Il dolore e la vita 9791255000662


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Il dolore e la vita
 9791255000662

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Il dolore

a cura.di

eia vita

Ludovica Boi e Luca Torrente prefazione di

Valerio Meattini contributi di

Rossella Attolini Artin Bassiri Tabrizi Ludovica Boi

Nicoletta Ceraolo Elio Cirillo Ale.ssio Lembo Giovanni MarioUi

Valerio Meattini Valentina Maurella Sebtstian Schwibach Edoardo Toffoletto Luca Torrente

Il dolore e lavita

©2023 Accademia Uni\'ersicy Press \'ia Carlo Alberto 55 I-10123 Torino

prima edizione dicembre 2023 isbn 9791255000662 edizioni digitali ·w·ww.a.Accademia/colliani5 book design boffecca.com Accademia University Press è un marchio registrato di proprietà di LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl

lnd"ace

Ringraziamenti

VI

Tavola delle abbreviazioni

VII

Valerio Meattini

Xl

Dolore metafisico. Un'anafasi mitica e simbolica di Filosofia dell'espressione Nicoletta Ceraolo

1

Patico venir al mondo: 6nguaggio e arte alla prova del dolore Ludovica Boi

24

Prefazione

tra Col6 e Masullo

Dal dolore alYestasi. L'anina nuda nel pensiero di Michelstaedter e Col6

Sebastian Schwibach

42

Un dolore che ha più della vita: resperienza del dolore tra Leoparci e Coli Valentina Maurella e LucaTorrente

62

Sorrisi che salvano.Travestimenti del dolore nel'arte greca

Rossella Attolini

83

Elio Cirillo

100

Do/or, vita e dinamicità degli affetti nelrEtica di Spinoza. Alcune tracce a partire da Giorgio Colli Alessio Lembo

116

Un pessimismo rivoluzionario. Dolore e utopia in Colli e Ottieri

Giovanni Mariotti

134

La tentazione economica dell'Occidente (a) Oriente: il rimosso del dolore EdoardoToffoletto e Artin BassinTabrizi

148

Esperienze filosofiche del dolore

176

Il dolore, la gioia e il divertissement Un confronto fra Col6 e Pascal

Valerio Meattini

Gli autori

195

Indice dei nomi

197

V

Il dolore e lavita

Ringraziamenti

VI

Questo volume è stato realizzato grazie al generoso contributo di: Mauro Grondona Pier Giuseppe Fedele Gianluca Melchiorre Riccardo Cavalli Jean-Yves Le Menn Ludovica Boi Nicoletta Ceraolo Luca Torrente Chiara Colli Staude Maurizio Rossi Fabio Pietrantonio

Claudia Catani Enrico Andreoli Pierre Mrdjenovic Enzo Covi Alessio Paiano Giulio M. Cavalli Rossella Attolini Francesco Di Maio Edoardo Toffoletto Lorenzo Bergamelli

at\

Il dolore e lavita

Tavola delle abbreviazioni

Abbreviazioni delle opere di Giorgw Colli AD

Apollineo e dionisiaco, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2010.

A.O

Aristotele, Organon, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1998 2 (prima ed. Einaudi, Torino 1955).

DN

Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1974.

E...\.C Per una enciclopedia di autori classici, Adelphi, Milano 1983. EMP Empedocle, a cura di F. Montevecchi, Adelphi, Milano 2019. FE FS

Filosofia dell'espressione, Adelphi, Milano 1969.

GP

Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2003. I. Kant, Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 19762 (prima ed. Einaudi, Torino 1957).

KK NF

Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2009.

La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 197 5.

PHK La natura ama nascondersi, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988 2 (prima ed. qJITJI'. KPYllTE:EeAI qJJAEI. Studi sulla filosofia greca, Corriere della Sera, Milano 1948). PP

Platone politico, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 20072 •

VII

Tavola delle abbreviazioni

PS

Platone, Simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1979 2 (prima ed. Boringhieri, Torino 1960).

RE

La ragione errabonda. Quaderni postumi, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1982. La sapienza greca, voli. I-III, Adelphi, Milano 1977-1980.

SG SN ZE

Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 1980. Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998.

Altre abbreoiaz.ioni DK

H. Diels - ·v1. Kranz (a cura di), Die Fragmente der Vorsokratiker, 3 voli., ,veidmann, Berlin 1951-19526 •

LSJ H.G. Liddell, R. Scott, revised and augmented throughout by Sir H.S. Jones, A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1940 9• KSA F.W. Nietzsche, Siimtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Ein:zelbiinden, a cura di G. Colli - M. Montinari, De Gruyter/Deutscher Taschenbuch Verlag, Berlin/New York, 1980-.

VIII

F-'·\T. Nietzsche, Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964-. NW F.W. Nietzsche, J,J,.erke, a cura di G. Colli e M. Montinari, De Gruyter, Berlin 1964-. QCl G.M. Cavalli - R. Cavalli (a cura di), Alle origini del logos. Studi su La nascita della filosofia di Giorgio Colli, Accademia University Press, Torino 2018. QC2 G.M. Cavalli - R. Cavalli (a cura di), Per una filologia della vita. Studi su Apollineo e dionisiaco di Giorgio Colli, Accademia University Press, Torino 2020. QC3 A. Santoro - L. Torrente (a cura di), L'espressione è la sostanza del mondo. Studi su Filosofia dell'espressione di Giorgio Colli, Accademia University Press, Torino 2021. QC4 •..\. Santoro - L. Torrente (a cura di), Al vertice dell'astrazione. Studi su Filosofia dell'espressione di Giorgio Colli (parte seconda), Accademia Universit}~ Press, Torino 2022. NO

Norme di citazione adottate Per le citazioni da La sapienza greca (opera in tre volumi) si danno due casi: se si citano l'introduzione, la traduzione o il commento di Colli, se ne indicano il volume e la pagina;

~

Tavola delle abbreviazioni

se si cita un frammento, se ne indicano la lettera e il numero, preceduti dal numero associato al suo autore. Le annotazioni contenute ne La ragione errabonda non si citano secondo la pagina ma secondo il loro numero tra parentesi quadre. Le opere di Platone e .Aristotele si citano secondo le impaginazioni standard. Le opere degli altri autori antichi per le quali non sono previste abbreviazioni si citano secondo il loro titolo italiano più comune e la loro suddivisione interna standard.

-

IX

Il dolore e lavita

Prefazione Valerio Meattini

Il dolore e la vita Il quinto numero dei Quaderni Colliani ospita le relazioni presentate al seminario su "Il dolore e la vita", seminario organizzato a Torino nel 2021 dal Centro Studi Giorgio Colli. I contributi toccarono aspetti diversi del tema e proprio l'impegno profuso dai relatori dette ai partecipanti, in sede di discussione, la misura della difficoltà a parlarne, perfino di un'ostilità al discorso, diversamente da altri aspetti della vita. La ragione mi pare essere questa. Siamo al limite dell'endiadi, perché se la vita è anche gioia, amore, serenità, soddisfazione ... il connotato di durezza del suo fondo rimane costante, invincibile. Una resistenza, infine, che appartiene alla nostra esistenza umana e la specifica. Se Spinoza ci fa alzare lo sguardo verso il compito più alto della filosofia: la meditazione sulla vita, non può sfuggire che proprio in forza di una tale attitudine ci imbattiamo nell'esperienza condivisa e inaggirabile, che è dunque una "nozione comune", della disgregazione inesorabile del nostro corpo, dell'usura del tempo. Di per sé stesso il tempo è inquietudine e dolore irreversibili. ..Alba e tramonto dell'unità individuale, di modo che gioia e dolore appartengono ad un orizzonte originario-conclusivo. In quel tratto si

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Valerio Meattini

Xli

realizza il conflitto tra la tensione di noi soggetti empirici con la nostra aspirazione alla gioia senza fine e la manifesta "fine di tutte le cose" (che siamo anche altro è congettura suggerita forse da un passaggio al limite del conatus a permanere sulla scena del mondo). Del pari., vi si consuma in articolazioni determinate il conflitto tra valori., tra istanze antagoniste di giustizia., aspirazioni al meglio anch'esse varie e perfino opposte., diversità tra progetti., speranze., modi di vivere e civiltà. Corpi offesi e avviliti., interiorità mortificate., sofferenze psichiche., umiliazioni., tristezza., disperazione., abiezione., facce e metamorfosi del dolore intridono le nostre vite. Il grande spettro al dolore sovente congiunto., il male senza ragione., senza perché rischia infine di annientare il senso., ogni senso delle nostre esistenze., esponendo la vita anche nelle fasi di 'tranquillità' alla ripetitività vuota e svilente al punto che immaginarsi "Sisifo felice" appare una rivalsa generosa., ma umana troppo umana., e l'espressione "tout est bien" un artificio che non compensa e non tiene. L'assurdo non si lascia giocare così facilmente. Il tono di sfida., perfino irridente., che a loro modo e nello stesso anno .Albert Camuse Roger Callois 1 lanciarono agli dèi per aver dannato Sisifo-uomo ad una storia inutile., dove lo sforzo verso l'alto ogni volta precipita., e ciò che viene riempito di continuo si svuota (potremmo aggiungere pensando ad altro mito greco)., non può funzionare che supponendo infine temperabile l'inesorabilità della condanna. Mitigandola e assumendo., con Camus., che identificandosi col proprio destino., poggiando il proprio volto sulla superficie della pietra., su quella morfologia ostile., Sisifo infine possa umanizzare il mondo e il tormento e dire "tutto è bene"., o convincendosi con Callois., che "Sisifo si faceva i muscoli" perché nella lotta della civiltà contro la barbarie nessuno sforzo va davvero perduto. Soltanto così., negandone di fatto il fondo nichili-

1. L, flt)'thl de Sisyphe di Camus e La roca tu Sisifo di Callois appan•ero entrambi nel 1942. «Je laisse Sisyphe au bas de la montagne! On recrouve toujours son fardeau. Mais Sisyphe enseigne la fidélité supérieure qui nie les dieux et soulève les rochers. Lui aussi juge que tout est bien. Cet univers désormais sans maitre ne lui parait ni sterile ni futile. Chacun des grains de cette pierre, chaque éclat minéral de cene montagne pleine de nuit, à lui seul, forme un monde. La lutte elle-mème vers les sommets suffit à remplir un coeur d'homme. Il faut immaginer Sisyphe heureux». A. Camus, Le mJtlu d, SisJph,, Gallimard, Paris 1942, p. 166.

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Prefazione

stico, il (non)senso dell'immane, vuota, fatica di esistere può pensarsi riscattato. Diciamo che lo sforzo di rendere coerente il dolore con la nostra esistenza è tanto antico da lasciare bene intendere perché si possa pensare che il dolore non impropriamente ne sia un sinonimo, al punto che "il dolore e la vita" non sia che un'endiadi. Del resto, è testimoniato che sotto ogni cielo noi umani abbiamo avvertito la durezza di quel fondo e l'impossibilità di sottrarsi ai volti e alle forme che può assumere. Testimonianze che è inutile ricordare e su cui alcuni dei testi qui raccolti riflettono. Più opportuno semmai indicare sommariamente le modalità del riscatto e della trasfigurazione. Da quelle appellantesi alla trascendenza per circoscrivere il dolore nel provvisorio finito che l'eternità della gioia compenserà (passaggio che deve prevedere di rimando anche il perpetuarsi incessante del dolore per i reprobi)., alle dottrine dell'immanenza acclaranti il senso e il fine della storia cui l'opera nostra apparterrebbe e contribuirebbe. Dal nietzschiano "più dolore più vita", riproposto nella metafora camusiana dell'improntare la pietra del proprio volto (non altro che una versione del volto doloroso nel lino di Veronica), che è proporsi di non soccombere imponendo in ogni caso la propria immagine al mondo., disprezzando un destino che ci schernisce, fino alla rivendicazione di porzioni di vita sottratte alla pena e irradiate dalla luce in pienezza. Dal "curare" il dolore come humus per crescere in personalità e piena umanità all'indifferenza eroica e ascetica verso di esso, o più attivamente allo sforzo d'intercettare ogni attimo o esperienza affrancabili dalla necessità e dal finalismo servile come vissuti in grado di riscattare l'intera vita. Ma, quando si viene sopraffatti dall'esorbitanza, dall' eccesso., dal parossismo del dolore e della sofferenza possono valere quei 'rimedi'? Giobbe., Filottete, la solitudine del crocifisso (il "Dio mio., Dio mio perché mi hai abbandonato?")., gli inermi di ogni tempo di fronte alla sfrenata e sadica violenza dei loro patologici tormentatori., coloro insomma che hanno sofferto e soffrono i più atroci tormenti del corpo e la desolazione dell'anima hanno mai potuto trovare o possono trovare un 'rimedio' alla loro sorte se non nell' invocare paradossalmente il male estremo che ponga fine ad ogni male? C'è sicuramente un abisso del dolore che non

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Valerio Meattini

XIV

possiamo simulare con l'immaginazione, che non riusciamo nemmeno lontanamente a far risuonare in noi e che pure ha devastato e devasta nostri fratelli in umanità. E questo è sconcertante, perché non si tratta di non saper raggiungere con pensiero e cuore simpatetici quella o quell'altra vicenda a qualcuno accaduta, ma di mancare il fondo di umanità che noi stessi siamo, quando non siamo direttamente colpiti. Di tanto il dolore ci allontana da noi stessi. Si è detto che il dolore è forza tesa a svelare l'originario, che è misura del tipo di uomo che vogliamo essere, che dolore e morte (e aggiungerei il male) mostrano l'onnipotenza dell'accadere, del sovrastante, l'incontrollabilità del più propriamente nostro, patito al contempo come il più estraneo. Così la folgore sbalzata o incisa in scudi antichi avrà ricordato al guerriero quanto repentine e prossime avrebbero potute essere l'umiliazione e la morte. Certo è che il dolore divide noi da noi. Sentiamo estraneo in noi ciò che in noi soffre e al contempo sperimentiamo che il dolore avoca a sé tutto di noi, tutto attrae nel proprio fulcro quel che ha diviso, senza possibilità che le parti possano sottrarvisi. Come nient'altro ciò che duole ci appartiene mentre lo sentiamo massimamente estraneo e quell'estraneità siamo ancora noi, anzi proprio noi, senza rimedio. Il dolore spezza e aduna a sé con sconvolgente perentorietà. Al vertice da cui il dolore irrompe lacerando il tessuto omogeneo dell'esistenza, strappandone la tela, si mostra l'abisso (e qui non c'è nessun retorico abuso del termine). Ogni cosmologia vi precipita, ogni sforzo di riassorbire il patimento estremo nel mosaico delle giustificazioni si risolve in beffa troppo amara se non soccorre una speranza sovrumana. Siamo costretti allora a guardare le cose, gli eventi e il mondo in tutt'altro modo in forza dell'ospite sempre temuto e a noi fin troppo prossimo. Se il grande dolore è abisso muto, produce però una rinnovata conoscenza del mondo sotto la sferza della necessità, suscita un linguaggio che non può dirlo ma che non può eludere, quando parla di altro, la componente ineliminabile di ogni vita individuale, del fondo di ogni vita.

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Il dolore e lavita

Dolore metafisico. Un'analisi mitica e simbolica di Rlosotia delrespressione Nicoletta Ceraolo

Introduzione. Per una metafisica del dolore «La vita è., nel suo complesso., astrazione» 1• E cos'è l'astrarre se non quell'operazione intellettuale che presuppone un setacciamento., una separazione fra le parti? Partendo dalla premessa di fondo che la vita per Colli è dolore proprio perché essa è., essenzialmente., astrazione e quindi separazione., metterò in evidenza come il concetto di dolore in Colli si possa già inquadrare a partire dalla sua lettura dei simboli di apollineo e dionisiaco., che egli trae dallaNascita della tragedia di Nietzsche. Nell'analisi di Colli., infatti., l'apparente ordine del fenomeno dettato dal pri,ncipium individuationis è un ordine che si dà a partire da un'insufficienza., da una mancanza: tanto più ci si allontana dal "fondo della vita" - ciò che Colli chiama "immediatezza dionisiaca" - verso i vertici dell'astrazione., tanto più ci si ritrova davanti. ad uno svuotamento («si giunge all'universale lasciando cadere ogni volta qualcosa»2). Sostengo anzitutto che si possa parlare di un apollineo

1. FE, p. 50. 2. FE, p. 63.

1

Nicoletta Ceraolo

2

e un dionisiaco prettamente colliani: sarà proprio l'analisi colliana dell'apollineo (e quindi del fenomeno), ciò che mi permetterà di sostenere che il fenomeno sia essenzialmente da intendersi come dolore; infatti, la parola di Apollo è una parola che ferisce, che testimonia uno stacco, una frattura violenta tra l'umano e il divino. Parola lontana, enigmatica, che non si lascia comprendere, che porta con sé il tragico dell'incomunicabilità tra la finitudine umana e l'infinito di cui fa parte. Una parola che ha una forza distruttiva, come il dio che la rappresenta. Proprio questo carattere distruttore di Apollo è ciò che invece Nietzsche avrebbe omesso, nella sua interpretazione, presentando Apollo e Dioniso come antitetici, quando in realtà tra i due dei ci sarebbe, secondo Colli, un'affinità fondamentale. Sono, in un certo senso, l'uno il riflesso dell'altro. Fondamentale sarà dunque il ruolo del mito orfico dello specchio di Dioniso nel pensiero di Colli, mito-simbolo della sua filosofia. Anche a proposito di Dioniso, Colli prende le distanze da Nietzsche, che lo aveva inteso unicamente come simbolo del dolore, trascurandone l'aspetto giocoso, gioioso. Nell'analisi interpretativa di Colli, viene attribuito ad Apollo, il dio luminoso, anche un carattere di oscurità; a Dioniso, il dio oscuro e tremendo, un aspetto di luminosa innocenza. Il mito dimostra dunque una continuità di fondo, pur nella separazione, tra immediatezza ed espressione. La scelta di un approccio mitico e simbolico al pensiero di Colli è dettata dal fatto che, da un lato, si vuole dimostrare che il simbolo in Colli non ha solo valore estetico, ma metafisico, ed ha anzi una rilevanza conoscitiva, e dall'altro perché solo simbolicamente è possibile dire - o meglio, indicare - il dolore, ossia quella separazione che risulta ineliminabile proprio perché fondamento metafisico, frattura che «sta alla base»5 e che solo la parola simbolica può tentare di ricucire.

Dolore nell'espressione, la ferita di Apollo In Filosofia dell'espressione, Colli denomina la figura di Apollo come Phanes, il "risplendente", il "manifestante", per rappresentare il mondo come apparenza, come «splendore di

3. FE, p. 152.

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Dolore metafisico

aA

ciò che è nascosto» 4 • Si tratta del simbolo del mondo come espressione., la quale., a sua volta., è riflesso - proprio come uno specchio., che risplende e riflette - dell'immediatezza., il cui simbolo è., di contro., Dioniso5 • Ne La nascita della tragedia., Apollo veniva descritto da Nietzsche come il dio della luce., della forma., dell'armonia., in cui «c'è una sfumatura decorativa., cioè gioia., ornamento., profumo»6 • Per Nietzsche., afferma Colli., «la visione apollinea del mondo si fonda sul sogno., su un'immagine illusoria., sul velo multicolore dell'arte che nasconde l'abisso orrendo della vita» i. Colli corregge l'interpretazione nietzschiana facendo notare come questa sia una descrizione parziale del dio., che non tiene conto di aspetti fondamentali che sono da considerare come «simboli illuminanti l'intero fenomeno della sapienza» 8 • L'etimologia del termine., per quanto incerta., viene in aiuto: sappiamo infatti che il greco &1toÀÀvµc. vuol dire distruggere. Inoltre., egli nell'Iliade viene descritto come il dio della malattia., della peste in particolare., ulteriore indice del fatto che non è possibile trascurare l'aspetto distruttore., sterminatore., del dio. Si tratta di una distruzione che conduce alla morte., ma una morte non immediata., bensl mediata dalla malattia. Ed è proprio a quest'azione indiretta del dio ciò a cui allude l'arco., elemento che non manca mai nelle raffigurazioni di Apollo. L'arco rappresenta la violenza della vita di cui Apollo si fa personificazione. Quella violenza che., insieme al gioco., costituisce., secondo Colli., uno dei caratteri essenziali della vita. Così scrive., infatti., in Dopo Nietzsche: «nella lingua greca l'attributo di Apollo., arco., ha lo stesso suono di vita. La violenza è la vita»9 • Con l'arco., Apollo lancia la freccia del logos., che è ragione ma anche discorso., parola., che ferisce., «l'arma suprema della violenza., la freccia più mortale

4. FE, p. 53. 5. Cfr. ibidem. 6. l\Jr', p. 39. 7. Ibidem. 8. Ivi, p. 19. 9. DN, p. 45.

3

scagliata dall'arco della vita» 10 • Dunque, Apollo agisce da lontano., tramite l'azione mediata della parola. Ma, seppure la parola di Apollo abbia una forza distruttrice, essa è «un' espressione in cui si manifesta una conoscenza» 11 • Il fatto che Apollo agisca "da lontano" - oltre a sottolineare il distacco tra umano e divino - vuole alludere anche al fatto che il conoscere richiede sempre un distacco, un allontanamento, è «perdere qualcosa dal pozzo della vita.» 12 • Tale conoscenza, osserva Colli, arriva a noi in una forma ambigua., oscura., che non ci permette di cogliere il messaggio divino nella sua totalità:

Nicoletta Ceraolo

Nella parola si manifesta all'uomo la sapienza del dio, e la forma, l'ordine, il nesso in cui si presentano le parole, rivela che non si tratta di parole umane, bensl divine. Di qui il carattere esteriore dell'oracolo: l'ambiguità, l'oscurità, l'allusività ardua da decifrare, l'incertezza. Il dio dunque conosce l'avvenire, lo manifesta all'uomo, ma sembra non volere che l'uomo comprenda. C'è un elemento di malvagità, di crudeltà nell'immagine di Apollo, che si riflette nella comunicazione della sapienza. E difatti dice Eraclito, un sapiente: "Il signore, cui appartiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna" 1l.

4

Sembra., dunque., che Apollo conosca la verità e non voglia comunicarla del tutto. La parola diApollo è oscura, ineffabile., mai del tutto comprensibile. Il discorso del dio (dell' oracolo)., e quindi la relazione metafisica che intercorre tra il dio e l'uomo, si presenta come una «sfida intellettuale» 14., un enigma da risolvere. E questa enigmaticità di Apollo si ripercuote in noi come crudeltà., proprio perché non lo comprendiamo. Ecco un tipo di esperienza del dolore metafisico: come esperienza di essere impediti, di non comprendere fino in fondo, sentimento nostalgico di separazione e di impossibilità per una riconciliazione.

10. 11. 12. 13. 14.

DN, p. 40. NF, p. 18. FE, p. 10 !'Jr, p. 16. DN, p. 41.

Dolore

Vita fremente. La vibrazione pri,mordiale in Apollo e Dioniso

metafisico

Se da un lato Apollo è simbolo della vita interpretata come violenza, come strumento di distruzione - e a ciò, abbiamo detto, vuole alludere il simbolo dell'arco, che produce morte 15 - e quindi dell'espressione intesa come mancanza e separazione, dall'altro, come del resto già affermava Nietzsche, egli è anche simbolo dell'armonia, concetto al quale vuole alludere l'altro elemento che accompagna Apollo insieme all'arco: la lira. Risulta evidente, dunque, il carattere di ambiguità di Apollo: «bellezza e crudeltà vengono da uno stesso dio, da una stessa immagine primordiale» 16• Egli, come Dioniso (il dio in cui convivono tutte le contraddizioni), è il simbolo della duplice natura metafisica del mondo. Colli chiarisce questo punto sin dalle prime pagine de La

sapienza greca: Una contraddittorietà, non universale come in Dioniso, ma invece ben individuata, emerge anche in Apollo, e si mostra nei suoi due attributi dominanti, l'arco e la lira. Qui sta la precisa doppiezza di Apollo: la faccia benigna ed esaltante accanto a quella terribile e devastante. Da un lato l'arte, la musica suadente, l'apparenza gratificante e l'immagine di bellezza del sogno, quell'illusorietà insomma che Nietzsche ha suggerito come connessa al significato di "apollineo". Ma d'altro lato la faccia malvagia, la sostanza profonda che si contrappone a quell'illusorietà, l'arma omicida che da lontano scaglia la sua freccia 17•

Si tratta di un passo fondamentale, perché permette di individuare la differenza particolarmente importante tra quello che è il valore limitativo della figura di Apollo in Nietzsche, intesa come principium individuationis, e il carattere apollineo dell'espressione intesa da Colli come accrescimento e trasformazione. Ne La nascita della filosofia, Colli evidenzia, infatti, che ulteriore mancanza da parte di Nietzsche, sia stata proprio quella di presentare Apollo e Dioniso come antitetici, quando in realtà tra i due dèi ci sarebbe appunto questa affinità fondamentale. La correzione apportata da Colli in questo testo avviene grazie alla sua conoscenza di

15. Cfr. FE, p. 41. 16. DN, p. 45. 17. SG I, p. 26.

5

Nicoletta Ceraolo

Platone, il quale, nel Fedro, caratterizza la figura di Apollo collegandolo esplicitamente alla mania, cioè la follia: Nietzsche considera la follia come pertinente al solo Dioniso, e inoltre la circoscrive come ebbrezza. Qui un testimone del peso di Platone ci suggerisce invece che Apollo e Dioniso hanno un'affinità fondamentale, proprio sul terreno della "mania"; congiunti, essi esauriscono la sfera della follia, e non mancano appoggi per formulare l'ipotesi - attribuendo la parola e la conoscenza ad Apollo e l'immediatezza della vita a Dioniso - che la follia poetica sia opera del primo, e quella erotica del secondo18 •

Tale correzione e integrazione, è rintracciabile anche in Dopo Nietzsche, opera nella quale, a proposito dell'enigma, Colli scrive:

6

La scelta della coppia Apollo e Dioniso è decisiva, ma la loro contrapposizione è fuorviante. In realtà una matrice comune congiunge questi due dei nel culto delfico; il riflesso umano ne è la mania, che Nietzsche sembrerebbe considerare nel solo Dioniso, e stemperata come ebbrezza. Ma la mania è qualcosa in più dell'ebbrezza, è l'unico approccio autentico alla divinità, quando l'uomo annulla la propria individuazione 19 •

Apollo è, dunque, dio della follia tanto quanto lo è Dioniso; tuttavia, si può dire che solo la mania di Apollo prenda una direzione conoscitiva, mentre la follia dionisiaca, che si configura come estasi misterica, «in quanto si raggiunge attraverso un complesso spogliarsi dalle condizioni dell' individuo, in quanto cioè in essa il soggetto conoscente non si distingue dall'oggetto conosciuto, si deve considerare come il presupposto della conoscenza, anziché conoscenza essa s tessa»20 • Tornando al simbolo della lira: è noto come la particolarità di questo strumento sia il fatto che il suono viene prodotto tramite la vibrazione delle corde, e trasmesso, come una eco, dalla cassa di risonanza. Trovo questo dettaglio che accompagna la raffigurazione di Apollo non trascurabile, considerando che, insieme alla follia, un ulteriore carattere

18. ~"F, p. 21. 19. DN, p. 39. 20. NF, p. 17.

Dolore metafisico

"dionisiaco" in Apollo è proprio quello del fremito, della vibrazione. «Gli dèi balzarono in piedi tremanti, come le isole dell'Egeo avevano tremato prima che Apollo nascesse, pieni della stessa reverenza e timore che suscitava in loro l'apparizione di Zeus: il nome di Apollo, Phoìbos, ricordava a tutti Phòbos, la paura»21 , scrive Pietro Citati. Da queste righe appare chiaro già il carattere perturbante della figura di Apollo, che è quindi non soltanto ciò che permette di sopportare e tollerare il dolore primordiale rendendolo "vivibile", ma è soprattutto ciò che fa riemergere la rimozione dionisiaca originaria22 , quella ambiguità tra necessario e casuale che risulta intollerabile, e dal dolore di questa oppressione, di questa oscurità sorge «il comando di chiarificazione, è lo specchio che divide gioia da dolore» 28 • Apollo riporta alla luce ciò che è nascosto nel buio dell'immediatezza, fa riemergere il rimosso ma non senza conservare una certa oscurità, che conferisce alla parola divina un elemento perturbante, proprio perché rispecchia l'oscurità di fondo dell'immediatezza. Anche quest'ultima, il cui simbolo è Dioniso, è caratterizzata da un fremente vibrare (della lotta tra necessità e contingente). E infatti Girard, nell'opera La violenza e il sacro, chiarisce che «sotto il nome di Bromios, il Rumoroso, il Fremente, Dioniso presiede a un imprecisato numero di disastri che non hanno quasi nessun rapporto con le tempeste e i terremoti cari ai mitologi del secolo scorso ma che richiedono sempre, a quanto pare la presenza di una folla incitata dalla paura irragionevole di atti straordinari, quasi soprannaturali. Tiresia definisce Dioniso il dio dei moti panici, dei terrori collettivi che colpiscono inaspettatamente»24 • Nella 1Vascita della filosofia Colli evidenzia come però la parola di Apollo, ossia il logos, abbia subìto, nel corso della storia del pensiero, un progressivo distacco dalle sue radici sapienziali, dalla "vita fremente", perdendo in misura sem-

21. P. CITATI. Lammte colorata, Mondadori, Milano 2002, p. 15. 22. Per un approfondimento del concetto di "rimozione originaria" in psicanalisi, rimando a S. FREUD, op,re 1915-1917. Introdum,ru alta psicoanalisi e altri scritti, trad. it. C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976. In particolare, cfr. Metapsicowgia, p. ~8. 23. FE, p. 52. 24. R. GIR.~, La violnua I il sacro, trad. it. O. Fatica, E. Czerkl, .Adelphi, Milano 1992E, pp. 189-190.

7

Nicoletta Ceraolo

pre maggiore il suo valore simbolico. Da qui la necessità colliana di rivendicare il valore epistemologico del simbolo., il quale si presenta come elemento unificatore (avµ-~cxÀÀet. v) fra" ciò che è" e "ciò che diviene"., e proprio in questo senso si può affermare che il mito dello specchio di Dioniso viene eletto da Colli come simbolo del suo pensiero: esso tiene insieme i punti teoretici fondamentali della sua filosofia., oltre ad essere-ponte., essere-contatto., tra i due mondi di immediatezza ed espressione.

Il "contatto metafisico" come separazione noumenica: lo specchio di Dioniso per dire l'indicibile In Filosofia dell'espressione., Colli spiega che la rappresenta-

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zione trova la sua essenza nella categoria della relazione., «ma la relazione suprema ha come fulcro., come nascimento., qualcosa che trascende la rappresentazione»25• Per questo motivo., il contatto metafisico con l'immediatezza è sempre solo supposto., testimoniato - attraverso il ricordo - da quello che in realtà è uno stacco., e mai vero e proprio punto di contatto. Infatti., scrive Colli in Filosofia dell'espressione: «il contatto come elemento metafisico dev' essere comunque soltanto un limite inconoscibile., postulato dalla struttura dell'apparenza., e al quale l'espressione., analizzata., rimanda» 26 • Possiamo dunque trattare quello che Colli definisce "contatto metafisico" analogamente al noumeno kantiano. Sappiamo., infatti., che quest'ultimo., pur non potendo essere esperito - e dunque dimostrato filosoficamente - può comunque essere pensato., secondo la definizione positiva di concetto-limite. Come il noumeno kantiano., anche la nozione colliana di contatto è problematica nella misura in cui rimanda ad una totalità che non possiamo esperire., ma solo pensare., "inventare". Risulta., quindi., di non facile comprensione il passaggio dall'immediato al mediato proprio in quanto passaggio inconoscibile., dal momento che la conoscenza è di dominio di Apollo., della rappresentazione., e «dove comincia la coscienza., cessa l'immediato»2 ;. È tuttavia possibile mettere in luce il legame di continuità 25. FE, p. 51. 26. FE, p. 40. 27. FE, p. 50.

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tra questi due mondi attraverso un altro tipo di linguaggio, quello mitico-simbolico, seguendo il consiglio tracciato dallo stesso Colli, che sempre in Filosofia dell'espressione scrive proprio che: «seguendo il riflusso con memoria retrocedente, è possibile figurare un simbolo rappresentativo del contatto, dove la guida sia più fornita da una restaurazione artistica che dal cammino del logos»28 • Infatti, procedendo a ritroso nella catena di serie rappresentative che compongono il logos, «il riflusso dell'espressione termina là dove il moto di flusso prende inizio, nel contatto metafisico»29, nell' arché. Questo rappresenta il fulcro, il «nascimento»80 della rappresentazione, in cui, «parlando con Eraclito, sazietà e manchevolezza sono una cosa sola, e tutto ciò, nella sfera del logos, si riflette [corsivo mio] come categoria della contingenza»81 • È utile qui sottolineare il termine "riflette", dal momento che, per esplicare gli attributi del contatto metafisico, Colli si avvale del mito dello specchio di Dioniso, assumendo il dio come simbolo rappresentativo dell'arché. Quello dello specchio di Dioniso è un mito orfico, che racconta di quando il dio - fanciullo - fu attirato dai Titani con dei giocattoli, per ucciderlo. Fra i vari giocattoli, come testimonia Clemente Alessandrino nel Protrettico, vi era uno specchio, e Dioniso, specchiandosi in esso - stando alla lettura di Colli - non vide la propria immagine riflessa, ma il mondo. Fu proprio in quel momento, mentre il dio contemplava l'immagine del mondo riflessa nello specchio, che i Titani attaccarono il dio-fanciullo, facendolo letteralmente a pezzi:

Dolore metafisico

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I misteri di Dioniso sono assolutamente inumani. Intorno a lui ancora fanciullo si agitano in una danza armata i Cureti, ma i Titani si insinuano con l'astuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta iniziatore, Orfeo il Tracio: la trottola, il giocattolo rotante e rombante, le bambole pieghevoli e le belle mele d'oro delle Esperidi dalla voce sonante. E non è inutile menzionarvi come oggetto di biasimo i simboli inu-

28. 29. 30. 31.

FE, p. 51. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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tili di questa iniziazione: l'astragalo, la palla, la trottola, le mele, il giocattolo rotante e rombante, lo specchio, il vello32•

Il primo aspetto del mito che non può essere trascurato è il fatto che Dioniso ha l'aspetto di un bambino. In effetti, nella mitologia greca, Dioniso, «dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni»ss, assume ora tratti fanciulleschi (come nelle Baccanti di Euripide), ora tratti di un adulto (si pensi al matrimonio con Arianna sull'isola di Nasso); ora tratti femminili., ora tratti maschili; alcune narrazioni lo descrivono come dolce e benevolo, altre come terrificante e spietato. Il carattere pluriforme di Dioniso dimostra proprio il fatto che il dio rappresenta

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l'impossibile, l'assurdo che si mostra vero con la sua presenza. Dioniso è ·vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza, ma tutto ciò nell'immediatezza, nell'interiorità di un cacciatore che si slancia spietato e di una preda che sanguina e muore, tutto ciò è vissuto assieme, senza prima né dopo, e con pienezza sconvolgente in ogni estremo34 •

L'aspetto fanciullesco di Dioniso, insieme al fatto che viene sbranato dai Titani con l'inganno dei giocattoli., mette in evidenza un primo aspetto fondamentale., ossia che l'aspetto giocoso di Dioniso è strettamente collegato ad una dimensione di violenza. Il mito, dunque., esprime simbolicamente l'attributo del contatto metafisico, e cioè l'unità di gioco e violenza., di contingenza e necessità., che nel contatto sono inscindibili. «[ ... ] Fuori dal logos giuoco e violenza sono inscindibilmente commisti, ed è proprio il radicale specchio di Dioniso che., riflettendo questo contenuto magmatico., lascia scorgere sulla sua superficie le immagini chiarificate dell'apparenza, rette dal dominio alternativo tra necessario e casuale» 85 • L'inscindibilità di gioco e violenza., la mescolanza magmatica tra queste due condizioni, è rintracciabile nel mito dal fatto che la vio-

32. C~-n: ALESSANDRINO, Protrettico, a cura di M. Galloni, Borla Edizioni, Roma 1991, p. 57, citato in SG I, p. 245. 33. SG I, p. 15. 34. Ibidem. 35. FE, pp. 52-55.

lenza dei Titani assume i caratteri della leggerezza e della casualità proprio del gioco (che infatti avviene tramite il giocattolo-specchio ) mentre il gioco, risolvendosi nell'inganno che conduce alla morte e frantumazione del dio, rivela la propria essenza violenta. La coincidentia oppositorum è dunque, ciò rende affini le due divinità Apollo e Dioniso, e infatti «Dioniso esprime nella violenza il gioco; Apollo nel gioco, la violenza» 86 • Un secondo aspetto rilevante, sempre legato a questa immagine del dio-bambino, è la possibilità che tale immagine rappresenti uno stato di "incoscienza" 1 come sembra suggerire lo stesso Colli con l'espressione «Il fanciullo Dioniso accenna allo stato originario» 8 i, uno stato in cui la ragione non conosceva ancora la ferrea legge della necessità. A questo proposito può esserci utile ricordare che quella del fanciullo, del Puer, è archetipicamente la figura che indica la possibilità, la potenzialità88 • Jung, nella Psicologia dell'archetipo del Fanciu1lo, descrive tale archetipo come «un'immagine che appartiene all'intera umanità e non solo all'individuo», immagine che quindi rappresenta lo stato preconscio dell'anima collettiva89 • Ciò appare più chiaro se letto in relazione a quanto espresso in Dopo Nietzsche proprio a proposito dell'infanzia, ossia «un universo dove nessun filo della necessità ci guida» 40 •

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Il dolore della conoscenza: la "traumatica visione" del riflesso nello specchio Si può sovrapporre il momento in cui Dioniso "conosce sé stesso" e quindi muore, con il momento in cui nasce Apollo, che, precocissimo, supera l'infanzia, cioè quello stato della "vita fremente", della coincidentia oppositorum. La parola poetica di Pietro Citati nel descrivere la nascita di Apollo è, a mio avviso, una perfetta rappresentazione di tale "salto": 1

36. F. Mo~-i-EVECCHI, Gwrgio Colli. Biografia intetuttual,, Bollati Boringhieri, Torino 2004,

p. 7~. 37. FE, p. 52. 38. V. LINCL-\RDI, Arcip,tago :.V, Variawni sul narcisismo, Einaudi, Torino 2021, pp. 24-25. 39. C.G. jtJNC, La psicologia Pardi: sentire corpo-ralmmte il pensiero, in ID., L~rcisenso cit., pp. 75-90. 59. Ivi, p. 90. 60. Ihid. 61. DN, p. 126.

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indistintamente a tutti gli individui. Ma, oltre a provenire dall'immediatezza (come, d'altra parte, ogni ente nella metafisica colliana), l'arte tende, più potentemente di altre espressioni, a confluire di nuovo nell'immediato62 • La pretesa dell'arte è invertire il corso del tempo, in quanto essa tenta di recuperare l'immediatezza. Se il tempo ordinariamente inteso segnala lo stacco, l'allontanamento progressivo dall'immediato mediante la frammentazione e l'individuazione, l'arte tenta di andare alle spalle di quest'ultima6S. L'inversione artistica del tempo ha a che fare con il problema del dolore. Sappiamo, infatti, che per Colli il dolore è la cifra della rappresentazione64 in quanto separazione. Esso non è un accidente eliminabile, ma ciò che sta alla base 65, proprio perché alla base vi è separazione, frattura, dis tacco66. E che cos'altro è il tempo se non la forma della separazione e del distacco? Si inizia, quindi, a delineare una sorta di intreccio tra dolore e tempo. Se consideriamo nuovamente le riflessioni di Masullo, possiamo osservare che anche per il filosofo campano la fonte della paticità è il tempo stesso. Tempo inteso in primo luogo come il «repentino» 6 i, l'evento improvviso di una radicale contingenza, il cambiamento destabilizzante, la frattura: la nostra vita è patica in quanto è costante frattura. Il tempo è ritmo e irrequietezza dell'anima, è il sempre nuovo infrangersi del presente 68 • Dunque, il trauma di tutti i traumi è il tempo stesso. Non che la destabilizzazio-

62. Cfr. FE, pp. 30 (L'arte contro la natura); 32-33 (Espressioni prive di rapprestntlD.ume); RE, [194], ~26]; ,~ }.-fEATI1NI, "Dalla madre di tutti gli individui". La via d4ll'aru in Cwrgio Colli, in Annali d4Ua Facoltà di Scitni, dtU'educa:.uaru 1995-2005, Tomo I, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 43-62. 63. Cfr. DN, pp. 113-115 (Un cammino a ritroso). 64. Cfr. RE, [54]; DN, p. 70 (Contro la necessità). Ancora più esplicite sono alcune notazioni metafisiche giovanili, a proposito del nesso tra rappresentazione e dolore: «[ ... ] l'espressione non avviene mediante un potenziamento, bensl con una scissione e separazione (ruikos). Il rapporto, il vincolo che riunisce il nuovo soggetto ed oggetto formando la rappresentazione segna il soprav,rivere dell'amore dell'essenza, ma l'origine prima del fenomeno è una dhrisione» (AD, pp. 153-154). 65. Cfr. DN, p. 152. 66. Cfr. RE, [805]; [806]. 67. Cfr..A_ MA.suu.o, L'1-sistne come iTTU2ume del r~mtino, in Io., Il tempo e la grazia cit., pp. 49-53. 68. Cfr. Io., Lo scandalo del discontinuo I la passione assoluta, ivi, pp. 39-47; L'ambivaknte trama d4lla differnua, ivi, pp. 55-59.

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ne sia l'oggetto del tempo o il suo contenuto, ma la sua qualità fenomenale - quindi, il tempo è il fenomeno affettivo primario, che contiene la possibilità di ogni altra affezione («autoaffettivo»69). Il tempo non significa né simboleggia la separazione, ma è separazione - è l'irrompere della differenza in noi, differenza tra l'essere e il nulla 70 : è ciò che di volta in volta minaccia di nulla il nostro esistere. Esattamente su ciò si fonda la paticità: il tempo per Masullo (e così per Colli) si manifesta sempre come perdita, assenza, ferita. Leggiamo ne Il tempo e la grazia: Il tempo autentico non è un'idea, un oggetto qualsiasi della mente, ma un fatto, l'emozione originaria dell' esistenza, la passione assoluta. Esso è l'autoaffettivo senso della frattura irreversibile, il vissuto dell'insanabile discontinuità della vita, e della traumatica irruzione della con tingenzail .

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.Anche nella filosofia di Colli troviamo la concezione del nesso fondamentale tra tempo e dolore: il tempo è mancanza originaria, frattura tra la rappresentazione e la sua radice. In modo più suggestivo che in altri luoghi testuali, il motivo del nesso tra tempo e dolore è presentato dal filosofo torinese in una poesia - a ribadire la centralità dell'esperienza artistica nel discorso sin qui condotto: Se il tempo è la causa del dolore, allontaniamoci, ci sono sentieri a lui ignoti, ci sono regioni ferme dell'aninia. Questo principe ossuto dell'inganno, strozzarlo, cancellarlo bisogna, poiché non è vero, poiché il dolore nasce da lui. Passo lieve Sabbia compatta E frescura niattinale:

69. ID., L'e-sistere coTM imaione del repentino cit., p. 52. 70. Cfr. In., L'Arcisenso cit., p. 18. 71. A.. }.,fAsuu.o, Il tempo e la grazia cit., p. 88.

forse la gioia anche in penombra è la lucei2 •

Patico venir al mondo

L'esortazione, irrealistica, ad allontanarci dal tempo (andare verso le «regioni ferme dell'anima», sui «sentieri»;s sottratti al tempo) si può interpretare seguendo quanto Masullo scrive ne Il tempo e la grazia: tempo e desiderio sono gemelli siamesi, nel senso che «se il tempo è il dolore d'irreversibili perdite, il desiderio è l'aspirazione al loro risarcimento» 74• Non c'è desiderio che non chiami in causa il tempo, che non aspiri a una ferita da rimarginare. L'essenza del desiderio è la soppressione della ragione stessa del desiderare, dunque la soppressione del tempoi5 • Inoltre, nel componimento tratto da La ragione errabonda è, non a caso, la parola poetica a indicare verso una possibile via di uscita dal dolore. A fronte della intrinseca emozionalità e incognitività del vissuto, emerge la radicale difficoltà linguistica di descriverlo. Prestiamo, ad esempio, attenzione all'ultima strofa: «Passo lieve I Sabbia compatta I E frescura mattinale I forse la gioia I anche in penombra I è la luce»;6 • In questo caso il gioco dei significati circoscrive uno spazio di indescrivibilità, un vuoto di significato che, però, allo stesso tempo è un pieno di sens7 7 • Emerge - citando ancora Masullo - un senso insignificativo, che può suscitare vissuti consonanti, anche se tra loro diversi e indeterminati. Un semplice paesaggio che evoca la gioia può darsi, allora, come grazia - e agire intersoggettivamente, pur non abolendo la solitudine radicale. In base a quanto abbiamo fin qui ricostruito, allora, benché un certo rigore filologico inviti a non forzare l'accostamento tra Colli e Masullo al di là del dato storico, riflettere su alcuni motivi di contatto tra i due filosofi si mostra fecondo per una nuova messa in questione del problema del dolore e dei suoi rapporti con l'arte, il tempo, la coscienza.

72. RE, [787].

73. lbid. 74. A. }.-L\suu.o, Il umpo I la grazia cit., p. 86.

75. Cfr. lbid. 76. RE, [787]. 77. Cfr. A M~UI.LO,Jl umpo I lagrazia cit., p. 21.

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Il dolore e lavita

Dal dolore all'estasi. L'anina nuda nel pensiero di Michelstaedter e Colli Sebastian Schwibach

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Introduzione Il contributo che qui si propone consiste in un tentativo di dialogo con Michels taed ter e Colli, al fine di sondare le possibilità di un passaggio dalla vita in quanto dolore all'estasi in quanto «&~c.oç ~loç» 1• Con l'aiuto di un'analisi parallela dei concetti di persuasione-rettorica e di interiorità-espressione, si tenterà dunque di comprendere il paradossale rapporto tra una vita-dolore che in quanto tale è non-vita e una non-vita beatitudine, che per essenza è vita. L'interrogativo alla base dell'opera dei due autori costituisce uno snodo essenziale per ripensare la filosofia moderna attraverso un angolo visuale che, ponendo al centro un problema morale - "come vivere?" -, apre il campo per un ripensamento della natura dell'esistente e del suo fondo infondato - "che cos'è la vita"? Si tratta, cioè, di comprendere in che senso, attraverso gli scritti di Colli e di Michelstaedter, sia possibile pensare una vita che, nuda e libera

1. C. MICHELST.AEDTER. La pmuaswne, la rettorica (1913), Adelphi, ~filano 2002, p. 44. Per un'analisi approfondita del pensiero di Michelstaedter, cfr. G. BRIANES~ L'arco e il . Inurpr~on, di Michelsttudur, Mimesis, }.-filano 2010; P. M. BoRTOLUZZI, Carlo Miclulstatdler, la ustimonianz.a ach

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stenza si riduce ad un inappagamento sempre rinnovantesi ed un dolore sordo» 19; dall'altro, ce ne sarebbero alcuni, per quanto pochi., che sentono nella propria intimità il dolore insito in tale condizione, che aspirano a qualcosa di più alto: a un sentimento più profondo e a un pensiero capace di innalzarli20• In questi individui., che Colli considera "dionisiaci" proprio in virtù del loro anelito a rompere i legami della finitezza, la consapevolezza iniziale di una insufficienza della vita comune si traduce in un istinto «pessimistico e negatore» 2 1, che tende a distaccarsi da ogni molteplicità, da ogni consorzio umano., da ogni fenomeno esteriore., per immergersi in sé stessi. Giunti a distaccarsi da tutto perché insofferenti nei confronti della limitatezza e della separazione, questi uomini intuiscono l'unità soggiacente a ogni distinzione, intravedono, cioè, la possibilità di ricongiungere il mondo disperso attraverso un atto conoscitivo supremo, che annulli la distinzione tra soggetto e oggetto e quindi travalichi la stessa sfera conoscitiva. Sentono ancora il dolore, anzi solo essi ne sentono propriamente la portata, ma ciò non si traduce in un tentativo di fuga . .Al contrario., attraversano tutto il dolore della vita non per negarla., ma per riaffermarla ad un livello di maggiore intensità, per trovare in sé stessi quella pienezza che all'esterno sembra destinata a sfuggire perennemente. Essi si gettano con foga nella ricerca dell'infinito e comprendono che la negazione è un momento sì a loro necessario., ma solo in vista dell'affermazione, che raccoglie e dà profondità al fenomeno. Al culmine di questa «vissutezza eroica» essi esperiscono la conoscenza assoluta, indicibile e inafferrabile: «1'6psis è l'inesprimibile, ciò che schianta il cuore, stabilisce il contatto completo., l'unificazione» 22 • La visione suprema trasfigura il dolore, ne mette in luce la necessità, la sua azione persuasiva nei confronti della ricerca della verità. Esso viene visto ora con gli occhi di una condizione che travalica gioia e dolore e viene dunque compreso nella

19. AD. p. 89. 20. In realtà, ci sarebbe una terza tipologia umana. quella degli apollinei puri. pienamente immersi nella sfera del fenomeno. Questa tipologia secondo Colli si è riscontrata tuttavia solo in Grecia. 21. AD. p. 112. 22. AD, pp. 156-157.

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sua natura profonda., quale momento necessario., pungolo che spinge dalla finitezza all'infinito. Come riverbero di tale esperienza., dunque., sopraggiunge quella che Colli chiama «vissutezza paradisiaca»28 ., dove la felicità per la conoscenza attinta e il dolore per averla nuovamente perduta si traduce non più in un desiderio di conquista., ma in un quieto e soave scorrere del sentimento.

Della rettorica Il percorso de La persuasione e la rettorica., se letto modificando l'ordine in cui compaiono i diversi argomenti., può essere visto come il tentativo di passare da un pessimismo negatore a una posizione capace di rendere superflua la stessa distinzione tra ottimismo e pessimismo o., meglio., tra gioia e dolore. L'ordine originale dell'opera è il seguente: la prima parte., Della persuasione., si divide in tre capitoli: La persuasione., L'illusione della persuasione., Via alla persuasione; la seconda parte., Della rettorica., si divide in tre capitoli: La rettorica., La costituzione della rettorica., La rettorì,ca nella vita 24 • Questo percorso., che dalla persuasione giunge ad analizzare la rettorica., è l'inverso di quello che ogni individuo può fare qualora intraprenda con serietà la via filosofica. La persuasione non è infatti mai data fin dall'inizio., ma è sempre occlusa da varie stratificazioni., riassumibili nei concetti di rettorica e di illusione della persuasione. L'anima, cioè., non è mai data nella sua nudità., ma si trova sempre legata da un lato alla sfera culturale (rettorica)., dall'altro alla finitezza del mondo della vita (illusione della persuasione). Si procederà dunque nell'analisi seguendo il presente ordine: prima si analizzerà il capitolo Della rettorica., facendo riferimento rispettivamente a La rettorì,ca nella vita., La costituzione della rettorica e La rettorica; poi si prenderà in esame Della persuasione analizzando in particolare L'iUusione della persuasione e lasciando gli altri due paragrafi ad una disamina successiva. Il soggetto., perlomeno quello moderno di cui qui si parla25., è sottoposto fin dalla nascita all'imperio della rettorica.,

23. AD, pp. 112-113; cfr. anche .AD, pp. 156-157. 24. Cfr. P. M. BORTOLUZZI, Cari.o Michelsta4dUr e la ùstimoniarua tklla verità tkU'essere cit., pp. 29-168. 25. È comunque condizione generalizzabile: cfr. C. MICHELSTAEDTER, La persuasioru e la rettorica cit., pp. 178-180.

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che consiste nel dominio incontrastato della società, capace di assimilare e disattivare ogni anelito a una vita più piena. L'azione della sfera sociale si manifesta in primo luogo come metodo educativo, che distoglie gli allievi dalla ricerca appassionata della verità, per renderli piuttosto degli utili ingranaggi nel processo lavorativo, sia esso di carattere fisico o intellettuale. Si insegna cioè a considerare ogni attività. non come fine in sé, ma solo come mezzo per soddisfare altri bisogni. Così, se nell'infanzia lo studio è un dovere necessario per poi poter giocare, il lavoro sarà in seguito un compito utile a ottenere il denaro con cui stordirsi nel tempo libero. Anche nella dimensione intellettuale, l'assenza di un fine intrinseco della ricerca risulta evidente dall'approccio che si impone al discente: mai domandarsi, ad esempio, se lo studio di Platone abbia o meno senso per la propria vita, se quanto il filosofo afferma sia vero o falso, ma sempre invece ricercare chi prima di Platone possa averlo influenzato, chi Platone abbia influenzato a sua volta, quale il contesto storico del pensiero platonico. In questo modo si impone al giovane un surrogato al proprio desiderio di verità e conoscenza: la collocazione dell'attività intellettuale entro la più generale sfera del sapere, dove il suo contributo potrà trovare un inquadramento, aprendogli magari una carriera e quindi, finalmente, consentendogli di andare a giocare. Dal punto di vista sociale, la rettorica fornisce a ogni individuo la sicurezza di poter continuare nella sua esistenza, non solo nascondendone la debolezza, ma addirittura portando tale debolezza a sistema e rendendola una forza coesiva. Così la violenza contro la natura verrà chiamata lavoro, la violenza contro gli altri proprietà, il generale desiderio di sopraffazione reciproca gius tizia26 • Mezzo supremo di illusionismo rettorico è infatti la trasformazione della paura di morire in valori. La rettorica è, cioè, quella struttura di sublimazione dell'istinto di autoconservazione che consente di giustificare razionalmente la violenza e che inventa un mondo valoriale per autoperpetuarsi. La più raffinata arma rettorica, ciò che consente la sua continuazione e che rende difficile romperne le maglie, è

26. Cfr. ivi, pp. 172-17S.

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l'invenzione del sapere, che dal punto di vista storico trova la sua più piena manifestazione nel sapere scientifico. In esso, si porta a sistema e si magnifica l'insufficienza di ogni finito, innalzando ad un secondo grado di finitezza ciò che già l'illusione della persuasione impone a ogni essere, organico o inorganico: il perpetuarsi senza mai poter esser sé stessi, senza mai poter possedere la propria vita2 ;. Il sapere è l'arma ultima e prima con cui la sfera rettorica mette al sicuro il soggetto dalla paura della morte. Lo fa tuttavia non attraverso un accrescimento vitale, ma con una sua diminuzione, che consiste in uno sdoppiamento. Da un lato c'è infatti l'individuo, insufficiente e terrorizzato, dall'altro si pone il sapere, che assume i tratti dell' assolutezza. Ogni relazione con il mondo esterno, ogni affermazione, anche la più banale e apparentemente oggettiva come "questo è", significa sempre "questo è per me'' significa sempre un rapportarsi al mondo in conseguenza dei propri bisogni. Per quanto questa modalità esistenziale sia destinata alla perpetua insoddisfazione, in quanto ogni affermazione di sé attraverso il mondo presuppone distinzione e finitezza, essa è pur sempre un voler vivere ancora immerso nella vita. Nel caso del sapere, invece, affermando ad esempio "so che questo è", si afferma la «volontà di volersi volente»28, ci si sdoppia, si afferma nuovamente la propria persona di fronte a un elemento della realtà che non è altro che l'affermazione della persona stessa. Si perde, con ciò, anche quel legame con la vita che ogni essere pur sempre ha. Il sapere nasce cioè dalla tragicità della condizione umana, che, incapace di sentire nelle cose un rimando sufficiente per il proprio desiderio di riconoscimento, è costretta a inventarsi una persona stabile, riconoscibile dagli altri e perciò più sicura della propria esistenza. Si prenda un esempio per meglio comprendere questo snodo fondamentale per cui il sapere, in quanto sdoppiamento, pervade ogni agire e pensare del soggetto, fino a trovare la sua costruzione massima nella macchina sociale: l'uomo, come ogni altro animale, cerca il piacere, che consiste in un'affermazione di sé, in un 1

27. Cfr. ivi, pp. 1~0-1~4. 28. Cfr. ivi, p. 97.

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accrescimento della propria potenza vitale e quindi della consapevolezza di vivere; fino a questo punto, per quanto in modo perennemente transitorio, l'uomo attinge a momenti vitali; tuttavia, nel momento in cui cerca la ripetizione di un piacere che in passato gli ha dato il senso di essere, egli si pone fuori dalla vita, tradisce persino la propria natura in quanto natura finita e si riduce quindi alla non-vita29• La rettorica reduplica cioè il movimento con cui ogni ente sfugge al proprio dolore; reduplica e complica, rendendone quasi impossibile la fuoriuscita, le maglie della proiezione desiderante verso l'altro - sia esso un tempo, un luogo, una persona o un oggetto -, che possa finalmente soddisfare l'insaziabile sete di vita. La via alla persuasione, quand'anche ci si liberi dalla rettorica, incontra un secondo ostacolo, questa volta insito nella natura delle cose e non più derivante dalla dimensione sociale. Certo, l'impedimento più grande alla presa di consapevolezza risiede nella sfera rettorica, che, con le illusioni dei valori e del sapere, fornisce all'individuo i mezzi per argomentare senza fallo la necessità della propria perpetuazion&0 • Il sapere e la costruzione dei valori, con tutto ciò che ne consegue, cementano infatti l'illusione della persona assoluta che non si è 81 • Tuttavia, anche presa piena consapevolezza di tale illusorietà, rimane pur sempre la strutturale mancanza dell'ente, per cui «la vita è in ogni coscienza un valore irrazionale» 82• Da tale mancanza sorge come risposta l'illusione della persuasione, illusione onnipervasiva, in cui la volontà di vivere, che crede di poter affermare sé stessa nella soddisfazione puntuale, stringe sempre più i lacci di un'indefinita correlazione ai diversi finiti. Questa illusione è strutturale, in quanto sembra l'unico mezzo con cui l'ente possa sopportare la propria condizione, ingannando il dolore che sordo rimbomba dalle profondità della vita. Se l'essere umano, quando la luminosità illusoria della rettorica si affievolisce - nei momenti di solitudine, nel buio della notte o quan29. Si riduce, cioè, all'inorganico: cfr. ivi, pp. 106-108. 30. Cfr. ivi, pp. 9.5-96. 31. Infatti, in senso proprio, la rettorica è «l'inadeguata affermazione d'individualità» (cfr. ivi, p. 98). 32. Ibidem.

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do attorno si fa silenzio e vuoto -, può percepire tale dolore, non è tuttavia in grado di soffermarvisi troppo senza cadere nella disperazione. Non si tratta infatti di una suggestione o di un sentimento come gli altri, ma è r entrare in contatto con una sfera che precede ogni altro sentimento, ogni altra percezione, una sfera a cui non sfugge nessun essere, sia esso animato o inanimato, organico o inorganico. La vita finita, la vita limitata di un oggetto, di un atomo, di un organismo come quello umano, pur nella diversa complessità, cerca eternamente di sfuggire a questo dolore, cerca cioè sé stessa in quanto vita infinita, vita persuasa; ma, proprio nel cercarsi, si perde senza posa. Sua natura strutturale è infatti da un lato la mancanza - per cui è non vita proprio nell' esser vita - e dall'altro l'anelito alla cessazione di sé nell'atto del compiersi. La tragicità dell'esistente consiste dunque in una doppia impossibilità di essere vita: da un lato, il rimando ad altro da sé come orizzonte di possesso di sé è un rimando all'infinito nel tempo; dall'altro, anche qualora il rimando cessasse, la soddisfazione piena del proprio essere ne determinerebbe la fine. Si prendano tre esempi proposti da Michelstaedter per elucidare questo punto: 1. un peso è tale in quanto è desiderio del basso. Se non desiderasse più scendere, cesserebbe di esser peso. Tuttavia non può mai esser felice, ovvero non può mai essere pienamente sé stesso, fino a quando ci sarà un più basso da poter raggiungere. La sua vita è cioè continua sofferenza in quanto, ogniqualvolta raggiunga una posizione, subito la sua natura lo spinge a cercare una posizione ancora migliore, un punto più basso che possa ottemperare al suo desiderio. Tuttavia, se questo desiderio venisse veramente colmato, se il peso arrivasse al fondo assoluto, esso cesserebbe eo ipso di esser quel che è, perderebbe sé stesso; 2. un atomo di cloro esiste in quanto desiderio, desiderio senza nome né forma; quando dalla lontananza si fa sentire la presenza dell'idrogeno, il suo desiderio prende un volto e, qualora venga esaudito, porta alla morte sia del cloro che dell'idrogeno e alla nascita dell'acido cloridrico; 3. lo stomaco di per sé è pura fame; se esaudisse a pieno la sua volontà di vita in quanto stomaco, se cioè non fosse

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più fame, cesserebbe di essere quel che è. Tutta.via, il fatto che si trovi in un organismo, il fatto cioè che il suo desiderio sia strettamente correlato ai desideri di tutti gli altri organi, fa sì che egli possa perpetuarsi in questa alternanza fra fame e sazietà che non raggiunge mai il culmine di nessuno dei due opposti. Nel primo esempio, ipotesi mentale tesa a mostrare per assurdo l'impossibilità di uscire dai vincoli della propria natura, la piena persuasione del peso, cioè l'aver in sé la propria vita, coinciderebbe con l'autodistruzione. Negli altri due casi - che invece rispecchiano eventi reali, per quanto mitologizzati- si può vedere in atto l'azione dell'illusione della persuasione. Indubbiamente, il cloro e l'idrogeno si suicidano proprio nell'illusione di compiersi a vicenda; eppure, dal loro perdersi, nasce una nuova realtà, che li tiene in seno. Lo stomaco, poi, è già parte dell'organismo, si è già suicidato in quanto puro stomaco per continuare a vivere nel complesso, che certo non lo porterà mai alla sazietà, ma con ciò ne eviterà anche un'ignominiosa morte". Preda delle medesime illusioni, il soggetto è irretito come in un cerchio magico che ripercorre sempre le stesse tappe all'infinito, in un eterno ritorno dell'assenza da sé. La ruota che lo avvinghia recita: qualcosa è - qualcosa è per me - mi è possibile la speranza - sono sufficiente. Guidato dal piacere, l'uomo, e l'essere vivente in generale, si muove fra cose finite che lo rimandano ad altre cose finite in un rincorrersi che cessa solo con la morteS4. Tutta.via, come sopra si è accennato, in questa illusione che avvolge l'intera sfera dell'esistente è pur sempre presente la possibilità di incamminarsi sulla via della persuasione. L'insufficienza e il dolore possono infatti emergere, in quanto il barlume di vita non è stato del tutto oscurato dalla sovrapposizione di illusione a illusione, dall'azione della rettorica. Dal punto di vista organico, mentre il mondo rettorico è la malattia morta.le, l'illusione della persuasione coincide con la salute, con la piena rispondenza dell'umano

33. Sotto questo riguardo, è evidente che la sfera rettorica rende l'indi\'iduo parte di un organismo più grande, quello sociale, per cui può continuare con maggior agio a vivere nella propria finitezza e a non sentirne la tragicità (cfr. ivi, p. 49). 34. Cfr. ivi, p. 54.

alla propria condizione naturale, la quale implica, anche, la ricerca della persuasione. La persuasione cioè, pur non visibile all'inizio del cammino a causa delle diverse incrostazioni, è presente come aspirazione, nasce spontaneamente nel soggetto sano. Al contrario, essa è muta e perduta in chi si sia abbandonato all'astrazione rettorica, alle lusinghe del sapere e alla sicurezza della società85• Si è visto dunque, grazie a Michelstaedter, in che direzione approfondire il primo momento considerato da Colli nel percorso che dal dolore per la frammentazione giunge alla conoscenza assoluta dell'assoluto. Il momento pessimistico, che nel caso colliano viene immediatamente ricompreso nella «vissu tezza eroica»86 e non manifesta a pieno il suo carattere dissolutore, nel caso di Michelstaedter si esprime in tutta la sua potenza, fino a mettere in dubbio, con la società e ogni costruzione umana, anche il senso stesso della vita. Ciò non significa lasciarsi andare ad un compiacimento nichilistico, ma sgomberare il campo da false idee e pregiudizi: solo disvelando la tragicità dell'esistente senza esitazioni e senza cercare alcun conforto, solo venendo «a ferri corti con la vita»87 , è possibile trovare ciò che il dolore nasconde.

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Via alla persuasione, ovvero il 11Wmento eroico La via che conduce alla persuasione implica un capovolgimento della rettorica, un'inversione prospettica che determina anche un rivolgimento esistenziale, un diverso modo di atteggiarsi nei confronti del mondo: questo che fai, come che cosa lo fai? - con che mente lo fai? Tu ami questa cosa per la correlazione di ciò che ti lascia dopo bisognoso della stessa correlazione [ ... ] o sai cosa fai? E quello che fai, che è tutto in te nel punto che lo fai, da nessuno ti può essere tolto?is

Non è dunque una via al di là del mondo, non è una fuga o un distogliere lo sguardo, ma consiste nel processo di mutamento della prospettiva esis tenzial-conosciti.va, per cui lo stesso mondo viene infine compreso e vissuto in manie-

35. 36. 37. 38.

Cfr. ivi, pp. 107-108. AD, p. 112. Ivi, p. 129. Ivi, p. 67.

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ra del tutto differente. Tale via è estremamente ardua, in quanto necessita di un'attenzione costante per non ricadere nelle reti dell'illusione. Non si acquista infatti una volta per tutte la condizione di persuaso, ma ci si spoglia attimo per attimo da ogni attaccamento, avvicinandosi asintoticamente alla condizione assoluta. Non si vive più per vivere, non si teme più la morte, ma si assume su di sé la gravità della propria esistenza, morendo e rinascendo a ogni istante, senza più pensare alla realtà come a un campo di soddisfazione del proprio desiderio egoistico 89 • Colui che si incammina su tale sentiero non può fare affidamento su nessun altro che sé stesso, vive nel deserto e ad ogni istante rischia di perdersi nuovamente. Egli è tuttavia guidato da un amore più grande di ogni desiderio particolaristico, un amore con cui impara a riconoscere ogni cosa per quella che è, un amore che tende alla giustizia, in quanto non è la maschera del vetxoç, ma il vero volto di chi abbia compreso nella sua radicalità che «dare è avere»40 : Ma di fronte a ciò che era per lui una data relazione, nella quale affermandosi egli chiedeva di continuare, ra egli deve affermarsi non per continuare, deve amarlo non perché esso sia necessario al suo bisogno, ma per ciò ch'esso è: deve darsi tutto ad esso tutto per averlo [ ... ] poiché in quell'ultimo presente deve aver tutto e dar tutto: esser persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di sé stesso - essere uno egli e il mondo 41 •

La via eroica alla persuasione presentata da Michelstaedter presenta delle affinità estremamente rilevanti con la trattazione di Empedocle svolta da Colli in Filosofi sovrumani. Tale affinità ci permette di elaborare ancor più dettagliatamente il carattere non pessimistico, o pessimistico positivo, pessimistico alla greca42 , della filosofia del goriziano. Nella trattazione colliana, l'agrigentino sente fin da subito il carattere doloroso dell'esistenza, segnata profondamente dal Netxoç, dall'odio che tutto domina nel mondo. Si dedica dunque alla cura degli uomini dalla malattia di esser nati,

39. Cfr. ivi, pp. 70-71. 40. Ivi, p. 82. 41. Ibidem. 42. Cfr. FS, p. 28.

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indirizzandoli, mediante le Purificazioni, a un'esistenza migliore nell'aldilà. L'incontro con Parmenide lo induce a riscoprire la fiducia nella vita e a considerare la possibilità che «l'eternità si può raggiungere anche qui su questa terra, e non è necessario aspettarla dopo la morte»4S. L'impulso politico si fa esuberante ed egli si presenta come il legislatore capace di sanare il male degli uomini qui sulla terra, senza dover aspettare la morte. Egli si mostra ai suoi concittadini come un dio, ogni suo atto implica un'enorme energia volta a ricomporre la lotta degli opposti che attanaglia il mondo. Questo eroismo volto alla guarigione dell'umanità e della realtà tutta, questo smisurato anelito a una bellezza che superi la sfera della necessità e apra lo spazio della pura interiorità, lo conduce infine alla morte44 • L'Odio, il Netxoç, che costituisce uno dei due principi del reale, trova nella c.Àlcx. un impulso contrario, un impulso all'unificazione, che si esprime nello ~cpcx.tpoç, il quale «non è altro che l'espressione della suprema conoscenza mistica, della coincidenza del soggetto col mondo»45 • La morte è un'affermazione della c.Àlcx. contro il Netxoç e l'ultimo atto di coincidenza assoluta con lo ~cpcx.tpoç. Ora, anche nel caso di Michelstaedter, la via alla persuasione è una via dell'amore, per gli esseri umani e la realtà tutta, un sentiero da cui si intravede la condizione persuasa, seppur solo in controluce, per via negationis 46• Il pellegrino sulla strada della persuasione vive pienamente, in quanto ogni suo momento, pur segnato dal dolore, pur sempre a rischio di essere risucchiato dalla corrente illusoria, travalica ogni tempo e, nello sforzo, intravede la pace, finché, come Empedocle, egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nll'ultimo presente. In questo egli sarà persuaso - ed avrà nella persuasione la pace. -

ilt. 'è'lepyelcxç iç «pylcx,, 47 •

43. FS, p. 74. 44. Cfr. FS, p. 77. 45. FS, pp. 8~-84. 46. Cfr. C. MICHEI.ST.AED"IER La pn-suasunu e la rdtorica cit., p. 96. 47. Ivi, p. 89. Traduzione italiana in nota, ivi, p. 200: «attraverso l'attività verso la pace».

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DaJ dolore all'estasi: il persuaso Scrive Michelstaedter nelle prime pagine de La persuasione e la rettorica: «persuaso è chi ha in sé la sua vita: l'anima ignuda nelle isole dei beati.»43 • Questo breve periodo., apparentemente semplice., si rivela essere in realtà estremamente complesso. Innanzitutto., stringe in un unico giro di parole i concetti di persuasione., essere., avere., vita., nudità dell' anima e beatitudine: essere persuasi significa avere la propria vita., ovverosia., paradossalmente., essere nudi., spossessati., e dunque beati. Essere persuasi significa cioè attingere a una sfera dell'interiorità dove essere e avere coincidono e dove la vita si rivela come nuda beatitudine., nuda in quanto libera da ogni volontà di esser vita. È una condizione di infinitezza., per cui cessa ogni desiderio finito., ogni mancanza., ogni distinzione individuale., pur venendo a compimento la vera individualità che «preoccupa infinito tempo nell'attualità e arresta il tempo» 49; la via della persuasione conduce dalla sfera di un'inesausta ricerca di senso a una condizione di piena attualità non bisognosa di nulla., ll dove l'affermazione dell'individualità. si risolve in una perfetta perdita di sé., dove possedere significa esser posseduti ed essere significa cessare di identificarsi con qualsiasi momento finito. Il persuaso non è come il sasso che., nel momento di possedersi., si annienterebbe., il persuaso non è necessariamente il suicida., e sicuramente non è il suicida per disperazione., ma è chi sappia finalmente liberarsi., nel pensiero e nell'azione., dalla correlazione ad altro da sé., colui che possa essere la sua vita presente e intera in ogni momento., colui che., pur nel tempo., non sia più soggiogato alla temporalità per la propria soddisfazione. Il persuaso è capace di abbracciare tutto l'essere come sé stesso., in ogni punto del tempo e dello spazio è l'assoluto; per lui ogni cosa è assoluta., cioè libera da qualunque legame con altro., in quanto è lui stesso assoluto., cioè libero da qualsiasi bisogno particolaristico che lo distragga da sé. La vita del persuaso può essere compresa ancor meglio se ci si volge all'idea dell'eterno ritorno., che per Colli., con e oltre Nietzsche., consiste nella consapevolezza che «l'imme-

48. Ivi, p. 42. 49. Ivi, p. 89.

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diato è inesauribile» e che dunque il dolore stesso è «illusorio, strumentale, non definitivo»50• La dottrina dell'eterno ritorno è cioè una dottrina dell'estasi, diretta.mente affiorante dal contesto misterico greco5 1, per cui ogni evento, ogni realtà, risiede nell'attimo . .Assumere questo punto di vista significa vedere in ogni realtà l'espressione dell'immediatezza: il tempo in cui essa necessariamente dilegua, in quanto contingente, in realtà si amplifica fino ad abbracciare l'eterno. Per questo scrive Michelstaedter che il persuaso «preoccupa infinito tempo nell'attualità e arresta il tempo»52 •

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La grandena e l'anima nuda: riflessioni conclusive Il percorso svolto attraverso il dolore fino all'estasi non è consistito in un addio al mondo, ma si è configurato come un tentativo di trasformare lo sguardo per divenire capaci di sondarne le profondità. Michelstaedter ha reso perspicuo il fatto che tali profondità non siano da ricercare in un altrove, dal momento che rifulgono costantemente attorno a noi, purché si sia disposti a dimenticarsi di sé in quanto individui illusori. D'altro canto, Colli ha consentito di sottolineare che uno sguardo mutato è uno sguardo volto all'interiorità. Potrebbe sembrare che il discorso coniano rimanga ancorato a una distinzione tra trascendenza e immanenza, dove la prima, in quanto interiorità, risulta più vera della seconda in quanto espressione. Senza dubbio una tale esegesi sarebbe confortata da numerosi passi e dalla stessa distinzione tra apollineo e dionisiaco, ma sarebbe un'interpretazione ancora legata alle dicotomie proposte dalla filosofia moderna. Colli, invece, su questo punto va oltre lo stesso Nietzsche, tornando al principio da cui in Occidente è scaturito l'impulso filosofico, a Dioniso quale dio della coincidentia opposi.torum che in sé è anche Apollo: «il dio non crea il mondo: il mondo è il dio stesso come apparenza»5s. Si è visto che l'interiorità, soprattutto nel periodo giovanile, appare come un impulso ostacolato da altre interiorità, 50. 51. 52. 53.

DN, p. 105. Cfr. DN, p. 198. C. M1cHELSTAEDTER, La pmuasùnu, la rtttorica cit., p. 89. DN, p. 196.

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per cui l'espressione sarebbe manchevole a causa della manchevolezza della cosa in sé, la quale appunto non sarebbe singolare, ma plurale, seppur in un senso extrafenomenico. Questa visione riprende e sviluppa il concetto nietzschiano di «atomi di volontà di potenza», che presuppone «un campo di ostacoli, di resistenze interiori a un soggetto» e postula con ciò «una pluralità di soggetti sostanziali e di altrettante volontà»54 • Questa prospettiva, seppur affascinante, risulta, in particolare per il Colli maturo55 , insoddisfacente, appunto perché mantiene intatta, seppur su una sfera sublimata, la «credenza nel soggetto» 56 • La via verso l'interiorità non può essere dunque quella che attinge alla dimensione delle volontà di potenza, che hanno insito già in sé il vetxoç. L'interiorità è qualcosa di ancora diverso, coincide con quella che Colli definisce "grandezza", rifacendosi da un lato ad Aristotele e dall'altro alle Upanishad 57• Essa, che seguendo Aristotele potrebbe essere definita come «il non essere disposti a tollerare la tracotanza altrui» 58, consisterebbe in un moto centripeto che non solo disattiva la frammentarietà del mondo fenomenico, ma che risucchia anche la distinzione extrafenomenica dei «centri della volontà di potenza»59 : l'impulso alla grandezza non muove contro la volontà di potenza: la sua natura è differente, il suo tendere è direzione opposta. E senza resistenza non c'è consumazione60 •

54. DN, p. 87. 55. Ma anche per il Colli giovane è problematica. 56. DN, p. 87, dr. anche DN, p. 88. 57. Cfr. DN, p. 100. 58. lbidem. 59. lbidem. 60. Ibidem. La grandezza è il modo in cui Colli cerca di superare infine l'aporia che ne accompagna la riflessione fin dai primi scritti, aporia dovuta all'impronta lasciata sul suo pensiero da Schopenhauer e Nietzsche. Già negli appunti editi postumi con il titolo Apotlin10 e dionisiaco egli sente infatti l'incongruenza di un noumeno che prenda il nome di qualcosa di determinato e manchevole come la volontà di vivere o la volontà di potenza, ma i vari tentativi di liberarsi da questa aporia non risultano soddisfacenti, tanto che si presenterà ancora in epoca molto tarda, quando in Dopo Nuruclu egli continua ad oscillare tra una critica di tali concetti e la necessità di utilizzarli per poter spiegare il passaggio dall'interiorità all'espressione. La grandezza, tutta,iia., intesa come «l'omogeneità di un tessuto metafisico• (ibùum), indica la direzione che il titolo del libro prospetta, indica cioè la direzione oltre Nietzsche. Lo fa da un lato richiamandosi alla grecità e dall'altro citando le Upanishad. La via per superare gli ultimi residui di illusione metafisica ,,a dunque verso la Grecia e verso Oriente, cioè verso quelle civiltà in cui la filosofia è ancora direttamente legata alla sfera sapienziale.

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Nella grandezza è superata ogni lotta, essa è il tessuto metafisico nel cui campo emergono gli atomi di volontà di potenza, le singole interiorità, esperibili dal filosofo in forma di vissutezze. La grandezza è un altro termine usato dall'ultimo Colli per nominare ciò che il primo Colli chiamava o~t.ç e che non trovava, in quegli appunti giovanili, altra trattazione che un fugace riferimento tra l'analisi del momento eroico e di quello paradisiaco. Nella grandezza, in Dioniso quale simbolo dell'assoluto, la «qualunque vita che vive» 61 diventa vita persuasa, il dolore è superato, ma non annullato, l'esistenza infine si manifesta come indissolubile commistione di gioco e violenza, gioia e dolore, pienezza e vuoto.

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61. C. MICHELST.AEDTER. La pmuasunu, la r1ttrica cit., p. 52.

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Un dolore che ha più della vita: l'esperienza del dolore tra Leopardi e Colli Valentina Maurella e LucaTorrente1

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Introduzùme Nell'ottobre 2020, a seguito delle intense settimane di rivolte antigovernative, sui muri delle strade di Santiago del Cile compare la scritta: «No era depresi6n, era el capitalismo»2. Lo slogan si diffonde velocemente e diventa, a nostro avviso, sintomatico di un movimento di rivolta contro le ipocrisie di questi tempi, di un sollevamento contro quell'ottimismo progressivo che già Leopardi rimproverava al proprio secolo. Ipocrita è infatti una società che attribuisce all'individuo la colpa della propria sofferenza, che fa del dolore un mostro da nascondere sotto il tappeto, in quanto corpo estraneo alla patinata ideologia del benessere. Allo stesso tempo, l'incompatibilità tra i desideri prodotti dal sistema capitalista contemporaneo e la realtà materiale e immateriale della vita singolare genera un dolore mortifero e annichilente.

1. L'introduzione e la conclusione sono state scritte a quattro mani, la sezione su Leopardi è di Valentina Maurella mena-e quella su Colli è di Luca Torrente. 2. Cfr. S. SOTO-L.\FOY, No era d,pr,si6n, era capitalismo: psicologuaci6n )' control social, https-Jhn,!l~.elquintopoder.cl/salud/no-era-depresion-era-capitalismo-psicologizacion-vcona-ol-social/, consultato il 9.02.2023.

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In direzione diametralmente opposta troviamo, invece, un filone del pensiero italiano che si rifà ai greci, secondo il quale il dolore può essere concepito come espressione vitale dell'esistenza. Se è vero infatti che, tanto per Leopardi quanto per Colli, la vita è essenzialmente dolore., ciò non implica tuttavia una caduta nel pessimismo tout court. L'aspetto che qui ci interessa mettere in luce, infatti, è la forte connotazione vitalistica che attraversa il pensiero dei due filosofi e che invita più all'affermazione della vita che alla sua negazione. Non si tratta dunque di un pessimismo passivo che si prefigge di «superare la vita negandola», ma piuttosto di un «pessimismo positivo»s o, per dirla con un filosofo certamente affine a Leopardi e a Colli., non abbiamo a che fare con un «nichilismo passivo», bensl con un «nichilismo attivo» (Nietzsche, Frammento di Lenz.erheide., §13)4., di cui la canzone leopardiana A un vincitore nel pallone è emblematica espressione. Di fronte alla terribile e certa realtà del dolore, Leopardi e Colli percorrono quindi delle vie laterali rispetto alla prescrizione maestra della fuga dal dolore, per affermare al contrario tutta la sua dimensione vitale. Negare il dolore significa in fondo negare la vita. Entrambi gli autori scorgono infine nella visione greca una via alternativa a quella moderna, dove il gioco e l'antifinalismo introducono la levità dell'azione senza scopo all'interno della condizione tragica dell'esistenza.

Leopardi «Quel principio "non può una cosa insieme essere e non essere"., pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura»5 • Quest'annotazione dello Zibaldone costituisce uno di quei punti di incurvatura profonda del pensiero di Leopardi., dove il relativismo si dilata come un cerchio nell'acqua e lambisce l'abisso. Pensiero caro a quel versante della critica che ha 3. AD. pp. 104-105. 4. Per la distinzione tra i due nichilismi. cfr. F. VOLPI, Il nichilismo. Laterza. Roma-Bari 1996. pp. 45-52. 5. Zib. 4109-4111 dell'l giugno 1824. Tutte le citazioni dallo Zibaldone fanno riferimento all'edizione critica Damiani: G. LEOPARDI, Zibaldone. 3 voll., a cura di R. Damiani, Mondadori. }.-filano 1997. Indichiamo come riferimento i numeri di pagina del manoscritto originale e la data di stesura del pensiero.

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insistito sulla continuità ininterrotta dell' antirazionalismo leopardiano6, esso si presta però anche a un ridimensionamento della feroce invettiva contro la ragione barbara e nemica della natura. Ciò che Leopardi afferma, infatti, è la falsità assoluta del principio di non contraddizione, ma non la sua falsità relativa. Il principio resta valido per la ragione e sopravvive intatto all'interno di quel regno formale di cui è fondamento e arbitro. Tuttavia, c'è qualcosa che lo fa vacillare, un qualcosa di palpabile, di esperibile, che sfugge al controllo della ragione. Certamente è a partire da questo urto con il mondo della natura esperita, osservata da uno sguardo non più situato., ma assoluto, che la logica classica inizia ad apparire insufficiente e tuttavia, come ha ben sottolineato Luigi Baldacci'., ciò non comporta un avvicinamento di Leopardi al pensiero dialettico e alla pacificazione che questo gli avrebbe potuto offrire. Le contraddizioni palpabili della natura, cioè le contraddizioni che interessano la coesistenza di pulsioni., forze e tensioni opposte, così come la contraddizione tra mondo - contraddittorio - della natura e ragione, non trovano risoluzione o superamento. Anzi, è precisamente nell'assenza di tale sintesi che deve essere compresa la vita, quale fenomeno -inspiegabile e ingiustificabile - del sistema della natura. Ma quali sono le contraddizioni cui allude il pensiero del 1824? Quella più mostruosa, lo scandalo metafisico espresso dal Dialogo della Natura e di un lslandese8, è che l'essere dei viventi sia «in contraddizione essenziale e necessaria con se medesimo» 9 • Infatti, se è vero che ogni vivente è governato da un unico principio innato, l'amor proprio, che è amore del proprio bene, cioè della propria felicità, è altrettanto vero che, per propria essenza, la vita non soltanto non può essere felice, ma non può non essere infelice 10• La proprietà che contraddistingue il vivente dal non vivente., infatti, è la facoltà di sentire, la sensibilità. La vita aspira a sentire un piacere 6. Per un bilancio di questo tardo orientamento della critica leopardiana si \'eda in particolare L. BALDACCI, Il male ·neU'ordiru. Scritti uopardiani, Rizzoli, Milano 2001. Il riferimento va soprattutto all'opera critica di Mario Andrea Rigoni. 7. Cfr. L. BALDACCI, Il sistema del paradosso in Il mau mU'ordin4 cit. 8. È lo stesso Leopardi a rendere esplicito il rimando al Dialogo nel pensiero dello ZibaJd,nu dell'l giugno 1824. 9. Zib. 4109-4111 dell' 1 giugno 1824. 10. Cfr. ibid.

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infinito, chimera prodotta dalla sola immaginazione, ma non può fare altro che provare dolore, nella forma della sventura morale, della disgrazia fisica o della mortificazione di quel desiderio inestirpabile di felicità. L'inconsistenza del piacere, la frustrazione incessante di quella che Colli chiamerà «brama inesausta» 11 , infatti, fanno sl che il dolore sia l'unica esperienza reale (e non immaginaria) della vita: La facoltà di sentire è ugualm. e indifferentem. disposta a sentire piaceri e dolori. Or le cose che producono le sensaz. del dolore, sono incomparabilm. più che quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, p. lo stato esistente delle cose, quando pur noi fosse per se. E quanto essa è maggiore, nella specie o nell'individuo, tanto quella o quello è più infelice: e viceversa12 •

Arriviamo al cuore del paradosso: se la vita è sensibilità, cioè facoltà di sentire il dolore, allora una vita intensamente vissuta è una vita intensamente infelice; ma, d'altra parte, Leopardi ammette anche che la vitalità stessa, vale a dire un maggior grado di intensità della vita, costituisca il rimedio più sicuro, seppur parziale, contro l'infelicità che è essenzialmente congiunta a ogni esistenza. In un pensiero del '25, infatti, Leopardi constata amaramente che il non vivere è preferibile al vivere, giacché «la natura tutta, e l'ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali» 1s, ma vi è anzi contrario e da ciò consegue che i viventi siano tanto meno infelici quanto meno sensibili, ossia quanto meno vivi. Secondo questo corno della riflessione leopardiana sulla vita, pertanto, a una vitalità meno smaniosa corrisponderebbe un'infelicità di grado inferiore, e ciò varrebbe tanto per le specie quanto per gli individui. Solo pochi mesi prima di questo pensiero, però, egli scriveva che L'uomo (p. l'amor della vita} ama naturalm. e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purché sia vivamente (la qual vivezza qualunque non può essere senza positivo diletto, né sensazione indifferente veramente}. [ ... ] se l'uomo potesse sentire infinitamente,

11. RE, [570]. 12. Zib. 4505-4506 del 13 maggio 1829. 13. Zib. 413~ del 9 aprile 1825.

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di qualunque genere si fosse tale sensazione, purché non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perché la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all'uomo p. se stesso e qualunque ei sia 14 •

E, ancora, alla vigilia della stesura del Dialogo della natura e di un'anima, aggiungeva che «la vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicché la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva» 15• Abbiamo ragione di credere che questa contraddizione non risulti appianata da un'evoluzione progressiva del suo pensiero e che, di conseguenza, il passo del '25 debba essere considerato come la parola definitiva di Leopardi intorno alla questione della vitalità, del dolore e della sensibilità. Al contrario, tali problemi costellano la spiraleggiante meditazione leopardiana sin dalle prime pagine dello Zibaldone e se, come osservava giustamente Luporini, esse costituiscono il cuore del suo vitalismo, non vengono per questo intaccate dalla svolta materialistica che precede e accompagna la stesura delle operette morali 16 • Entrambe le pagine, quella del '24 e quella del '25, sono espressioni di una particolare declinazione del vitalismo che nutre, sì, il pensiero, ma soprattutto la poetica di Leopardi. Intensità. e vivezza non sono slegate dal dolore, ma lo mitigano proprio perché vi si espongono maggiormente. Una vita intensa è una vita che, volendo tutto, non si nega nulla, nemmeno la sofferenza: è una vita che è meno infelice in quanto soffre ferocemente. Il dolore che sorge da una vita vissuta con intensità è un dolore vivo, vitale, eccedente, un dolore simile alla gioia intesa come pienezza e sovrabbondanza dell'essere. «Questo dolore» - annotava Leopardi in uno dei primi pensieri dello Zibaldone - «ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione è pieno di vita» 17• Un atteggiamento simile nei confronti della vita è proprio degli uomini più vicini alla natura, come gli antichi, i selvaggi e i fanciulli 18 • La vivezza 14. Zib. 4060-4061 del 5 aprile 1824. 15. Zib. 4063-4064 dell'8 aprile 1824. 16. Cfr. C. LUPORINI, uopardi progressivo. Roma, Editori Riuniti 1980, pp. 79-80. 17. Zib. 140-141 del 27 giugno 1820. 18. «Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne. e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali, più furiosi[ ... ] è cosa già nota e

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è radicale esteriorità., travasamento dell'animo nel mondo. Vivere secondo le leggi paradossali della natura significa., allora., sentire la vita al sommo grado per non sentire la vita. Per questa ragione., la passione dell'antico o del bambino è estranea a «quell'apatia e noncuranza di sé stesso e di tutto il resto che caratterizza il nostro secolo» 19., noncuranza che., in realtà., è precisamente il frutto di un ripiegamento dell'animo verso la propria interiorità. Leopardi imputa l'insorgenza di una demarcazione tra interiorità ed esteriorità al mondo moderno., alla barbarie e all'età adulta., vale a dire all'abbandono delle illusioni naturali per effetto della ragione. La scoperta del vero., irreversibile., equivale infatti alla scoperta del nulla., la cui contemplazione produce nell'animo una passione nuova., non naturale., che affligge lo spirito dei moderni: la noia. Essa è., per Leopardi., «la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità., così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per se., ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec.» 20• Le passioni che la natura produce nell'essere sensibile sono infatti quelle volte a conservarne l'esistenza., che sorgono., cioè., in seno all'amor proprio. Il sentimento della noia non è un effetto di natura e., anzi., esso si oppone alla natura del vivente., poiché ne mette a tacere le passioni e la stessa facoltà di sentire. Essa è perciò la passione più contraria e lontana dalla natura, quella a cui non aveva non solo destinato l'uomo, ma neppur sospettato né preveduto che vi potesse cadere, e destinatolo e incamminatolo dirittamente a tutt'altro possibile che a questa. Tutti i nostri mali infatti possono forse trovare i loro analoghi negli animali: fuorché la noia. Tanto ell'è stata proscritta dalla natura, ed ignota a lei. Come no infatti? la morte nella vita? la morte sensibile., il nulla nell'esistenza? e il sentimento di esso., e della nullità di ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e sente, e in cui sussiste? e morte e nulla vero., perché le morti e distruzioni corporali., non sono altro che trasformazioni di sostanze e di qualità., e il fine di esse non è la morte., ma la vita perpetua della gran ripetuta.[ ... ] Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari più violenti, ed altresl, per la stessa ragione più brevi e più violenti» (Zib. 2434-2436 del 9 maggio 1822). Si veda anche un pensiero del '27 alle pagine 4243-4245 dello Zibaldone. 19. Ibidem. 20. Zib. 1815 del 30 settembre 1821.

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macchina naturale, e perciò esse furono volute e ordinate dalla natura21 •

Il tedio è la tomba della sensibilità, la morte nella vita, un annientamento della dimensione passionale del vivente che è contrario alle imperscrutabili finalità della natura. Per questo motivo la noia è estranea agli animali, come si legge nei versi celeberrimi del Canto notturruP. Di tutti i viventi, soltanto l'uomo è condannato a soffrire di questo male vastissimo e arido, che trae origine dalla ragione, divenuta per l'uomo una seconda natura. La distinzione dei due generi di dolore, quello vivo e quello sepolcrale, si riflette secondo Leopardi anche nelle reazioni soggettive del corpo e dell'animo. Il dolore vivo è lancinante, ardente, bruciante; denota sempre un movimento che nasce in seno all'intimità del soggetto paziente, mentre la noia soffoca, annebbia, opprime. Anche se l'azione centrifuga del dolore è destinata a ricadere nuovamente nell'intimità, dando luogo a una contrazione dell'animo, essa è pur sempre l'effetto di una passione capace di interagire sia con la dimensione morale sia con quella fisica. Tant'è vero che il dolore si accompagna frequentemente a reazioni automatiche del corpo, quali lacrime, sussulti, palpitazioni e a una gestualità codificata che simula il ripiegamento dell'animo (contrazione dei pugni, del busto e delle membra). La noia, al contrario, si abbatte sull'uomo dall'esterno, lo avvolge e lo ammanta di disperazione. Nondimeno, l'opposizione apparentemente radicale di tedio e dolore è mitigata in diversi punti dell'opera di Leopardi. In particolare, in un pensiero dello Zibaldone, Leopardi ammette che vi sia un dolore che nasce dalla noia e che questo sia più tollerabile della noia stessa, che è di per sé in-dolenza, incapacità di dolersi. Sebbene dolore e noia siano qui ancora distinti, in queste righe compare un primo ponte di comunicazione tra essi. La noia può a sua volta

21. Zib. 2220-2221 del~ dicembre 1821. 22. «O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria

tua, credo, non saH Quanta in\'idia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non pro\'i» (G. LEOP•.\RDI, Poesie e Prose, ,•ol. I, a cura di M . A.. Rigoni, Mondadori, Milano 1988, Canto nottunu, di un pastore errante tu/l'Asia, \-"V. 105-112, p. 87).

Un dolore che ha più deOa vita

generare dolore e questo., al paragone della sua causa., pare quasi una consolazione: Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo. Io riflette,ra allora: io piango perché sono più lieto., e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza d'addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene~.

Il pianto è segno di una riattivazione., seppur dolorosa., della sensibilità. L'animo., spogliato di ogni passione dall'azione della noia., riprende finalmente contatto con il corpo eriaccende in esso la facoltà di soffrire che dipende dall'amor proprio. In assenza di una forza desiderante viva., il dolore della propria condizione si attenua., la speranza e il timore sprofondano. L'uomo esce «fuor di se stesso»., annega in un sentimento cosmico., di nullità del tutto . .Anche questa condizione è dolorosa., perché essa mostra all'intelletto come tutto sia vano nel mondo. Tuttavia., le due forme di dolore sono ben distinte tra loro: Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell'anima. Le sventure o d'immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest'altro dolore ch'io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero dell' infernd4 •

Il dolore naturale trae origine dalle grandi passioni., dal

23. Zib. 84 del 1818. 24. Zib. 140-141 del 26 giugno 1820.

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desiderio di piacere., dalla speranza., dall'amore., dalla paura della morte e., pertanto., esso strazia l'animo proprio nel momento in cui questo sente in maniera più violenta la propria esistenza. È un dolore che «ha più della vita»., poiché è la pura espressione del desiderio ardente dell'amor proprio . .Al contrario., il dolore che proviene dalla ragione., cioè il dolore che nasce dalla noia., è un dolore sepolcrale., un dolore che paralizza l'animo e congela il desiderio., precipitando quest'ultimo in un baratro. Anche questo movimento non deve trarre in inganno: esso è ben distinto dall'inibizione naturale dell'amor proprio., che è quanto di più vicino vi sia al piacere e che si realizza negli stati di torpore., per esempio nei momenti di prossimità al sonno o negli stati di alterazione provocati dall'uso di sostanze. Questi ultimi., infatti., affievoliscono la naturale propensione verso il piacere per mezzo di un progressivo abbandono dei sensi e della lucidità. In momenti simili., l'animo si abbandona a una dolce inconsapevolezza di sé e a una sensazione fisica di piacevole letargia. .Al contrario., in presenza della noia., le passioni scompaiono solo per lasciare spazio a una più vasta sensazione di oppressione., che., in fin dei conti., non è altro che il desiderio infinito privato del suo oggetto., uno stato di desiderio cieco., che non ha nulla di vitale. Il desiderio sussiste., perché il soggetto vive ancora e non può annientare l'amor proprio a forza di ragione., ma., di fatto., non è più capace di desiderare nulla., poiché sa., vede che tutto è vano. È la condizione nella quale s'inabissa lo spirito di chi., naturalmente disposto a nutrirsi delle grandi illusioni., d'un tratto si trovi a contemplare inebetito la vastità del nulla., privo per sempre del conforto dell'immaginazione. Tuttavia., come si legge in un pensiero del luglio 1820., «il sistema della natura rispetto all'uomo è sempre diretto ad allontanare da lui questo male formidabile della noia» 25 ed è per questo che una sensibilità disseccata è sempre anche una sensibilità in grado di risvegliarsi e di tornare alla vita. È il movimento di risveglio espresso dal canto il Risorgimento., dove lo stato doloroso che segue la condizione di gelida abulia del poeta è paragonato a un risveglio dell'animo e della sensibilità. Il ritorno alla vita è il ritorno della passione.

25. Zib. 175 del 2S luglio 1820.

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Un dolore che ha più deOa vita

Considerare Leopardi un dolorista è fuorviante tanto quanto attribuirgli un pessimismo filosofico che questi rifiutò sempre26 • Ciò che le paradossali meditazioni sul dolore mostrano è piuttosto un'istanza vitalistica che attraversa il suo pensiero come una corrente sotterranea. La condanna a un'esistenza souffrante è, sì, una verità scandalosa per la ragione e per la morale leopardiana, ma essa è pur sempre vita, forza desiderante, unica sorgente del sentimento poetico. Il dolore, in questo senso, è espressione della vitalità e della vivezza: esso è «come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi» 2 i. Una sensibilità inaridita e rassegnata è condannata all'impoetico, cioè a vivere senza passioni, che è come dire: a vivere senza vita. Colli Nella prefazione alle Operette morali, pubblicate all'interno dell'Enciclopedia di autori classici (Boringhieri) nel 1959, Colli afferma che Leopardi non è solo un poeta, ma anche un filosofo che ha cercato e trovato una qualche verità28• Una di queste potrebbe senz'altro essere: "non c'è vita senza dolore". Con acutezza, il filosofo torinese osserva che tali verità «come sono incomode, così sono anche incontestabili» e che «le verità di Leopardi non sono amabili, men tre al filosofo si richiede oggi che dia una dignità, o almeno giustifichi tutto ciò che esiste concretamente, nel passato e soprattutto nel presente»29 • Rispetto alla vita come indissociabile dal dolore, Colli accoglie questa verità non solo come una sorta di evidenza, ma anche come derivante da un ragionamento sul vivere stesso. Il dolore, infatti, è qualcosa di costitutivo dell'esperienza di ogni individuo, in quanto la causa prima di questo affetto risiede nell'individuazione, nel fatto, cioè, che ciascun organismo sia un'espressione - seppur molteplice e appa-

26. Si veda in particolare il celebre pensiero del '26: «Non ardirei però dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo cosl all'ottimismo [del sistema di Leibniz] il pessimismo» (Zib. 4174-4175 del 22 aprile 1826). 27. Zib. 2159-2161 del 24 novembre 1821. 28. Il giovane Colli però non coglie il tratto vitalistico e antipessimista del pensiero leopardiano, cfr. AD, p. 205. 29. EAC, p. 114.

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rente - di uno sforzo ostacolato., di un impulso che precede l'individuazione stessa. Se il dolore è in fin dei conti ineliminabile è perché l'individuo che vive non può appagare la brama inesausta che lo attraversa. Ciò significa che ogni desiderio o brama di un tale organismo sarà di fatto sempre inappagato., nel continuo tendere a una totalità che non si può raggiungere. Se ne deve concludere che una vita che abbia del tutto debellato il dolore non è., semplicemente., vita. Colli lo dice chiaramente sostenendo che il dolore «è la manifestazione nell'anima dell'uomo di una brama inesausta e violenta di un'arsura che non potrà mai dissetarsi, e il cui nome è vita2;?

Utopia sociale, utopia psichica .Al fine di esaminare la sfida che Colli lancia alle utopie della liberazione dal dolore, è utile prendere in considerazione

l'opera di Ottiero Ottieri, fra i maggiori scrittori del secondo dopoguerra italiano. L'opera di Ottieri, il quale oltre a essere un intellettuale di sinistra era un depresso cronico, rappresenta una faticosa e dilaniante tensione fra due tipi di sofferenza, il dolore individuale (quello del malato rinchiuso nella clinica) e il dolore sociale (quello dell'operaio rinchiuso nella fabbrica). Questa tensione è ben riconoscibile nelle parole che l'analista di Elena le rivolge nel romanzo Contessa: aA

Lei non conosce, teoricamente, altra coscienza che non sia la coscienza di classe. Lei si dice marxista ma viene da me che non sono marxista. L'abolizione del profitto e del plusvalore non abolisce il compito individuale di abolire l'angoscia. Ognuno deve prendere coscienza, uno per uno, in una nazione come in una clinica. 24

Il punto centrale di questa osservazione, affidata non a caso a un medico che lavora in una clinica psichiatrica, riguarda il divario fra coscienza individuale e coscienza di classe in termini di approccio terapeutico. .t\nche dopo la rivoluzione, ossia anche ammettendo la piena realizzazione dell'utopia politica, permarrebbe, a livello individuale, un surplus di dolore non esauribile con l'eliminazione dell'ingiustizia sociale. Al plusvalore dell'analisi marxista si aggiunge, nella poetica di Ottieri, il plusdolore25, come residuo che va affrontato con mezzi che non siano quelli della lotta politica. La riflessione di Ottieri si inserisce ovviamente in una lunga

23. RE. [570]. 24. O. OrnERI, Conussa. Bompiani, }.-filano 1976. 25. Questo termine è stato utilizzato in relazione all'opera di Ottieri da Riccardo De Gennaro, anche se in un'accezione diversa da quella utilizzata qui Cfr. R. DE GENNARO, Tra fabbrica I clinica in preda al plu.sdfJlor1. Su Ottiero Ottini, «Il Manifesto», 2012.

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tradizione di tentativi volti a combinare marxismo e psicoanalisi: «Il filo che lega la psicoanalisi e il marxismo si ritrova sempre: la "presa di coscienza", l'idea limite di libertà come superamento concreto (cioè economico nel marxismo ed emozionale nella psicologia analitica) della necessità»26 • Tuttavia, va notato che la natura di questo rapporto, in Ottieri, è principalmente analogico, cosicché non vi è una continuità fra intervento sulle cause materiali dell'alienazione e risoluzione della sofferenza psichica. Si tratta di due piani paralleli, fra cui è al massimo concesso saltare. Pertanto, egli afferma che «il dolore collettivo è la migliore medicina contro il dolore personale» 27 solo in quanto concentrarsi primo è un'efficace strategia per distrarsi dal secondo, senza essere però in grado di risolverlo. Da un punto di vista prettamente marxista, l'appello al "compito individuale" rischia, però, di scadere nella falsa coscienza, ossia di cedere a una concezione individualista del mondo, preferendo, pertanto, la riflessione solipsisti.ca all'analisi dei rapporti. di classe. Ottieri, tuttavia, ha una visione più sottile della questione: come scrive nel saggio-racconto L'irreal,tà quotidiana, «Io e Mondo non sono enti autonomi. Un rapporto strutturale fondamentale (al,lgemeine Total,itatsbeziehung) corre fra loro. Ma le conseguenze individualistiche in partenza dall'io e le socialistiche in partenza dal Mondo non si sono squagliate al sole alto della comprensione strutturale» 28 • Dunque, se c'è un Io che soffre, si tratta di un Io che soffre nel mondo, nella società e in mezzo agli altri, ma che, al tempo stesso, non si risolve nel mondo né può esaurire il mondo dentro di sé. La controparte della nazione non è l'individuo, ma la clinica, suggerendo un aspetto fondamentalmente comunitario tanto della malattia quanto della terapia . .Al tempo stesso, la clinica viene vissuta come fabbrica e il dovere di abolire l'angoscia di cui parla Ottieri si assolve lavorando, tanto da risultare a tratti alienante. Prendiamo le parole con cui lo scrittore descrive la sua esperienza in una clinica psichiatrica di Zurigo: «Sto eseguendo un lavoro di dolore.

26. O. 0TI1ERI, La lirua gotica, Guanda, Parma 2004, p. ~4. 27. Io.,Mnnori1tull'incoscùma, Milano, Bompiani 1967, p. 174. 28. Io., L'irrtaltà quotidiana, Guanda, Parma 2004, p. 97.

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Un pessimismo rivoluzionario

Il mestiere, qui dentro, è la sofferenza. Sono un impiegato dell' infelicità»29 • L' autono~ seppur sempre parziale e relativa, concessa alla battaglia personale contro l'angoscia rispetto alla lotta politica contro le sofferenze collettive è degna di interesse perché permette a Ottieri di formulare il paradosso di un'utopia che, anche una volta realizzata, è incapace di annientare il dolore. Ciononostante, il plusdolore letto in chiave psicanalitica rischia di imbattersi nuovamente proprio nello stesso problema che cercava di evitare. L'utopia non viene superata, bensl duplicata: tramite l'alter-ego Lucioli, Ottieri afferma che «realizzata l'utopia sociologica, distrutte le gerarchie del mondo, resta da calare nel mondo l'utopia psicologica che distrugga le gerarchie psichiche»so. La soluzione politico-psicanalitica alla persistenza del dolore si potrebbe allora dire non abbastanza pessimista, se non addirittura troppo ottimista, poiché cede, da una parte, all'ideale dell'eliminazione della sofferenza materiale, e, dall'altra, a quello della rimozione del dolore psichico: La concezione di Freud è diretta all'uomo della strada, al borghese-proletario del XIX e XX secolo, che dev' essere consolato e rassicurato sulla sua esistenza individuale. Il principio di Nietzsche "vivere è essere in pericolo" è l'antitesi di questa visione. Per Freud il trauma produce la nevrosi, e poiché sin da principio la ·vita è fatta di traumi, il salvatore dell'uomo è il medico che lo guarisce dalla nevrosi. Ma in realtà il trauma, cioè il tessuto ordinario della vita, agisce in tutte le specie animali sin dalla prima infanzia, cioè procura nevrosi ai deboli e rafforza i forti. Negare e togliere il dolore dell'uomo significa limitarsi a curare la nevrosi, ma i traumi, che sono i fatti primitivi, chi li toglierà? n

Dunque, anche l'abolizione dell'angoscia auspicata in Contessa si rivela un miraggio. Se la riflessione sul dolore rimane confinata al rapporto fra due poli, quello individuale e quello sociale, essa sarà sempre incompleta. Vi è, invece, un aspetto metafisico del dolore che la dicotomia individuo-società fa fatica a considerare. In una delle sue ultime opere, 29. Io., Campo di concentra2ùme, Guanda, Parma 2020, p. 41. 30. Io., L'irrealtà quotidiana cit., p. 225. 31. RE, [246].

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De morte, Io scrittore torna ad interrogarsi sul paradosso dell'ineliminabilità del dolore anche a fronte di un compiuto processo rivoluzionario e apre a una considerazione propriamente metafisica del problema: Questo secolo ha creato le armi più concrete per allungare la vita, nessun altro secolo è stato più determinato e organizzato nelle carneficine. Ciò è dovuto a sistemi sociali ingiusti o al destino di Caino e Abele? Perfino i più convinti utopisti hanno previsto che in un sistema senza sfruttati e senza sfruttatori ci saranno degli sfruttati.;2

Il dubbio di Ottieri, cosl come quello di Polychroniou nell'intervista con Chomsky, riguarda la natura umana e la risposta a una tale domanda richiede un giudizio essenzialista. Non è, però, necessario risolvere il problema con una riflessione misantropica sull'incurabile malvagità fratricida dell'essere umano. Più interessante, per un progetto radicale, è il riconoscimento del dolore come componente essenziale della vita: 146

È il trauma stesso a produrre l'oblio, non già un'inventata rimozione per opera dell'inconscio, basata a sua volta su una difesa dal dolore. E l'individuo non si trova di fronte al dolore, ma è lui stesso dolore. Negando il dolore negherebbe se stesso. Il trauma lacera violentemente il tessuto della rappresentazione, fa affiorare l'immediato: per questo rimane isolato dalla successiva catena della memoria, che è puramente rappresentativa. Il dolore non è un accidente eliminabile: esso sta alla base. L'uomo potrebbe sopprimerlo solo negando la vita, quindi - se fosse possibile- mediante la ragione. Non c'è un istinto contro il dolore, poiché il dolore esprime già qualcos'altro. Solo ciò che si esprime nella gioia può "rimuovere" ciò che si esprime nel dolore.;l

Il confronto fra la duplice utopia di Ottieri e il dolore essenziale di Colli serve a mostrare che un pensiero radicale maturo, anche uno che voglia servirsi del potere retorico e progettuale di una prospettiva utopica sul futuros4, de-

32. Cfr. O. OTilERI, De Morte, Guanda, Parma 1997. 33. DN, pp. 151-152. 34. L'aspetto utopico delle teorie rivoluzionarie è stato spesso oggetto di critica (cfr. A. KOLN..U, The Utopian Mind and Other Papm, Athlone, London 1995) e, negli ultimi anni,

Un pessimismo rivoluzionario

ve, in ogni caso, confrontarsi con l' «ipotesi, paradossale ma non insensata, che ciascun individuo abbia una misura del dolore che gli è essenziale, determinata una volta per tutte dalla sua natura»s5 • Oltre al valore epistemico di questa constatazione, si apre la possibilità di ricostruire progetti e pratiche politiche rifiutando l'idea, oramai pienamente assimilata nell'ottimismo neo-liberale, della lotta per la felicità, mettendo il dolore al centro della propria riflessione36. Si rivela così l'aspetto forse più prezioso del pensiero pessimista, quello che contrappone alle logiche ossessive di razionalizzazione e ottimizzazionesi, la felicità celata nelle attività assolutamente improduttive. In ciò l'aspetto salvifico e risolutivo dei pensatori pessimisti: Nella loro rivelazione del mondo, questi filosofi hanno fatto emergere una ·visione tragica, hanno mostrato il sostrato terribile e feroce della nostra esistenza, salvando dalla condanna della vita individuale e associata soltanto la cultura dell'uomo; l'arte, la religione, la filosofia. Dal dolore di questa conoscenza sorge una nuova possibilità del nostro agire, nel conservare e rafforzare l'esistenza della cultural8 •

sembra essersi affermato un pensiero post-utopico (cfr. J.N. SHKL.\R, .After Utopia. T1u D1cline of Political Faitk, Princeton Universicy Press, Princeton, NJ 2020). 35. A. ScHOPE:NHAUER., Il J,\,f()ntb:, C()me Volon/4 1 rappresenta:J.Ù»U, a cura di G. Brianese, Einaudi, Torino 2013, pp. 405-406. 36. Affermando, cioè, «la negatività rivoluzionaria in un mondo caratterizzato da felicità obbligatoria, controllo decentralizzato e sovraesposizione» (A.. CULP, Dark Dellr.ae, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano 2020, p. 34). 37. Il rifiuto del lavoro in favore del gioco, della produttività in favore della cultura, deriva da quello che Colli chiama l'istinto antipolitico (e non apolitico) e antieconomico che consente ali' essere umano uno slancio liberatore fuori dal meccanicismo del binomio produzione-consumo: «La vita come conservazione dell'individuo, propagazione della specie, è un quadro riduttivo: qui la necessità, la potenza, il bisogno, la fatica, il finalismo tracciano i modelli dell'uomo politico, dell'uomo economico. Ma la vita è anche giuoco, o se si preferisce, è anche qualcos'altro, qualcosa di diverso da tutto quello che si è detto prima. Quando un pezzo di vita sottratto alla pena controbilancia tutto il resto, il pessimismo è vinto. Questo è l'insegnamento dei Greci. Per essi nobiltà non significava, come afferma Nietzsche, la buona coscienza da parte di chi possiede ed esercita la potenza, bensl ragire, il pensare senza finalità. Ciò che chiamiamo cultura ha questa origine, esprime l'istinto antipolitico, antieconomico. Una creazione primordiale di questo genio del giuoco è il mondo degli dèi olimpici. La divinità è ciò che sfugge al finalismo, significa l'incuranza per la necessità. Il dio è ciò che si trova al di fuori della sfera del porws [... ] La conoscenza greca è antitecnologica e antiutilitaristica, poiché la cultura era fondata sul giuoco» DN, p. 154; p. 156. 38. EAC, p. 140.

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Il dolore e lavita

La tentazione economica dell'Occidente (a) Oriente: il rimosso del dolore EdoardoToffoletto e Artin BassinTabrizi 1

Chaque civilisation modèle une sensibilité. L'homme grand n'est ni le peintre ni l'écri,,ain: c'est celui qui saura la porterà son plus haut période. _..:\ffiner en soi-meme la sensibilité de sa race, aller sans cesse, en l'exprimant, vers un plaisir supérieur, voilà la vie de ceux d'entre nous que vous appelleriez des maitres. ANDRÉ: MALRAux2

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Das asketische ldeal entspringt dem Schutz-und HeilInstinkte eines degenerirenden Lebens, ·welches sich mit allen Mitteln zu halten sucht und um sein Dasein kampft; es deutet auf eine parti.elle physiologische Hemmung und Ermiidung hin, gegen welche die tiefsten, intakt gebliebenen Instinkte des Lebens unausgesetzt mit neuen Mitteln und Erfindungen ankampften. Das asketische Ideai ist ein solches Mittel. .. FRIEDRICH NIETZSCHt'

Solo ciò che si esprime nella gioia può «rimuovere» ciò che si esprime nel dolore. GIORGIO COI.LI4

1. L'introduzione è stata scritta a quattro mani, la sezione l da Artin Bassiri Tabrizi e le sezioni 2 e 3 da Edoardo Toffoletto. 2. A. MALRAUX. La Tentation de l'Occide-nt, Éditions Albert Skira, Genève 1945, Du Mime au mim4, p. 31. 3. F. NIETZSCHE, Zur Genealcgie der Moral, III, par. 13, in K.SA, vol. '~ p. 366: « .• . l'ideale ascetico scaturisce da.li/istinto di prouzione e di salute di una vita degeMranu, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la sua esistenza; esso indica una parziale inibizione ed estenuazione fisiologica, contro la quale combattono incessantemente, con nuovi mezzi e invenzioni, i più profondi istinti vitali rimasti intatti. L'ideale ascetico è un siffatto mezzo ... » [a-ad. it. Genealogia d4lla Morale, in NO, vol. VI, tomo II, p. 324]. 4. DN, p. 152.

La tentazione economica

dell'Occidente (a) Oriente

Partiamo dal titolo: La teniazione economica dell'Occidenie (a) Oriente: il rimosso del dolore è un chiaro omaggio a uno dei primissimi testi di.André Malraux (1901-1976),La Tentati,on de l'Occident (1926), dove il genitivo si situa dialetticamente tra la tentazione all'Oriente dell'Occidente, e la tentazione che l'Occidente ispira per l'altro da sé. In tale duplicità si iscrive l'orizzonte tematico del testo di Malraux, che allora come oggi, giace nella quasi totale dimenticanza dei critici e degli studiosi. In questo contributo si cercherà di dipanare e articolare le varie sfumature implicite in tale dialettica della tentazione che contiene in sé la compenetrazione di due ideal,tipi 5 psichici, cioè due tendenze-tentazioni economico-libidiche6 di fronte al dolore. In tal modo, una prima parte sarà dedicata alla figura di Malraux, la cui produzione è radicata nella questione del dolore e la conseguente ricerca di una possibile redenzione. Come Giorgio Colli, ed altri autori al centro di questo contributo, da Georges Bataille a Sigmund Freud, Malraux è una figura che imbarazza il potere disciplinare accademico: scrittore, viaggiatore e collezionista, figura nevralgica della letteratura francese, nonché Ministro della Cultura - carica da lui istituita - del governo de Gaulle ( 1959-1969), Malraux incarna lo spirito tipico di una parte dell'intellighenzia dei primi anni del Novecento. Il trattamento idealtipico della tentazione dell'Occidente da parte di Malraux consente in seguito di introdurre la questione del dolore in Colli, il cui nucleo teorico muove da un carsico confronto con alcuni assunti. freudiani. In effetti, questo intervento intende 5. Per 'tipo' o 'idealtipo' si rimanda non soltanto alla definizione weberiana, cfr. M. 'W:EBD\ Di, "Obj1kJi:uitiit" soi.ialwissmschaftlicher und soi.ialpoli.tischer E-runntnis, 4(Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», XX (1904), pp. 22-87; ma anche a quella freudiana, in S. FREUD, Optrt, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. XI, Tipi libidic~ p. 57: «Questi tipi [erotico, narcisistico e ossessivo], allo stato puro, si sottraggono a stento al sospetto di essere stati escogitati dalla teoria della libido. Ci sentiamo invece sul sicuro terreno dell'esperienza volgendoci ai tipi misti, i quali si presentano all'osservazione molto più spesso di quelli pwi. Questi nuo\'i tipi, l'erotico-ossessivo, l' ,rotico-narcisistico e il narcisistico-ossessivo, paiono di fatto consentire una classificazione adeguata delle smmure psichiche indhiduali di cui siamo giunti a conoscenza mediante l'analisi». 6. Cisi riferisce qui al concetto di1co-nomia libidica, ben riassunto inj. LAPUNCH:Eej.-B. PoNT.ws, Vocabulair1 tu la psJchanalJSI, Presses Universitaire de France, Paris 1967, Èco-nt>mique, p. 125: il concetto di 'economico' «qualifie tout ce qui se rapporte à l'hypothèse selon laquelle les processus psychiques consistent en la circulation et la répartition d'une énergie quantifiable (énergie pulsionnelle), c'est-à-dire susceptible d'augmentation, de diminution, d'équivalences».

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EdoardoToffoletto Artin BassinTabrizi

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mostrare quanto la critica colliana alla concezione freudiana del dolore risente di una conoscenza soltanto parziale dell'opera del padre della psicanalisi. Per tale ragione, la posizione di Nietzsche appare per Colli superiore tanto all'approccio freudiano, quanto a Schopenhauer. Si argomenterà dunque che l'ultimo Freud, marcato dalla svolta di Al di là del principio di piacere (1920), risulterà invece compatibile non solo con la filosofia dell' espressione colliana, ma anche con Nietzsche. In guisa di conclusione, si osserverà che la partizione piacere/dolore è già da sempre iscritta in un'economia libidica generale o collettiva, cioè relativa alla civilizzazione in quanto modello della sensibilità 7•

1. Idealtipologia del dolore: André 1.\1.alraux e La Tentation de l'Occident (1926) Come Valéry, Spengler e Gide, ma anche come i surrealisti di cui condivide l'afflato rivoluzionario, Malraux si trova ad assistere a un progressivo svuotamento di significato delle istanze positiviste (tra tutte, l'idea del progresso e del miglioramento collettivo dell'uomo), abitando quella che Micheline Tison-Braun chiama «crisi dell'umanismo»8 e che per Stefan Morawskiè l'essere «testimoni di un'agonia»9 • La testimonianza di Malraux risiede nell'anticipazione di fatto di riflessioni dell'esistenzialismo sartriano e heideggeriano, mentre si fa lettore precoce del Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler10 (1918), essendo anche al corrente delle scoperte della psicanalisi - alla quale è indifferente e che anzi ritiene dannose per lo spirito occidentale 11 -, nonché si rivela conoscitore del pensiero di Nietzsche 12•

7. Supra nota 1. 8. M.T. BRAUN, La crise de l'humanism.1: u conftit E, Yoga. Immortalit)1 and Fr11dom, trad. ingl ·w.R Trask, Princeton Universi(}" Press, Princeton 2009, Forr"1ord, pp. XXX-XXXI e ioid., The Doctrirus of Yoga, pp. 11-15: «soteriologica! techniques, as well as metaphysical doctrines, find their justification in this universal suffering, for they have no value save in the measure to which they free man from "pain" [ ... ] the foundation stone of Samkhya is man's desire to escape from the torture of the three sufferings - from celestial misery (provoked by the gods). from terrestrial misery (caused by nature), and from inner or organic misery». 50. RE. [570].

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EdoardoToffoletto Artin BassinTabrizi

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dolori particolari., che culmina di fatto nell'alienazione totale della destituzione di ogni proprio comportando tuttavia quell'angoscia derivata dall'assenza di orientamento della pulsione., cioè la perfetta simmetria delle pulsioni dell'Es: ilje-sans-moi non è che l'Es in quanto luogo della simmetria del polimorfismo pulsionale., cioè il dato ineliminabile e trascendentale da cui l'Io si costituisce. In effetti., il discrimine tra un dentro ed un fuori non è lasciato inspiegato in Freud., come crede Lyotard., giacché il dentro del proprio è determinato dal sentire in quanto «forza costante» le «fonti stimolatrici poste nell'interno dell'organismo» e tale «forza costante» «non può essere vinta mediante azioni di fuga». Pertanto., il fondamento dell'Io risulta essere estesico., quanto è il puro sentire delje-sans-moi., che tuttavia determina la distinzione interno/esterno in virtù del fatto che questo Real-Ich (Io-reale) freudiano., nel suo sentirsi., come riassume Silvana Dalto., «non sa che cosa è ma soltanto che è» 51 : una pura esistenza es tesica. In tal modo., l'Io-reale è per certi versi affine alje-sansmoi., perché esso semplicemente è in quanto stimolazione continua percepita appunto come «forza costante»., che l'organismo non può neutralizzare con una reazione muscolare. E questo è sufficiente a determinare la partizione interno/esterno., giacché l'Io si sente in quanto tale un continuo di stimolazione. Al fine di chiarire la questione del dolore., è opportuno illustrare almeno la prima fase di costituzione dell'Io., in cui all'Io-reale si aggiunge «un'estensione» rappresentata dal Lust-lch (Io-piacere)., per cui se «l'Io-reale s'identifica fondamentalmente con la spinta pulsionale (Drang)»., scrive Dalto., «l'Io-piacere si identificherà allora con questa stessa più I' oggetto (Objekt)». Questo consente all'Io non solo di sentirsi., ma anche di pensarsi. Si tratta dell'intervento del principio di piacere., secondo

51. S. FREUD, op1r1 cit., vol VI II, Pulsioni I lmo dlstini, p. 15. Ivi, Introdw.wru alla psicanalisi, p. 25. L'angoscia. pp. 554 sgg.: «In taluni stati di eccitazione si può anche ossen'are direttamente la commistione di libido e di angoscia e la sostituzione finale della libido da parte dell'angoscia. L'impressione che si riceve da rutti questi fatti è duplice: in primo luogo, che si tratta di un accumulo di libido, la quale viene trattenuta dal suo normale impiego[ ... ] Non è possibile discernere a rutta prima come dalla libido sorga l'angoscia; sappiamo solo che la libido è assente e che al suo posto si osserva l'angoscia». S. DALro, Prtcisammi sul proc,sso di costituiùm, d1ll'Io n,Ua m1tapsicowgia frtudiana, «Metapsychologica. Ri,rista di psicanalisi freudiana», I (2019), pp. 3 7 sgg.

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La tentazione economica dell'Occidente (a) Oriente

cui l'Io-piacere «pone il carattere del piacere sopra ogni altro» incorporando, facendo proprie le fonti di piacere e proiettando all'esterno le fon ti di dispiacere rompendo così l'originaria simmetria dell'Es strutturata sull'equipollenza pulsionale, fondata sull'indifferenza primitiva della spinta pulsionale. Ora, si intende per quale motivo l'angoscia lyotardiana di etre troué deriva da una fissazione ad una libido pre-oggettuale, per cui l'assenza di orientamento pulsionale e quindi possibilità di scarica si converte in angoscia. L'incorporazione appartiene alla fase orale e sarà il modello del meccanismo dell'identificazione. Nella fase orale, che gravita attorno alle forme di suzione, l'attività sessuale «non è ancora separata dall'assunzione di cibo, gli elementi antagonistici in seno a tale attività non sono ancora differenziati»: lo stesso oggetto soddisfa al contempo il principio di piacere e le pulsioni di autoconservazione (fame, sete). Il pensarsi dell'Io deriva dall'incorporazione in quanto fatto anzitutto fantasmatico, dove «prima di avere gli oggetti, l'Io deve esserli», perciò Freud non esita a definire «cannibalesca» la fase orale, la cui relazione oggettuale è affine alla logica del sacrificio, quale magistralmente illustrata da Henri Hubert e Marce! Mauss: il sacrificatore s'identifica all'oggetto sacro prima della sua degradazione sacrificale consentita in virtù del fatto che se ne è incorporata preliminarmente la forza-energia52 • Pertanto, l'accusa di «socratismo» a Freud comincia già a vacillare, giacché il dolore non è assolutamente eliminabile. Esso è semmai inesorabilmente iscritto nell'Io-reale. Non è possibile qui approfondire quanto non solo non sia opportuno accostare il padre della psicanalisi alla figura di Socrate, ma anche quanto l'ebbrezza di Alcibiade risulti la figura chiave del Simposio platonico, poiché in vino veri.tas

52. S. FREUD, O~r, cit., voi. VIII, Pulsioni I loro dlstini, pp. ~ l-S5. lvi, voi. IV, '.fu saggi sulla teoria sessuale, Il. La sessualità infantiu, pp. 490-498 e 505-506; J. L•\PLANCHE: e J.-B. Pom:ws, Vocabulair, de la psJchanalys, cit., lncorporation, p. 200 e St&opò:v d~ 't'O:U't'O: ybe:a&cxt. X