Essere amici 8806232193, 9788806232191

La vita nell'amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c'

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Italian Pages 124 [102] Year 2019

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Table of contents :
Indice
Frontespizio
Il libro
L’autore
Premessa
Introduzione
Di cosa è fatta l’amicizia?
Usi spurii, Facebook e altri imbrogli
L’amicizia si basa sulla sua revocabilità
La politica dell’amicizia
Inimicizia
Cappellino per non antropologi
Altre culture, altre amicizie
La lingua dell’amicizia
Oscenità
Uomini e donne
Comunione dei santi
Amicizia con Dio
L’amico del giaguaro
Conclusioni
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Essere amici
 8806232193, 9788806232191

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Franco La Cecla

Essere amici

Essere amici

Premessa

Dio vi assista o amici miei Nei travagli della vita, nel servizio E nei festini scapestrati d’amicizia E nei dolci segreti dell’amore Dio vi assista, o amici miei, Anche nelle bufere, e nel dolore d’ogni giorno, Nel paese straniero, nel deserto del mare, E nei tetri abissi della terra! ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN 1.

Per noi l’amicizia è interessante proprio perché evade ogni definizione: il modo in cui l’amicizia agisce, esprimendo costanza e fluidità in diversi mondi sociali, è eccitante e problematico per la gente che la pratica e per chi la studia. AMIT DESAI

ed EVAN KILLICK 2.

Chi scrive è un antropologo, qualcuno che deve stare attento a non generalizzare. L’amicizia è un fenomeno universale, di cui si trovano tracce nei testi piú antichi che ci sono pervenuti e nelle lande piú diverse del mondo, dalle tribú amazzoniche fino alle compagne e ai compagni di prigionia, alle rifugiate e ai rifugiati delle guerre piú recenti, ai marginali delle nuove città di Papua, agli amici del bar o alle collegiali giapponesi online. Però cosa si intenda per amicizia è una variabile tutt’altro che universale, epoca per epoca, cultura per cultura, si presenta come un legame che costituisce la società in modi che dipendono dal peso che viene dato agli altri tipi di legame. A volte è una forza centrifuga che si libera dalla reciprocità dei legami di parentela, altre invece li conferma, altre ancora è un mondo parallelo. Occorre che il lettore sappia che, dopo questa premessa, quando parlo di amicizia, mi riferisco anzitutto (per motivi di competenza diretta) alla strana costellazione che essa rappresenta oggi per noi occidentali, soprattutto europei. Nel corso della narrazione entreranno in ballo altri sistemi, altre forme di amicizia e, di volta in volta, sarà chiaro che queste non rientrano nella nostra concezione anche se possono somigliarle. È un po’ difficile oggi esimersi dal pensare che

quando Aristotele scriveva i capitoli dell’Etica nicomachea, o quando Michel de Montaigne trattava dell’amicizia, lo facevano pensando di esprimere concetti universali, o forse piú semplicemente erano convinti che l’idea di universale greco e francese dovesse espandersi a tutto il mondo. Oggi riusciamo a essere piú cauti e, pur non disprezzando la nostra storia di amicizia, possiamo confrontarla con altre che sono emerse per farci capire quanto singolare sia la nostra. L’attenzione all’amicizia in antropologia è qualcosa di recente, e tuttora nutre un vivacissimo dibattito, si alimenta di una nuova letteratura, di monografie, lavori sul campo, osservazioni partecipanti che raccontano la ricchezza di una peculiarità umana (ma anche qui abbiamo dubbi, l’amicizia non è peculiare agli umani, i cavalli 3, le galline e altri animali contraggono legami di amicizia) di cui sappiamo ancora molto poco. Anzi sta proprio qui la qualità precipua dell’amicizia, che pur praticandola rimane qualcosa di indefinibile e di difficilmente fissabile. 1. A . S . PUŠKIN , Poesie, a cura di E. Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 169. 2. A . DESAI ed E . KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship. Anthropological Perspectives, Berghahn, New York - Oxford 2010, p. 1. 3. H . SIGURJÓNSDÓTTIR , M . C . VAN DIERENDONCK, e A . G . THÓRHALLSDÓTTIR , Friendship Among Horses-Rank and Kinship Matter, Iceland University of Education, Reykjavík 1997.

Introduzione

Ci sono sette tipi di persone che è bene non avere per amici: le persone influenti o di alto rango; i giovani; gli uomini forti, che non sono mai malati; gli uomini cui piace il sake; gli uomini d’armi fieri e coraggiosi; gli uomini falsi; gli uomini avidi. Tre sono invece i tipi di persone che è raccomandabile avere come amici: le persone che fanno regali; i medici; gli uomini saggi. KENKŌ 1.

Quando si parla di amicizia lo si fa come se di questo «fatto della vita» sapessimo già tutto. Al nostro tempo è dato poco interrogarsi sulla singolarità di questo legame che non costituisce istituzioni, ma che in realtà è l’aspetto inafferrabile, costruttivo e distruttivo al tempo stesso, di ogni stare insieme. Il mondo antico s’interrogava molto sull’amicizia e lo faceva indagando su qualcosa che preesisteva e resisteva a ogni definizione. Nel Filebo di Platone 2, Socrate tenta di costringere i bei giovani di un ginnasio a darne una descrizione e il dialogo si conclude nel nulla di fatto. Lui che voleva dare una mano (sempre un po’ provocatoria, sorniona e cinica) a un giovane innamorato e timido finisce per interrogare il giovane che è l’oggetto delle intenzioni dell’innamorato, ma s’impelaga in una serie di contraddizioni. L’amicizia è qualcosa che avviene tra eguali? Non ne siamo davvero certi. Si ama in amicizia chi somiglia a noi o chi invece è diverso? Ancora: sono i migliori a essere amici tra di loro, i «buoni», «gli eccellenti», oppure non è vero che l’amicizia c’è anche tra i cattivi, tra coloro che sono amici nel compiere cattive azioni? Qual è la natura di questa affezione? Per i tempi di Socrate è l’attrazione tra erastes ed eromenos, tra amante e amato, e questa attrazione si basa su impulsi e sentimenti nobili e meno nobili, va dal volere somigliare all’altro al volerlo «carpire» in maniera non diversa dalla natura del desiderio. Lasciando Socrate e venendo piú vicino a noi, quando Michel de Montaigne parla della sua grandissima amicizia «inconsolabile» con La Boétie sta ancora parlando di qualcosa che ha la natura di un’affinità elettiva con componenti erotiche o si tratta in maniera diversa di un’elezione spirituale inafferrabile e tenace? 3. Oggi, quando parliamo di amicizia, è

possibile esimersi dal parlare di antipatia e simpatia, di quelle imprendibili molle che ci fanno avvicinare o allontanare da qualcuno? Nel film L’amico americano (1977) di Wim Wenders, Dennis Hopper interpreta la parte di un criminale introverso, Tom Ripley, che entra nella vita di un artigiano di cornici di Amburgo, Jonathan Zimmermann (interpretato da Bruno Ganz). È affascinato dalla competenza manuale di Jonathan e dal suo «occhio» per i falsi (che fanno parte del commercio di Tom). Questa simpatia e curiosità non impedisce però a Tom di indurre Jonathan a diventare killer occasionale e di entrare nella partita pericolosa tra due gang. A un certo punto, però, quando Jonathan ancora non sa di essere «usato» da Tom, questi gli dice che ha un grande desiderio, vorrebbe molto diventare suo amico. E aggiunge che sa che questo è impossibile. Tom è l’«amico americano» che fino alla fine sarà ambiguo, tentato tra il sentimento di un’amicizia vera (per cui gli salva la vita) e l’impossibilità di uscire dal suo ruolo. Come se l’amicizia, o la sua impossibilità, facesse risaltare in maniera particolare le pastoie quotidiane, il già dato, i compromessi e gli impegni da cui non riusciamo a svincolarci. L’amicizia come un’avventura che non tutti possono permettersi di correre. In un magnifico racconto di Solženicyn, Accadde alla stazione di Kocetovka (1962) 4, è narrata un’altra situazione esemplare. Durante l’invasione nazista della Russia, in una stazione ferroviaria si vive l’emergenza. Un onesto individuo che voleva andare a combattere al fronte viene, per la sua spiccata miopia, assegnato a dirigere il traffico dei treni. È un uomo di provincia ma ha interessi e una sensibilità fuori dal comune. Soffre della lontananza della moglie e del figlio rimasti in Bielorussia, tagliati fuori dal fronte della guerra. È però preciso e attento e si dà molto da fare perché i profughi raggiungano posti piú sicuri, i soldati e i rifornimenti arrivino alle prime linee. A un certo punto, in stazione capita un uomo dall’aspetto singolare. Imbacuccato in un cappotto chiaramente non suo, ha un’aria smarrita ma simpatica e parla in un modo che al capostazione risulta familiare. È un uomo di cultura, fa battute sottili e ha un senso dell’umorismo che subito contagia il nostro addetto ai treni. Parlano, fumano, si scambiano opinioni. L’imbacuccato è rimasto tagliato fuori dal suo battaglione e vuole tornarvi. Il capostazione lo vuole istradare sul prossimo convoglio che passa per Stalingrado. L’altro gli chiede dove si trovi e come si chiamasse prima (siamo in pieno stalinismo, le città sono state da poco ribattezzate con nuovi

nomi). Il capostazione ha un dubbio terribile. Possibile che quest’uomo non sappia del cambiamento di nome di Stalingrado? A cosa è dovuta questa sua ignoranza? È uno sprovveduto, un intellettuale (parlando con lui ha saputo che è un attore e gli ha confidato la sua passione per il teatro) oppure è una spia? Tutta l’affinità e la simpatia si mutano in una lotta interna al capostazione. Cosa deve fare? Seguire il suo istinto e fidarsi o consegnare quest’uomo come pericolosa spia? Finirà per accompagnarlo in un ufficio vicino e lasciarvelo, e poi fare in modo che venga consegnato alle autorità. Non saprà piú nulla di lui, anche se per anni sarà tormentato dal dubbio di avere sbagliato. Solženicyn ci mette di fronte alla tipica situazione in cui l’amicizia, una nascente amicizia, viene contrapposta a un contesto dove sono solo i ruoli che contano. Non c’è posto per affinità e simpatia, soprattutto in guerra, dove ognuno può essere un nemico. Non c’è bisogno di essere in guerra, sembra suggerire Solženicyn, basta essere in un mondo in cui i ruoli sono quelli dettati da un regime o da una configurazione politica. Tutto è definito da appartenenze e non da qualcosa di cosí inafferrabile come le simpatie e le affinità. L’amicizia non costituisce istituzione, non è piú forte dei ruoli, però costituisce legame al punto tale da potere scardinare i ruoli, se uno volesse. Qui sta la pericolosità dell’amicizia, il suo essere qualcosa d’inafferrabile che però si contrappone all’istituito e al costituito e può infrangerlo e farlo saltare. Questo è il suo manifestarsi nelle nostre società, un’attrazione, un legame piú o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un «fuori» salutare, un potersi chiamare fuori di tanto in tanto, una valvola di sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile, la mano sulla spalla, lo sguardo di comprensione o di complicità. È apparentemente un fatto «meno importante» (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro questa «svalutazione», che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una strategia interessante, se si può chiamare tale una deriva sommersa. L’«out of focus» dell’amicizia le consente di resistere alla famelica intrusività della società contemporanea. Dietro la sua «inutilità» si cela la difesa inconscia che la nostra società fa di questo baluardo. Perché sí, per altre strade l’amicizia è proprio la base di quella lotta per la

libertà di scelta che ci ha portato a questa contemporaneità. Essa è la chiave sia della definizione di individuo e dei suoi diritti, sia della reciprocità tra liberi che dovrebbe sostenere le radici piú profonde del nostro mondo. È una relazione tra persone che l’Occidente nella sua voglia autodistruttiva è riuscita a mantenere in ombra, a parte, sviluppandone però le premesse che sono presenti in tutte le società. Si potrebbe dire che l’Occidente è ambiguo nei confronti dell’amicizia: quando non riesce a farne mercato, preferisce metterla tra le cose «private». È questo «reservoir» di una non ben definita «privacy» che ci rende miopi di fronte alla natura invece fondante dell’amicizia come tessuto politico quotidiano, spazio pubblico ogni volta ricomposto ed elastico alle fluttuazioni della vita in comune. Oggi è interessante comprendere il perché di questo gioco ideologico sull’amicizia, il preferire metterlo tra le cose che rendono la vita piacevole, il «leisure time». Gli antichi sapevano che l’amicizia non è un turismo dell’anima, ma il luogo in cui essa si può meglio manifestare. Si può dire che l’ipocrisia occidentale nei confronti dell’importanza dell’amicizia è parte di quel non vedere, del contrario della «volontà di sapere», della dissezione anatomica che l’Occidente ha fatto di se stesso. Una miopia che ci dà respiro e ci consente di vivere la nostra vita come qualcosa d’inedito e indefinibile. Forse è per questo che da orizzonti diversi la filosofia contemporanea è arrivata a porsi come fine quell’arte di vivere di cui l’amicizia era parte preponderante. Ne sono testimoni gli ultimi lavori di Michel Foucault, ma anche il pensiero sulla convivialità di Ivan Illich, le riflessioni di Gilles Deleuze e Félix Guattari, i saggi di Emmanuel Lévinas e il suo rapporto d’amicizia con Maurice Blanchot, le riflessioni di Jacques Derrida e di Stanley Cavell, un gran lavoro che è soltanto cominciato, e di cui l’antropologia è fattore integrante e a volte richiamo verso la concretezza del vissuto di cui, come disciplina, si occupa in chiave fenomenologica con buona umiltà. 1. KENK Ō, Ore d’ozio [1330-32], a cura di M. Muccioli, SE, Milano 2002, p. 75. 2. PLATONE , Filebo, trad. e note di C. Mazzarelli, in ID ., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. 3. M . DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2014. 4. A . SOL ŽENICYN , Accadde alla stazione di Kocetovka [1962], in Una giornata di Ivan Denisovič, a cura di O. Discacciati, Einaudi, Torino 2017.

Di cosa è fatta l’amicizia?

L’amicizia postula l’onestà, è l’unica condizione, anche se difficile. INGMAR BERGMAN 1.

Non è un piacere avere amici che arrivano da lontano? CONFUCIO 2.

Cos’è l’amicizia? Cos’è per la nostra società che negli ultimi anni si è appropriata di buona parte degli spazi dell’informalità e cos’è per altre culture e società? Il bello dell’occuparsene sta nel fatto che è una sostanza a cui non si guarda proprio perché fa parte delle cose che diamo per scontate e che non rientrano in istituzioni ben definite. Quando ci si accorge di essere diventati amici di qualcuno non si va né da un funzionario del Comune né da un prete a fare ratificare la cosa. Il problema dell’amicizia sta nel fatto che non si può parlare di essa se non si sa cosa essa «ci fa». L’amicizia – questo lo aveva capito Epicuro – è un piacere, anzi è il piacere della vita per eccellenza, ma non nel senso che esso «conforta» e «consola», ma nel senso piú profondo e proprio di godimento della vita, cioè si può sentire piacere nel vivere solo se si vive l’amicizia che è un compartire lo stare al mondo. Come se essa fosse una forma di senso, di sensibilità, senza la quale la vita non è apprezzabile e perfino percepibile. Per questo, rispetto a Socrate il problema non è definire l’amicizia come legame tra pari, ma intanto definirla come possibilità del godimento, anzi come possibilità a posteriori, cioè evidenza che precede la possibilità, esperienza di una soddisfazione che precede il domandarsi se è possibile. L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune che è però già tutto sotto il dominio del piacere e della sensibilità. Anche queste affermazioni sono povere rispetto alla fenomenologia dell’amicizia, essa sola può riempire il vuoto delle definizioni, ribaltarle e renderle inutili e parziali. La temporalità dell’amicizia è il qui e ora che si ripete per confermare il

qui e ora dell’ultima volta che ci siamo visti, sentiti, pensati, ma questo tempo è quello della sospensione, non è un tempo di preparazione. La vita nell’amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c’è l’amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l’esistenza da qualunque sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un’altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle piú assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c’è un oltre, ma che esso è già qui, che c’è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti. L’amicizia non è una virtú (anche se una frase di Epicuro che ci è pervenuta suona cosí, l’amicizia come virtú), essa non è prevedibile e non si basa su un giusto scambio di valori. È un ambito che si crea per una circostanza fortuita: può essere legata ad affinità, a simpatie, a qualche interesse in comune, ma non si sviluppa in base a queste premesse. Rispetto a esse è un di piú. L’amicizia «sospende» il tempo, come già detto, ne fa «vita adesso». Al pari di ciò che Vladimir Jankélévitch dice dell’avventura 3 lo sospende perché lo ri-inizia. Quando ci si rivede con un amico, con un’amica, non lo si fa per commemorare un passato ma per farlo ripartire. Spesso a distanza di tempo ci si rivede, ed è come se si ricominciasse da dove ci si è lasciati. Il tempo, e ciò ci stupisce ogni volta, è irrilevante rispetto a certe amicizie. Si riparte, come se ci si fosse visti ieri l’ultima volta. Anche questo è un sospendere il tempo, perché il tempo dell’amicizia è un tempo parallelo alla vita, non ne segue le lancette, ha le sue: gelose, proprie, nascoste. Nel piacere dell’amicizia io non faccio conto del tempo che è trascorso tra questa e l’ultima volta che ci siamo visti. Aristotele nell’Etica nicomachea insiste sull’importanza per gli amici della contiguità e della frequentazione: ma noi sappiamo che l’amicizia spesso non ne ha bisogno. Emmanuel Lévinas e Maurice Blanchot sono grandissimi amici. Si sono visti una sola volta da giovani, ma questo legame dura per tutta la vita. È sostenuto dalla differenza tra i due, da diversi modi di vedere le cose, di vivere, e allo stesso tempo da una profonda concisione, dalle poche parole che si scambiano al telefono, dallo scriversi e dal «sapere» l’uno dell’altro. Quando muore la moglie di Lévinas, è Blanchot che telefona,

che dice le parole che solo un amico può dire perché una scomparsa venga assorbita in due. Per la prima volta si chiamano per nome, Maurice, Emmanuel, e si danno del tu 4. Sarà anche l’ultimo incontro tra i due. L’altro tipo di sospensione riguarda il giudizio. Tra amici, negli anni ci si arriva a conoscere con tutti i difetti e i pregi. Accade ad esempio tra ex amanti, che dopo avere vissuto una passione intensa diventano amici e quindi «realisti», l’altro, l’altra non sono piú pervasi dall’aura della perfezione e dell’incanto. Diventano sempre piú quello che sono. Questo però, invece di alterare il rapporto, lo rafforza, lo rende profondo. Perché non ci si giudica, si accetta dell’altro la pigrizia, il nervosismo, le cattive abitudini, l’incaponirsi nelle strade sbagliate, il non saper vivere, perfino il narcisismo. Non è questo che conta. S’innesca un magnifico meccanismo che aiuta a guardare oltre. È proprio nell’amicizia che si godono i vantaggi del malinteso 5, questo rimedio che ci insegna che non è detto che ci si debba capire per andare avanti. Essa non si basa sul capirsi, ma su un apparente andare d’accordo e a volte nemmeno su questo, ma sulla fiducia che non si potrà se non andare d’accordo. È la simpatia per l’altro che ci fa saltare i preamboli. Il malinteso è sempre dietro l’angolo. I migliori sanno come usarlo, sanno come fare finta di niente quando si scopre che l’altro non ha capito, che è di tutt’altra opinione, anzi ha detto qualcosa che poteva pure ferirci. Succede che si faccia un viaggio, e che durante il tragitto l’amica o l’amico mostri una parte di sé che non avevate previsto e che va all’opposto dei motivi che vi hanno attirato verso quella persona. La bravura è «fare finta di niente», capire che c’è una zona dell’altro che occorre non esplorare. Il malinteso funziona come una bugia a fin di bene, sta a voi decidere se vale la pena troncare una relazione o chiudere un occhio e appianare il possibile ostacolo. Ci sono amici che hanno imparato a fare questo gioco da ciascuna parte. È una delle astuzie della contiguità. Nelle geografie ristrette, nei luoghi in cui ci si incontra ogni sera, nei bar che illuminano le nostre solitudini compartite questo gioco viene generosamente giocato. Agli amici basta dell’amico un simulacro, la confusione della persona con il personaggio. Non è cattiveria, è prudenza, ci sarà tempo per approfondire, se è questo che vogliamo. Ma tra la profondità e la leggerezza nell’amicizia preferiamo la leggerezza. Il carattere «aereo» dell’amicizia le è intrinseco, proprio perché essa comincia con una «volatilità» che è propria ai rapporti che non sono definiti se non da se stessi, che non hanno obblighi estrinseci. Volatilità significa

anche che c’è la possibilità che duri pochissimo, poco, molto, moltissimo. L’amicizia galleggia, fa il surf sulle occasioni della vita, ne sfrutta la dimensione mobile, lascia e riprende, torna a lasciare. È un «tourbillon de la vie», come cantava Jeanne Moreau in Jules e Jim di Truffaut, davvero. Il bello di questo rapporto è che non tutte le amicizie sono importanti, non tutte ci cambiano, non tutte significano per noi la stessa cosa. Che siano profonde o meno, durature o passeggere, esse si muovono, come già detto, nella meravigliosa dimensione del malinteso. Il malinteso che ci aiuta a non dover approfondire il rapporto con tutti, che ci difende dalla tentazione di diventare troppo intimi o dall’altrui invadenza. Quello che ci permette di frequentare gente con cui spartiamo solo qualcosa o con cui è bello passare qualche tempo, che ci consente di non essere capiti fino in fondo e di non dover capire. L’amicizia è una topologia, anche: le amiche, gli amici diventano i luoghi del nostro stare al mondo. Con essi possiamo trovare il nostro, di mondo, diventano i punti di riferimento di un continente tutto nostro. C’è un aspetto «spaziale» dell’amicizia, la sua componente geografica. Essa ci amplia la mappa del mondo percorribile, ci rende familiari delle parti che non conoscevamo, ci consente di sentirci a casa in territori lontani e inesplorati. La nostra geografia segue le oscillazioni dell’amicizia, le sue ampiezze e le sue contrazioni. Quando avete amici tra i mari (zhi ji

), il piú remoto angolo della terra sembra

vicino 6.

Come con il tempo, cosí con lo spazio, l’amicizia ritaglia una dimensione a parte, rifà la storia e la geografia, il mondo diventa il nostro mondo, ubi amici, ibi patria 7, quello in cui ai luoghi si sostituiscono le persone, alle città il volto delle persone che ci rendono la vastità del globo qualcosa di conoscibile, di percorribile. Ci sono amici con cui si condivide una «passione per il mondo», come la definiva il grande fotografo Luigi Ghirri. È una forma di amicizia con gli occhi rivolti all’esterno, con la voglia di conoscere, con il «desiderio fisico» del mondo, di vederlo, esplorarlo, conoscerlo, averci a che fare. Sono gli amici per cui si parte e a cui si racconta. Sono coloro che ci fanno capire che l’amicizia è un’osmosi che si trasmette dalle persone ai luoghi. È una cosa

rara, preziosa, quasi un segreto che ci si dice tra pochi, ma che rinnova il senso della complessità e ricchezza, che lo fa diventare vita oltre che mondo. Lo sanno bene gli antropologi che senza «amici», che loro chiamano ingiustamente «informatori», non andrebbero da nessuna parte. È la storia, ad esempio, di Franz Boas e di George Hunt, il suo informatore tra gli indiani dell’isola di Vancouver. È figlio di una Tlingit e di un bianco. Sarà costui, dall’inizio del Novecento in poi, il vero tramite tra l’antropologo e le culture della British Columbia e soprattutto i Kwaiutl. Senza il suo appoggio sarebbe impossibile a Boas non solo avere traduzioni delle lingue locali, ma convincere le tribú a farsi filmare, a offrire le proprie maschere e i propri totem, e addirittura a «mettersi in scena» per delle vere e proprie «fiction» in cui gli indiani recitano se stessi 8. È un rapporto complesso, che diventerà sempre piú un’amicizia profonda, che segnerà il destino di entrambi. Sono amicizie difficili queste, piene di incomprensioni, spesso complicate da difficoltà linguistiche, da aspettative da parte di entrambi, come se si trattasse di uno scambio che ci si aspetta equo, ma che non lo può essere mai davvero. C’è la storia dell’informatore di Clifford Geertz che gli chiede in prestito la macchina da scrivere e che quando gli viene richiesto di restituirla si offende perché per lui quella macchina da scrivere è il segno di una «parità» con l’antropologo 9. Allo stesso tempo sono esempi di un salto coraggioso tra mondi diversi, di un andare oltre le incredibili differenze e diffidenze e nei casi piú fortunati cementano amicizie «sul campo» che spesso sono uno dei motivi per cui gli antropologi vi ritornano. Ho viaggiato recentemente con Michael Taussig per le comunità nere del Pacifico colombiano presso le quali negli ultimi quarant’anni ha svolto il suo «fieldwork» da antropologo, e mi sono reso conto che adesso, e da parecchi anni, per Taussig tornare non è piú una maniera di continuare il campo, ma di rivedere le persone che sono diventate i luoghi, quel tessuto di amici e amiche per cui le storie, lo sfruttamento e le violenze a cui esse sono state sottoposte e i pericoli che hanno corso e corrono ancora nella guerra tra narcos, paramilitari, guerriglieri si sono confusi nella stessa storia personale dell’antropologo 10. 1. I . BERGMAN , Lanterna Magica [1988], trad. di F. Ferrari, Garzanti, Milano 2013. 2. S . LEYS (a cura di), I detti di Confucio, ed. it. a cura di C. Laurenti, Adelphi, Milano 2006, p. 37.

3. V . JANKÉLÉVITCH , L’avventura, la noia, la serietà [1963], Einaudi, Torino 2018. 4. M . LÉVINAS e S . HAMMERSCHLAG , The final meeting between Emmanuel Lévinas and Maurice Blanchot, in «Critical Inquiry», vol. 36, n. 4 (estate 2010), pp. 649-51. 5. F . LA CECLA, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Bari 1997. 6. Verso tratto dal poema di Wang Bo, Farewell to Vice-Prefect Du [ca. 649 - ca. 676], riportato da Ping Wang nel suo saggio The chinese concept of friendship. Confucian ethics and the literati narratives of pre-modern China, in C . RISSEEUW e M . VAN RAALTE (a cura di), Conceptualizing Friendship in Time and Place, Leiden, Boston 2017. 7. P . BROWN , Tesori in cielo [2016], Carocci, Roma 2018. 8. C . MARABELLO , Sulle tracce del vero. Cinema, antropologia, storie di foto, Bompiani, Milano 2011. 9. C . GEERTZ , Antropologia e filosofia, frammenti di una biografia intellettuale [2000], il Mulino, Bologna 2001. 10. F . LA CECLA, Dando vueltas con Miguel, postfazione a M . TAUSSIG , Il mio museo della cocaina [2004], Mileu, Milano 2019.

Usi spurii, Facebook e altri imbrogli

Non è possibile essere amico di molti secondo perfetta amicizia, come non è possibile amare molti allo stesso tempo: infatti pare somigliare a un eccesso. Secondo il proverbio, non si arriva a conoscersi reciprocamente prima di aver consumato la quantità di sale di cui si dice, e quindi prima di ciò non ci si può accettare e riconoscere reciprocamente come amici, prima cioè che ciascuno si mostri reciprocamente all’altro come degno di amicizia e di fiducia. Invece quelli che mostrano sentimenti di amicizia reciproca in modo affrettato vogliono essere amici, ma non lo sono, tranne nel caso che siano anche amabili e lo sappiano; il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no. ARISTOTELE 1.

In una delle puntate piú divertenti della serie televisiva South Park c’è un personaggio, Stan, che si rifiuta di entrare in Facebook. I suoi amici fanno di tutto per convincerlo, lo prendono in giro, lo minacciano. Alla fine gli creano essi stessi il profilo. Ecco cosa gli accade: Stan controlla il suo profilo: «Informazioni di base, …Oddio!» Il papà di Stan appare online con un’aria severa. Papà: «Stan, perché non vuoi essere amico con la nonna?» Stan: «Papà, davvero, non mi sembrava il caso di prendere questa cosa in considerazione». Papà: «La nonna è in ospedale, e tu non pensi sia il caso di darle l’amicizia?» Stan: «Va bene, aggiungerò la nonna agli amici». Papà: «Meglio cosí. Poi ti ho mandato una vignetta e tu non hai nemmeno risposto» 2.

La prima persona che gli chiede l’amicizia è sua nonna. E ovviamente lui capisce che aveva ragione a non volersi iscrivere, perché è la logica di Facebook che lo costringe ad appiattire tutto su un solo piano. Aristotele direbbe che anche i rapporti familiari sono una forma di amicizia e con lui sarebbe d’accordo l’antropologo Marshall Sahlins 3, che si è battuto per

rileggere la parentela secondo i termini di una reciprocità che l’accomuna ad altri tipi di legami e alleanze. Però come non dare ragione al nostro personaggio? La nonna che gli chiede l’amicizia trasforma un rapporto ben preciso, quello tra una generazione e un’altra, quello che transita attraverso una contiguità che è fatta di corpi accanto, di protezione, di trasmissione di storie, in una generica formula vuota: friendship. L’orrore di Facebook è duplice. Da una parte ha bisogno di usare i legami che noi stabiliamo con gli altri, di infilarcisi dentro facendoci credere che dipendono da lei, una nuova Lilith (della tradizione mistica ebraica) che si frappone nel coito tra due sposi, per assorbire lo sperma di lui e frustrare il desiderio di lei. Facebook ci espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione quotidiana della nostra socialità intima e allargata. È un gesto di puro latrocinio, perché su questo nostro lavoro specula e ci pianta le sue pubblicità. La gravità dell’invenzione di Zuckenberg non è il fatto che lui venda i nostri profili al migliore offerente, ma il fatto stesso che riduce l’amicizia a friendship. Una solitudine affollata da spettri dell’amicizia. Il detto di Aristotele «Amici, non ci sono amici» 4 tramandato da Diogene Laerzio e su cui Jacques Derrida ha costruito un intero anno di seminari, qui suona perfettamente. Sbandierare il numero di amici, pensare che basti un like per diventarlo, che basti un contatto, significa umiliare il legame che l’amicizia costituisce nella società, ridurla a gossip e a people, mentre essa è la chiave piú importante della democrazia. Facebook opera qualcosa di mostruoso e di ben congegnato: appiattire la nostra sfera amicale al «privato» del buco della serratura, ridurla a un’invidia mimetica da studenti delle medie, eliminare dall’amicizia tutta la sua carica pubblica e quindi eversiva. L’amicizia costituisce, nelle nostre società occidentali ma anche in molte altre, il tessuto del sociale, quella trama dentro cui possiamo filare il nostro percorso, quel luogo geografico e non solo di legami, alleanze, complicità, ma anche di inimicizie, antipatie, evitazioni. L’intelligenza di Facebook è di avere occupato un’area che si rifiutava alla formalizzazione, avere colonizzato un ambito che è fluttuante, antiistituzionale, revocabile. Lo ha fatto prima che altri lo facessero, sostituendosi ai movimenti politici (ma dando a essi e alle loro intenzioni «monopolizzatrici» uno strumento micidiale) che avevano cercato di farlo. Nella sua apparente gigioneria essa ha sfrondato l’amicizia di ogni «fatto della vita», ne ha trasformato le qualità e le esigenze, lealtà, conoscenza

reciproca, fiducia, in un simulacro di vuote ombre. René Girard 5 ci aveva prevenuto di fronte a un simile pericolo. Il nostro desiderio nei confronti del mondo è malato di una triangolazione. Riusciamo a volere solo invidiando. Riusciamo a comprare perché ci sembra di imitare il desiderio altrui. Facebook è solo l’applicazione ultima di questa incapacità di intestarsi il desiderio. Al posto di avere una vita vera con la persona che amo, do questa persona a un amante che mi permetta di desiderarla, è la storia dell’Eterno marito di Dostoevskij 6. Al posto di avere una vita vera con i miei amici la consegno ai fattorini squallidi dei social. Facebook svuota la geografia reale dell’amicizia e la sostituisce con un elenco. Bisogna rileggersi Aristotele per capire quanto è grave tutto questo: La presenza e la prossimità sono la condizione dell’amicizia, la cui energia si perde nell’assenza o nella lontananza. Gli uomini sono detti buoni o virtuosi sia dal punto di vista delle capacità, delle possibilità, dell’habitus, sia in atto. Nell’amicizia accade lo stesso: gli amici che dormono o che vivono in luoghi separati non sono amici in atto. L’energia dell’amicizia trae la sua forza dalla presenza o dalla prossimità. Se pure non la distruggono, l’assenza o l’allontanamento attenuano o estenuano l’amicizia, la snervano 7.

Commentando il passo, Jacques Derrida sottolinea: Il proverbio che Aristotele cita a tal proposito evidenzia bene l’assenza, o l’allontanamento. È per lui sinonimo di silenzio: gli amici sono separati quando non possono parlarsi (è «l’aprosegoria», la non allocuzione, parola rara che compare solo in questo proverbio «l’aprosegoria ha sciolto piú di un’amicizia»). Non si tratta solo della distanza tra due luoghi, benché Aristotele vi faccia pure cenno, ma di ciò che allora per lui va di pari passo con la separazione topologica, cioè l’impossibilità dell’allocuzione o del colloquio 8.

E Derrida aggiunge: Domanda: che se ne farebbe questo discorso della telecomunicazione in generale? E che se ne farebbe del telefono e di tutte le nuove dislocuzioni che dissociano l’allocuzione dalla compresenza nello stesso luogo? Ci si può parlare da molto lontano, lo si poteva già e Aristotele non ne teneva conto. Ancora un’aporia. [Aristotele dice] «se uno dagli amici è separato da una grande distanza, come Dio rispetto all’uomo, non c’è piú amicizia

possibile» 9.

Si può non essere d’accordo con Aristotele sulle distanze. L’amicizia spesso supera tutto questo, anzi si manifesta, come ho scritto nei capitoli precedenti su una «sospensione» che le consente di ricominciare a distanza di tempo e anche di spazio. In realtà il suo nemico non è un divario temporale o geografico, ma il presumere che ci siano «surrogati» alla presenza vera delle persone. Mentre l’attesa può incrementare il senso di amicizia, dei surrogati consolatori possono svuotarla. Ho cercato qualche anno fa di affrontare la questione inventando un termine, «surrogato di presenza», che spieghi la strana costellazione del nostro parlare ad assenti, del nostro prendere un surrogato, la voce, l’immagine, la mail scritta per la presenza tutta intera 10. Questa nostra singolarità, che è una delle conseguenze della scrittura (non dimentichiamolo), fa di noi degli evocatori di presenza e quindi di fantasmi di presenze vere. Noi dobbiamo «credere» per fede che nella voce di una persona che sentiamo per telefono e che non sappiamo situare nello spazio (dov’è questa voce? È accanto a me o altrove?) ci sia la presenza fisica tutta intera. Questo provoca un numero impressionante di «malintesi» ma anche uno «sfibramento» effettivo delle nostre relazioni. Un amore, un’amicizia, gestita per telefono o su Skype, o su chat somiglia a una specie di «messa in attesa». Ogni telecomunicazione è un «hold», un tenere in attesa, nel senso che essa «mantiene la relazione» in attesa che questa diventi fisica, compresenza. Nella presenza come surrogato c’è la nostra maledizione perché questo «hold» ci rimanda alla nostra solitudine, ci priva dei corpi delle amiche e degli amici e del corpo, ed è una caratteristica tipica della civiltà contemporanea, il rimandare la vita vera, il fare di tutto per «registrarla» e poterla vivere piú tardi. Questo surrogato non è nulla di diverso dal desiderio traslato di cui parla René Girard, è l’incapacità di vivere in prima battuta, ma solo indirettamente. Nel trattare «i surrogati di presenza» notavo che tutte le nostre teletecnologie sono affette da una nostalgia permanente, da un «delay». La promessa di realtà che contengono ne trasforma l’ambito in un’ansia di futuro che nega al presente ogni valore. Facebook e tutte le piattaforme social che vi somigliano sono un vero pericolo per la democrazia, perché ne trattano il materiale piú prezioso come

se fosse qualcosa di puramente mercificabile. Se dei legami sociali si fa commercio, allora essi perdono qualunque autenticità e consistenza. Non si può credere in amicizie «pagate», non ci si può fidare di amicizie che si fanno usare da terzi per altri scopi. Qui c’è una chiave del futuro lavoro sulle nostre democrazie che va assolutamente affrontata. Come le nostre culture sono arrivate a rifiutare i matrimoni «arrangiati», matrimoni il cui scopo è puramente patrimoniale o di alleanza fra terze persone, clan, genitori, casate, cosí dobbiamo arrivare a rifiutare ogni uso improprio dell’amicizia da parte di terzi, soprattutto se questi terzi sono soggetti commerciali, finanziari, informatici e oggi, come non mai, politici (non è un caso che questo sia il nuovo lavoro dei servizi segreti e delle agenzie che fanno della rete la propria politica). La cosa grave è che la rivoluzione informatica ha preso una strada che le abbiamo consentito: quella dello sfruttamento della socialità informale 11. Con la scusa di essere «friendly» ha occupato lo spazio tra noi e i nostri amici. Non glielo dobbiamo piú permettere, non ce lo possiamo piú permettere. La socialità è quanto di piú prezioso abbiamo, è l’autopoiesi sociale che crea tessuto, cultura, futuro, e quindi l’unica vera democrazia che non è fatta di «friends» ma di amici che verificano nella propria vita vera – tra di loro, in maniera non mediata – l’onestà che li lega. 1. ARISTOTELE , Etica nicomachea, trad., intr. e note di C. Natali, Laterza, Roma 1999, pp. 327 e 319-21. 2. D . MILLER , «You Have 0 Friends», commento alla puntata di aprile 2010 (378) di South Park, in ID ., The ideology of friendship in the era of Facebook, Creative Commons, ISSN 2049-1115, http://dx.doi.org/10.14318/hau7.1.025 3. M . SAHLINS , La parentela. Cos’è e cosa non è [2013], Elèuthera, Milano 2014. 4. J . DERRIDA , Politiche dell’amicizia [1994], Raffaello Cortina, Milano 1995. 5. R . GIRARD , Menzogna romantica e verità romanzesca, le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita [1961], Bompiani, Milano 1965. 6. F . DOSTOEVSKIJ , L’eterno marito [1870], trad. di C. Coïsson, Einaudi, Torino 2016. 7. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 327. 8. DERRIDA , Politiche dell’amicizia cit., p. 261. 9. Ibid., p. 262. 10. F . LA CECLA, Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana, Bebert, Bologna 2015. 11. S . VAIDHYANATHAN , Antisocial Media. How Facebook Disconnects Us and Undermines

Democracy, Oxford University Press, Oxford 2018.

L’amicizia si basa sulla sua revocabilità

Nel servire il signore, la meschinità porta alla disgrazia; nei rapporti di amicizia porta all’allontanamento. CONFUCIO 1.

L’amicizia è sostenuta dalla sua potenziale rottura. Essa ne è sostanziata, si dà solo come qualcosa che possa essere revocabile in ogni momento. Questo ne è il paradosso fondamentale. Se non sono libero di smettere di essere amico non sono piú amico. Se chi mi è amico è trattenuto dal revocare la sua amicizia da qualcosa che le è estraneo, un interesse, una paura, uno scrupolo, allora vuol dire che l’ambito in cui essa viveva non c’è piú. L’amicizia è un legame che si basa sul suo possibile tradimento. La sua autenticità sta proprio nel non dare alcuna garanzia di continuità che sia al di fuori di essa. In ogni amicizia è sospesa la possibilità del tradimento. La revocabilità ne sostanzia l’esistenza. Non si insiste mai abbastanza su questo punto. Per quanto l’amicizia sia sotto il segno della reciprocità, la garanzia che essa permanga è che quest’azione non sia mai eterodiretta. Non si è amici se ci si sente in dovere di esserlo. E anche gli obblighi che essa può comportare non possono mai essere considerati alla stregua di diritti e doveri reciproci. Cos’è la revocabilità? È qualcosa molto poco formalizzabile e istituzionale. Non si rescinde con un atto pubblico un’amicizia, essa semplicemente si attenua, si trasforma in semplice conoscenza, si «raffredda». Essa è «mitigabile», può essere attenuata, il piú delle volte non coscientemente, «accade». Oppure la fine di un’amicizia può essere dovuta alla fine delle condizioni che l’avevano accesa, il cambiamento di gusto, la differenza dovuta alle abitudini, la mancanza di lealtà (la lealtà è la condizione del proseguimento dell’amicizia, la dimostrazione che essa non si basa su interessi esterni), un’offesa che infrange l’accordo non scritto per cui gli amici pensavano di essere all’unisono. Se uno rimane uguale a se stesso, e l’altro diviene migliore e molto superiore per virtú,

il primo dovrà considerare amico il secondo, oppure ciò non è piú possibile? Ciò diviene piú evidente nei casi in cui la differenza è grande, come tra gli amici d’infanzia, infatti se uno rimane immaturo intellettualmente, e l’altro diviene un uomo superiore, come potranno essere ancora amici, se a loro non piacciono le stesse cose, né si rallegrano né addolorano per le stesse cose? Non avranno nemmeno gli stessi sentimenti di piacere o di dolore nei rapporti reciproci e senza di questo non è possibile vivere insieme 2.

Chi non ha vissuto la fine di un’amicizia? E non ne ha sentito l’irreparabile dolore, ma allo stesso tempo la necessità? Era cambiato qualcosa. L’altro ci ha deluso, o siamo stati noi a deluderlo. L’amicizia può essere «tradita», secondo delle circostanze che possono o no dipendere da chi la tradisce. Spesso è il mio cambiamento come persona che tradisce l’amicizia, non un gesto o un fatto in particolare. Può succedere per restare fedeli a se stessi, nel migliore dei casi – per non perdere l’amicizia con se stessi, ma anche per distrazione, per leggerezza, per ignavia. Nell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert 3 l’amicizia giovanile tra Charles Deslauriers e Frédéric Moreau, appare, nella fase matura e già calante del loro mondo, come qualcosa di completamente andato. E ricordando l’episodio piuttosto patetico della visita a un bordello in Turchia possono solo dirsi l’un l’altro: «È la cosa migliore che ci sia accaduta!» Cicerone ricorda nel De amicitia: Spesso accade che gli interessi di due amici non coincidano piú o che le loro posizioni politiche non siano piú le stesse 4.

E Aristotele osserva [...]che le amicizie spesso soccombano quando uno dei due o entrambi si rendono conto di non essere amici nel modo che pensavano 5.

L’amicizia presuppone la sua revoca perché è un «a priori» che non può essere definito pena il suo asservimento a principî che le sono subalterni. Questo legame è tenuto in piedi solo da se stesso, è condizione di se stesso, quindi fluttuante, revocabile. Non può mai essere data per scontata. Il presumere che l’altro ti debba per forza essere amico è spesso proprio una delle cause dell’indebolimento

dell’amicizia stessa. Questo vale per la nostra costellazione «occidentale» (come vedremo piú avanti in altre culture l’amicizia viene «stipulata» in maniera tale da costituire una garanzia di continuità). In questo essa somiglia all’amore, una costellazione occidentale che presuppone l’assoluta libertà. Se non si ama liberamente non si ama, e alla fine dell’amore basta la sua interna giustificazione: «Non ti amo piú» 6 è la risposta secca a chi vorrebbe saperne il perché. Però, nella stravaganza della nostra società, a questo rapporto «assolutamente libero» su cui non devono gravare ragioni esterne, i genitori, il patrimonio, l’etnia, l’appartenenza politica o la fede religiosa, viene richiesta una «messa in scena», un atto giuridico, un pacsi, un rito, una cerimonia che «sigilli», si dice, l’amore tra due persone. Di questo «sigillo» si è fatta una bandiera di lotta e uno dei temi «politici» dell’amore nelle sue versioni Lgbt e di quante nuove identità sessuali si presentino. All’amore non basta se stesso, esso vuole nella nostra società una «ratifica sociale». Una garanzia che riconosca socialmente un legame. All’amicizia nella nostra società questo non serve, essa non vuole cerimonie né riti, anzi rifugge il sindaco come l’impiegato comunale, il prete come il rabbino, l’imam o il roshi. L’amicizia, si potrebbe dire, sa bene che qualunque proiezione in avanti del legame è di per sé qualcosa che lo mette in pericolo, facendolo diventare un vincolo. Alla società non dovrebbe interessare granché servirsi della nostra amicizia come qualcosa su cui fare conto. Sono i social, oggi, come ho detto nel capitolo precedente, a mettere a repentaglio proprio questa dimensione «imprendibile» e inutilizzabile dell’amicizia. Se sono un terzo, esterno all’amicizia tra voi due, non ho il diritto di godere dei vantaggi che derivano dal vostro legame di reciprocità. In questo senso Facebook ruba letteralmente una cosa che appartiene solo alle persone che l’hanno creata e che la tengono in vita. È un furto bell’e proprio. L’amicizia può a volte essere transitiva. A patto che io non pretenda di entrare automaticamente nel cerchio della vostra reciprocità. A me come estraneo è completamente interdetta quest’area. Introdurmi in essa significa a volte qualcosa di molto grave perché comporta il dare per scontato che una storia unica tra voi due possa essere attribuita a estranei. Non è detto che se tu sei mia amica o amico lo sarai anche degli amici e delle amiche mie. Può accadere, ed è un privilegio concesso a un terzo. L’amicizia fluttua e consente transizioni, ma ci sono regole che vanno rispettate in esse, e consistono nel

fatto che il passaggio richiede il consenso vitale di coloro che sono già amici. A noi non è consentito, come nell’epica islandese, di poter «vendere gli amici»: Temo che mio fratello Snorri abbia commerciato amici e venduto l’amicizia di Sighvatur e Sturia in cambio di quella di Kolbeinn 7.

Per noi l’espressione «amici degli amici» può significare l’annacquatura o l’inesistenza di un’amicizia traslata oppure un rapporto mafioso di condizionamento reciproco. È vero però che c’è una dimensione piú allargata dell’amicizia, che possono esistere compagnie di amiche e di amici che, come nel Decamerone, passano insieme il tempo mentre fuori infuria il male. C’è allora una circolarità che si nutre delle relazioni particolari. C’è una grande gioia delle amiche o degli amici a presentarsi come tali di fronte a persone a cui sono piú o meno legate. Come se il legame particolare tra due persone fosse sempre una sorpresa, e il manifestarlo in pubblico qualcosa che suscita l’ammirazione o l’invidia. Nel gruppo si ridefiniscono spesso i contorni delle singole amicizie. Le feste spesso hanno questo carattere, di instillare nei partecipanti una voglia piú generale di stare insieme, un godere dei benefici dell’amicizia già consolidata, uno sfiorarla per intuirne la dimensione nascosta (e i segreti che solo gli amici e le amiche di lunga data tengono per sé). E anche per i gruppi vale la questione della revoca. Spesso a festa finita si torna in una simpatica indifferenza. Per Aristotele, l’amicizia è etica di per sé e il suo frutto è l’acquisizione della sapienza. Non bisogna diventare amici, però, al fine di acquisire la sapienza. L’amicizia non può essere usata, essa è un a priori, un numero primo dell’esistenza. Ovviamente questo ci riconduce al fatto che non tutte le amicizie sono basate sull’assoluto disinteresse e sulla gratuità. Spesso finiscono quelle in cui emergono l’interesse o l’utilità ed essi vengono meno per entrambi o per uno dei due. Da queste rotture ci si rimette piú facilmente che da altre. Perché sí, a fronte della volatilità dell’amicizia, ci sono delle rotture di amicizie profonde durate anni che fanno piú male della fine di un amore. Nel Diario di Malinowski scritto alle isole Trobriand l’antropologo

polacco scrive: Sono terribilmente depresso e rattristato dal fallimento di questa amicizia che mi era essenziale. La prima reazione di ritenermi responsabile di ogni cosa predomina, e mi sento «capitis diminutio», un uomo da poco, diminuito, di infimo valore. Un amico non è solamente un valore aggiunto; c’è un fattore vettoriale: moltiplica il vostro valore individuale 8.

La rottura di un’amicizia tronca via una parte di noi, ci chiude l’accesso non solo all’amica o all’amico, ma a tutto il mondo che costei o costui portava con sé. È vita che se ne va, che ci viene negata improvvisamente. Ci fa tanto piú male, quanto piú pensavamo che quel mondo fosse diventato anche nostro, che ci potessimo muovere in esso con l’agilità regalataci da chi ce ne aveva mostrato le stanze e i giardini annessi. C’è la fine della parte di noi che somiglia all’amico, a volte irrecuperabile. A volte, a distanza di anni, si ritrova l’amico perduto in noi, in un modo, in un gesto, nel nostro sguardo, nell’accento della voce, o lo si cerca nella folla o nell’inaspettata somiglianza di un volto nuovo. Tra le cause di rottura, «i fatti della vita». L’amico con cui ci confidavamo le avventure, le storie d’amore, si sposa o comincia una relazione stabile, e improvvisamente il suo ambito di confidenza viene troncato. La sua intimità diventa estranea, proprio perché essa copre un’area che adesso egli o ella condivide in esclusiva con qualcun altro. È l’esperienza tipica della fine delle amicizie giovanili, il sentirsi traditi dal cambiamento che l’altro o l’altra ha fatto. Non che quell’ambito non ci sia ancora potenzialmente, ma esso è entrato in una zona sospesa, buia. A volte, a distanza di anni, amici e amiche tornano perché le loro storie sono finite, perché un matrimonio è andato a pezzi. E l’amicizia si riattiva in quella zona che era rimasta sospesa. C’è in questo, nella nostra società, uno strano malfunzionamento. Come se gli amori fossero ancora concepiti gerarchicamente come coronamento di un’affettività che vede nell’amicizia solo una fase «immatura». Salvo poi ritrovarla alla caduta delle illusioni, alla curva delle separazioni o di fronte a un altro tipo di rottura. Tra le cause di rottura i cambiamenti di «censo». Uno dei due arricchisce e il suo mondo mette in imbarazzo il modo di chi è rimasto modesto o semplicemente di chi non pensava di dover arricchire. L’imbarazzo è anche

dell’arricchito e rimanda al fatto che forse l’eguaglianza è uno dei requisiti dell’amicizia. Non è essenziale, si può essere amici di gente piú potente di noi e piú nota, piú affermata, ma in genere la condizione comune aiuta parecchio. C’è una solidarietà nei confronti delle difficoltà della vita che rende l’amicizia un’avventura. Essa finisce quando uno dei due si è «messo in salvo» in un buon conto corrente. La contiguità, la coabitazione, il condividere uno spazio comune presuppone una «condizione comune». I ricchi o gli arricchiti possono fare finta di essere ancora amici dei loro amici meno ricchi o poveri, sanno bene però che il loro atteggiamento somiglia piú alla munificenza o alla magnanimità e che queste due qualità non c’entrano con la natura dell’amicizia stessa. Perché essa duri è necessario che ci sentiamo davvero su una stessa barca. Se tu ne sei sceso e mi guardi da lí io smetto di pensarti come una parte di me. I potenti, evidentemente, si servono di specie distinte di amici, alcuni sono loro utili e altri piacevoli, ma quasi mai gli stessi hanno entrambi i ruoli, infatti i potenti non cercano persone insieme piacevoli e virtuose, né utili a compiere belle azioni, ma si rivolgono alle persone argute e spiritose, quando vanno in cerca del piacere, o si rivolgono ad altri, abili a compiere quanto gli viene ordinato e tali qualità quasi mai si trovano riunite nella stessa persona. Abbiamo detto, certo, che l’uomo eccellente è insieme piacevole e utile, ma essendo tale non è amico di chi è piú potente, tranne nel caso che costui sia superiore anche in virtú; se non, essendo lui inferiore, non si realizza un rapporto proporzionale adeguato. E non è affatto comune che i potenti siano superiori in virtú 9.

Nella nostra società è difficile che questo tipo di «rottura» venga piú evidenziata, come se un supposto «stare al mondo» presupponesse non dire mai ai nostri amici arricchiti quanto sono diventati diversi da noi. Poi c’è la possibilità del recupero. Che cosa magnifica il ritorno degli amici, delle amiche! Il ritorno vero, non quello segnato da chi dopo anni vi chiede l’amicizia su Facebook convinto che questo basti a riagganciare un rapporto (un altro dei disastri di questa nefandezza). L’amico che si fa avanti era scomparso nel rancore, nel silenzio, pensavate avesse finito per odiarvi e invece vi viveva parallelamente, sapendo di voi come voi sapevate di lui. Un miracolo magnifico e quello che ne ritorna: mondi, prospettive. La cosa piú impressionante è che vi viene restituita una parte di voi che solo lei o lui aveva e che vi accorgete non era irrilevante. Ci sono cose che capite solo

adesso di voi perché un amico di ritorno ve le ha restituite. 1. LEYS (a cura di), I detti di Confucio cit., p. 53. 2. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 36. 3. G . FLAUBERT , L’educazione sentimentale (1869), trad. di G. Raboni, Garzanti, Milano 2005. 4. M . T . CICERONE , Laelius de amicitia - Lelio, l’amicizia [44 a.C.], trad. di N. Flocchini, Mursia, Milano 1991. 5. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 369. 6. F . LA CECLA, Lasciarsi. I rituali dell’abbandono nell’era dei social network, Elèuthera, Milano 2014. 7. P . DURRENBERGER e G . PÀLSSON , The importance of friendship in the absence of states. According to Iceland sagas, in DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit., p. 59. 8. B . MALINOWSKI , Giornale di un antropologo [1967], Armando, Roma 1999, p. 30. 9. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 329.

La politica dell’amicizia

In materia di prestiti, di assistenza nel lavoro, di socializzazione, l’amicizia gioca una parte funzionale altrettanto importante quanto la pura parentela, che da sola implica il piú delle volte diritti e doveri spesso meno vitali di quelli prodotti dall’amicizia. J . GILLIN 1.

Come si è detto, ogni amicizia si basa su una comunità, ma forse si potrebbero escludere l’amicizia tra parenti e quella tra i membri di una compagnia, invece le amicizie tra i cittadini, i membri della tribú, i compagni di navigazioni e simili sembrano essere principalmente di tipo comunitario, dato che evidentemente si basano su una sorta di accordo. Nello stesso gruppo si potrebbe porre anche quella verso gli ospiti stranieri. Il proverbio «le cose degli amici sono comuni» è corretto, l’amicizia consiste nella comunità. ARISTOTELE 2.

L’amicizia non è un’istituzione, non si basa su regole scritte e codificate, non può essere data «per acquisita». È fuori dalla legge perché è la zona di carne viva che la precede ma non la presuppone. Ha sempre carattere di «eccezione». Sulla sua eccezionalità, però, si è costruita la storia delle nostre democrazie. Essa sfugge al legame di parentela, di «sangue» ma anche al legame identitario, di clan, di etnia, di classe, di censo. È una costellazione che ha piú a che fare con il gusto comune, con la possibilità di costruire «una zona a parte», con l’aleatorietà e la non formalizzazione dei rapporti. Che questo tipo di legame abbia costituito per il mondo greco da un certo momento in poi il modello del rapporto tra i cittadini dev’essere ancora fonte di stupore. Come osserva argutamente il filosofo Giuseppe Girgenti, «i Greci avevano un problema effettivo con la parentela» 3. Non è un caso che la tragedia greca sia fittamente punteggiata di situazioni drammatiche nelle relazioni tra padre e figli, figli e madre, figlie e madre, ma anche moglie e marito. E tutta la mitologia greca non è certamente un esempio di «sacra famiglia» né di relazioni di parentela modello, con Kronos che divora i suoi figli, con Zeus seduttore e Atena gelosa: è tutto un pullulare di eccezioni

piuttosto che di regole. E la stessa politica di Pericle nei confronti delle famiglie aristocratiche di Atene è una critica all’inalienabilità dei rapporti di parentela. Vale la pena qui di accennare al lavoro di una storica francese, Nicole Loreaux 4 sulla stasis, cioè sulla guerra civile nella polis. È interessante che l’amicizia tra cittadini nell’Atene del V secolo a.C. non escluda la guerra civile perché essa fa parte della «rottura» che l’amicizia presuppone (la revoca anche qui). La guerra civile mette a repentaglio la vita della polis, ma chi non vi partecipa è cacciato dalla città, ostracizzato. La stasis è una guerra fratricida. Essa però deve concludersi con un nuovo patto che preveda l’oblio della guerra stessa e il ritorno a una condizione amicale. Essendo l’amicizia un’istituzione anti-istituzionale. è estremamente rischioso affidare a essa le basi della città e della democrazia. Si esercita nella scelta, nel legame che non è mai dato, ma è eletto. Per questo può essere rescisso. La cosa impressionante è che, a distanza di duemilacinquecento anni, di essa non «si possa fare nulla» di istituzionale eppure vi sia contenuto il fondamento della libera scelta di convivenza tra i cittadini. Per primi gli Ateniesi intorno al V secolo a. C. trasformarono l’amicizia, di cui già Omero ed Esiodo parlavano, in qualcosa che atteneva direttamente al bene pubblico. L’amicizia come elezione tra persone libere per costituire una città libera. Ancora Jacques Derrida su Aristotele: L’amicizia sarebbe originariamente e da parte a parte politica. Non è ciò che è confermato dal libro III della Politica? Non si sottolinea che tutto ciò che accade nella polis è «opera dell’amicizia»? che la scelta deliberata del vivere assieme è l’amicizia stessa? Vivere assieme, coabitare nello stesso luogo, contrarvi matrimonio o partecipare alla vita della fratria, praticare sacrifici, etc., tutto questo definisce la polis. […]. Il telos dello Stato è il «vivere-bene» e il vivere-bene corrisponde alla positività di un vivere assieme. Non è niente di meno che l’amicizia in generale. La polis non si costituisce nella dispersione o nella separazione, né ci si raccoglie in un luogo col semplice fine di rispondere reattivamente alle ingiustizie, o per limitarsi ad assicurare gli scambi. Le è necessario il progetto finale di una comunità del vivere-bene per famiglie, case, filiazioni. E ciò in vista di una vita perfetta e autarchica. La forza e il movimento di questo legame sociale come legame politico, il telos che ne assicura l’origine al pari del fine, è appunto la

philia. Essa sembra dunque politica da parte a parte. La sua forza di collegamento o di attrazione lega lo Stato (la città, la polis) alla fratria (famiglia, generazione, filiazione, fraternità in generale) e contemporaneamente al luogo 5.

Questa relazione tra lo stare in un luogo e l’amicizia è oggi quanto mai attuale. Avere reso astratte le caratteristiche della cittadinanza ci ha allontanato dal suo senso di accordo tra contigui, un accordo che non può essere neutro. Il fine di questo vivere insieme è un vivere bene in un luogo. Questo è il senso dell’insediarsi, del fondare città, del farle vivere. Se si smarrisce quest’idea di finalità amicale non si capisce nulla oggi del senso dell’essere cittadini. Che non è una questione di diritti – e doveri – ma di condivisione di un progetto di convivenza, e questo vale sia per coloro che già «sono» in un luogo che per i nuovi arrivati. La condizione dell’accoglienza degli immigrati dovrebbe essere un accordo reciproco, il costruire insieme una buona convivenza. La stessa amicizia però non è soggetta alla politica, ma la precede, ne è condizione. Ancora Aristotele: Tra gli amici non c’è nessun bisogno di giustizia, mentre i giusti hanno ancora bisogno dell’amicizia, e il culmine della giustizia è considerato un sentimento vicino all’amicizia 6.

È quello che sosteneva anche Montaigne: non può esserci un’identificazione totale tra giustizia e amicizia e tra politica e amicizia. Montaigne cita l’esempio del segreto tra amici, che non può essere rivelato anche se in certe circostanze sarebbe giusto. Se uno affidasse al vostro silenzio una cosa che all’altro fosse utile sapere, come ve la cavereste? L’unica e suprema amicizia esclude tutti gli altri obblighi. Il segreto che ho giurato di non svelare a nessuno, posso, senza spergiuro, comunicarlo a chi non è un altro: è me 7.

Interrogarsi oggi sull’amicizia significa comprendere come siamo arrivati dove ci troviamo, garantendole un ruolo che la lascia nella sua indefinitezza, ma che è costitutivo della nostra maniera «moderna», «laica», attuale di stare insieme. Se c’è qualcosa che definisce le nostre società democratiche oggi è

proprio il contrapporsi ad altre in cui il legame è costituito da ruoli, gerarchie e alleanze predeterminate: da clan, famiglie, tribú, vincoli matrimoniali e parentali. Quello che sostanzia le moderne democrazie è che l’amicizia ne è il campo costituente, proprio perché precede ed è la condizione sine qua non del legame libero tra cittadini. La Grecia, l’Occidente che a essa si ispira non sono stati l’unico mondo che ha riflettuto sull’amicizia come base della convivenza civile. Quando il gesuita Matteo Ricci si trova già da parecchi anni in Cina (vi è entrato nel 1583), accettato finalmente come un grande saggio che apporta al Celeste Impero la sua esperienza di uomo dell’Occidente, si rende anche conto che l’opera di evangelizzazione dell’immenso Paese è quasi impossibile. Non per la sua vastità, ma per la «completezza» di esso, perché come all’Imperatore cosí al suo Impero nulla manca e di nulla ha bisogno. Allora comprende che l’unico modo che ha di «entrare» in esso è a partire da una dissertazione sull’amicizia 8. L’attenzione dei mandarini è tutta al «funzionamento» armonico della società. Per i valori confuciani l’amicizia è la base su cui si può appoggiare la politica. Secondo l’etica confuciana, che al tempo in cui Matteo Ricci viveva in Cina ne permeava l’intera società, la gente impara ad amare l’umanità non in generale, ma attraverso una particolare espressione dell’etica quotidiana. Nel coltivare quelle relazioni profonde, intrinseche che costituiscono la condizione iniziale di ciascuno e che ne collocano la traiettoria vitale all’interno della famiglia, della comunità e del cosmo una persona diventa esperta nella conduzione (ren: ). È un concetto chiave del confucianesimo che si basa sulla preoccupazione per le relazioni umane e per i ruoli all’interno di esse. Etimologicamente, il carattere consiste di due componenti: la radice per «gente» ( ) a sinistra e il numero due ( ) a destra. Insieme il carattere si riferisce alla relazione tra due persone. Ren è il legame d’affetto tra due persone e quindi significa due persone insieme 9. Questa enfasi sui legami tra le persone riguarda l’importanza delle relazioni familiari, quelle di sangue, ma anche, per estensione, quelle amicali. In un certo senso la nozione di amicizia nella cultura cinese è simile a quella del termine greco philia, che significa uno stato di vicinanza e di «essere caro a qualcuno» o di «avere caro qualcuno» 10, per virtú di sangue, letteralmente o simbolicamente. Nella cultura cinese c’è inoltre l’idea non solo della coscienza di questa relazione, ma dell’importanza della cura quotidiana di

essa. Nella prefazione dell’amico cinese di Matteo Ricci, Feng Yingjing, uno scrittore della dinastia Ming, al libro sull’amicizia, viene detto: Gli uccelli si riuniscono in amicizia per cantare e gli uomini hanno amici per vivere 11.

Questi per Confucio erano: l’amore tra padri e figli, la correttezza tra i governanti e i loro sudditi, il rispetto tra i fratelli maggiori e quelli minori, la differenza tra mariti e mogli e la fiducia tra amici. Matteo Ricci, per inserirsi in questo contesto, si serve di un ritorno al mondo classico latino e greco, e lo fa con un duplice intento. Il primo è utilizzare il tema dell’amicizia come ponte tra un mondo pagano e un mondo cristiano (con Epitteto), il secondo è far capire alla società che lo accoglie che egli nutre le stesse preoccupazioni che stanno alla base del Celeste Impero, le regole della convivenza e del buon dominio. Afferma: La relazione tra amici è piú intima di quella che c’è tra tra fratelli: perciò gli amici si chiamano tra loro «fratelli» e i piú intimi tra i fratelli sono «amici» [...]. Ragion d’essere dell’amicizia sono il bisogno reciproco e il mutuo aiuto [...]. Una nazione può stare senza tesoro, ma non può stare senza amici [...] 12.

Al mondo cinese interessa quello che scrive Matteo Ricci perché è una società estremamente attenta e preoccupata della «tenuta» della società stessa. Per i cinesi intorno a Ricci, la questione principale è quella della politica, intesa come coesione, buon governo, buona relazione tra i sudditi e con il governo. L’etica confuciana è immanente, si preoccupa anzitutto del benessere del Celeste Impero, conscia che l’equilibrio su cui esso si basa è costantemente in pericolo. La cosa interessante è che anch’essa fa dipendere la buona politica dall’amicizia e non viceversa. Cioè da un legame che non può essere stabilito, né garantito. Negli stessi anni Montaigne scrive di amicizia, a partire dall’amicizia «perfetta» tra lui e lo scomparso La Boétie. Quell’amicizia che abbiamo nutrito tra di noi, finché Dio ha voluto, cosí completa e perfetta che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile e, fra i nostri contemporanei, non se ne trova traccia alcuna. Per costruirne di simili è necessario il concorso di tante

cose che è già molto se la fortuna ci arriva una volta ogni tre secoli. Non c’è nulla a cui sembra che la natura ci abbia indirizzato come alla società. E Aristotele dice che i buoni legislatori hanno avuto piú cura dell’amicizia che della giustizia 13.

Montaigne per sottolineare la precedenza dell’amicizia sulla giustizia afferma qualcosa di apparentemente singolare: «Se gli uomini fossero virtuosi, non avrebbero amici». Come se l’amicizia fosse un fenomeno singolare dell’essere umano, legato alla «ingiusta» scelta, molto poco egualitaria, di un altro essere umano tra molti. Una forma di ingiustizia che va contro l’idea di uguaglianza e reciprocità. Perché ci sia un dono vero, non deve sussistere reciprocità, ritorno, scambio, controdono, debito. Se l’altro mi dà indietro o mi deve qualcosa, o mi deve restituire quello che le o gli ho dato, non si tratta di un dono [...]. Se vuoi essere giusto non c’è spazio per l’amicizia: tutto diventa dare e avere, o dare e restituire, il che è disgustoso 14.

Torniamo alla premessa di questo libro: che esamina l’amicizia a partire da ciò che essa è diventata nelle nostre società – una «non istituzione» – ma a tal punto fondante da essere in procinto di sostituire oggi altri legami e altri leganti del tessuto sociale. C’è qui la nostra differenza «occidentale» rispetto ad altre società. La «caduta» dei legami di parentela rispetto ai legami scelti è sicuramente un fenomeno che riguarda noi da vicino. Si tratta di un orizzonte che deriva dall’impostazione politica delle nostre società, ma anche da un’effettiva trasformazione endogena del senso dei legami in essa. Probabilmente è questo che rende le nostre democrazie particolarmente fragili perché soggette alle fluttuazioni dell’amicizia, e a quelle dell’inimicizia travestita sotto forma di competizione o di sottomissione dell’altro. L’inimicizia è una costellazione che spesso nasce dalla gemmazione dell’amicizia stessa, come vedremo in un prossimo capitolo. Certo, la nostra società sottolinea in maniera radicale la solitudine della scelta, il fatto che i rapporti siano frutto di una scelta libera o di una revoca libera. E questo la differenzia da altre dove politicamente il ruolo della parentela, dell’appartenenza etnica o di clan gioca come elemento fondante, assicurazione che la società sia costituita da gente che non sfugga ai doveri

della reciprocità. In questo senso, come vedremo, il fatto che la «reciprocità» sia una questione di sentimenti e non di «fatti», diritti, doveri piú o meno permanenti differenzia molte società rispetto alla nostra. Diciamo che l’amicizia nelle nostre società si è alleggerita in maniera speciale da ogni pretesa della «giustizia» nei suoi confronti. Va ricordato che questo è un vantaggio da certi punti di vista perché costituisce una zona «elastica» della morale quotidiana. L’amicizia come potenziale legame di convivenza di molte persone nello stesso luogo dà luogo a delle regole quotidiane di convivenza che non hanno a che fare con la «legge», ma molto di piú con regole di buon comportamento quotidiano. Siamo nella zona del prepolitico, una dimensione importantissima – si pensi oggi all’accento sul «comune», sugli spazi e le pratiche che vanno difese da ogni pretesa di «governo» nei loro confronti. Come abbiamo raccontato in un libro sull’argomento Piero Zanini e io 15, c’è una sfera molto duttile che costituisce un legame tra le persone che vivono in uno stesso luogo, fatta di abitudini e gesti comuni, di evitazioni e di regole per «non pestarsi i piedi l’un l’altro». L’amicizia nelle nostre società (e in altre) fa parte di una zona malleabile e vaga, ma importante perché «fa» società, ne produce i legami prima ancora che questi portino a delle regole. Se parliamo della nostra società dobbiamo ovviamente riferirci a qualcosa di piú recente di Aristotele o Montaigne, a quelle idee della Rivoluzione francese alla base di molte nostre democrazie (che, vedremo in un capitolo piú avanti, sono state preparate nei salons parigini del Seicento e Settecento). Si pensi alla trilogia «liberté, egalité, fraternité» e in particolare alla «fraternité» come un valore mutuato dalla tradizione giudaico-cristiana, ma affermato laicamente come legante «emozionale» – quindi fluttuante e liberamente autodefinentesi – di una società che punta all’eguaglianza e alla libertà. Anzi, proprio la libertà è connessa con il fluttuare libero della fraternità, che non è un dovere, ma è proposta come uno dei fondamenti «naturali» (con tutta la problematica che ne consegue) della società. L’universalismo dei diritti umani qui tocca un punto cruciale. Non può esserci eguaglianza se non nello sviluppo della tendenza naturale degli uomini e delle donne a stabilire una reciprocità «appassionata». La fraternità non è un fine da perseguire come l’uguaglianza, ma ne è il presupposto. Se la fraternità si sviluppa, allora c’è il «clima» adatto alla libertà e all’uguaglianza.

L’illuminismo pone come universalismo la fraternità dando un colpo forte all’aspetto religioso di essa, ma in realtà facendosene erede in maniera diretta e fedele. Non è un caso che nello sviluppo del dibattito politico dei secoli che sono venuti dopo sia stata proprio la fraternità a essere ignorata perché essa non rientra nel campo dei «cambiamenti» e delle «riforme» che bisogna imporre alla società. La fraternità, si può dire, è data, come sostanza della natura del contratto sociale, ne è la libera garanzia. È molto importante riprendere oggi questo dibattito che fa dell’Occidente, in effetti, un produttore di tesi universalistiche. Come vedremo piú avanti anche in società diverse dalla nostra c’è una cosmologia dell’amicizia. L’antropologia sta negli ultimi anni scavando sulle capacità delle società di costruirsi sulla reciprocità. Torniamo alla nostra società. Come porsi oggi di fronte alla fragilità di questo legame e però alla sua natura politica? È possibile davvero credere ancora nell’amicizia come base della tenuta della democrazia? Essa è minacciata in ogni momento dalle intenzioni autoritarie, anche se travestite da social, o dai nuovi padroni, multinazionali, finanziarie e nuove destre o sinistre populiste e autoritarie. È possibile difendere la società, volendo riprendere un’espressione cara a Foucault? Come fare quando l’istanza di reciprocità e di uguaglianza che sostanzia il diritto degli individui a costruire i legami di una società è cosí in pericolo? Probabilmente abbiamo bisogno di renderci conto che la sfera dell’amicizia è fragile, ma resiste, e che certamente abbiamo bisogno di inventarci un modo di proteggerla da intrusioni. È lo spazio, la «sfera del «prepolitico» che va difesa da chi vorrebbe governarla o eliminarla. Qui non si tratta di «riformare» la società, ma di garantirne la libera autopoiesi, l’imprevedibile proporsi e riproporsi laddove essa non è soffocata da prescrizioni e proscrizioni. È quanto a me ha insegnato la frequentazione con Ivan Illich e con il suo pensiero. La «convivialità» 16 è la sfera del prepolitico che va garantita, ma questo implica una considerazione prepolitica. Quando Illich recupera negli anni Settanta, molto prima della radical left di ispirazione negriana, la fenomenologia storica dei «commons», degli usi civici, delle terre collettive o del lavoro collettivo, tenta anche di salvare questa sfera dall’uso che il capitalismo fa oggi come non mai del «settore informale» 17. La società va difesa da ogni pretesa di uso della sua parte vitale e Illich pensava che questo richiedesse un ripensamento della legge e del diritto. La sua «convivialità»

significava non un’ingenua pretesa di «spontaneità», ma una democrazia basata sulla garanzia di spazi di autonomia del sociale stesso. Per questo alla fine della vita Illich era tornato a riflettere sulla storia dell’ospitalità e sull’amicizia come arte di vivere 18. C’è qualcosa da aggiungere a questo capitolo. Si tratta del passaggio dall’amicizia tra due individui all’amicizia tra piú persone. È qui il nodo della politica. Perché nella frase attribuita ad Aristotele, «Amici, non ci sono amici», c’è insito non solo il dubbio rispetto alla tenuta dell’amicizia e al numero possibile di amici, ma l’idea che non sia cosí facile passare dai due ai piú. La pluralità è l’ideale della polis, di una città retta da cittadini amici, ma è davvero possibile esserlo in tanti? Entra qui in ballo la proprietà transitiva, l’amicizia come contagio, come «grappoli» di esseri che si sentono legati. La «moltitudine», le «masse» sembrano solo un insulto rispetto a quest’idea. Forse non basta la solidarietà di classe, forse non basta avere «lo stesso nemico» per essere amici (eppure quest’illusione – oggi diremmo sovranista – ancora ci turlupina con buona pace di Carl Schmitt). Per essere amici in tanti ci vuole l’idea che si possa vivere bene insieme in un luogo, direbbe Aristotele. Ci vuole un senso di cura per noi stessi, per chi ci circonda e per i luoghi dove viviamo. Il contrario forse dell’odio di classe o di nazione. Dobbiamo praticare dunque il contagio dell’amicizia fidandoci della sua misteriosa influenza non solo sulle persone ma sui luoghi di cui prenderci cura. 1. J . GILLIN , The Barama River Caribs of British Guiana [1936], Peabody Museum of American Archaeology and Ethnology, Cambridge (Mass.) 1975, p. 51. 2. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., pp. 344 e 335-37. 3. G . GIRGENTI , Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova 2011. 4. N . LOREAUX , La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene [1997], Neri Pozza, Milano 2015. 5. DERRIDA , Politiche dell’amicizia cit., p. 232. 6. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 313. 7. MONTAIGNE , Saggi cit., p. 219. 8. M . RICCI , Dell’Amicizia [1595], a cura di F. Mignini, Quodlibet, Roma 1997. 9. PING WANG, The chinese concept of Friendship cit. 10. E . BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società

[1969], Einaudi, Torino 1976, p. 257. 11. RICCI , Dell’Amicizia cit., p. 57. 12. Ibid., pp. 65, 75 e 89. 13. MONTAIGNE , Saggi cit., pp. 219-20. 14. Ibid., pp. 58 e 59. 15. F . LA CECLA e P . ZANINI , Una morale per la vita di tutti i giorni, Elèuthera, Milano 2012. 16. I . ILLICH , La convivialità [1973], Red Studio, Milano 2018. 17. ID ., Lavoro-ombra [1980], Mondadori, Milano 1985, e ID ., La perdita dei sensi [2002], Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009. Vedi anche F . LA CECLA, Ivan Illich o l’arte di vivere, Elèuthera, Milano 2018. 18. I . ILLICH e J . BROWN , We the People, KPFA (radio), Berkeley, 22 marzo 1996.

Inimicizia

La migliore amica ha infranto il patto L’amica inutile, l’amica che non vale Non sarò piú una sorella maggiore Non prenderò piú una sorellina. Una donna hausa nigeriana 1. L’amicizia tra noi non si fondava solo sul fatto di avere gli stessi nemici. Jacques Derrida su Deleuze 2.

All’età di 24 anni, un giovane antropologo brasiliano, Carlos Fausto, si imbarca per il suo primo «campo». Dopo un viaggio di tre giorni sul fiume Xingu, arriva dalle parti di un villaggio parakanã. Non sa la lingua degli indigeni e s’installa nell’infermeria gestita dalla Funai, l’agenzia governativa che si dovrebbe occupare dei loro interessi. I Parakanã lo trattano con indifferenza. Passano i giorni, Carlos non è né un buon cacciatore né un buon pescatore, lentamente parla con gli indigeni e trascrive quello che gli dicono. È però veloce nell’apprendere, i Parakanã si stupiscono che impari cosí in fretta e danno il merito al block notes su cui trascrive strani segni. Passano i mesi ed è sempre piú benvenuto. Ma ha bisogno di amici. Come ogni antropologo solitario sul campo cercavo amici, e la mia concezione personale di amicizia era chiara (a me). Era basata su un concetto di amicizia come un legame affettuoso, mutuo, intimo e leale tra due o piú persone che non dipenda dal fare parte di un gruppo di solidarietà tra nativi, come una famiglia, una tribú, o un’altra affiliazione del genere. Per me l’amicizia era un’acquisizione, non qualcosa di già dato: un legame che implica generosità, intimità e fiducia reciproca. Anche se, come dice il proverbio, «i regali fanno amici», ma una reciprocità obbligatoria per me non faceva parte del concetto di amicizia. Un amico è un alter ego di qualche sorta, una versione esteriorizzata di noi stessi, qualcuno da cui ci si aspetta una prossimità e una franchezza che abbiamo solo con noi stessi (o che immaginavamo di avere fino a Freud). Quando diciamo «amicizia formale o rituale» passiamo da connotazioni quali spontaneità, gratuità e libera scelta all’opposto, a un legame istituzionalizzato e obbligatorio. Relazioni di questo tipo sono molto comuni nell’Amazzonia indigena 3.

Carlos si occupa sempre piú di registrare e di ripetere i canti rituali del villaggio ed è invitato a partecipare agli stessi cantando e ballando. Viene piazzato il piú delle volte accanto al giovane Japokotoa, considerato uno scavezzacollo dalla tribú per avere rubato una giovane moglie a uno dei capi e averla messa incinta. Questi è tenuto dal villaggio in una posizione di «prova». La prossimità rituale con Japokotoa fa sí che Carlos diventi «pajè», suo amico rituale. Nei mesi che seguono, ogni volta che si incontrano, Japokotoa lo guarda con uno sguardo minaccioso e allo stesso tempo un sorriso e gli ripete: «Prima o poi ti ucciderò». Carlos comincia a capire, ora che è piú addentro al significato del rito che egli stesso balla e canta come straniero, che lo stesso rito si basa sulla messa in scena dei sogni degli uomini parakanã: questi, imbevuti di spirito guerriero sognano i nemici e sognano di poterli sottomettere in una relazione cacciatore/preda che costituisce un legame di estrema prossimità. Nelle tensioni con le tribú vicine, spesso, per attenuare l’aggressività ed evitare il conflitto, si può abbracciare il nemico per suggerirgli una prossimità. Che può però diventare pericolosa. Il nemico «amicalizzato» è molto piú esposto alla possibilità di essere ucciso, ma anche di uccidere. È questa doppia figura dell’amicizia che si basa su un concetto che a noi può sfuggire, ma che è determinante per molti gruppi amazzonici. La nozione euro-americana di amicizia non implica l’alterità: tende verso la fraternità piuttosto che verso l’inimicizia. Un amico è un fratello o una sorella, un metaconsanguineo, una relazione data non dal sangue ma da un senso diffuso di identità condivisa (di gusti, valori, ambiente sociale, opinioni politiche etc.) e associata a lealtà, condivisione, confidenza, Invece l’amicizia formale non è solo differente perché è formale, ma anche per una nozione distinta di persona come entità plurale divisa tra sé e gli altri. L’amicizia amazzonica si basa sull’idea di pluralità dei sé, implicando una nozione di «agente» completamente estraneo all’idea di spontaneità ed autonomia del mondo occidentale 4.

L’amico formale è sospeso tra l’essere vicino e allo stesso tempo altro, e quindi nel contempo straniero e ospite, amico e nemico. Si avvicina all’idea di xenos o di hospes/hostes del mondo greco latino, secondo la ricostruzione di Émile Benveniste 5 per cui ospitalità e ostilità hanno una radice comune –

lo straniero va accolto, ma rimane potenziale nemico. Derrida ha inventato una parola, «ostiptalità», per parlare dell’ambiguità dell’ospitalità stessa. Fernando Santos-Granero sostiene che in Amazzonia esistono vari gradi di amicizia con «gli altri» che non sempre sono strettamente formalizzati, ad esempio tra gli indios della Guiana sono amici i partner commerciali della costa caraibica, fra gli Jivaro i potenziali alleati in una guerra intertribale, e in genere l’amicizia è una forma di allargamento geografico «utilitario» della propria sfera di rapporti 6. È quanto conferma un altro antropologo, Thomas Kiefer, che ha lavorato nelle Filippine tra i Tausug di Jolo, una tribú islamizzata nell’arcipelago di Sulu. Qui esiste una forma di amicizia istituzionalizzata che è tutta in funzione dell’aggressività nei confronti delle tribú vicine 7. Come ricorda Derrida, si può anche essere uniti in amicizia dal fatto di avere gli stessi nemici. Gli uomini Jivaro stabiliscono rapporti commerciali tra appartenenti alle tribú che parlano l’Jivaro, cioè le stesse con cui in passato hanno avuto scontri per prenderne come trofeo le teste. Si fanno visita e si scambiano doni per potere confermare questo rapporto di amicizia formale 8.

Tra i Koghi della Sierra di Santa Marta in Colombia ritroviamo il sospetto massimo nei confronti dei potenziali amici. [...] in Colombia, il Mama, il sacerdote, dichiara che il perfetto Koghi non ha amici, perché l’amicizia non esiste tra i Koghi. Ci sono uomini della sua famiglia e uomini di altre famiglie, gente dello stesso Tuxè, villaggio e gente di altri Tuxè. Lo stesso Mama chiede agli uomini Koghi di non diventare amici tra di loro perché questo può condurre all’adulterio. Se due uomini sono insieme frequentemente, si innamoreranno della moglie dell’altro e questo porterà a un conflitto 9.

Come si vede, in buona parte di questi casi si tratta di amicizia tra uomini, anche se Carlos Fausto racconta che in periodi di crisi le donne parakanã possono partecipare alla caccia agli amici nemici. Santos-Granero aggiunge: In sintesi, se i nativi dell’Amazzonia rischiano le loro vite per commerciare con il

nemico, non è solo per ottenerne beni, ma perché i beni ottenuti nello scambio costituiscono lo speciale legame che si ha con i nemici. Commerciare con il nemico implica un certo rischio, e una certa competizione e attrito soprattutto se coloro con cui si commercia non sono indigeni. Lo scambio con coloro che sono al di fuori dei confini del proprio gruppo ha poco valore intrinseco e si pensa spesso che i beni acquisiti abbiano pericolosi poteri, ma essendo simboli del coraggio o del carisma di chi commercia con i nemici, assumono la forma di capitale simbolico, un capitale che diventa prestigio e potere per chi lo possiede 10.

Gli antropologi amazzonisti hanno introdotto insomma un concetto nuovo di «amicizia» come predazione. Un amico è una potenziale preda, qualcuno con cui si stabilisce un legame pericoloso che si vorrebbe di assoggettamento, ma che può anche mutarsi nel contrario. Qui l’amicizia ha al suo interno tutta la pericolosità di un rapporto aleatorio in cui non ci sono garanzie se non quelle «stipulate». Con il nemico si ha una relazione intima. Viene da pensare per un verso alla teoria del capro espiatorio di René Girard 11, all’idea che alla radice di un patto sociale vi sia una violenza incancellabile e che postula dei sacrifici (umani). O alla teoria del nemico di Carl Schmitt come base della politica 12. Non si potrebbe avere secondo Schmitt nessun soggetto politico se non nell’unità contro un nemico. La mia impressione, legata ai dati antropologici che stanno emergendo in questi anni dal lavoro degli amazzonisti, è che qui l’amicizia mantenga tutto il potenziale dell’ambiguità, senza forse postulare una teoria hobbesiana o un discorso sull’origine mitica della violenza. Bisogna «guardarsi» dagli amici proprio perché essi ci sono «prossimi», e quindi siamo potenzialmente fragili nei loro confronti, ma allo stesso tempo non possiamo fare a meno di averne perché essi allargano l’orizzonte oltre il quale possiamo spingerci. C’è nell’amico/nemico delle società amazzoniche tutto il rischio di avere a che fare con l’estraneità, ma anche l’esotismo che vi è connesso. La guerra con l’amico/nemico è l’immagine di uno sconfinamento che corrisponde alla «territorialità nuova» che ogni amicizia comporta. Questa ambiguità intima ha sempre sconcertato gli autori classici. Cicerone si domandava come fosse possibile che un amico potesse diventare un nemico, citando una frase di Scipione che pare dicesse: «Bisognerebbe amare essendo pronti a detestare un giorno». Certo accade che un’amicizia si trasformi in un’inimicizia, che vecchi amici diventino i nemici piú acerrimi.

Proprio perché è nella natura inaspettata e gratuita dell’amicizia che si può aprire la voragine. Quello che fino al giorno prima si era dato per scontato, quella che era sembrata normale routine di un rapporto di doni reciproci, di fiducia reciproca si rompe, perché entra il sospetto che uno dei due «ci marci». Basta un niente per farci pensare di essere andati troppo in là. Proprio perché l’amicizia si basa su una scelta «ingiusta» – ci si sceglie tra tanti –, questa ingiustizia può portare al contrario. Il nemico è l’ex amico che conosce fin troppo di noi, che ci conosce nelle debolezze che gli abbiamo mostrato proprio perché lui le capiva. Il rancore che si forma nelle rotture amicali è forse uno dei veleni peggiori della vita, qualcosa che se non curato ci accompagna per rovinare il resto degli anni. Amici che stimavamo, che ammiravamo, diventano estranei che conosciamo troppo bene. Alle amicizie profonde che diventano inimicizie manca il beneficio del malinteso, quel cuscinetto che ci permette di ignorare alcune mancanze altrui e nostre. L’inimicizia non è data tra completi sconosciuti. Il nemico è, come l’amico, uno specchio di noi stessi. L’inimicizia parla di una cesura tra identità che fino a poco tempo fa non si rendevano conto della differenza che comunque esisteva tra loro. Come se l’inimicizia riconoscesse l’incolmabile divario che separa ciascuno di noi e di cui l’amicizia è un ponte magnificamente fragile e provvisorio. «Amici non ci sono amici», la frase attribuita da Diogene Laerzio ad Aristotele, e che ha riempito un intero libro di Derrida, può anche significare che alla base di ogni amicizia può esserci una potenziale inimicizia. Derrida suggerisce che si tratti di una constatazione riguardo l’impossibilità di avere molti amici o l’impossibilità dell’amicizia perfetta, o una frase pronunciata come vocativo, «O amici, non ci sono amici!», quasi una trappola verbale e una messa in prova. L’amico diventato nemico ricorda un’altra costellazione. C’è stato un momento nell’Italia accademica della fine degli anni Novanta in cui si praticava una forma di predazione proprio nei confronti degli amici. Con cinismo e crudeltà veniva perfino teorizzato lo sport di approfittare degli amici, di fare loro dei torti, di renderli subalterni alle proprie logiche di carriera. Era un mondo maschile spietato che non sapeva se non tradire l’amicizia, giustificando i tradimenti col dire «tanto tu sei amico, quindi mi capisci». Una logica al massacro che come risultato ha creato una generazione intellettuale in cui la lotta col coltello era l’unica possibilità. Ho

sempre pensato che l’amicizia non si possa dare via in cambio di altro, che come dice Aristotele «gli amici sono beni» 13 o, come sa il proverbio, «chi trova un amico trova un tesoro», ma nel mondo accademico questa era (ed è) considerata pura ingenuità. 1. M . G . SMITH , Cooperation in Hausa society, in «Information», n. 11, International Science Council, Paris 1957, pp. 1-20. 2. J . DERRIDA , Ogni volta unica, la fine del mondo [2003], Jaca Book, Milano 2005, p. 210. 3. C . FAUSTO , The friend, the enemy, and the anthropologist: hostility and hospitality among the Parakanã (Amazonia, Brazil), in «The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 18. The return to hospitality: strangers, guests, and ambiguous encounters (2012), pp. 196-209. 4. Ivi. 5. BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società cit. 6. F . SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship. Amazonian sociality beyond kinship and affinity, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 13 (2007), pp. 1-18. 7. T . M . KIEFER , Institutionalized friendship and warfare among the Tausug of Jolo, in «Ethnology», vol. 7, n. 3 (luglio 1968), pp. 225-44. 8. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 9. D . J . HRUSCHKA , Friendship, Development, Ecology and Evolution of a Relationship, University of California Press, Berkeley 2010. 10. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 11. R . GIRARD , Il capro espiatorio [1982], Adelphi, Milano 1987. 12. C . SCHMITT , Il Nomos della Terra [1950], Adelphi, Milano 1991, e ID ., Le categorie del politico [1932], il Mulino, Bologna 1972. 13. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., p. 331.

Cappellino per non antropologi

Lungi dall’essere considerate entità unitarie, le persone melanesiane sono concepite tanto come individui quanto come «dividui». Esse contengono al loro interno una società generalizzata. Di fatto, le persone sono frequentemente costruite come l’ambito composito e plurale delle relazioni che le producono. Una singola persona può essere immaginata come un microcosmo sociale. MARILYN STRATHERN 1.

Come già accennato all’inizio, nella letteratura antropologica fino a qualche tempo fa si affermava che l’amicizia fosse un tipico valore occidentale. Solo l’Occidente avrebbe sviluppato un culto dell’individuo tale da consentirgli di sottrarsi a legami tribali o religiosi e di andare verso una società in cui ognuno è libero di costituire legami provvisori o duraturi con chi vuole. È una società secolarizzata nel senso che non pensa che il legame principale sia quello etnico, comunitario, ma nemmeno l’appartenenza a un luogo e a un’identità nazionale o regionale. Quest’affermazione è vera fino a un certo punto, proprio perché l’abbondanza di nuova letteratura antropologica in questo campo ci racconta che in altre culture e società, accanto ai legami di parentela e di appartenenza a una comunità, a una religione, a un’identità d’origine vi siano quelli della pura e semplice amicizia: per dirlo in «antropologhese», la parentela, il kinship, non pervade tutto lo spazio sociale, ma in essa è possibile rintracciare la reciprocità dell’amicizia, della friendship. Tre raccolte di saggi recenti molto nutriti di ricerche sul campo, The Anthropology of Friendship, a cura di Sandra Bell e Simon Coleman; The Ways of Friendship, a cura di Amit Desai ed Evan Killick, e Friendship, Descent and Alliance in Africa, a cura di Martine Guichard, Tilo Grätz e Yousouf Diallo 2 hanno spianato il campo a un nuovo approccio e chiarito che si può parlare di amicizia anche in società in cui la parentela è un legame forte e l’identità è definita dall’appartenenza a un gruppo. Come a voler ribadire il carattere «sfuggente» e fluttuante dell’amicizia, che non ricade in definizioni e istituzioni che debbono sostanziare piú o meno stabilmente una

società. La problematica è molto interessante e il dibattito è aperto. Fernando Santos-Granero la riassume cosí: Alcuni autori sostengono che l’amicizia ha poche possibilità di fiorire in società dove la parentela (kinship) rimane forte (Bell e Coleman 1999). Seguendo Montaigne questi autori pensano che l’amicizia e la parentela costituiscano forme diverse di interazione sociale. Mettono in guardia, però, contro una distinzione troppo rigida tra parentela e amicizia. In molte società queste si sovrappongono piuttosto che opporsi. [...] In contrasto a questa idea molti antropologi insistono che laddove relazioni di amicizia si possono trovare in quasi tutte le società umane, i modelli di amicizia variano in maniera sostanziale, rendendo difficile un’unica definizione di essa 3.

Nell’Etica nicomachea Aristotele enumera vari tipi di amicizia. Tra queste la prima è l’amicizia tra familiari, che è la base sulla quale poi è costruita la convivenza tra cittadini amici. Da un certo punto di vista è quello che l’antropologia sostiene ultimamente. I legami «di sangue» sono legami di reciprocità e non legami «biologici». Un’antropologa britannica, con vasta esperienza in Malesia ma anche studi di campo in Inghilterra, Janet Karsten, definisce la parentela come una relazione in cui vengono scambiate sostanze – si potrebbe aggiungere sostanze vitali dal punto di vista materiale e simbolico, culturale 4. Marshall Sahlins ultimamente è andato piú in là definendo cosa la parentela è e cosa soprattutto non è, adducendo un’enorme quantità di materiale antropologico per raccontare come si può essere imparentati senza aver nessun legame biologico e come la parentela è per moltissimi gruppi umani definita anzitutto da una reciprocità 5. Da questo punto di vista essa è una forma di amicizia, di cui probabilmente viene sottaciuta una possibile revoca. Si rimane figli e nipoti, zii e padri, fratello e sorella anche se vengono a cadere le condizioni di reciprocità. Al fondo la questione che Sahlins pone è quella di invitare gli antropologi a guardare meno alle strutture di parentela come qualcosa di fisso e immutabile. Però il suo ragionamento sorvola su un punto fondamentale. In moltissime culture è la parentela ad assimilare l’amicizia, non il contrario. L’idea che i legami familiari siano forme di reciprocità amicali è il «nostro» punto di vista, «occidentale», ma a molte culture interessa l’opposto, quello di far diventare parenti gli amici, di allargare la parentela alla rete di persone che sono esterne alla famiglia, al clan, alla tribú, al villaggio.

Tra gli Hopi dell’American South West i rapporti anche tra individui non legati da parentela erano espressi con termini di parentela, si potevano avere 14 madri e anche gli antropologi venivano incorporati nel conto 6.

Cosí si può chiamare zia e zio chiunque cominci a frequentare assiduamente una casa, come in molti luoghi nonno e nonna, ma anche padre e madre, figli e figlie, nipoti sono coloro che siamo abituati a vedere nella vita quotidiana o con cui è importante che intratteniamo rapporti per allargare il nostro ambito di azione. Sono parenti i padrini e le madrine, i compari e le comari, ma anche coloro con cui si fa commercio. Diventano «wantok» coloro che per gli aborigeni di Papua aiutano gli indigeni di una tribú a trovare una collocazione e una forma di sopravvivenza in città. «Wantok» viene probabilmente dal pidgin «one talk», sono coloro con cui si può parlare senza timore 7. In altri casi, in Cina 8 o in Cile tra i Mapuche 9 o in India sono parenti i nati nello stesso anno e tra di loro si stipula un patto rituale che definisce pubblicamente che sono legati, sono amici che si trasformano in fratelli o sorelle. Questa caratteristica che dà ragione ad Aristotele o a Sahlins non deve però farci dimenticare che se c’è un’assimilazione dell’amicizia alla parentela è perché si tratta «culturalmente» di due entità che vengono vissute differentemente. Si potrebbe descrivere quest’uso della reciprocità come un meccanismo politico che consente nella vita quotidiana di sintonizzare i legami in modo che possano consentirci vicinanze e lontananze. Occorre non dimenticare che in molti casi è importante per un individuo o per un gruppo che appartiene a un’identità geografica potersi sottrarre a essa. L’amicizia è un modo di sottrarsi a vincoli familiari o parentali che diventano scambi obbligatori. È quello che racconta Stefano Allovio sui gruppi Medje-Mangbetu del Congo nordorientale. Questi organizzano dei rituali di circoncisione in comune con tribú circostanti (tra cui i pigmei). I bambini circoncisi mescolano il loro sangue e questo crea alleanze tra gruppi lontani, rendendo possibile scambi tra di essi e nuove strategie matrimoniali. Oggi gli stessi rituali vengono praticati in ospedale dove le circoncisioni hanno luogo 10. Ci sono culture in cui l’amicizia è di gran lunga preferita alla parentela, come accade ad esempio in Papua Nuova Guinea tra i Telefolmin.

Nonostante il sentimento di orgoglio della tribú, molto poco viene fatto per l’unità del gruppo […]. In piú, poiché le obbligazioni personali non sono definite in termini di appartenenza al gruppo o di parentela, un uomo non può contare sugli altri perché fanno parte della stessa tribú o famiglia. Piuttosto è il numero e la qualità delle amicizie che conta. Cioè, i Telefolmin non pensano in termini di parentela o non parentela, ma in termini di amici con cui c’è una lunga storia di stretta associazione ed estranei (che possono essere anche parenti) 11.

Un’antropologa americana, Robinette Kennedy, che ha lavorato alla fine degli anni Ottanta a Creta racconta che, nei paesi di montagna, le donne si sentono piú vicine alle amiche che ai loro parenti 12. Per quanto l’amicizia postuli una reciprocità, spesso lo fa in modo meno coagente, in base a un’idea della gratuità dello scambio in cui la restituzione non è per forza prevista e in parti uguali. È il tema di molte ricerche sul dono. Anche se questo dovrebbe circolare non è detto che lo faccia secondo una «giustizia» redistributiva (ed è anche quello che nel potlach, la grande festa annuale di redistribuzione dei beni, tra gli indiani dell’isola di Vancouver spesso conduceva a lunghe trattative e a volte a liti). Diciamo che l’amicizia è uno strumento duttile per potere modulare la reciprocità, ed essa si può trasformare in parentela se serve a rafforzare i vincoli che altrimenti resterebbero labili. Siamo nel dominio di quella «morale per la vita quotidiana» di cui mi sono occupato con Piero Zanini. La costituzione di reciprocità sostanzia la vita quotidiana, ma è sottoposta a una duttilità che consente a individui e gruppi di giocare con le sue diverse modulazioni. Tra amici è piú possibile muoversi liberamente che tra parenti, anche se in certe circostanze conviene assicurarsi che l’amicizia abbia caratteri duraturi. Torniamo a Marshall Sahlins e alla sua definizione di «reciprocità dell’essere» in cui rientra perfettamente l’amicizia. In breve l’idea è che la parentela sia una forma di «reciprocità dell’essere», vale a dire una relazione fra persone le cui esistenze sono intrinsecamente connesse, dalla quale derivano

«le

persone

intersoggettiva» e cosí

reciproche»,

gli

«esseri

transcorporei»,

l’«appartenenza

via 13.

Verso la fine del suo saggio Sahlins dice qualcosa che apre uno spiraglio

inaspettato sull’intero discorso: In conclusione vorrei soffermarmi sulla preziosa intuizione di Vivieros de Castro, secondo cui la parentela, lo scambio dei doni e la magia sono modalità diverse di uno stesso ordine animista. Ovvero sono tutte transazioni intersoggettive dei poteri dell’essere, che operano attraverso la mediazione tipicamente umana dell’intenzione e dell’influenza, diventando

quindi

altrettante

realizzazioni

della

«misteriosa

efficacia

della

relazionalità» 14.

Questo discorso si applica perfettamente al legame d’amicizia. La parentela, lo scambio di doni ma anche l’amicizia sono forme assimilabili alla magia, cioè a quell’idea presente in molte culture che i legami tra persone, ma anche tra persone e altre presenze – animali, piante, paesaggi, risorse – siano un ambito di influenze reciproche. L’amicizia fa parte della «misteriosa efficacia della relazionalità», cioè del potere trasformativo delle identità che agisce su chi la pratica. Anche se ci riesce difficile pensare in questi termini oggi, è indubbio che crediamo ancora nello «spell», nell’effetto da sortilegio che le persone possono avere su altre. L’incantesimo che c’è nell’amicizia è davvero una parte dell’efficacia che la relazione può avere e che può condizionare, trasformare, spingere, accrescere o sottrarre nel caso di una sua revoca. L’amicizia quindi è una forma di magia, di «efficacia», qualcosa che si situa allo stesso livello della cura che uno sciamano opera sul corpo di un paziente, ma anche del «trucco» che lo stregone opera per alterare lo stato dei presenti, proprio come un «mago» che artatamente stupisce chi lo circonda. L’amicizia sarebbe insomma una dimensione «potenziata» dell’essere insieme, qualcosa che al di là della commensalità e della convivialità fa effetto in chi la opera e in chi ne è l’oggetto. Non abbiamo sempre pensato che gli amici possano migliorarci, ma che le cattive amicizie possano portarci sulla «mala strada»? 1. M . STRATHERN , The Gender of the Gift. Problems with Women and Problems with Society in Melanesia, University of California Press, Berkeley 1988, p. 13. 2. S . BELL e S . COLEMAN (a cura di), The Anthropology of Friendship, Berg, Oxford 1999; DESAI

e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit.; M . GUICHARD , T . GRÄTZ e Y . DIALLO (a

cura di), Friendship, Descent and Alliance in Africa, Berghahn, Oxford 2014.

3. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 4. J . CARSTEN , After Kinship. New Departures in Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 2004. 5. SAHLINS , La parentela cit. 6. F . R . EGGAN , Social Organization of the western Pueblos, University of Chicago Press, Chicago 1950. 7. F . NICOLA , Wantok, tesi di laurea all’Università «Bicocca», Milano 2014. 8. A . SMART , Expressions of interest. Friendship and guanxi in Chinese Societies, in BELL e COLEMAN

(a cura di), The Anthropology of Friendship cit.

9. M . COURSE , Making friends, making oneself. Friendship and the Mapuche person, in DESAI e KILLICK

(a cura di), The Ways of Friendship cit.

10. S . ALLOVIO , La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale, Laterza, Roma 1999. 11. R . CRAIG , Marriage among the Telefolmin, in R . M . GLASSE e M . J . MEGGITT (a cura di), Pigs, Pearlshells and Women, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1969. 12. R . KENNEDY , Women’s friendship in Crete. A psychological perspective, in J . DUBISH , Gender and Power in Rural Greece, Princeton University Press, Princeton 1986. 13. SAHLINS , La parentela cit. 14. Ibid., p. 70; E . VIVIEROS DE CASTRO, The gift and the given. Three nano-essays on kinship and magic, in S . C . BAMFORD e J . LEACH (a cura di), Kinship and Beyind. The Genealogical Model Reconsidered, Bergham, New York 2009, pp. 237-68.

Altre culture, altre amicizie

Un amico leale vale diecimila parenti. EURIPIDE

«‘Ahla qurba al-suhba» (l’amicizia è la migliore parentela) per esempio i fratelli, dice Husayn, sono imposti su di te. Se potessi scegliere non vorrei mai averli intorno. Sei obbligata nei loro confronti, anche se non ti piacciono. MICHELLE OBEID 1.

Altre culture, altre amicizie. Vivieros de Castro, lo studioso brasiliano che negli ultimi anni è diventato una vera e propria star dell’antropologia, incrociando il suo pensiero con quello dei filosofi francesi come Jacques Derrida, Gilles Deleuze e Felix Guattari, ha fatto il suo «lavoro di campo» nella «selva» tra gli Araweté, una tribú tupi dell’Amazzonia brasiliana. Ne ha narrato la vita in un bellissimo libro, dove uno dei capitoli è dedicato all’amicizia. Qui le giovani coppie senza figli contraggono amicizia tra di loro. L’iniziativa è degli uomini, ma spesso sono le donne a suggerirla. Questa relazione di amicizia tra coppie (apîhi-pihâ)può essere definitiva come anche provvisoria. Si possono avere piú relazioni di scambio tra coppie, ma mai contemporaneamente. La marca caratteristica della relazione apîhi-pihâ è l’allegria (tori). Gli apîhi-pihâ (amici dello stesso sesso) mantengono una relazione di cameratismo, senza nessuna connotazione aggressiva. Si rallegrano reciprocamente, stanno sempre abbracciati, sono compagni assidui nella foresta, usano liberamente dei beni dell’altro. Quando gli uomini del villaggio vanno alla caccia collettiva, le donne apîhi-pihâ vanno a dormire nella stessa casa. […] gli amici di sesso opposto ricevono l’epiteto di tori pā (rallegratori). Il cemento di questa relazione è la mutualità sessuale. Gli apîhi-pihâ cambiano di coniuge temporaneamente, secondo due metodi, gli uomini vanno nella casa dell’amico occupando la sua amaca e la mattina dopo tornano alla propria sposa, oppure le donne passano a risiedere per alcuni giorni nella casa dell’apîno. In entrambi i casi il quartetto è sempre visto insieme, nel patio di una delle due case. [...] Il luogo per eccellenza per questo tipo

di amicizia e di scambio è la foresta, soprattutto nella stagione della raccolta del miele. Per sapere se un uomo sia stato compagno di sesso di una donna con un legame di amicizia il criterio decisivo è «lui l’ha portata nella foresta» per tale occasione. [...] Avere amici è segnale di maturità, assertività, generosità, forza vitale, prestigio. Apîhi, è la donna pura positività sessuale, senza il peso della convivenza domestica. Nelle feste apîno e apîh si dipingono, e profumano mutualmente. Caccia, sesso, pittura, profumo, il mondo dell’apîhi-pihâ è un mondo ideale. In cielo gli dèi hanno lo stesso tipo di relazione 2.

Tra fratelli questo tipo di relazione è interdetta, proprio perché potenzialmente tra fratelli c’è un accesso alle rispettive mogli, che però può creare gelosie. Tra apîhi-pihâ non ci sono gelosie. Come accennato nel capitolo precedente, in culture diverse dalle nostre scopriamo modulazioni diverse dell’amicizia. Sempre Santos-Granero: Nel suo saggio sul dono Mauss sosteneva che sebbene in teoria nelle società arcaiche e primitive il dono, centrale nelle relazioni di amicizia, sia generosamente offerto, la transazione in sé si basa su una forma di obbligo basato su un interesse personale. E aggiungeva che l’amicizia formalizzata, come quella presente nelle transazioni commerciali, dovrebbe essere vista come una relazione sociale piuttosto che personale. Bell e Coleman (1999) mettono in guardia rispetto alle aspettative occidentali: intimità, confidenza, affetto non sono tratti universali dell’amicizia. Questa può essere anche contratta tra non uguali, socialmente, etnicamente, economicamente, posto che sia caratterizzata da uno scambio equilibrato ed escluda ogni tipo di dominazione di una parte sull’altra. La tensione tra la scelta e l’obbligo, il personale e il sociale, l’altruismo e l’egoismo, l’affettività e la formalità, il simile e il diverso è presente, mi viene da dire, in tutti i tipi di amicizia 3.

Si sta tra quello che Cohen 4 chiama amicizia inalienabile, cioè una relazione permanente – a volte formalizzata ritualmente – e quindi strumentale e l’amicizia come legame scelto, sostenuto dall’affettività e quindi legata alle fluttuazioni e soggetta alle rotture. Negli ultimi anni, come ho anticipato nel «cappellino per non antropologi» è dall’antropologia amazzonista che è arrivata gran parte delle novità riguardanti la parentela e l’amicizia e le forme combinate di queste due costellazioni. La diversità rispetto alla nostra concezione di amicizia qui è piú

lampante: da una parte c’è la pratica dell’amicizia come relazione utilitaria, come «alleanza» definitiva, un patto stipulato con vantaggi reciproci. Dall’altra l’idea di amicizia come possibile «predazione». L’amico è colui che va «cannibalizzato» – nel passato fisicamente, per esempio tra i Tupinambà del Brasile che divoravano il nemico/amico (assoggettato, reso prigioniero, ma anche adottato dalla tribú) come se fosse un proprio doppio. Questa predazione e cannibalizzazione può essere anche solo simbolica, il nemico reso amico diventa un rafforzamento, una duplicazione dell’io. Nel mondo amazzonico tutto ciò si complica nella continua ricerca di possibilità di alleanze con individui non consanguinei. C’è anche una forma di dis-imparentamento, si fanno diventare estranei coloro che pur essendo parenti non lo sono in maniera diretta. La dialettica tra parentela e amicizia, in piccoli gruppi come le tribú amazzoniche si basa sull’invenzione dell’estraneità (c’è la molla dell’esogamia, cioè del matrimonio con non consanguinei, che gioca un ruolo fondamentale). Cosí sintetizza sempre Fernando Santos-Granero: Nella nativa Amazzonia ci sono almeno tre sfere in cui si possono stabilire relazioni di amicizia con gli «altri». La prima è quella degli «altri» di famiglia, o gli altri che «non sono altri» cioè gente alla cui individualità si è già legati per consanguineità o affinità in vari gradi di vicinanza. Esempi di amicizia in questa sfera sono ad esempio i legami cerimoniali tra i Gè, ma anche alcuni casi di «amigri» (un termine mutuato dallo spagnolo) tra gli Jivaro. La seconda sfera è quella dei «vicini» o gli altri «interni», coloro che appartengono allo stesso gruppo etnico, ma sono separati da distanze geografiche. A questi appartengono gli amici «sessuali» apîhi-pihâ tra gli Awaretè e i compadres tra i Piro. Finalmente c’è la sfera degli altri stranieri, gli altri «al di fuori», cioè persone che non appartengono al proprio gruppo etnico e che sono generalmente considerati nemici ma con cui si possono stabilire alleanze di amicizia. […] Si tratta spesso di amicizie commerciali, tra uomini non legati da parentela o affinità, potenzialmente pericolosi gli uni agli altri, appartenenti a gruppi etnici differenti. Il fine di queste amicizie è di fornire agli «stranieri» un’identità che sia legittima e non ostile. Ad un certo livello sono di questo tipo le relazioni molto formali, di ayompari, di comparatico. Le visite sono altamente ritualizzate e comportano dialoghi cerimoniali tra gli amici che commerciano. Gli uomini compongono canzoni dove esprimono l’affetto per gli «ayompari». Queste canzoni somigliano alle canzoni d’amore che gli Asheninka uomini e donne si dedicano reciprocamente. In un primo momento della relazione i potenziali amici si chiamano

«mamathani» un termine che significa «fidanzati». Quando la relazione si approfondisce si passa a «fratelli». Comunque tra gli Asheninka quando due uomini (due Asheninka appartenenti agli stessi gruppi tribali) decidono di stabilire un’amicizia commerciale, smettono di chiamarsi con i termini di parentela o di affinità e si chiamano semplicemente «ayompari» 5.

Gli Asheninka, un gruppo indigeno dell’Amazzonia peruviana, definiscono ayompari gli amici «mestizos», meticci (cioè non indigeni), mentre questi tra di loro si definiscono compadres. Probabilmente il bisogno di allargare i confini della propria rete parentale data dal 1600, ed è dovuto all’esigenza di ampliare le reti di scambio e il possibile accesso a spose lontane, non appartenenti al gruppo asheninka. Nell’etica asheninka c’è un particolare accento sull’importanza della generosità, del dare senza aspettarsi nulla in cambio e sullo status superiore dei rapporti di amicizia ayompari rispetto a quello degli ordinari rapporti di parentela. Ayompari è visto come una relazione tra uguali, laddove l’uguaglianza è sentita come un ulteriore valore non praticabile con i parenti. Perfino quando accade che tra consanguinei si diventi amici, si preferisce chiamarsi ayompari piuttosto che con i termini di parentela 6. Un caso di amicizia nel mondo amazzonico è quello con lo sciamano, con cui si stabilisce un legame particolare che è a volte molto piú forte del legame di parentela. Queste alleanze sciamaniche si intrecciano con l’amicizia che gli apprendisti sciamani mantengono con i loro maestri con cui c’è spesso un legame affettivo anche dopo avere finito il periodo di formazione. I maestri sciamani spesso istruiscono diversi novizi allo stesso tempo, e quando questo accade gli studenti mantengono relazioni amichevoli tra di loro. Nei capitoli precedenti abbiamo visto che in Occidente non si stipula un’amicizia né di fronte a un funzionario civile, né dinanzi a un sacerdote. Ci sono eccezioni per il mondo russo ortodosso. Un personaggio come Pavel Florenskij 7, teologo e sacerdote ortodosso nel mondo moscovita, morto in un lager siberiano, aveva contratto, con un vero e proprio rito, un matrimonio mistico con il suo miglior amico Sergej Troickij (il quale poi aveva avuto il torto di innamorarsi e di sposare la sorella di Florenskij, portando alla rottura dello stesso mistico sponsale). In altre culture ci sono numerosi casi di riti che vengono celebrati per suggellare un’amicizia.

Ci sono forme di rito tra amici nei Mapuche, una popolazione indigena – sono un milione in Cile e quarantamila in Argentina. Per essere un che, una persona vera, bisogna andare oltre le relazioni di parentela, formare relazioni volontarie che durino durante la vita. Queste si «fanno» bevendo insieme, un atto che prende il nome di wenüywen, scambio di vino tra amici maschi. Si forma un cerchio: un donatore inizia versando e offrendo del vino a qualcuno del cerchio. Questi lo accetta dimostrando di avere fiducia (il vino per i Mapuche è una sostanza pericolosa, può essere avvelenato o tramite di stregoneria). Poi il vino continua il giro in senso antiorario. Sono le donne a vendere il vino al mercato, gli uomini non lo possono fare. Lo scambio di vino non è necessariamente reciproco. Anche ai funerali si fa il rituale con il vino, serve a ripagare il debito che il defunto ha lasciato, debito di reciprocità e di scambio. Qui però ognuno beve direttamente senza aspettare che gli venga offerto 8. In Cina c’è un fenomeno riportato dalla tradizione orale tra le minoranze, ma anche tra gli stessi Han: si tratta di alleanze rituali tra bambini nati nello stesso anno. Sono rituali rumorosi, nel caso dei maschi, preceduti da lunghe negoziazioni su diritti e doveri. Il rito consiste in un giuramento da entrambe le parti da sigillare in genere in un tempio. È un modo di fissare nel cielo la relazione tra i nati nello stesso anno. seguono banchetti e libagioni 9. In India Amit Desai ha studiato un caso di rituale d’amicizia nel villaggio di Markakasa nell’Orissa: la mahāprasād. Serve a «salvarsi» dalla gelosia dei fratelli e dalle dispute con loro, ma anche dal pericolo di stregoneria che ne può conseguire. Viene detto phul-phulwāri. Si fa un dono al tempio di Jaganath a Puri (un villaggio vicino), ci si scambia acqua benedetta del Gange che viene spruzzata addosso ai futuri amici con le foglie di una pianta di basilico indiano. Spesso il rituale precede lo stesso sentimento amicale (prem) e viene eseguito per accrescere i legami tra due famiglie. I figli degli amici rituali possono diventare a loro volta amici rituali, mentre ai fratelli questo legame viene interdetto. È un modo di creare una parentela rituale parallela ed è qualcosa che esula dalle divisioni di casta. La cerimonia può essere officiata da un sacerdote ma anche da un barbiere. I due potenziali amici siedono di fronte, alla presenza di due monticelli di argilla che simboleggiano Parvati e Ganesha. Ognuno dei due porta un cocco, cinque o dieci rupie, dell’erba e della polvere gialla che spalmano l’uno sulla fronte dell’altro. Poi i due contraenti si imboccano con

dei cibi rituali, si abbracciano, rompono ognuno il cocco che hanno portato e ne distribuiscono i pezzi ai presenti. Le obbligazioni reciproche sono vaghe, ma la durata è per la vita. La mahāprasād, si dice, è meglio del rapporto tra fratelli perché non c’è nessun interesse personale 10. Un tipo di ritualità particolare è quello che lega gli amici con un «segreto». In culture diverse dalla nostra il segreto gioca un ruolo di suggello dell’amicizia. Somiglia alle nostre società segrete e spesso implica dei riti e delle maledizioni. Stefano Allovio racconta che tra i Medje-Mangbetu presso cui ha vissuto c’è un rituale di circoncisione comune che apre la tribú al mondo esterno. Questo può anche essere stipulato come patto di sangue: I due contraenti si siedono l’uno di fronte all’altro e si fanno vicendevolmente un taglio sull’avambraccio, con l’ausilio di due pezzi di canna da zucchero entrambi raccolgono alcune gocce del proprio sangue e dopo averli scambiati li succhiano ingerendo il sangue dell’altro. Successivamente pronunciano queste parole: «A partire da oggi se conoscerai (sessualmente) mia moglie che tu possa morire, se vorrò prendere moglie nella tua famiglia e ti rifiuti che tu possa morire, se qualcuno parla male di me e non me lo dici che tu possa morire, se qualcun vuole avvelenarmi e tu non fai niente per fermarlo che tu possa morire. Se invece non rifiuti di darmi moglie, se mi avverti in caso di pericoli, che la tua nébba (casa) sia fortunata e protetta» 11.

A questo rituale però se ne aggiunge uno ancor piú segreto, il nebeli, di cui non si può parlare (le cose del nebeli, dice Allovio, non si possono raccontare, ma non per questo non si possono non sapere), che viene praticato dopo lunghe e dolorose iniziazioni. In esso si stabiliscono alleanzeal di fuori della parentela e della tribú, alleanze che ribaltano le stesse regole interne al villaggio e alla parentela. I rituali si svolgono nella foresta, al buio e rasentano o implicano forme di incesto – ammesse perché chi le pratica si muove al buio. Per altre culture il segreto all’opposto è uno dei motivi per cui non si possono avere amici vicini. Ad esempio, tra i Senufo della Costa d’Avorio nell’Africa occidentale, il migliore amico dev’essere qualcuno lontano e gli amici possono solo essere in numero limitato sia per gli uomini che per le donne, e al di fuori del proprio gruppo matrilineare e sub-etnico. Questo per ridurre i danni del pettegolezzo e del tradimento. Confidarsi con gli amici può

essere piú rischioso che farlo con i parenti. In conclusione per quello che riguarda culture diverse dalle nostre, si possono riprendere le sintesi di Martine Guichard, che in un recente saggio si domanda dove si nascondano gli amici degli altri. Uno dei motivi per cui nelle società diverse dalla nostra l’amicizia può sembrare meno presente è perché «ama travestirsi da parentela». Già lo aveva notato Julian Pitt-Rivers in un saggio del 1973 12. La Guichard aggiunge: L’amicizia ama mascherarsi come parentela particolarmente nelle società non occidentali. Il fatto che gli amici possano essere figurativamente chiamati «fratelli» o «sorelle» ne oscura la visibilità agli estranei, inclusi gli antropologi, e favorisce le interpretazioni sbagliate della vera natura delle relazioni esistenti tra persone non consanguinee, che applicano l’idioma della parentela all’amicizia. Allo stesso tempo, incrementa il rischio di sottostimare la vera importanza dell’amicizia in contesti esotici e rinforza la visione che essa sia un fenomeno raro nelle società non occidentali 13. 1. M . OBEID , Friendship, Kinship and Sociality in Lebanese Town, in DESAI e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit. 2. E . VIVIEROS DE CASTRO, C . DE CAUX e G . ORLANDINI HEURICH, Araweté. Un povo tupi da Amazónia, SESC, São Paulo 2017. 3. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 4. Y . A . COHEN , Patterns of friendship, in ID . (a cura di), Social Structure and Personality. A Casebook, Holt, Rinehart & Winston, New York 1961, pp. 351-86. 5. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 6. E . KILLICK , Ayompari, «Compadre, Amigo, Forms of Fellowship in Peruvian Amazonia», in DESAI

e KILLICK (a cura di), The Ways of Friendship cit..

7. P . A . FLORENSKIJ , L’amicizia [1914], trad. di P. Modesto, Castelvecchi, Roma 2012. 8. M . COURSE , Making friends, making oneself. Friendship and the Mapuche person, in DESAI e KILLICK

(a cura di), The Ways of Friendship cit.

9. G . D . SANTOS , On same-year siblings, in rural South China, ibid. 10. A . DESAI , A matter of affection. Ritual friendship in Central India, ibid. 11. ALLOVIO , La foresta di alleanze cit. 12. J . PITT -RIVERS , The Kith and the Kin, in J . GOODY (a cura di), The Character of Kinship, Cambridge University Press, Cambridge 1973, pp. 89-105, 13. M . GUICHARD , Where are other people friends hiding? Reflections on anthropological

studies of friendship, in M . GUICHARD , T . GRÄTZ e Y . DIALLO , Friendship, Descent and Alliance in Africa. Anthropological Perspectives, Berghahn, New York 2014.

La lingua dell’amicizia

L’essenza del linguaggio è bontà, o ancora l’essenza del linguaggio è amicizia e ospitalità 1. EMMANUEL LÉVINAS

Caro Geerhard, mi permetta di unire il ricordo della sua lotta e vittoria con l’introduzione del nome di battesimo nei nostri rapporti. Nonostante tutto il piacere provato per la Sua ultima lettera a cui rispondo ora, ho avvertito un sentimento addirittura doloroso, all’idea che ora non potevamo stare assieme. Le è davvero impossibile? Ora – ne sono convinto – c’è fra noi un certo rapporto di uguaglianza che ha la sua tonalità fondamentale nella riconoscenza, ci troviamo nella piú profonda situazione della vita che prometterebbe una collaborazione feconda e bella. Lettera di Walter Benjamin a Geerhard Scholem, St Moritz, settembre 1917 2.

Come cambia il linguaggio quando si diventa amici? Nella lettera di Walter Benjamin a Geerhard (Gershom) Scholem, che inaugura un rapporto epistolare che durerà per tutta la vita di Benjamin (questi è rimasto in Europa, Scholem è emigrato in Israele e tenterà fino all’ultimo di convincere l’amico a raggiungerlo prima che sia troppo tardi), c’è l’incipit del linguaggio nuovo. Benjamin chiama per nome l’altro, invocando una «riconoscenza» che li unisce nell’uguaglianza. Qui riconoscenza sta nel doppio significato, c’è gratitudine per essersi incontrati, ma c’è anche la coscienza di essere in una situazione comune, ci si riconosce come appartenenti a una circostanza – età, identità, affinità, passioni e preoccupazioni e in piú uno sguardo comune sulla contemporaneità. «Ti riconosco» suggerisce che qualcosa ci ha portati vicino e adesso mi accorgo «di averti già conosciuto», anche se non è vero biograficamente. Riconosco in te un volto, un’anima, un moto comune che fa di te una «somiglianza» con qualcosa che conoscevo già. È a partire da questo che posso chiamarti per nome, che non è soltanto un dettaglio della tua biografia, no, riconosco te nel tuo nome, per me d’ora in poi il tuo nome non sarà uno dei tanti Geerhard o uno dei tanti Walter, ma mi apparterrà come appartiene a te. Montaigne, descrivendo i propri sentimenti per l’amico scomparso, scrive

che già senza essersi incontrati i loro nomi si cercavano: Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi 3.

Questo chiamarsi per nome apre un futuro, perché è fecondo di tutte le declinazioni del nostro esserci ritrovati (anche qui l’amicizia inventa un passato, perché nella riconoscenza duplica e sostiene – fa del nostro conoscerci un dato – il presente). Ci si può dare del tu, anche se questo dipende da ogni contesto linguistico. Ci sono lingue in cui l’intimità si sottolinea apostrofandosi con un «vous» o con un «usted», che è carico di un rispetto affettuoso e caldo per l’altra, per l’altro. In altre lingue, in altre culture, c’è un nome con cui si viene battezzati solo dagli amici, dall’amica, dall’amico. Può essere una «inciuria», un nickname che gioca con un nostro difetto, oppure un nomignolo legato a qualcosa che ci è accaduto una volta con gli amici. In alcune culture tra amici non ci si può chiamare che con nomi che ci sono stati dati da loro e che non sono gli stessi con cui ci chiamano in famiglia o in occasioni pubbliche. Ci si rivolge agli amici con una lingua che diventa un ambito esclusivo, un «intendere» per intendersi. C’è un comune «brodo della vita» dentro cui le nostre parole si immergono. Quando ti chiamo «mi rivolgo a te» davvero, cioè espongo il mio volto a riflettere il tuo. Su questo apparire del volto la mistica ortodossa ha costruito una magnifica parte di sé. Lo ricorda Olivier Clément 4, e da un ambito completamente diverso questa epifania viene ripresa da Lévinas 5. Il volto dell’altro è l’inalienabile alterità nella sua manifestazione di fronte a noi, adesso, ma allo stesso tempo è il ricordo del fatto che il nostro volto non lo vedremo mai nello stesso modo sorprendente di stupirci. È il ricordo di quanto noi siamo volto per gli altri e per coloro che ci sono vicini. Cosa ci si dice tra amici? Di tutto ovviamente, ma l’attività principale è continuare un discorso sul mondo, sul vivere, su cosa avviene intorno. È questo commento che è il campo proprio dell’amicizia, lo spazio comune di una distanza che consente di «vedere meglio», di «assorbire, assumere, comprendere». Gli amici costruiscono un ambito dentro il quale il mondo può

essere commentato, diventare oggetto di un’attenzione che è feconda perché allarga la relazione ad abbracciare qualcosa che non riguarda il puro ambito di due io che si incontrano. Gli amici si prendono cura l’uno dell’altro, ma si preoccupano, si prendono cura anche del mondo in cui vivono. Questa non è un’intenzione benevola, ma l’essenza stessa dell’amicizia. Che è una maniera di «installarsi» nel mondo. Questo linguaggio, che è presente anche nelle amicizie poco profonde, ovviamente ha a che fare con l’emergenza di una complicità. Gli altri, il mondo là fuori, devono adesso fare i conti con la nostra seppur iniziale, seppur fragile alleanza. Questo linguaggio comune si manifesta con allusioni, usi, scorciatoie, con parole che usiamo solo tra noi per intenderci al volo, a volte è un’invenzione totale, come accade tra i bambini che si inventano codici e lingue segrete. Diventa il discorso che insieme costruiamo e a cui non è immediato fare accedere altri. Rinnova la lingua, la rende da strumento di comunicazione luogo fecondo dove il mondo viene ricreato dalle nostre parole. E soprattutto ci consente una separazione salutare da esso, uno stare sullo stesso balcone a osservare, un fermarsi sul bordo a commentare prima di ributtarsi nella mischia, di ricominciare a nuotare. Nel dolore ci fa staccare per un momento dall’attrito che la vita e il mondo ci fa, nella gioia ci restituisce la possibilità di essere «piú ampi» perché la felicità stessa è difficile goderla da soli. Non vi è mai successo, quando ricevete una buona notizia, che la prima cosa che vi viene voglia di fare è cercare l’amico o l’amica che lei o lui soli sono in grado di gioire con voi? Com’è raro e quanto è fortunato poter avere qualcuno che ha lo stesso vostro singulto di allegria o di tristezza. E poi ci sono le costellazioni del «botta e risposta» del «badinage», cazzeggiare, rallier, quel parlare che è un gioco in sé, quel giocare sui vari livelli, rovesciare, parlare per enigmi, cambiare il tono, subentrare con un falsetto, sforzare i limiti del dire e del gesticolare. Tutto questo in presenza: c’è poi il vasto campo dello scriversi. Dice Confucio: «Scrivere serve a raccogliere gli amici». E gli fa eco John Donne: «Piú dei baci, sono le lettere che fondono i cuori, | che fanno parlare gli assenti». Oggi non ci sono piú tanto le lettere, ma la presenza della lingua scritta degli amici è forte, forse è l’unica fonte di libertà di cui possiamo usufruire

nei social. Consente come negli epistolari di raccontarci e di farci raccontare, di intessere e rinnovare la complicità, e dà al nostro scrivere una dimensione di distanza ravvicinata (anche se i social ci danno l’illusione di una prossimità che si basa proprio sul continuo rimando di essa). Però nessuno come gli adolescenti sa farne tesoro. Spesso andando oltre le ridicole forme da essi suggerite (si pensi alla povertà degli emoticon, di fronte all’infinita ricchezza di sfumature della complicità o dell’avversità emotiva). 1. E . LÉVINAS , Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 2016, p. 314. 2. W . BENJAMIN , Lettere 1913-1940, raccolte e presentate da G. Scholem e T. W. Adorno, Einaudi, Torino 1966. 3. MONTAIGNE , Saggi cit., pp. 250-51. 4. O . CLÉMENT , L’altro sole [1975], trad. di M. Cassola, Jaca Book, Milano 1977. 5. LÉVINAS , Totalità e infinito cit.

Oscenità

Fece piovere sulla mia razza, sui miei genitori e su di me le peggiori ingiurie, trattandomi da piccola vipera partorita da un caimano ubriaco, da porta-sfortuna di un leone sdentato e di una tigre senza zanne né artigli, oltre a qualche epiteto di immondizia che non saprei ripetere […]. Lungo la strada, senza dubbio allettato dai miei cento denari, Koniba mi disse con voce dolce, con un tono di rimprovero amicale: «Stavo scherzando con te, come ho il diritto di fare in quanto “dimadjo”, servo di casa, e nonno, ma tu non hai colto il mio scherzo […]. Sei un maleducato, un pessimo figlio dei Peul». AMADOU HAMPATÈ BA 1.

Quando si è amici si può scorreggiare insieme. Un giovane Muria Gond (tribú del Nord dell’India) «Mi mangerei i tuoi intestini». «Sí, anch’io mi mangerei i tuoi». Tra due Wandeki di Papua Tra i pescatori Bozo in Mali gli amici dimostrano il loro affetto facendo commenti pesanti sui genitali dei loro genitori. DANIEL J. HRUSCHKA 2.

Ogni tanto in viaggio, quando sono solo, mi addormento con un brusio nelle orecchie. È il ritorno di conversazioni scherzose, di battute, allusioni, botte e risposte, spesso in dialetto tra gli amici «di casa», tra quelli che ho lasciato a Palermo e spero mi aspettino. È un brusio della lingua che ha un sapore speciale, che mi consente di avere un sorriso mentre sono in dormiveglia. Suona come una musica piccante, mi rassicura su un’intima complicità, rimbalza in me come se fossi parte di un commento a piú voci che non finisce mai. C’è una lingua che viene pronunciata solo tra amici, quel dire che ammazza il tempo, che gioca con le parole, che spesso e volentieri diventa oscenità, che forza il linguaggio ai suoi limiti. Una lingua che da ragazzi bisogna imparare se non si vuole essere tagliati fuori, quella di Tom Sawyer o dei ragazzi del muretto; quella delle bande giovanili; dei bambini terribili delle favelas di Caracas che diventeranno i killer per conto dei narcos, delle schivate verbali dell’Esquive, la magnifica pellicola di Kechiche sugli

adolescenti delle banlieues parigine. Nell’Esquive la parlano ragazzi e ragazze, è un codice che mescola il verlan dei genitori al mélange tra berbero, arabo, francese. Rapidissima, urlata, la conosciamo se siamo cresciuti per strada, se i nostri genitori ci mandavano a giocare in cortile. Ed era una prova da superare, un dimostrare di essere all’altezza di botta e risposta, capaci di riposter, di rimandare al mittente lo sfottò, l’insulto, lo scherzo pesante, la provocazione. A tal punto importante che per alcune tribú sudafricane solo quelli che si sono fatti la guerra (un’altra figura dell’amico/nemico) possono adoperare questa lingua, in un rapporto di joking friendship. Lo scherzo è la chiave di una relazione che ha il coraggio di «abbassare» qualunque discorso serio al livello terra terra della fisicità. È lo scherzo che riduce i rapporti al loro scheletro e ne gioca il limite – il limite che l’amicizia è in grado di sostenere –, insultarsi tra amici significa verificare che l’ambito di essa sia effettivamente percorribile. È una prova che viaggia tra il signifying dei ghetti neri degli Stati Uniti, il babbío degli adolescenti siciliani, lo scherno, il turpiloquio di Falstaff o quello che uno studioso di linguaggio, Don Brenneis, chiama indirection, l’apparente fuori discorso, il commento esterno che «non c’entra». La lingua tra amici è una perenne invenzione. Non serve piú a comunicare qualcosa, ma a sostenere il cerchio, a lanciare un po’ piú in là le scorciatoie dell’intendersi. È spesso il gioco circolare del turn taking, giocato magistralmente tra i «vecchietti» del Sud d’Italia che in cerchio stanno in piazza a «non dirsi niente», ma a giocarsi la parola interrompendosi e denigrandosi. È un gioco fatto di monosillabi, di scatti, brusche schivate, ritornelli osceni, doppi sensi. La lingua viene rovesciata su di sé, resta puro strumento di una schermaglia che non ha scopo né senso, che ha perso il referente e che non vuol dir nulla, ma vuole rimbalzare, essere catturata e liberata, avere un effetto immediato sui corpi dei parlanti. È liberatoria se si sa giocare, discriminatoria se invece si è fuori dalle complicità o non si è dentro abbastanza. Ha una creatività che ogni altro momento della lingua non può raggiungere. Al pari – come vedremo nel capitolo seguente – della «civiltà della conversazione» dei salons parigini del Seicento e Settecento aborrisce qualunque forma di intellettualità, rifugge la scrittura, la registrazione, è fatta per essere consumata subito e ha le sue regole interne – molto spesso basate sull’evitare «discorsi seri», ma sul rendere tutto

contingente e immediato. Ne è parte integrante, tra amici, l’oscenità – e in questo i salons parigini si tengono indietro – preferendo le sottili allusioni e facendo di una generale cortesia la regola assoluta (anche se il libertinismo dei salons rimanda continuamente alle potenzialità erotiche dell’amicizia). L’oscenità tra amici ha una funzione rituale: riporta al contingente e al quotidiano ogni gesto e ogni parola. Sottomette al «tu» e al vocativo ogni espressione, la vincola ai deittici e al gesto che accompagna, fa dell’intero corpo proprio e degli amici una tavola su cui scrivere e scolpire e colpire. Questi colpi non feriscono la relazione, ma la ampliano, la rendono elastica ed estensibile e complice. Troviamo l’oscenità nelle parole di Romeo quando parla con Mercuzio, la troviamo spessissimo in Shakespeare, è bordone di fondo su cui il dramma può permettersi di perdere le sue pieghe tragiche. Shakespeare ci mostra quello che l’oscenità è, il riportare a terra tutte le cose, attività per eccellenza esercitata tra amici. Rende possibili le vette dell’amore perché ricorda che esso non è tutto. Dice Allan Bloom dell’oscenità in Shakespeare: [...] l’oscenità cambia la trascendenza dell’amore in impulsi fisici ed effetti dell’erotismo. La sproporzione tra quello che pensiamo l’amore debba essere e ciò che noi in realtà siamo è tutta da ridere 3.

Bloom paragona il discorso osceno nei personaggi di Shakespeare alla nostra incapacità di barcamenarci tra volgarità e piattezza «scientifica». Dice che nella nostra società, paragonandola a quella descritta da Shakespeare, [...] il problema non è che abbiamo troppa oscenità, ma che manchiamo di immaginazione oscena. Non ci sono parole per la ricchezza possibile dell’esperienza erotica – non parlo della nostra esperienza attuale, che sospetto sia piatta come il linguaggio con cui ne parliamo. È incredibile, in contrasto, quante parole ed espressioni in Shakespeare richiamano quella parte della nostra natura che ci è cosí cara. Non solo ci insegna come parlare in maniera incantevole e divertente di sesso, ma ci aiuta a studiare il fenomeno molto piú seriamente perché non è stato sterilizzato in anticipo per noi o messo nei solchi di varie ideologie. La sua oscenità non è mai riduzionista, non scarta il sovrapporsi immaginativo dei fatti, esprime ammirazione per le meraviglie e strane cose che ci accadono quando siamo presi dalla passione sessuale.

Gli amici tra loro e le amiche tra loro parlano soprattutto di sesso e delle sue implicazioni. Anche quando non se ne parla, è come se il discorso tra amici e tra amiche fosse sempre «sessuato», coscientemente sessuato. La fisicità sessuale prende il sopravvento e ci troviamo a far fronte a essa, a doverla mettere in scena. Il linguaggio si frammenta e si iperspecializza e prende le pieghe del corpo. L’amico e l’amica diventano effettivamente il corpo a contatto che come impronta, come le stigmate, si eccita di parole fisiche, si imprime di emozioni fisiche condivisibili. Si impara solo dopo parecchi anni a scoprirvi la libertà, il gusto, la capacità di sdrammatizzare che ci aiuta cosí tanto a vivere, a non prendere tutto troppo sul serio. Al di là però dei «modi bruschi» 4 (per i maschi) da apprendere, c’è nel linguaggio tra amici e tra amiche qualcosa di piú fondante, ed è quella costruzione di un «altrove» che consente di commentare dall’esterno, da una situazione di osservatori, la realtà. A differenza del pettegolezzo, a cui il discorso tra amici può assomigliare, qui c’è la costruzione di un mondo parallelo, il segreto di un ritrovarsi che diventa commento continuo a quello che c’è fuori. È quello che Brenneis chiama appunto «indirection», il mondo là fuori come scusa per parlarsi tra complici invece di dire le cose direttamente, l’indirection è un’abilità retorica di far finta di parlare d’altro, il saltare di palo in frasca, il gusto per le allusioni, il portare all’assurdo i riferimenti a cose reali. La complicità è un contesto che consente salti tra piani diversi e velocità nell’intendersi. «Capisci?» è il sincopato che costituisce il tessuto del vai e vieni tra noi e la realtà ed esclude chi non va allo stesso ritmo. Vale per uomini e donne: la complicità è oscena nei confronti di chi non ne fa parte. Gli uomini tra di loro parlano ovviamente di donne, di quell’altrove di cui sentono la frontiera da cui possono essere respinti o accolti. Questo guardare la frontiera si popola alternativamente di desideri e di denigrazione degli stessi. Nell’oscenità con cui gli uomini parlano delle donne c’è l’estraneità e il tentativo di definirla. Può essere grossolana, aggressiva, fatta di dirty joking ma alla radice dell’oscenità c’è sempre qualcosa che Simmel ha definito molto bene 5 (e che pertiene sia alla sfera maschile che a quella femminile): «un gioco il cui strumento è la realtà».

È un gioco che può rivelarsi pesante, proprio per la natura stessa della gestione del rapporto con l’estraneità, con l’altro sesso. Il dirty joking non è un appannaggio dei discorsi tra uomini ed è sospeso tra desiderio e aggressività, ha la natura di un gioco ambiguo. Spesso nei lavori intrapresi collettivamente per la comunità si cantano canzoni oscene, come accadeva nella zona di Panama ai lavoratori indiani intenti a pestare i panni nel colore «indigo» 6. O ai pescatori delle tonnare siciliane che cantavano «Za monica n’cammisa, viremu a cu ci’ha ramu» (Questa monaca in camicia vediamo a chi la diamo) con aperte allusioni sessuali. In molte culture ci sono momenti femminili, di donne tra loro, che gli uomini fanno meglio a evitare. Laura Bohannan, nel suo magnifico libro Return to laughter 7 (Ritorno alla risata), frutto della sua permanenza in un villaggio Tiv in Nigeria, racconta che quando le donne Tiv raccolgono le erbe selvatiche nei campi gli uomini non si avvicinano per paura delle molestie sessuali e dei canti osceni diretti loro. Bronisław Malinowski nel suo Giardini di corallo dice che le donne delle Trobriand che raccolgono erbe selvatiche godono di uno speciale privilegio. Gli uomini non devono avvicinarsi e, soprattutto nella parte meridionale dell’isola dove Malinowski ha vissuto, le donne possono afferrare e maltrattare ogni uomo che sia nei paraggi. Se fa parte del loro villaggio lo insultano, ma se è uno straniero può essere aggredito verbalmente e umiliato sessualmente. I canti femminili di raccolta sono osceni e alludono al piantare, nel senso spiccatamente sessuale, dove la terra è una vagina aperta 8. Nella tradizione contadina del Sud della Francia la «lessive», la lavata dei panni da parte delle donne alla fontana, era un’occasione di discorsi, canti e aggressività sessuale nei confronti dei malcapitati. E un caso simile viene raccontato per la zona di Modica in Sicilia da Elio Vittorini nelle sue Città del mondo. Rosario, un pastore che è in giro con le pecore insieme al padre, si trova bersaglio dell’aggressività delle lavandaie. Queste, rispondendo alla sua intrusione nel loro mondo e accusandolo di cattive intenzioni, lo circondano e lo legano infine a un albero. È un gioco fatto di provocazioni a cui Rosario risponde, ma è un gioco pesante:

Le lavandaie non seppero limitarsi a una semplice custodia del prigioniero. Mangiando pane e ricotta intorno a lui esse se ne prendevano gioco, era naturale, e presto ve ne furono che passarono dagli scherzi di parola a qualche piccolo scherzo di mano. Una gli sbottonò i pantaloni. Una seconda gli imbrattò di ricotta le vergogne. «Col sapone! Col sapone!» gridarono alcune. [...]. Rosario rispondeva per le rime a quello ch’esse gli dicevano. [...]. Cosí le esasperava, ed esse gli impiastricciarono di sapone anche il petto e la gola, gli occhi, la fronte, le orecchie, sporcandolo da capo a piedi del sozzo colore bruno che ha il sapone loro 9.

C’è qui l’ambiguità stessa dell’amicizia, il suo costituire complicità contro. Può diventare spietata, può essere il gioco terribile dei ragazzini delle favelas di Medellin che diventeranno sicari e narcos 10. Essa produce complicità, ma anche «prede» di essa. E questo avviene sia all’esterno, nei confronti dell’alterità rappresentata da un altro sesso, sia all’interno stesso degli amici. Come si vede nel capitolo dedicato all’inimicizia, ogni amico è potenzialmente una preda e quindi un nemico. Una sera ho assistito a Sferracavallo, un paesino vicino Palermo, a una cena tra spazzini notturni. Il gioco costante dell’alzarsi in piedi e provocarsi l’un l’altro, per poi coalizzarsi tutti contro uno, metterlo al muro, accusarlo di non essere abbastanza maschio e la risposta di questi, di volta in volta a simulare la propria «frociaggine» e a rivoltarla sugli altri. Può però essere giocato con una forma di complicità reciproca che mantiene l’aspetto aggressivo senza però trasformare gli amici o le amiche in nemici e nemiche. Anche se è molto impopolare dirlo, è un gioco che le culture hanno saputo costruire nella dialettica uomo-donna in maniera molto accurata. È il flirt di cui parla Simmel 11 come un’arte, un’estetica della relazione, un gioco di botta e risposta, di seduzione accennata e rifiutata. Questo gioco tra uomini e donne che molto spesso scambiamo per un gioco di gerarchie e di dominazione mentre invece è proprio un momento in cui i ruoli vengono «giocati», in opposizione alle regole dominanti. È quello che ci raccontano Caroline e Filippo Osella del gioco tra adolescenti nel Kerala, in India 12, una società molto controllata e dove le relazioni tra uomini e donne sono «fissate» nelle regole dei matrimoni combinati. Gli adolescenti giocano per strada in maniera pesante. Spesso sono i maschi a prendere l’iniziativa cercando di attirare l’attenzione delle ragazze, stabilendo un «tune», una cornice possibile dei futuri approcci. Sono

attacchi e risposte verbali, di gesti, provocazioni forti a cui le ragazze sanno rispondere in maniera altrettanto forte. A un ragazzo che lancia l’osceno: «Vorrei portarti tra le canne e scoparti», la ragazza risponde: «Tuo padre l’ha già fatto!», umiliando cosí chi ha lanciato la provocazione, mettendo in ballo l’inesperienza dell’altro e insultandone l’ambito familiare. Gli Osella dicono che scambiare questo dirty joking per puro harassment, rende incapaci di apprezzarne le sfumature e le ambivalenze. In Kerala, come in Tamil Nadu, innocenza e pruderie formano parte della persona pubblica di buona parte delle donne, in privato le donne parlano e scherzano su questioni sessuali e flirtano con gli uomini. A noi esterni può sembrare che qui ragazzi e ragazze siano intrappolati in una morale pubblica. L’uso che entrambi fanno dell’oscenità spesso «mette in mostra» le stesse regole e le gioca. Un altro autore che si è occupato dello stesso fenomeno, Kevin Yelvington 13, mostra come non ci sia una prevalenza di chi provoca, le donne possono prendere l’iniziativa, negli insulti e nei discorsi osceni. Ciò non significa che non vi siano ambiti molto meno amicali, concordati, ambiti in cui all’amicizia si sostituisce la violenza maschile nelle sue varie forme. Ma negare la capacità femminile di gestire il dirty joking significa ritenere di avere a che fare con delle educande incapaci di rispondere per le rime e di indirizzare il gioco a proprio vantaggio. Per Simmel, nel flirting la gerarchia diventa tutt’altro che chiara e definita. Spesso il potere è nelle mani della donna: nel dire sí e no, nel concedersi e nel negarsi la donna dirige il gioco, è quella che sceglie. Il fine del flirting non è la consumazione erotica. Quello che si vince è un incremento di valore, dove un elemento fondamentale è il fascino del rischio, il destino, e tutto ciò alimenta l’attrazione del gioco stesso. Attirare e allontanare, negarsi e dirigere rendono questo gioco possibile, e sono presenti per gli Osella nel caso del Kerala, laddove è quasi impossibile che gli attori del flirting diventino effettivamente partner sessuali. Simmel sostiene che il flirt è un aspetto dell’estetica, ma di un’arte in cui lo strumento dell’artista non è «un’apparenza di realtà, una sua simulazione», ma la realtà stessa. Per Daniel Miller 14 questo gioco che mette in scena le regole e la loro possibile sovversione è presente in altri ambiti. Attori che appartengono a classi diverse, a etnie o identità usualmente gerarchizzate, possono metterle in scena con insulti, col prenderne in giro gli stereotipi, scherzando attraverso le

categorie di razza e sesso. Lungi dal rinforzare un contesto sociale dominante, agiscono nel confonderne la questione. Nello scherzo l’impredicabilità e l’ambivalenza ne sono parte essenziale. È quello che ho sentito raccontare a Capetown delle cene tra amici in casa di Nadine Gordimer, ospiti i protagonisti della lotta contro l’apartheid, neri, coloured, bianchi, dove intorno a un tavolo venivano fuori tutti gli stereotipi di colore e di identità nera, zulú, xhosa, afrikaan, coloured, come chiave del prendersi in giro reciprocamente. Mi sembra che una delle chiavi dell’amicizia sia quella di essere un terreno privilegiato per l’ambiguità, come se nella sua dichiarata piattaforma d’uguaglianza si potessero vedere della realtà le molteplici sfumature e lati. L’amicizia come garanzia della non definitività di ogni assunto e di ogni dato per scontato. 1. A . HAMPATÈ BA, Amkoullel, l’enfant peul, Actes Sud, Paris 1991. 2. HRUSCHKA , Friendship. Development, Ecology and Evolution of a Relationship cit., p. 17. 3. A . BLOOM , Shakespeare on Love and Friendship, The University of Chicago Press, Chicago 1992, p. 21. 4. F . LA CECLA, Modi bruschi. Antropologia del maschio, Elèuthera, Milano 2000. 5. G . SIMMEL , Filosofia dell’amore (1911), Donzelli, Roma 2001. 6. L . CRAMER , Songs of west-indian negroes in the canal zone, in «California Folklore Quaterly», vol. 5, n. 3, luglio 1946, p. 245. 7. L . BOHANNAN (Eleonore Smith Bowen), Return to Laughter, an anthropological Novel, Natural History Library, New York 1954, pp. 75-76. 8. B . MALINOWSKI , Coral Gardens and their Magic [1935], Severus, Hamburg 2017. 9. E . VITTORINI , Le città del mondo, Rizzoli, Milano 1969, p. 125. 10. G . MESA , La quadra, Literatura Random House, Bogotà 2016. 11. SIMMEL , Filosofia dell’amore cit. 12. C . OSELLA e F . OSELLA , Friendship and flirting. Micro-Politics in Kerala, South India, in «The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 4, n. 2 (giugno 1998), pp. 189-206. 13. K . A . YELVINGTON , Flirting in the factory (1996), ivi, vol. 2, n. 2 (giugno 1996), pp. 313-33. 14. D . MILLER , Modernity. An Ethnographic Approach. Dualism and Mass Consumption in Trinidad, Berg, Oxford 1994.

Uomini e donne

Ci si chiede se l’amicizia possa esistere tra persone di sesso diverso. È una cosa rara e difficile, ma questa amicizia è piú affascinante. [...] Talvolta simili unioni cominciano con l’amore e finiscono per trasformarsi in amicizia. MADAME DE LAMBERT 1.

La storia dell’amicizia tra donne percorre in modo parallelo quella dell’amicizia tra uomini, sarebbe inutile affermarlo se da un certo punto di vista la ricerca storica e antropologica non avesse dato un maggior peso alla seconda rispetto alla prima. È solo una questione di ottica. Ad esempio è un classico degli studi «mediterranei» dare risalto agli uomini insieme all’osteria, al lavoro, nei luoghi pubblici e ignorare il peso delle donne tra di loro, nelle relazioni di vicinato, nelle reti che decidono le strategie matrimoniali, nei momenti di lavoro e di festa. In alcuni paesi dell’Andalusia (negli anni Novanta del secolo scorso) poteva sembrare che gli uomini avessero maggiore accesso all’amicizia perché piú liberi di muoversi, mentre le donne apparivano confinate all’ambito domestico. In realtà le donne costruivano forti reti di amicizia, ma le «velavano» all’interno della quotidianità domestica (come se fossero un’estensione dell’ambito familiare) 2. I casi al presente oltre che al passato sono innumerevoli: donne quechua che negli altipiani peruviani leggono il presente attraverso una messa in comune e un’interpretazione dei sogni 3. Lo stesso avveniva fino a qualche tempo fa in Calabria, dove le donne al mattino andavano a farsi visita reciprocamente per raccontarsi i sogni e «addunarisi», rendersi conto 4. Donne che si sottraggono alle relazioni familiari e parentali in un tessuto di solidarietà che consente loro di allargarsi a luoghi esterni come i mercati. Nei paesi boliviani le «cholas» che scendono a valle dalle comunità sulle montagne a vendere i prodotti dei loro campi, patate, mais, carne di alpaca e si ritrovano a mangiare al mercato una zuppa di pollo o una trota criolla. Non c’è bisogno di scomodare Virginia Woolf o la piú recente letteratura dei Women Studies per rendersi conto che l’amicizia femminile è un fenomeno

universale e universalmente riconosciuto, nonostante i rigurgiti del mai sopito spirito patriarcale. L’amicizia femminile apre la storia della letteratura giapponese nel Genji monogatari, è presente nelle commedie di Aristofane, nelle poesie di Cecco Angiolieri, nella letteratura antropologica sulle donne executive nel Giappone di oggi 5. La si ritrova tra le Fujoshi, le «ragazze sessualmente trasgressive» nello stesso Giappone di oggi. Le Fujoshi sono comunità di adolescenti che online incarnano ruoli transgender ispirandosi ai manga piú amati. Sono un fenomeno molto diffuso nei social e nella maggioranza dei casi questa rappresentazione di sé cessa con l’uscita dall’adolescenza 6. Un’ampia letteratura si è occupata negli ultimi decenni della differenza di linguaggio se si tratta di «discorsi tra amici» o di «discorsi tra amiche». L’antesignana di quest’attenzione è stata Deborah Tannen, valente linguista con una grande capacità di divulgazione. I suoi lavori di etnolinguistica ci hanno aiutato a capire il modo differente con cui uomini e donne interloquiscono, si interrompono, si danno manforte o si contraddicono, parlano del mondo «esterno», fanno gossip e costruiscono il proprio stare insieme. Ovviamente questi lavori non hanno validità universale e sono contestualizzati in geografie e storie precise. La stessa Tannen, non a caso ha aperto ai discorsi che uomini e donne fanno tra loro con un testo il cui titolo dice già molto dei contenuti: That’s not what I meant 7 (Non è questo che intendevo dire). Uomini e donne, in situazioni di convivialità, usano registri diversi, affrontano le questioni in modo differente, si interrompono (gli uomini interrompono le donne e le donne rimproverano gli uomini di non farle parlare). Anche qui ogni forma di generalizzazione è pericolosa. Michael Foucault, parlando della storia dell’omosessualità, ha affermato piú volte che questa era una manifestazione di un’«amicizia tra uomini» che la società dell’ancien régime non ammetteva. Una vicinanza particolare in situazioni di crisi, in guerra, in istituzioni oppressive che dava luogo a un’intimità che come tale non era accettata dal mondo circostante. Foucault sostiene che questa forma di amicizia maschile non aveva per forza contenuti sessuali, ma che la stessa omosessualità è stata la forma con cui quel tipo di relazione ha imparato a manifestare i propri diritti. Si potrebbero trovare paralleli in altre forme di amicizie censurate dalla società, non solo quella tra uomini tra loro e tra donne tra loro, ma anche quella tra uomini e donne. Credo che si potrebbe leggere una certa storia europea come la guerra che

la «parentela» ha sferrato per secoli contro l’amicizia, come fenomeno eversivo, come qualcosa di non facilmente controllabile e assimilabile. Spostare tutto l’asse dell’amicizia maschile o di quella femminile sull’omosessualità mi sembra non rendere giustizia all’omosessualità come diritto alla differenza, né alla storia della «mascolinità» o dell’identità femminile. C’è una tendenza che vorrebbe assimilare ogni forma di amicizia tra uomini o tra donne alla categoria Lgbt. Come se l’amicizia non fosse una sfumatura dell’erotismo, un gradiente che non gradisce l’essere assimilato tout-court allo scambio sessuale. Credo che qui ci sia qualcosa fondamentale da ribadire. Distinguere l’amicizia dai suoi «benefits» sessuali, significa comprendere che la società non si costituisce solo a letto. I legami si formano con un’elasticità che spesso non corrisponde alle ragioni del desiderio sessuale tout-court. (C’è una forma di tardo freudismo in questa tendenza a volere ridurre tutto alla genitalità dei rapporti, la società nel suo farsi è molto piú sofisticata e ama le distinzioni e le differenze). E l’amicizia tra uomini e donne? Ci viene in aiuto un fenomeno che si è manifestato per due secoli e che ha avuto esito nella Rivoluzione francese. Si tratta di quell’arte della conversazione che si afferma tra il Seicento e il Settecento nei salons parigini intorno alle grandi dame aristocratiche. In questi luoghi, che sono per eccellenza «antimonarchici» viene elaborata una nuova idea dell’amicizia come base di una società liberata dal peso della corte e di un sovrano assoluto. Nei salons si sperimenta un tipo di amicizia il cui strumento è la conversazione. Essa serve a instaurare un’autentica «libertà, uguaglianza, fraternità» tra nobilitati delle lettere, alcuni dei quali si giovano del loro talento naturale, altri della loro conversazione: tutti lasciano alla porta del banchetto letterario il rango, i titoli, la professione, che sono di troppo in una società elevata dalla lettura e dal contagio della lettura a uno stato di grazia distributiva e commutativa. Uno dei pilastri di questi laboratori d’amicizia è proprio l’amicizia tra uomini e donne, liberata sia dai gravami dei matrimoni tra casate (che continuano ma a cui viene dato un valore solo formale) che dai turbamenti della passione. Anne-Thérèse Marguenat de Courcelles, marchesa di Lambert, che è una delle animatrici dei salons, scrive in un trattato sull’amicizia 8 che essa è superiore alla «passione turbolenta» dell’amore.

Quando le veniva chiesto «se l’amicizia possa sussistere tra persone di sesso diverso», ella rispondeva che essa era non solo possibile, ma perfino superiore, per intensità, complicità e seduzione 9.

E aggiungeva: L’amicizia è una forma stabile, razionale di amore. L’uomo è pieno di bisogni: se guarda a se stesso trova un vuoto che solo l’amicizia può colmare: sempre agitato e preoccupato, può trovare pace e calma solo nell’amicizia.

Un’altra gran dama, Mademoiselle de Scudery, concorda: [L’amicizia] piú dolce e delicata è quella che si stabilisce tra un vero honnête homme e una donna dotata di una bella intelligenza, piacevole e solida e di un nobile cuore, a condizione però che entrambi si astengano dall’amore 10.

Potrebbe sembrare un vezzo aristocratico se questi stessi salons non avessero preparato la caduta della monarchia e se le loro animatrici e gli animatori non avessero pagato di persona, prima per mano del sovrano, poi con le loro teste durante la Rivoluzione, la diffusione di un’idea di uguaglianza tra uomini e tra uomini e donne basata non sul censo o sul rango, non sull’appartenenza a famiglie o a clan, ma a una comune umanità. La conversazione è l’unica possibilità «civile» di costituire un nuovo tipo di cittadinanza definito dalla libera elezione tra amici e amiche. Bisogna praticare la conversazione come qualcosa che crea e mantiene l’amicizia e che non può essere provata e riprovata se non nel suo farsi. Contro un approccio intellettuale la conversazione non è trascrivibile, essa è valida solo mentre si fa, e deve rispettare alcune regole tra cui il fare svanire l’io di chi parla e allargare il campo all’ascolto. Non deve pesare, deve essere lieve e vivace, godibile e capace di instaurare quella felicità che è possibile solo nell’amicizia. Questo punto viene ribadito nelle lettere che le dame si inviano e che inviano alle loro amiche e ai loro amici e amanti. La felicità su questa terra è l’amicizia, essa è il culmine cui può aspirare l’umanità. Essa è possibile se tra amici si pratica la virtú dell’honnêteté, che potrebbe essere tradotta con «franchezza», «spontaneità», fuga da ogni infingimento: non è

una virtú romantica, non viene richiesta un’esposizione «del cuore», un’esondazione dei propri sentimenti, ma la cura della relazione, il non gravare sull’amico o sull’amica. Nel pieno dell’arte della conversazione, nei salotti parigini era d’uso fare il ritratto degli amici e delle amiche. Erano bozzetti o veri e propri poemi che delineavano i caratteri, virtú e difetti, scritti con una vena ironica e obbedienti a una logica in cui il badinage, la galanteria scherzosa, aveva la nota predominante. Spesso si mostravano i pregi come fossero difetti, e nell’insieme le descrizioni erano abbastanza leggere da non toccare nell’intimo coloro che ritraevano. Erano destinati a essere letti pubblicamente. E spesso erano raccolte, florilegi e insiemi di ritratti. Quest’arte tutta privata in cui alcune grandi dame dei salons emergevano serviva a ravvivare l’idea di amitié nutrita da un’aristocrazia che in essa vedeva il piú alto contributo alla civilization. Era una maniera molto efficace di descrivere una società che voleva essere identificata con una certa arte di vivere, contrapposta a quella della corte e propensa invece a un ideale di amicizia tra eguali. Si esercitava in essa una «sprezzatura», una semplicità frutto di grande elaborazione di maniere, una naturalezza che aveva in odio ogni forma di affettazione e di retorica. Ironia, scherzo, galanteria dovevano mantenersi lontani da ogni forma di codifica e di manierismo. Occorreva distinguersi con una finezza di modi tale da non essere neppure notata. Era il trionfo di una forma dentro cui i contenuti venivano trattati con uno spirito che rifuggiva l’eccesso e la passione. Eppure è proprio in questi salons che si è formata l’idea di un’individualità da far maturare nella conversazione. Eredi di un’idea classica, greca e romana dell’amicizia come virtú civica furono queste le palestre aristocratiche dell’égalité dei Lumi coniugata con la fraternité, come felicità sociale tra amici cittadini. I ritratti creati nei salotti parigini mantenevano una dimensione giocosa anche se delineavano le caratteristiche salienti di ogni persona. Nella loro mancanza di approfondimento psicologico c’era l’intenzione di non offendere. In piú essi si occupavano di quanto dell’amicizia fosse bene comune, dell’amico o dell’amica come personaggi all’interno di un gioco di reciprocità. E obbedivano all’idea che non si potesse in effetti descrivere fino in fondo l’amicizia, pena la riduzione di essa a qualcosa di già conosciuto e non prodotto via via dal farsi delle relazioni nel comune contesto, le case, i salotti, i castelli.

1. MME DE LAMBERT e L .-S . DE SACY, Sull’amicizia (1702), Medusa, Milano 2015. 2. S . UHL , Forbidden friends. Cultural veils of female friendship in Andalusia, in «American Ethnologist», vol. 18, n. 1 (febbraio 1991), pp. 90-105. 3. A . CECCONI , I sogni vengono da fuori, esplorazioni sulla notte nelle Ande peruviane, Ed it., Firenze 2012. 4. M . MINICUCI , Il disordine ordinato. L’organizzazione dello spazio in un villaggio rurale calabrese, in «Storia della città», n. 24 (1982), pp. 93-118. 5. HO SWEE LIN, Tokyo at 10. Establishing difference through the friendship networks of women executives in Japan, in «The Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 18, n. 1 (marzo 2012), pp. 83-102. 6. P . W . GALBRAITH , Fujoshi. Fantasy Play and Transgressive Intimacy among «Rotten Girls», in Contemporary Japan, in «Signs», vol. 37, n. 1 (settembre 2011), pp. 219-40. 7. D . TANNEN , Ma perché non mi capisci? Alla ricerca di un linguaggio comune tra donne e uomini [1992], Frassinelli, Milano 1992. 8. MME DE LAMBERT e DE SACY, Sull’amicizia cit., p. 271. 9. B . CRAVERI , La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2006, p. 272. 10. Ibid., p. 272.

Comunione dei santi

Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria immagine ideale. Perciò gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel che è piú difficile a dirsi, i morti vivono, cosí tanta stima, ricordi, rimpianti ispirano i loro amici. MARCO TULLIO CICERONE 1.

So, per esempio, che il fantasma di Goya mi guarda da molti luoghi di Spagna. Come mi piacerebbe fare un’intervista con il suo incredibile spirito, in questa terra dove esso ancora spira. RAY BRADBURY 2.

Io sarò con voi perché quando chiuderò gli occhi il mondo non sparirà. Il direttore del Teatro di Medellin

Forse la dimostrazione piú palese del carattere resistente dell’amicizia è il suo esistere in chiave intergenerazionale, anzi per meglio dire, in chiave intertemporale. Quando al liceo cominciai a scoprire Petrarca e la sua poesia la prima cosa che mi venne in mente è che la vicinanza che sentivo, la consonanza con i suoi versi esulava da un fattore puramente estetico o sentimentale. Era a Petrarca come uomo e individuo che mi sentivo vicino, egli mi si palesava come amico. L’idea che un uomo che non potevo aver incontrato potesse diventarmi caro cozzava con la mummificazione accademica e scolastica della letteratura e della poesia. «Erano i bei capelli a Laura sparsi» suonavano alle mie orecchie come parole di qualcuno che non solo mi diventava vicino ma alla cui vicinanza tenevo. «Solo et pensoso i piú deserti campi | vo mesurando a passi tardi e lenti» incontrava la mia sensibilità là dove doleva la solitudine adolescenziale. Petrarca aveva capito cosa si prova quando una delusione ti fa voltare le spalle al mondo e rintanarti nel tuo vagabondare ha un valore che va al di là della semplice autoconsolazione. Com’era possibile che i seicento anni che mi dividevano da lui fossero poca cosa? Per la prima volta capii cos’era il rapimento che aveva avvinto il Rinascimento al mondo classico e l’idea di classicità da quel momento non si staccò piú dall’idea dell’amicizia attraverso i secoli.

Ho ritrovato molti anni dopo un sentimento analogo in un racconto di Nadine Gordimer nella collezione di storie contenuta in Beethoven era per un sedicesimo nero 3. La Gordimer rivede in sogno, o in dormiveglia, alcune persone con cui ha condiviso passioni e vita, letteratura e passaggi esistenziali: Edward Said, Susan Sontag. Sono stati grandi amici, sono morti da poco, l’unione a essi non è della natura del ricordo, ma della presenza. Una comunione di spiriti, si potrebbe dire una comunione spirituale e intellettuale, ma anche fisica: la bellezza dell’uomo Said, il suo charme, la sua eleganza. Non c’è rammarico in questa scrittura, ma la superiorità di una comunione che non si spegne. Qui la comunione dei santi – che è una categoria teologica – viene completamente trasformata in comunione reale, che va oltre l’episodio transitorio della morte. Il legame rimane, forte, fisico, incancellabile. È una Gordimer anziana che sa che anche lei tra poco «sparirà» ma che sa che non si sparisce, che la comunione dei santi letterati mantiene in vita gli amici. Il sentimento che essa esprime è talmente demodé che si è confusi dalla sua sicurezza. Per trovare qualcosa di simile occorre cercare nella grande letteratura russa, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov fino a Pasternak o nei grandi film di Tarkovskij. Quello che qui è osato è l’insulto massimo per la nostra contemporaneità, l’idea di un’immortalità effettiva, non guadagnata dopo la morte, ma maturata in vita. Un’immortalità dovuta alla sospensione del tempo che l’amicizia produce, alla negazione teologica che l’amicizia pronuncia nei confronti della morte. Abbiamo perso l’idea della fisicità dell’immortalità. Abbiamo anche dimenticato che la resurrezione promessa nel cristianesimo è una resurrezione dei corpi. E questo ci ha fatto dimenticare i grandi dibattiti medievali sulla resurrezione. È merito di Caroline Bynum 4 averceli fatti rivivere. La resurrezione dei corpi è stata argomento di discussione per decine di secoli: che tipo di corpo risorge? Quello di quando moriamo, quello affetto da malattie e difetti? Un cieco risorge cieco, uno zoppo, zoppo, oppure i corpi vengono composti nella loro completezza e nel loro massimo splendore? E la resurrezione ci allontana dalle gioie terrene o semplicemente le illumina di un’altra luce? In breve, risorgiamo con tutto il nostro mondo intorno, con i legami e gli affetti che avevamo sulla terra o in una solitudine riscattata? Nel poema arabo Il Libro della Scala che serví da modello alla Commedia di Dante, l’autore visita il Paradiso e incontra i suoi poeti preferiti.

Nessuno di essi ricorda però di essere stato un poeta. Perché in Paradiso non c’è bisogno della poesia, visto che esso è l’adempimento perfetto della beatitudine a cui la poesia tende. I beati hanno dimenticato tutto perché sono felici e questo basta 5. Nel cristianesimo c’è un’oscillazione rispetto all’idea di vita eterna. Sarà una contemplazione felice, ma anche l’illuminazione della vita terrena, il disvelamento in essa dell’eternità che vi è contenuta. Nessuno come Walter Benjamin, eretico ebreo e marxista eretico, ha intuito questa dimensione. La comunione dei viventi e dei vissuti esiste perché questi hanno preparato agli altri la strada e sono a essi uniti da uno stesso movimento verso la redenzione. In una concezione teologica della storia essa è una fibra intessuta da tutti i passaggi, i prestiti, i desideri che uniscono le generazioni tra di loro. C’è un passo straordinario dove tutto questo viene espresso: Questa riflessione comporta che l’immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non piú conosciute? Se è cosí, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto 6.

Per Benjamin il teatro privilegiato di questa comunione è la città, le sue strade, come luogo dove il passato si manifesta come continuità, come «appuntamento segreto»: [...] siamo nella strada come in un tempo dialettico in cui il presente risuona d’armoniche strane fatte dal rumore delle età 7,

e ancora:

L’Ora è l’immagine intima di Ciò che è Stato 8.

L’idea è che il passato, «i vissuti» hanno un diritto sui viventi. Questa che antropologicamente potrebbe essere l’idea dei «revenants», l’idea che i defunti sono presenti da qualche parte, ma che è compito dei viventi fissarli nel loro altrove, qui è totalmente ribaltata. I vissuti non pretendono dai viventi qualcosa che spetta loro (un sacrificio, l’offerta della birra di miglio, il riscatto in maiali o in altri beni, il grande banchetto che li suggella nel loro essere solo «antenati», come raccontano gli antropologi di altre culture), qui essi sanno di essere legati da una storia comune da compiere, una «redenzione» da portare avanti insieme. Per Benjamin era una missione storico-teologica, per la Gordimer è l’alveo salvifico della letteratura come amicizia vivente, per qualcun altro è la stessa comunione degli amici come garanzia di immortalità. C’è un accenno di questa «redenzione» come compito comune agli amici nella rievocazione che Derrida fa di Lyotard: [...] e ormai chi potrebbe dire un «noi» senza tremare? Chi può sottomettere un «noi», un «noi soggetto» al nominativo, il «we» inglese o un «noi» accusativo o dativo, l’«us» inglese? in francese, c’è un solo «noi» anche nel riflessivo «noi, ci», sí, noi ci siamo incontrati (nous nous sommes rencontrés), noi ci siamo parlati, scritti, noi ci siamo capiti, noi ci siamo amati, noi ci siamo accordati – o no. Tra i vivi, sottoscrivere un «noi» può già apparire impossibile, eccessivamente pesante o leggero, sempre illegittimo. Quanto piú, allora, se ciò avviene da parte di un sopravvissuto che parla dell’amico? A meno che una certa esperienza del «sopravvivere» possa darci, al di là della vita e della morte, ciò che essa è la sola a darci, a dare al «noi», sí, la conoscenza della sua destinazione, del suo senso e della sua origine. Il suo pensiero e forse il pensiero stesso 9.

Comunque sia, l’amicizia postula, anche allo sguardo piú disilluso e materialista, uno «spreco» che fa urlare o che semplicemente rende poco credibile la «scomparsa». L’amicizia va oltre l’estemporaneità della scomparsa, si situa, perché lo crea, in uno spazio e un tempo diversi. L’amicizia vive di presenze e di compresenze. Cosa importa che Čechov sia morto? Per l’effetto che egli ha su di me la morte conta molto poco. E questo vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa

dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo condiviso. Il nostro legame con chi ci ha preceduto è una garanzia del lavoro vitale che compiamo nel nostro presente, ma è anche una riprova dell’imperdibilità di ogni presente. Il presente scalfisce il muro del tempo, vi imprime dei segni che si trasmettono a chi viene successivamente. L’amicizia ridefinisce completamente il tempo, gli dà una spinta in avanti che lo sottrae alle sue discontinuità e ai suoi tradimenti. La pretesa di immortalità di ogni presente non è una pretesa teologica, una «fede», ma scaturisce proprio dalla natura della nostra presenza al mondo e dalla natura del legame che ci unisce ad altre presenze. Il ruolo preponderante della ritualità funebre in gran parte delle culture consiste proprio nel prendere sul serio la storia che ci unisce ai vissuti. Da questo punto di vista la nostra società è la meno «storica» che sia mai esistita, perché pretende di non occuparsi dei vissuti trasformandoli in defunti e quindi annullando proprio la radice del legame storico che ci installa al mondo. Per moltissime culture il problema è come «fare i conti con i morti», perché non si può vivere il presente se non si sono regolati i conti con le generazioni passate. Bisogna difendersi dai morti, come ci si difende da potenziali nemici, bisogna ingraziarseli, tenerli buoni, allontanarli, ma anche il disporli nella dimensione mitica è un modo di misurarsi con essi e di rammentare che tutti noi saremo soggetti a questa trasformazione. Il problema per buona parte delle culture «indigene» non è la paura della morte, ma la paura del disordine tra generazioni. La storia va messa a posto, si potrebbe dire, strano per società che abbiamo sempre considerato a-storiche. La mitologizzazione della vita passata è la garanzia dell’eternità del presente. Il mito è l’ombra che il presente getta sulle generazioni future. Riuscire a concepire la nostra vita individuale oggi come comunque parte di una mitologia efficace è il problema maggiore dei nostri tempi. L’aveva capito Michel Leiris, siamo oggi inadeguati nel lanciarci nell’immortalità, ce ne manca il coraggio, eppure al di là del fatto che lo vogliamo o meno c’è qualcosa in noi che ne pretende una qualche forma e questo qualcosa è una volta di piú l’amicizia. La comunione dei santi postula che l’effetto tra i viventi e i vissuti non sia solo in una direzione. D’altro canto chi «opera», chi fa qualcosa che sa andrà

oltre il suo tempo di vita già riceve un feedback dal futuro. Bisogna dare ragione a Frank Kermode 10 quando dice che la letteratura è sempre escatologica. In ogni opera letteraria è compresa la coda che va molto oltre il tempo dell’autore. Alcune opere letterarie preparano, messianicamente, il movimento della storia, la sua «redenzione», nella ricezione che i posteri hanno dell’opera. 1. CICERONE , Laelius de amicitia cit., pp. 85-87. 2. R. Bradbury in J . L . GARCI , Ray Bradbury, humanista del futuro, Helios, Madrid 1971, p. 8. 3. N . GORDIMER , Beethoven era per un sedicesimo nero [1997], trad. di G. Gatti, Feltrinelli, Milano 1998. 4. C . BYNUM , The Resurrection of the Body in Western Christianity, 200-1336, Columbia University Press, New York 1995. 5. D . HELLER ROAZEN, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (2005), trad. di A. Cavazzini, Quodlibet, Roma 2007. 6. W . BENJAMIN , Sul concetto di storia, in ID ., Opere complete, vol. VII, Scritti 1938-1940, a cura di R. Tiedemann, ed. italiana a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2006, pp. 483-84. 7. ID ., Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 907. 8. Ibid., p. 516. 9. DERRIDA , Ogni volta unica, la fine del mondo cit., p. 232. 10. F . KERMODE , Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo [1967], Sansoni, Firenze 2004.

Amicizia con Dio

Se uno degli amici è separato da una grande distanza, come Dio rispetto all’uomo, non c’è piú amicizia possibile. Di qui nasce la questione difficile, se in fin dei conti gli amici desiderano veramente per i loro amici i piú grandi beni, come per esempio di essere dèi, perché allora non saranno piú degli amici per loro, né per conseguenza dei beni, giacché gli amici sono dei beni. ARISTOTELE 1.

Magari l’altro lato esiste ed è anche lo sguardo e tutto questo è l’altro e questi quello e siamo una forma che cambia con la luce fino a essere solo luce, solo ombra. BLANCA VARELA 2.

Nel Vangelo di Giovanni (15, 15), Gesú dice ai suoi discepoli, in una circostanza che suona come un addio: Non vi chiamo piú servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi 3.

Nell’originale greco amico è philos, lo stesso termine che Platone usa nei dialoghi socratici e che Aristotele usa nell’Etica nicomachea. Giovanni lo usa un’altra volta, quando si parla di Lazzaro, di cui Gesú, che era suo amico, prima di resuscitarlo, piange la morte 4. Sappiamo da Émile Benveniste che philos significa originariamente, ad esempio nell’Iliade, «caro», ma anche «mio», «mia», indica un possessivo, una vicinanza scelta 5. Quando Giovanni scrive, probabilmente sessant’anni dopo la morte di Cristo (ma il primo manoscritto rinvenuto è di circa centoventi anni dopo), il greco che è la lingua piú diffusa nell’impero romano è distante dal greco dell’Atene del V secolo a.C., anche se risente di tutta l’influenza culturale di quel mondo. Non è un caso che il Vangelo di Giovanni cominci con un discorso sul logos, un

concetto profondamente greco, che verrà tradotto in latino come «verbo». Il discorso di Gesú sembra quasi una risposta ad Aristotele, all’idea presente nell’Etica nicomachea che non si possa essere amici con Dio, primo perché se ne è separati dalla distanza e secondo perché Dio non può essere amico degli uomini in quanto non ha bisogni, di essi non ha bisogno. L’amicizia nasce da un bisogno. La cosa interessante nell’affermazione di Gesú ai suoi discepoli è che questi sceglie una categoria antropologica umana, il modello umano dell’amicizia, si potrebbe dire un «fatto della vita», per indicare il tipo di rapporto che Dio intrattiene con l’umanità. Diciamo che è un rovesciare la teologia, un antropomorfizzarla. Proprio perché nelle parole di Gesú sembra che Dio abbia bisogno dell’amicizia degli uomini. La cosa è ancora piú singolare se si pensa al peso che la fede e la religione cristiana hanno avuto in Occidente. Nonostante l’importanza data al matrimonio religioso e ad altre pratiche – battesimo, cresima – il messaggio cristiano si basa su una singolarità che costituisce proprio la base del legame d’amicizia. E sempre Gesú nel Vangelo di Giovanni (15, 12-13): Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore piú grande dell’amore di chi depone la propria vita per i suoi amici 6.

Qui l’amicizia non viene contrapposta al concetto di filiazione, Dio è anche padre e quindi tutta l’umanità è affratellata da questa paternità. Questa relazione però viene ridefinita come qualcosa che ha la natura dell’amicizia e non una natura «gerarchica», fosse anche un rapporto da padre a figli. Cristo è il capo di una Chiesa in cui i suoi apostoli sono amici tra di loro e con lui. Questa relazione è la stessa che Cristo ha nei confronti dell’umanità tutta, un’umanità di potenziali amici. Per capire l’enormità della dichiarazione basti pensare che questa relazione non costituisce obblighi. È revocabile e fluttuante come lo è l’amicizia. Gesú chiede che i suoi amici facciano ciò che lui comanda – ma ciò che lui comanda è che siano amici con lui e tra di loro – il suo comandamento è un doppio vincolo, si potrebbe dire – comanda che siano liberi di essere amici – che essi siano un altro lui, uguali a lui e liberi di revocare la simpatia, la vicinanza, liberi di far fluttuare questa stessa vicinanza. Non può essere pretesa, non può essere effetto di una costrizione o

di un interesse esterno (ci guadagno a essere amico o amica, foss’anche il Paradiso, Gesú invita a essergli amico senza interessi previsti). Qui si tratta della stessa natura inafferrabile di un legame che non ne presuppone altri e non è definito da altri. Qui, in questa indefinibilità, c’è il suo venire prima di ogni altro legame. C’è anche però l’idea che l’amicizia sia la strada per la conoscenza, qui essere amici con Dio significa conoscere. (Il richiamo aristotelico all’idea che l’amicizia sia la strada per la sapienza è d’obbligo, anche se l’aporia di una divinità che si mette «in mezzo» all’amicizia umana cambia il gioco generale). Allo stesso tempo questo discorso ha una premessa: quel «deporre la vita per i propri amici» che indica il valore fortissimo di questa amicizia, che in qualche modo contrasta con l’idea che essa possa «fluttuare» ed «essere revocata». L’amicizia come qualcosa che può portare a dare la vita per gli amici non è però un discorso di rottura con quanto già il mondo antico diceva. Platone nel Convivio (179b) afferma: Solo coloro che amano sono disposti a morire per gli altri e non gli uomini soltanto, ma anche le donne 7.

E Aristotele nell’Etica nicomachea (IX, 8, 1169a): Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse morire per loro.

Nella stessa tradizione ebraica precristiana il motivo della morte per gli amici era già presente. L’espressione «deporre la propria vita» è la traduzione del greco psuchen tizenai, che significa sia rischiare la propria vita che darla 8. Gesú assume tutto l’aspetto antropologico dell’amicizia come gli era arrivato nel suo tempo e come aveva permeato il mondo antico di cui lui faceva parte. Lo assume e lo «spinge» alle sue conseguenze e in piú ne allarga il significato politico. Di questa amicizia che costituisce il farsi del mondo umano fa parte anche la divinità. Non c’è altro legame se non questo che precede ogni altra alleanza e obbligo.

In un passo del Vangelo di Luca c’è un’altra affermazione: Fatevi amici con il denaro dell’iniquità, perché quando questo verrà a mancare essi vi accolgano nelle dimore eterne (16, 9).

Passo particolarmente ambiguo e che ha dato adito a molte interpretazioni contraddittorie, che però si richiama direttamente al primato dell’amicizia su ogni altro rapporto, sia anche quello di giustizia economica (la frase arriva alla conclusione di una parabola dove si parla di un amministratore corrotto). È probabile che la portata di questo «capitombolo» della divinità nell’antropologia umana sia talmente difficile da comprendere che non sono bastati due millenni. C’è in esso qualcosa di «inudibile», un’aporia – quel comando di essere liberi amici – che ci lascia ancor oggi in balia di noi stessi e di tutte le nostre possibilità di trasformazione (Gesú continua il suo discorso nel Vangelo di Giovanni dicendo che è lui che ci ha scelti, non noi che abbiamo scelto lui, come per voler alleggerire il peso di un eccesso che improvvisamente cade su di noi). L’Occidente è figlio di questo messaggio. Dove uno dei fenomeni apparentemente piú banali e modesti della vita, l’avere amici, viene assurto a base del vincolo su cui si basa la convivenza tra umani, ma anche tra umani e divinità. Mi sembra che non si possa evitare di stupirsi di quanto la dimensione antropologica dell’amicizia ci porti fin qui. C’è una questione cosmologica, teologica se si vuole, che non riguarda però solo il mondo cristiano (che peraltro si interroga poco sull’aporia su cui è fondato). Nella gradazione umana dell’amicizia e nel suo primato su ogni altra relazione qui si gioca qualcosa che troviamo anche altrove, in manifestazioni in cui la divinità viene posta come «parte» della storia umana di amicizia. Ad esempio, nella mistica islamica, e soprattutto nel sufismo di derivazione mevleviana, quello che si richiama al messaggio di Jalāl ad-Dīn Rūmī (1207-79). Dio è, con una parola persiana (che era la lingua di Rūmī), l’amico per eccellenza, «dost». E la biografia di Rūmī rivela la centralità della sua amicizia con un altro mistico e maestro, Shams ad-dīn Tabrīzī. Questi, secondo la tradizione, era un mistico nomade e influí in maniera profondissima su Rūmī, ispirandogli un’idea del rapporto con Dio come fusione mistica. I discepoli di Rūmī erano gelosi di questo fortissimo

rapporto d’amicizia con Shams ad-dīn Tabrīzī e lo allontanarono. Rūmī lo andò a cercare, si ritrovarono, ma a un certo punto l’amico maestro sparí, forse eliminato dai suoi discepoli. Tutta l’opera poetica e la danza dei dervisci inaugurata da Rūmī si ispira al dolore per la perdita dell’amico e al desiderio di fondersi con il Dio amico. Al Suo cospetto, due «io» non trovano posto. Tu dici «io» e Lui dice «Io»; allora, o muori tu dinanzi a Lui, oppure è Lui che morirà di fronte a te, perché ogni dualità scompaia. Tuttavia, che Lui muoia non è possibile in alcun modo, né sul piano oggettivo né in quello teorico. Poiché Egli è il Vivente, che non muore mai. La Sua grazia è di tale pienezza che, se Gli fosse possibile, morirebbe per te perché venga abolita la dualità. Ora, essendo la Sua morte impossibile, muori tu, affinché Egli in te si disveli e sia annientata la dualità 9.

Uno dei maggiori esperti di mistica islamica e soprattutto sufi, Fabio Alberto Ambrosio, riconduce la natura di questa amicizia mistica a qualcosa che si collega alla differenza nella lingua di Rūmī e nell’arabo tra ‘ishq, che è l’amore inteso come passione, e mahabba, che è l’amore come amicizia nel senso della philia 10. Il primo tipo di amore ha connotazioni quasi o esplicitamente erotiche, è una passione che brucia e che va verso l’oggetto in cui vuole annullarsi; non è un sentimento legato al bisogno, secondo la definizione aristotelica di amicizia, ma piuttosto un trasporto a cui non si può resistere e che si esprime, ad esempio, nella danza dei dervisci, nell’estasi dei rituali notturni in cui si ripete infinite volte il nome di Allah fin quando esso non diventa un singulto collettivo che suona solo come «uh» (che significa in turco «Lui»). Quest’amicizia con Dio spesso si confonde nell’ambiguità dell’assenza di maschile e femminile nella lingua persiana e nell’arabo con l’eros per l’amato o per l’amata. Cosí recita l’invocazione di Rābi’a alAdawiyya, mistica e poetessa sufi nata a Bassora (oggi Iraq) tra il 714 e il 718 d.C. Mio Dio, le stelle splendono, gli occhi dormono, i re chiudono le loro porte e ogni amato resta solo con il proprio amato: cosí io sto davanti a te 11.

Mi sembra che qui, come in altre mistiche, che siano di matrice induista o buddista, quello che è importante è l’invocazione, cioè quello che cambia

completamente la relazione è quel potere rivolgersi alla divinità direttamente, che ci sia o meno nella lingua il «tu» non importa (in arabo e in persiano non si distingue il lei e il voi, dal tu). È l’idea del poter fare entrare la divinità nel gioco quotidiano delle relazioni «scelte» che è la grande differenza. Questo pensare che a ogni «presenza» corrisponda un principio personale (lo vedremo nel capitolo successivo) e che se c’è una presenza «fuori dal mondo» essa non può esimersi di essere allo stesso tempo all’interno delle relazioni personali che lo costituiscono. In una notte del gennaio 2016, nella casa della profetessa discendente da Rūmī, sul Bosforo, abbiamo filmato dervisci che ripetevano per ore l’invocazione «Ašhadu an la ilàha illa Allàh». A un certo punto, nel loro lento concitato tenersi per le spalle e danzare, le voci sono diventate semplicemente un singulto, un solo suono: «Uh, Uh», Lui, Lui, fuse nella notte indistinta e nel fruscio della grande acqua 12. 1. ARISTOTELE , Etica nicomachea cit., VIII, 9, 1159a, 5-11. 2. B . VARELA , Poesía reunida 1949-2000, Libreia Sur, Lima 2016. 3. Il Vangelo secondo Giovanni, a cura di J. Zumstein, vol. II, Claudiana, Torino 2017, p. 710. 4. Ibid., pp. 689-778. 5. BENVENISTE , Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società cit., p. 257. 6. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710. 7. PLATONE , Opere complete, Laterza, Bari 1976, vol. III, p. 161. 8. Il Vangelo secondo Giovanni cit., p. 710, nota 94. 9. J . AD -DĪN RŪMĪ, L’essenza del reale. Fihi-mâ-Fihi, Psiche, Milano 1995. 10. A . F . AMBROSIO , Danza coi Sufi. Incontro con l’Islam mistico, San Paolo, Milano 2013. 11. In C . GREPPI , Rābi’a, la mistica, Jaca Book, Milano 2003. 12. S . SAVONA e F . LA CECLA, Prayground, installazione alla mostra Pregare, un’attività umana, Reggia di Venaria Reale, 2016.

L’amico del giaguaro

Gli uomini e le donne Tapirapé che cercano di diventare sciamani si imbarcano in una strada onirica il cui obiettivo è di stabilire relazioni amichevoli con piú spiriti anchunga possibili. Questi possono essere acquatici o terrestri, spiriti animali, del cielo, spiriti della foresta o spiriti dei morti. Tutti questi spiriti sono potenzialmente pericolosi. Mentre visitano i mondi invisibili nei sogni, gli apprendisti sciamani sono invitati di tanto in tanto a visitare le case degli spiriti che incontrano sulla strada. Questi inviti spesso sono trappole in cui un malintenzionato anchunga cerca di sodomizzare o di mangiare i novizi. CHARLES WAGLEY 1.

Nel 1947, João Guimarães Rosa, l’autore brasiliano di Grande Sertão, si reca nel Pantanal, la regione amazzonica tra Brasile, Bolivia e Paraguay. Qui impara il tupi-guaraní e ascolta molte storie raccontate dai nativi. Poco dopo scrive la prima versione di Mi tio el jaguareté (Mio zio giaguaro). Un bianco è smarrito nella selva ed è notte. Dopo molto vagare vede una luce e una casa. Bussa e gli apre un mestizo che lo accoglie. Offrendogli da mangiare e da bere e bevendo egli stesso aguardiente, narra allo straniero dei pericoli in cui questi avrebbe potuto incorrere nella foresta. Pericoli che non sono ancora lontani. Macuncôzo, l’uomo della casa, parla in una lingua dove si mescolano espressioni in tupi, onomatopee, ma anche ruggiti di animali. Un idioma di frontiera che viene dal portoghese e dall’indio, dall’umano e dal mondo animale. Il suo obiettivo è di calmare il bianco, di farlo addormentare – forse per mettere in pratica intenzioni oscure. In un primo tempo si mostra ospitale, offre da mangiare allo straniero, mentre gli parla dei movimenti dei felini intorno alla capanna in cui si trovano. Poi mostra le pelli che ha cacciato. Era stato chiamato per ripulire la regione dai giaguari ma a furia di frequentarli come cacciatore ha cominciato a capirli. L’aguardiente gli scioglie sempre di piú la lingua. Comincia a contraddirsi, e a essere brusco, proibisce all’ospite di ripetere le sue parole, di commentarle. Dice che il giaguaro è anche suo parente: «Onça é meu tio, o jaguaretê, tôdas...» (la pantera è mio zio, il giaguaro, tutte...). E poi: «Mas eu sou onça. Jaguaretê tio meu, irmão de minha mãe, tutira...

Meus parentes! Meus parentes!...» (Io sono pantera, il giaguaro mio zio, fratello di mia madre, miei parenti, miei parenti). Nel racconto l’ex cacciatore è l’unico che parla, è il narratore assoluto. Nelle sue parole vediamo riflessa la paura dell’altro, i movimenti dell’altro. Allo straniero racconta che da vicino la femmina del giaguaro odora come fiore di «palo de ajo quando piove», piú bella di qualunque donna. Che lui è diventato geloso dei maschi giaguari. Una di queste femmine la chiama María-María, un nome che somiglia a quello di sua madre Mar’Iara María, lui figlio di un’india e di un bianco. È diventato parente dei giaguari, usa un termine tupi, «remuaci», che significa parente per lato materno. Come tale e con la complicità dei giaguari, ha aiutato a ripulire la regione dagli esseri umani, da ergastolani che fuggivano, dal negro Bijibo, dal bandito Riopôro, dal Gugué aggredito nella sua amaca. Dice che si ubriaca solo quando beve molto, molto sangue. L’ospite comincia a innervosirsi, e a un certo punto estrae un revolver. Macuncôzo continua a parlare, dice che il giaguaro pensa solo una cosa – che tutto è bello, buono, senza che nulla lo turbi. Se però accade si arrabbia, ruggisce, ma lo fa senza pensare, in questo istante smette di pensare. L’aguardiente tradisce sempre piú Macuncôzo. L’ospite ha capito che di fronte a lui sta un amico/nemico che vorrebbe divorarlo, «senza alcun pensiero», che nelle sue parole si sente sempre piú presente l’eco della foresta, il ruggire, il raspare delle unghie. Alla vista del revolver puntato Macuncôzo in un improvviso momento di lucidità lo prega: Non scherziamo, metta il revolver da parte. Sto calmo, calmo, Ói, mi vuole accoppare, metta via la pistola. Ah, mi fa male, freddo, via, il rancho è mio, via mi uccide, adesso arriva la compagna, la pantera, María-María... la pantera è mia parente. Perché mi uccide? Non ho mai ucciso il nero, raccontavo cazzate. La pantera, sia buono, non mi faccia questo. Io Macuncôzo. Non lo faccia, nhenhenhém... Heeé!... Hé... Aar-rrâ... Aaâh... non mi uccida sono suo parente, mezzo fratello, famiglia... Araaã... Uhm... Ui... Ui... Uh... uh... êeêê... êê... ê... ê... 2.

Guimarães Rosa era un attentissimo ascoltatore del mondo indigeno. I suoi racconti riflettono una conoscenza della tradizione orale, la consuetudine di decenni di frequentazioni nel mondo dei Minas Gerais come nel mondo amazzonico 3. Il giaguaro è l’amico per eccellenza degli sciamani amazzonici.

Tuttora si racconta che l’uccisione di un giaguaro nella selva peruviana porta alla morte immediata di uno sciamano. Durante il suo viaggio provocato da sostanze allucinogene questi si trasforma nel felino, ne prende le sembianze, e in tutta la cosmogonia india e precolombiana il giaguaro ha un ruolo predominante. Chi è il giaguaro? È un essere umano che ha sembianze diverse. Noi lo vediamo come felino, e lui ci vede come preda, ma in tutti gli esseri viventi vi è un principio umano, solo che sta nascosto sotto sembianze diverse o meglio ognuno lo vede in una prospettiva che ne nasconde l’identità umana. È quello che recentemente ha riassunto Viveiros de Castro nelle sue Metafisiche cannibali 4. Il «perspectivismo» significa che nelle culture indie e soprattutto amazzoniche c’è una situazione dialogica in cui concorrono le diverse prospettive degli esseri. Questo rende possibili le amicizie tra umani e apparentemente non umani, come rende possibile pensare che gli umani siano allo stesso tempo animali della foresta. Nel racconto di Guimarães Rosa c’è l’idea che tutto questo sia anche molto pericoloso, che questa vicinanza sia amicizia/inimicizia, divorare ed essere divorati. Come dice Santos-Granero in un articolo chiave sull’amicizia tra umani e non umani: Per i popoli dell’Amazzonia il regno del sociale non include solo umani, ma anche animali, piante, oggetti ed esseri invisibili, che per quanto non esattamente simili agli umani, sono considerati umani in essenza. Gli sciamani amazzonici spesso hanno a che fare dialogicamente con questi pericolosi, primordiali umani 5.

Ecco che il racconto di João Guimarães Rosa viene fuori in tutta la sua acuta lettura del mondo indigeno. Essere giaguaro è una circostanza normale se si vive nella foresta, e sentire come il giaguaro è una prospettiva che altera completamente il rapporto tra mondo umano e mondo animale. È una stessa società, una radice comune, e distinguere è difficile, anche se questa immersione è pericolosa. In questi casi gli apprendisti devono lottare contro gli spiriti maligni per salvarsi. Si dice che spesso, invece di combattere gli anchunga, l’apprendista li fa diventare «amici suoi» o possibili alleati. I compagni di questa associazione mistica si chiamano tra di loro «tuhava» o amici, per quanto gli sciamani possono a volte rivolgersi agli spiriti amici come «figli» (Wagley 1977). Sciamani di grande esperienza visitano i loro spiriti amici

trasformati in uccelli o in canoe oniriche. I loro spiriti compagni li invitano a mangiare cibi e a bere pozioni. Gli sciamani che sono stati capaci di acquisire molti spiriti amici, si dice sappiano camminare con gli spiriti (Wagley 1977). Cacciano insieme e si decorano reciprocamente. Piú importante ancora gli sciamani Tapirepé possono convocare i loro spiriti amici cantando durante la cura dei loro pazienti. In breve si dice degli sciamani Tapirepé «che sono amici degli spiriti e che il loro potere si accresce in proporzione alla capacità di fraternizzare, di vincere in combattimento i demoni della foresta. Gli sciamani Matseninka (seipi’gari) sono ritenuti capaci di curare solo grazie alle buone relazioni di amicizia con gli spiriti benigni conosciuti come saankarite, i puri, gli invisibili. I puri sono i piú efficaci esseri benigni incapaci di far male, ma altrettanto pericolosi 6.

Nella Valle Sagrado, dove si concentrano i resti della cultura incaica e dove essa è viva nel mondo quechua che la abita, ho seguito insieme a Emanuele Fabiano, l’antropologo che ha fatto un bel documentario su di loro, i «pablitos», chiamati in quechua ukuku. Sono una confraternita di danzatori rituali indigeni travestiti da esseri per metà animali. Le loro maschere sono lunghe vesti di lana a trecce bianche e rosse e un passamontagna che ne copre completamente il volto. Sono incaricati di comunicare con gli spiriti animali e con quelli della montagna e del ghiacciaio di Quylluriti. Parlano tra di loro in falsetto, una lingua a metà tra mondo animale e mondo umano, e spesso portano sulle spalle pupazzi che rappresentano lama o degli alter ego di cui si servono per chiedere da bere (la chicha fermentata di mais) 7. Tutto ciò potrebbe anche essere chiamato «animismo» con una parola che agli antropologi non è cara piú per motivi accademici che reali. L’idea che ci sia una familiarità tra gli esseri viventi, ma anche tra esseri viventi e montagne, pietre, fiumi, e che questo comporti una «cura» delle relazioni, e l’idea che in ogni «presenza» ci sia un principio di intenzionalità. Ad esempio l’idea del mondo indigeno peruviano che le montagne siano «apu», presenze potenti con cui relazionarsi con rispetto e timore e da ingraziare a proprio beneficio. Questa immersione degli esseri in uno stesso spazio relazionale è ancora una volta stata raccontata come da nessun altro da João Guimarães Rosa in molte delle sue pagine, sia in Corpo de Baile che nei racconti. Ce n’è uno in particolar modo, intitolato Conversazione di buoi, dove i buoi che tirano un carro su cui giace il cadavere del padre di un ragazzo che viene maltrattato dall’uomo che ne ha preso il posto accanto alla madre diventano principio di

una semi-consapevole giustizia. João Guimarães Rosa racconta la «prospettiva» dalla quale i buoi vedono il mondo degli umani, immersi nel loro essere da cui emergono a tratti. Nella loro conversazione parlano dei pericoli di diventare troppo vicini agli umani, di assumere troppa «individualità», ma allo stesso tempo essi, che vivono immersi in uno stato semicosciente dell’essere, non possono non provare compassione per il ragazzo. Finiranno per travolgere il patrigno sotto le ruote del carro senza quasi accorgersene 8. Negli ultimi anni sono numerosi i testi di antropologia che parlano dell’essere alberi, della partecipazione che la visione cosmogonica della natura offre. È interessante notare che questa lettura ha poco a che fare con un’idea romantica di armonia o equilibrio. Farsi amici il giaguaro, il coccodrillo o il pitone non è qualcosa di immediato. Passa per pratiche e assiduità, è l’idea difficile di un patto che va costantemente rinnovato e curato. È la storia descritta da Hampâté Bâ dello strano destino di Wangrin, traduttore e mediatore tra il mondo dei bianchi e quello della foresta in Mali. Piú Wangrin fa fortuna e piú si allontana dai suoi spiriti protettori, primo tra tutti il grande serpente, il pitone. Wangrin diventa ricco, acquista case e auto fin quando una notte infelice con la sua macchina veloce investe un pitone. Da quel momento la sua fortuna ha termine, e Wangrin accetta che sia cosí, perché si è dimenticato che aveva un’alleanza importante con l’amico rettile 9. 1. C . WAGLEY , Welcome of Tears. The Tapirapé Indians of Central Brazil, Waveland Press, Long Grove 1977. 2. J . GUIMARÃES ROSA, Mio zio il giaguaro, trad. di R. Mulinacci, Guanda, Milano 1999. 3. A . MAURA , Las fronteras del lenguaje (Algunas consideraciones sobre el relato «Mi tio el jaguareté», de J. G. Rosa), in J . GUIMARÃES ROSA, Un exiliado del lenguaje común, Et Caetera n. 0, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 1976. 4. E . VIVEIROS DE CASTRO, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Milano 2017. 5. SANTOS -GRANERO , Of fear and friendship cit. 6. Ibid. 7. E . FABIANO , Il Signore di Quylluriti, https://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/sottosopra/IlSignore-di-Quylluriti-10774097.html 8. J . GUIMARÃES ROSA, Conversazione di buoi, in ID ., Sagarana (1946), a cura di L. Stegagno

Picchio, trad. di S. La Regina, Feltrinelli, Milano 1994. 9. A . HAMPÂTÉ BÂ, L’interprete briccone, ovvero Lo strano destino di Wangrin (1973), Lavoro, Roma 2002.

Conclusioni

L’amico non è un altro io, ma un’alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione piú intima di sé. GIORGIO AGAMBEN 1.

Poiché chi ha davanti agli occhi un vero amico ha davanti a sé come la sua propria immagine ideale. MARCO TULLIO CICERONE 2.

Il verbo che piú mi impressiona in questi pensieri di Agamben è quel «disloca e deporta». Si tratta del sollievo, questo sollievo di non dovere sostenere da solo la dolcezza, ma anche la ruvidezza, della presenza al mondo. Come se l’essere al mondo comportasse una distrazione da sé, l’evidenza che c’è qualcun altro accanto, a pochi passi, che si fa garante non solo di ciò che sento, ma di ciò che sono – adesso, in questo assoluto presente. Mi sembra che qui Agamben riprenda, molto piú che Aristotele, Emmanuel Lévinas, l’idea che l’evasione 3 sia una forma salvifica dell’essere al mondo, perché ci libera dall’essere concentrati sul nostro solo essere. L’amicizia è «glissement» che ci traduce in altro, in altri, senza che quasi ce ne rendiamo conto. C’è in questo un movimento, quel dislocare, deportare, è come un trasloco che occorre far fare alla nostra anima perché senta di non essere cosí limitata. L’amicizia è una scommessa blasfema rispetto all’idea che in fin dei conti siamo soli al mondo, questa constatazione che pretenderebbe di essere realista. Invece c’è nella trama dell’essere un tale sfilacciamento, un tale essere imbrigliati, perdere e acquisire pezzi, essere collaterali a noi stessi che non è possibile pensare di essere gettati al mondo nella solitudine. Agamben, riprendendo Aristotele, dice che c’è «un rango ontologico» dell’amicizia, cioè essa definisce il nostro modo di essere al mondo, non ne è un correlato, un «di piú». Siamo al mondo come «amici», il potenziale essere nell’amicizia con qualcuno è il modo con cui si manifesta la nostra

individualità. Essa non ci viene «ridata» se non in un’alienazione nell’amico o nell’amica. Quando, dopo un viaggio, dopo lunghi rimuginamenti e dialoghi con noi stessi, ci sembra che la nostra solitudine improvvisamente sbocchi nell’inatteso corrispondere di un amico o di un’amica, ecco che ci rendiamo conto che la solitudine stessa era già accanto all’amica o all’amico. Non potevamo permetterci di presumerlo, perché l’amicizia è sempre «inattesa» o «in-attesa», e solamente il volto dell’altro, il suo tono di voce, il suo accoglierci, il suo scherzare, il suo dire «qui sei!» ci spalanca la profonda compagnia che avevamo travestito da solitudine. L’amicizia è la sorpresa costante e inaspettata che nel profondo del nostro essere ce ne sono altri, ma non in una maniera generica, ci sono proprio quegli altri di cui ci siamo accorti e che si sono accorti di noi. In questo senso il nostro «io» non è molto diverso dall’«io amazzonico», da quell’io che non può permettersi l’isolamento da ciò che è vivo intorno. L’amicizia nella nostra società è il resto di quel senso di sconfinamento che gli antropologi chiamano «animismo», «reciprocità dell’essere». C’è una dimensione cosmologica in ogni amicizia, uno «spargimento» dell’io nella geografia che lo circonda, fatta di luoghi, alberi, animali, presenze e persone. C’è nel nostro presentarci all’amicizia l’assunzione di una responsabilità, direbbe Lévinas, siamo responsabili della presenza dell’amico e dell’amica, non nel senso che «dobbiamo fare qualcosa per loro», ma nel senso piú profondo che il piacere di stare al mondo è un compito che va scoperto e svolto. Possiamo chiedere che esso venga svolto per noi e gli amici possono chiederci di svolgerlo. La contiguità, la simpatia, il gusto del trovarsi fanno parte non solo di un’arte di vivere, ma della responsabilità degli esseri viventi. Il piacere dell’esserci riguarda la capacità di non farsi definire dai «fatti della vita», ma di definirli tutti come avvolti dai fili dell’amicizia. 1. G . AGAMBEN , L’amico, Nottetempo, Milano 2007. 2. CICERONE , Laelius de amicitia cit., pp. 85-87. 3. E . LÉVINAS , Dell’evasione [1982], Elitropia, Milano 1984.

Il libro

L

A VITA NELL’AMICIZIA È ADESSO, LO SENTIAMO SENZA DOVERCELO DIRE.

VALE

la pena di vivere per questo, perché c’è l’amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l’esistenza da qualunque

sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un’altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle piú assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c’è un oltre, ma che esso è già qui, che c’è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.

L’autore FRANCO LA CECLA

insegna Antropologia visuale alla NABA di Milano. Ha

insegnato Antropologia culturale presso l’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano, allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna. Ha insegnato inoltre all’Università di Berkeley, all’EHESS di Parigi e all’UPC di Barcellona. Il suo documentario In altro mare ha vinto il San Francisco International Film Festival nel 2011. Tra i suoi libri ricordiamo Contro l’urbanistica (Einaudi 2015) e Ivan Illich e l’arte di vivere (Elèuthera 2018). Con Stefano Savona ha curato l’installazione Praytime e, con Lucetta Scaraffia, la mostra Pregare, un’esperienza umana, alla Reggia di Venaria (2016).

Dello stesso autore Contro l’urbanistica

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Frontespizio Il libro L’autore Premessa Introduzione Di cosa è fatta l’amicizia? Usi spurii, Facebook e altri imbrogli L’amicizia si basa sulla sua revocabilità La politica dell’amicizia Inimicizia Cappellino per non antropologi Altre culture, altre amicizie La lingua dell’amicizia Oscenità Uomini e donne Comunione dei santi Amicizia con Dio L’amico del giaguaro Conclusioni

3 98 99 5 7 11 17 23 30 40 46 52 60 64 72 78 84 90 96