro) porta una cerchia di pensatori prima a considerare l’anima un fantasma all’interno di una macchina e, poi, ad abolirla quando non è empiricamente trovata. Di conseguenza, vengono fuori due visioni opposte dell’uomo: materialistica (dialettico-storica o capitalistica) che, nel ridurre il reale a ciò che è sperimentabile, calcolabile e misurabile, concepisce l’uomo come pura materia; e spiritualistica filosofica (idealistica) e religiosa (spiritualismo indù o buddista) che, nel ridurre la realtà a un principio trascendente, concepisce l’uomo come spirito. L’errore del dualismo e del monismo (materialista e spiritualista) nasce dal considerare l’elemento fisico e animico due sfere indipendenti e staccate. Il monismo riduce le due sfere a una sola: fisica o spirituale; questa semplificazione diventa possibile solo se si ammette, almeno implicitamente, la totale estraneità fra corpo e spirito. Se l’elemento fisico della persona è assunto come vera e propria realtà, l’elemento psichico e spirituale diventa allora una pura illusione. Questo è il pensiero di molti neuroscienziati che si dichiarano materialisti perché ritengono possibile spiegare la totalità dell’uomo a partire solo dalla causa materiale, cioè come il cervello umano è fatto e funziona. L’unione tra elemento organico, psichico e spirituale si fonda, invece, sulle loro differenze. Infatti, esse escludono sia l’identità sia l’opposizione, permettendo la loro unione e, di conseguenza, l’integrazione in un’unica realtà, la persona umana. Oltre al dualismo e al monismo, c’è un’altra posizione che si rifà alla dualità, rappresentata da Aristotele. La tesi duale, che si basa sulla 348

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Identità personale e morte

dottrina ilemorfica2, riesce a tener conto dei due termini del problema: la differenziazione della materia e psiche, e la loro integrazione nel composto umano. Secondo Aristotele, l’anima è la forma o atto primo del corpo che ha la vita in potenza; come forma, l’anima rende vivo il corpo3. È, dunque, l’unione dell’anima e della sua materia o corpo a rendere vivo anche l’uomo. Il problema si pone con la morte, poiché se l’anima è solo la forma sostanziale del corpo, che cosa accade quando l’uomo muore? Aristotele lascia la questione senza risposta. Averroè e, più tardi, gli averroisti latini sostengono che secondo lo Stagirita l’unica parte dell’anima che rimane dopo la morte è l’intelletto agente, poiché viene da fuori. Perciò, secondo quest’interpretazione, tutte le persone partecipano a un solo e unico intelletto agente, immortale e divino. Per quanto riguarda la questione della morte e dell’immortalità, dualismo, monismo e dualità la affrontano in modo differente. Infatti, secondo il dualismo, la morte non costituisce un problema: il corpo, che è materiale, si corrompe e muore, mentre rimane l’anima perché, come sostanza spirituale, non può corrompersi. Secondo il monismo materialista, la morte non rappresenta nessuna difficoltà teoretica in quanto la materia si corrompe naturalmente; l’immortalità, invece, è illusoria, giacché non esisterebbe nulla che non fosse materiale; e neppure secondo il monismo spiritualista la morte non è problematica sia perché nell’idealismo hegeliano essa è necessaria affinché lo Spirito assoluto si realizzi, sia perché nello spiritualismo induista essa toglie il velo alle differenze permettendo di ricongiungersi con la sola realtà veramente esistente. Anche secondo la teoria della dualità, la morte non è problematica giacché il corpo, per il fatto di essere materiale, ha in sé il principio della propria corruzione. Invece, l’immortalità sarebbe molto problematica. Infatti, se l’anima è la forma del corpo, come può sussistere senza il suo corpo?

2

Aristotele ritiene che ciò che rende attuale la materia prima (protê ylê) è il principio della determinazione, la forma (morphê). Nelle sostanze naturali la forma è intrinseca alla materia, e costituisce con essa un tutto concreto, che muove spontaneamente verso la propria perfezione, ossia verso la condizione in cui le sue potenzialità si sono perfettamente concretizzate. Da tale composizione propria delle sostanze naturali la tesi aristotelica prende il nome di ilemorfismo (ylê-morphê) (cfr. ARISTOTELe, Metafisica, XII, 2, 1069b 23). 3 Cfr. ARISTOTELE, De anima, II, 3 e 4.

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Capitolo quattordicesimo

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2. Immaterialità, spiritualità e immortalità San Tommaso riprende e approfondisce la tesi duale di Aristotele. Secondo l’Aquinate, l’anima umana ha uno statuto particolare; infatti, sebbene sia la forma del corpo e dunque non sia sostanza, essa è sussistente perché ha l’essere in se stessa, mentre «il corpo riceve l’essere dall’anima»4. Di conseguenza, a differenza dagli altri viventi corporei (vegetali e animali), l’essere spirituale non appartiene primariamente al composto umano, ma all’anima, che lo comunica al corpo. Perciò, quando il corpo muore, l’anima continua a esistere. Tommaso propone, quindi, una visione duale della relazione dell’anima umana con il corpo: essi sono coprincipi di un’unità contraddistinta dalla cooperazione gerarchica fra l’anima spirituale e il corpo, cioè fra il dinamismo fisicopsichico, l’attività dei sensi e la razionalità. Anche se la tesi è convincente, per confermarla si richiede di rispondere a tre domande: 1) In che cosa consiste la spiritualità? 2) Come possiamo conoscere la spiritualità dell’anima? 3) Perché dall’avere l’essere in sé si deduce l’immortalità dell’anima? Alle prime due domande si può rispondere mediante lo studio delle operazioni proprie dell’anima. La ragione è semplice. Se è vero, come dice San Tommaso, che l’anima è spirituale, ciò dovrà manifestarsi nelle sue operazioni, giacché l’agire è proporzionale all’essere dal quale procede. Come afferma uno dei più importanti capisaldi della filosofia classica: «ogni agente agisce nella misura in cui è in atto»5. Se troveremo, quindi, operazioni spirituali, sarà confermato che l’atto dell’anima è spirituale. Ma che cosa è un atto spirituale? Apparentemente un atto non materiale. L’immaterialità, però, non è una proprietà esclusiva di un tipo di operazioni, concretamente di quelle spirituali. Ci sono altre realtà immateriali: a) In primo luogo ci sono le forme sostanziali degli esseri materiali. Si tratta, tuttavia, di un’immaterialità molto vicina alla materia, giacché si esaurisce nel determinare la materia prima in modo sostanziale, dotandola cioè di proprietà fisiche e chimiche; ad esempio, l’immaterialità della forma di questo tavolo è all’origine della sua struttura molecolare 4 5

TOMMASO D’AQUINO, In De anima, a. 14 ad 10. TOMMASO D’AQUINO, In IV Sententiarum, d. 12, q. 1, a. 2, sol 1.

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Identità personale e morte

e di tutte le altre proprietà che esso ha. Non si deve, perciò, confondere la forma di questo tavolo, che è l’attualità strutturante della materia prima, con proprietà come la figura, che è una determinazione accidentale e implica già il possesso di una forma sostanziale. b) In secondo luogo ci sono le forme dei vegetali e degli animali. Poiché non si esauriscono nel formalizzare la materia, le anime vegetative e sensitive sono in grado di essere il principio di un corpo vivo e delle sue operazioni. Essendo i vegetali capaci d’interiorità vitale o immanenza – come accade negli atti di crescita, nutrizione e riproduzione –, l’immaterialità della loro anima supera la pura attualizzazione della materia prima e anche i processi fisici e chimici. Ciò nonostante, sebbene queste operazioni siano immanenti, quanto è posseduto è materia inorganica (sostanze fisico-chimiche). L’anima dei vegetali ha, quindi, un grado d’immanenza molto basso; non trascende la relazione puramente fisica con la realtà. L’anima degli animali gode, invece, di un’attualità maggiore poiché attraverso i loro atti immanenti possiede qualcosa di più immateriale. Infatti, nella sensazione è posseduta una realtà intenzionale: suono, colore, figura, e così via, che esiste solo nell’atto di sentire. Tuttavia è un’intenzionalità legata doppiamente alla materia: agli stimoli fisici o chimici e all’organo sensibile. L’immanenza dell’anima sensibile non permette, dunque, la trascendenza totale né sull’ambiente da dove vengono gli stimoli né sulla propria specie da dove procedono il corpo organico e la dotazione sensibile. Ecco perché nell’animale la sensazione è al servizio dell’adattamento dell’individuo all’ambiente e, attraverso di esso, del bene della sua specie. c) In fine ci sono le operazioni dell’anima umana, come l’astrazione, la negazione e la riflessività in cui si dà un’immaterialità, caratterizzata dalla trascendenza sull’ambiente e sul corpo organico. Vediamo adesso ognuna di queste operazioni. 1. L’astrazione è un’operazione assolutamente immateriale, poiché richiede la trascendenza completa su tutto ciò che è singolare e concreto; infatti, nell’astrazione non resta nessun riferimento agli stimoli né al corpo organico; il solo nesso con la realtà sensibile si trova nel fantasma dal quale l’intelletto agente astrae la specie impressa. La conferma dell’immaterialità completa di quest’operazione risiede nell’universalità dei concetti, espressione adeguata del carattere immateriale 351

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Capitolo quattordicesimo

dell’astrazione, giacché la forma diventa universale solo quando è separata dalla materia segnata quantitate, principio d’individualizzazione. Alla capacità di astrazione corrisponde nell’ambito pratico l’impiego di strumenti. Infatti, per servirsi, ad esempio, del coltello, è necessario capirlo come mezzo nei confronti di un fine – cacciare, tagliare la carne della preda, ecc. – che è sempre qualcosa di universale. Perciò, l’uso degli strumenti è la manifestazione della capacità che l’homo sapiens sapiens ha di astrarre. Ecco nuovamente il carattere sistemico della mano, dell’intelligenza umana e della tecnica; tornando all’esempio precedente, la fabbricazione del coltello richiede mani umane, abilità tecniche e capacità di astrazione. La realtà dello strumento, ossia la sua caratteristica di mezzo, svanisce quando esso non serve più – ad esempio, quando un coltello non taglia più – perché perde la finalità per cui è stato prodotto. L’utilità del coltello richiede, dunque, come fondamento l’universale, il quale non è in se stesso pragmatico ma teorico. La vita umana non dovrebbe, perciò, ridursi all’utilità, perché si lascerebbe fuori il suo fondamento, cioè la verità. Orbene, l’astrazione indica l’esistenza nell’uomo non solo di operazioni che trascendono sull’ambiente e sul corpo, ma anche di un’anima che è trascendente, ossia spirituale. Infatti, se l’universale o concetto è completamente immateriale, lo è anche l’intelletto agente che lo astrae e, di conseguenza, l’anima che possiede questo intelletto. 2. La negazione riguarda la realtà sempre in modo generico; ad esempio, quando ci riferiamo al non coltello, oltre a questo strumento pensiamo alla forchetta, al cucchiaio, al piatto, al bicchiere, e così di seguito, senza però specificarli, giacché nella realtà esistono solo cose concrete – il coltello e la forchetta – che possono però essere negate. La negazione mostra la capacità che l’intelligenza umana ha di pensare la totalità, certamente non nella sua concretezza, ma solo in modo generico. Essa serve anche a separarci dall’unione spontanea fra intelligenza e realtà mediante il giudizio in cui si nega uno dei suoi elementi (Giovanni non è bianco o Giovanni è non bianco) o il rifiuto dei motivi per agire in un modo determinato; ad esempio, l’ira può muoverci a sbattere la porta, insultare, colpire con un pugno in faccia, ecc. Nonostante la persona senta l’impulso a comportarsi in modo irascibile, mediante la negazione dell’impulso riesce a evitare che quelle azioni da possibili diventino reali. 352

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Anche in questo caso si può parlare di una trascendenza sulla realtà, in quanto la negazione, sebbene solo in maniera generale, rende possibile il pensiero del tutto. E pensare il tutto implica andare al di là dei fenomeni. 3. La riflessività. Anche se il suo oggetto è l’essenza o forma degli enti corporei, l’intelligenza umana può conoscere anche ciò che è incorporeo, come le idee, i numeri, la propria anima, il che è una prova in più della sua immanenza e trascendenza complete. Infatti, l’intelletto è in grado di possedere immaterialmente tutte le forme e anche se stesso. Ciò significa che, oltre a non avere ambiente né organo (è capace d’universalizzare e di generalizzare), non ha neanche una forma determinata; essa consiste unicamente nella capacità di essere determinato da quanto conosce. E solo allora, l’intelletto sa di conoscere, ossia torna su se stesso6. Ciò implica una trascendenza universale e una conoscenza dell’altro e anche in un certo senso di se stessi. Risulta, dunque, chiaro che l’anima è spirituale, poiché è in grado di trascendere completamente sulla realtà sia mediante l’universalizzazione sia mediante la generalizzazione; inoltre, è capace della massima immanenza, giacché può tornare su di sé. Rimane adesso da affrontare la questione dell’immortalità dell’anima. Che cosa significa immortalità? Una prima risposta è mancanza di corruzione. Infatti, poiché non ha composizione di materia, l’anima è semplice e non può corrompersi. Mi sembra tuttavia che l’immortalità che può dedursi dalle operazioni dell’anima vada al di là dell’incorruttibilità. In questa linea è particolarmente importante la questione della riflessività, poiché c’è un rapporto fra il conoscersi dell’anima e il suo modo di essere e, di conseguenza, il modo in cui essa si relaziona con il corpo. Infatti, poter riflettere implica essere in sé: solo quando si è in sé, si può tornare su di sé (il massimo grado d’immanenza). Vediamolo più nel dettaglio. Le anime degli animali o le facoltà sensibili dell’anima umana non possono tornare su di sé; nel sentire, ad esempio, si conosce solo il rumore ma non l’atto di sentirlo: il sentire è sempre di qualche altra forma ma non di se stesso; neppure con il senso comune si raggiunge la riflessione totale, giacché l’organo ma6

Cfr. ARISTOTELE, De anima, III, 4, 429b 5-9.

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Capitolo quattordicesimo

teriale la impedisce: il sentire appartiene ai sensi esterni e il “sentire di sentire”, al senso comune, cioè a un atto distinto. Invece, nel saper di conoscere, si coglie il proprio atto e, quindi, se stessi come agenti e, soprattutto, che l’anima ha un essere che è immanente a essa. Infatti, il ritorno dell’operazione è possibile perché l’essere dal quale è partito ha capacità di riceverla, ossia è spirituale. L’anima, dunque, non è solo incorruttibile per la sua immaterialità completa, ma non può smettere di essere (tranne nel caso d’annichilimento) perché possiede in se stessa un essere spirituale. Invece, il corpo non possiede l’essere in sé, per cui nonostante partecipi all’essere spirituale dell’anima, ha la potenza di non-essere. La morte è l’attualizzazione di questa potenza. Perciò morire equivale alla separazione dell’anima dal corpo che fino a quel momento ha informato. Per San Tommaso, dopo la morte, l’anima può esistere senza il corpo perché è spirituale, il che non significa che sia una sostanza completa giacché per realizzare tutte le sue operazioni ha bisogno del corpo, cioè l’anima ha l’essere in sé ma non sussiste in sé se non quando si separa dal corpo che è la sua materia. L’unione necessaria dell’anima con il corpo serve all’Aquinate a fare una profonda critica della tesi averroista dell’unità dell’intelletto, perché non esiste un intelletto che sia specifico ed eterno, bensì uno sempre personale. Infatti, così come non esiste un’anima dell’umanità ma solo anime di tale e quale corpo personale, a maggior ragione non esiste neppure un intelletto unico perché appartiene sempre a un’anima determinata. L’immortalità non è dell’intelletto ma dell’anima. L’anima non è, però, la persona. La persona è immortale? Apparentemente solo l’anima. La morte implica la scomparsa del composto: non muore solo il corpo, ma l’uomo secondo il corpo. Anche se dopo la morte può sussistere separata dal corpo,7 l’anima non ha allora la natura piena, cioè non ha la materia di cui essa è forma. Di conseguenza, senza il corpo, l’anima umana non è individualizzata8. Inoltre, secondo San Tommaso, l’anima senza il 7 «Allora quando viene a mancare il fondamento della materia – come nelle sostanze spirituali e nell’anima umana – la forma che resta di una natura determinata, una natura sussistente per sé, si rapporterà al suo esse come la potenza all’atto. Non dico come potenza separabile dall’atto, ma come quella ch’è sempre accompagnata dal proprio atto» (TOMMASO D’AQUINO, Quaestio disputata de spiritalibus creaturis, a. 1). 8 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Quaestio disputata de anima, q. un., a. 1, ad 1.

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corpo conosce solo in modo oscuro9, giacché esso è richiesto per ragione dell’oggetto della conoscenza umana (l’essenza degli esseri corporei). Infatti, l’intelligenza umana incomincia e finisce con ciò che è particolare ovvero il fantasma, il quale è all’intelligenza come il colore a ciò che è visto10. Senza il fantasma e, quindi, senza la sensazione, l’oggetto dell’intelligenza resterebbe vuoto. Insomma, dopo la morte, non ci sarebbe nell’anima né la coscienza sensibile né quella che si trova legata alle sensazioni interne, in particolare all’immaginazione. La condizione dell’anima separata è, dunque, innaturale. In Tommaso rimane, quindi, il problema dell’immortalità della persona. Perciò, l’Aquinate sostiene che, anche dopo la morte, l’anima tende al corpo del quale è forma. Da ciò deriverebbe la convenienza della risurrezione dei corpi. Credo che la questione dell’immortalità dell’anima senza il corpo, oltre a porre una difficoltà teoretica all’ilemorfismo, getti un po’ di luce sulla necessità di applicare alla persona umana la distinzione tomista di atto di essere ed essenza. Negli altri esseri questa distinzione non ha la stessa portata che nella persona, poiché in essi l’essere viene fuori a partire dalla stessa composizione fisico-chimica e dalla sua struttura o forma; solo nella persona l’essere non viene da composizione né da generazione, bensì da creazione, cioè dal nulla. La morte, dunque, non può introdurre la divisione all’interno dell’essere personale, ma solo della differenza ontologica ovvero dell’essenza che è costituita da due coprincipi eterogenei: l’anima spirituale, che possiede l’essere in sé, e il corpo, che è corruttibile. L’essere dell’uomo è spirituale, ossia personale. La persona, dunque, si trova dalla parte dell’essere, la natura umana dalla parte dell’essenza. Pertanto, nonostante abbia perso la materia di cui è forma, l’anima continua ad avere una vita personale. In conclusione, l’anima umana non procede dalla materia né dall’evoluzione, non è trasmessa dai genitori, ma creata e dotata da un essere spirituale; mentre la materia del corpo è ereditata dai genitori. In quanto principio del corpo, l’anima incomincia a esistere nel tempo come forma umana, ma trascende il tempo perché è spirituale, ossia personale. La morte segna la fine della temporalità del corpo, ma non la fine della vita personale. 9

Cfr. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 89. Ivi, I, q. 75, a. 2, ad 3.

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Capitolo quattordicesimo

L’immortalità della vita personale non dice però niente sulla qualità della vita dopo la morte e, di conseguenza, sul senso dell’esistenza terrena. Per capire queste realtà bisogna passare al piano antropologico ed esistenziale.

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3. Il problema antropologico ed esistenziale della sofferenza e della morte Per argomentare intorno alla spiritualità dell’anima e, dunque, alla sua immortalità, oltre ai ragionamenti basati sulla conoscenza, ci si può servire di prove prettamente antropologiche. Una di esse fa riferimento al desiderio umano. Secondo San Tommaso, ogni essere umano desidera naturalmente esistere per sempre11. Siccome il desiderio naturale non può essere vano, chi ha questo desiderio deve necessariamente vivere eternamente. D’altro canto, questo desiderio non è semplicemente di eternità, bensì di una felicità infinita. Poiché non si può tuttavia trovare la felicità su questa terra perché qui tutto è finito, ne deriva il tendere continuo del nostro desiderio verso l’Infinito, ossia Dio, dove si troverà finalmente l’agognata pace. Come afferma Sant’Agostino: «ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te»12. In definitiva, benché sia finita e abiti in un mondo finito, la persona possiede il desiderio d’infinito che non si può soddisfare con ciò che è finito, per cui l’uomo aspira sempre come bene proprio all’Infinito. Il desiderio d’infinito, però, prova solo l’immortalità dell’anima dalla prospettiva del suo dinamismo naturale, non che ci sia il raggiungimento della felicità da parte della persona. Solo l’amicizia con Dio, che ci fa partecipi della sua vita divina, può permetterci di essere felici perché ciò che si può fare attraverso gli amici è come se lo potessimo per noi stessi13. L’amore d’amicizia è una dimostrazione personale, cioè relazionale, dell’immortalità della persona e non solo dell’anima. 11

Cfr. ivi, I, q. 75, a. 6. SANT’AGOSTINO, Confessiones, I,1, 1. 13 Cfr. ARISTOTELE, De anima, 1112b, 25. Su questa fiducia nell’amico si basa secondo San Tommaso l’aspettativa (da expectare), cioè la speranza che ha come fondamento l’aiuto di uno che ha il potere di ottenere ciò che per noi è impossibile: «expectare equivale ex alio spectare (guardare verso un altro)» (TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-II, q. 40, a. 2). 12

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Infatti, nell’amore scopriamo il valore d’eternità di questo tipo di relazione e, quindi, delle persone che amano. In questo senso è di grande efficacia la prova che Sant’Agostino offre nel De Trinitate: amare è sempre amare l’Amore, partecipare cioè alla corrente trinitaria amorosa14. La trascendenza temporale che si dà nell’amore si manifesta anche nel perdono, nella promessa e nella fedeltà, che consiste nella capacità di orientare la propria vita verso una meta, di correggere la rotta e di sperare di raggiungere una relazione eterna d’amore. Mediante la donazione di sé si ottiene un’identità più alta di quella corporea ed etica propria delle virtù e del carattere, poiché si possiede e si destina la vita prima ancora che la relazione sia temporalmente vissuta. A partire dall’amore è possibile dare senso non solo all’eternità, ma anche alla propria vita temporale. Amare non si limita perciò ad agire. Infatti, la vita umana è costituita sia dall’agire, tramite cui siamo in grado d’integrare i diversi livelli della personalità e di acquisire una certa maturità, sia anche dal patire. Quando parlo di patire non mi riferisco solo al livello tendenziale-affettivo, ma piuttosto a quanto accade nella vita e che tante volte ci fa soffrire. L’amore non corrisposto, l’insuccesso nel lavoro, la situazione ingiusta in cui uno può essere obbligato a vivere, la perdita dei beni materiali e spirituali e, soprattutto, la malattia e la morte delle persone amate sono alcuni dei possibili tipi di sofferenza. In tutti questi casi si manifesta l’essenza della sofferenza: la tristezza di fronte a ciò che consideriamo cattivo. La tristezza non implica, però, necessariamente un atto di volere opposto da parte del soggetto, come invece accade nel caso dell’invidia e della misericordia, ma solo un’inclinazione contraria della volontà verso ciò che è percepito dalla persona come male. Abbiamo così due tipi di tristezza: una che ha come sorgente il rifiuto della volontà, come nell’invidia oppure nel non accettare la sofferenza, e un’altra che si presenta come inclinazione spontanea davanti al male. Questi due tipi di tristezza si possono mettere in rapporto con la dualità presente nella struttura della volontà di cui si è già parlato: la voluntas ut natura e la voluntas ut ratio15. La tristezza che si può trovare in qualsiasi afflizione 14

«Ama il fratello e amerai l’amore stesso» (SANT’AGOSTINO, De Trinitate, VIII, 8, 12). 15 Cfr. SAN TOMMASO, In II Sententiarum, d. 39, q. 1, a. 1. Per quanto riguarda il rapporto fra volontà e tristezza, l’Aquinate afferma: «secondo il Filosofo, ogni

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Capitolo quattordicesimo

umana dipende dalla voluntas ut natura o inclinazione o rifiuto verso quanto si presenta all’intelletto rispettivamente come bene o male. Mentre quella scaturita dalla non accettazione della sofferenza proviene dalla voluntas ut ratio ovvero dall’atto consapevole e libero della volontà, che come indica il nome comporta sempre l’uso della ragione sia nelle sue funzioni ermeneutiche (interpretazione, valutazione, rettifica), sia in quelle legate all’intenzionalità dell’atto umano16. Qual è, allora, il significato della sofferenza? Secondo alcuni psicologi, la sofferenza – anche quella causata dall’invidia – ha già in sé un valore positivo perché «ha il compito di preservare l’uomo dall’apatia, dall’addormentamento spirituale: fintanto che soffriamo, restiamo spiritualmente vivi»17. Certamente, l’accettazione di ciò che causa la sofferenza fa diventare realisti e aperti ai cambiamenti che caratterizzano l’esistenza umana, il che equivale a una crescita nella maturità personale, giacché la realtà non è come noi vogliamo o desideriamo. Non basta però soffrire per essere spiritualmente vivi perché il dolore può trasformarsi in qualcosa di insopportabile, bisogna anche integrare personalmente la sofferenza, come accade nel lutto e nel perdono-pentimento. Dal punto di vista dei fatti, questi due fenomeni sembrano essere inutili, perché né il lutto è in grado di ridarci le persone care decedute né il pentimento di evitare il male commesso. Dalla prospettiva del senso, invece, lutto e perdono-pentimento hanno un valore profondo: il lutto in un certo modo prolunga l’amore per i defunti al di là della morte, mentre il perdono-pentimento aiuta a liberarsi dalla colpa e anche a distruggere la relazione cattiva fra vittimacarnefice aprendosi in questo modo verso un nuovo futuro. cosa violenta è rattristante, in quanto ripugna alla volontà» (In III Sententiarum, d. 27, q. 1 a. 1). 16 È possibile distinguere anche la tristezza che dipende solo dall’uso della ragione da quella che dipende dall’uso della voluntas ut ratio. Infatti, come afferma San Tommaso parlando dei fattori che accrescono la sofferenza di un uomo quando perde un bene, ce ne sono due: «il primo, quando viene privato di un bene del quale era degno; il secondo quando il bene che perde è grande» (SAN TOMMASO, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, III, 18, p. 364). Nonostante la tristezza recata da un tale aumento della sofferenza, l’uomo virtuoso non solo è forte davanti alla sofferenza, ma è anche relativamente felice. Qui si vede com’è possibile una tristezza spirituale, basata sulla razionalità umana, e contemporaneamente una certa felicità propria della virtù. 17 V. FRANKL, Logoterapia e Analisi Esistenziale, cit., p. 147.

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L’amore, quindi, sembra essere il modo di dare senso alla sofferenza. Ma di quale amore si tratta? Senz’altro dell’amore umano in tutte le sue forme: coniugale, familiare, d’amicizia, ecc., soprattutto quando si riesce a scoprirvi l’epifania dell’Amore eterno e fedele. Infatti, l’amore dell’altro ha quel senso di assolutezza, capace di far sperare chi soffre, quando si apre a un amore con queste caratteristiche, perché nell’essere eterno non solo fa scoprire il valore del momento presente in cui si ama, ma della totalità della vita e, quindi, della propria origine e del proprio futuro al di là della morte. Inoltre, poiché non viene mai meno di fronte al male, la sua fedeltà trasfigura la stessa sofferenza in un atto di speranza e amore. Forse si trova qui il nucleo della profonda trasformazione cui è sottomessa la persona sofferente, rappresentata da Giobbe: «Io ti conoscevo – dice questo personaggio, alla fine del racconto – per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere»18. Quando negli eventi che accadono si vede in filigrana l’amore eterno e fedele, la sofferenza fa maturare, crescere, diventare spiritualmente più ricchi e potenti. Qui troviamo un nuovo paradosso, perché ciò che ci fa diventare potenti non è altro che il riconoscimento e l’accettazione amorosa dei propri limiti, ossia della nostra impotenza. L’attivismo e la ricerca del piacere, che caratterizzano il capitalismo consumista, nascondono invece il valore ultimo del patire poiché, da un lato, chi soffre non fa apparentemente nulla; dall’altro, chi ritiene che l’uomo sia un animale orientato solo al piacere, cerca di evitare a ogni costo la sofferenza. Comunque, perché dia senso alla totalità della vita, l’amore deve raggiungere la stessa morte. È possibile ciò? Per esaminare quest’ipotesi bisogna analizzare che cosa s’intende per morte. Siccome l’uomo è un composto di corpo, psiche e spirito, si può considerare la morte da tre prospettive: organica, psichica e spirituale. Come si è appena visto, a livello organico la morte consiste nella corruzione del corpo e, quindi, nella distruzione dell’unità sostanziale. A livello psichico, invece, è l’atto negativo che la temporalità esegue sulla coscienza. Infatti, la morte implica non soltanto la separazione di anima e corpo ma anche la mancanza di coscienza temporale. Ne deriva che la morte, nonostante accada nel tempo, non può essere colta temporalmente. Questo è uno dei principali crucci della scienza, so18

Giobbe, 42, 5-7.

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Capitolo quattordicesimo

prattutto della medicina: il tentativo di voler individuare il momento stesso della morte. Si tratta di una questione senza soluzione, poiché del momento esatto della separazione di corpo e anima non è possibile avere coscienza e, quindi, esperienza. Oltre a non poter cogliere la morte sperimentalmente (non è possibile vivere la propria morte), non la si può anticipare. È questa la prospettiva che porta Epicuro a consigliare di affrontarla con aponia o assenza di dolore, giacché «la morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l’attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci»19. In definitiva, la morte è accompagnata da fenomeni, ma essa stessa non è un fenomeno. Allora, in fondo, quel che appare nella coscienza non è la morte, bensì la possibilità di morire. Ciò ci distingue radicalmente dagli animali; infatti, anche se non abbiamo alcuna esperienza di che cosa sia la morte, noi sappiamo di dover morire. Questa possibilità di morire si manifesta in modo differente secondo le diverse tappe della vita. Per il bambino, la coscienza di questa possibilità è molto vaga: si ha una coscienza del morire degli altri, non della propria morte. Per l’adolescente, la morte è una possibilità reale ma distante. Per l’adulto, la presenza della propria morte s’insinua. Per l’anziano, questa possibilità diventa quasi una realtà (anche a livello dei sogni); l’ombra allungata della morte è correlata a una crescita del passato e ad una diminuzione del futuro, fino a raggiungere il grado zero, il che secondo Scheler costituisce l’essenza del fenomeno ‘morire la propria morte’. Infine, a livello spirituale, la morte non è né una passione né un effetto della temporalità sulla coscienza, ma un atto personale libero in cui si accetta o si rifiuta il senso della vita. Come evento esistenziale, la morte coincide con la fine del mio tempo-biografico; perciò mi pone la domanda: che cosa farò io con la mia morte, cioè con la mia intera esistenza temporale? Due sono le risposte possibili: angosciarmi (il cerca-

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EPICURO, Lettera a Meneceo, in Opere, Frammenti, Testimonianze sulla sua vita, Introduzione di G. Giannantoni, Laterza, Bari 2003, pp. 124-126.

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Identità personale e morte

re di non pensarci è già una manifestazione di un’angoscia mascherata) o amare o, forse sarebbe meglio dire, imparare ad amare. Molti pensatori dei secoli XIX e XX hanno cercato di individuare il nucleo dell’angoscia. Forse chi è andato più in profondità è stato Heidegger. Secondo lui l’angoscia non fa riferimento a un oggetto, ma a una totalità, concretamente a quella del vivere. Questa totalità si raggiungerebbe solo nella morte, perché essa limita il vivere in modo totale: finché la morte non arriva, manca ancora all’esistente qualcosa che egli può essere e sarà, la fine ovvero il non-essere. Secondo il filosofo tedesco, la morte non si trova però solo alla fine della vita, bensì sarebbe sempre presente: non in modo fattuale né oggettivo, ma come possibilità. Si tratta, però, non di una possibilità qualsiasi, bensì di quella più radicale, perché – secondo l’opinione di Heidegger – «La possibilità più propria, non relativa e non oltrepassabile dell’uomo è la morte. Egli non se la procura posteriormente nel corso della sua vita, ma appena comincia ad esistere è già gettato in questa possibilità»20. Infatti, anche se è sempre presente come possibilità, la morte non può essere esperita né attraverso la morte degli altri, giacché il poter-essere-per-la-morte non può essere sottratto ad un altro (ogni esistente deve assumere in proprio la morte21), né in se stessa poiché la morte è il non-essere-mai più, cioè è reale solo quando l’esistente non esiste più. Sempre a parere di questo pensatore, la scoperta della morte come possibilità più propria non dipenderebbe neanche da un’operazione razionale, poiché essa non può essere oggettivata, né da un sentimento che abbia un oggetto (come la paura), ma da un sentimento non oggettivo, individuato da questo pensatore nello stato d’angoscia. Nell’angoscia, l’esistente si aprirebbe perciò al suo essere autentico, ossia al suo essere-per-la-morte, e lo accetterebbe come il poter essere più proprio22. L’angoscia appare così, in 20

M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, cit., p. 250. «Questa possibilità di sostituzione è irrimediabilmente votata al fallimento quando sia in gioco quella possibilità di essere che è costituita dal giungere alla fine da parte dell’Esserci e che, come tale, gli conferisce la sua totalità. “Nessuno può assumersi il morire di un altro”. Ognuno può morire per un altro. Ma ciò significa sempre: sacrificarsi per un altro “in una determinata cosa”. Ma questo morire-per… non può mai significare che all’altro sia così sottratta la propria morte» (ivi, p. 295). 22 «Nella misura in cui la morte è, essa è sempre essenzialmente la mia morte. Essa esprime una possibilità di essere caratteristica, in cui ne va dell’essere puro e semplice di un Esserci sempre di qualcuno. Nel morire si fa chiaro che la morte 21

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Capitolo quattordicesimo

Heidegger, come l’orizzonte ermeneutico di comprensione del vivere: l’esistenza solo si comprende nella sua totalità, cioè dalla prospettiva della morte, mediante questo stato che svela come senso del vivere autentico l’accettazione dell’essere-per-la-morte, ossia la propria finitezza. Heidegger avrebbe ragione se l’angoscia fosse il vissuto originario dell’esistenza. Ma è così? Sembra proprio di no. Cerchiamo di vedere il perché. L’angoscia heideggeriana non dipende solo dalla consapevolezza della morte, ma soprattutto dalla credenza che l’essere dell’esistente è un essere-per-la-morte. Orbene, l’essere dell’esistente sarebbe un essere-per-la-morte se la vita avesse come ultima istanza di senso la morte, perché allora la finitezza sarebbe invalicabile. La vita tuttavia non ha né trova il suo senso nel finito. Ciò si vede, ad esempio, nel fatto che per vivere non basta essere consapevoli della morte, poiché essa è sì limite, ma non telos o fine, in quanto non indica come ci si deve comportare; infatti, l’angosciato può deprimersi, suicidarsi, accettare eroicamente il suo stato, senza che la morte segnali uno di questi atti come il più proprio. In altre parole, la morte non è fine. L’angoscia davanti alla morte non consente di scoprire il senso del vivere, ma solo la sua mancanza se la morte è la possibilità radicale, cioè se l’essere dell’esistente è un essere-per-la-morte. Se l’angoscia fa riferimento all’assenza di senso, allora non è un vissuto originario, perché fa sempre riferimento al senso di cui è negazione. Si capisce perché l’angoscia possa far apparire, per contrasto, il senso del vivere, ossia la speranza di amare ed essere amato eternamente, che nulla, neppure la morte, può distruggere. Il fatto che la speranza possa essere colta attraverso l’angoscia come ciò che la limita temporalmente non significa che per sperare sia necessario passare attraverso quello stato, come non è necessario soffrire il dolore per sperimentare il piacere o essere momentaneamente privato della vista per vedere. C’è, per così dire, un atto che corrisponde al rapporto con il bene nella sua totalità: l’amore, il quale manifesta che la vita, come tale, ha senso, nonostante la sofferenza, o meglio ancora, in mezzo alla stessa sofferenza. Insomma, la morte ammette una pluralità di prospettive: la cessazione della vita biologica, la cancellazione totale della coscienza, l’evento è costituita ontologicamente dal carattere dell’esser-sempre-mio e dall’esistenza» (ibidem).

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Identità personale e morte

sociale (segnato dai fenomeni del lutto, del ricordo e della preghiera per i morti) e, soprattutto, l’atto personale di speranza e amore. L’Amore supera il non senso in tutte le sue manifestazioni (sofferenza, tristezza e angoscia), sebbene permetta che questi vissuti si diano nel tempo; la persona che spera può perciò patire e anche angosciarsi, sapendo che il male sperimentato sarà prima o poi trasfigurato.

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4. Origine e fine dell’identità personale Se l’origine dell’identità personale si trova nell’individuazione della materia quantitate signata, è chiaro che la morte equivale alla scomparsa di questa individualizzazione iniziale. Ciò non significa però che l’identità personale cessi. Infatti, come si è visto, ci sono diversi tipi d’identità: quella iniziale corrispondente al corpo, quella etica corrispondente all’agire e quella personale corrispondente alla donazione. La corruzione del corpo comporta la perdita del primo tipo d’identità, non necessariamente degli altri due. Il mantenimento dell’identità etica e di donazione è possibile perché, anche se nasce nel tempo, la persona trascende la temporalità. Infatti, in virtù dell’anima spirituale, la persona possiede un essere che oltrepassa le proprietà della materia e della vita animale, per cui è capace di azioni e di relazioni che, oltre a non essere di per sé corporee benché si avvalgano di una base organica, contano sul grado maggiore d’immanenza e trascendenza. Ecco perché l’identità che è origine di azioni e relazioni non scompare con la morte. L’anima ha la capacità di mantenere l’identità personale in quanto conserva il principio che è origine delle azioni e relazioni, ossia la soggettività umana, costituitasi a partire dall’essere personale. L’anima spirituale non solo collega la vita anteriore nel mondo con quella posteriore alla morte, ma anche permette la perfetta integrazione dei diversi tipi d’identità. Siccome l’identità piena – come la felicità – su questa terra è irraggiungibile, la disintegrazione del corpo appare come la condizione di possibilità perché si arrivi all’integrazione completa che consenta alla persona di diventare se stessa, cioè un essere in relazione perfetta con il mondo e con le altre persone.

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Conclusioni

Alla fine di questo saggio arriviamo alla conclusione che la persona è un essere in relazione, cioè alla nostra ipotesi iniziale. Adesso però sappiamo che cosa significa “essere in relazione”, vale a dire che non è possibile considerarlo un’aggiunta a un essere che ne potrebbe prescindere senza subire alcuna modificazione, ma piuttosto esso è il migliore modo di definire la persona umana, la quale senza essere una relazione contiene in sé come essenza l’in relazionale. La relazionalità si osserva a tutti i livelli: ontologico, della soggettività e personale. Infatti, la persona riceve dagli altri tutto ciò che la costituisce ontologicamente: non solo il corpo umano, risultato finale dell’evoluzione e che è trasmesso mediante l’unione coniugale (almeno secondo il modo naturale di concepimento), ma anche l’anima che, poiché ha un essere spirituale, è creata direttamente da Dio. Questa doppia relazione nell’origine della persona – la prima legata al tempo (evoluzione cosmica, storia e biografie personali), la seconda direttamente all’eternità – dà luogo al carattere paradossale dell’esistenza umana, che è simultaneamente temporale ed eterna, corporea e spirituale, sensibile e razionale, naturale e culturale, con condizionamenti e libera, bisognosa e capace di dare, anzi di donarsi. Perciò sia il monismo sia il dualismo non riescono ad individuare l’essenza della persona: o la riducono a pura materia o a puro spirito (trattandola come l’animale più evoluto o, invece, come un essere non naturale), o la dividono in due sostanze o due serie di proprietà incomunicabili (il determinismo fisico e la libertà spirituale). La composizione fra corpo, psiche, e spirito è la conseguenza di una dualità originaria fra l’essere personale, che è spirituale, e la sua essenza, costituita dall’anima e dal corpo. Proprio perché c’è composizione 365

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Conclusioni

fra l’essere e l’essenza e, all’interno di questa, fra il corpo e l’anima, è necessaria un’integrazione personale di questi coprincipi. Infatti, con la vita la persona riceve la corporeità sessuata con una dotazione sensibile e appetitiva, la luce di un intelletto agente e un desiderio d’infinito, un mondo umano, una famiglia, una società, un paese, una tradizione, una lingua, una cultura ed una religione. Tutto questo deve essere integrato perché la persona sia ciò che deve essere ovvero raggiunga la sua identità, dandosi agli altri e a Dio. Per farlo, il vivente umano ha bisogno con l’aiuto degli altri di diventare soggettività, vale a dire integrare le sue percezioni ed educare il suo desiderio fino ad arrivare alla conoscenza e all’amore della realtà, costituita dal triangolo mondo, altri (Altro) e se stesso. Nella costituzione della soggettività giocano un ruolo fondamentale i seguenti aspetti: l’Io (risultato dell’inconscio, della coscienza sensibile, intelligibile, affettiva, e della conversazione interiore con se stesso) soprattutto tramite l’azione; le virtù, l’educazione e le relazioni con gli altri, soprattutto tramite i genitori e i modelli di riferimento; la condizione sessuata, l’amicizia, il lavoro, la sofferenza e il senso della vita, soprattutto tramite la donazione di sé. Mediante la soggettività ciò che è stato ricevuto viene assunto o rifiutato ad incominciare dalla relazione con Dio fino alla propria corporeità sessuata, passando dall’accettazione dei genitori, della società, della cultura. L’autonomia che si ottiene mediante lo sviluppo della soggettività non dovrebbe essere lo scopo della vita, giacché la persona è un’identità in relazione. Il fine dell’autonomia è il dono di sé, poiché nel possedersi, la persona è in grado di darsi, ossia di stabilire relazioni che comunichino perfezione al mondo mediante il lavoro, alle altre persone mediante il rispetto, la cooperazione, la solidarietà e l’amicizia, il che implica diversi gradi di donazione. Il dono di sé si manifesta in modo speciale nella coniugalità e nel celibato, quando queste relazioni esistenziali diventano l’ambito dove svolgere la dedizione agli altri. Il dono di sé consente di arrivare alla maturità o identità personale, a volte attraverso un lungo e accidentato percorso. Il che non significa che la persona abbia raggiunto né la totale integrazione di corpo-psiche-spirito né la perfezione delle relazioni con il mondo e con gli altri, perché sempre può essere più di quello che è. Su questa terra il male è sempre presente come possibilità di disintegrazione della soggettività e logoramento delle relazioni. Non solo il desiderio è tentato di prendere i beni finiti (piacere, affettività, attività, 366

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Conclusioni

ricchezza, potere, fama, ecc.) come falso infinito, ma anche è in agguato l’inclinazione a servirci delle persone e delle relazioni per fini personali o a donarci in un modo che gli altri non possono ricevere. Colpa, pentimento e perdono accompagnano, dunque, la persona lungo il percorso della sua vita. Il pentimento è l’atteggiamento adeguato davanti alla colpa della disintegrazione o alla rottura di relazioni fondanti della propria identità, come la filiazione, la coniugalità, la paternità-maternità, l’amicizia, ecc. Il perdono dovrebbe riguardare non solo gli altri colpevoli, ma anche se stessi: chi non accetta il perdono degli altri e, soprattutto, di Dio, non è in grado di perdonare. Solo la morte, apparentemente distruttrice della vita umana, offre la possibilità di raggiungere un’integrazione totale del corpo-psiche-spirito, conferendo alla persona la capacità di essere in relazioni perfette. Molte tematiche decisive (senso della vita, della sofferenza e della morte, felicità, ed altre ancora) richiedono che dall’antropologia filosofica si faccia il salto alla teologia della fede, dove queste questioni esistenziali ricevono una luce più alta e una prospettiva di fondo cui la sola ragione non può raggiungere. Ciò però va al di là dei limiti di questo saggio.

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Appendice

Figura 1. Principali strutture del cervello

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Appendice

Figura 2. Aree cerebrali

Figura 3. Funzioni delle aree cerebrali

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Appendice

Figura 4. Base cerebrale dell’integrazione delle funzioni sensoriali e motorie

Figura 5. Il cervello emotivo

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Appendice

Figura 6. Cervello e azione

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Appendice

Figura 7. La paura

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Glossario

Antropologia: dal greco anthropos (uomo) e logia (discorso o trattato). È lo studio dell’uomo da diversi punti di vista: biologico, culturale, sociale, filosofico. Ne deriva che il termine “antropologia” debba essere sempre accompagnato da uno dei precedenti aggettivi che ne specifica il senso. Comunque, all’interno dell’antropologia si può stabilire una suddivisione fondamentale fra antropologie scientifiche (biologica, culturale, sociale), che sono descrittive e analitiche, e filosofica, che – come sapere sintetico – raccoglie i dati delle diverse scienze situandoli in una prospettiva teoretica. Antropogenesi: dal greco anthropos (uomo) e genesis (origine). Poiché nell’uomo ci sono due principi: uno materiale, il corpo, e l’altro – l’anima – che possiede un essere spirituale, si dovrebbe parlare di una doppia origine: quella del corpo umano preparato dall’evoluzione e trasmesso mediante generazione e quella dell’anima, creata direttamente da Dio. Appetito: anche se comunemente si riduce all’inclinazione verso il cibo, in senso antropologico significa l’inclinazione verso il fine. Ne deriva il senso analogico del termine applicato agli animali (istinto) e alle persone (tendenze). Anche all’interno delle tendenze, si può distinguere fra quelle originariamente non razionali (appetito sensitivo: concupiscibile e irascibile) e quella razionale in se stessa (appetito razionale o volontà). Attualizzazione: la seconda tappa degli istinti e delle tendenze, cioè delle potenzialità della totalità del vivente. Alla dinamizzazione delle inclinazioni segue normalmente l’attualizzazione, ossia la 375

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conoscenza dell’oggetto verso il quale si tende, che fa nascere il desiderio della realtà conosciuta. La dinamizzazione è potenziale e dunque ha bisogno di un atto, che consiste proprio nella conoscenza dell’oggetto dell’inclinazione. Nella persona l’attualizzazione ha una molteplicità di risvolti affettivi: dalle emozioni fino agli stati d’animo, passando dai sentimenti. Autenticità: un concetto molto simile a quello della verità pratica è quello dell’autenticità. Ma si badi bene, bisogna capire l’autenticità in relazione con la propria identità o se si vuole con il dover essere se stessi. Altrimenti non si può parlare di autenticità. Ad esempio, una persona non è autentica quando si lascia semplicemente portare dai suoi desideri o sentimenti poiché in questo modo la sua identità si perde, si disintegra, non lo è neppure quando segue modelli esterni che lo allontanano da ciò che egli vuole realmente essere. Quindi non si tratta di considerare l’autenticità come un’opzione etica differente dalle virtù come accade in una parte importante della cultura odierna, secondo la quale essere autentici significa agire secondo solo una parte di ciò che siamo (desideri, sentimenti, opinioni, pregiudizi). Per essere autentici, ossia essere se stessi, sono necessarie le virtù che consentono d’integrare la propria identità per donarsi. Autodominio: usato per riferirsi all’integrazione libera, la quale permette di possedere le virtù necessarie per donarsi. Azione: la terza, e ultima, tappa delle potenzialità di tutto il vivente. Nell’animale, con l’azione, si chiude il ciclo necessario bisognosoddisfazione: l’animale ha bisogno, sente fame, conosce l’oggetto che soddisfa il bisogno e lo mangia, in tal modo si estingue la sua necessità e, quindi, anche la dinamizzazione dell’istinto. Nell’uomo, invece, non è così, poiché i vari elementi possono essere separati: una cosa è la fame, un’altra il desiderio che nasce dalla conoscenza del cibo, e un’altra ancora l’atto di mangiare e gli aspetti simbolici a esso legato. Bene relazionale: oltre a piacevole, utile e onesto, c’è un genere di bene che condivide con l’onesto il basarsi sulle virtù, ma si differenzia da esso perché la sua origine e il suo destino è la relazione.

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Glossario

La donazione di sé, una volta accettata, costituisce il massimo bene relazionale.

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Biogenesi: dal greco bios (vita) e genesis (origine). Usualmente si denomina così la dottrina che sostiene che i viventi attuali provengono da altre forme precedenti. In quest’opera il termine è inteso in senso etimologico, come studio dell’origine della vita. Perciò si analizzano diverse dottrine: materialismo, evoluzionismo, disegno intelligente, ecc. Condizione sessuata: a differenza del sesso che si riferisce alla sessualità (fisica e psichica) con cui si nasce, la condizione sessuata richiede l’integrazione libera della propria sessualità. Pertanto essa tiene conto della cultura, dell’educazione e, soprattutto, dell’uso o non uso della propria sessualità d’accordo con il dono di sé. Coscienza: dal latino cum (con) e scientia (scienza o sapere), ossia ciò che accompagna il sapere. Il significato etimologico si conserva nella cosiddetta coscienza concomitante, quella che va insieme alla conoscenza del patire e dell’agire del soggetto. Ciò significa che la coscienza non è il sapere, ma ciò che l’accompagna; in altre parole: la sensazione e l’intellezione sono intenzionali; la coscienza non lo è. Ci sono, però, altri due tipi di coscienza: la riflessività originaria, che fa riferimento alla relazione spontanea fra realtà e soggettività, come nella coscienza affettiva; la riflessività propriamente detta, che accompagna la conoscenza di se stessi. Anche in questo caso la coscienza non è intenzionale, lo è invece la conoscenza di sé o autoconoscenza. Dinamizzazione: La prima tappa degli istinti e delle tendenze, cioè delle potenzialità della totalità del vivente. A differenza degli organi, come il cuore o i polmoni, che funzionano mentre si è in vita, le tendenze e soprattutto gli istinti entrano in azione solo in modo ciclico, secondo la funzione metabolica, il secernere delle ghiandole, i cicli astronomici, ecc. Inoltre, a differenza dei dinamismi fisiologici, nella dinamizzazione c’è un aspetto psichico, come nella fame o la sete. La dinamizzazione ha termine, solitamente, con l’atto che soddisfa il bisogno corrispondente all’istinto o alla tendenza. Questo è certamente vero negli animali, cioè per l’istinto, mentre nella persona è 377

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più complesso poiché le sue inclinazioni o tendenze, in quanto sono aperte al mondo e all’atto umano, partecipano della spiritualità.

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Dualismo: in generale s’intende la separazione fra il mondo materiale e spirituale. Ci sono tuttavia molti tipi di dualismo: da quello platonico fino a quello attuale di mente-cervello difeso da alcuni neuroscienziati, passando dal dualismo dei tre mondi di Popper ed Eccles (fisico, psichico e culturale). Dualità: a differenza del dualismo, questa tesi non propone una separazione fra due mondi che in determinate occasioni porta anche all’opposizione, bensì una distinzione fra due principi della realtà che, però, possono integrarsi in un’unità, come l’atto e la potenza, la forma e la materia, l’anima e il corpo, l’essere e l’essenza. Formalizzazione: è la capacità che ha una forma di attualizzare la sua materia. In questo saggio, il termine è applicato soprattutto alla forma razionale poiché oltre a rendere la materia corpo organico, senziente e spiritualizzato, fa apparire in essa nuove proprietà, in particolare nel cervello umano, l’organo più formalizzato. La formalizzazione si riferisce anche a ciò che non è organico, come il pensiero, il volere, le virtù e le relazioni. Identità: l’identità è l’essere se stesso. In senso assoluto essa corrisponde solo a Dio, in cui essere ed essenza s’identificano. In senso relativo può parlarsi di un’identità umana, cioè di un essere che è un dover essere. Nell’identità umana possono distinguersi tre livelli: ontologica, etica e personale. In ognuna di esse è essenziale la relazione: con Dio (ontologica), con se stessi e gli altri (etica e personale). Così, il bambino riesce ad avere coscienza di sé mediante la relazione con gli altri, soprattutto con i suoi genitori e con il mondo. Si tratta dunque di un’identità dinamica che “cresce” o meglio, si perfeziona, anche tramite gli errori e i difetti quando essi sono assimilati. Immanente: dal latino in (dentro) e manere (rimanere), cioè che rimane dentro. Si applica alle operazioni dei viventi, in cui il fine non produce una realtà esterna, bensì rimane all’interno della propria operazione perfezionandola; così il colore visto o la casa pensata. 378

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Immaterialità: in senso filosofico essa corrisponde all’atto e alla forma. Poiché nelle sostanze corporee ci sono diversi tipi di forma e formalizzazione, l’immaterialità è analogica. Il grado inferiore corrisponde alla forma delle sostanze fisiche, quello superiore alla forma dotata di un essere spirituale o anima umana, alle virtù e alle relazioni. Inconscio: il livello più originario della psiche, che tende a emergere nei sogni e nella coscienza vigile. Può avere un carattere pulsante e dinamico come nei dinamismi e nelle dinamizzazioni tendenziali oppure il carattere di ricerca di senso. Esso si divide in vari tipi: il preconscio, che precede alla coscienza vigile ed è costituito da abiti etici, dianoetici e capacità, e il subconscio o insieme di esperienze e ricordi che a partire da un dato momento non è più disponibile. Integrazione: deriva da integrare, vale a dire costituire un tutto a partire da elementi differenti più o meno separabili. Anche se nel linguaggio comune ha un significato sociologico, il termine è stato usato da Karol Wojtyla nella sua opera Persona e atto con un valore antropologico, per indicare l’esistenza nell’uomo di una realtà composta di anima e corpo, i cui coprincipi anche se fanno parte di un’unione fondante o sostanziale ammettono un maggior grado di unità. L’integrazione può essere doppia: spontanea, raggiunta mediante la strutturazione dei diversi dinamismi e potenzialità, ad esempio, fra il desiderio, la conoscenza, l’affettività e il movimento, come nel bambino che fugge dal cane perché ha paura; e libera, raggiunta mediante azioni consapevoli e volontarie. Infatti, anche se la persona – come gli altri viventi – è dotata di un principio di unità, a differenza di essi l’integrazione non è solo spontanea, cioè limitata a portare a compimento il dinamismo del vivere (ad esempio, la fuga dal predatore), bensì costituisce un compito continuo per la stessa persona. Ne deriva l’analogia che il termine integrazione ha in antropologia. Certamente, tanto nell’integrazione spontanea quanto in quella libera le relazioni interpersonali giocano un ruolo fondamentale; ad esempio, le virtù, che fanno crescere la propria identità, sono necessarie per la donazione di sé come sposo/sposa, padre/madre e queste relazioni, a loro volta, formalizzano l’identità in modo nuovo. 379

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Intenzionale: dal latino in (dentro) tendere (inclinare), ossia ciò verso cui c’è inclinazione. Questo termine è adoperato in ambito filosofico, psicologico ed etico-giuridico con un significato analogico. In ambito filosofico, per indicare il riferimento delle operazioni che hanno un oggetto non fisico, come nella sensazione e nell’intellezione. In ambito psicologico, per indicare un tipo di comportamento che non è reattivo allo stimolo. In ambito etico-giuridico, per indicare l’atto umano consapevole e libero.

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Istinti: inclinazioni fisiche e psichiche innate dell’animale che li portano a un determinato comportamento. Percezione: Il termine indica la strutturazione delle sensazioni; ad esempio, secondo la Gestaltpsychologie, corrisponderebbe a un’operazione in cui il soggetto seleziona in modo inconsapevole il materiale procedente dai sensi. La percezione mostrerebbe così le peculiarità di ogni soggetto. Secondo la filosofia aristotelico-tomista, la percezione sarebbe una sensazione interna, concretamente l’atto del senso comune che è in grado di cogliere l’unità sensibile esistente nella realtà. Relazione: metafisicamente è un accidente estrinseco della sostanza che introduce in essa il riferimento a qualcosa; antropologicamente è il modo di essere della persona: la persona è l’essere in relazione. La relazione è necessaria perché esista la persona, si realizzi la sua integrazione e la sua donazione. Originata dalla relazione, la persona tramite l’integrazione ha come fine la donazione, cioè la relazione amorosa di sé con l’altro. Senziente: applicato a un essere indica la capacità che questo ha di vivere e di sentire. Applicato al corpo, esso significa – oltre alla sua potenzialità per ricevere stimoli esterni – la percezione di sensazioni interne e di sentimenti, come la stanchezza, l’energia, il dolore e il piacere. Sistemico: metodo che si occupa di quegli elementi coordinati realmente e non solo concettualmente, per cui non è possibile studiarli in modo isolato. Ad esempio, il bipedismo, la forma delle mani, l’uso di strumenti, il linguaggio, costituiscono un unico plesso. Negli ele380

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menti coordinati realmente ci sono proprietà emergenti (negli organi fonatori c’è la possibilità di produrre fonemi, cioè suoni dotati di significato), giacché il tutto sistemico contiene più della somma delle parti, il che implica un grado più alto di unità, non più quantitativo ma appunto sistemico o qualitativo. Soggettività: normalmente s’intende come il polo della coscienza nei confronti degli oggetti. Qui è usata in senso vitale, come immanenza vissuta. Perciò essa viene applicata anche agli animali. Infatti, anche se non hanno una conoscenza oggettiva, essi possiedono una coscienza sensibile e, quindi, hanno un grado d’interiorità che manca ai vegetali. La soggettività umana va oltre il possesso intenzionale dell’alterità sensibile e intelligibile, poiché può anche possedere se stessa intenzionalmente. Il possesso intenzionale di sé e l’autopossesso etico, come anche l’autodonazione, implica l’esistenza di un essere spirituale ovvero una persona. Spirituale: il termine è usato filosoficamente, cioè senza connotazioni religiose, per designare il più alto grado d’immaterialità, caratterizzato dalla massima trascendenza e immanenza. Quando si parla di corpo “spiritualizzato” si fa riferimento alle manifestazioni di libertà proprie del corpo umano, come la sessualità umana, la cultura culinaria, i ritti funerari, la famiglia, la produzione e l’uso di strumenti, e così via. Tendenze: inclinazioni fisiche, psiche e spirituali innate o acquisite dalla persona, aperte al mondo e all’azione umana. Le tendenze per giungere al loro traguardo hanno bisogno dell’azione umana, propria e/o altrui. Transitivo o transeunte: etimologicamente significa che va in un altro (dal latino: trans “ad un’altra parte” e ire “andare”). Applicato alle operazioni, designa quelle il cui fine si trova in un’altra realtà, come il dipingere sta nella parete dipinta o il costruire nella casa costruita. Nella persona l’operazione transitiva serve a migliorare non solo il mondo, ma anche la persona moralmente, come accade con un lavoro ben fatto.

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Glossario

Trascendente: etimologicamente significa che sale verso un altro (dal latino: trans “oltre” e scandere “salire”). Si applica alle realtà che sono al di là della materia, come le persone, o che vanno oltre la materia, come nelle operazioni umane sia quelle immanenti sia quelle transitive, in quanto trascendono gli effetti prodotti nel mondo o nelle altre persone.

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Unione sostanziale: dottrina aristotelica per spiegare la costituzione della sostanza corporea a partire da due coprincipi: il corpo, che funge da materia, e l’anima, che funge da forma. Nella persona umana, anche se è un coprincipio, l’anima possiede l’essere in sé perché è spirituale. Vissuto: participio del verbo “vivere”. Usato per indicare la riflessività del vivere, che va dalle prime e più elementari esperienze, come il dolore, il piacere, la paura e l’ira, fino a esperienze complesse che coinvolgono la persona completamente, come la decisione di studiare per una carriera, salvare una vita o donarsi.

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Bibliografia

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