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Italian Pages 141 [132] Year 2015
Carlo Sini ENZO PACI Il filosofo e la vita
Feltrinelli
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Eredi” gennaio 2015 ISBN edizione cartacea: 9788807227004
Eredi Collana diretta da Massimo Recalcati
Eredi raccoglie monografie d’autore brevi, che non forni‐ scono una fotografia storicistica di un insegnamento, ma lo ricostruiscono a partire dal riconoscimento di un debito simbolico. Abbiamo convocato intellettuali del nostro tempo per confrontare la genesi del loro pensiero e della loro ricerca con quelle di un loro padre simbolico. Non semplicemente delle introduzioni all’opera dei propri maestri – lontani o lontanissimi nel tempo, oppure frequentati e conosciuti personalmente – ma un modo per mettere in luce l’eredità come un resto vivo e mai del tutto esauribile. Ogni vero erede vive nel rischio necessariamente eretico che comporta l’ereditare e questa collana si chiede ogni volta, attraverso voci molto diverse, cosa significa essere davvero eredi di un insegnamento? Cosa ci convoca a ripensare la parola di un maestro? Cosa è in essa ancora vivente? M.R.
Premessa
Solo la Musa, si sa, vide e conobbe il numero esatto delle navi e degli uomini che andarono a Troia. A noi resta il racconto dei superstiti, prima che il comune destino ne cancelli le voci. La loro memoria è quello che è, perché la memoria inganna, anche se è vero che solo la memoria salva e conserva per un poco il passato. Non c’è modo di uscire da questa alternativa paradossale. Essa impone di diffidare proprio di ciò di cui non si può fare a meno per ricordare e, ancor prima, per sapere. Hai voglia di far nodi al fazzoletto: bisognerà poi ricordare per che cosa, cioè per ricordar cosa li hai fatti. Il vissuto personale della memoria è alla fine insormontabile. In molti modi puoi utilizzare tracce e scritture, documenti e monumenti, e così correggere a posteriori le arbitrarie e molto soggettive mitologie del ricordo, ma ciò che le scritture possono conservare, con la loro vocazione all’ordine, alla precisione e all’esattezza, rischia di limitarsi al semplice dato, alla sua inerte freddezza testimoniale e infine al suo inevitabile destino di insignificanza: la complessità indescrivibile e incircoscrivibile della vita reale, dei suoi vissuti, delle sue passioni, delle sue motivazioni, rivive solo in altri vissuti, fatti a loro volta di passioni, di emozioni, di decisioni e selezioni. Il significato della mia vita e di una vita, diceva Peirce, è affidato all’interpretazione degli altri, cioè alla fatale e inevitabile parzialità e ingiustizia del loro ricordo,
alla limitazione strutturale di un punto di vista sempre esclu‐ sivamente soggettivo. Ma questo è nel contempo tutto ciò che, a suo modo giustamente, rimane nella sua fatalità indecidibile, perché anche la ricostruzione che insegue virtuosamente e accanitamente segni oggettivi e dati certi, che ostinatamente modifica e corregge, non si metterebbe in moto senza una volontà vivente e operante che, per sue ragioni imperscrutabili, ha già deciso che cosa si deve ricordare, ricostruire, correggere, come e perché: decisione che fronteggia come può il destino di morte e di profondissimo oblio che, irrimediabilmente, ogni vita porta con sé. Tutto questo per dire che le pagine di questo libro seguono appunto il dettato della memoria personale, lasciata correre praticamente senza briglie, e non c’è quindi garanzia che non vi siano nel racconto un buon numero di inesattezze o errori anche più gravi: è una scelta fatta a ragion veduta, condivisibile oppure no, ma obbediente a una personale ripugnanza nei confronti di biografie che si pretendono “oggettive”, ignorando il tasso di autobiografia che le anima più o meno nascostamente. Naturalmente non c’è nulla di male in sé in una biografia, specialmente se è accurata e ben costruita, ma, appunto, in questa collana di “eredi” non è di questo che si tratta e io ne sono felice e ne profitto. Ricordo di aver visto, anni fa, nella vetrina della libreria Cortina di fronte alla Università Statale, un grosso libro dedicato alla vita di Albert Camus. Mi sorse allora un pensiero: probabilmente nessuno dedicherà mai al mio maestro una così ricca e approfondita ricerca biografica. La cosa suscitò in me un senso di ingiustizia. Certo, Camus è uno scrittore importante, ma come filosofo, andiamo, una testa di uccellino rispetto a Enzo Paci. La solita storia della parzialità verso gli autori francesi. Così rimuginavo camminando. Poi, un po’ alla volta, presi a fantasticare lo scorrere prevedibile del lavoro per una supposta grande biografia di Paci; immaginai lo scandagliamento e lo scartabellamento di innumerevoli documenti, la
ricostruzione accanita di fatti, grandi e piccoli, di circostanze nobili e meschine, di esperienze importanti o banali, di azioni lusinghiere e meno lusinghiere; e poi la raccolta delle testimonianze di tante persone, in buona e in cattiva fede, amichevoli o maligne, profonde e pettegole, superficiali e velenose, cretine o fin troppo “intelligenti”, vanitose o distratte; insomma, alla fine il mio stato d’animo si rovesciò del tutto: no, presumibilmente nessuno si metterà in questa impresa e il mio maestro riposerà in pace, protetto dal silenzio e dal rispetto, affidato all’unica cosa che in una vita filosofica davvero conta: i pensieri divenuti pubblici, gli scritti, il ricordo vivente di chi quella vita, pur con tutti i limiti umani, ha amato. Ogni vita che finisce porta con sé un mondo, personale e irripetibile, con i suoi personaggi, le sue verità, le sue emozioni e i suoi ricordi. Ci sono ancora in giro una molteplicità di figure di “Paci”, che ognuno porterà con sé nella tomba; ognuna di queste figure è a suo modo vitale e alimenta una memoria, certo con i suoi limiti, che sono però anche parte dei pregi insostituibili del ricordo. Non ho la pretesa che il mio “Paci” sia più verace di altri e non è questo che mi ha indotto a scrivere; non racconto lui, ma il mio incontro con lui, e racconto l’esperienza della immensa forza ed energia che, investendomi da fuori, mi ha reso dentro, in buona parte, ciò che sono. Di questo parlo, anzitutto a me stesso, stupito, io che di solito ho così poca memoria, di quante cose silenziose custodissi, ignaro, dentro di me e poi di come uscissero, sul filo del racconto, innumerevoli particolari, grandi e piccoli, ai quali da tempo immemorabile non avevo più pensato. In questa ricostruzione un gran numero di altre persone si trovano citate, anche qui sul filo di una memoria precaria e forse talora insufficiente o in errore. Dovrei raccontare, anche per ognuna di loro, il mio ricordo vivente e, in molti casi, la mia gratitudine, ma la cosa non è qui possibile. Faccio pertanto ammenda, sia per quelli che ho nominato e per come mi è stato possibile farlo, magari in modi
insufficienti o inappropriati; sia per quelli che ho taciuto o che, casualmente, non sono comparsi, mentre avrebbero dovuto; oppure lo sono, ma nel tempo e nell’intervallo dello scrivere se ne sono andati e mi hanno abbandonato, non per loro responsabilità, ma per mia inettitudine. Chiedo scusa soprattutto a lui, a Paci, che se mai potesse leggermi, certamente spesso si stupirebbe; qualche volta sarebbe contento, altre no. So che è il medesimo che potrebbe capitarmi, se leggessi o ascoltassi quello che lui annotava o diceva di me, a sé e agli altri. E così siamo condotti all’idea necessaria di una carità reciproca, come fondamento della umana “intersoggettività”, sul filo indispensabile dell’Einfühlung, dell’entropatia: parole, questioni e temi che Paci amava e che ha fatto amare anche a me.
L’incontro
Nel novembre del 1957 Enzo Paci iniziò le lezioni di Filosofia teoretica all’Università degli studi di Milano. L’anno prima la cattedra era rimasta vacante e l’insegnamento era stato affidato per incarico a Leo Lugarini. Queste vicende accademiche mi toccavano da vicino, poiché in Filosofia teoretica avevo deciso di laurearmi e a questo fine avevo concordato l’argomento di tesi proprio col professor Lugarini, che conoscevo da tempo e che stava lavorando sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel. Lo sfondo di questi avvenimenti era piuttosto drammatico, perché Paci succedeva a Giovanni Emanuele Barié, che in un limpido giorno di dicembre dell’anno prima si era tolto la vita nella sua casa milanese di via Marina. Inizialmente era con lui che avrei dovuto laurearmi, avendo seguito per oltre due anni il suo insegnamento e condiviso con altri discepoli alcuni tratti della sua vita. Per noi la scomparsa di Barié fu un evento traumatico che indubbiamente segnò il nostro destino. Io rimasi a Milano, vicino a Lugarini, che di Barié era l’allievo diretto; altri, come Maria Brunelli e Roberto Ciulli, si trasferirono nell’ateneo pavese e lì poi si laurearono, sotto la guida di Remo Cantoni. La successione di Barié fu oggetto, in Facoltà, di molte discussioni. Mario Dal Pra era incline a sopprimere la cattedra di teoretica, traducendola in un insegnamento annuale da affidare alternativamente per incarico ai docenti
dei due Istituti di Filosofia e di Storia della filosofia (non c’erano ancora i Dipartimenti). A Lugarini venne intanto richiesto di portare a termine le lezioni di quell’anno accademico, lezioni che Barié, malato, non aveva di fatto mai iniziato. Era qualcosa di più di un provvedimento pratico e sensato. Dal Pra, memore di essere stato chiamato a Milano anni prima da Barié, disse a Lugarini (allora docente incaricato di Storia della filosofia antica – e gli incaricati, in quei tempi, dovevano essere confermati ogni anno dalla Facoltà, cioè dai docenti ordinari o “cattedratici”): “Sino a che io sarò qui, Lei avrà il suo incarico”, e così fu. Dal Pra diffidava della “teoretica” per i giovani: ignoranti e inesperti come inevitabilmente essi sono, fatalmente orienteranno le loro scelte in base a spinte emotive e irrazionali, seguendo il docente che più li affascina e, in un certo senso, li seduce. Inutile dire che queste ragioni apparivano, appunto, ben poco seducenti a me e ad altri che, come me, avevano scelto la filosofia come avventura teoretica e non come ricostruzione storiografica. Oggi sarei più prudente. Perché ero diventato un assiduo uditore di Barié sin dal mio primo anno universitario? (La teoretica era prevista solo al terzo e quarto anno.) Di fatto fu Lugarini a consigliarmi in questo senso. Consapevole della mia ignoranza, avevo deciso di studiare le storie della filosofia in ordine cronologico, con una mentalità ancora molto liceale. Le splendide lezioni di Lugarini in Storia della filosofia antica erano seguite da tre o quattro studenti me incluso, più Giorgio Guzzoni, un giovane allievo di Heidegger in Germania, a Freiburg im Breisgau, ma per un certo tempo di passaggio a Milano. Lugarini e Guzzoni, nel corso dei seminari, ingaggiavano sovente complesse discussioni filosofiche e filologiche. Fu in quella sede che mi esibii nella mia prima esercitazione accademica: un commento di certi passi di Eraclito. Il lavoro universitario era allora assai diverso da quello che seguì negli anni sessanta. Un corso con tre o quattro studenti, nelle materie cosiddette complementari che gli studenti potevano liberamente
scegliere, era un fatto normale, come era normale che a una sessione di esami si presentassero meno di dieci candidati: il professore faceva dell’esame un’occasione di lungo dialogo e magari di ulteriori sviluppi di ciò che aveva detto a lezione. A quel tempo le matricole erano pressoché completamente abbandonate a loro stesse. Non c’erano quei libroni che ci sono oggi come guide e come emporio di piani di studio e corsi di laurea. L’informazione viaggiava per lo più da bocca a orecchio e poi tramite le bacheche accanto allo studio dei vari docenti, cosa alla quale restai fedele sino alla fine del mio insegnamento, in modo palesemente arcaico e inadeguato, dal momento che gli studenti comunicavano ormai direttamente col professore sulla sua posta elettronica. Infine c’erano gli assistenti, quasi tutti volontari, che fiancheggiavano e lenivano devoti la sacrale distanza del docente, rivelando più o meno generosamente ai postulanti i misteri del rito: come e dove si svolgono lezioni e seminari, che cosa portare e come iscriversi all’esame, quali le particolari esigenze, preferenze e idiosincrasie del professore e così via. Sarebbe facile seppellire oggi tutto ciò con un giudizio severo, ma non sarebbe sufficiente a capire. Proprio per questo ricordo qui l’atmosfera che accompagnò una parte dei miei studi e che di fatto venne profondamente mutata dall’arrivo di Paci a Milano: un evento a suo modo epocale per le vicende dell’università milanese e italiana in genere. Dicevo della distanza del docente: essa era massima e nel contempo minima, rispetto a oggi. Massima perché l’autorità del “professore” era assoluta già dagli anni del liceo; all’università la cosa cresceva vieppiù, unitamente a una totale autonomia didattica: il docente insegnava ciò che voleva e come voleva, mentre la struttura amministrativa dell’ateneo era interamente al suo servizio; esattamente il contrario di ciò che accade oggi. Ciò era consentito però anche dalla scarsa popolazione degli atenei. Quando mi iscrissi a Filosofia, il corso di laurea accoglieva mediamente ogni anno non più di dieci/dodici matricole; nel corso degli
anni del cosiddetto “boom” le matricole salirono a Milano a novecento e più, e ancora oggi, in anni di declino, sono varie centinaia. Quindi la situazione consentiva ai miei tempi un contatto continuativo e diretto col docente che oggi è impensabile. Se massima era la distanza segnata da una indiscussa autorevolezza e dallo stile fortemente gerarchico, minima era però quella fisica, con le sue occasioni di contatto: pur trattandoci in modi sovente bruschi o distratti, i docenti nel contempo ci facevano indirettamente sentire la nostra appartenenza a una consorteria aristocratica, a una gerarchia intellettuale, sociale, morale, culturale, che sarebbe maturata nel tempo per ognuno di noi, solo che l’avessimo voluto. Eravamo ai minimi del cammino e però anche noi nel cammino: un cammino di ricerca comune a noi tutti e a differenza di tutti gli altri membri dell’umano consorzio. La cosa era ovviamente seducente, anche se destinata fatalmente a rapida dissoluzione. Oggi il professore, o un professore, tiene corsi, seminari e laboratori, ma gli studenti non sanno perché, se è davvero un docente, e di che grado, o se è solo un ricercatore, o un esterno, un precario, un invitato, uno che passa di lì, per quali mai meriti insegna, posto che ne abbia e così via. Di fatto è indubbiamente lì dov’è, a fare un lavoro spesso molto faticoso e ingrato, con centinaia di esami per lo più insensati, giornate intere dedicate a burocratiche incombenze demenziali, costretto a imparare ed eseguire da solo la registrazione di ogni atto o documento attraverso il pc in dotazione, incalzato, ammonito e persino abbandonato dagli uffici dell’ateneo, che spesso dialogano con lui solo con un disco, sicché, se vuoi un colloquio con un essere umano, devi prendere un solerte appuntamento, come chiunque altro. La gran massa degli studenti, affannati e interessati solo alla rincorsa degli esami, non si sognano di poter diventare un giorno come lui, né, se lo sognassero, avrebbero serie probabilità di riuscita. L’intesa tacita e piuttosto scellerata è
che il docente tollera la grande impreparazione dei giovani, la loro mancanza totale di autonomia e di iniziativa nello studio, l’assenza di consapevolezza sociale e morale per la ragione di essere una categoria di cittadini destinati alla scienza e alla cultura; in cambio il docente è ovviamente esentato dal preparare corsi di lezioni originali o corsi sia pure ripetitivi o corsi qualsiasi (d’altronde come potrebbe, se gli vengono imposte centinaia di ore di lezione ogni semestre?), così come è esentato dallo studiare e ricercare: cosa che non interessa nessuno e che, se proprio la si volesse fare, dovrà svolgersi a lato degli impegni universitari e non al loro interno, dove costituirebbe solo un intralcio al tran-tran quotidiano del Dipartimento e una barriera improponibile e insuperabile per i programmi di studio degli studenti. Nell’università nella quale mi sono iscritto io, il docente doveva anzitutto studiare e fare ricerca personale; quindi era invitato a portare a lezione gli esiti e ancor più i metodi del suo lavoro; il tutto in tempi molto lenti, com’era inevitabile e anche giusto per un’attività principalmente di ricerca e di studio, con grandi pause e sonnacchiose vacanze accademiche. Al docente, che in pratica nessuno si sognava di controllare, erano richieste una cinquantina di ore di lezione l’anno e qualche piuttosto sporadica presenza in Istituto per incontrare gli studenti. Il corso iniziava solitamente a metà novembre (tre ore a settimana in tre giorni diversi) e poco dopo la metà di dicembre già si interrompeva per le vacanze natalizie. Riprendeva a metà gennaio e di nuovo si interrompeva sia per il carnevale (tempo rigorosamente consacrato ai riti goliardici), sia per i quindici giorni delle vacanze di Pasqua; a metà maggio era concluso. Seguivano due sessioni di esami in giugno, due in ottobre, una detta di recupero a febbraio, più altrettante sessioni di laurea, e questo era tutto. Va da sé che anche gli studenti erano implicitamente invitati a non perdere tempo in chiacchiere e a starsene per lo più a casa come il professore a studiare, a frequentare le
biblioteche, ad ascoltare i loro docenti e altri professori impegnati in convegni e conferenze in giro per il mondo. Sto ovviamente parlando delle Facoltà umanistiche, dei laureandi in Lettere antiche e moderne, in Storia dell’arte, in Archeologia, in Filosofia e, più recentemente, in Storia (mostruosità come gli innumerevoli corsi di laurea attuali non erano nemmeno immaginabili e sarebbero state motivo legittimo di immensa ilarità; i pedagogisti poi erano considerati laureati di serie B: tempi severi e stupendi, mi verrebbe da dire, identificandomi con l’abito di un vecchio nostalgico). Barié era un docente di quel tempo e di quello stile, in una forma molto marcata e caratteristica. Fu Lugarini a indirizzarmi a lui, consigliandomi di seguire le sue lezioni già dal primo anno, data la difficoltà di linguaggio che esse comportavano. Con i miei compagni matricole lo sperimentammo appieno: Barié usava tranquillamente il gergo idealistico, kantiano-hegeliano-gentiliano, al più alto livello tecnico, senza preoccuparsi minimamente di rendercelo accessibile; anzi, si sarebbe detto che lo gratificasse constatare il nostro disorientamento e la nostra perdurante sordità. Indubbiamente la regola tacita era che eravamo noi a dover arrivare a lui e non lui a noi, anche se poi, clemente, ci invitò a letture kantiane pomeridiane nello studio di casa, dove imparammo anche a diventare suoi discepoli e frequentatori delle sue settimanali serate aperte a tutti gli studenti che lo desiderassero (oggi sarebbe un’iniziativa praticamente irrealizzabile). Tornando indietro col ricordo, vedo tutta la casualità della mia scelta di studiare con Barié, tanto più che il felice esito dell’esame di Storia della filosofia con Antonio Banfi mi avrebbe potuto aprire tutt’altra prospettiva. L’amico Fulvio Papi, che come assistente presenziò a quell’esame, lo ha ricordato di recente in toni affettuosi e, come sempre, generosi. Banfi alla fine mi invitò con discrezione a “farmi vivo” e quasi certamente l’avrei fatto, se Banfi non fosse stato sovente assorbito dai suoi impegni politici e pertanto
assente per mesi dall’università. Allora tutto l’orizzonte culturale sarebbe mutato per me; di fatto avrei anticipato il rapporto diretto con quella scuola che ora, attraverso Paci, uno dei maggiori discepoli di Banfi, direttamente mi interpellava. Quindi Dal Pra aveva le sue ragioni: solo il caso e motivazioni irrazionali avevano guidato la mia scelta e ispirato per alcuni anni una fedeltà che, come diceva William James, era la fede nella fede di qualcun altro. Ma anche bisogna dire che Dal Pra non aveva ragione, perché senza passione e senza eros, già lo diceva Platone, la filosofia non si insegna e non si apprende. Si entra nel cammino mossi da un misto di entusiasmo, venerazione, narcisismo, istinto gregario e poi di emulazione, desiderio di riconoscimento e di affermazione, bisogno di confronto; la riflessione razionale e la verità (se ve n’è una in queste cose) seguono a molta distanza e caso mai fanno valere molto più tardi i loro diritti. La strada della ricerca della verità, come aveva capito Hegel, è già in errore, poiché è palesemente fuori della verità, e tuttavia non ce n’è un’altra. La liberazione, se mai avviene, ha il suo prezzo in una sorta di preventivo plagio condiviso, di innamoramento cieco, condito e difeso da false ragioni (quelle di tutti gli innamorati), usate come armi polemiche e come strumenti retorici. La più evidente riprova di ciò erano gli allievi stessi di Dal Pra, che avevano scelto lui e solo di conseguenza le sue ragioni. Ricordo un dibattito pubblico tra studenti che inaugurammo in quegli anni alla Statale, nel quale polemizzai con Arrigo Pacchi, mio compagno di studi e molti anni dopo caro collega, poi prematuramente scomparso: lui difendeva le ragioni “storiografiche” di Dal Pra, io quelle “teoretiche” di Barié, discettando nell’occasione sul cogito cartesiano, dove entrambi, con profonda convinzione, fingevamo e mentivamo per amore. Quando Paci arrivò a Milano, Lugarini gli chiese di accogliere il mio argomento di tesi sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel e lui, magnanimo, accettò. Ma fece anche di più. Consapevole della mia discepolanza con Barié e
del trauma della sua drammatica scomparsa, mi chiese di tenere come laureando, il sabato mattina, un’ora di seminario sulla interpretazione che Barié aveva dedicato alla Logica di Hegel. Lui si sedeva in prima fila e mi ascoltava sabato dopo sabato, con quel suo sguardo intenso e attento, quasi di sottecchi, mentre io facevo sforzi considerevoli per evitare che mi tremasse la voce e si manifestassero il mio turbamento e la mia commozione. Sapevo bene che questo invito nobile e generoso era un segno di riguardo di Paci verso il suo predecessore, ma anche di attenzione verso un allievo di Barié, ora divenuto suo laureando. Feci del mio meglio, ma scoprii solo molto più tardi che la scelta dell’argomento era anche un giusto riconoscimento del lavoro di Barié, di cui Paci, a differenza di molti o di quasi tutti gli altri, era ben consapevole. Paci conosceva profondamente il neoidealismo italiano, a cominciare da Croce, come più avanti avrò modo di ricordare, e conosceva bene anche Gentile. Una volta gli sentii dire: “So che sarei capace di mostrare tutta l’importanza e l’attualità di Gentile”. L’argomento era però in quegli anni sconsigliabile, per i trascorsi politici di Gentile e il suo attualismo. In ogni caso, Paci aveva compreso l’originalità della posizione di Barié, che, contro Gentile ma nella condivisione della medesima atmosfera idealistica, mostrava l’insufficienza della famosa triade hegelogentiliana “essere-nulla-divenire”, dimentica della ben più essenziale triade “essere-essenza-concetto”. Ciò comportava una correzione fondamentale dell’io penso gentiliano, ancora astrattamente trascendente, a favore dell’io penso del neotrascendentalismo di Barié, totalmente immanente all’umana esperienza e di evidente memoria kantiana (col che ho dato un’idea del lessico nel quale inizialmente mi sono formato). Questo riferimento a Kant è importante, poiché mostrava la comune radice dei due maestri della filosofia milanese, Barié e Banfi appunto, entrambi discepoli del grande Piero Martinetti (1872-1943), che era stato uno dei pochissimi ad
abbandonare l’insegnamento universitario per non giurare fedeltà al fascismo. Banfi e Barié, come tutti i bravi condiscepoli, si detestavano profondamente. Con l’arrivo di Paci mi trovai, senza mia colpa, a incarnare la parte del piccolissimo, infinitesimale vaso di coccio, il che segnò senza rimedio la mia particolare posizione tra gli allievi di Paci: ero sempre quello che veniva dall’altra parte, e fu merito grande di Paci di non farmene pagare conseguenze pratiche rilevanti. So che almeno una volta Barié e Paci si confrontarono brevemente su Hegel. Paci era sotto concorso e, come si usava, fece visita a Barié, suo potenziale o possibile giudice. Paci esibì la sua lettura di Hegel, riferita ai temi esistenzialistici del tempo e del consumo, della irreversibilità dell’umana esistenza individuale e del radicamento, in tale consumo e in tale mortalità destinale, del valore stesso e del senso del vivere. Niente poteva essere più lontano, almeno nel linguaggio e nelle categorie intellettuali utilizzate, dall’immanentismo idealistico di Barié (che invece Paci intendeva, a suo modo, proprio rivalutare). Barié parlò di questo episodio una di quelle sere in cui eravamo ammessi a frequentare la sua casa. Era contrariato ma anche turbato: questo non è Hegel, diceva. Non potevo immaginare che mi sarebbe toccato, di lì a poco, di dovermi fare carico della cosa per impellenti ragioni personali. Dopo che Barié ci ebbe lasciato, la sua eredità, in particolare la rivista “Il pensiero” che aveva da poco fondato, restò interamente sulle spalle di Lugarini e, come volonteroso tuttofare, sulle mie. La rivista si aprì alla fenomenologia di Husserl, sotto l’influenza di Paci, e io cominciai a fare i conti con un passato che non volevo smentire e con un futuro che innegabilmente mi chiamava. Mi aggrappai a una parola: “fenomenologia”, una parola dopotutto comune a Hegel e a Husserl, e su questo ponte immaginario cominciò il mio cammino di avvicinamento a Paci.
La via del ritorno alla fenomenologia
L’idea di laurearmi sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel (invece che su L∕ ukasiewicz e Aristotele, come mi aveva proposto Barié) maturò durante le lezioni che Lugarini pronunziò nel corso sostitutivo a quello che avrebbe dovuto tenere il suo maestro. Paci mi chiese di scrivere una sorta di presentazione del lavoro che intendevo fare. Non ricordo che cosa scrissi; so che, tempo dopo avergli consegnato quelle cartelle, Paci mi diede appuntamento in via Scarlatti 26, dove allora abitava. Attesi una buona mezz’ora tra molti libri e infine il professore comparve con i miei fogli. Dubito li avesse letti davvero e il fatto è che non vi fece la benché minima allusione. Mi illustrò invece che cosa, a suo avviso, sarebbe stato interessante che io facessi: in sostanza, studiare la ricezione francese della Fenomenologia e la sua rilettura esistenzialistica: Alexandre Kojève, Jean Wahl, Jean Hyppolite e così via. Fossi stato meno ignorante, me lo sarei dovuto aspettare, ma il fatto è che io non sapevo nulla di chi fosse Paci e così dei personaggi che citava. Per di più i miei immaginari trascorsi di adepto della scuola dei “teoretici”, quelli che hanno a che fare con il “pensiero in sé e per sé” e che pertanto se ne infischiano della “storia”, mi rendevano anche bizzarramente supponente. La proposta di Paci non mi piacque affatto. Promisi a mezza bocca di pensarci, ma presi poi la decisione di procedere per mio conto, al più facendomi consigliare da Lugarini: il mio tema era la dialettica nella
Fenomenologia dello spirito e a esso consacrai tutto il mio verde e sprovveduto fervore. Intanto seguivo Paci a lezione. Egli stava maturando e realizzando quel “ritorno alla fenomenologia dopo l’esistenzialismo” o “ritorno a Husserl dopo Heidegger” che fu una delle più grandi e feconde avventure del suo cammino. Non potevo fare a meno di ascoltare in modo sempre più partecipativo, settimana dopo settimana, sempre più catturato e incantato: non avevo mai sentito niente di simile. Ma ero anche turbato. Avevo tra l’altro un piccolo scheletro nell’armadio, come si dice. Un paio di anni prima, con Roberto Ciulli, Maria Cantoni, Luisa Massaron e altri condiscepoli, avevamo fondato una piccola rivista giovanile che avevamo chiamato “La zattera”, immaginandoci, ritengo, di dover salvare il mondo che stava andando alla deriva, dimentico com’era del vero Hegel e naturalmente di Barié. L’impresa durò poco, sia per brutali ragioni economiche, sia perché (le rivoluzioni, si sa, fagocitano i loro protagonisti) cominciammo a litigare tra noi. Io però avevo fatto in tempo a pubblicare su un numero della “Zattera” un lungo articolo dedicato a Husserl, che stava diventando di moda in Italia: uno scritto molto critico del quale, ascoltando Paci, mi pentivo amaramente, poiché ne vedevo tutta la sicumera e il travisamento totale di ciò di cui parlava. C’erano ben poche possibilità che a Paci capitasse di leggerlo, ma questo mi preoccupava meno. Avevo ben presto compreso che il costume di Paci era quello di discutere liberamente con chiunque di tutto, senza alcuna prevenzione o pregiudizio. Quante volte lo vidi all’opera con giovani e meno giovani, avversari e collaboratori. Paci ascoltava con grandissima attenzione e non si lasciava mai prendere dal gusto sterile di polemizzare. Voleva capire e poi si impegnava a mostrare i suoi argomenti all’altro con una liberalità totale, che non teneva in nessun conto la statura e la natura del suo interlocutore, fosse pure il diavolo in persona o l’ultimo degli imbecilli. Il rancore poi gli era sconosciuto.
Un po’ alla volta si aprì ai miei occhi il mondo paciano della fenomenologia, di una ricchezza e fecondità incredibili, e ne venni infine completamente travolto e conquistato. Nel frattempo avevo terminato la stesura della tesi. Paci non mostrò di accorgersi del mio aver disatteso tutte le sue indicazioni, al punto che io pensai che se ne fosse dimenticato; ma anche questo era un suo costume: lasciare ai suoi studenti la più ampia libertà di movimento, agli esami, nelle esercitazioni o quando scrivevano le loro tesi. L’esame e la discussione di laurea andarono bene. Lavorando a mio modo, qualche piccola scoperta, se così si può dire, l’avevo pur fatta e ciò mi valse un generoso perdono per un impianto che non dava molto spazio alla bibliografia secondaria. Subito dopo, Paci mi propose di diventare suo assistente e io toccai per la prima volta il cielo con un dito. Due parole su questa figura dell’assistente volontario, figura poi scomparsa. Era quasi l’unico modo per i professori di avere un collaboratore, poiché gli assistenti di ruolo in Facoltà erano rarissimi. L’assistente volontario non prendeva una lira, ma in compenso la sua carica era teoricamente eterna: nessuno poteva cacciarlo, se non per motivi da codice penale. Accadde così che quando, sedici anni dopo, venni chiamato a Milano alla cattedra di Filosofia teoretica, gli uffici mi pregarono di dare le dimissioni da assistente… di me stesso. In tutti quegli anni ero rimasto assistente volontario e niente e nessuno avrebbe potuto cancellarmi. Infatti i compiti dell’assistente volontario li stabiliva esclusivamente il docente e nessun altro vi metteva bocca. Paci si era semplicemente dimenticato, quando lasciai Milano per insegnare all’Aquila, di chiedermi di dare le dimissioni: erano altri tempi e infuriavano l’università di massa (che moltiplicò la possibilità di avere assistenti di ruolo) e il ’68. Oggi le Facoltà umanistiche sono piene di collaboratori mal pagati o non pagati affatto, che fanno un enorme lavoro senza il quale, spesso, interi corsi di laurea, privi di docenti
ufficiali e di mezzi per procurarseli, dovrebbero chiudere. La cosa viene giustamente criticata come indegno sfruttamento coperto da promesse strumentali di carriera per lo più solo implicite ma atte a stimolare speranze quasi sempre illusorie. Retrocedere però tali critiche alla figura antica dell’assistente volontario non sarebbe appropriato. Stando accanto a un docente impegnato seriamente nella ricerca e nell’insegnamento al più alto livello, l’assistente ne imparava allora la sostanza e il metodo; inoltre si metteva alla prova nell’insegnamento seminariale, nelle esercitazioni, negli esami e nella guida alla elaborazione delle tesi di laurea. Insomma, imparava il mestiere e anche molto di più, perché nelle discipline umanistiche si impara e si cresce essenzialmente insegnando. Questa fase di apprendistato era dunque preziosa per diventare un giorno professore. Naturalmente per molti era nel contempo indispensabile trovare dei lavori che consentissero di sopravvivere, ma a quei tempi c’erano le supplenze nella scuola secondaria, c’erano le collaborazioni editoriali, le lezioni private e l’interessamento del professore medesimo, che procurava spesso soluzioni economiche parziali, provvisorie, ma preziose. Il rapporto era strettamente personale, non istituzionale e burocratico, con tutto ciò che di bene e di male c’è in esso. Fortunato chi trovava un vero maestro o semplicemente un professore degno di insegnare all’università; molto meno fortunati gli altri. Da tempo la situazione è assai diversa. Chi collabora da esterno è spesso, per gli studenti, una figura ambigua. Come ho già detto, agli studenti non è chiaro che tipo di docente sia e a che titolo insegni. Non è chiaro e ben poco importa: si tratta di averci a che fare quel poco che è indispensabile per passare l’esame. Le Facoltà umanistiche sono sempre più in crisi e la tendenza prevalente è l’abbandono dei corsi di laurea più impegnativi, per esempio quello in Lettere classiche o in Filosofia, a favore di lauree improbabili, di discipline e curricoli indecenti o demenziali, che non insegnano niente di concreto e non sanno neppure più che
cosa siano formazione e cultura. Mi dicono che persino i corsi in Scienze della formazione cominciano ad avvertire una crisi di iscrizioni e così la nemesi si abbatte anche su coloro che, magari con le migliori intenzioni, hanno certamente contribuito alla devastazione e alla deriva degli studi universitari. Dopo questa digressione, torno a Paci. Collaborare da assistente allo svolgimento dei seminari sulla fenomenologia di Husserl mi consentì di comprendere, un po’ alla volta, la complessa personalità e la figura culturale del mio professore. Egli era da tempo famoso per essere stato, ancora giovanissimo, uno dei protagonisti della corrente dell’esistenzialismo in Italia. Questa corrente, che derivava dalla rinascita di interesse verso il pensiero di Kierkegaard e dall’opera di Jaspers e del primo Heidegger, a sua volta allievo di Husserl, e anche del teologo Karl Barth, nella Parigi del dopoguerra esplose in fenomeni di moda e di costume, più o meno direttamente ispirati a figure come quelle di Jean-Paul Sartre, di Maurice Merleau-Ponty, di Gabriel Marcel. In Italia la ricezione dei temi esistenzialistici fu non meno precoce. Cominciò Nicola Abbagnano con La struttura dell’esistenza del 1939, l’Introduzione all’esistenzialismo del 1942 ed Esistenzialismo positivo del 1948; lo affiancò, ma in una prospettiva religiosa memore di Barth, Luigi Pareyson con La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers del 1940 e con gli Studi sull’esistenzialismo (1943); con loro si mosse anche Paci, già con il libro del 1940, Pensiero, esistenza e valore, e poi con quello del 1943, L’esistenzialismo, un libro che in realtà compendiava tre anni di interventi e di studi sui maggiori esponenti dell’esistenzialismo d’oltralpe e su quello di Abbagnano, di cui condivideva lo sviluppo e l’interpretazione “positiva” della filosofia dell’esistenza. E qui già si può leggere la cifra essenziale della filosofia matura di Paci. Una chiave di lettura dell’intero cammino speculativo di Paci si può e si deve far risalire già alla sua tesi di laurea,
discussa a Milano nel novembre del 1934, con Antonio Banfi e Luigi Castiglioni come relatori, e pubblicata quattro anni dopo col titolo Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone. Nella breve Prefazione un Paci ventisettenne scrive: “Altrove ho tentato e tenterò di chiarire ciò che qui, con Platone, mi sembra porsi come base prima, storicamente e idealmente, del nostro pensiero. Per ora, congedando questo primo lavoro, mi preme indirizzare il lettore verso una meditazione che non credo inutile: il nulla, il non essere, l’opposizione distruggitrice di tutti gli aspetti della vita e del pensiero, hanno invaso e stanno invadendo la filosofia europea. Non chiudiamo gli occhi, ma cerchiamo di ‘vivere’ questa crisi, oltrepassandola, rendendola positiva e creatrice. Sarà ciò che di più grande potremo fare se riusciremo, e sarà, in un certo senso, la missione della nostra epoca. Mi si comprende? Non rinunciare a nulla, accettare in noi ogni esperienza, vivere in tutte le opposizioni, svolgere tutti i problemi e seguire tutti i sensi dell’essere che la ragione ci indica”. In queste frasi, segnate certo dall’ardore giovanile, si manifesta però una già matura comprensione del proprio tempo e dei propri compiti, orientati appunto a una peculiare interpretazione dei temi della coeva filosofia dell’esistenza: ultima espressione di quella che, un anno più tardi, cioè nel ’35, il vecchio Husserl indicherà, nelle celebri conferenze di Vienna e di Praga, come “la crisi dell’umanità europea e della sua civiltà”. Ancora quattro anni e l’Europa, infatti, precipiterà nella distruzione, nella barbarie e nella morte. Nel 1934 Paci ventitreenne è dunque già alle prese, attraverso Platone, con la filosofia dell’esistenza. Essa segnerà in principio il cammino di Paci, sino agli anni cinquanta e oltre, con il libro Il nulla e il problema dell’uomo e la creazione della rivista “aut aut”, che nel nome si richiama esplicitamente a colui che dell’esistenzialismo è considerato il precursore e in certo modo il padre ideale: Søren Kierkegaard. “Accentuare l’esistenza” fu il proposito del filosofo danese. Accentuarla significava accoglierne tutta
la paradossalità irresolubile e lo scacco che impone al sapere. Significava non obliare e non mascherare la condizione ontologica di ogni essere umano esistente. Il fatto insormontabile, cioè, per cui ognuno è esistente nella singolarità irripetibile della sua situazione materiale e spirituale, sicché ogni visione esterna sul mondo, ogni sguardo disinteressato sulle cose è impossibile: la sua pretesa in questo senso, come accade in generale nella scienza e nella metafisica, è solo una finzione e un abbaglio, una pretesa assurda. Se l’esistenza non può diventare oggetto di un sapere esterno, distaccato, oggettivo e universale, se l’esistenza è già implicita nel modo d’essere di colui che volesse studiarla e comprenderla, la figura del filosofo esistenzialista viene a essere segnata da un domandare che non può mai concludersi, da una sorta di socratismo senza rimedio o soluzione. Nella pretesa dello scienziato e del filosofo di parlare dell’esistenza, il tema del discorso coincide infatti con il particolare modo d’essere di colui che ne parla, sicché il filosofo esistenzialista, già in Kierkegaard, è messo direttamente in questione nella questione medesima che egli pone. Ogni pretesa di sollevarsi al concetto, come diceva Hegel, ogni pretesa di incarnare uno sguardo oggettivo cosmico, come dirà Merleau-Ponty, si rivela analoga a ciò che recita una targa di lavanderia esposta nella vetrina del negozio del rigattiere: “Qui si lava”, essa dice, ma lì dove si trova non si lava alcunché. Identico è il destino di ogni preteso sapere: ogni sua asserzione è in realtà priva di quella necessità che la metafisica si attribuisce e ostinatamente persegue. La condizione dell’esistenza umana è piuttosto quella del possibile, mai però risolvibile in qualcosa di certo; quindi un possibile drammatico, che ogni volta riapre la domanda e l’ansia della risposta. Condizione angosciosa e precaria che in molti modi gli esseri umani tentano di mascherare, senza mai riuscirci del tutto. La stessa via della ricerca ne è segnata: risulta essa stessa ferita a morte, come tutto l’impianto istituzionale millenario
della cosiddetta civiltà, non a caso sempre afflitta dalla violenza, dall’errore e dalla tragedia – Cristo inchiodato sulla croce e abbandonato da tutti nel grido dell’ora nona ne è il simbolo o la cifra eloquente. La lettura positiva che Abbagnano tentò nondimeno di costruire a partire da queste premesse fu condivisa, inizialmente, anche da Paci. Entrambi fecero della categoria del possibile una via d’uscita, ma Paci in particolare tentò su questa base di dialogare con la filosofia italiana della prima metà del Novecento, con Gentile e soprattutto con Croce. È questo indubbiamente uno dei più importanti episodi della filosofia italiana del Novecento, sebbene insufficientemente ricordato e studiato, salvo qualche meritoria eccezione, per quel nostro perdurante provincialismo che ci fa preferire tutto ciò che viene dall’estero, anche se assai più modesto di ciò che abbiamo in casa, e che oggi per esempio ci rende proni, in modi idioti e farseschi, ai gerghi anglofoni, anche se non necessari o nella fattispecie insensati. La relazione di Croce con Paci iniziò nel 1942, quando il celebre maestro del neoidealismo storicistico recensì sulla “Critica” il saggio Il significato storico dell’esistenzialismo, pubblicato da Paci l’anno precedente sulla rivista “Studi filosofici” diretta da Banfi. L’intervento di Croce era molto critico. Ai suoi occhi l’esistenzialismo era solo una moda superficiale e passeggera, un modesto episodio della ormai vecchia e scontata polemica irrazionalistica contro Hegel, che si era nutrita in passato di migliori espressioni. La cosiddetta angoscia esistenzialistica, dice Croce, non potrà risolversi, come si vede soprattutto in Francia, altrimenti che in un inconsistente ritorno a mitologie religiose. Eppure Paci, con molto acume, aveva gettato un ponte tra esistenzialismo e storicismo crociano ed è un fatto che da questa mossa Croce non si liberò più. Per un decennio non fece che tornarci sopra in vario modo, sino alle ultime schede scritte in vita e anche istituendo uno scambio epistolare con il giovane Paci, scambio che poi coinvolse Fausto Nicolini, quando Paci pubblicò il suo libro vichiano, di
cui diremo. La mossa di Paci non era solo un espediente tattico, ma nasceva da una profonda meditazione e comprensione del significato della filosofia crociana, in questo diversamente da tutti gli altri esistenzialisti italiani. Paci si riferiva alla nota distinzione crociana dell’attività dello spirito in quattro forme, gradi o categorie, che in ogni processo concretamente storico passavano dal momento teoretico (l’arte e la filosofia) a quello pratico (l’economia e la morale). Paci leggeva invece nel momento economico, nel momento della opposizione tra utile e dannoso, proprio ciò che l’esistenzialismo nominava come “esistenza”. Quindi non una categoria dello spirito, non una mera forma ideale del divenire storico, ma la materia stessa di cui è fatta la storia umana, il suo radicarsi in un bisogno originario che precede l’opera organizzatrice e formatrice dello spirito e che nel contempo fornisce a quest’opera spirituale e a tutto il corso dell’umano incivilimento l’alimento primo e la ragion d’essere essenziale. In sostanza Paci presentava il suo esistenzialismo come una correzione interna dell’idealismo e dello hegelismo; correzione alla quale Croce non intese mai aderire, difendendo in vari modi e occasioni il suo storicismo con la sempre ribadita natura formale, e non materiale, delle categorie spirituali. Ma Paci aveva buon gioco a incalzare il vecchio maestro: se la vita spirituale è un incessante processo creativo e formatore, bisognerà per forza ammettere un preliminare momento materiale, irrazionale, negativo, sul quale appunto intervenire e operare. Nel contempo Paci riconosceva che l’esistenzialismo aveva troppo frettolosamente chiuso i conti con la filosofia di Hegel: la filosofia dell’esistenza, egli scrisse, “sorta per combattere e per distruggere la filosofia hegeliana […] avrà il singolare destino, non raro nella storia del pensiero filosofico, di ricondurci a ripensare e a rivalutare proprio quel pensiero che essa ha creduto di aver vinto per sempre”. La proposta paciana era doppiamente sottile: ritornava a
Hegel, il maestro ispiratore dello storicismo crociano come dell’attualismo gentiliano, ma lo faceva ribadendo l’imprescindibilità del momento dialettico negativo, cioè riproponendo quella logica degli opposti che Croce aveva inteso superare con i suoi distinti, eliminando, o illudendosi di eliminare, dalla vita storica dello spirito, ogni opposizione. Proprio lo spirito, cioè l’attività formatrice della cultura e della civiltà, ha invece in sé un’opposizione irresolubile che sempre si ripresenta e che sempre chiede di essere superata e provvisoriamente risolta. Non si può cancellare dallo spirito la contraddizione, l’opposizione, cioè il momento della negazione materiale e irrazionale, quindi la fatalità del consumo, della irreversibilità temporale e del ripresentarsi sempre di nuovo della cieca esistenzialità naturale. È un fatto che l’ultimo Croce ricominciò a meditare sulla dialettica hegeliana: ne diede notizia e riconoscimento proprio in una lettera a Paci del 21 settembre 1951. Non ho mai smesso di dare spazio alla opposizione dialettica entro i miei distinti, dice, ma mi illudevo di risolvere il problema nella categoria della Logica, cioè nella forma della filosofia; ora vedo, ammette, che l’origine della opposizione sta invece “nella filosofia della pratica e più propriamente nella forma della vitalità. Continuo a riflettere su questo punto e qualcosa trovo ancora; ma spero che altri mi aiuteranno”. A suo modo Paci aveva tentato di aiutarlo, ricordandogli la volontà secondo Schopenhauer e la materia secondo Marx come precedenti della nozione di esistenza: momenti di quella opposizione che già Platone identificava nella forza primigenia e sconvolgente dell’eros, forza che stabilisce un rapporto temporale e storico tra il pensiero e l’azione, la vita primordiale e la sua elaborazione morale e concettuale. Ulteriore occasione di confronto, come si disse, fu la pubblicazione, nel 1949, di Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di G.B. Vico: “Forse il più bel libro di Paci,” ha scritto Vincenzo Vitiello nella sua Introduzione alla riedizione di Ingens sylva nelle Opere di Enzo Paci presso Bompiani (1994). “Certo quello,” continua Vitiello, “nel quale
si presentano i nodi fondamentali del suo pensiero, i temi e i problemi su cui non cesserà di interrogarsi, ed insieme le ambiguità e le aporie che l’accompagneranno lungo tutto il suo itinerario filosofico; certo quello in cui lo stile paciano giunge a piena maturità.” Materia e forma, natura e storia, esistenza e relazione, la questione centrale stessa del nesso della vita con il valore e con il senso del vivere trovano per la prima volta, nel confronto con l’opera vichiana, un’espressione adeguata e compiuta. Intenzione di Paci era di mettere in discussione l’interpretazione idealistica di Vico, l’interpretazione di Croce ma anche di Gentile, verso le quali era peraltro rilevante il suo debito, mostrando sino a che punto anche Vico si era posto il problema della natura e della materia, cioè dell’esistenza e della incircoscrivibile premessa vitale a ogni rielaborazione dello spirito nel suo cammino storico. In questa rivendicazione Paci tocca le corde più profonde della sua sensibilità filosofica, di fatto anticipando e antivedendo cammini che dovrà percorrere negli anni a venire. Per esempio, Paci sottolinea la riconduzione vichiana del trascendentale all’uomo concreto: “A questo conduce secondo noi l’intima coerenza e lo sviluppo in senso moderno della filosofia vichiana. Vico ha veramente compiuto la vera e decisiva rivoluzione copernicana che sarà poi ritrovata da Kant: ma al posto dell’Io trascendentale ha posto l’uomo storico, il valore universale dell’opera umana creatrice di storia. È questo l’uomo ricreato dal fuoco distruttore e dall’acqua purificatrice, dalla Madre e dal Padre Celesti, dall’acqua e dallo spirito. La ‘teologia civile ragionata’ di Vico si risolve in antropologia: Vico preannuncia l’uomo di Feuerbach” (e ovviamente, come diverrà sempre più chiaro, l’uomo di Marx). All’uomo, dice Paci, è lasciata la scelta tra la civiltà e la barbarie insieme alle responsabilità della scelta: ecco come il trascendentale si traduce in esperienza storica e personale. Così si conclude Ingens sylva: “Principio fondamentale della filosofia e del metodo è la sintesi dialettica natura-
spirito. La sintesi è resa possibile dal mito, dalla fantasia, dall’immagine e si attua nell’uomo, principio attivo e operante: l’uomo che comprende la storia del passato e la proietta nel futuro, che comprende dunque e fa la storia. È in Vico che troviamo anticipatamente quella ‘critica della ragione storica’ che fu l’ideale di Dilthey. E in Vico la troviamo nell’unica forma nella quale è possibile, in una filosofia che non è né una scienza della natura né una scienza dello spirito per quanto sia ambedue insieme e cioè una filosofia dell’uomo”. Questo “umanismo” e “antropologismo” è stato sovente rimproverato a Paci come limite perdurante del suo itinerario di pensiero, come appartenenza irrisolta all’atmosfera esistenzialistica e al suo inevitabile declino. In questo limite sta però, a mio avviso, anche un’esigenza destinata a non tramontare, sebbene raramente colta nel suo senso profondo. Nella storicità vichiana, nella “scienza nuova”, Paci leggerà infatti un’anticipazione della Lebenswelt, della “scienza del mondo della vita” di Edmund Husserl: qualcosa che sta appunto prima di ogni scienza della natura o dell’uomo, qualcosa di radicalmente vitale e attivo nella concreta esistenza di ogni essere umano in quanto in cammino verso la ricerca del senso del vivere e del sapere: qualcosa, si era detto, che già Kierkegaard aveva compreso. Ma Vico a sua volta gli era andato molto vicino. La lettura che Paci ha fatto di Vico mi è apparsa, a un certo punto, conforme al mio itinerario, cioè come un’eredità alla quale non potrei in alcun modo rinunciare ma che anche nel mio caso si trova curiosamente a dover fronteggiare persistenti incomprensioni. Ne richiamo qui un tratto essenziale. Il punto (più distesamente esposto nel mio libro Da parte a parte. Apologia del relativo, Ets, Pisa 2008) concerne il grande tema vichiano del senso comune, qualcosa che indubbiamente ricorda la rivendicazione husserliana della doxa, particolarmente argomentata nella incompiuta Krisis. Nella Crisi delle scienze europee Husserl sostiene infatti la
necessità di interrogare la soggettività impersonale e il suo sguardo anonimo: ciò che Vico avrebbe chiamato “giudizio senza riflessione”. Si tratta, scrive Husserl, “di interrogare seriamente ciò che di ovvio è presupposto da qualsiasi pensiero e attività vitale nei loro fini e nelle loro operazioni […], da qualsiasi prassi umana e vita prescientifica […] risalendo alle radici nascoste, perseguendo in tutte le sue operazioni la vita che si agita, tende in avanti e plasma l’umanità intersoggettiva e il suo mondo: un regno immenso e anonimo”. “La tanto disprezzata doxa,” continua Husserl, “acquista ora la dignità di un fondamento della scienza e pretende quindi alla episteme”: ecco la scienza nuova di Paci, sintesi originale di Husserl e Vico. “Proprio a partire dalla doxa e grazie a essa, spiega Husserl, disponiamo, già nella vita prescientifica, di un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso, ne guidano la sicura verificazione.” Leggo qui in controluce, a mia volta, il grande tema vichiano delle fictiones sviluppato nel De antiquissima: l’uso di finzioni, di figure false per esprimere o meglio costruire una verità. Si tratta del riferimento vichiano al minuere, che è ben più e ben altro dalla semplice astrazione. Vico osserva infatti che minuere significa sia la diminuzione, sia la divisione; che è come dire che quando dividiamo qualcosa, ciò che ne risulta non è il medesimo di ciò che stava prima della divisione in forma indivisa. Ciò che risulta è qualcosa di diminuito, cioè di mutato e in certo modo di corrotto. Ma l’uomo utilizza questo difetto e impossibilità della mente a concepire adeguatamente, sinteticamente, la troppo complessa realtà, immaginando per esempio il punto, che può essere concretamente disegnato, e l’uno, che può essere moltiplicato. Si tratta evidentemente di due entità fittizie, perché il punto disegnato non è più il punto e l’uno moltiplicato non è più l’uno, ma è appunto così che si costruisce, avrebbe detto Husserl, la prassi teorica. Vederla
concretamente all’opera, senza fantasie “realistiche” e superstizioni “oggettivistiche” (Husserl diceva “naturalistiche”), è stata di fatto l’ispirazione e l’intenzione prima di ciò che, nella mia ricerca, ho chiamato “pensiero delle pratiche”. La sua involontaria origine vichiana, husserliana, e cioè paciana, mi è oggi molto chiara: volete accusarla di “antropologismo”? Fate pure. Ognuno è responsabile del suo minuere e ne porterà le conseguenze.
La nascita di “aut aut”
Nel gennaio del 1951 appare il primo numero di “aut aut”, rivista di filosofia e cultura. Reduce da un contrattempo e da una delusione accademica nei concorsi a cattedra, Paci reagiva in questo modo costruttivo, dando avvio a una delle riviste più significative del secondo Novecento. A differenza di molte altre, “aut aut” è una rivista ancora ben viva, grazie all’intelligente cura di Pier Aldo Rovatti: tutti gli ex allievi di Paci gliene devono essere profondamente riconoscenti. Proprio Rovatti nel 1992 ha pubblicato gli indici di “aut aut” 1951-1991, nonché gli editoriali del primo anno e poi del 1960, del 1963, del 1973 e del 1980: testi che scandiscono le diverse fasi del lavoro culturale e non solo culturale della rivista. Nata in proprio in via Soperga 54 a Milano, a casa di Enzo Paci, la rivista si giovò dapprima di un comitato di redazione (Ludovico Actis Perinetti, Glauco Cambon, Gillo Dorfles, Luigi Rognoni, Giuseppe Semerari), con Giovanni Raboni segretario di redazione, ruolo tenuto successivamente da Pier Aldo Rovatti e Salvatore Veca, per finire con una direzione a due Paci-Rovatti sino al ’76, anno della morte di Paci. Rileggere oggi il primo fascicolo di “aut aut” è un’esperienza a dir poco notevole. Paci sta avviando la fase del suo pensiero che chiamerà “relazionismo”. L’enorme lavoro di quegli anni troverà infatti una raccolta e una sintesi nei due libri Tempo e relazione (1954) e Dall’esistenzialismo
al relazionismo (1957), e poi ancora nei due volumi di Relazioni e significati del 1965 (nello stesso anno appare la nuova edizione di Tempo e relazione). Centro propulsivo di questo grande progetto culturale è l’idea della filosofia in dialogo a tutto campo con le lettere, le arti, le scienze, le scienze umane, le tecniche e in generale con la società operante, con l’economia e la politica: la filosofia recupera il suo antico ideale di scientia scientiarum, nella forma moderna di un sapere aperto e sintetico, critico e discutivo; certamente qualcosa che mai si era realizzato prima nella forma di una rivista bimestrale, al servizio dei lettori e per una reale democrazia del sapere, qualcosa che non mi pare si sia più realizzato poi, almeno in una forma così ricca e significativa. Si può ben dire che oggi la partita aperta da “aut aut” è in gran parte perduta. Si inaugurò allora una grande occasione che metteva generosamente in gioco vari fattori: l’unità di senso del sapere e del lavoro culturale, la sua componente socio-politica ed economica, il destino della scolarità universale e gratuita, la funzione dell’università di massa, dell’editoria culturale e dell’informazione, il futuro dell’industrialismo e della tecnica, il senso storico-politico dell’Europa e dell’Occidente e il suo destino futuro. Non è un elenco da poco. Oggi è facile e persino banale constatare che quell’occasione non è stata alla fine vincente, anche se certamente non superflua o irrilevante nei suoi molteplici effetti, poiché ci sono sconfitte che possono essere più significative e alla lunga magari più feconde di certe vittorie. Oggi il dialogo a tutto campo che appassionava Paci e i suoi lettori è largamente deficitario e non ha strumenti di registrazione pubblica efficienti, nonostante le possibilità aperte dalla Rete, che forse in futuro potranno fiorire davvero nel senso qui evocato. Le riviste, salvo poche eccezioni, sono diventate oggi obsolete, mentre l’informazione culturale effettivamente recepita dal grosso del pubblico è affidata quasi totalmente ai giornali, ed è spesso ignorante, prevenuta, talora mercificata, in ogni caso
settoriale: di comune per i lettori rimangono solo i pettegolezzi, gli scandaletti, le banalità idiote e magari furbesche, le pseudo-rivoluzioni da mass media globalizzati che scoprono, come si dice, l’acqua calda. La ricerca si è sempre più confinata nello specialismo puro, dove la filosofia e i suoi problemi sono del tutto assenti o emarginati. Chi oggi si occupa ancora di riviste di filosofia in senso teoretico è costretto, per esistere, a modellarsi su norme internazionali che possono forse avere un senso per le scienze e per i saperi settoriali e specialistici, come la famigerata peer review, ma di sicuro non per l’ambito creativo del pensiero filosofico e umanistico. Qui davvero significativa è la personalità del direttore e dei suoi collaboratori; sono le loro scelte a definire il significato di una proposta e di un lavoro: che senso ha chiedere pareri a persone estranee, e in base a quali presunte conoscenze? Chi è davvero competente se una ricerca e un lavoro sono effettivamente originali? Obbligare a queste incombenze, pretendere di classificare le riviste in base a criteri presunti oggettivi e magari solo quantitativi, stabilire punteggi da far valere nei concorsi pubblici in base a quelle classifiche, tutto ciò è semplicemente antiscientifico, culturalmente demenziale e, in vari casi, anche ridicolo e cretino. Non siamo in pochi a pensarla in questo modo, ma la forza delle cose, o il potere dei poteri forti, cioè economici e politici, è comunque vincente, sicché, per amore dei nostri giovani e delle loro, peraltro molto presuntive, carriere, ecco che ci troviamo a dover chiedere pareri, che saremmo benissimo in grado di formulare da soli, a Tizio e Caio, con l’ovvia promessa del “buon rendere”. Apriamo il primo numero di “aut aut”. Nell’Editoriale Paci richiama alla memoria la battaglia culturale di Kierkegaard e poi dell’esistenzialismo, l’esigenza cioè della libertà e della scelta assieme alla vertigine del nulla che di fatto ne può derivare: una sfida inevitabile, perché indietro non c’è ritorno e davanti l’orizzonte è tuttora oscuro. Tuttavia, “l’aut aut è molto semplice: o libertà della cultura o barbarie”.
Perciò l’esistenzialismo, dice Paci, non va inteso come il fallimento del pensiero moderno, ma anzi come la sua feconda autocritica; il medesimo è da dirsi della scienza che si proietta oltre i limiti del positivismo classico; la dodecafonia poi non è la dissoluzione della musica, ma la scoperta di nuovi modi di articolare il discorso, esattamente come accade nella poesia e nel romanzo, in cerca di “una nuova e libera forma e, nello stesso tempo, un nuovo rapporto, una nuova umanità, una nuova comunicazione tra autore personaggio e lettore”. La filosofia, dunque, in prima linea con tutta la coraggiosa avanguardia del Novecento, per una cultura più autentica e più vera, per un mondo nuovo, dopo la catastrofe della guerra e della distruzione dell’Europa, e per un mondo più “umano”. Se tutto ciò vi sembra oggi un po’ retorico, il consiglio è di prenderlo nondimeno a misura di confronto con la nostra attuale insensatezza e desolazione, ovvero con i nostri reali problemi. Dopo l’Editoriale, il fascicolo si apriva con una Lettera sul “Dottor Faustus” di Thomas Mann: lettera personale a Paci (grande lettore e critico di Mann) che si chiudeva con queste parole: “La ringrazio della Sua partecipazione spirituale e faccio i più cordiali auguri per la buona riuscita e la prosperità di Aut Aut. Suo devotissimo Thomas Mann”. Indubbiamente si cominciava bene. Seguiva il saggio di Paci, Il significato dell’irreversibile, in cui le linee portanti del relazionismo si trovavano sinteticamente tracciate. Tutto il fascicolo è in realtà una officina al lavoro e un laboratorio operoso di proposte. Carlo Bo (Romanzo, personaggio e lettore) e Luigi Dallapiccola (Sulla strada della dodecafonia) completano gli articoli. Poi la rubrica “Prospettive”. Qui ancora Paci discute il libro del 1949, The Meaning of Meaning, di Ogden e Richards, destinato a diventare famoso; Gillo Dorfles affronta il tema del rapporto tra le singole arti e la letteratura; ancora Paci discute il rapporto tra marxismo e cultura e poi affronta il significato del mito, per finire con considerazioni tratte dal Doktor
Faustus sul doppio pericolo del tornare indietro a un passato che si sa finito e del procedere però forzando artificialmente la natura (il protagonista del Doktor Faustus è l’incarnazione problematica di questa alternativa, nel cui segno evidentemente, memore anche di Goethe, altro amore di Paci, il lavoro di “aut aut” si apre). Nella rubrica “Cronache”, Gillo Dorfles avanza un bilancio di mezzo secolo alla Biennale di Venezia. Per la “Critica letteraria” Aldo Borlenghi firma un intervento su Classici e contemporanei. Per la fisica Vittorio Somenzi parla di Relatività e fisica nucleare. Per “Metodologia e analisi del linguaggio” Ferruccio Rossi-Landi presenta una rassegna su Recenti studi e problemi. Infine le “Note e segnalazioni”: brevi recensioni in gran parte siglate E.P., ma ovviamente non solo, su una mole stupefacente di libri, di temi e di autori nelle più varie aree e discipline. Ne ricordo solo alcuni: Marcel Proust (gli studi su Balzac sino ad allora inediti), André Gide, René Leibowitz, Eugenio Garin, Attilio Momigliano, Massimo Mila, Alfred Julius Ayer, Joseph M. Bochenski e Julius R. Weinberg, Samuel Taylor Coleridge, George Santayana, Bertrand Russell, Mario Dal Pra, Louis de Broglie, Percy W. Bridgman. Se si allunga lo sguardo sui numeri immediatamente successivi (in uscita ogni due mesi, impresa oggi inimmaginabile), troviamo altri collaboratori come Charles Morris, Vittorini, Anceschi, Rebora, Abbagnano, Sereni, Ferrarotti, Ungaretti, Leibowitz, De Robertis, Fernanda Pivano e Giansiro Ferrata. Mi fermo qui. Nel suo memorabile articolo Il significato dell’irreversibile, Paci metteva a frutto gli studi sullo schematismo kantiano, trasfigurati dalle tesi esistenzialistiche (Heidegger e Sartre), ma ora soprattutto ispirati alla filosofia del processo di Alfred North Whitehead che Paci ebbe il merito di imporre all’attenzione in Italia. Il tempo e il possibile in opposizione alla geometria del necessario è il nodo teoretico che Paci affronta, forte di una visione culturale profonda e complessa. “Kant,” scrive, “per indicare la persistenza parlava, nello schematismo
trascendentale, di continuità della sostanza nel tempo. Di permanenza organica ha parlato oggi Whitehead, nella sua densissima, sconcertante, oscura e insieme luminosa ricostruzione filosofica, scandita dalle stesse pause, dagli stessi tempi, dalla stessa tensione che scorre nelle ricerche di un Proust e di un Joyce e che modula le tonalità di T.S. Eliot, dalla Terra desolata al ritmo che nei Quartetti intesse il giuoco del divenire e dell’eterno, del principio e della fine, della vita e della morte.” Il ritmo: ecco il punto, che invero solo di recente mi è capitato di rivalutare e riscoprire, peraltro ricordandone le origini whiteheadiane, ma non quelle paciane. “Una ricerca sul tempo è necessariamente nel tempo ed implica già un simbolo o un’immagine dell’inafferrabile; il senso di una presenza di un non presente, di un’evocazione che, come in Sartre, indica il nulla; il paradosso di un’espressione dell’inesprimibile, paradosso non certo estraneo all’essenza più intima dell’arte. Il ripetersi dell’irripetibile nel presente che si fa futuro ha infatti proprio la forma del ritmo, nel quale si ripete sempre, in modo nuovo, e quindi procedendo verso il futuro, il passato che non ritorna.” È innegabile che in frasi come queste Paci attinge ancora la nostra piena attualità. Il problema politico della cultura, e il problema culturale della politica, appaiono allora a Paci come la ricerca sempre aperta di un equilibrio tra perdita e ritorno, consumo e ricostruzione, in quanto segno e compito essenziale della civiltà. Un equilibrio, scrive, “che ammette, nel momento stesso nel quale è raggiunto, la possibilità di perdersi e di ricercare un nuovo equilibrio, che permette dunque, in via generale, la possibilità di essere, o, piuttosto, l’essere stesso come possibilità”. Possibilità come necessità libera, dice anche; e così Paci congiunge il suo giovanile esistenzialismo con il progetto maturo del relazionismo, nel quale già emerge l’intuizione della vita come verità possibile, cioè della vita della verità: espressione famosa che giustamente risuona nel titolo del volume miscellaneo pubblicato nel
1991 da Bompiani in contemporanea alle Opere (Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, a cura di Stefano Zecchi). Il libro raccoglie le relazioni del convegno del 1986, a dieci anni dalla morte del filosofo, per inaugurare una prima ampia e articolata riflessione sul lavoro di Paci. Relatori ufficiali furono Valerio Verra, Giuseppe Semerari, Vincenzo Vitiello, Gillo Dorfles, Fulvio Papi e Franco Fanizza, ma il volume accolse anche molti altri contributi di allievi e studiosi del pensiero di Paci.
Husserl sempre di nuovo
Il mio approdo ad “aut aut” avvenne nel settembre del 1961: Paci mi chiese di riassumere gli snodi essenziali della mia tesi di laurea nella rubrica “Prospettive” (Per una rilettura della fenomenologia hegeliana). Nel maggio del 1962 fu la volta di un articolo (Sul problema dell’accidentale) che riprendeva a sua volta, molto liberamente, le conclusioni problematiche della mia ricerca hegeliana. Era o era stato per me un tempo difficile, perché avevo dovuto lasciare il già avviato lavoro di insegnamento in due scuole private di Milano per il servizio di leva nel 52° Reggimento di Fanteria di stanza a Cuneo. Continuare il lavoro di ricerca era ovviamente impossibile e per questi molti mesi “morti” mi affliggevo, come accade ai giovani, oltre misura. Forse Paci se ne rese conto, anche se questi aspetti privati e personali non erano mai argomento di discorso con lui, quanto meno per me. Da Città del Messico, ove si era recato in occasione del Congresso mondiale sulla fenomenologia, mi spedì in Istituto una cartolina con affettuosi saluti. In effetti, quando me la recapitarono a Cuneo, fu un grande conforto: il “professore” non si era dimenticato di me; si era dato la pena di aggiungere alle altre cartoline, che avrà certamente spedito, una tutta per me, di mettere l’indirizzo dell’Istituto (non ne conosceva un altro per raggiungermi), applicare il francobollo, imbucare… Fu in effetti l’unica volta che un evento del genere accadde
tra noi e quella cartolina la ricordo ancora perfettamente; so che l’ho conservata, da qualche parte, purtroppo così bene che ora sarei in difficoltà a ritrovarla. Naturalmente bisognerebbe conoscere bene il carattere di Paci e la natura dei suoi rapporti con gli allievi per apprezzare il tratto, se non eccezionale, certo singolare dell’avvenimento. Aggiungo che a Città del Messico Paci visse un momento culminante della sua carriera: la comunità internazionale gli riconobbe ufficialmente il merito della rinascita della fenomenologia in Italia e in Europa, di cui dirò tra breve, affidandogli la presidenza di una parte dei lavori. Paci era solito coinvolgere nella programmazione di “aut aut” i suoi laureati più assidui e volonterosi. Eravamo un gruppo abbastanza numeroso. Molti di noi seguivano spesso le sue lezioni nella mitica aula 111 della Statale (oggi è modificata per ragioni didattiche e in sostanza quella vecchia non c’è più). Dopo la lezione capitava che, in fila peripatetica, accompagnassimo per qualche tratto di strada il professore, che allora abitava in via Burlamacchi 11, vicino a Porta Romana. Paci continuava imperterrito con noi e con ognuno di noi una sorta di seminario ambulante, tra auto, moto, biciclette e altri passanti piuttosto sconcertati. Capitava anche che volesse offrirci un aperitivo, in un bar di corso di Porta Romana (che c’è ancora), dove lui e noi eravamo diventati, diciamo così, piuttosto “popolari” per l’ingombro rilevante che riuscivamo a creare. Il problema è che non sempre il professore aveva con sé il portafogli e noi ci organizzammo in equi turni. I luoghi comuni della distrazione dei filosofi trovavano infatti in Paci notevoli esempi. Per un certo tempo, abituato a lavorare di notte, Paci mi telefonava a casa all’una o alle due del mattino per comunicarmi un suo progetto per il successivo numero di “aut aut”: invano cercai di ricordargli che alle otto e trenta di quella stessa mattina dovevo raggiungere la scuola media di Rescaldina, presso Legnano, dove insegnavo Educazione musicale. Naturalmente si scusava, ma non c’erano garanzie
che se ne ricordasse. Capitò anche che una notte, molto preoccupato, mi comunicasse di aver del tutto dimenticato di avvertire gli studenti che la mattina successiva non avrebbe potuto far lezione, perché in partenza per un convegno: mi chiese di fare lezione io, cioè di svolgere in quella sede e in quell’ora il mio normale seminario, ovviamente previsto in tutt’altra sede, giorno e orario. Così alle 11.45 mi presentai a un’aula 111 stracolma e stupefatta, dopo aver passato praticamente la notte in bianco. Tra noi allievi questo tipo di contrattempi e di vicende costituivano una sorta di luogo comune, di esperienza condivisa, di leggenda quotidiana che, tra il serio e il faceto, di fatto incrementava il nostro legame e il nostro amore per il maestro. Come assistente volontario tenevo i miei seminari, preziosi per la mia formazione. In qualche caso provvidi anche alla stesura delle dispense del corso del professore. Era un lavoraccio. Ricordo qui in particolare la dispensa su “Fenomenologia e antropologia”, che conteneva in appendice anche le mie “Lezioni introduttive al pensiero di Husserl” (1962). Divisi la grande massa del materiale del corso di Paci in quattro capitoli: I. La dialettica del ritorno alla soggettività. Le leggi di Engels e l’antropologia di Hegel; II. Feuerbach; III. Marx; IV. L’antropologia culturale. Ero piuttosto fiero del risultato, che aveva lo stile rigoroso di un libro, ma con mia grande delusione avvertii che a Paci il testo non era piaciuto. Del contenuto non poteva dire nulla, perché la sua fedeltà al dettato era incontestabile, ma disse dello stile: “Hai scritto il tutto secondo il tuo stile,” osservò sotto voce, “ma non ci ritrovo il mio”. Ecco un esempio di come le buone intenzioni non sempre siano garanzia di riconoscimento e di successo; ma anche di come la loro “bontà” sia piuttosto discutibile: chissà che cosa mi immaginavo di fare. Come si è inteso, il mio processo di formazione sotto la guida di Paci incontrava la fase fenomenologica del suo cammino. Di questa svolta dà conto il numero 55 del 1960 della rivista, dieci anni dopo la sua nascita. Paci ricorda
l’inizio kierkegaardiano di “aut aut”, il problema della libertà e della scelta, la minaccia della rinunzia nel segno dell’alienazione e del nichilismo. “Questa rinunzia è quella che Husserl chiamava stanchezza. Nel numero 1 di ‘aut aut’, richiamandosi a Kierkegaard, si parlava di scelta tra la civiltà e la barbarie, scelta che deve essere sempre di nuovo rifatta senza negare la libertà; nel numero 54 di ‘aut aut’, l’ultimo finora uscito, la stessa situazione, che nel primo numero veniva prospettata richiamandosi a Kierkegaard, è prospettata dal punto di vista della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Husserl.” Poi Paci ricorda anche Thomas Mann, la sua lettera ad “aut aut” sulla disperazione di un’intera cultura che si ritorce su se stessa nel Doktor Faustus (non è un caso che Adrian Leverkühn sia, “per volontà di Thomas Mann, un lettore di Kierkegaard”). Tutta la cultura contemporanea, con le sue avanguardie, corre il rischio di avvolgersi in se stessa, accontentandosi della distruzione della morta tradizione e della denuncia del presente problematico. È necessario invece recuperare una via costruttiva, guardandosi anzitutto da ciò che Husserl indicava come perdita dell’intenzionalità filosofica e quindi del senso positivo della vita e della vita della cultura. Proprio in Husserl l’esistenzialismo positivo trova dunque il suo fondamento, con un riferimento importante anche alla filosofia francese, a Merleau-Ponty e a Sartre, la cui rivendicazione della soggettività, dice Paci, è stata fraintesa in Italia come mero coscienzialismo. Dopo aver ricordato Whitehead, Dewey, il relazionismo e altro ancora, così conclude Paci: “C’è un punto fondamentale sul quale ci sembra di dovere insistere […]. Questo riguarda il fatto che la relazione intenzionale non è comprensibile, nella stessa fenomenologia, se non è intimamente connessa al problema del tempo. Questa connessione non è per la fenomenologia un problema tardo e tanto meno un problema che appare soltanto in Heidegger. Se non è connesso all’analisi del tempo, il concetto husserliano di intenzionalità
non rivela tutto il suo valore. Husserl ne è pienamente cosciente fin dal semestre invernale del 1904-1905, nel quale ha tenuto le sue prime Lezioni sul tempo. L’ultimo pensiero di Husserl non fa che confermare questo punto di vista. Insistendo, come sempre ha fatto, non solo sul piano della filosofia ma anche su altri piani, sulla problematica del tempo, ‘aut aut’ non fa che sviluppare la prospettiva accennata nell’articolo, apparso sul numero 1 della rivista, sul Significato dell’irreversibile”. E così Paci scandisce e ricompone lucidamente il cammino che dall’esistenzialismo e dal relazionismo doveva condurlo o, per dir meglio, ricondurlo a Husserl. Come è nato infatti l’incontro di Paci con la fenomenologia, della quale era destinato a diventare uno dei maggiori rappresentanti mondiali? Disponiamo in proposito di un documento eccezionale, che è insieme uno dei testi più affascinanti scritti da Paci: il Diario fenomenologico, pubblicato nel dicembre del 1961 presso il Saggiatore. Sfoglio nuovamente questo piccolo grande libro dopo più di mezzo secolo e riassaporo il gusto infinito, perduto, irrecuperabile e nondimeno ancora presentissimo e mai di fatto “superato” in me di una vita e di un mondo del quale fui, per un certo tempo, piccolissima appendice di confine, goccia molto ignara presa nel movimento di una grande onda. Come Paci incontrò la fenomenologia, nel Diario, lo ricorda lui stesso in una pagina famosa. “30 ottobre 1958. Come insegnare la fenomenologia? Come e in che senso è trasmissibile? Certamente molti avvii sono possibili. Ma forse quello che è stato più usato è l’invito alla descrizione. Quando, dopo aver letto senza sufficiente comprensione le Meditazioni cartesiane [di Husserl], nel 1933, ho chiesto a Banfi di aiutarmi, non mi parlò del contenuto di quel libro. Questo fatto è significativo. I libri per la fenomenologia sono mezzi per la viva comunicazione orale. Le parole scritte (mito di Theut nel Fedro di Platone) hanno il loro lato negativo se non producono un discorso nuovo, se non
vengono ridestate e rese presenti. Banfi disse qualcosa di molto semplice. Eravamo nel suo studio. ‘Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede.’ Io non volevo accettare questa proposta. E riproponevo i problemi tradizionali della filosofia. Ora so molto bene che cosa Banfi voleva dire e so che cosa vuol dire per me.” Poco oltre Paci infatti lo precisa: “La descrizione del vaso contiene in sé il significato del mondo, della mia vita, della vita di tutti. L’ha in sé come verità che deve essere vissuta, progressivamente realizzata, costituita secondo un telos infinito. Infinito ma tuttavia potenzialmente presente in ogni mia esperienza, se mi preoccupo di esaminarla, di farla diventare fenomeno. Ciò che vedo come mi si dà, ciò che è evidente, è pronto a offrirmi un dono. Io posso e debbo prepararmi ad accoglierlo. Questo dono è il sempre rinnovato e il sempre rinnovabile significato della mia vita, della vita degli altri, della vita del mondo”. Da questo ricordo, risalente al 1933 (l’anno della mia nascita: non posso fare a meno di pensare questa futilità, indubbiamente per me molto decisiva), alla annotazione del 22 luglio 1957: “Oggi è morto Banfi. Mi hanno telefonato all’improvviso. Ho trovato nella clinica gli altri amici. Pensavo a tutti noi – a tutti noi di fronte a questa morte. Sarà difficile rendersene conto. Tutta la sua opera, da ora, cambia significato e sento che esige una nuova valutazione. In questi ultimi mesi ho parlato spesso con lui. Viveva come se non fosse malato. E non si poteva parlargli del suo male. Gli ultimi autori che nominava: Galileo, Husserl, Simmel. E tutto questo risolto nel suo comunismo. Col suo atteggiamento ha voluto dire, fino alla fine: la vita è più importante della morte (Husserl: Ohne Leben kein Tod)”. Vita personale e vita storica: “Milano, 15 settembre 1957. Il senso della storia vivente non permette la riduzione della storia a storiografia. La narrazione storica non deve sostituirsi alla vita storica. Gli schemi della storiografia non devono essere malamente concretizzati e assunti come cose
storiche reali. È quindi necessario, per raggiungere la vita storica, epochizzare le ‘cose’ storiografiche, liberarsi dalle feticizzazioni storico-ideologiche, dalle astrazioni dei grandi schemi generali. Si ritrova così la ‘cosa stessa’ di Husserl come concreta vita umana, come lavoro quotidiano, nel contatto con la natura. Si ritrova e si rivive il senso della vita semplice, il valore dell’umiltà. Whitehead: la vera vita storica è ‘nei reali sentimenti individuali della gente tranquilla che vive nelle strade secondarie e nelle cittadine di campagna’ (Essays, 1948, p. 18)”. Ed ecco, un anno dopo, il progetto pienamente consapevole e chiarito in se stesso: “Milano, 10 settembre 1958. Il mio tentativo è quello di influenzare la filosofia e la cultura italiane con la fenomenologia. La mia è una fenomenologia relazionistica che vorrebbe tener conto di tutta la storia del pensiero fenomenologico e superare l’esistenzialismo. I punti centrali sono: il tempo, com’è inteso da Husserl fin dal 1904-05, e la relazione come appare nella Quinta meditazione e nella Krisis. Alcuni inediti di Husserl sul tempo sono una risposta a Sein und Zeit. Ormai non possiamo più fare a meno di questa risposta. L’esistenzialismo positivo si trasforma nella fenomenologia come relazionismo”. Anche Paci e il suo lavoro si inserivano consapevolmente in un’onda lunga, per non dire infinita. Eccone qualche testimonianza: “3 luglio 1958. Descrivere ciò che avviene in noi quando pensiamo? Descrivere: vedere la forma del pensiero in movimento: l’universo che si pensa in noi e in noi lotta per chiarirsi, per venire alla luce? Non autobiografia, ma storia di ciò che in noi avviene quando pensiamo. Il sistema filosofico è forse una pausa artificiale, volutamente staticizzata, di un più profondo dinamismo della verità che sorge dal nostro corpo, dal mondo, dal movimento dell’‘aperto’ infinito che in noi si temporalizza”. E così leggo con genuino stupore temi a me cari: la storia esistenziale come auto-bio-grafia, il “foglio-mondo” della registrazione del pensiero in movimento ecc., temi che mi sono costati
tanta riflessione, tanta fatica e tanto studio, e che vivevo come una conquista personale; o erano invece pensieri già conficcati come semi, pronti a risvegliarsi e a rigenerare se stessi, nel mio corpo vivente e nella sua “storia”? Il corpo vivente: “25 maggio 1957. Husserl tra fenomenologia statica e fenomenologia genetica. Nella prima l’originario è il soggetto attuale. Nella seconda la genesi del soggetto. Nella prima è l’intersoggettività che riflette su se stessa; nella seconda la riscoperta, nella riflessione, della genesi che ci ha permesso di arrivare alla riflessione […]. Poiché il soggetto vive nel corpo, poiché i soggetti sono esseri animati e vivono nei loro mondi, naturali, culturali (Umwelten), la fenomenologia genetica è fenomenologia della genesi degli uomini concreti e in questo senso è antropologia […]. Per questo l’intersoggettività è possibile nel tempo e nel tempo noi ci ritroviamo, in quanto umanità attuale, con un’altra umanità, divisa da noi dalle pause della consapevolezza. Credo che questo sia uno degli aspetti più importanti del pensiero di Husserl. Noi dobbiamo ritrovarci con noi stessi – per il senso di concordanza della nostra vita – e ci siamo dimenticati di noi stessi, di questo e di quel tempo della nostra vita e della nostra storia. Così l’umanità deve ritrovare se stessa sentendo che è anche umanità primitiva o umanità negra. Altrimenti perde il proprio senso di concordanza, il proprio significato. Husserl aveva pensato proprio così? Ricostruisco per intuizione e tento un nuovo sviluppo… Ma il problema è quello stesso che nella Krisis si presenta come problema dell’incontro tra uomini di diverse epoche (la storia, la storiografia)”. “Bellaria, 12 agosto 1958. A proposito della nascita dell’esistenzialismo dalla fenomenologia, si può osservare, tra l’altro, anche ciò che segue. La fenomenologia è visione della verità, ma la verità è infinita […]. Non è possibile, e non è certo possibile per Husserl, una coscienza che non sia in un corpo, che non sia nell’esistenza, nel tempo, nella percezione. Ora, allo stesso modo che è infinita la verità, è infinita la percezione come Lebenswelt […]. Posto tra due
infinità, l’esistenzialismo tende a spezzare la sintesi relazionale tra natura e verità, tra esistenza e idea, tra sensibilità ed essenza: il relazionismo ritrova la sintesi, rifacendo da capo l’esperienza della fenomenologia e rinnovando lo schematismo kantiano. Nato dalla fenomenologia, l’esistenzialismo ‘positivo’ riprende la fenomenologia secondo l’intenzionalità relazionale. Era necessario per me ritrovare l’intenzionalità trascendentale nella realtà corporea e storica dell’uomo. Per questo, già nel ’50, ho dovuto dire che il trascendentale è l’uomo (Il nulla e il problema dell’uomo). La fenomenologia è anche un modo di sentire, di vivere, e di scoprire, nella vita, la verità […]. La fenomenologia è l’esperienza della vita come movimento verso la verità, come scoperta e riscoperta continua che si pone tra l’oscurità dell’infinito del non percepire e la luce dell’infinito del vero.”
Il Saggiatore e la battaglia per la fenomenologia
I progetti culturali di Paci trovarono il loro principale luogo e mezzo di realizzazione nella casa editrice il Saggiatore che Alberto Mondadori fondò nel 1958. È questa una vicenda straordinaria segnata dalla personalità complessa e tormentata di Alberto, figlio del grande Arnoldo e suo collaboratore inquieto e critico per molti anni. Da giovane Alberto Mondadori frequenta anche Antonio Banfi e il gruppo dei suoi discepoli, tra i quali Paci medesimo. Tenta varie vie: la regia e la produzione cinematografica, il giornalismo, la scrittura letteraria e poetica, con alterna fortuna. Già nel 1945-47 viene maturando un progetto editoriale militante, neoilluminista, aperto agli intellettuali di sinistra. Ne parla a Sartre, col quale è in frequente relazione, come con Hemingway, ma le sue idee trovano poco spazio nella Arnoldo Mondadori, prudentemente legata alla tradizione e soprattutto attenta al profitto. Alberto si segnala nondimeno con la creazione di varie collane di alta cultura, con gli “Oscar”, con la direzione di “Epoca”, il primo rotocalco italiano. Infine decide di procedere per suo conto, circondandosi al Saggiatore di una corte di grandi intellettuali, proprio come un signore rinascimentale: Giacomo Debenedetti, Remo Cantoni, Enzo Paci, Vittorio Sereni, Giulio Carlo Argan, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Fedele D’Amico, Ernesto De Martino, Cesare Garboli, Eugenio Montale, Luigi Rognoni e tanti, tanti altri.
Il Saggiatore svolge per anni una preziosa opera di scoperta e di sprovincializzazione della cultura italiana, legando il libro all’idea portante di un mezzo politicoculturale per la crescita della coscienza civile. Sono del resto gli anni della grande editoria italiana segnata dall’opera in prima persona, lungimirante e intelligente, di editori colti e consapevoli: Einaudi, Feltrinelli, Bompiani, Garzanti… un mondo oggi completamente scomparso. Nelle case editrici ai grandi intellettuali sono via via subentrati gli esperti di marketing. La grande storia del libro e della stampa apertasi a Venezia nel Cinquecento (si veda il bellissimo libro di Alessandro Marzo Magno, L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo, Garzanti, Milano 2012) di fatto oggi tramonta nei caotici, immensi negozi (tradurre subito in inglese i termini) nei quali il libro, annegato nella e assimilato alla mercificazione totale, quasi scompare e, quando c’è, è spesso irrilevante. Del libro conserva la copertina, la carta e poco altro. I collaboratori di Alberto Mondadori sono naturalmente in competizione e in contesa tra loro, sospettosi e gelosi gli uni degli altri, impegnati come sono a imporre le loro linee di ricerca, i loro libri e i loro autori. In questo contesto Paci si batte per Husserl, per Jaspers, per Lévi-Strauss, per Sartre, per Merleau-Ponty, per l’amato Thomas Mann e per molti altri ancora. Una mattina mi telefona tutto eccitato: oggi, mi dice, uscirà la traduzione di Giuseppe e i suoi fratelli (diventerà uno dei libri che più ho amato nella mia vita). Ma anche si lamenta delle manie di grandezza di Alberto Mondadori, dell’inutile sfarzo della sede di corso Europa, con quadri d’autore alle pareti, dei progetti faraonici di enciclopedie mai completate e che prosciugano le finanze della casa editrice. Prevede il finale fallimento dell’impresa, che infatti giunge puntuale intorno al 1970. Alberto Mondadori muore a Venezia nel febbraio del 1976, precedendo di pochi mesi Paci. Resta un patrimonio di libri, di idee e di autori senza i quali la cultura italiana della seconda metà del Novecento sarebbe inconcepibile.
Nel suo lavoro in favore della fenomenologia husserliana Paci stabilisce connessioni feconde con la grande filosofia francese. Il Diario fenomenologico ne fornisce cenni significativi, a cominciare dal rapporto molto speciale con Paul Ricoeur. Si erano conosciuti nel campo nazista di Wietzendorf. Paci vi era giunto a seguito della cattura del corpo d’armata italiano in Grecia da parte dei tedeschi. Giovane ufficiale di leva, Paci in Grecia si era distinto, ottenendo una onorificenza importante. Se ho bene inteso, era riuscito a riportare indenni i soldati a lui sottoposti entro le linee italiane, dopo essersi trovato disperso con loro in territorio nemico. Nel campo di concentramento fu più volte messo di fronte al plotone di esecuzione, con sospensione del “fuoco” all’ultimo momento. La sua colpa era non solo di non aver aderito, come ufficiale, alla Repubblica sociale italiana creata da Mussolini nel Nord Italia, ma anche di aver svolto propaganda perché altri compagni non firmassero la nuova leva e il ritorno in patria. Nel campo aveva conosciuto Ricoeur e insieme erano riusciti, non so in che modo, a leggere Ideen di Husserl. La detenzione in Germania segnò seriamente la salute fisica e psichica di Paci. Per esempio, aveva del tutto perduto lo stimolo della fame. Quando ci recammo a Urbino per un congresso internazionale hegeliano, Paci mi pregò in viaggio di avvertirlo quando era ora di pranzo: lui non se ne accorgeva più. A Urbino conobbi Arturo Massolo (oggi forse dimenticato, ma allora autorevole studioso dell’idealismo tedesco), il suo allievo Livio Sichirollo e Valerio Verra, novello vincitore del concorso di Storia della filosofia e novello sposo: una conoscenza che segnò in seguito la mia vita. Massolo aveva letto il mio scritto su “aut aut” e un lungo saggio sul “Pensiero”, entrambi tratti dalla tesi di laurea sulla Fenomenologia hegeliana. Disapprovava decisamente questa fretta di pubblicare su un argomento così profondo e complesso, ma poi aggiunse, con tono brusco e bonario: “Bah! Nonostante tutto te la sei cavata”. Dalla mia cameretta nel nuovissimo collegio universitario,
non ancora inaugurato e aperto per il convegno, osservavo il silenzioso succedersi delle colline come onde del mare, proprio come un appunto del Diario fenomenologico dice, ma allora non lo sapevo. Sognavo di restare lì per sempre, con un gruppo di amici. Avremmo passato la giornata immersi nelle nostre ricerche, per poi trovarci la sera a discutere e chiacchierare; a turno ci saremmo dedicati a guadagnare il necessario per la sopravvivenza comune, per esempio con lavoretti editoriali, composizione di gialli, traduzioni ecc. Sogni di un giovanotto piuttosto fuori della realtà, coinvolto nell’onda lunga di una vicenda di cui a mala pena intuiva i contorni e la sostanza. Di quell’onda Paci era invece protagonista e partecipe, come il suo Diario a tratti suggerisce in modi suggestivi. Ecco alcuni esempi: “Parigi, 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane sul mio giaciglio. Professore a Strasburgo e io a Pavia. Poi a Parigi e io a Milano. Quindici anni fa stava traducendo Ideen I di Husserl e se oggi lo ritrovo è perché mi sono rimesso a studiare Husserl”. “2 aprile 1960. Colloquio con Merleau-Ponty dopo la mia conferenza alla Sorbona. Non è disposto a dare un’importanza decisiva al problema del tempo […]. Insisto sul fatto che soltanto una ripresa della fenomenologia del tempo può chiarire la concezione, per me troppo labile, dell’‘ambiguità’ […]. Ricoeur è preoccupato soprattutto del problema del male. Cerca una filosofia del sì e non soltanto una filosofia del no. La fenomenologia – egli pensa – scopre il negativo occultato in noi ma non può dissolvere il male nella spiegazione teoretica del male.” Come vedremo, questo problema del male si riproporrà drammaticamente a Paci alla fine del suo cammino di pensiero. “3 aprile 1960. Passeggiata con Ricoeur al Bois de Boulogne. Non è convinto del mio modo di ricostruire la fenomenologia. Lettura diversa di Ideen II in Merleau-Ponty
e in Ricoeur. Ricoeur mi sembra troppo legato a Ideen I. Ha una grande ammirazione e un gran rispetto per Sartre, ma è certo che non ama l’ontologia di Sartre (se si tratta della prima parte de L’être et le néant, siamo d’accordo). Ipotesi su quello che ci sarà nella Critique de la raison dialectique.” “Bruxelles, 5 aprile 1960. La copia di Pensiero, esistenza e valore che Ricoeur ha conservato e che gli avevo regalato a Wietzendorf, ha rimesso in moto i miei pensieri a proposito di ciò che pensavo di Husserl nel 1936. Vedevo allora in Husserl tre problemi: la soggettività, l’intuizione eidetica, l’intersoggettività. Mi sembrava che Husserl non risolvesse l’ultimo problema. Ora penso il contrario. Ricoeur non crede invece che Husserl riesca a chiarire in modo soddisfacente il rapporto tra i soggetti: eppure l’intersoggettività è proprio il centro della fenomenologia.” “Lovanio, 7 aprile 1960. Normale incomprensione degli studiosi per la praxis in Husserl. Il conoscere stesso è praxis in quanto costituito di operazioni, di Leistungen che nel loro operare tendono al significato, alla verità. La prassi, l’operazione, la costituzione, le cose stesse in quanto risultati di operazioni, hanno vari orizzonti. Si protendono verso il futuro e già da ora sono costituite dal loro orizzonte futuro, dal significato che avranno nel futuro.” Ecco un pensiero anche per me decisivo, del quale peraltro neppure a me è mai riuscito di convincere davvero i miei compagni di cammino e condiscepoli. Di qui la mia predilezione per la Krisis, l’ultima incompiuta opera di Husserl. Ricordo lo stupore dell’amico Vincenzo Vitiello quando, scherzando con il gioco della torre, gli dicevo che, se costretto a forza e senz’altra via d’uscita, non avrei esitato a gettare Essere e tempo e a salvare la Krisis. La penso ancora così, più che mai. Tutto il mio pensiero delle pratiche ha lì la sua radice. Di lì mi sono mosso verso l’abito pragmatico in Peirce. Sono peraltro convinto che anche il primo Heidegger, quello delle lezioni di Marburgo, fosse su questa linea, che in Essere e tempo non scompare, ma diviene secondaria.
“Milano, 28 aprile 1960. Conferenza di Ricoeur a Milano. Ricoeur mi riassume il contenuto del secondo volume di Philosophie de la volonté, che sta per uscire. Il secondo volume avrà per titolo generale Finitude et culpabilité e sarà diviso in due tomi: L’homme faillible e La symbolique du mal. Ricoeur cerca un’antropologia. E su questo siamo d’accordo. Se la fenomenologia diventa una ‘scienza nuova’ nel senso vichiano, contiene in sé un’antropologia. Ma quest’antropologia non può essere né quella di Scheler né quella di Heidegger. E nemmeno ridursi soltanto a paletnologia e a etnologia. Il problema è analogo a quello dei rapporti tra fenomenologia e psicologia e infine tra la fenomenologia e le scienze. Altro punto d’accordo: interpretazione della fenomenologia secondo la dialettica tra finito e infinito. Quando Ricoeur pensa all’uomo come mediazione tra finito e infinito e si serve per questa mediazione dello schematismo trascendentale kantiano, mentre rivendica il significato del mito servendosi anche di Kierkegaard, mi sembra di trovare in lui i titoli dei miei stessi problemi (non le stesse soluzioni). Ricoeur crede che questi problemi in Husserl non ci siano, mentre io credo che Husserl li ponga nella implicazione tra uomo e io trascendentale. Se l’antropologia si fonda sul principio della non adeguazione dell’uomo a se stesso, si fonda, direi, sulla differenza intenzionale. Rivendicando il mito Ricoeur rivendica a suo modo la dimensione precategoriale. Il ‘patetico della miseria’ si rivela in una dimensione prefilosofica. Con la filosofia non c’è un inizio assoluto: è preceduta dal linguaggio del mito e del simbolo. Per me, italiano, tutto questo è Vico e Croce. Ed è ancora Vico se appare, in questa connessione, il problema del male, la ingens sylva della barbarie sempre possibile.” Ricordo a mia volta un dialogo con Ricoeur all’Università Gregoriana di Roma. Fu ovviamente un onore per me potermi confrontare con Ricoeur, che ascoltò con grande gentilezza la mia relazione, come naturalmente io la sua; poi una lunga discussione, dalla quale trassi la sensazione di una
sostanziale sordità: Ricoeur non teneva conto di ciò che gli dicevo, ma ripeteva, lungamente variato, esattamente ciò che aveva già detto; forse pensava che il sordo fossi io. Ricordo anche la signora Ricoeur, deliziosa e arguta. Il marito aveva cominciato a insegnare per sei mesi all’anno a Chicago e la signora descriveva con comica desolazione il clima infausto di quella città, dove anch’io rischiai di andare a insegnare per almeno cinque anni. Tempo dopo seppi della sua morte. “Parigi, 23 settembre 1960. Le discussioni di Royaumont sulla dialettica mi hanno convinto di due cose: della necessità di ristudiare Marx e del fatto che in Francia non ci si rende affatto conto dell’importanza dell’opera di Sartre. La Critique de la raison dialectique non è stata capita. È chiaro che in quest’opera scompare sempre più il Sartre esistenzialista e appare in primo piano il marxista e il fenomenologo. Importanza decisiva ha, a mio parere, il concetto di ‘insieme pratico’.” Comincia la svolta che porterà all’ultima fase della filosofia paciana. Il 14 ottobre Paci annota l’intenzione di incentrare le lezioni alla Statale sull’insieme pratico della Critique e sulla storia come praxis totalizzante. Nel gennaio del 1961 questi temi si dilatano a comprendere una “fenomenologia della materia” e una “fenomenologia del lavoro”. Il materialismo, scrive Paci, non è ovvio, come finora si è creduto. “Ogni interiorizzazione, nel senso della dialettica di Sartre tra interiorizzazione ed esteriorizzazione, è operazione che ha un significato, che non ha perduto l’intenzionalità.” “11 aprile 1961. È stata una vera gioia avere Sartre qui a Milano. Siamo stati a colazione con molti amici. Sua insistenza sull’importanza del problema della soggettività […]. Vede con piacere una lettura fenomenologica della Critique. Sul problema della dialettica tra interiorizzazione ed esteriorizzazione iniziamo un discorso che tenta di illuminare il rapporto tra l’esterno non interiorizzato e l’inconscio […]. Ad un certo punto il discorso non riguarda
più la Critique e si sviluppa in direzioni nuove. Il fascino di Sartre sta nella sua capacità continua di presenza e di oltrepassamento di se stesso. Si brucia incessantemente in un ininterrotto movimento intenzionale. Insiste sul fatto che l’interiorizzazione è un lavoro, una praxis […]. ‘Interiorizzare’ col lavoro, con i vari tipi di praxis, diventa allora una delle modalità fondamentali della soggettività.” L’amicizia tra Sartre e Paci fu certamente un episodio rilevante della filosofia del Novecento. Quando nel 1964 apparve in Italia la traduzione per il Saggiatore di uno dei capolavori di Sartre, Les mots, Paci, secondo gli usi dell’Associazione Letteraria che lo invitava, portò in giro la sua conferenza sul libro dell’amico per un’intera settimana: una sera dopo l’altra a Torino, Milano, Firenze, Roma e così via. Furono indubbiamente anni intensi e problematici, di grande lavoro, forte entusiasmo e non poche delusioni. Noi giovani eravamo presi nell’onda e nel turbine delle iniziative del nostro maestro, dal lavoro per “aut aut” alle traduzioni, ai seminari, ai lavori accademici (esami e aiuto per la elaborazione delle tesi di laurea), alle varie occasioni di incontro e di dibattito pubblico. Ascoltammo alla Statale personaggi importanti, come Aron Gurwitsch, discepolo diretto di Husserl; Jean Wahl (come dimenticare la sua pirotecnica conferenza, una sorta di performance molto “francese”: mentre parlava con vivacità inesauribile, intercalando scuse ed esclamazioni di scontento, fingeva – o non fingeva? – di non ritrovare il filo tra la massa di fogli che aveva davanti a sé e che regolarmente buttava in aria sopra la sua testa, mentre una giovane assistente al suo fianco si dava da fare per ricomporre, senza successo, il plico del professore); padre Van Breda nel 1958, uomo di una vitalità e di una simpatia rare: ci raccontò come aveva sottratto, giorno dopo giorno, le migliaia di manoscritti di Husserl malato, celando le carte al fondo di ceste compiacenti, sotto gli occhi ignari delle SS che stazionavano sotto il portone di casa come avvoltoi (ho
poi visto quella casa a Freiburg, con la targa memoriale, e non fu facile trattenere la commozione); da quel patrimonio di manoscritti nacque l’impresa di Lovanio della Husserliana e delle opere postume. Memorabile anche l’invito a Giulio Preti, l’altro grande discepolo di Banfi: lui e Paci si trattavano all’inizio con molta circospezione, quasi che un contrasto latente fosse sempre sul punto di esplodere. Poi Preti parlò a lungo, Paci intervenne con ampi commenti, l’atmosfera si distese e alla fine ci fu un grande armistizio: i due, sia pure ognuno a suo modo, si erano intesi e avevano costruito un ponte e un’area comune. Il lavoro di Preti fu anche per me significativo. Infine Sofia Vanni Rovighi. Arrivava regolarmente in Statale in occasione delle conferenze organizzate dalla Società Filosofica nell’aula 111, conferenze allora molto vive e frequentate. Alla fine lei e Paci passeggiavano su e giù nel corridoio (per la disperazione dei bidelli che dovevano chiudere l’edificio), discutendo fittamente di intenzionalità medievale e moderna: anche qui un ponte tra la Statale e la Cattolica, per il comune amore di Husserl e della verità. Non posso dimenticare che Sofia Vanni Rovighi ebbe una parte importante nel concorso per la cattedra di Filosofia teoretica che mi vide felicemente vincitore.
I magnifici anni sessanta
Gli anni sessanta videro l’esplosione della società consumistica e la nascita della università di massa. In questo clima l’universo giovanile, con le sue minigonne e le canzoni dei Beatles, era decollato in inedite forme autonome, con pretese provocatorie e provocanti, accompagnate però dalla acritica sottomissione a uno specifico mercato in continua espansione. La vecchia atmosfera che aveva accompagnato gli anni della mia formazione, quando ancora resistevano, sia pure a stento e in un clima umbratile di residualità e quasi di rimorso, i riti “medievali” di una goliardia neo-gotica, con i suoi coloriti cappelli a punta, il papiro, le feste carnascialesche in piazza Duomo, gli anziani, le matricole e via dicendo, non era più nemmeno un ricordo. Soprattutto a Filosofia si riversarono i giovani che avevano frequentato la nuova Media unificata e infine persino coloro che venivano dall’Istituto tecnico e che la filosofia non l’avevano mai studiata prima. Però il diffondersi dell’informazione mediatica, che nei decenni non avrebbe fatto altro che crescere esponenzialmente, aveva innescato stimoli, curiosità, aspirazioni e fantasie culturali di ogni genere. L’aula 111 si riempì di un pubblico molto variegato. Oltre ai normali studenti, giovani di altri corsi di studi, artisti, architetti, medici, psichiatri, psicologi e psicoanalisti, sociologi, avvocati e letterati; e poi signore e signori della buona società milanese. Fu così che conobbi Giuseppe
Pontiggia, che veniva ad ascoltare Paci dalla Cattolica. La nostra amicizia si rinforzò ulteriormente, quando alla vecchia Mondadori di via Bianca di Savoia, dove avevo cominciato un lavoro redazionale di mezza giornata, ebbi come collega Lucia, la futura moglie di Beppe. Quando Arnoldo era in sede, ricordo, veniva esposta la bandiera. Entrai anche in relazione con l’allora giovane compositore Niccolò Castiglioni, assiduo lettore e collaboratore di “aut aut”. Per ragioni legate alla rivista, che non ricordo più, venne un giorno a trovarmi a casa. Vide sul leggio del pianoforte dei Lieder di Schubert e si mise a suonarli e a cantarli a prima vista con una musicalità che mi riempì di ammirazione e di invidia. Potrei continuare a elencare personaggi e circostanze. Il fatto è che la fenomenologia era diventata “di moda”: un fenomeno sconosciuto alla vecchia cultura universitaria, poiché coinvolgeva persone e figure sociali piuttosto inedite e soprattutto per via di uno stile contrassegnato dalla nuova società dei consumi e dell’informazione. Nelle case “colte” si tenevano letture comuni e incontri su Husserl. Paci mi pregò di andare in sua vece in una di queste case, molto elegante e accogliente. Svolsi lì un seminario di introduzione alla fenomenologia (ormai era la mia specialità) e i padroni di casa, riconoscenti, mi regalarono un piccolo orologino svizzero da tavolo Saint Blaise, molto prezioso, che ancora conservo e che funziona a meraviglia dopo più di mezzo secolo – ah, gli svizzeri! E svizzero era anche Enrico Filippini, futuro esponente di spicco del “Gruppo ’63”, al quale Paci, non senza travagli per i suoi ritardi, affidò la traduzione della Crisi delle scienze europee. In mezzo a questo universo in ebollizione e un po’ frenetico Paci si muoveva perfettamente a suo agio, di fatto incarnando una nuova figura di intellettuale e di filosofo, che aveva indubbie ascendenze parigine, ma anche una sua consapevolezza “storica” molto mitteleuropea e italiana, ereditata da Antonio Banfi. Centro propulsore erano le sue lezioni in Statale, il cui fascino non temeva confronti. Paci
incantava con un misto di rigore teoretico e di libertà inventiva nutrita di innumerevoli riferimenti, alle arti, alle scienze, all’attualità viva. Memorabili erano le sue dichiarazioni di “metodo”: “Siamo indietro con le Meditazioni cartesiane,” proclamava iniziando la lezione, “oggi dobbiamo lavorare sodo”. Brandiva la sua matita rossa e blu, con la quale sottolineava tutti i libri, e si muoveva con decisione tra i vari testi e volumi con i quali aveva ricoperto la cattedra: tedesco, italiano, francese… Noi “vecchi” ci scambiavamo uno sguardo e un sorriso. A un certo punto ecco che scattava il fatale riferimento. Poteva essere a una immagine della Recherche, a un personaggio di Thomas Mann, a una espressione dell’Ulisse, a un’opera o a una poesia di Goethe, e la lezione prendeva il volo esplodendo in un fuoco d’artificio di improvvisazioni, di invenzioni, di divagazioni meravigliose e irripetibili, che si concludevano solo quando il bidello apriva la porta e proclamava il tradizionale finis (oggi scomparso: riproporlo nostalgicamente creerebbe probabilmente qualche problema sindacale). Una volta il bidello interruppe il professore a metà lezione: fatto eccezionale e anzi unico. Porse un telegramma. Paci, preoccupato, disse: “Scusate” e lo aprì. Uno sguardo e una gran risata: “È del ministro,” ci confidò sollevando le spalle e guardandoci di sottecchi, mentre lo riponeva nella borsa. Era la convocazione per un concorso di cui Paci era commissario. Tutta l’aula 111 rise con lui. La lezione riprese come se nulla fosse avvenuto. Io ricordo di aver amato Paci in quel momento come forse mai più. Sentivo o immaginavo di avere, davanti agli occhi, l’incarnazione perfetta di che cosa è un filosofo e di che cosa è l’università, questo luogo di libertà e di indipendenza assolute, un esempio eloquente di quali sono le cose serie e importanti rispetto al potere, alle istituzioni, al mondo esterno, rispetto al diavolo e al buon dio: la nostra ricerca, le nostre lezioni e seminari con i giovani, la nostra vita per la giustizia e per la verità… Non sapevo che, in un futuro non lontano, la polizia sarebbe
entrata, per la prima volta nella storia, nel nostro Ateneo, infrangendo brutalmente le mie fantasie ingenue, sprovvedute, imperdonabilmente narcisistiche e astratte. Resta da dire della matita rossa e blu. Un giorno, mentre tenevo un seminario fenomenologico, l’occhio mi cadde sulla mia mano destra che, trinciando lo spazio, stringeva saldamente… una grossa matita rossa e blu. Una faccenda senz’altro comica e imbarazzante (non ci avevo mai fatto caso prima), ma anche un piccolo incontestabile segno della mia fortuna, oggi sempre più rara: io un maestro l’ho avuto, anche se del caso o dell’esempio specifico non c’è da esaltarsi troppo. Paci frequentava molti luoghi di dibattito e altre occasioni di insegnamento. Tra essi particolarmente importanti furono i suoi rapporti con la Facoltà di Architettura, con Ernesto Nathan Rogers e i suoi collaboratori, con la rivista “Casabella”. I testi risalenti agli anni 1955-59 sono stati raccolti nel numero 333 della rivista “aut aut”, gennaiomarzo 2007, fascicolo dedicato appunto a “Enzo Paci. Architettura e filosofia”. Dalla presentazione di Pier Aldo Rovatti traggo alcune importanti considerazioni. “Con Rogers e con gli altri Paci era a stretto contatto. Un contatto e uno scambio del tutto normali per la cultura filosofica che lui rappresentava e per lo stile intellettuale che andava praticando, dentro e fuori l’università: in realtà queste dimensioni non conoscevano soluzioni di continuità. Voglio dire che non c’era un Paci che faceva lezione la mattina e poi un Paci che parlava con Rogers al pomeriggio. A lezione Paci parlava di architettura come se l’architettura fosse ovviamente una pratica filosofica. Con Rogers parlava di filosofia come se la filosofia avesse ovviamente a che fare con le pratiche degli architetti […]. Quello che colpisce, leggendo i testi di Paci sull’architettura, è infine proprio uno stile culturale che ormai ci appare lontanissimo. Non a caso, se andiamo a sfogliare le prime annate di ‘aut aut’, non troviamo quasi mai un atteggiamento filosofico riferito disciplinarmente a se stesso. L’idea di fenomenologia come
stile o esercizio di pensiero, che comincia a disegnarsi, si costruisce infatti come sintesi o unificazione culturale. Il problema della casa e dell’abitare appartiene tanto al filosofo quanto all’architetto: è una questione che riguarda l’esperienza del vivere e la sfera pubblica del mondo della vita.” Poi Rovatti ricorda la sua personale esperienza, che ha avuto inizialmente nel teatro un riferimento importante. Sono gli anni in cui lui e Salvatore Veca, ancora giovanissimi, affiancano il lavoro del Piccolo Teatro portando nelle scuole, nell’università, nella città e nella provincia la notizia e il significato culturale e politico degli spettacoli del “Piccolo”, vanto milanese e italiano di portata mondiale; per culminare col Galileo di Brecht (1963), per il quale Paci in prima persona e tutta la sua scuola si prodigarono: come immaginare occasione più felice per sollevare il problema della scienza, della sua grandezza e dei suoi pericoli, delle avventure, disse Husserl, dello scienziato scopritore e ricopritore, vittima del suo destino e di una vita della verità che chiede di essere recuperata nel suo senso profondo? Giustamente Rovatti ricorda che questi temi e la loro articolazione pluridisciplinare confluiscono in Paci nell’idea della enciclopedia, svolta senza “nessuna scolastica fenomenologica, che anzi Paci aborriva”. Quanto poi il mio lavoro maturo debba all’idea dell’enciclopedia, nel doppio senso fenomenologico hegeliano e husserliano, l’ho detto altrove e non lo ripeterò qui. Di fatto tra i discepoli di Paci io ero quello che coniugava ostinatamente Hegel e Husserl, con poca approvazione e qualche sospetto o fastidio da una parte degli altri allievi, ma protetto dalla lungimiranza del maestro. Episodio quanto mai caratteristico della libertà del lavoro e della figura intellettuale di Paci fu la sua amicizia e collaborazione con Antonioni, nonché il suo interessamento ai temi della alienazione e della crisi, declinati nel linguaggio della cinematografia contemporanea. Così un bel giorno approdarono alla Statale Michelangelo Antonioni, Monica
Vitti e tutta la macchina colorita, stravagante, strafottente, decisamente impropria e inopportuna, se non importuna, del mondo di celluloide, per realizzare e registrare una giornata di studio e di confronto tra Paci e Antonioni. La cosa ovviamente sollevò in Facoltà non pochi malumori. L’iniziativa di Paci sembrò ad alcuni una sorta di lesa maestà accademica. Mi è rimasto il vivo ricordo di Monica Vitti, allora una ragazza spontanea di incantevole semplicità, che si rifugiava tra noi giovani, tenendosi ben lontana dai discorsi seriosi dei due maestri, discorsi che accompagnava con sottintesi o palesi commenti piuttosto birichini. Paci si interessò ovviamente anche di Alain Robbe-Grillet e in particolare del film del 1961 L’anno scorso a Marienbad, che personalmente non mi entusiasmò (non era il solo). Oggi le Facoltà si sono riempite di insegnamenti dedicati alla storia, alla tecnica e alla teoria del cinema. La cosa non offende nessuno e sembra anzi virtuosissima. Peccato che il rapporto con la filosofia si sia completamente eclissato, salvo rari casi di riferimenti, peraltro e per lo più superficiali, a Deleuze, in favore invece di specialismi ottusi e di notevole ignoranza culturale. L’indiscutibile successo pubblico della fenomenologia, della sua rinascita incessantemente alimentata dal lavoro di Paci e della sua scuola, non ebbe vita facile e suscitò opposizioni tenaci e critiche anche feroci. Paci se lo aspettava. Nel Diario il 6 maggio 1959 aveva annotato: “La parola ‘vita’ come è usata dalla fenomenologia. Il non fenomenologo è pronto a sentirne il tono ‘vitalistico’. Se gli spieghi che si tratta del significato della vita, del suo senso intenzionale, della sua verità essenziale, dirà che la fenomenologia è idealismo. Se gli spieghi che il soggetto di Husserl non crea nulla e che in generale la fenomenologia non costruisce nulla e che perciò la parola ‘vivere’ significa esperire come ognuno di noi ‘vive’ il mondo nelle modalità delle percezioni, perché ognuno di noi è psiche e corpo proprio, probabilmente dirà che la fenomenologia è psicologismo. Se gli vien detto che il soggetto non è
un’invenzione mitologica ma il soggetto reale in carne e ossa, dirà che è realismo. Ora ciò che caratterizza la fenomenologia è di far suoi i problemi dell’idealismo, del psicologismo, del realismo, senza però che si possa mai dire che sia riducibile a queste formule o alla loro somma”. Paci era stato buon profeta. Nel corso degli anni sessanta e primi anni settanta sulla fenomenologia di Husserl se ne lessero e se ne sentirono di tutti i colori: che era un vecchio realismo scolastico, un idealismo pre-gentiliano, un empirismo psicologistico ingenuo, un dubbio e astratto razionalismo, un palese irrazionalismo e così via. Sulla rivista “l’Espresso” comparve settimanalmente una breve rubrica dedicata alla filosofia (una cosa nuova, allora). La teneva un giovanotto sconosciuto, che chissà come era capitato lì; in compenso aveva compreso perfettamente il ruolo che gli era richiesto. Settimana dopo settimana, recensendo questo o quel libro, il tizio se la prendeva con qualcuno, con una supponenza e un’impudenza atti di per sé a farsi notare presso il grande pubblico (l’unica cosa che sembra interessare i direttori di giornali). Contro tutto e contro tutti citava sempre, ossessivamente, a proposito e a sproposito, Hegel, probabilmente l’argomento della sua tesi di laurea, se ne aveva una. In quel tempo Paci aveva avviato una collana fenomenologica presso il nuovo giovane editore Lampugnani Nigri. Apparvero il primo volume del suo Relazioni e significati. Filosofia e fenomenologia della cultura (1965) e poi il mio primo libro: Introduzione alla fenomenologia come scienza. L’occasione era ghiotta per approfittarsi della voga fenomenologica e dirne tutto il male possibile (in particolare per il suo preteso “irrazionalismo”) e il tizio non se la fece sfuggire. In due interventi successivi, prima demolì il maestro e poi l’allievo (accusandolo, sa il cielo perché, di giobertismo!). Paci mi consolò: “Non preoccuparti, disse, il prossimo libro glielo mandiamo con un biglietto: ‘Con preghiera di stroncatura’; dopo tutto ci fa pubblicità senza volerlo”. Non erano ancora i tempi nei quali il modo migliore per
contrastare un libro e le sue tesi è, come disse acutamente Umberto Eco, ignorarlo, non parlarne affatto e non farne dar notizia da chicchessia. Infatti la logica della informazione massificata e mercificata, per la quale esiste solo ciò che fa notizia, ci ha portato a questo punto. Fenomeno collaterale e congruente è il modo (molto evidente per chi è del mestiere) in cui le recensioni sono per lo più costruite. È un’esperienza che feci nel corso degli undici anni nei quali collaborai sistematicamente alle pagine culturali del “Corriere della Sera”: io ritenevo di dover anzitutto fornire al pubblico un’informazione il più possibile ricca e oggettiva del libro, magari con qualche rilievo personale nelle ultime righe; mi accorsi che molti miei colleghi non si comportavano affatto così (ne fecero le spese più volte anche i miei libri). Il recensore sfogliava l’indice, a cominciare dall’indice dei nomi (caso mai vi fosse il suo, il che cambiava decisamente lo spirito della cosa); leggeva la quarta di copertina, e, se proprio aveva tempo da perdere, sbirciava qualche frase dell’inizio e della fine del libro. Di qui prendeva uno spunto qualsiasi, che citava in poche battute e solo come avvio a considerazioni del tutto personali, che con il libro in questione non c’entravano neppure di sbieco. Insomma, la recensione veniva utilizzata come una vetrina pubblica per le proprie cose e per la propria “figura” culturale. Nessuno in redazione o nella direzione del giornale mostrava di averci a ridire. Dopo tutto bisogna riconoscere che il giovanotto dell’“Espresso” fu in qualche modo un precursore, seguito poi da ben più illustri nomi. Nello stesso 1965 scrissi per la Garzanti un’antologia sulla rinascita della fenomenologia. Naturalmente il committente era Paci e io mi impegnai con grande applicazione ed entusiasmo. Forse troppo. Pietro Citati, che lavorava allora alla Garzanti e che seguiva progressivamente il mio lavoro, mi faceva di continuo notare che le mie citazioni di Paci erano numericamente e quantitativamente eccessive. Invano spiegavo che l’antologia era appunto mirata a documentare la rinascita della fenomenologia dopo
l’esistenzialismo, rinascita soprattutto italiana e sempre più sviluppata dai libri, anche di giovani autori, pubblicati presso Lampugnani Nigri. Da questo orecchio il mio interlocutore e revisore non ci sentiva; peraltro devo riconoscere che mi lasciò sostanzialmente libero di procedere a mio modo. Nella bella libreria di Garzanti in Galleria, dove oggi imperversa “la moda”, un’intera vetrina venne riservata alla studiata esposizione di molti esemplari dell’antologia. Sulla copertina verde si stagliava, su un fondo rosso, il mio nome. Per la prima volta gustai il dolce e velenoso frutto della notorietà. Paci era molto felice dell’antologia. Fu forse l’unica volta che si sbilanciò con me in complimenti. Il suo atteggiamento “normale” era quello dell’essere semplicemente insieme al lavoro per una causa comune: un atteggiamento che trovo tuttora molto giusto e da imitare. Non c’è da fare complimenti o perder tempo in personalismi; c’è da verificare se il lavoro funziona e magari correggere in tempo ciò che non va. Naturalmente ci vuole, come dicevo, una causa comune, e non il semplice interesse rivolto alla carriera e al successo. Queste prime esperienze, così importanti per me come autore, portarono inevitabilmente con sé anche le prime delusioni. Già il libro di Lampugnani Nigri suscitò critiche e prese di distanza in molti condiscepoli ormai decisamente avviati all’impegno politico di cui dirò. Il mio accenno finale all’intenzionalità fenomenologica come una sorta di “fede” suscitò scandalo. Paci me lo riferì, aggiungendovi per contro la sua personale approvazione e comprensione: non avrebbe potuto fare altrimenti, perché quelle parole si ispiravano di fatto a espressioni e parole sue. La collocazione che, nella scuola, mi veniva silenziosamente attribuita come “di destra” si accompagnava, ritengo, a una certa serpeggiante critica nei confronti di Paci stesso. La scuola si stava dividendo: da un lato la direzione di quelli che si ispiravano allo Husserl “logico” e che per lo più erano radicalmente politicizzati a sinistra; dall’altro quelli che erano più fedeli al modello della
rinascita della fenomenologia a partire dalla Krisis: un testo che i primi, sotto sotto, accusavano di retorica umanistica e di vaghezza filosofica (come non vedere che lo stesso Paci ne veniva coinvolto?). Queste opposte direzioni si scontravano spesso nelle riunioni di progettazione di “aut aut”. In una di queste, di fronte alla proposta di un numero su Hegel, anche esasperato da precedenti episodi, dissi chiaro e tondo che mi rifiutavo di partecipare a un fascicolo con molti condiscepoli che non mi risultava sapessero di Hegel alcunché: non fu una buona uscita, anche perché Paci non era molto abile nel tenere unito o almeno tranquillo il gruppo e nell’imporre infine la sua autorità. Devo aggiungere che quando, molti anni dopo, mi trovai in una situazione per certi versi analoga alla sua, come fondatore e direttore della rivista “L’uomo, un segno”, non seppi cavarmela meglio. Anche l’antologia Garzanti, nonostante il successo editoriale, mi diede qualche grattacapo. Paci mi aveva suggerito alcuni testi del suo maestro; in particolare mi segnalò l’ultimo bellissimo saggio di Banfi (Husserl e la crisi della civiltà europea), un inedito del 1957 pubblicato sul numero 43-44 di “aut aut” del 1958 che era interamente dedicato al pensiero di Banfi. Lo scritto banfiano era stato concepito in occasione della pubblicazione presso la Husserliana della Krisis e manifestava una spiccata sintonia con l’interpretazione paciana dell’ultimo Husserl. Di questo testo riprodussi alcuni passaggi essenziali, congruenti con il senso del cammino dell’antologia. La vedova di Banfi, dopo la pubblicazione (1965), mi scrisse una bella lettera nella quale esprimeva la sua riconoscenza, ma poco tempo dopo una recensione sull’“Unità” mi accusò apertamente di aver censurato Banfi, citando solo i passaggi che mi facevano comodo. Avrei voluto tanto replicare, ma Paci (che poi era ovviamente il bersaglio reale dell’episodio, essendo io pressoché uno sconosciuto) me lo impedì. I rapporti di Paci col Pci non erano infatti idilliaci; di lì a poco (1969) Paci fu partecipe, sia pure dietro le quinte, della uscita del “manifesto” dalla ortodossia di partito. Paci mi accennò a
riunioni a casa sua con Rossana Rossanda e altri, ma invero di tutta la faccenda non so nulla di preciso. Un’altra volta Paci mi pregò di soprassedere a un intervento pubblico, o semipubblico, che in questo caso aveva come referente addirittura Eugenio Montale. Sul “Corriere della Sera” Montale attaccò di passaggio, ma molto brutalmente, la fenomenologia. Una volta si espresse ad esempio alludendo alla “trippa di Husserl”; poi si riferì alla Weltvernichtung, cioè alla negazione o messa in epoché delle ovvietà del mondano per attingere l’intuizione dell’essenza, come se si trattasse proprio di operare una distruzione del mondo, stile bomba atomica. Infine recensì il fascicolo di “aut aut” dedicato alla musica, al quale avevo partecipato con un lungo saggio sul Manuale di armonia di Schönberg, cui seguì, nel fascicolo successivo, uno scritto più breve sul melodramma (1967). Montale trattò il tutto in modi piuttosto sprezzanti. Ero sinceramente quanto pateticamente indignato, ma non è che volessi polemizzare con Montale; volevo semplicemente scrivergli una lettera personale nella quale esprimere la mia desolazione e il mio sconcerto: l’impegno mio e di tanti altri giovani per la fenomenologia nasceva, a torto o a ragione, da una sincera passione per la filosofia e per la verità; come comprendere che il nostro più illustre poeta trattasse l’oggetto dei nostri studi con tanto disprezzo e immotivata ostilità? Tutto qui. Paci fermamente mi dissuase. La sostanza era che in fondo, nella mia inesperienza, non avevo capito un bel niente. La sua spiegazione era che Montale sentiva di non essere apprezzato dall’estetica fenomenologica, in particolare dall’avanguardia poetica della scuola fenomenologica bolognese di Luciano Anceschi (un altro allievo di Banfi col quale anni dopo collaborai per un ciclo di trasmissioni alla Rai); Montale aveva l’impressione o immaginava di essere considerato un sopravissuto e quindi reagiva di conseguenza, facendo di ogni erba un fascio. Così disse Paci. Io non ero affatto convinto e pensavo che la mia lettera strappacuore sarebbe stata opportuna, perché
almeno era sincera. Ero molto giovane. Oggi, tutto sommato, sono contento di non aver replicato a Paolo Rossi sull’“Unità”, col quale ebbi molto tempo dopo rapporti cordiali di stima reciproca, e così a Montale in privato. Infatti giovane non sono più, da tanto, tanto tempo. Un altro episodio molto spiacevole fu con Manlio Cancogni, collaboratore allora dell’“Espresso”, che aveva proposto a Paci un’intervista sulla fenomenologia. Come capitava, Paci mandò invece me e io mi prodigai a spiegare e a illustrare, a citare e a chiarire, con un interlocutore che mi ascoltava sornione, forse infastidito di avere a che fare con un giovanotto saccente e prolisso; prendeva di mala voglia qualche appunto e sollevava, ma senza troppo darci peso, qualche domanda, osservazione maliziosa, obbiezione. L’impressione che ne ricavai fu quella di una persona la cui cultura filosofica non andava oltre una conoscenza manualistica, nella quale Croce costituiva ancora la figura culminante. Poi uscì l’articolo, anzi l’articolone (stile “Espresso” di allora, di grande formato e con grandi fotografie): in sostanza un “pezzo di colore”, nel quale le informazioni fornite da me erano ridotte a minimi e trascurabili dettagli; altre erano state le fonti di ispirazione per costruire un pezzo notevolmente ironico e sfottente. Vi si trattava la fenomenologia come l’ultima moda milanese delle signore bene, pronte a esibire con eccitazione il loro Leib, il loro “corpo proprio”: “Proprio il mio corpo, ecco il luogo del significato di verità!”. Ero furibondo e umiliato, mi sentivo responsabile, mi davo del cretino per non avere intuito la trappola nella quale mi ero cacciato, ma, ancora una volta, Paci non se la prese. Il nuovo, disgustoso mondo dei media non lo turbava troppo; non si poteva fare a meno di averci a che fare, non lo si poteva ignorare e bisognava prenderne il buono e il cattivo, ma continuando intanto a dedicarsi intensamente e seriamente al proprio lavoro. Così mi parve di intendere il suo pensiero. Un’altra volta Paci mi mandò a un colloquio con il giovane
regista, allora soprattutto di documentari, Ermanno Olmi. Reso più accorto, mi limitai a riferire spassionatamente a Paci il contenuto, di fatto non promettente, dell’incontro e infine non se ne fece nulla. Molto più interessante per me fu l’incarico che, di nuovo in sua vece, Paci mi attribuì presso l’ospedale psichiatrico Antonini. Il professor Max Beluffi, primario all’Antonini, intendeva organizzare una serie di seminari sulla psichiatria fenomenologica, che io avevo studiato per comporre l’antologia Garzanti. Per vari mesi, il sabato mattina, mi recai quindi all’Antonini, accolto in un’ampia sala da molto generosa attenzione. Ero seguito da una nutrita schiera di medici, che davano vita, dopo la mia esposizione, a una discussione lunga e vivace. In effetti l’iniziativa seminariale ebbe, in termini di partecipazione, un successo superiore al previsto e si replicò anche l’anno successivo. La psichiatria italiana attraversava allora un periodo di profondo travaglio, caratterizzato dallo scontro fra “tradizionalisti” e “innovatori”. La fenomenologia era assunta dai secondi come strumento critico e come vessillo di battaglia contro i primi, confondendo in qualche caso ragioni scientifiche e motivazioni puramente ideologiche. Franco Basaglia aveva di fatto cominciato a muovere le acque, per arrivare nel 1973 a costituire Psichiatria Democratica, che diffondeva in Italia le tesi inglesi e non solo dell’antipsichiatria. Il movimento culminò, com’è noto, con la legge 180 del 1978, tuttora in vigore. I miei seminari distavano più di una decina d’anni da questo esito e tuttavia l’atmosfera era già molto accesa. Il rapporto tra l’ermeneutica heideggeriana e la psichiatria, nonché i rapporti tra Heidegger e Husserl, erano invece allora poco noti in ambiente psichiatrico. Di fronte alle vivaci discussioni che scoppiavano tra colleghi “giovani” (non necessariamente d’età) e colleghi meno giovani, e che rischiavano spesso di degenerare nella lite aperta e personale, mi barcamenai come potevo, cercando di salvare la “neutralità” della descrizione fenomenologica.
A un certo punto, non ricordo chi propose di mettere alla prova, in un caso concreto, la metodologia fenomenologica. Così per varie sedute ascoltammo un giovane paziente, che raccontava il suo peraltro molto tranquillo delirio. Ci guardava con un debole sorriso e spesso diceva: “Lo so che ora non mi crederete, ma che posso farci?”. La sua tesi era, in sostanza, che si trovava lì perché suo fratello gli aveva sottratto le forze, fisiche e spirituali, e di ciò forniva molti indizi, che a lui parevano prove indiscutibili. Questa molto astuta e ingegnosa sottrazione era la causa di tutte le sue sventure, dei suoi ripetuti fallimenti, dei suoi crolli psichici. Era invero una persona simpatica; argutamente autoironico, la mia netta impressione fu che si divertisse anche un bel po’ alle nostre spalle, recitando a suo modo la parte che, non a torto, immaginava che noi ci aspettassimo da lui. Per quel che ricordo, l’esperimento non produsse nulla di significativo, salvo il tentativo di una semplice descrizione empirica degli usi e dei riferimenti del linguaggio delirante: più che altro una via d’uscita decorosa. Dal tempo di quei seminari all’Antonini il mio rapporto personale e la mia collaborazione intellettuale con gli psichiatri e poi con gli psicoanalisti non si sono più interrotti. Devo riconoscere che psichiatri e psicoanalisti sono tra i lettori più assidui e più attenti dei miei libri. Soprattutto per loro iniziativa si sono sempre più moltiplicati negli anni le occasioni di incontro, gli inviti a seminari e convegni, a tenere la “lezione magistrale”, come essi dicono, ai loro congressi annuali; quindi le sollecitazioni a lavorare insieme, a mettere in comune e a confrontare le nostre esperienze, con grandissimo frutto almeno per me. Ricordo in particolare la figura, colta e saggia, di Bruno Callieri e poi Lorenzo Calvi, Franco Fornari, Enzo Funari, Sisto Vecchio e tanti altri. Il rapporto con questo mondo è un altro debito di gratitudine e un’altra eredità che mi lega a Paci.
La parte che mette tra parentesi il tutto
Ricostruito oggi, il “bombardamento” fenomenologico degli anni sessanta in Italia rivela aspetti considerevoli. Bisogna anche ricordare, di quei tempi, la molto minore mole di libri immessi sul mercato, e nel contempo il ruolo di orientamento e di informazione che le grandi librerie delle maggiori città esercitavano a favore dei lettori: qualcosa che oggi è scomparso del tutto. Ci si aggira tra pile di libri che non sono libri e, se chiedi a un commesso dov’è la filosofia, di preciso non lo sa. Poi scopri che è stata sistemata in qualche modo, cioè molto a caso e comunque in base alla fama giornalistico-televisiva, con le scienze occulte o con la psicologia. Complimenti. Nel 1960 il Saggiatore pubblica Omaggio a Husserl: un volume miscellaneo voluto e curato da Paci. Nella nota introduttiva si collega questa iniziativa editoriale agli studi che in tutto il mondo si stanno pubblicando in occasione del centenario della nascita di Husserl (Prossnitz, Moravia, 8 aprile 1859). Il movimento fenomenologico, scrive Paci, può sembrare esaurito a coloro che lo interpretano come una fase introduttiva all’esistenzialismo. Dopo la pubblicazione degli inediti (45.000 pagine) da parte degli Archivi Husserl di Lovanio, sotto la guida di padre Van Breda, può anche farsi strada invece l’opinione che l’esistenzialismo sia un aspetto particolare della fenomenologia. Paci ricorda Essere e tempo di Heidegger e L’essere e il nulla di Sartre: in
sostanza due modi di leggere e di interpretare Husserl. “Certamente il problema della relazione tra fenomenologia e ontologia, tra l’apparenza e il fenomeno, e l’essere o la verità, è per la fenomenologia un problema fondamentale […], non è un problema che si aggiunge dall’esterno, o successivamente, alla fenomenologia husserliana. La fenomenologia lo porta con sé fin dall’inizio, fin da quando, cioè, ha posto al centro della propria rivoluzione filosofica il tema, sconcertante, profondo e non ancora esaurito, dell’intenzionalità.” La nota si conclude con un ringraziamento ad Alberto Mondadori, “che presto pubblicherà l’opera fondamentale di Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, e con la notazione per cui, proprio nel momento in cui si celebra la nascita di Husserl, “sta iniziando anche in Italia quella che è stata detta ‘la seconda ondata’ degli studi husserliani”. Anche in Italia, ovvero, proprio in Italia. Sempre nel 1960, questa volta presso Bompiani, appare la traduzione, di Enrico Filippini, del libro di Gerd Brand Mondo, Io e Tempo nei manoscritti inediti di Husserl (1955). Testo fondamentale per comprendere il lavoro e i pensieri dell’ultimo Husserl, che era consapevole di essere stato ampiamente frainteso (un intero libro, dice, sarebbe necessario per documentare queste incomprensioni), ma che era anche ben deciso a tirare diritto con il suo quotidiano lavoro di registrazione (si sa che Husserl usava una propria personale stenografia per fissare le descrizioni fenomenologiche e le relative riflessioni), senza lasciarsi distrarre dalle polemiche e da altre futilità “mondane”. Brand inanella i manoscritti husserliani con notevole abilità. Il fulcro di tutto sono i problemi della “soggettività fungente” o dell’“io anonimo fungente”, connessi al grande tema della temporalità. Paci, nella sua introduzione, ha buon gioco a mostrare che la questione della temporalità non è affatto, come spesso si crede, una scoperta o una specialità heideggeriana, ma che, anzi, per molti versi è vero il contrario: si tratta cioè di un debito e quasi di un plagio dei
manoscritti husserliani da parte di Heidegger, sin dal tempo della loro prima elaborazione da parte di Edith Stein, e cioè sin dagli anni dell’insegnamento di Husserl a Gottinga. Prima e dopo Essere e tempo, Husserl ha elaborato una gigantesca ricerca nella quale presenza vivente, intenzionalità e riflessione temporale si sono intrecciate in visioni di una profondità non esaurita e forse inesauribile. “Husserl,” scrive Paci, “idealmente non precede l’esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea.” E rinnovando anche le tradizionali versioni della fenomenologia, con le caratteristiche incomprensioni che accompagnano i temi del soggetto e della intenzionalità. Basterebbe a mostrarlo l’ambigua e per altri versi stupefacente e stimolante espressione “io anonimo fungente”. Come può un io essere anonimo (di qui le celebri discussioni con l’inconscio freudiano, registrate da Eugen Fink)? In che senso questa vita anonima e impersonale sarebbe “egologica”? Come però comprendere una vita irrelata, una mera fatticità, un supposto assoluto in sé, qualcosa di separato, che non sia quanto meno incontrato in una vivente presenza? Certo, riconosce Husserl, la parola “io” è poco adatta a significare la falda di esperienza che incontestabilmente emerge nell’intenzionalità riflessivamente “vista” e descritta; continuo a usarla, conclude Husserl, perché non ne ho trovata un’altra migliore. Al che molte critiche alla fenomenologia devono necessariamente ricentrarsi e, caso mai, formularsi altrimenti. Se si scorre l’attività saggistica di Paci nel solo 1960, oltre ai continui scritti che compaiono di due mesi in due mesi su “aut aut”, troviamo, nella Liviana di Padova, la registrazione di un dialogo a tre (Bilancio della fenomenologia e dell’esistenzialismo) con Eugenio Garin e Pietro Prini: un testo ancora oggi affascinante. Tre saggi per l’“Archivio di filosofia”, uno per “Il Verri”, uno per il “Giornale critico della filosofia italiana”, un altro ancora per “Il pensiero critico” (la rivista di Cantoni), uno per la “Rivista
di filosofia”, due per “Il pensiero”, un altro per i “Quaderni milanesi” (dove Paci formula delle indicazioni fenomenologiche per il romanzo) e infine una nota editoriale per il Catalogo della casa editrice il Saggiatore: naturalmente tutti gli interventi hanno al centro, variamente tematizzati e articolati, la rinascita della fenomenologia e il pensiero di Husserl. Nel 1961 esce da Laterza il fondamentale libro Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, ristampato nel 1990 da Bompiani nelle Opere, con introduzione di Pier Aldo Rovatti. Esce il già citato Diario fenomenologico; appaiono la Prefazione alla traduzione della Krisis e altri saggi: per il “Giornale critico della filosofia italiana”, per la “Revue internationale de philosophie”, per “Il pensiero”, per “Nuovi argomenti”, per “Europa letteraria”, oltre ai bimensili interventi su “aut aut”. A proposito di Tempo e verità Rovatti scrive: “Nel 1957 Paci si trasferisce da Pavia a Milano. In un breve arco di anni, diciamo dal 1957 al 1963, avviene qualcosa come un’esplosione: esplosione di pensiero, con due esiti principali, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl (1961) e Funzione delle scienze e significato dell’uomo (1963), e di attività di promozione culturale. In quegli anni, sulla spinta di Paci, le più importanti opere di Husserl vengono tradotte in italiano, ma Husserl è solo la punta d’iceberg di un ‘impegno’ culturale eccezionale e trascinante. È come se Paci, che pure aveva già sedimentato nei suoi scritti una lunga e proficua stagione da protagonista del dibattito filosofico italiano, ora però avvertisse nel suo pensiero una tonalità diversa, per cui quel pensiero meritava, anzi esigeva di uscire completamente allo scoperto, per svolgere una funzione di orientamento culturale e anche sociale. L’incontro con il marxismo avverrà di lì a poco, non dal lato del marxismo stesso bensì da quello della fenomenologia, sull’onda cioè di un’esperienza di pensiero che Paci dovette ritenere sconvolgente e insieme impellente”.
La notazione di Rovatti è importante: Paci va a Marx partendo da Husserl, come vedremo tra breve. Questo è, in certo modo, un punto dolente dei suoi rapporti con i marxisti italiani, che scorsero nella lettura fenomenologica di Marx e nella contaminazione del marxismo con i temi dell’ultimo Husserl ripensati da Paci qualcosa di improprio, di fuorviante, di inaccettabile. Ricordo in proposito i giudizi sereni ed equilibrati, ma sostanzialmente negativi, di Fulvio Papi, del cui lavoro filosofico e cammino di pensiero nutro una stima assoluta. Forse Vincenzo Vitiello, altro collega e compagno di cammino che ascolto con grande dedizione, suggerirebbe di prendere la cosa esclusivamente dal punto di vista di Paci, cioè di una filosofia che si costruì i propri precedenti e interlocutori in modo molto libero (Husserl incluso) ma anche efficace. Vitiello mostrò infatti notevole tolleranza e moderazione nel commentare il rapporto di Paci con Vico e con Croce, autori che per il lavoro di Vitiello sono certo fondamentali. Tempo e verità raccoglie i saggi principali scritti da Paci negli ultimi anni, ma è nel contempo, dice giustamente Rovatti, “il libro più ‘tecnico’ forse mai scritto da Paci”. In esso si pone in evidenza l’insufficiente critica di Lévinas e di Heidegger all’epoché come se si trattasse di una metodologia meramente gnoseologica. “C’è perfino qualcosa di ‘religioso’ nell’epoché, osserva ancora Paci, rimandando a un luogo della Crisi di Husserl: ‘La religiosità alla quale si allude è la fede nella rinascita della ragione dalla naturalizzazione e dalla morte’.” Certo, Paci, riducendo Heidegger all’esistenzialismo, lo fraintendeva indebitamente (proprio di questo, o anche di questo, parlai a Paci in uno dei nostri ultimi colloqui): di qui la polemica con Pietro Chiodi sulla “Rivista di filosofia”, che ebbe allora una certa risonanza. Resta il fatto, conclude Rovatti (sono d’accordo con lui e credo anche di averlo tematicamente mostrato in un mio libro), che “la questione del rapporto tra Heidegger e la fenomenologia risulta ancora del tutto aperta, problematica in Heidegger stesso,
suscettibile di sviluppi critici […]. Paci impoveriva così Heidegger, ma la ricchezza della fenomenologia della temporalità che egli ci presenta ci permette – e questo è a mio parere essenziale – di non chiudere la questione là dove Heidegger si arresta (dopo aver impoverito il contributo fenomenologico), di riaprirla attraverso Husserl e dunque di farla procedere oltre Heidegger stesso”. Dopo l’uscita del mio primo libro e dell’antologia Garzanti si pose in quel tempo il problema della mia libera docenza. Questa istituzione rivestiva allora un’importanza decisiva per la carriera universitaria ed era un’occasione, a mio avviso, opportuna ed efficace. Più o meno ogni anno una commissione nazionale valutava i candidati. Eravamo ancora lontani dal caos totale in cui cadde l’università italiana poco dopo e nel quale tuttora si trova: nessuna più regolarità e certezza circa i tempi dei concorsi, continue modificazioni delle regole, con perversa tendenza al peggioramento, periodi anche di un decennio di latenza nel rinnovamento degli insegnanti, moltiplicazione demenziale, furbesca, profondamente inculturale delle discipline accademiche ecc. Il risultato era che, quando finalmente un concorso veniva bandito (quando vinsi il mio erano più di dieci anni che lo si attendeva), la mole dei candidati era diventata di fatto ingestibile per i commissari che ne avrebbero dovuto leggere gli scritti (ci fu chi arrivò ad affittare un locale per riporvi le pubblicazioni da esaminare). Per di più il clima che si era creato era quello da ultima spiaggia. Ciò consentiva al commissario di sostenere: “Il mio allievo vince ora o mai più; io stesso non sarò più in una commissione”. “Ma tra i candidati c’è un certo Emanuele Kant!” “E io che posso farci? Se non ha nessuno che lo porta, peggio per lui. D’altronde, chi potrebbe ragionevolmente offrirmi garanzie di una vittoria futura per il mio candidato?” Sulla base di queste garanzie, non proprio ferree ma abbastanza attendibili, si basava invece il costume legato alle precedenti selezioni. I docenti ordinari erano pochi, si conoscevano perfettamente e conoscevano abbastanza bene
la gran parte dei candidati (oggi ignoro chi siano e perché siano in cattedra un buon numero dei miei colleghi “teoretici”). I cosiddetti “baroni” erano soliti vedersi, proporre e ragionare, stabilendo infine un ordine di successione: quest’anno passa il tuo, l’anno prossimo però il mio e così via. Naturalmente il sistema non era idilliaco e non garantiva da possibili errori, però alla lunga, non sempre ma per lo più, consentiva un certo equilibrio e la correzione di troppo palesi ingiustizie. Per diversi anni in Italia ci fu una netta prevalenza della scuola di Torino, per la saggia e accorta politica del cattolico Augusto Guzzo, e poi del suo discepolo Luigi Pareyson, con il laico Nicola Abbagnano: di certo non si amavano, ma procedettero in sostanziale accordo e senza peraltro prevaricare, o prevaricare troppo, sulle altre scuole filosofiche italiane. Insomma, se proprio il destino non ti era avverso in modo scandaloso o accadevano fatti imprevedibili, prima o poi il tuo concorso l’avresti vinto, certo, dopo averne persi un buon numero; la documentazione del tuo lavoro non era sufficiente a garantirti il successo, ma era comunque una componente importante, anche per salvare la faccia e l’onore di chi ti proponeva. Tornando ai concorsi di libera docenza, ai quali si accedeva non prima di cinque anni dopo la laurea (salvo casi eccezionali specificamente consentiti per meriti molto speciali) e con la pubblicazione di almeno una monografia originale, di contenuto e metodo scientifici, il loro primo merito era quello di essere aperti a qualunque laureato, o anche non laureato, italiano. Voglio dire che non era strettamente necessario essere in diretto contatto con un Istituto universitario di filosofia, con un certo docente ecc. Anche il più isolato dei laureati, anche il più solitario degli studiosi o autodidatta, a Camerino, Ragusa o Biella, poteva comporre un libro, pubblicarlo a sue spese in una piccola casa editrice o tipografia, spedirne due copie alle Biblioteche nazionali di Firenze e di Roma e presentarsi al concorso, che non prevedeva un numero chiuso di possibili vincitori.
Era una situazione di libertà, anche se ovviamente la stragrande maggioranza dei candidati si giovava di relazioni interne all’università di provenienza. D’altra parte, la commissione, se incontrava un’opera che giudicava di valore, non aveva alcun motivo per escludere l’autore dai vincitori. Ricordo che la libera docenza dava diritto a tenere corsi liberi presso un’università: almeno due, mi pare, o forse tre, ogni cinque anni, pena, contrariamente, la perdita del titolo, che dava tra l’altro il diritto a essere chiamato “professore”. C’è chi ha continuato a insegnare in questa veste all’università per molti anni (anche Freud a Vienna era un libero docente). A rovinare la libera docenza pensarono i medici (anche se non solo loro), che organizzarono ignobili “cordate” tra i loro collaboratori più giovani. In pratica la regola tacita era questa: tu lavori gratis come uno schiavo per me e per l’Istituto; collabori anche a un progetto di ricerca comune (per lo più poco originale e spesso ridotto alla traduzione di ricerche già svolte negli Stati Uniti o altrove, debitamente rimpolpate un po’, magari con una sedicente sperimentazione ad hoc, per farle sembrare nuove e originali); il risultato viene poi attribuito interamente al primo in lista, che va alla libera docenza, indispensabile per la carriera universitaria e già molto premiante col titolo di “professore” e i relativi maggiori proventi nell’esercizio della professione; poi, se sarai buono, un giorno verrà anche il tuo turno e ti troverai a essere titolare di una ricerca di cui magari non hai scritto neppure una riga ma che i tuoi compagni hanno scritto per te. Negli anni in cui, come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia a Milano, sedevo nel Senato accademico, ero solito scherzare con il preside di Medicina: in che cosa siamo davvero colleghi, a cominciare dal fatto che tu potresti lasciare in banca il tuo stipendio mensile senza accorgertene, mentre io sarei già morto di fame? Ho sempre pensato che separare Medicina dall’università (o viceversa, se preferite) sarebbe stato un grande vantaggio per le
discipline umanistiche. Venne dunque il tempo della libera docenza, ma Paci aveva un impegno morale, o così riteneva, con Guido Davide Neri, suo allievo già a Pavia: Neri doveva essere il primo, ma non aveva ancora finito il libro necessario. Paci mi pregò di pazientare e intanto, per stare più sicuri, di scrivere un secondo libro. Avevo pronto molto materiale, anche grazie al corso di Paci su Whitehead. Una parola sui corsi monografici e su quella che oggi si definisce, con espressione che mi sembra sempre molto comica, lezione frontale (invenzione degna delle storture didattico-pedagogiche). La lezione ex cathedra non gode da tempo di buona stampa, non sembra abbastanza “democratica” e rispettosa della presunta originalità e libertà dei discenti; ciò però consente o quanto meno favorisce quella devastazione del lavoro universitario cui accennai all’inizio. In realtà un corso di lezioni, ben fatto, nutrito da molto lavoro, accortamente organizzato e articolato, da un lato ti consente di imparare in pochi mesi una quantità di cose che, se dovevi trovartele tu, ci mettevi anni; dall’altro, se ti apre la comprensione su orizzonti per te nuovi e impensati, un corso ti cambia la vita, sicuramente la vita di studioso. Giustamente Paci era solito notare che le diverse strade intraprese dai suoi allievi molto spesso derivavano dal corso che in un certo anno Paci aveva tenuto e loro avevano seguito. Certo, nella devastazione attuale un corso degno di questo nome è cosa troppo gravosa per studenti incapaci di ascolto adeguato e di perizia nel prendere appunti, così come è inattingibile per molti docenti, che non posseggono una decente ed efficace dizione e argomentazione orale. Meglio prepararsi una buona serie, qua e là anche obbligatoriamente spiritosa, di diapositive e limitarsi a leggere le frasette inseritevi, possibilmente in inglese. Di fatto, privare l’università, particolarmente nei suoi indirizzi umanistici, del corso monografico è un vero e proprio furto perpetrato a danno della cultura e della preparazione degli studenti, che del resto neppure possono
oramai più saperlo o avvedersene. Passato un anno, Guido Neri, impegnato in altre vicende culturali, non aveva ancora finito il libro e allora Paci, credo a malincuore ma per un senso di giustizia, decise che sarei stato io il suo primo libero docente. Il mio libro su Whitehead, d’altra parte, gli suscitava qualche sospetto: non a caso mi propose di stamparlo con una sua prefazione che mi dettò direttamente facendomi andare a casa sua (Paci non usava d’abitudine la macchina da scrivere). Riletta oggi, questa prefazione non può non colpire per la sua natura molto complessa, ricca di riferimenti, abile nelle argomentazioni, acuta nelle intenzioni e originale nel taglio espositivo: un perfetto esempio del suo genere, sebbene totalmente improvvisato e costruito a memoria. Ma la costruzione di testi consimili era appunto una parte dell’immenso lavoro che Paci svolgeva per i libri delle collane del Saggiatore e non solo. L’intervento di Paci era per me ovviamente un onore e una testimonianza di stima personale, ma il punto tra noi era la mia interpretazione del “supergetto” whiteheadiano: cioè quella concezione del soggetto che astraeva dall’io umanamente inteso (ogni cosa svolge la funzione del soggetto in quanto ne prende un’altra rendendola suo oggetto: per esempio il fiore prende l’acqua piovana oppure l’acqua prende il tronco d’albero nel fiume) e che comunque ravvisava la compiutezza della soggettività al termine, e non all’inizio o alla base, del processo dell’esperienza. In questo senso ogni soggetto è un processo in atto verso il suo compimento o, appunto, verso il supergetto. Io ero piuttosto affascinato da questa originale configurazione del soggetto entro la filosofia del processo e dal tema delle “prensioni”, che proprio Paci mi aveva insegnato a stimare; Paci però avvertiva il pericolo che io mi allontanassi problematicamente dalla soggettività trascendentale husserliana. Nella sua prefazione infatti, senza toccare questo punto delicato che avevamo discusso tra noi, Paci invoca sia la necessità generale di correggere
Whitehead con Husserl, sia l’urgenza di dare un fondamento alla filosofia del processo: un fondamento che tenga conto di ciò che Husserl chiamava “scienza rigorosa”, cioè di un sapere che sia consapevole delle operazioni soggettive di costituzione della sua teoria e di ogni teoria. Non è che non fossi sensibile a questa esigenza (che, in un modo o in un altro, non mi ha mai abbandonato ed è, nel mio lavoro, una delle più tenaci eredità paciane); è che io covavo, da molto tempo, più esattamente dal tempo dei miei primi studi con Barié e col suo “io” o “concetto trascendentale” e poi dal tempo del mio lavoro di tesi sulla fenomenologia hegeliana, una grande domanda circa l’origine della figura dell’autocoscienza e del soggetto. Ne volevo ricostruire e comprendere adeguatamente la genesi e non immaginavo che ciò avrebbe richiesto un lavoro più che trentennale. Paci però, con quella sua capacità straordinaria di intendere al volo e di leggere tra le righe (una capacità che esercitava sui libri che studiava: dopo cinquanta pagine, come mostravano le sue sottolineature in rosso e in blu, aveva inteso perfettamente il tutto), intuì benissimo la mia esigenza. Mi suggerì la lettura dell’opera, per lo più postuma, di George Herbert Mead, l’amico e il collaboratore di Dewey a Chicago e il fondatore della psico-sociologia. Non l’avevo mai sentito nominare. Mi procurai tutti i suoi libri, li lessi d’un fiato e il destino della mia ricerca mutò profondamente, come tra breve ricorderò. Intanto passai l’intera estate a Milano (non era una novità) per lavorare su Whitehead. Per la pubblicazione rapida del libro ero in difficoltà. Mi venne in soccorso una borsa di studio della Banca Commerciale Italiana, per l’interessamento amichevole, e vorrei dire paterno, di Carlo Gragnani, che era tra i massimi dirigenti di quell’istituto e che conduceva la sede parigina della Comit, dopo essere stato direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale a Washington per sette anni e prima ancora collaboratore di Ferruccio Parri, primo presidente del Consiglio della Repubblica italiana, nel gruppo dei suoi giovani economisti.
Gragnani, uomo di grande cultura, interessato alla fenomenologia, aveva letto il mio primo libro e aveva ottenuto direttamente da Paci, che conosceva, un’indicazione per contattarmi. Nei suoi frequenti viaggi a Milano prese l’abitudine di inserire lunghi incontri serali con me. Iniziò un’amicizia che solo la morte di Gragnani a Lugano, quasi centenario, ha interrotto. Da Gragnani ho appreso moltissimo, anche grazie alla sua conoscenza profonda del buddhismo, che coniugava con la fenomenologia. In età molto matura Carlo Gragnani si dedicò alla scrittura di aforismi, che sono tra i più belli e originali del Novecento (una breve silloge è leggibile nel Meridiano Mondadori del 1996, Scrittori italiani di aforismi. Il Novecento, a cura di Gino Ruozzi). La libera docenza si teneva a Roma, presso l’Università “La Sapienza”. Qui si riunì la mia commissione, presieduta da Augusto Guzzo e costituita, oltre a Paci, da Vittorio Mathieu, Andrea Vasa e dal giovane Carlo Arata, rappresentante dei liberi docenti. Mi piace ricordare che da allora data la mia personale amicizia con Arata, tuttora viva e affettuosa; Arata è il pensatore cattolico più straordinario che io abbia conosciuto. Il suo libro del 2009, Dio oltre il principio di non contraddizione, edito dalla Morcelliana, è un esempio di coerenza teoretica e morale in cui originalità e coraggio fanno tra loro a gara. Noi candidati eravamo in quattro. Oltre a me, Mario Tronti, Giorgio Derossi e Franco Voltaggio. Tronti però venne subito escluso, perché il suo libro non era apparso nei tempi previsti dal bando di concorso. Si sarebbe ampiamente rifatto negli anni immediatamente successivi, quando il vento del pensiero “di sinistra” prese a soffiare potentemente su tutto e su tutti. Restammo in tre. Attendevamo la commissione in un corridoio prospiciente un’aula. I professori arrivarono, guidati da un Guzzo di ottimo umore, tutto saltellante e sorridente, nonostante l’età. Mi riconobbe e mi disse ironicamente: “Lei ora è molto contento della sua recensione ai miei studi sull’arte
religiosa”. Si trattava in realtà di una breve nota scritta per “Il pensiero” nel 1961, di cui Guzzo si ricordava perfettamente. Una semplice segnalazione, però di tono “positivo”. Non ricordo nulla della discussione orale dei titoli presentati, ma ricordo bene il momento “solenne” della scelta della lezione che, esattamente ventiquattro ore dopo, ognuno di noi avrebbe dovuto tenere di fronte alla commissione e al pubblico che eventualmente avesse deciso di presenziare. Ogni commissario scriveva un tema su un biglietto. Il candidato ne estraeva due e poi sceglieva tra i due quale svolgere. A me capitò il biglietto di Paci (ne conoscevo a memoria la calligrafia che avevo imparato a decifrare in varie occasioni e circostanze del mio lavoro con lui). Sempre timoroso e sospettoso che i colleghi ordissero trame contro di lui e i suoi allievi, aveva praticamente proposto il tema stesso del mio primo libro, la Introduzione alla fenomenologia come scienza. Poi c’era l’altro biglietto, abbastanza criptico, per non dire di peggio. Io non mi risolvevo. Paci mi guardava con una faccia stupefatta che silenziosamente diceva: “Be’, ci stai a pensare?”. Nel contempo vedevo Vasa che si protendeva verso di me con evidente, ma benevola, sfida. Mi sembrava brutto scegliere il tema del mio libro. Guardai Paci e dissi sottovoce: “È proprio il titolo del mio libro”, quasi a cercare una giustificazione; poi scelsi l’altro biglietto, suscitando l’entusiasmo di Vasa: “Bravo!” mi disse, “sei coraggioso” (avevo conosciuto Vasa anni prima, a casa di Barié). Paci mi osservava perplesso. Il tema scelto recitava così: “Epoché. La parte che mette tra parentesi il tutto”. Una palese critica al metodo fenomenologico. Una bella grana. Andai in albergo e telefonai all’albergo di Paci e Paci, palesemente irritato e preoccupato, non mancò di prean‐ nunciarmi catastrofi. Mi ricordò chi era Vasa, ma io lo sapevo benissimo. Con Dal Pra aveva dato vita a Milano a una corrente di pensiero che aveva il nome di
“trascendentalismo della prassi” (Ricerche sul razionalismo della prassi, 1957): una cosa che a Barié non piaceva affatto, ma che oggi devo invece riconoscere che era piena di buone idee, per certi versi non lontane dal cammino di Preti. Paci mi ammonì di non trascurare di trattare i rapporti partetutto nelle Ricerche logiche di Husserl, ma di tener anche conto dei paradossi di Bolzano, che Vasa stimava e conosceva molto a fondo. I libri che mi ero portato da Milano non mi servivano praticamente a nulla. Andai in biblioteca e vi restai tutto il giorno. Mi toccava lavorare su argomenti molto lontani dalle mie abituali competenze. Cominciai a pensare che Paci aveva ragione di preoccuparsi e mi preoccupai moltissimo anch’io. In albergo passai praticamente la notte in bianco (alla lezione il candidato non poteva tenere davanti a sé altro che una scaletta, un foglietto, oltre ovviamente alle citazioni che aveva deciso di proporre e commentare), ma la mattina dopo, come mi aveva detto un giorno Massolo, me la cavai. Anzi, a dire il vero feci un’ottima figura e Paci, finalmente, si rilassò. Ognuno di noi tre candidati ascoltò gli altri due, con molta partecipazione (anche di Giorgio Derossi divenni amico e seguii con viva stima la sua brillante carriera a Trieste). Accadde però un incidente curioso. La lezione, che aveva scopi didattici oltre che ovviamente culturali, doveva durare quarantacinque minuti, come una lezione universitaria. Guzzo, inflessibile, ci ascoltava con in mano il suo orologio da taschino. Voltaggio però concluse cinque minuti prima del dovuto. Guzzo, implacabile, glielo fece notare e lo invitò a continuare. Voltaggio (come ognuno di noi, del resto) era molto teso e ne fece, improvvidamente, una questione di principio. “Non ho altro da aggiungere,” disse con un misto di orgoglio e di risentimento. Figuriamoci Guzzo: “E io non le do la libera docenza”. Noi dalla tribuna lanciavamo segnali disperati. Intervenne santo Arata: “Ci faccia, la prego, un compendio dei punti che ha toccato, anche per nostra memoria”. Voltaggio si sbloccò e
l’incidente si chiuse felicemente. I suoi interessi si rivolgevano prevalentemente alla filosofia della scienza. Avrebbe di certo faticato meno di me a preparare il tema della mia lezione e se non altro aveva avuto il buon senso di scegliere la sua in modo conforme ai suoi lavori. La commissione formulò nei miei confronti un giudizio molto lusinghiero. Guzzo chiese a Paci se anche io… ero comunista! Paci gli rispose: chiedilo a lui. Maturavano tempi complicati e oscuri. Non ho mai preso una tessera di partito e non ho mai, come si dice, fatto politica in presa diretta. Quando, anni dopo, tornai a Milano come vincitore della cattedra di teoretica, Guzzo mi invitò a Torino a tenere una conferenza. Mi ascoltò con impeccabile gentilezza (questa volta senza orologio), seguì attivamente la discussione, poi si scusò di non accompagnarmi a cena: sono troppo vecchio, disse, ma la condurranno i miei collaboratori. Anche alla Statale l’esito della mia libera docenza venne accolto con piacere. Dal Pra mi fece personalmente i suoi complimenti. Paci gli chiese a un certo punto se c’era modo di affidarmi un insegnamento per incarico (Derossi l’aveva già prontamente ottenuto a Trieste). Paci non era molto abile in queste cose, anzi, diciamo pure per niente. Dal Pra, che aveva allora altri progetti, gli rispose che potevo contare sul primo incarico disponibile nella nuova Facoltà di Pedagogia, che si stava aprendo a Milano. Purtroppo questa Facoltà laica di magistero non vide mai la luce.
Marx e il ’68
Il libro laterziano di Paci ebbe un seguito nel 1966 con la traduzione di Logica formale e trascendentale di Husserl, a cura di Guido Davide Neri. Quest’opera di Husserl non ha mai avuto, secondo me, l’attenzione che merita, soprattutto in Italia. Quando proposi a Vito Laterza la traduzione in due volumi degli scritti logici di Peirce, molto in anticipo sulle successive traduzioni italiane del padre del pragmatismo, ne ricevetti un rifiuto: ho già sperimentato con la logica di Husserl, disse, che queste opere sono troppo “accademiche” e non si vendono. Dalla prefazione scritta da Paci per Logica formale e trascendentale traggo un lungo passo, a mio avviso esemplare e al cui contenuto di fondo non ho smesso di essere fedele: “Una logica delle forme ideali di significato, costruita come qualcosa di a sé stante, è altrettanto nulla filosoficamente quanto lo sono le scienze positive in generale; essa rinuncia a quella autenticità di fondo mediante cui potrebbe conseguire un’autocomprensione e un’autogiustificazione; non ha perciò alcuna norma per aiutare le scienze positive a superare la loro positività. L’elemento non-filosofico di questa non positività sta propriamente in ciò, che le scienze, a causa della incomprensione delle loro proprie operazioni, come risultati di una intenzionalità operante che resta per loro non tematica, non sono in grado di chiarire il vero senso d’essere
del loro campo e dei concetti che lo abbracciano, e perciò di dire in senso vero ed ultimo quale senso ha l’essente di cui parlano, e quali orizzonti di senso esso presuppone, orizzonti di cui le scienze non parlano, e che tuttavia partecipano alla determinazione del senso. In connessione con la dogmatica ingenuità di una logica formale che si presume autosufficiente e riposa su un’evidenza paga di sé, sta l’ingenuità di una teoria della conoscenza aggiunta dall’esterno, ‘sopraggiunta’ […]. La vera teoria del conoscere è il chiarimento del senso ‘autentico’ dei concetti logici e della stessa logica”. Nel 1966 il rapporto di Paci con l’editore Laterza era ancora molto collaborativo. Da ciò discende un episodio che mi riguarda e la cui modalità di accadimento sarebbe oggi impensabile. Andai un giorno a trovare Paci per dirgli delle mie letture meadiane (che ormai erano assai più ampie delle sue) e della mia ferma intenzione di scrivere un libro su Mead e il problema dell’origine dell’autocoscienza. Benissimo, disse Paci, proviamo a sentire Laterza. Prese il telefono e chiamò a Roma Vito Laterza, che immediatamente rispose. Gli spiegò che un suo collaboratore, già autore di due libri e di un’antologia Garzanti, libero docente ecc., voleva scrivere un libro su Mead ecc. ecc. “Venga a trovarmi a Roma e vediamo,” fu la risposta. A Roma conobbi un giovane Vito Laterza molto sobrio ma cortese che mi disse, in sostanza: Mead non mi sta bene; perché non pensa a fare un libro su tutto il pragmatismo americano, che invero ci manca? Che cosa si poteva rispondere di fronte a una simile proposta della grande “Laterza”? Non esitai a rispondere di sì, solo vagamente intuendo in quali problemi mi stessi cacciando. Di fatto si trattò di una svolta decisiva per la mia ricerca e per la mia stessa vita. Nel corso di cinque anni di duro lavoro mi imbattei in uno dei grandi padri spirituali della mia esistenza di studioso, dopo Hegel e Husserl; alludo a Charles Sanders Peirce (che cosa sarei stato senza di lui?). Paci ne fu a sua volta entusiasta: scoprirai, mi disse, la phenomenology di
Peirce e potrai fare un gran confronto con Husserl. Scoprivo anche, in realtà, quanto grande è il debito verso un maestro che ti pubblica i libri e ti procura gli editori, quanto conforme dovrebbe essere la riconoscenza nei suoi confronti; posso dire che io sono di quelli (non sono molti) che non l’hanno mai dimenticato. Intanto l’atmosfera a Milano stava rapidamente cambiando. In attesa di un improbabile incarico universitario in sede, stavo a guardare, continuando il mio lavoro di assistente, oltre ai mille altri lavori e lavoretti necessari a sopravvivere. Paci era entrato da tempo nella fase “fenomenologia e marxismo” che aveva trovato in Funzione delle scienze e significato dell’uomo (1963) il suo testo fondamentale e in certo modo il suo capolavoro. Pochi libri mi sono familiari come questo, anche perché Paci mi chiese di aiutarlo a correggerne le bozze e ciò fu occasione di continui confronti che dalle osservazioni marginali sulla forma e lo stile si estendevano ai contenuti, come sempre accadeva con Paci: un uomo che avrebbe continuato a fare filosofia… anche all’inferno, se ci fosse transitato. Il libro ebbe un successo editoriale straordinario, raccogliendo anni di preparazione e una notorietà che ormai travalicava decisamente l’ambito degli studi accademici. Funzione delle scienze e significato dell’uomo andò a occupare il suo meritato posto in piena evidenza negli scaffali di ogni biblioteca privata delle famiglie colte milanesi e non solo. In quanti poi lo leggessero davvero (ce lo chiedevamo) non era facile stabilirlo. Diviso in tre parti, Funzione delle scienze presenta nella prima un grande commento della Krisis, incentrato sull’oblio del mondo della vita nella scientificità galileiana. Nella seconda campeggia il tema tipicamente paciano della fenomenologia come scienza nuova. Qui le pagine più straordinarie riguardano a mio avviso il paradosso estremo della fenomenologia, ovvero il rapporto problematico tra l’io trascendentale originario, cioè l’io anonimo fungente, e l’io psicologico, donde il tema husserliano della psicologia come
scienza delle decisioni ultime: un tema che Husserl nella Krisis ha lasciato irrisolto e che qui Paci riprende e sviluppa positivamente, per esempio in riferimento al secondo libro di Ideen, stranamente trascurato proprio da Husserl. Non posso non ricordare che il problema del rapporto tra io trascendentale e io empirico era pure il tema centrale del Concetto trascendentale di Barié, sebbene svolto in modi del tutto difformi dalla fenomenologia: dal mio personale, anche se del tutto irrilevante, punto di vista, quasi un destino che accompagnava il mio lavoro formativo. La parte terza concerne il rapporto tra fenomenologia e marxismo. Qui Paci riprende anche qualche passaggio del saggio Il significato dell’uomo in Marx e Husserl, di cui diremo. Notevoli le pagine che entrano originalmente in dialogo sia con il marxismo italiano di Labriola e di Gramsci, sia con Sartre e Merleau-Ponty. Il rapporto tra Marx e Husserl è scandagliato in particolare sulla base delle due scienze emblematiche dell’economia e della già ricordata psicologia. Come c’è un’economia alienata in categorie oggettivate e come tali pseudo-scientifiche, un’economia che Marx riporta invece al senso e alla verità precategoriali del lavoro e del bisogno, così c’è una psicologia che deve rifondarsi sul nuovo “materialismo” della fenomenologia husserliana: materialismo dell’uomo concreto e delle sue concrete operazioni, in lotta contro la feticizzazione naturalistica dei saperi e l’alienazione prodotta dalle strutture storico-istituzionali del capitalismo moderno. Nel 1962 Paci era stato invitato dall’Accademia filosofica di Praga a pronunciare una conferenza, che si svolse infatti il 24 ottobre. Dietro l’invito c’era Karel Kosík (1926-2003), che pubblicherà l’anno dopo il suo libro più noto, Dialettica del concreto. Il concreto della natura umana, nella sua differenza dal mondo animale, consiste, per Kosík, nella prassi e nel suo svolgimento storico, che ha trovato già in Hegel, e in generale nell’idealismo classico, una prima importante formulazione. Per questo suo hegelismo Kosík subì persecuzioni da parte dello stato comunista, così come
ne subì poi dai liberali per essere stato un comunista, sia pure molto critico. C’erano profonde affinità tra la posizione del marxismo “umanistico” di Kosík e quello di Paci e in effetti questo giro di pensieri fu una base ispiratrice fondamentale per la rivoluzione del cosiddetto marxismo dal volto umano, cioè per la primavera di Praga del ’68, resa possibile dal nuovo governo di Dubcˇek. Paci partì per Praga pieno di entusiasmo ma anche con qualche preoccupazione: sapeva che cosa bolliva in pentola. La situazione stava diventando molto diversa da quella che Paci, unitamente a Sartre, aveva sperimentato in Russia, dove la Società degli scrittori europei tentava l’apertura di un dialogo con la cultura sovietica. Bisognava allora subire al mattino prolissi e noiosi interventi dei colleghi russi rivolti alle manchevolezze e alle degenerazioni della cultura borghese: Kafka, Mann, Proust e così via. Denunce necessarie per poter poi avanzare qualche timida “revisione”. Alla sera, negli incontri privati, incoraggiati da qualche bicchierino di vodka e quasi in lacrime, gli intellettuali russi si scusavano con i colleghi occidentali per le sciocchezze e turpitudini pronunciate al mattino. A Praga invece qualcosa di sostanziale sembrava muoversi davvero. Paci, in partenza, mi telefonò: “Se tra cinque giorni non sono tornato, mi raccomando, andate ai giornali, fate un gran chiasso…”. A Praga pronunciò, con grande successo, la conferenza sul significato dell’uomo in Marx e in Husserl, stampata nel numero 73 (1963) di “aut aut”. Rileggo il testo della conferenza nella antologia dedicata a Enzo Paci (Il filosofo e la città. Platone, Whitehead, Husserl, Marx, il Saggiatore, Milano 1979) e curata da Salvatore Veca. Nella sua articolata introduzione, Veca è uno dei pochi, o forse l’unico discepolo di Paci che, tre anni dopo la morte del maestro, ha formulato un giudizio d’insieme, sollevando anche delle franche e argomentate critiche relative all’itinerario paciano. In particolare la relazione fenomenologia-marxismo viene letta come un progressivo slittamento del lessico di un certo Husserl (quello della
Krisis) su un certo Marx (quello dei Manoscritti economicofilosofici del 1844). In questa operazione l’alienazione di Marx assomiglia all’alienazione di Husserl, la critica dell’economia alla critica della scienza galileiana, la scientificità del progetto marxiano alla scientificità fondazionale della fenomenologia e così di seguito. C’è ovviamente via via qualcosa di vero in tutte queste “somiglianze”, osserva Veca, così come si deve riconoscere che Paci ha formulato in proposito questioni cruciali e problemi reali, ma l’insieme che ne risulta ha un senso meramente “esortativo”. Nulla di validamente “costruttivo”. Questa è d’altronde la cifra dell’intera ricerca paciana, secondo Veca, una ricerca che si esaurisce, in sostanza, nello stile dell’insegnamento, qualcosa che si muove nell’universo della retorica piuttosto che in quello della logica (Veca è di quelli che in Italia e altrove ritengono importantissime le Ricerche logiche di Husserl e invece degeneri e arretrati tutti gli scritti della svolta trascendentale sino alla Krisis). Conclude Veca: “Verrebbe da dire allora […] che quanto Paci ha sostenuto è falso ma ben trovato. Aggiungerei che questo esito felice non cessa di dipendere, nelle sue ricerche, dal nucleo del programma del suo relazionismo. Un programma in cui si è costruito uno stile e ha avuto effetti la parola piena o il semplice gesto di un insegnamento”. Non è questa la sede per una disamina approfondita delle critiche di Veca, che personalmente in parte condivido e in parte no. Vediamo invece all’opera qualcuno di questi slittamenti nella conferenza di Paci, che si apre col tema della riduzione della forza lavoro a merce e con la conseguente creazione, tipicamente capitalistica, del lavoratore astratto (temi al centro dei Manoscritti). A causa del processo di “feticizzazione” delle merci, infatti, l’astratto diventa concreto e il concreto astratto (è evidente che Paci non pensa solo alla critica husserliana dell’intellettualismo scientifico, ma pensa anche al tema della “concretezza mal posta” in Whitehead). Le merci, dice Marx, “sono cristalli di lavoro umano,
cristalli di sostanza sociale”. Commenta Paci: “Questa cri‐ stallizzazione ignora gli individui concreti, e quindi non rende possibile una società concreta. Le categorie astratte della scienza economica, il cattivo uso di tale scienza, fanno sì che il valore del lavoro sia nascosto dalla merce. Per questa ragione è molto difficile analizzare la merce”. C’è qui il medesimo rapporto che in fenomenologia si pone tra ciò che appare, il fenomeno, e la cosa in sé fenomenologica (non quella di Kant): non si tratta di due mondi separati e opposti, ma piuttosto di un’inversione. La mera apparenza, il mero rapporto tra “cose” (la merce e il lavoratore) assunto come indice del vero, mentre esso non è altro che il nascondimento “ideologico” del reale rapporto tra “persone”. “Perciò Marx dice che per il capitalismo i soggetti individuali sono sempre sottintesi e mai riconosciuti.” Il processo di disoccultamento, la negazione della negazione hegelo-marxista, viene quindi assimilata da Paci al metodo dell’epoché husserliano. In effetti la conferenza, più che correggere Marx con Husserl, come altre volte Paci ha fatto, si propone di vedere “come si può considerare Husserl tenendo presente Marx”: “Come Marx rivela la realtà del lavoro vivente, così Husserl rivela la realtà del soggetto vivente e di tutte le sue operazioni. Il cattivo uso della scienza non capisce che tutte le operazioni scientifiche, come le operazioni del lavoratore in Marx, sono operazioni del soggetto concreto […]. Il compito di Husserl è rimasto interrotto. D’altra parte egli ha posto il problema di tutte le scienze, ma non si è posto il problema dell’economia, il problema che è al centro delle analisi di Marx in quanto il Capitale è una critica dell’economia. La critica dell’economia può farci vedere sotto una nuova luce il compito che Husserl si era posto con la critica di tutte le scienze e la ricerca del loro fondamento […]. La fenomenologia non è una filosofia nel senso tradizionale. È una filosofia che non deve liberare soltanto il filosofo ma tutta l’umanità e come tale diventa praxis”. Il tema centrale della prassi era destinato a diventare per
me sempre più decisivo. È per esempio inevitabile osservare come le argomentazioni di Paci non si facciano carico della loro stessa “pratica teorica”, per usare un’espressione husserliana, o della loro “storicità genetica”, per stare a Paci. Il lessico usato viene invece assunto come “ovvio”, come “trasparente”. D’altra parte, se è vero che le merci sono cristalli di lavoro umano e di sostanza sociale, lo sono certamente anche le parole che qui vengono usate (per esempio da Paci o da me) e così le idee che risultano espresse con esse. Così pure si può osservare che il soggetto che agisce è sempre “astratto”, niente affatto immaginariamente concreto, perché ogni azione implica una prospettiva, una traduzione formale, una riscrittura parziale, una “semiotica”; correlativamente proprio l’operazione di astrazione è, a suo modo e in un certo senso, concreta, perché, direbbe Peirce, produce effetti. Il soggetto insomma ha in sé strati e intrecci di cui Paci ha certo intuito la complessità, senza per questo indicare alcuna via che renda possibile un’analisi coerente o addirittura risolutiva. Il clima politico a Milano, come del resto nelle maggiori città italiane, degenerava rapidamente, innescato soprattutto dalle polemiche sulla guerra del Vietnam e dall’influenza dei movimenti studenteschi americani ed europei. Vedo ancora gruppi di studenti inferociti che, nel piccolo cortile prospiciente gli Istituti di Filosofia e di Storia della filosofia, urlano “Ho Chi Minh, Ho Chi Minh…”. Cominciarono le occupazioni della Statale, le assemblee, le riunioni mattutine nella bella piazza Santo Stefano (ancora aperta alla vista e non reclusa dal bruttissimo palazzone che ora la nasconde) per indirizzarsi ai cortei cittadini, sempre più caratterizzati dalla violenza negli scontri con la polizia. Sui muri, tra moltissime scritte minacciose e bellicose, ne compariva una ironica: “Viene la rivoluzione e non ho niente da mettermi”. Personalmente assistetti solo all’inizio del cosiddetto ’68 a Milano, perché già nell’estate del 1969 venni chiamato dall’Università dell’Aquila a insegnare Filosofia della storia e
mi trasferii a Roma. Quella dell’Aquila era allora un’università “libera”, benché riconosciuta legalmente, e il problema della “statizzazione” era in quel tempo ben più importante e vivo per gli studenti e i professori, in questo perfettamente coalizzati, che non le rivendicazioni del ’68, che infatti ebbero all’Aquila un’eco fievolissima e solo qualche volonterosa quanto sporadica e piuttosto “rustica” manifestazione, presto esauritasi. Che cosa io pensi del ’68 l’ho scritto in altra occasione, riconoscendo per esempio che si trattò dell’ultima espressione culturale nata e cresciuta entro l’università. Dopo la sua conclusione e degenerazione negli “anni di piombo” (che invece ho in parte direttamente vissuto nel mio ritorno a Milano), quella università, e la sua autonomia politica e “spirituale”, non è più esistita. È nata al suo posto l’università attuale, completamente invasa dalla cultura mediatica massificata e giornalistica, cioè da quella che i francesi, con efficace espressione, chiamano “mezza cultura”, invasa dalla mercificazione, dalle mode del design che programmaticamente ne deturpano a Milano i cortili quattrocenteschi, dai laureati nel nulla che si fanno fotografare con in testa il tocco, a imitazione degli studenti “americani”, o con insulse corone di finto alloro che essi immaginano spiritose. Un’università travolta da polemiche intolleranti e atti di violenza non era in sé una novità. Nel tredicesimo secolo, tanto per fare un esempio, scoppiano all’Università di Parigi le dispute tra maestri delle arti minori e maggiori e poi con i maestri “mendicanti” (Bonaventura e Tommaso), quindi tra averroisti e tomisti; sullo sfondo la figura del vescovo Stefano Tempier, propenso a eliminare tutti gli “aristotelici” latini o non latini. I professori, laici e non laici, assieme agli studenti, se le diedero a più riprese di santa ragione (è proprio il caso di dire così), invadendo anche le strade e i vicoli parigini e suscitando le reazioni dell’autorità. Poi l’episodio del 1573 a Venezia, dove si confrontarono seguaci e studenti delle due diverse scuole allora in aspra polemica
tra loro in tutta Italia: da una parte gli aristotelici tradizionalisti e dall’altra i seguaci di Telesio, sostenitori di una nuova fisica e filosofia, in piena rottura con le idee di Aristotele. A Venezia si sfiorò la rissa e la discesa generale alle vie di fatto fu a stento, e non senza qualche violenza, evitata. Infine mi torna confusamente il ricordo degli accesi scontri pro e contro gli esponenti della sinistra hegeliana durante il ’48 in Germania. Nel ’68 milanese c’era però una grande differenza: la violenza non nasceva da una polemica tra opposte scuole di pensiero, perché le idee della sinistra avevano ottenuto da tempo pieno e quasi incontrastato successo; quando qualche ingenuo tentò di sostenere in Statale idee contrarie, per esempio cattoliche o genericamente di destra, venne subito dissuaso a forza di botte e, come si diceva allora, di sprangate, da parte dei cosiddetti “catanghesi”. La specificità di quel movimento studentesco fu invece di uscire dall’università per cercare di innescare nella società civile e politica una rivoluzione reale e sostanziale. Ne derivarono due conseguenze. La prima è la totale supremazia del movimento dentro l’università, che è da sempre, per così dire, un ventre molle, cioè privo di efficaci strutture difensive o repressive. Nell’università si può agire con ampia certezza di libertà e di impunita licenza, compresa la libertà di produrre disordine, interrompendo le lezioni, impedendo gli esami, invadendo e occupando gli istituti e così via. Di fatto la Statale divenne, un po’ alla volta, la cassa di risonanza e il luogo di raccolta di qualsiasi manifestazione di protesta anche non studentesca. Di qui la persistente virulenza di quegli anni di disordini continui in Statale. Dall’altro lato, l’opposta conseguenza della inconcludenza politica delle manifestazioni studentesche. Fronteggiate dalla polizia in quotidiani scontri e scorribande, le manifestazioni e i cortei devastarono certo la vita e il tessuto cittadino, suscitando furibonde reazioni nei benpensanti, ma non ottennero mai un reale appoggio in quella classe lavoratrice “sfruttata” che pretendevano di rappresentare.
Pasolini lesse, per esempio, in quegli episodi di violenza urbana solo l’isterica autopromozione pseudo-rivoluzionaria di giovanotti figli della buona borghesia che, per i loro velleitari sogni di protesta, prendevano a botte i figli dei veri proletari, entrati in polizia per mangiare. Ma fu soprattutto il Partito comunista a non seguire gli studenti, e infatti i professori notoriamente del Pci subirono in università molti insulti e le maggiori violenze e intemperanze. Alla fine al movimento non restò altra via, di fatto dissolvendosi, che trasferire la piccola violenza quotidiana palese nella programmatica e ben più terribile violenza clandestina; i più irriducibili, i più motivati e fors’anche i più dottrinariamente coerenti, vi si dedicarono nei cosiddetti anni di piombo e vi bruciarono le loro giovani vite. La mia testimonianza sulle prime fasi del ’68 milanese non è, in realtà, importante. La mia molto idealistica e aristocratica concezione dell’università come luogo della totale libertà di pensiero e della ricerca “pura”, luogo che è fucina delle idee e occasione di confronto in cui le ragioni, e non la forza o l’autorità, sono le protagoniste assolute, era in palese rotta di collisione con la “realtà effettuale”, direbbe Hegel, che allora vivevamo. È un fatto che Paci si avvicinò sempre più al movimento studentesco, in varie occasioni fiancheggiandolo. Partecipò alle assemblee e persino, mi dissero, a certe manifestazioni cittadine caratterizzate da lanci di sassi, lacrimogeni e corse sfiancanti. Non esitò ad aprire agli studenti l’accesso, che si voleva tener segreto, al Consiglio di Facoltà, alienandosi per sempre la solidarietà e l’amicizia di gran parte dei colleghi. Stava con la parte dei suoi discepoli più “a sinistra”, per esempio con il gruppo che abitava la cosiddetta comune di via Sirtori, dove io, ed è significativo, forse a torto non ricordo di essere mai stato invitato, mentre Paci, pare, era di casa. Se di fatto molti di loro non mi piacevano, io non piacevo a loro e certamente avranno avuto in proposito le loro ragioni. C’era nel comportamento di Paci una evidente coerenza:
non si può insegnare per anni la necessità di una profonda rivoluzione storico-politica della società e poi tirarsi indietro quando gli studenti ti dicono: “Bene, ci hai convinto, ma adesso che si fa?”. Invero è l’eterna domanda che sorge alla fine di una formazione filosofica, e proprio la mancanza di risposte efficaci è una palese denuncia del lato astratto, intellettualistico, quindi superficiale, del nostro lavoro filosofico. Paci non si tirò indietro e sarebbe ingeneroso non riconoscergli almeno coerenza e coraggio, indipendentemente da altri possibili giudizi. Come ho detto sopra, l’università partorì al suo interno l’idea e il movimento studentesco pretese di metterla in pratica, facendola uscire dalla umbratile vita delle dispense d’esame e dalle accademiche proclamazioni di laurea. Se poi volete sostenere che gli studenti, però, erano “ingenui”, che cosa direte dei loro maestri, che li misero per via? Io fui, nel mio piccolo, uno di quelli. D’altra parte la mia testimonianza e il mio giudizio sarebbero tutto sommato impropri, non solo per la mia estraneità alle azioni e alle iniziative pratiche del movimento studentesco, ma anche per il fatto di essere stato troppo partecipe di quel mondo e di quella vita. Li conoscevo tutti, o almeno molti, troppo bene. Sarebbe come avere una conoscenza personale approfondita di tutti coloro, uno per uno, che parteciparono alla presa della Bastiglia: sono convinto che l’immagine che ne deriverebbe sarebbe profondamente disillusa e deludente, rispetto alla grandezza storica dell’episodio. Infatti questa non si produce per la semplice somma delle intenzioni e dei caratteri individuali, ma per una sorta di forza anonima, sovrapersonale, difficilmente definibile, che produce quello che Sartre chiamerebbe “gruppo in fusione”; quindi qualcosa, nel bene e nel male, che va al di là o addirittura che è estraneo rispetto alle frequenti meschinità, alle ubbie, alle vigliaccherie, alla crudeltà e alle furbizie degli individui. Conoscevo, per così dire, i miei polli, cioè i loro tratti e
comportamenti personali, le loro “storie”, troppo bene, esattamente come loro conoscevano me, questo pollo di cui non è il caso di fidarsi e che chissà a che cosa punta e a che cosa mira. È un fatto che io guardavo con uno sguardo forse troppo freddo e distaccato le nuove iniziative “didattiche” del movimento, i seminari autogestiti, l’abolizione della lezione cattedratica, i laboratori a più voci e gli esami di gruppo; non seppi scorgere in tutto ciò niente di buono, di nuovo o di vitale: solo presunzione, arroganza e ignoranza. Ma è anche un fatto che queste “novità” colpivano e implicitamente criticavano violentemente il mio stile di insegnamento, il suo evidente successo pre-rivoluzionario (fonte, certo, di molte gelosie) e il narcisistico compiacimento che me ne era derivato; perciò non è il caso di darmi troppo ascolto: senza volerlo, proprio condividendo con la mente e il cuore molte tesi rivoluzionarie del marxismo fenomenologico, io di fatto (oggi me ne rendo conto) stavo dall’altra parte, semplicemente restando fermo, perplesso e preoccupato. Il trasferimento all’Aquila fu una liberazione. Se si scorrono gli indici di “aut aut” si vede che la rivoluzione del ’68 solo lentamente e parzialmente ha trovato eco e supporto nella rivista. La prima notazione significativa, nel senso delle vicende qui narrate, è la pubblicazione nel numero 83 del 1964 del saggio di Karel Kosík, La ragione e la storia. Poi saltiamo al numero 104 del marzo 1968, dove compare tra i documenti il testo L’agitazione studentesca a Milano. C’è un filo rosso che collega diversi interventi nei numeri successivi su Lukács (Giovanni Piana, Giairo Daghini ecc.), su Marcuse e su Althusser. Quindi, nel numero 108 della fine del 1968, oltre al saggio di Paci, Vita e verità dei movimenti studenteschi, compare il primo scritto di Paul Piccone, Genesi e struttura del movimento studentesco americano, seguito nei mesi e anni successivi da numerosi altri. Paul Piccone (1940-2004) era nato all’Aquila. Emigrato adolescente negli Stati Uniti, qui aveva fondato nel 1968 la
rivista “Telos”, sulla quale comparvero, nel corso degli anni settanta, vari scritti tradotti in inglese di Paci. Autore di Toward a New Marxism (1973) e di Italian Marxism (1983), Piccone ebbe vita difficile e a tratti tempestosa negli States e nelle università americane. Di fatto era un seguace di molte delle idee di Paci. Il numero 116 di “aut aut” (marzo 1970) è dedicato a “Fenomenologia e marxismo”, con partecipazione preminente di Paci e Rovatti. Il successivo è dedicato a Cattaneo e ne diremo più avanti. Il numero doppio 123-124 (maggio-agosto 1971) è dedicato a “Marx, critica dell’economia politica” (Salvatore Veca, Pier Aldo Rovatti, Paolo Gambazzi, Giairo Daghini e altri). Il successivo è dedicato a Ernst Bloch (Stefano Zecchi, Franco Fergnani, Tito Perlini). Nel numero 126 della fine del 1971 si segnala l’articolo di Paci, Per un’analisi del momento attuale e del suo limite dialettico, seguito da contributi di Rovatti, Veca e Perlini. Il successivo (inizio del 1972) è dedicato alla Scuola di Budapest, con interventi di Mihály Vajda e Ágnes Heller. Alla fine del 1972 un numero doppio è dedicato ancora a “Marxismo e fenomenologia”; i numeri 136-137 (luglioottobre 1973) hanno per tema “Sartre dopo la Critique”, in cui Paci è affiancato, tra gli altri, da Franco Fergnani e Rossana Rossanda. Nel numero 140 (marzo-aprile 1974) il tema è “Nuova sinistra e normalizzazione filosofica in Cecoslovacchia e Ungheria”: Guido D. Neri e Laura Boella in particolare. Nel numero doppio 142-143 (luglio-ottobre 1974) segnalo l’articolo di Franco Fortini, Per le origini di “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini”, Rovatti ancora su Althusser, Amedeo Vigorelli su Galvano della Volpe e lo storicismo marxista. Nel numero doppio 145-146 (gennaioaprile 1975) Massimo Cacciari, Lavoro, valorizzazione, “cervello sociale”, ancora Neri e Fortini. Nel numero 148 (luglio-agosto 1975) Guido D. Neri scrive Sul significato del 1968-69 in Cecoslovacchia e Kurt Marko su L’ideologia sovietica oggi. Schizzo di un’industria della coscienza. Il numero doppio 149-150 (settembre-dicembre 1975) è
interamente dedicato a “Raniero Panzieri e i ‘Quaderni rossi’ ”, con interventi relativi ad Alberto Asor Rosa e Luciano Della Mea (che ebbi modo di conoscere, dapprima con la mediazione della Jaca Book e poi di persona in un convegno a Sesto Fiorentino); nel fascicolo compaiono contributi di Rovatti, Cacciari, Antonio Negri, Sandro Mancini. Nel numero doppio 152-153 (marzo-giugno 1976) Umberto Curi scrive Da Gramsci a Tronti, Antonio Negri, Esiste una dottrina marxista dello stato?, Giangiorgio Pasqualotto, L’“Hegel politico” di Tronti. Il numero 154 (luglio-agosto 1976) – Paci è appena scomparso – è dedicato a “L’Università e la formazione”, con ampi materiali sulla composizione di classe degli studenti, sulla formazione della forza lavoro intellettuale e sulla sua terziarizzazione. Come si vede, nel corso degli anni e dei fascicoli l’intento ideologico ha preso nettamente piede sul resto, di fatto cancellando via via quasi del tutto il progetto originale e originario di “aut aut”, cioè il dialogo a tutto campo con le arti e le scienze. Nonostante ciò, il livello culturale della rivista rimane altissimo e Paci ne è il primo custode e il primo artefice. Vorrei in proposto ricordare, come un esempio eloquente, il saggio L’ora di Cattaneo, comparso nel citato fascicolo monografico del maggio 1970 (io ero già a Roma). Con molta generosità (invero non contraccambiata) Paci si riferisce alla introduzione di Norberto Bobbio ai tre volumi degli Scritti filosofici di Carlo Cattaneo (Le Monnier, Firenze 1960). Cattaneo, dice, voleva che la filosofia nascesse dagli studi scientifici: un’indicazione che sarebbe facile fraintendere in modo superficiale, come del resto è spesso accaduto e tuttora accade. Paci ricorda che Cattaneo dipende in realtà dai suoi maestri, Romagnosi e Ferrari, e più in profondità da Vico. Egli combatte “la orgogliosa confutazione delle teorie” che caratterizza la filosofia delle scuole e l’intellettualismo accademico: una notazione che personalmente considero di viva attualità. Così pure Cattaneo critica i manuali di filosofia.
Contrappone perciò una filosofia popolare vivente alla filosofia morta. Ma che significa “popolare”? “La filosofia popolare,” scrive Paci, “è di carattere borghese, ma contraria all’aristocrazia piemontese e lombarda. Un significato della filosofia popolare è tale per cui noi possiamo intendere che la filosofia non è soltanto quella dei libri, ma è quella che ogni uomo fa, anche se essa non è espressa in nessuna forma sistematica. In tal senso la filosofia è filosofia dei popoli ed è, nello stesso tempo, una filosofia come scienza.” Ciò che ogni uomo fa: leggo qui quell’intessersi del potere invisibile delle cose, delle azioni e dei loro prodotti che modifica di continuo il fondamento e la condizione sociale del senso e dei significati, esigendo sempre nuove comprensioni e nuovi strumenti di riflessione e di conoscenza. In questo senso Cattaneo critica la mente solitaria e propone una distinzione sottile: quella, dice Paci, “tra l’operare e la consapevolezza dell’operare, tra quella che egli chiama Psicologia delle menti associate e quella che egli chiama Ideologia. La storia della civiltà è storia dei fatti, ma è anche storia delle idee dei fatti e in tal senso è ideologia […]. L’intelligenza è la capacità di ricercare in che senso le idee sono un prodotto della vita sociale. D’altra parte l’intelligenza è un atteggiamento e, diremmo oggi, un comportamento. Bobbio cita in proposito il seguente passo: ‘Egli è manifesto che non avremo scienza intera, se non quando avremo fatto lo spoglio filosofico di tutte le storie, e avremo chiarito come in ciascuna di esse siasi atteggiata l’intelligenza e la volontà dei singoli popoli’ ”. L’intelligenza in Cattaneo è quindi un “abito di risposta”, come direbbe Peirce. Paci ricorda che Cattaneo insiste sul termine “descrizione”; la sua filosofia è una “descrizione sperimentale” delle mutue reazioni dei singoli popoli alle circostanze e alle provocazioni della vita concreta. Rispecchiandosi in esse, ecco che i popoli divengono via via soggetti e non solo oggetti della storia vivente dell’umanità. Di qui allora il grande progetto enciclopedico di Cattaneo:
“La filosofia come enciclopedia delle scienze e la filosofia come metodologia delle scienze”. Paci cita questo passo straordinario di Cattaneo: “I filosofi delle scuole, temendo di predicare la verità e vergognandosi di impugnarla, si appresero alla reticenza; ritrassero cautamente la dottrina da tutte le controversie vitali, ridussero la filosofia all’istoria della filosofia. Il pensiero non doveva più inoltrarsi; non doveva più combattere; era come un veterano che si chiude a scrivere la istoria delle sue guerre. Ben altro corso seguiva intanto il pensiero de’ popoli, fuori del portico universitario, nel trivio, nelle officine, nei circoli. Quivi oscuri socrati, ignari del passato, fidenti dell’avvenire, proponevano inaspettate questioni sui beni e sui mali della vita, sulle fatiche, sulle mercedi, sulle imposte, sulle rendite, sulla mostruosa disuguaglianza delle eredità che faceva scalze, fameliche, prostitute le plebi, per adagiare nella voluttà i superbi e i corrotti. Questa era veramente materia filosofica, vera filosofia: l’uomo che studia l’uomo”. Lo studio concreto del fenomeno umano, della sua “apparenza”, uno studio libero da ogni presupposto o pregiudizio, non può mai, per Cattaneo, tradursi e acquietarsi “nelle tenebre dell’ontologia”. L’esperienza è relazione e la verità è anonimo concorso delle azioni e degli abiti mentali. “Fin dai più incerti albori dell’esperienza la nostra mente oscilla tra i mutui impulsi delle menti associate. Le idee altrui s’intrecciano sin da origine alle nostre; le destano, le guidano, le precedono, le impongono. È un raro ingegno quello che può vantare una sola idea la quale non sia venuta dalli altri a lui.” La verità, insomma, è pubblica, come avrebbe detto ancora Peirce, e si afferma via via, in a long run. “Su questo piano,” commenta Paci, “Cattaneo parla di scienza progressiva. Di nuovo, mentre egli cerca di comprendere la dialettica delle forze in giuoco, e la vede in ultima analisi non in un trionfo della mera forza, ma nel percorso sinuoso della storia, nella quale domina l’antitesi, o noi diremmo, la dialettica negativa, l’ontologia gli si presenta come il tentativo di impedire il progresso, di
cui il criterio è dato non dall’essere ma dalla verità.” Poco oltre (dopo aver ricordato l’invito di Cattaneo a scrivere Libertà e verità sulle porte di tutte le università) così continua Paci: “Tutto il discorso di Cattaneo è una negazione dell’ontologia […]. Così come non ha nulla a che fare con l’essere, e in modo particolare con il determinismo ontologico, o con il mero naturalismo, la scienza diventa l’espressione della libertà che nasce dai contrasti e dall’antitesi. È in questo contesto che l’uomo è, in senso più profondo che in quello vichiano, l’attore della propria storia. Con altro linguaggio, più o meno marxiano, si può dire quello che dice Cattaneo, osservando che il passaggio dalla preistoria alla storia umana è reso possibile dalla libertà e dalla verità”. Così pure ciò che dice Cattaneo si può, secondo Paci, tradurre nelle tesi della rivoluzione liberale di Gobetti e negli intenti politici di Salvemini e di Gramsci. Con un’intenzione ecumenica, non certo nuova in Paci e rivolta alla situazione allora attuale, Paci scrive: “In Gobetti si fondevano la libertà e l’azione come poiesis; insieme questi due elementi avrebbero potuto dare per conseguenza i ‘consigli’, dai consigli di fabbrica di Gramsci ai gruppi di rivoluzione liberale. Cattaneo ci appare oggi come il classico di una politica di cui è stata presentata la proposta, ma che forse può trovare solo ora le condizioni della sua realizzazione. Per quanto riguarda Salvemini abbiamo una testimonianza diretta di Gobetti: ‘Il Salvemini ha ripreso la parte viva del pensiero storico e politico del Cattaneo e si può dire che a lui si sia ispirato nell’opera sua il direttore dell’Unità’. Gobetti nota anche che Cattaneo si pose contro un’unità mitologica in nome di un regionalismo concreto […]. Di fatto il richiamo a Gobetti e a Gramsci sembra oggi indispensabile. Nel suo senso più profondo tale richiamo indica un soviet in azione che, pur essendo originale, eredita sia il tentativo gramsciano dei consigli, sia quello gobettiano dei gruppi”. Significativa la conclusione dello scritto di Paci: “Chi oggi, a Milano, ha partecipato al corteo degli studenti che
dall’università, attraverso le vie cittadine, ha raggiunto Piazza del Duomo, trova una conferma delle idee di Cattaneo e una speranza per l’avvenire. Milano, 1 maggio 1970”. Quanti di quegli studenti sapessero davvero qualcosa di Cattaneo e fossero in grado di seguire Paci nelle sue penetranti riflessioni è difficile dire; forse nessuno. Paci svolgeva nondimeno la sua funzione di guida ideale e morale. Questa guida ha avuto su “aut aut” un’eccezionale espressione nella rubrica “Il senso delle parole” che Paci redigeva con grande originalità e perizia. Pier Aldo Rovatti ha raccolto queste rubriche in un volume uscito nel 1987 presso Bompiani (Il senso delle parole. 1963-1974). “Per dodici anni,” scrive Rovatti nella sua introduzione, “questa rubrica, con rigorosa puntualità (solo verso la fine dovette mancare ad alcuni appuntamenti), ha accompagnato il percorso intellettuale di Paci e quello culturale (strettamente congiunto) della sua rivista: poche pagine, qualche volta soltanto una, alla fine di ogni fascicolo, una specie di stenografia filosofica, pensata come un dizionario in progress delle parole chiave del pensiero stesso di Paci […]. L’importanza di un simile documento sta allora soprattutto nel fatto che esso costituisce a un medesimo tempo un diario intellettuale – in cui noi leggiamo quasi ‘a caldo’ lo svolgimento della ricerca filosofica di Paci – e un promemoria attento e incisivo di alcune delle principali ‘avventure di idee’ che hanno caratterizzato il dibattito teorico in un periodo, prima di grande tensione culturale, poi di delicati rivolgimenti teorici (il ’68), e infine di difficili equilibri tra filosofia e politica.” Un ultimo riferimento che proponiamo è al “Senso delle parole” del numero 118 (quello successivo al fascicolo dedicato a Cattaneo), del luglio 1970. In realtà si tratta eccezionalmente della trascrizione della conferenza tenuta da Paci presso l’Accademia Nazionale dei Lincei il 15 maggio 1968, in occasione del tricentenario della nascita di Vico. Che Paci lo riproponga proprio nel 1970, con il titolo Barbarie e civiltà, ha ovviamente un senso programmatico
che comporta una presa di posizione riassuntiva di tanta parte del cammino di Paci e del significato del suo pensiero. Ne trascriviamo alcune frasi conclusive. “In realtà l’uomo deve decidere, sempre di nuovo, nel suo presente storico. Le scienze umane, come del resto le scienze fisiche e naturali, sono, dopo trecento anni dalla nascita di Vico, in una crisi profonda, perché hanno perso la loro fondazione umana e la loro funzione per il significato della storia umana. Supereremo questa crisi, usando le scienze, le tecniche, la cultura, non contro l’umanità ma per l’umanità. Noi possiamo dare un significato alla nostra storia e alla storia di tutti gli abitanti del pianeta Terra. Dal riconoscimento della nostra fallibilità, dobbiamo arrivare ad una presa di coscienza che ci conduca ad una vittoria. La vittoria sulla guerra, sulle possibilità di annientamento assoluto che l’energia termonucleare rende possibile. Vico parla di ritorno alla barbarie ma parla anche della speranza dell’uomo […]. Oggi, più che mai, dobbiamo renderci conto che se pur permane in noi un’oscurità che sembra invincibile, non ci resta altra via che porre le basi di una civiltà razionale per tutti i popoli, primitivi e non primitivi. È possibile una pace costruttiva che non sia una dormiente passività. Se non vogliamo morire dobbiamo vivere in una umanità razionale, una umanità, per usare le parole di Husserl, ‘che comprende di essere razionale nel voleressere-razionale; che comprende che ciò significa l’infinità della vita e degli sforzi verso la ragione; che la ragione sta a indicare proprio ciò verso cui l’uomo in quanto tale tende; che la ragione può riconoscere, in tutto, attraverso l’autocomprensione, il telos apodittico, e che questa conoscenza dell’estrema autocomprensione non può assumere altra forma se non quella dell’autocomprensione secondo principi a priori, di un’autocomprensione secondo la forma della filosofia’.”
Esilio e ritorno
Dopo un anno di attesa passiva, mi pervennero due proposte di docenza, cioè di incarico annuale rinnovabile. Giuseppe Semerari mi propose a Bari l’incarico di Filosofia morale; Leo Lugarini, all’Aquila, quello di Filosofia della storia. Chiesi naturalmente consiglio a Paci. Eravamo nel suo soggiorno, circondati dalla bella biblioteca, ed erano presenti anche Rovatti e Veca, allora responsabili della redazione di “aut aut”. La mia scelta non era infatti solo un fatto personale, ma coinvolgeva potenzialmente tutta la scuola e le sue strategie culturali presenti e future. Paci optò decisamente per l’Aquila. Era un periodo nel quale i suoi rapporti con Semerari, che pure era un suo quasi allievo, un pensatore che, nel suo cammino, procedette per molti tratti in parallelo con la “scienza nuova” di Paci, non attraversavano la migliore intesa. Forse Paci temeva anche che Semerari, personalità indubbiamente originale, in qualche modo mi allontanasse da lui. All’Aquila invece c’era Lugarini, che Paci aveva contribuito a mettere in cattedra, e sentiva forse di poterlo controllare. C’erano però molti se e molti ma: anzitutto all’Aquila si trattava della Facoltà di Magistero (una Facoltà, come ho detto all’inizio, considerata a quei tempi di serie B per i filosofi) e per di più l’università era retta da un consorzio privato, benché i suoi corsi fossero legalmente riconosciuti; insomma, non era un’università statale e non poteva offrire
certezze assolute circa il suo futuro. Poi, l’incarico di Filosofia morale era molto più prestigioso, culturalmente e didatticamente, di quello di Filosofia della storia (la Filosofia morale era, nei curricoli di allora, materia fondamentale); infine il prestigio dell’Ateneo barese era incomparabilmente superiore, come del resto quello di Semerari, che avrebbe disposto, se l’avesse voluto, di molti più strumenti per pilotare il mio cammino verso l’agognata vittoria in un concorso a cattedra (la meta e l’aspirazione ossessiva di tutti noi giovani ricercatori). Scelsi L’Aquila. Vedo ancora Veca e Rovatti che, di nascosto, mi fanno le boccacce. “Magari ci penserei ancora un po’,” bisbigliano, ma io avevo deciso. Mi fidavo di Lugarini, con il quale avevo collaborato a lungo per tenere in vita la rivista ereditata da Barié, “Il pensiero”. Qualche tempo dopo partii e presi casa a Roma, dove anche Lugarini abitava. Addio, Milano bella. Non potrò mai dimenticare il calore degli studenti aquilani e poi i rapporti felicissimi e ricchi di crescita culturale con molti colleghi di allora, a partire da Vincenzo Vitiello (la nostra amicizia e collaborazione nacque in quegli anni, sette per la precisione), per continuare con il latinista Giuseppe Morelli, il filologo romanzo Mario Eusebi e sua moglie, l’ispanista Marcella Ciceri, lo storico Franco Gaeta, gli italianisti Carlo Salinari e Achille Tartaro. Marcella organizzò all’Aquila un incontro con il poeta spagnolo in esilio Rafael Alberti, del quale era la traduttrice. Fu una giornata memorabile, seguita a Roma da incontri preziosi e spassosi, a casa di Eusebi e Ciceri, con il poeta, uomo arguto e piacevolissimo. Paci però mi aveva completamente abbandonato. Preso dalle vicende milanesi che sappiamo, restò in un silenzio che io peraltro non osai turbare. A un certo punto Lugarini ebbe l’idea di invitare Paci a tenere una conferenza all’Aquila e mi affidò l’incarico di condurre la cosa. Paci accettò. Gli feci delicatamente intendere che l’iniziativa era importante per me, perché i rapporti con Lugarini da qualche tempo non
andavano bene e anzi si deterioravano ogni giorno di più. Promise. Noi preparammo i manifesti, le locandine e tutto il resto, ma non venne. Disse che un impegno improrogabile ecc. ecc. Lugarini in qualche modo mi fece pesare l’incidente, che lo rendeva giustamente furioso. Tempo dopo, fattasi la situazione aquilana intollerabile, telefonai a Paci e gli chiesi apertamente aiuto. Non posso fare nulla qui, mi disse, dove mi hanno messo in totale isolamento in Facoltà. Mi consigliò di rivolgermi a Roma a Paolo Filiasi Carcano, che era suo amico e in tempi remoti si era occupato di fenomenologia. Andai a trovarlo nella sua bella casa vicina allo zoo e fui accolto con grande e aristocratica gentilezza. Ho deciso di ignorare i giochi di Facoltà, mi confidò, dove infatti non conto più nulla (si dedicava con grande passione allo studio della psicoanalisi); vada da Verra, è l’uomo giusto. E così andai da Verra, che insegnava anche lui a Roma e che avevo conosciuto, come dissi, a Urbino: quell’incontro decise della mia vita. Valerio Verra (1928-2001) era, per usare un’espressione hegeliana, uno “storico pensante”. La sua competenza in Hegel, nel Settecento tedesco, in Heidegger e Gadamer e in generale in tutta la filosofia del Novecento (aveva studiato da giovane anche Dewey) era straordinaria. Comprese perfettamente la mia situazione e mi promise un aiuto. Pensava alla possibilità di trovarmi un incarico presso la Facoltà di Sociologia (nel qual caso avrei anticipato di vari anni la conoscenza e l’amicizia con Franco Ferrarotti, di cui leggo ancora con ammirazione i libri e i saggi che non smette di produrre). La cosa non andò a buon fine, ma poco dopo vennero finalmente banditi i concorsi a cattedra e Verra, con l’aiuto di Livio Sichirollo, sebbene commissario in altra disciplina, svolse occultamente un’azione preziosa, che si concluse infine con la mia vittoria. I miei rapporti personali con Verra da allora non conobbero più interruzioni. Sempre con lui e per sua iniziativa organizzammo, assieme a Gianni Vattimo, gli incontri annuali di Monteripido (poi Montebello) presso
Perugia. Vattimo e io vi iscrivevamo molti nostri studenti e allievi e ogni anno invitavamo colleghi illustri. Intervennero tra gli altri (cito alla rinfusa) Hans-Georg Gadamer, Thomas Sheehan, Werner Marx, William J. Richardson, Jacques Taminiaux, Jacques Derrida, e tra gli italiani Giuseppina Chiara Moneta, Vincenzo Vitiello, Eugenio Mazzarella, Alberto Caracciolo, Gianni Carchia, Mario Ruggenini, Massimo Cacciari, Franco Volpi, Emanuele Severino, Franco Crespi, Leonardo Amoroso e altri ancora, molti dei quali giovanissimi. Nell’ambito di questi incontri maturò un forte contributo alla modificazione del clima filosofico in Italia, con proposte riferite all’ermeneutica heideggeriana e gadameriana, al prospettivismo di Nietzsche e alla semiosi illimitata di Peirce. Fu poi sostanzialmente Verra a volermi ai Lincei prima e all’Institut International de Philosophie di Parigi poi. I vincitori avevano, in quel tempo, facoltà di proporsi presso le sedi universitarie che avevano bandito i concorsi. Remo Cantoni, che conoscevo bene dai tempi di Barié, mi telefonò: “Perché non fai la tua domanda a Milano? Io e i miei amici, che poi in Facoltà siamo maggioranza, la appoggeremmo”. Così feci e venni chiamato all’unanimità. Dal Pra disse che, come teoretico, ero anche abbastanza storico per non dispiacergli. Paci, in Facoltà, era come se non ci fosse, ma certo non era contrario al mio ritorno. L’esilio era finito. Gli anni dell’Aquila, con la totale solitudine che li aveva caratterizzati, promossero in me un cambiamento profondo. Avvertivo di non potermi più appoggiare a un maestro: dovevo procedere da solo, dovevo fidarmi avventurosamente di me stesso, facendo di necessità virtù. Da lontano mi giungevano notizie (e avevo modo di osservarlo io stesso) circa l’insuccesso pratico, ma anche teorico, della proposta fenomenologico-marxiana: questa sconfitta e la sconfitta di tutte le aspirazioni “rivoluzionarie” mie e dei miei coetanei di allora, sia sul piano politico sia su quello culturale, mi hanno segnato in modo indelebile. Si trattava di decidere
che cosa fare di questa sconfitta, di come comprenderla ed elaborarla, e per me la cosa cominciò già nel corso dei sette anni aquilani. Tre grandi prospettive di studio mi vennero in soccorso. Da un lato la semiotica filosofica di Peirce, che ispirò tanta parte del mio cammino successivo; da un altro lato la lettura sistematica di Nietzsche, con particolare riferimento alla sua interpretazione del mondo greco; come terza e totale novità, la scoperta di Michel Foucault, che fui tra i primi in Italia a studiare approfonditamente. Queste tre ispirazioni suggerirono anche il progetto di una rivista, “L’uomo, un segno”, che vide la luce all’Aquila, ma proseguì poi per qualche tempo a Milano, con i miei nuovi e numerosi allievi. Tutto ciò mi allontanava decisamente da Husserl e dalla fenomenologia. Ne sentivo del resto la necessità. Avevo bisogno di aria nuova, nel che, naturalmente e come sempre accade in questi casi, non era Husserl il vero problema, ma erano i bisogni molto soggettivi e psicologici di crescita personale e di nuove occasioni di “vocabolario” e di studio, di nuove sfide e di pubblici confronti, nei quali si imbatte chi attraversa una crisi simile alla mia di allora. Tutto ciò, credo, è inevitabile, ma non ha molto a che fare con la sostanza delle idee filosofiche e con il loro perdurante “effetto di verità”. Negli stessi anni anche Paci a Milano elaborava la sconfitta, resa in qualche modo ancor più tragica e in un certo senso definitiva dalla progressiva rivelazione degli orrori e degli errori del comunismo russo. Nel 1973, presso Bompiani, era apparso il suo ultimo libro importante, Idee per una enciclopedia fenomenologica. Ne ho parlato a Napoli, in occasione di un convegno a trent’anni dalla morte di Paci. Il testo del mio intervento è stato raccolto da Giuseppe Cacciatore e Andrea Di Miele nel volume miscellaneo In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte (Scripta Web, Napoli 2009). Ne riprendo qui liberamente qualche passaggio. L’idea di un progetto di enciclopedia attraversa tutte le
fasi del cammino di Paci. La sua realizzazione nel libro del 1973 ha una specifica radice nello Husserl inedito, per esempio in Ideen II e Ideen III, manoscritti dei quali Paci ha sempre sostenuto l’importanza, anche contro l’apparente distrazione o dimenticanza di Husserl medesimo. Dal secondo volume delle Ideen Paci ha ripreso le analisi genetiche, regressive e progressive, dei tre fondamentali livelli della soggettività (Leib, Seele, Geist). Di qui egli parte per risolvere l’arduo problema, già ricordato, del rapporto tra fenomenologia trascendentale e psicologia (soggetto trascendentale e soggetto psicologico), un problema che nella Krisis rimane insoluto. Ma è poi di grande importanza, per Paci, anche il terzo volume delle Ideen, sebbene il testo non sia più che un generico abbozzo. Quanto alla relazione col tema della enciclopedia, ricordo come si presenta articolato Ideen II, destinato da Husserl alle “ricerche fenomenologiche sopra la costituzione”. I suoi passi fondamentali sono: la natura in generale; la natura animale; la realtà psichica e la sua costituzione attraverso il Leib; la realtà psichica entropatica; e infine la costituzione del mondo spirituale. Quanto a Ideen III, basti dire che esso avrebbe dovuto svolgere il tema della fenomenologia in relazione ai fondamenti delle scienze. Dell’ampio, articolato, complesso cammino delle Idee per una enciclopedia fenomenologica ricordo qui solo un punto, cioè l’inedito collegamento della Lebenswelt, del mondo della vita, con il Geist, con il mondo spirituale, che è forse uno dei tratti più originali dell’ultimo Paci e della sua personale elaborazione della eredità husserliana. Scrive Paci: “Lebenswelt e Geist si spiegano l’uno con l’altro. Questo spiegarsi reciproco, che pur tuttavia è irreversibile e teleologico, esige ulteriori e complesse ricerche. La verità vive come Geist anche nella massima passività che altrimenti non sarebbe riconosciuta come passiva. La dialettica della Lebenswelt ci restituisce la nostra responsabilità, ci folgora nella nostra funzione, nel senso e nel significato della vita […]. Nel male e nel bene di ogni nostro atto si esprime, si
corregge e si riesprime la ragione per la quale viviamo, la ragione di ogni situazione, storica e personale, nell’ora attuale del pianeta Terra”. Un’ora peraltro piuttosto cupa e fortemente problematica, che segna gli ultimi, abbastanza preoccupati e sconsolati, pensieri di Paci. Esistono in proposito due scritti del 1974, che sono poi gli ultimi due interventi di Paci per la sua rubrica “Il senso delle parole”. Essi descrivono bene il travaglio che Paci attraversava, dovendo riconoscere la tenacia del male e la persistenza del tema del negativo, della dialettica come anche diceva, a smentita di un certo ottimismo umanistico e teleologico che aveva permeato tanta parte del suo lavoro. Di questi due testi, ampi e complessi, riproduco qui alcuni passaggi molto significativi per quello che sto ricordando. Ma prima sarà forse utile accennare, per la loro più mirata comprensione, almeno ad alcune delle vicende che caratterizzarono il 1974. In Italia è l’anno della strage in piazza della Loggia a Brescia e dell’attentato sul treno Italicus. In una molto discussa intervista su “Rinascita” Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, lascia chiaramente intendere che in Italia non accadrà nulla di simile a ciò che è accaduto in Cile con Salvador Allende. Da tempo Berlinguer si è dissociato dalle manifestazioni dopo il Cile degli extraparlamentari. Poi, al grande successo alle elezioni del Pci, che sfiora il sorpasso sulla Dc, Berlinguer accompagna l’avvio di un’intesa con cattolici e socialisti. È l’inizio del “compromesso storico”, cui Aldo Moro, anche lui non senza problemi, risponderà nel ’75 con la “strategia dell’attenzione” e le “convergenze parallele”. A tutto questo reagiscono le Brigate Rosse, che rapiscono il giudice Sossi e, nel comunicato del 19 aprile, annunciano l’ingresso in una nuova fase della guerra di classe, caratterizzata dalla lotta armata e dall’intenzione di portare l’attacco al cuore dello Stato. Con tragica coerenza, nel 1976 a Genova le BR uccideranno il magistrato Francesco Coco. Sul piano internazionale fa scalpore l’annuncio della visita a Mosca di
Nixon a Brežnev, dal 1964 subentrato a Chrušcˇëv; il nuovo capo sovietico aveva stroncato la primavera di Praga (1968) e aveva proclamato la dottrina della sovranità limitata dei paesi satelliti. Ora l’Unione Sovietica non esita a sottoscrivere accordi commerciali con gli Stati Uniti, con la clausola di “nazione più favorita”. È ben chiaro che la Russia non muoverà un dito per difendere gli accesi rivoluzionari di estrema sinistra in Italia; è possibile anzi che dia un nascosto contributo a eliminarli. Il primo intervento di Paci appare nel numero 140 di “aut aut”, già citato e dedicato a “Nuova sinistra e normalizzazione filosofica in Cecoslovacchia e Ungheria”, contenente anche documenti della Commissione culturale del partito ungherese, assieme a un testo di Lukács. Lo scritto di Paci, poi tante volte ricordato dagli interpreti, presenta il titolo Sulla fenomenologia del negativo e così esordisce: “Sta avvenendo in me una lenta evoluzione filosofica. In un certo senso si tratta di un ritorno alle origini del mio pensiero: alla ripresa del problema del negativo e della struttura del negativo così come mi si presentava nelle ipotesi del Parmenide platonico”. E poi, più avanti: “Pur immersi nella crisi non riusciamo a cogliere fino in fondo il suo acme attuale; il suo ripresentarsi in forme che la denunciano ma che poi sempre di nuovo la ricoprono anche quando si parla di negazione della filosofia […]. Forse nella dialettica negativa di Adorno si sentiva tutto questo – ma in una chiave intellettualistica e non attuale. L’attualità per ora potrebbe essere indicata, con gergo hegeliano, come minaccia sul mondo ad opera di quelle forze stesse che pure erano state dialetticamente trasformatrici, ma che si ritrovano di fronte a vecchi problemi, che pure hanno nuovi volti ma che si credevano superati. Così esiste una falsa rivoluzione, come esiste una falsa reazione. In una parte nascosta, che si crede non visibile, o che non si vuol vedere, séguita ad agire una falsa coscienza che proclama rumorosamente una nuova realtà, ma che opera nella vecchia e con i mezzi che ripresentano il passato nell’atto
stesso in cui lo negano o in cui, nella realtà, esso si nega. Esiste una falsa genealogia del positivo e del vero. Ed esiste una specie di sadismo dell’economicistico e anche, naturalmente, della vita psicologica. La realtà vivente e storica tutta intera chiede, evidentemente, un impegno quasi insuperabile. Nascono così le maschere del positivo, le maschere di un mondo nuovo che continuamente si trasforma, ma che rimane tuttavia, anche se dice che è solo per analizzarlo, nel vecchio”. Ed ecco la conclusione: “Il limite dialettico della situazione attuale mette in gioco il destino di ogni uomo come soggetto, dell’intersoggettività, della collettività: infine non solo della sopravvivenza, ma del senso dell’uomo così come è stato nel mondo da quando è apparso. In un senso non solo evoluzionistico e biologico si tratta forse della mutazione di una specie il cui principio è nell’uomo stesso nei suoi rapporti con gli altri. L’umanità non può trovare la propria via, se séguita a credere, nel fondo, alla chiacchiera, all’inganno, al ricatto, al gioco della superpotenza e della schiavitù, alla forma estrema, ben più vasta e decisiva di quanto Hegel avesse pensato, della dialettica servo-signore. Si tratta di un realismo machiavellico portato agli estremi e di un’apocalisse concreta […]. Per questo la filosofia, in un modo nuovo, è costretta a riproporsi il tema della dialettica e il problema del senso della negatività, di una negatività che non sia superficialmente soltanto una funzione di un bene retorico. Il male nel quale l’uomo si radica suscita uno stupore incoercibile”. Nel numero successivo, il 141, compare l’ultimo “Senso delle parole” di Paci, col titolo Husserl e il cristianesimo. Così Paci esordisce: “Il 3 marzo è morto improvvisamente padre Herman Leo Van Breda. Con lui scompare non soltanto il leggendario salvatore dei manoscritti husserliani e il direttore della Husserliana, ma un uomo che al problema e all’eredità di Husserl e ai suoi rapporti con il cristianesimo aveva dedicato la sua vita. Van Breda sentiva che questi rapporti esistevano, ma ne vedeva tutte le difficoltà. Questa
situazione la viveva come dramma. E il dramma si fondava su due punti: il problema teologico del Padre e l’insolubilità, in sede fenomenologica, del problema del negativo […]. Ciò indica come sia complesso il problema della soggettività e Van Breda sentiva questa complessità in rapporto al cristianesimo. Così non voleva essere il padrone della fenomenologia, ma il suo trasmettitore fedele. L’interpolazione la lasciava libera. Più grave era il problema del negativo. Solo tardi Husserl sentì la crisi dell’uomo […]. In ogni caso la fenomenologia del negativo è un terreno da esplorare. Queste considerazioni sono forse soltanto nostre e, magari, personali. In ogni caso nessuno potrà mai dimenticare l’opera di Van Breda e il significato che il suo lavoro ha avuto e avrà per il nostro secolo”. Così si conclude lo scritto: “L’eredità che [Van Breda] ci lascia è quella appunto dei rapporti tra fenomenologia e cristianesimo. Questa eredità, in tutte le direzioni, è stata sviluppata e potrà essere ancora sviluppata. La fenomenologia è enciclopedica non solo come sintesi delle scienze e della cultura, ma su tutti i piani dell’attività umana, anche di quelli che sembrano più lontani dall’opera edita di Husserl. I manoscritti serbano ancora sorprese, da ciò la necessità della loro pubblicazione. Sono un diario e Husserl potrebbe dar luogo a sviluppi nuovi proprio in questo senso. Van Breda pensava che dalla pubblicazione degli inediti sarebbe risultato un nuovo Husserl. L’opera da lui iniziata sarà certamente proseguita. L’avvenire ci rivelerà sempre più la sua importanza”. Nel gennaio del 1976 presi servizio a Milano. Nei pochi mesi successivi, prima della pausa estiva, tenni un breve corso sulla semiotica di Peirce per uno sparuto gruppetto di studenti, rimasti fuori dalla programmazione didattica normale. Il vero inizio dei corsi fu però per me nell’autunno successivo, quando proposi il tema “Nietzsche oggi”: una sfida per la Statale e il suo tuttora presente, ma ormai greve e declinante, clima politico-culturale, un’iniziativa che registrò una partecipazione e un’eco straordinarie.
Nei primi mesi del ’76 ebbi naturalmente occasione di incontrare Paci: era quasi irriconoscibile. L’uomo culturalmente vulcanico, ricercatore infaticabile, felicemente innovativo nei suoi ruoli istituzionali, sempre sulla cresta dell’onda, aperto al dialogo con tutti ma anche ben saldo nelle sue convinzioni e nei suoi propositi, l’uomo che avevo conosciuto non c’era più. La sua salute fisica e psicologica declinava palesemente, anche se vari amici mi dicevano che, quando faceva lezione, Paci miracolosamente tornava lui, recuperando gran parte dell’antica, ammaliante capacità didattica. La prima volta che mi incontrò alla Statale mi disse, con voce flebile: “Non farmi del male…”. Come potessi io fare del male a lui, come potessi desiderarlo o volerlo, mi era del tutto incomprensibile; già solo rassicurarlo in proposito suonava al mio orecchio come una bestemmia. Forse supponeva che, essendo stato richiamato a Milano da quelli che considerava (non del tutto a torto) suoi “nemici”, io potessi essere indotto a diventare uno strumento di persecuzione nei suoi confronti, cosa peraltro del tutto inverosimile e lontanissima dalla realtà di tutti. Purtroppo Paci, segnato dalle vicende infelici degli ultimi anni e ravvivando una tendenza che era sempre stata presente in lui, quanto meno, per quel che so, dal ritorno dagli anni terribili dell’internamento in Germania, aveva sviluppato una sensibilità morbosa nei confronti di fantasmi persecutori di vario genere, ma in gran parte immaginari o ingigantiti dall’immaginazione. Per altro verso è un fatto che ormai da anni i nostri rapporti erano completamente interrotti e che Paci non aveva avuto ruolo alcuno nella mia vittoria concorsuale, così come nella partecipazione di Milano tra le sedi richiedenti. Qui la richiesta riguardava evidentemente Giovanni Piana, che non vinse, ma in ogni caso Paci non governava più di fatto la sua ex scuola e non era in grado di elaborare strategie per favorire questo o quello dei suoi allievi. Toccò pertanto a me, anni dopo, farmi carico del problema di
ottenere la meritata vittoria di Piana in un concorso a cattedra, con la sua chiamata in questa veste a Milano, consapevole com’ero del debito contratto verso la scuola alla quale ero per tanti anni e con molti vantaggi appartenuto e in nome della memoria del nostro comune maestro. Cose che un tempo, nel nostro mondo, avevano un peso; oggi, mi par di capire da vari esempi anche milanesi, non più. In un’altra occasione, fattosi più risoluto, Paci mi chiese apertamente conto delle tendenze del mio lavoro di allora: evidentemente aveva letto o sentito qualcosa in proposito. Pose la questione del soggetto (come al tempo dei miei studi whiteheadiani): come potevo, chiedeva, e con quali giustificazioni, io che sapevo bene come la cosa stava in Husserl, farmi convincere dalle critiche in proposito di Heidegger, di Foucault, degli strutturalisti? Indubbiamente, con il suo sempre vigile acume e la sua sensibilità sotto pelle, aveva colto il punto. Ne seguì una breve discussione. Il problema, dicevo io, è in realtà più complesso di come l’avevo inteso anni prima. La questione della soggettività e soprattutto della fondazione soggettiva mi era indubbiamente esplosa in modi molto problematici, ed effettivamente ritenevo che gli apporti di Heidegger e di Foucault, per non dire di altri, potessero aiutarci a reimpostarla in modi più efficaci. E dissi anche che inchiodare l’essere heideggeriano a una semplice e tradizionale ontologia non mi sembrava affatto sostenibile. Paci ascoltava, con quello stesso sguardo indagatore con il quale mi osservava mentre svolgevo, tanti anni prima, il seminario sulla logica di Barié nel corso delle sue lezioni. Alla fine convenimmo che avremmo dovuto trovare del tempo per parlare di tutto con più calma. Proposi di andare a cena una sera. Paci accettò. Non ricordo come o perché passarono settimane e forse più di un mese e non se ne fece nulla (io abitavo ancora a Roma e ogni settimana facevo su e giù). In una torrida giornata milanese di luglio sedevo proprio accanto a Paci in una commissione di tesi. Eravamo in Sala Professori, dove
lui mi aveva laureato quindici anni prima e dove, per i successivi trent’anni, avrei laureato anch’io tanti altri. L’aria condizionata era rotta. Gli chiesi perché mai non se ne andasse un po’ in vacanza (il suo aspetto era palesemente sofferente); mi rispose che aveva ancora da discutere una tesi alla quale teneva. Qualche giorno dopo, il 21 luglio 1976, la notizia della sua morte improvvisa. Una macchina portò il feretro al centro del cortile grande della Statale. C’erano tanti studenti, e poi colleghi, amici, ammiratori, conoscenti, lettori, compagni di strada di altri tempi, una folla. Dal Pra prese la parola e disse a tutti, con il suo stile pacato ma intenso, chi era stato Paci, che cosa aveva fatto, quale era la sua eredità: poche frasi ben studiate. Poi la macchina si mosse e noi la seguimmo sin sulla strada, in via Festa del Perdono, dove prese velocità e infine scomparve, per non tornare mai più. Esiste a Milano una piazza Enzo Paci, voluta dal suo allievo Stefano Zecchi quando era assessore alla Cultura del Comune di Milano. Venne inaugurata con una piccola cerimonia, alla quale purtroppo non potei assistere. In quella occasione Emilio Renzi, uno dei più nobili e fedeli allievi di Paci, tenne un breve, bellissimo discorso, che venne poi stampato. Anche a Monterado, luogo natale di Paci, esiste un viale Enzo Paci, molto grande e alberato. Lo scoprii in occasione di una mia conferenza al liceo di Senigallia dove Paci aveva insegnato e dove si intendeva ricordarlo. La mattina dopo salii a Monterado: volevo vedere il luogo dove era nato il mio maestro e dove era inizialmente cresciuto accanto al padre, che era stato uno scienziato. Percorsi tutto il viale Enzo Paci a piedi e poi su un autobus cittadino. Ero allegro, quasi euforico e (cosa per me del tutto inusuale) non mi trattenni dal dire al conducente, durante una fermata, che il nome del viale che percorrevamo era quello del mio maestro all’Università di Milano. Mi squadrò in silenzio, con aria sospettosa, e non disse nulla. Forse mi aveva giudicato uno stravagante, come ne capitano a volte in giro per le città.
Ogni tanto mi prende nostalgia di quel viale, di quei luoghi, di quelle atmosfere che Paci descrive nel suo Diario fenomenologico, e progetto di tornarci. Finché c’è tempo e sarò ancora in grado di farlo.
Epilogo
Un’eredità intellettuale è cosa difficile da definire, nel caso della filosofia forse più che altrove. Le idee filosofiche presentano una spiccata e sorprendente tendenza alla sintesi tra continuità e mutamento. È una cosa che stupisce gli scienziati e non solo loro: voi filosofi state sempre a rimuginare su Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Cartesio e Kant… Già, è così. Più si va indietro, più si scopre la propria e la altrui dipendenza; si scopre che quel che si pensa e si è pensato era già stato oggetto di molte riflessioni prima di noi: basta cambiare un poco il lessico, modificare lo stile, il punto di vista o lo scopo. Anche questo però non è semplice e non è innocente.‐ Perciò la continuità si rivela solo a prezzo e a condizione di un ininterrotto mutamento e di una continua metamorfosi. Posso ripensare i pensieri di Platone solo facendoli miei e modificando così… anche Platone. Qui la collaborazione fra il teoretico e lo storico diviene cruciale. È solo alla luce dell’imporsi di nuovi sguardi e di nuovi interessi che lo storico scopre ispirazioni nuove per il suo lavoro; tuttavia, proprio questo lavoro rinnova la consapevolezza e la comprensione del passato, mostrandone l’infinito destino futuro. Come è stato detto di Hegel, ogni grande filosofo, ma anche ogni fecondo lavoro filosofico, ci aspetta sempre beffardo un po’ più avanti e un po’ più in là. I filosofi, disse Campanella, risorgono, dopo tre giorni o dopo tre secoli.
Sul letto di morte Husserl si lamentò: “Peccato, ora che sono finito dovrei ricominciare”. Ogni talento filosofico, ogni vita genuina dedicata alla ricerca, sa che non si fa che ricominciare, anche se Husserl, con la sua incantevole serietà e modestia, aveva ragioni molto precise per dire ciò che disse, ragioni che forse Paci intese meglio di chiunque altro. Se ai nani è consentito per un attimo paragonarsi ai giganti, anch’io vorrei dire che dovrei ricominciare. L’impegno a scrivere di getto queste pagine, occasione di cui sono grato a chi l’ha resa possibile e mi ci ha coinvolto, mi ha fornito di almeno due buone ragioni per farmi desiderare di cominciare da capo. La prima, certamente, è la scoperta, sinora solo un po’ vaga e confusa, non abbastanza “documentata”, di quanto la mia intera vita di lavoro debba al suo maestro e ai suoi maestri, così come certamente accadde anche a loro. Le idee filosofiche si muovono nel tempo, assumono la parvenza anagrafica di questo o quel nome, si colorano di questa o quella vita, ma prevalentemente e nella sostanza sono anonime, o quanto meno lo diventano nel loro destinale farsi pubbliche, patrimonio comune, abito condiviso. A ognuno resta però il compito, non facile e non esauribile, di transitarle adeguatamente. La seconda ragione è che proprio calcolando più approfonditamente il debito verso il passato, misuro più adeguatamente il debito che così ho contratto col futuro. Quando tornai a Milano nel 1976 ero profondamente consapevole della necessità di inaugurare una via sensibilmente “nuova”. La cosa in sé non mi piaceva affatto e anzi mi preoccupava parecchio. Avrei preferito restare al calduccio, cioè al riparo della mia “tradizione”. Tuttavia non c’era scelta: proprio una certa fedeltà al passato, a ciò che ne avevo più profondamente inteso e a ciò che più mi aveva formato, esigeva un mutamento di rotta. Mi misi per via, sotto il segno inquietante e nondimeno protettore di Nietzsche: colui che passò la sua breve esistenza di pensatore a elaborare un grande lutto, forse il più grande,
sino a perdervi la ragione. Con questo aiuto problematico, ma anche sorretto da questo esempio, anch’io tentai di elaborare un lutto e una giovanile sconfitta: l’ho fatto per trent’anni e non ho ancora finito. Ora però mi sembra di aver raggiunto uno sguardo un po’ più limpido e una calma se non altro più serena, anche se non quella visione della “terra promessa” che Husserl, in una celebre pagina di diario, si augurava. So per esempio, con particolare chiarezza, che certe figure di filosofi e di intellettuali hanno fatto il loro tempo, non tanto o soltanto in forza di torti o ragioni, ma perché il loro rapporto con il mondo non può più essere il nostro. Il che non va inteso in modi superficiali e semplicistici, come si può essere tentati di fare. In queste necessariamente brevi considerazioni conclusive cerco di farmi intendere, se ci riesco, servendomi del riferimento ad alcune cose che nelle pagine precedenti sono già state avanzate e descritte. Se per certi versi la nostra modernità o attualità è stata aperta dalla rivendicazione kierkegaardiana dell’esistenza, questa rivendicazione va intesa in tutta la sua portata irrimediabilmente (ma forse proprio per ciò fecondamente) problematica. Dico dell’esistenza kierkegaardiana, ma, per quanto mi riguarda, potrei benissimo dire della “fenomenologia dello spirito” hegeliana, alla luce della quale divenne evidente che le figure della coscienza e i prodotti dello spirito (il Geist inteso come “il fare di tutti e di ciascuno”) non possono andare disgiunti dalla loro “storica” collocazione e dal loro diveniente destino. Non è un caso infatti che proprio questi temi e queste figure siano stati ripresi dall’esistenzialismo novecentesco; cioè quello che fu, si potrebbe dire (e nonostante la preveggente indicazione di Paci), l’argomento mancato della mia tesi di laurea. Nondimeno e a mio modo, nella comprensione della dialettica (niente affatto triadica, sostenevo, ma infinitamente diadica, infinitamente aperta), avevo colto nel segno e avevo aperto a me stesso un cammino che non ho mai smesso di percorrere.
Ma per restare semplicemente all’esistenza: ognuno, abbiamo detto, è esistente nella singolarità irripetibile (in questo senso, e solo in questo, irreversibile) della sua situazione materiale e spirituale. Perciò ogni visione esterna sul mondo (come sull’uomo), ogni preteso sguardo disinteressato sulle cose è impossibile e insensato. L’abbiamo detto, ma il vero problema è di non dimenticarlo e poi di farne qualcosa, il che è assai più difficile. È intanto evidente che l’esistenza stessa non può diventare oggetto di un sapere esterno, perché, dicemmo, l’esistenza è già implicita nel modo d’essere di colui che volesse studiarla e comprenderla. Questo non significa che venga inibita la riflessione: e perché mai? Piuttosto ne è sancito il limite e il senso. Già Hegel dichiarava non più praticabile quella riflessione, direbbe Husserl, in presa diretta che esercitavano gli antichi (ma ci sono ancora oggi molti “antichi” fuori luogo): che cosa è essere, che cosa è divenire? Che cosa è uomo, che cosa è Dio? Che cosa è natura, che cosa è spirito? Ora ci rifletto, ci penso e te lo dico. La modernità nasce con la riflessione sulla riflessione, se si può dir così, dove anche la riflessione e il pensare “di secondo grado” sono evidentemente operazioni a loro volta problematiche. Qui però si attinge un corto circuito inevitabile e necessario. Non c’è passaggio a un terzo grado, ma, al più, reiterazione dello stesso gesto. Quello che io chiamo “pensiero delle pratiche” cerca di mostrarlo nel modo più approfondito, per di più non come un “difetto”, ma come positiva apertura di possibilità “etiche”. Come ho già ricordato di passaggio, questo pensiero delle pratiche ho trovato spesso molte difficoltà a renderlo condivisibile. Ricordo per esempio un mio ex allievo, molto brillante, sottile e combattivo nelle confutazioni “logiche”, per le quali mi riconosceva generosamente qualche merito; ma per il tema delle “pratiche” no, non gli piaceva. Invano cercai di capire perché o di farmene chiarire le ragioni: non gli piaceva e basta; oppure di nuovo si ingarbugliava in
complicatissime confutazioni formali. Il fatto è che non intendeva in alcun modo guardare le sue operazioni, farsene carico; e allora mi fu chiaro che semplicemente desiderava continuare a esercitare la sua non comune capacità “dialettico-confutativa”, che questa gli piaceva, che in questa si piaceva e si realizzava, che esercitandola immaginava di darsi un’identità, di partecipare come qualcuno alle discussioni agonali della “cultura” (per lo più anglosassone) che in quel tempo godeva di buona stampa, cioè di un’eco internazionale e di un credito. Il resto non gli interessava. Che fare allora? Mi limiterei a ricordare in proposito il detto di Fichte: nella scelta della filosofia, ognuno manifesta quello che è in quanto essere umano, in quanto esistenza singola, appunto, e per il resto tanti auguri. L’esistenza singola che ognuno è nessuno se l’è data o se l’è scelta, piuttosto è stato scelto, e così mi sembra oggi per me irrilevante mettermi a disputare su ermeneutiche e ontologie, o criticare coloro che pretendono di delineare metafisiche dell’assoluto o manifesti del supposto nuovo pensiero. Per farlo seriamente, dovrei essere convinto della possibilità di costruire ragioni assolutamente oggettive, metafisiche indubitabili, argomenti “assoluti”. Fortunatamente, o sventuratamente, si è fatto per me evidente che ogni conoscenza presuppone delle operazioni, una “prassi teorica”, diceva Husserl: solo al suo interno compaiono i soggetti, gli oggetti, le presunte cose stesse o in sé e le “ragioni”, che sono appunto risultati e non premesse già date o “esistenze” che vivono in un limbo immacolato, in attesa di venire “scoperte”. Questo non significa che le pratiche conoscitive, frutto in ogni tempo di figure definite del lavoro, non si estendano di fatto all’infinito, non significa negare che infinitamente e provvidamente traducano l’esperienza del mondo che ognuno di noi incontra e che ognuno di noi è in figure sempre più universali e condivisibili, e in questo senso “vere” e percorribili. Penso al grande piacere che deve provare un matematico nell’esercizio della sua scrittura, che idealmente non
conosce limitazioni di tempo e di spazio, che non dipende da credenze religiose (già sosteneva Leibniz) o di altro genere, e che tuttavia dipende dal lavoro delle vite individuali che quelle scritture esercitano immerse in universi di pratiche determinate: vite e intrecci che a quelle scritture di certo non sono riducibili e non si riducono, sebbene non ne restino indifferenti. Diceva Cattaneo che la filosofia non ha soltanto a che fare con la scrittura dei libri; essa è anche quella filosofia che ogni uomo quotidianamente fa, compreso il fare quel fatto che è la scrittura alfabetica con le sue materializzazioni in papiri, codici e libri: tutti prodotti del “lavoro” e della “storia”, cioè del fare di tutti e di ciascuno. Nel fare c’è una filosofia implicita, pensava Cattaneo, anche se non è espressa in alcuna forma sistematica; così come accade in ogni lingua e in ogni grammatica, osservava Nietzsche. Il fare infatti va inteso qui come il senso comune di Vico e la doxa dell’ultimo Husserl. Figure infinite dell’esistenza incircoscrivibile e inobiettivabile. Questa “filosofia”, che con un evidente arbitrio linguistico, e non solo linguistico, attribuiamo a tutti gli esseri umani operanti, fa sorgere l’idea di una “filosofia dei popoli”: come ci atteggeremo di fronte a essa? Pensate che abbia senso affrontare il problema con “ontologie” o con “metafisiche dell’assoluto”? Oppure con le modeste argomentazioni del cosiddetto buon senso scientifico? Con le sue ubbie oggettivistiche (che poco o nulla hanno a che fare con la straordinaria efficacia, intelligenza e audacia delle operazioni scientifiche concrete)? Se pensate così, non è con argomentazioni, nel vostro senso più “vere”, che potrò convincervi del contrario, esattamente come non ne convincerò altre culture, altre credenze, altre fedi, con le quali nondimeno sempre più condividiamo l’abitare problematico su questa terra, un fare tecnologico-scientifico e un calcolare economico comune. La cosiddetta filosofia dei popoli esige, diceva Cattaneo, una comprensione sempre rinnovata di come le idee, le mie e
le tue, siano il prodotto della vita sociale e di una “storia” potenzialmente raffigurabile e “narrabile”. Di come le idee siano frutto dell’operare di tutti e di ciascuno, dicevo, cioè degli effetti di un potere invisibile, il quale modifica di continuo le condizioni materiali e le concrete strutture operative della nostra vita, molto prima che possiamo “pensarle”, “portarle al concetto” e alla “scrittura”, poiché è proprio quel potere che forgia e suggerisce gli strumenti del comprendere e le idee che ne derivano. Dobbiamo per questo arrestarci scontenti e delusi? Ma come, la verità (in particolare la nostra) non è “assoluta”? Allora che diavolo è? notava Wittgenstein. Io dico che è l’evento delle sue figure e che è di questa figurazione che possiamo e in certo modo dobbiamo, ovvero non possiamo, in ultimo, fare a meno di occuparci. Cattaneo diceva: non avremo scienza intera, se non quando avremo fatto lo spoglio filosofico di tutte le storie, mediante una loro “descrizione sperimentale”. Questo, potrei osservare, è ciò che intendo con l’espressione “foglio-mondo”: un esercizio di scrittura che si fa carico, genealogicamente, della sua operazione. La dimostra nel solo senso che la mette in mostra, esibendosi nella storia e in una storia; una storia che ha una sorta di “antropologia trascendentale” come suo obiettivo sia pur sempre “temporaneo”. In questo modo non è che questa scrittura conosca l’esercizio, che lo renda oggetto di un sapere. Piuttosto, proprio nel fare l’esercizio, nell’articolare la “descrizione”, dicevano Cattaneo e Husserl, o la de-iscrizione, direi io, ciò a cui si allude, ciò che compare come orlo, come limite dell’esercizio stesso, è un modo peculiare di “stare nel sapere”, di esserne “soggetti”, nel duplice senso di essere soggetti del sapere che si scrive e al sapere che si è scritto; dietro e alle spalle della coscienza, diceva Hegel, ma non senza il suo corpo vivente e operante, bisogna aggiungere, responsabile a sua volta di quella visione del “dietro” che si esibisce come sua “verità”. In questo senso una mobile “enciclopedia” di tutti i
saperi, di tutte le forme di vita che li nutrono, può suggerirsi come il compito, o uno dei compiti futuri, della filosofia. Si potrebbe anche dire: il passaggio della filosofia al di là delle colonne d’Ercole della sua stessa scrittura, donde la sua trasmutazione destinale, incarnata in nuove figure di “sapienti” e in nuove scritture della verità. Non si tratta ovviamente di immaginare esotiche forme di scrittura da consegnare ai nostri libri futuri. Questa ingenuità, della quale posso ben testimoniare in prima persona di quanto sia facile essere soggetti, non comprende che cosa significhi e che cosa comporti aver visto che ogni cosa è un cristallo e un nodo di relazioni umane, cioè del loro lavoro. Non esistono cose o fatti assoluti (se non in relazione a definite pratiche argomentativo-fantastiche, mistiche, religiose o metafisiche: da questo punto di vista non fa differenza). Ogni “cosa” (o “idea”) è quello che è entro un intreccio mobile di relazioni. L’evento di questo intreccio non è a sua volta una “cosa”: pensarlo in questo modo per arrestarne il transito, per esempio definendolo “assoluto” oppure “oggettivo”, è solo un altro modo per farlo accadere a sua volta nel transito. Si tratta infatti di un movimento che non è un movimento, di soglie che non sono soglie, di tempospazio che non è tempo-spazio, se continui a pensare il movimento come un andare da Atene a Gerusalemme, poiché è nello sprofondare inarrestabile di ogni tempo e luogo, di ogni spazio e di ogni “località” che vengono all’esistenza Atene e Gerusalemme e tutte le dimore degli umani, compresi gli umani stessi e quella loro antropologia “trascendentale” che stai evocando. Non stavamo alla profondità del pensiero delle merci come cristalli quando discettavamo sulla “condizione operaia” e sull’“alienazione capitalistica”, ma non guardavamo in casa nostra, non riflettevamo sulle nostre relazioni concrete con la scuola e con l’editoria, con gli Alberto Mondadori e le loro storie, con i nostri libri e le nostre scritture, certamente mossi dalla passione per la verità e la giustizia, ma anche, e non meno, dal desiderio di
successo e di riconoscimento e dal piacere di vederci e di considerarci come ci consideravamo. Oggi non ci sono più degli “Alberto Mondadori”, per ragioni strutturali dipendenti dal potere invisibile delle cose “materiali”; cioè, dalle cose come sempre dipendenti dal fare di tutti e di ciascuno, nell’oscura impossibilità di calcolare che cosa intanto accade e ne deriva. Ogni figura del calcolo, infatti, anche ne dipende: questo non significa che il calcolo sia inutile, ma, almeno in filosofia, ritengo, bisogna saperlo che ne dipende: esito “etico” non indifferente. E così non ci sono più dei “libri” come quelli di una volta ai quali affidare il senso e la verità. In realtà non c’erano neanche prima in assoluto, perché dietro la loro esistenza visibile, la loro apparente natura di “cose”, stava l’intreccio anonimo e infinito del lavoro sociale nelle sue divenienti figure; era entro questi intrecci mobili, e non di per sé, che i libri acquisivano la loro sembianza, la loro funzione (a sua volta mutevole, “storica”), il loro valore culturale, il loro funzionare come luoghi e come specchi della verità, come occasione di coltura delle corrispondenti figure del soggetto. Inseriti in nuovi intrecci e in nuove funzioni, non è che i libri oggi scompaiano; mutano ruolo, trascinando in nuovi contesti e usi la coda di cometa della loro antica provenienza. Accade il medesimo, penso, della figura del filosofo e del suo magistero. Per il futuro della pratica filosofica abbiamo sempre meno bisogno di “professionisti” (di “professori”) e sempre più di “capo-mastri” (in questo senso di “maestri”), che coordinino i lavori in un cantiere, in un laboratorio, in un’officina. È caso mai questa la nuova scrittura che avanza: organizzazione di cose ed eventi, di persone e di azioni nello spazio reale e virtuale della ricerca che ci provoca e che ci compete, a nostra volta come emergenze mobili del fare anonimo di tutti e di ciascuno e dei suoi effetti innumerevoli e incalcolabili. Non scrittura di “cose”, ma scrittura di “relazioni” (nelle cose). Non il semplice esercizio di queste relazioni, ma il suo
genealogico scandaglio, retroflesso sugli operatori, sugli “operai”, sui “demiurghi” di questa azione comunitaria, di questa scholé, che si assegna il compito di transitare il tempo e il luogo del suo evento senza cadere in inutili superstizioni; tenendo quindi, per quanto si può, aperti gli occhi nella scrittura progressiva del sapere condiviso di tutti e per tutti. Anzi, cercando di produrli, questi occhi. È questa registrazione di corpi e di voci, di protesi e di supporti, di previsioni e di ricordi, la nuova scrittura della filosofia, così come mi pare di intravvederla. È questa produzione di corpi sapienti, di gesti eloquenti e di anime transitanti (che non temono ma anzi amano il tramonto) la prassi che potrebbe aprirsi al nostro antico gioco “occidentale” di ricercatori e amanti del sapere, non disposti a cedere, diceva Husserl, alle tentazioni della morte e del diavolo.
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Frontespizio Eredi. Collana diretta da Massimo Recalcati Premessa L’incontro La via del ritorno alla fenomenologia La nascita di “aut aut” Husserl sempre di nuovo Il Saggiatore e la battaglia per la fenomenologia I magnifici anni sessanta La parte che mette tra parentesi il tutto Marx e il ’68 Esilio e ritorno Epilogo Indicazioni bibliografiche
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